ld ‘ tra, Ù . | FOR THE PEOPLE FOR EDVCATION FOR SCIENCE OF THE AMERICAN MUSEUM OF NATURAL HISTORY BY GIFT OF OGDEN MILLS de ACCADEMIA DELLE SCIENZE FISICHE E MATEMATICHE SOCIETÀ REALE DI NAPOLI ATTI DELLA KEALE ACCADEMIA: DELLE SCIENZE: FISICI E MATEMATICHE SERIE SECONDA MOL. TE, NAPOLI | TIP. DELLA REALE ACCADEMIA DELLE SCIENZE FISICHE E MATEMATICHE DIRETTA DA MICHELE DE RUBERTIS 1888 LO mr seme n —n_— ba , Pi _ "ga nl + è. - “a Tn RISO Da a: ì 4 0 DA i) QD VE VERA: LU (na da “a | RI" TTI iti “att memo i, CO Seri stu nba Ao rene pi * n Lumi” © x a) Lal "i LI l- “a ) a Sen) °. ® va a rr 70 2 rio at iv DDA E° vada Indice delle Memorie Govi G. — Il Microscopio composto inventato da Galileo... .... +. N° ScaccHi A. ° — La regione vulcanica fluorifera della Campania (con tre tavole) . . . N.° GuiscarpI G. — Studzi sul terremoto d’Ischia del 28 luglio 1883 (con una tavola). . . N° 8 BaTTAGLINI G. — Intorno ad un'applicazione della teoria delle forme binarie quadratiche all’ integrazione dell'equazione differenziale ellittica . . . ...N.° 4 LicopoLI G. — Sul polline dell’ Iris tuberosa, L., e d’altre piante (con una tavola). . . N° 5 BaTtTAGLINI G. — Sulle forme O e a a N 6 Costa A. — Notizie ed osservazioni sulla Geo-Fauna Sarda (Memoria quinta) . . N.° 7 Cosra A. — Notizie ed osservazioni sulla Geo-Fauna Sarda (Memoria sesta) . . .N.° 8 NicoLucci G. — Antropologia dell’ Italia nell’evo antico e nel moderno . . ....N° 9 ScaccHÙi A. — Le eruzioni polverose e filamentose dei vulcani . . . . 0... +. N.° 10 APPENDICE MoxriceLLi F.S.— Ricerche intorno al seno cutaneo interdigitale della pecora (Ovis aries, Esce esito da velp) e A nen NI 1 a i «(I CO TI, bAO dad) radi Daan 00”, ni ne ssi adi * È d DI h è x bb = 4 x “ é avre dre Le dt uaar) Pe cip ps die o n | Li « v: î # nà bb odterà sn nord slrest‘’env’ od pa paterni sfiga nen ii stu tanz 00 spegne (3 ‘ i bito moità caloitaite ing» suovalia sy È ai: a, pi pia bo pas hit PE der 5 tandtenro santinat Aaa a i do, Ro. i ò I; i alla odasun iborergni gseala ol amati nor è ù - utà si al , - i - 9: _ Ì Coe » ga ©" 11) ? î PRTET CR, AR sedersi = us on: sui obisnoq 92 HM Lolteggo Unb. GF e stola POR 7 IPRRRTRIUGSTI pugai vs o noti L «aio 12 TOR ‘ : OT Ma 29107, adige t 1% 0 di if pria. ii “34400 nenti #1) Sa sii ere : 4 "7 pe dn «Us “0! 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T. XIII [Agosto 1880] pag. 471-480. Nuovo documento relativo alla invenzione dei Cannocchiali Binocoli, con illustrazioni del Prof. Gilberto Govi. (2) Ibid. pag. 475, lin. 9-12. Il Ceron nominato dallo Chorez è il 7yroglyphus Stro, 0 l Acaro del Formag- gio, animaluzzo che non è più lungo di mezzo millimetro. Il Poids poi, o Pois (come oggi si scriverebbe) è il Cece o il Pisello, al quale si può attribuire in media 8 millimetri di diametro. Poichè dunque un Cron coi microscopii dello Chorez poteva sembrar grosso quanto un Cece o un Pisello, essi dovevano accrescerne almeno 16 volte il diametro, in- grandimento facile a conseguirsi colle lenti usate in quel tempo. (3) Quatuor problematum quae Martinus Horky contra Nuntium Sidereum de quatuor plane- tis novis disputando proposuit ; confutatio, per Joannem Wodderbornium Scotobritannum — Patavii. Ex typographia Petri Marinelli, M. DC. X — Superiorum permissu. 1 vol. in-4°— cart. 7 recto. (4) Ecco in qual modo Galileo stesso fà parlare nel proposito Stmpl:czo (vale a dire i Peripatetici suoi contemporanei) nel celebre Dialogo dei massimi sistemi: « Simpl....... per dire il vero non ho avuto curiosità di legger cotesti libri, nè ho sin quì « prestato molta fede all’occhiale novamente introdotto; anzi, seguendo le pedate degli al- « tri filosofi peripatetici miei consorti, ho creduto esser fallacie e inganni dei cristalli quel- « le che altri hanno ammirate per operazioni stupende .... » (Dialogo di Galileo Galilei Linceo ecc. Fiorenza 1632, in-4°, pag. 328, lin. 1-6. — Gal. Opere, ultima Ediz. di Firenze. T. I, pag. 366, lin. 28-33). (5) Gal., Opere, T. VIII, pag. 430-431, Lettera del Ciampoli, del 6 Dicembre 1619: « La risposta di V., S. s' aspetta con grandissimo desiderio ». La risposta s'intende alla Libra Astronomica del P. Grassi. Gal., Opere, T. VIII, pag. 436-436, Lettera di Francesco Stelluti de’ 27 Gennaio 1620: « E perchè ho inteso che V. S. s'era accinto già alla risposta, per- ciò ecc. ecc. ». (6) Gal., Opere, T. VI, pag. 286-287. Lettera di Galileo a Federico Cesi, del 19 d’Otto- bre 1622: « Ho finalmente inviata all’ Illustrissimo Signor Don Virginio la ri- sposta al Sarsi ». (7) IL SAGGIATORE, nel quale con bilancia esquisita e giusta si ponderano le cose ‘contenute nella Libra Astronomica e filosofica di Lotario Sarsi Sigensano, scritto in forma di lettera all’ Ill.mo et Reuer.mo Mons."* D. Virginio Cesarini Acc.° Linceo M.° di Camera di N. S. Dal Sig. Galileo-Galilei Ace.° Linceo Nobile Fiorentino filosofo e Matematico Primario del Ser.mo Gran Duea di Toscana. —In Roma 1623, 1 vol. in-40. ib. pag. 105, lin. 28-35, e Gal. Opere, T. IV, pag. 248, lin. 21-28. A proposito dell’Anagramma: Lothario Sarsio Sigensano, sotto del quale si era nasco- sto il Padre Orazio Grassi, pubblicando la sua Libra Astronomica ac Philosophica , * ME conviene avvertire che questo Scrittore nativo di Savona (Savo) in quel di Genova, per meglio comporre l’Anagramma, mutò Savona in Sera, la qual Salona, antica città della Dalmazia, ora distrutta, era nelle vicinanze di Spalatro. (8) Le lettere dell'Aleandro al Peiresc e quelle del Peiresc all’ Aleandro, hanno troppa importanza nell’ argomento di cui quì si discorre, perchè si possa lasciar di pubblicarne i brani che trattano del Microscopio. Quelle originali del Peiresc si trovano alla Biblioteca Barberiniana, e i passi che quì se ne riproducono vennero stampati già dal- l'Abate Rezzi in una sua Memoria (Vedi la Nota (16)) che si ha fra quelle dell’ Accade- mia Pontificia dei Nuovi Lincei, per l’anno 1851. Però il Rezzi ne mutò l’ortografia, e ne omise alcune parti. Noi abbiamo stimato utile di riprodurre, trascrivendoli dagli originali, gli squarci delle lettere del Peiresc, conservandone intatta la forma, e aggiungendovi quei brani che il Rezzi aveva soppressi. Avendo poi scoperto fra i manoscritti del Peiresc che si conservano nella Biblio- teca Nazionale di Parigi alcune delle lettere inviate al dotto francese dal Cardinale di S.** Susanna e dall’Aleandro in risposta alle sue, si è creduto opportuno di staccarne i passi relativi al Microscopio e d’intercalarli quì fra quelli del Peirese, compiendo in tal modo (per quanto è stato possibile) la storia dell’ apparizione del Microscopio Olandese, o del Drebbel, in Italia. I brani delle lettere del Peirese sono tratti dal Codice N. A. 1975 della Biblioteca Barberini. Quelli delle lettere del Cardinale di S.* Susanna, dal Codice N." 9536, Fond. Frane. della Bibl. Nazionale di Parigi. Quelli delle lettere dell’ Aleandro, dal Codice N.° 9541 Fond. Frane. della stessa Biblioteca. Si sono disposti i diversi passi, in ordine di tempo, per rendere più chiara la storia dei fatti relativi alla invenzione del Microscopio. Ecco i documenti. Prima lettera del Peiresc all’ Aleandro: Molto illustre sig. mio osseruandissimo Riceuerà V. S. la presente per mano del sig. Giacomo Kufflero di Colonia giovane buon catholico, di molta virtù et di molta modestia, che lei stessa giudicherà degno di raccomandatione appresso le persone virtuose. Egli potrà mostrar a V. S. vn occhiale o Thelescopio di nuoua inventione, diuersa di quella del Galileo, con il quale egli fa vedere vna Pullice altretanto grossa quanto vna locusta di quelle che non hanno ale, che chiamano Grilli, et quasi di medesima forma, con le due braccia et l’altre gambe minori, la testa, et quasi tutto il restante del corpo incrostato et armato di croste o squaglie come le locuste, o come i gamberi piccioli. Gli animalucci, che sì sogliono generare attorno il formaggio, che nvi chiamiamo Mitte, Mittoni, o Ar- tiggioni, li quali son tanto minuti, che quasi paiono poluere, quando son veduti con quell’ istromento, diuentano altrettanto grossi quanto le mosche senza ali, et si la- sciano discernere tanto distintamente, che vi si riconoscono le gambe molto lungue, la testa aguzzata, et tutte l’altre parti del Corpo euidentissime, et nelle quali si fan sommamente admirare gli effetti della diuina Prouidenza, la quale era molto più incomprehensibile, mentre ci mancaua quell’aiuto alli nostri occhi. Ho creduto, che V. S. lo vedrebbe molto volentieri, sicome hanno fatto qui il sig. Duca d’Anjou, fratello di S. M.'à et tutti i più curiosi di questa Città, et sicome fuori di questo regno hanno fatto, il re d’ Inghilterra, il prencipe Mauritio et infinite altre persone — mp - di gran nome; et credo che questa inuentione non sarà di minor stima costi, spe- cialmente apprezzo |’ Illmo sig. Cardinal di Santa Suzanna, al quale io supplico V. S. di voler introdurre questo giovane, sicome apprezzo l’ Illmo sig. Cardinal suo pa- drone et l’ Illmo sig. Cardinal Barberino et altri ch’ella giudicherà douerlo veder volentieri in codesta Corte. Egli ha alcune altre inuentioni, le quali con il tempo egli potrà mettere in luce, et le quali saranno forzi di riuscita ancor migliore, ha- uendole imparate dal sig. Cornelio Drubelsio, suo parente, l'uno de’ più valent’ huo- mini del secolo in materia di Mechanici et il quale ha fatto barche, che vanno sotto acqua, specchi che abbrucciano di parecchie miglia lontano et altre cose stu- pende, io riceuerò a conto mio il fauore et assistenza, ch'egli trouerà in V.S., et le ne restarò con quell’obligo che vi si conuiene. Con che senz'altro le bacio le mani di tutto cuore, presandole dal Cielo ogni compito bene Di Parigi alli 7 Giugno 1622. Di V. S. Molto Illustre Servitore affezionatissimo DI PEIRESC del Peiresc all’ Aleandro, Pariggi alli 8 Dec. 1622. .- + + Mi rincersce pur la perdita del povero Kufflero, et che per disgratia egli non ‘ abbia prima potuto mostrare all’ Illmo Signor Cardinal di Santa Susanna et a V. S. gli effetti miracolosi del suo occhiale, vergognandomi hora di averlene scritto i par- ticolari che le ne scrissi, poi chè la veggo tanto lontana di poter godere quell’ istro- mento, non sendo credibile, se non si veggono subbito che se ne parla. Mi sarebbe una gran consolatione, se quel suo parente venuto da Napoli hauesse potuto sup- plire a quel difetto. In tanto non sò come ringratiarla degnamente di tanta cha- rità et liberalità vsata verso quel pouer huomo così doppo morte come in vita, e la supplico di voler riceuere suo rimborzamento dal sig. Eschinardo, che non le re- sterò men obligato della somma cortesia et singolar prontezza. del Peiresc all’Aleandro, Da Parigi 5 gennaro 1623. . . + + Quanto all’occhiale che fa uedere li più minuti objetti con tanta moltplicatione, mi dispiace sommamente che l’Illmo sig. Cardinal di S. Susanna et V. S. non hab- biano veduto l’effetto. Io me ne ritenni vno, sul quale ho fatto lauorare per imi- tarlo, et se posso arriuarci come n’ho qualche speranza non mancherò di mandarlo subito al detto sig. Cardinate, anzi quando non mi riuscirebbe l'intento, mi risol- uerò più tosto di mandargli il mio, acciò di fargli prouare un giouamento tanto miracoloso del senso della uista humana ch’ altrimenti io passarei per impostore di haverlene scritto ciò che le ne scrissi da prencipio, s'io non glielo facessi vedere et toccare per così dire, et meritarei di perdere credito per l’ auuenire. del Peiresc all’Aleandro, Da Parigi 14 Agosto 1623. Io scrissi a V.S. per via del Padre Dom. Gio. di S. Paulo Vassano già dal prencipio di Luglio, per accompagnar la sua persona per gli occhiali del Drebelsio ch’ io haueno hauuti dal Kufflero, insieme con un altro minor occhiale di facilissima et buona operatione, havendogliene mostrata la practica, acciò fosse più facile a V. S. di farla comprendere all’ Illmo S. C. di S. Susanna, et credeuo ch'egli douesse hora esser gionto, o molto vicino a Roma. E mi vien d'essere assicurato, ch’ egli è re- stato per strada per causa del ritorno del P. Generale di quel ordine di qua dai Monti, di che mi dispiacerebbe sommamente. Bisognerà star aspettando l’ effetto della fortuna checche sia mal passera per quel povero stromento. 0 n del Cardinale di S. Susanna al Peiresc, Da Roma il 16 Settembre 1623. . . « « Mi sarian ben stati particolarmente cari i due occhiali ch’ auea consegnati al Padre D. Giouanni, e che io credo che non saranno portati da quel Padre, e mi contento, nondimeno, che riceuano accrescimento ancor per questo le mie obbliga» tioni ecc. ecc. del Cardinale di S. Susanna al Peiresc, Da Roma il 25 Settembre 1623. . + « + Del Padre D. Gio. di S. Paolo Vassano, che doueua portar l’occhiale del Kufflero, non ho saputo mai altro che quello che V.$. mi scriue, e purche un giorno arriui, poco importerà, sebene tarderà qualche mese. del Peiresc all Aleandro, Molto Illustre Signor mio osseruandissimo Hor hora vien di giongermi vn scatolino di parte del P. Vassano con l’occhiale den- tro con le sue lettere, et in medesimo instante, passando l’ordinario d’Auignone, io non ho voluto lasciarlo andare senza mandarle detto Scatolino. V. S. mi farà gra- cia di riceuerlo et portare l’occhiale all’ Illmo sig. Cardinal S. Susanna, et mostrar- gliene l’vso, se le sarà possibile di comprenderlo sopra ciò che le n’ haueuo scritto; c'erano altre lettere di raccomandatione per detto padre, a diuersi amici, alli quali credo che faceuo mentione di detto occhiale, pensando che detto Padre lo potesse mostrare a tutti, non so se saranno nella scatola o no, non hauendo tempo di vi- sitarla più particolarmente. V. S. le potrà far capitare, se le piace, con far schusa dell’occhiale, mi par ancora ch'io ne scriueua a Sua Santità all’ hora ch’ era an- cora Cardinale, pensando che potrebbe hauer gusto di vedere detto occhiale, et forzi sarà meglio di non mandargli la lettera, per non obligare il Sig. Cardinale di Santa Susanna, di mandargli l’ occhiale ch'io gli haueua donato, per che non corresse rischio d’ essere obligato di donarlo. Io lascio il tutto alla discretione di V.S. baciandole per infinite volte le mani. Di Aix alli 17 Novembre 1623. Di V. S. Molto Illustre Ser.re Aff.,mo et Oblig,mo 2 DI PEIRESC (Sul margine del foglio a sinistra e per traverso). Il mio secretario mi vien d’as- sicurare che all’Ill.mo Sig. Cardinal Barberino io non scriueua niente dell’occhiale et che solamente era in raccomandatione del P. Vassano, di modo che non importerebbe niente di rendere la lettera o nò. del Peiresc all’ Aleandro, i Di Aix alli 7 Dec. 1623. Molto Illustre Signor mio osservandissimo Passò per questa città l’ultimo ordinario di Auignone in grandissima fretta nel nae- desimo istante che mi si consignava vna scatola del R. P. Dom. Giov. di S. Paolo con l’Occhiale con lettere che l’accompagniauano. La quale scatola io risserrai subito senza vedere altro che la lettera del padre, et consignai il tutto al detto ordinario che voleua in ogni modo passare oltre, et a pena mi volse lasciare scriuere due righe a V. S. per il ricapito, mentre ch’un altro serraua la scatola. La quale io rac- comandai a Genoa alli Signori Ott.° et M. Ant.° Lumaga dai quali V. S. potrà hor- mR mai indirizzare ciò ch’ ella mi vorrà mandare, sendo quella via molto più breue di quella di Lyone. L’istesso Ordinario ripassò Domenica passata, et mi portò risposta di Genoa da quei Signori Lumaga che la scatola era giunta ben conditionata, et che Essi l’ haueuano consignata ad vn Corriere amico loro, per portarla a V.S. o al sig. Eschinardo. Mi gioua credere che sarà gionta a quest’ hora costi, et che V. S. haverà pur indoui- nata la maniera di adoperare detto occhiale, et particolarmente il picciolino che s’adopera facilissimamente et fa un effetto non molto inferiore al grande occhiale. Lettera del Cardinale di S.° Susanna al Peiresc, Da Roma il 26 Dicembre 1623. Molto Illustre et molto Riuerito Signore, Ho due lettere di V.S. l’una delle quali mi ha rappresentato il suo buono stato, do- poch'’ella si è ritirata ad esercitar il suo carico in cotesto Parlamento, di che ho presa quella consolatione, che conviene al molto affetto che le porto et al conti- nuo desiderio, che tengo delle sue prosperità: l’altra mi è stata resa assieme con l’occhiale, il quale quanto mi sia stato caro, lo può V. S. comprendere dal desi- derio, con che l’aspettauo, significatole con altre lettere. Vorrei tuttavia, ch’ella ciò maggiormente conoscesse da qualch’opera mia in suo servitio. Ma sin tanto che non me n’è data occasione, la pregherò a sodisfarsi delle uiue gratie, che qui le rendo di così cortese dimostratione. Farò l’esperienza dell’ occhiale insieme col Si- gnor Aleandro, e mi ualerò di sì bella inuentione. Il Signore conservi et accresca V.S. come desidero — Di Roma a xxvj di Decembre 1623. D. V. S. Per seruirla S. Car. DI S. Sus." Quì verrebbe nella serie delle lettere del Peiresc all’ Aleandro una lettera da Aix del 12 di Gennaio del 1624, nella quale il Peiresc riparla dall Ordinario d’ Avignone che portò la scattola degli Occhiali, come torna a parlarne in un’altra del 18 di Febbrajo; ma nè l'una, nè l’altra contenendo nuovi particolari intorno a codesto argomento si è sti- mato inutile pubblicarle. Fra queste due lettere è da porsi la seguente di Girolamo Aleandro al Peiresc, Da Roma a’ 2 di Febbrajo 1624. fai Con l’istessa lettera de’ 2 hebbi la scattola con gli occhiali, i quali portai su- bito al S Cardinale di S.* Susanna, e li lasciai in mano la lettera uecchia di V. S. nella quale scriueua il modo d’adoperarli. Nel piccolo fu facile a trouarlo, ma nel grande non s'è ancora potuto trouar la uia, sebene ci siamo ualuti de’ Matematici, e habbiam dubitato, che in qualche parte sia sconcio. Ma di tutto douerà hauerle scritto più diffusamente il SF Cardinale di S. Susanna..... del Peiresc all Aleandro, Di Aix alli 3 Marzo 1624. . + « * Sto molto marauigliato che non le habbia riuscito l’occhiale grande, se non sonno rotti li vetri, bisogna ben trouarci la sua proportione, ogni volta che si fermi la distanza conforme alli gradi c'erano segnati et scolpiti. Io starò aspettando la relazione più ampia che V. S. dice douermi essere mandata dall’Illmo S. Card. di S. S. acciò di tentare a rispondere alle difficoltà et dare qualche modo di farle cessare, et riuscire lo stromento. In effetto la maggior difficoltà della riuscita più notabile, sta nella direttione della lastrella mobile, sopra la quale si mette 1’ obietto, =_= acciò di farlo passare et restar fermo sotto il punto al quale si termina la linea che passa dall'occhio per il centro delli duoi vetri. Che quando vna volta se n'è imparuia la practica si conduce poi facilissimamente et con grandissimo gusto et diletto, quando si mira un animaluccio viuo che camina et si ritiene sotto della linea precisamente con mouere della lastrella al contrario del luoco doue tende l’ animaluccio. Perciò chè l’ ef- fetto dell'occhiale è di mostrare l’objetto a rouescio nel punto della conuersione pro- portionata, et di far che il moto vero naturale dell’ animaluccio che va per essempio d'oriente in ponente paya che vadi al contrario, cioè da ponente in oriente. Quanto alla distantia dei vetri tra loro, cè duoi termini fuor de’ quali non fanno effetto consi- derabile di moltiplicatione et chiarezza maggiore o minore. Et per la distantia del- l’obbietto al primo vetro, bisogna similmente sia maggiore o minore secondo quella dei vetri tra di loro, cioè se la distantia de’ vetri tra di loro è la maggiore, bisogna che la distantia dell’ objecto sia minore, et al contrario decresciendo la distantia dei vetri, bisogna crescere quella dell'objecto. Il che si fa mirando con l'occhio con un poco di patienza. Et se si collocano le cose conforme alli segni scolpiti, le misure sonno buone senz’ altro et riesceranno communemente, fuorchè in qualche occhio infermo, o di costitutione «straordinaria. dell Aleandro al Peiresc, da Roma il 29 Marzo 1624. ble L’occhiale grande è sano, ma non si trouò modo d’aggiustarlo bene, poichè ancorchè si sia addirizzato come conueniua il pertugio all'oggetto posto sopra la la- metta, e si sia scoperta anco la moltiplicatione, non però s’ è ueduto chiaro, e pure V.S. affermò, che più chiaro mostrasse del piccolo. Se n’ anderà facendo più uolte esperienza tanto, che se ne troui il modo. Ma è un pezzo, ch'io non ho ueduto il S Cardinale di S. Susanna ..... del Peiresc all’Aleandro, Di Aix alli 15 d’ Aprile 1624. Pò scritta. Sendomi ricordato che il sig. Melano latore della presente haueua altre volte veduto in man mia l’occhiale dell’Illmo Sig. Card.!e di S. Susanna, io gli ho recapitulato il modo di farne l’esperienza, et credo che se V. S. gli fa riuedere detto occhiale, egli ne farà la pruoua, et potrà indirizzare V. S. et qualunque altro che le piacerà, per farne vedere la proua al detto S. Illmo. del Peiresc all’Aleandro, Di Aix alli 10 e 17 Maggio 1624. Dell’occhiale grande, è vero che le ho scritto, che si vedeua l’oggietto più chiaro che nel picciolo, ma per hauerne l’effetto compito, bisogna che l’oggietto sia illuminato dal sole, altramente la cosa riesce troppo schura. Ma nel sole Y. S. vederà effetto stupendo, quando si sarà trouata la maniera di valirse dello stromento. À dell’ Aleandro al Peiresc, da Roma il 24 Maggio 1624. ca Venne poi da me il S." Melano intagliatore in rame con l’altra lettera di V. S. de 15, e io m'offersi di seruirlo e di raccomandarlo al Villamena, al Tempesta e a chi egli uorrà. Mi disse che tornerebbe da me, ma non l’ho più ueduto. Lo con- durrò anche dal S." Cardinale di $." Susanna, se bene essendo questi giorni stato qui il Galileo, trouò subito l’uso dell'occhiale, ma non ci pare di veder le cose molto chiare, e procureremo col Melano. Mi disse il Galileo di hauer trouato un occhiale che moltiplica queste cose minute forse cinquanta mila uolte, di modo che una mosca si uede grande come una gal- lina. Egli si è trattenuto quì pochi giorni, et è ritornato a Firenze mi fi Galileo partì da Roma soltanto 1 11 di Giugno, ma, probabilmente, l Aleandro non lo avea più veduto, dopo quella visita al Cardinale, e però lo giudicava partito. del Peiresc all’ Aleandro, Di Aix 1 Luglio 1624. Quanto all’occhiale ho caro che il S." Galileo vi si sia incontrato, ma mi dispiace che elle non habino trouato l’effetto così chiaro come suol essere al suo punto , pur che l’objetto sia illuminato dalli raggi solari. Forse che il S.° Melano non vi sarà inu- tile, selle, vorranno prouarlo. Intanto le rendo gratie delli fauori usati al detto S.° Melano. Ma l’occhiale accennato dal S." Galilei, che fa le mosche come le galline, è della medesima inuentione di questo, di cui l’ authore ne fece ancor egli wno per l’Arciduca Alberto, buona memoria, che si soleua appoggiare in terra, doue una mosca si vedeua della grandezza d’vna gallina, et l’instromento non era di mag- gior altezza che d’una tauola ordinaria da magnare. (9) Il Rezzi (Vedi Nota (16)) parlando (pag. 102) del Cardinal di Santa Susanna, lo chiama: Girolamo Rusticucci, mentre nel 1622 era Cardinale di quel titolo Scipione Cobellucci da Viterbo, fatto Cardinale da Paolo V il 19 di Settembre del 1616. Il Cobel- lucci morì il 29 di Giugno del 1626. (10) Don Baldassarre Boncompagni con quella squisita gentilezza che ha sempre usata meco, mi ha liberalmente concesso di estrarre per i miei studi tutte quelle notizie che mi potevano essere di qualche utilità, dalla preziosissima collezione di Manoscritti che esso possiede, e di una parte della quale si ha un Catologo a stampa compilato con grande cura e con molta erudizione dal Sig. Enrico Narducci. In codesta Collezione si trova un Volume intitolato: Lettere di molti Accademici Lyncei scritte al Sig. Principe Cesi fond” di detta Accademia, da questo volume ho tratto il passo della lettera del Faber riportato nel testo, e alcuni altri brani di lettere che si trovano pure riprodotti in questo scritto , e che si indicheranno come ricavati dal Codice Boncompagni. (11) Il Cardinale Zollern (Itelio Federico, Conte di), fatto Cardinale da Paolo V l’ 11 Gennajo 1621, ricevette il Cappello da Gregorio XV il 15 di Novembre, e il Titolo di San Lorenzo in Panisperna il 15 Dicembre dello stesso anno. Morì il 19 di Settembre del 1626 a Osnabruck, dove era Vescovo. (12) Intorno al Microscopio di Galileo, che egli asseriva ingrandire le cose 50000 volte (in volume, cioè 36 volte in diametro) non abbiamo altri dati, se non questo della sua virtù amplificante, e, da una delle lettere del Peiresc, la distanza dall’ oggetto guar- dato all’oculare, distanza pressochè eguale all’ altezza d’una tavola da pranzo (che è ordinariamente di 80 centimetri), supponendo però che l’ Occhialno di Galileo del 1610, e il Microscopio citato dal Peiresc siano una medesima cosa. Approfittando di que- ste due indicazioni, e scegliendo ad arbitrio la distanza dell’ oggetto dall’ obbiettivo, se ne può calcolare la lunghezza focale colla relazione seguente: Sia # l'ingrandimento, cioè (in questo caso, e per accostarci al modo usato ordina- riamente da Galileo per misurarlo) il rapporto fra la tangente dell’ angolo sotteso dal- l’imagine dell'oggetto (collocata virtualmente nel piano stesso dove si trova l'oggetto) e la tangente dell'angolo sotteso dall’oggetto stesso, che si suppone veduto (come la sua ima- gine) dal centro dell’ oculare. Sia T la distanza dell’ oggetto dall’oculare, che si considera al pari dell’ obbiettivo come privo di grossezza, e si indichi con d la distanza dell’ oggetto dalla lente obbiettiva. La lunghezza focale di questa lente, ossia F, sarà data dalla relazione : Mm d Re == dA) 2239) 1 7 | ATTI — Vol. II.— Serie 2° — N? 1. 4 LI dalla quale si vede, che facendo variar 4, varia pure F, in modo da essere due volte eguale i d . a zero, cioè quando d=0 e quando -==1, ossia quando d= T. TE Il valor massimo di F si ha allorchè d= +, nel qual caso: m seg ren Coi dati numerici precedentemente indicati si avrebbe 1, = 20,°971 che sarebbe quasi esattamente il fòco della lente piano-convessa da mezza cateratta secondo il Manzini, 0 della piano-convessa n.° 9 '/, del Sirturo. L'oggetto essendo a 40 cent. dall’obbiettivo, la sua imagine reale si formerebbe a 2°,353 dietro l’oculare concavo. Volendo ottener da questo un’ imagine virtuale della prima imagine, a 80 centimetri di distanza verso l'obbiettivo, cioè nel piano dove è posto l’ og- getto, bisognerebbe dargli ‘una lunghezza focale di 2°,286 che differisce ben poco dalla di- stanza focale —2°,85 assegnata dal Sirturo alla più acuta delle sue lenti piano-concave. Galileo poteva dunque benissimo aver costruito nel 1610 un microscopio ingrandente 36 volte e coll’oculare concavo lontano 80 centimetri dal luogo occupato dall’ oggetto. La lun- ghezza del Microscopio, cioè la distanza dall’obbiettivo all’oculare sarebbe stata di 40 centimetri. (13) Ecco i libri nei quali si trovano le diverse lettere citate nel testo: Lettera di Bartolomeo Imperiali: Gal. Opere. T. IX, pag. 64-65. » di Galileo a Federico Cesi: Gal. Opere. T. VI, pag. 297-298. » di Federico Cesi a Galileo: Gal. Opere. T. IX, p. 71. » di Bartolomeo Balbi a Galileo: Lettere inedite a Galileo Galilei raccolte dal Dott. Arturo Wolynski. Firenze 1872. Lettera 126, pag. 75. » di Galileo a Cesare Marsili: Gal. Opere. T. VI, pag. 301. (14) Nova Plantarum, Animalium et Mineralium Mexicanorum Historia, a Francisco Hernan- dez Medico in Indiis praestantissimo primum compilata, dein a Nardo Antonio Reccho in volumen digesta, a Io. Terentio, Io. Fabro, et Fabio Columna Lynceis, Notis, et additionibus longe doctis- simis illustrata. Cui demum accessere aliquot ex Principis Federici Caesii Frontispiciis Theatri na- turalis Phytosophicae Tabulae, una cum quampluribus Iconibus, ad octingentas, quibus singula contemplanda graphice exhibentur. — Romae MDCLI. Sumptibus Blasij Deuersini, et Zanobij Ma- sotti Bibliopolarum. Typis Vitalis Mascardi, 1 vol. in fol. Il Titolo della edizione del 1630 era alquanto diverso, e comparisce sulla seconda carta del Volume, inciso in Rame da Federico Greuter. Tralasciando i particolari re- lativi ai diversi scrittori dell’ Opera codesto Titolo è il seguente: Rerum medicarum Novae Hispaniae Thesaurus, seu Plantarum, Animalium, Mineralium Mexi- canorum Historia..... Romae Ex Typographeio Jacobi Mascardi. M.DC.XXX... A questa data primitiva sono state aggiunte nel 1651 le note numerali XXI per com- pire la nuova data. Nel Frontespizio inciso in rame del 1630 è scritto correttamente Joanne Terrentio, che nel frontespizio a stampa del 1651 fu mutato in Terertio. Dico essere scritto correttamente, nella prima forma, perchè questo Linceo, diventato Gesuita nel 1611, e nato nel 1576 a Co- stanza, sì chiamava Schreck, la quale parola significa Terrore, sicchè, latinizzando il proprio cognome, come allora usavano spesso i Tedeschi, si fece chiamar sempre Ter- rentius. ausili); (genre (15) L’ Ante pauculos dies posto in questo luogo dal Faber si dee riferire senza dub- bio alla data della prefazione da lui messa innanzi al suo lavoro; la quale data è così da- lui medesimo indicata: Romae e Musaco nostro ad Pantheon Agrippae ipsis Kalend. Ja- nuarij Anni solemnis 1625. Di qui apparisce che il Faber, il quale aveva veduto i Mi- croscopii di Galileo nel Maggio del 1624, non conobbe quelli dei due Tedeschi se non alla fine dello stesso anno. (16) Atti dell’ Accademia Pontificia de’ Nuovi Lincei, pubblicati conforme alla decisione ac- cademica del 22 dicembre 1850 e compilati dal Segretario. T. V.— Anno. V (1851-52 ). Roma 1852, in-4°. ib, pag. 98-140. Ortica. Sulla invenzione del microscopio. Lettera del prof. D. Luigi Maria Rezziì bi- bliotecario corsiniano e accademico linceo onorario al ch. sig. D. Baldassarre de’ Prin- cipi Boncompagni accademico linceo ordinario. Giuntovi una notizia sulle conside- razioni al Tasso attribuite a Galileo Galilei, e sul dubbio se Alessandro Adi- mari fosse o no Accademico linceo. (17) Venturi (G. Batt.).— Memorie e lettere inedite finora o disperse di Galileo Galilei ordinate ed illustrate con annotazioni ecc.. .. Modena, 1818, 2 vol. in-4°... vol. I°, pag. 128-129. (18) Galileo, Opere T. VIII, pag. 406. (19) Il Padre Cristoforo Scheiner nel suo libro intitolato: Oculus, hoc est fundamen- tum oplicum ete. etc. [Oeniponti, Apud Danielem Agricolam 1619, 1 vol. in-4°] al Capo 3° della II° parte del primo Libro (pag. 34) avverte che: « Obiecta tam eminus quam comminus maligne, confuse, indistincte et quasi per nebulam spec- « tata, aut maiora debito, vel multiplicata, simpliciter et distincte cernuntur, trans mi- « nimum foramen; patet hoc in superfluis siderum radiationibus, quas adhibitum foramen « vt plurimum abscindit; in rebus exilibus oculo proxime obiectis, dilatantur enim ita, vt < discerni nequeant, quae tamen interuentu foraminis probe distinguuntur. Don Benedetto Castelli in un suo Discorso sopra la vista, che trovasi nella raccolta piuttosto rara di Alcuni Opuscoli Filosofici Gel Padre Abbate D. Benedetto Castelli di Brescia Monaco Casinese, e Matematico della Fel. Memoria di Nostro Sig. Papa Vrbano VIII, non più stampati... In Bolo- gna, per Giacomo Monti, 1669, 1 vol. in-4 (composto di 4 carte n. n. e di 80 pagine di cui 79 numerate) così parla della visione per un piccolo foro (ib. pag. 4-5). « Fu dunque proposto da me con certa occasione vn modo col quale vno, che avesse quel « difetto nell’ organo della vista, il quale fà comparire gli oggetti tanto confusi, come a « dire annebbiati , che non si può leggere senza l’aiuto degli occhiali conuessi (accidente « solito intravenire alla maggior parte di quegli, che passano quaranta, o quarantacinque « anni in circa ) questo tale potesse assai comodamente leggere senza l’ vso delli detti « occhiali, e il modo fu questo. Presi vn poco di carta ordinaria da scriuere di larghezza « per ogni verso di tre dita in circa, ed avendole fatto nel mezo un picciol foro della « grandezza della presente Figura (nella figura il foro ha 3" di diametro) feci appli- « care all’ occhio la detta carta, in modo, che l’occhio vedesse gli oggetti, ed in parti- « colare i caratteri d’vna scrittura per lo detto foro, e così tutti quelli, che si trouarono « presenti esperimentarono, che con questo assai facile artificio si leggeua comodamente « la detta scrittura, ed in somma senza controuersia fu da tutti concesso, che la vista si « faceua assai più terminata, e netta co ’1 beneficio del foro, che con l’occhio libero; e sog- « giunsi di più, che se quella carta fosse stata tinta di nero da quella parte, ch’ era riuol- « tata verso l'occhio l’ effetto sarebbe ancora riuscito in maggior vantaggio. La lettera d’invio di questo Discorso a Monsignor Giovanni Ciampoli è scritta da Roma il dì 29 Agosto 1639. * en: e (20) L. Annei Senecae ad Lucilium. Nuturalium quaestionum libri. Lib. I, VI, 5. « Litterae quamvis minutae et obscurae, per vitream pilam aqua plenam majores clarioresque « cernuntur. Poma formosiora quam sint videntur, si innatant vitro ». Da diversi passi però del medesimo Seneca e di altri scrittori antichi si può ricavar facilmente che l'ingrandimento di cui quì si fà cenno era da essi attribuito, non alla figura dei mezzi trasparenti (forma sferica, lenticolare ecc.) ma alla densità di questi mezzi ri- spetto all’aria, per cui (secondo loro) s' ingrossava l'apparenza degli oggetii qualunque fosse la forma del corpo diafano e denso attraverso al quale venivano guardati. E fu pro- babilmente per questa persuasione che gli Antichi ignorarono gli effetti delle lenti, o non seppero valersene. (21) Bullettino di Bibliografia e di Storia delle Scienze Matematiche e Fisiche T. IV. (Maggio- Giugno 1871), pag. 165-238. Sur des Instruments d’ Optique faussement attribués aux Anciens par quelques Savants mo- dernes; par Th. Henri Martin, Doyen de la Faculté des Lettres des Rennes, Membre de l Institut. (22) C. Suetonii Tranquilli Duodecim Caesares. Nero Claudius. LI. «....Statura fuit prope justa, corpore maculoso et foetido, sufflavo capillo, vultu pulchro « magis, quam venusto, Oculis caesiis et hebetioribus, cervice obesa, ventre projecto, « gracillimis cruribus, valetudine prospera ....» Alle altre ragioni che provano la Miopia di Nerone, si può aggiungere, sebben meno valida, anche quella dell’età, essendo raro il Presbitismo in gioventù, assai frequente in- vece la Miopia. Ora Nerone morì di 32 anni. (23) L’ Occhiale all’ Occhio, Dioptrica pratica del Co. Carlo Antonio Manzini dottore collegiato etc. Doue si tratta della Luce; della Refrattione de Raggi; dell’Occhio; della Vista; e degli aiuti, che dare si possono a gli occhi per vedere quasi l’ impossibile. Doue in oltre si spiegano le Regole Pratiche di Fabbricare Occhiali a tutte le Viste, e Cannocchiali da osservare i Pianeti, e le Stelle fisse, da Terra, da Mare, et altri da ingrandire Migliaia di volte i minimi de gli Oggetti vicini. — Bologna 1660, 1 vol. in 4°—ib. pag. 98 e seg. (24) L'indice x dello smeraldo essendo eguale ad 1,58, se si suppone uno smeraldo col- la faccia superiore piana e l’inferiore concava di raggio "=4" e se si fà di 2"" la grossez- za A della gemma nella parte centrale, lo specchio convesso che ne risulta avrà il suo foco per gli oggetti lontanissimi alla distanza F= di (2 + A), dalla faccia piana, distanza che risulta eguale, nel caso proposto, a 1°,382; così che, collocato lo smeraldo a 3,62 circa dal- l'occhio miope, che abbia il suo punto prossimo a 5 centimetri dalla cornea, quest’occhio vedrà per riflessione distintissimamente e diritte le cose lontane, che gli appariranno, nello specchietto come fossero a soli 5 cent. dinanzi a lui. Se poi s imagina lo smeraldo conves- so alla parte superiore, colla stessa curvatura di 4 centimetri di raggio, e piano di sotto, le imagini degli oggetti lontani vi appariranno a 2 centimetri dietro la faccia curva, e biso- gnerà collocarlo a 3 centimetri dallo stesso occhio miope perchè questo possa vedervi di- stinte le imagini. Nell'un caso e nell’ altro lo specchietto di smeraldo farà perfettamente l'ufficio d'una lente concava da miope. (25) Delle Gemme, notizie raccolte da Augusto Castellani. Firenze 1870, 1 vol. in 8°, pag. 208. Traité complet des Pierres precieuses etc. .. par Charles Barbot. Paris 1858, 1 vol. in 8°, pag. 320. (26) Fratris Rogeri Bacon, ordinis minorum Opus Majus ad Clementem Quartum Pontificem Itomanum , ex M. S. Codice Dublinensi , cum aliis quibusdam collato, nunc primum edidit S. Jebb. M. D. Londini 1733, 1 vol. in fol. rr bea cero Questo libro fu presentato a Clemente IV nel 1267. Eccone i passi più importanti re - lativi alle lenti: (Partis V. Part. III. Distinctio II, Caput IV, pag. 352, lin. 23-26, e lin. 31-83). « Si vero homo aspiciat literas et alias res minutas per medium cristalli, vel vitri, vel alte- < rius perspicui suppositi [dev'essere un’abbreviazione mal letta e che si ha da leggere « superpositi | literis, et sit portio minor sphaerae, cuius convexitas sit versus oculum, et « oculus in aere, longe melius videbit literas, et apparebunt ei maiores » ....« et ideo « hoc instrumentnm est utile senibus et habentibus oculos debiles. Nam literam quan- « tumcumque parvam possunt videre in sufficienti magnitudine ». ibid. Distinct. Ultima, Cap. I, pag. 357, lin. 25-41. « De visione fracta maiora sunt, nam de facili patet per canones supradictos, quod maxima pos- « sunt apparere minima, et e contra, et longe distantia videbuntur propinquissime et e con- « verso. Nam possumus sic figurare perspicua, et taliter ea ordinare respectu nostri visus « et rerum, quod frangentur radii et flectentur quorsumcumque voluerimus, ut sub quocum- « que angulo voluerimus videbimus rem prope vel longe, et sic ex incredibili distantia lege- « remus literas minutissimas et pulveres ac arenas numeraverimus propter magnitudinem « anguli sub quo videremus, et maxima corpora de prope vix videremus propter parvitatem « anguli sub quo videremus, nam distantia non facit ad hujusmodi visiones nisi per accidens, « sed quantitas anguli. Et sic posset puer apparere gigas, et unus homo videri mons, et in « quacunque quantitate, secundum quod possemus hominem videre sub angulo tanto sicut « montem, et prope ut volumus, et sic parvus exercitus videretur maximus, et longe po- « situs appareret prope, et e contra; sic etiam faceremus solem et lunam et stellas descen- « dere secundum apparentiam hic inferius, et similiter snper capita inimicorom apparere, < et multa consimilia, ut animus mortalis ignorans veritatem non posset sustinere ». (27) Monografia della Vetraria Veneziana e Muranese. Venezia 1874, 1 vol. in 8°. ib. Parte antica Sulle origini e sullo svolgimento della vetraria Veneziana e Muranese per Bar- tolomeo Cecchetti, pag. 12 e 13. (28) D. Nicolai de Cusa Cardinalis etc. — Opera. — Basileae 1565, 1 vol. in fol. ib. pag. 267. « Liber qui inscribitur de Beryllo incipit... « Cap. II. Beryllus, lapis est lucidus, albus, et transparens, cui datur forma, concaua pariter « et convexa, et per ipsum uidens, attingit prius invisibile ». (29) Il Littré alla Voce Lunette, nella parte storica, cita una nota del XVI. secolo riferita dal Della Borde nel suo lavoro sur les Émaux cei 164) ed è appunto la Nota riportata nel testo. (30) Hieronimi Sirturi Mediolanensis TELEScOPIUM sive Ars perficiendi novum illud Galilaei vi- sorium intrumentum ad Sydera, in tres partes divisa; Quarum prima exactissimam perspicillorum artem tradit, secunda Telescopii Galilaei absolutam constructionem, et artem aperte docet. Tertia al- terius Telescopii faciliorem usum: et admirandi sui adinventi arcanum patefacit. Ad Serenissimum Cosimum II Magnum Etruriae Ducem.—Francofurti. Typis Pauli Jacobi, impensis Lucae Jennis, 1618, in 4°, (82 pag. 2 delle quali n. n. con due tavole). Le misure delle lenti, indicate nel testo, risultano dalla figura che trovasi sulla grande tavola intercalata dopo lo pagina 18 dell’opuscolo del Sirturo, e sembrano derivate dal Braccio da panno di Venezia di 683" 4 (31) Io. Bapt. Portae Neapolitani Magiae Naturalis libri XX, ab ipso Authore expurgati, et su- peraucti, in quibus Scientiarum Naturalium divitiae et delitiae demonstrantur.... Neapoli, apud Ho- ratium Saluianum. D. D. LXXXVIIII, (1589), in 4°). ib. Lib. XVII. Cap. X, XI, XII, XIII e Cap. XXI, pag. 269-271 e pag. 278-279. Nessuna delle indicazioni del Porta relative alle lenti si legge nella prima edizione della Magia che è del 1558. = Me Magiae Naturalis sive de Miraculis rerum naturalium libri INNI. Io. Baptista Porta Neapoli- tano Autore.—Neapoli apud Matthiam Cancer. M. D. LVIII. cum gratia et privilegio per decennium— 1 vol. in folio. Non hanno poi alcun valore scientifico le cose scritte dal Porta intorno alle Lenti nel- l’opera: Joan. Baptistae Portae Neap. De refractione optices parte. Libri Novem. Ex officina Horatii Sa- luiani. Neapoli apud Io. Iacobum Carlinum et Antonium Pacem 1593. 1 vol. in quarto. ib. Lib. VIII, pag. 173-188. (32) Codice Boncompagni: Lettere di molti Accademici Lyncei ece. cart. 354 recto. Lettera di Nicolò Antonio Stelliola Lynceo, al Principe Cesi, scritta da Napoli il 10 d’ Aprile 1615. «....mnon uoglio in questo luogo tacere quel che mi è occorso, con la bona memoria del fra- « tello Accademico Gio. Battista della Porta, et è che uisitandolo due giorni inanzi che « si mettesse a letto in questa vltima sua infermità: mi disse che l’ impresa del Telescopio « l’ haueua ammazzato: essendo come egli diceua, la più difficile impresa, et la più ardua « di quante mai hauesse pigliato ....» Si noti che prima della morte del Porta, avvenuta intorno al 4 Febbraio 1615, erano state pubblicate le due opere del Kepler: Ad Vitellionem Paralipomena nel 1604, e Dioptrice, nel 1611, nelle quali era quasi compiutamente svolta la dottrina delle lenti e dei Cannocchiali. (33) Considerazioni d’ Alimberto Mauri sopra alcuni luoghi del Discorso di Lodovico delle Co- lombe intorno alla stella apparita l Ottobre dell’anno 1604. In Firenze, appresso Gio. Antonio Ca- neo 1606, in 4° (4 carte n. n. 28 numerate da 1 a 28). ib. Consid. XLVII, a cart. 26 recto. (34) Galileo Galilei ed il Dialogo de Cecco di Ronchitti da Bruzene, ecc. Studi e ricerche di Antonio Fàvaro. Venezia 1881, in-8°, In questo opuscolo si legge alla pag. 82 una lettera di Lodovico delle Colombe scritta a Galileo il 24 Giugno 1607, la quale incomincia così: « È vero, che nei primi giorni, che uscì fuora l’invettiva fatta dal Mauri contro il mio di- « scorso, io sospettai per certo romore e conghietture, che poi riusciron vane, che V.S. hauesse « parte in quella con esso lui; ma l’eccellente Sig. Gio. Battista Amadori, per sua grazia, mi ac- « certò dal detto di V. S. non esser così in modo veruno . ...». (35) Vedi F. Giordano predica del dì 23 di Febbraio 1305 (Questa nota è del Mauri stesso) (36) Discorso di Lodovico delle Colombe, nel quale si dimostra, che la nuova Stella apparita l’ Ottobre passato 1604 nel Sagittario non è Cometa, ne Stella generata o creata di nuovo, ne appa- rente: Ma una di quelle che furono da principio nel Cielo, e cio esser conforme alla vera Filosofia Teologia e Astronomiche demostrazioni. Con alquanto di esagerazione contro a’ giudiciari Astrolo- gi — in Firenze nella Stamperia de’ Givnti 1606, in 4°. ib. pag. 18 e pag. 37 e 48. : (37) Annales de Chimie et de Physique. V® Série, T. XV (1878) pag. 563-573. De Za mesure du Grossissement dans les istruments d’ Optique, par. M. G. Govi. Indicando con F il fòco, o la distanza focale principale della Lente, e con V la più piccola distanza per la quale può accomodarsi l’ occhio per veder distintamente; l’ima- gine virtuale di un oggetto collocato davanti alla lente, sottenderà nel centro ottico della lente stessa (trascurandone la grossezza) un angolo « quando l’imagine sarà alla massima distanza, cioè a distanza infinita, e un angolo f, quando la distanza sarà la più piccola, cioè V, e la relazione fra le tangenti di questi due angoli sarà data da: tang. f ag; F ang. ao RI - da quindi : F tlang.&= tang. a ( 1—_ v) e però, se la lente è di fòco assai corto, come sono appunto le lenti da Microscopio, la fra- È la ; ; zione + riuscirà molto piccola,e tang. B, pressochè eguale a tang. «, vale a dire che, quan- tunque l’imagine dell'oggetto guardato passi dalla distanza V, a una distanza infinita, l'occhio continua a vederla sempre sotto un medesimo angolo, o sotto angoli pochissimo differenti, e perciò non si accorge della distanza mutata, e la crede unica ed invariabile. Da ciò è venuta Ia persuasione nella massima parte dagli scrittori d’ Ottica, che attraverso a una lente le imagini si veggano sempre alla Distanza Classica della visione distinta. (38) Al microscopio semplice diede pel primo una perfezione insperata il Torricelli, imaginando di sostituire ai minimi vetri lenticolari, che allora forse nessuno aveva an- cora incominciato a lavorare collo smeriglio nelle forme di ferro o di bronzo, globetti, 0, come egli li chiamò, perline di vetro fuso alla lucerna da Smaltatore. Ne mandò egli notizia al P. Bonaventura Cavalieri, che ai 15 di Marzo del 1644, parlando delle lenti da Telescopio perfezionate dal Torricelli, e di queste sue perline così gli scriveva: « Sento dalla sua la maravigliosa operazione de’ suoi vetri, e molto me ne rallegro .seco. Vedo « ch’ ella non vuol lasciar luogo di gloria ad alcuno in questo nobilissimo strumento, poìchè col « vigore del suo ingegno è arrivata al minimum et Maximum, quod sic, come dicono i filosofi, e si è « mostrata prodigiosa non meno nella piccolezza, che nella grandezza di tali strumenti, poichè non « meno ammiro quei globetti di vetro, che io intendo che ella aveva ritrovato, di questo, che ella « nuovamento ha inventato ». In seguito a questa lettera il Torricelli mandò alcune sue perline al Cavalieri che lo ringraziò con una lettera del 5 d'aprile 1644, mostrandosene soddisfattissimo. (Vedi Lezioni Accademiche di Evangelista Torricelli matematico e filosofo del Sereniss. Ferdinando II, Gran Duca di Toscana, Lettore delle Matematiche nello Studio di Firenze e Accademico della Crusca, in Firenze 1715, 1 vol. in-3. Nella Prefazione stesa da Tomaso Bonaventuri, alle pag. XVII e XVIII). Il Padre Atanasio Kircher ci ha conservato la memoria di questa invenzione del Torricelli, raccontando nella Divisione II, paragrafo V, Capo VIII, della II parte del Libro X, della sua opera: Ars Magna Lucis et Umbrae, pubblicata mentre il Torricelli era ancor vivo. (Romae 1646, 2 vol. in-4; ib. Vol. II, pag. 885), come quelle perline, fis- sate alla estremità di un tubetto, non avessero più di 2",5, o di 3" di diametro, e sog- giungendo: « Huiusmodi tubulos Serenissimus Joannes Carolus Cardinalis Medices (*) non ita pridem pro « singulari suo erga hujusmodi studia affectu, mihi dono dedit; veraque isto experimento « comperi, quae Sapientissimus Princeps de ijs subinde mihi narrabat ». (39) Fasti Consolari dell’ Accademia Fiorentina, di Salvino Salvini, Console della medesima, Ret- tore generale dello Studio di Firenze. — All’ Altezza Reale del Serenissimo Gio. Gastone, Gran Prin- cipe di Toscana. — Firenze 1717. — l vol. in-4.° ib. pag. 397-431 — Racconto Istorico delta Vita del Sig. Galileo Galilei Nobil Fiorentino ecc.— Scritto da Vincenzio Viviani al Serenissimo Principe Leopoldo di Toscana, il dì 29 Aprile 1654. (40) Inedita Galilaciana. — Frammenti tratti dalla Biblioteca Nazionale di Firenze pubblicati ed illustrati dal Prof. Antonio Fàvaro. — Venezia, 1880 in 4.° pag. 35-43 (Estratti dal Vol. XXI. delle Memorie dell’ Istituto Veneto). (*) Giancarlo de’ Medici figlio di Cosimo II, nato nel 1611 fu fatto Cardinale nel 1644, morì il 23 di Gennajo del 1663. Un; DPR Cito questa pubblicazione del chiar.®° Prof. Fàvaro, piuttostochè quelle anteriori dello stesso Viviani, del Nelli, del Venturi, dell’ Albèri o di altri, perchè in questa si trova più integralmente e più correttamente riprodotto il testo delle iscrizioni fatte inci- dere dal Viviani sui Cartelloni della sua casa. (41) De Vero Telescopii Inventore, cam brevi omnium conspiciliorum historia. Ubi de eorum confectione, ac usu, seu de effectibus agitur, novaque quaedam circa ea proponuntur. Accessit e- tiam Centuria observationum microscopicarum. Authore Petro Borello, Regis Christianissimi Con- siliario, et Medico Ordinario. — Hagae - Comitum. M. D C. LV.—1 vol. in 4.° (42) Novae coelestium terrestriumque rerum observationes, et fortasse hactenus non vulgatae, a Francisco Fontana, specillis a se inventis, et ad summam perfectionem perductis, editae — Neapoli. Mense Februarii. M. DC. XLVI. l vol. in 4°. (43) Giornale deì Letterati — Roma, appresso li fratelli Pagliarini, in 4.°—Anno 1749 pag. 324, 325, 326, — Anno 1750, pag. 63-64 — Anno 1751, pag. 94, 95, 254. (44) Non viene nominato Galileo, quantunque vi si descriva il suo Microscopio, nelle due opere seguenti: Teorica degli stromenti Ottici ecc. di Giovanni Santini. — Padova 1828, 2 vol. in 8.° ib. Vol. II. pag. 174, $ 345. Gehler’s (Johann Samuel Traugott). Physikalisches Worterbuch, neu bearbeitet. — T. VI. part. III. Leipzig, 1837, in 8°. ib. Art. Mikroskop, pag. 2213-2214. (45) Sitzungsberichte der Mathematisch-Naturwissenschaftlichen Classe des Kaiserlichen Aka- demie der Wissenschaften. VI, Band. — 1 Heft 1851 (Wien, 1851, in 8). ib. Seduta dell’8 di Maggio del 1851, pag. 554-555. Vedi anche: Annales de Chimie et de Physique. 3 Série, T. XXXV. Mai 1852, pag. 127. APPENDICE Mentre si andava stampando questo scritto , il Chiarissimo Prof. Antonio Fàva- ro, con squisita gentilezza mi ha comunicato un passo importante per meglio con- fermare Galileo inventore del Microscopio composto. Questo passo è tratto da certe Relazioni dei viaggi di Giovanni du Pont, Seigneur de Tarde, Canonico della Cat- tedrale di Sarlat (Dordogne) Relazioni che si trovano manoscritte nella Biblioteca Na- zionale di Parigi (Fonds Périgord. T. CVI. cart. 20 e seg.). Da queste Relazioni ri- sulta, che il Martedì 11 Novembre 1614, il Tarde giunse a Firenze, e il Mercoledì 12, andò subito a visitar Galileo, il quale era in letto ammalato. Dopo d’aver parlato con lui delle scoperte Celesti, il Tarde racconta che Galileo gli apprese « que le canon du télescope pour voir les éstoiles n’ est pas long plus de deux pieds, « mais pour voir les objets qui nous sont fort proches et que nous ne pouvons voir « à cause de leur petitesse, il faut que le canon aye deux ou trois brasses de lon-- « gueur. Avec ce long canon il me dict avoir vu des mouches qui paroissent gran- des comme un agneau et avoit appris qu’ elles sont toutes couvertes de poils et; ont des ongles fort pointues, par le moyen desquelles elles se soustiennent et « « « cheminent sur le verre, quoique pendues à plomb, mettant la pointe de leur ongle « dans les pores du verre. » eo e Dunque nel 1614 Galileo non aveva dimenticato il suo Microscopio del 1610, e ne parlava presso a poco nei termini stessi nei quali ne parlò poi del 1624 all’ Aleandro, al Faber e al Cesi. Un altro documento, scoperto dal Chiar.®° Prof. Fàvaro nella Biblioteca Nazionale di Firenze (Cod. VIII, F. 2) e da lui pure gentilmente trasmessomi, parla di tre Occhiali detti di moltiplicatione mandati al gran Duca da Paesi oltramontani, e Agnolo Marzi Me- dici, autore del documento, soggiunge di non poter dire come stian questi occhiali per essergli proibito « rispetto al voler che si vegga se al Galileo da il cuore di ritrovarlo, «il quale è un mese che ci è dietro, ma non si è visto cosa alcuna ». Ora, quantunque al documento manchi la data, parmi che si possa attribuirlo senza esitanza al 1624, nell’ intervallo corso fra l 11 di Giugno, quando Galileo lasciò Roma per tornare a Firenze e il 5 di Settembre, data della lettera di Bartolomeo Imperiali che ringrazia Galileo del dono d’un Occhialino. Galileo stesso, scrivendo al Cesi il 23 di Settembre, si scusa del ritardo a mandargli l’ Occhialino, per non averlo prima ridotto a perfezione. Ora, partito da Roma l’ 11 di Giugno, Galileo non sarà giunto a Firenze prima del 15 di Giugno, e ciò si può anche arguire da una lettera di Mario Guiducci del 21 di Giugno, e da una del Ciampoli (Carteggio Galileano del Cam pori, pag. 206), che ringraziano Galileo di aver ricevuto notizia del suo felicissimo viaggio. Ai 9 d'Agosto, Antonio Santini scriveva da Genova a Galileo per rendergli grazie d'aver fatto compire l’Occhialino per l Imperiali (ib. pag. 211), e siccome il San- tini rispondeva a una lettera di Galileo del 24 di Luglio, così bisogna supporre che l’Oc- chialino fosse già finito almeno in quel giorno. Ma se l’Occhialino dell’ Imperiali era finito il 24 di Luglio, conviene ammettere che, poco dopo la metà di Luglio, Galileo avesse già trovato il modo di ridurlo a perfezione. Si può quindi conchiudere che lo Scritto del Marzi-Medici, steso un mese dopo quel tempo nel quale Galileo s'era messo a speco- lare e a lavorare intorno all’ Occhialino, deve porsi verso il 15 di Luglio (un mese cioè dopo l’arrivo di Galileo a Firenze), quando egli stava appunto per ridurre a perfezione il suo Microscopio. D'altronde l’arrivo a Firenze di Occhiali di moltiplicazione venuti da regioni Oltra- montane, non si può stabilire in tempi anteriori a quello della introduzione in Italia del Microscopio del Drebbel, cioè anteriori al 1624, e nel 1624 era ancor vivo il Canonico Elemosiniere Agnolo Marzi-Medici segretario del Granduca Ferdinando II e autore del documento, poichè risulta da certo Catalogo del Canonico Salvini, che esso morì il 31 di Ottobre del 1628; dunque alla curiosa scrittura scoperta dal Prof. Fàvaro si può asse- gnar con certezza una data assai prossima al 15 di Luglio del 1624. finita stampare il dì 16 Aprile 1888 (dd ATTI — Vol, II.— Serie 29—N0 1. sita sii RECTIROTT qu li tà arde det bachi fili poeti ; has DEA 3 an PS vi ci seg tl i n vii P° ras Aa) SUE EI Dias aio Urigftstatig 3 era "aes » LA soll veul Alegre Pi LI AT bb ERi ot nità Ta Freni da ; ml Ty; el yat Vi “ata” NOI" 1 Pagni TE 0e: gii dina ut) vasi i N udttta ta 9, rag eogia La} CT a ind Li pie | Te Lu tate A dp dott gie + cntoîb Bia ma PLACCA di Lf Bir : Ma ATI sò dhe nf ps tATTIb IAS” seitan 4le avg i8 È PL Ma vE pas hi ato uira Ì Lpd oi ora pol AR rr rnicae R mo mi ST È citi fori ori i rin nelle Lap * ba ati a a tat e E sz r0if9 rr) saggi iogeasi9 ak 3.a9 riferi esl a diaizon atsrvosi : "I MT, a LT dx 3 - Wi 05 Mi. Mr RIME, i al A n tai Pa == : 4 : | soon Sacra Lib condi et ITT i RE TOI TI î cn Lita p) aio ita detersione A "dA vba ‘vi : pria Lita 2 pato d VENTI IVA | sl Imre idens] MALI) nua Jotigr gti f r $ i N si SY Pe orbi af . f sé ; Yen qu n ti alupap j Ù allab callani ti À pybili La Va "1 "i i : TAO, Us LI » } I) 13% ì Pt RTTIÙ via Ù bi DI DURO Ya "2 it SA spie sa SH itygot SI le biaisate i ” PARd 6 A Hd LAO” I n sii cao bia BEE LI #U4$ dè do AULA A è tuoi La Folies ea Ad Si x Par. : o è : 9 - dl si & fe L/ n i) A 7 LS pr li È a Mi MI 00 . pa angina doni i TALE Vol. II, Serie 22 NO 2, ATTI DELLA R. ACCADEMIA DELLE SCIENZE FISICHE E MATEMATICHE LA REGIONE VULCANICA FLUORIFERA DELLA CAMPANIA MEMORIA del Socio Ordinario ARCANGELO SCACCHI (Adunanza del dì 13 giugno 1885) PARTE PRIMA I Geologi da gran tempo distinguono nel Napoletano tre regioni vulcaniche assai vicine l'una alle altre e tra loro diverse, sia per le condizioni topografiche, sia per la storia dei loro incendii, sia per le produzioni mineralogiche caratteristiche di ciascuna di esse. Abbiamo in primo luogo i vulcani di Roccamonfina, da tempo immemorabile del tutto estinti, costituiti da un vulcano centrale di gran mole circondato da minori colline che sono state particolari bocche eruttive discoste l’una dall’ altra. Le rocce della na- tura delle lave sono state abbondantissime quasi in egual proporzione ragguagliate ai depositi dei conglomerati, e le medesime rocce talvolta son venute all’aperto in tale stato di fusione da scorrere come torrenti, altre volte sono emerse già consolidate incapaci di versarsi sul suolo circostante. Esse poi sono d’ ordinario contraddistinte dai cristalli di leucite di straordinaria grandezza, talfiata sono cosparse di cristalli di ortoclasia vitrea in guisa da costituire una ben definita trachite, come a Monte Ofelio, ovvero contengono minuti e mal difinibili cristalli (labradorite?) come nel culmine della gran mole centrale detto S. Croce. Nelle lave con grossi cristalli di leucite è notevole un fatto relativo alla storia degli incendii di questa regione; dappoichè sono in esse incastonati molti frammenti degli stessi cristalli che non è facile trovare interi. Quindi è manifesto che la roccia, nella quale in origine si sono formati i cristalli di leucite, dopo il suo consolidamento è andata s0g- getta ad una seconda fusione, per la quale i cristalli di leucite, infusibili alla tempera- tura di fusione della pasta della roccia, si sono rotti come ora si trovano nella lava che si offre alle nostre osservazioni. I Campi Flegrei con le Isole vulcaniche del golfo di Napoli costituiscono un’altra Arti— Vo?. II, Serie 22—N.0 2. l peg: DES regione nella quale i fenomeni vulcanici si sono manifestati per molte bocche eruttive tra loro indipendenti che si sono aperte su vasto campo, lasciando i corrispondenti cra- teri spesso ammirabili per le loro forme ben conservate. Le rocce in masse continue sono tutte riferibili alla trachite, e sono assai scarse paragonate ai conglomerati i quali talvolta sono incoerenti ed il più delle volte sono consolidati in tufo compatto.Quanto alle maniere come la trachite si presenta alle nostre ricerche se ne possono distinguere non poche. Non è raro il caso nel quale essa è emersa già consolidata come si può osser- vare al Monte Garofali, al Monte Vetta, ed al così detto Lo Toppo nell’Isola d’Ischia, e simili esempii si hanno nel continente nel Monte di Cuma, e nella trachite che forma la punta della Solfatara. Ed in quest’ultimo luogo si può congetturare che dopo la emer- sione della trachite, alla base della roccia emersa sia avvenuta l’ eruzione delle sostanze in frammenti che han dato origine al cratere nel cui recinto trovasi compresa la gran mole trachitica. La stessa roccia assai spesso sì è infiltrata nei conglomerati in forma di filoni, come se ne hanno frequenti esempii nell'Isola d’Ischia, ed anche uno nel con- tinente presso la chiesa di S. Maria del Pianto non lungi da Napoli. Nella stessa Isola il Monte Rotaro e Montagnone, che sono in tutto formati di trachite, hanno in cima ben distinti crateri; quindi sembra per lo meno probabile che la trachite sia venuta fuori nè così solida da conservare la forma primitiva, nè tanto scorrevole da poter fluire come le ordinarie lave vulcaniche, e però si è innalzata formando due coniche prominenze nelle quali per l’impeto delle esplosioni sono rimasti quei profondi seni somiglianti per la forma ai crateri di eruzione composti di conglomerati. Da ultimo si hanno ben pochi esempii della medesima roccia trachitica che siasi versata scorrendo sul suolo circostante, come la lava dell’ arso nell’Isola d’Ischia e la lava del Monte Olibano presso Pozzuoli. I Campi Flegrei in molti luoghi manifestano ancora per le fumarole il sotter- raneo calore che si conserva da remotissimi tempi quasi con la medesima intensità, ed il foro di Vulcano o Solfatara di Pozzuoli è al presente come ce lo descrive, son circa di- ciannove secoli, Strabone. L’Epomeo nelt’ Isola d’ Ischia, ch'è la più gran mole di questa regione, allogata quasi fuori il suo recinto, deve reputarsi di antichissima formazione trovandosi alle sue rocce sovrapposte le marne subappennine per gran tratto della sua altezza, e sino al- l’altezza di circa 500 metri sul livello del mare s'incontrano sul tufo non poche specie di conchiglie quasi tutte identiche a quelle viventi nel mare vicino e così sparse come sul lido ora si depositano le produzioni rigettate dal mare. Gl’incendi poi che sono ve- nuti in seguito si sono succeduti ad intervalli secolari. Si nascondono nei più remoti pe- riodi delle tradizioni istoriche le eruzioni che obbligarono gli abitatori dell’Isola a di- sertarla, ed in tempi a noi più vicini abbiamo l'incendio dell’arso avvenuto nel1201 nella medesima Isola, e quello del Monte Nuovo del1838 nel continente. Il Vesuvio confinante con la precedente regione non ha nulla di comune con la pri- ma e la seconda. Unico monte nel quale le materie eruttate son venute sempre dal me- desimo centro, ci offre nella storia dei suoi incendii un periodo antico di gagliardissime esplosioni, come lo attesta |’ ampio cratere del Monte Somma, ed un periodo moderno cominciato dopo molti secoli di riposo neil’ anno 79 dell’era volgare, nel quale si è pro- dotto l’attuale cono vesuviano, il cui cratere concentrico con quello del Monte Somma è di esso assai più piccolo. In questa regione le rocce della natura delle lave sono con- traddistinte dai cristalli di leucite ai quali spesso si associano quelli di augite, e sono «ei — venute all'aperto sempre in tale stato di fusione da scorrere come torrenti. Le materie eruttate in frammenti, o polverose, spesso della medesima composizione delle lave, so- no abbondantissime, e negli incendii preistorici del primo periodo sono stati proiettati in gran copia frammenti di svariatissime rocce, alcune di origine ignea diverse da quelle che troviamo nella loro primitiva giacitura nella parte del vulcano accessibile alle no- stre osservazioni, altre probabilmente prodotte per metamorfismo con tessitura cristal- lina, per le quali è ammirevole l'eccezionale ricchezza di produzioni mineralogiche re- peribili sulle falde del monte, ed altre in fine fossilifere che non mostrano aver patito alcuna alterazione per elevata temperatura. I depositi vulcanici della regione, sulla quale richiamo l’attenzione dei Geologi con la presente memoria sono sparsi per lo spazio di oltre quattromila chilometri quadrati. Partendo dalle vicinanze di Cassino, ov’ è il confine più settentrionale e più occidentale nel quale essi s’incontrano, e continuando verso l’oriente, si presentano a Cusano, e più innanzi sin presso Mirabella. Da questo punto piegando verso il mezzodì sino a rag- giungere il mare, si tornano a vedere presso Salerno , e gli estremi più meridionali ba- gnati dal mare sono Sorrento e Massa Lubrense. Da Cassino riprendendo il cammino di- retto a mezzodì, s'incontrano i medesimi depositi uniti alle rocce valcaniche di Rocca- monfina, e piegando ad oriente incontra trovarli a Capua, a S. Maria, a Caserta non molto discosti dai Campi Flegrei e dal Vesuvio. In questo spazio vi sono molte colline o monti formati di calcarea stratificata appartenente alla formazione cretacea o giurese, e nelle valli interposte o nelle pianure che per qualche tratto si estendono alla base dei monti, occorrono frequenti congerie di materie vulcaniche che per la loro origine, per la loro composizione, e per la maniera come si sono depositate non possono riferirsi ad alcu- na delle tre regioni innanzi ricordate. Per quello che sarà in seguito esposto apparirà manifesto che ciascun deposito provviene da parziale esplusione vulcanica avvenuta nel luogo stesso ove esso si trova, d’ordinario a’ piedi delle colline calcaree; in nessun caso le materie in frammenti che costituiscono il tufo sono accompagnate dalle lave; e tutti i depositi di tufo finora 0s- servati hanno la loro superficie spianata senza alcun indizio di cratere che di neces- sità si produce quando le materie esplose si raccolgono intorno alla bocca di eruzione. Quest'ultima condizione mi dà giusto motivo di credere che le materie costituenti il tu- fo sono uscite mescolate con acqua in guisa da formare con la loro mescolanza una mota facile a spandersi intorno al centro eruttivo. E non incontro alcuna difficoltà a de- nominare eruzioni fangose quelle che han dato origine ai depositi tufacei della Cam- pania. Un’ altra condizione ch’ è pure una novella pruova della origine fangosa dei me- desimi depositi è la loro abituale struttura in colonne prismatiche, naturale conseguen- za del ritiramento avvenuto nella roccia col prosciugarsi. In alcuni dei vulcanetti sparsi per la Campania le materie fangose eruttate sono rimaste senza aver sofferto notevole alterazione; in altri è avvenuto che le calde esala- zioni succedute alla loro emissione han cagionato nel tufo profonde trasformazioni, sal- dando i suoi elementi, ingenerandovi novelle specie mineralogiche cristallizzate, e dan- do alla roccia una tale compattezza da farla confondere talfiata con le lave. In taluni luoghi il tufo metamorfizzato ha assunto tali caratteri da somigliare il piperno di Pia- nura e di Soccavo. Egli è però che mi sembra opportuno ritornare sulla vecchia quistio- ne riguardante questa roccia enigmatica, per la quale le opinioni dei Geologi sono di- * ir . scordi, reputandola alcuni una lava, altri un conglomerato metamorfizzato, ed incon- trandosi non lievi difficoltà nel sostenere qual si voglia delle due opinioni. Un altro importantissimo carattere finora non conosciuto nella storia dei vulcani, e che contraddistingue i vulcani della Campania, è la frequenza e talvolta grande abbon- danza di fluoruri racchiusi nel tufo ; ed è stata questa la ragione per la quale ho stimato chiamare fluorifera la regione vulcanica che ho preso ad esaminare. È facile perlustran- do i depositi tufacei di questa regione imbattersi in certe geodi dell’ ordinaria grandez- za di una noce racchiuse nel tufo, che pur reputandole straniere alle materie di origine ignea nelle quali sono inviluppate, è malagevole intendere la loro provvenienza. Esse intanto sono in gran parte formate di fluorina. Ma in alcune contrade, come in partico- lar modo si osserva nelle tufare di Fiano nel contado di Nocera, i massi fluoriferi in- castonati nel tufo sono oltremodo maravigliosi, sia che si guardi la loro complicata composizione mineralogica, sia che si consideri la loro gran mole che non era presu- mibile di poter rinvenire. Rimettendo alla seconda parte di questo lavoro il loro esame mineralogico, mi oc- corre ora esaminare il fenomeno geologico che per esser ben compreso fa d’ uopo es- porre alcuni particolari della loro giacitura. Nelle prime notizie che ho pubblicato del vulcano di Fiano ‘) li ho chiamati proietti fluoriferi, essendo evidente che essi in origi- ne erano frammenti di rocce nettuniane, i primi ad essere sbalzati là dove si aprirono gli spiragli eruttivi che han somministrato le materie vulcaniche che costituiscono il tu- fo, e però si trovano nelle medesime materie racchiusi. Non può cader dubbio che que- sti proietti prima di essere inviluppati nel tufo fossero frammenti di rocce nettuniane per la maggior parte formati di calcite; dappoichè nello stato presente molti di essi , e specialmante i più grandi, mentre nella parte esterna sono formati di fluoruri e di sili- cati, internamente contengono ancora la calcite non alterata nella sua composizione, e tale assunto sarà ancora più chiaramente dimostrato nell’ esame dei particolari che ci offrono i diversi depositi tufacei. È ancora ben certo che essi non sono stati proiettati quali ora si trovano nel tufo, ma che l’ attuale loro composizione mineralogica sia derivata dal metamorfismo succe- duto quando essi erano già incastonati nell’ aggregato vulcanico che li contiene. Ed oltre le note di metamorfismo che si scorgono nel tufo, ci conferma in questo avviso il vedere tutti i proietti di grandezza alquanto maggiore di due decimetri per ogni verso screpolati, ond è che torna difficilissimo estrarli interi. Egli è però impossibile che es- si avessero potuto soffrire lo scuotimento di qualunque lenta proiezione senza andare in minuti frammenti cadendo. Alla medesima conclusione si giunge osservando le ca- vità del tufo nelle quali i proietti fluoriferi sono racchiusi, e che sono sempre di mag- giore capacità di quella necessaria per contenerli. Quindi le interne pareti della cavità in molti punti non sono in contatto con i proietti, e dove è maggiore la distanza che li separa dal tufo là sono più grandi i cristalli di mica che sono alla loro superficie , per- ché i medesimi cristalli hanno trovato spazio sufficiente per ingrandirsi. E questa mag- giore ampiezza della cavità non può derivare da altro se non dal perchè i proietti si sono impiccoliti pel patito metamorfismo. 1) Notizie preliminari intorno ai proietti vulcanici del tufo di Nocera e di Sarno. Transunti della R. Accad. dei Lin- cei, serie 3, vol. 5, Giugno 1881 — Breve notizia dei Vulcani fluoriferi della Campania. Rendiconto della R. Accad. del- le Scienze Fis. e Mat. di Napoli, Ottohre 1882 ba Pervenuti a questo risultamento , ed essendo manifesto che l’ emanazione di una sostanza gassosa contenente fluore sia stata la cagione che ha mutato i proietti calcarei in fluoruri e silicati, son di avviso che tale sostanza sia stata il fluorido silicico che ha somministrato il fluore per generare i fluoruri ed il silicio per produrre i silicati. Aven- do supposto le eruzioni fangose, non può obbiettarsi che l’acqua avrebbe dovuto scom- porre il fluorido silicico producendo la precipitazione della silice, dappoichè se ciò succede alle temperature ordinarie dell’ ambiente, non avviene alle temperature più elevate che dobbiamo ritenere nelle eruzioni fangose. Il fluorido idrico non sembra che in aleun modo vi abbia preso parte, non essendovi segni di scomposizione nei silicati che entrano nella composizione della roccia, ed i cristalli di ortoclasia vitrea, che talvol- ta sono in contatto con i proietti metamorfizzati, conservano inalterata la loro naturale nitidezza. La Campania deve la fertilità del suolo al tufo vulcanico per tutto diffuso, quindi è che questa roccia ricoverta da naturale vegetazione, o posto il suolo a cultura, essa non si vede all’ aperto se non nei brevi spazii ove è solcata dal corso delle acque. I tagli in essa operati nell’aprire le strade sono anche opportuni per farcela osservare , ma ben poco avremmo potuto saperne se non fossero le sue buone qualità per essere adoperata nelle costruzioni edilizie, per la qual cosa in molti punti si sono da gran tempo intra- prese nel tufo profonde cave conosciute col nome di tufare, ed è in queste cave che si hanno le migliori condizioni per osservare la sua giacitura , trovandosi spesso allo sco- verto tutta la sua altezza. Raggiungendo la profondità di poco meno di venti metri s’ in- contra l acqua che impedisce di cavare a profondità maggiore, e le materie che si irovano sottoposte al tufo saranno esaminate nel discorrere di ciascuna delle principali tufare perlustrate. Contro il mio desiderio in nessun luogo mi è riuscito imbattermi in tale punto che avessi potuto riconoscere con certezza essere stato una delle bocche eruttive dei conglomerati vulcanici della Campania. Questi conglomerati si trovano ad altezze molto variabili sul livello del mare, e la maggiore altezza alla quale li ho trovati è quella di Monteforte alquanto maggiore di seicento metri. In nessun deposito si scorge indizio della persistenza dell’ interno calo- re, cagione delle eruzioni che li hanno prodotti, come interviene nei Campi flegrei. La loro comparsa è facile congetturare che sia posteriore alle altre manifestazioni vulcani- che dell’Italia meridionale, avendoli trovati sulle sponde del Titerno ad occidente di Cer- reto soprapposti ai ciottoli dell’antico letto del fiume molto più ampio dell’ attuale, e quando sono congiunti con le rocce dei vulcani di Roccamonfina sono a queste sempre sovrapposti. Quanto alle rocce delle altre due regioni dei Campi flegrei e del Vesuvio, non mi si è offerta mai l'opportunità di vederle in contatto con i medesimi tufi. La loro differenza dai conglomerati di Roccamonfina è quasi sempre agevole riconoscerla, es- sendo questi contraddistinti da frequenti frammenti di lave con cristalli di leucite. Non è così facile differenziarli dai tufi dei Campi flegrei con i quali hanno di comune la pre- senza dei cristalli di feldispato vitreo, nè il colore è carattere costante. Nondimeno è no- tevole il carattere esclusivo dei tufi della Campania di essere sonori quando si percuo- tono, carattere che si riscontra anche nelle varietà più fragili come in quelle di Salerno. Dal 1838 al 1844 ho perlustrato per ogni verso la regione vulcanica della Cam- pania senza conoscere la importanza dei suoi conglomerati, dimostrata dalla recente scoverta dei fluoruri; ed ora per rendere meno imperfetto il mio lavoro ho sentito la da necessità di rivedere alcune delle principali contrade già visitate vincendo l'ostacolo della età varcato il decimoquinto lustro, e della dismessa abitudine delle peregrina- zioni geologiche. Le tufare che ho di recente visitato sono quelle denominate di Fiano nel contado di Nocera e le altre di Fossa lupara nel tenimento di Sarno, le quali sono di capitale importanza, ed anche. mi è stato utile osservare l’abbandonata tufara del- la cappella di S. Vito non lungi da Sarno. Dalla parte opposta delle colline calcaree po- ste a cavaliere delle tufare di Fiano, ho veduto quelle di Castel S. Giorgio, e molto più lontane ad oriente quelle di Avellino e di Monteforte. Nella parte meridionale della re- gione ho perlustrato le tufare che s’ incontrano lungo il corso dell’ Irno partendo da Sa- lerno, non che quelle delle vicinanze di Gragnano, ed i tufi di Vico e di Sorrento ha- gnati dal mare. Nella parte occidentale della regione Campana ho visitato le tufare che sono presso i villaggi di S. Angelo e di S. Prisco non molto discosti da Capua e da S. Ma- ria, e quelle che si trovano adiacenti ai vulcani di Roccamonfina sino a Mignano ‘). Per gli altri depositi dei conglomerati vulcanici della medesima regione ho dovuto con- tentarmi delle notizie raccolte nelle precedenti peregrinazioni, e confido mi si manderà buono se non ho potuto far meglio, persuaso che resta non poco ad aggiungere, e forse anche qualche cosa a corrigere sull'argomento che ho preso a trattare. La prima opera nella quale si raccolgono importanti notizie sulla regione Campana è la Topografia fisica della Campania di Scipione Breislak *).Questo illustre geologo, quantunque non avesse chiara conoscenza delle differenze innanzi riferite tra i vulcani di Roccamonfina, iCampi flegrei ed il Vesuvio, pure da quel che ha lasciato scritto dei depositi di tufo della Campania lascia intendere che li considerava come risultamento di eruzioni locali, e particolarmente non ammette che provvenissero dai vulcani di Roccamonfina *). Esamina la quistione se essi risultassero da eruzioni fangose, o se la mancanza dei crateri derivasse dall’ essersi depositate le materie costituenti il tufo in seno alle acque del mare, dichiarandosi piuttosto favorevole a quest’ultima ipotesi. E debbo ricordare che egli parlando del paese di Tocco, soggiunge: non dubito punto che la montagnola su cui è edificato questo piccolo paese non sia un antico cono vulcanico crollato ‘). Non mi è riuscito di visitare questo piccolo paese di Tocco, ma stando a quel che ne dice il lodato Autore, al quale credo doversi aggiustar fede, debbo sup- porre che le materie vulcaniche eruttate dove è edificato Tocco facciano una rara ec- cezione ai vulcanetti fangosi della Campania, e vedremo qualche altro esempio di fram- menti che sembrano espulsi dalle bocche eruttive non mescolati all’ acqua. Nel 1833 il Prof. Pilla ha trattato lo stesso argomento *) dopo ripetute peregrina- zioni per la Campania che gli permisero raccogliere molti importanti particolari che si trovano riportati nella sua memoria. È invero dispiacevole la sua singolare predilezione per i vulcani di Roccamonfina dai quali voleva che derivassero i tufi della Campania si- no al punto che dopo aver creduto i granelli cristallini cosparsi nei medesimi tufi es- i) Non avrei potuto utilmente eseguire queste peregrinazioni senza l’aiuto del Prof. Modestino Del Gaizo, dell'Avv. Carlo Granozio e del Sig. Ernesto Lamanna, esperti a guidarmi nelle contrade perlustrate e generosi di ogni ma- niera di commodità offertami nel visitare le tufare di Avellino e Monteforte, quelle di Salerno, e le altre che si trovano da S. Prisco a Mignano. Quindi colgo questa occasione per rendere ai medesimi pubblica testimonianza della mia gratitudine. *) Topografia fisica della Campania. Firenze 1798 in 8° con carta geografica. ?) Opera citata pag. 48-51, 4) Opera citata pag. 64 *) Osservazioni geognostiche sulla parte settentrionale e meridionale della Campania. Annali Civili del Regno delle Due Sicilie. Fasc. VI. Novembre e Dicembre 1833, pag. 132 e seg. — (1 — sere formati di feldispato vitreo, come in realtà lo sono, contrastando questo fatto alla sua ipotesi, finì col crederli formati di leucite ‘). Quindi si oppose all’idea di Breislak che i prodotti vulcanici della Campania provvengano da crateri locali, li suppose tutti derivati dai vulcani di Roccamonfina, e a dare ragione della orizzontale loro superficie spianata, ricorse alle acque del mare che li ha distribuiti e livellati da per tutto equal- mente. Più tardi ha opinato che le materie derivate dai Vulcani di Roccamonfina siano state trasportate in lontane contrade dai torrenti di acqua cagionati dal sollevamento dei medesimi vulcani °). Non diversa pare che sia stata nel 1841 l’ opinione di Ermanno Abich quanto alla provvenienza dei tufi della Campania dai vulcani di Roccamonfina , dappoichè di- scorrendo dei conglomerati vulcanici della valle di Tramonti soggiunge che essi ricor- dano i tufi di Roccamonfina °). Dal 1842 al 1849 ancor io ho pubblicato qualche lavoro sopra i conglomerati vul- canici della Campania , e dal carattere costante di rinvenirsi in essi granelli o cristalli interi di feldispato vitreo ho opinato che provvenissero dai vulcani dei Campi flegrei , che sono pure contraddistinti dalla medesima specie mineralogica ‘). In nessuna di queste pubblicazioni si dà distinta notizia del metamorfismo al quale i medesimi conglomerati sono andati soggetti, nè alcuno ha sospettato che il fluore in- tervenisse nella loro formazione. Quantunque discorrendo del tufo di Sorrento °) ab- bia dichiarato che le sue particolari qualità siano dovute al metamorfismo sofferto, non ho avuto allora in mente di riconoscerlo come carattere frequente e distintivo degli ag- gregati vulcanici della Campania. Mi è pure sfuggita una importante scoverta alla quale mi avrebbe condotto un fatto ripetute volte osservato e male interpretato. Dappoichè nelle citate memorie geologiche ho fatto parola di frequenti sostanze straniere. in for- ma di geodi dell’ abituale grandezza di una noce trovate nel tufo ch’ è sulle sponde del Titerno presso Cerreto, in quello delle sponde del Calore presso la scafa di Amoroso ed in altri tufi presso S. Agata dei Goti, presso Calvi, lungo la strada da Calvi a Capua ed 1) Memoria citata, pag.139, in nota. 2) L'Institut Seance du 11mai 1840. Duro fatica a comprendere quest’ultima opinione del Pilla esposta quando era in predicato la teoria dei crateri di sollevamento ch'egli aveva adottata, e però stimo utile qui riferire testualmente le pa- role dell’ Autore, o di chi ha dato il sunto della sua memoria. « Les tufs qui recouvrent le sol de la Campanie et qui pénè- « trent dans les vallées prochaines de l'Apennin jusqu’à une grande distance, ne sont que les produits des épanchements «ignés du volcan de Roccamonfina, et ils forment un système tout-a-fait different du systéme de tufs des Champs Phlé- « gréens.Or on ne peut admettre la dispersion de ces tufs à une si grande distance de leur foyer que pardeux voies: ou par « une pluie de cendres tombées de l’atmosphére, ou par un transport causé par de courants d’eaux. La première voie est « inadmissible parce qu'on ne trouve de ces tufs que dans les vallées basses des Apennin et jamais sur les plateaux et dans « les bassins élevées de ces montagnes. Il faut done avoir recours à l'action des courants, et dans ce cas on ne pent conce- « voir le transport par cette yoie sans admettre de grands mouvements d'eau, mouvements qui à leur tour ne pourraient « étre produit que par de soulèvements souterrains ». 3) Geologische Beobachtungen iber die vulkanischen Erscheinungen und Bildungen in Unter-und Mittel-Italien- Braunschweig 1841. L'Autore non si occupa di proposito a ricercare l'origine dei tufi della Campania; ma nella prima tavola che accompagna quest'opera lo stesso colore che controdistingue i vulcani di Roccamonfina (Tuff der Terra di La- voro) è diffuso per tutti i confluenti del Volturno partendo da Pietraroia, Grotta Minarda, Mirabella ed Avellino, come pure a Sorrento ed alla valle di Tramonti. E discorrendo di questa valle (pag. III) soggiunge « Die machtigen Tufablagerungem» « welche sich auch wiederum tief im Innern dieser Thàler finden, und deren Natur an den Tuf von Roccamonfina erinnert « sind noch als eine der vielen geologisch wichtigen Thatsachen zu erwaàhnen, welche jenes denkwirdige Gebirge so sehr « auszeichnen ». 4) Notizie geologiche e conchiologiche ricavate da una lettera di R. A. Philippi ad A. Scacchi. Rendiconto delle adunanze e dei lavori della R. Accad. delle Scienze. Napoli 1842, N. 3. pag.87 in nota.—Lezioni di Geologia. Na- poli 1843, pag. 153 e seg:—Memorie geologiche sulla Campania. Lo stesso Rendiconto. N. 43-50, Gen. 1849 — Apr. 1850. 5) Memorie geologiche N. 44, 45, pag. 126. Re altrove '). Nell’ interno di queste geodi avendo osservato certe concrezioni somiglianti alla ialite, e tratto in inganno dall’ apparenza, senza fare alcun saggio per assicurarmi della loro composizione, le ritenni per quel che apparivano, e non mi accorsi che erano formate di fluorina, come in seguito me ne sono assicurato. Uno sguardo alla carta geologica (tav. 1.)basterà a dare una giusta idea del come i depositi vulcanici della Campania sono senza alcuna regola cosparsi tra le colline di origine nettuniana formate per la maggior parte di calcarea e spesso ancora di argilla. È nondimeno probabile che altri depositi, che non credo numerosi, si trovino in luo- ghi non perlustrati, e che le future ricerche mostreranno doversi aggiungere ai già noti. Vi ha pure un’altra condizione che mi fa desiderare più accurate indagini per avere la storia completa dei medesimi depositi; dappoichè la vera importanza sta nel determi- nare con sufficiente precisione i luoghi ove sono avvenute le eruzioni delle materie vul- caniche. A dir vero per quello che sarà in seguito esposto ne abbiamo abbastanza per poterci contentare, ed attendere senza preoccuparci gran fatto che novelle ricerche ci scuoprano altri centri eruttivi che aumentarono le conoscenze che ora ne abbiamo. So- no già trascorsi più di quarant'anni quando ho visitato la maggior parte dei luoghi ove nella carta è indicata l’esistenza di materie vulcaniche; ma allora impressionato dal fatto che in nessun luogo al tufo sì associano le lave, ed in nessun luogo si manifesta alcun segno di crateri vulcanici, era naturale cercare l’ origine del tufo dai prossimi vul- cani, e rimaneva a risolvere Ja quistione che in quel tempo si agitava tra i Geologi con- temporanei, se cioè provvenisse dai vulcani di Roccamonfina ovvero dai Campi flegrei. Se nessuna di queste opinioni si conciliava una facile credenza per la difficoltà d’in- tendere come i prodotti dei loro incendii si fossero depositati in sì gran copia ed in sì remote contrade, era necessario adottarne una, o conchiudere di non saper dare la so- luzione del difficile problema ignorandosi i fatti che avrebbero potuto risolverlo. Egli è però che allora la mia attenzione non poteva essere rivolta come ora a ricercare i centri eruttivi. Questa ricerca sarebbe stata il più delle volte anche molto difficile; dappoichè senza l’ aiuto delle grandi cave che ci scuoprono il deposito tufaceo in tutta la sua pro- fondità, il trovarlo soltanto a fior di terra o per piccole profondità solcato dal corso delle acque, non ci svela ove si ascondono le sue origini. Ele materie costituenti la roc- cia tufacea, di loro rMtura incoerenti, possono essere trasportate dalle acque in luoghi remoti dalla loro origine, e formare tali depositi che osservandoli superficialmente non ci è dato conoscere che siano depositi per effetto di trasporto. Interviene altresì che nel- le terre poste a coltura in luoghi per certo molto discosti dai centri eruttivi incontra tro- vare frequenti cristalli di ortoclasia vitrea, come ne ho trovati presso la sponda destra del Garigliano non lontano dalla sua foce, i quali non saprei dubitare che siano stati colà trasportati dalle acque del fiume che li han tolti dal tufo incontrato nel loro cam- mino. Egli è però che tranne i casi che saranno nel corso di questa memoria s pecificati, i luoghi coloriti in rosso nella prima tavola attestano soltanto che ivi si trova aggregato Iufaceo, I) Memorie citate, lo stesso N pag 128 DI 528 1 DES Tufare di Fiano e di Fossa lupara. Tav. II. In nessuno dei depositi tufacei della Campania il fatto dei proietti di rocce nettu- niane metamorfizzate in fluoruri e silicati si appalesa con tanta evidenza e così ampia- mente sviluppato come in quelli di Fiano e di Fossa lupara. Quivi la storia dei fenomeni che han dato origine ai medesimi depositi si manifesta con la maggiore chiarezza che può desiderarsi quando si cerca di sapere ciò ch’è avvenuto in periodi preistorici. È però che a chi volesse occuparsi dello stesso argomento della presente memoria tornerà sopratutto utile cominciare dal visitare le tufare di Fiano. Percorrendo la fer- rovia che da Napoli conduce a Sarno, oltrepassata questa città, troverà le tufare di Fiano a sinistra ed a destra della strada ove questa raggiunge il traforo che precede la stazione di Codola. La medesima ferrovia prima di giungere a Fiano incontra le tufare chiamate di Fossa lupara, e nello spazio interposto tra questi due depositi tufacei, an- dando per dritto, incontra e taglia una collina calcarea; talchè le tufare di Fossa lupa- ra, e di Fiano separate dalla collina calcarea sono da ritenersi come due centri eruttivi tra loro indipendenti, entrambi situati ai piedi delle colline calcaree. Cominciando dalla tufara di Fiano situata a sinistra della ferrovia partendo da Na- poli, non è possibile, senza rimanere compreso di maraviglia, osservare disseminati nel tufo frequenti pezzi di rocce ad esso stranieri, quelli che ho innanzi denominati proietti metamorfizzati. Essi se sono di piccole dimensioni, da tre a circa quindici cen- timetri nel maggior diametro, sono formati di una buccia esterna per la maggior parte composta di mica, alla quale d’ordinario sì associa la microsommite e qualche altra specie di silicato. Rotta la buccia esterna, che non suole aderire per tutto alla parte interna, si trovano internamente diverse specie di fluoruri, e tra questi più facili a rico- noscere la fluorina clorofana somigliante per l'apparenza alla ialite, ed i cristalli acicu- lari di nocerina ( fluoruro di calcio e di magnesio ). La composizione della medesima parte interna suol presentare non poche differenze di minore importanza che non mu- iano il carattere essenziale di questa prima categoria di proietti formati di una buccia micacea che racchiude diverse specie di fluoruri. La loro forma è variamente angolosa o ritondata, ed uno di essi, che si conserva nelle collezioni del Museo mineralogico, offre la strana forma di una schiacciata del diametro di 115 millimetri ed alta 15 millimetri. È in questi proietti di minor mole, nei quali i cristalli laminari di mica riescono molto prominenti sulla loro superficie, che si osserva più spiccato e più frequente il fatto innanzi riferito della cavità del tufo di ampiezza maggiore di quella richiesta dalla loro grandezza. Occorrendo in seguito di doverli menzionare saranno distinti col nome di proietti micacei. Tra i proietti di maggior mole, che talvolta raggiungono trentadue centimetri nel diametro maggiore, per darne una completa conoscenza si potrebbero stabilire diverse categorie; ma per non troppo trascorrere in minuziosi particolari non richiesti a chia- rire la natura dei maravigliosi fatti incontrati nelle tufare di Fiano, stimo sufficiente di- stribuirli in due sole categorie, nelle quali sono compresi quelli che in maggior copia sono stati raccolti. ArTI— Vol. 1I, Serie 2.—N. 2. 2 Mr, (ES Nella prima, che comprende i casi più frequenti, vanno riportati quelli nei quali la buccia esterna micacea si riduce a piccole proporzioni e strettamente aderisce alla massa interna. La medesima massa interna è di composizione assai complessa e se- condo i diversi saggi non poco variabile. Oltre la fluorina e la nocerina sono notevoli diverse varietà di calcite alle quali spesso si associano piccole areole o tubercoletti di aragonite; e quel che mi sembra più ammirevole è l’aver trovato talvolta la calcite cri- stallizzata, ed in tale condizione da non saper dubitare che la calcite abbia presa l’at- tuale forma cristallina per effetto delle medesime cagioni che han metamorfizzato la primitiva roccia calcarea. Tralasciando per ora di noverare la presenza di altre specie mineralogiche che saranno descritte nella seconda parte, debbo far notare che i pro- ietti di questa categoria sogliono essere per ogni verso screpolati, che nella loro natu- rale posizione come sono incastonati nella roccia ogni porzione si trova al suo posto , ma non è possibile estrarli interi. Chi volesse supporre che, come negli antichi incendii del Monte Somma molte rocce cristalline di varia composizione mineralogica sono state espulse ed ora si trovano nei conglomerati sulle falde del monte, così pure questi proietti di Fiano quando furono eruttati avessero avuto l’ attuale composizione minera- logica, dovrà convincersi essere questa supposizione inammissibile , sia per ciò che si riscontra in tutti i proietti di Fiano, sia principalmente per la fragilità dei proietti di questa categoria che non avrebbero potuto conservarsi interi se non si fossero ridotti quali sono al presente nel medesimo luogo ove ora li troviamo. In taluni punti essi ade- riscono fortemente al tufo, e talfiata è avvenuta tale fusione che non si può scorgere la linea di unione tra la roccia ed il proietto che vi è involto. Lo stesso tufo, che in molte parti manifesta non pochi segni di trasformazione, ov'è in contatto con questi proietti, per la distanza dai medesimi di circa due decimetri o poco più, ha tessitura granelloso- cristallina, racchiude frequenti cristallini di microsommite ed altri cristalli assai minuti di color giallo rossiccio in forma di rombododecaedri che credo doversi riferire al gra- nato. Ho voluto segnalare questa condizione che sì osserva nell’aggregato tufaceo ove esso è in contatto col frammento della roccia straniera, perchè son di avviso che nel fatto della trasformazione, del quale ignoriamo i particolari come sia avvenuto, i fram- menti della roccia calcarea abbiano influito a recare non lievi cambiamenti nel tufo che li teneva inviluppati. Nei proietti della seconda categoria vi è questo di particolare che la loro superfi- cie, quasi per tutto fortemente aderente al tufo , suol mancare delle solite laminucce di mica. Vi è una parte esterna di spessezza variabile da uno a due centimetri composta di calcite mista a fluorina, ed internamente, essendo in parte vuoti, rilevano le più strane varietà di fluorina, ora in forma di strati tubercolosi, ora in forma di prominenze bizzarramente ramose o echinate che non di raro raggiungono l’altezza di oltre tre cen- timetri. E tra le numerose varietà di fluorina che si trovano nella regione Campana, tutte diverse da quelle fin’ora conosciute altrove, è più di tutte ammirevole questa e- chinata che sembra formata di cristalli gli uni agli altri sovrapposti e sempre più pic- coli verso le estremità dei rami. Nelle assidue ricerche fatte per arricchire la già cospicua raccolta dei prodotti fluoriferi della Campania che abbiamo nel nostro Museo ho avuto occasione di rinve- nirne diversi che non sono ad altri comparabili. Ne citerò alcuni che valgono a dimo- strare l’inesauribile ricchezza mineralogica di Fiano, e nel tempo stesso la presenza di tali sostanze per le quali non è facile indagare come si siano formate. va DI: — Un pezzo formato esternamente di calcite in parte terrosa in parte compatta mista a fluorina nelle interne cavità racchiude molti filetti di bianchissima aragonite. Questa varietà di aragonite potrebbe ragguagliarsi a quella detta coralloide più che altrove frequente nelle miniere di ferro della Stiria, ma i filetti, quantunque conferti, non sono ramosi, sono lunghi circa dieci o più millimetri, e tanto esili che la loro grossezza è sempre minore di mezzo millimetro. In un altro pezzo assai grande sono internamente ammassati moltissimi candidi globetti del diametro d’ordinario di due a cinque millimetri con tessitura fibbroso-rag- giata misti a sostanza granellosa fragile dello stesso colore. Essi sono formati per la maggior parte di carbonato di magnesio e somigliano ad alcune varietà d’ idrodolomite del Monte Somma, tranne che in queste la tessitura non è mai fibroso-raggiata. Ester- namente vi sono diverse sostanze che variano da un punto all’altro, e tra queste è no- tevole la fluorina sia in forma di cristallini cubici sia in forma di nitidi stratarelli con tessitura laminosa. E va pure ricordato un grandissimo masso calcareo con tessitura granelloso cri- stallina trovato alla profondità di metri 16,9 ove il tufo finiva di essere consistente e poggiava sopra materie nericce incoerenti. Misurate le sue dimensioni le ho trovate di metri 2,37: 1,43: 0,73. Quindi si ha un volume di metri cubici 2,474, e ritenendo Ja densità della roccia eguale a 2,6, si hanno 6432 chilogrammi; e facendo abbondante sottrazione per la irregolarità della forma, si ha il suo peso per lo meno eguale a cin- que tonnellate. La sua superficie è in alcune parti ricoperta di crosta terrosa gialliccia , nella quale le reazioni chimiche lasciano scorgere la presenza del fluore ed anche in- ternamente è attraversata da talune vene della stessa sostanza. In seguito dovendo esporre le ricerche fatte per determinare la composizione di diverse sostanze che non sono riferibili ad alcuna specie mineralogica, e che conten- gono i fluoruri non riconoscibili ai caratteri apparenti, darò pure notizia di alcuni par- ticolari proietti che non vanno compresi in alcuna delle precedenti categorie. Nelle cave a destra delia ferrovia sono reperibili gli stessi prodotti fluoriferi della cava maggiore ch’è a sinistra, ed in particolare assai frequenti quelli coverti di buccia micacea in guisa da non potersi dubitare che il vasto deposito di tufo della contrada denominata Fiano siasi formato dalle materie uscite dalla medesima bocca eruttiva e sottoposto alle medesime consecutive emanazioni che lo hanno metamorfizzato. Ha ri- chiamato in particolar modo la mia attenzione in queste cave una congerie di sostanze diverse saldamente tra loro unite e formanti un tale ammasso di oltre 20 centimetri di diametro che a volerne dare completa conoscenza occorrerebbe assai lunga descrizio- ne, che poi riuscirebbe assai difficile ad essere compresa da chi non ha presente 1’ 0g- getto descritto. Mi basta dire che in esso si riconoscono alquanti proietti fluoriferi di va- ria grandezza che sembrano deformati per la loro scambievole pressione. Delle diverse materie di cui son composti i proietti aleune han dato forte reazione di fluore, in al- tre non ho potuto riconoscere la presenza del fluore, e spesso con gli acidi han fatto debole effervescenza di breve durata. Con i frammenti fluoriferi ne sono uniti altri an- golosi della natura delle lave compatte, alcuni dei quali, avendoli rotti ed esaminata la superficie delle fratture con lente d’ingrandimento, ho giudicato contenere minuti cri- stalli di ortoclasia vitrea e taluni punti in parte neri, in parte rossi che non mi è stato possibile definire. Di tal sorta di frammenti non mi è avvenuto di vederne in alcun punto * oe na dell’aggregato tufaceo, il quale contiene invece frequenti brandelli di fragili e nere sco- rie. In fine altri frammenti si saldano ai precedenti somiglianti al tufo del vasto depo- sito di Fiano ; e tra mezzo a questa congerie di rottami sono cosparsi non rari cristalli di ortoclasia vitrea aderenti alla loro superficie, alcuni dei quali sembrano rotolati. Né debbo tacere un’altra particolarità osservata nei frammenti di tufo e di solida lava, sulla superficie dei quali si notano certi filetti bianchi serpeggianti che saranno esami nati discorrendo del tufo di Fossa lupara ove sono frequenti. Di questo strano accozzamento di rocce diverse non mi è facile dare una soddisfa- cente interpretazione, e manifesterò la impressione che ne ho avuta esaminandolo, perchè il mio avviso provocasse chi non lo stima ammissibile a trovarne altro più plau- sibile. A me sembra che l’intero ammassamento, sia stato sbalzato dalla bocca eruttiva tale quale ora si è trovato nel tufo; e come conseguenza di questa supposizione, debbo conchiudere che la eruzione che ha dato origine al deposito tufaceo delle cave di Fiano sia stata preceduta da altra eruzione che ancor essa ha lasciato un deposito di materie vulcaniche, al quale deposito appartiene il descritto aggregato. Ciò ammesso s’intende come un frammento del primo deposito in mezzo al quale son venute fuori le materie della seconda eruzione, si trovi inviluppato nel tufo di più recente formazione. Quindi ne risulterebbe che il fenomeno vulcanico di Fiano sia stato di non breve durata, e probabilmente con fasi diverse. Per l’aggregato tufaceo ch’ è a destra della ferrovia va pure ricordato che alla sua superficie s’incontra un deposito terroso rossiccio cosparso di consistenti globetti dello stesso colore, ed in alcuni punti l’intera massa terrosa è mutata in globetti di forma in tutto sferica di grandezza variabile da 4 a 18 millimetri. Essi sono formati di argilla ferrifera molto consistente. A settentrione delle tufare di Fiano, alla distanza di circa un chilometro sono le altre di Fossa lupara, ed alcune di queste presso i contadini vanno col nome di Falciano. Il tufo di Fossa lupara è simile a quello di Fiano, con le stesse varietà di colorito tra il bigio nericcio, il bigio chiaro ed il bruno giallastro; sono in esso le medesime scorie nere fragilissime per le interne cavernosità che sono assai frequenti quasi vuote, e gli stessi cristalli di ortoclosia più che in altri tufi della Campania frequenti, se n’eccettui quello di Monteforte. Non di meno son di avviso che esso non provvenga dalla stessa bocca eruttiva, sia perchè, come ho detto innanzi, tra le tufare di Fossa lupara e quelle di Fiano s’interpone una collina calcarea, sia perchè una certa non lieve differenza si riscontra nei frammenti di rocce straniere racchiusi nel tufo delle due contrade. E pos- siamo facilmente concepire che uno stesso sotterraneo focolare abbia fornito le materie depositate a Fiano ed a Fossa lupara, ma che per due diversi spiragli esse siano state eruttate, entrambi aperti alla base delle colline calcaree. Questa ordinaria maniera di rinvenirsi i conglomerati vulcanici della Campania alla base delle colline calcaree mi sembra la naturale conseguenza di una legge che era facile prevedere dopo esserci assicurati che essi sono parziali depositi locali, che cioè le bocche eruttive si doves- sero aprire là dove l’impeto della sotterranea forza esplosiva ha trovato minore resisten- za ad erompere. i ira i proietti di Fossa lupara non si rinvengono i proietti micacei che si è veduto essere tra i più frequenti di Fiano, ed al contrario sono non rari altre maniere di grandi DICRA (-: POS proietti esternamente formati di grossa crosta terrosa fluorifera ed internamente con- tengono un nodulo di calcite granellosa d’ordinario libero. Tra le cose degne di nota speciali alle tufare di Fossa lupara vanno menzionati alcuni proietti con superficie le- vigata senza che gli elementi del tufo avessero con la medesima alcuna aderenza. A questa condizione favorevole ad ottenerli interi se ne aggiunge un’altra opposta de- rivante dalla loro fragilità che rende assai difficile maneggiarli senza romperli. Uno di essi (A) dentro una sottil crosta racchiude innumerevole quantità di bianchi gra- nelli vitrei, che uniti ad una sostanza bruna ed a qualche cristallino di ematite magne- tica non si toccano che per qualche punto, formando delicato intreccio reticolato che riempie la maggior parte della capacità interna, essendo l’altra parte occupata da fluo- rina echinata non diversa da quella descritta tra i proietti di Fiano. La crosta ester- na osservata al microscopio si riconosce formata da granelli vitrei strettamente insie- me riuniti; guardata per la faccia esterna i granelli sono in gran parte di colore ver- diccio, guardata per la faccia interna i granelli sono bianchi, e molti di essi bislunghi. Un altro proietto (B) esternamente formato di una massa spongiosa bianca racchiude nel suo interno molte laminucce bianche ammirevoli per il loro particolare splendore margaritaceo assai vivace. Di queste laminucce margaritacee si terrà parola nella se- conda parte della presente memoria; e sulla parte esterna aggiungerò qualche notizia tra i saggi analitici che seguiranno fra breve. Sono poi assai frequenti altri proietti di minor mole, di forma il più delle volte ovoidale, formati di una buccia di fluorina terrosa, internamente quasi vuoti, o con pic- cole quantità di sostanze diverse tra le quali non manca la fluorina che talvolta è somi- gliante alla ialite. Essi, che meritamente si direbbero geodi fluorifere, sono assai più frequenti nelle tufare di Fossa lupara che in quelle di Fiano, ed ho stimato esaminarle con partico - lare diligenza, dappoichè tranne alcune differenze di minor conto, sono le stesse di quel- le che si trovano in quasi tutti gli aggregati tufacei della Campania. Ed in questi aggre- gati, a differenza di quanto si è veduto per le tufare di Fiano e di Fossa lupara, per quanto fin’ ora mi è riuscito esaminarli, è raro che si trovino altre maniere di sostanze fluorifere diverse da queste geodi. Le geodi di Fossa lupara sono di variabile grandez- za, le più piccole rinvenute avendo quindici millimetri di diametro, e dodici centimetri le più grandi; ma l’ordinaria grandezza si mantiene tra quattro e sei centimetri. L’ e- sterna buccia di spessezza variabile da uno a quattro millimetri è di apparenza terrosa bianchiccia talvolta tendente al cinereo, altre volte al gialliccio, con superficie varia- mente rugosa, spesso con cristalli di ortoclasia vitrea ed altri frammenti del tufo su di essa saldamente impiantati. La superficie interna suol essere tappezzata di bianche con- erezioni vitree formate di fluorina alle quali si associano frequenti produzioni di color bru- no costituite di esili filetti ramosi e tra questi si notano non rari punti bianchi vitrei che ancor essi sembrano formati di fluorina. Gran parte della cavità è vuota e di raro vi si trova un nodulo libero costituito dalle medesime sostanze che sono aderenti all’interna superficie della buccia. Omettendo la descrizione di altre varietà di geodi piuttosto rare per ciò che internamente racchiudono, debbo notare che mentre la buccia è di apna- renza terrosa e terrosa pure si scorge osservata con lente d’ ingrandimento, quando si sottopone al microscopio si manifesta per la massima parte formata di granelli vitrei bianchi ai quali sono uniti alquanti cristallini gialli trasparenti e non rari cristaltini : = neri. Quanto ai cristallini gialli non mi è riuscito riconoscere la loro forma, e per i cri- stallini neri ho pure incontrato qualche difficoltà a definirli, dappoichè alcuni di essi isolati li ho trovati fortemente magnetici, e malgrado questo carattere proprio della ma- gnetite, per l’osservazione microscopica, con miglior ragione debbo riferirli all’ematite, avendo osservato tra quelli separati con la calamita una laminuccia esagonale, e la fac- cia di un cristallino che aveva la figura di triangolo isoscele, quali diventano le facce del romboedro con gli angoli culminanti profondamente troncati. E mi conforta nel- l avviso di riportarli all’ematite anzi che alla magnetite l’ aver osservato nei cristalli di ematite del Vesuvio la virtù magnetica più energica di quella si manifesta nei cristalli di altre contrade non vulcaniche; e spesso anche in essi la viriù magnetipolare. Ci ha pure un altro carattere frequente a rinvenirsi nelle fenditure del tufo di Fossa lupara, essendo le pareti delle stesse fenditure ricoperte di bianchi filetti serpeg- gianti che di raro hanno diametro maggiore di mezzo millimetro, ed osservati al micro- scopio si manifestano internamente vuoti. Questa strana produzione filiforme talvolta è accompagnata da piccole quantità di sostanza terrosa dello stesso colore , e per avere conoscenza della sua composizione, non potendola riferire ad alcuna delle specie note, ho dovuto sottoporla all’ analisi. Da grm. 0,087 di tubolini scelti e quasi perfettamente puri ho avuto grm. 0,003 di perdita col riscaldamento al calor rosso, e grm. 0,072 di silice dopo la fusione col carbonato sodico. Quindi ho dovuto persuadermi esser essi formati di silice con poca acqua, non diversa da alcune varietà di opale, o silice idrata. Mi sarebbe piaciuta una più completa ed esatta determinazione; ma ho dovuto durare non lieve fatica a distaccare la piccola quantità analizzata di questi esili filetti, che non potrei dire del tutto libera dalle materie del tufo al quale aderivano, nè mi è possibile intraprendere un’analisi più rigorosa. Anche a Fossa lupara mi sono imbattuto in un tale mucchio di geodi il quale co- me quello ricordato dalle tufane di Fiano a destra della ferrovia, son di avviso che atte- sti esservi stati diversi periodi di fenomeni, l’ultimo dei quali è stato quello che ha dato il grande deposito di tufo delle attuali cave. Le geodi hanno qualche cosa di diverso da quelle che isolatamente sono cosparse nel tufo, essendo formate da grosse pareti bian- chicce le quali racchiudono delicati intrecciamenti di minutissimi cristalli di mica che oc- cupano soltanto piccola parte della cavità; e nelle medesime pareti si distinguono al- quanti piccolissimi globetti bianchi. Esse sono di varia grandezza, essendovene una di sei centimetri di diametro, e molte altre così piccole che il loro diametro non giunge a circa cinque millimetri; e sono di più strettamente tra loro coacervate con poca sostanza tufacea interposta. Questo ammassamento di geodi è di centimetri ventitre e mezzo nel suo maggior diametro e, dove non è stato rotto, ha superficie continua e quasi direi le- vigata, in guisa che di leggieri lascia comprendere non essere un congregamento delle medesime geodi che accidentalmente si siano trovate così raccolte in un punto della roccia tufacea. Ma che esse già costituivano un preesistente ammucechiamento, di for- mazione diversa della roccia tufacea ove è stato posteriormente inviluppato come ora sì è rinvenuto. Non so se di questo fatto di cui ho dato notizia il lettore si contenterà della esposta interpretazione; nondimeno ho stimato doverlo annunziare dolente di non averne incontrati altri somiglianti che avrebbero potuto meglio confermare il mio avviso, 0 porgere altre ragioni per giungere ad una diversa interpretazione. Son sicu- ro che altri aggregati non diversi da questo esaminato si ascondono nei tufì di Fossa PAGO \- | 29 lupara; nè ho mancato con generose offerte fatte ai lavoratori delle cave indurli a rac- cogliere con diligenza tutto ciò che di straordinario incontrano nelle loro operazioni. Le mie promesse sono rimaste infruttuose, e rare volte ho ottenuto che alcuni di essi abbiano compreso la mia intenzione e si siano occupati a soddisfarla. Discorrendo delle tufare di Salerno, dalle quali mi sì è offerta l’ occasione di avere un’altra straordinaria congerie di geodi, ritornerò su questo argomento, perchè stimo essere speciale man- dato del Naturalista non lasciare sfuggire i fatti che possono servire ad illustrare i fe- nomeni naturali. Emanazioni fluoriche nei vulcani della Campania e nel Vesuvio. —Per le cose es- poste nelle precedenti pagine si è veduto che nei tufi di Fiano e di Fossa lupara sono assai frequenti i frammenti di rocce straniere nei quali abbondano i fluoruri; straordi- naria condizione che rende ammirevole questo esempio nella storia dei vulcani. Ho esposto pure le ragioni le quali dimostrano che gli stessi frammenti prima di essere in- viluppati nella roccia tufacea non erano nel medesimo stato che ora ci presentano, e che i loro fluoruri si sono formati quando essi si trovavano già incastonati nel tufo per le esalazioni fluoriche che li hanno investiti. A quest’ultima condizione mi è stato ob- biettato che anche ammettendo una notevole trasformazione nei proietti fluoriferi men- tre erano già inviluppati nel tufo, ciò non esclude che in essi vi fossero dei fluoruri sin da quando furono eruttati, fluoruri che contenevano nella loro più remota giacitura. Quindi a convalidare il mio avviso stimo opportuno aggiungere le seguenti considera- zioni. Abbiamo in primo luogo che le rocce in mezzo alle quali sono avvenuti gl’ incen- dii vulcanici dei contadi di Nocera e di Sarno sono nettuniane sino a grande profondi- tà, e per la massima parte calcaree. Egli è però che nella ipotesi della precedente esi- stenza dei fluoruri nei proietti è d’uopo ammettere che le materie vulcaniche partendo dal sotterraneo focolare e facendosi strada per giungere all’ aperto, avessero incontrato lungo il loro cammino a profondità maggiore di quelle occupate dalle rocce nettuniane qualche deposito di fluorina, dal quale distaccando i frammeriti li avessero trasportati sino alla bocca eruttiva. Questa supposizione è per lo meno poco probabile. Pur tutta- via ammettendola come possibile, per il supposto cammino a traverso le rocce fluori- fere, e poi a traverso le rocce calcaree avremmo dovuto trovare tra i proietti rinchiusi nel tufo alcuni contenenti i fluoruri, altri soltanto calcarei, e questi in maggior copia perchè attraverso gli strati calcarei sono avvenute le eruzioni vulcaniche delle quali cer- chiamo conoscere i fenomeni. Le ricerche a sufficienza numerose fin’ora eseguite di- mostrano al contrario che i proietti calcarei sono rari, ed essi stessi contengono quasi sempre più o meno abbondante il fluoruro di calcio. Ed importa pure notare che le numerose varietà di fluorina che si rinvengono a Fiano ed a Fossa lupara sono in tutto diverse dalle varietà di questa specie che si rinvengono altrove, e che si potrebbero supporre nelle presunte maggiori profondità. Il più valido argomento che ci dimostra il fluore esser venuto nei proietti dalle e- salazioni dei fluoruri gassosi lo troviamo in quei saggi nei quali le medesime esalazioni hanno trasformato soltanto la parte esterna rimanendo internamente non mutata la com- posizione della calcite. Ed in modo speciale vedremo essere ciò evidente per i fram- menti di calcarea contenuti nel tufo della cappella S. Vito presso Sarno, i quali sono ri- coverti da sottile crosta contenente fluorina. MINE | (00 La presenza del fluore nelle emanazioni gassose dei vulcani, per quanto è a mia notizia, fu per la prima volta osservata nell’incendio vesuviano del 1850, e successiva- mente negl’ incendii del 1855 e 1872 ‘), ed è molto probabile che vi siano state esala- zioni fluorifere anche nelle precedenti conflagrazioni, quantunque non avvertite. In que- sti incendii vi è stata emanazione di fluorido idrico e fluorido silicico, forse il secondo provveniente dall’ azione del primo sui silicati delle scorie vulcaniche. Nondimeno im- porta considerare che le esalazioni fluoriche dei vulcani estinti di Nocera e di Sarno so- no avvenute in condizioni diverse da quelle del riferito esempio del Vesuvio. In questo vulcano le sostanze gassose fluorifere sono sempre accompagnate da altre materie aci- de capaci di scomporre le rocce vulcaniche, quali sono principalmente l'acido cloridri- co e l’acido solforoso. Egli è però che le rocce da esse investite si scompongono senza prodursi nella maggior parte dei casi distinte specie mineralogiche, e si hanno quei miscugli con reazioni acide nei quali, pur riconoscendo la presenza del fluore, non è possibile determinare con quali basi metalliche esso sia combinato. Al contrario la roc- cia tufacea che contiene i proietti che sono |’ argomento principale di questa memoria, non presenta alcun segno di scomposizione, e gli stessi proietti contengono diverse specie di fluoruri ben definiti, ed alquante specie di silicati cristallizzati di formazione contemporanea a quella dei fluoruri. Questa condizione che il tufo nel quale sono inclusi i proietti fluoriferi non pre- senta alcun segno di scomposizione, e presenta invece non dubbie prove di metamorfi- smo, ci guida ad altre investigazioni che naturalmente si deducono ragguagliandolo con le rocce vulcaniche scomposte dal vicino cratere vesuviano e dei non lontani vul- cani semispenti dei Campi flegrei. Nelle rocce di queste ultime contrade il Naturalista riconosce agevolmente |’ avvenuta scomposizione, anche dove più non rimane traccia degli acidi che le hanno scomposte; e per poco che si occupi a rintracciare gli agenti del loro disfacimento non durerà fatica a rinvenirli. Nei Campi ed Isole flegree troverà essere avvenuta la scomposizione pel vapore acqueo *) e per l’ acido solforico prodotto secondario di altre sostanze gassose emanate. Nel Vesuvio poi a questi medesimi agenti si unisce l’ acido cloridrico, e fluoridrico. Per la mancanza dunque di ogni segno di scomposizione nei tufi di Fossa lupara e di Fiano si può conchiudere che negl’ incendii dai quali essi hanno avuto origine, non vi è stata emanazione di sostanze aeriformi atte a scomporli , e va escluso anche il fluorido idrico che non avrebbe potuto venire in contatto con i silicati del tufo senza scomporli. Importa pure considerare che se nel cratere del Vesuvio quale a dì nostri si pre- senta, le rocce sono scomposte dai diversi acidi innanzi menzionati, non può dirsi lo stesso delle rocce depositate in epoche da noi assai remote nello stesso vulcano. Nel- 1) Sopra le specie di silicati del Monte Somma e del Vesuvio le quali in taluni casi sono state prodotte per effetto di sublimazioni. Memoria di A. Scacchi Rendiconto della R. Accad. delle Scienze di Napoli; 1852, pag. 105. — Eruzioni vesuviane del 1850 e 1855 per G. Guarini, L. Palmierie A. Scacchi. Nap. 1855; pag. 47 a 51 e 69a 71— Contribuzioni mineralogiche per servire alla storia dell’ incendio vesuviano del 1872 per A. Scacchi, parte 2° Atti della RR. Accad. delle Scienze Fis. e Mat. di Napoli. Vol. VI. pag. 35 a 37 e 65 a 66. 2) La eflicacia dei caldi vapori acquosi a scomporre le rocce non trovo che sia stata finora presa in giusta considera- zione, e però stimo opportuno ricordare qualche luogo di facile accesso nei campi flegrei ove la trachite ed il tufo rachi- tico, per la prolungata azione delle fumarole con soli vapori acquosi vengono scomposti producendosi fra gli altri risul- tati la ialite. Di tali fumarole se ne trova una sulle falde di Monte Nuovo che prospettano il mare in un punto che dai contadini mi è stato indicato col nome di trave di fuoco, ed altre vistose se ne trovano nella parte culminante del cratere della Solfatara detta punta della Solfatara. DEN e l'incendio del 1872 si è avverata una fortunata circostanza che mi ha permesso osser- vare non poche antiche rocce vesuviane. Dappoichè un grande torrente di lava essendo sboccato presso la base del cono vesuviano, senza percorrere l’ ordinario cammino che tengono le lave per giungere al cratere, ha seco trasportato all’ esterno molti massi di- staccati dagli antichi conglomerati incontrati nell’insolito sentiero percorso, e che si tro- vavano a grandi profondità inaccessibili alle nostre indagini. Ed in questi massi, mentre non havvi alcun segno di scomposizione, vi sono manifesti segni di trasformazione, sia per la fusione in alcuni luoghi avvenuta dei frammenti che li costituivano, sia per es- sersi in essi depositate molte specie minerali prodotte per effetto di sublimazione. Fra queste specie sono notevoli per la frequenza e per la nitidezza delle forme cristalline lPanfibolo, |’ augite, la microsommite, la leucite, il granato, la sodalite, la mica, e l’ematite, e, quantunque meno frequente, merita essere ricordata |’ apatite. Fra queste specie non si è incontrata la fluorina, nè altri fluoruri che costituiscono il carattere di- stintivo dei vulcanetti della Campania. Nelle eruzioni preistoriche del Monte Somma nulla ci assicura che vi sia stata emanazione di acido cioridrico come nell’attuale cratere ve- suviano. Le antiche rocce del nostro vulcano non mi è avvenuto mai di osservarle scom- poste, e nel così detto fosso di cancherone, che è una bocca eruttiva sulle falde del Monte Somma, le cellette delle scorie esposte alle emanazioni gassose di quel tempo ci presen- tano impiantati sulle loro pareti nitidi cristalli di melanite. Ammessa questa notevole differenza, facile ad essere riconosciuta, tra le rocce vul- caniche scomposte e quelle metamorfizzate dalle esalazioni gassose ad elevata tempe- ratura, non eredo per le cose esposte doversi conchiudere che lo svolgimento dell’a- cido cloridrico e di altre sostanze aeriformi atte a scomporre le medesime rocce sia fe- nomeno esclusivo dei vulcani di epoca recente, e che al contrario i conglomerati e le masse compatte di più remota antichità, per la chimica composizione delle esalazioni gassose di quell’ epoca, e forse anche per altre condizioni che ignoriamo, si trasformas. sero con produzione di novelle specie di silicati cristallizzate. Almeno nello stato pre- sente delle nostre conoscenze non abbiamo buone ragioni per ritenere che nei vulcani contemporanei di diverse regioni, mentre negli uni si hanno fenomeni di disfacimento, negli altri non si debbano produrre fenomeni di metamorfismo. E nemmeno possiamo sostenere che le stesse rocce scomposte, mutati gli agenti chimici delle fumarole che le hanno disfatte, non potessero entrare in un periodo di metamorfismo. Ricerca del fluore nelle mescolanze dei fluoruri con materie straniere. Quando la fluorina ed altre specie di fluoruri s'incontrano isolate e facili a riconoscere per i loro caratteri apparenti non resta al geologo che esaminare in quali condizioni di gia- citura si rinvengono per indagare come esse si siano formate; e dalla quantità e fre- quenza delle medesime specie si argomenta qual parte le esalazioni di fluorido silicico abbiano avuto in ciascuno dei vulcanetti della Campania. Intanto nella maggior parte dei casi i fluoruri essendo mescolati con materie diverse, la loro presenza non si svela che per le reazioni chimiche, e torna difficile determinare la quantità di fluore conte- nuta in tali mescolanze. D’ordinario ho trattato la mescolanza polverizzata con acido solforico ad elevata temperatura in crogiuolo di platino sino alla completa espulsione dell’ acido solforico eccedente, e ripetuta |’ operazione con nuovo acido solforico sino a che il residuo ha dato due pesate eguali. Dall’ aumento di peso trovato ho determi- ATTI — Vol. II, Serie 29—N.° 2. 3 si nato la quantità del fluore; dappoichè un equivalente di anidride solforica ed uno di ossigeno che si unisce al metallo del fluoruro sostituiscono il fluore discacciato allo stato di fluorido idrico; e stando il rapporto di SO': F.= 48: 19, l'aumento trovato nel peso del residuo sta alla quantità del fluore come 48-19: 19. Con questo metodo vi sono cagioni di errori, sia per difetto sia per eccesso nella quantità di fluore trovato. La pre- senza dei silicati per il fluorido silicico che si svolge è cagione di un risultato più scarso del vero. L’acido solforico combinandosi alle basi dei silicati scomposti, o ad altri ossidi basici che si possono trovare mescolati ai fluoruri, può dare un aumento al peso del re- siduo che non deriva dalla combinazione dell’acido con la base del fluoruro. Ed anche una inesattezza da doversene tener conto può derivare nel caso che il fluore, oltre al- l’essere combinato al calcio, fosse unito ad altre basi i cui solfati si scompongono ad elevata temperatura. Non di meno ho dovuto contentarmi del riferito metodo, sia per- chè mi sembra sufficiente allo scopo di questo lavoro, sia perchè a volere intraprendere più rigorose analisi, specialmente trattandosi della determinazione quantitativa del fluo- re non poco difficoltosa, sì richiederebbe assai lungo lavoro. I proietti metamorfizzati rinvenuti nelle tufare di Fiano e di Fossa lupara sopra- vanzano di molto quelli scoverti negli altri depositi di tufo della regione che ho preso ad illustrare, sia che si consideri la loro grandezza, ed abbondanza, sia che si voglia tener conto dell’altra condizione più importante che si ha nelle molteplici differenze che si notano nei diversi proietti. Quindi è ehe dal loro esame ci è dato argomentare quale sia stata questa straordinaria emanazione di sostanze fluorifere che non si riscon- tra in altri vulcani finora conosciuti. E per questa ragione ho stimato opportuno trat- tenermi nelle seguenti ricerche più di quanto ad altri per avventura potrà sembrare pro- fittevole. Ho altresì considerato che nella descrizione dei diversi proietti che hanno servito alla ricerca del fluore apparirà in quanti modi svariati le emanazioni fluoriche sono giunte a trasformare le rocce nettuniane, la qual cosa stimo molto utile per for- marci una giusta idea della novella pagina che i vulcani fluoriferi della Campania ag- giungono alla storia naturale dei vulcani. Mi ha fatto al certo maraviglia questa inaspettata differenza tra la profusione dei proietti fluoriferi che si raccolgono a Fiano ed a Fossa lupara, e la scarsezza dei mede- simi proietti negli altri vulcanetti della stessa regione. Ed inclino a credere che ciò de- rivi dal perchè i frammenti delle rocce sbalzati nell’ esordire dei fenomeni eruttivi nelle diverse contrade della Campania sono stati ivi assai più abbondanti e più grandi che altrove. Già ho fatto notare che le bocche eruttive si sono aperte d’ ordinario presso le basi delle colline calcaree, che questa condizione in modo speciale si fa manifesta ove sono le tufare di Fiano e di Fossa lupara, e che i proietti fluoriferi non sono altro che frammenti di rocce nettuniane metamorfizzate. A rifermare questo avviso vedremo in seguito che i depositi di tufo riferibili ai vulcani fluoriferi e che si trovano sovrapposti ai depositi vulcanici di Roccamonfina, derivando da bocche eruttive che si sono aperte nei depositi vulcanici di quella regione, non contengono proietti fluoriferi, o almeno fin ora non sì conosce alcun esempio che contradica questa regola. Egli è però facile in- tendere che se nei depositi delle materie eruttate non si fossero trovati i frammenti di rocce nettuniane, atti ad essere metamorfizzati dal fluorido silico, non avremmo po- tuto avere alcuna notizia delle emanazioni fluoriche caratteristiche dei nostri vulcani Campani. UA N.° 1. Geodi fluorifere di Fossa lupara ‘). Ho fatto l'esperimento su due geodi, la prima scelta tra le più grandi, la seconda tra le più piccole, separando accuratamente le materie straniere alle pareti delle geodi, quelle specialmente impiantate nell’ esterna superficie. Osservate al microscopio appariscono quasi completamente formate di gra- nelli vitrei bianchi con piccoli spazietti vuoti interposti, e di tratto in tratto vi sono alquanti minimi cristallini neri; osservati per la superficie esterna, si scorgono non rari granelli vitrei gialli. Riscaldata la polvere della geode maggiore sulla fiamma della lampada ad alcool ha perduto del suo peso 1,36 per cento, similmente trattata la pol- vere della geode più piccola ha perduto 2,35 per cento. Le medesime polveri fatte bol- lire con acqua stillata, nella soluzione si è avuto debole reazione di cloro e di acido solforico, debolissima di calce. Da grm. 0,243 della polvere arroventata della geode maggiore, dopo il trattamento con l’acido solforico, ho avuto grm. 0,148 di aumento nel suo peso, dal quale si deduce la quantità del fluore eguale a gram. 0,097, ovvero 39,91 per cento. Ritenendo il fluore per intero combinato al calcio, si hanno di fluoruro calcico grm. 0,199, cioè 81,89 per cento. Della geode più piccola grm. 0,5135 della sua polvere hanno dato di aumento, dopo il trattamento con l'acido solforico, grm. 0,190. Quindi il fluore eguale a grm. 0,1245 ed il fluoruro di calcio eguale a grm. 0,256=49,90 per cento. N.° 2. Mucchio geodico di Fossa lupara *). Le geodi fluorifere strettamente aggrup- pate insieme rinvenute nel tufo di Fossa lupara sono state riguardate (pag. 14) come pruova di eruzioni precedenti a quella che ha dato origine alle attuali tufare di quella contrada. Una principale differenza tra queste geodì e quelle che isolatamente sono sparse nel medesimo tufo consiste nella maggior grossezza delle loro pareti. Ai fram- menti delle stesse pareti togliendo la parte superficiale sì esterna che interna in guisa da rimanere soltanto la parte media più libera da sostanze straniere, ed osservandola al microscopio, si scorge tessitura granellosa interrotta da frequentissimi spazietti vuoti, gra- nelli la maggior parte di color bianco sudicio opachi, frequenti granelli bianchissimi che spesso hanno forma globosa, frequenti cristallini gialli vitrei di forma non riconoscibile, alquanti granelli vitrei bianchi e molti cristallini neri. Nelle parti superficiali vi son pure cristallini di mica. Con VP arroventamento della parte media in due saggi vi è stata la per- dita di 1,18 ed 1,98 per cento, ed il vapore esalato è stato neutro alle carte reagenti. Da grm. 0,419 della polvere arroventata, dopo il trattamento con l’ acido solforico, si è avuto l'aumento di grm. 0,208; e però il fluore eguale a grm. 0,1363 = 32,53 per cento. Le precedenti osservazioni microscopiche attestano la complicata composizione mineralogica di queste geodi, nelle quali vi è pure notevole quantità di granelli magne- tici, e non sembra probabile che il fluore sia combinato al solo calcio. É dispiacevole che sia affatto impossibile separare i granelli di apparenza diversa per sottoporli a spe- ciali ricerche analitiche e riconoscere in che si differenzia la loro composizione. Non- dimeno per la quantità di fluore trovato si avrebbe il fluoruro di calcio eguale a grm. 0,2797 = 66,75 per cento. N.° 3. Stando sotto il torchio queste pagine, ho ricevuto, provveniente dalle tufare di Fossa lupara, un altro aggruppamento di geodi °) che pur esso, non potendosi con- 1) N. 3870-73 della grande collezione del Museo. 2) N. 3835 della grande collezione del Museo. 3) N. 4027-31 della grande collezione del Museo. i — 20 — siderare come accidentale accozzamento di piccoli proietti metamorfizzati ove ora si sono rinvenuti, aggiunge novella pruova per dimostrarci che vi siano state altre eru- zioni precedenti a quella che ha dato origine alle materie delle attuali tufare; e che in queste precedenti eruzioni sia stata ovvia la condizione di trovarsi molti piccoli pro- ietti assai vicini gli uni agli altri. In esso sono congiunti insieme geodi di varia grandezza spesso con le pareti dì figura irregolare quasi fossero deformate per compressione scam- bievole, ed alle stesse pareti stanno in molti luoghi congiunti con forte adesione alcuni frammenti ‘di tufo nericcio, e, come carattere che le distingue dalle ordinarie produ- zioni dei tufi della Campania, vi aderiscono pure non pochi frammenti angolosi della natura delle lave. Le pareti delle geodi di color bianco, spesso macchiate di rossiccio, osservate con la lente d’ingrandimento mostrano quasi sempre tessitura terrosa diversa dalla tessitura granellosa che presentano le geodi dei n. 1° e 2°; di raro si scuopre par- ziale tessitura granellosa e grossolana. Tutti questi caratteri, si riscontrano pure con piccole differenze nel gruppo di geodi trovato a Fiano del .-quale si è innanzi (pag. 11) tenuto parola. Nelle geodi poi sono notevoli due sostanze, una di color rosso oscuro con tessi- tura spongiosa [a] che riempie quasi per intero le cavità delle geodi, l’altra in forma di globetti bianchi [b] che sogliono ricuoprire la faccia interna delle pareti delle geodi, ed una terza sostanza in forma di concrezioni bianchicce [c] che si trovano in qualche parte delle medesime geodi. Dalle pareti delle geodi d’ordinario non ho avuto sensibile reazione di fluore, e soltanto quando nelle stesse pareti vi è indizio di tessitura granellosa si è avuta distin- ta, quantunque scarsa, la reazione del fluore. Questo risultamento, contrario a ciò che mi era dato prevedere per le precedenti ricerche, mi ha indotto a fare su di esse qual- che esperimento. Ho trovato che col riscaldamento perdono poco più del 20 per cento del loro peso, emanando vapore acqueo con debole reazione acida. La sostanza riscal- data, con l'esposizione all'ambiente, riprende dall’aria gran parte dell’acqua sprigionata. Se dopo il riscaldamento, raggiunta la temperatura dell’ambiente, s’immerge la polvere nell’ acqua, vengon fuori lentamente molte bollicine gassose, quasi come succede quando si tratta un carbonato con gli acidi. Con l’acido cloridrico bollente se ne scio- glie una porzione senza effervescenza. Per ora intendendo alla ricerca del fluore, non ho proseguito le ricerche sulla composizione della buccia di queste geodi. La sostanza rossa [a] col riscaldamento non ha perduto che 0,42 per cento del suo peso. Da grm. 0,478 della sua polvere, dopo il trattamento con l’acido solforico, ho avuto grm. 0,322 di aumento che corrisponde a grm. 0,211 di fluore =44,14 per cento. Quindi la sostanza rossa trovata nell’interno delle geodi, nella quale meno si poteva attendere di trovare la fluorina, ne contiene 90,59 per cento. I globetti bianchi [b] nella parte aderente alle pareti delle geodi sono formati di granelli terrosi con frequenti spazietti vuoti interposti. Col riscaldamento hanno per- duto 3,25 per cento del loro peso. Da grm. 0,342 della polvere disidratata, dopo il trat- tamento con Pacido solforico, ho avuto grm. 0,169 di aumento. Quindi di fluore grm. O,I11==32,46 per cento. La sostanza concrezionata [c] ha tessitura compatta. Da grm. 0,3225 della sua pol- vere trattata con l’acido solforico ho avuto grm. 0,215 di aumento che dà di fluore grm. 0,141==43,10 per cento. Quindi di fluoruro calcico grm, 0,2894= 89,73 per cento. lina RL in I EI N.° 4. Dalle tufare di Fossa lupara ho ricevuto diversi proietti nei quali con qual- che differenza si verifica il fatto istruttivo che in mezzo alle materie fluorifere si rac- chiude grosso frammento di calcite che non può riguardarsi altrimenti se non come la parte del frammento calcareo primitivo la cui composizione non è staia cambiata per l’azione del fluorido silicico che ha metamorfizzato soltanto la parte esterna. Due di essi del tutto tra loro somiglianti '), per la parte ch'è in contatto cel tufo hanno sottile cro- sta somigliante alle pareti delle ordinarie geodi fluorifere, ed a questa succede una so- slanza terrosa rosso-bruniccia, che in alcuni punti è della spessezza di circa tre centi- metri. Nel mezzo poi, senza aderire alle predette sostanze, vi è grosso frammento con superficie ritondata di calcite granellosa. Grm. 0,3675 della crosta esterna tolta da uno di essi hanno perduto con l’arroventamento gram. 0,006= 1,63 per cento. Dai rima- nenti grm. 0,3615, dopo il trattamento con l'acido solforico, ho avuto gram. 0,204 di eccesso sul suo peso, dal quale si ottiene il fluore eguale a grm. 0,1337 = 36,98 per cento, ed il floruro di calcio eguale a gram. 0,2744=75,18 per cento. Nella sostanza terrosa rosso-bruniccia che succede alla crosta fluorifera, rinvenuta pure allo stesso modo in un terzo proietto che ho ricevuto senza il frammento libero di calcite *), i saggi più volle ripetuti per ricercarvi Ja presenza del fluore talvolta sono riusciti del tutto negativi, altre volte non ho avuto che debolissima corrosione del vetro dovuta forse a qualche granello della crosta esterna che vi era mescolato. Per lo scopo delle mie ricerche non ho stimato, almeno per ora, sottoporla ad analisi, e sol- tanto ho notato che perde col riscaldamento notevole quantità di acqua, neutra alle carte reagenti, variabile tra 18,58 e 20,82 per cento, e che in parte riprende con la e- sposizione all’ ambiente. Intanto non saprei dubitare che la stessa sostanza terrosa, quale ora si è rinvenuta, non esisteva nella roccia nettuniana primitiva, e che essa siasi prodotta per l’azione del fluorido silico sulla medesima roccia, senza poter precisare i particolari di tale produzione. E la stessa tessitura granellosa che ora si riscontra nel frammento calcareo probabilmente è conseguenza della prolungata temperatura elevata alla quale è stato esposto. Alquanto diverso dai precedenti è un altro proietto °) di Fossa lupara nel quale l’ interno frammento di calcite granellosa, di forma bislunga, ha la superficie scolpita da molte cavità circolari. Esso era congiunto alla parte esterna, formata pure di calcite granellosa mista a sostanze terrose giallicce, per una sua parte rilevata nel verso della sua lunghezza di piccola spessezza che di leggieri si è rotta nel trasporto. Come nei saggi precedenti all’esterno vi è sottile crosta fluorifera. Due altri grandi proietti con calcite interna, ancora essi trovati a Fossa lupara, hanno di comune che la calcite è terrosa, che non hanno come nei proietti precedenti la crosta fluorifera superficiale, e che aderiscono strettamente al tufo in guisa che non è facile riconoscere il confine tra il proietto e la roccia tufacea che lo involge. In uno di essì *) il tufo nericcio che vi è aderente è talmente compatto e duro che lascia conget- turare aver subito un cambiamento di struttura per l’azione combinata del fluorido sili- cico e del proietto calcareo, dappoiché soltanto ove esso combacia con la roccia meta- 1) N. 3829, e 3330 della grande collezione del Museo. 2) N. 3895 della grande collezione del Museo. 3) N. 3828 della grande collezione del Museo. 4) N. 3831 della grande collezione del Museo. Pen: 1 morfizzata presenta quel grado di durezza. Per la spessezza di circa due centimetri a partire dalla linea ove si può presumere che cominci la superficie del proietto vi sono diverse sostanze mescolate alla rinfusa, alcune vitree con tessitura laminosa, altre bian- che opache in forma di laminucce ed altre di color rosso bruniccio come la sostanza terrosa dei proielti precedenti; e tra questi diversi elementi s’interpongono molti spa- zietti vuoti. Trattate queste sostanze con acido cloridrico allungato, piccola parte si è sciolta con effervescenza; nei granelli che non sono stati attaccati dall’acido non ho più osservato le laminucce bianche che debbonsi ritenere formate di calcite; e separati i gra- nelli vitrei che ho sottoposti all’azione dell’acido solforico, ho riconosciuto ch’erano formati di fluorina. La calcite terrosa aderisce per tutto all’invoglio esterno, ha tessitura granellosa grossolana assai facile a disgregarsi, e di tratto in tratto ai suoi granelli si associano piccole concrezioni durette. Riscaldata ha esalato poco vapore acqueo con debolissima reazione acida, ed ha perduto del suo peso 2,16 per cento. Trattata con acido cloridrico molto allungato si è per la massima parte disciolta con effervescenza la- sciando una porzione non disciolta , nella quale vi sono granelli terrosi di color rosso bruniccio che non apparivano nel mezzo dei granelli bianchi, e pezzetti bianchi traslu- cidi che han manifestato la reazione del fluore. Nell’ altro proietto ') il tufo aderente all’invoglio esterno è gialliccio fragile, e quantunque nella linea di contatto quasi fuso con la superficie dello stesso invoglio, non offre alcun segno di aver patito trasformazione. L’invoglio forma massa continua senza interstizii vuoti, screziato di bianco e giallo rossiccio, in piccola parte solubile con effervescenza negli acidi, e nella porzione non disciolta l'acido solforico lascia scuo- prire la presenza del fluore. L’ interria calcite terrosa disciolta con gli acidi lascia scarso residuo contenente fluore. Ma il fatto più notevole ci vien somministrato da certe grosse lamine variamente contorte che sono in alcuni punti della massa terrosa, le quali, senza altro esperimento si riconosce essere formate di fluorina. Non è senza interesse considerare questa diversa maniera di operare le esalazioni fluoriche sulla calcite primitiva dei proietti. Nei primi tre casi la calcite è divenuta gra- nellosa e non contiene fluoruri, negli ultimi due casi la roccia calcarea è divenuta ter- rosa e contiene la fluorina. N.° 5. Fluorina ramosa echinata. Provvenienti dalle tufare di Fiano ho avuto 1’ op- portunità di osservare alquanti grandi proietti °) controdistinti dallo specioso carattere che in essi la fluorina assume l'aspetto di produzioni variamente ramificate e ciascun ramo finisce in punta aguzza. Questi proietti si possono considerare come grandi geodi riempite in parte di sostanze diverse lasciando uno spazio vuoto nel quale han potuto estendersi sino a poco più di tre centimetri i rami echinati. Nella parte per la quale essi aderiscono al tufo vi è sottile crosta non dissimile per apparenza dal guscio delle geodi fluorifere; e sperimentate queste croste col solito metodo dell’acido solforico più volte innanzi ripetuto, ho trovato contenere di fluore 38,91 per cento. Alla crosta fluo- rifera succedono sostanze diverse, alcune bianche terrose, altre rossicce ancor esse ter- rose ed in vario modo tra loro disposte. A queste succede uno strato di fluorina con su- perficie tubercolosa, della spessezza di due a tre millimetri, sul quale d’ordinario sono 1) N, 3832 della grande collezione del Museo. 2) 3853-56 e N. 3997 della grande collezione del Museo. Te ARRE Arc on o fw i a impiantati i rami della fluorina echinata. Per le ricerche fatte sulla sostanza bianca ter- rosa alquanto macchiata di rossiccio ho trovato che essa perde col riscaldamento 14,62 per cento svolgendosi vapore aqueo con debolissima reazione acida; e la s0- stanza disidratata sì solve in parte nell’ acido cloridrico con effervescenza lasciando di materia insolubile 51,46 per cento. In questo residuo non attaccato dali’acido clori- drico: ho trovato di fluore 11,53 per cento. Il carbonato calcareo primitivo che si è veduto contenersi nella sostanza bianca terrosa, si trova pure mescolato in piccola quantità, senza che apparisca, con la fluorina, sia in quella ramoso-echinata, sia nel- l’altra in forma di strati, e si rinviene altresì, ove più ove meno abbondante, trasfor- mata in minuli globetti (aragonite). In due dei grandi esemplari con i riferiti caratteri, che si erano rotti in più pezzi, ho potuto osservare un altro fatto che dimostra il complicato lavorio delle emanazioni fluoriche ‘). Sulle pareti di larghe fenditure che li attraversano in vicinanza della crosta superficiale sono aderenti frequenti cristalli bislunghi, i quati per avere le loro faccette scabre, per essere opachi, e cosparsi di spazietti vuoti interni, possiamo esser certi che non si conservano quali erano in origine. Riserbandomi di esaminarli quando dovrò trattare delle specie mineralogiche, per ora mi occorre dichiarare essere per lo meno molto probabile che essi non erano nella roccia primitiva, che si sono formati in un periodo delle trasformazioni della medesima roccia, e che in un secondo periodo, sia per mutata temperatura, sia per differenze avvenute nelle materie esalate, essi si sono metamorfizzati. Importa intanto conoscere fin da ora che questi cristalli metamorfizzati non fanno effervescenza con gli acidi, e che con l’acido solforico producono profonde corrosioni nel vetro. N.° 6. Proietto di Fiano molto variabile per composizione e tessitura nelle diverse sue parti, e l’ho scelto come uno dei migliori esempii atti a dimostrare quale sia stata la complicata azione trasformatrice delle emanazioni gassose fluorifere sulle rocce net- tuniane. Le sue dimensioni misurate mentre era in gran parte incastonato nel tufo, te- nendo conto della cavità lasciata dopo l'estrazione, furono trovate di centimetri 28,24, e 21; estratto dal tufo, per essere assai fragile, si ruppe in pezzi. Quasi dapertutto e- sternamente esso è circondato da uno strato nericcio della spessezza di uno a tre mil- limetri costituito dalle materie della roccia tufacea indurite ove sono in contatto col proieito ?) e ad esso in tal modo aderenti che non è possibile distaccarle senza che vi rimanga unita qualche parte dello stesso proietto, mentre al contrario sono facilmente separate dal tufo circostante. Non cade dubbio che questo invoglio appartenga al tufo, trovandosi in esso, come nel tufo, i cristalli di ortoclasia vitrea. Esso è in oltre attraver- sato in taluni punti da frequenti fenditure, quasi direi screpolato, per le quali fenditure, la sottostante roccia trasformata s’ insinua sporgendo all’esterno. Al primo strato super- ficiale, che appartiene al tufo in molte parti ne succede un altro di color giallo rossa- stro terroso [a] di varia spessezza che talvolta giunge a 20 millimetri *), e dove manca lo strato rossiccio si trovano invece due altre sostanze di apparenza diversa; una di color bigio chiaro in forma di tubercoletti congiunti insieme [b] lasciando molti spazietti vuoti interposti, l’altra bianca terrosa [c]}. Vengono poi due altre sostanze, una bianca 4) N. 4021-23 dalla grande collezione del Museo. 2) N. 4025 della grande collezione del Museo. 3) N. 3990 della grande collezione del Museo. si O con tessitura granellosa cristallina [d] ‘), l’altra di color bianco sudicio con tessitura cel- lulosa [e] quasi delicatissima spugna *), entrambe disposte l’una a fianco dell’altra occu- pando la maggior parte dello spazio compreso nell’invoglio esterno. La sostanza rossiccia [a] è tenera, immersa nell’acqua lascia svolgere alquante bol- licine gassose, col riscaldamento perde circa venti per cento del suo peso e tramanda vapore aqueo neutro alle carte reagenti, non fa effervescenza con gli acidi, e nell’ acido cloridrico si scioglie in gran parte lasciando 34,31 di materie insolubili nelle quali non si scuoprono che minime quantità di fluore. La sostanza [b] col riscaldamento non ha perduto che 3,02 per cento del suo peso, nell’acido cloridrico ha dato rapida efferve- scenza lasciando 58,49 di parte insoluta contenente fiuore. Con grm. 0,285 di questa parte, trattata con l’acido solforico, ho avuto aumento di grm. 0,117, e però di fluore grm. 0,0767==26,91 per cento. La sostanza [c] è notevole per molte laminucce marga- ritacee in essa cosparse, si solve soltanto in piccola parte negli acidi con effervescenza e la sua polvere, libera della parte disciolta nell’acido, osservata al microscopio, si scorge formata di granelli vitrei uniti a maggior numero di minutissime lamine dotate di vi- vace splendore margaritaceo. Grm. 0,2745 della stessa polvere dopo il trattamento con l’acido solforico, ha dato il suo peso aumentato di gram. 0,176, e però contiene di fluore grm. 0,1153== 42,00 per cento. La descrizione delle laminucce margaritacee troverà il suo posto tra le specie mineralogiche. La sostanza [d] è calcite granellosa i cui granelli di apparenza cristallina non si mantengono coerenti , e quasi spontaneamente si risolvono in sabbia calcarea. Nella stessa calcite di tratto in tratto s’ incontrano mi- nuti pezzetti terrosi di colore rossastro che hanno gli stessi caratteri della sostanza [a]. Da ultimo la sostanza [e] è ammirevole per la sua tessitura spugnosa fragilissima ; osser- vata al microscopio si scorge formata di cellette con pareti sottili variamente perforate, in alcuni punti traslucide, altrove quasi opache, di colore bianco o bruniccio. Con la: cido cloridrico si ha lenta effervescenza e prolungata, restando la maggior parte insoluta con gli stessi caratteri che aveva prima della immersione nell’acido. Da grm. 0,329 della sua polvere, liberata dal carbonato calcareo, ho avuto , dopo l’azione dell’ acido solforico, l'aumento di grm. 0,250, e però di fluore gram. 0,162=49,24 per cento, quasi esattamente la quantità di fluore contenuta nella fluorina pura. Alquanto diversa dalla predetta fluorina spongiosa ho ricevuto da Fossa lupara un altro saggio ancor esso fragilissimo *) non congiunto ad altre materie diverse. Son persuaso che esso duveva essere unito, come nel caso precedente, ad un invoglio ester- no, ed è molto probabile che sia un frammento di proietto riferibile ad eruzione prece- dente quella che ha dato origine alle attuali tufare nelle quali ora si è rinvenuto. Esso ha le piccole cavità interne riempite di polvere di color bigio oscuro ; liberati dalla pol- vere i minuti frammenti, ed osservati al microscopio, lasciano vedere sottilissime lamine vitree con superficie scabre, in vario modo distorte e tra loro accozzate. Stritolandole in mortaio di agata tramandano odore d’idrogeno solforato, gli acidi non vi dànno segno di effervescenza, e non ne sciolgono che piccola parte, ed unite all’ acido solforico la- sciano profonde corrosioni nel vetro. Da grm. 0,245 della polvere, dopo il trattamento con l'acido solforico ho avuto grm. 0,118 di aumento, dal quale si ha di fluore grm. 0,0773=31,14 per cento. 1) N. 3991 della grande collezione del Museo. 2) N. 3893 della grande collezione del Museo. 3) N. 4026 della grande collezione del Museo. —ube N.° 7. Proietti micacei. Ho distinto con questo epiteto quei proietti d’ ordinario di piccole dimensioni sulle cui superficie si rilevano molti cristalli di mica, talfiata di tale grandezza che fa maraviglia a vederli. Essi che sono assai frequenti nelle tufare di Fiano non si sono mai rinvenuti in quelle di Fossa lupara. Il loro meta morfismo è dei più completi che si possano avere, e d° ordinario non resta in essi alcun segno che attesti la loro provvenienza da rocce calcaree. Ragguagliandoli con altri saggi di maggior mole che offrono come pruova di profonde trasformazioni la produzione di novelle specie di silicati, conservando tuttavia gli avanzi del primitivo carbonato calcareo, lasciano suppor- re che sia dovuto alla loro piccolezza se le cagioni trasformatrici hanno prodotto il loro metamorfismo completo. Nondimeno quelle che ho distinte col nome di geodi fluorifere sogliono essere assai piccole , nè in esse si osserva nulla di somigliante con i proietti micacei; la qual cosa attesta una notevole differenza nelle cagioni promotrici del loro metamorfismo. Nell’interno dei proietti micacei sono assai frequenti la fluorina ialiti- forme ed i cristalli aciculari di nocerina, ed a questi fluoruri di composizione definita si associano altre sostanze amorfe non riferibili a specie mineralogiche; nè sono rari gli esempii di cavità riempite quasi esclusivamente di materie amorfe delle quali ora oc- corre far parola per riconoscervi la presenza del fluore e la quantità proporzionale del medesimo. Proietto con abbondanti cristalli di mica e microsommite superficiali di millimetri 81 nel maggior diametro '). Internamente vuoto; aderente alla buccia micacea vi è sot- tile strato di fluorina laminosa vitrea; a questo ne succede un’altro della grossezza di due a tre millimetri formato di sostanza bianchiccia opaca, compatta, fragile. A questo strato sono internamente aderenti molti granelli di color giallo-rossiccio ancor essi for- mati di fluorina. L'esperimento è stato eseguito sulla sostanza compatta che non dava alcun indizio di contenere fluorina. Da grammi 0,272 della sua polvere, dopo il tratta- mento con l’acido solforico, si è avuto aumento di grm. 0,173 dal quale si ha di fluore grm. 0,1168—==42,94 per cento. Piccolo proietto angoloso di millimetri 6o nel maggior diametro trovato nella parte superiore della tufara di Fiano che si incontra a sinistra della ferrovia partendo da Sar- no °). Invoglio nericcio con poche e minutissime laminucce di mica superficiali di gros- sezza variabile da uno a tre millimetri; cavità compresa nell’invoglio riempita di so- stanza terrosa bianchissima con molti spazietti vuoti interposti. Osservata al microscopio questa sostanza si veggono in essa alquante laminucce margaritacee e pochi minuti granelli vitrei. Essa non fa effervescenza con gli acidi, e col riscaldamento al calor rosso ha perduto 2,05 per cento del suo peso. Grm. 0,318 della polvere, dopo il trattamento con l’acido solforico, ha dato grm. 0.218 di aumento, dal quale si deduce il fluore eguale a grm. 0,1425==44,81 per cento. Esperimentato anche l’invoglio, che strettamente ade- risce alla sostanza terrosa interna, da grm. 0,405 della sua polvere, dopo il trattamento con l’acide solforico, ho avuto grm. 0,188 di aumento; quindi grm. 0,1232 di fluore= 30,41 per cento. Altro piccolo proietto angoloso, con molte minute lamine di mica superficiali, ha l invoglio di spessezza variabile tra due e quattro millimetri. Lo stesso invoglio, osser- 1) N. 4038 della grande collezione del Museo. 2) N. 4034 della grande collezione del Museo. ATTI — Vol. I, Serie 2.— N° 2. 4 = vato con lente d’ingrandimento, si scorge formato in gran parte di laminucce di mica, e la cavità è riempita di sostanza gialliccia opaca cavernosa ‘'). Da grm.0,2435 della so- stanza interna, dopo il trattamento con l’ acido solforico, ho avuto grm. 0,146 di au- mento, quindi grm. 0,0957 di fluore=39,30 per cento. Altro proietto più grande dei precedenti ed assai fragile ha di notevole che l’invo- glio di colore nericcio, con rare e minutissime lamine di mica superficiali, per grada- zioni insensibili si confonde con la sostanza interna bianchiccia, opaca compatta °), la qual cosa dimostra non esservi importante differenza tra la parte esterna ed interna di questo proietto tranne il colore. Nella stessa sostanza interna vi sono alquante cellette e fenditure, e sulle loro interne superficie sono impiantate minute concrezioni di fluori- na ialitiforme. Ho esperimentato sì la sostanza interna, liberata dalla fluorina ialitifor- me, che la parte esterna. Da grm. 0,393 della prima ho avuto con l’acido solforico grm. 0,197 di aumento, e però grm. 0,129 di fluore=32,82 per cento. Da grm. 0,279 della seconda ho avuto grm. 0,137 di aumento, e però grm. 0,0898 di fluore=32,19 per cento. In uno dei proietti micacei delle maggiori dimensioni *) l invoglio micaceo rac- chiude quasi esclusivamente sostanza litoidea bianchiccia. In questa ho trovato di parte solubile negli acidi con effervescenza 10,34 per cento; ed è questo uno dei rari proietti micacei nei quali ho riconosciuto la presenza di una porzione della calcite primi- tiva. Da grm. 0,2435 della parte insolubile nell’ acido cloridrico ho avuto grm. 0,169 di aumento; quindi grm. 0,1107 di fluore==45,47 per cento. Nella sostanza che ha ser- vito a questa ricerca, anche osservata con lente di forte ingrandimento non si scorge u- nione di materie diverse, e però abbiamo in essa un’intima mescolanza di fluorina non riconoscibile ai caratteri apparenti con poco più del dieci per cento di calcite. I due seguenti proietti micacei hanno di comune che internamente contengono la fluorina ialitiforme insieme a sostanze che non hanno caratterì distintivi di particolari specie mineralogiche, sulle quali si è ricercata la presenza del fluore. Il primo di essi, notevole per molti cristalli superficiali di mica di colore bianchiccio, mentre questi cristalli sono quasi sempre di colore bruno più o meno intenso ‘), ha la sua cavità in gran parte riempita di sostanza nericcia con tessitura granellosa. Da grm. 0,147 di que- sta sostanza, non mescolata con le specie mineralogiche che l’accompagnano, si è avuto con l’acido solforico grm. 0,096 di aumento, lasciando residuo di color rosso; quindi grm. 0,0629 di fluore=42,79 per cento. Nel secondo *) la sostanza interna amorfa, è gialliccia, litoidea cavernosa. Da grm. 0,261 della sua polvere si è ottenuto il peso aumentato di grm. 0,143; quindi grm. 0,0937 di fluore=35,90 per cento. Il proietto sul quale sono stati eseguiti i seguenti esperimenti provveniente dalle tufare di Fiano °) è di forma ovoide, di centimetri 22 nel suo maggior diametro. Esso è costituito da solido invoglio che racchiude, senza lasciare spazii liberi, sostanza bianca per la maggior parte terrosa. Nell’invoglio si distinguono due strati, uno esterno di co- 1) N. 4035 della grande collezione del Museo. 2) N. 3987 della grande collezione del Museo. 3) N. 3988 della grande collezione del Museo. 4) N. 4036 della grande collezione del Museo. 5) N. 4037 della grande collezione del Museo. 8) N. 3861-62 della grande collezione del Museo. n dt, db! ie lor bruno, di spessezza variabile tra due e tre millimetri con minutissime lamine di mi- ca superficiali, l’ interno bianchiccio di spessezza variabile tra uno e cinque millimetri. La materia bianca, che riempie completamente il vano compreso nell’invoglio, è in gran parte terrosa friabile, in alcuni punti è semidura tubercolosa, in altri punti formata di sottili lamine con isplendore margheritaceo combacianti le une con le altre. Tutte que- ste parti sono attaccate dagli acidi con effervescenza lasciando non disciolto un residuo . in quantità variabile. Grm. 1,4745 della polvere dello strato esterno dell’invoglio, sotto- posta all’azione dell’ acido acetico, e lavata la parte insoluta sino a che le acque di la- vaggio non hanno lasciata alcuna macchia sulla lamina di platino, si è avuto di parte solubile grm.0,108=7,32 per cento; e da grm. 0,244 della polvere non disciolta, trat- tata con l’acido solforico si è avuto 1’ aumento di grm. 0,139 che dà grm. 0,0911 di fluore=37,34 per cento. Grm. 1,576 dello strato interno del medesimo invoglio, simil- mente trattati con l’acido acetico, han dato grm.0,109 di parte solubile=6,91 per cento ; e grm.0,245 della polvere non disciolta hanno dato con l’acido solforico l’aumento di grm. 0,127 dal quale si hanno grm.0,0832 di fluore==33,96 per cento. Della sostanza terrosa interna da grm. 1,047 ho avuto la parte solubile nell’acido acetico eguale a grm. 0,go5= 86,43 per cento. Essa quindi è per la maggior parte formata di calcite. La parte non di- sciolta nell’ acido, esaminata al microscopio si scorge formata di granelli vitrei traspa- renti di forma irregolare misti a granelli bianchi opachi in forma di laminucce con isplen- dore margaritaceo. Da grm.0,118 della polvere insoluta, dopo il trattamento con l’acido solforico, ho avuto-il peso aumentato di grm. 0,074, dal quale si hanno grm. 0,0484 di fluore=41,03 per cento. Finalmente i tubercoletti che si trovano in alcuni punti del carbonato calcareo terroso sono quasi esclusivamente formati di fluorina. Da questi ri- sultamenti si può conchiudere che l’invoglio del proietto è in gran parte formato di fluo- rina non riconoscibile ai caratteri esterni, e che l’interna sostanza bianca è per la mag- gior parte formata di carbonato calcareo , che possiamo ritenere essere la stessa calcite della roccia primitiva trasformata in sostanza terrosa. In essa poi trovasi cosparsa la fluorina sia in forma di tubercoletti, sia in forma di granelli vitrei; e vi si unisce un altro fluoruro in forma di lamine apposte le une alle altre, del quale si farà parola nella seconda parte di questo lavoro. Nei precedenti saggi analitici conosciuta la quantità del fluore si conosce facil- mente la quantità del fluoruro di calcio ch’è poco più del doppio, nel rapporto di 19 a 39, e possiamo argomentare che le sostanze amorfe contenute nell’ interno dei proietti micacei, tranne il raro caso di piccole quantità di calcite nei proietti di maggior mole, sono per la massima parte di fluorina. N.° 8. Proietti (A) e (8) di Fossa lupara. Questi proietti sono stati innanzi descritti a pagina 13. Del proietto (A) ') ho esaminato la parte esterna e la parte interna. La prima al calor rosso ha perduto soltanto 0,29 per cento del suo peso, e da grm. 0,475 della sua polvere, dopo il trattamento con l’acido solforico, ho avuto grm. 0,277 di au- mento, che dà grm. 0,1815 di fluore=38,21 per cento. Della parte interna non vi è stata sensibile perdita al color rosso, e da grm. 0,434 ho avuto grm. 0,207 di aumento, che dà grm. 0,1356 di fluore=31,24 per cento. La polvere della parte esterna del pro- ietto (B) °) non ha dato perdita sensibile al calor rosso, e da grm.0,3995 ho avuto di 4) N, 4044 della grande collezione del Museo. 2) N. 4045 della grande collezione del Museo. LARE aumento grm. 0,288; quindi grm. 0,1887 di fluore=47,15 per cento. Egli è però che la sostanza analizzata può considerarsi formata di fluorina quasi pura. N. 9. Il proietto del quale in questo articolo mi occorre dar notizia, provveniente da Fossa lupara, è da noverarsi tra quelli che maggiormente possono destare ? atten- zione del Naturalista. Non ho potuto averlo che ridotto in frammenti '), e porzione sol- tanto di quelli che componevano il proietto, e però non posso con precisione stabilire come le diverse sostanze delle quali esso si compone erano allogate le une rispettiva- mente alle altre. Esternamente in contatto col tufo, nei pochi frammenti osservati ad esso aderenti, vi è uno strato terroso con superficie rugosa della spessezza di circa tre millimetri [a] al quale spesso succede piccola quantità di sostanza terrosa rossastra [b]. Delle altre sostanze le più abbondanti è la calcite granelloso-compatta, e vi son pure altre varietà di calcite la prima in forma di lamine isolate delia grossezza di circa mezzo millimetro, Valtra in forma di cristalli romboedrici acuti (1 14): La calcite granellosa son di avviso essere la parte non alterata, o soltanto mutata per la sua tessitura, della roccia nettuniana primitiva; ma la varietà in forma di lamine e l’altra cristallizzata, considerando il modo come esse si trovano mescolate con le di- verse sostanze che or ora dovrò descrivere, sono indotto a credere che non si trova- vano come ora si presentano nella calcite primitiva; e che invece si siano formate per effetto del metamorfismo sofferto dalla medesima calcite. Altri esempii di cristalli rom- boedrici di calcite nei proietti provenienti dalle tufare di Fiano *) mi confermano in questa opinione. E questa trasformazione in calcite cristallizzata dei frammenti di rocce nettuniane sbalzati dalle bocche eruttive non può attribuirsi al fluorido silicico cagione principale della origine delle novelle specie di fluoruri e di silicati che ora incontriamo nei depositi lufacei. La genesi dei cristalli di calcite sembrami doversi ritenere 1’ effetto della elevata temperatura, del vapore aqueo e forse anche dell’anidride carbonica che hanno investito i proietti calcarei. Si hanno poi altre sostanze contraddistinte per l'apparenza diversa, ed una di que- ste si presenta in forma di strati della spessezza di circa due millimetri con superficie tubercolosa e con tessitura fibroso-raggiata [c], d’ ordinario aderenti alla fluorina con- formata in lamine della grossezza alquanto minore di un millimetro. Un'altra è in for- ma di grossi mommelloni con tessitura granellosa [d], ed una terza in forma di piccole prominenze ramose [e] somiglianti ai licheni. Ho pure notato alquanti corpicciuoli bian- chi in forma ovale [f] di circa tre millimetri nel diametro maggiore e due nel diametro trasversale medio, accompagnati da filetti ramosi bruni. Sia lo strato terroso [a] in contatto col tufo che la sostanza terrosa rossastra [5] sono in parte solubili con effervescenza nell’ acido cloridrico, e la parte insolubile non ha dato che debole reazione di fluore. Gli stratarelli [c] che, per apparente uniformità delle loro parti osservandoli con lente di forte ingrandimento, non era prevedibile che contenessero diversi composti, ho trovato al contrario che in essi sono intimamente me- scolati il carbonato calcareo con un fluoruro. Separati con diligenza dalla fluorina in forma di lamine con la quale si associano, ed esposti al calor rosso non hanno sofferto che lievissima perdita. Nell’ acido cloridrico si sono in gran parte disciolti con efferve- 1) N. 4039-43 della grande collezione del Museo. 2) N. 3821 e 3877 della grande collezione del Museo. = #9 — scenza lasciando 34,75 per cento di residuo insolubile. Questo residuo osservato al mi- croscopio si scorge formato quasi esclusivamente di minutissime lamine margaritacee che han dato forte reazione di fluore. Da grm. 0,274 di queste laminucce ho avuto con l'acido solforico grm. 0,163 di aumento che dà grm. 0,1068 di fluore=38,98 per cento. Sulle lamine vitree che sogliono associarsi ai medesimi stratarelli non ho fatto alcuna ricerca analitica essendo sufficienti i caratteri fisici per riconoscere che sono costituite di fluorina. Nei mammelloni [d] e nelle piccole prominenze ramose [e] si ha pure intima me- scolanza di calcite con fluorina. Nei primi ho trovato 90,58 per cento di parte insolu- bile nell’acido cloridrico, nelle seconde la parte insolubile è stata di 77,55 per cento. In entrambi i casi il residuo insolubile è stato polveroso. Di quello ottenuto dai mammel- loni, avendo determinato la densità, l’ho trovata eguale a 3,188 ch'è propria della fluo- rina. Del residuo ottenuto dalle prominenze ramose grm. 0,322 hanno dato grm. 0,219 di aumento; quindi grm. 0,1435 di fluore-=44,57 per cento. Finalmente i corpicciuoli ovali [f], in uno dei quali è riconoscibile per metà la forma dell’ottaedro regolare, non danno effervescenza con gli acidi. Da grm. 0,5235 della loro polvere, dopo il solito trattamento con l’acido solforico, ho avuto l'aumento di grm. 0,334; quindi srm. 0,2185 di fluore=32,19 per cento. Abbiamo dunque nel proietto esaminato in questo articolo ia calcite granellosa, parte che rimane della roccia nettuniana primitiva; la calcite cristallizzata ed in forma di lamine generatesi per effetto di metamorfismo; la fluorina in forma di lamine e di corpicciuoli ovali; e la calcite intimamente mescolata con i fuoruri, sia negli strati con superficie tubercolosa e tessitura e fibrosa, sia nei grossi mammelloni, sia nelle pic- cole prominenze ramose. N.° 10. Alquanii frammenti di un grande proietto raccolti nelle tufare di Fiano ‘') mi hanno presentato i seguenti particolari. Esternamente in contatto col tufo vi è fluo- rina opaca bianchiccia, tranne qualche punto nel quale il proietto , non combaciando col tufo, la sua superficie è ricoperta di minute lamine di mica. Internamente vi sono molte cavità di figura e grandezza variabili nelle quali sono prominenti frequentissimi globetti di carbonato calcareo (aragonite) e soprabbondante la fluorina ora in forma di lamine, ora in forma di piccole concrezioni ialitiformi. In alcuni luoghi la fluorina è co- lorata in violetto, colore frequente a trovarsi nei cristalli provenienti da altre contrade ed in questo solo caso mi sì è presentato tra le varietà dei nostri vulcani fluoriferi. Alla fluorina ed all’aragonite in molti punti si associano alquante laminucce dotate di vivace splendore margaritaceo riunite in ciocche raggiate o anche sparse alla rinfusa. Tutta la parte soda interna è costituita di sostanza giallastra compatta e terrosa, mista a calcite ancor essa compatta ed a fluorina lamellosa. Nella sostanza gialla compatta, accurata- mente separata dalla fluorina con la quale va unita, ho pure trovato contenersi fluore. Dalla sua polvere riscaldata al calor rosso ho avuto 5,45 per cento di vapore aqueo, ed il residuo disidratato si è disciolto in gran parte con effervescenza nell’acido cloridrico lasciando 14,72 per cento di polvere bianca insoluta che ha dato forte reazione di fluore. N.° 11. Dalle stesse tufare di Fiano ho ricevuto alcuni frammenti di rocce calcaree 1) N. 4048-51 della grande collezione del Museo. 2 9 nei quali non avrei potuto credere che si contenessero fluoruri, e farò parola di due qualità tra lora ben diverse di tali frammenti. Nei primi ') vi è calcite compatta con in- dizio-di tessitura laminosa bianchiccia o bruniccia attraversata da ampie fenditure, e le pareti delle fenditure sono tappezzate di prominenze emisferiche con superficie scabre di grandezza variabile da uno a quattro millimetri. Nella stessa calcite compatta di tratto in tratto vi sono minuti globetti facili.a distinguere pel Ioro colore bianchissimo e per la tessitura fibroso-raggiata. Nessuno di questi frammenti era aderente al tufo-nel quale si sono trovati. La principale investigazione è stata diretta sulle prominenze emisferiche con diligenza separate daHa roccia.calcarea compatta alla quale aderivano tenacemente. I loro pezzetti non polverizzati col riscaldamento hanno perduto 1,17 per cento del loro peso svolgendo vapore aqueo. Grm. 0,758 della sostanza riscaldata sono stati solubili con effervescenza nell’acido cloridrico soltanto in parte, lasciando un residuo insolubile di grm. 0,379 formato quasi esclusivamente di granelli vitrei nei quali col microscopio non ho potuto riconoscere alcuna forma distinta. Sottilmente polverizzati questi granelli e trattati con l’ acido solforito hanno dato grm. 0,245 di aumento, e però grm. 0,161 di fluore—=42,49 per cento. La soluzione fatta con l’ acido cloridrico ha dato abbon- dante reazione di magnesia;; quindi risulta dalla precedente ricerca che le produzioni emisferiche sono formate di parti trovate accidentalmente eguali di calcite magnesifera e di fluorina. Ripetuta la ricerca sulla calcite compatta e polverizzata, col riscaldamento vi è stata la:perdita di 3,20 per cento dovuta al vapore acquoso, e la parte insolubile nel- l’acido cloridrico riferita“alta polvere disidratata è stata di 32,23 per cento. Della parte insolubile grm. 0,457 dopo il trattamento con l'acido solforico hanno dato di aumento grm. 0,308, dal quale si ottengono grm: o: ,308-di fluore =44, 16 per cento. Questa quarjlità proporzionale di fluofuro calcico trovata nella calcité compatta non sembrando- mi poter derivare dai minuti globetti che si è detto trovarsi di tratto in tratto nella roccia calcarea, mi son deciso-di procedere a più accurata ricerca. Ho ridotto la stessa roccia in minuti pezzetti, ed ho séelto quelli-nei-quali non appariva che vi fossero corpicciuoli stra- nieri, e per la loro piccolezza non era probabile che ne contenessero internamente. La loro densità si è trovata eguale a 2,697. Osservati al microscopio sono apparsi traslucidi nelle parti di minore spessezza, ma nulla di differente si è potuto scorgere da un punto all’altro che annunziasse-ta mescolanza di sostanze diverse. Immersi nell’acido cloridri- ‘co, dopo lenta e prolungata effervescenza aiutata con. moderato calore, è rimasta una parte insoluta corrispondente al 35,92 per cento. Il residuo insolubile sottoposto al mi- croscopio si è veduto formato di minuti granelli vitrei che senza alcun dubio sono di fluoriva, essendosi già riconoscita precedentemente la presenza del fluore. Nè occorre altra pruova per dimostrare che la roccia compatta sia formata di una mescolanza inti- ma di calcite magnifera e di fluorina. I frammenti della seconda qualità sono terrosi ed in essi vi-è una parte costituita da globetti di grandezza variabile da uno a tre millimetri con tessitura poco distinta fibroso- raggiata e molti granelli polverosi interposti tra i globetti; un’altra parte è compatta e fenduta in diverse direzioni °). In nessuno di essi ho trovato il tufo aderente, quantun- que in quasi tutti vi fosse la parte superficiale del proietto che si riconosce perchè ivi 1) N. 4007:08, dela grande collezione del Museo. 2) N. 3926-27 della grande collezione del Museo SION. | pe sono ammucchiati minutissimi globetti riconoscibili con lente d’ ingrandimento ai quali aderisce poca sostanza terrosa bigia. Non sarà del tutto inutile che io riferisca come per fortuiti incidenti mi sia avvenuto che mi scostassi dal vero nell’esaminare questi fram- menti di rocce terrose bianchissime [a]; ed un altro frummento ') mi è stato pure re- cato che non saprei dire se facesse parte dello stesso proietto, essendo alquanto diverso perchè in gran parte compatto e da un lato soltanto ha molti globetti del diametro di tre a cinque millimetri [b]. I medesimi frammenti somigliano ad alcune varietà della così delta idrodolomite ancor essa globosa e frequente a trovarsi sulle falde del M. Somma, tranne la tessitura fibrosa; mon sempre ben distinta, esclusiva delle varietà di Fiano; ed impressionato di questa somiglianza, e della mancanza del tufo che suol essere aderente alle rocce provvenienti da Fiano, ho sospettato di essere ingan- nato da chi me li aveva portati, tornando a lui commodo di vendermi come produ- zioni straordinarie di Fiano una produzione frequente nel vicino Vesuvio. Nelle prime pruove fatte con piccole quantità dei globetti [a] trovando che nell’ acido cloridrico e- rano quasi completamente disciolti, li ho per circa un anno abbandonati per non occu- parmene non essendo sicuro della loro provvenienza. I risultamenti ottenuti con i pre- cedenti frammenti di calcite magnesifera compatta con-indizio di tessitura lamellosa, an- cor essi ricevuti senza che fossero uniti al tufo, mi ha indotto a ripetere novelle pruove con maggiore quantità dei globetti terrosi e con le parti del frammento non conformato, in globetti. Poco più di grammi trentuno della varietà globosa dei frammenti [a] si so- no disciolti nell’acido cloridrico allungato non lasciando.che poche tracce di materie in solute. Da grm. 1,693 del frammento [b] ho avuto grm. 0;080 di residuo insolubile, val quanto dire 4, 73 percento, e dal medesimo ho avuto forte reazione di fluore. An- cora più inaspettati sono stati i risultamenti avuti dalla parte terrosa in forma di tavolette compatte dei frammenti [a] e da una seconda pruova fatta con altro pezzetto del fram- mento [b]. Nel primo caso da gram. 4,836 ho avuto di residuo insolubile grm. 0,997 che danno 20,61 per cento; nel secondo caso grm. 7,610 hanno dato di residuo in- solubile grm. 1,348 ovvero 17,71 per cento. Quanto alla composizione della parte in- solubile nell’acido cloridrico, per la forte corrosione cagionata nel vetro, quando si è fatta l’esperienza con l’acido solforico, si dimostra senza alcun dubio che essa sia formata di fluoruri. Ricercata la quantità proporzionale di fluore, da grm. 0,262 del residuo avuto dai frammenti [a] si è avuto l'eccesso di grm. 0,193, dal quale si deduce la quantità del fluore eguale a grm. 0,1252 Ovvero 41,79 per cento. Grm. 0,303 del residuo insolu- bile del frammento [b] hanno dato di eccesso gram. 0,226, quindi grm. 0,148 di fluo- re—=48,85 per cento. Non posso nascondere le difficoltà che incontroa rendermi ragione del come si siano formati questi proietti terrosi che in alcune loro parti conteugono eran copia di fluore ed in altre scarsissima o quasi nulla. Consideraiido i particolari dei frequenti saggi d’ idro- dolomite dell’antico Vesuvio ho creduto potersi iutendere la loro formazione supponendo - che in origine siano stati frammenti di calcite che hanno perduto l'anidride carbonica ‘ per l’ elevata temperatura alla quale:sono stati esposti, e ridotti allo stato di calce, Sono eruttati dal:vulcano e depositati nel: conglomerato ove.ora li troviamo. In seguito la pro- lungata e lenta azione dell’anidride carbonica e dell’ acqua penetranti ove essi stavano - 1) N. 3928 della grande:collezione del Museo. n7-o sp ca sepolti li ha mutati in idrodolomite. Se si volesse applicare la stessa origine ai fram- menti [a] e [b], non vi sarebbe altro di diverso se non che la calce eruttata si fosse tro- vata unita ai fluoruri; 0 che posteriormente si fosse in parte mutata in fiuoruro. N. 12. Il proietto del quale in questo articolo riferirò i particolari mi sarebbe stato u- lile se avessi potuto osservarlo intero, ed a giudicare dai frammenti che mi sono stati recati del peso di trenta due chilogrammi, esso doveva essere di straordinaria grandezza. In alcuni dei medesimi frammenti, essendovi ancora un pò del tufo aderente, si scorge con sicurezza quale fosse la loro superficie esterna; ed è in questa parte superficiale ove sì trova un carattere speciale che non s’incontra in nessun’altra delle rocce di origine net- tuniana incastonate nel tufo. La superficie, che facilmente si separa dal tufo col quale combaciava, ha tessitura cristallina quale si avrebbe da piccoli cristalli di augite o di an- fibolo nericcio tra loro confusamente ammucchiati; in altre parti della medesima super- ficie la tessitura cristallina si manifesta per piccole prominenze splendenti. Nei fram- menti osservati ') lo strato superficiale che si mostra con tale tessitura cristallina [a] non é mai più doppio di due millimetri, e ad esso succedono sostanze variabili di colo- re e tessitura, essendo ora nericce ora brune, ora rossicce con tessitura in alcuni punti granellosa ed altrove lamellosa [b]; e le varietà di colore rossiccio sono attraversate da frequenti vene bianche con tessitura lamellosa [c]. Queste sostanze continuano per la spessezza che d’ ordinario è di circa cinque centimetri, ma in qualche punto è poco meno di quindici centimetri, e quel che si trova in seguito varia secondo i frammenti che mi sono pervenuti. Nel frammento più grande, di centimetri 28 per centimetri 25, si scuopre ampia superficie in alcuni punti ricoperta da sottile strato di calcite granel- losa sul quale serpeggiano in diverse direzioni alquanti filetti prominenti ancor essi di calcite, in altri punti si hanno cristalli romboedriei di calcite; ovvero si hanno pro- minenti cristalli bislunghi metamorfizzati [d]. Tra i frammenti di maggior mole che fa- cevano parte dello stesso proietto ne ho ricevuto due, uno formato di calcite granellosa mista a calcite terrosa, l’altro più grande formato di semplice calcite granellosa ?), e mi è facile congetturare che essi sono la parte della primitiva roccia calcarea che non ha subito cambiamento di composizione, e soltanto siasi cambiata la sua tessitura. Ricercata la composizione sia del sottile strato superficiale [a], sia delle sostanze variamente colorate [2] ho trovato essere assai complessa e variabile. Per ciò che ri- guarda l argomento del quale ora mi occupo sarebbe fuori proposito esporre le loro analisi quantitative, e basta sapere che sì nell’uno come neile altre sono predominanti la silice, la calce, l'anidride carbonica, il fluore e l’acqua; vi sono pure in quantità mi- nori la magnesia e gli ossidi di ferro e manganese. Il silicato è scomposto dagli acidi lasciando la silice gelatinosa; la quantità dell’acqua è molto variabile, d’ordinario di circa tre per cento, e nella sostanza rossa è di circa dieci per cento. Egli è chiaro che staidovi la silice, la presenza del fluore non si può riconoscere per la corrosione del vetro cagionata dal fluorido idrico che si sprigiona col metodo ordinario dell'acido solforico. Intanto mi sono assicurato della presenza del fluore fondendo col carbonato sodico-potassico la polvere ottenuta sia dalla sottile crosta [a] sia dalle sostanze varia- mente colorate [4]. D’ordinario la mescolanza fusa è riuscita colorata in verde azzurro 1) N, 3821 e 2907-08 deila grande collezione del Museo, 2) N. 4052-53 della grande collezione del Museo. sic più o meno intenso. Separata con acqua bollente la parte solubile della mescolanza fu- sa, ho fatto alquanto acida la soluzione alcalina con l’acido acetico , quindi ho aggiunto la soluzione del cloruro calcico che non ha mancato di produrre forte intorbidamento. Da ultimo raccolto il precipitato così ottenuto, mi sono assicurato essere fluoruro di cal- cio per la reazione caratteristica dei fluoruri. Quanto alle vene bianche [c] mentre esse contengono pure la silice, e l'anidride carbonica come le altre sostanze colorate, hanno di particolare di contenere gran quan- tità di fluorina laminosa trasparente, che mi è stato agevole riconoscere misurando le inclinazioni delle superficie di sfaldatura che ho trovato corrispondere al valore degli angoli diedri dell’ ottaedro regolare. Per i cristalli bislunghi [d] non cade dubbio che siano metamorfizzati, essendo 0- pachi, con faccette scabre, e talvolta internamente con interposti spazietti vuoti. Qual- cuno di essi sì è completamente disciolto nell’acido cloridrico ; i più, dopo rapida effer- vescenza nello stesso acido, sono rimasti per la maggior parte insoluti. Della parte non disciolta grm. 0,160 con l’ acido solforico han manifestato energica reazione di fluore, e nel residuo si è trovato l’aumento di grm. 0,080. Quindi grm. 0,0524 di fluore=32,75 per cento. N.° 13. Aragonite filiforme '). Provvenienti dalle tufare di Fiano ho ricevuto alquanti frammenti contradistinti dallo specioso carattere di contenere molti bianchi filetti rigidi della grossezza inferiore a mezzo millimetro formati di carbonato calcareo che son di avviso doversi considerare come particolare varietà di aragonite. Probabilmente essi appartengono allo stesso proietto, e trovo meritevole di attenzione i particolari osservati in alcuni dei medesimi frammenti. L’aragonite filiforme trovasi ammucchiata sulla cal- cite granellosa; sì la calcite come la sovrapposta aragonite sono contenute nel tufo che aderisce alla calcite per due lati quasi paralleli. Intanto nelle fenditure del tufo vi sono altri filetti di aragonite che non sono in comunicazione con quelli aderenti sulla calcite. Che l azione trasformatrice delle esalazioni vulcaniche abbiano mutata in aragonite fi- liforme la calcite della roccia nettuniana primitiva è cosa di cui possiamo renderci fa- cilmente ragione; ma più ammirevole mi sembra che la stessa aragonite filiforme siasi depositata nelle fenditure del tufo senza essere in comunicazione con la calcite. Alla calcite granellosa dalla parte opposta a quella occupata dall’aragonite aderi- sce uno strato di spessezza variabile tra otto e quattordici millimetri di sostanza somi- gliante al quarzo piromaco [a], ed a questo strato succede calcite variamente concrezio- nata mista a sostanza di apparenza terrosa gialliccia [b]. Lasciando da banda la calcite granellosa e l’aragonite filiforme sulle quali non ho fatto altra ricerca se non di assicu- rarmi che sono completamente solubili con effervescenza nell’acido cloridrico, mi sono con più diligenza occupato dello strato [a] e della sostanza terrosa [b] somigliante a tufo calcareo. Il primo ha in particolar modo richiamata la mia attenzione per i suoi caratteri ap- parenti che non hanno nulla di comune con i caratteri delle sostanze incontrate negli altri proietti. Il suo colore è nei diversi punti variabile tra il bruno rossiccio più o meno chiaro ed il nericcio, è traslucido ove il colore è più chiaro, e quasi opaco ove è più 0- scuro. A prima giunta ho creduto essermi imbattuto con uno strato di piromaco della roccia nettuniana sbalzata nell’esordire l’incendio, ed ho voluto definire gli altri suoi ca- 1) N, 3924-25 della grande collezione del Museo. ATI — Vol. II. — Serie 2. — N. 2. 5 rat ralteri, non sembrandomi probabile che contenesse fluore. Ho trovato la sua densità e- guale a 2,56, la durezza di poco superiore a quella della calcite; è in parte solubile con effervescenza negli acidi anche in quei punti ove non apparisce alcuna mescolanza con la calcite. La sua polvere riscaldata al calor rosso nascente svolge vapore aqueo, che in due pruove fatte ho trovato corrispondere a 19,72 ed 11,47 per cento. La polvere che aveva perduto 10,72 per cento, riscaldata di nuovo al calor bianco sino a dare due pe- sate eguali, ha subìto una nuova perdita dovuta all’ anidride carbonica corrispondente a 6,98 per cento della sostanza primitiva. Della completa espulsione dell’ anidride car- bonica mi sono assicurato aggiungendo al residuo |’ acido cloridrico, che non ha pro- dotto effervescenza. L’ altra polvere che col riscaldamento aveva perduto 11,47 per cento del suo peso è stata trattata con acido cloridrico, bollente che |’ ha disciolta in gran parte; e nella soluzione, oltre la calce in gran copia, vi ho riconosciuto pure la presenza dell’allumina, dell’ossido ferrico e della magnesia in piccola quantità. Persua- so da questi saggi che lo strato [a] non costituisce una particolare specie mineralogica, e da un esperimento fatto con l’acido solforico, avendo avuto quantunque debole la cor- rosione del vetro, con un’altra porzione della medesima sostanza mi sono occupato a determinare la quantità della silice e del fluoruro calcico, almeno approssimativamente. Dopo la fusione con carbonato sodico-potassico, ho disciolto con acqua stillata la parte solubile, e nella soluzione alcalina ho aggiunto acido acetico alquanto eccedente e poi la soluzione di cloruro calcico. Ho trovato il fluoruro calcico avuto per precipitazione eguale a 38,48 per cento. Nella parte insolubile nell’acqua, tolto ciò che era solubile nel''acido cloridrico, no trovato il residuo insolubile, che contiene, se non tutta la mag- gior quantità della silice, eguale a 17,34 per cento. Essendo i risultamenti ottenuti suffi - cienti allo scopo del presente lavoro, non ho stimato occuparmi di una rigorosa analisi quantitativa che sarebbe stata non poco difficile. Quindi deducendo dalla quantità di anidride carbonica trovata, la quantità della calce ad essa combinata, abbiamo in parti centesimali: HO 10,72 Ca0 CO: 13,33 Si 0; 17,34 Ca FI 38,48 79,87. Ciò che manca per giungere a cento devesi attribuire all’ alluimina, all’ossido fer- rico ed alla piccola quantità di magnesia. Quanto alla sostanza terrosa [5] essa è per la maggior parte solubile con efferve- scenza negli acidi, ed avendovi cercato la presenza del fluore col solito metodo dell’ a- cido solforico, la corrosione del vetro non è comparsa se non assai leggiera alitando su di esso. Non contento di sì debole reazione, e sospettando che la presenza della silice a- vesse impedita una reazione più chiara, ho ripetuto il saggio come nel caso precedente ed ho avuto col cloruro calcico notevole precipitato, dal quale ho ottenuto profonda cor- rosione del vetro. N.° 14. L’enorme masso di calcite granelloso-compatta descritto a pag. 11°) non 1) N. 3, 817-19 della grande collezione del Museo. È sì è trovato incastonato nel tufo come i proietti fin qui menzionati. Esso giaceva alla profondità di metri diciasette sotto il tufo sopra un deposito di materie terrose che suc- cedono alla roccia tufacea compatta. Queste materie terrose a grana fina con qualche frammento di pomice e di ortoclasia vitrea, giudicandole dall’ apparenza si sarebbero credute l'antica terra vegetale anteriore alle eruzioni vulcaniche, sulla quale è venuto a depositarsi il tufo. Ma osservate al microscopio, i graneili più minuti si scorgono essere i più vitrei bianchi uniti a minutissimi filetti ancor essi vitrei e nericci: quindi non cade alcun dubbio che siano un deposito di sabbie vulcaniche. La superficie del masso calcareo che poggia sulle sabbie non è mai la roccia calcarea pura. Ad essa aderiscono tenace- mente molti granelli della sottoposta sabbia, ed in molti punti rilevano alcune bozze 0 protuberanze [a] di varia grandezza che hanno tessitura cellulosa, in guisa da lasciare incerto chi le osserva se siano pezzetti di pomici saldate al masso calcareo, o promi- nenze generatesi su di esso per metamorfismo della parte superficiale della calcite ori- ginato dalle esalazioni fluoriche. La stessa parte esterna del masso calcareo è per la spessezza variabile di due a dodici millimetri formata di sostanza biancastra compatta [6] in alcuni punti con tessitura cristallina, ed a questo strato superficiale succede so- stanza terrosa gialliccia friabile [c] che precede la calcite granelloso-compatta. Final- mente a partire dalla parte superficiale s’incontrano nella roccia calcarea frequenti vene di sostanza terrosa giallastra [d] somigliante alla precedente, quantunque meno friabile. La parte interna delle bozze [a] non fa effervescenza con l’acido cloridrico , e ri- scaldata al calor rosso ha perduto 18,12 per cento del suo peso. Grm. 0,175 della sua polvere han dato con l'acido solforico distinta reazione del fluore, ed il peso si è aumen- tato di grm. 0,083, dal quale aumento si deduce il fluore eguale a grm. 0,0544=31,08 per cento. Lo strato superficiale [6] ha perduto col riscaldamento 22,58 per cento del suo peso. Grm. 0,217 della sua polvere hanno prodotto con l’acido solforico forte corrosio- ne del vetro, ed il loro peso si è aumentato di grm. 0,122; e però si ha di fluore gram. 0,0799==36,82 per cento. Dalla stessa polvere si è avuto con l’acido cloridrico debole effervescenza, e per conseguenza la quantità centesimale di fluore deve ritenersi al- quanto minore di quella trovata, dappoichè una piccola porzione dell’ aumento nel peso trovato dopo il trattamento con l’acido solforico deve attribuirsi all’acido solforico che ha sostituito l'anidride carbonica. La sostanza terrosa [c] che succede allo strato superficiale compatto ha perduto al calor rosso 19,44 per cento del suo peso; ancor essa fa con l’ acido cloridrico debole effervescenza, e prima di procedere alla ricerca del fluore, ho adoperato l’acido acetico per disciogliere ed eliminare il carbonato di calcio. Così preparata la polvere, ha mani- festata distinta la solita reazione del fluore con |’ acido solforico. Da grm. 0,230 della polvere, privata del carbonato calcico e riscaldata al calor rosso, ho avuto grm. 0,105 di aumento, dal quale si hanno grm. 0,0668 di fluore=209,91 per cento. Finalmente le vene [d] che sono nell’interno della roccia calcarea per i saggi fatti con la sostanza presa in due parti ove appariva qualche differenza, hanno dato col ri- scaldamento la perdita di 10,13 @ 14,19 per cento; con l’acido cloridrico hanno dato effervescenza alquanto abbondante, e con l’acido solforico non hanno dato alcun segno di contenere fluore. La grande somiglianza di queste vene con le sostanze riconosciute fluorifere della parte del masso calcareo che poggiava sulla sabbia mi ha fatto pensare * ol») — 36 — che il non avere avuto la reazione del fluore poteva dipendere dal trovarsi in esse la si- lice in qual si voglia maniera combinata. Quindi ho ripetuto lo esperimento come si è detto per le sostanze del N. 13, ed in fine dell’operazione il cloruro di calcio ha dato il precipitato nel quale mi è stato facile con l’acido solforico riconoscere il fluore. Dai precedenti esperimenti istituiti per riconoscere la presenza del fluore in quelle sostanze che non costituiscono specie mineralogiche riconoscibili ai caratteri apparenti possiamo conchiudere essere il fluore nei tufi di Fiano e di Fossa lupara più diffuso e più abbondante di quanto avremmo potuto prevedere; e nei moltissimi proietti rac- chiusi nei medesimi tufi non se n’ è trovato alcuno che non contenesse fluore. Ho esa- minato e descritto moiti proietti tra loro diversi affinchè dalle loro descrizioni apparis- se quanto siano stati svariati i risultamenti ottenuti dalle esalazioni fluorifere sulle roc- ce nettuniane, e non ho dato la descrizione di altri proietti che avrei potuto aggiunge- re, sembrandomi i già descritti sufficienti e forse troppo. Fenomeni di metamorfismo riconoscibili nei depositi tufacei. 11 fatto più ragguarde- vole che ci attesta le trasformazioni avvenute negli aggregati tufacei di Fiano e di Fos- sa lupara lo abbiamo nelle già descritte rocce nettuniane metamorfizzate in fluorina e silicati che vi sono racchiuse. La cagione di questa trasformazione si è veduto essere stato il fluorido silicico emanato in grande abbondanza dalle bocche eruttive. Abbiamo poi altri fatti che ci attestano i cambiamenti avvenuti per la mutata compage della stessa roccia tufacea e per novelle specie di minerali che si sono in essa generate; dei quali cambiamenti, se n’ eccettui 1 elevata temperatura, non sappiamo quali altre cagioni han contribuito a produrli. D’ ordinario il tufo si rinviene con i caratteri che chiaramente contraddistinguono le rocce di aggregazione, essendo formato di neri frammenti scoria- cei e varie qualità di piccoli granelli talvolta uniti con debole coesione, ovvero con- giunti tenacemente, ma facile a distinguere gli uni dagli altri. In alcuni luoghi, delle tu- fare di Fiano specialmente, esso è divenuto assai consistente come per un principio di fusione succeduto nei suoi elementi non più distinti gli uni dagli altri, e la roccia è al- quanto somigliante al piperno di Pianura, pel quale vi è chi pensa che sia una lava vulcanica, e chi crede che sia un conglomerato metamorfizzato. Non di meno tra le va- rietà della roccia tufacea nelle quali si scorge chiara la mutata compage, e quelle più comuni ancor esse tenaci senza chiari indizii di fusione nei loro elementi, non si può stabilire un limite facile a riconoscere. Nel medesimo tufo si sono generate alquante specie mineralogiche non derivate dalla trasformazione delle rocce netiuniane. La specie che a preferenza delle altre me- rila esser presa in considerazione è l’ematite che si è trovata nella roccia tufacea di Fiano che presenta i riferiti caratteri di trasformazione. Essa è in forma di cristalli aci- culari riuniti in ciocche, e quantunque questa rara conformazione dei suoi cristalli sia ben diversa dalle varietà romboedriche e laminari molto frequenti nei crateri dei vul- cani, ove si ritiene che derivino dalla seambievole scomposizione dei vapori di cloruro ferrico e di acqua, pure mi sembra che si debba riconoscere la medesima origine per i cristalli aciculari, e per conseguenza essi valgono a dimostrare l'emanazione del clo- ruro ferrico negl’ incendii di Fiano. I cristallini di microsommite si trovano ancor essi cosparsi nel tufo di Fiano indub- biamente prodotti per effetto di sublimazioni come quelli di ematite, e come quelli per — di la prima volta trovati nel 1872 nei conglomerati metamorfizzati del Vesuvio). I cristalli di questa specie assai spesso sono aderenti alla superficie dei proietti micacei, e per essi si può considerare che alla loro genesi abbia contribuito la roccia nettuniana che si è mutata in proietto micaceo. Ma trovandosi pure sparsi nel tufo senza alcuna relazione con i medesimi proietti, è d’uopo convenire che ancor essi costituiscono un fallo speciale atto a dimostrare il metamorfismo patito dallo stesso tufo. Anche a Fiano le nere scorie cavernose spesso contengono aderenti alle pareti delle interne cavità molti cristallini bianchi assai minuti con vivace splendore vitreo. Somiglianti cristallini non ho mai osservato nelle scorie nere di Fossa lupara, ed in generale a Fiano più che Fossa Lupara sono cospicui i caratteri delle trasformazioni avvenute. Intanto mi è stato impossibile riconoscere a quale specie mineralogica essi appartengono. Per l’estrema piccolezza, anche facendo uso del microscopio, nulla mi è riuscito distinguere della loro forma; e nell’acido cloridrico bollente si conservano af- fatto inalterati. D'altra parte non potendoli distaccare dalle scorie, non si ha la possi- bilità di adoperare altri metodi analitici, perchè si analizzerebbe una mescolanza for- mata dai medesimi cristallini in piccola parte uniti a maggior parle delle scorie, e si avrebbero risultati inconceludenti. Volendo avventurare su di essi un giudizio alquanto probabile, li stimerei formati di quarzo. Ed in fine a qualunque specie si vogliano rife- rire saranno sempre una specie mineralogica prodottasi nel tufo per effetto di sublima- zioni. Si è innanzi (pag. 14) fatto parola di bianchi filetti silicei che si trovano serpeg- gianti sulle pareti delle anguste fenditure del tufo assai più frequenti a Fossa Lupara che a Fiano. La produzione di questi filetti suppone le preesistenti fenditure della roc- cia che non si potevano avere se non quando essa era consolidata. Aggiungo di più che in talune di tali fendilure si sono introdotti non pochi granelli liberi di varia natura, tra i quali sono non rari i frammenti di ortoclasia vitrea, ed anche ai granelli come alle pa- reti delle fenditure aderiscono i filetti silicei. Egli è però manifesto che questi si sono formati nel periodo più recente dei fenomeni che han metamorfizzato il tufo, quando forse, abbassatasi la temperatura delle esalazioni, il fluorido silicico, in presenza del- l’acqua si è scomposto depositandosi la silice. Nella tafara B, Tav. II, di Fiano mi è occorso un altro fatto pel quale non ho tali dati da poter dare sicuro giudizio. Negli altissimi tagli fatti nella roccia di questa tufara, meglio che nella tufara A e nell’altra di Fossa lupara, si osservano in diverse direzioni fenditure molto estese, e le pareti di queste fenditure in alcuni luoghi sono ricoverte di polvere nera, altrove la polvere è rosso-bruna, e vi sono molte fenditure che non hanno nè luna nè |’ allra polvere. Queste due qualità di polveri con una spazzola a rigido pelo si distaccano facilmente dalla roccia, restando sempre aderente alla medesima roccia una porzione che non si giunge a distaccare. La polvere nera osservata al microscopio si scorge formata di minutissimi granelli nericci con lucentezza metallica ai quali sono uniti alquanti granelli bislunghi dello stesso colore e splendore, e moltissimi granelli bianchi vitrei. Questi ultimi è fuori dub- bio che sono particelle appartenenti al tufo e da esso distaccate con la spazzola. Dei granelli neri alcuni sono leggermente attratti dalla calamita, e questo carattere unito 1) Contribuzioni mineralogiche per servire alla storia dell'incendio Vesuviano del 1872. Atti della R. Accad. delle Scienze Fis. e Mat. di Napoli, Vol. VI, pag. 63-61. =" agli altri del colore e dello splendore sono sufficienti perchè si debbano ritenere for- mati di ematite; e ciò viene confermato dalla maniera come si comportano con l’ acido cloridrico bollente che li discioglie quasi completamente e nella soluzione si riscontra- no i caratteri del cloruro ferrico. Quindi sono di avviso che la polvere nera, come i cri- stalli di ematite aghiformi riuniti in ciocche rinvenuti nella tufara A, siasi prodotta per effetto di sublimazioni ; e debbo aggiungere che in alcuni luoghi si è depositata gran copia di ematite polverosa, avendola osservata sopra una superficie che, a giudizio del- l'occhio era circa cinque metri alta e tre larga. Quanto alla polvere rosso-bruna, sparsa su lastra di vetro e sottoposta al microsco- pio, ho osservato che essa si raccoglieva in piccoli gruppi di granelli vitrei bianchi, u- niti ad altri opachi rossastri come sogliono aggrupparsi le polveri formate di granelli e- stremamente piccoli facili a ritenere un po’ della umidità atmosferica; e vi erano uniti frequenti granelli bislunghi assai più grandi di color bruno tendente al rossastro, i quali sembrami che propriamente costituiscano la polvere rosso-bruna, essendo i minutissimi granelli vitrei particelle appartenenti alla roccia tufacea. Esposta la polvere al calor rosso ha perduto 4,93 per cento del suo peso, e se si consideri che vi erano mescolate le par- ticelle anidre del tufo, la quantità centesimale dell’ acqua appartenente alla polvere pura risulta maggiore. Nell’acido cloridrico bollente si comporta come l’ ossido ferrico; e mi sembra assai probabile che questa polvere rosso-bruna tolte le materie straniere che vi sono mescolate, sia formata di limonite. Inclino pure a credere che sia ematite metamorfizzata in limonite. Giacimento del tufo. Non ho trascurato visitando i depositi di tufo della Campania investigare il loro giacimento, nella quale ricerca di raro ho potuto saperne più di quello che apparisce esternamente, e sempre meno di quello che avrebbe potuto riuscire di mia piena soddisfazione. Qualche cosa, e la più importante, riferibile a questa ricerca mi è avvenuto riscontrare nel taglio praticato nella roccia ove la ferrovia mette capo al tra- foro che precede la stazione di Codola. Dalla tufara A, tav. II, all’altra B il suolo di- scende con dolce pendio, in guisa che per rendere orizzontale il piano della strada, il taglio ha posto allo scoverto per qualche tratto la disposizione delle rocce che sono a sinistra della strada muovendo da Sarno. Nella tav. III, fig.1, è rappresentata la parte scoverta dal taglio per sessanta metri prima di giungere al traforo, come la trovai il dì 4 Maggio del 1883. In A è figurata la roccia calcarea stratificata in contatto col pilastro sinistro 6 dell’apertura del traforo ; e di essa non si osserva la continuazione inferior- mente, perchè ricoperta dalla terra caduta dalle parti superiori, e dal muricciuolo €, € in- nalzato per impedire che la soprastante terra scendesse ad ingombrare la strada. In B è tufo vulcanico, in € è terra coltivabile ricoperta di piante spontanee siano arboree siano erbacee. Lungo il tratto a, a tra il tufo e le materie che sembrano terra vegetale s’inter- pongono due sottili strati. Il primo immediatamente sotto il tufo, della spessezza di 1o a 13 centimetri, è formato di finissima sabbia, l’altro ad esso sottoposto, della spessezza di 9 a 14 centimetri, è formato! di pezzuoli di pomici bianchicce. Nell’osservare questi due piccoli strati spontaneo mi si presentò alla mente il primo desiderio di conoscere la provvenienza degli elementi che li costituiscono, non avendo essi nulla di comune col sovrapposto tufo, nè con alcuno degli aggregati vulcanici della Campania; e si ve- drà in breve, dopo esaminati i loro particolari, qual sia 1’ opinione che meglio si ac- corda con i fatti osservali. so — Intanto le materie immediatamente sottoposte allo straterello delle pomici, nel mo- do come erano state scoverte dal taglio praticato nella costruzione della strada, e non ingombrate dalla terra coltivata caduta dalle parti superiori, mi si offrirono in tutto somi- glianti all’ ordinaria terra vegetale; e come al primo vedere il sabbione incontrato sot- toposto al tufo alla profondità di diciassette metri, mi parve con maggiore probabilità avere scoverto l’antica terra vegetale formatasi prima che scoppiassero le eruzioni vul- caniche della Campania. Quindi fui sollecito a prenderne un campione per esaminarle senza che fossero mescolate con la recente terra vegetabile sovrapposta al tufo. Per esa- minare comodamente i granelli di diversa grandezza delle medesime materie ho sepa- rato con ripetute decantazioni la parte più sottite, poi con uno staccio a piccole maglie ho separato i granelli più piccoli dagli altri più grandetti. In nessuna di queste tre por- zioni ho avuto effervescenza con l’ acido cloridrico. La polvere più sottile osservata al microscopio si scorge formata di minutissimi granelli vitrei uniti a maggiore quantità di granelli opachi. Esposta al calor rosso ha perduto 12,70 per cento del suo peso che per l’esposizione all’ambiente ha in parte riacquistato, il suo colore da giallo bruniccio sì è multato in giallo-rossiccio senza che sia apparso alcun punto nero che avrebbe in- dicato la presenza di sostanze organiche. La polvere grossclana separata con lo staccio e per la maggior parte formata di minute pomici, che per la loro forma rotondata dimo- strano essere state esposte all’azione delle acque fluenti. Vi son pure frequenti granelli di ortoclasia, ed altri di colore bigio-nericcio con isplendore metallico energicamente magnetici. A questi si unisce qualche rara laminuccia esagonale di mica, ed alquanti granelli rotondati di tale roccia formata di sostanza nera con punti bianchi vitrei. Fi- nalmente la parte rimasta sullo staccio è formata quasi esclusivamente di minuzzoli ro- tondati di pomici che non eccedono la grandezza di quattro millimetri. Quindi ho dovuto conchiudere che anche le materie sottoposte allo strato di po- mici sono di origine vulcanica, e probabilmente riposano sulla vicina roccia calcarea ; la qual cosa mi sarebbe stata ostensibile se avessi potuto visitare quel luogo immediata- mente dopo il seguito taglio delle rocce. Ritornando ai due strati sottoposti al tufo, debbo soggiungere per i medesimi che le pomici che costituiscono lo strato inferiore sono bianchicce, destituite di splen- dore o debolmente splendenti nella superficie delle fratture; per la loro tessitura sono porose con piccole cellette di tratto in tratto interposte nella massa porosa; e tra le sostanze straniere che racchiudono sono frequenti i piccoli cristalli di mica nera, e meno frequenti taluni cristallini neri magnetici ed i cristalli di ortoclasia vitrea. Per la loro grandezza di raro oltrepassano quindici millimetri in diametro, e le più piccole pomici essendo ritondate può argomentarsi che esse siano state trasformate dalle acque fluenti nel luogo ove ora sono depositate. Unitamente alle pomici vi sono alquanti fram- menti di cristalli di ortoclasia vitrea ancor essi un po’ consumati per superficiale attrito sofferto, e meno frequenti vi sono altri piccoli frantumi di rocce litoidee nericce. Lo straterello sabbioso è per la massima parte formato di finissima polvere impal- pabile, che osservata al microscopio si scuopre costituita di bianche laminucce vitree di estrema sottigliezza. È tale la forma irregolare e la sottigliezza di queste laminucce che è facile comprendere la loro origine derivare da una roccia qualunque che siasi gonfiata in bollicine con esilissime pareti trasparenti, le quali bollicine scoppiando, o altrimenti stritolate abbiano fornito quella polvere impalpabile. La forma laminare di questi minu- =. A tissimi granelli esclude la probabilità che potessero derivare dall’ attrito meccanico di rocce vulcaniche, a meno che non si volessero supporre tali rocce che abbiano in tutto struttura spumosa, val quanto dire formata di bollicine con sottilissime pareti, quali tal- volta s'incontrano in taluni punti soltanto dell’ossidiana di Lipari. A me sembra più probabile che le osservate laminucce derivino dallo scoppiare delle bollicine superficiali di una lava fluente, e di tale natura che col raffreddamento si consolidi in massa vitrea somigliante all’ ossidiana. Per la loro minutezza i granelli dello strato sabbioso sono comparabili a quelli della così detta cenere vulcanica, e discorrendo altrove ‘') della cenere, o meglio sabbia, spesso eruttata dal Vesuvio, ho esposto le ragioni che dimostra- no la sua origine dallo scoppiare le bollicine superficiali della lava fusa. Ritenendo es- ser questa la maniera di prodursi le ceneri vulcaniche, ed avvisando che in tal modo siansi prodotti i minutissimi granelli dello strato sabbioso, debbo soggiungere che i me- desimi non sono per nulla comparabili con quelli della cenere vesuviana. Come può riscontrarsi nella citata memoria, avendo avuto l’occasione di osservare molti saggi delle ceneri vesuviane eruttate dal 1822 al 1872, i granelli che le costituiscono sottoposti al microscopio si veggono ritondetti, non mai laminari, e sono quasi tutti riferibili alla leucite, spesso parzialmente ricoverti dalla sostanza nericcia della lava. Separata con finissimo staccio la sottil polvere, che forma circa i nove decimi dello strato sabbioso, tra i rimanenti granelli più grandi sono frequenti quelli di color nero e vitrei, e tra questi se ne trovano taluni che nei punti di maggiore spessezza sono neri ed opachi, e nelle parti sottili sono bianchi e trasparenti. Nè sono rari i frammenti di cristalli di ortoclasia vitrea, spesso con la medesima sostanza nera dei precedenti gra- nelli aderente alla loro superficie. Vi sono altresì alquanti minuzzoli di pomici di qua- lità diverse, alcuni con tessitura fibrosa e jfibre alquanto splendenti, altre sono cellu- lose con vivace splendore tra il vitreo e il margaritaceo, ed altre finalmente porose e destituite di splendore. In questi ultimi, che non sono diversi dalle pomici del sottopo- sto strato si nota una speciale condizione nella loro forma rotondata che dimostra es- sere stati soggetti al trasporto per le acque fluenti. Nella parte esplorata delle contrade vulcaniche dell’Italia meridionale non mi si è offerta l’occasione di osservare alcun deposito sabbioso che in certo modo somigliasse quello del descritto strato sottoposto al tufo, nè alcuna lava che, essendo vitrea come l’ossidiana, sia probabile che nell’indicato modo di prodursi le ceneri vulcaniche, po- tesse dare origine a finissima sabbia con granelli laminosi. La trachite della regione flegrea talvolta per gradi da litoidea diventa di color nero e vitrea, siccome se ne ha l’esempio negli scogli detti pietre nere nella estremità orientale della marina di Mini- scola; nè sono rari nella parte boreale della medesima regione i pezzi isolati di nera trachite vitrea che si confonderebbero con l’ossidiana se non fosse la loro fragilità, con frattura irregolare, non concoide, e l'essere cosparsi di cristalli di ortoclasia vitrea. Mal- grado queste condizioni reperibili nelle rocce dei Campi flegrei, non reputo probabile che dalle medesime provvengano i granelli dello strato sabbioso. Nel prossimo Vesuvio e nei più discosti vulcani di Roccamonfina non ci ha nulla che potesse far supporre da essi provvenire gli stessi granelli. Per quello che ho potuto verificare nella stessa tufara B, tav. II, di Fiano sembra più conforme al vero che essi abbiano avuto origine nello stesso luogo ove si è depo- 1) Sulla origine della cenere vulcanica—Rendiconto della R.Accad. delle Scienze Fis. e Mat. di Napoli, Agosto 1872. ud — sitato il tufo. Verso la parte settentrionale della tufara, cavata la roccia sino alla profon- dità di diciassette metri, sottoposto al tufo si trova sabbione nericcio pur esso di origine vulcanica. Nell’esaminare questo sabbione ho separato per decantazione la parte più sottile ch'è una polvere impalpabile; con uno staccio a maglia non molto stretta ho se- parato i granelli del diametro non maggiore di un terzo di millimetro; e tra i granelli più grandi sono rimasti molti pezzuoli di due a quattro millimetri di diametro, e qual- cuno più grande sino ad avere il maggior diametro di dodici millimetri. La polvere impalpabile osservata al microscopio si è trovata risultare di particelle la maggior parte bianche vitree, e talune di esse laminari come i granelli dello strato sabbioso. I granelli usciti dallo staccio sottoposti ancor essi al microscopio sono in gran parte vitrei, alcuni neri, altri bianchi, e ve ne sono di quelli che nelle parti di maggiore spessezza sono neri ed opachi, e nelle parti più sottili sono bianchi e trasparenti, del tutto somiglianti a quelli della medesima grandezza dello strato sabbioso. Ci ha di più che tra i pezzuoli più grandi non solo ne ho osservati alcuni in parte neri ed opachi ed in parte bianchi e trasparenti, ma essendovi non rari frammenti di cristalli di ortoclasia vitrea, questi sono spalmati in alcuni punti di sostanza vitrea nera come quelli dello strato sabbioso. Questi caratteri di somiglianza giudico sufficienti per dimostrare che il sabbione raccoli » sotto il tufo alla profondità di diciassette metri, e lo strato sabbioso scoverto dal taglio della ferrovia abbiano la medesima provvenienza da eruzioni avvenute nello stesso luogo ove sono le tufare di Fiano. Avendo esposto le ragioni che mi fanno credere la sottilissima polvere dello strato sabbioso essersi prodotta, come le ceneri vulcaniche, dallo scoppiare le bollicine su- perficiali di una lava fusa, incontro un ostacolo alla mia opinione, per non essersi tro- vata alcuna lava sia nelle tufare di Fiano, sia in altri depositi tufacei della Campania. Ma senza insistere a voler sostenere una opinione, che quantunque fondata su buone ra- gioni, non è una evidente e necessaria conseguenza dei fatti osservati, debbo far no- tare che le materie incontrate sotto il tufo già ci mostrano indubbiamente che l’eruzio- ne che ha dato origine al deposito tufaceo è stata preceduta da altre eruzioni di ben diversa natura. Le materie costituenti il sabbione non hanno nulla di comune con quelle che costituiscono il tufo, se ne togli la presenza dei cristalli di feldispato vitreo; e non siamo sicuri se a maggiore profondità o in altri punti, discosti da quello ove si è giunto a cavare la roccia tufacea sino all’estremo inferiore, non si asconda la lava. Nella stessa tufara A, tav. II, di Fiano, ove finisce il tufo nel lato settentrionale, è in contatto con esso un altro deposito diverso dal tufo, il quale, per qualche tratto, non saprei dubitare che continui sottoposto al tufo. Esso è di colore rossigno, assai facile a stri- tolarsi tra le dita. Per giungere ad avere miglior conoscenza di quella che al solo guar- darlo mi è dato sapere di questo deposito, dopo averne stropicciata una porzione, ho separata per decantazione la parte polverosa dail’altra formata da granelli più grandi. Ciascuna delle due parti conserva il color rosso che avevano riunite insieme; e la prima è una polvere impalpabile, che osservata al microscopio si vede costare di particelle ta- lune rosse opache, altre vitree bianchicce, ed a queste sono unite poche particelle nere magnetiche. Nella parte più grossolana i granelli di maggiore grandezza di raro hanno più di due millimetri nel maggior diametro, vi si distinguono non rari frammenti di orto- clasia vitrea e minuti granelli neri magnetici. Ho fatto pure qualche esperimento sulla polvere impalpabile, e riscaldata in cannello da saggio, vi è stato sprigionamento di va- Armt— Vol II — Serie 2. — N. 2. 6 MO ecs pore aqueo, che ha posto in tumultuoso movimento la polvere con la perdita di 6,71 per cento del suo peso. Con l’acido cloridrico bollente si è disciolta soltanto piccola parte, producendosi soluzione gialla, e restando la parte insolubile di colore bigio. Non ho sti- mato procedere ad ulteriori ricerche analitiche, persuaso che il deposito rossigno del- l'estremo settentrionale della tufara A è ancor esso formato di sabbia vulcanica, diver- so soltanto dai depositi precedentemente esaminati pel colore rossastro che lo contrad- distingue. Quanto alle tufare di Fossa lupara, alcune delle quali sono conosciute dai terraz- zani col nome di Falciano, i cavamenti della roccia compatta hanno raggiunto l'estremo limite inferiore sino alla profondità, in qualche punto, di ventitre metri. Ove finisee il tufo compatto, utile alle costruzioni edilizie, i lavoratori non continuano ad approfon- dire il cavamento. Intanto sono stato sollecito a raccogliere ed esaminare le materie che stanno sotto la roccia compatta, e che ho trovato diverse nelle diverse cave, potendo- sene distinguere tre principali qualità differenti. La prima sarebbe ancor essa una va- rietà di tufo molle e quasi macerato dalla continua presenza dell’acqua, quantunque per la esposizione all’ ambiente diventi alquanto più consistente. Oltre la sua mollezza essa si differenzia non poco dal sovrapposto tufo pel suo colore rossastro, e perchè, in luogo delle nere scorie che in questo si racchiudono, contiene una singolare maniera di po- mici gialle con tessitura fibrosa, e fragilissime, nè contiene i cristalli di ortoclasia vi- trea che sono frequenti in tutti gli aggregati vulcanici della Campania. Nel fondo di un altro cavamento ho raccolto una sostanza fangosa, rossiccia in alcune parti, in altre bian- chiccia, ed in questa parte bianca, avendo sospettato contenersi un fluoruro , mi sono assicurato dell’ assenza del fluore avendola esposta al trattamento con l’acido solfo- rico. Prosciugata la sostanza fangosa e stritolatala per esaminare al microscopio i gra- nelli che entrano nella sua composizione, li ho trovati per la massima parte minuti di color vario tra il bianco ed il rossiccio, opachi o per poco traslucidi, con alquanti gra- nelli neri magnetici, e pochi pezzetti più grandetti che mi sembrano pomici di diame- tro non maggiore di quattro millimetri. Anche in questa sostanza fangosa non ho trova- to cristalli di ortoclasia vitrea. Solto il tufo compatto di due allre cave, che chiamerò A e 5, ho trovato materie sab- biose incoerenti tra loro somiglianti, e notevoli per lo splendore margaritaceo dei loro granelli più minuti. Per esaminare agevolmente i loro elementi senza l'ingombro delle particelle più sottili, ho fatto la separazione secondo la grandezza dei granelli in quattro por- zioni con tre stacci metallici a maglie gradatamante più piccole. La polvere impalpabile uscita dall’ultimo staccio, e quella a granelli di poco più grandi uscita dal secondo staccio e rimasta sul terzo, esaminate al microscopio si riconoscono formate di granelli vitrei bian- chicci con debole splendore margaritaceo alquanto bislunghi, e nel resto di forma molto irregolare. Vi è lieve differenza tra la polvere impalpabile di una cava ragguagliata a quella dell'altra per la lunghezza media dei medesimi granelli, essendo alquanto più lunghi quelli della cava A; ma tra questi e quelli dello strato sabbioso innanzi descritto (pag. 39) sottoposto al tufo di Fiano, che sono in forma di sottilissime laminucce, in- tercede grande differenza. Nelle medesime polveri vi sono frequenti granelli magnetici, e quando i granelli magnetici separati con la calamita li ho sottoposti isolatamente al microscopio, in ciascuno di essi non ho osservato mai il colore e lo splendore distin - tivi della magnetite; sono gli stessi granelli vitrei nei quali le minutissime particelle ma- cn A gnetiche sono rinchiuse nell’interno, o soltanto qualche punto nericcio si scuopre al- l'esterno. La polvere grossolana uscita dal primo staccio e rimasta sul secondo è ancor essa in gran parte vitrea, con la stessa irregolarità nella forma dei granelli nei quali vi è spesso qualche linea nera opaca nel verso della loro lunghezza, e vi sono mesco- late altre particelle di pomici fibrose. Finalmente nei pezzetti più grandi rimasti sul pri- mo staccio con maglie alquanto più larghe, e che costituiscono meno del decimo della sabbia raccolta, ho potuto osservare qualche differenza più notevole tra la sabbia di una cava e quella dell’altra. Nella sabbia. della cava A vi sono frequenti pezzetti di pomici con tessitura finamente cellulosa, e per la loro forma angolosa si può giudicare di non essere state esposte a prolungato movimento delle acque fluenti; ed in queste pomici sono incastonati minuti pezzetti neri con debole splendore vitreo. La maggior parte dei brandelli rimasti sul primo staccio sono frammenti bislunghi di pomici fibrose, ed a questi si uniscono altri pezzuoli, alcuni rossicci altri neri, e non rari frammenti di cri- stalli di ortoclasia vitrea. I pezzuoli rossicci osservati al microscopio si veggono avere tessitura granellosa con granelli la maggior parte rossastri ed altri bianchicci o nericci. Dei pezzuoli neri ve ne sono alcuni vitrei come l’ossidiana, altri litoidi come i brandelli delle ordinarie lave. Nei cristalli di ortoclasia poi è notevole che sono tutti coverti di sostanza nera vitrea sparsa su di essi comé uno strato reticolato che si vede ad occhio nudo, e guardandoli con lente d’ingrandimento offrono tale aspetto che si direbbe essere usciti da una sostanza vitrea quando essa era nello stato di fusione. Per la sabbia della cava B tra i pezzelti più grandi ne ho trovato alcuni di color giallo facili a sgretolarsi, i quali osservati al microscopio si mostrano formati di granelli in gran parte gialli uniti ad altri bianchì di varia forma, e pochi granelli neri. È nella presenza di questi pezzetti granellosi gialli che si ha la maggiore differenza tra il deposito sabbioso della cava B paragonato al precedente della cava A; ed altre differenze di minor conto si potrebbero stabilire per essere nel deposito della cava B rari i pezzetti angolosi di pomici cellulose, anche rari i pezzuoli neri e vitrei, ed i cristalli di ortoclasia vitrea sono quasi per intero ricoverti dalla sostanza nera traslucida che rende scabre le loro faccette. Restringendo in breve quel che incontra trovare sotto il tufo compatto di Fiano e di Fossa lupara si riduce sempre a svariate produzioni vulcaniche ; nè mi è riuscito 0s- servare altra maniera di rocce sulle quali queste produzioni siansi depositate. Intanto per i medesimi depositi, d’ordinario incoerenti, che abbiam veduto abbondantissimi, svariati e formati da elementi diversi da quelli che costituiscono il tufo, stimo dover conchiudere che sì a Fiano come a Fossa lupara diverse eruzioni banno preceduto quella che ha dato origine al tufo delle attuali cave. A questa medesima conseguenza ho cre- duto doverci condurre alcuni aggregati di geodi fluorifere incontrate in queste tufare, come a suo luogo ho fatto notare (pag. 12 e 14). E nelle stesse materie sottoposte alla roccia tufacea compatta troviamo un’ altra pruova favorevole alla ipotesi che i depositi di Fiano e di Fossa lupara provengono da due distinti spiragli eruttivi che a breve profondità sotto le rocce nettuniane hanno ori- gine comune, siccome per le qualità del tufo e per i proietti fluoriferi in esso racchiusi si è precedentemente (pag. 12) dichiarato. Fossili rinvenuti nel tufo. Fra gli argomenti dei quali mi sono con molta cura o0c- cupato nell’esaminare questi straordinari depositi vulcanici della Campania è stata la * > BR ricerca del perchè invece di presentare colline coniche incavate nella parte superiore, come di necessità deve avvenire ove sono eruttate materie in frammenti, si verifica al contrario che la loro superficie è spianata. Quando si credeva che le materie costituenti il tufo provvenissero dai vulcani di Roccamonfina, come pensavano Pilla ed Abich, o dai Campi flegrei, come era la mia opinione, la superficie spianata dei depositi era naturale conseguenza di tali opinioni. Ma ora che si hanno evidenti pruove che dimostrano i di- versi depositi tufacei essere indipendenti l’uno dall’altro, e provenienti da speciali eruzio- ni avvenule ove è ciascun deposito, non ci resta che la scelta tra due ipotesi: o che i mede- simi depositi si siano formati in seno alle acque del mare che ne ha spianata la superficie, o che essi derivassero da eruzioni fangose che pure dovevano produrre superficie spia- nata. Il migliore argomento per risolvere questa quistione avremmo potuto trovarlo nella presenza dei fossili, essendo manifesto che i fossili di origine marina incontrati nel tufo ci avrebbero portati a conchiudere che esso si fosse depositato nel fondo del mare. Egli è però che sin da quando ho cominciato ad occuparmi dei vulcani fluoriferi della Cam - pania non ho risparmiato mezzi di ricerche e promesse di larga mercede ai cavatori del tufo che mi avessero portato qualche fossile in esso rinchiuso. Più di una volta mi han- no parlato di qualche cosa da essi creduta corna di bue, notizia di niuna importanza, non potendo aggiustar fede ai detti di gente ignorante Col medesimo scopo di trovare qual- che indizio di fossili marini sono stato minuzioso nel frugare gli aggregati sottoposti al tufo, nei quali, per essere incoerenti, mi sarebbe stato più agevole scuoprirli, e sem- pre con risultamenti negativi. Il Dottor Johannes Walter nell’anno scorso mi ha mo- strato una decina di esemplari della patella coerulea, assicurandomi di averli raccolti sul tufo vulcanico del pendio di S. Costanzo nella penisola sorrentina. Egli mi sembrò che credesse trattarsi di fossili marivi appartenenti al tufo. Alla mia richiesta se avesse tro- vato le patelle rinchiuse nel tufo, o sul tufo, mi assicurò di averle trovate alla su- perflcie del suolo sul tufo, maravigliandosi come queste conchiglie si trovassero colà raccolte. Ancor io non so dire come ciò fosse avvenuto, nè ho premura di saperlo. Non di meno osservai che alle conchiglie era aderente terra vegetale, e conservavano il co- lore naturale delle conchiglie da poco uscite dal mare, condizione che non sarebbe stata possibile se fossero state da secoli rinchiuse nel tufo. Ho riferito questo fatto perchè di esso non si tenga alcun conto nel caso che fosse citato come pruova dell’ origine ma- rina dei tufi della Campania, e per avvertire che in simili ricerche non vi è accortezza che basti per non errare. Conchiudo col dire che fossili marini nei conglomerati vulca- nici della Campania non se ne sono trovati, e che non ho speranza di trovarne. Un solo caso mi è fin’ ora riuscito osservare di veri fossili nel tufo di Fossa lupara. Sono sette vertebre che, secondo l’autorevole parere del Prof. Trinchese, al quale è af- fidato l’insegnamento dell’ Anatomia comparata nel nostro Ateneo, appartengono a mam- miferi ovini, e per la loro grandezza si può giudicare che appartenevano ad individuo adulto. A queste vertebre mancano le apofisi, e trovansi in gran parte scoverte le cellette alveolari del loro tessuto. Lo stato di fossilizzazione è assicurato dal loro aspetto come di ossa calcinate, dal colore rossastro che in molti punti hanno le pareti delle cellette, e meglio ancora da «iò che si osserva sulla parte superficiale delle ossa rimasta intatta, ove sopra un fondo che ha color di ruggine rilevano molti punti luccicanti, che sono cristallini bianchi assai minuti, dei quali non mi è riuscito conoscere la forma. Queste 0s- sa non sono stale da me stesso trovate nel tufo, nè le ho ricevute incastonate nella roccia —_ 45 — per essere ben certo che in realtà erano racchiuse nel tufo. Ed essendo avvezzo a dif- fidare delle altrui relazioni quando mi si recano oggetti che ho mostrato grande desi- derio di avere, mi rimaneva ancora quaiche piccolo dubbio sulla loro provenienza. Era veramente un dubbio esagerato, specialmente dopo avere esaminato i cristallini bianchi che non si sarebbero formati per la semplice esposizione delle ossa all’ambiente, e dopo aver veduto non poche delle loro cellette riempite di granelli che hanno l'apparenza di produzioni vulcaniche. Finalmente una pruova più convincente ho avuto la fortuna di trovarla osservando al microscopio le cellette del tessuto osseo. Ho potuto vedere im- piantati sulle pareti delle cellette, meno conferti ed alquanto più distinti, i cristallini bianchì che aveva osservati sulla parte superficiale delle ossa, i quali cristallini sono laminari, probabilmente ortogonali, e talvolta di tale sottigliezza da comparire iridati. Molto più importanti poi ho veduto aderenti sulle stesse pareti frequenti cristallini ne- ricci con isplendore metallico, ed in taluni di essi ho osservato distinta la forma di la- minucce esagonali. Per questi caratteri, riconoscendo nei medesimi cristallini V ematite, ho dovuto conchiudere che le ossa erano state esposte alle esalazioni vulcaniche che si è veduto (pag. 36) aver dato origine ai cristalli di ematite aghiformi delle tufare di Fiano. Ritengo dunque che per i cristallini di ematite e per gli altri caratteri esposti ri- mane assicurato che le suddette ossa di animali terrestri provengono dal tufo di Fossa lupara. Non pertanto i medesimi cristallini mi fanno sovvenire quel che ho osservato nelle case di Pompei fulminate nell’incendio del 79 ‘). Dappoiché in una delle mede- sime case, ove il fulmine aveva saldate le pomici cadute nell'incendio con un’anforetta di argilla, sulle pareti interne dell’anfora osservai non pochi cristallini microscopici di color rosso cupo per luce trasmessa in forma di laminucce esagonali. L’analisi chi- mica me li mostrò composti di ossido ferrico, come dal loro colore e dalla forma si po- teva argomentare, ed all’ossido ferrico stava unita un pò di allumina. È notevole questo fatto della produzione dei cristallini di ematite sull’argilla dell’anfora per l’azione del fulmine, quantunque non sappia come l’elettricismo abbia operato per produrli. Ragguagliando i cristallini dell’anfora con quelli più grandetti depositati sulle pareti delle cellette delle ossa, non mi sembra potersi anche per questi ultimi ascrivere la loro 0- rigine all’azione dell’ elettricismo , sia perchè nei componenti dell’ anfora vi erano gli elementi capaci di produrre l’ematite alluminifera che mancano nelle ossa, sia perchè le materie vulcaniche che si è veduto contenersi nelle cellette del tessuto osseo non of- frono alcun segno di fusione che avrebbe dovuto manifestarsi per l’azione del fulmine, com’ è avvenuto alle pomici di Pompei. Mentre sono riuscite infruttuose le assidue ricerche per rinvenire qualche produ- zione marina, sì nei depositi tufacei di Fiano e di Fossa lupara che in quelli di altre contrade della Campania, mi è giunta assai gradita la scoverta bene assicurata delle ossa di animali ovini nel tufo di Fossa lupara, dappoichè per questi fossili possiamo con maggior confidenza adottare l'opinione che la superficie spianata che contraddistingue i conglomerati vulcani della Campania derivi dall’essere questi venuti fuori dalle boc- che eruttive in istato simile alle materie fangose. Oltre questo documento paleontologi- co vedremo pure nel tufo di Lanzara presso Rocca-Piemonte alquanti tronchi di coni- fere carbonizzati per i quali si argomenta che i depositi vulcanici si sono formati all’ a- ria libera. 1) Le case fulminate di Pompei. Lettera del Prof, A. Scacchi al Prof. M. Ruggiero. Pompei e la regione sot- terrata dal Vesuvio nell’anno LXXIX. Napoli 1879, pag. 7 ed 8 delle copie estratte. pe Appagato di questo risultamento aveva già mandato al tipografo le precedenti pa- gine quanto mi è venuto in mente di fare qualche esperimento sulla chimica composi- zione delle ossa di Fossa lupara, tanto più che aveva precedentemente osservato che la loro polvere era quasi del tutto solubile nell’acido cloridrico senza effervescenza. Ciò mi assicurava che esse non contenevano più carbonato di calcio, ed ammessa la facile scomparsa delle sostanze organiche, mi sembrava non potersi ammettere la scomparsa dell'anidride carbonica senza che fosse sostituita da altro elemento. Persuaso altresì che se l'anidride carbonica fosse andata via per elevala temperatura, la calce a lungo andare non avrebbe mancato di riprenderla, trovandosi in una roccia permeabile all’ a- ria atmosferica, pure ho voluto tentare la pruova se la polvere delle ossa avesse effica- cia di mutare il colore della carta rossa di tornasole bagnata, e la pruova è riuscita ne- gativa. Allora mi restava a cercare se l’anidride carbonica fosse stata rimpiazzata dalla silice, o dal fluore, o da entrambi. Ed in primo luogo ho verificato la presenza dell’ a- nidride fosforica col moliddato ammonico, ed avendo esposto al calor rosso la polvere delle ossa non ho avuto di perdita che 0,70 per cento. Con la diretta azione dell’ acido solforico sulla medesima polvere non ho ottenuto sensibile corrosione del vetro. Dopo la fusione col carbonato sodico potassico la sostanza fusa è riuscita colorata in azzurro chiaro, carattere che ci manifesta la presenza di piccola quantità di manganese. Intanto nella soluzione acquosa della medesima sostanza fusa, operando come si è detto nei ca- sì precedenti, mi si è mostrata distinta, quantunque scarsa, la reazione del fluore. Vi è pure piccola quantità di silice. Tufara di S. Vito. Circa un chilometro a sud-est di Sarno ov’ è la cappella di S. Vito, (Tav. II) s’in- contra un altro deposito tufaceo del tutto diverso da quello di Fiano e di Fossa lupara; e senza discendere a minuziosi particolari, mi basta ricordire che la roccia è di colore gialliccio, invece delle scorie nere racchiude pezzetti di pomici spesso bianchicce con tessitura fibro-cellulosa, le cui fibre hanno vivace splendore tra il vitreo ed il metallico. Quando ho visitato questo deposito di tufo sono rimasto ammirato di una certa sua ap- parenza di freschezza che lo farebbe credere formato da pochi anni, e contribuiva non poco a dargli questo carattere di recente formazione il vedere che esso racchiude gran copia di frammenti calcarei pel colore e per la tessitura in tutto somiglianti alla calca- rea della collina che si vede a breve distanza. Così inaspettata differenza di tutto ciò che aveva osservato nel deposito tufaceo di Fossa lupara, che trovasi a meno di due chi- lometri discosto, non so dire quale sia stata la mia sorpresa. Nondimeno esaminai con diligenza il tufo di S. Vito, e tra i particolari che mi si offrirono degni di attenzione. fu la particolare condizione che spesso presentano i frammenti calcarei in esso rinchiusi, i quali sono ricoverti di sottile crosta bianchiccia di apparenza terrosa, facile a distac- carsi dal frammento calcareo. Era evidente essere intervenuta una superficiale scompo- sizione nei medesimi frammenti, e fui impaziente, ritornato in casa, di esaminare con saggi analitici quelle croste, e specialmente se contenessero fluore; e fui ben contento di avere ottenuto la corrosione del vetro dal loro trattamento con l'acido solforico. Non so se ad altri sembrerà, come a me sembra, che i frammenti di calcarea ricoperti da sot- tile buccia fluorifera del tufo di S. Vito costituiscono un fatto che nella sua semplicità vale a dimostrare l’azione delle emanazioni fluoriche sulle rocce nettuniane in modo diverso, ma non meno sicuro di quanto si è veduto nei complessi proietti fluoriferi di Fiano e di Fossa lupara. Tra i principali assunti che mi son proposto dimostrare col preseite lavoro sopra gli aggregati vulcanici della Campania è la loro origine da parziali eruzioni locali indi- pendenti le une dalle altre. Se due o più erazioni avvenute in luoghi diversi siano state contemporanee non trovo maniera di poterlo dimostrare. Ma la loro circoscrizione in determinati punti, che apparirà come corollario indubitabile della esposizione che farò delle diverse tufare, già abbiamo evidente ragguagliando i depositi di Fiano e di Fossa lupara con quello della Cappella di S. Vito. Dando uno sguardo alla tavola II si scorgerà agevolmente che da Sarno al traforo che precede la stazione di Codola si innalza una serie di colline calcaree che fanno seno nella parte volta ad occidente e circoscrivono il limite orientale di ampia pianura. È appunto ai piedi di queste colline pel tratto al quan- to maggiore di tre chilometri che si trovano le tufare di Fiano, di Fossa lupara, e l’altra della Cappella di S. Vito. Già si è veduto per i depositi delle due prime tufare che malgrado la loro notevole somiglianza, vi sono buone ragioni per crederli originati da due distinti centri eruttivi, con la probabile condizione che essi avessero una comune origine sotterranea. Ed ora il tufo di S. Vito, non molto lontano, presenta tali differenze che non è possibile dubitare della sua diversa origine. In questo tufo ora si trova ampia cavità quasi circolare col fondo piano posto a col- tura con una qualche somiglianza ai crateri vulcanici, e potrebbe far credere essere un caso eccezionale in cui le materie vulcaniche eruttate abbiano formato nel depositarsi un incavo centrale, a differenza di ciò che si osserva in tutti gli altri depositi vulcanici della Campania che hanno superficie spianata, come già si è fatto innanzi osservare. Debbo intanto osservare che questa cavità, se non in tutto, almeno in parte è opera dell’industria umana, come lo mostrano le tracce nel tufo degli strumenti adoperati nel cavarlo; e facilmente mi persuado trattarsi di una tufara abbandonata per la cattiva qua- lità di tufo che se ne otteneva. Di più importa osservare che le materie in frammenti espulse dai vulcani, mentre lasciano una cavità centrale, s’ innalzano sul jivello del suolo circostante formando una collina conica, e questa seconda condizione manca affatto nel tufo depositatosi presso la cappella di S. Vito. Tufare di Castel S. Giorgio e di Rocca Piemonte. Le colline calcaree che si è veduto formare il confine orientale della pianura ove sono le precedenti tufare si prolungano ancora per qualche tratto verso mezzodi oltre il traforo che precede la stazione di Codola, in guisa da formare una imponente barriera di separazione, che giunge a più di 250 metri di altezza, tra la precedente pianura e le tufare che s'incontrano nella parte opposta delle medesime colline tra Castel S. Giorgio e Rocca Piemonte. Il tufo di questa contrada è di colore gialliccio, d’ordinario compatto, ed in qualche punto soltanto contiene piecole pomici fragili dello stesso colore; in guisa che per questo carattere si approssima al tufo del lontano deposito della cappella di S. Vito, ed è molto diverso dal tufo dell’altro deposito assai più vicino di Fiano. Anche questa differenza nelle qualità della roccia tufacea, come le interposte colline calcaree dimostrano la indipendenza del vulcanetto che ha prodotto il tufo di Castel S. Giorgio e n POR Rocca Piemonte dall’altro che ha eruttato il tufo di Fiano; l’uno e l’altro apertisi in due lati opposti alla base del medesimo gruppo di colline tra loro discosti meno di tre chi- lometri. Si vedrà di qui a poco che le sostanze fluorifere rinchiuse nel tufo di questo no- vello centro di eruzione sono tanto diverse dai proietti fluoriferi di Fiano, quanto da que- sti stessi proietti sono diversi i frammenti di calcarea ricoperti da sottile buccia contenente fluore incastonati nel tufo della cappella di S. Vito; e che anche grande differenza in- tercede, nello stato come ora si trovano, tra i frammenti di calcarea metamorfizzati del tufo di S. Vito e quelli del tufo di Castel S. Giorgio e Rocca Piemonte. Avremo occasione di vedere in seguito i depositi tufacei, che dinotano i luoghi ove si sono aperti gli spira- gli che li hanno eruttati, trovarsi d’ordinario a grandi distanze gli uni dagli altri. Ed ora torna opportuno, per formarsi una giusta idea della indole propria dei vulcanetti fluo- riferi della Campania, considerare come i quattro centri erattivi della Cappella di S. Vi- to, di Fossa lupara, di Fiano e di Rocca Piemonte sono compresi in uno spazio nel qua- le i punti più lontani sono discosti per una distanza che può calcolarsi inferiore ad otto chilometri. - Intanto a Lanzara, o come trovo scritto Larzaro, piccolo villaggio presso Rocca Piemonte, nel tufo, che si è detto essere d’ordinario compatto , si riscontrano due fat- ti straordinari dei quali non so darmi ragione; e mi rincresce che l’ età avanzata e le non poche occupazioni non mi permettono perlustrare accuratamente questa contrada per poterli intendere. Rimettendo alle ricerche che potranno fare i Geologi che vorran- no per l'avvenire occuparsi di questo argomento, e chiarire quello che per me resta in- certo, debbo contentarmi di esporre questi due fatti con i particolari che sono a mia notizia; e passerò in secondo luogo a discorrere delle sostanze fluorifere che in modo singolare si racchiudono in questo quarto deposito tufaceo. Si trovano nel tufo compatto di Lanzara, ora in forma di vene ed ora in forma di nidi, certi aggregati di grossolana sabbia formata in parte di rotti cristalli di ortoclasia vitrea, e da quasi egual parte di piccoli brandelli di lava facili a disgregarsi. Vi si mescola pure qualche laminuccia di mica, qualche raro cristallo di augite ed assai raro qualche pez- zetto di tufo. I cristalli di ortoclasia, e più distintamente i piccoli frammenti di lava hanno spigoli smussati e quasi ritondati, carattere che dimostra essere stati rotolati per non breve tempo dalle acque fluenti. In qualche puato ove sono raccolte le descritte sabbie si trovano altresì alquanti globetti terrosi. Somiglianti globetti sono stati descritti da Scipione Breislak ') col nome di pisoliti, discorrendo dei conglomerati della Sol- fatara di Pozzuoli e di altri tufi valcanici della Campania. Egli opinava che questi piso- liti si producessero dalle sottilissime sabbie vulcaniche quando su di esse cadono le gocce di acqua che producono il loro ammassarsi in forme globose. Questa opinione mi sembra accettabile, ed in mancanza di fatti sperimentali che dimostrino l’origine dei pi- soliti vulcanici, posso ricordare di aver trovato nella raccolta vesuviana del Monticelli la soltilissima cenere eruttata nell'incendio del 1822 rappigliata in piccoli globetti per la umidità atmosferica. Ricercando la provenienza della descritta sabbia non ho potuto rimanere soddi- sfatto. Quanto ai cristalli di ortoclasia, che sono frequenti nei tufi della Campania, non vi è nulla di straordinario se sono in essa abbondanti. Dei minuti frammenti di lava la pro- 1) Topografia fisica della Campania. Firenze 1798, pag. 196 e 254. 809) — yenienza è per lo meno dubbiosa, essendosi già veduto che non s’incontrano lave nei val- cani della Campania, e non mi sembra probabile che essi avessero la medesima origine dei frammenti della natura delle lave che si è detto innanzi ( pag. 11) trovarsi negli ag- gruppamenti di geodi fluorifere di formazione anteriore a quella del deposito tufaceo. Vale lo stesso per i cristalli di augite quantunque assai rari, per i quali si potrebbe so- spettare che provenissero dal non lontano Vesuvio. Ma vedremo in seguito trovarsi i cristalli di augite, come pure i frammenti di rocce somiglianti alle lave in tali condi- zioni che gli uni e gli altri, debbonsi noverare tra le produzioni non rare dei vulcanetti della Campania. Quando poi considero quel che ci è dato sapere del tufo di Lanzara, mi sembra poter conchiudere che esso non sia, come farebbe credere la sua compatez- za, un deposito di materie vulcaniche semplicemente raccolte in conseguenza di una eruzione fangosa, ma che le medesime materie vi siano state in tempi diversi traspor- tate e rimaneggiate dalle acque. Non diversa da questa sarebbe la probabile conseguenza alla quale si può giun- gere per i tronchi di legno carbonizzati che si trovano nello stesso tufo compatto di Lanzara. Questo secondo fatto, se fossi persuaso del come sia avvenuto, direi in breve su di esso il mio avviso per renderne ragione, mentre al contrario volendo esporre le ragioni per le quali nen sono al tutto contento di una qualsiasi ipotesi, sono costretto dilungarmi più di quanto avrei voluto. Essendomi rivolto ai Colleghi Cesati e Licopoli per sapere a quali specie di al- beri appartengono questi tronchi carbonizzati, essi sono stati concordi nell’ assicurarmi che appartengono ad una conifera del gruppo delle abietinee, e con molta probabilità al Pinus halepensis o maritima. EA agli stessi illustri Professori sono debitore di una im- portante notizia che mi assicura la carbonizzazione del legno essere avvenuta stando nel tufo per effetto dell’acqua; dappoichè essi hanno osservato al microscopio ben conser- vato il delicatissimo tessuto vascolare, la qual cosa non sarebbe stata possibile se la car- bonizzazione fosse derivata da combustione. D’ altra parte debbo osservare che i mede- simi pezzi di legno carbonizzato occupano quasi completamente le cavità che li conten- gono. Essi talvolta sono grandi, del diametro, nella larghezza del tronco, che giunge ad oltrepassare un decimetro, e di quasi tutti i grandi pezzi che ho avuto occasione di esaminare si trova soltanto una porzione del tronco longitudinalmente diviso. In taluni casi non sono che piccoli brandelli di carbone sino ad avere il diametro di circa tre millimetri. Per la piccolezza di tali pezzetti sorge naturale la supposizione che la loro carbonizzazione sia avvenuta prima che essi fossero rinchiusi come ora si trovano nel tufo, non essendo probabile che il legno di sua natura tenace fosse così sminuzzato prima di essere inviluppato nelle materie vulcaniche. D'altronde questa carbonizzazione precedente al seppellimento del legno nel tufo non si può supporre avvenuta per azione del fuoco, essendosi detto innanzi che la conservazione del tessuto vascolare dimostra la carbonizzazione essere avvenuta per azione dell’acqua. Non mi sarebbe difficile eliminare questa contradizione supponendo che i pezzi di carbone, prima di essere inviluppati come al presente si trovano nella roccia tufacea, si fossero trovati in un precedente conglomerato vulcanico ove è avvenuta la carbonizza- zione del legno per effetto dell’acqua, e che per posteriori cambiamenti avvenuti in que- sto conglomerato, rimaneggiato e sconvolto dalle acque, siasi formato l’attuale tufo che ora contiene uniti ai grossi tronchi di carbone anche il carbone sminuzzato per il tra- Arti — Vol II. — Serie 2. — N. 2. 7 MINI) — POR sporto da un luogo ad un altro. Questa supposizione si concilia con ciò che si è detto delle vene di grossolana sabbia contenute nello stesso tufo, e della medesima mi reputerei soddisfatto se non incontrassi qualche difficoltà a persuadermi che dal conglomerato vulcanico sconvolto dalle acque siasi poi formato il tufo compatto. Non pochi esempii sono finora a mia notizia di piante arboree racchiuse nei con- glomerati vulcanici, dei quali mi propongo dar notizia in altra memoria su questo argo- mento. I cambiamenti avvenuti nel legno sono diversi secondo i diversi casi, e potrei dire secondo la variabile qualità del conglomerato; ed il legno carbonizzato al quale più si somiglia quello di Lanzara l’abbiamo a Pompei. Questa Città, com’ è noto, seppellita dai lapilli eruttati dal Vesuvio nell’anno 79, trascorsi diciotto secoli, ora ci presenta mol- ti legni delle sue case carbonizzati, e carbonizzati altresi molti commestibili e delicati tessuti vegetabili ‘). Intanto nel conglomerato vulcanico che ricuopre Pompei, è da no- tare che, essendo esso incoerente, le acque piovane han trovato libera strada per pene- trarvi; e se per i medesimi effetti possiamo argomentare esservi state identiche cagioni, è per lo meno probabile che il primitivo conglomerato nel quale furono seppelliti i tron- chi di Lanzara era ancor esso incoerente. Ho istituito alcuni saggi comparativi tra il carbone di Lanzara e quello di un ar- chitrave di Pompei per determinare la quantità di acqua che si sprigiona per la esposi- zione al calor rosso nascente, e la quantità delle loro ceneri. Dopo averli tenuti molti giorni esposti all’aria per eliminare |’ umidità che contengono quando sono estratti di recente dal luogo ove stavano, ho trovato nel primo la perdita del suo peso eguale a 28,82 per cento, e nel secondo eguale a 25,17 per cento. Dal primo in cento parti ho avuto 18,74 di ceneri e dal secondo 16,28. Egli è però che il primo contiene minore quantità proporzionale di carbone ragguagliato al secondo. Nei grossi pezzi di carbone di Lanzara ho osservato che la parte centrale, ricono- scibile per la disposizione degli strati concentrici di accrescimento, manifesta partico- lare tessitura cellulosa, e splendore alquanto resinoso. Essendo in questa parte centrale scomparsa la primitiva struttura del legno, ho dovuto conchiudere che in essa sia av- venuta una diversa maniera di scomposizione. Ho trovato di più che in essa la completa incinerazione è slata molto difficile, ed ho avuto 32,22 per cento di acqua e 19,88 di ceneri; quindi la quantità proporzionale di carbonio risulta minore di quella trovata nel carbone che conserva la struttura del legno. Ritornando ai fatti che sono più strettamente collegati all’argomento che mi tiene occupato, debbo esporre in primo luogo la particolare maniera di trovarsi le materie fluorifere di Castel S. Giorgio e Rocca Piemonte, maniera affatto diversa da tutto ciò che si osserva nei depositi di tufo della Campania. Esse sono bianche molli quando sono estratte dalle cave, non riempiono perfettamente la cavità della roccia che le contiene, ed in alcuni luoghi ho trovato nel tufo compatto frequenti cavità quasi del tutto vuote, non rimanendo che scarsi residui delle sostanze che indubbiamente vi si trovavano rin- chiuse. Queste cavità vuote, come quelle in gran parte riempite dalla sostanza bianca, di raro hanno più di sei centimetri nel loro diametro maggiore, ed hanno tale configu- 1) Occorre ricordare che sia il legno, sia i fili di cotone in contatto del ferro e del bronzo imbevuti delle sostanze deri- vate dall'azione dell’acqua sui metalli non sono carbonizzati. D'altra parte non è da tenere in alcun conto la opinione vol- gare che la carbonizzazione sia dovuta ai lapilli infocati caduti su quella infelice Città. A — razione da dimostrare che il frammento della roccia straniera che conteneva, e che ora è scomparso, aveva forma angolosa come i frammenti di roccia calcarea che si è veduto trovarsi nella tufara della cappella di S. Vito. In un grande pezzo di tufo compatto che aveva molte di queste cavità vuote ho scoverto rompendolo le cavità interne quali sono naturalmente senza che in esse si fossero introdotte altre materie. Le cavità poi che con- tenevano la sostanza bianca sono state prese ove già il taglio della roccia aveva messo allo seoverto la medesima sostanza, e quindi spesso evidentemente mescolata con gra- nelli di materie che in origine non si trovavano ad essa uniti nella cavità che la racchiu- deva. In altri casi la sostanza bianca era apparentemente pura da far credere che non si fossero mescolati corpi stranieri a ciò che in origine era racchiuso nella cavità del tufo; e dico apparentemente, perchè come vedremo in breve anche questa sostanza bianca pura in apparenza nasconde minerali stranieri. Nella inestricabile confusione del tufo di Lanzara ho pure osservato la stessa sostanza bianca fluorifera in un punto ove essa era mescolata alla grossolana sabbia innanzi descritta. Nel vedere questa strana sostanza bianca e molle delle tufare di Rocca Piemonte, e che non avrei potuto mai sospettare che contenesse fluore se non l’avessi trovata in una contrada vulcanica fluorifera, il primo pensiero è stato di assicurarmi della pre- senza del fluore trattandola con l'acido solforico. Riuscito l’ esperimento dubbioso, ho stimato nell’ esaminarla studiare prima le varietà che sono manifestamente mescolate con materie straniere, non potendo discernere se ancor queste erano racchiuse nella medesima cavità, ovvero vi si fossero accidentalmente mescolate; indi quelle che al- meno in apparenza sembrano pure; ed in ultimo luogo le scarse sostanze trovate nelle cavità vuote del tufo. ? Per le prime, separata la parte sottile quasi polvere impalpabile ch’ è riuscita di color bianco sudicio, ho osservato nella parte grossolana le medesime qualità di gra- nelli trovati nel sabbione delle vene, soltanto più minuti, con laminucce di mica nera più abbondanti e con qualche frammento di cristalli geminati di ortoclasia. La parte sottile non fa effervescenza con gli acidi; riscaldata al calor rosso ha perduto 12,07 del suo peso per il vapore acqueo sprigionato, ed al trattamento con l’acido solforico ha mani- festato assai debole la reazione del fluore. Circa tre grammi della medesima polvere 1a- vata con acqua bollente, nell’acqua di lavaggio , neutra alle carte reagenti , ho ricono- sciuto piccolissime quantità di acido solforico e di calce, e quantità molto maggiore di cloruri. La medesima acqua essendo riuscita di color alquanto gialliccio mi ha fatto sospettare che contenesse qualche sale di ferro, che non ho potuto scuoprire con gli opportuni reattivi. Portata a secchezza ha lasciato scarso residuo , che fortemente riscal- dato si è imbrunito per piccole quantità di sostanze organiche in essa disciolte. Nell’ esaminare la sostanza apparentemente pura | ho stritolata a mano sospesa in mortaletto di agata, e con questo artifizio son riuscito a separare non pochi minuti gra- nelli duri dalla parte friabile ridotta in polvere impalpabile. Dei granelli duri, che di raro avevano poco più di un millimetro di diametro, alcuni sono bianchi vitrei che ho ripu- tato appartenere all’ ortoclasia, altri di color nero, tra i quali ho riconosciuto la mica e l’augite. Egli è però che vi sono i medesimi elementi rinvenuti nella grossolana sabbia delle descritte vene; e se non so rendermi ragione del come siansi formate le vene del tufo di Lanzara, molto meno posso spiegarmi la presenza dell’ortoclasia, della mica e dell’ augite nelle cavità del medesimo tufo. PSI OS Intanto la sostanza, ridotta in polvere impalpabile, esposta al calor rosso nascente ha perduto 13,68 per cento del suo peso dovuto al vapore aqueo sprigionato, e si sono manifestate in alcuni punti piccole macchie nericce, le quali con più forte arroventa- mento sono scomparse aumentandosi la perdita sino a 14,62 per cento. Con l'acido sol- forico non ha dato che debolissima reazione di fluore; e desiderando una pruova più manifesta della presenza del fluore, ho fuso col carbonato sodico potassico grm. 0,331 della stessa polvere. Nella fusione vi è stato sprigionamento di bollicine gassose, e la sostanza fusa è riuscita di colore azzurro chiaro. Finalmente dalla soluzione acquosa della parte solubile della sostanza fusa ho ottenuto col cloraro calcico grm. 0,022 di fluoruro calcico riconosciuto per la profonda corrosione del vetro, avendolo trattato con l’acido solforico. Non mi resta quindi aleun dubbio che anche nel tufo di Lanzara si contengono fluoruri. È Ho pure esaminato le materie contenute nelle cavità del tufo proveniente dalle vi- cinanze di Castel S. Giorgio. Esse sono terrose di color gialliecio sbiadito; esaminate al microscopio si scuoprono formate per la maggior parte di minutissimi granelli bianchi, ai quali se ne aggiungono altri più grandetti di color giallastro che forse appartengono al tufo che le contiene. Vi son pure pochi granelli neri magnetici. Mancano del tutto i gra- nelli vitrei di ortoclasia e le laminucce nere di mica che si è veduto trovarsi in tutte le sostanze bianche del tufo di Lanzara; e possiamo ritenere che nelle cavità del tufo di Castel S. Giorgio non si siano introdotte materie diverse da quella che in origine sì rac- chiudeva. Separata la parte in sottilissima polvere dai granelli più grandi, ho trovato che la prima esposta al calor rosso ha perduto 6,11 centesimi del suo peso per l’ac- qua eliminata, e fatto |’ esperimento con l’acido solforico, non ha manifestato la rea- zione del fluore. Ho ripetuto la pruova fondendola col carbonato sodico potassico; la sostanza fusa riuscita bianca si è per la massima parte disciolta facilmente nell’ acqua calda, lasciando scarso residuo fioccoso bianco solubile nell’acido cloridrico allungato. La soluzione alcalina filtrata, aggiuntovi l’acido acetico, ha prodotto abbondantissimo precipitato gelatinoso di silice, pel quale ho compreso che nella polvere analizzata vi era gran copia di silice che, fusa col carbonato sodico potassico, era solubilissima nella soluzione del carbonato alcalino. Nei precedenti esperimenti, eseguiti con lo stesso me- todo, i risultamenti sono stati ben diversi, non avendo ottenuto che pochissimi fiocchetti di silice, 0 quasi nulla, quando alla soluzione acquosa della sostanza fusa ho aggiunto l’acido acetico. Intanto la soluzione fatta alquanto acida con l’acido acetico, separata dalla silice gelatinosa non si è menomamente intorbidata con l’aggiunzione del cloruro di calcio. Persuaso che nella sostanza analizzata non si contengono fluoruri, mi è sembrato non dovere omettere di ricercare la sua composizione, specialmente per la grande quan- tità di silice dimostrata nel precedente esperimento. Le due seguenti analisi istituite sulla polvere impalpabile hanno dato i medesimi risultamenti con una perdita notevole, probabilmente per la presenza degli alcali, la quantità dei quali non è stata determinata, e non era possibile determinarla avendo fu- so la polvere con i carbonati alcalini. I 1 2° Sostanza analizzata grm.(0;398. ... .°.. .. grm.0,361 in 100 in 100 HO 6,28... (FM. 0,023 — ..6.37 Sa o880807: » 0,301 — 83,38 Eta ZO o no, 920 Oni (84 73,88 CA] RO ito I 0501074277 Porre Ro (0076 +1) 1403 3:60 » 0,398 Din (0,301 Per l’analisi quantitativa rimane confermata la sovrabbondante quantità di silice già dimostrata dal precedente esperimento in questa sostanza contenuta nel tufo di Castel S. Giorgio, non meno imbarazzante delle materie bianche di Lanzara, e pare che essa possa considerarsi come una varietà impura di opale. Le cavità vuote che ho potuto scuoprire nell'interno di un grosso pezzo di tufo, senza che nulla di straniero avesse potuto penetrarvi e senza che nulla si fosse perduto del poco che esse racchiudevano, ho stimato meritevoli di esser prese in considerazione meglio ancora di quelle riempite delle sostanze già esaminate. Dappoichè in esse ab- biamo un primo, fatto del quale non credo si possa dubitare, ed è che in origine erano occupate da un frammento di roccia straniera che per ignote cagioni è scomparsa, ed il secondo fatto è che son rimasti scarsi avanzi della roccia scomparsa che occorre esa- minare per determinare la loro chimica composizione. Le pareti delle cavità sono per lo più ricoperte da esilissime croste brunicce di tratto in tratto interrotte, e dove le cavità formano angolo le medesime croste raggiungono la grossezza di circa un millimetro. Esse si distaccano facilmente dal tufo. Sulla loro faccia applicata al tufo rilevano piccole pro- minenze di color nero e sulla faccia interna sono più abbondanti e più grandi le promi- nenze nere, di forma molto irregolare che si potrebbero ragguagliare a piccoli grumi di fuligine. In talune cavità gli stessi grumetti neri sono uniti con una materia bianca molto simile a quella innanzi esaminata. Non è possibile separare perfettamente le prominenze nere dalle croste, ed ho dovuto contentarmi, dopo aver fatto qualche saggio preliminare sulle diverse parti, di mescolarle per analizzarle riunite insieme. Tutto diligentemente conservando quel che ho potuto raccogliere di questi residui della roccia scomparsa giunge a poco più di due decigrammi, quantità non sufficiente alle ricerche chimiche che avrei voluto fare con quantità maggiore. I grumetti neri sono fusibili alla fiamma del cannello producendosi un globetto nero opaco, e fusi col sal di fosforo dànno vetro opalino di color verde bruniccio, nel quale resta nuotante uno scheletro di silice. Le croste esilissime fondono con faciltà mutandosi pure in globetto nero. Le croste più grosse osservate con lente d’ingrandimento si manifestano di color bruno e con l’ap- parenza di una sostanza resinosa. Alla fiamma del cannello non subiscono che imper- fetta fusione, e fuse col sal di fosfore danno vetro verdiccio trasparente che si scolora col raffreddamento restando la silice in esso nuotante. Grm. 0,228 della polvere delle diverse sostanze riunite riscaldate al calor rosso hanno perduto grm. 0,049 del loro peso, perdita che corrisponde a 21,49 per cento. Irimanenti gem. 0,179 fusi col car- i — 54 — bonato sodico-potassico, la massa fusa è stata di color bruno con macchie azzurre; ed in essa ho trovato grm. 0,099 di silice, grm. 0,066 di ossido ferrico misto a piccole quantità di ossido manganico, e tracce di calce. Nella silice separata dall’ ossido ferrico vi sono alquanti granellini neri magnetici. Come scorgerà il lettore i fatti raccolti nelle tufare di Castel S. Giorgio e di Rocca, Piemonte lasciano molto a desiderare per poterne rendere ragione. Se ne togli la pre- senza del fluore trovato nella sostanza bianca di Lanzara, e che dimostra |’ esistenza dei fluoruri anche in queste tufare, in tutto il resto potrei dire esservi problemi che attendo la soluzione. Non s’intende come si siano formate le vene di grossolana sabbia ed i tronchi di legno carbonizzato trovati nel tufo; non si sa che cosa fosse stata in ori- gine la sostanza bianca fluorifera di Lanzara, e come si sia ridotta nello stato presente; resta a sapere i frammenti di quali rocce riempivano le cavità che ora si trovano vuote, e come essi siano scomparsi; che cosa era la sostanza sovrabbondante di silice di Ca- stel S. Giorgio, e quale sia stata la cagione della sua trasformazione. Per dirla in poche parole, ho incontrato un campo irto di difficoltà che mi sare bbe piaciuto di evitare. Tufare di Salerno Altri centri eruttivi indipendenti dai quattro precedenti e tra loro distinti, sia topo- graficamente sia per particolari caratteri riconoscibili nelle materie eruttate, li troviamo volgendoci a mezzodì verso il mare. Cominciando da Salerno, discosta da Rocca Pie- monte eirca dodici chilometri, e da questa città volgendoci a ponente s’ incontrano le tufare di Gragnano, e quasi direi tuffate nel mare quelle di Vico Equense e di Sorrento a breve distanza luna dall’ altra. A settentrione di Salerno , poco più di un chilometro discosto dall’abitato , si trova il ponte della Fratta, e piegando alquanto ad oriente, s'incontra una cava di tufo di co- lore bigio nericcio come quello di Fiano, e da esso molto diverso per altre qualità pro- prie del tufo salernitano, che saranno in seguito esaminate. Partendo dallo stesso ponte della Fratta lungo il lato sinistro dell’Irno, e sempre nella direzione settentrionale, per oltre quattro chilometri sino ad Acquamela vi sono altre cave da me visitate, ed in questo spazio il deposito tufaceo è sempre alla base di colline calcaree; ed anche colline calca- ree sono presso la sponda destra dell’Irno. Ho notizia che a Fisciano, circa quattro chi- lometri discosto da Acquamela nella stessa direzione boreale vi sono altre cave che non ho potuto visitare, e non saprei dire se il tufo di Fisciano provenga da distinto centro eruttivo. La maniera come sono allogate le cave lungo il corso dell’Irno, nella medesima direzione da borea a mezzodì per lo spazio di quattro chilometri, potrebbe derivare da di- versi spiragli eruttivi così disposti in linea secondo la direzione delle colline calcaree pres- so le cui basi si sono aperti. Senza respingere, nè adottare fermamente questa probabile supposizione, importa riconoscere che le qualità del tufo delle medesime cave, tranne piccole differenze di colore, sono sempre le stesse.Esso è stato cavato sino alla profondità di circa venti metri, secondo il giudizio delle persone addette ai cavamenti, ed in una gava ove si era raggiunto l’estremo inferiore del tufo, ad esso sottoposta si è incontrata una sostanza gialla molle come fango che ho curato raccogliere per esaminarla nel labo- ratorio. Debbo credere che anche a maggiori profondità si rinvenga il tufo, essendovi - 55 presso Acquamela una cava dalla quale si estrae il tufo addetto alle costruzioni edilizie per cuniculi sotterranei; ed il tufo estratto da questi cunicoli è alquanto diverso da quello di altre cave per il colore che tende un po’ al violetto, conservando tutte le altre qualità del tufo salernitano. La prima qualità che si manifesta a chi osserva da vicino il tufo della sponda si- nistra dell’Irno è la sua fragilità, ed ammessa la sua uscita dalle bocche eruttive in i- stato fangoso, sembra quasi lo stesso fango eruttato da pochi anni non del tutto rasso- dato, e senza alcun segno di patito metamorfismo. La divisione in colonne prismatiche che in esso di tratto in tratto s'incontra, effetto del ritiramento avvenuto nella roccia pro- sciugandosi, è un’altra pruova della sua origine fangosa.Un altro carattere di differenza tra il tufo di Salerno e quello di Fiano e di Fossa lupara si trova nella grandezza, nella struttura e nel colore delle scorie che vi sono rinchiuse, le quali sono piccole, di raro giungendo ad avere quindici millimetri di diametro, con tessitura fibrosa e colore bigio nericcio, mentre a Fiano sono nere, hanno tessitura cavernosa, e se talvolta ancor esse so- no piccole, se ne trovano altre non rare della grandezza di circa un decimetro. Le stesse scorie del tufo di Salerno osservate con lente di forte ingrandimento, o meglio col mi- croscopio, si veggono quasi fossero formate di minuti cristallini vitrei, e questo carattere sì osserva nelle scorie di Fiano soltanto ove la roccia è metamorfizzata. Merita pure essere considerato un altro carattere facile a scuoprirsi nel tufo della sponda sinistra dell’ Irno da chi l’osserva con attenzione, consistente in molte piccole macchie bianchiece circolari da uno a due millimetri di diametro cosparse nella roccia. Questo carattere, se non è per tutto costante con la medesima chiarezza, è per lo meno assai frequente dal ponte della Fratta sino ad Acquamela, e nella tufara ad oriente del medesimo ponte è tale la frequenza delle macchie bianchicce che l’ attento osservatore non può astenersi dal chiedere d’ onde esse provengono. Nel centro di ciascuna mac- chia vi è un punto quasi vi fosse una cavità centrale, e talvolta le stesse macchie diven- tando più grandi sino a quasi quattro millimetri di diametro, la materia che le costitui- sce è nel mezzo vuota, e tale da poter meritare il nome di minute geodi. E finalmente si hanno assai più rare vere geodi, almeno in apparenza, come quelle abbontantissime di Fossa lupara. Ne ho raccolto di grandezza variabile tra tredici e trentadue millimetri nel diametro maggiore. 9 Nel visitare le tufare salernitane era naturalmente preoccupato dallo scopo prin- cipale delle mie ricerche, ch’ era di rinvenire in esse sostanze fluorifere, ed a questo mi parve di aver soddisfatto avendo trovato le poche geodi somiglianti a quelle di Fossa lupara, nè cercai sopra luogo migliori pruove per accertarmi della vera natura delle piccole macchie bianchicce. È stato di ritorno in casa che esaminando i campioni rac- colti mi accorsi esservi qualche macchia di circa quattro millimetri con incavo nel mez- zo, e ciò mi fece pensare che la sostanza che costituisce le piccolissime macchie bian- che fosse la stessa di quella delle geodi, trovando un graduale passaggio tra questi due estremi. Per conoscere quel che ci è dato sapere, sì delle macchiette bianchiece che delle geodi che hanno lo stesso colore, osservate nel tufo salernitano, ho reputato necessario prima di sommetterle ai saggi analitici, di esaminare i loro caratteri fisici. Le geodi non sono in realtà le stesse di quelle di Fossa lupara e delle altre che si vedranno assai fre- quenti nei depositi tufacei della Campania. Le loro pareti sono fragili come la roccia - See che le contiene, nè da questa è possibile distaccarle nettamente. Le stesse pareti sono formate di tre strati, il più esterno bianchiccio, al quale succede un altro rossiccio ed il più interno è in gran parte formato di granelli neri. Osservate al microscopio, lo strato esterno si scorge avere tessitura granellosa con frequenti spazietti vuoti interposti tra i granelli che sono bianchi opachi con frequenti puntini neri magnetici ed alquanti gra- nelli vitrei: nello strato medio vi sono gli stessi granelli dello strato esterno ai quali se ne aggiungono alcuni rossastri che gli dànno il suo particolare colore; lo strato inter- no, specialmente nella sua faccia interna, è in gran parte formato di granelli neri con isplendore metallico e magnetici.Nelle piccole macchie, similmente osservate, si scorge pure la parte esterna formata come lo strato esterno delle geodi, e nel centro vi sono granelli neri con isplendore metallico. Quindi non mi sembra potersi stabilire alcuna dif- ferenza essenziale tra la composizione delle macchie e quella delle geodi. Stritolando leggermente le pareti di due delle quattro geodi che mi era riuscito raccogliere, per meglio osservare separatamente gli elementi che le costituiscono, ho potuto assicu- rarmi che in esse vi.sono molti piccoli granelli di ortoclasia vitrea, che sono i granelli vitrei osservati col microscopio, ed anche qualche frammento grandetto di ortoclasia. Nelle geodi fluorifere di Fossa lupara sono frequenti i cristalli di ortoclasia impiantati sulla loro superficie, ma questa frequenza di minuti granelli della medesima specie in- viluppati sin nella parte più interna delle geodi del tufo salernitano è ad esse esclu- siva. Per la ricerca del fluore, dopo l’accurata separazione dei granelli di ortoclasia dalla polvere sottile ottenuta stritolando le geodi, sperimentata la medesima polvere con l’acido solforico, non si è avuto alcun indizio di fluore. Ripetuta la ricerca dopo la fusione della medesima polvere con i carbonati alcalini , il risultamento è stalo pure ne- gativo. Vedremo da qui a poco la presenza dei fluoruri in altre produzioni delle tufare di Salerno, per cui non mi occorre dichiarare fallita la ricerca del fluore se non si è tro- vato nelle geodi analizzate. Intanto le stesse geodi e le piccole macchie bianche da esse non diverse costituiscono un fatto del quale non so rendermi ragione ; ed ho voluto esaminarlo ed esporlo con tutti i particolari che ho potuto raccogliere, perchè sia preso in considerazione da chi nell’avvenire vorrà occuparsi dell’argomento della presente memoria. Mi sembra probabile che speciali frammenti di rocce mescolati con le materie che costituiscono il tufo abbiano dato origine trasformandosi alle descritte geodi; ma non mi è dato sapere nè la composizione dei medesimi frammeuti, nè la maniera come si siano trasformati nello stato in cui ora si trovano. Nella tufara che sta di rimpetto allo stabilimento industriale Schlaepfer, Wenner e C€., poco più di un chilometro discosto dal ponte della Fratta, essendo giunto il cavamento del tufo sino al suo limite inferiore, sottoposto alla roccia compatta si trova una so- stanza molle come fango di color giallo, della quale ho voluto raccogliere un campione per esaminarla, come innanzi è detto, non essendo frequente l’occasione di vedere le materie sottoposte al tufo come si è veduto a Fiano eda Fossa lupara.Ed ora sulle sponde dell’Irno questo deposito fangoso giallo, per certo diverso da quelli delle precedenti tu- fare, è un novello fatto che viene a comprovare la tesi generale, che cioè i depositi vul- canici della Campania, così distinti per caratteri diversi, hanno diverse provenienze limi- late alle contrade ove essi si rattrovano. Il fango ben prosciugato conserva lo stesso Ubi colore giallo che aveva bagnato; si riduce facilmente in polvere, e separata con finis- simo staccio la polvere impalpabile dai granelli più grandi, ho trovato in questi alcune specie mineralogiche, delle quali importa dare notizia. Vi sono frequenti i cristalli di ortoclasia vitrea ammirevoli per la nitidezza e per il numero delle loro facce , avendo ri- conosciuto in alcune di essi le facce (100), (010), (001), (110), (130), (021).I cristalli della medesima specie incontrati nei depositi sabbiosi di Fiano e di Fossa lupara si è veduto avere le loro facce scabre per una sostanza vitrea simile all’ ossidiana che le ri- copre, e che dimostra essere usciti da una sostanza vitrea fusa, e quelli al contrario del fango giallo le hanno nitidissime; specialmente la grande faccia (010), che nemmeno è così nitida nei cristalli che si possono estrarre dal tufo. Vi sono pure alcune lami- nucce di mica nera, e più di ogni altra cosa ho trovato importanti , non rari cristalli prismatici, bislunghi, neri e nitidissimi, che per le misure goniometriche ho riconosciu- to appartenere all’ augite. Se per i rari cristallini di augite osservati nella grossolana sab- bia e nella sostanza bianca di Lanzara ho potuto sospettare che provenissero dal Vesu- vio, per questi del fango giallo non può aversi lo stesso sospetto, non essendovi nella loro forma alcuna somiglianza con le produzioni vesuviane. E dobbiamo conchiudere che essi come le laminucce di mica, ed i cristalli di ortoclasia provengono dalla bocca erut- tiva che ha dato origine ai depositi vulcanici di quella stessa contrada. D’ ordinario s0- pra i cristallini di augite sono impiantati minutissimi granelli di magnetite, per cui essi sono attratti da un semplice ago calamitato. Con i precedenti cristalli vanno uniti altri piccoli frammenti di rocce che non hanno mai più di tre millimetri di diametro. Essi sono quasi tutti di forma ritondata di color nero, e molti di essi sono attratti dall’ ago calamitato. Per la loro forma si può argo- mentare che siano stati per lungo tempo sottoposti all’azione delle acque in movimen- to, ed effetto delle medesime acque non tranquille può ritenersi la polvere impalpabile che entra per più dei nove decimi a far parte del fango giallo. Per avere qualche co- noscenza della composizione di questa polvere gialla ho fatto i seguenti esperimenti. Riscaldata al calor rosso ha perduto 9,09 centesimi del suo peso. La polvere disidra- tata con l’acido cloridrico bollente si è in parte disciolta lasciando 74,52 per cento di residuo insolubile di color bigio chiaro. Da grm. 0,403 del residuo insolubile, fuso col carbonato sodico potassico, ho avuto di silice grm. 0,187 che corrisponde a 46,40 per cento; negli altri elementi ho riconosciuto la presenza dell’ allumina, dell’ ossido ferrico e della calce. La fragilità del tufo salernitano si presta favorevole ad un’ accurata indagine della sua composizione litologica; dappoichè stritolandolo con le dita si separono agevolmen- te gli elementi che lo compongono, e così separati si possono senza difficoltà distingue- re; la qual cosa non può eseguirsi con la medesima comodità nelle rocce tufacee com- patte, non potendosi in esse scuoprire integralmente nemmeno gli elementi visibili nel- la superficie delle fratture. Ho preferito per questa operazione il tufo della cava ch’ è ad oriente del ponte della Fratta; e di esso gran parte si è ridotta in polvere impalpa- bile che ho separato con finissimo staccio. Fra i minuti granelli da mezzo millimetro a poco più di un millimetro ve ne sono molti energicamente magnetici, in altri alquanto più grandetti ho trovato molte laminucce di mica nera e rari cristallini bislunghi di au- gite; tra i brandelli più grandi, oltre i frequenti cristalli di ortoclasia riconoscibili in tutti i tufi dei vulcani fluoriferi, e le piccole scorie, vi sono molti pezzetti di rocce che Arti — Vol II. — Serie 2. — N. 2. 8 de hanno la durezza delle lave, e ve ne sono di colore diverso, alcuni angolosi, altri di forme rotondate. Tranne le laminucce di mica nelle loro faccette di sfaldatura, nella su- perficie di tutti gli altri elementi aderisce fortemente la sostanza del tufo; talchè i cri- stalli di ortoclasia e di augite, ben diversi da quelli nitidissimi trovati nel fango giallo, hanno le loro facce appannate, e nei granelli magnetici non si scuopre splendore me- tallico. Se avessi potuto dedicare maggior tempo a visitare le tufare di Salerno son certo che vi avrei trovato altri particolari degni di nota, siccome debbo argomentare da un ammirevole accozzamento di geodi della grandezza di ventidue centimetri nel fram- mento che mi è giunto intero, e che l'Avv. Carlo Granozio ha avuto la cortesia di mandarmi. Esso stava rinchiuso nel tufo della suddetta cava ch’ è ad oriente del ponte della Fratta. Le geodi che lo costituiscono, sono bianchicce, le loro pareti hanno la grossezza di due a tre millimetri, e la loro grandezza media è poco maggiore di tre centimetri. Esse sono strettamente congiunte insieme, e di figura molto irregolare come sarebbe riuscita se essendo le pareti poco consistenti si fossero deformate per una scambievole pressione; e per la stessa ragione le pareti delle geodi sono spesso tal- mente saldate insieme da non poter discernere la linea della loro unione. Tra le stra- nezze, di cui mi è difficile rendermi ragione, trovate in quest’accozzaglia di geodi è il tro- varsi in essa impigliati alquanti duri globetti di grandezza variabile tra quattro e sedici millimetri. Vi si trovano anche interposti non rari brandelli angolosi di varie rocce dure come le lave, altri lapilli di forma irregolare di color bruno quasi fuliginoso; e frequen- ti cristalli di ortoclasia vitrea, che talvolta sono infissi profondamente nella superficie esterna delle geodi. Nell’interno poi esse racchiudono un nucleo libero di sostanza po- rosa nericcia, e le loro pareti interne sono variamente ricoperte ora da una crosta pa- piracea giallastra, ora da croste più doppie di color bruno, facili a distaccarsi. Non mi dilungo ad esporre altri particolari di questo complicatissimo accozzamento di materie vulcaniche, persuaso che riuscirei anche meno intelligibile al lettore, essendo già diffi- cile formarsene una giusta idea vedendolo e rivedendoio più volte. La prima mia cura è stata di analizzare la sostanza che costituisce il nocciolo del- le geodi, prevedendo che potesse essere un fluoruro. Guardata ad occhio nudo non pa- re che abbia splendore; ma osservata col microscopio si scorge formata di minuti gra- nelli vitrei dotati di vivace splendore e di forma rotondata, i quali si congiungono la- sciando molti spazietti vuoti interposti. Nella sua polvere si contengono molti granelli magnetici, e riscaldata al calor rosso non ha perduto che 0,35 del suo peso. Gittata in crogiuolo di platino rovente non si è mostrata fosforescente come la fluorina ialitiforme di Fiano. La sua densità si è trovata eguale a 3,046. Saggiata con l’acido solforico, ha manifestato molto energica la reazione del fluore. Da grm. 0,413 della sua polvere dopo il trattamento con l'acido solforico, ho avuto l'aumento di grm. 0,229, dal quale si de- duce la quantità del fluore eguale a grm. 0,150 = 36,32 per cento, ed il fluoruro di cal- cio eguale a 74,55 per cento. Questo nocciolo che si trova nell’interno delle geodi formato per la massima parte dal fluoruro calcico granelloso cristallino è tale fatto che presenta una notevole diffe- renza ragguagliato con i proietti incontrati nelle precedenti tufare, nei quali si osserva che internamente si rattrova parte della roccia nettuniana non metamorfizzata. Nelle geodi di piccola mole, che in seguito dovremo esaminare nelle tufare di Gragnano, que- i — sta condizione si verifica in ispecial modo distinta, dappoichè spesso contengono un nocciolo libero di calcite, essendo la buccia mutata in fluoruro. La qual cosa è conforme a ciò che si doveva attendere per l’azione del fluoruro di silicio sopra i frammenti calca- rei che sono stati trasformati soltanto nella parte esterna che doveva essere la prima a trasformarsi in fluoruro, e per insufficienza dello stesso fluoruro di silicio la parte in- terna ha conservato la primitiva composizione. Nei casi ordinarii le piccole geodi 0 s0- no nell’interno quasi vuote, o racchiudono materie fluorifere di apparenza litoidea; ed è nelle sole geodi aggruppate delle tufare di Salerno che si trova un nocciolo libero di fluorina granelloso-cristallina. Nella composizione delle pareti delle medesime geodi i finoruri, per quel che ora si è detto, dovrebbero essere più abbondanti. Non pertanto il loro aspetto fa presume- re che avessero sofferto notevoli alterazioni. Tra i granelli che le compongono interce- dono molti spazietti vuoti, e vi sono mescolati sin nelle parti più interne frequenti fram- menti di cristalli di ortoclasia e minuti brandelli di rocce litoidee con qualche cristallino di augite ed alquanti granelli neri magnetici. Avendole acciaccate e separata la polvere più sottile che se n’è ottenuta, ho dalla medesima polvere ottenuto debole reazione di fluore. E non me ne sono più occupato, non reputando di alcuna utilità ricorrere a più minuziose indagini sulle pareti di queste geodi , bastandomi sapere che in esse vi sono dei fluoruri, e che probabilmente ne contenevano in maggior copia quando erano intatte nella prima loro formazione. Ho intanto fatto i seguenti esperimenti per avere qualche notizia della com posizio- ne chimica delle altre materie che rendono complessa più di quello che si potrebbe cre- dere questa congerie di produzioni vulcaniche ; ed in particolare ho esaminato i lapilli di color bruno interposti tra le geodi, e le lamine papiracee giallicce e le altre più gros- se di color bruno che sogliono aderire alla superficie interna delle geodi, ed in ultimo luo- go i duri globetti che più di ogni altra cosa richiamano l’ attenzione dell’ osservatore. I lapilli bruni hanno tale particolare aspetto fuliginoso che sembrano essere stati esposti al fumo, ed è facile distinguerli dai frammenti che hanno la durezza e l’ appa- renza delle lave. Mentre veduti ad occhio nudo non si riconosce in essi unione di parti diverse, osservando al microscopio, sia la loro superficie esterna sia la superficie delle fratture, si veggono composti da granelli di vario color bruno alquanto splendenti me- scolati con altri granelli bianchi i più destituiti di splendore e qualcuno splendente. Ac- ciaccandoli col martello si scuoprono in essi frequenti cristalli di ortoclasia, ai quali aderiscono fortemente i minuti granelli; ed è questa la cagione che non fa vedere l’ or- toclasia nemmeno nella superficie delle fratture, a meno che non si abbiano le fratture degli stessi cristalli di ortoclasia. Nell’ acido cloridrico si sciolgono in gran parte senza effervescenza, lasciando i cristalli di ortoclasia con la loro naturale nitidezza. La polvere che se ne ottiene soppestandoli leggermente contiene molti granelli magnetici, riscaldata al calor rosso perde 8,71 per cento del suo peso, e fusa col carbonato sodico o col sal di fosforo manifesta molto distinta la reazione del manganese. Trattandola con l’a- cido solforico non ho ottenuto che incerta reazione del fluore; e per meglio assicurarmi della presenza o mancanza del fluore, essendo ricorso alla precedente fusione col car- bonato sodico potassico, la sostanza fusa è riuscita di colore azzurro intenso, e dalla sua soluzione acquosa, resa acida con l acido acetico, ho ottenuto non lieve precipitato col cloruro di calcio. Da grm. 0,361 della polvere analizzata ho avuto grm. o 977 di fluoruro calcico che corrisponde a 21,33 per cento. iii Le lamine brune che rivestono le interne pareti delle geodi, della spessezza variabile tra mezzo millimetro ed un millimetro, ancor esse osservate al microscopio lasciano scorgere ciò che ad occhio nudo non sì saprebbe sospettare. Osservandole per la loro faccia interna si osservano composte dei medesimi granelli che costituiscono i lapilli fuliginosi, con la differenza che i granelli bianchi vi son rari. Osservandole per la faccia esterna, per quella cioè che si applica alle pareti delle geodi, si osservano quasi da per tutto granelli cristallini bianchicci. Soppestandole col martello si ottengono alquanti frammenti di cristalli di ortoclasia che non appariscono nella loro superficie, e nella polvere si hanno granellini magnetici e le reazioni del manganese. La medesima pol- vere riscaldata al calor rosso non ha perduto che 2,14 per cento del suo peso. Trattan- dola con l’acido solforico si è avuta profonda corrosione del vetro, e grm. 0,465 hanno dato grm. 0,181 di aumento nel loro peso. Quindi si deduce la quantità del fluore eguale agrm. 0,1186=25,55 per cento. Questa quantità di fluore maggiore di quanto avrei po- tuto prevedere mi fa credere che i granelli cristailini che ricuoprono la faccia esterna delle lamine brune siano in tutto formati di fluorina. Ed importa pure osservare che la quantità di fluore data dall’ analisi deve ritenersi maggiore di quella che realmente si contiene; dappoichè nelle lamine brune come nei lapilli dello stesso colore vi è non pic- cola parte di manganite, ed il solfato di manganese essendo difficile a scomporsi col calore, l'aumento del peso trovato dopo il trattamento con l’ acido solforico non è tutto dovuto all’avere questo acido sostituito il fluore. Le sottili lamine giallicce che hanno la spessezza di un foglio di carta, 0 talvolta di poco maggiore, osservate al microscopio si seuoprono formate di granelli la maggior parte splendenti con alquanti punti neri magnetici; e confidando nei caratteri appa- renti che mi inducevano a crederle formate di fluorina quasi pura, per assicurarmene ho trattato la loro polvere con l’acido solforico. L’ esperimento ripetuto due volte non mi ha manifestato alcun indizio di fluore. Fallito questo esperimento, sospettando che la presenza della silice impedisse la riconoscenza del fluore, son ricorso all’ altra ma- niera di riconoscerlo dopo la fusione con i carbonati alcalini. Ed ho verificato che real- mente ne contengono. La quantità della polvere fusa con i carbonati alcalini non è stata determinata, perchè mi proponeva di fare soltanto un saggio qualitativo; nondimeno la quantità di fluoruro calcico ottenuta in proporzione di quella avuta da lapilli bruni è stata per certo maggiore. E se avessi potuto disporre di maggiore quantità di queste lamine papiracee, mi sarei occupato a farne più accurata analisi. I duri globetti di variabile grandezza che si trovano inviluppati nell’ aggruppamento di geodi del tufo Salernitano costituiscono un fatto del quale non mi sembra facile dare una soddisfacente spiegazione. Vedremo in seguito che se ne trovano anche più grandi a Pacognano, e se ho creduto potersi avere una probabile opinione sulla origine dei così detti pisoliti di Lanzara innanzi menzionati (pag. 48), per questi globetti, il cui diametro giunge ad essere maggiore di 15 millimetri, non è possibile supporre che si siano formati allo stesso modo. Essi hanno superficie levigata di colore cinereo guardan- doli ad occhio nudo; l'osservazione microscopica sia nella parte esterna come nell’ in- terna li dimostra formati di granelli bruni e bianchi, come si è detto per i lapilli bruni, con la differenza che i granelli bianchi sono alquanto in maggior copia. Soppestati per iscuoprire se vi fossero i frammenti di ortoclasia, non li ho trovati, e soltanto nei gra- nelli della polvere osservati al microscopio si veggono alcuni granelli vitrei, che per la — dd forma angolosa reputo appartenere all’ ortoclasia. La stessa polvere contiene le solite particelle magnetiche che non mancano mai nelle nostre produzioni vulcaniche, riscal- data al calor rosso ha perduto 7,54 per cento del suo peso, e con l’acido solforico non ha manifestata la reazione del fluore. Fusa con i carbonati alcalini si è comportata in tutto come la polvere dei lapilli bruni, lo stesso colore azzurro intenso della massa, e nelle medesime condizioni lo stesso precipitato di fluoruro calcico. Da grm. 0,273 della polvere ho avuto grm. 0,021 di fluoruro calcico. Si ha dunque nello strano accozzamento di elementi diversi fin'ora esaminato che ogni elemento contiene fluore, mentre ie geodi rinchiuse nel tufo, che per analogia avrei dovuto credere fluorifere, non ne contengono. Ciò non ostante debbo osservare che da questo fatto non si può argomentare che nella eruzione, che ha dato origine al mede- simo tufo, non vi sia stata emanazione di fluoruro silicico; dappoichè la pruova della emanazione di questa sostanza gassosa l’abbiamo nei frammenti di calcite che da essa sono trasformati in fluorina. Se dunque nelle materie costituenti il tufo non vi erano mescolati frammenti di rocce nettuniane, non vi poteva rimanere alcuna pruova del fluo- ruro silicico emanato. In tanto nel descritto mucchio di geodi che si è trovato rinchiuso nel tufo si ha la dimostrazione di due fatti che importa prendere in considerazione. 1. La sua primitiva formazione ha preceduto |’ eruzione che ha dato origine al tufo nel quale esso si è trovato inviluppato ; esso è un frammento distaccato da un de- posito che già esisteva quando avvenne questa eruzione, e che aveva avuto origine da eruzione precedente; nè su questo può cader dubbio, non essendo possibile che la con- gerie di elementi che costituiscono il mucchio si fosse generata nel tufo già depositato. 2.° In secondo luogo si ha la dimostrazione che in questa eruzione precedente vi è stata emanazione di sostanze fluorifere che han mutato in fluoruri le rocce nettu- niane. Quando sin dal 1881 ho cominciato ad esaminare con novello indirizzo i tufi vulca- nici che si trovano nelle Provincie di Terra di Lavoro, nei due Principati e nella penisola Sorrentina della Provincia di Napoli, di due principali fatti aveva trovato le pruove evi- denti; che cioè ciascun deposito tufaceo indipendentemente dagli altri riconosceva la sua origine da eruzione speciale avvenuta nello stesso luogo ove il tufo trovasi depositato ; e che in tutte queste eruzioni, avvenute a qualche distanza le une dalle altre, vi è stata ab- bondante emanazione di fluorido silicico, che ha mutato in fluoruri e silicati i frammenti di rocce nettuniane che si trovavano inviluppati nel conglomerato tufaceo. Era altresì ne- cessario ricercare la ragione perché questi depositi vulcanici, non seguendo l’ ordinaria disposizione topografica dei vulcani , si trovano avere superficie spianata. E su questo tema pel quale le prime osservazioni mi permettevano di avere soltanto probabile congettura, per le novelle osservazioni già esposte, si è veduto che possiamo ritenere le materie erut- tate essere uscite mescolate all'acqua che le ha fatte dilagare intorno alle bocche eruttive senza che si fossero formate prominenze coniche con crateri nel vertice. E poi si è potuto leggere un’ altra pagina della storia dei vulcanetti della Campa- nia espressa a chiare note nelle tufare di Fossa lupara, di Fiano e di Salerno; si è potuto sapere che le eruzioni che han dato origine al tufo delle attuali cave sono state precedute da altre eruzioni di materie diverse da quelle che costituiscono il conglomerato tufaceo. Le materie trovate sotto il tufo, ove i suoi cavamenti hanno raggiunto il limite inferiore, = 69 = e gli speciali aggruppamenti di geodi fluorifere, che come rocce straniere sono rinchiuse nel tufo, non ci lasciano desiderare migliori documenti per avere notizie di queste eruzioni primitive, sulle quali dovrò ritornare discorrendo della tufara di Pacognano. Intanto quando considero i particolari del descritto aggruppamento di geodi rinvenuto nel tufo di Salerno, non so astenermi dallo spingere lo sguardo sino ad investigare alcuni particolari fatti che al medesimo diedero origine. Facendo attenzione alla forma delle geodi, che lascia supporre le loro pareti essersi trovate in tale stato di mollezza da per- mettere che con la loro scambievole pressione si fossero deformate ; al trovarsi nelle stesse loro pareti non rari frantumi di ortoclasia e minuti pezzetti di rocce, che non sembra pro- babile vi si trovassero nella primitiva formazione delle medesime geodi; il trovarsi impi- gliati tra le geodi e frequenti cristalli di ortoclasia con gli angoli smussati , e svariati brandelli di rocce, e, quel che più fa maraviglia, i globetti formati da granelli di svariata natura; tutto mi porta a credere che questa strana congerie di elementi diversi ci attesta una serie di fenomeni di non breve durata che han prodotto questi diversi elementi, ed in ultimo luogo l’ intervento dell’acqua in movimento che li ha accozzati nella maniera così strana come ora li troviamo. Se in questa mia supposizione vi è qualche cosa che non può dirsi rigorosamente dimostrata, e se essa lascia desiderare una più particolareggiata espo- sizione dei fatti avvenuti, non sarà sconvenevole che io l’abbia esposta per promuovere la ricerca di migliori interpretazioni. Anche nella valle di Tramonti ad occidente di Salerno, non più lontana di quattro chilometri, vi è deposito di tufo osservato nel 1840, e che son persuaso abbia avuto ori- gine da speciale centro eruttivo di quella contrada, considerando le colline calcaree che la separano da Salerno. Non avendo potuto visitarlo in questi ultimi anni, debbo con- tentarmi di averlo ricordato. Tufare di Gragnano e di Lettere. Il tufo di Gragnano è molto simile a quello di Salerno per il colore, per le piccole scorie che racchiude e per gli elementi litologici che lo costituiscono. Se ne differenzia essenzialmente perchè contiene frequentissime geodi fluorifere di grandezza variabile tra diciassette e sessanta millimetri; e vi sono due maniere di geodi : alcune racchiudono materie litoidee fluorifere, come spesso se ne trovano a Fiano ed a Fossa lupara, altre racchiudono un frammento libero di calcite, e talvolta intorno al frammento di calcite la crosta non è intera, e pare come se fosse semplicemente abbozzata. Di questo fatto la interpretazione è molto facile, dappoichè i piccoli frammenti di calcite di origine nettu- niana investiti dalle esalazioni fluorifere, ora abbondanti ora scarse, si sono trasformati nel primo caso completamente e nel secondo alla superficie soltanto. Nei depositi tufacei che in seguito saranno esaminati si vedrà quasi da per tutto che essi contengono piccole geodi fluorifere che non hanno mai diametro maggiore di sette centimetri. E se a Fiano ed a Fossa lupara, ove si hanno proietti di grandezza molto variabile, si ha la dimostrazione che i grandi proietti provengono da rocce nettu- niane metamorfizzate, perchè internamente spesso si trova la calcite che conserva non alterata la sua primitiva composizione, per le piccole geodìi, che sin dal 1840 aveva o0s- servato frequentissime nel tufo di Terra di Lavoro e dei due Principati, non mi sembrava es — 63 assicurata la medesima origine. Quindi è che mi è giunto opportuno il rinvenimento delle geodi di Gragnano con un frammento di calcite interno , giacchè per esse non mi resta più alcun dubbio che anche le piccole geodi delle altre contrade derivano da fram- menti di rocce nettuniane. Non fidando molto a giudicare per analogia, giacchè le geodi del tufo di Salerno, che aveva supposto essere fluorifere, ho trovato che non contengono fluore , non ho trascurato di ricercare la composizione delle geodi del tufo di Lettere. La loro parte in- terna è simile ad argilla indurita di colore gialliccio con frequenti fenditure, e sulle pa- reti delle fenditure, osservandole con lente di forte ingrandimento, si scuoprono molti granelli vitrei bianchi. Della stessa parte interna sottilmente polverizzata grm. 0,345 con l’acido solforico han manifestato forte reazione di fluore ed han dato grm. 0,232 di au- mento nel loro peso. Quindi si ha la quantità del fluore eguale a grm. 0,152 = 44,06 per cento. La crosta della stessa geode nella sua faccia interna aveva frequenti globetti cristallini, e liberata alla meglio dalle materie del tufo che vi erano aderenti, ha mani- festato con l’acido solforico la stessa reazione del fluore. Da grm. 0,328 della sua pol- vere ho avuto grm. 0,191 di aumento che dà di fluore grm. 0,125 = 38,11 per cento. E la quantità del fluore si sarebbe trovata certamente maggiore se alquanto del tufo non fosse stato mescolato alla crosta. La calcite che si trova nell’interno delle geodi è granellosa e facile a risolversi in piccoli granelli quando si stropiccia con le dita. Si solve nell’ acido cloridrico con effer- vescenza, tramandando forte odore d’idrogeno solforato, e lasciando scarso residuo in- soluto. Nella soluzione si ha debole reazione di acido solforico e di magnesia. Da grm. 5,028 della calcite ho avuto, grm. 0,191, ovvero 3,80 per cento, di granelli non attac- cati dall’acido; i quali osservati al microscopio sono nitidi, trasparenti, di forma irrego- lare, e saggiati con l'acido solforico, ho riconosciuto essere formati di fluoruro calcico. Tra i particolari del tufo di Gragnano sono da notare alcuni strati di pomici gial- licce che nelle peregrinazioni del 1839 e 1840 osservai pure in altri luoghi della Cam- pania. Nelle brevi peregrinazioni che ho potuto fare in questi ultimi anni non ho avuto occasione di fare nuove osservazioni su questi problematici strati di pomici, nè la me- moria mi soccorre per dire quello che osservai sono già poco meno di cinquant’anni. Non di meno stimo opportuno per la storia dei nostri vulcani fluoriferi di aggiungere ciò che trovasi pubblicato sin dal 1849 nella mia prima memoria geologica sulla Cam- pania ') quando era recente il ricordo dei fatti osservati, e conservava le annotazioni prese durante i viaggi che in gran parte mi duole siano andate smarrite. Intanto debbo av- vertire il lettore che allora, malgrado le difficoltà che incontrava alla mia opinione, non sapendo congetturare altro di meglio, nè potendo indovinare quello che dopo il 1880 mi è avvenuto di scuoprire, reputava i conglomerati vulcanici, sui quali versa il presente lavoro, provenienti dalla regione dei campi flegrei; ed essendo lontani dal luogo della loro supposta origine, li comprendeva sotto il nome di tufo di trasporto. E come fatti degni di nota di questo medesimo tufo esposi quello che aveva osservato sulle geodi, che allora non sapeva essere fluorifere, e sugli strati di pomici giallicce. « Particolari più notabili del tufo di trasporto. Oltre i bianchi minutissimi cristalli « dei quali ho testè favellato *), si trovano nel tufo di trasporto alcune geodi bianche 41) Memorie geologiche sulla Campania. Napoli 1849, pag. 42 degli esemplari tirati a parte. 2) Sono i cristallini che in seguito ho chiamati microsommite e che aveva osservati sin dal 1840. àÀ A x « « « A} 2 — gira o giallicce, terrose, dell’ ordinaria grandezza di una noce. Esse sono in taluni luoghi frequentissime, in altri meno abbondanti, e spesso mancano affatto. Si possono osser- vare in gran copia presso le sponde del Titerno a settentrione di Cerreto, ove il tufo è assai fragile, e le geodi si lasciano con faciltà da esso distaccare; sulle sponde del Calore presso la scafa di Amoroso, ove in modo più evidente dell’ordinario rilevano nella roccia le qualità dei conglomerati; presso S. Agata dei Goti; presso Calvi, lungo la strada che da questa Città mena a Capua, ed altrove. Quasi sempre le geodi si tro- vano nel tufo bruno, ed a M. Grande di Caiazzo ho trovato, in una di tali geodi più grande delle ordinarie, alquanti cristalli liberi di feldispato. Ne ho trovato anche più di raro nel tufo delle vicinanze di Sorrento, con la differenza che ivi le geodi sono di sostanza litoidea, alquanto traslucida, internamente tubercolosa che non dubito ap- partenga alla ialite ‘), e probabilmente della stessa ialite scomposta sono formate tutte le altre geodi. Quanto alla loro origine, avendo talvolta trovato nelle loro cavità un pezzetto libero di pietra verdiccia e friabile, porto avviso che esse nascano dalla scom- posizione di particolari frammenti di roccia contenuti nel tufo. « Nel medesimo tufo di trasporto, e spezialmente in quello della Provincia di Na- poli, di Salerno e di Avellino, s’incontra uno strato di altezza variabile tra tre decimetri ed un metro circa formato di piccole pomici giallicce incoerenti con pochi cristalli li- beri di feldispato. Il più delle volte lo strato di pomici si vede in mezzo ai banchi di tufo, ed in altri casi è al di sotto, o a questo sovrapposto. Esso può osservarsi tra Lettere e Gragnano, e precisamente presso Casa Guzzino ove si mantiene della spes- sezza di sei a nove decimetri, è sottoposto al tufo bruno con fenditure verticali, e ri- posa sopra altro letto di tufo tenero simile ad argilla. Il tufo superiore poi è ricoperto dalle pomici vesuviane che in questa contrada sono sparse in abbondanza ed è facile distinguerle da quelle che formano lo strato inferiore per la mancanza di cristalli li- beri di feldispato, e perchè sono invece mescolate con qualche frammento di leucito- fino e di calcarea ?). Lo stesso fatto con i medesimi particolari si rinviene presso Vico Equense. Lungo la strada che da Salerno mena a S. Severino, dopo il ponte ch’ è sul Crate sino a Casamele, lo strato delle pomici è ancora interposto fra le due varietà di tufo, ed in qualche luogo si scuopre soltanto tufo nero cosparso inferiormente di po- mici giallicce. Tra la Cava e la Trinità si osserva il medesimo strato di pomici con” giunto al solo tufo argilliforme, ed in molti luoghi delle vicinanze di Avellino, come lungo la strada di M. Vergine dalla parte di Ospedaletto, e lungo la strada di Montesar- chio esso è superficiale. Anche superficiale e sovrapposto al tufo giallo-bruniccio esso si mostra accosto la strada che da Napoli mena a Monteforte tra il miglio 21 e 22. Ho creduto necessario dover richiamare |’ attenzione dei Geologi su questo strato di po- . mici incoerenti, che non può dubitarsi essere contemporaneo al tufo di trasporto, ed aver con esso comune l’origine ed ogni altra condizione di giacitura; mentre poi per la particolare qualità dei suoi frammenti, e credo pure per la mancanza di sostanze polverose, conserva ancora la sua primitiva incoerenza, come lo strato delle pomici vesuviane col quale fa d’ uopo essere oculato a non confonderlo ». 1) Non so astenermi dal ridere rileggendo questo mio avventato giudizio, che troppo tardi ho avuto la fortuna di cor- rigere da me stesso. 2) Queste pomici sono quelle eruttate dal Vesuvio nell’ incendio dell’anno 79, e sono le stesse di quelle che han rico- perto Pompei e che a grandi distanze sono state dal vento trasportate a Gragnano, a Castellammare e sulle montagne di Sorrento, & eee Questi strati di pomici così diffusi in molti luoghi tra loro lontani si somigliano tal- mente da lasciar credere che sia unica la loro origine. E se quando supponeva che le rocce tufacee della Campania provenissero dai Campi flegrei ed era fresca la memoria dei fatti osservati li trovava ammirevoli e disputabili, ora che ritengo ciascun deposito di tufo indipendente dagli altri derivare da eruzione avvenuta nel luogo stesso ove esso sì rinviene, nè ben ricordo i fatti osservati nel 1839 e 1840, debbo rassegnarmi a ri- manere nella incertezza sulla loro origine. Tufare di Sorrento, di Vico Equense e di Pacognano. Il gruppo delle tufare di Pacognano, di Vico Equense, di Sorrento e di Massa Lu- brense, dopo quello di Fiano e di Fossa lupara, è il più importante ad essere esaminato per i fatti che in esso si possono studiare; e non farò menzione particolare del tufo di Massa Lubrense, osservato nelle peregrinazioni del 1840, non avendo avuto comodità di rivederlo nelle recenti peregrinazioni. I conglomerati vulcanici di questo gruppo si trovano nella catena di monti calcarei che per circa venti chilometri si prolunga nel mare diretta da greco a libeccio, e sono sulle sponde del mare a piedi dei monti calcarei rivolti a maestro, tranne quello di Pacognano ch’è alquanto più interno nel continente. Fo osservare, per coloro che mettono importanza a cercare le bocche eruttive dei val- cani allogate nella medesima direzione, che i depositi tufacei che ora prendo ad esami- nare uniti a quello già descritto di Gragnano sono tutti disposti nella stessa direzione. Il tufo di Sorrento ha tali speciali caratteri di compattezza che Scipione Breis!ak ‘) il cui giudizio non è da disprezzare in argomenti riguardanti i vulcani, lo riputò una lava. Avendolo visitato nel 1840, per le ragioni che esporrò da qui a poco, lo giudicai tufo metamorfizzato *). E per ammesso metamorfismo, essendo necessaria conseguenza che in prossimità di esso fosse la bocca eruttiva cagione della patita trasformazione, con- chiusi che la regione dei Campi flegrei si estendesse nel fondo del mare sino a Sorren- to. Per la nuova maniera di considerare l’ origine dei depositi vulcanici della Campania, quello di Sorrento trova tra i medesimi il suo posto naturale, e non è più necessario am- mettere questa diramazione dei Campi flegrei per circa trenta chilometri negli abissi del mare. Se in alcune parti il tufo di Sorrento ha quella tessitura compatta che lascerebbe credere essere una roccia fusa , talmente i suoi elementi sono saldati insieme, ciò deriva dal patito metamorfismo, che si riconosce per altri segni; e che non sia lava si riconosce facilmente quando si osserva in altre parti ove si scorge manifesto essere una roccia di aggregazione. Presso la stessa Città tra le molte varietà che esso presenta sono notevoli certi depositi di fragilissime pomici di color vario nei quali l'origine per l’unione di pic- coli frammenti è delle più evidenti che si possono desiderare; ed a breve distanza il tufo compatto contiene molte scorie nere, ed alcune, le più grandi che abbia vedute nella Campania, oltrepassano la misura di venti centimetri. Alquanto più lontano dalla Città si hanno i caratteri ordinarii dei conglomerati vulcanici. Quindi non rimane alcun dubbio che Sorrento sia edificata sopra una roccia vulcanica; e tenuto conto della gran- dezza delle scorie che annunzia la vicinanza al centro di eruzione, è credibile che que- 1) Topografia fisica della Campania, pag. 49. 2) Memorie geologiche sulla Campania. Nap. 1849, pag. 40 e 41 degli esemplari tirati a parte. ATTI. — Vol JI. — Serie 2. — N. 2. 9 na es sto centro stia proprio sotto la Città. Il tufo sorrentino in un taglio, che credo in gran parte artificiale presso l’ abitato, si scuopre per l’altezza di circa trenta metri, ed anche tufo si scuopre a profondità maggiore, nè conosco che in alcun punto sia stato cavato sino a raggiungere l’ estremo limite inferiore. Che esso sia stalo metamortizzato lo dimostra in primo luogo la quasi fusione dei suoi elementi presso la spiaggia che lo ha fatto confondere con le lave, il trovarsi in esso inviluppate le geodi fluorifere come quelle di Fossa lupara e di Fiano, ed il tro- varsì su taluni frammenti in esso incastonati i cristalli di microsommite, specie minera- logica generata per effetto di sublimazioni. Quanto alle geodi fluorifere non ne ho potuto raccogliere che poche; e quanto ai cristalli di microsommite, se taluno li ricercasse, e non riuscisse a trovarli, non se ne maravigli, perchè ancor io, che conservo nelle rac- colte del Museo mineralogico alquanti frammenti della natura delle lave ricoverti da molti cristallini di mierosommite raccolti nel 1840, non li ho potuto più trovare. Lungo la strada litorale che da Castellammare conduce a Vico Equense, poco più di un chilometro prima di giungere a questa Città, per i tagli praticati nella roccia ch'è a sinistra di chi segue quel cammino, sono messi allo scoverto frequenti depositi vul- canici terrosi di colore bruno giallastro sovrapposti alla calcarea. Quando si è per giun- gere a Vico Equense, sulla siessa calcarea vi è tufo nericcio che sulla marina, nel luogo detto pietre piane, costituisce vasto deposito indipendente dal tufo di Sorrento, come può argomentarsi per la lontananza dal medesimo, e per i suoi speciali caratteri. Quanto ai suddetti depositi terrosi giallastri resta a conoscere qual sia la loro pro- venienza. Dai campioni tolti per esaminarli in casa vi ho riconosciuto le seguenti qua- lità. Essi stemperati con |’ acqua o stritolati con le dita si risolvono in minuti granelli ai quali vanno uniti pochi lapilli pomicosi che all’ esterno conservano il colore bruno- giallastro della massa, e nell’interno, rompendoli, manifestano colore bianco e tessitura fibroso-cellulosa con particolare splendore tra il vitreo ed il margaritaceo assai vivace. Tra gli abituali caratteri dei conglomerati vulcanici della Campania di contenere gra- neili magnetici e frammenti di ortoclasia, ho riconosciuto la frequenza dei primi, ed in meglio di trecento grammi diligentemente esaminati non vi ho potuto scorgere la pre- senza dei secondi. La parte polverosa col riscaldamento ha perduio 11,04 per cento del suo peso, ed è divenuta di color rosso. Ho poi notato una condizione al certo im- portante di questa terra giallastra per la presenza dei cloruri solubili, sui quali dovrò in seguito esporre le ricerche che mi si è offerta l'occasione di fare. Alle pietre piane sulla marina vi sono alcune cave di tufo ch’è molto variabile; va- riabile per il colore, essendo talvolta bigio nericcio altre volte giallastro, ed in alcuni punti accidentalmente ora di color rosso, ora di color violetto; variabile non meno è la sua tessitura ora compattissima, che ha fatto dare alla roccia il nome volgare di piperno, ed ora per gradi fragile ed incoerente. In alcuni punti si fa notare la frequenza di nere scorie che giungono ad avere circa dodici centimetri di diametro; altrove sono frequenti i brandelli angolosi di dure ro‘ ce che non saprei dubitare essere stati divelti da antiche lave, e mi han fatto credere di essere sulle tracce di trovare qualche corrente di lava; ed avendo interrogato i cavatori che erano sul luogo se avessero veduto masse conti- nue somiglianti a quei frammenti, tutti mi han dato risposte negative. Tra le cose che ho con assidue investigazioni ricercato da che mi sono assicurato #2 = che i conglomerati vulcanici della Campania riconoscono la loro origine da parziali eru- zioni avvenute nello stesso luogo ove sono i conglomerati, è stata la ricerca di materie fuse che a guisa di torrenti sogliono essere eruttate dai vulcani, generalmente conc- sciute col nome di lave. Tutte le ricerche avendo dato risultamenti negativi, se in avve- nire se ne trovassero, si avrebbe un caso eccezionale degno di nota. E se sono valevoli le esposte ragioni che ci dimostrano i medesimi conglomerati provenire da eruzioni fangose, in tal sorta di eruzioni non è probabile che vi siano lave. Tra gli altri particolari che ho notato nel tufo di Vico Equense è la frequenza dei filetti bianchi tubolosi serpeggianti sulle pareti delle sue fenditure, somiglianti a quelli già descritti di Fossa lupara (pag. 14) e che reputo come quelli formati di silice idrata. Nel tufo poi sono abbondantissime le piccole geodi fluorifere di apparenza terrosa, tanto che han richiamata |’ attenzione dei contadini che le han dato il nome di caruli, forse volendo dire tarli. Mi ha fatto senso che tutte le geodi sian piccole, non avendone veduta alcuna che avesse diametro maggiore di cinque centimetri; e lo stesso si è ve- duto a Gragnano, e, tranne qualche rara eccezione, si vedrà in altre contrade che ci re- stano ad esaminare. Se queste piccole geodi provengono da proietti di rocce nettuniane che si sono metamorfosate, siccome è evidente per quelle di Gragnano, era da atten- dersi che vi fossero stati proietti di grandezza molto variabile, come appunto si è veduto a Fiano ed a Fossa lupara. A questa considerazione non intendo attribuire grande im- portanza; ma sento mancarmi qualche elemento che mi faccia intendere con maggiore chiarezza la origine delle geodì fluorifere terrose; come pure non so spiegarmi perchè nelle stesse cave di Fiano vi siano piccole geodi terrose, ed altri proietti, più piccoli delle stesse geodi, trasformati in fluoruri e silicati cristallizzati, quelli specialmente descritti col titolo di proietti micacei. ; Per la semplice ispezione oculare, ed anche col soccorso di una lente d’ingrandi- mento, non si scorge nulla di distinto nella superficie di queste geodi. Osservandole poi col microscopio, in aleune di esse ho scorto non rari prismi esagonali bianchi che reputo appartenere alla microsommite, ch’ è frequente nei proietti micacei di Fiano; in altre vi sono frequenti cristallini vitrei di color giallo o bianchi di forma non riconosci- bile, ed in altre vi sono minutissimi cristalli neri bislunghi (anfibolo?). É dispiacevole che non sia possibile separare questi elementi microscopici per avere di essi più esatta conoscenza. Intanto son di avviso che nelle geodi di Vico Equense s'ano i silicati più abbondanti che in altre consimili di diverse tufare; dappoichè con ripetuto esperimento ricercato in esse il fluore col mezzo dell’acido solforico, non ho ottenuto la corrosione del vetro. La qualcosa non mi era avvenuta in quelle già descritte di Fiano, di Fossa lu- para e di Gragnano, nè in altre cosparse nei tufi che saranno in seguito descritti. Che l’ esperimento fallito derivi dalla presenza di una straordinaria quantità dei silicati, me ne sono assicurato, avendo trovato il fluore, quando ho separato la silice fondendo la polvere con i carbonati alcalini. Nell’ interno delle medesime geodi, avendone aperte non poche, non ho mai trovato la fluorina ialitiforme; e vi sono invece diverse sostanze ora brune in forme laminari, ora cristalline di forme indeterminabili, le quali ancor esse con l’acido solforico non hanno dimostrato la presenza del fluore che ho ricono- sciuto dopo la fusione con i carbonati alcalini. A meno di due chilometri di distanza da Vico Equense è il villaggio detto Paco- * Meri (TREE gnano ove le vulcaniche produzioni che vi sono raccolte meritano le più attente consi- derazioni. Sono obbligato all’interesse che prende agli studii mineralogici il mio diletto scolare Sig. Andrea De Gennaro se ho avuto conoscenza di questo per me novello centro di eruzione. Avendomi egli fatto dono di alcune geodi fluorifere da lui raccolte, contraddistinte da caratteri non osservati altrove, mi ha fatto venire il giusto desiderio di visitare quella contrada; e poi con la sua guida e con ogni sorta di comodità esibitami dai suoi rispettabili genitori ho potuto senza disagio conseguire il mio scopo. Non più come a Sorrento ed a Vico Equense presso la bise di rocce calcare sulle sponde del mare, ma nel mezzo delle stesse rocce calcaree trovasi il deposito tufaceo di Pacognano, compreso in ampia valle di lunghezza poco maggiore della larghezza, e per posizione topografica affatto indipendente da quello di Vico Equense. Le qualità della roccia non sono gran fatto diverse da quelle del vicino deposito di questa Città; le varietà fragili sono meno frequenti, e più abbondanti le varietà compatte che anche qui si chiamano piperno. Mancano le varietà giallastre, le geodi fluorifere, dette càruli anche a Paco- gnano, che talvolta racchiudono la fluorina ialitiforme, vi sono meno abbondanti, e sono frequenti i brandelli di dure rocce, nelle quali avendo talvolta riconosciuto la presenza dei cristalli di ortoclasia vitrea, stimo doversi riferire alla trachite. Restandomi ad esporre altri particolari di maggiore importanza del tufo di Pacognano, per ora non voglio ta- cere che in molti punti le sue fenditure sono riempite da materie terrose così tenere da servire ai piccoli insetti (imenotteri?) che vi scavano cuniculi cilindrici per i loro nidi, ed in altri punti le pareti delle fenditure sono tappezzate da dure croste calcaree o da una varietà di calcite soffice come bioccoli di cotone. Nella parte più meridionale del deposito tufaceo la roccia assume un aspetto che per la composizione litologica e per le materie straniere che racchiude è affatto eccezio- nale; e non so astenermi dal credere che tali materie derivino da una bocca eruttiva diversa da quella che ha somministrato il tufo che ho descritto di Pacognano. Il con- glomerato è per la maggior parte formato di piccoli brandelli di trachite mescolati con cristalli di ortoclasia e sabbie che d’ ordinario sono rimaste incoerenti, o per lo meno assai facili a disgregarsi. Le materie straniere agli elementi vulcanici del conglomerato che vi si contengono assumono novelli caratteri non osservati in altre tufare; e vi si possono distinguere le seguenti tre categorie di proietti. 1° categoria '). Geodi dell’ ordinaria grandezza di circa cinque centimetri di dia- metro come quelle di Vico Equense e del tufo compatto di Pacognano, e contraddistinte per notevoli caratteri facili a riconoscere quando si hanno sott'occhio, difficili a descri- vere per farli intendere a chi non le ha presenti. Le ordinarie geodi da qual si voglia contrada provenienti hanno un guscio sodo di apparenza terrosa chiuso per ogni verso che non sempre è facile estrarre intero dal tufo se questo è compatto. Le geodi delle quali fo parola, essendo la roccia che le contiene poco coerente, si estraggono intere con i lapilli angolosi della medesima roccia prominenti sulla loro superficie, alla quale aderiscono per piccola parte. Esse poi sono aperte in uno o più punti, e non saprei al- trimenti fare intendere il carattere di queste aperture se non paragonando le stesse geodi a grosse bolle scoppiate, ed i margini delle aperture sono aspersi di sostanza bianchiccia. 1) N. 4054-57 della grande collezione del Museo. 22. 0 — Oltre questi caratteri riguardanti la loro configurazione, se ne hanno altri di mag- giore importanza per le materie che vi sono racchiuse; e principalmente si fanno notare certi cristalli aciculari trasparenti longitudinalmente striati, ed una sostanza bianca com- patta, opaca, destituita di splendore, con alcuni punti o piccole macchie nere; essa di- venta alquanto traslucida dopo la immersione nell'acqua. L’esatta determinazione specifica dei cristalli aciculari non è agevole per la grande difficoltà di raccogliere una discreta quantità dei medesimi liberi di materie straniere, quanto basta per una esatta analisi chimica; e però rimandando questo argomento alla seconda parte del presente lavoro, mi limito ad esporre i caratteri per i quali è fa- cile riconoscerli e distinguerli da tutte le specie note. Essi hanno qualche somiglianza con i cristalli di nocerina, e propongo denominarli pseudonocerina '). I cristalli sono ri- gidi, d’ordinario curvi, e talvolta ripiegati in direzioni opposte. Quando si trovano isolati sono esilissimi, ed in uno di essi lungo poco meno di nove millimetri ho trovato la sua grossezza minore di un ventesimo di millimetro. Il più delle volte sono lateralmente congiunti formando tali lamine che, per essere costituite da cristalli bislunghi tra loro paralleli, hanno l'apparenza di un pettine a finissimi denti. Altre volte sono congiunti in fasci cilindrici. Nei cristalli fin ora esaminati, quantunque splendenti, non mi è riu- scito misurare l’inclinazione delle loro faccette. Alla fiamma del cannello si fondono producendosi smalto bolloso, l'acido cloridrico bollente li scioglie con difficoltà, e con l’acido solforico manifestano la reazione del fluore. Nella sostanza compatta bianca ho riconosciuto la presenza del fluore con |’ acido solforico, ed una notevole quantità di acqua che si svolge riscaldandola al calor rosso. In tre esperimenti l’ acqua sprigionata col riscaldamento è stata variabile tra 19,89 € 21,07 per cento. Mi son pure assicurato che le macchiette nere derivano da un ossido di manganese, probabilmente dalla pirolusite, avendo ottenuto il colore azzurrino per la fusione con i carbonati alcalini, e non ho stimato procedere ad una difficoltosa ana- lisi quantitativa, sembrandomi che questa sostanza non costituisca specie mineralogica. 2. categoria. La seconda categoria di proietti ?) è formata da geodi di grandezza maggiore di quella rinvenuta nelle ordinarie geodi fluorifere, sino ad avere alquanto più di dodici centimetri di diametro; ed il carattere che meglio di ogni altro le contradistin- gue si ha nel trovarsi due o un maggior numero di esse tra loro congiunte con le bucce in vario modo distorte, in guisa da far credere che si fossero deformate per la loro scambievole pressione. Per questa condizione esse si possono ragguagliare alle geodi riunite in gruppi incontrati nel tufo di Fiano, di Fossa lupara e di Salerno (pag. 11, 14, e 58), i quali gruppi si è veduto appartenere ad eruzioni precedenti a quelle che ha som- ministrate le materie costituenti il tufo. Le bucce sono nella superficie di colore giallastro, di apparenza terrosa, ed osser- vate al microscopio vi ho riconosciuto non rari minutissimi cristalli con faccette rombi- che senza che avessi potuto assicurarmi per la figura di queste faccette se i cristallini fos- sero rombododecaedri o romboedri. Alle interne pareti delle geodi si trova aderente gran copia della sostanza bianca innanzi descritta; ed essendo esse in una o più parti aperte, 1) Ho adottato questo nome provvisoriamente per comodità di dinotare in seguito questi cristalli, i quali non po- trei dire con certezza che costituiscono una specie novella. Prima di passare alla seconda parte della presente memo- ria, destinata per le specie mineralogiche contenute nei tufi della Campania, spero procurarmi maggiore quantità dei medesimi cristalli per decidere con le analisi sulla esatta determinazione dei loro componenti. 2) N. 4032, e 4058-61 della grande collezione del Museo. — 70 — scuotendole con.lieve movimento, vengon fuori molte sostanze che vi si contengono senza aderire alla buccia. Tra queste ho trovato alquanti cristalli liberi di ortoclasia vitrea e qualche brandello di trachite che debbo ritenere siano stranieri alle geodi, ed in esse pervenute per le aperture. Ho poi trovato tra le medesime sostanze la maggiore quan- tità di cristalli o gruppetti di cristalli di pseudonocerina che ho potuto procurarmi , ai quali è dispiacevole che siano aderenti, senza che si potessero separare, diverse materie di color bianco o bruno. Vi sono inoltre frequenti granelli vitrei di forma variabile che stimo riferibili sia alla fluorina, sia alla pseudonocerina; altri granelli sono in forma di tubercoletti di color bianco ed opachi come la predetta sostanza bianca aderente alle bucce, ed in fine molte sostanze brune ora laminari, ora ramose ed ora di altre confi- gurazioni alle quali spesso sono aderenti minutissimi cristallini vitrei. Tutte queste sva- riate materie come pure le bucce delle geodi, saggiate con 1’ acido solforico, mi hanno dimostrata più o meno distinta la reazione del fluore. 3. categoria. Di questa categoria, ben diversa dalle due precedenti, non ho avuto che un solo campione ‘') ch'è una porzione soltanto del grande proietto al quale appar- teneva. Esso è concavo e tra le due estremità opposte intercede la distanza alquanto maggiore di venticinque centimetri. Vi è una esilissima crosta superficiale nericcia, ed a questa succede uno strato di color rosso giallastro con tessitura granellosa, e di spes- sezza variabile da uno a cinque centimetri. Nella superficie interna di questo strato si notano principalmente una sostanza vitrea bianca, ed assai più abbondante una sostanza ancor essa di color rosso giallastro divisa in rametti che tra loro s’ intrecciano con ri- petute congiunzioni e suddivisioni. Mancano del tutto la pseudonocerina e la sostanza bianca compatta che si trovano nelle geodi delle due precedenti categorie. E sia per la grandezza come per la composizione litologica, questo proietto è comparabile a quelli di gran mole trovati nelle tufare di Fiano. Lo strato rosso giallastro nella parte più esterna è in alcuni punti di color rosso bruno con isplendore resinoso ed altrove contiene alquanti granelli vitrei. La sua pol- vere, riscaldata al calor rosso, ha perduto 13,17 per cento del suo peso, nel tempo stesso è divenuta di color bigio, e continuando il riscaldamento, e scomparso questo colore ed il colore primitivo è divenuto sbiadito. Grm. 0,425 della medesima polvere di- sidratata, dopo il trattamento con l’acido solforico, accompagnato da forte reazione di fluore, ha dato residuo bianco col peso aumentato di grm. 0,227, dal quale si deduce la quantità del fluore eguale a grm. 0,146==34,35 per cento. La sostanza ramosa nelle sue fratture presenta spesso superficie piane, indizio di tessitura laminosa, e nella superficie dei rametti sì veggono con lente d’ ingrandimento non rari granelli vitrei. La sua polvere riscaldata al calor rosso ha perduto 11,26 per cento del suo peso. Grm. 0,395 della medesima polvere disidratata, dopo il tratta- mento con l’acido solforico, ha dato grm. 0,265 di aumento, dal quale si deduce la quan- tità del fluore eguale a grm. 0,1737==43,72 per conio. La sostanza bianca vitrea col riscaldamento non ha dato sensibile perdita del suo peso, e grm. 0,207 della sua polvere; dopo il trattamento con |’ acido solforico, si son trovati pesare grm. 0,351. Essendo il suo peso aumentato di grm. 0,144, si deduce la quantità del fluore eguale a grm. 0,0943=45,55 per cento. Si può dunque ritenere che la medesima sostanza sia fluorina quasi pura. i) N. 4033 della grande collezione del Museo. dia Ritornando al tufo compatto di Pacognano, nella contrada detta Molaro, sottoposti al tufo vi sono alquanti strati di conglomerati qui posti allo scoverto non per cavamenti che abbiano raggiunto l’estremo limite inferiore della roccia, siccome si è visto altrove‘), ma per corrosione cagionata da antichi torrenti di acqua che, avendo portato via il tufo, hanno di più profondamente tagliato gli strati ad esso sottoposti; e manca soltanto che il taglio si fosse inoltrato sino a raggiungere la roccia calcarea che si scuopre nei luo- ghi circostanti, e che non dubito debba continuare sotto i medesimi strati. Essi si ap- palesano per l’ altezza alquanto maggiore di tre metri, inferiormente ristretti in modo che la loro sezione potrebbe paragonarsi a quella di un cono rovescio, restando occul- tato dalla terra vegetale la loro continuazione nei lati ed a maggiore profondità. Le giunture tra i diversi strati essendo orizzontali, lasciano argomentare che le materie vulcaniche che li costituiscono si siano depositate in seno alle acque. Quando mi son trovato a vista dei medesimi conglomerati disposti a strati sotto- posti al tufo, ammirando questo fatto e compiaciuto di averlo osservato, non sapeva ri- solvermi di andar via. Molte domande faceva a me stesso alle quali non trovava una sod- disfacente risposta. Una cosa soltanto mi sembrava fuori dubbio, già riconosciuta per gli esempii precedenti, che cioè il tufo ad essi sovrapposto, ultima manifestazione dei feno- meni vulcanici di quella contrada, proveniva da eruzione che era stata preceduta da di- verse eruzioni le quali avevano somministrato le materie raccolte in quelli strati. E poi avrei voluto sapere se quelle materie e le altre componenti il tufo provenissero da'lo stesso centro eruttivo; se, come sembra per le condizioni topografiche delle rocce calca- ree in quel punto più basse che nei luoghi circostanti, bastasse per assicurarci che in quel punto stesso, 0 assai vicino a maggiore profondità fosse la bocca eruttiva di tante e sva- riate produzioni vulcaniche; perchè nel tufo sono le geodi fluorifere, che in origine erano frammenti di rocce nettuniane, ed in quelli strati non vi sono frammenti di tali rocce nè intatte nè metamorfizzate ? 1 minuti frammenti e le sabbie componenti dei medesimi strati sono state eruttate mescolate con l’acqua, come si è veduto per i depositi tufacei, o sono state spinte in alto per le esplosioni, e cadendo si sono disposte a strati come av- viene nelle ordinarie eruzioni vulcaniche? Perchè tanta differenza nella composizione litologica del tufo e la composizione dei depositi al tufo sottoposti osservata a Fiano, a Fossa lupara, a Salerno ed ora a Pacognano? Queste ed altre dubbiezze rivolgendo nella mente, rimaneva a contemplare ‘ciò che mi sì parava innanzi, e quasi avrei voluto che quei muti elementi mi narrassero la storia della loro formazione. Abbandonando i desiderii e le curiosità mal soddisfatte, mi occupai a raccogliere i campioni di ciascuno strato che appariva in qualche modo diverso dagli altri per esa- minarli con diligenza di ritorno in casa. Questo esame ha la sua importanza su ciò, che assicurata quale differenza intercede nella composizione litologica dei diversi strati, pos- siamo avere un criterio per argomentare, almeno con probabilità, se i lapilli e le sabbie che in essi si rinvengono siano derivate da una o più eruzioni. Il primo strato immediatamente sottoposto al tufo, dell’altezza di ottantasei centi- metri, sì fa notare per il suo color rosso, ed è per la massima parte composto di finis- sima sabbia che gli dà il colore, e pomici di color bigio verdiccio con tessitura fibrosa ben distinta, d’ordinario a fibre parallele facili a separarsi le une dalle altre. Queste qualità di colore e tessitura non ho osservato nelle pomici di altre contrade. I medesimi ele- 1) Tufare di Fiano, di Fossa lupara e di Salerno Sl ee menti son uniti con debole coerenza e facilmente si separano sia stropicciando il con- glomerato, sia stemperandolo con l’acqua; ed usando un po’ di diligenza per non rom- pere le pomici secondo la direzione delle loro fibre, si ottiene gran quantità di fina sab- bia i cui granelli osservati al microscopio appariscono di forme irregolari e di colore più sbiadito di quello si manifesta con la semplice ispezione oculare. Allo strato rosso ne succedono due altri di colore bianchiccio e che sembrano di- versi per la loro tessitura, perchè nel superiore abbondano i minuti granelli che lo fanno somigliare ad un’arenaria, e nell’inferiore sono frequenti i frammenti più grandi con in- terposti spazietti vuoti. Nondimeno entrambi hanno la stessa composizione litologica formata da pomici bianche con tessitura fibrosa irregolare, frequenti frammenti di tra- chite nericcia di grandezza variabile a cominciare da quelli che hanno mezzo millime- tro di diametro sino a millimetri cinque , e qualche rara volta sino a millimetri dodici. Vi sono non rari i cristalli di ortoclasia, ed i granelli della parte polverosa sono per la maggior parte piccole particelle delle stesse pomici che hanno l’ordinaria grandezza di quattro a sei millimetri, e di raro giungono ad avere sino a quattordici millimetri di dia- metro. Per l’indicata composizione litologica di questi due strati mi sembra molto pro- babile che i loro elementi si siano depositati in seno alle acque, essendo stati i primi a depositarsi i frammenti più grandi, in guisa da produrre un limite ben distinto tra il deposito inferiore ed il superiore. Il deposito superiore è alto un metro e quarantanove centimetri, e soltanto trentacinque centimetri il deposito inferiore. Anche meglio si ri- conosce esservi la medesima composizione in questi due strati quando per ciascuno di essi si separa la parte polverosa dai lapilli più grandi i quali ultimi per entrambi gli strati è agevole riconoscere-che sono in tutto gli stessi. Separati i minuti granelli dai frammenti che hanno più di un millimetro di diametro ho trovato in cento parti nello strato superiore parte polverosa . . . . . 73 » » frammienti: oct. ila dia nello strato inferiore parte polverosa . . . . . 18 n » frammentitis sor psr dl dP +2 Per gli esposti caratteri non esito a credere che entrambi questi due strati rappre- sentano un medesimo fenomeno geologico, o, per dirla altrimenti, i loro elementi deri- vano da una medesima eruzione che ha preceduta |’ altra che ha somministrato le po- mici e le sabbie dello strato rosso. Debbo mentovare un fatto degno di nota nella composizione degli stessi due strati che si scuopre quando si separano i loro elementi stemperando il conglomerato con l’acqua. Si ha che vengon fuori alquanti aggregati dei medesimi elementi tenacemente uniti dal carbonato di calcio come si fa manifesto per la effervescenza che si produce con gli acidi. Nello strato rosso si contiene soltanto piccolissima quantità dello stesso carbonato; e già si è veduto che anche nel tufo compatto incontra trovare il carbonato di calcio depositato sulle pareti delle fenditure. Negli altri depositi tufacei della Campa- nia non ho avuto occasione di osservare la calcite in qualsivoglia modo in essi conte- nuta; e quel che ci offrono i depositi vulcanici di Pacognano credo derivi dalla speciale condizione della loro giacitura in mezzo alle rocce calcaree; le quali col mezzo delle el acque piovane contenenti acido carbonico han somministrato il carbonato che in essi sì contiene. L’ inferiore dei descritti depositi, sia per ciò che si scorge dei suoi caratteri appa- renti, sia per quel che si manifesta esaminando i suoi elementi, vale a stabilire una ben determinata differenza tra i conglomerati che si trovano sotto il tufo della contrada Mo- laro. Si è veduto quali conglomerati sono ad esso sovrapposti, e quali conseguenze si possono dedurre sulla loro origine. Ora passando ad esaminare i conglomerati che vi sono sottoposti, e che non sono tra loro del tutto somiglianti, è facile riconoscere che vi sia grande differenza paragonandoli con i precedenti; ma non trovo caratteri suffi- cienti perchè si possa riconoscere se le materie depositate a diverse altezze abbiano ori- gine da una medesima eruzione, o da eruzioni diverse. E questa ricerca perde molto della sua importanza ove si consideri che se si hanno differenze tra le materie erultate dallo stesso vuleano in diverse eruzioni, le stesse differenze, o quasi le stesse, si pos- sono avere nelle materie eruttate nei diversi periodi della medesima eruzione. Egli è però che senza entrare a discutere della loro origine, e stando alle differenze che le medesime materie ci offrono, sarà utile dividerle in tre principali depositi, o strati. Immediatamente sotto i tre descritti depositi succede uno strato che apparisce si- mile ad un’arenaria a grossa grana di colore bianchiccio, ed in qualche punto di colore bruniccio come di rugine. Disgregati i suoi elementi stemperandoli con l'acqua, si han- no moltissimi granelli di diametro inferiore ad un millimetro, altri più grandetti ed an- che abbondanti, che non giungono ad avere quattro millimetri di diametro, e che dan- no al conglomerato la sua apparente tessitura ; e finalmente vi sono assai rari frammenti più grandi sino ad avere otto millimetri di diametro. Tutti questi elementi hanno i canti rotondati, probabile conseguenza di essere stati travolti dalle acque in movimento ; e quantunque di colore diverso, ora bianchiccio ed ora bruniccio, si vede rompendoli non essere altro che piccole pomici con tessitura cellulosa di color bianco con lieve sfu- matura di verdiccio. Tra i granelli più minuti osservati al microscopio se ne trovano al- quanti trasparenti di ortoclasia vitrea, ed altri assai rari opachi e neri. Anche in questo deposito che ha la spessezza di quindici centimetri, vi sono molti gruppi di granelli sal- dati dal carbonato di calcio. Nel quinto deposito che ha poco più di quattro centimetri di spessezza, si rileva una prima differenza per frequenti strisce interrotte di color nero che alternano con al- tre strisce di color bigio chiaro. La tessitura è in entrambe granellosa, con la differenza che le strisce nere sono tenaci e non si lasciano disgregare nè stemperandole con l’ ac- qua, come quelle di color bigio, nè stritolandole con le dita; e questa loro tenacità non “sembra dovuta all'essere i granelli saldati dal carbonato di calcio; dappoichè se con gli acidi si ha lo svolgimento di alquante bollicine gassose, anche dopo |’ azione degli aci- di persiste la coesione che li tiene riuni i. Gli elementi che entrano nella composizione di queste due parti sono assai minuti, di raro qualcuno ha poco più di due millimetri di diametro, ed osservati al microscopio, nella parte bigia sono in maggior numero quelli che hanno tessitura pumicosa, nella parte nera e tenace sovrabbondano i granelli neri con isplendore vitreo; ed in ciascuna di queste due parti si notano non rari i mi- nuti granelli bianchi vitrei riferibili all’ortoclasia. Con l’arroventamento la parte nera non muta colore, la parte bigia prende color rosso bruno. Le strisce nere che contraddistin- guono questo strato, di tutti il più sottile, costituiscono uno dei fatti dei quali mi torna Arti. — Vol II. — Serie 2. — N. 2. 10 — ta: difficile rendermi ragione tra tanti più o meno ammirevoli incontrati in questo centro eruttivo di Pacognano. Ove in seguito tratterò delle sostanze solubili che vi si conten- gono appariranno anche meglio le qualità straordinarie delle medesime strisce. L’uliimo strato, che sarebbe il sesto posto allo scoverto dalle acque torrenziali, ed il più antico in ordine di formazione, ha l'apparenza di terra vegetale con qualche macchia bianchiccia. Se mi si fosse presentato un campione di questo deposito senza conoscerne la provenienza, non avrei esitato a giudicarlo una ordinaria terra vegetale con minuzzoli di calcite riconoscibili per le macchiette bianche. Per la sua giacitura ho pure sospettato che fosse |’ antica terra vegetale raccolta sulla roccia calcarea prima che fossero venute le eruzioni vulcaniche; la quale opinione sembra favorita da frequenti pezzetti di radici di piante erbacee di color nero che vengono a galla quando la terra è stemperata con l’acqua; ed anche dal perchè porzione della terra esposta al calor ros- so, in alcuni punti ha preso color nero che poi è scomparso prolungando |’ arroventa- mento. Su quest’ultimo carattere, pel quale si può argomentare la presenza di sostanze organiche, non si può fare assegnamento per riconoscere l’antica terra vegetale; dap- poichè, come sarà dichiarato da qui a poco, tutti i conglomerati sottoposti al tufo della contrada Molaro contengono composti organici. Intanto per l’ esame dei suoi elementi ho dovuto conchiudere che anche quest’ ul- timo conglomerato, che si scuopre per la spessezza poco maggiore di undici centimetri, è di origine vulcanica. Vi sono abbondantissimi lapilli del diametro di due a sei milli- metri, alcuni di color nero e la maggior parte di colore terreo. Quelli di color nero, su- perficialmente aspersi di polvere bruna che fa velo al colore proprio dei lapilli, sono duri, ed osservata la superficie delle fratture al microscopio, si scorge la loro tessitura granellosa , con granelli la maggior parte nericci e vitrei, quasi fossero formati di ossi- diana, uniti ad altri granelli opachi di color vario. I lapilli di colore terreo hanno la consistenza delle pomici con tessitura granelloso - cellulosa, e rompendoli si scuoprono nelle parti interne molti granelli di apparenza di- versa, la maggior parte bruni opachi, misti ad altri di colore bianchiccio o nericcio, e talfiata con isplendore vitreo. La sottil polvere che si ottiene stemperando il conglome- rato con l’acqua è della medesima natura dei lapilli; e vi sono assai rari alquanti fram- menti di ortoclasia vitrea, come pure rarissime sono certe piccole pomici bianche che restano a galla nell’acqua, e che quando si scuoprono nella superficie del conglomerato mentiscono l’ apparenza dei frammenti di calcarea. Il carbonato di calcio che nei depo- siti precedenti si è veduto saldare molti granelli della roccia formandone dei gruppi dif- ficili a sgretolarsi, si trova pure in quest’ultimo strato, ma in modo diverso. Esso è dif- fuso e penetrante nell’interno dei lapilli, in guisa che lasciando questi nell’acido clori- drico allungato, perdura per più di un giorno il lento svolgimento di bollicine gassose. Oltre i descritti depositi della contrada Molaro in un altro luogo del contado di Pa- cognano, ove la parte alta e superficiale del tufo nericcio messa allo scoverto si vede ri- posare sulla roccia calcarea, e seguendo l’ inclinazione della medesima roccia finisce con margine assottigliato , interposto tra il tufo e la roccia calcarea ho potuto osservare uno strato di circa sei centimetri, la cui formazione deve pure ritenersi anteriore a quella del tufo. Anche questo strato ha l'apparenza di terra vegetale come il sesto deposito della contrada Molaro, ed è pure costituito in gran parte di piccole pomici di colore terreo all’esterno e nell'interno con tessitura granelloso-cellulosa. Se ne differenzia perchè Cai mancano i lapilli duri nericci, e non contiene affatto il carbonato di calcio. Nemmeno vi ho trovato i soliti frammenti di ortoclasia vitrea, e soltanto osservando al microsco- pio i granelli del diametro minore di un millimetro, se ne veggono alcuni riferibili al- l’ortoclasia. Tra i medesimi piccoli granelli, più che in qualunque altro deposito di Pa- cognano, sono abbondanti quelli che vengono attratti dalla calamita. E se altrove i gra- nelli magnetici non appariscono diversi dagli altri elementi del conglomerato, e debbono la virtù magnetica a piccole particelle di magnetite in essi racchiuse, nel conglomerato interposto tra il tufo e la calcarea, si hanno non rari cristalli mieroscopici con isplendore metallico, nei quali avendo osservato che le loro faccette sono sempre triangoli equila- teri, non dubito doversi riferire alla magnetite. Per quello che si è finora esposto dei conglomerati vulcanici, che per buona ven- tura mi è avvenuto osservare sottoposti al tufo di Pacognano , meglio che per gli esempii precedenti di Fiano, di Fossa lupara e di Salerno , possiamo formarci un concetto delle eruzioni vuleaniche che hanno preceduto la comparsa di quella roccia propriamente conosciuta col nome di tufo, e che non può dubitarsi essere stata l’ ultima manifesta- zione eruttiva dei vulcani della Campania. Ed il naturalista che avrà motivo di maravi- gliarsi per i depositi vulcanici di Pacognano, troverà altro argomento di ammirazione, considerando che la terra giallastra sovrapposta alla roccia calcarea lungo la strada tra Castellammare e Vico Equense, è pur essa un deposito vulcanico che va noverato tra quelli che hanno preceduto la comparsa del tufo. Tra le cose di minore importanza riferibili al deposito tufaceo di Pacognano non vo- glio tacere due fatti dei quali mi è malagevole trovare una soddisfacente spiegazione. Il primo lo ha presentato lo stesso tufo in un luogo ove, essendosi cavato un pozzo sino a raggiungere la roccia tufacea , questa si è trovata per la spessezza di circa sette cen- timetri di color bianco variamente screziato di giallo e di rossiccio, come avviene per le rocce dei crateri vulcanici esposte alle esalazioni acide delle fumarole. Non cade dub- bio che la roccia così colorata sia lo stesso tufo nericcio della contrada, sia perchè ha la stessa composizione litologica, sia perchè tra la parte scolorata e la parte nericcia del tufo vi è continuazione non interrotta da alcun segno di distinzione. La superficie della parte scolorata ricoverta dalla terra vegetale è notevole per la particolare confor- mazione in rughe ondulate, come sarebbe avvenuto se lungo tempo fosse stata sommersa nelle acque dotate di leggiero movimento. La suddetta somiglianza alle rocce scompo- ste dalle esalazioni acide mi ha indotto a ricercare se qualche indizio perdurasse della supposta azione degli acidi. Quindi avendo riscaldato la polvere del tufo imbianchito in tubo di vetro, ho trovato che essa ha perduto 6,65 per cento del suo peso per il vapore acqueo sprigionato , e dalle goccioline raccolte nella parte fredda del tubo ho avuto forte arrossimento della carta azzurra di tornasole. Dallo stesso tufo soppestato e tenuto a digerire nell’ acqua stillata, ho avuto soluzione con reazione più o meno acida secondo il grado di concentramento, e nella medesima soluzione ho riconosciuto la presenza dell’acido cloridrico col nitrato di argento, mentre per la ricerca dell’acido solforico il saggio fatto col cloruro di bario è riuscito negativo. L’altro fatto riguarda alcune concrezioni globose trovate alla superficie del tufo. Di somiglianti concrezioni si è più volte fatto parola nelle pagine precedenti. A Fiano (pag. 12) in un deposito terroso rossiccio sovrapposto al tufo vi sono frequenti concre- zioni sferiche di color rosso, di grandezza variabile da 4 a 18 millimetri, formate di ar- * i gilla ferrifera indurita. Nel tufo di Lanzara (pag. 48) si trovano altre concrezioni terrose di grandezza non maggiore di un pisello, e per le medesime si è adottato il nome di pisoliti dato da Breislak, e l'opinione dello stesso Autore che tali pisoliti si formas- sero per le gocce di acqua che cadendo sulle sottilissime sabbie vulcaniche le.ammas- sano in forme globose. Nel tufo di Salerno (pag. 60) si son pure trovate alquante con- crezioni sferiche con caratteri affatto speciali. Esse facevano parte di un aggruppamento di geodi ch'era incastonato nel tufo; il quale aggruppamento deriva da eruzione prece- dente la formazione del tufo. La composizione di tali concrezioni è molto complessa, e tra le materie in esse contenute è notevole la presenza dei fluoruri. Le concrezioni di Pacognano raggiungono grandezze maggiori di quelle osservate altrove, e la più grande di esse, del peso di grm. 10,898, ha 25 millimetri di diametro. Sono di color bigio chia- ro, e di raro nella superficie vi sono alquante piccole macchie nericce che osservate al microscopio hanno apparenza cristallina. Nella parte esterna vi è indizio di tessitura te- stacea, ed internamente hanno tessitura granellosa con granelli di apparenza varia, ed alcuni di essi sono vitrei. Esse sono inviluppate in una terra vulcanica incoerente nella quale sono abbondanti i frammenti di ortoclasia vitrea; vi son pure non pochi brandelli di roccia nera somigliante all’ossidiana, e poche laminucce di mica nera. Sali solubili contenuti nei conglomerati che sono uniti al tufo di Pacognano. Prima di procedere agli altri depositi tufacei della Campania mi occorre dar noti- zia dei sali solubili contenuti nei conglomerati che sono in relazione col tufo di Paco- gnano. Sembrami questo argomento di non lieve importanza per la storia dei vulcani che ho preso ad esaminare; dappoichè non si tratta delle piccolissime quantità di clo- ruri e di solfati frequenti nelle acque sorgive e nelle medesime rocce tufacee quasi da per tutto. Abbiamo al contrario che sia per la quantità, sia per la natura dei sali il vul- canetto di Pacognano ci presenta un fatto eccezionale del quale non è facile indagare l’origine. Seguendo la consuetudine di ricercare nelle rocce se contengono acqua, e se contengono sostanze solubili nell’acqua, avendo stemperato con acqua stillata i fram- menti del secondo strato della contrada Molaro, e nel liquore limpido filtrato avendo im- merso una bacchetta di vetro bagnata con soluzione di nitrato di argento, invece di un lieve intorbidamento che spesso ho osservato in altri casi, ho veduto l’ estremità della bacchetta covrirsi di cloruro di argento su di essa addensato, come sarebbe avvenuto per la soluzione alquanto satura di un cloruro. Stando sull’avviso per tale osservazione, mi sono accinto ad investigare con particolar cura il valore di questo fatto. Ed alle pri- me ricerche è succeduta la necessità d’intraprendere novelle ricerche e poi ancora al- tre ricerche che mi han fatto ritardare più di quanto avrei potuto prevedere la pubblica- zione del presente lavoro. Ho dovuto altresì procurarmi novelli campioni delle rocce de- scritte nei precedenti fogli già stampati, per le quali vi è qualche cosa da aggiungere a quelle già riferite. Tra le novità osservate vi è qualche fatto notevole, che non trovando il posto opportuno per essere ricordato in ciò che mi resta a dire del vulcanelto di Pa- cognano, ne farò parola in un’appendice in fine della presente memoria. Diverse cose mi son proposto di esplorare; ed in primo luogo la quantità propor- zionale di materie solubili contenuta, in secondo luogo la composizione chimica delle — lil — materie disciolte ; ed in fine le quantità proporzionali delle medesime materie. Come ap- parirà per gli esperimenti che saranno esposti, nei campioni del medesimo conglome- rato non ho sempre trovato Ja medesima quantità proporzionale di sali solubili, e di questa differenza, qualunque sia la interpretazione che si voglia dare, ho dovuto tener conto. Ho cominciato dal ridurre la roccia in grossolana polvere che ho stemperata con acqua stillata e più volte lavata sino a che le acque di lavanda non hanno dato che scar- so precipitato col nitrato di argento, quasi eguale o di poco maggiore di quello si ol- tiene con le acque di fonte. Per raggiungere questo punto, d’ordinario sono state sufli- cienti cinque o sei lavande, nè per ottenere maggior precisione mi son curato di ripetere l'operazione sino a non avere reazione di cloro; perchè operando sopra quantità mag- giori di cento grammi, il tempo ed il fastidio richiesto per i lavamenti non sarebbero stati compensati in minima parte dall’utile che ne sarebbe venuto allo scopo di queste ricerche. Concentrate e portate a secchezza le lavature, ho potuto conoscere dal residuo la quantità delle sostanze solubili contenute in ciascun conglomerato. Le quantità tro- vate sono sempre alquanto minori del vero, sia perchè la reazione de! cloro che ancora dura dopo gli ultimi lavamenti dimosira che una piccola parte della materia solubile è rimasta nei detriti della roccia posta ali’ esperimento, sia perchè nelle operazioni suc- cessive è stata inevitabile una piccola perdita. Le soluzioni ottenute passate per i filtri diSchleicher e Schull spesso sono uscite torbide o almeno opaline, altre volte essendo uscite limpide quelle delle prime lavande; a cominciare dalla quarta o quinta lavanda sono uscite opaline. Con la concen- trazione depositandosi le particelle sospese che costituivano i’ opalescenza, si sono avu- te affatto trasparenti. 1 liquori filtrati il più delle volte sono stati leggermente colorati in giallo bruniccio, colore ch’ è divenuto più intenso con la concentrazione, altre volte es- sendo usciti dal filtro scolorati, con la concetrazione han preso colore giallo bruniccio, e più di raro, senza offendere la trasparenza, il colore è stato rosso bruno intenso. I medesimi liquori hanno mostrato reazioni alcaline con la carta rossa di tornasole, e nei casì in cui questa reazione è staia debolissima e quasi inceria nei liquori filtrati, è di- venuta distinta dopo la loro concentrazione. Le soluzioni moito concentrate hanno tramandato odore di miele, e portate a sec- chezza nella stufa a circa 9go° hanno dato talfiata odore più o meno distinto di colla bru- ciata. Dai quali caratteri ho argomentato la presenza di sostanze organiche, e me ne so- no maggiormente assicurato quando ho esposto al calor rosso in crogiuolo di platino i residui disseccati, per :l carbone che si è prodotto. In questa operazione non mi è mai riuscito di fare scomparire del tutto il carbone con più prolungato arroventamento, per- chè essendosi fusi i sali, le particelle carbonose rimasie inviluppate nella sostanza fusa venivano sottratte dall’ azione dell’ ossigeno. Nei saggi qualitativi non ho scoverto che piccolissime quantità di acido solforico come pure piccolissime quantità di calce, e talvolta il cloruro di bario e l’ossaiato am- monico nemmeno hanno interbidato le soluzioni. Una eccezione degna di nota mi ha presentato la terra vulcanica che s'incontra depositata sulla roccia calcarea quando par- tendo da Castellammare si è poco più di uu chilometro distante da Vico Equense. In quella terra si contiene notevole quantità di cloruro di calcio e di cloruro di magnesio, come a suo luogo sarà fatto manifesto. Jade, Fa Abbiamo dunque che nei conglomerati di Pacognano si contengouo d’ordinario in gran copia i cloruri alcalini uniti alle materie che danno reazione alcalina ed alle so- stanze organiche. E queste materie sono contenute in ogni maniera di conglomerati, sia negli strati sottoposti al tufo della contrada Molaro, sia nello strato interposto tra il tufo e la roccia calcarea presso la superficie del tufo, sia nelle materie che in forma di vene riempiono le fenditure del tufo. Mi è stato facile accorgermi che le tre riferite sostanze non si trovano in tutti i con- glomerati scambievolmente tra loro nelle medesime proporzioni, e ciò sarà manifesto per la seguente esposizione dei trattamenti ai quali ho sottoposto i diversi conglome- rali. Né mi sono occupato ad indagare come variano le loro proporzioni in ciascun con- glomerato, operazione oltremodo difficile, ed a parer mio per diverse ragioni impossi- bile a dare risultati soddisfacenti. Non di meno ho stimato utile, raccogliendo le di- verse sostanze solubili ottenute da quasi tutti i conglomerati, determinare con molta approssimazione le quantità proporzionali dei cloruri, ed altre sostanze. Il metodo che ho seguito è stato di sottoporre le sostanze solubili a ripetute cristallizzazioni; perehè m’importa sopra ogni altra cosa ottenere isolata la sostanza organica, o le sostanze or- ganiche se ve ne fossero state diverse, per esaminarne i caratteri cristallografici e la com- posizione chimica. E per raggiungere questo scopo non è possibile miglior metodo di quello deile ripetute cristallizzazioni. Messi da parte i cristalli della medesima specie otte> nuti isolati, e tornando a disciogliere i cristalli che si producono congiunti con altri di specie diversa, e rinnovando le loro cristallizzazioni sino a raccogliere i cristalli puri di ciascuna specie, si è riuscito, non senza molta cura per impedire le difficoltà soprag- giunte, a determinare le rispettive loro quantità. Primo strato rosso sottoposto al tufo della contrada Molaro.—Ho fatto l’espe- rimento con due campioni di questo strato: nel primo ho adoperato grm. 111 delle materie polverizzate, ed ho avuto liquore limpido e scolorato dalle prime tre lavande, opalino nelle seguenti lavande, con debole reazione alcalina. Le soluzioni filtrate e con- centrate hanno dato col cloruro di bario discreto intorbidamento, il quale è scomparso con effervescenza aggiungendo poche gocce di acido cloridrico, restando assai lieve o- palescenza che attesta la presenza di qualche traccia di acido solforico; con Pammonia- ca e con l’ossalato ammonico non si è manifestata alcuna reazione. La soluzione con- centrata a circa la ventesima parte ha preso colore bruniccio con forte reazione alcalina ed odore di miele. Il residuo disseccato nella stufa l’ho trovato pesare grm. 1,717, corri- spondente ad 1,538 per cento. Nel secondo esperimento ho adoperato gram. 280 del conglomerato polverizzato: le prime cinque lavande hanno dato il liquore filtrato limpido e scolorato, nelle succes- sive lavande il liquore è stato opalino. Il liquore della prima lavanda non ha dato sensi- bile reazione alcalina, col cloruro di bario e con l’ossalato ammonico è comparso di- sereto intorbidamento, il quale è andato man mano scemandosi sino alla terza lavanda, e non si è più manifestato nelle lavande successive. Le soluzioni concentrate a circa la ventesima parte han preso debole colore giallo bruniccio con debole ma distinta rea- zione alcalina, e debole odore di miele. Portate a secchezza hanno dato gram. 11,987 di residuo, dal quale si deduce la quantità delle sostanze solubili eguale a 4,281 per cento. Secondo strato sottoposto al tufo della contrada Molaro. — Questo deposito è il più importante di tutti, raggiungendo l’altezza di circa un metro e mezzo, ed in que- ‘ drag È sta sua grande estensione, non essendo da per tutto uniforme, i diversi campioni esami- nati hanno dato risultamenti con notevoli differenze. I campioni di recente tolti dalla loro naturale giacitura, per la umidità che contenevano, sono stati facili a ridursi in polvere stritolandoli con le dita; ma alcuni di essi, prosciugati con la esposizione al sole, han- no acquistato tale consistenza ch’è stato necessario soppestarli col martello per disgre- gare i loro elementi. Credo che tale tenacità acquistata col prosciugamento derivi dai sali interposti tra i granelli della roccia, e che hanno aumentata la loro coesione dopo l’evaporazione dell’ acqua. Da gem. 135 di un primo campione polverizzato ho avuto i liquori filtrati delle prime quattro lavande limpidi e scolorati; quelli delle successive lavande opalini. Il li- quore della prima lavanda non ha dato sensibile reazione alcalina, col cloruro di bario ha dato forte intorbidamento, e con l’ossalato ammonico vi è stata assai debole reazio- ne. In nessun’altra delle rocce di Pacognano mi si è manifestata la reazione dell’acido solforico così abbondante come nel caso presente. Le soluzioni molto concentraie hanno acquistato colore giallo bruniccio sbiadito con forie reazione alcalina e debole odore di miele. Porlate a secchezza hanno dato grm. 2,420 di residuo, e per conseguenza la quantità centesimale dei sali disciolti è eguale ad 1,792. Da grm. 155 di un secondo campione ho avuto quasi gli stessi risultamenti dati dal primo con la reazione dell’acido solforico assai più debole, ed il residuo delle solu- zioni portate a secchezza è stato di grm. 3,597, dal quale si deduce la quantità cente- simale delle sostanze disciolte eguale a 2,321. Il terzo campione, formato di fina sabbia con frequenti pomici grandette, era fragi- lissimo anche dopo il prosciugamento al sole. Il liquore filtrato si è mantenuto limpido e scolorato sino alla settima lavanda: quello della prima lavanda non ha dato sensibile reazione alcalina , nè ha reagito con l’ ossalato ammonico, col cloruro di bario ha dato assai lieve intorbidamento: concentrate le soluzioni sino a produrre pellicola cristallina, sono divenute di color giallo braniecio; e da grm. 127 del conglomerato ho avuto grm. 4,450 di residuo, corrispondente a 3,504 per cento. Il quarto campione era notevole per la sua tenacità, e quantunque formato quasi esclusivamente di granelli sabbiosi, mi ha presentato difficoltà straordinaria a polveriz- zarlo. Da grm. 144 della sua polvere ho avuto i liquori filtrati delle prime cinque lavande . limpidi e scolorati, e dalle seguenti lavande sino all’ottava è stato opalino. Il liquore della prima lavanda non ha dato reazione alcalina, e col cloruro di bario ha dato debolissima reazione di acido solforico. I liquori delle otto lavande concentrati sino a formare pellico- la cristallina hanno colore giallo bruniccio sbiadito con debole reazione alcalina ed odore di miele. Il residuo dei medesimi portati a secchezza è stato di grm. 8,322, dal quale si deduce la quantità centesimale delle sostanze solubili eguale a 5,779. Il liquore filtrato dall’ ottava lavanda dava ancora forte reazione di cloro, ed oltre all’essere opalino, il suo colore era alquanto bruniceio. Quindi ho ripetuto le lavande sino all’undecima, dalle quali ho avuto i liquori filtrati di colore bruniccio. Concentrati e ridotti a circa sei centimetri cubi, il colore è divenuto rosso bruno fosco, e con la spon- tanea evaporazione è rimasto scarso sedimento bruno con alquanti minutissimi cristalli cubici. Ripreso questo sedimento con poca acqua si è facilmente disciolto; e la solu- zione dello stesso colore precedente ed alquanto torbida, saggiata con l’acido cloridrico ha dato luogo allo svolgimento di molte bollicine gassose, e saggiata con la potassa ha = ra svolto ammoniaca, riconosciuta con la carta rossa di tornasole bagnata. Di queste rea- zioni s' intenderà l’ origine quando saranno esposte le ricerche sulle sostanze organiche contenute nei conglomerati di Pacognano. Terzo strato sottoposto al tufo della contrada Molaro. -— Il campione che ha servito a questo esperimento del peso di grm. 192 per la maggior parte contraddistinto con i caratteri proprii del terzo strato, era unito ad un’altra parte riferibile al secondo strato. Il liquore delle prime tre lavande essendo riuscito con la filtrazione limpido e sco- lorato, quelli delle lavande successive sono riusciti opalini. Dal liquore filtrato della prima lavanda non si è avuto che leggiero intorbidamento, sia col cloruro di bario, sia con l’ossalato ammonico, nè in esso vi è stata sensibile reazione alcalina. Le soluzioni concentrate hanno acquistato colore bruniccio sbiadito, distinta reazione alcalina ed odore di miele. Portate a secchezza nella stufa a circa 90°, nel residuo ancor caldo si è avvertito odore di colla bruciata. Lo stesso residuo si è trovato pesare grm. 7,590, dal quale si ha la quantità dei sali solubili eguale a 3,953 per cento. Il campione che ha servito al secondo esperimento era formato di pomici più gran- di dell’ordinario sino a raggiungere il diametro di millimetri quarantuno, e lasciando molti spazietti vuoti interposti. Sia in questi spazietti vuoti, sia nelle cellette delle po- mici si facevano notare frequenti gruppetti bianchi somiglianti a bioccoli di bambagia, i quali osservati al microscopio li ho veduti formati da esilissimi filetti confusamente in- trecciati, e coni saggi chimici mi sono assicurato essere composti di puro carbonato di calcio. La calcite che in vario modo si è veduto rinvenirsi nei conglomerati della contrada Molaro, soltanto in alcuni punti del terzo strato ha trovato le condizioni favorevoli per depositarsi con le apparenze del cotone, come pure si è veduto depositarsi sulle pareti delle fenditure del tufo (pag. 68). Delle lavande di questo campione ho avuto liquore limpido scolorato ; il jiquore della prima lavanda non ha dato sensibile reazione alcalina, nè alcuna reazione si è manifestata con l’ossalato ammonico; col cloruro di bario vi è stato discreto intorbidamento che non è più comparso dopo la seconda lavanda. Alla quarta lavanda la reazione del cloro essendo stata di poco maggiore di quella che dan- no le acque di fonte, non ho ripetuto altre lavature. Le soluzioni concentrate sono dive- nute, come al solito, giallo-brunicce con forte reazione alcalina ed odore di miele; e portate a secchezza hanno dato grm. 3,523 di residuo. Avendo adoperato grm. gi della roccia non polverizzata, le materie solubili in essa contenute si trovano eguali a 3,971 per cento. Nelle ricerche fatte per determinare le quantità di materie solabili contenute nei conglomerati della contrada Molaro ho lavato la polvere ottenuta dalla roccia con acqua stillata alla temperatura dell’ ambiente, e soltanto nell’ esaminare quest’ altro campione dlel terzo strato, del peso di grm. 210, ho fatto uso di acqua bollente. Ripetuti i lava- inenti per cinque volte sino a che il nitrato di argento non ha dato che scarsa reazione di cloro, i liquori filtrati sono riusciti opalini. Concentrati sino a ridurli a meno della ventesima parte, si sono intorbidati, e col riposo si è depositato sedimento melmoso bianco che ho raccolto sul filtro e lavato. Il colore dei liquori concentrati è divenuto bruniccio con forte reazione alcalina, e portati a secchezza hanno dato grm. 5,697 di residuo eguale a 2,713 per cento. La sostanza melmosa bianca depositata dalle solu- zioni concentrate, del peso grm. 0,311, trattata con acido cloridrico, si è soltanto in piccola parte disciolta con effervescenza, e per conseguenza deve considerarsi formata Ma delle minutissime particelle della roccia che sospese nei liquori filtrati li rendevano opalini. Quarto strato sottoposto al tufo della contrada Molaro. — Le materie di questo strato, quasi del tutto incoerenti, con i lavamenti hanno dato dopo la filtrazione soluzioni opaline di colore giallo bruniccio sbiadito, ed in esse il nitrato di argento ha mostrato la quantità dei cloruri assai meno abbondante che nei casi ordinarii. Le stesse soluzio- ni concentrate hanno manifestato distinta reazione alcalina, e portate a secchezza non hanno dato che grm. 1,538 di residuo bruno. Avendo sperimentato con grm. 196 della roccia, si deduce la quantità delle sostanze solubili in essa contenuta eguale a 0,785 per cento. E non ho fatto altre ricerche su questo strato che non mi offriva pro- babilità di trovare in esso le sostanze solubili in maggiore quantità. Quinto strato sottoposto al tufo della contrada Molaro. — Come si è veduto in- nanzi, in questo strato vi è la condizione speciale di trovarsi in esso molte liste interrotte di colore nericcio e molto compatte che si alternano con altre liste di color bigio fragili. Quindi negli esperimenti eseguiti la polvere della roccia adoperata conteneva in varie proporzioni le due parti nera e bigia, e non si sono avuti sempre gli stessi risultamenti. Le soluzioni filtrate sin dai primi lavamenti sono state sempre opaline e di colore di- verso ora bianchiccio ed ora bruniccio. Con la loro concentrazione, essendosi depo- sitate le particelle che producevano l’opalescenza, le soluzioni brunicce sono divenute limpide di color rosso bruno intenso; e da questo colore argomentando che esse con- tenevano le sostanze organiche in quantità maggiore dell’ ordinario, non le ho portate a secchezza per la determinazione quantitativa delle materie solubili, ma le ho ser- bate per separare con ripetute cristallizzazioni le diverse sostanze che contenevano. Da due campioni che mi han dato le soluzioni filtrate bianchicce come nei casi or- dinarii, tolte le particelle che le rendevano opaline, e portatele a secchezza, ho avuto residui brunicci con odore di colla bruciata mentre erano ancor caldi. Da grm. 87 del primo campione ho avuto grm. 2,739 di residuo, e da grm. 120 del secondo il residuo ottenuto è stato grm. 1,728. Quindi le quantità centesimali delle sostanze solubili sono state nel primo caso 3,148 e nel secondo 1,440. Ho voluto fare un altro esperimento con la parte nera quasi pura, e tranne la scarsa quantità di sostanze solubili, i risultamenti non hanno dato altra notevole dif- ferenza. La medesima opalescenza della soluzione filtrata, senza sensibile reazione col cloruro di bario e con l’ossalato ammonico, e con forte reazione alcalina quando è stata molto concentrata. Da grm. 88 della roccia polverizzata si sono avuti grm.0,312 di residuo, dal quale si deduce la parte solubile eguale 0,356 per cento. Come si è detto discorrendo dei caratteri litologici dei conglomerati della contrada Molaro, le strisce nere sono formate di granelli la maggior parte neri e splendenti uniti a granelli bianchi riferibili all’ ortoclasia vitrea, e la loro tenacità non è dovuta al car- bonato di calcio, dappoichè con l’ acido cloridrico si ha soltanto lo svolgimento di poche bollicine gassose senza che si scemasse la coesione dei granelli, della quale coe- sione non sapeva rendermi ragione. Il caso fortuito più che la mia previdenza mi ha fatto scovrire un carattere degno di nota dei suddetti granelli neri. Avendo posto in tu- bo di vetro alquanti frammenti delle liste nere, sui quali ho versato l’ acido cloridrico alquanto diluito per disciogliere, se vi fosse stato, il carbonato di calcio, il tubo è ri- masto dimenticato in un angolo del laboratorio: trascorsi alquanti giorni ho trovato il ATTI. — Vol II. — Serie 2. — N. 2. 1l de liquore sovrastante ai frammenti divenuto di color bruno, i medesimi frammenti in gran parte disgregati nei loro elementi, e quel che meno mi attendeva, vi era sensibile odore di cloro. Non volendo stare al solo carattere dell’odore, ho fatto aderire alle in- terne pareti del tubo un pezzetto delle esilissime foglie di oro dei battilori, ed ho riscal- dato le materie contenute nel tubo. Il colore della soluzione è divenuto ranciato per molto cloruro ferrico in essa contenuto, e la fogliolina di oro è rimasta disciolta. Assi- curato lo svolgimento del cloro, era agevole prevedere che i granelli contenessero un ossido manganico in quantità notevole; e per meglio assicurarmene ho filtrato la so- luzione ranciata, vi ho aggiunto novello acido cloridrico e tanta ammoniaca da lasciare il suo odore persistente. Si è avuto abbondante precipitato di ossido ferrico idrato che ho raccolto sul filtro, e la soluzione filtrata limpida e senza colore, in breve si è intor- bidata, ed ha dato deposito bruno di ossido manganico idrato. Nella parte rimasta non attaccata dall’acido cloridrico non vi era più alcuno dei granelli neri. Nella seconda parte di questo lavoro, destinata alla descrizione delle specie mineralogiche dei vulcani fluoriferi della Campania, si farà parola della composizione dei suddetti granelli neri, e per ora rimane dimostrata nei medesimi vulcani l’esistenza dell’ ossido manganico, 0 almeno delle sostanze che lo contengono. Sesto strato sottoposto al tufo della contrada Molaro. — Del sesto strato, ch’ è il primo in ordine di formazione, ho esaminato due campioni che nelle loro lava- ture hanno dato col nitrato di argento abbondanti precipitati, ed in essi non ho trovato che scarse quantità di materie solubili. Per entrambi il liquore filtrato dalla prima lava- tura è riuscito opalino, di colore alquanto gialliccio, senza reazione alcalina, e con de- bolissima reazione di calcio e di acido solforico. Dopo il sesto lavamento non vi è stata che debole reazione di cloro. Con la concentrazione si sono depositate le particelle che costituivano l’opalescenza, e n’ è uscito liquore limpido di colore giallo bruniccio con reazione alcalina e con debole odore di mele. Portate le soluzioni a secchezza, quella proveniente dal primo campione, del peso di grm. 180, ha dato di residuo grm. 0,838, e quella proveniente dal secondo campione, del peso di grm. 95, ha dato di residuo grm. 0,512. Quindi si ha per il primo caso le materie solubili essere eguali a 0,466 per cento, e per il secondo caso eguali a 0,539. Terra interposta tra la roccia calcarea e la parte superficiale del tufo. — Anche le lavature di questa terra hanno dato abbondante reazione di cloro col nitrato di argento, e le soluzioni filtrate hanno presentato le medesime qualità di quelle avute dal sesto strato della contrada Molaro. Da grm. 94 della terra polverizzata ho avuto per residuo delle soluzioni portate a secchezza soltanto grm. 0,149; e però la quantità delle materie solubili si trova eguale a 0,159 per cento. Terra in forma di vene che riempie le fenditure del tufo di Pacognano. — Di questa terra che in forma di piccole vene o filoni si trova nelle fenditure del tufo ho esaminato due campioni ben diversi l'uno dall’ altro per la loro apparenza e per la com- posizione litologica. Il primo, di cui ho fatto menzione alla pagina 68, è formato di terra giallo-bruniccia che disgregata nei suoi elementi si scorge composta di fina pol- vere con pochi granelli di diametro non maggiore di due millimetri, che sono minute pomici con qualche raro granello di color nero e duro. Il secondo, di recente perve- nutomi, di colore bigio, è in tutto formato di fina polvere unita con debole coerenza; e tra i suoi minutissimi granelli sono frequenti quelli trasparenti e splendenti riferibili Li — all’ortoclasia vitrea, altri più rari di color nero sono magnetici. Non trovo che vi sia al- cuna differenza tra questa polvere e quella eruttata dai vulcani, conosciuta col nome di cenere vulcanica. La polvere del primo campione ha dato il liquore filtrato delle prime tre lavature limpido e scolorato, ed opalino quello delle successive lavature sino alla sesta. Il liquore avuto dal primo lavamento non è stato intorbidato dall’ ossalato ammo- nico, e lieve intorbidamento ha dato col cloruro di bario. Le soluzioni concentrate sino a formare pellicola cristallina hanno acquistato colore giallo bruniccio sbiadito e distin- ta reazione alcalina, e portate a secchezza, hanno dato grm. 2,509 di residuo. Non avendo adoperato che grm. 46,54 di questo piccolo filone, la quantità di materie solu» bili in esso contenuta si trova eguale a 5,391 per cento, ch’ è maggiore delle quantità trovate nella maggior parte degli altri conglomerati. Dall’ altro campione ho avuto al contrario assai scarsa la quantita dei sali in esso contenuti. Le soluzioni filtrate dei pri- mi quattro lavamenti della sua polvere sono state limpide e scolorate, quelle dei succes- sivi lavamenti sono riuscite opaline. La prima lavatura ha dato discreto intorbidamento con l’ossalato ammonico, e nessuna reazione col cloruro di bario. Le soluzioni molto concentrate hanno acquistato colore gialliccio con distinta reazione alcalina; ed aven- do adoperato grm. 180 della polvere, non ho avuto dalla soluzione portata a secchezza che grm. 0,949 di residuo, dal quale si deduce la quantità centesimale delle sostanze solubili eguale a 0,527. Terra sovrapposta alla roccia calcarea presso Vico Equense. — È tornato u- tile agli studii dei vulcani estinti della penisola Sorrentina il taglio praticato nella roc- cia calcarea per la costruzione della strada littorale che da Castellammare mena a Sor- rento: dappoichè quando si perviene alla distanza poco maggiore di un chilometro da Vico Equense, nel contado di questa città, comincia a mostrarsi un deposito di terra vulcanica dell’ altezza variabile da uno a tre metri sovrapposto alla roccia calcarea, e messo allo scoverto del taglio. In un campione di questo deposito, tolto verso la parte media della sua estensione di circa un chilometro, ho trovato che vi si contenevano disciolti, oltre i cloruri alcalini e le sostanze organiche, anche i cloruri di calcio e di ma- gnesio. E per la presenza di tali materie solubili espongo i particolari del medesimo deposito ora che mi occupo del centro eruttivo di Pacognano. Nondimeno debbo avver- tire che per le condizioni topografiche non è probabile che esso appartenga allo stesso centro eruttivo, dappoichè intercede la distanza di oltre due chilometri, e vi sono in- terposte non umili colline calcaree. Preferirei opinione che derivasse da un centro di eruzione che si nasconde nel mare contiguo. Per avere più esatta informazione di questa terra valcanica sovrapposta alla roccia calcarea presso le sponde del mare, ho curato procurarmi per esaminarli due altri cam- pioni, uno raccolto nel luogo più vicino a Vico Equense, l’altro nel luogo più discosto verso Castellammare. Questi tre campioni hanno qualche cosa di diverso nei loro carat- teri apparenti, essendo il primo raccolto nella parte media della strada di color giallo al- quanto bruniccio, e gli altri raccolti nelle parti estreme di color bruno sbiadito. Qualche differenza ancora si riscontra nella loro composizione litologica, essendo il primo, pro- veniente dalla parte media, per la maggior parte formato di fina polvere con la quale vi sono non rare piccole pomici che all’esterno hanno lo stesso color giallo bruniecio della polvere, e nell’interno sono di color bianco con tessitura fibroso-cellulosa, e viva- ce splendore tra il vitreo e il margaritaceo. Nel secondo campione della parte più vicina * i a Vico Equense vi sono molte pomici angolose grandette, che spezzate mostrano nel- l’ interno tessitura fibroso-cellulosa, e colore bianchiccio, vi si mescolano pure non rari lapilli di color nero e duri come quelli del secondo e terzo strato della contrada Molaro, e vi sono frequenti gruppi di granelli saldati dal carbonato di calcio, come se ne sono osservati abbondanti nei conglomerati della stessa contrada. Nel terzo campione rac- colto presso la estremità opposta dalla parte di Castellammare le pomiei, avendo la stessa tessitura fibroso-cellulosa, sono internamente di color bruno o di colore in parte bruno ed in parte bianchiecio, i brandelli di rocce nere vi son rari, e mentre non vi sono i gruppi di granelli saldati dal carbonato di calcio, lo stesso carbonato si trova iso- lato in forma di macchie bianche. Una più importante differenza va segnalata nei medesimi campioni per le sostan- ze solubili che vi si contengono. Il primo contiene in gran copia i cloruri alcalini ai quali sono uniti il cloruro di calcio e quello di magnesio, nel secondo tra le sostanze solubili oltre i cloruri alcalini non vi è che scarsa quantità di cloruro di calcio, e final- mente nel terzo campione le acque di lavanda dei suoi elementi non hanno dato che debole reazione col nitrato di argento, non diversa da quella che danno le ordinarie ac- que di fonte. Notata questa sua differenza dagli altri, non occorrono su di esso ulteriori ricerche. Da una discreta quantità della polvere del primo campione adoperata per i saggi qualitativi ho avuto che le sue lavande hanno dato precipitato bianco con 1’ ammoniaca, ed aggiuntovi acido cloridrico che ha disciolto il precipitato, questo non è ricomparso quando ho versato novella ammoniaca alquanto eccedente; e la soluzione essendo ri- masta affatto limpida, mi sono assicurato non contenervisi allumina. Nella stessa solu- zione contenente eccesso di cloruro ammonico per impedire la precipitazione della ma- gnesia, con l’ossalato ammonico si è avuto abbondante precipitato; e da ultimo col clo- ruro di bario è apparso nella soluzione lievissimo intorbidamento. Grm. 292 della medesima polvere adoperata per la determinazione quantitativa del le sostanze solubili in essa contenute, hanno dato il liquore filtrato dei primi cinque lavamenti limpido e scolorato, quello delle lavature successive, sino alla decima, opali- no. Dalla decima lavatura ho pure avuto forte reazione di cloro col nitrato di argento, e non ho proseguito nella fastidiosa operazione di altri lavamenti, essendo bastevole al mio scopo il sapere che rimaneva a separare piccola quantità di materie solubili. Dopo il quinto lavamento non vi è stata più reazione di calcio. Le soluzioni di molto con- centrate sono divenute giallicce e trasparenti, essendosi depositate le particelle che le rendevano opaline; e così concentrate non hanno dato sensibile reazione alcalina. Per la presenza dei cloruri di calcio e di magnesio che sono deliquescenti ho sti- mato non essere applicabile l’ordinario metodo tenuto nei casi precedenti, deducendo la quantità delle sostanze solubili dal residuo lasciato dalle soluzioni portate a secchez- za; dappoichè i cloruri deliquescenti alla temperatura di circa go° non perdono tutta l’acqua che li tiene disciolti, ed a temperature molto elevate avviene la scomposizione delle materie organiche, ed il cloruro di magnesio si muta in ossido di magnesio. Non- dimeno ho voluto tentare la pruova con temperatura alquanto maggiore di roo° che pure sarebbe riuscita istruttiva, riserbandomi di seguire altro metodo per la determina- zione più esatta. Avendo preso esattamente la metà della precedente soluzione concen- trata, lho versata in crogiuolo di platino che ho tenuto in acqua salata bollente, che MI e segnava al termometro 106°, sino a che non vi è stata diminuzione di peso, tenendo il erogiuolo più lungo tempo alla medesima temperatura. Dedotto il peso del crogiuolo, la sostanza in esso contenuta si è trovata pesare grm. 5,231. Con l’ esposizione dello stesso crogiuolo al calor rosso si è avuto produzione di carbone, del quale è rimasta una parte nel residuo fuso, e lo stesso residuo si è trovato pesare grm. 3,188. Con que- slo esperimento mi sono assicurato che anche la terra vulcanica depositata sulla roccia calcarea presso le sponde del mare contiene sostanze organiche. Intanto la quantità della soluzione adoperata provveniva da grm. 146 della medesima terra, e per conse- guenza dal primo residuo si dedurrebbe la quantità centesimale delle materie solubili eguale a 3,583, ch’è maggiore del vero, e dal secondo residuo eguale a 2,184, chè al- quanto deficiente. Nell’altra metà del liquore concentrato ho versato soluzione di carbonato ammonico in eccesso, ed ho lavato il precipitato formatosi di carbonato di calcio e di magnesio rac- colto sul filtro con la medesima soluzione ammoniacale. Il liquore filtrato portato a sec- chezza mi ha dato per residuo la quantità dei cloruri alcalini, compreso il cloruro am- monico formatosi nel corso dell’operazione, inquinati dalla sostanza organica. I carbo- nati di calcio e di magnesio sono stati disciolti con acido cloridrico, ed aggiunta alla soluzione sufficiente quantità di cloruro ammonico, ho precipitato il calcio con I’ ossa- lato ammonico, e dalla soluzione contenente il magnesio lho precipitato allo stato di fosfato ammonico magnesiaco. Nella determinazione dei cloruri alcalini avendo dovuto discacciare col riscaldamento il cloruro ammonico, con lo stesso riscaldamento è di necessità avvenuta la carbonizzazione della sostanza organica, e quindi il risultamento deve pure considerarsi alquanto deficiente. Ho avuto di cloruri alcalini grm. 2,293, di carbonato calcico grm. 0,695 corrispondente a grm. 0,770 di cloruro di calcio, e grm. 0,240 di pirofosfato di magnesio corrispondente a grm. 0,124 di cloruro di magnesio. Abbiamo quindi la quantità dei cloruri trovati eguale a grm. 3,187. Questa quantità è quasi la stessa di quella trovata nel precedente esperimento dopo l’ esposizione al calor rosso della parte depositata dalla soluzione; la qual cosa mi fa credere che vi sia stata un po'di perdita nel corso dell’analisi. Intanto per la stessa analisi si giunge a cono- scere le quantità proporzionali dei diversi cloruri, ed in cento parti si hanno Cloruri di alcalini... .... 71,95 Gloruro*di'ealeio* 4, CORE 24,16 Cloruro di magnesio . .... 3,89 100,00 Così nel caso presente come per i conglomerati di Pacognano mi son servito della espressione di cloruri alcalini, intendendo parlare del cloruro di sodio e del cloruro di potassio. La determinazione quantitativa di ciascuno di questi due cloruri ho reputato essere importante come elemento che può servirci di guida a riconoscere |’ origine delle sostanze solubili in sì gran copia ed in modo così eccezionale rinvenute nei conglome- rati di Pacognano. Se mi fossi accinto a determinare le quantità rispettive di potassio e di sodio contenute in ciascuno dei descritti conglomerati, sarebbe stata assai lunga e difficile operazione non compensata da alcuna utilità. E si vedrà in seguito il partito al ua per quale mi sono appigliato per tale determinazione nelle materie solubili di Pacognano. Per la terra vulcanica sovrapposta alla roccia calcarea presso Vico Equense, la cui origi- ne credo indipendente dal centro eruttivo di Pacognano, ho stimato dover fare una spe- ciale determinazione dei cloruri alcalini in essa contenuti purificando quelli ottenuti dalle due precedenti operazioni. Grm. 0,494 dei cloruri purificati, fattane soluzione, hanno dato col nitrato di argento grm. 1,094 di cloruro di argento, che contiene grm. 0,2704 di cloro. Dalla quantità del cloro calcolando le quantità rispettive dei due cloruri, si tro- va che in cento parti vi sono 54,82 di cloruro sodico e 45,18 di cloruro potassico. Venendo ora all’altro campione preso presso Vico Equense, ho avuto da esso il liquore filtrato limpido sino al sesto lavamento, e quantunque nell’ultima lavanda vi fos- se stata forte reazione di cloro, non mi sono occupato a fare altri lavamenti. Dalle so- luzioni concentrate e portate a secchezza ho avuto grm.0,937 di residuo. Questo residuo bruniccio ottenuto alla temperatura di circa go° era ben disseccato, e può ritenersi che rappresenti la quantità delle sostanze solubili, quantunque per l'esposizione all’aria siasi mostrato alquanto deliquescente per il poco di cloruro di calcio che conteneva. Avendo adoperato grm. 210 del conglomerato, si deduce la quantità centesimale delle sostanze solubili eguale a 0,446. Ricerche sulle diverse sostanze solubili del vulcano di Pacognano. — Si è già fatto parola delle sostanze solubili contenute nella terra vulcanica sovrapposta alla roccia calcarea delle vicinanze di Vico Equense, ed ho esposto le ragioni perchè questo de- posito di terra vulcanica sia indipendente dal vulcanetto di Pacognano. Intanto mi resta ad esaminare le sostanze solubili trovate negli strati sottoposti al tufo della contrada Mo- laro e nelle vene che riempiono le fenditure del tufo di Pacognano. Ed in queste ricer- che ho incontrato una principale difficoltà derivante dalla presenza delle sostanze or- ganiche che m’interessava isolare e conservare per giungere a definirle, nè occorre ri- cordare per quali caratteri mi si era manifestata la presenza di tali sostanze organiche. Portando a secchezza, come si è veduto, le soluzioni delle materie solubili alla tempe- ratura di circa 90°, i residui riuniti da diverse soluzioni e ripresi con novella acqua stillata in guisa da formare soluzioni quasi sature, queste sono state sempre colorate in giallo bruniccio, o rosso bruniccio di varie gradazioni, hanno manifestato reazioni alcali- ne, e con l’azione dell’acido cloridrico vi è stata effervescenza talvolta scarsa, altre volte abbondante. Abbandonate le soluzioni alla spontanea evaporazione si sono ottenuti molti cristalli, d’ ordinario con la combinazione delle facce del cubo e quelle dell’ ottaedro, macchiati dalle materie coloranti della soluzione. Progredendo la spontanea evaporazio- ne, a questi cristalli si sono uniti piccoli globetti di color rosso bruniccio , e talfiata di color bruno nericcio , i quali quando poggiavano sul fondo della capsola vi aderivano con sorprendente tenacità. In una delle soluzioni si sono formati cristalli bislunghi riuniti in ciocche. Con la lentezza derivante dalle spontanee evaporazioni, sin’ ora non ho potuto raccogliere che poco più di un decigrammo dei globetti, scopo principale delle mie ricer- che. Egli è però che per non ritardare maggiormente la pubblicazione della parte geo- logica dei vulcani fluoriferi della Campania, ed attendendo di operare su quantità molto maggiore dei conglomerati della contrada Molaro, rimetto la continuazione di queste ricerche alla seconda parte, nella quale mi occuperò delle specie mineralogiche; e ri- ferisco soltanto le seguenti proprietà osservate nei suddetti globetti rosso-bruni. Essi sono assai meno solubili dei cloruri alcalini, in guisa che, sciogliendo i cloruri alcalini, de non si scioglie che piccola parte dei globetti con essi depositati. Nondimeno la loro com- parsa non si ottiene se non quando si è depositata la maggior parte dei cloruri alcalini. E per questa condizione più volte verificata mì sembra dover conchiudere che siano più solubili nelle soluzioni dei cloruri alcalini che nell’acqua semplice. Col riscaldamento scoppiettano con violenza ed i minutissimi granelli che ne derivano si anneriscono; con gli acidi non fanno effervescenza e non vi si sciolgono meglio che con l’acqua; osservati con lente d’ingrandimento apparisce distinta la loro tessitura fibroso-raggiata. Intanto i saggi analitici, avendo dimostrato la presenza del potassio nelle sostanze solubili dei conglomerati di Pacognano, è mestieri cercare le quantità proporzionali di potassio e di sodio in esse contenute; ed ho preferito lo stesso metodo di determinare la quantità di cloro che si trova in una quantità determinata dei due cloruri purificati. Con- siderando che per il diverso grado di solubilità dei medesimi cloruri non sarebbe stato rispondente allo scopo scegliere i primi cristalli depositati dalle soluzioni che sono me- glio esenti di sostanze straniere, ho dovuto eseguire questa indagine sul deposito otte- nuto da tutte le lavande di uno degli strati della contrada Molaro dopo averlo liberato dalle materie straniere. Il primo strato rosso di questa contrada, avendo dato circa quin- dici grammi depositati dalle lavande, ho cominciato dall’aggiungere su questo deposito l’acido cloridrico sino a che non si è prodotto più effervescenza. Di poi col riscalda- mento al calor rosso ho scomposto le sostanze organiche; e fattane soluzione per to- gliere il carbone lasciato dalle sostanze organiche, nel liquore filtrato ho aggiunto clo- ruro di bario per eliminare il poco di acido solforico che vi si conteneva. Da ultimo col carbonato ammonico ho tolto il bario eccedente del reattivo ed il poco di calcio conte- nuto nella sostanza primitiva; e portata a secchezza la soluzione, ho discacciato col ca- lore il cloruro ammonico. Grm. 0,451 dei cloruri purificati hanno dato grm. 1,041 di cloruro di argento che contiene grm. 0,2573 di cloro; e da questa quantità di cloro, cal- colando le quantità centesimali dei due cloruri, si hanno 72,48 di cloruro sodico e 27,52 di cloruro potassico. Quanto alla origine delle predette sostanze solubili non so immaginarne che due: o l’acqua del mare, o le sostanze esalate dal vulcano che ha eruttato le materie del tu- fo. E la presenza in quantità notevole del potassio mi fa credere molto più probabile la seconda; tanto più che ho trovato i sali raccolti dalle fumarole del Vesuvio, durante il periodo di oltre quarant'anni, contenere quasi sempre unito al cloruro di sodio il clo- ruro di potassio spesso abbondante '). Resta sempre a sapere l’origine delle sostanze organiche. Tufare di Avellino e di Monteforte. In quel che mi resta a dire degli altri depositi di tufo della Campania non avrò a registrare novelli fatti per importanza pari a quelli di Fiano, di Fossa lupara e di Paco- gnano, e ciò probabilmente perchè mi è mancata l'opportunità di perlustrare tali depo- siti in modo conveniente allo scopo del presente lavoro. Discostandoci da Pacognano per meglio di quaranta chilometri nella direzione di greco s’incontrano le tufare di Avellino e non molto lontane quelle di Monteforte. Proba- 1) Contribuzioni mineralogiche per servire alla storia dell'incendio vesuviano del 1872, pag. 32 e seg. 9 bilmente la regione ch’è stato il teatro dei vulcanetti fluoriferi si estende dal lato orien- tale sino a Mirabella, avendo trovato nel 1840 non rari frammenti di tufo vulcanico nelle vicinanze di questa città; e riferisco questa notizia perchè sia tenuta presente da chi in seguito voglia occuparsi dell'argomento che ho preso a studiare. Il tufo di Avellino è per la maggior parte nericcio, e molto somig liante a quello di Salerno per il carattere speciale che si è fatto notare in esso di essere cosparso di mac- chie bianchicce, ed al medesimo tufo è pure somigliante per la mancanza di geodi fluorifere che altrove sono frequenti. Vi è pure tufo giallo al piano di Renna che forse appartiene ad un centro eruttivo diverso da quello che ha somministrato le materie del tufo nericcio, ma non ho potuto visitare la contrada dalla quale mi sono stati recati i campioni del tufo giallo per averne più esatta conoscenza. Nella recente peregrinazione fatta alle tufare avellinesi nel mese di Maggio del 1885 sono rimasto mal contento, sia per non avervi trovato le solite geodi fluorifere, nè altro segno di metamorfismo, sia perchè in nessuno dei luoghi visitati mi è riuscito osservare la roccia sulla quale è ad- dossato l’ altissimo deposito di tufo, nè alcuno degl’indigeni da me interrogati ha sa- puto dirmi se siasi cavato il tufo a tale profondità da raggiungere il suo limite inferio- re. Quanto al non aver trovato materie contenenti fluore non è bastevole per conchiu- dere che dal centro eruttivo di Avellino non vi sia stata emanazione di fluoruro di sili- cio. Da una parte il non averne trovate non vuol dire che non ve ne siano; da un’altra parte discorrendo del tufo salernitano, che nemmeno contiene geodi fluorifere, ho fatto osservare ciò poter derivare dal perchè tra le materie venute fuori con gli elementi che costituiscono la roccia tufacea non vi erano frammenti di rocce nettuniane capaci di es- sere mutati in fluoruri e silicati per l’ azione del fluoruro di silicio, e però non è rima- sta alcuna pruova che ci attesti l'emanazione di questa sostanza gassosa. Per caso for- tuito nel tufo di Salerno si è trovato un gruppo di geodi contenente gran copia di fluo- rina, il quale gruppo appartiene ad un’eruzione anteriore a quella che ha dato origine al tufo, e che intanto ci dimostra che là ove sono le tufare di Salerno vi sono state ema- nazioni fluorifere come in altri luoghi ove sono depositi di tufo. Simile fortunata occa- sione non si è offerta nel tufo di Avellino. Quel che ho trovato di specioso nel medesimo tufo è la sua divisione in alte co- lonne prismatiche verticali che richiamano l’attenzione e l’ ammirazione dell’ osserva- tore. Di tale struttura colonnare se ne possono vedere ragguardevoli esempii nella valle della ferriera, in quella delle fornelle e nell'altra di S. Leonardo, della quale ultima ho riportato nella tavola 3* un esatto disegno del Prof. Martelli. In questi luoghi meglio che altrove ho dovuto persuadermi che la struttura colonnare deriva dall’ essere stata la roccia in origine fangosa, e pel suo restringimento nel prosciugarsi è avvenuto ciò che ora forma la nostra ammirazione. Il deposito tufaceo di Monteforte per molti riguardi merita l’attenzione del Geo- logo e mi sarebbe piaciuto se l'opportunità mi si fosse porta di poterlo esaminare con maggiore comodità e diligenza. Ed in primo luogo importa considerare la sua altezza di oltre cinquecento metri sul livello del mare, la quale altezza è in aperta contradizione con la ipotesi che le materie costituenti i tufi della Campania fossero state trasportate in lontane contrade dai torrenti di acqua cagionati dal sollevamento dei vulcani di Roc- camonfina; e la medesima altezza era una delle difficoltà che mi si presentavano nel- 4 l’altra ipotesi, anche inammissibile da me adottata nel 1842, che i tufi della Campania derivassero dai Campi flegrei ‘). Per i caratteri litologici il tufo di Monteforte è in singolar modo contraddistinto per la grande abbondanza dei cristalli di ortoclasia vitrea che sono in esso cosparsi, carat- tere che da se solo basta a stabilire tale differenza dal non lontano tufo di Avellino, che anche senza tener conto delle condizioni topografiche, è necessario conchiudere che essi derivano da due centri eruttivi affatto diversi. In alcuni punti lo stesso tufo è tenacissimo in guisa da far presumere che esso sia stato metamorfizzato come quello di Fiano e di Sorrento, ed il metamorfismo subito è anche meglio dimostrato per le piccole scorie nericce in esso disseminate, e che hanno molti cristallini microscopici vitrei impiantati sulle pareti delle loro cellette, come si è veduto per le scorie di Fiano. Un’altra pruova del metamorfismo subito si ha per i cristal- lini di microsommite in esso rinvenuti e per i filetti serpeggianti di silice idrata sulle pareti delle sue fenditure, l’importanza dei quali si è dichiarata discorrendo del tufo di Fossa lupara (pag. 14). Debbo intanto avvertire che questi due ultimi caratteri non s° in- contrano facilmente, tanto che per i cristalli di microsommite mi è avvenuto lo stesso di quello che ho fatto notare per il tufo di Sorrento, che cioè avendoli osservati nella peregrinazione del 1840, non mi è più riuscito trovarli nella recente peregrinazione. Sono altresì assai rare le geodi fluorifere, non avendone veduto più di una delle più piccole. Dopo la colonna miliare che porta il numero 21 partendo da Napoli, a destra della strada vi è grande deposito di tufo nericcio con le fenditure riempite da speciali materie vulcaniche che saranno da qui a poco esaminate. Più innanzi, dopo il miglio 22 di rin- contro alla fontana, il tufo è stato profondamente tagliato per la costruzione della strada; e nella superficie messa allo scoverto dal taglio, a cominciare dalla parte inferiore, vi è uno strato di pomici incoerenti dell’ altezza di circa tre decimetri, sovrapposto al quale succede uno strato di tufo di altezza variabile fra tre e cinque decimetri; e poi un se- condo strato di pomici ancor esso di circa tre decimetri, ed in fine nella parte più alta del taglio si ripete il deposito di tufo dell’altezza variabile da tre a quattro metri. Se mal non ricordo fu in questo deposito che nel 1840 ebbi occasione di ammirare i minuti cristalli bianchi in forma di prismi esagonali, che in seguito ho distinti col nome speci- fico di microsommite. Intanto questo alternarsi delle pomici incoerenti col tufo com- patto mi sembra derivare dal perchè nelle materie date fuori nei diversi periodi della medesima eruzione, si siano alternate ora le pomici incapaci di acquistare adesione, ed ora le altre sostanze atte a produrre il tufo compatto. La medesima considerazione po- trebbe applicarsi per le pomici stratificate che s'incontrano in diversi luoghi della Cam- pania, delle quali si è fatto parola discorrendo delle tufare di Gragnano e di Lettere. Ritornando alle suddette materie vulcaniche che riempiono le fenditure del tufo, debbo ricordare che simili esempii di vene o piccoli filoni nelle fenditure del tufo si sono incontrati a Pacognano. E su tali vene debbo in primo luogo considerare che esse non han potuto formarsi se non quando già esistevano le fenditure della roccia tufacea : e la loro composizione litologica essendo affatto diversa da quella del tufo, non possiamo supporre che esse derivino dalla parte superficiale dello stesso tufo, e che le acque le 1) Veggasi ciò che trovasi pubblicato nella pagina 7. L'altezza di metri 600 ivi assegnata al tufo di Monteforte è rife- ribile a questa città, mentre il tufo è in luogo molto più basso. ATTI. — Vol II. — Serie 2. — N. 2. 12 So e abbiano trasportate nelle fenditure che ora si veggono riempite. Egli è però che per queste materie trovate nelle fenditure mi sembra poter conchiudere, che dopo le eruzioni che han dato origine ai depositi tufacei, in alcuni luoghi i fenomeni vulcanici han con- tinuato a manifestarsi. Gli elementi che costituiscono i piccoli filoni del tufo di Monteforte sono per la maggior parte piccole pomici bianchicce di singolare apparenza, quasi fossero andate soggette ad un processo di macerazione; e premendole con le dita cedono sotto la pres- sione come se fossero pezzetti di sughero, e nel tempo stesso con molta faciltà si rom- pono. La loro tessitura, osservata al microscopio si dimostra formata di minute cellette; e sia nella loro superficie sia nelle parti interne, vi sono frequenti granelli di color nero e splendenti, per lo più di forme indeterminate , e tra questi granelli ve ne sono alcuni facili a definire per la loro forma e riferibili alla mica nera, all’ augite ed alla magne- tite. Nella parte polverosa che va unita alle pomici ho pure trovato non rare laminucce di mica nera e qualche nitido cristallino bislungo di augite, oltre i soliti granelli ma- gnetici e di ortoclasia vitrea. Depositi di tufo nella parte occidentale della Campania. Nella carta geologica che accompagna questa memoria (e che mi duole non sia riuscita più chiara), se da Cerreto Sannita sì tiri una linea diretta a mezzodì sino a Gragnano, il vasto campo ove sono avvenute le eruzioni fluorifere della Campania tro- vasi diviso in due parti: una orientale, della quale si sono descritti i depositi tufacei ; l’altra occidentale, della quale mi resta a trattare. Nella prima, in generale montuosa, i luoghi ove si sono aperte le bocche eruttive si riconoscono per poco che vi si faccia at- tenzione; nella seconda, che d’ ordinario si estende in ampie pianure, il tufo o altre ma- terie vulcaniche non del tutto identiche al tufo, come si scorge dagli spazii colorati in rosso, occupano assai più vaste contrade, e preseritano la spiacevole condizione che spesso non è riconoscibile il luogo ove si è aperta la bocca eruttiva che ha dato origine al tufo. A breve profondità sotto la terra vegetale posta a coltura, o anche incolta, i pic- coli corsi di acqua, o i profondi burroni, o i tagli praticati per costruire le strade, la- sciano vedere sotto il suolo materie vulcaniche, ed in pochi casi, nelle cosiddette tu- fare, i cavamenti portati a grandi profondità somministrano un indizio che ivi sia stato un centro eruttivo. Del resto è questa la conseguenza che dovevamo attenderci per la condizione topografica dei luoghi posti in piano; dappoichè, se per le ragioni già riferite possiamo ammettere che i tufi della Campania derivano da eruzioni fangose, le materie semiliquide eruttate hanno dovuto ampiamente dilagare, e seguendo gli acci- denti del suolo estendersi molti chilometri lontane dalla bocca eruttiva. E poi con molta facilità le materie depositate nel tempo delle eruzioni si sono in seguito diffuse traspor- tate dalle acque fluenti in luoghi remoti. In alcuni luoghi si trovano depositi che somi- gliano ad argilla bruniccia, la quale son di avviso che derivi dalla parte sottile dei me- desimi tufi che le acque hanno trasportata e raccolta ove tali depositi, che chiamerò tufi argillosi, si rinvengono. E di più non è raro incontrare nella terra vegetale della regione occidentale, in luoghi lontani dai depositi tufacei, frequenti cristalli di ortocla- sia vitrea che non può dubitarsi provvenire dallo stesso tufo. Ciò premesso ne conse- guita che ove nella parte occidentale della carta vi è il colore rosso, ciò non dinota al- e pri tro se non la presenza di materie vulcaniche. Ed aggiungo pure che non ho così per minuto perlustrato questa parte da poter dire che in altri luoghi non vi siano depositi tufacei. Quando nel Settembre e nell’Ottobre del 1838, per incarico ricevuto dalla R. Ac- cademia delle Scienze di Napoli ho visitato questi depositi con la erronea supposizione che essi derivassero dai Campi flegrei, ho trascurato la più importante ricerca che avrei fatto dopo il 1881 riguardante i centri eruttivi; e di recente pochi luoghi ho potuto vi- sitare, i meno lontani da Napoli, con l’acquistata conoscenza che i conglomerati vul- canici della Campania derivano da speciali eruzioni avvenute nello stesso luogo ove essi sono depositati. Intanto mi è dato profittare delle fatiche ch’ è poco meno di mezzo secolo ho sostenuto, dappoichè conservo le note che dopo le giornaliere uscite in cam- pagna, e con la recente impressione lasciatami dalle cose osservate, curava di registrare nel 1838. Quindi il miglior partito che mi resta a seguire si è di trascrivere come al- lora furono raccolte le medesime note, aggiungendo, ove occorre, i fatti di recente 0s- servati, e le considerazioni che le nuove conoscenze mi suggeriscono di fare. Conser- verò ancora il nome di tufo feldispatico, come lo trovo indicato nelle note, il tufo della Campania, e gli dava questo nome avendo riconosciuto come carattere che lo lascia di- stinguere dalle produzioni della regione vulcanica di Roccamonfina la presenza dei cri- stalli di ortoclasia vitrea. Oggi più comunemente si direbbe tufo sanidico. In un capitolo separato darò notizia dei medesimi tufi che si trovano sovrapposti alle rocce dei vulcani di Roccamonfina. Da Capua per Calvi a Cassino. — « Popo più di tre chilometri dopo Capua tufo « fragile rossiccio. Più avanti sotto Pignataro il taglio per la costruzione della strada ha « posto allo scoverto alto e vasto deposito di tufo feldispatico or bigio violetto ora ros- « siccio con frequenti geodi e scorie nere; il tufo è attraversato da fenditure in varie « direzioni, e continua oltre Calvi per più di due chilometri con fenditure verticali. A « Calvi la roccia calcarea è molto prossima alla strada. Alla taverna di S. Felicita sotto « Presenzano la roccia calcarea sulla quale è edificato questo paese tocca la strada, e «su di essa vi è aggregato pumicoso probabilmente appartenente ai vulcani di Rocca « monfina, e per lungo tratto continuano le materie vulcaniche di Roccamonfina. Sotto « S. Pietro infine piccolo deposito di tufo argilloso, e frequenti cristalli di feldispato vi- « treo nel poco di terra vegetale che ricuopre la roccia calcarea ». È molto probabile che il vasto deposito di tufo sotto Pignataro accenni ad un cen- tro eruttivo apertosi, secondo i casi più frequenti, presso la base delle colline calcaree. Percorrentdo in ferrovia la strada da Capua a Cassino si ha l'occasione di osservare in diversi luoghi il tufo feldispatico. Lo si vede con divisioni verticali poco più di un chi- lometro prima di giungere alla stazione di Teano in un profondo burrone; si scuopre da Teano alla stazione di Cajanello per i tagli lungo la strada e sotto il suolo ove la strada è in pianura. Quattro chilometri dopo la stazione di Mignano e di nuovo alla di- stanza di sei chilometri si scuopre lo stesso tufo con divisioni verticali. Da Cerreto Sannita per Castelveneri a Telese.— « Tufo bruno violetto con geodi nel « principio della strada da Cerreto a Castelveneri; tufo gialliccio vicino Castelveneri ». Da Cerreto lungo il Titerno a Cusano. — « Tufo bigio fragile con geodi giallicce « dopo Cerreto; tufi giallicci presso il secondo ponte della strada di Cusano in contrada « Realto ». * Re. pere Da Cerreto per S. Lorenzello, Massa, Faicchio, Casale, Amorosi a Caserta. — « Sotto S. Lorenzello tufo feldispatico a destra del Titerno. Passato il ponte di S. Loren- « zello a sinistra del Titerno vi è per lungo tratto il tufo bigio sovrapposto ad un con- « glomerato di ciottoli calcarei, probabilmente dell’antico letto del Titerno assai più «largo dell’attuale, ed in mezzo a questi ciottoli vi sono alcuni stratarelli interrotti di Fig. 1. aa, tufo nericcio con divisione colonnare; dd, tufo giallastro compatto; ce, ciottoli dell’ antico fiume. «tufo gialliccio. Il tufo bigio nericcio è diviso da frequenti fenditure verticali che gli « danno la struttura colonnare, e si continua fin sotto Massa, ove più che altrove sono « frequenti le geodi giallicce incastonate nel tufo. Sotto Massa il tufo bigio è sovrapposto cal tufo gialliccio ch è più consistente del bigio e non presenta divisioni. Prima di Faic- « chio lo stesso tufo bigio nericcio si trova a destra del Titerno, e continua dopo Faic- « chio con magnifici spaccati verticali. Da Faicchio a Casale di tratto in tratto s’ incon- « tra il tufo bigio, e presso Casale esso è sovrapposto all’ argilla. Tra Casale ed Amorosi cè suolo vegetale che in qualche punto, specialmente presso Amorosi, lascia vedere « il tufo bigio. Alla scafa di Amorosi si scuopre lungo la destra del Calore lo stesso tufo « bigio con geodi giallicce e con la particolarità che mostra distinta la sua composizione « formata di lapilli vulcanici. Continua a scuoprirsi il tufo sin quasi al ponte di Madda- « loni ». \ 5 Dei depositi tufacei che per sì vasta estensione, e quasi senza interruzione, s’incon- trano non mi è dato conoscere la provenienza. È notevole la giacitura del banco di tufo con divisioni verticali sovrapposto ai ciottoli dell’antico letto del Titerno, che sin dal 1838 mi fece giudicare non essere molto remota la sua formazione, e volli abbozzare il disegno quì riportato, che rappresenta questo fatto. Non ebbi l'accortezza di misurare la sua altezza; ma per l’impressione che mi fece, avendolo tenuto sempre presente, credo che di poco fosse più alto di un metro. Da Mignano a Pietramelara. — « Tufo bigio violetto al miglio 32 della strada da « Napoli a Venafro, poco più di un chilometro ad oriente del lago delle Correie; tufo « feldispatico dopo l’incontro della strada che va a Pietravairano ». Da Pietramelara per Roccaromana, Statigliano , Latina a Caiazzo. — « Da Pietra- « melara a Roccaromana tufo bigio e giallo, immediatamente dopo Statigliano tufo bi- « gio nericcio; dopo Latina tufo bigio con geodi; dal miglio 26 sin presso Caiazzo tufo « sulle colline di argilla ». Da Caiazzo a Monte Grande '). — « Nel luogo detto fruscio, ove sono cave di tufo , « si vede il tufo giallo sovrapposto al bigio e far passaggio a questo per gradi; il giallo « è più duro e contiene rare geodi bianchicce. Ove il tufo bigio è superiormente in 1) Non saprei perchè questo monte è indicato nella carta col nome di Monte Scopetta. i « contatto col giallo, ha la stessa sua composizione; inferiormente contiene scorie più « grandi; geode gialliccia, con cristalli di feldispato vitreo nell’interno, trovata nel « tufo bigio. Più innanzi vi è una grande cava di tufo, nella quale si osserva superior- « mente tufo bigio mischiato al giallo, ed inferiormente solo il giallo; sempre il bigio « è più fragile del giallo ». Non può esservi alcun dubbio che nel luogo detto Monte Grande vi sia stata una bocca eruttiva non avvertita quando lo visitai, perchè allora credeva che i tufi della Campania provenissero da’ Campi Flegrei; e son persuaso che se lo avessi visitato dopo il 1881, vi avrei riconosciuto indizii di metamorfismo, ed altri fatti meritevoli di esser presi in considerazione. Da Teano per Carinola a Mondragone. — « Lungo tutto il cammino percorso, tufo « feldispatico che finisce presso la base del M. Massico ». Da Mondragone per Francolisi a Sessa Aurunca. — « Tufo lungo tutto il cammino; a Francolisi la roccia calcarea quasi tocca il lato destro della strada; e subito dopo Cascano la strada è per piccolo tratto sulla roccia calcarea di M. Massieo che traman- da odore bituminoso ». Da Sessa a Casanova. — « Tufo con geodi presso la base di M. Massico a libeccio di Casanova; Casanova è pure sul tufo che contiene geodi. Presso Casanova la terra vegetale contiene cristalli di feldispato vitreo, e ricuopre tufo argilloso, che ha l’ap- parenza del diaspro ». Da Sessa a Gaeta. — « Lungo la strada sino al Garigliano suolo vulcanico; presso la sponda destra del Garigliano cristalli liberi di feldispato vitreo ». Da Capua per S. Maria a Caserta. — « L’anfiteatro di Capua è fondato sul tufo rossiccio ; tufo di vario colore osservato nelle cupe ‘), tufo venato, chiamato dai ter- razzani ossa di morti, sovrapposto alla roccia calcarea del M. Tifata ». Da Caserta a Poccianello, Mezzano, Casella. — (Paeselli a settentrione ed a greco di Caserta). « Tufo rosso violetto, bigio e giallo con grandi scorie sulla strada tra Ca- serta e Poccianello ; Mozzano è sulla roccia calcarea; Casella è sul tufo ora bigio ed ora giallo ». Da Caserta per Maddaloni ad Arienzo. — « Nella pianura presso Maddaloni tufo feldispatico; anche tufo nelle vicinanze di Arienzo ed in qualche luogo dell’ abitato ». Da Arienzo per Airola a Montesarchio. — « Tufo nelle vicinanze di Airola ». Da Montesarchio al Taburno ed a Benevento. — « Frammento di tufo con cristalli di pirossene incontrato dalla parte di greco del M. Taburno. Da Montesarchio a Be- nevento colline argillose, sulle quali in diversi luoghi vi sono alquanti banchi di tufo circoscritti in brevi spazii ad uno dei lati, spesso il sinistro, della strada, senza oc- cupare il fondo delle valli. Terreno vulcanico incoerente nel letto del fiumicello « Corvo ». Da Vitolano a Solopaca. — « Tufo feldispatico poco esteso presso il ponte in ferro « di Solopaca ». Da Solopaca a S. Agata de’ Goti. — « Dopo S. Tommaso tufo con geodi che si e- « stende sino al di là di S. Agata de’ Goti ». Tufare di S. Prisco e di S. Angelo in Formis ®?). — Due altri centri eruttivi della A A A a A = A A_A (VE A A A A A A 4) Nome volgare dato alle strade che percorrono luoghi avvallati e stretti. 3) Nella carta è segnato S. Angelo della Forma; la gente culta di S. Maria dice S. Angelo in Formis. nr GL parte occidentale della Campania sì trovano a S. Prisco ed a S. Angelo in Formis, due paeselli, situato il primo a greco di S.° Maria circa due chilometri distante, e l’altro a maestro del primo poco più di tre chilometri da esso discosto. La grande profondità dei depositi tufacei di questi due luoghi, dimostrata per i cavamenti in essi praticati, val- gono a farci avere tale opinione. A S. Angelo in Formis il tufo messo allo scoverto è alto circa diciotto metri, e secondo le notizie datemi dai cavatori, a maggiore profondità si incontra l’acqua. Ho pure trovato sulle pareti delle sue fenditure i filetti bianchi serpeg- gianti di silice idrata, che si son veduti nei tufi di altri centri eruttivi già descritti. A S. Prisco, ove nella tufara Buccardi a giudizio dei cavatori la roccia raggiunge l’altezza di circa venti metri, si ha pure un’altra dimostrazione per le qualità del tufo che in diversi punti lascia scorgere i suoi elementi quasi saldati gli uni con gli altri, dimostrandoci così di essere andato soggetto a metamorfismo; e vi son pure grandi scorie nere, indizio dei luoghi di eruzione. Lo spazio interposto tra queste tufare non è tanto breve da farci credere la loro provvenienza da una sola bocca eruttiva, nè tanto lontano da dimo- strarci l’avviso contrario ; ed i terreni circostanti posti a coltura non lasciano vedere in quale relazione sono tra loro i depositi tufacei di queste due contrade. Intanto inclino a credere che vi siano stati due centri eruttivi principalmente per le qualità del tufo. A S. Angelo in Formis è bigio nericcio , poco tenace, ed a S. Prisco è bruno gialliccio e tenace; nè voglio tacere che anche nelle vicinanze di S. Prisco s’incontra tufo nericcio fragile. Le geodi fluorifere, assai frequenti a trovarsi nella regione occidentale della Cam- pania, non mancano in queste tufare. A S. Prisco sogliono essere assai piccole, ed a S. Angelo in Formis, quantunque nel visitare questa tufara non mi sia riuscito trovarne (e potrebbe succedere lo stesso a chi nell’ avvenire avesse curiosità di visitarla), pure per le diligenti cure del Sig. Lamanna ho potuto averne non poche. E tra le altre mi ha fatto grandissimo piacere un proietto, che, per la sua grandezza e per la complicata sua composizione può ragguagliarsi ai frequentissimi proietti di Fiano. Il suo maggior diametro ‘) quando mi pervenne intero era alquanto maggiore di sedici centimetri; e per esaminare l’interna sua composizione, sono stato obbligato ad aprirlo. All'esterno vi è una crosta della spessezza di due a tre millimetri di color bigio formata dalle materie del tufo con alquanti cristalli di ortoclasia vitrea saldate con la superficie del proietto. Alla crosta succede uno strato bianco, terroso , compatto, che in alcuni punti giunge alla spessezza di sei millimetri ed altrove si assottiglia sino a scom- parire ; indi in vario modo mescolate si trovano sostanze diverse; e tra queste vi è in gran copia la fluorina ialitiforme o in cristalli mal terminati, una sostanza gialliccia ca- vernosa, un’altra bruna formata da piccole concrezioni di forme irregolari, e nella su- perficie di una cavità, lunga cinquantadue millimetri e larga trentatrè , sono raccolti molti tubercoletti bianchi di diametro variabile da uno a due millimetri. Vi son pure assai rare alcune piccole ciocche di cristallini vitrei aciculari. Ed è notevole ciò che si osserva nella superficie interna della crosta esterna, ove si può distaccare dallo strato bianco che ad essa succede. fvi sono raccolti moltissimi cristalli gialli microscopici di ammirevole nitidezza. Per la forma riconosciuta in alcuni dei medesimi cristallini non mi resta al- cun dubbio che essi debbansi riferire all’augite, e con essi vanno unite alquante lami- nucce esagonali di mica. 1) N.0 4046 e 4047 della grande collezione det Museo. ME Lo strato bianco che succede alla crosta esterna è solubile negli acidi soltanto in parte. Grm. 2,872 della sua polvere, per l’ azione dell’acido acetico, hanno lasciato grm. 2,109 di parte insolubile. La stessa parte insolubile contiene alquanti granelli magneti- ci, osservata al microscopio vi si scuoprono moltissimi granelli vitrei, e con l’acido sol- forico dà forte reazione di fluore. Grm. 0,276 della polvere impalpabile, dopo il tratta- mento con l’acido solforico han dato grm. 0,134 di aumento nel loro peso, dal quale si deduce la quantità del fluore eguale a grm. 0,0972, e quella del fluoruro di calcio eguale a grm. 0,1992 = 72,17 per cento. La sostanza cavernosa gialliccia, e le piccole concrezioni brune han mostrato con- tenere ancor esse una porzione solubile nell’acido acetico con effervescenza, ed un’ al- tra porzione fluorifera insolubile. Grm. 2,193 della prima hanno dato grm. 1,935 di re- siduo insolubile ; e su grm. 0,260. di questo residuo, dopo il trattamento con |’ acido solforico si sono avuti grm. 0,163 di aumento, che dà la quantità del fluore eguale a grm. 0,1068 , e del fluoruro di calcio eguale a grm. 0,2192 = 84,31 per cento. Grm. 1,789 delle concrezioni brune hanno dato grm. 1,574 di parte insolubile, e da grm. 0,281 della parte insolubile si sono avuti con l’acido solforico grm. 0,166 di aumento, dal quale si deduce la quantità del fluore eguale a grm. 0,1088, e del fluoruro di calcio eguale a grm. 0,2233 =79,47 per cento. Da ultimo, avendo distaccato alcuni dei bianchi tubercoletti raccolti nella descritta cavità, mi sono assicurato che in essi vi è una parte esterna opaca ed un nucleo cen- irale trasparente; e per esser del tutto solubili negli acidi con effervescenza, ne conse- guita che siano formati di puro carbonato di calcio. Dal fin qui detto rimane dimostrato che il proietto di S. Angelo in Formis è costi- tuito di calcite e di fluorina in alcuni punti isolate , ed in altre parti tra loro intimamente mescolate; nè vanno dimenticati i cristallini gialli di augite e le laminucce di mica che stanno nella faccia interna della crosta che lo involge. In tutte le geodi dei tufi della regione occidentale della Campania non ho mai 0s- servato la calcite, del quale fatto non sapeva rendermi ragione. Intanto questo raro do- cumento incontrato nel tufo di S. Angelo in Formis è al certo di notevole importanza, trovandosi in esso in vario modo trasformata la calcite della roccia primitiva dalla quale ha avuto origine. Vi è giusta ragione di credere che esso non sia unico, e che altri so- miglianti proietti debbano essere inviluppati nei tufi descritti in questo capitolo. Non sarà del tutto superfluo dire qualche cosa delle geodi fluorifere le tante volte ricordate nelle gite del 1838; e mi basta tener conto di quelle che la prima volta de- starono la mia ammirazione quando le vidi nel tufo della sponda sinistra del Titerno, ove ne trovai a centinaia, e molte ne raccolsi che ancora conservo. Esse sono di forma molto irregolare, talvolta angolose, il più delle volte ritondate; la più piccola ha il suo maggior diametro di millimetri venti; la più grande, che fu trovata aperta con porzione di essa mancante, di millimetri sessantuno; e forse ve ne sono che hanno dimensioni alquanto maggiori. Il loro colore è spesso gialliccio o bigio sbiadito, ed alla loro super- ficie sono impiantati con molta tenacità frequenti brandelli di scorie e qualche cristallo di ortoclasia vitrea. Alla semplice ispezione oculare sembrano terrose; osservate al mi- croscopio, quale più e quale meno lasciano scorgere qualche particella vitrea o traslu- cida e moltissimi cristallini neri con isplendore metallico (magnetite); alcune di esse contengono pure non rari granelli gialli. — Yi Le sostanze nell’interno contenute sono molto variabili; la più grande di quelle raccolte, trovata aperta, ha nella cavità interna materia giallo-bruniccia cavernosa che la riempie completamente; le altre, avendone rotte cinque di varie dimensioni, le ho trovate col cavo interno in gran parte vuoto. Talvolta scuotendole si avverte dal rumore trovarsi nell’interno un nocciuolo libero. Ed avendo rotto una di queste con nocciuolo libero, ho trovato nella sua cavità che vi era un pezzetto quasi globoso di millimetri sei, bianco, vitreo, con tessitura granellosa, sul quale gli acidi non avendo dato effervescenza, debbo ritenerlo formato di pura fluorina. Se volessi descrivere le sostanze rinvenute nelle geodi aperte, tanto sono esse variabili da una geode all’altra e tanto sono diverse in ciascuna geode, che dovrei trascendere ogni giusto confine con descrizioni difficili a farsi, più difficili ancora ad essere comprese, e di poca o nessuna utilità. Mi basta dire che sia le bucce, che sono di spessezza variabile da due a tre millimetri, sia qual si yo- glia delle materie che vi sono rinchiuse, saggiate con l’acido solforico hanno dato non dubbia la reazione del fluore. Debbo intanto segnalare il fatto osservato in una delle geodi aperte, che tra le sostanze rinchiuse nella cavità vi sono moltissime laminucce esago- nali di mica, e tra queste ve ne sono di tale estrema sottigliezza che riflettono i colori dell’ iride. A S. Prisco ed a S. Angelo in Formis le geodi hanno un carattere in esse molto frequente che non si riscontra in quelle del Titerno per la buccia che d°’ ordinario è sot- tile ed interrotta; e sotto la buccia vien fuori un frammento angoloso di color bruno che da essa facilmente si distacca. La buccia è formata di granelli quasi tutti traslucidi, ed il frammento angoloso che vi è rinchiuso è alquanto duro, e nell'interno contiene materie terrose di apparenza variabile. La superficie dei frammenti bruni è ricoverta di minutissimi granelli splendenti, che osservati al microscopio si veggono formati in parte di cristallini di mica, e per la maggior parte di cristallini bruni, che reputo ap- partenere all’augite, ovvero all’anfibolo. Nelle cave di S. Prisco, ove il tufo è giallo e compatto, le piccole geodi non si lasciano da esso distaccare con facilità. Non di meno nello stesso tufo ho trovato la più grande geode di questa bocca eruttiva di millimetri settanta nel suo maggior diametro. Tufi feldispatici della regione vulcanica di Roccamonfina. Ho visitato i vulcani di Roccamonfina per la prima volta nell'autunno del 1838, e più tardi nel 1844 son ritornato a visitarli volendo raccogliere i campioni delle rocce per il Museo della nostra Università, essendo allora l'insegnamento della Geologia unito a quello della Mineralogia. Di recente ho pure percorso il lato orientale della medesima regione in cerca di novelli fatti riferibili all’argomento del presente lavoro. Intanto importa dare breve notizia di questi vulcani. Ad occidente vi è una promi- nenza chiamata Monte Cortinella ') che s’incurva formando una grande sezione di cer- chio, e può considerarsi come la parte che rimane intatta del primitivo cratere, nel quale corrisponde il principale centro eruttivo di questa contrada. Il Monte Cortinella, 1) In una carta topografica levata nel 1876 lo trovo indicato col nome di M. Za Frascara; e così ancora per altri monti che saranno in seguito nominati, non trovo che da tutti siano indicati con gli stessi nomi. E di questo inconveniente credo poter dire la ragione; dappoichè non sempre lo stesso monte è conosciuto con lo stesso nome presso gli abitanti dei paesi vicini; e nelle peregrinazioni le diverse guide delle quali mi son servito, quando le ho richiesto il nome di un monte o di una contrada, spesso mi hanno dato nomi del tutto differenti. AMI che nella sua parte più eminente e poco più di novecento metri alto, sul livello del mare, comprende un vasto spazio di altezza variabile tra cinquecento e seicento me- tri; che può ritenersi essere il fondo elevato del primitivo cratere, e nel mezzo di esso s’innalza sino a poco più di mille metri il M. Santa Croce. Se si completa la curva del Monte Cortinella per una circonferenza alquanto ellittica col diametro maggiore di circa sette chilometri da maestro a libeccio , si trova verso settentrione il M. Tuororame, ad oriente il M. Atano, a mezzodì il M. Mattone, e compreso in questa circonferenza a set- tentrione del M. Santa Croce, il M. Lattani. Tutti questi monti, quantunque quelli situati nel perimetro dello spazio ellittico sembrassero completare il ricinto del cratere primi- tivo, non possono considerarsi come contemporanei al M. Cortinella; ciascuno di essi rappresenta uno speciale centro di eruzione, senza incavo nei loro vertici, perchè le rocce che li costituiscono sono emerse quando erano già solide. Ed a maggiori distanze dal centro principale, rappresentato dal M. Santa Croce, vi sono stati altri centri erut- tivi, come quello del M. Ofelio ad occidente di Sessa Aurunca, e l’altro del M. Lucro a settentrione di Teano. Ciò dimostra che nella regione vulcanica di Roccamonfina, così chiamata dalla città di questo nome, edificata nel fondo del cratere primitivo a scirocco del M. Santa Croce, sono avvenute eruzioni molteplici con produzioni svariate, e con la condizione inevitabile che le più recenti hanno sconvolto le rocce delle precedenti. Egli è però che spesso iorna assai difficile riconoscere ciò che appartiene a ciascuna eru- zione per compilare la loro istoria. Intanto la fucina interna che le ha promosse era del tutto estinta quando sono avvenute le eruzioni dei tufi feldispatici. Questi tufi si trovano in molti punti uniti alle rocce di Roccamonfina sempre ad esse sovrapposti; ed è piuttosto facile distinguere le une dalle altre le produzioni vulca- niche appartenenti ai due sistemi tanto tra loro diversi. Dappoichè i tufi della Campania sono riconoscibili per i cristalli liberi di ortoclasia vitrea in essi cosparsi spesso ab- bondanti e talfiata rari, mentre nei conglomerati di Roccamopnfina , che sono di compo- sizione litologica molto variabile, è raro che esaminandoli per una certa estensione non sì trovino frammenti di rocce contenenti i cristalli di leucite; ed il loro aspetto, per chi è esercitato ad osservarli, è bastevole a farli riconoscere. Non è che nelle produzioni di Roccamonfina manchino i cristalli di ortoclasia vitrea, e basta citare l’ esempio della roccia di M. Ofelio, ch’ è una delle trachiti le meglio caratterizzate emersa dall’interno del suolo così solida come ora si trova, gremita di nitidi cristalli di ortoclasia vitrea; ma cristalli liberi di questa specie non mi è mai avvenuto di osservare nei conglomerati che per altri indizii dovessero reputarsi derivare dai vulcani di Roccamonfina. Le geodì fluorifere, che si è veduto incontrarsi quasi da per tutto nei tufi delle contrade percorse, non le ho mai trovate nella regione vulcanica che ora mi tiene oc- cupato. Di questa mancanza non mi sembra difficile assegnare la ragione; dappoichè se queste geodi provengono da frammenti di rocce nettuniane metamorfizzate, per quanto deve essere facile trovarle ove le bocche eruttive si sono aperte in mezzo alle rocce calcaree, per altrettanto deve essere difficile incontrarle ove le eruzioni sono av- venute in mezzo ad antiche rocce vulcaniche. La maggior parte delle notizie riguardanti i tufi feldispatici che si trovano sovrap- posti alle rocce dei vulcani di Roccamonfina, le riferisco come le trovo registrate nelle note prese dopo le gite giornaliere degli anni 1838 e 1844. Alta spianata ove è edificata la Città di Roccamonfina, Torano, Casafredda, Tuoro Armi. — Vol. II. — Serie 2. — N. 2. 13 Mea peo di Teano. — « A breve distanza da Roccamonfina nella spianata del cratere è il casale « detto Gambetta, ove sono depositi di tufo feldispatico bruno violetto che formano al « solito letti ben distinti sopra un conglomerato tenero giallastro ... Al ponte della Ma- « donna delle Grazie di Torano vi sono grandissimi depositi di tufo feldispatico sopra « un conglomerato di anfigeni; frammenti di lave ecc. Da Torano a Casafredda è quasi « per tutto lo stesso... Tra Casafredda e Tuoro di Teano vi è lava leucitica, sulla quale « vi sono depositi di frammenti con leuciti, e poco dopo anche depositi di tufo feldi- « spatico che diventano più abbondanti presso Tuoro. Scendendo nel letto del fiume « sotto Ligiuliani vi è, dall’una e dall’altra parte del medesimo, tufo feldispatico bi- « gio assai duro sovrapposto alla lava leucitica ». La spianata sulla quale è edificata Roccamonfina essendo elevata sul livello del mare meglio di cinquecento metri, si ha quivi un deposito per la sua elevazione quasi eguale a quella di Monteforte che si è detto essere il più elevato della re- gione orientale. Della maggior parte dei tufi rinvenuti nei suddetti luoghi ed in altre con- irade, che saranno in seguito nominate, si trovano i campioni nel Museo geologico della nostra Università degli Studii. Tuoro di Sessa. — « Poco più di un chilometro a mezzodì di Tuoro di Sessa si scuo- c pre immenso conglomerato con grossi massi di leucitofiro, e con tufo feldispatico bi- « gio nericcio distintamente ad esso sovrapposto. Questo tufo è notevole per sua altezza « ed estensione e per le frequenti fenditure d’ordinario verticali o poco inclinate che « lo attraversano. Nel ruscello che scende da settentrione e passa presso l’ estremità me- « ridionale di Sessa, distante da questa città poco più di un chilometro nel luogo detto « Pisciotti, vi è sulla sua sponda destra un filoncino di color rosso, imitante il rosso di « cinabro, largo tredici centimetri e mezzo , verticalmente incastonato nella parte su- « periore del tufo nericcio. Vi è pure, seguendo il corso del ruscello , altro filone quin- « dici centimetri discosto dal precedente; ed un terzo circa mezzo metro lontano, che « finisce superiormente con angolo acuto senza raggiungere la superficie del tufo, il qua- « le nella parte sovrastante continua diviso con sottile fenditura ». Tolti due campioni della vena rossa, ho lasciato quanto basta perchè da altri si po- tesse in avvenire osservare questo fatto singolare, se cagioni meteoriche non verranno a cancellarlo. Queste vene sono di tenacità maggiore del tufo che le contiene; in esse si distin- guono qualche pomice fibrosa e qualche ciottoletto con minuti cristalli di leucite; non di meno la loro tessitura è granellosa. Disgregati i loro elementi soppestandole, vi si riconoscono non rari frammenti di ortoclasia vitrea, e molti cristallini aciculari traspa- renti, che forse non sono altro che le fibre distaccate dalle pomici. Vi son pure poche laminucce di mica, qualche raro cristallino nero, nel quale ho riconosciuto la forma del- l’augite, ed anche raro qualche granello trasparente di color verde chiaro come l'oli- vina. Intanto i quattro quinti almeno delle materie che vi si contengono sono costituiti da minuti granelli di color rosso di varie gradazioni alquanto traslucidi quando si os- servano col microscopio. Di tal sorta di granelli non mi è avvenuto di vederne altrove; e se non fosse impossibile separarli dagli altri granelli che vi sono mescolati, non avrei trascurato di analizzarli. Essendo venuto in sospetto che i cristallini aciculari trasparenti fossero di gesso, li ho tenuti con gli altri granelli in digestione nell’acqua stillata, ed in questa non avendo riconosciuto l’acido solforico col cloruro di bario, mi son persua- PAS. Da so del contrario: invece nella stessa acqua col nitrato di argento, si è avuto abbon- dante precipitato, e tale che soltanto dai conglomerati di Pacognano si è avuto l’eguale o maggiore. L’ acido cloridrico bollente non discioglie che piccolissima parte degli ele- menti che entrano nella composizione delle vene rosse. Quanto alla maniera come si sono esse formate, non saprei dubitare che le mate- rie dall’alto trasportate in basso per le acque fluenti siano venute a riempire le fendi- ture che già esistevano nel tufo; e che queste materie, almeno in buona parte, appar- tengano ai vulcani di Roccamonfina. Sarebbe desiderabile che altri di me più diligente potesse dire l’ origine dei granelli rossi. Corbara. «A Corbara (circa un chilometro ad oriente di Sessa) sono le cave di ar- « gilla per farne stoviglie conosciuta volgarmente col nome di creta dé Sessa ‘). Que- « st’argilla son di avviso non essere altro che il tufo feldispatico a pasta argillosa; e si « trova a breve profondità sotto la terra vegetale. Poi ad oriente grandi depositi di tufo « bigio viotetto o bigio gialliccio sino a S. Felice ». Cupa. « Ad occidente di Sessa vi è il M. Ofelio formato di trachite, e nella medesi- « ma direzione poco lontano dal M. Ofelio vi è il piccolo paesello detto Cupa. Presso «Cupa vi è tufo feldispatico bigio rossiccio assai tenace, sovrapposto al conglomerato canfigenico. Ritornando da Cupa a Sessa s'incontra spesso il tufo feldispatico , che tal- « volta ha colore violetto rossastro, sempre nella stessa relazione di giacitura col con- « glomerato anfigenico ». Cupa è il luogo più occidentale dei vulcani di Roccamonfina, ove ho incontrato il tufo feldispatico. In una gita da Roccamonfina a Sessa, girando all’esterno del gran cratere di M. Corlinella per Sipicciano, Cerchieto, Le Vigne, S. Martino, Li Pauli e Fon- tana Radina, non mi sono imbattuto in alcun deposito di tufo. Lago delle Correie. — « Il lago delle Correie è un profondo fosso circolare le e» « pareti scendono quasi a perpendicolo ed ha una certa somiglianza ai crateri vulca- « nici; ma trovandosi in una pianura senza che alcun punto della sua circonferenza sia « rilevato, è da credere che siasi formato per uno sprofondamento. Nel suo interno « sino a notevole profondità si scuoprono strati orizzontali di varia natura, ed uno di « quelli che sono più in alto contiene grossi pezzi rotondati di leucitofiro, di trachite c pietro-selciosa ecc., come gli ordinarii conglomerati di Roccamonfina. A tutti sovrap- « posto è il tufo feldispatico ». Questo laghetto, lontano dal M. S. Croce circa nove chilometri, è il luogo più orientale nel quale ho incontrato le produzioni vulcaniche di Roccamonfina. In una recente peregrinazione nella parte orientale di questi vulcani ho visitato le vicinanze di Marzano, di Tora e di Mignano, portando la mia principale attenzione a rinvenire, se vi fossero, geodi fluorifere nel tufo feldispatico; dappoichè la ragione in- nanzi detta, per la quale non se ne trovano, o almeno io non le aveva trovate, non è tale da persuadermi che non se ne possano trovare. Nei luoghi visitati non ho incon- ‘rato lave o altre rocce in massa continua, e soltanto conglomerati con i caratteri di- stintivi di questa regione, e spesso con le impronte che portano i frammenti trasportati dalle acque; nè mi sono imbattuto in alcun punto ove sì scorgesse distinta la sovrap- posizione delle rocce di un sistema su quelle dell’altro. I tufi feldispatici li bo trovati 1) Nel 1838 un signore di Caserta sostenendo la volgare credenza che nella creta di Sessa si rinvenga l'oro, mi mostrò un tegame con qualche laminuccia di mica che imitava assai bene il colore e lo splendore dell’ oro. * — 100 — nelle vicinanze di Marzano di due qualità: la prima molto compatta col solito colore bi- gio nericcio, in qualche parte di colore giallastro, cosparsa di minute macchie bianche, come quelle dei tufi di Salerno e di Avellino. In essa non vi sono che piccoli frammenti di ortoclasia vitrea. La seconda qualità dello stesso colore e della compattezza ordina- ria dei tufi della Campania, contiene grossi frammenti di ortoclasia e non rare piccole scorie brune quasi vuote nel mezzo. Presso Tora, nella contrada che mi è stata indicata col nome di Campoaccardo, ho raccolto un grosso pezzo di tufo nericcio fragilissimo che racchiude molte geodi, sulle quali mi conviene trattenermi alquanto '). Esse sono di grandezza variabile, essendo- vene alcune del diametro non maggiore di tre millimetri e la più grande ha diciassette millimetri di diametro. Hanno doppia buccia, l'esterna di color giallo rossiccio, l’ in- terna bianchiccia, entrambe talmente fragili che vanno in frammenti per poco che si tocchino, riducendosi in granelli la maggior parte terrosi, altri neri magneti, altri vitrei formati di ortoclasia. Con l’acido solforico non hanno dato la reazione del fluore, e non volendo stare a questo solo esperimento negativo, ho ricercato il fluore fondendo la loro polvere con i carbonati alcalini per eliminare la silice, come si è praticato in al- ire precedenti ricerche. Anche usando questo trattamento, non ho potuto scuoprirvi il fluore. E però non so intendere che cosa siano, e come si siano formate queste con- crezioni che hanno l’apparenza delle geodi fluorifere, come quelle innanzi descritte (pag. 5) del tufo di Salerno. i Quanto al tufo feldispatico di Mignano, ancor esso nericcio, contiene alcune geodi talmente piccole che non ho stimato opportuno eseguire su di esse particolari ricerche. 4) N. 3972-73 della grande collezione del Museo. APPENDICE Tocco Gaudio ')—A proposito di questa Città, Scipione Breislak nella sua To- pografia fisica della Campania (pag. 64, 6 5), ha lasciato scritto quanto segue: «Due so- « no i siti che ho trovati interessanti in questa contrada. Il primo è il paese di Tocco « posto tra Montesarchio e Vitolano. Non dubito punto che la Montagnola su cui è fab- « bricato questo piccolo paese non sia un antico cono vulcanico crollato. Esso è cir- « condato all’intorno dai monti calcarei molto elevati, ed altro non è che un ammasso « di tufi in cui si veggono racchiuse pomici, sfoglie di mica e le solite sostanze dei tufi « vulcanici. In due luoghi, cioè al principio ed alla fine del paese, questi sono configu- « rati in prismi quadrilateri molto regolari *) ». L’espressione di cono vulcanico crollato mi ha fatto supporre (p. 6) che in questo luogo, che non ho potuto visitare, vi fosse una eccezione alla regola generale dei tufi della Campania che da per tutto si trovano con superficie spianata senza indizio di cratere. Quindi ho pregato l’egregio amico P. Zezi, segretario del R. Comitato geologico di darmene notizia se qualche cosa ne sapesse, e gli son grato di avermi favorito questo riscontro con la figura illustrativa qui riportata... « Io non sono stato là, ma il Sig. Cassetti, uno dei nostri aiutanti, ha visitato quei luo- « ghi di recente, e mi dice, che infatti il paese di Tocco è fabbricato sopra una massa iso- « lata, o meglio un piccolo altipiano, di tufo litoide stratificato orizzontalmente, di co- « lore nero in basso e giallastro al di sopra. Lo spessore totale della massa è di circa 30 « metri e si presenta come unpiccolo altipiano corroso lateralmente dal corso di due tor- « rentelli, e quindi isolato. Questo tufo riposa direttamente sugli scisti di epoca eoceni- « ca, e, secondo l’osservatore, nulla havvi che possa accennare ad un antico cra- « tere crollato. « Per maggior chiarezza riproduco qui un abbozzo di sezione passante per « Tocco ». Tocco PI SI Fig. 2. a, Tufi gialli a piccole pomici ; è, Tufi neri a grosse pomici; c, Calcari diversi (eocene inferiore e cretaceo superiore); d, Scisti argillosi (eo- cene medio); e, Arenarie (eocene superiore). Le linee orizzontali tratteggiate dallo stesso Sig. Cassetti mi sembrano manifesta- 1) 0 Gaudio come trovo altrimenti scritto. 2) Nell'altra opera di Breislak, intitolata: Voyages physiques et lythologiques dans la Campanie, Paris 1801, a pag. 76, vi è la traduzione letterale di queste parole, — 102 — re il suo concetto, che in origine il tufo raggiugesse quelle altezze, e che in seguito le acque fluenti lo abbiano scavato sino alla profondità ove ora scorrono i due torrentelli ; ed è questa, se non la sua, almeno la mia opinione. Osservo pure che lo stesso Breis- lak, menzionando la divisione prismatica del tufo di Tocco, aggiunge novella pruova per cui non rimane alcun dubbio che nel medesimo tufo vi siano le medesime condizio- ni degli altri depositi tufacei della Campania. Calcite di Pacognano.— Essendo già stampati i precedenti fogli, ho avuto notizia che cavandosi un pezzo nel tufo di Pacognano, ad una certa profondità del medesimo si sono incontrati non pochi frammenti di calcite che il lodato Sig. De Gennaro con la solita sua diligenza ha raccolto per mandarmeli. Questi frammenti sono rinchiusi in una varietà di tufo poco coerente, e sotto di esso vi è conglomerato vulcanico del tutto incoerente. Intanto dei frammenti di calcite ricevuti, alcuni sono granellosi assai facili a ridursi in polvere cristallina per poco che si stropicciano con le dita, altri sono an- golosi alquanto più compatti, attraversati da frequenti fenditure. Lasciando i secondi che non mi hanno presentato alcuna cosa notevole, m'importa far conoscere che i primi sono ricoperti quasi per tutto da sottile crosta di color bigio facile a distaccarsi dal frammento; ed in uno di essi |’ esterna crosta, che ne ricuopre una porzione, ha frequenti prominenze cristalline. Tranne quest’ultimo caso, le croste alla semplice i- spezione oculare sono esternamente di apparenza terrosa e levigata; nella loro faccia interna hanno minute prominenze di color vario, e di più sono assai fragili. Osservate al microscopio si veggono formate di granelli vitrei, ed esposta la loro polvere all’a- zione dell’acido solforico, si è avuta profonda corrosione del vetro, come aveva già preve- duto per la lunga pratica che ho a conoscere le sostanze fluorifere dei nostri vulcani. I frammenti di calcite incrostati di fluorina incontrati nel tufo 1 Pacognano, dànno una novella ed evidente dimostrazione, se i fatti precedenti non bastassero, che i frammenti di rocce nettuniane inviluppati nei conglomerati tufacei della Campania; mentre han subito mutamento, nella loro primitiva struttura, sono. stati trasformati in fluoruri, a cominciare dalla loro superficie, trasformazione che non ha potuto avvenire se non per l’azione del fluoruro di silicio. Sotto il tufo che contiene i frammenti di calcite vi è conglomerato incoerente. Estratto di recente dalla sua naturale giacitura, era quasi materia fangosa, che col prosciugamento è andato in polvere , essendo, per i due terzi almeno , formato di minuta sabbia. Tolto l'ingombro dei granelli polverosi, ho potuto osservare molti lapilli di svariata natura che non sarà del tutto ozioso esaminare per formarsi un chiaro concetto del presente conglomerato. La maggior parte dei lapilli è formata di pomici bianchicce quasi tutte fi- brose; vi sono in gran numero brandelli di dure rocce di vario aspetto , e moltissimi cristalli di ortoclasia vitrea, alcuni del tutto spogli di materie straniere, altri con sostan- za vitrea simile all’ ossidiana aderente alle loro faccette; lo che vale a dimostrare che sono stati eruttati mentre erano involti in materie fuse capaci di divenire vetrose col raffreddamento, come si è veduto in altri casi precedenti. Sono i brandelli di dure roc- ce che hanno a preferenza richiamato la mia attenzione, avendone veduti di qualità di- verse. Sono in maggior numero quelli di color nero destituiti di splendore, nei quali, avendo osservato rompendoli qualche cristallo di ortoclasia vitrea, sono da riferirsi al- la trachite; altri più rari dello stesso colore, hanno splendore vitreo come l’ ossidiana; — 103 — e senza tener conto di brandelli meno frequenti, tra loro diversi per colore, splendore e tessitura, ho trovato innanzi tutto meritevoli di considerazione alquanti pezzetti for- mati da laminucce di mica argentea uniti ad altri granelli, alcuni bianchi vitrei, altri ros- si (granato?) o bruni con tessitura granitoide. Di tal sorta di frammenti non se ne sono trovati in aliri luoghi della Campania; essi fanno supporre una bocca eruttiva che ab- bia dato, come il Vesuvio, proietti composti da diverse specie cristallizzate riunite con tessitura simile a quella del granito. Abbiamo dunque nel conglomerato che racchiude questi frammenti qualche cosa di diverso dagli strati sottoposti al tufo della contrada Molaro, e meglio di questi esso ci dimostra quanto siano stati molteplici i fenomeni vul- canici che hanno preceduto la comparsa del tufo. Sia i suddetti brandelli di dure rocce, sia i frammenti delle pomici, mostrano alla loro forma spesso ritondata di essere stati travolti dalle acque in movimento. La quan- tità grandissima di materie polverose, d’ ordinario costituite da particelle distaccate dalle pomici, menano alla stessa conseguenza. Istruito dalle osservazioni precedenti, non ho mancato di cercare in quest’ ultimo conglomerato se si contenessero sostanze solubili, e contrariamente alla mia aspetta- zione, non le ho trovate. Piperno.—La roccia conosciuta in Napoli col nome di piperno è di tal natura che torna difficile riconoscere la sua origine ed il modo come siasi formata; e se vi sono state, e credo tuttavia vi siano su di essa diverse opinioni, non è da farne maraviglia. Se in questo luogo mi trattengo alquanto a trattarne, è perchè il tufo di Fiano, ove esso è più profondamente metamorfizzato, acquista tali caratteri che lo rendono non poco somigliante al piperno; ed anche perchè credo utile aggiungere qualche notizia poco conosciuta su questa roccia. Due caratteri di somiglianza, che stimo di qualche valore, si fanno rilevare tra il tufo metamorfizzato di Fiano ed il piperno di Pianura. Il primo con- siste nel trovarsi in entrambe queste due rocce una parte di colore più chiaro e meno dura che involge un’altra parte di colore più scuro e più compatta. Il secondo carattere sta in certi cristalli aciculari o capillari nericci, con isplendore metallico, che si trovano affatto simili, ed in taluni punti soltanto, nelle piccole cavità di entrambe queste rocce; e non cade dubbio che essi si siano formati per effetto di sublimazioni. Sono dispiacente di aver perduto le note giornaliere delle gite fatte nei Campi Flegrei nel 1840, nelle quali avrei potuto riscontrare se è vero quel che la memoria mi suggerisce di aver trovato: dappoichè, se mal non ricordo, ove il sovrapposto tufo è in contatto col piperno, e vi è graduale passaggio dall’una all’altra roccia, ho trovato alquanti minuti cristalli in forma di prismi esagonali, come quelli che nel 1872 ho chiamato microsommite, e che si tro- vano pure nel tufo di Fiano provenienti dal suo metamorfismo. Per gli esposti caratteri di somiglianza inclino ad opinare che il piperno sia un conglomerato metamorfizzato. Nondimeno duro fatica a persuadermi come sia avvenuto il metamorfismo di una roccia dell’altezza di circa tre metri e mezzo che si estende per un’ampiezza orizzontale indeterminata interposta tra i conglomerati vulcanici non me- tamorfizzati. Aggiungo ancora, che alla distanza di circa otto chilometri dal luogo ove si cava il piperno, che serve agli usi edilizii di Napoli, nella pianura di Aversa, si trova la mede- sima roccia. Ho avuto occasione di esaminarla per una profonda fenditura apertasi di — 104 — repente in quella pianura nel mese di Settembre del 1852. Alla profondità di diciassette metri dal suolo, e sottoposto ad un letto di tufo dell’altezza di tredici metri, s’ incon- trò il duro piperno, nel quale la fenditura continuava ad internarsi ‘). Esso è in tutto simile alla roccia di Pianura, e come questa contiene altresì i cri- stalli di marialite. Nè vuolsi dimenticare ciocchè riferisce Breislak °) di essersi trovato nella stessa città di Aversa il piperno alla profondità di undici metri (65 piedi). Si hanno dunque tre luoghi, Pianura, Aversa e la fenditura apertasi nel 1852, la quale tagliava la strada di Trentola giusto ove essa incontra la strada di Vico di Pantano, ad occidente di Aversa ed alla distanza di otto chilometri da questa città. Pianura è si- tuata a mezzodì di Aversa, da essa distante tredici chilometri, e poco maggiore di tre- dici chilometri è la distanza da Pianura al quadrivio di Trentola, luogo della fenditura. Nello stato presente delle nostre conoscenze non sappiamo se la medesima roccia 0s- servata in questi tre punti sia in continuazione non interrotta, ovvero, come sembra più probabile, quella di un luogo sia separata da quelle che si trovano negli altri due punti. Nel primo caso si avrebbe, quasi direi, un piccolo pelago di piperno, la cui formazione sarebbe difficile intendersi, o nella ipotesi che esso sia una lava, o nell’ altra che sia un conglomerato metamorfizzato. Nel secondo caso si avrebbe uno speciale sistema di for- mazione vulcanica contraddistinto da questa enimmatica roccia detta piperno. Produzioni dell'incendio vesuviano del 79 rinvenute a Pacognano.—Ricordo di aver raccolto nel 1840 sul vertice della collina detta 7 Deserto a mezzodì di Sorrento, al- quanti cristalli di augite, che non potendo supporre di essere stati colà trasportati per le acque da luoghi più elevati, giudicai che fossero stati eruttati dal Vesuvio durante l’in- cendio del 79. Mi rendeva più accettabile questo avviso il fatto allora osservato che la medesima congerie di pomici unite ai frammenti di leucitofiro e di calcite, che in quel- l'incendio seppelli l'antica città di Pompei, si trova depositata sulle montagne di Ca- stellammare, di Gragnano e di Sorrento. Di questo fatto ho esposto i particolari discor- rendo della maniera come fu seppellita Pompei °), facendo osservare che nella direzione meridionale, alquanto verso oriente, tra il Vesuvio e le dette montagne s’interpone la città di Pompei. E per conseguenza i frammenti di rocce dal vulcano eruttate, seguen- do la direzione del vento, investirono questi luoghi posti sulla medesima strada per la quale erano diretti. È appunto tra i luoghi investiti che trovasi il vulcanetto di Pacognano, ove sono stati raccolti mescolati alla terra vegetale i prodotti vulcanici che formano l’argomento di questo articolo, e che per le cose già dette non cade dubbio essere usciti dal Vesu- vio nell'incendio che cagionò la morte di Plinio. Dirò in secondo luogo dei frammenti di rocce, ed ora importa innanzi tutto dar notizia dei cristalli di augite e di mica. Per i primi è già noto che nelle esplosioni del cratere vesuviano si hanno non di raro cristalli isolati di augite che talvolta pervengono a qualche distanza dal vulcano. Essi provengono dalle materie fuse delle lave, come si dimostra, sia per la loro perfetta somiglianza con i cristalli della medesima specie che 1) Veggasi per altri particolari il Rendiconto dell’ Accad. delle Scienze fis. e mat. di Napoli, fasc. di Luglio 1881. 2) Opera citata, p. 55. %) Osservazioni critiche sulla maniera come fu seppellita l'antica Pompei. Bul/ettino archeologico napoletano, fasc. di Marzo 1843, — 105 — sono incastonati negli augitofiri, sia perchè spesso ad essi aderisce qualche brandello della materia fusa. Non sono da noverarsi tra questi i cristalli raccolti a Pacognano, i quali se ne differenziano per la grandezza maggiore, per essere di colore verdastro e traslucidi, e per le specie di facce riconoscibili nella loro superficie, come si scorge nella figura qui aggiunta, disegnata con la faccia C che corrisponde al piano di simmetria pa- BC. 90°0 ou == 101°33' mC = 132°13' uu = 9255 pB = 120 10 mu = 144 34 oC = 119 4l ine ==14 17 nB' = 100 30 oB = 10327 pu = 134 47 nCO = 138 48 ou =121 11 mB = 118 24 nu =1323 ab= 7438 ; a:b:c—=1:1,8460:1,6916 B(010),C(001),w(011),0(101), m (112) ,7(112); p(121). rallela al piano di proiezione. In meglio di cinquanta cristalli raccolti non se ne trova un solo intero. Quelli al contrario provenienti dalle lave fuse sogliono essere interi , di color nero, opachi e terminati dalle facce 0, u, B, C. Per gli esposti caratteri i cristalli trovati a Pacognano vanno considerati come produzioni appartenenti all’antico vulcano, che hanno la medesima origine dei proietti formati dall’unione di molte specie cristal- lizzate, frequenti a trovarsi nei burroni del M. Somma. La stessa origine deve attribuirsi ai grossi cristalli di mica bruna, e non esito a chiamarli cristalli, quantunque non siano terminati come i cristalli perfetti, e piuttosto si dovrebbero chiamare piastre quasi cir- colari: la più grande trovata ha diciannove millimetri di diametro e quattro di spessez- za. In altri frammenti trovati nello stesso luogo, la mica e l’augite sono insieme uniti compenetrandosi, e non meno importante ho trovato un frammento per la maggior parte formato di augite verde, alla quale sono uniti il granato, l’ idocrasia e l’anortite. Aggiungasi pure trovarsi più rari i cristalli di ortoclasia di aspetto ben diverso da quelli che appartengono al tufo per le loro faccette scabre, quasi avessero subito un principio di scomposizione. L’incendio del 79, il primo conosciuto di epoca istorica, essendo scoppiato dopo molti secoli da che l’ antico M. Somma aveva cominciato un periodo di riposo alle sue conflagrazioni , trovo naturale la conseguenza che per le sue esplosioni siano sbalzati i prodotti dell’antico vulcano incontrati ove irruppe la bocca eruttiva. Non ho voluto tacere queste notizie utili a chiarire qualche punto della storia vesuviana, e nel tempo stesso servono a dimostrare che i descritti cristalli di augite e di mica, trovati uniti con le rocce dei vulcani fluoriferi della Campania, sono del tutto a questi stranieri. Le pomici eruttate nell’incendio del 79, quando si ha l’occasione di osservarle in buon numero, è agevole riconoscerle e distinguerle dalle altre che si trovano in diverse contrade vulcaniche. Un carattere spiccato, facile a trovarsi nelle pomici di maggior mole, si ha nei brandelli di calcite che stanno rinchiusi nelle loro cellette; ed i medesimi cri- stalli di mica, di augite, che si è detto trovarsi isolati, spesso sono ad esse aderenti 0 anche profondamente incastonati. In diversi luoghi delle montagne da Gragnano a Sor- rento ho avuto occasione di osservare i lapilli eruttati nel 79 raccolti in forma di strati ATTI. — Vol. II. — Serie 2. — N. 2. 14 — 106 — superficiali, ed in nessuno di essi ho trovato frammenti di tante maniere diverse quanti ne sono stati raccolti a Pacognano sparsi nella terra vegetale, ove pure si son raccolti non pochi frammenti di leucitofiro e di augitofiro; ed uno di questi, che forse non è il più grande ivi caduto, l’ho trovato pesare alquanto più di 136 grammi. Se si considera la distanza tra il cratere del Vesuvio e Pacognano non minore di diciotto chilometri, non sembrerà credibile che la forza della esplosione vulcanica avesse potuto lanciare a tanta distanza orizzontale somiglianti proietti. In tempi a noi più vicini, nel disastroso incendio del 1631, si narrano dagli scrittori contemporanei fatti di gran lunga più maravigliosi. Ed in questi fenomeni bisogna aver presente che ì proietti es- plosi dal vulcano vengon fuori con direzione quasi verticale, e per la direzione come per la distanza del luogo ove cadono, vi coniribuisce più di ogni altra cagione il vento: Non sì ha difficoltà a comprendere che il vento trasporti i minuti granelli alla di- stanza di centinaia di chilometri; ma per i sassi di peso specifico e di mole rilevante, il vento da solo sarebbe del tutto insufficiente ; e contribuiscono a mandarli lontano dal vulcano, l'altezza alla quale li ha spinti l'esplosione, ed il trovarsi i minuti granelli ed i frammenti di varia grandezza uniti come in una nube, sulla quale il vento può spie- gare la sua forza direttrice, mentre sarebbe inefficace sopra i frammenti isolati. INDICE Introduzione, p. I. Tufare di Fiano e di Fossa lupara, p. 9 a 46: proietti micacei di Fiano, p. 9: principali categorie di proietti, p. 10: proietto del peso di circa cinque tonnellate; antico aggre- gato di proietti fluoriferi di Fiano, p. 11: il centro eruttivo di Fossa lupara diverso da quello di Fiano, p. 12: proietti speciali di Fossa lupara, p. 13: filetti di silice idrata sulle pareti delle fenditure, e mucchio di geodi di Fossa lupara, p. 14: emanazioni fluo- riche nei vulcani della Campania e nel Vesuvio; rocce scomposte e rocce metamorfiz- zate dalle esalazioni gassose, p. 15 a 17: ricerca del fluore nelle mescolanze dei fluo- ruri con materie straniere, p. 17 a 36: altro mucchio di geodi di Fossa lupara, p. 19 e 20: cristalli metamorfizzati, p. 23: diverse cagioni che hanno prodotto i proietti mi- cacei e le geodi fluorifere, p. 25: calcite cristallizzata prodotta per metamorfismo della primitiva roccia nettuniana, p. 28: proietti terrosi con forme globose non aderenti al tufo, p. 29 a 31: proietto con silicati che dànno la silice gelatinosa, p. 32: aragonite filiforme con sostanza simile al piromaco, p. 33 e 34: fluoruri contenuti in un grandis- simo masso di calcite, p. 35: fenomeni di metamorfismo nei depositi tufacei, p. 36 a 38: giacimento del tufo; diverse materie trovate sotto il tufo di Fiano e di Fossa lupara, p. 38 a 43: fossili contenuti nel tufo; ossa di ovini contenenti cristallini di ematite e fluore nel tufo di Fossa lupara, p. 43 a 46. Tufara di S. Vito. Frammenti di calcite con esile crosta fluorifera rinchiusi nel tufo; grande differenza tra il tufo di S. Vito e quello di Fossa lupara, p. 46 e 47. Tufare di Castel S. Giorgio e di Rocca Piemonte, p. 47 a 54: vene di grossolana sabbia e pisoliti nel tufo di Lanzara presso Rocca Piemonte, p. 48: tronchi di conifere carbo- nizzati nel medesimo tufo, p. 49 e 50: sostanza bianca fluorifera nelle cavità del tufo di Rocca Piemonte, p. 50 a 52: sostanza con abbondante silice idrata nelle cavità del tufo di Castel S. Giorgio, p. 52 e 53: cavità vuote nel medesimo tufo, p. 53 e 54. Tufare di Salerno, p. 54 a 62: speciali qualità del tufo salernitano, e sua giacitura, p. 54 e 55: macchie bianchicce e false geodi che in esso si trovano, p. 55 e 56: sostanza fan- gosa gialla sottoposta al tufo, p. 56 e 57: composizione litologica del tufo salernitano, p. 57 e 58: antico mucchio di geodi, che racchiudono un nocciolo di fluorina, rinvenuto inviluppato nel tufo, p. 58 a 61: vedute generali sopra i precedenti fatti osservati, . 61 e 62. Tufare di Gragnano e di Lettere, p. 62 a 65: geodi che racchiudono calcite, ed altre che racchiudono sostanze fluorifere, p. 62 e 63: strati di pomici giallicce incoerenti uniti al tufo, p. 63 a 65. Tufare di Sorrento, di Vico Equense e di Pacognano, p. 65 ad 87: particolari del tufo di Sorrento metamorfizzato, p. 65 e 66: particolari del tufo di Vico Equense, p. 66 e 67: particolari del centro eruttivo di Pacognano, p. 67 ad 87: speciale composizione lito- logica in un punto del tufo di Pacognano, p. 68 a 70: conglomerati disposti a strati sottoposti al tufo della contrada Molaro, p. 71 a 74: varietà di tufo inbianchito incon- trato cavando un pozzo, p. 75: concrezioni globose sulla superficie del tufo, p. 75 e 76: quantità di sostanze solubili contenute nei conglomerati che sono uniti al tufo di Pa- cognano, p. 73 ad 83: sostanze solubili contenute in un deposito vulcanico sovrapposto alla roccia calcarea presso le sponde del mare, p 83 ad 86: ricerche sulle diverse so- stanze solubili del vulcano di Pacognano, p. 86 ed 87. Tufare di Avellino e di Monteforte, p. 87 a 90: mancanza di geodi fluorifere e dei segni di metamorfismo nel tufo avellinese, sua ammirabile divisione in colonne prismatiche, p. 87 — 108 — ed 88: altezza sul livello del mare del tufo di Monteforte, abbondanza di cristalli di ortoclasia in esso cosparsi e suo metamorfismo, p. 88 ed 89: strati di pomici incoerenti alternanti col tufo, e vene di materie vulcaniche che riempiono le sue fenditure, p. 89 e 90. Depositi di tufo nella parte occidentale della Campania, p. 90 a 96: differenze per la gia- . citura del tufo feldispatico tra la parte orientale e la occidentale della Campania, p. 90 e 91: luoghi principali dei depositi tufacei e dei centri eruttivi nella parte occidentale, p. 9I a 96: proietto somigliante a quelli di Fiano trovato nella tufara di S. Angelo in Formis, p. 94 a 96. Tufi feldispatici della regione vulcanica di Roccamonfina, p. 96 a 100: cenno topografico dei vulcani di Roccamonfina; i tufi feldispatici sono sempre sovrapposti alle rocce dei vul- cani di Roccamonfina; mancanze di geodi fluorifere nei medesimi tufi, p. 96 e 97: esem- pii del tufo feldispatico, p. 98 a 100: geodi senza fluore nel tufo delle vicinanze di Tora, p. 100. APPENDICE Tocco Caudio; tufo sul quale è edificato questo paese non diverso dagli altri tufi della Cam- pania, p. IOI e 102. Calcite di Pacognano; giacitura di questa calcite incrostata di sostanze fluorifere; fram- menti di rocce cristalline nel conglomerato sottoposto al tufo che contiene la calcite, p. 102 e 103. Piperno; caratteri di somiglianza tra il piperno ed il tufo metamorfizzato di Fiano; giaci- tura del piperno ed incertezze sulla sua origine, p. 103 e 104. Produzioni dell'incendio vesuviano del 79 rinvenute a Pacognano; caratteri distintivi dei frammenti rigettati dal Vesuvio nell’ incendio del 79; le pomici che seppellirono Pom- pei sono le stesse di quelle che si trovano a Pacognano; azione del vento nel dirigere le materie eruttate dai vulcani, p. 104 a 106. ERRORI PRINCIPALI CORREZIONI Pag. 2, verso 36, nel 1201 nel 1301 » » » 37, del 1838 del 1538 » 3, » 26, esplusione esplosione » 14, » 26, dalle tufane delle tufare » 16, » 44, rachitico trachitico » 22, » 23, controdistinti contraddistinti » 28, » 11,le più abbondanti la più abbondante >» >», >» 35, Sia Sì » 31, » 4le 42, sono eruttati sono stati eruttati » 33, » 26, abbiano mutata abbia mutata P194, o 10,72 » 37, » 10, più che Fossa lupara più che a Fossa lupara » 39, » 18,e per è per » », » 36, trasformate trasportate 40, » 43, tufaraB tufara A » 54, » 8, attendo attendono » 57, » 5,inalcune in alcuni » 62, » 40,1840 1838 » 64, » 21,Casa Guzzino Casa Juzzino » », » 6e 27, leucitofino leucitofiro » 71, » 36,suciò in ciò » 91, » 35, Percorrentdo Percorrendo Finita di stampave il dì 10 Ottobre 1887. Alti dill'Acens della Sctanza Fis e Mat Vel II Serre E NR IEDIMONIÀ D'ALIrh cha a fac uio 7 \\ Cic cio \A ATO T'almaX , SOLA D'ISCHIA CSA Massnlubrea CARTA GEOLOGICA Vedeani della Campania DEI VULCANI DELLA CAMPANIA £ K Vesuute PER ARCANGELO SCACCHI i 1885 È : [ON Campi Negra Scala Chllometrica nel rapporto di 1 a 250,000 e - i —_—____& Mn Virvcani di Roccamonfina Longitule Est dal Meridiano di Parigi i i) I IN 7, (1 Î | \ AN I 2.N2 { iui I . o, 2 35, AL; \ Y, Mattata, PE i) Ì , To 7 | | IVA, ‘(NN SAN Î IT \Ù n} 44, 4 GI) ITA Scala chilometrica di | a 20.000. £ Zav. I MINI \ I (14 He 94 PELI fi JI } TÌ rms ì\ IL S III}! ULT Y Ai | i III f it INT Il I | IÙ N \\ \ \ \\ \ Ù IzÌÌ \ \ IN VM 3 (A AM LAM \\ SIT ib c S iN =ùÒ 1 SÒ Ò) ÀÈè dI ai ponga i î DI sa x d = vu Foe) Az della R.Accad: delle sf 2zae Zis.e Mat Vol. IL 22Serte N°2 Tav. II dr dat 7, AM yi * AR “AZZIONI SN fe 30 METTO, TR gi Achille Martell dis LIT. PETRUTZELLI- NAPOLI - i La Vol. II, Serie 22 N° 3. ATTI DELLA R. ACCADEMIA DELLE SCIENZE FISICHE E MATEMATICHE STUDII SUL TERREMOTO D'ISCHIA DEL 28 LUGLIO 1883. MEMORIA del Socio Ordinario G. GUISCARDI. (Adunanza del dì 1° agosto 1885) C’est-ici un livre de bonne-foy, Lecteur, MONTAIGNE Il nostro Presidente propose che si studiasse il terremoto d’Ischia del 28 luglio 1883, e l'Accademia commise anche a me tale ufficio, che io accettai con le condizioni indispensabili alla infermità dei miei occhi '). La quale è pure l’ infausta cagione del ri- tardo col quale adempio l’assunto. E non mi dissimulai le difficoltà della investigazione, nè la incertezza dei risulta- menti di questa, derivanti dalla costituzione geognostica dell’isola. Tufi litoidei ed in- coerenti, conglomerati incoerenti e tenacissimi; trachiti sanidiniche in massa ed in cor- renti, delle quali da quello che apparisce di fuori non si può sicuramente argomentare quel che si nasconde; la marna, quali che sieno le opinioni sulla sua origine. Queste rocce tanto diverse non potevano non modificare |’ energìa dello scotimento, deviarne, rifletterne le direzioni e, direi ancora, arrestarlo. Altra incertezza deriva dagli edifizii, la calcìna dei quali scarseggia di calce, per- chè è mestieri provvederla di fuori; a questo si aggiunge la struttura dei muri, che nelle antiche costruzioni è più che incerta ; l’uso delle volte (e assai depresse) comu- nissimo , perchè l'isola difetta di alberi capaci di dar legname adatto alla costruzione delle impalcature. Da queste due cause di ambiguità consegue che dalla grandezza della rovina non si possa stimare l'energia dello scotimento ; nè dalla identità di quella dedurre l identità di questo. Che l’energìa del terremoto di cui scrivo abbia superato quella dell'altro del 1881, parmi evidente dall’aver fatto rovinare edifizii, che resistet- tero a quella prova o ne risentirono debolmente le conseguenze. Costituzione geognostica e qualità di fabbricati rendono ancora ragione di effetti în apparenza contrarii. A taluni esser mancato il tempo alla paura, come concettosa- mente fu scritto, onde i cadaveri ne furono disseppelliti quali se tuttora attendessero alle loro faccende ; ad altri esser bastato il tempo per passare d’una in altra stanza ; ed 1) V. la nota al fine. ATTI. — Vol. II, Serie 2.°— N. 3. | == pae anche per balzare dal letto, accendere una lucerna, recarsi in braccio un bambino e scendere da un primo piano all’ aperto Come la madre che al romore è desta Che prende il figlio e fugge . . Ed il prof. G. Palma potè vedere il candeliere ben tre volte oscillare sul tavolino e poi cascare, innanzi che egli stesso dalla sponda del letto fosse sbalzato verso il cas- settone posto di contro; dove coverto dalle macerie, eccetto il capo e il braccio de- stro, rimase dodici lunghe, angosciose ore. La sua fortuna lo serba in vita e narra quel che vide e temette. D'Ischia ho brevemente ricordato la costituzione litologica, non la giacitura delle rocce, nè la loro morfologia; non è chi le ignori. Non voglio però che si creda che io possa consentire l’Epomeo essere avanzo di cono interno d’un cratere sottomarino, del quale il terremoto del 1881 avrebbe perfino delineato il perimetro—che io intenda che sia il raggio fratturale più o meno noto ai geologi — che sieno le insenature percor- rendo le quali si giunge a così splendide scoperte. Le manifestazioni dinamiche del terremoto del 28 luglio, che produsse la rovina di meglio che due terzi dell’isola da ovest, verso est furono: projezioni — fessure ver- ticali predominanti e slargate in su, oblique, orizzontali o quasi, con ispostamento o senza — rotazioni — frane. A chi considera la natura del suolo e la qualità dei fabbricati , si fa manifesto che le orientazioni delle fessure che questi presentano non possano fornire elementi affatto sicuri per determinare l’epicentro del terremoto; pure di molte orientazioni, osservate con la possibile accuratezza , la convergenza è evidente, e di queste mi son servito per farlo; altre orientazioni più e meno variabili giudico che derivino dalle due cause in - nanzi indicate. Gli angoli d'emergenza assai diversi, anche a brevi distanze, mi hanno distolto dall’investigare il centro del terremoto. E comincio dal Nord dell’Isola, da Monte Zale, dove il castello e vecchie case colo- niche poggiate sulla trachite nulla han sofferto. Lacco. Della casina L’Arbusto cadde la parte superiore dei muri volti a Nord e ad Ovest. Azimuth ') S. E.- N. O. La Chiesa di S. Restituta ebbe il muro di facciata, che guarda E. 40° S., distaccato dai muri laterali, specie in alto. Azimuth E. 40°S. - N. 50° 0. — Casa Nesbitt ha il principale prospetto diretto N. S. ; le fessure sono orien- tate N.-S. ed E.- 0. Da un terrazzo ad Ovest una delle colonnine sul parapetto cadde ad Ovest sulla via; ed i muri volti ad Est s'inclinarono ad Est. Nella stanza da pran- zo erano uova dibattute in una scodella; il liquido si versò a S.-E., per la scossa da S. E. a N. 0. Questa orientazione che pare non si accordi col cadere ad Ovest della colonnina nè con lo strapiombare dei muri ad Est, può spiegarsi pel risolversi della scossa S. E.- N. O. nelle sue componenti normali ai muri N. S., E. 0.. Maggiore im- portanza io do al liquido versato, dacchè ebbe libero movimento sulla tavola da pran- zo, non così i muri collegati ad altri. Il signor Nesbilt avvertì sussulti. Casamonte. Caddero ad Ovest sulla via vasi da fiori poggiati su parapetti di ter- razzi. 1) Per brevità dico Azimuth l’orientazione della scossa. mei Nella via Ledomade (Dometa nella carta 1:50000) che dolcemente ascende, il pa- rapetto ebbe distaccata per tutta la lunghezza , e senza spostamento, la parte superiore di recente rifatta. Scotimento da giù in su. Casamicciola. Come nel 1881 Villa Sauvé fu salva, l’è stata ancora pel terremoto dell’83; poche crepacce in su, danni di piccola importanza. Dell’ Hòtel Bellevue segna- tamente il piano superiore fu più danneggiato. Notabile è la sala che dicono Luigi XVI, una diagonale della quale è N. 10° E; i muri a N.-E. e N.-0., che incontrano la dia - gonale a Nord, sono strapiombiati così che il pavimento ne è distaccato, e di esso un triangolo isolato dal resto, ha l’ipotenusa normale alla diagonale. Azimuth S.10° O., N.10° E. Della Grande Sentinella il muro che guarda N.10°0. rovinò: della Villa Verde quello al Nord. La piccola Sentinella poco lontana è per contro un cumulo di macerie ; può dirsi con bastante certezza che in questa contrada l’azimuth sia quasi S.-N. Perchè Villa Sauvé e Hòtel Bellevue risentissero meno gli effetti del terremoto, è chia- rito dall’esser la prima di recente costruzione e bene intesa ; il secondo dall’ aver solide fondamenta, e dall’esservisi praticati da non molto tempo rilevanti ristauri. La piccola Sentinella era vecchio edifizio in varie epoche ampliato, oltrechè sorgeva sul ciglio d’un burrone. Più verso Est Villa Balsamo (Olivieri nella carta 1:25000) consta di due palazzine fra le quali è un terrazzo. Il lato minore di entrambe guarda Ovest ed è parallelo al pa- rapetto del terrazzo sul vallone Lama. Della palazzina maggiore il pianterreno ad Ovest sta in piedi, del piano superiore cadde il muro esterno; della minore il fianco Est è ro- vinato. Non è possibile determinare in questi edifizii l’orfentazione della scossa , tanto sono fessi in ogni direzione; e l’aver resistito il fianco Est della palazzina maggiore è dovuto ad un sistema di catene di ferro che ne collegano i muri. Sul terrazzo, ad un metro circa dal parapetto e ad esso parallelo, sono due pan- chine in muratura, ciascuna lunga 2 metri le altre dimensioni 0,40; fra queste un’altra ve n’era simile e similmente posta. La quale fu trovata come un monolito poggiante sul parapetto obliquamente in direzione N. O. e a m.1,90 dal luogo dove prima stava. Pros- simo alla cantonata Sud della palazzina maggiore sta un pozzo con isponda rotonda con- giunto ad un pilastro d’1 met. di lato, e di 1 metro più alto della sponda; a partir dal- la quale era voto, così da formare una vaschetta cubica avente le pareti grosse circa due decimetri, e il fondo al piano della sponda. Di queste pareti rimangono solo quelle a Sud e ad Est, spostate a S. E. e girate alquanto ad Est. Panchina e vaschetta girarono pertanto nello stesso verso; quella, poggiata sul li- scio pavimento di quadrelli di terra cotta, ebbe libero movimento; noa così la va- schetta che formava un sol corpo col sottostante pilastro ed era congiunta alla vicina parete. L’orientazione dello scotimento fu presso a poco da S.- E. a N.-0., alquanto in- flessa a Nord. Fuor di dubbio un urto da sotto in su sospese in aria la panchina, in men- tre la scossa obliqua la fece girare. A chi mi dimandasse perchè delle panchine quella di mezzo soltanto risentisse l’effetto dell’urto, io francamente risponderei no ’ so. La cor- nice in pietra da taglio del muro della villa sulla strada, fu distaccata da esso per la intiera lunghezza in conseguenza ancora di urto da sotto in sopra. Alquanto a sud della Villa Balsamo sono le rovine dell’edifizio del Monte della Mi - sericordia; in una delle stanze del poco rimasto in piedi, il prof. Palma, già ricorda- to, avverti lo scotimento di ondulazione N.-S. IE Ce Poco lontano è lo stabilimento di bagni Belliazzi che ha pochi danni notabili; sia perchè da non molti anni costruito e bene, sia perchè di poca altezza. Nel vestibolo cen- trale, o sala di trattenimento , due tronchi di colonna di granito adornano i lati della porta d’ingresso nel muro di facciata posto quasi E. O.; ed entrambi sono spostati sulle loro basi di marmo per quasi un decimetro a N. 15° E. Seguendo ad Est giudico notabili i fatti osservati nella Villa Maresca che è assai danneggiata. La più cospicua fessura è orientata N. 50° O., alla quale è perpendicola- re un muro su cui sporgevano due pilastri che ne furono staccati e spinti a N. 40° E.: è la orientazione dello scotimento. Richiamarono la mia attenzione i fatti che nell’ at- tigua chiesetta, S. Arpino, presenta l’ altare posto N.15° 0.-S. 15° E. Del ciborio la lastra anteriore di marmo è spostata di 7 mm. nella stessa direzione presso a poco; poi- chè normalmente a questa, lo spostamento è di 6 mm, a sinistra e di 17 a destra. La cornicetta ed il finimento sporgono sulla lastra stessa per 40mm. a sinistra e per 13 a destra. Su questa parle in marmo poggia una base di legno dorato e sovr’ essa la cro- ce; la base è spostata come la lastra anzidetta , e il piede della croce fa angolo di 14° circa coll’orlo anteriore della base; che è quanto dire dovette girare così da fare un angolo di 14° circa con la direzione N. 15° O. detta di sopra. Da Villa Maresca proseguendo verso Est, a poca distanza s'incontra la casa del Rev. D. Giuseppe Lombardi e sorprende vederla quasi illesa; ma dalla balza scen- dendo sulla spiaggia, si vede che la Villa Maresca è costruita su tufo poco coerente, e la casa Lombardi sur un conglomerato trachitico brecciforme, tenacissimo. Questo con- glomerato si prolunga da Punta Perrone alla Punta della Scrofa. Sulla sinistra della strada che da Casamicciola va ad Ischia, sta la casa detta S.° M.* del Castiglione, il prospetto della quale è orientato O. 35° N. Questo muro e l’ altro a squadra formanti la cantonata sinistra, hanno una fessura verticale, slargata in su, ed a distanza quasi uguale dall’angolo. Il pavimento del 1° piano ha una crepaccia che con- giunge le anzidette (come nella Sala Luigi XVI) così che la scossa dovè essere a un di- presso da Ovest ad Est. Lungo il muro a squadra col prospetto, e però orientato N.35° E., il 1° piano ha un terrazzino su archi e piedritti. Nella verticale di questi, sul parapetto del terrazzino sono due vasi da fiori, di figura parallelepipeda ; quello più prossimo alla cantonata, girato sul piano del parapetto da Est ad Ovest passando per Nord, fa col parapetto angolo di un 14°, l’altro è soltanto spostato a Sud di 2 centi- metri. Lascio questa zona settentrionale e passo ad esaminare l’altra al Sud di essa, che chiamo centrale, cominciando da Forio che sta parte sur un piano poco elevato sul mare e parte sul declivio del- l’Epomeo; quella ha pochi danni, questa è rovinata. Sul piano sta la chiesa di Loreto la facciata della quale è rivolta al Nord ed è orientata E. 10° N.; del campanile, che è a destra, cadde ad Est la parte che si elevava sul tetto e ne sfondò la volta. Azimuth E. 10° N.-0.10° S. Parallela alla nave della chiesa, a destra, è una cappella (Ora- torio), così che il muro dietro l’altare è parallelo anche alla facciata della chiesa. Incastrato in questo muro era un dipinto su tela, che cadde a N.10° O., laonde sembra che contradica alla orientazione quì sopra registrata; forse lo scotimento avendo guasto il congegno che teneva in posto codesta tela, essa venne giù per proprio peso. Simile contradizione pare che presentino le lastre di marmo onde è rive- i — stito lo zoccolo dei piedritti della chiesa tutte distaccate; però quelle sulle facce volte a Nord ed a Sud lo sono assai meno di quelle ad esse perpendicolari; si potrebbe anche argomentare che queste e la tela avessero risentito una scossa riflessa dalla massa trachitica di Zale. Torone, Monterone stanno sul declivio. A Torone, della torri- cella di base quadrata d'un fumajuolo orientato E. 7° N. il cappello, poggiato su quat- tro prismetti, fu spostato quasi da Est ad Ovest. Identico spostamento ebbe altra tor- ricella a Monterone. A Vajola alquanto più ad Est, una colonnetta fu spezzata e la parte superiore s'inclinò ad E.10°N.; e muri furono spostati ad 0.5° S. Da tutti que- sli fatti si può conchiudere che in questo distretto l’azimuth sia assai prossimamente E.7°N. 0.7°S. La maggiore rovina di Forio superiore (Torone, Monterone) è da attribuirsi alla roccia su cui erano piantati i fabbricati; un conglomerato trachitico, poco coerente, che apparisce lungo la via da S. Maria del Monte a Forio. L’Epomeo nelle grotte, nei cunicoli non ha fratture nè dislivelli; il segnale topo- grafico sul culmine è illeso. Nella chiesetta (S. Nicola) la mensola destra, sostegno del- la mensa dell’altare, cadde a Sud; la lastra anteriore del ciborio fu staccata e spinta anche a Sud; un quadro poggiato sull’altare cadde indietro a Nord. Azimuth Nord Sud. Proseguendo verso Est, a Fziajano la casa del Rev. Baldino ha lungo i muri che guardano Est e Sud un terrazzino; di quello ad Est, il parapetto in muratura cadde da Ovest ad Est, e da Nord a Sud quello del terrazzino a Sud. Nei vani sottoposti le fessu- re additano, come i parapetti, che l’azimuth sia N. 0.-S. E. Al Cretajo muri di cinta di poderi, caddero a S. 60° E. In una chiesetta il cui lato lungo è E.-0, gli altari laterali cascarono a N. ed a S. Nel fondo del Rotaro, le case hanno crepacce quasi E.-0.; nella strada ve ne ha N.50°O. Esaminate la zona Nord da Ovest ad Est e similmente la centrale, mi occupo ora della zona sud, nella stessa direzione e comincio da Panza. L'asse della chiesa Parrocchiale è quasi E.25° N.; il muro della facciata principale, a sinistra è attraversato da fessure. Sulla porta v' ha una finestra ovale mu- rata, questa muratura di epoca posteriore è distaccata e spinta innanzi. Azimuth coinci- dente a un dipresso con l’asse. — Di un camino in muratura nella casa Palliazzi le pie- tre, scommesse, furono geltate sul pavimento della stanza come projettili a N. 20° E. — Di altra casa rovinò la cantonata S. O., e di altre caddero le cantonate a N.- E.— L’en- trata al podere Castaldi nel muro di cinta che guarda Ovest ha due pilastri in pietra da taglio, la parte superiore dei quali girò da Sud verso Nord passando per Est. Serrara. Sta ad Est di Panza ed a Sud di Fontana. La parrocchia il cui asse mag- giore è N. 25° E., ha il muro di facciata staccato dai laterali e strapiombato innanzi. La casa del parroco l’asse maggiore dalla quale è N. S. ebbe distaccato il muro a Sud. Barano. Casa de Meglio, il muro esterno che guarda Nord è fenduto verticalmen- te, e la vòlta lo è ancora in direzione N.-S. Azimuth E.-0. Altra casa de Meglio con- sta di due stanze orientate E. - O. e l'una dietro l’altra; nel muro fra esse, di una del- le due porte che era murata, la muratura piegò ad Est. I candelieri sull'altare mag- giore della chiesa dedicata alla Madonna del Carmine caddero sulla mensa ad E. 25° N. ur E Ciglio. Della casa Migliaccio cadde la cantonata S. O. ed i muri che la formano sono fessi verticalmente. Azimuth N.E.-S. O. Nella casa di Giuliano Jacono una stanza nella cantonata Ovest ebbe i muri che guardano N. 0. e S.E. distaccati dal pavimento; le crepacce in essi convergono ad Ovest e in giù. Nell’angolo stesso il pavimento è fen- duto normalmente alla diagonale E. O. della stanza. Azimuth E.-0. Moropano. Al muro d’una casa orientata N. 65° E. era addossato un armadio ; dle bottiglie ed i bicchieri conservati in esso caddero a S.25°E. Azimuth S.25° E. I muri perpendicolari al menzionato , val dire O. 25° S. furono notabilmente fenduti, e la vol- ta lo fu da Est ad Ovest. Altre stanze limitrofe hanno crepacce verticali nei muri volti a N.65°0. Piejo. La facciata della chiesa guarda N.30°O., e la parte superiore di essa è staccata e spinta innanzi. Azimuth N.30° O. Fontana segna quasi il centro del cratere dell’ Epomeo: la casa di Luigi Trofa ha fessure quasi verticali in tutti i muri che, sebbene stieno in piedi, sono però strapiom- bati; e la volta tuttochè costruita di fresco, rovinò. La vicina casa Mattera ebbe identici danni. Della casa Migliaccio la parete esterna a S. S. O. cadde in direzione N.E.-S.0. Noja. La casa del parroco ebbe il muro che guarda S. E. staccato e strapiomba- to; ed i muri ad esso perpendicolari furono fenduti verticalmente. Campagnano, Ischia hanno debolmente risentito lo scotimento contrariamente alla parte dell'Isola di cui mi sono già occupato. Le frane finalmente, alle quali io non attribuisco troppa importanza; dacchè se ne hanno indipendentemente da fatti sismici. Breislak fu da una frana impedito dal misu- rare la temperatura d’una fumarola di Monticeto '). L’Epomeo da secoli è esposto a tutte le vicende atmosferiche ; le fumarole che ne spicciano , contribuiscono a minarlo; non meraviglia dunque che lo scuotersi del suolo abbia fatto scoscendere una parte superfi- ciale del suo dorso. Determinati gli azimuth, dove più attendibili, li riunisco in uno specchietto per- meglio scorgerne i rapporti e le conseguenze che se ne possono trarre. La zona Nord dà (Lacco) S.E.—N.O. Arbusto, Nesbitt S.50° E. — N.50°0. Santa Restituta (Casamicciola) S.—N. Villa Verde N.10° E. — S.10°0. Hotel Bellevue (Zavota) S.10°E.— N. 10°0. Grande Sentinella SENO. Villa Balsamo S.— N. (quasi) Monte della Misericordia S.15° 0, — N. 15° E. Bagni Belliazzi S.40°0. — N. 40° E. Villa Maresca O. E. Casa S. Maria del Castiglione 1) Voyages phys. et Iythol. dans la Campanie. Paris, An, IX (1801), pag. 201. La zona centrale dà (Forio) E.10° N. — 0.10° S. Chiesa Loreto E.—-0. Torone, Monterone E. 10° N. — 0. 10° S. Vajola (Epomeo) NS. (Fiajano) NO. —S.E. La zona Sud dà (Panza) E.25° N. — 0. 25° S. Parrocchia N.20°E. — S.20°0. Casa Palliazzi (Serrara) N.25°E. — S.25°0. Parrocchia NS. Casa del Parroco (Barano) O. E. Casa de Meglio (Ciglio) NE. —S.0. Casa Migliaccio N.20°E. — S. 20°0. altra casa E. — 0. Casa Jacono (Moropano) S.25° E. — N.25°0. Casa Angelo Migliaccio (Piejo) N.30°0. — S. 30° E. Chiesa (Fontana) Sussulto Casa Trofa S.SO.—N.E. Casa Migliaccio (Noja) S.E.—N.O. Casa del Parroco Segnando sulla carta d'Ischia codesti azimuth apparisce chiaro che quelli di Forio, Lacco, Panza, Ciglio (pars) Serrara (pars), Piejo, Fiajano, S. Maria del Castiglione convergono al Nord, a Casamicciola (Mennella, Piazza Majo), dove appunto lo scoti- mento sussultorio fu più fortemente avvertito; laonde giudico di esser nel vero quando ne deduco essere stato colà l'epicentro del terremoto. Penso però che se volessi circo- scriverne l’area molto azzarderei; meno, forse, se in un rilievo topografico assai parti- colareggiato fossero state segnate le fabbriche nelle quali furono determinati gli azi- muth. A Casamicciola intanto due azimuth (Villa Verde e Monte della Misericordia) sono decisamente N.-S,; quelli di Zavota e Gr. Sentinella ne differiscono per soli 10°; a que- sti forse si potrebbe aggiungere l’azimuth Belliazzi diverso per soli 15°. Codesti azi- muth, avuto riguardo alle difficoltà di esatte determinazioni, possono ritenersi presso a poco normali ad una linea che passi per le fumarole lungo la costa nord dell’isola. L’azimuth dell’Epomeo N. S. anch'esso è normale alla stessa linea. Gli azimuth di Barano e di Ciglio E. e O. risultano normali ad una linea che passi per le fumarole dei Maronti e per l’acqua dell’Olmitello. La notabile scossa sussultoria a Casa Trofa (Fontana) avrebbe forse rapporto a questa linea che prolungata passa per Fontana e per la fumarola di M, Cito? Non penso che in una regione essenzialmente vulcanica ì terremoti possano rappor- tarsi a quelli che si dicono tettonici. Le acque atmosferiche che cadono in codeste regioni spariscono prontamente, come è noto, per la grande permeabilità dei materiali vulcanici, soprattutto quando incoerenti, e discendendo si accumulano nelle parti più interne; RR pe l’abbondante vapore acquoso, che a temperie più o meno alta vien fuori dalle numerose fumarole d’Ischia, manifesta l’esistenza dell’acqua che impregna le rocce e circola in esse. Siccome questa mia scrittura non è dottrinale, stimo superfluo dire come quest’ac- qua giunga nel focolare vulcanico e vi sì trasformi in vapore; ricorderò soltanto che quando la tensione ne divien tale che possa vincere gli ostacoli che lo imprigionano, è capace di produrre formidabili esplosioni. Quando scrissi del terremoto d’ Ischia del 1881) ne additai come causa il vulca- nismo del globo e, più particolarmente « l’istantaneo espandersi di una gran massa di aeriformi »; di quello del 28 luglio 83 non trovo ragioni che valgano a farmi pensare diversamente. Il Daubrée *) è di opinione che la cagione efficiente dei terremoti sia la tensione del vapore acquoso; è la théorie aquifère pel Virlet d’ Aoust?). N. B. — Per rispetto dei miei occhi l'Accademia consentì che delle ricerche sul terreno si occupasse il Dott. P. Franco, coadjutore al Museo di geologia; passato il sollione, i luoghi più notabili furono da me riosservati. Dello zelo e della solerzia con cui attese al lavoro, come dell’opera prestatami nello scrittojo, io me gli professo obbligato. finita di stampare il dì 5 Settembre 1885. 1) Atti dell’Accademia Pontaniana. Vol. XIV. *) Revue des deu Mondes, Avril 1885, 3) Bull. Soc. géol. de France, 3ème Sèrie. Tom, XIII, pag. 448. MA dla Acid A SEMO 7 P° di Carusocy va torte Vergine pe e Be ) x 50 > Spadaro ® Pedel Soccorso ue SHAel. SEZ ano, Parte: 4} 7 ì La CA; HI € if, La LI i i Podella Cima & VAT ed k bd Ma È sas la > fe Ai me P |, Di hd x . Pesi Vol. II, Serie 2° | N° 4 ATTI DELLA R. ACCADEMIA DELLE SCIENZE FISICHE E MATEMATICHE INTORNO AD UN’APPLICAZIONE DELLA TEORIA DELLE FORME BINARIE QUADRATICHE ALL’ INTEGRAZIONE DELL’ EQUAZIONE DIFFERENZIALE ELLITTICA NOTA del Socio Ordinario G. BATTAGLINI letta nell’ adunanza del dì 8 Agosto 1885. 1. Supponiamo le coordinate (0, , v, , v,) di un punto V in un piano proporzionali a tre forme binarie quadratiche, ponendo simbolicamente vo, =(a,t,{-a,t,)=a%, , vo,=(bt, + bt=00, , vo=(044t co) =; (1) ad ogni valore del parametro £= f, : #, corrisponderà un punto V nel piano; il sistema dei punti V, variando {, sarà una linea di 2° ordine, poichè ad una retta qualunque ®, di coordinate (V, , V,, V,), 0 sia rappresentata dall’equazione V,= Vi + Vato + Vava=0, appartengono i due soli punti del sistema, che corrispondono ai due valori di £ de- dotti dall’ equazione di 2° grado Via, 4 Va8, + Vge°,=0. (2) Se le radici di (2) sono eguali, la retta v è tangente della linea di 2° ordine, sicchè si otterrà l’equazione di questa linea, in coordinate di rette, eguagliando a zero il di- seriminante di (2); si avrà così Via, + VaB, 4 Vac, ) V,a,4, + Va0,5, + V30,0, 12 | | V,a',0,+ Vab, 0,4 Vac 103 ’ Via? VA A (indicando con a, &, c simboli equivalenti ad a, d, c), onde (aa)? V®, + (08) V®, + (ce) V®, + 2(de)? V,V, + 2(ca)® V,V, + Aa VV, =0. Arti — Vol. II, Serie 2% — N.0 4. 1 E I coefficienti in questa equazione sono i discriminanti delle forme quadratiche fon- damentali a°,, 0°, , c°,, e gl’invarianti simultanei delle medesime forme combinate a due a due; indicandoli con su=(40)? , sa=(00)° , sg =(cc°)° , sa=(00) , sa =(ca), se=(00), equazione della linea di 2° ordine, in coordinate di rette, sarà dunque T=Sa Vit ARS Va Ven =, (3) f= (SV + saVo 4 s3Va) = sw=0. o simbolicamente Il discriminante della forma ternaria quadratica f si esprime per mezzo dell’ inva- riante simultaneo 133 = — (be) (ca) (48), delle forme fondamentali, poichè per la teoria delle forme binarie quadratiche *) si ha { PRESI DITA dl) #5 193 = Sea > Soa, » Se | | | | 8 s. | Indicando con S,, l'elemento reciproco dell’ elemento s;; di questo determinante, l'equazione della linea dì 2° ordine (3) in coordinate di punti, sarà F—= Side VOSS2S gala PA 105 (4) 0 simbolicamente F= (5,04 S,0, 4 S;v3)° = 5, =0. Consideriamo due punti Ve V' corrispondenti ai valori £ e #" del parametro £, si avrà per le (1) =; VV, = b°; 3 VV == e o vv t 5 1 sicchè indicando con (V,, V,, V,) le coordinate della retta v comune ai due punti V, V, 0 sia ponendo V=vvi— 00 ,=(00), , V= vv’, — vvd'g=(00), , Va=0 0 V0., MMI e dinotando con al = (Ge)b;e. i DI = (62)c,0, ì ec, = (ada i determinanti funzionali, 0 Jacobiani, delle forme fondamentali a?,, b°, , €°,, combinate a due a due, verrà ov Vedi) (0 ca Rel), - vv Vi = e; a; 4} cy a’; “Si (1) (ca) (c; ad + Cc; a;) ca (ff) b; b, ’ (5) vv Va br abi = (0) (ad)(arb +ay 6) = tt), 07. ') Clebsch, Zheorie der bindren algebraischen Formen, p. 201 e seg. pra fora Se i due punti V' e V' coincidono col punto V, la loro retta comune v diverrà la retta tangente della linea di 2° ordine in V, e si potrà supporre che le coordinate di questa retta tangente siano date da o, =(dc)b,c.="a8, 3 oV.=(ca)c.a, =D. » oWi,=(ab)a,b,="0}.. (6) Similmente supponiamo le coordinate (V,, V,, V,) di una retta v in un piano pro- porzionali a tre forme binarie quadratiche, ponendo simbolicamente VV,=(A,T,+t AT)? = Afp VV,=(B;T,f BE Br (GIpG = Cn (1) ad ogni valore del parametro T=T, : T, corrisponderà una retta v nel piano; il sistema delle rette v, variando T, sarà un inviluppo di 2° classe, poichè ad un punto qualunque V, di coordinate (©, , v,, v,), 0 sia rappresentato dall’ equazione boe, tV +0 =0, appartengono le sole due retie del sistema, che corrispondono ai due valori di T de dotti dall’ equazione di 2° grado vA°r + 0, B°r + v30°r =0. (2) Se le radici di (2) sono eguali, il punto V è punto di contatto dell’ inviluppo di 2 classe, sicchè si otterrà l’equazione di questo inviluppo, in coordinate di punti, egua- gliando a zero il discriminante di (2); si avrà così v,A°, + vB, +030°, ’ v,A,Ag | v3B,B, + 030, C, v,AA,-+v3B,B,4 0300, ) v,A°, | v,B®, + 0307, (indicando con A‘, B, C simboli equivalenti ad A, B, C), onde (AA)? 02, + (BB)? 02, + (001)? 03, + 2(BO)? 0,0, + 2(CA)? 0,0, + 2(AB)? 2,0, = 0. I coefficienti in questa equazione sono i discriminanti delle forme quadratiche fondamentali A?,, B°,, C°,, e gl’invarianti simultanei delle medesime forme combinate a due a due; indicandoli con DI (AA) , S,=(BB)° , S,=(CC)} , Sy=(BO° , S,=(CA)? , Sa=(AB), l'equazione dell’inviluppo di 2° classe, in coordinate di punti, sarà dunque F=Syuv, 4... 4 2S,30%90%3+...=0, (3) o simbolicamente F=($,0,4 80 + Sv) =S%,=0. Il discriminante della forma ternaria quadratica F si esprime per mezzo dell’ inva- riante simultaneo Sissa =— (BC)(CA)(AB), io delle forme fondamentali, poichè per la teoria delle forme binarie quadratiche *) si ha 13 DIE) _- 25 123 Gr Sa ’ Sa ? 23 S Si > Ssa > Sas Indicando con s,, l'elemento reciproco dell'elemento S,, di questo determinante, l'equazione dell’ inviluppo di 2° classe (3) in coordinate di rette, sarà fs Viole Re VIa V= 0 (4) o simbolicamente f=(sVi ts t sV?=sw=0. Consideriamo due rette v e v corrispondenti ai valori T e T' del parametro T; si avrà per le (1) VVi=A%v, VV, =Be., Va NINE INNER (3 sicchè indicando con (v,, v,, v,) le coordinate del punto V comune alle due rette vv, o sia ponendo va=eViV o ViVa=(VW) a me Vie VWMe=0V%), a IENA e dinotando con A,=—B0BG , Re ea ee i determinanti funzionali, o Jacobiani, delle forme fondamentali A*,, B°,, C?,, combinate a due a due, verrà VV v, = By 0" — Bi (TT) OB ATI) AAT VV'v = 4° — Ct Afr=(TT)(0A)(Gr AKA) = 2) BIBI (5) VV”v,= A% B'ir— A%y By =(TT')(AB)(&rBr + ABo) = ATTIENE Se le due rette v e v' coincidono con la retta v, il loro punto comune V diverrà il punto di contatto della linea di 2° classe con v, e si potrà supporre che le coordinate di questo punto di contatto siano date da 3 Vy, = (BC) Br Co _ AGG , Vara _ (CA) Ci Àr == B?, , Vv, = (AB) Ar Br === (li . (6) Osservando che i Jacobiani delle forme a°,, b®,, c°, sono rispettivamente **) Da 1 1 (bc)b,c, = 5 51939, ; (ca)c,a, = 5 Sira b, ) (ab)a,b,= 9 “in è se si considerano due rette del sistema /, corrispondenti ai valori # e £ del parametro £, *) Clebsch,l.c. “) Clebsch,l.c. —_ dD-- le coordinate (v,, v», v,) del loro punto comune V, pel primo sistema delle equazioni (6) ed il secondo delle (5), saranno determinate da vo v =(£t)(be)(bec A bro.) =(l)sag0/4/, vv v=(ft)(ca)(c/ay + c7a,)=(f0)512307b, (7) vivi (e) ar) (Cd) 940 Similmente, osservando che i Jacobiani delle forme A°,, B?,, C°, sono rispettiva- mente Sibiano (AB)A Be = wi 1 (B0)B:Gr=> Sis A =, (CA)GA:= se si considerano due punti del sistema F, corrispondenti ai valori T' e T' del parametro T, le coordinate (V,, V,, V,) della loro retta comune v, pel secondo sistema delle equa- zioni (6) ed il primo delle (5), saranno determinate da VV"V,=(TT")(BC) (Br Cv+ Br Cr) = (TT) Sg Ar Ar, V'V'V,= (TT) (CA) (Cr Av4- Cr Av) = (TT) Sag Br Br”, (7) VV'V,= (TT) (AB) (AvBr4+ Av Br) = (TT) S,33 07 Cr”. Adunque col primo sistema delle formole (5) e (7) si fa corrispondere una retta qualunque v, ed un punto qualunque V, del piano, ad una coppia di valori (f,é) del parametro £, e col secondo sistema delle formole (5) e (7) si fa corrispondere un punto qualunque V, ed una retta qualunque », del piano, ad una coppia di valori (T,T°) del parametro T. , Esprimendo che la reita v appartiene al sistema f, o che il punto V appartiene al sistema F, si hanno le condizioni in notazione simbolica, (S, a; ak Sg Db; DK S$3 0, cy)?= 0, (S, Ar'Ar+ Sg Br Br'4- Sy Co Cr°)?= 0, ovvero Benza II GRANI (ID I Suo Sa, S133 a; ad, | Sao 8120 S139 AvAr | Sg» Soa » Sag» b, bi; | Sa 3 DEDE) S23» Bx Br | Sas» S32) S33; Cole | S341) 832 » 833» CC | { | il Mata, bb, ere,a 0 | NARO ae, 0 la prima delle quali esprime la relazione fra i parametri # e f", che determinano i due punti che il sistema F ha di comune con una retta appartenente al sistema f, e la se- conda esprime la relazione fra i parametri T e T, che determinano le due rette che il si- stema f ha di comune con un punto appartenente al sistema F. 2. Supponiamo ora che i parametri £ e T siano in tale dipendenza tra loro, che il punto V e la retta v, corrispondenti ad essi in uno stesso piano, appartengano l’uno all'altra, o sia che si abbia la condizione 0, V,+ 0, V. + v3Vs=0; per i due sistemi delle formole (1) la dipendenza richiesta sarà espressa da DR, A°TL o, B2r+-e?, Co= 0 3 (9) i sicchè ad ogni valore di uno dei parametri t, T, corrisponderanno due valori dell’altro. Dando in (9) a T un valore arbitrario, i due valori corrispondenti di t determineranno i due punti V', V°, che la retta v determinata da T, ha di comune col sistema di 2° ordine F; e similmente dando in (9) a #t un valore arbitrario, i due valori corrispondenti di T determineranno le due rette v, v che il punto V, determinato da #, ha di comune col sistema di 2* classe f. Ai valori di t o di T che annullano il discriminante di (9), consi- derata come forma quadratica in (T,, T,), o in (t,, t)), corrisponderanno i quattro punti V comuni ai due sistemi di 2° ordine F ed F, o le quattro rette v comuni ai due sistemi di 2° classe f ed f. Ponendo simbolicamente | A, > Baia Cu | A, 3 day 0 Cna | Pra Pi o Pai Pia» Pu Pas Aa 1 Bia, Cia | Aa 3 dba» Cao | = | Pio Pan» PiaPiao Pia Pan ’ | A33 > Ba2, Casi A32, da» Can Pa3 Pia » Par Pia 0 Par Paa È la moltiplicazione dei due determinanti (i quali hanno per elementi i coefficienti nei due sistemi delle forme fondamentali) essendo effettuata per linee, si troverà che all’ equa- zione (9) potrà darsi simbolicamente la forma | Re 24,4, A Î TY | Padoa eri, dista Pai i (10) Pi p';=(PiT, 4 PaT,)"(pi 4 4-pa)* = 20,7, | Pa Pil Pao Pia 5 PioPa Da Pr3 Pia > Paa Pio 0 PooPas il coefficiente di ciascun termine essendo l’elemento del determinante, che corrisponde alla linea ed alla colonna indicata dai fattori in T e £. Differenziando completamente l’ equazione (10) si ha P?rp,(p,dt, +-p34t,) +p°,Pr(P,dT, +P3dT,) = 0 3 d’altronde si ha successivamente da (10) P?rp,Ps SIA P°rp.p, 4 p'iPoP, or. CAPI 8 ae —__@ sl ’ ’ == | 2 1 P?rp*,t,+ (P?rp,p,+-A)&,=0, p°,P%1,-|-(p},P,P,+K)T,=0, (P°r p,p,—k)t +P*rpat,5=0, (p.P.,P.-K)T,+-p},P",T,=0. P°rp?, ’ P?r p, p,t-% | Ps PP 1 Leila ap? | = e Tg I i Poapipyg_h, PP", | PaPa: Pa [Hp Es pP.Pet È | Pisi Bob, È l MESE a MAI p = o a PPtE=5(PP)pp PE =0, p*,P,P.,—K » P A” PiPus P 2 | si ER, “AA (dinotando P‘, p simboli equivalenti a P, 7), quindi l’equazione differenziale diverrà (t,dt, — t,dt,)k+(T,dT,—T,dT,)K=0, o sia (do: (TAT) VEP)pî,p°) VpprP:P* =0. (11) Le espressioni sottoposte al radicale in (11) sono i discriminanti di (ro), conside- rata come forma quadratica in (T,, T,), 0 in (t,, t,), i quali, come è facile vedere, sono anche i discriminanti delle equazioni (8), considerate come forme quadratiche in (£,,£,), o (t,,t,) 0 purein (T,, T,),0(T,,T,).L’espressione sottoposta al primo radicale si annullerà per i valori di £ che corrispondono ai punti comuni ai sistemi F ed F, e l’ es- pressione sottoposta al secondo radicale si annullerà per i valori di T che corrispon- dono alle rette comuni ai sistemi f ed f. Siano x ed y i valori di £ che corrispondono ai due punti che la retta v, determi- nata da T, ha di comune col sistema F, e siano X ed Y i valori di T che corrispondono alle due rette che il punto V, determinato da £, ha di comune col sistema f; l’equazio- ne (11) applicata successivamente ad (x , T), (y, T),e ad (X, 0), (Y, 6), darà 5 8) E VEPPRpP?. E VP PERA, Gi V(ppàP*P® ; (XdX) Lean a (41) (12) V@py PP VoprPda VEBER, L’equazione (12) fra (2, y) , 0 fra (X, Y), è un’equazione differenziale ellittica, di cui un integrale è dato dalla prima, o dalla seconda, dell’ equazioni (8), cambiando in esse f,t inx,y,eT,T in.X, Y, cioè da y Sa ’ SA ’ Sag ’ Db, b, | Sio Siae, Via 8 | Suo Sin SaoAx Ax | | 51 > 539: S23,BxBr { | Sar Sao S33 3 02 Oy | Se, SI Seo 7 ri i DAN A i ga A,Ay,B,Br, (Cr, 0 | l'integrale è completo, poichè mentre l equazione differenziale (12) dipende solamente dai quattro punti comuni ai sistemi F ed F, o dalle quattro rette comuni ai sistemi f ed f, nell’integrale (13), rimanendo fisso il sistema F o f, si può supporre che F sia un sistema qualunque di 2° ordine, cui appartengono quei quattro punti, o che f sia un sistema qualunque di 2* classe, cui appartengono quelle quattro rette; ciò evidentemen- te introduce nell’ integrale una costante arbitraria. 3. Per rendere più semplici le relazioni trovate precedentemente, facciamo alcune supposizioni intorno alle forme fondamentali. In ciascuna delle terne di forme binarie quadratiche (a”,, 6°,, c°)), (A°», B°», C°:) , supponiamo che le forme siano a due a due armoniche tra loro, ovvero che si annullino i loro invarianti simultanei; sarà allora do dg, Sa; == in tal caso il determinante funzionale, o Jacobiano, di una coppia di forme, in ciascuna terna, non potrà differire che per un moltiplicatore costante dalla terza forma; ponendo adunque d,=9,0=%,&=145=2, BY 7 ed indicando con (a, d , c), (A, B, C) quantità costanti arbitrarie, si potrà supporre a =ap,b,=W.,c= ey; Pr=Ad,B=BY GC, —C®, e per le note relazioni *) tra il Jacobiano di due forme binarie quadratiche e le forme stesse, e tra il discriminante di quel Jacobiano e gl’invarianti di quelle due forme, si avrà i l , l È pr l A - ag=— 2 (5339° + 52000), 94 = — DI (511% + 8339) X° = — 5 (aL +81 y), 2 : 1 Ù 1 dla aaa DS, = artiste Pi : = 1 i i 1 A°D? = — 3 (Ss3 1° +-S,,X°), BY =— DI (SX + Sg 9), x° = — D (Sd +S,Y°), 29 1 1 < 2% 1 AS = DI Sa9933 » B°Sa = DI Sg3S, > Sa = 5 daSa da cui sì deduce s,,=2bc , sy =2ca , sg=2ab ; Sy=2BC , S,,=2CA , S,,=2AB, (1) ag + b4° + eg =0; A®+BY°+CX°=0, e quindi le equazioni di f, F, F, f si potranno supporre rispettivamente Vv? Vv? Vv? “v=3 = a F_av,|d30,+ev,=0, x % (2) F— Da va a == 72 72 | 2 "ee a eV 1 + BV a+ CV = sicchè, per le supposizioni fatte, le due linee arbitrarie di 2° ordine e di 2* classe (F,f,) ed (F, f) si trovano riferite alla loro terna coniugata comune, di punti e di rette, come terna fondamentale. Le supposizioni precedenti con la prima e la seconda delle identità (1), saranno verificate ponendo g=(2,—e)Vie , v=(2,+0#)V—ca , =2hVob, en prod ed (3) ®=(T?,—T*)VBC , Y=(T,+T*)V—C4,x=2T,T,VAB, ed allora, essendo in generale ve, =(e,— e) Vie, vo, =(8,+%) V—=ca , vv, =2h,t,Vab, VV,=(T°, NI VEC ’ VV,=(T%, 47%) a AC ’ L'AEC VAB ; * Clebsch,l.c. ol il punto V di F, determinato dal valore del parametro t, : t,, sarà dato come punto co- mune alle due rette (0, Va + Va V-) la — Va Ve è, =0, (0, Va — Va V—b) 4+% Ve 4, =0, sarà data come retta co- (4) e la retta v di f, determinata dal valore del parametro T,:T,, mune ai due punti (V, VA+ Va VB) Ra VOT, =0,(V, VA — Vi V— B) TLV, VOT, =0; (4) le due rette (4), variando %, : t,, sono rette corrispondenti di due fasci proiettivi, che han- no per centri i punti comuni ad F ed al lato v,—=0 della terna fondamentale; ed i due punti (4), variando T,:T,, sono punti corrispondenti di due punteggiate proiettive, che hanno per assi le rette comuui ad f ed al punto V,—=0 della terna fondamentale. Si hanno similmente formole analoghe alle (3) e (4), relative agli altri due lati, ed agli altri due vertici della terna fondamentale , le quali si deducono da esse cambiando rispettivamente (posto V—1=%) t,,t,,eT,,T,in T,+T, pu el L ps) ; (9) o pure in — FOMEIMELO I CATO T, 14: sa E I ETA TRE 7, E Ritenendo, per fissare le idee, le formole (3), le equazioni corrispondenti alle (9) , (10)... (13) del numero precedente, posto T, ES lT—i __1 Aa(Cc— Bd) + Bd(Cc _ — Aa) ras Ce(Aa — Bé) i (6) saranno rispettivamente (e; sii, — TP) VB . Ce + (2, +?) (1°, + T°%,) VCe -Aa +-4t, Ciel, VAa +Bbi=0, (1) È, ’ 28, la , 1° ’ T,| VOe(VAa+VB8) |, 0 , VG(VAa—VB3) DT, 0 ; VAa VBè 3 0 =0, (8) T°, | VGe(VAa—VB6) , 0 , VGe(Vaa+ VB) MS (0) (TT) = = (9) VEx6Re,+#, VT +60, (da) È Ò (447) MC) Pe Vetra ta Vyi ++ VIFTORTHT, 10 (XdX) ae BRENTA CO) VERA A VIGO, VAPORE Aa (2, Ys — a Ya)? — Bd (2,4142923) + Ce (2, vy+%, 22)? =0, aA (X,Y,— XY) — 6B(X,Y, | X.Y)? + cC(X,Y,+Y,X,)3=0, ATTI — Vol. II, Serie 2° — (11) N° 4. 2 o sia (11) Lio A Vas Là — Da X,, 2X,Xa, xs, y3, |Aa — BB, 0, Ce Yi, 'aAh=0DB, " CO cc | 1 1 24, Ya 0, 5[Cc—(Aa-+Bb)], Dei 07 ii 0, g[C—(c4+bB)], 0 CES Ce, 0, Aa — Bb Y?, i e b 0, aA — bB Se nell’equazione (8) si suppone £, T, + £,T,=0, e si pone s_ 1 Wia(VG:— VI) + VG (VG: — Via) > OE = (12) 3 VCe (VAa— VBè) essa prenderà l’una o l’altra delle forme (,j=4+ hh (LEE RR e ponendo : Cert 5 pista VB Tian V o. Aa + Vada B6 (18). 3 VG ( VAa — VB8) all’equazione (8) potrà darsi luna o l’altra delle forme È 1 d di \t È © = r(i at) 60m trota, (14) (T,JQ= £ al «ia ACILORIO 0° Tara © 7, (0+9) i»! (RI er Se poi nelle equazioni (11) si suppone 7,9, —Y,t.=0, ed X,Y,-Y,X,=0,e si pone , 1 (CeT—- Bd Ce— Aa penis 0 esse prenderanno | una o l’altra delle forme (2,0) =2' + 674°, a +01, =0 °° (4,9) = +09 +90, (X,X)=X'+67X}X,+XhA=0, (MY)=Y+67Y,Y,+Y,=0, e ponendo ___ 1 Aa+ Bb + Cc fi pu a —Bb (16) iL, = alle equazioni (11) potrà darsi luna o V altra delle forme 1 d d 5 ; REI === i) 63)F=DL (2, y) casa dra i), e) —w (2,Y, —Y Va) 1 N È 2 (a) Tia.94 Zi dy, + da a) (Y/,y) —-w(Y XCa — Ya) =0, (17) de I 1 Vx,%) 2(2.4) PA dè A, E; Tara. ai CE; * dA ( 7a Lepanto l (0 PI 1 1 l gie = a sj = = b = e N € TL nt: + de, o pure 1 1 l Il ia 2 = # LG, 2, pi Nn +94, 7+9B, + il che corrisponde a cambiare F in un’altra linea di 2° ordine che ha con F ed F gli stessi quattro punti comuni, o pure a cambiare f in un altro inviluppo di 2* classe che ha con f ed f le stesse quattro rette comuni, le equazioni differenziali ellittiche (10) restano inal- terate, ed i loro integrali (11) diverranno Aa(1+6B6)(1-+6Cc)(x,7,—2,3)? — B8(1-+9Cc)(1+60Aa)(2,y,4-2,9,))+ +Cc(14 6Aa)(14-9B6)(2,7,+y,7)=0 (18) aA(1- @6B)(14+@cC)(X,Y,—X,Y,)?-—0B(1+@c0)(1+@aA)(X, Y,+X, Y,)}+ +eC(1+ @aA)(1-+-03B)(X, Y,+Y,X,)=0 in cui 9 o ® rappresenta la costante arbitraria. finita di stampare il dî 28 agosto 1885. VE, Pa sbatti A Lenti a om Lego ECOTÒ ii di 4 ho Taoo srt stò pap asl ent i a fi non att slo seed "LI aiuti atleta ridera) inni ongtam (01) arfoifitita ietactovettite lonixenpo st Beda To -v |SIP9 ra @ Vaie vs indpat E A E son BÈ sonori Fassa E, ANANEI ile 4% , , li: Tosi Th iii dt Gc Ri «dig We n _ Vol. II, Serie 2? i N° 5. ATTI DELLA R. ACCADEMIA DELLE SCIENZE FISICHE E MATEMATICHE SUL POLLINE DELL’ IRIS TUBEROSA, L. E D'ALTRE PIANTE MEMORIA del Socio Ordinario G. LICOPOLI (con una tavola) (Adunanza del dì 8 Agosto 1885) Il polline è nn organo, che per la sua importanza nei fenomeni della fecondazio- ne, ha da gran tempo richiamato l'attenzione degli Anatomici embriologisti. Ciò non pertanto è sempre un tema che lascia largo campo alia ricerca ed allo sperimento. NelPelenco dei miei titoli scientifici, stampato per ragione di concorsi fin dal 1877, è fatto cenno d’un mio lavoro dal titolo: Sul polline dell’ /ris tuberosa ed altre piante, quivi annoverato fra altri lavori dichiarati di prossima pubblicazione e che poi circo- stanze qui inutili a rammentarsi l'han fatto giacere tuttora inedito. Quel lavoro dive- nuto più esteso per recenti osservazioni ho l’onore di presentarvi, Onorandi Colleghi, perchè, se l'amor proprio nor m’inganna, racchiude cosa degna della vostra conside- razione ‘). Trattasi d’un organo vescicolare giacente nella fovilla dell’ /r/s tuberosa L., della Clivia nobilis, Lindl., Hymanthophyllum miniatum, Spr., Pancratium mexicanum, L, Agave americana, L. ed altre piante spettanti a famiglie diverse, descrivendolo dirò del- la sua struttura e costituzione, nonchè della sua origine e del modo di comportarsi du- rante la germinazione della cellula pollinica cui appartiene. Tale organo ha forma e grandezza varia secondo la specie ed assume le maggiori proporzioni e le forme più spiccate nelle piante anzidette. È per ciò che dirò prima di esse. Il polline dell’Zris tuberosa ha forma ellittica, con esina poco cedevole anzi facile a disfarsi allorquando va a contatto dell’acqua o dell'umore stimmatico ; nel quale caso l’endina, messa allo scoverto, lascia vedere in se la fovilla e l'organo vescicolare che vi è immerso. Questo è come un fusello ripiegato a spira o ad elica e pare costituito d’ una membranella anista e tenue assai, la quale racchiude una sostanza in parte amorfa e di aspetto gelatinoso ed in parte granulare. Nel mezzo della sua lunghezza è un nucleo anch’esso vescicolare che, standovi come un nodulo, il più delle volte lo divide in due parti eguali e simmetriche (fig. 4, 7 ed 8). Come accade del polline in generale, questo 1) Vedi: Titoli di merito e cenni auto-biografici del prof. G. Licopoli. Napoli 1877. Arti — Vol. II, Serie 2% —N0 5. ] SRO dell’Iris tuberosa allorchè è bagnato bruscamente dall’ acqua si gonfia e s’amplifica. Indi a poco nella sua parete si apre un forellino od una piccola fessura da cui la fovilla va fuori a getto continuo od a spinte intermittenti. In questo 1’ organo vescicolare pure va via, anzi il più delle volte è primo ad uscirne, ed uscendo per un meato più angusto del suo calibro, si comprime, si contorce ed indi si slancia nell’acqua circostante. Quivi i suoi estremi si contraggono e tutto si fa sferico come grossa bolla e poco dopo si scio- glie. Tutto questo mutamento di forma e di stato in altre piante è sì rapido da com- piersi durante la projezione; per modo che l’osservatore, che non fosse edotto del fe- nomeno, crederebbe che l organo non vi fosse mai esistito. In altre è meno rapido e può essere anche lento specialmente quando, uscendo dalla cellula pollinica, incontra fuori un liquido d’ una densità maggiore di quello della fovilla. In ogni caso la sua tra- sformazione o soluzione è sempre l’effetto di pochi momenti, trascorsi i quali, nel campo del microscopio non resta che il solo nucleo spoglio di qualsivoglia inviluppo, od un mucchio di granuli protoplasmatiei, 1 quali presto o tardi pure si sciolgono. In generale questa parle granosa somiglia alla parte granulare della fovilla; ma non tanto da confondersi con essa; giacchè i singoli granuli dell’ organo vescicolare sono d’ordi- nario più piccoli, più refrangenti, e, ciò che più importa, hanno forma oblunga e con am- bo gli estremi acuminati (fig. 7 ed 8). E sia che giacciano dentro o fuori dell’ organo cui appartengono essi non si muovono per movimento brovvniano, forse per la natura fisica della parte amorfa da cui sono avvolti, mentre i granuli fovillari, ancorchè più grossi di quelli, vibrano continuamente, fuori e dentro la cellula pallinica, fino a tanto che la densità dell’acqua e la vita della cellula ne lo consentono. Il nucleo vescicolare si scioglie, ma non contemporaneamente all'organo cui ap- partiene, anzi persiste per un tempo più o meno lungo secondo la maggiore o minore densità del solvente, ma sempre finisce col disfarsi. Tuiti questi fatti li ho esaminati e sperimentati entro e fuori l'ambito di cellule polliniche dell’/ris tuberosa e delle specie innanzi rammentate. Nella Tritelea uniflora, Lindl.; nella Convallaria majalis, L. e nell’ Hemerocallis fulva, L. l'organo vescicolare assume forma che varia tra la navicolare e la semilunare (Fig. 23, m, n, p). Ha forma consimile nell’ Hymanthophy!lum miniatum, Spr. (Fig. 2.1) e nell’Antholyza bicolor, Gasparr.,sebbene con gli estremi alquanto arrotondati. Più ar- rotondati sono questi estremi nell’Allium ursinum, L. Ma qualunque sia la forma assunta ad epoca di maturità, esso occupa il centro della cellula pullinica ove piglia diverse atti- tudini. Qualche volta s’accosta alla faccia interna dell’endina; e ciò accade nelle specie in cui assume forma semilunare come nell’Iris tuberosa (fig. 13), Colocasia odora, Hert. fig. 26), Clivia nobilis, Lindl. e Convallaria majalis, L. Queste forme non sono assolu- tamente stabili, potendo variare anche nel polline della stessa specie per ragione d’età e per grado di sviluppo. Qualche volta esso è più ripiegato in un estremo che nell’altro opposto, come ho osservato nell’A/stroemeria pulchella L v. versicolor, ove può esser al- tresì uncinato in tutte e due. In altre piante è ripiegato ad s; nel quale caso acquista sembianze di Pleurosigma, come nell’Hymanthophylum miniatum e nell’Aphelandra cri- stata R. Br. (Fig. 22 € 33). Può assumere ancora forme più semplici cioè, ovale, sferia come nella Tradescantia sub-aspera, Ker., (Fig. 28) nella TuZipa praecox, Ten. e nell’Aga- panthus umbellatus, Herit. Tranne i casi di forma tondeggiante ed ellittica, come nella Sa- gittaria chinensis, Sims. e nella Dichorisandra thyrsiftora, Mikan. esso rivela sempre la tendenza alla direzione elicoidale. E Per esprimere il concetto anatomico e morfologico che mi sono formato di que- st’organo m’occorre qui riferire ciò che osservai intorno alla sua origine ed alle sue qua- lità chimiche. Lo farò brevemente, riferendomi alla sola specie /ris tuberosa. In ciascuna cellula matrice di questa pianta si formano due, tre e quattro nuclei, dai quali vengo- no, nel modo già risaputo, altrettante cellule polliniche (fig. 18, a, a a a). A misura che le pareti di queste si rassodano, il nucleo fondamentale si dilegua per ricosti- tuirvisi poco dopo sotto forma di nucleo elementare delle nuove cellule figlie. Da que- st’epoca l’esina si presenta munita di piccole sporgenze tondeggianti, le quali nel tratto successivo acquistano forma di trabecole disposte in guisa da formare quel reticolo che si vede ad epoca di completo sviluppo. Quest’epoca coincide con quella in cui le cellule matrici cominciano a disfarsi. Intanto le cellule polliniche, rese autonome, crescono è ricolmano le logge dell’antera; ma nel crescere le loro pareti s’ introflettono nel senso d’una plica longitudinale, in corrispondenza della quale tutte e due le membrane: esina ed endina, rimangono più deboli. Che anzi |’ esina nella parte introflessa manca di reti- colo e facilmente quivi poscia s’infrange per l’azione dell’acqua o dell’umore stimmalti- co. L’endina è liscia e spessa più che l’esina. La fovilla si ferma col nucleo, anzi m’è parso che si segregasse da esso. Ad ogni modo presentasi mai sempre costituita d’ una sostanza amorfa semifluida e di numerosi corpuscoli protoplasmatici configurati, tra cui scorgonsi vacuole e gallozzole come di materia oleosa. Queste colla pressione si spostano , quelle rimangono salde perché scavate nella massa granosa solto le forme innanzi riferite. Le une e le altre d’ordina- rio confluiscono verso le pareti (fig. 11); ma non è infrequente il caso in cui mancano affatto. Granelli amidacei in questa fovilla non ne ho mai riconosciuto, cosicchè mi parve tutta fatta di materia albuminoide amorfa e granellosa. Oltre al nucleo ordinario altro se ne forma contemporaneamente, il quale col cre- scere della cellula pollinica s’ amplifica ed assume aspetto di vescicola che pare terza membrana, però (fig. 1 e 12) senza mai combaciarsi colla faccia interna dell’endina. Si mantiene in vece entro la massa fovillare ove assume i caratteri di organo vescicolare sotto le forme innanzi descritte. Il suo nucleo , si fa pure vescicoloso ed occupa ordinaria- mente il centro dell’organo in discorso. Accanto a quest'organo può esservi altro nu- cleo il nucleo ordinario, ch'è pieno anzichè vescicolare e che si mantiene stazionario per tutta l'età della cellula pollinica (fig. 5 e 12). Questo fatto dimostra che l’organo vescicolare ba origine da un nucleo particolare e non da quello che va considerato co- me elemento della cellula vegetale in genere. Cade ora acconcio riferire del modo come tale organo vescicolare si comporti al- l’azione d’ alcuni agenti chimici e dell’umore stimmatico. Il polline dell’ Iris tuberosa, allorchè cade nell’acqua si gonfia immantinente; la sua plica longitudinale si distende e dalla forma ellittica passa alla sferica. In quel che si gonfia l’esina si squarcia pel lato della plica e l’endina n’è messa allo scoverto. L’aci- do solforico diluito produce effetti diversi, cioè: contrae le pareti dell’intiera cellula ed insieme la massa fovillare; scuopre nell’esina l’esistenza d’ un principio resinoso colo- randolo in giallo, principio che il cloruro di calcio colora in un bel verde pistacchio. Nulla di particolare fa notare nell’ organo vescicolare. La soluzione di potassa rigonfia tutta la cellula pollinica ne sdoppia le pareti e facilita l’isolamento dell’ esina, la quale, dopo alquante ore, sì colora in roseo-persicino. La soluzione di zucchero rende ben * — fee chiara e trasparente tutta la cellula pollinica e fa scorgere l’organo vescicolare an- che nel caso in cui per l’innanzi non si scorgeva punto. Effetto analogo produce l'acqua inagrita d’ acido cloridrico. L’ammoniaca diluità colora in giallo debole il solo organo vescicolare, ed è però mezzo adatto a scuoprire la sua presenza anche nei casi in cui la forte refrangenza della fovilla che l’avvolge ne mascherasse l’esistenza. L’acido osmico (soluz. al 5) coagula tutto il contenuto della cellula pollinica, rassoda l’endina senza alterarne la trasparenza e colora in bruno la parte granulare. Questi effetti possono essere più 0 meno sensibili secondo la maggiore 0 minore inten- sità del reattivo adoperato. Essi valgono a confermare l’idea che sì la favilla, come la sostanza contenuta nell’organo vescicolare sono di natura azotata. Il violetto d’ anilina (soluzione alcoolica diluita) dopo alquante ore d’ azione disfa |’ esina, contrae l’endina, colora in violetto la fovilla e P organo vescicolare. In questo esperimento ho notato che ia colorazione è sempre più intensa nell’ organo vescìco- lare che nella circostante fovilta. Tale modo d’ azione è in armonia con quella dell’acido osmico ed avvalora sempreppiù l’idea che tra la fovilla ed il contenuto dell’organo ve- scicolare non corre differenza sostanziale, ma di forma. Dai fatti osservati intorno all'origine, struttura e qualità chimica del polline nel- l Iris tuberosa risulta chiaro che l’ organo vescicolare trae origine da un nucleo partico- lare e non dall’ordinario col quale spesso rinviensi; e che fino a quando non arriva a sviluppo completo esso mentisce Ie apparenze d’una terza membrana cellulare. Non è ora inutile dire del modo come quest’organo si comporti nel tempo in cui la rispettiva cellula pollinica germina nel campo del microscopio mediante culture artificiali, o tra le papille stimmatiche per effetto deli’umore che ivi trasuda. Il polline dell’ Iris tuberosa immerso in grossa goccia d’acqua e poscia chiuso in atmosfera umido e caldo poco più dell'ambiente esterno, dopo alquante ore germoglia, cioè emette il budello pollinico. Quest’organo, in generale semplice, in questa specie spesso si fa ramoso (fig. 19 € 20) e quel ch’è più si prolunga per ambo gli estremi. La sua formazione è l’effetto d’un notevole potere vegetativo che l’endina acquista per l’azione dell’acqua; la quale endina, anche prima di protrarsi a budello si fa più spessa e più ampia. Però il suo inspessimento non è uniforme per tutta la sua estensione, giacchè la parte ch’era introflessa rimane sempre più assottigliata. Questo fatto l’ho notato altresì nel polline dell’/ris florentina; 1. fimbricata cd altre specie. La fovilla segue il budello pollinico; ed in questo movimento la parte granosa si dirada, mentre la parte amorfa qua e là si sof. ferma e genera delle gallozzole. Ma l’organo vescicolare non si sposta dal luogo origina- rio ove, per la stessa azione dell’acqua, si gonfia, si fa sferico e spesso si scioglie come quando scatta fuori dalla cellula pollinica. In ogni caso l’ultima cosa a dissolversi è il nucleo vescicolare. Effetti simili ottenni dal polline messo a germinare nell’acqua zuc- cherata e nella glicerina diluita, nonchè da quello che vidi germinati naturalmente tra le papille dello stimma e per l’azione dell'umore stimmatico. La germinazione naturale e l’artificiale esercitano sull’organo vescicolare azione identica. Nell’ Hymanthophyllum miniatum, Spr. il polline è pressochè reniforme ed il suo organo vescicolare è relativamente grande. Questo ad epoca di completo sviluppo assu- me forma di Pleurosigma con gli estremi acuti (fig. 21 e 22), qualche volta arrotondati. Nella Convallaria majalis, L., tale organo suol essere eccentrico e la sua forma va- ria tra la navicolare e la semituntaro (fig. 23 m. n.); è semplicemente ellittica nel ®- — 9) _—_— Muscari botryoides, Mill., e nella Scilla campanulata, Ait. E poichè in quest ultima specie le cellule polliniche sono di due maniere: piccole ed opache per forte potere re- frangente della fovilla, grandi e trasparenti, l'organo vescicolare trovasi in quelle e non in queste. Quello nella Clivza nobilis, Lindl. (fig. 24 », p.) è fusiforme con gli estremi acuminati; il mucleo n’è relativamente ampio e pare un cercine calloso. Fusiforme e ripiegato ad S è nell’ A/buca major, L. (fig 25). Così è pure nel Narcissus Jonquilla, L. (Fig. 29 p). In questa specie allorchè scatta fuori trascina seco una nubecola di fo- villa dalla quale rimane per qualche momento avvolto e però preservato dall’ azione solvente dell’acqua (fig. 29 x). Quindi è che si discioglie lentamente e, pria di scio- gliersi, non assume forma di vescicola sferica come fa quello dell’ Iris tuberosa. La so- luzione dell’acido osmico lo rassoda e fa notare che del suo contenuto la parte gra- nosa rispetto alla parte amorfa è scarsa. Nel Pancratium mexicanum, L., il polline somiglia a quello dell’ H7ymanthophyUum miniatum per ciò che riguarda forma e grandezza, ma se ne distingue pel colore giallo rossigno. La sua naturale trasparenza lascia scorgere'in se l’organo vescicolare di color rosso vivo, che fa bel contrasto col bianco della fovilla da cui è circondato. Nel Lilium tigrinum, Gaw.e L. speciosum il polline è colorato in rosso cinabro, ma l'organo ve- scicolare è del tutto incolore. Per contrario nel Crinum submersum, Heber., è rosso di sangue l’organo vescicolare, grigio il polline. Giova soggiungere che il colore di que- sto è resistente all'acqua, mentre quello dell'organo si dilegua in pochi istanti. Da tutto ciò è lecito inferire che il principio colorante dell’ una parte non ha alcun rap- porto con quello dell’altra. Nelle specie che ho fin’ora menzionato l'organo vescicolare è sempre munito di nucleo, il quale in certe condizioni assume l’aspetto di cercine, come ho notato nella Clivia nobilis (fig. 24 p) e nell’ Allium ursinum L. (fig. 27). Nell’ Aphelandra cristata, R. Br., var. pulcherrima, nella Gendarussa Adhadota, Steud. e nell’Ampelopsis hederacea, DG., questo nucleo manca, ond’è che la cavità (fig, 33) di tutto l’organo vescicolare è continua da un estremo all’ altro, anzichè divisa in due parti pressochè eguali e simmetriche. Niente di meno quando quest’organo va fuori dalla fovilla e per Vazione dell’acqua si contrae , si fa sferico e si riduce ad una tra- sparentissima gollozzola incolore, allora apparisce nel centro di questa un piccolo cor- po sferico che pare piccolissima bolla d’aria; ma che forse è il nucleo che non si scor- geva nelle condizioni ordinarie. Questo fenomeno, così singolare, è illustrato dalla fig. 33 della tavola annessa al presente lavoro. Erano arrivate a questo punto le mie ricerche, quando, nel rovistare la bibliografia 5 dell’argomento, onde assicurarmi se il mio lavoro s’attagliasse ad altro già pubblicato, mi cadde sott'occhio il catalogo dei manoscritti del Gas parrini e vidi in esso registrata una nota che tratta del polline dell’ /ris tuberosa; la quale nota, tuttora inedita, è con- servata insieme ad altri scritti dello stesso autore nella Biblioteca Nazionale di Napoli; riportandola qui integralmente siimo rendere omaggio alla memoria del mio maestro non che far cosa grata all’Accademia che ebbe fra i suoi componenti. Ecco la nota. « Nota spettante al polline dell’ Iris tuberosa (1° Marzo 1865). « Il polline dell’ Iris tuberosa, quasi sferico e come quello delle altre specie dello « stesso genere è coperto da una viscosità giallastra insolubile nell'acqua. Un granello « pollinico di tal pianta misura intorno ad */,,0, di millimetro quasi. Nell’atto che i fiori Lai si aprono 0 poco prima, quando l’antera comincia ad aprirsi, i granelli pollinici ve- nuti a contatto coll’acqua, poco stante versano molta favilla con varia apparenza cioè di masse vermicolate, e granose, ovvero spandesi egualmente nell’ acqua. « Essa fovilla è costituita di granelli rotondi conformi, che ingialliscono col jodo , e di tenuissima materia mucosa diafana. «Insieme alla fovilla vien fuora sovente una vescichetta molto diafana, di varia « forma e grandezza piena ancor essa di materiale consimile cioè finamente granelloso, « d’ordinario con una 0 due vacuole in sembianza di piccolissimi nuclei. «La forma varia dalla sferica alla bislunga, curvata, in qualche punto gibuta, 0 gonfiata un poco, talvolta semilunare, nel quale ultimo caso una dell’ estremità suol cessere ottusa, più grossa, e da quel punto innanzi l'organo insensibilmente restrin- gesi in punta acuta «La vacuola non sempre esiste, e standovi occupa il centro della vescichetta «quando è sferico, e dove sia allungato trovasi d’ ordinario nell’ estremità grossa covvero a poca distanza. Sì fatte vescichette sono formate d’ una sola membrana cin quanto apparisce al microscopio, membrana che in pochi minuti, più o men « presto si disfa nell’ acqua compiutamente. Non manifesta veruna contrattilità ed il contenuto somiglia in tutti i caratteri. Trattasi quindi vedere onde procede la detta « membrana vescicolare. Dappoichè essa sciogliesi nell’acqua e nel granello pollinico niente altro si trova che fovilla granulosa uniforme, mescolata con muco, da questo solo e non d’altra materia la detta membrana può derivare, che rappresenterebbe lo stato primordiale della cellula di libera formazione, cioè dal plasma, che nel presente caso sarebbe la fovilla. Onde la parte mucosa sarebbe la primitiva materia onde for- masi la membrana cellulare, la quale in principio non ha forse ancora acquistato « tutto il carbonio necessario alla sua esistenza. « Lo stesso fatto s'incontra ancora nel polline della Lachenalia tricolor ed Orchi- « dea con la differenza che le vescichette mucose sono sferiche o bislunghe nè so se « sciolgonsi nell’ acqua. Se ne trovano in altri pollini ancora principalmente di Mono- « cotiledoni di sì fatte cellule , esse hanno stretta relazione con le cellule endospermi- che parimente disfacevoli in principio siccome ho visto nel Fico. In oltre non si vo- gliono confondere con le amibe come che in qualche caso ne avessero una certa sembianza ». Questa nota è accompagnata da poche figure appena abbozzate rappresentanti il polline della Frzt:/aria imperialis, L., F. Meleagris, L., Lachenalia tricolor, Thunb., L., L. Orchidea, Ait., ed Iris tuberosa, L. Dopo la lettura di questa nota, lasciando da parte ogni quistione di priorità, sento il bisogno d’ aggiungere brevi considerazioni, non foss’altro per chiarire il concetto morfologico dell’ organo in esame. Il Gasparrini vide ed esaminò tale organo in cinque specie monocotiledonee; e non risulta dalla sua nota che ne abbia esaminate altre di tipo diverso. Le mie ricerche caddero in vece sopra un numero maggiore di monocotiledonee e dicotiledone, benchè con predominio fin ora di quelle e non di queste. Di tal che alle specie innanzi ricor- date conviene aggiungere le seguenti: Tradescantia erecta, Iacq., Albuca major, L., Scilla campanulata , Ait., Asparagus officinalis, L., Fritillaria persica, L., Yucca fila- mentosa, L., e Y. gloriosa, L. Strelitzia augusta, Thunb., S. reginae, Ait., Crinum ca- A A A A A A A AA A A A A_ALA e pense, Herit., Alstroemeria pulchella, R. Br., Amaryllis Lindleyana , Schult., A. Bella- donna, L. ed A. (Zephyranthes) carinata, Spr., fra le monocotiledonee; e tra le dicotile- donee: Ampelopis hederacea, DC. Lonicera sempervirens, L., Platycodon campanuloi- des, L., Impatiens Balsamina, L., Datura Stramonium, L., Justicia bicolor, che in tutto sono circa quaranta, senza dire di molte altre in cui l’esistenza dell’organo in parola mi parve dubbiosa. E qui cade acconcio soggiungere che nelle specie in cui 0 per soverchia densità della fovilla 0 per altra circostanza ottica l’organo vescicolare non si mostrava all’osservazione diretta, mi fu grandemente utile immergere il polline nel- l acido osmico, soluzione al 5 °/,. Giacchè questo reagente che coagula ia fovilla, che rassoda le due membrane e fa si che luna s’isoli dall'altra e tutte e due dalla fo- villa mediante pressione fra le lastrine del portoggetti, rende agevole ogni peculiare osservazione e mette in evidenza |’ organo vescicolare che per l’innanzi nascon- devasi. Intanto quest’ organo che si genera nella fovilla, che, secondo la specie cui appar- tiene, assume forma oblunga, fusiforme, trichinoide, è tal cosa da meritare la qualifica di organo speciale, ovvero devesi considerare come una forma accidentale di materia protoplasmica? Il Gasparrini lo chiamò vescichetta per aver sembianze di vescichetta nei primordii della sua formazione; e ne riassunse il concetto morfologico là dove scris- se nella sua nota ch’essa vescichetta rappresenterebbe lo stato primordiale della cellula di libera formazione, cioè del plasma che nel presente caso sarebbe la fovilla. Tale interpre- tazione è generica e parmi riferibile al nucleo vescicolare di qualsivoglia cellula vege- tale. Ma nel polline dell’Zris tuberosa oltre il nucleo speciale da cui trae origine l'organo vescicolare esiste altro nucleo, il nucleo ordinario, quello che rappresenta lo stato pri- mordiale della cellula pollinica; e questa circostanza bene accertata mi sembra bastevo- le ad ammettere che l’organo vescicolare non sia il nucleo ordinario cresciuto e modi- ficato, ma un organo speciale che trae origine da un nucleo anche speciale e ch’è de- stinato ad elaborare una sostanza pure speciale, forse l’ultima essenza maschile delle fanerogame, sostanza che il nucleo ordinario non elabora. La specialità di tale sostanza io la faccio consistere per ora nella solubilità della parte granosa e talvolta ancora nel suo colorito come ho notato nel Pancratium mezxi- canum, nel Crinum capense e nel Platycodon campanuloides. Esso giace nella fovilla cioè entro una massa protoplasmatica amorfa e granosa contenuta da cellula rappresentante non elemento istologico, ma organo autonomo qual’ è il granello pollinico; e cosa simi- le o consimile, per quanto mi sappia, non è stata fin’ ora rinvenuta entro cellula di qualsivoglia natura. Inoltre, traendo argomento dal fatto che la sua forma sferica non è sempre transitoria come nella maggior parte delle specie fin'ora esaminate, ma pure permanente come nella Tu/pa praecox e Tritelea uniflora, si potrebbe obbiettare che almeno in quest’ ultimi casi esso organo vescicolare rapprésenterebbe una terza mem- brana cellulare. Ed in vero il Russow in una sua memoria del 1872 '), trattando del polline dell’AlZium narcissifforum, W., dice che appena le cellule polliniche sono libe- re mostrano di essere munite di grosso nucleo. Ed il Sig. Tschistiakoff nel suo la- voro dal titolo «Histoire de développement du pollen dans l’Epilobium angustifolium » (vedi Strasburger opera citata) dice che il protoplasma della cellula madre contiene un pronucleo che ha nel suo centro un noccioletto coi suoi veri caratteri. E parla pure di i) In Strasburger. Sur Za formation des cellules etc. p. 133. a = pronucleolo nelle Conifere. Lo stesso Autore ‘) nelle sue notizie preliminari sullo svi- luppo degli sporangi dell’Zsoetes Durieui, Bory. parla di nucleo e di pronucleo nel pro- toplasma della cellula madre e riconosce nelle microspore tre membrane: l endosporio, l’erosporio e |’ episporio. In vista della grande analogia che passa tra l’ origine e costituzione del polline e le spore di alcune Crittogame sembra molto accettabile Vl idea che |’ organo vesci- colare dell’ /ris tuberosa ed altre piante fosse una terza membrana proveniente dal nu- cleo ordinario il cui nucleolo diventerebbe nucleo dell'organo vescicolare. Ma nel caso in esame codesta terza membrana non prende parte alla costituzione della parete cellu- lare come fanno l’endina e l’endosporio, dalla quale parete si mantiene sempre lontana; né acquista mai carattere di membrana durevole. In vece giace immersa nella fovilla ed è contrattile e solubile nell’acqua. Onde non sarebbe mai da confondersi con qual si voglia parte della spora o della cellula vegetale in genere. La vacuola che il Gasparrini vide nel polline dell’/ris tuberosa, secondo risulta dalle mie osservazioni, non è veramente vacuola ma il nucleo ordinario della cellula pollinica. Vere vacuole non ne mancano, anzi qualche volta si formano e si dileguano sotto l’occhio dell’ osservatore all’ arrivo dell’ acqua. Questo fenomeno può aver luogo anche nella fovilla evasa dalla cellula pollinica, e ciò dà a divedere che la formazione delle vacuole in generale possa essere promossa dal disquilibrio di densità che la massa protoplasmatica soffre per 1’ assorbimento del- l’acqua. L’organo vescicolare nasce e muore nella fovilla. Esso ha forma singolare e non di semplice vescichetta e di vacuola disfacevole. Probabilmente la sua azione non va fuori dei limiti della cellula in cui si forma. Ad ogni modo, che che si vorrà dire in se- guito della sua natura morfologica, a me basta per ora avere segnalato la sua presenza nelle specie innanzi rammentate. E l'ho chiamato, ad interim, organo vescicolare della fovilla per alludere soltanto alle sue apparenze ed ai suoi rapporti immediati con la stessa e non per pregiudicare la funzione alla quale risulterà destinato. Ora propongo in vece chiamarlo Organo fovillare del Gasparrini in omaggio alla memoria de! suo primo scuopritore. Di qui innanzi è a sperare che mezzi migliori di osservazioni e più accurate esperienze potranno allargarne la ubicazione nonchè svelarne la cagione finale- 2) Tschistiakoff — Notice préliminaire sur l' Histoire de developpement des sporanges et des spores de l Isoe- tes Durievi, Bory. In nuovo Giorn. Bot. italiano. Vol. V. anno 1873, pag. 207. SPIEGAZIONE DELLA TAVOLA N. B.—Le figure dalla prima alla diciannovesima appartengono all’Iris tuderosa, L. le rimanenti a specie diverse. Fig.4.— Cellula pollinica ancora giovane veduta dopo l’azione dell’acqua zuccherata, » » » e rappresentata in sezione. L’esina e l’entina sono ancora collegate e la fovilla, rac- colta in massa grumosa, mostra l’organo fovillare in sembianza di nucleo e di nu- cleolo. Contiene inoltre sette noccioletti protoplasmatici, che mentiscono | aspetto di altrettante vacuole. 2. — Altra cellula pollinica nella cui fovilla l'organo fovillare giace accanto a grossa vacuola. Esso organo è ancora in via di formazione. 3.— Cellula pollinica spogliata dell’esina. La sua fovilla, parzialmente isolata dal- l’entina, contiene due grosse vacuole accanto all’organo fovillare poce più svilup- pato di quello che è nella figura precedente. 4.— Cellula pollinica spogliata dell’esina con organo fovillare già adulto e ri- piegato a spira. Il nucleo di esso è fatto cavo. Tra la fovilla e la faccia interna del- l’entina è una serie semicircolare di vacuole di varia grandezza, la cui presenza però non è un fatto abituale. 5.— Cellula simile alla precedente con organo fovillare quasi claviforme accanto a cui è un nucleo sferico, cioè il nucleo ordinario della cellula in generale. 6.— Entina e fovilla con organo fovillare ripiegato ad elica. 7.— Organo fovillare veduto fuori della cellula pollinica dopo l’azione coagulante dell’acido osmico. La figura è destinata a mostrare come la parte interna di esso sia costituita di corpuscoli oblunghi anziché sferici. Il nucleo era ancora poco cavo al di dentro. 8. — Altro organo fovillare simile al precedente e veduto anche dopo l’azione del- l’acido osmico. La sostanza costitutiva presenta uno strato corticale che pare mem- brana. 9.—Tre nuclei deformati e parzialmente disfatti per l’azione dell’acqua spettanti a tre organi fovillari. 10.— Cellula pollinica giovine, contenente fovilla ed organo fovillare ancora nu- cleiforme. L’esina è stata rimossa come nelle figure 3, 4, 5 e 6. {1.—Altra cellula pollinica ancora giovine che presenta nella fovilla numerose va- cuole, intorno all’organo fovillare in via di sviluppo. 12.— Cellula pollinica simile alle due precedenti. Contiene nella fovilla il nucleo ordinario e l’organo fovillare in via di formazione. 13.— Cellula pollinica con organo fovillare conformato a ferro da cavailo, il cui nucleo occupa un punto mediano. ATTI. — Vol. II, Serie 20 — N° 5. LAN —s(We Fig.44.— Cellula pollinica con organo e avente un estremo ripiegato sopra sè » » » » stesso. 15.—L'organo fovillare in questa cellula è rappresentato nella forma più abituale. 16.— Gruppo di organi fovillari con varie forme assunte fuori della cellula poilinica e per l’azione dell’acqua. Alcuni sono già parzialmente disciolti: a-m con gli estre- mi ottusi e con la parte mediana rigonfiata; d, rigonfiata solo in una metà, gli e- stremi essendo ancora acuti; c, con una metà disciolta completamente e con | al- tra ridotta in minimi granellini in atto di diffondersi; e, uno estremo è contratto e l’altro sta per perdere il contorno; n, è contratto poco più che in e; 0, p, s ed 2, sono deformati e contratti a vario grado; r con nucleo amplificato e con vacule formate per l’azione dell’acqua ; #, è divenuto vermiforme con gli estremi ottusi. 17.— Tre stadii di un organo fovillare in atto di sciogliersi nell’acqua. In a è dive- nuto sferico con superficie granulare; in a’ conserva solo il nucleo, in a è ridot- to in un mucchio di corpuscoli protoplasmatici. 18.-— Quattro cellule matrici in vario stato: a contiene quattro cellule polliniche pressochè compiute; a rappresenta altra cellula con nucleo in atto di scindersi in due; a’ cellula con quattro nuclei in atto di vestirsi di pareti cellulari proprie; a” altra cellula matrice con due cellule polliniche pressochè adulte. 19.— Cellula pollinica in atto di germinare. Mostra in a l’esina squarciata che na- sconde parzialmente l’endina protratta a mo’ di budello. Nel suo fondo vedesi l’or- sano fovillare v di forma vescicolare ed ellittica. 20.— Altra cellula pollinica in germogliamento con entina già conformata a budel- lo cresciuto per ambo gli estremi. Esso budello offre la particolarità di esser ra- moso, anzichè semplice. In d mostra due vacuole. 241.— Polline dell’ Hymantophyllum miniatum, Spr. rappresentante in sezione l’or- gano fovillare con gli estremi divenuti ottusi per l’azione dell’acqua. 22.— Organo fovillare delle specie anzidette con gli estremi acuminati. 23.— Polline della Convallaria majalis, L. In a la cellula è rappresentata per intero e come si vede all’ asciutto; in m è veduta dopo il rigonfiamento per l’acqua, e pre- senta l organo fovillare ‘veduto di prospetto; in n lo stesso organo è fatto più grande e veduto di profilo ; in p l’organo anzidetto è veduto dal lato convesso fuori della cellula. 24.— Polline della Clivia nobilis Lindl. a cellula denudata dell’ esina con organo fovillare compreso nella fovilla; in 1 lo stesso organo è veduto di profilo fuori del- la fovilla con estremi assottigliati; ed in n lo stesso organo è rappresentato di pro- spetto cioè dal lato concavo; in p è veduto nello stesso senso ma molto più in gran- de per mettere in evidenza la cavità ed il nucleo. 25.—Due organi fovillari fusiformi tolti dal polline dell’Albuca major, L. In a è co- me si vede entro la cellula pollinica ; in a è in atto di sciogliersi pel contatto del- l’acqua. 26.— Polline della Calocasia odora, L. In a è l’esina squarciata che lascia vedere direttamente l’endina con la fovilla ed il suo organo fovillare nelle proporzioni nor- mali; in dè organo anzidetto rappresentato molto più in grande per meglio mo- strare il nucleo e la cavità. 27.— Polline dell’ Allium ursinum, L. con organo fovillare compresso e quasi scu- “x AS; ra diforme rappresentato in tre posizioni diverse: a, di prospetto, dal lato concavo; b di profilo; c dal dorso lato convesso. Fig.28.— Due cellule polliniche a e 6 della Tradescantia subaspera, Ker. }l loro organo fovillare ha forma ovale acuta e giace presso un estremo. » 29.—Polline del Narcissus Jonquilla, L. a cellula pollinica veduta all’asciutto ; m al- tra cellula in atto d’emettere l’organo fovillare prima della fovilla ; n è la sola en- dina con fovilla ed organo fovillare vermiforme ; x organo fovillare vermiforme cir- condato da granuli di fovilla; in p l'organo anzidetto è conformato ad s. » 80.— Polline del Pancratium mexicanum, L. somigliante a quello dell’ Hymantho- phylum miniatum, fig. 21. Ne differisce per la forma dell’organo fovillare con- formato a mo’ di Pleurosigma. La sostanza costitutiva era però di color rosso vivo. 34.— Polline della Tradescantia erecta: a cellula pollinica rigonfiata per l’acqua con organo fovillare fusiforme e leggermente incurvato ad s; m lo stesso organo fuori della cellula veduto di profilo e nel momento in cui cominciava a deformarsi; n al- tra cellula pollinica con organo fovillare più piccolo che nella cellula in a; r organo fovillare isolato un po’ ristretto nel mezzo in corrispondenza del nucleo. » 32.—Polline del Platycodon campanuloides, Hort. a cellula pollinica denudata del- l’esina, che mostra l'organo fovillare sotto forma di navicola; m organo vescico- lare veduto fuori della fovilla fatto più grande e contorto per lazione dell’acqua; in n lo stesso organo conserva ancora forma normale; in x non si vede che un a- vanzo del nucleo dell’organo anzidetto. » 38.—Polline dell’Aphe/andra cristata, R. Br. v. pulcherrima. Delle due cellule pol- liniche quella a sinistra, a, è intiera e l’altra a destra, a’, consta dell’endina e della fovilla con l’organo fovillare mancante di nucleo. Le altre tre figure a destra rap- presentano l’organo fovillare in tre momenti diversi: in d comincia a rigonfiarsi; in c è ridotta ad una sferellina di sostanza diffluente con un noccioletto nel centro, in m è il solo noccioletto circondato da poca residuale sostanza granosa. » 34.— Polline dell’Ampelopis hederacea, DC. a cellula veduta dopo il trattamento col- l’acido osmico avente esina squarciata ed endina in atto d’ isolarsi. Questa mo- stra in d l’organo fovillare, in d organo anzidetto veduto fuori della fovilla, in c lo stesso ridotto ad una piccola sfera di materia albuminoide. 35.—Polline della Lonicera sempervirens L. a cellula intiera con organo fovillare piccolo e pressochè reniforme, in a organo fovillare isolato, piccolo e senza nu- cleo apparente. A w finita di stampare il dì 29 settembre 1885. e ei - è ted o la pagg “| e mu di Mii; ta Di de , e Liù grin Lora caegno MIERTÌ sai cn it I te ne vati Mn TATRTI mara pl nt nil sn #aMivot patata Wriditioi Dai atofo ty agro n E i 0 a N : RATIEZIONITÀI ib SUIT di Gitititarai ditte i" quiz Qasò Lana en aaa aoriyitide FAAA fo CH POTTIN dea toh sten mi ese soueiratiotà pre” fr ingoiato it Gtle aa venerare esodo pegate pe PRTITAI TIVI OCN perire» cetra saicO7 EAT pacata i Ha i ivtiogiorae Abi è POSTOATITOTT] isa 4 Iuttoo ife aan pri i; sf 16 n qeTtr9 I dsc Pai 000 sastuentrtato “een sti NAT .eicy Golvane Do 'Bteron civ drei i ubeg tutan ‘Paste dtd punto icone cer AL TATO OA tesdrigane Da SÙ) alf d'sttrovna vary V 10,40% pla “va ti sb attra Late rente] i nio port ° VISI ETA SP PA AI orta senarrere | i etto sd riammnbdo o mani ohls titti ti ui i 0 Bi TORNIO ni uo obesa mali natia ee : METER apra Ò ramppti nose i audio -I Fiati oi nenbAn i MI iv b n i amiata dé 1a basa quia ; 1% < I ri TOMI IPAZRI. mao (E mpigdtrdar x} AMIN DAITI Mm MPPAL E, ho andava lis ct : : {100 N ii | SILHiDO ti al vubcnnina istat Sabra. annida disci arti È a er un Sgt Vol. II, Serie 2.* N° 6 ATTI DELLA R. ACCADEMIA DELLE SCIENZE FISICHE E MATEMATICHE SULLE FORME BINARIE BILINEARI NOTA del Socio Ordinario G. BATTAGLINI (Adunanza del dì 5 Settembre 1885) 1. Sia u=,:, un parametro variabile, che determina in una forma geometrica di 1° specie ( punteggiata, fascio di rette o fascio di piani) la posizione di un elemen- to u (di coordinate «, ed w,) rispetto a due elementi fondamentali ( wu, = 0; u,=0). Poniamo tra i valori u — wu, :u,,u =w,:%w, del parametro una relazione bilineare espressa simbolicamente da o= (du 4a) a+ = (dv) (au) =0, ) le ombre a,, a; avendo significato di quantità solamente nelle combinazioni a, a ,=4,, (per î,j= 1,2), sicché sia quazu {30 ,U, +03, |agu,ju,=0. Gli elementi v ed «', che con le loro coordinate verificano l'equazione (1), sa- ranno in dipendenza proiettiva. Riferiamo 9 ad un’altra coppia di elementi fondamentali ; basterà porre in (1) per U,, U,; W,,U,, rispettivamente 5, ut 5", Ua è Eau', a 5, Un ; E, wit 6, Us, | 5, Wait E, U33 essendo (£,,£,) e (£,,5,) le coordinate dei nuovi elementi fondamentali £ e £' ri- spetto ai primitivi. Si avrà così o=lla'E)0, 4 (28)2)} (a $)u",+ (a €), =0. (2) Si pongano le condizioni (a'&)(a"£) =0 , (a'&)(a"#)=0, esiainoltre U=(a5)(a") , U”=(aé)(a'É), Arti. — Pol. II, Serie 2% — N° 6. ] PERGOA, n° si otterrà allora l'equazione canonica della dipendenza proiettiva ite e x "a w° (3) 2 Gli elementi £ e £' sono gli elementi uniti della dipendenza (1), determinati dal- l’equazione (a u) (a u) =0, o sia da AU, 4 (4,54 4) 4%, + ag =0; si avranno perciò le relazioni = —_—_ _’——t1lt@.’©.ò Aya Ag + da Aaa Si Sw o, Sor Sr Sa Si Sn -' -' = e 2 2 5151-5251 Ie] sicché eliminando £' e É£' da p =; n I ny A i Er U SIORA3 1t 45,524 d4 5251 + 402325 25 U” —_ Ax 2h 5°. + A,9 È. su + Ag Si i “x Ag9 Sa E 2° e ponendo I=0,, -4,=[2@'] ’ K= 4,09, — a,4,= > (2a, ] la 4 | ’ Jalî—4K, (in cui a,, 4°, sono simboli equivalenti ad a, a, ed in generale si ha, per due simboli qualunque p e g, p, 9, —P,4,=(pg]) si troverà U-U'— l/s elena e l'equazione (3) diverrà (1 VI) (1+ VM) ino, 4 o sia posto Pioni I io onde i | Vo + a) K ; u' ipsa I4+ VI Vo Le quantità I, K,J sono invarianti della forma bilineare 9. Allorchè I= 0, | e- quazione (1) è simmetrica rispetto ad w ed u°, e la dipendenza proiettiva è dn ‘nvolu- zione , 0 sia è tale che ad ogni elemento , considerato come appartenente ad uno dei sistemi v 0 w", corrisponde sempre lo stesso elemento nell’altro sistema ; allora l’equa- zione (4) si riduce ad wu, u, + u, u,=0,0 sia u= —wu. Quando K=0, l'equazione (1) si decompone in due fattori , lineari rispettivamente in w ed in w, e la dipendenza proiettiva è singolare, o sia è tale che ad ogni elemento w (eccetto un elemento sin- golare uo) corrisponde sempre uno stesso elemento w = w",, e ad ogni elemento w (eccetto l’elemento singolare « ,) corrisponde sempre lo stesso elemento w = ws ; gli elementi singolari sono determinati da PER «pa e siha g=(u,u)(u,u)=0. In tal caso gli elementi uniti sono gli stessi elementi singolari v, ed #,, e l’equazione (4) prenderà l’una o l’altra delle forme w, u',= 0, 0 us u,= 0. L’invariante K si dirà il discriminante della forma bilineare 9. Finalmente allorchè J= 0, i due elementi uniti della dipendenza proiettiva sono tra loro coincidenti; allora questi elementi uniti non potendosi prendere più come ele- menti fondamentali, l’equazione (1) non potrà ridursi alla forma (4), se non quando la dipendenza proiettiva è identica, vale a dire quando due elementi corrispondenti qua- lunque sono tra loro coincidenti; ciò ha luogo quando a,,=0, a,,+a,,=0, a, =0, € rispetto a due elementi fondamentali qualunque sarà allora u,u,— w,u,=0,0 sia u=u. Nel caso generale di J= 0, prendendo per elementi fondamentali quello nel quale coincidono i due elementi uniti (u,=0), ed un altro elemento qualunque u, (0 = 0), 1 equazione (1) si ridurrà alla forma re e ’ o sia Tese dove w , è l’elemento corrispondente all’elemento fondamentale w, . Ritornando all’equazione generale (4), se nella dipendenza proiettiva si prende di un elemento qualunque «° il corrispondente w', di w il corrispondente wu", e così di seguito, si avrà dopo n volte questa operazione wu’ =" u°, sicchè coinciderà wu” con u° (qualunque sia questo elemento) quando g° = 1, o sia quando p è una radice n”° pri- mitiva dell’unità ; si avrà allora I 1 2 -— = bere » essendo p== cos ai VI l—-p° n 2ur + è sen Gi . (1A È 3 È TT È ° (x numero primo con n ed inferiore ad n), onde 1 —=4 cos? si K; la dipendenza si dirà in tal caso ciclicamente proiettiva, o periodica d’ordine n. Allorchè gli elementi Riprova E 1 ì , Sl! 1 uniti coincidono tra loro, la relazione tra gli elementi w° ed u” sarà 00 Tg “ da si u . . . i 0° tal caso la dipendenza proiettiva non potrà essere periodica. 2. Siano ora due forme bilineari espresse da o=(au)(a'u)=0 i da=(5u)(0u)=0, (1) e si consideri la serie semplicemente infinita di forme bilineari rappresentate da ag4Bp=0, variando il rapporto a : 8. Ponendo IL=0a—-a,=[0'a"| A I,=bda— by= [00], (2) îra le forme della serie ve ne sarà una in involuzione (0 sia per la quale si annulla I "a, € . nie l’invariante 1), determinata dalla condizione « I +8I=0. Inoltre ponendo ta BS, tal? l Koa = 41099 — 4,90, = DI lea, ![a"a",] ’ K,, = by4 099 — 030, = D) [08,][2°0",]» (3) Ko = 41 bya — 0,20, — A ba + 4906, = [8] la'8"], L= (dove a,, 6, dinotano simboli equivalenti ad a, d) tra le forme della serie ve ne saranno due singolari (o sia per le quali si annulla l’invariante K) determinate dalla condizione a*K__-+-2aBK_, +-B°K,=0. Ancora ponendo Jalla, 4Ka=—[20,][2'a",] {20 }{2a,] è Jy=1,_4Ky=—[06,](0°0,] 1501084], i 4 Jo = — AK, = —{[@05][a"8"|—[ad")|a"d], (0) tra le forme della serie ve ne saranno due con gli elementi uniti coincidenti (0 sia per le quali si annulla l’invariante J) determinate dalla condizione (al, + BI)? — 4(a*K__ + 2aBK,,+-B*K,,)=0, o sia 0°, + 248,54 BI =0- Finalmente tra le forme della serie ve ne saranno due periodiche d’ordine n, de- terminate dalla condizione (aI, + BI,)° — 4 così sa (a*K, +2oBK_,- B*Kyg)=0} o sia a(1, — 4cos° sa Ka) + 2ap (L I, — 4cos? di Ku») + 8° (|, — 4 cost EE vo) = n Allorchè si annulla invariante simultaneo K,, delle due forme bilineari 9 € $, con- siderando le due dipendenze proiettive definite da queste forme, si avrà che prenden- do di ciascuno dei due elementi uniti, nella prima o nella seconda dipendenza, gli ele- menti corrispondenti rispetto alla seconda o alla prima dipendenza, nell’ordine diretto e nell’ordine inverso (cioè da u od w', e da u ad w), i due elementi così ottenuti sa- ranno corrispondenti rispetto alla prima o alla seconda dipendenza. Se poi si annulla l’ invariante simultaneo J,, , le coppie degli elementi uniti nelle due dipendenze proiet- tive saranno coniugate armoniche tra loro. Se invece della forma (a w) (au), 0 pure (du) (bw), si considera la forma (a u°) (a u), 0 pure (db w°) (bu), Vl invariante 2K_y = 04 bas = dg 0a, — A Der + da 0 = [ad ][a°57], si cambierà nell'altro Abr Aaa dda + 990 = ad" ][a"8], 0 pure Aa bar— dba Usd t- dad = 8 ][a6], e l’annullarsi di questo invariante esprimerà una proprietà analoga a quella corrispon- dente alla condizione K_, = 0. Chiamiamo armoniche tra loro le due forme bilineari 9 e $ (0 le due dipendenze proiettive da esse definite) allorehè K,,= 0; è chiaro che se le forme o=(au)(a'u), e 4=(00)(0), sono armoniche rispetto alle forme ®-(Au)(A"w"), e Y=(Bw)(B"w), PERA ogni forma della serie «9 -- 8% sarà armonica rispetto ad ogni forma della serie A® + BY, e viceversa. Se gli elementi v, ed v,, 0 pure v , ed u,, sono tali che gli elementi corrispon- denti u', o pure w, rispetto alle dipendenze g#= 0 e y=0 siano tra loro coincidenti si avrà la condizione (a'u,)(0u,)[a"b5" |=0, o pure (a'u.)(0"u",))[a6]=0; se w,,» coincidono in w, ed u',, u, coincidono in v' sarà (a u)(0u)|a'6"]=0 3 (a'u’)(50)[ad|—0; i due elementi u, 0 pure uv, determinati dalla prima, o pure dalla seconda, di queste equazioni hanno per corrispondenti, rispetto alle due dipendenze f= 0 e y=0, i due elementi #°, o pure w, determinati dalla seconda, o pure dalla prima, delle stesse equa- zioni; le forme binarie quadratiche (au) (0u)[a"8"]=0 5 (a'u)(d'u)|a6|=0, (5) sono convarianti del sistema di forme bilineari g=0 e y=0. Scambiando tra loro in (5) db e 8, 0 pure a ed a, si avranno gli altri due co- varianti (a'u)(2’)[a'8]=0 =, (ada =0. (6) Il determinante funzionale, o Jacobiano, del sistema di forme binarie quadra- tiche (cu) (au =0, è (00) =0, sarà la somma delle equazioni (5) e (6), cioè (a'u) (0) [a'8"]+- (20) (0°) [a'8]4 (2°) (04) [a] 4 (a')(0"#)[a8]=0. (7) Siano ora tre forme bilineari espresse da ou=(au)(a'u)=0 =, y=(04)(0w)=0 , y=(cu)(cw)=0, (8) e si consideri la serie doppiamente infinita di forme bilineari rappresentate da op4+-Bp-i-vx=0, variando i rapporti «:8:y. Indicando con I,, K.,, K,. Kart.» I: I espressioni analo- ghe alle (2), (3) e (4), tra le forme della serie saranno in involuzione quelle per le quali si ha al, 4-BL+yL=0 U saranno singolari quelle per le quali si ha i agi. 10, ce pia SS saranno con gli elementi uniti coincidenti quelle per le quali si ha (al, + ...)}} — 4(2*K,_+--:+2BK,+...)=0, Jo t--+201J +---=90, e finalmente saranno periodiche d’ordine n quelle per le quali si ha (al, +...) — 4 cos (Kn + ..+4-2prK+--.)=0, o sia 2(12 lidi I ID. apr i =: a (I a © 4 008 SK.) + SIT +28r (LI - 4 cos E K,) + cu SERE Se le forme ®, 4, x sono armoniche rispetto alla forma @— (Du) (Du), ogni forma della serie x9 + BV + yy sarà armonica rispetto a @. I coefficienti D,,,D,,,D,,,D,,, della forma @, armonica rispetto alle tre forme 9, +, x, saranno ì determinanti minori di 3° ordine (con i segni convenienti) tratti dalla matrice Aaa a — dg > — Zia > da Da ih by è (Fi da ’ di Coat O =itagliiz; aaa a togliendo alternativamente la 1%, 2°, 3°, 4° colonna. Finalmente, essendo date quattro forme bilineari espresse da g=(au)(a'u)=0 , p=(0u)('u)=0 , y=(cu)(cw)=0., 0=(d7)(dle = e considerando la serie triplamente infinita di forme bilineari rappresentate da ag + Bpb+yx+30=0, variando i rapporti a : 8:vy:®, si troveranno come sopra le condizioni per quelle forme della serie, che 1° sono in involuzione , 2° sono singolari, 3° hanno gli elementi uniti coincidenti, 4° sono periodiche d’ordine n. Se le forme ©, %, x, 8 sono armoniche rispetto ad una stessa forma (nel qual caso avverrà lo stesso per tutte le forme della serie) si avrà la condizione il Dai > bia 0 da » da | = Ces. 2. (Ca. Lama ila | Î | da > ds > dan sla | 3. Supponiamo ora che le coordinate (v;, ©», 03) di un elemento V in una forma geometrica di 2° specie (piano punteggiato o rigato, stella di piani o di raggi), rife- dn rito ad una terna di elementi fondamentali, siano proporzionali a tre forme binarie bi- lineari ; ponendo vo,= (a'u)(a'u) = a(a) ; ver =(0u)(d'u)= (8) o vr =(cu)(c'u)=a(c), ad ogni coppia di valori arbitrarii attribuiti ai parametri v ed w corrisponderà un ele- mento V della forma geometrica, che supporremo (per fissare le idee) un punto in un piano; a, d, c dinotano le tre rette fondamentali a cui si riferiscono i punti del piano. I valori attribuiti ad v ed u' determineranno in una forma geometrica di 1% specie (p. e. una punteggiata) due elementi, che diremo gli elementi (w,w') rappresentativi del punto V del piano. Se il punto V appartiene alla retta v, di coordinate (V,, V,, V,), cioè determinata dall’equazione V,0, + V,0, + V.,0,=0, tra i parametri v ed w si avrà la relazione o()=V(au)(a"u) + V.(00)(0")+ V,(cu)(c'u)=0, (1) sicchè ad ogni retta v del piano corrisponderà una forma bilineare (0) = 0, o in altri termini una dipendenza proiettiva tra gli elementi (vu, w°) rappresentativi del punto V della retta v. Se la dipendenza o (0) = 0 è in involuzione , si avrà la condizione MIA VI Va =0, (2) sicchè la retta v passerà allora pel punto V, rappresentato dall’equazione (2). Se la dipendenza o (0) = 0 è singolare, si avrà la condizione \ ERA L'A (3) sicchè la retta v sarà allora tangente alla linea Z di 2* classe rappresentata dall’ equa- zione (3) — Se la dipendenza 0 (v)=0 ha gli elementi uniti coincidenti, la retta v sarà tangente alla linea @ di 2* classe rappresentata dall’ equazione i ar e ei avre navigo: /y 20, o sia (4) a Li), Finalmente se la dipendenza o (v) = (0) è periodica d’ordine n, la retta v sarà tan- gente alla linea ®, di 2° classe rappresentata dall’equazione DI DI T (VI, + VI, + V,1,) — 4 cos EE (VE +» LOVoW K'L-...)—0, o sia (5) V3, (PL — deo Ku.) ly a pei (1, I, — 4cos® BE Ky.) +...=0. La linea © (e più generalmente la linea ®_) ha con Z un doppio contatto; il polo della corda di contatto è il punto V, . Consideriamo due rette v e v tali che le dipendenze proiettive (0) =0, e (0°) =0, ad esse corrispondenti, siano armoniche tra loro; si troverà la condizione Vate + (Va Va tVaV) Lt. =0, DG. ge vale a dire le due rette v e v° saranno coniugate rispetto alla linea di 2° classe E. Se poi le rette v' e v' sono tali che, nelle dipendenze proiettive o (v) = 0, e c(0°) = 0, le coppie degli elementi uniti siano armoniche tra loro, si troverà la condizione ViVla 4 POLV... 29, vale a dire le due rette v e v saranno coniugate rispetto alla linea di 2° classe @. I punti V corrispondenti ad un dato valore del parametro «, 0 pure u", variando l’altro parametro v', o pure w, apparterranno rispettivamente alla retta v, , 0 pure v,, rappresentata dall’equazione v.(au)a",,(au)a", | v.(a'u)a,.(a'u)a, Di. (0u) 0, (0updo, | =0, copure Pa, (04) D, (04) Da 102 va. (cu)c',,(Cu)c', Day (CuYesalewu e, cioè v, (dDu)(c'u)[d'e']+ va (ew) (a')[c'a"] + va (2) (Vu) [ad] =0, 6 v, (0 u)(c"u") [de] + va (c'u)(a'u)[ca] + 03 (2'0) (0"u) [a8]=0. si Variando v ed u' le rette ©, e 0,’ costituiranno due serie di rette, che diremo le rette del 1° e del 2° sistema. Per uno stesso valore w attribuito ad v e ad w le due rette 0, e v,” in generale saranno diverse ; esse però coincideranno ponendo tra w ed u' le condizioni (0u)(cu)[8"] _ (cu)(au)[c'a') _ (au)(04)[a"8] g CUT] (Cu) [la] — @#) WTF] di le quali però equivalgono ad una sola, osservando che si ha identicamente (a'u)[dc]4+(2)[ca] + (c'a)[ad]=0, (a"u")[d"c"] + (0"«")[c'a"] + (c'‘«’)[a"8"] = 0. Segue da ciò che i due sistemi delle rette v, e 0,, definiti da (6) variando w ed «, ne costituiscono uno solo, poichè una retta 0, coincide con una retta v, 7, quando tra i parametri v ed w, che le determinano rispettivamente , si ha la relazione espressa da una qualunque delle equazioni (7). Le rette v,, e è,», variando v ed u', avranno perciò uno stesso inviluppo , il quale evidentemente è di 2° classe, poichè le equazioni (6) contengono v, 0 pure w', a 2° grado; l’ equazione di tale inviluppo, in coordinate di punti, si otterrà adunque eguagliando a zero il discriminante della forma binaria qua - dratica in (w,,,), 0 (2,,,), data dalla prima o dalla seconda delle equazioni (6), ed eliminando da queste w, : w,,0,:%,, per mezzo della suddetta condizione. Osservando che per ogni punto V di una retta v tangente alla linea di 2° classe 2 il valore di w, o pure di «, è fisso, mentre il valore di «°, o pure di w’, varia da punto a punto di è, si vedrà facilmente come appunto 2 sarà |’ inviluppo delle rette v, e v,-. Per ogni tangente v di 2 l’equazione (1) decomponendosi in due fattori, lineari rispet- tivamente in v ed w', il valore di v, 0 di w’, corrispondente a quella tangente v di 2, si otterrà eguagliando a zero il primo, 0 il secondo, di quei fattori. Per ogni punto V del piano i due valori div, 0 pure di «, che si ricavano dalla prima No o pure dalla seconda delle equazioni (6), sono quelli che determinano le due rette v, , o pure le due rette v,, tangenti al loro inviluppo comune E, che passano pel punto V. Se x,y sono i due valori di v, ed 2°,y i due valori di v' ricavati rispettivamente dalla prima, e dalla seconda delle equazioni (6), essi si potranno far corrispondere in modo che x ed 2°, come pure y ed y°, siano tra loro nella dipendenza espressa da una qualunque delle equazioni (7), sicchè # ed 2, o pure y ed y°, determineranno due rette v, e v, coincidenti con una stessa tangente v, , 0 pure v,, di 2, ed il punto co- mune a queste due rette v,, e v, sarà il punto V del piano; adunque nella rappresentazio- ne dei punti del piano, per mezzo di una coppia di elementi in una forma geometrica di 1* specie (x,y) ed (y,x°) saranno due coppie di elementi rappresentativi di uno stesso punto V del piano. I punti V del piano per i quali u = = w hanno le loro coordinate espresse da vv, = (av) (a'u), vo, = (du) (du), vo, =(cu)(c'u); essi costituiscono una linea di 2° ordine, infatti ad una retta qualunque v (di coordi- nate V,, V,, V,) appartengono i due soli punti V del sistema, che corrispondono ai due valori di u dedotti dall’equazione di 2° grado Vi(a'u)(a’'u+V,(0) (2) + V.(c«(c'#)=0, (8) cioè dall’equazione (1) in cui si è posto u = u' = w. L’equazione, in coordinate di ret- te, di questa linea di 2° ordine si otterrà eguagliando a zero il discriminante della for- ma quadratica in w espressa da (8), e quindi, per le cose dette innanzi, l’ equazione ri- chiesta sarà la (4); adunque per ogni punto V della linea di 2° classe @, i valori cor- rispondenti di w e di u sono eguali: il loro valore comune % si otterrà eguagliando a zero la derivata di (8) rispetto ad u, , 0 ad w,; v è la tangente di @ in V. Le coppie di elementi rappresentativi di quel punto V, (x’, y°) ed (Y, 7°) sono tali che nell’una, e nel- l’altra coppia gli elementi sono tra loro coincidenti. Supponiamo che si abbia enni ii) GA LANE ARIMA GA, = Ca. + sa = Ca; sarà ,=0_, L=0 , L=08- n; er —a,k=0,K == Gal ; K,,=0 , Ka=0 ; 2K,= €136; Ina = 0 > Ian=0 3 Ice (Ca +02)? 5 Ise 0 è Ia=0 ; Jan = — 21902; con ciò le coordinate (v, v, , vs) di un punto V saranno espresse da Do =Call 05 Da = Cig Wa; VO = CU Udi e le equazioni (2) , (3) e (4) si ridurranno rispe!tivamente a (Cat Ca) Vv? : V,.=0;V,V,.=V,;VV,= 3 ? Lu 3? 1A Ale Ca 3 le supposizioni fatte equivalgano adunque a prendere per triangolo fondamentale quello costituito dalle tangenti condotte dal punto V, alla linea di 2° classe 2, e dalla corda ATTI.— Vol. IL Serie 29 — N° 6. 2 Spi E che unisce i loro punti di contatto, modificando inoltre convenientemente il significato delle coordinate di un punto qualunque del piano. Le equazioni (6), che definiscono i sistemi delle rette v, e v,, diverranno v2 se SRI vu + vu? — vu u,=0, DIR AE 23. 0 SANDI O CU at Va CU, — VgC190n UU ,=0, sicchè l'equazione, in coordinate di punti, del loro inviluppo comune £ sarà 40,0,=0; le equazioni (7), che stabiliscono la dipendenza tra w' ed vu”, affinchè le rette DO Lane siano tra loro coincidenti, si ridurranno ad "2 (DA Li , U 7 U a, _ UU = g* — è ge. “rr Ca % 1 Ci a Cal“ U3 equivalenti all’unica relazione i Crab, — Caai—=0; finalmente l’equazione (8) si ridurrà a Vea, + Vac + Va (1a + ca) Mv =0, che riconduce all’equazione di @, in coordinate di rette V, a =, (C1a + 6a)? Vv? 3 4012021 ed in coordinate di punti €43 Ca (C+ cn)? nt pur 4. Supponiamo ora che le coordinate (v, , v,, v;, v,) di un elemento V in una for- ma geometrica di 3° specie (spazio di punti o di piani), riferito ad una quaterna di ele- menti fondamentali, siano proporzionali a quattro forme binarie bilineari; ponendo rvv=(au)(a’u’)=0(a),vv,=(0u)(b'u)=0(0),vv=(c'u)(c'u)=0(c),vo=(du)(d'u')=0(d), ad ogni coppia di valori arbitrarii attribuiti ai parametri v ed u” corrisponderà un ele- mento V della forma geometrica, che supporremo (per fissare le idee) un punto nello spazio; a, b,c,ddinotano i quattro piani fondamentali ai quali si riferiscono i punti dello spazio. I punti V, variando v ed v costituiranno una superficie 2 di 2° ordine; infatti po- nendo A ’ Aa ’ a 21? Agg by ’ dig ’ bai ’ bag Cri o Cia? la 1 la d,; ’ dg ’ dai ’ d 22 cat ed indicando con P,, l’elemento reciproco dell’elemento p,, di questo determinante, dalle equazioni proposte si dedurrà. v(A,,0,+B,,0+ Cava +Duv)=P1% >» (439% +-Ba9% + 022034 Das) = PU 1°, , v(A,90,+-B,202+-C,at3+D30)=P%3 > v(Anvt Ba: + 0034 Dan) =P 0, , onde (A,10:+-Bnvat- - -)(Axv+-Ba 0a +...) —(A130+-Bia vat - )(Anv +Ba va t-.-)=0,(1) che sarà l'equazione di 2. I valori attribuiti ad v ed u' determineranno in una punteggiata i due punti rap- presentativi del punto V di Q.. Se il punto V appartiene al piano », di coordinate (V,, V,, V, ; V,), cioè determi- nato dall’equazione V,0, + V,0, + V,0, + V,0,=" 0, si avrà la relazione tra v' ed w' c(0)=V(av)(a'è)+...4+V,(d'u)(d'u)=0, (2) sicchè ad ogni piano v dello spazio corrisponderà una forma bilineare o (0) = 0, 0 sia una dipendenza proiettiva tra gli elementi (v' , v°) rappresentativi del punto V nel piano v; i punti V apparterranno alla linea di 2° ordine, intersezione di v con 9. Se la dipendenza c(v)=0 è in involuzione si avrà ViLt...-+VL=0, (3) sicchè il piano v passerà allora pel punto V, rappresentato dall’ equazione (3). Se la dipendenza c(v)=0 è singolare si avrà Vi, Moe do Va Kia + 2VaV3K, +... 42ViVKa=0; (4) sicchè il piano v sarà allora tangente alla superficie X di 2* classe rappresentata dall’e- quazione (4) — Se la dipendenza c(v)=0 ha gli elementi uniti coincidenti , il piano v apparterrà all’ inviluppo @ di 2° classe rappresentato dall’equazione (V, L SP aa "e V, I)? tali 4(V?, Ki, di Ce 4 Li Kia x 2VaVa Ko == RATA + 2V,V, K.a) =0 tI o sia (9) Via t:- + Vita + 2VaVaJio + <-- + 2VaViJa =0- Finalmente se la dipendenza c(0) =0 è periodica d’ordine x il piano v sarà tan- gente alla superficie ®, di 2° classe, rappresentata dall’equazione dea A (V.L,+-..-+V,1,)? — 4c0s° n Re 10 VW, o sia | (6) vw, (2. — 4 008? ME Ka) DE CILORY. (1, La — 4 cos PT Kia) rd L’inviluppo @ (e più generalmente la superficie @,) ha con X una linea di contatto; il polo del piano di contatto è il punto V, . * et, persi Se i piani v e v sono tali che le dipendenze proiettive (0) =0 e c(0)=0 siano armoniche tra loro, si avrà ViViBat-:-4(V3Vt VV) Ka =0, sicchè v e v° saranno coniugati rispetto a Z. Se poi i piani v' e v° sono tali che nelle dipendenze proiettive 0(0)=0 e o(0)=0 le coppie degli elementi uniti siano armo- niche tra loro, si avrà VVLEtTEENE E EDI sicchè v e v° saranno coniugati rispetto a @. Per i punti V corrispondenti ad un dato valore del parametro wu’, o pure u', va- riando l’altro parametro w', 0 pure v, posto Wa (0%) (CU) [PA], Wa), We) VA [I], Wu=(d)(d)[a'd], Wy=(0)(du)[dd], Wy= (U(dw)[ed], o pure W'a= (0°) (0) [de] , Wa=(7)(w)[ca]. i Wa= (e) [0], Wu=(e'@)(d'u)[ad] , Wu=(0)(0w)[dd], , Wau=(Cw)(d#[e25 sì troverà il primo, o pure il secondo, sistema di relazioni oWy-tWuytnWg=0 , vWw=-tWy+o,W"=0, Wa — Way ktoWa=0 ’ voWa-voWutoaWa=0, ( 7) Wa — da Wag kt Wa =0 ’ Wa -vW'utoWya=0, Wat vaWa +v3Wa=0 ) Wa da Wa 1 va W a =0; le equazioni del primo , o pure del secondo, sistema (7) rappresentano quattro piani, che passano per una stessa retta w, di coordinate W,,, o pure quattro piani che pas- sano per una stessa retta w", di coordinate W',,, osservando che in ciascuno dei si- stemi (7) la quarta equazione è conseguenza delle altre tre, e queste tre equivalgono a due Sole equazioni indipendenti, per essere identicamente (come è facile verificare ) Wai T Wat ni o Mata =0, e Wasla sù Wa Wai So Wa aW° u =: 0; i punti V di cui si tratta apparterranno quindi alla retta w', 0 pure alla retta w”. Variando w ed u' le rette w e w° costituiranno due serie di rette, che diremo le rette del 1° e del 2° sistema; esse evidentemente saranno le generatrici , del 1° e del 2° sistema, della superficie di 2° ordine Q. Il punto d’incontro di w e w° sarà il punto V corrispondente ai valori v ed w' dei parametri. Osservando che per tuti punti V del sistema, appartenenti ad un piano v tan- gente alla superficie di 2° classe £, il valore di w, o pure di v’, è fisso, mentre il valore tt = di w' o pure di w varia da punto a punto , si vedrà facilmente come appunto sia il luogo delle rette w' e w°, vale a dire l'a superficie £, luogo di punti, e la superficie 2 inviluppo di piani, costituiscono una stessa superficie di 2° ordine e di 2* classe; per ogni piano tangente v di 2 l’equazione (2) decomponendosi in due fattori, lineari ri- spettivamente in w ed w’, i valori di u edu, corrispondenti rispettivamente alle gene- ratrici w e w' di 2, appartenenti a v, si otterranno eguagliando a zero il primo, 0 il secondo, di quei fattori. I punti V del sistema (o sia di 2) per i quali uu —=u hanno le loro coordinate espresse da si (au)(a) , ve =(0)(0 , v=(cv)(cv , vo =(du(d'u); essì costituiscono una linea di 2° ordine, intersezione di £ col piano ®, rappresentato dall’equazione 7 xD | | | da » du » Cn ’ du | 0 (3) A, 4-02 > data : Cata > dat da A92 » ba pi ladsa s da infatti ad un piano qualunque v (di coordinate V,,V,,V,,V,) appartengono i due soli punti V del sistema, che corrispondono ai due valori di w dedotti dall’equazione di 2° grado V, (a'u)(a") + V.(0)(0"u+ Vi(cu)(c'+V,(du)(d')=0, (9) cioè dall’equazione (2) in cui si è posto u = =; inoltre eliminando tra le equazioni proposte u°,, u, «,, «°, si perviene all’equazione (8). L'equazione, in coordinate di piani, della suddetta linea di 2° ordine si otterrà eguagliando a zero il discriminante della forma quadratica in v espressa da (9), e quindi, per le cose dette innanzi, l'equazione richiesta sarà la (5); adunque l’inviluppo di 2* classe © non è che una conica; per ogni punto V di questa conica i valori corrispondenti di v' e di wu sono eguali; il loro valore comune si otterrà eguagliando a zero la derivata di (9) rispetto ad «, 0 ad «, ; ® è un piano tangente di © in V. Dovendo essere nullo il discriminante di 9, se s’indica con K il discriminante di 2, e con (K,I) la somma delle derivate di K rispetto a ciascuno dei suoi elementi K,, (per #,j,=@,b,c,d), moltiplicate rispettivamente per I,I;, si avrà tra gl’ invarianti delle quattro forme bilineari proposte la relazione (K,I) —-4K=0. (10) Supponiamo che i piani v, = 0, e v,=0 siano tangenti di 2 in due punti V, V' di ©, e che i piani v, = 0 e v,=0 siano i piani tangenti di £ condotti per la retta VV : si vedrà facilmente , per le cose dette, che si potrà supporre per un punto qua- lunque V, vo, =U,u, : vega #4 ? vv=# a ; vv, = UU i avendo cambiato inoltre convenientemente il significato delle coordinate di un punto. Con queste supposizioni le equazioni di £ e di 2 diverranno Va — vs, =0, e ViVa— ViW,=0. che appartengono ad una stessa superficie di 2° ordine e di 2° classe. Le equazioni del piano v° e del punto V° saranno o —vy=0, e Va-V,=0, che sono piano polare e polo rispetto alla suddetta superficie. Finalmente 1’ equazione tangenziale della conica @, intersezione di v, con 2, sarà 4V,Va e) (Va Sa My: =0, Le coordinate delle rette vv e vv, generatrici di £ del primo e del secondo siste- ma, saranno rispettivamente FIERA de id =: 12 ro at ha 7 e 1 E rg 12 3 ES Ù os Wa=0, Wy=_-%% , Wa=%%, 3 Wy=0, Wy=_-?, Wy=_-% 03; ri Lai 12 "” ra xT!” IA ” (7) n ” Si 2 ” Rd ” PS "” " Wig=>@%Wag=90g Wasted i WE, Wa=90, Wi 00 finita di stampare il dì 29 ottobre 1885 ba i se Arta SLI fica Calà 4 Ù INVE e Lo LI Ng: de ibi gd | pi l'a dI eil (4) d'EVLAn ha di MISI (en Praio ni { si bi To. i” Hi.o Vol. II, Serie 2? y N° 7. ATTI DELLA R. ACCADEMIA -. DELLE SCIENZE FISICHE E MATEMATICHE NOTIZIE ED OSSERVAZIONI SULLA GEO-FAUNA SARDA MEMORIA QUINTA Risultamento delle ricerche fatte in maggio 1885 del Socio Ordinario ACHILLE COSTA presentata nell’adunanza del dì 5 dicembre 1885. Nel viaggio fatto in Sardegna nel 1882, che si protrasse dall’aprile al giugno, ebbi opportunità di avvertire che non vi ha pianta i cui fiori richiamino tanto gl’insetti, so- pratutto Imenotteri e Ditteri, quanto la Thapsia garganica; e dalla relazione di detto viaggio rilevasi che fu appunto intorno le Tapsie in piena fioritura che potetti raccogliere nelle campagne di Simaxis, oltre a molte buone specie, due bellissimi Cryptus, che sono stati descritti co’ nomi di haematorius e leucozonatus. Un tal fatto mi lasciò vivo il desiderio di trovarmi ancora altra volta in quell’ isola nella stagione della fioritura di detta ombrellifera. E non volendo di troppo protrarre il soddisfacimento di tal deside- rio, non potendo sempre contare sulla facile resistenza ai disagi cui in tali viaggi si è sottoposti, ottenutone il permesso, ho realizzato il mio proponimento nel decorso maggio. Da ciò si rileva che l’attuale viaggio ha avuto un obbiettivo tutto speciale. Per la qual cosa, sebbene non avessi trascurato del tutto altri generi di ricerche, pure la mia attenzione si è portata principalmente sopra quelle piante; ed i luoghi visitati sono stati in preferenza quelli ne’ quali conoscevo già, ovvero apprendevo essere più abbon- danti quelle ferulacee. Nè tutti ho potuti visitarli, dappoichè per ciò fare sarebbe stato necessario rimanere ancora un altro mese. In fatti, su’monti della Limbara, ove pur le Tapsie crescono in buon numero, esse non cominciano a fiorire prima del mese di giu- gno. E pure sarebbe assai interessante esplorarle, perchè gli abitatori che esse richia- mano potrebbero essere ben diversi da quelli de’ luoghi piani e più caldi. Aggiungasi a ciò, che in questo anno, messo in rapporto col 1882, ho trovato lo sviluppo ani- ATTI — Vol. II, Serie 29 —N.0 7. 1 Re male e vegetale ritardato quasi di un mese. Quanto ad insetti, per esempio, i piccoli Malacodermi, la cui vita ha una durata più limitata, in altri anni sul cadere del maggio erano quasi scomparsi, in questo invece fino a’ primi giorni di giugno che ho pas- sati nell’isola erano tuttavia molto abbondanti. La qual cosa faceva ritenere che fossero ancora apparsi più tardi. Ed in quanto al regno vegetale, senza uscire dal gruppo delle Ferulacee, dirò che nel 1882 trovai la Ferula nodiflora (volgarmente Feùrra) già fiorita negli ultimi giorni di aprile nella regione meridionale e media, e nella seconda metà di maggio era fruttificata: in quest’ anno }’ ho trovata quasi ovunque in piena fioritura sino agli ultimi giorni del maggio. Invece, la Thapsia garganica (volgarmente Feurredda o Feurricedda), la quale fiorisce circa un mese dopo la Ferula, mentre nella parte meri- dionale era non sempre in piena fioritura, in taluni luoghi della settentrionale, come nei contorni di Tissi, non erano ancora sbucciati gli ombrelli nella seconda metà del maggio. Siffatta circostanza di aver trovato contemporaneamente in fiore le Ferule e le Ta- psie, non che l’altra ferulacea Magydalis tomentosa, di cui s° incontrano qua e là de- gli individui, mi ha permesso di fare una osservazione che negli altri anni, per la ra- gione detta di sopra, non avevo potuto ben fermare. Sebbene le Ferule e le Tapsie sia- no piante sotto ogni rapporto affinissime, pure si vede una notevole differenza nel ri- chiamo de’ loro fiori per gl’insetti. Le prime sono costantemente abitate dalle tre specie di Coleotteri che vi hanno pur vita allo stato di larva, e che vennero descritte dal Genéè con lo stesso nome specifico, Anthaxia ferulae, Lixus ferulae, Clytra (ora Gy- nandrophthatma) ferulae; anche gli Apiarii che vanno a farvi provigione di polline, come Andrene ed Alicii, vi accorrono in abbondanza, sebbene siano ordinariamente specie comuni. Ma, quanto ad insetti che vanno esclusivamente a succhiarne il nettare, vi sono sempre in assai minor numero che sulle Tapsie. Nè debba credersi che ciò dipenda dal perchè là dove vegetano le prime non si trovino tante specie, quante dove son le seconde. Dappoichè, essendomi trovato in campi ne’ quali erano contemporaneamente Ferule e Tapsie, le une e le altre in piena fioritura, ho potuto constatar sempre la indi- cata differenza. In quanto poi all'altra ferulacea dagli ampii ombrelli bianchi, essa è anche di molto meno attraente delle altre due, per modo che quando trovasi in compa- gnia di queste, rimane quasi deserta. Solo quando è in luoghi in cui mancano e Ferule e Tapsie, può divenire il richiamo d’un certo numero d’ insetti. Il risultamento ottenuto dalle ricerche sulle Tapsie ha corrisposto alla mia aspet- tativa, sopratutto per quel che si attiene ad Imenotteri. Non solo ho aggiunto buon nu- mero di specie a quelle che fino allora avevo rinvenute, ma molte fra esse sono nuove, e talune di una straordinaria importanza e che presentano un abito non usuale per la Fauna europea. Superiormente ho indicato che, sebbene la caccia sulle Tapsie avesse costituito il principale obbiettivo del viaggio di cui discorro, non sono poi state trascurate del tutto le ricerche di altra natura. Ora dirò che anche da queste ho ottenuto specie interessanti d’insetti. Nella classe degli Aracnidi qualche specie pure ho aggiunto alle già possedute. Per le altre classi nulla ho avuto da aggiungere. — = PARTE PRIMA Notizie del viassio Le regioni esplorate durante i ventiquattro giorni passati nell'isola, dall’ maggio al 3 giugno, sono state in gran parte quelle stesse già più volte visitate, cioè il Campi- dano di Cagliari, quello di Oristano e le adiacenze di Sassari. Pochi paesi ho visti non ancor conosciuti, come Sinnai e Maracalagonis con l’attiguo stagno, Uta, San Sperate nel Cagliaritano; Solarussa e Donigalla presso Oristano; Paulilatino. Epperò non m’in- tratterrò a riferirne i particolari. Una regione sola è stata per me del tutto nuova, ed ha colmata una delle non poche lacune che tuttavia avverto e che mi propongo un po’ per volta colmare: l’è quella che fa parte del Circondario di Iglesias e che comprende Mon- te Vecchio, Guspini, Gonnos- Fanadiga e Villacidro. Sicchè credo utile trarre dal mio giornale quel che si riferisce a siffatte località ; tanto maggiormente, in quanto da esse ho ottenuto per importanza e rarità più di quel che mi ha dato tutto il rimanente del viaggio. Innanzi di passare a siffatta relazione stimo necessario ripetere ancora una volta quel che già nelle diverse memorie fin qui pubblicate ho in varii rincontri detto assai chiaramente, che cioè il programma prefissomi lè quello di esporre fedelmente il ri- sultamento che dalle proprie indagini ottengo, senza da ciò trarre corollarii di sorta al- cuna; e tanto meno dedurne apprezzamenti d’indole generale intorno alla importanza o meno delle contrade esplorate. La qual ripetizione mi vien suggerita dal vedere come non sia stato ciò da tutti ben compreso '). Era già da molto tempo che avevo desiderio di visitare Monte vecchio, ove è uno de’ principali stabilimenti minerarii della Sardegna, sapendo per precedenti osservazio- ni che tutti i luoghi ne’ quali trovansi simili stabilimenti sono ancora di non dubbia im- portanza pel zoologo. Onde però potervi fare qualche esplorazione, era indispensabile assicurarsi la ospitalità non solo, ma ancora il permesso di accedervi col treno ferro- viario, che è di assoluta proprietà della Società della Miniera. A tal fine scrissi anticipa- tamente al Direttore generale Sig. Alberto Castoldi. La risposta fu quale non me l'aspettavo diversa, conoscendo non pure la sua gentilezza, che la di lui coltura scien. tifica. Trovandomi a Macomer, di ritorno da Sassari, il giorno 26 partii col treno che di là muove alle quattro e mezzo del mattino e mi arrestai alla stazione di San Gavino, presso la quale sta pure la stazione della ferrovia privata di Montevecchio. Si parte alle nove e cinque minuti: si ferma poco in una stazione intermedia detta di Nurax ed alle dieci e venti minuti si giunge alla stazione di Scérèa, ove la ferrovia si arresta. Un piccolo legno mi conduce in alto, alla Janna Serapis, ove sono i diversi fabbricati de- stinati agli uffizii dell’Amministrazione, a residenza del Direttore, all'abitazione degl’im- piegati, all’Ospedale, ecc. Il signor Castoldi mi destinò un quartierino, e per colmo di 1) Nella Relazione delle ricerche fatte in settembre del 1881, parlando dell'Isola di S. Pietro, ove mi trattenni soltanto due ore e mezzo, ho detto che in quel brevissimo tempo non trovai cosa alcuna che avesse meritato di essere menzionata. Ebbene, siffatta affermazione è stata da qualcuno definita proposizione inesatta, anzi erronea !! Lo che vorrebbe dire che io vi trovai cose importanti e ne ho taciuto. - Pere QI cortesia volle che avessi preso parte alla mensa di famiglia, avendo così opportunità di apprezzare non solo i modi gentili della sua signora, ma ancora la di lei estesa coltura, non che il trasporto alle scienze naturali, che infonde altresì ad una carina sua bimba. La stazione di Janna Serapis non ha la medesima importanza per le esplorazioni del Naturalista che quella di Correboi, sia perchè in sito meno elevato, sia perchè più meridionale, sia perchè i boschi che la circondano sono relativamente meno imponenti. Ciò non pertanto la riconobbi per una posizione assai interessante, che avrebbe me- ritato la dimora di alcuni giorni per esplorarne la sottoposta valle e le diverse alture che la dominano, sopratutto il Monte vecchio propriamente detto. Però, sia per non abusare della assai cortese ospitalità, sia perchè io stesso non avevo molto tempo a mia disposizione, non vi rimasi che il resto della giornata di arrivo ed il giorno seguente. Nelle ore pomeridiane del 26 (dall’ una alle sei) mi trattenni in una piccola zona poco distante dallo Stabilimento, rivestita di prato naturale, sul quale si elevano molte Ferule, che nella maggior parte erano tuttavia in fiore, e qua e là qualche Elce non molto annosa. Intorno agli ombrelli delle Ferule eranvi, come d’ordinario , parecchi Imenotteri e Ditteri, di specie piuttosto comuni. Vi fu però una specie d’/chneumon che vedevo per la prima volta, e che, sebbene affine al semirufus, pure ne è ben distinta, sicchè viene qui descritta col nome di / Castoldi. Ne’ prati raccolgo una specie di Ci- cadaria non trovata ne’ viaggi precedenti. Sopra le Elci era abbondante lo Ptinus Aubei, il piccolo Auletes politus. Il giorno 27 esploro altra altura posta alle spalle dello Stabilimento, nella quale in basso crescono abbondanti le Ferule, ed in alto vi ha foltissima boscaglia costituita da Elci e giovani Corbezzoli, frammisti a’ soliti Cisti e Lentischi. Anche qui mi trattengo in preferenza intorno le Ferule, col medesimo risultato del giorno innanzi. Vi fu però un oggetto della massima importanza, che va registrato tra ì più interessanti ottenuti dal- l’attuale viaggio. L’è un singolare Trogus, avente tutto l’aspetto d’insetto estraeuropeo. Esso pel colore e scoltura del corpo simiglia al 7. Zapidator, differendone immensa- mente per diversa colorazione de’ piedi e delle ali. Sui Corbezzoli era frequente il Gra- phopsochus cruciatus. Ne’ prati raccolgo una specie di Bruchus, l’albolineatus, non no- tato da altri come abitante la Sardegna. Rivedo la Chlorops fuscipennis, che dopo l'Isola Piana, ove la discoprii nel 1882, non l’avevo più trovata. Però non vi era punto abbon- dante come nella nominata isoletta. Nel passare da San Gavino a Montevecchio avevo osservato innanzi di giungere alla stazione intermedia di Nurax? varii appezzamenti incolti con veri boschetti di Ta- psie fiorite. Non volevo lasciarle inesplorate. Sicchè la mattina del 28 tornai in ferrovia fino al punto ove è la Pompa dove attingono acqua le macchine, e quindi a piedi re- trocedetti fino alla detta stazione di Nurax:. Il frutto delle esplorazioni fu molto soddi- sfacente; dappoichè vi rinvenni un secondo individuo di un bellissimo Ophzon del tutto nuovo trovato pochi giorni innanzi nelle pianure che stanno tra Porto Torres e Sorso, più, due individui dell’Exochilum circumflerum notevoli per vantaggiosa statura: ed ol- tre a queste, parecchie buone cose raccolsi, delle quali si troverà la notizia nel catalogo che segue. A parte dalle specie che si aggiravano intorno alle Tapsie, era frequente in quel campo la Colletes niveofasciata, la cui presenza in Italia non pare sia stata da alcu- no notata. Era prossimo il mezzo giorno quando fui di ritorno alla stazione di Nuraxi. Di sha qui proseguendo sempre a piedi mi reco al vicino paese Guspini, che raggiungo dopo venti minuti. Tenevo lettere commendatizie pel Sindaco dottor Raimondo Lampis e pel signor Giuseppe Maria Piras. Però, sapendo che un tale teneva una stanza di- sponibile ad uso di alloggio, mi diressi da lui a fin di evitare di dar disturbo ad alcuno. Ma non potetti ottenere l'intento : quell’unica stanza trovavasi occupata. Fu forza quin- di dirigermi al Sindaco, il quale non indugiò a provvedere, conducendomi presso il s0- pralodato Sig. Piras, dal quale mi sono avuta ospitalità cordialissima. Guspini trovasi pure in posizione importante pel zoologo. Nelle basse montagne che lo dominano vi ha boschi di Querce da sughero, vi ha piccole valli con sorgenti di limpida e fredda acqua, vi ha appezzamenti palustri. Una piccola porzione potetti percorrerne nel giorno 29; e senza numerare le cose più o meno buone dirò, che m'interessò moltissimo un picco- lo Longicorne fino allora a me sconosciuto e che pochi han trovato nella Sardegna, il Callimus abdominalis. Nominerò pure un minuto Ieneumonideo del g. Orthocentrus, che è nuovo, sicché l’ ho intitolato Ort. Pirasti. Il giorno trenta passo di buon mattino in vettura da Guspini a Villacidro. Il territo- rio che si percorre, quasi del tutto piano, tranne la parte coltivata nelle prossimità dei paesi, sopratutto tra Gonnos-Fanadiga e Villacidro, è coperto di Cisti e Lentischi per estensioni vastissime, con piccoli tratti di boschi di sugheri nella parte che si avvicina alle montagne. Da poco tempo in qua alcune pezze sono dissodate e messe a vigna, che vi sta molto bene. Villacidro è posta in collina, in posizione ridente, con aria purissima; quin- di è prescelta da molte famiglie di Cagliari per passarvi la stagione più calda. E però vi ha belli caseggiati, sì da offrire un aspetto assai superiore a quello di molti altri paesi a lui eguali od anche un po’ superiori. Questa circostanza però fa sì che quel poco che vi ha disponibile per alloggio viene occupato da’ villeggianti. Sicchè volendo ad ogni costo rimanervi per qualche esplorazione, dovetti accontentarmi di una stanzetta sub - sotterranea. Non debbo tacere però che tanto il dottor Sardo, Vicario del paese, quan- to il prof. Todde dell’ Università di Cagliari, allora ivi dimorante, conosciuta la mia presenza in Villacidro mi offrirono ospitalità, che dovetti ricusare per non offendere la suscettività di chi già mi albergava. Aggiungerò che le cortesie ricevute dal lodato prof. Todde, la cui casa la sera era il convegno di quante famiglie erano ivi a villeggiare, contribuirono a rendere men sofferente la breve dimora fatta in quel paese. Non appena istallatomi, con un saltafossi mi reco ad osservare una sorgente di acqua minerale conosciuta col nome di acqua cotta, che trovasi tra Villacidro e Villasor. Vi giungo dopo un'ora e mezzo di cammino di buon cavallo. Sorge quell’acqua in ter- reno piano e si fa scorrere in canale scavato nella terra e coperto da pagliaja, senza alcun comodo o vasca, fosse anche rustica, per potervisi bagnare. Le si attribuisce la temperatura di 40° R., ma dalla sensazione ricevutane mi sembrò che molto più elevata di questo esser deve la temperatura. Scopo di questa visita non era semplicemente quel- lo di osservare da vicino la detta sorgente di acqua termale, ma di vedere se in essa vi- vesse qualche specie di Termhydrobia; ma nè presso la sorgente, nè lungo il canale che la raccoglie ve ne trovai. Pertanto da’ fiori di ombrellifere che vegetano in gran nu- mero lì intorno potetti raccogliere aleune buone specie di Braconidei. Avendo lungo quel cammino osservato varii campi con Tapsie tuttavia in fiore, il giorno seguente volli rifare la stessa via a piedi; ma in vero nulla d’importante ag- giunsi a quel che già possedevo. Ebbi a notare soltanto ne’ margini dello stradone che e il Chalcochiton holosericeus vi era di una straordinaria abbondanza. Al ritorno percorsi un breve tratto delle sponde del Rio Leni, e con molta soddisfazione trovai per la prima volta una specie della famiglia de’ Perlidei, rappresentata dalla più minuta del genere Isopteryx, qual’ è la /s. apicalis. Alle 6 p. m. col prof. Todde ed altri suoi amici si va ad un di lui podere, ed in un prato ebbi ad osservare la grande abbondanza di due farfalline del genere Rhinosia, la flavella e la formosella. La mattina del 1° giugno la vettura corriera mi porta a San Gavino, ove mi rimetto sulla ferrovia che mi restituisce a Cagliari. TCdCenno sommario del risultamento ottenuto Poichè, per la ragione già esposta, non ho stimato dare un ragguaglio di tutto in- tero il viaggio, credo utile esporre sommariamente quel che di più interessante ne ho ottenuto. Come negli altri viaggi, anche in questo il contingente maggiore è stato in Insetti; anzi questa volta può dirsi quasi contingente esclusivo. Dappoichè, all’ infuori di poche specie di Aracnidi, nulla ho avuto di altre classi. E ciò non perchè le avessimo trascu- rate, ma perchè nulla vi ho trovato che di già non possedessi. Si noterà inoltre una considerevole sproporzione tra i diversi ordini: di che si comprende ben la ragione, quando si tien presente quanto superiormente si è detto. Coleotteri Il numero delle specie di Coleotteri già conosciuti della Sardegna e che noi non per anco abbiamo trovati è ancora assai esteso. Non è quindi gran cosa se in ogri viaggio un certo numero si aggiunga al già posseduto. Ma per la ragione stessa che i Coleotteri sono stati i più ricercati degli altri, riesce di grande importanza quando qual- cuno se ne discopre, che non vi sia stato innanzi rinvenuto. Ed è appunto ciò che possia- mo affermare ancor questa volta. Tra le poche specie raccoltevi nomineremo pria d’ogni altro il Carculionide Dactylorrhinus argentatus, Perr. che non solo non era segnato tra le specie sarde, ma neppure tra quelle dell’Italia intera. Esso, al pari che il Sitones sub- costatus, neppur notato di quell’isola, trovasi presso lo Stagno di Sorso sulle nude e bianche sabbie , delle quali par quasi ripetessero il colorito nel loro manto, siccome si verifica ancora per altri insetti. Alle specie non prima registrate come abitanti la Sar- degna si aggiungono pure il Bothriophorus atomus, il Tychius flavicollis e lo Smicrony® jungermanniae. Infine citeremo come specie da pochi trovata il Callimus abdominalis. Nevrotteri Abbiamo ripetute volte meravigliato che in Sardegna non avessimo mai trovato al- cuna specie di Perlidei, e che solo il Rambur cita quest'isola nella commune Nemura Genei. Ora invece per la prima volta possiam dire che la famiglia de’ Perlidei ha pure un rappresentante in una minuta specie, spettante al genere /sopterix, che riferiamo alla apicalis. Mei gr Imenotteri Da quel che superiormente è stato detto intorno alla natura delle ricerche cui ci siamo in principal modo dedicati nel viaggio del quale si è dato ragguaglio, rilevasi agevolmente che gl’ Imenotteri han dovuto essere i predominanti. E aggiungeremo che più particolarmente l’è in Ieneumonidei che la raccolta è risultata più interessante. Le spe- cie che abbiamo aggiunte a quelle che già possedevamo sono state oltre cinquanta, del- le quali parecchie nuove. E due di queste, un Trogus ed un Ophion, indipendentemente dalla novità, presentano tale abito, che ove non se ne conoscesse la provenienza, si giu- dicherebbero estraeuropee. Parecchie ancora sono da studiare, e taluna dovrà proba- bilmente esser presa a tipo di nuovo genere. Nelle altre famiglie non sono mancate cose importanti, sebbene in molto minor numero. Così, per esempio, tra gli Apiarii vi sono state la Colletes niveoceincta, descritta dal Dours come propria dell'Algeria e delle isole dell'Arcipelago greco; una singolare varietà dell’Andrena bimaculata, ch’ è pur rara nell’ Europa meridionale; l’ Anthophora parietina a peluria di color molto intenso. Alla famiglia de’ Cefidei, che già proporzio- nalmente era assai ben rappresentata, si sono aggiunte altre due specie, il Cephus troglodyta ed il Phylloecus fumipennis. Emitteri Molto poche sono state le specie di quest'ordine aggiunte. In Eterotteri nulla as- solutamente di nuovo. Noteremo soltanto un fatto. Il distinto Emitterologo Puton avea avvertito ') che il Lygaeus gibbicollis da noi discoperto nell’ Isola Piana nel 1882 e de- scritto nella Memoria seconda, era rappresentato dalla forma drachiptera, e che egli ne possedeva anche la forma macroptera, ciò che gli toglieva ogni incertezza sulla validità della specie. Ora posso dire di aver rinvenuta ancora la forma macroptera indicata dal Puton. La sola specie importante aggiunta è il Macro/ophus costalis, cui il Reuter ?) assegna per patria la Corsica, la Spagna e con dubbio la Grecia. Ditteri Anche in questo ordine molte specie abbiamo raccolte che non trovavansi in col- lezione; non possiamo però darne un adeguato ragguaglio, perchè in gran parte spet- tanti a famiglie che richiedono uno studio molto lungo, cui per ora non possiamo con- sacrarci, Sicchè esse vanno ad accrescere il numero già imponente delle indeterminate. Vi è stata nondimeno d’interessante una nuova specie di Cyrtosta. 1) Revue d’' Entomologie, 1884. 2) Hem. Gymmn. Eur. III, p. 446. ; pd fue — RS PARTE SECONDA Elenco delle specie raccolte e che non avevamo rinvenute» ne’ viaggi precedenti. Lo esporre in cadauna relazione le notizie di tutto quel che si è raccolto ed osser- vato non mancherebbe della sua utilità scientifica. E per vero, moltissime specie che figurano come trovate in un solo luogo ed in una determinata stagione, in viaggi po- steriori le abbiam rinvenute in luoghi e tempi diversi. Per modo che dalla riunione di queste relazioni si avrebbe una idea più esatta dell’ habitat di ciascuna specie. Ciò non ostante; per non incorrere in ripetizioni, ci limitiamo a segnare soltanto quelle che non si trovano registrate nelle memorie precedenti; riserbandoci di riunire tutte le notizie ri- sultanti da’ diversi viaggi quando, non potendo più eseguire novelle ricerche, ci oc- cuperemo a pubblicare, ordinato sistematicamente, tutto il materiale raccolto relativo alla Geo-Fauna Sarda. COLEOTTERI Stenolophus teutonus, Sck. var. abdomina- lis, Gen.— Trovato abbondante nelle vicinanze di Cagliari. Masoreus testaceus, Luc.—Ne abbiamo rin- venuto un individuo sotto le pietre in prossimità dello Stagno di Sorso. Stenus ....?—Rinvenuto nelle praterie del- le campagne di Villacidro. Attagenus bifasciatus, Ross.—Raccolto presso la fermata di Caniga nelle vicinanze di Sassari. Bothriophorus atomus, Muls.— Specie non registrata tra i Coleotteri Sardi. Trovata molto abbondante entro la sabbia presso le sponde dello Stagno di Sorso. Anthaxia ferulae, Gen.—Trovata abbondan- tissima sopra i fiori della Ferula nodi- flora, da Macomer a Paulilatno. Aphanisticus . ...?—Non raro nei prati del Campidano di Cagliari. Ochina hederae, Mull. —Trovata abbondante sull’ Edera nelle vicinanze di Sassari. Lasioderma haemorrhoidale, Ill. — Rinye- nuto nelle adiacenze di Uta e San Spe- rate. L’avevamo ancora trovato presso Decimoputzu in aprile 1882. — bicolor, Schauf.— Specie non registrata tra i Coleotteri Sardi, e neppure tra quel- li di tutta Italia. Raccolta presso Guspini. Metoecus paradoxus, Lin.—Raccolto nel Cam- pidano di Cagliari: molto raro. Emenadia flabellata, Fab. — Né abbiamo in- contrato qualche individuo sopra i fiori delle Tapsie presso Guspini. Ochthenomus tenuicollis, Ross. — Raccolto nelle adiacenze di GR reco lo Stagno di Sorso. Anaspis Costae, E mer.—Rinvenutanelle pra- terie presso lo Stabilimento minerario di Montevecchio. 1 Bruchus rufimanus, Boh.—Trovato in diversi luoghi. — albolineatus, Blanch.({avescens, Luc) — Specie non prima rinvenuta in me + L'abbiamo raccolta presso Assemini ed a Montevecchio. Dactylorrhinus argentifer, Mars. (argenta- tus, Perr.).— Specie nuova per la Fau- na Italiana. L'abbiamo rinvenuta vagan- te sulle aride e candide sabbie pressò lo Stagno di Sorso : due soli individui. Sitones subcostatus, A]l.— Specie non notata tra gli abitanti della Sardegna. Trovasi nelle-medesime sabbie,che la specie pre- cedente, e non è rara. Phytonomus nigrirostris, Fab.—Raccolto nel Campidano di Cagliari e nelle adiacenze di Guspini. Smicronyx jungermanniae, Reich.— Spalla non segnata tra i Coleotteri della Sarde- gna. Raccolta nelle sdiacsig uspini: poco frequente. Orchestes rieti v.—Rinvenuto nelle vicinanze di San Sperate: non raro. 224, pesi Tychius capucinus, Boh.—Raccolto nelle pra- terie delle adiacenze dello Stagno di Sor- so: non raro. —. flavicollis, Ste ph. (squamulatus, Gyll.). Specie non registrata tra i Coleotteri Sardi. Trovata nel Campidano di Ca- gliari. — picirostris, Fab. — Raccolto nelle al'ia- cenze di Uta e San Sperate. Ceutorrhynchus spinosus, Goez. (Rorridus, Panz.).— Specie poco diffusa. L’abbia- mo rinvenuta nelle adiacenze di Sola- russa. — terminatus, Herbs.—Raccolto nelle a- diacenze del corso di acqua di Tissi. — rugulosus, Herbs.—Rinvenuto nel Cam- pidano di Cagliari: non molto raro. Poophagus Nasturtii, Germ.— Raccolto pres- so Cagliari e Sassari. Baris nitens, Fab.—Trovato nel Campidano di Cagliari e nelle adiacenze di Guspini e di Sassari. Cailimus abdominalis, Oliv. (decorus, Ge- nè).—Specie abbastanza rara e da pochi trovata in Sardegna. Ne abbiamo rinve- nuti due individui sopra ombrellifere ve- getanti presso un rivolo di acqua nella collina di Guspini. Clytus arcuatus, Lin.—Rinvenuto nelle adia- cenze di Cagliari. Pachnephorus impressus, Rosenh.— Sebbe- ne specie diffusa in molte parti del mez- zogiorno, pure in Sardegna non era stata notata. L'abbiamo rinvenuta non rara nelle adiacenze di San Sperate. Tina populi, Lin.—Ne abbiamo incontrato al- cuni individui sopra i fiori delle Tapsie presso Guspini. Plectroscelis procerula, Rosenh.—Specie non cennata tra gli abitanti della Sardegna. Raccolta nelle adiacenze di Guspini. NEVROTTERI Isoptei yx apicalis, Newm.— Trovata molto abbondante presso le sponde del Rio Leni in vicinanza di Villacidro. CORRODENTI Amphigerontia bifasciata, Latr.—Rinvenuta nelle adiacenze di Guspini, poco fre- quente. Stenopsochus psyllipennis, nob. — Trovato nelle praterie in vicinanza dello Stagno di Sorso. IMENOTTERI Cerceris Ferreri, V. d. Lind.—Raccolta nelle adiacenze di Assemini, intorno le Tapsie. Pompilus nitens, Schm. (micans, Spin. n. Fab.). — Raccolto nel medesimo luogo che la specie precedente. Mutilla parens, A. Cost.!). — Ne abbiamo rinvenuto un individuo errante per le vie delle campagne di Sassari. — quinquemaculata, Cir. (5.-punctata, Oliv.). — Rinvenuta nel Campidano di Cagliari. Eucera subrufa, Lep. — Raccolta nelle adia- cenze di Sassari verso la valle di Locu- lento, ove i maschi erano molto abbon- danti. Cephus troglodyta, Fab. — Rinvenuto nelle campagne di Guspini: poco ‘requente. Phylloecus fumipennis, Evers. — Raccolto presso Simaxis sopra i fiori delle Tapsie. Brachygaster minutus, Oliv. — Trovato in vicinanza dello Stagno di Sorso, e pres- so Guspini. Ichneumon fusorius, Linn.— Ne abbiam po- tuto raccogliere varii individui che ve- nivano aggirandosi intorno i fiori delle Tapsie, tra Sassari e Porto Torres. — sarcitorius, Lin. — Specie molto diffusa; raccolta presso Cagliari, Assemini, Vil- lacidro, Paulilatino. — digrammus, Grav. (al/bosignatus,Wesm.). Anche questa specie è piuttosto l'ffusa: raccolta presso Cagliari, Assemini, Gu- spini, e tra Sassari e Porto Torres. — rufinus, Wesm.(Zelleri, Hlmg.).—Que- sta è anche assai diffusa, ma meno ab- bondante delle due precedenti: *rovata a !) Nella Monografia delle Mutille di Sichal e Radoszkovsky, questa specie da noi descritta già dal 1863 tra le cose della Calabria Ulteriore, è riportata come una delle varietà della M. hottentota. Siccome però non siamo convinti del- la giustezza di tale sinonimia, preferiamo adoperare il nome che esattamente le si applica. I detti Entomologi notano che la macchia frontale di peli bianchi in seguito a cattiva conservazione può scomparire. Or noi possiam dire che nella nostra parerns, i cui individui sono freschissimi e di perfetta conservazione, non vi ha alcuna traccia di tale mac- chia, essendo invece tutta la peluria d’un nero intenso. ATTI — Vol. II, Serie 29—N.0 7. —=.10 = Montevecchio, presso Oristano e tra Sas- sari e Porto Torres. Ichn. proletarius, Wesm.— Raccolto presso Assemini, Simaxis, Paulilatino, Sassari: frequente. — Castoldi, A. Cost.— Sembra non molto frequente: ne abbiamo rinvenuti due soli individui, l’uno a Montevecchio, l’altro presso Guspini. — zonalis, Grav.— Raccolto tra Sassari e Porto Torres ed a Montevecchio. Trogus cyaneipennis, A. Cost. — Sembra e- stremamente raro. Ne abbiamo trovato un individuo solo sopra Montevecchio. Anisobas hostilis, Grav. — Raccolto nelle a- diacenze di Simaxis e tra Sassari e Por- to Torres. Habrocryptus minutorius, F a b.—Raccolto tra Sassari e Porto Torres: poco frequente. Mesostenus cingulatellus, nob. — Raccolto nelle adiacenze di Paulilatino. Phygadeuon flagitator, Ross.—Raccolto con la specie precedente: anche poco abbon- dante. — proximator, nob. — Raccolto tra Sassari e Porto Torres. Mesolejus tricoloripes, nob. — Ne abbiamo un individuo solo, trovato tra Sassari e Porto Torres. Orthocentrus Pirasii, nob.— Trovato abbon- dante a svolazzare in luogo boschivo ed ombroso nelle vicinanze di Guspini. Ophion dichromopterus, nob. — Specie molto rara. Ne abbiamo rinvenuti due indivi- dui, l’uno presso Assemini, l’altro nelle campagne di Guspini. Exochilum circumflexum, Lin.— Ne abbia- mo rinvenuto un maschio ed una femmi- na tra S. Gavino e Guspini. Anomalon posticum, nob.— Ne abbiamo un individuo solo raccolto nelle adiacenze di Assemini. — secernendum, nob. — Rinvenuto nelle adiacenze di Assemini. Limneria ebenina, Grav.— Raccolta nelle a- diacenze di Simaxis. Porizon arthroleucus, nob. — Raccolto sopra Montevecchio: un solo maschio. Pachymerus calcitrator, Grav.— Raccolto presso Simaxis e tra Sassari e Porto Torres. Pimpla glandaria, nob.— Questa specie sem- bra molto diffusa; nel maggio l’abbiam raccolta presso Oristano; ma ne aveva- mo già individui di Alghero ed altri ne abbiam raccolti presso Tempio e Sini- scola nel luglio ultimo. — oculatoria, Fab. var. rudella, nob. — . Ne abbiamo un individuo femmina rac- colto nelle adiacenze di Oristano. Lissonota clypearis, nob. — Raccolta nelle a- diacenze di Guspini: poco frequente. — rufina, nob. — Ne abbiamo rinvenuto un individuo femmina presso Oristano. Colletes niveofasciata, Dours.— Specie non prima conosciuta d’ Italia. Trovata mol- to frequente ne’ campi incolti delle adia- cenze di Guspini. Andrena bimaculata, Kirb. var.— Ne abbia- mo un individuo solo, raccolto sopra Montevecchio. Anthophora parietina, Fab. — Raccolta nelle adiacenze di Oristano. — Siphonura brevicauda, Nees. — Ne abbiamo rinvenuto un individuo maschio presso lo Stagno di Sorso. EMITTERI Lygaeus gibbicollis, A. Cost. (forma macro- ptera).—Raccolto nelle adiacenze di As- semini. Macrolophus costalis, Fieb. — Trovato non raro nelle praterie de’ dintorni di Gu- spini. Oncotylus decolor, Fall. — Rinvenuto nelle adiacenze di San Sperate. Orthocephalus debilis, Reut.—Non raro nei prati del Campidano di Oristano. Serenthia laeta, Fall. — Trovata in praterie di luoghi palustri presso Assemini e Gu- spini. Delphax striatella, Fall. — Raccolta presso Cagliari e Guspini in praterie di luoghi umidi. LEPIDOTTERI Lithosia caniola, Hubn.—Trovata nelle cam- pagne di Paulilatino: poco abbondante. Drepana binaria, Hufn. var.uncinata, Bkh.— Trovatasi presso Zinigas ‘). 1) L'individuo che possediamo ci è stato gentilmente donato dal prof. Cesare Lepori, dell’ Università di Caglia- ri, insieme « qualche individuo della Abrazas pantaria. 2g RS Calophasia platyptera, Esp. — Ne abbiamo raccolto un individuo sopra Montevec- chio. Mamestra brassicae, Lin. — Raccolta nelle adiacenze di Sassari. Tapinostola musculosa, Hubn.—Ne abbiamo rinvenuti due individui nelle campagne di Villacidro. Acidalia ornata, Scop. — Rinvenuta in diver- si luoghi: non rara. — rubiginata, Hufn. — Raccolta nel Cam- pidano di Oristano. Eupithecia pumilata, Hubn.—Raceolta, come la precedente, nel Campidano di Oristano. Abraxas pantaria, Lin. — Trovatasi abbon- dante presso Zinigas. Cochylis straminea, Haw. — Ne abbiamo un individuo solo raccolto nelle campagne di Guspini, Grapholitha tripunctana, Fab.—Ne abbiamo rinvenuto un individuo nelle adiacenze di Sassari. Rhinosia formosella, Hubn.— Trovata molto frequente presso Villacidro, unitamente alla Aavella. Micropteryx completella, Staud.—Specie pro- pria della Sardegna: l’abbiamo trovata molto abbondante nella valle Loculentu presso Sassari, scovata da entro le siepi di Edere. Aciptilia galactodactyla, Hubn.— Ne abbia- mo trovato un individuo a Caniga pres- so Sassari. DITTERI Chrysops marmoratus, Ross. — Trovato non raro nelle campagne di Assemini. Bombylius quadrifarius, Lòw. — Ne abbiamo raccolto un individuo femmina nel Cam- pidano di Cagliari. Cyrtosia pallipes, A. Cost. —Ne abbiamo rin- venuti tre individui presso Cagliari, in- torno a’ fiori delle Tapsie. Leptogaster cylindricus, Lin.—Trovato in di- versi luoghi, sebbene poco abbondante. Syrphus bifasciatus, Fab. — Ne abbiamo rin- venuto un solo individuo, nelle adiacenze di Guspini. Helophilus trivittatus, Fab. — Raccolto pres- so Oristano ed Assemini: non molto raro. Ascia podagrica, Fab. — Raccolta nella valle Loculentu presso Sassari. TISANURI ') Orchesella cincta, Lin.— Trovata abbondante tra le sabbie aride a San Giovanni presso Oristano. Entomobrya multifasciata, Zullb.— Ne ab- biamo trovato un individuo in luogo umi- do presso Oristano. Sminthurus viridis, Lin. — Trovato ne’ prati del Campidano di Cagliari presso Sima- xis: non raro. ARACNIDI Ero tuberculata, Degeer. — Rinvenuta in luogo palustre nelle adiacenze di Gu- spini. Theridion uncinatum, Luc. — Specie non an- cora segnata d’Italia. Ne abbiamo rinve- nuti due individui ne’ dintorni di Guspini in luogo palustre ed altro presso Cagliari. — rusticum, E. Sim.— Raccolto presso Gu- spini nel luogo stesso delle due prece- denti. SPECIE DA AGGIUNGERE ALLE MEMORIE PRECEDENTI Coleotteri Ceutorrhynchidius troglodytes, Fab.— Rac- colto presso Iglesias: maggio. Ceutorrhynchus quadridens, Panz.—Raccol- to nelle campagne di Alghero: maggio. Poophagus Nasturtii, Germ. — Rinvenuto presso Iglesias ed Alghero: maggio. Plectroscelis conducta, Mots. — Specie non registrata tra Coleotteri Sardi; raccolta a Scala di Giocca nel mese di agosto. Lepidotteri Agrotis nyctemera, Boisd. — Raccolta sulle montagne del Gennargento nel mese di luglio. Anophia leucomelas, Lin. (Catephia...? Mem. 2.%) — Raccolta presso Oristano. 1) Le poche specie che qui registriamo ci sono state determinate dal Prof. Parona, che sì è in modo speciale occupato de’ Tisanuri della Sardegna. * —_ a Mamestra sodae, Ramb.—Raccolta presso Al- ghero nel mese di settembre. Amphipyra tragopogonis, Lin.—Parecchi in- dividui entravano di sera entro casa in Fonni: nel mese di agosto. Catocala conjuncta, Esp.(Catocala...? Mem. 3.°). — Rinvenuta tra querce nelle vici- nanze di Milis, in maggio. Toxocampa ephialtes, Hubn.—Raccolta pres- so Orani: agosto. Thalpochares ostrina, Hubn. var. porphy- rina, Ferr. (Thalp...? Mem. 2.°).—Rac- colta ne’ boschi di querce de’ dintorni di Tempio, in giugno. Acidalia circuitaria, Hubn.—Rinvenuta nelle adiacenze di Fonni nel mese di agosto. — virgularia, Hubn.—Raccolta nelle colline di San Lussurgio nel mese di maggio. Penthina fellana, Hubn.—Raccolta a Scala di Giocca nel mese di agosto. Grapholitha fusculana, Zett.—Diffusa per pa- recchie parti dell’isola, meridionali e set- tentrionali. Lyonetia Clerkella, Lin.—Raccolta sulle mon- tagne di Desulo nel mese di luglio. Cnaemidophorus rhododactylus, Fab.—Rac- colto sulle montagne di Desulo nel mese di luglio. Agdistis adactyla, Hubn.— Raccolta nelle a- diacenze di Oristano. Imenotteri Pompilus trivialis, Kl. (Pompilus...? Mem. 2.°)—Rinvenuto presso Cabras in maggio. Lissonota bipartita, nob.— Ne abbiamo rin- venuto un individuo presso San Lussur- gio: maggio. . Ditteri Clytia sejuncta, Rond.— Raccolta nelle adia- cenze di Iglesias nel mese di settembre. Hyalomyza areolaris, Rond.—Rinvenuta sul- le montagne del Limbara nel mese di giugno. Eurina ducalis, A. Cost.— Ne abbiamo un in- dividuo solo raccolto presso Cagliari in aprile 1882. — = PARTE TERZA Descrizione di specie nuove o varietà di sià conosciute. Le diagnosi della maggior parte delle specie nuove essendo state pubblicate col Sunto di questa memoria nel Rendiconto dell’Accademia del dicembre 1885, 1 è da tal epoca che prendon la data. Le poche che compariscono qui per la prima volta, son se- guite dal nod. Ichneumon Castoldii, A. Cost. I. niger, scutello albo, abdomine elongato, segmentis 2-4 parallelis, primo postice 2-4 totis rufis; tibiis anterioribus femoribusque anticis rufo-testaceis; alis subhyalinis, stigmate fusco, tegulis obscure stramineis. — Long. corp. mill. 9. Antenne robuste, un poco più ingrossate nella parte mediana: il primo articolo interamente nero; i rimanenti neri nel dorso, bruno-ferruginosi inferiormente. Capo in- teramente nero. Mandibole picee. Palpi col primo articolo nero; i rimanenti di color bruno tendente al fulvo. Torace nero: lo scutello per intero bianco-gialliccio : in qual- che individuo, di questo colore vi ha soltanto una macchia biloba nella parte posteriore. Addome angusto, con gli articoli secondo a quarto quasi di eguale ampiezza, finamente e stivatamente puntinato: la parte posteriore o larga del primo anello ed i tre anelli se- guenti per intero rossi: il resto nero. Piedi neri: i quattro anteriori con la estremità de’ femori, le tibie e i tarsi rosso-testacei; i due posteriori con la sola base delle tibie di questo colore. Ali leggermente ombrate ; le vene, lo stigma e la tegola, neri. Osservazione. — Molto affine l è questo Ieneumone al semirufus, Grav.Però, tanto il primo descrittore Gravenorst, quanto il Wesmael sono di accordo nel dire che in esso le orbite interne nel maschio sono bianche, nè parlano di alcuna variazione a tal riguardo. Invece, noi ne abbiamo quattro individui identici a capo interamente nero. Forse si potrà in seguito constatare se debbasi considerare come varietà; ma fino che non venga tale convincimento, stimiamo preferibile distinguerlo con nome proprio. L’abbiamo intitolato al sig. Alberto Castoldi, Direttore dello Stabilimento Mine- rario di Montevecchio, alla cui ospitalità dobbiamo il rinvenimento di parecchie cose importanti, tra quali quella or descritta. Ichneumon digrammus, Grav. (9) Gl’ individui da noi raccolti sono tutti femmine, le quali non si potrebbero ricono - scere nella descrizione della specie fatta da Gravenorst sopra individui maschi. Dap- poichè, indipendentemente dall’anello bianco delle antenne, che è un carattere sessuale facile a verificarsi, le femmine differiscono da’ maschi per avere il dorso del settimo anel- lo addominale, bianco ; per modo che esse non si cercherebbero neppure nella sezione terza, nella quale è riposto il digrammus maschio a causa dell’ addome interamente nero. Wesmael ha descritta esattamente la femmina. Loft — Ichneumon rufinus, Wesm. In tutti gl’ individui raccolti in Sardegna, che son maschi, osservasi un antagoni- smo in quanto al dominio del melanismo tra i piedi e l’addome. 1 piedi sono quasi in- teramente neri come nella var. 2 del Wesmael; rimanendo solo di color rossiccio pal lido la faccia anteriore de’ femori e delle tibie degli anteriori e medii. Nell’addome, per lo contrario, il nero negli anelli 2-6 è assai limitato, per modo che i detti anelli possono dirsi rossi con una macchia nera nel mezzo della base. Ed anche questa macchia basi- lare è talvolta tanto impicciolita, che ove non si trovassero tali individui associati ad altri tipici, si esiterebbe a definirli. Noteremo inoltre, che alle parti bianche segnate da Wesmael bisogna aggiungere due macchie su’ margini del clipeo, formanti continua- zione con le strisce orbitali. Ichn. sarcitorius, Lin. Var. a. Diverso dal tipo per il secondo anello addominale nella base nero, come il terzo. Citalta da Wesmael. Var. db. Differisce non solo per il secondo anello addominale nero alla base, come nella var. precedente; ma ancora pe’ piedi neri con le tibie (meno 1’ estremità delle po- steriori) ed una parte della faccia interna de’ femori anteriori di color ferruginoso oscu- ro; per le ali assai più oscure. Non citata da Wesmael. Ichneumon fusorius, Lin. Di questa bella specie d’ Ieneumonidei, la più grande delle indigene, molti indivi- dui abbiam potuto raccogliere. Paragonatili con taluni che sono nella collezione euro- pea e provenienti dalla Germania, troviamo che vi ha differenza notevole nella intensità della tinta delle ali, chè in quelli di Sardegna sono quasi nere, mentre negli altri sono assai meno oscure. Trogus cyaneipennis, A. Cost. T. corpore toto nigro-violascente; antennis pedibusque nigris, tibiis anticis antice testaceis, abdomine uti in Trogo lapidatore sculpto. — Long. mill. 16. Antenne mediocremente robuste, setacee. Capo stivatamente punteggiato : la parte mediana della faccia un poco elevata per lo lungo nel mezzo e limitata ne’ lati da deli- cato solco. Clipeo convesso nel mezzo, spianato ne’ lati, leggermente arcuato-smargi- nato in avanti. Labbro superiore grande, semicircolare. Mesotorace assai finamente pun- tinato. Scutello elevato in cono ottuso. Dorso del metatorace rugoso, con due carene mediane parallele e due oblique (una per cadaun lato). Addome ovato-oblungo, depres- so; gli anelli secondo, terzo, quarto e quinto larghi una volta e mezzo la propria lun- ghezza, separati da incisure profonde; finamente per lo lungo striolato-rugoso : il primo con due carene longitudinali, il secondo e terzo con gli angoli posteriori ispessiti, ri- tondati. Tutto il corpo ha color nero cangiante in violaceo. Antenne e piedi neri; le ti- bie de’ due piedi d’avanti testacee nella faccia anteriore. Ali nero-violacee. =" Osservazione.—Pel colore e scultura del corpo simiglia molto al Tr. lapidator, Fab. Grav. Ne differisce però notabilmente pel colorito de’ piedi e delle ali; essendo in quello i piedi rossi e le ali incolori. Mesostenus cingulatellus , A. Cost. M. niger, orbitis anticis linearibus, scutelli utroque margine laterali ac tarsorum posticorum articulis tertio et quarto albis: abdominis crebre punctulati et subtiliter ci- nereo pubescentis segmentis 2° basi, 2-5 in margine postico fulvo-ferrugineis; femori- bus fere totis et tibiis anticis obscure rufis: alis hyalinis, venis nigris, stigmate obscu- re ferrugineo. — Long. mill. 6 ’/,. Antenne poco men lunghe del corpo, proporzionalmente robuste, rivestite di pube- scenza ispida. Capo stivatamente e grossamente punteggiato, nero: le orbite interne nella metà inferiore assai angustamente bianche. Torace nero: scutello incavato, nero; i mar- gini laterali elevati bianchi: il metatorace irregolarmente rugoso , senza aje ben circo- scritte. Addome delicato, leggermente compresso nella metà posteriore, liscio, nero, splendente, con la base del secondo anello ed il margine posteriore degli anelli 2 a 5 ful- vo-rossicci. Piedi di color rosso-ferruginoso: tutte le anche e trocanteri, e le tibie poste- riori, neri: i due tarsi posteriori neri col terzo e quarto articolo bianchi. Ali trasparenti, incolori: stigma e vene neri, tegola bianca, i Phygadeuon flagitator, Ross. Tra i pochi individui raccolti ve n’ è qualcuno in cui i quattro piedi anteriori sono rossi, con i trocanteri ed il dorso de’ femori neri; i due posteriori neri con l’ ànca e la prima metà de’ femori e delle tibie nera; gli articoli 2 a 4 delle antenne sono ferrugi- nosi solo nella faccia inferiore. L’addome ha i due primi articoli per intero ed il terzo in gran parte rossi. In qualche altro le antenne e addome sono come nel precedente: i piedi sono rossi e solo i due posteriori hanno l’ estremità de’ femori e delle tibie e i tarsi, neri. Phygadeuon proximator, A. Cost. Ph. niger, orbitis anticis, maculis duabus clypei, labro, antennarum scapo infra, scutello, linea postscutelli alarumque radice et tegula albis; abdominis segmentis primo postice, secundo, tertio et quarto totis fulvo-rufis; pedibus rufis coxis, trochanteribus et posticorum apice tibiarum tarsisque nigris; alis hyalinis venis fuscis, stigmate nigro angulo interno pallido X .— Long. mill. 7. Maschio. Antenne robuste, un po’ ingrossate nella parte mediana, nere; il primo articolo con una striscia bianca nella faccia inferiore. Capo nero, con una linea bianca lungo la metà inferiore delle orbite interne. Clipeo con due macchie bianche nel mezzo. Labbro superiore bianco. Mandibole picee con una macchia bianca presso la base. Palpi bruni. Torace nero; scutello ed una linea sul dietroscutello, bianchi. Metatorace bispino- so. Addome impercettibilmente puntinato, splendente: la parte dilatata del primo anello ed i tre anelli seguenti rossi: il primo con un solco mediano ed altro più ampio da ca- daun lato. Il resto dell'addome nero. Piedi rossi ; le ànche, i trocanteri, la base de’ quat- tro femori anteriori, la estremità de’ femori e delle tibie ed i tarsi de’ due piedi poste- ME riori, neri. Ali incolori: vene e stigma neri, quest’ultimo bianchiccio nell’angolo interno; radice e tegole bianche. Affine al Phyg. jucundus, Grav. Mesolejus tricoloripes, A. Cost. M. niger, nitidus, facie flava (flavedine superius in medio incisa); ore, antennarum scapo infra, vitta humerali, puncto ante alas, linea infra alas, macula scutelli et postscu- telli alarumque tegula et radice albis ; pedibus fulvis, coxis trochanteribusque anterio- ribus albis, posticorum dimidio apicali tibiarum tarsisque nigris: alis hyalinis venis nigris, stigmate fusco-testaceo, angulo interno pallido. — Long. mill. 7. Antenne filiformi, poco men lunghe del corpo, pubescenti, nere; il primo articolo inferiormente giallo. Capo nero; faccia gialla, matta; il giallo ne’ due quinti superiori intaccato da delicata linea verticale nera. Clipeo trasversale, largamente ritondato in a- vanti, liscio, bianco, splendente. Mandibole bianche con la estremità rosso-picea. Palpi bianchi. Torace nero; margini laterali del mesonoto, una linea sotto la inserzione delle ali, una macchia nella posterior parte dello scutello, altra piccola sul dietroscutello, bianchi. Mesotorace convessamente declive, finamente rugoso-coriaceo; l’aja supero- mediana lunga più che il doppio della propria larghezza; la postero-mediana quasi quadrata. Addome nel dorso nero : faccia ventrale membranosa bianco-gialliccia. Piedi: i quattro anteriori di color fulvo pallido, le ànche e i trocanteri bianchi: i due posterio- ri con le ànche ed i femori fulvi, i trocanteri pallidi; le tibie bianche nella metà basila- re, nere nell’altra; spine terminali bianche. Tarsi neri. Ali trasparenti, incolori: stigma e vene neri; radice e tegola bianche. Osservazione.— Consultando |’ interessante opera dell’ Holm gren intorno a’ Tri- fonidei ‘), trovasi che la presente specie entra nella sezione II, divisione I, e che pel cli- peo ampiamente ritondato in avanti si appartiene al piccolo gruppo de’ Mes. transfuga e stipator. Da ambedue queste specie però differisce per molteplici caratteri di colorito e per la scoltura del metatorace. Orthocentrus Pirasii, A. Cost. O. niger, nitidus, facie tota oreque, antennarum scapo (dorso excepto) pedibusque antertoribus totis albis; pedibus posticis fulvo-rufis tarsis apice fuscescentibus; abdomi- nis segmenlis singulis margine tenui postico fulvo; alis hyalinis, venis nigris, stigmate livido; radice, squama punctoque ante hanc albis. — Long. mill. 4. Maschio. Antenne lunghe quanto i tre quarti del corpo 0 poco più: filiformi, pube- scenti; il terzo articolo cilindraceo, lungo tre volte il proprio diametro ; il primo articolo nero nel dorso, bianco inferiormente e ne” lati; gli articoli rimanenti bruno-nerastri su- periormente, di color testaceo pallido al di sotto. Capo: faccia mediocremente convessa, con la linea mediana longitudinale un po’ depressa (fin sotto la inserzione delle anten- ne); bianco, colore che ne’ due lati si avanza in punta lungo le orbite interne; clipeo, gote, mandibole (meno Vl’estremità) e palpi, bianchi; il resto nero, splendente. Torace fina- mente punteggiato, nero, splendente; una macchia bianca innanzi le tegole alari. Scu- 1) Monographia Tryphonidum Sueciae. sue [PE tello molto convesso, più splendente del resto; le aree mediane e laterali lisce, con qual- che delicata ruga trasversale visibile a forte ingrandimento; le metapleure convesse, li- sce, molto splendenti. Addome lungo quanto il capo e torace insieme, a superficie finis- simamente rugosa, poco splendente; il primo segmento con due carene longitudinali dorsali parallele e non interrotte; nero, col margine posteriore degli anelli (talvolta sol- tanto del secondo e del terzo) fulvo-ferruginoso: i primi cinque anelli ventrali mem- branosi, bianchicci. Piedi: i quattro anteriori interamente bianchi; i due posteriori fulvi, con la estremità degli articoli de’ tarsi nerastra. Ali trasparenti, incolori; vene nere; stigma meno alto della lunghezza del nervo radiale interno, bruno livido ; radice e tegola bianche: l’areola ben sviluppata, pentagona, chiusa. Osservazione. — Tra le cinquantacinque specie riportate dall’ Holmgren, forse quella con cui può avere maggior affinità questa da noi or descritta è l’Ort. corrugatus: però nelle specialità vi si trovano differenze notevoli. Il sig. Kriechbaumer, cui l’abbiamo comunicato, e che per molte specie ci è stato generoso di notizie ed osservazioni, ne ha fatto sapere che questa stessa trovasi nella collezione di Hartig sotto il nome di a/bicornzs, che però rimase inedito ; nome che del resto avremmo ben volentieri adottato se |’ insetto realmente avesse antenne del tutto bianche. Invece abbiam voluto col nome specifico ricordare l’ottimo amico Giu- seppe Maria Piras, alla cui cortese ospitalità in Guspini dobbiamo il rinvenimento di questa nuova specie. Ophion dichromopterus, A. Cost. O. niger, antennarum flagello, mesonoto, scutello, abdominis segmentis primis tri- bus pedibusque obscure rufis ; alis saturate fusco-violascentibus, costa usque ad stigma tegulaque aurantiacis; metanoto scabro, subreticulato-rugoso. 9. — Long. mill. 14. 2 Antenne robuste, di color rosso-ferruginoso oscuro. Capo un poco più largo del torace; faccia e clipeo elevati ottusamente nel mezzo: di color nero splendente; così pure tutte le parti boccali. Torace superiormente convesso, splendente; il dorso del me- sotorace, lo scutello ed una macchia sotto la inserzione delle ali, rosso-ferruginosi. Me- tatorace interamente nero, scabro, a rughe irregolari e molto stivate. Addome con i due primi anelli ed i tre quinti del terzo, rosso-ferruginosi, il resto nero; la trivella corta, non raggiunge il margine posteriore del settimo anello. Piedi rosso-ferruginosi : le ànche e ì trocanteri neri. Ali di color intensamente violaceo : la costa, fino allo stigma, rosso- aranciata, la radice e la tegola rosso-ferruginose: una piccola area trasparente lungo la seconda vena trasverso-discoidale. Piedi rosso-ferruginosi; le ànche, la base de’ trocan- teri, e la estremità de’ tarsi posteriori, neri. Anomalon secernendum, A. Cost. A. nigrum, capite thoraceque subtiliter cinereo puberulis, facie clypeoque flavis,flave- dine in medio ad antennarum basini et utrinque in orbitas ascendente; antennarum scapo introrsum, mandibulis margine antico et ante apicem palpisque flavidis; abdominis segmentis primis quinque rufis (1° basi, 2° dorso nigris); pedibus anterioribus flavo- fulvis, coxis et trochanterum dorso nigris; posticis femoribus rufis basi apiceque ni- gris, tibiis flavidis apice cum tarsis fuscis; alis subhyalinis costa, radice tegulaque ATTI — Vol. II, Ser. 20—N.° 7. 3 = ia flavis, stigmate pallide testaceo; antennis validiusculis, abdominis segmenta prima quin- que longitudine aequantibus. X.— Long. mill. 18. Antenne non molto gracili, non più lunghe de’ primi cinque anelli addominali, nere; il primo articolo in parte bianco nella faccia interna; gli altri, a cominciare dal quarto, inferiormente ferruginosi. Capo un poco più angusto del torace, nero; fronte e vertice stivatamente e grossolanamente punteggiati e scabri; faccia e clipeo gialli; il giallo delia faccia superiormente nel mezzo prolungasi ottusamente sino alla inserzione delle antenne, ne’ lati si avanza lungo le orbite fino a’ tre quarti della loro altezza. Die- tro gli occhi e nella metà superiore vi ha una macchia ferruginosa. Mandibole nere col margine anteriore e l’estremità gialli. Palpi gialli. Torace nero, finamente punteggiato, con brevissima e corta pubescenza cenerina: il metatorace rugoso e con delicato solco longitudinale mediano. Addome molto compresso, con i primi cinque anelli rossi, ad eccezione della base del primo ed il dorso del secondo, che sono neri come i rimanenti anelli. Piedi: i due anteriori giallo-pallidi, co’ femori tendenti al fulvo; la base delle ànche e parte de’ trocanteri, neri: i due medii simili agli anteriori, ma con le anche, i trocanteri e la estremità de’ tarsi, neri: i due posteriori con le ànche, i trocan- teri, la base e la estremità de’ femori, la estremità delle tibie e degli articoli de’ tarsi, neri; il mezzo de’ femori rossiccio, il resto delle tibie e de’ tarsi, giallo-pallido. Ali legger- mente colorate; le vene brune; lo siigma testaceo pallido; la radice e la tegola bianche. Osservazione.—Questo Anomalon è molto affine al carinatum, Brisc.'). Avendo però potuto farne il diretto confronto con un individuo tipico di questa specie gentilmente comunicatoci dal sig. Kriechbaumer, abbiam rilevato differirne organicamente per le antenne, che nel carznatum sono assai gracili e più lunghe del corpo, e per diversa scul- tura del metatorace. In quanto poi a colori, nel carinatum: 1.° il giallo della faccia su- periormente sì eleva fino alla base delle antenne ed è troncato, solo lateralmente pro- lungandosi un poco lungo le orbite; 2. le orbite esterne sono gialle nella metà inferio- re; 3.° le mandibole sono gialle con la estremità nera; 4.° ne’ quattro piedi anteriori le anche e i trocanteri sono bianchi con la sola base delle prime nera; ne’ due posteriori i femori e i tarsi sono interamente rossicci. Anomalon posticum, A. Cost. A. testaceo-rufescens, facie tota, cum clypeo oreque, antennarumque scapo infra flavis; area circumocellari, pronoti vitta media antica, metanoti area dorsali, pectore medio abdominisque segmentis ultimis tribus superius nigris ; pedibus anterioribus te- staceis, anterius pallidis, posticis obscure testaceis, trochanteribus dorso, femorum apice , tibiis (basi excepta) tarsisque nigro-fuscis; alis hyalinis, costa, radice tegulaque pallide flavis, stigmate stramineo, venis fuscis; terebra sat exerta. — Long. mill. 16. Femina. Antenne delicate, lunghe quanto la metà del corpo, testacee: il primo ar- ticolo inferiormente giallo. Capo: faccia fin sotto la inserzione delle antenne, clipeo, gote, mandibole (meno la estremità), palpi, di color giallo pallido; il giallo della faccia superiormente prolungato lungo le orbite interne fino a’ tre quarti della loro altezza: l’area ocellare nera: il vertice e tutta la parte laterale posteriore dell’occipite testaceo- rossicci. Torace testaceo-rossiccio: la metà anteriore del dorso del mesotorace con una i) Brischke— Zehneumoniden der Provinz West-und Ost-Preussen, 1. Fors., p. 29. MERA: LOD striscia mediana nerastra e i due lati bianchicci. Scutello giallo-pallido. Area dorsale del metatorace nera: petto nero, con una striscia mediana longitudinale, che abbraccia un solco delicato ma ben marcato, rossiccia: dorso del metatorace con un solco mediano e con rughe formanti una rete irregolare. Addome gracile, lungo due volte e mezzo il capo e torace insieme, rosso-testaceo; il dorso del secondo articolo nero: la metà su- periore degli anelli 7 a 9 nerastra. La trivella supera d’ una metà il margine posterio- re degli ultimi anelli. Piedi: i quattro anteriori testacei, con la faccia anteriore giallo- pallida ; i due posteriori con le ànche, i femori (meno la estremità) e la base de’ tarsi rosso-testacei; la base delle tibie giallo-pallida, il resto nerastro. Ali leggermente mela- cee: lo stigma testaceo chiaro; radice e tegole bianchicce. Porizon arthroleucus, A. Cost. P. niger, orbitis anticis linearibus albidis; labro mandibulisque fulvis, pedibus an- ticis fulvis, coris et trochanteribus nigris; mediis trochantere secundo, geniculis tarsis- que parlim albidis; posticis tibiarum annulo pone basim (eatus valde ampliato) et tar- sorum articulis duobus primis (apice excepto) albis ; alis vitreis, venis stigmateque ni- gris, radice et tegula albis. *. — Long. mill. 7. Antenne delicate, nere. Capo assai finamente puntinato, nero ; le orbite anteriori assai angustamente bianchiece. Faccia e clipeo elevati ottusamente nel mezzo. Labbro superiore e mandibole di color fulvo sporco. Torace interamente nero; il dorso del me- tatorace stivatamente ed egualmente puntinato : le due carene mediane due volte ango- lose e quasi congiunte da una ruga trasversale alla metà dell’altezza : le laterali diritte, superiormente divise in due rami, de’ quali l’ interno raggiunge la rispettiva carena me- diana. Addome nero; la faccia ventrale degli anelli secondo e terzo membranosa, bian- chiccia. Piedi: i due anteriori fulvi con l’ànca e la base del primo trocantere, neri; i medii neri, l’estremità del secondo trocantere, la base e la estremità de’ femori, la base delle tibie ed il primo articolo de’ tarsi, bianchi: i due posteriori con il secondo trocan- tere, l’estremità de’ femori, un anello nelle tibie e i due primi articoli de’ tarsi (meno la estremità) bianchi; l anello delle tibie nella faccia esterna e posteriore si estende per buona parte della lunghezza. Ali trasparenti, stigma nero; vene pallide con qualche piccolo tratto nero ; costa, radice e tegola bianche. Lissonota bipartita, nob. dg L. capite thoraceque perparum nitidis, immaculatis; abdomine rufo, laevi, nitido; segmento primo a basi ad quartum posticum in medio elevato, canaliculato, nigro; pedi- bus saturate rufis, coxis et trochanteribus omnibus, et posticorum summo apice femo- rum, libiis tarsisque nigris ; alis subfuscescenti- hyalinis, venis stigmateque nigris, radi» ce et tegula maculaque minuta sub earum insertione albis.— Long. mill. 8. Antenne... (mancano). Capo con tutte le parti boccali interamente nero, matto, finamente puntinato. Torace simile al capo; l area supero-mediana del metatorace è molto angusta e fiancheggiata da linee poco elevate. Addome: il primo segmento pei primi tre quarti della lunghezza ha superficie assai finamente coriacea, è elevato nel mezzo e con solco delicato mediano ; nero, mediocremente splendente. Il quarto poste- * SAR riore del detto primo anello e tutti i rimanenti sono rossi, lisci, splendenti. Il primo segmento è lungo due volte la propria larghezza, leggermente ristretto verso la base ; il secondo ed il terzo sono poco più lunghi che larghi; il quarto quadrato. Piedi: dei due anteriori esistono soltanto le ànche e i trocanteri, che sono neri; i medii hanno le anche e i trocanteri neri, i femori rossi, le tibie e i tarsi d’un rosso più pallido; i due posteriori hanno le ànche e i trocanteri neri; i femori di color rosso con la estremità nera, le tibie e i tarsi di color nerastro. La areola alare è indistintamente picciuolata, quasi triangolare. Lissonota bistrigata, Holmg. sg L'individuo maschio che abbiamo di Sardegna differisce dalla femina descritta da Holmgren ‘): 1.° per la faccia ornata di due linee longitudinali parallele gialle; 2.° il clipeo per intero, la metà basilare delle mandibole ed i palpi giallo-pallidi; 3.° il secondo e terzo segmenti addominali hanno da ciascun lato del margine po- steriore una macchia giallo-fulva. Il primo segmento addominale ha un solco che si estende per tuita la lunghezza, un poco ristretto verso il mezzo. Lissonota sternalis, nob. (Liss. pectoralis. A. Cost. Mem. 4°, p. 26) (n. Grav.). Questa specie da noi descritta nella memoria quarta col nome di pectoralis è affine alla L. variabilis di Holmgren: ne è diversa: 1.° per l’areola distintamente picciuolata; 2.° pel primo segmento addominale non striato per lo lungo; 3. per le antenne un pochino più lunghe del corpo; 4. per diversità di colorito nel torace ed un poco anche nel capo, cioè: a. Le orbite frontali sono per intero giallo-pallide e si prolungano fino al vertice ripiegando ancora un poco sull’occipite. b. Il dorso del mesotorace è rosso-fosco con una striscia mediana nera: i fianchi ed il petto interamente rossi, con una striscia ondulata gialliccia su cadaun lato del petto medio. c. Nel dietroscutello vi è una linea trasversale gialla. Dalla L. pectoralis di Grav. differisce pel colore del dorso del torace. Lissonota clypearis, nob. Q L. nigra; clypeo inferius fulvo; orbitis frontalibus angustis et in medio subin- terruptis, mandibulis (apice excepto), palpis, mesonoti lateribus ante alas lineolaque infra alas albis; abdominis segmenti primi parte postica, et segmentis 2-4 totis (in dorso infuscatis) castaneo-rufis; pedibus rufis, posteriorum tarsis fusco-nigris ; alis hyalinis venis migris, stigmate livido, radice et tegula albis, areola indistinete petiolata; terebra abdomine longiore.— Long. corp. mill. 7 !/,, terebrae 9. Antenne poco men lunghe del corpo, interamente nere. Capo assai finamente pun- 1) Monographia Pimplariarum Sueciae, pag. 54. AL: tinato, nero; orbite frontali bianche assai anguste ed interrotte verso il mezzo; faccia rivestita di corta e fina pubescenza, che a certa luce ha splendore di seta cenerina. Cli- peo convesso, puntinato come il capo, alla base nero, inferiormente fulvo-ferruginoso. Mandibole bianchicce con l’estremità picea. Palpi bianchi. Torace finamente puntinato- coriaceo: il mesotorace con una macchia bianca allungato-triangolare su cadaun lato, corrispondente innanzi la inserzione delle ali. Il dorso del metatorace con l’area supero- mediana indistinta, con un soleo mediano poco profondo. Addome delicato, a lati quasi paralleli: il primo segmento lungo una volta e mezzo la propria larghezza posteriore, leggermente ristretto da dietro in avanti, quasi piano e senza alcuna linea elevata; il secondo ed il terzo un po’ più lunghi che larghi; il quarto quadrato; gli altri trasversali. I primi quattro segmenti sono di color rosso-castagnino; il primo con l’intero disco ne- ro; i due seguenti co’ margini laterali e qualche macchia indeterminata discoidale nera, il quarto col margine posteriore nero: i segmenti seguenti neri. Piedi interamente rossi; solo i tarsi medii e posteri nerastri. Ali incolori, le vene nere, lo stigma livido, la radice e la tegola bianche. Lissonota rufina, nob. L.rufa, antennis et capite nigris, orbitis frontalibus angustis, clypeo, mandibulis (apice excepto), palpis, coxis anterioribus, trochantèribus anticis maculaque pleurali ante coxas posticas albis: abdominis segmentis 1-4 macula dorsali triangulari nigra; alis hyalinis, venis fuscis, stigmate pallido, radice et tegula albis; terebra corporis longitu- dine.— Long. corp. mill. 6 ‘/1. Antenne lunghe quasi quanto il corpo, nere. Capo nero: le orbite frontali assai an- guste, il clipeo, le mandibole (ad eccezione della estremità) e i palpi, bianchi. Faccia con ottusa carena mediana fulva ; le due aje comprese tra questa carena e le orbite, ce- sellate da strie raggianti; le guance anche con strie oblique parallele. Torace finissima- mente coriaceo; il metatorace con due delicate carene che circoscrivono un angusto sol- co, che tien luogo di area supero-mediana: tutto di color rosso; una macchia allungata triangolare ne’ lati del mesotorace innanzi la inserzione delle ali, gli angoli della base dello scutello, una macchia nelle pleure medie e posteriori innanzi |’ articolazione delle rispettive anche, pallidi; le carene del metatorace nere. Addome a lati quasi paralleli, finissimamente puntinato; il primo segmento lungo una volta e mezzo la propria lar- ghezza posteriore, senza alcuna linea rilevata: il secondo poco più lungo che largo, il terzo quadrato: i tre primi con una impressione trasversale innanzi il margine posterio- re: del colore del torace, i primi quattro segmenti con una macchia nel mezzo, quasi triangolare, nera. Trivella lunga esattamente quanto l’intero corpo. Piedi rossi: le ànche e i trocanteri de’ quattro anteriori ed una macchia esterna nelle anche posteriori, bian- chi. Ali perfettamente incolori, le vene oscure, lo stigma pallido, la radice e la tegola bianche. Pimpla glandaria, nob. P. nigra, abdominis segmentis 2-5 rufis, margine postico nigro; pedibus rufis, coxis et tarsorum posticorum apice articulorum mnigris; alis flavescenti-hyalinis, stigmate nigro summa basi albo, radice testacea, tegula nigra, areola trapezina: terebra vix dimidii abdominis longitudine; metathorace subtiliter subreticulato-rugoso; area su- =.= pero-mediana utrinque costis cincla; spiraculis circularibus; unguiculis tarsorum loba- tis— Long. mill. 7, ter. 2. Antenne lunghe quanto i se’ settimi del corpo; nel dorso nerastre, inferiormente ferruginose. Capo nero: faccia minutamente punteggiata, convessa nel mezzo, depres- sa ne’ lati: fronte liscia, splendente, longitudinalmente impressa tra gli ocelli e le orbite. Palpi bruno-fulvi. Torace nero: dorso del mesotorace con punti fini e separati, mediocre- mente splendente; il metatorace con rughe fine formanti un reticolo minuto ed irregola- re. Sul dorso ha due carene ben distinte che chiudono l’area supero-mediana, la quale rimane aperta soltanto posteriormente. Addome proporzionalmente robusto, finamente punteggiato: il primo segmento con due carene longitudinali; i segmenti dal secondo al quinto con impressione trasversale innanzi il margine posteriore: rossi, con delicato pro- filo nero sul margine posteriore; i rimanenti segmenti neri. Piedi rossi, ànche nere: esiremità di iutti gli articoli de’ tarsi posteriori, nerastra. Ali leggermente ombrate: stigma bruno, radice testacea, tegola picea: l’areola- pentagonale ; la vena trasvero-anale piegata al di sotto della metà. Trivella lunga metà dell'addome. Osservazione.—Secondo la distribuzione sistematica delle specie stabilita da Holm- gren nella citata Monografia, questa Pimpla appartiene al gruppo della stercorator. Ma con nessuna delle specie conviene, siccome non abbiam potuto riferirla ad alcuna di quelle descritte da Gravenorst. Pimpla oculatoria, Fab. var. rubella, nob. P. gracilis, pallide rubra, orbitis frontalibus, clypeo, ore, linea ante alas maculaque sub alis albidis; abdominis segmentis singulis postice nigro marginatis ; pedibus ante- rioribus pallide fulvis, coris et trochanteribus albidis; posticis pallide rufis, coris pallido signatis, tibiarum annulo angusto incompleto prope basim apiceque, nec non apice ar- ticulorum tarsorum fuscis: terebra dimidiam abdominis longitudinem aequante.—Long. mill. 6. Riteniamo provvisoriamente come varietà della oculatoria una Pimpla, di cui pos- sediamo un individuo solo, sicchè non possiamo giudicare della costanza de” caratteri, che certamente ha molta affinità con la P. oculatoria, differendone per minore sviluppo di melanismo; sicchè il torace rimane interamente rosso e l’addome ha soltanto il mar- gine posteriore de’ segmenti nero. Anche la statura del corpo è molto più piccola e più gracile della ocu/atoria, a giudicarne da un individuo che di questa abbiamo nella col- lezione europea, anche femmina, proveniente dall’Austria. Qualora altri individui venis- sero a dimostrare la costanza de’ caratteri che distinguono quella che qui abbiamo in- dicata, certamente che essa dovrebbe esser considerata come specie distinta, per la quale potrebbe essere adottato lo stesso appellativo rubella. Pimpla turionellae, Lin. var. Aùdomine rufo-castaneo, segmento tantum primo nigro; annulo pallido ante basim libiarum anteriorum bene explicato. Il tipo di questa specie, che avevamo trovato altra volta nell’ isola ') ha 1’ addome 1) Memoria seconda. N; SR interamente nero. Gravenorst menziona una varietà co’ margini de’ segmenti di color castagnino 0 testaceo. Noi ne abbiamo rinvenuti due indivicui con l addome intera- mente castagnino, ad eccezione del solo primo segmento, che è nero. Pimpla cingulatella, A. Cost. (Mem. 4°, p. 25). Avendo raccolti molti altri individui di questa specie, abbiam potuto riconoscere che negl’ individui a colori ben pronunziati, e che in conseguenza si possono considera- re come tipici, le tibie de’ due piedi posteriori hanno l’estremità ed un anello presso la - base, incompleto , neri: i tarsi degli stessi piedi sono pallidi con la estremità di ciascun articolo nera. Il ventre ha in ciascun anello due macchie nere, una per lato della metà anteriore. La trivelta talvolta eguaglia od anche supera un poco la lunghezza deil’ addo- me. La frase diagnostica quindi va così modificata: P. gracilis, nigra, abdomine rufo; segmentis 1-6 margine postico, septimo toto ni- gris, ventre în quoque segmento nigro bimaculato; palpis pallidis; antennis subtus 0b- scure ferrugineis; pedibus rufis, posticis tibiis apice et annulo ante basim nigris, tarsis pallidis, articulis omnibus apice fuscis: alis hyalinis radice et tegula albis, stigmate fu- -scescente: 2 terebra abdomine parum breviore, rarius sublongiore. Andrena bimaculata, Kir. var. Addominis segmentis tribus primis totis rufo-ferrugineis; metanoti area cordata ir- regulariter rugoso-reticulata. L’ individuo femmina raccolto in Sardegna differisce notabilmenie dal tipo, per modo che, se non fosse stato giudicato dallo stesso autore dall’Apidae europaeae, Aifficil- mente ci saremmo indotti a considerarlo come varietà della And. biamaculata, Kirb. In fatti la femmina di questa vien descritta con l’addome di color nero tendente al bronzi- no: e solo dal sig. Schmiedeknecht notasi una varietà nella quale il margine posteriore del primo anello ed i lati del secondo sono ferruginosi. Nella nostra invece i tre primi anelli addominali sono interamente rosso-ferruginosi. Aggiungesi a ciò, che l’aja cordata del metatorace nel tipo ha rughe formanti una rete a maglie quasi quadrate (rugoso-cla- thrata): nella nostra le rughe sono assai stivate e costituiscono un reticolo irregolare. Cyrtosia pallipes, A. Cost. C. nigra, nitidissima, callis humeralibus, macula pone illos, pleurarum lineis, abdo- minis segmentorum omnium margine postico halteribusque albis; pedibus pallide ful- vis, tarsis fuscis; alis vitreis, venis fuscis. — Long. mill. 2 '/,. Capo, antenne e tromba neri. Torace nero, splendente: i calli omerali, una mac- chia dietro di questi, una striscia al disopra della inserzione delle ali, i margini delle pleure, bianchi. Scutello interamente nero. Addome nero col margine posteriore di tuiti gli anelli di color bianco gialliccio. Piedi interamente fulvi. Ali incolori, trasparenti. vY = Sez Eurina ducalis, A. Cost. E. obscure testacea, mesonoto fusco-nigricante, lineis duabus longitudinalibus pal- lidioribus; femoribus (apice excepto)nigro-cinerascentibus; alis fuliginoso-hyalinis, ve- niîs crassis, fuscis. — Long. mill. 6 1/,. Capo triangolare ad estremità ritondata, poco inclinato: due carene mediane for- manti un soleo ben marcato partono da’ lati dell’area ocellare e si prolungano conver- genti fino poco innanzi la estremità: su ciascuno de? lati vi ha altra delicata carena obli- qua, che si arresta molto innanzi delle mediane; sul vertice vi ha da cadaun lato una cresta obbliquo-trasversale, che va da dietro la regione ocellare al mezzo del margine del rispettivo occhio: nella regione occipitale, dietro gli occhi, vi ha rughe obliquo-longi- tudinali, parallele. Il dorso del capo è testaceo-ferruginoso ; le rughe occipitali più chia- re; la faccia inferiore bianchiccia. Antenne testaceo-oscure ; la resta nera. Dorso del me- sotorace assai oscuro, con due linee longitudinali più chiare poco distinte. Il resto del torace è del colore del dorso del capo. Scutello spianato, un poco più lungo che largo, quasi triangolare, ma ad estremità ritondata. Addome dello stesso colore testaceo-ferru- ginoso. Piedi del colore generale del corpo; i femori, ad eccezione della estremità, ne- rastri. Ali un po’ fuligginose. Il dorso del torace e lo scutello forniti di setole assai brevi e stivate; l’addome nudo. Osservazione.— Delle poche specie che conosconsi del genere Eurina, molto carat- deristico per la special forma del capo, nessuna ve n’ ha cui questa possa avvicinarsi. finita stampare il dì 10 marzo 1886 Vol. II. Serie 2° N° 8. ATTI DELLA R. ACCADEMIA DELLE SCIENZE FISICHE E MATEMATICHE NOTIZIE ED OSSERVAZIONI SULLA GEO-FAUNA SARDA MEMORIA SESTA Risultamento delle ricerche fatte in Sardegna nella state del 1885 del Socio Ordinario ACHILLE COSTA presentata nell'adunanza del dì 3 aprile 1886. Già nelle precedenti memorie ho dato ragguaglio di quattro viaggi fatti nella Sar- degna, de’ quali i più brevi della durata d’un mese o presso a poco, il più lungo di ben tre mesi. Da ciò si potrebbe inferire che avessi potuto quasi tutta esplorare quel- l'Isola. E certamente che con essi ne ho conosciuta una grande parte. Ma la Sardegna è estesa abbastanza per poter dire di tulta conoscerla. Non meno di dieci anni, giran- dovi un paja di mesi l’anno, sarebbero necessarii. Una delle regioni di cui mi rimaneva molto di sconosciuto era sopratutto il versante orientale, del quale solo qualche punto avevo visitato nel primo viaggio, cioè nel settembre 1881. A questo versante quindi ho cercato nel viaggio attuale consacrare la parte maggiore de’ due altri mesi destinativi. E per andar più direttamente allo scopo, per la prima volta ho prescelta la via di Ro- ma — Civitavecchia — Porto Figari: via che, sebbene sia più tortuosa e meno comoda per chi deve da Napoli recarsi in Sardegna, pure nel modo come è coordinata la linea ferroviaria e quella di mare si compie in sole ventun’ore, vuol dire in tempo minore di quello che i piroscafi impiegano andando direttamente da Napoli a Cagliari. È evi- dente però che l'una e l’altra delle due linee può essere a sua volta più conveniente a norma della parte dell’isola cui si è diretto. Prendendo adunque le mosse da Porto Figari, son passato a Terranova. Di là a Siniscola, estendendomi ne due vicini paesi minori Posàda e Torpè; indi ad Orosei spa- ziandomi su tutta la così delta Baronia, visitando Onifai, Irgòli e Galtellì; e finalmente a Dorgali, del cui territorio, a causa di sopravvenuta indisposizione, nulla potetti os- servare, Ad eccezione di Terranova, che già conosceva e che si appartiene alla Gallura, i rimanenti paesi, ossia quelli appunto che per me erano nuovi, fan tutti parte del di- ATTI Vol. II. Serie. 2°-N. 8. 1 esage stretto di Nuoro che, come è risaputo ed io stesso ho notato in altre precedenti memorie, è quello in cui trovasi la gente più triste dell’Isola. Sicchè, quando misi piede nel primo paese venendo da Terranova ossia a Siniscola, cominciai a stare con certa circospezio- ne. Nulladimeno debbo dichiarare che in tutti sono stato circondato da amici, ì quali non mi han quasi fatto avvertire che mi trovavo in paesi difficili. Anzi, ne’ paesi più meschini e più conosciuti per la cattiva indole degli abitanti ho trovata ospitalità presso persone cordialissime. Così a Posàda sono stato ospitato dal Cav. Francesco Giovanni de Giorgio, in allora Sindaco; in Torpè dall’agiato ed affettuosissimo Pastore Gio- vanni Pilosa; in Galtellì dal Rev. Sisinnio Palo Campus, Vicario Parrocchiale, e che unisce alla non ordinaria coltura letteraria, una squisita gentilezza. Oltre a ciò, molte cortesie ed agevolazioni mi hanno usato i signori Antonio Putzu Bardanzeddu in Terra- nova; Antonio Fenu, Pietro Coronas, Emmanuele Pibiri, Brigadiere de’ R. Carabinie- ri, ed il nostro compatriota sig. Michele Martinelli Vice-Ispettore di P. S., in Siniscola ; il Cav. Giovanni Guiso in Orosei; il Dott. Gavino Putzu ed il Sindaco Raimondo Serra, in Dorgali, e la famiglia del sig. Francesco Napoleone Nunziante, Tenente delle Guar- die di Finanza, in Gonone. PARTE PRIMA Relazione del viassio Luglio 2. Parto da Napoli col treno delle 7,42 a. m.; sono a Roma alle 2,00 p. m. Alle 2,35 riparto per Civitavecchia, ove giungo alle 4,25. Una vettura da nolo mi conduce dap- prima all’Amministrazione dei Piroscafi postali italiani, onde prevvedermi del biglietto, e quindi al porto, di dove una barca mi porta al battello (era il Moncalieri) che fa il servizio giornaliero da Civitavecchia a Porto Figari od Olbianova. Alle 5,25 (cioè con venticinque minuti di ritardo causato dalla posta) il piroscafo salpa. Il mare era placi- do, l’aria rinfrescata da un vento di maestrale. Si progrediva con sufficiente celerità senza che si avvertisse alcun movimento ; sicchè un solo de’ passeggieri mancò al pranzo che fu servito sopra coperta e che, cominciato alle ore 6 p. m., si protrasse fino alle sette; ed al the che si servì alle dieci. 3. Alle 4 del mattino eravamo già nel denominato Golfo degli Aranci, quantunque non una sola di tali piante attualmente vi esista; forse ve ne furono in altri tempi. Alle 4'/,sì scende a Porto Figari. Avevo visitato questo punto nel giugno 1882, quando cioè la ferrovia che doveva congiungerlo a Terranova era appena nel suo cominciamento. In allora, solo qualche meschina casetta colonica vedevasi in quella campagna. Attual- mente vi ha un vasto edifizio per la stazione, nel quale, oltre all’abitazione degl’impie- gati, la Società delle Ferrovie sarde, con provvido divisamento, ha destinate alcune stanze sufficientemente decenti ad uso di Albergo ‘). Pensai quindi profittare di tale op- 1) E inesatto il sig. Pais là dove, in un discorso fatto lo scorso anno nella Camera de’ Deputati sulle condizioni della Sar- degna, dice esservi in Porto Figari un solo abituro denominato albergo. Sarebbe a desiderare che vi fosse in Terranova un albergo con stanze decenti e con servizio di ristoratore come quello di Porto Figari. Evidentemente il sig. Pais l’ha veduto da lontano, senza visitarlo. 2 portunità per trattenermi qualche giorno, onde fare una perlustrazione in quelle campa- gne. Sicchè mi collocai in una di quelle stanze. Alle ore sette esco per la caccia, diretto al Capo Figari. Pria però di prendere l’altura, mi trattengo a cercare in vicinanza della stazione stessa, in un sito ove erano piante svariate già secche, frugando il terreno sab- bioso da queste ricoperto, e qui ebbi la ventura di iniziare la mia campagna con una interessante specie d’Emittero Cidnideo, da me non ancora conosciuta in natura, la quale mi dava luminosa prova del fatto, che assai spesso il zoologo, sopratutto l’ ento- mologo si defatiga e suda in località peregrine, mentre tiene i giojelli vicini a’ suoi piedi. È il Crocistethus Valtlii generalmente raro, e del quale il Garbiglietti nel Ca- talogo degli Emitteri Eterotteri Italiani riporta la varietà basalîs Fieb. come della Si- cilia. Nel continente italiano pare non siasi ancora rinvenuto; siccome il Puton, contra- riamente all’ affermazione di Mulsant, dice non essere stato trovato in Francia. Erano poi non rari l’Engistus boops, che innanzi aveva sempre trovato in luoghi maremmosi ; il Pachymerus Douglasii, che solo nel 1883 avevo rinvenuto sulle monta- gne di Desulo; la Macropterna convexa; il Lamprodema maurum, molto abbondante, sopratutto la forma macroptera. Il promontorio che va denominato Capo Figari è ‘completamente rivestito di Cisti e Lentischi, i primi de’ quali eran già quasi secchi. Nella zona meno elevata vi stan confusi Mirti, che trovavansi in fiore. Di qua e di là vi ha qualche olivo selvatico, poche piante di Ginepro. Vedevansi in oltre tuttavia in sito alcune Ferule già secche e frutti- ficate. Siffatta vegetazione monotona non solo, ma in parte seccata, dar doveva natu- ralmente asilo poco attraente agl’insetti. Ed infatti molto poco vi rinvenni. Nondimeno in tanta scarsezza vi raccolsi la Mutilla carinata, descritta da’ signori Sichel e Ra- doszkovsky sopra individui della Corsica. Di Coleotteri poco comuni eranvi la Scraptia ophthalmica, che trovavasi piuttosto abbondante, mentre precedentemente ne avevo rin- venuto appena un individuo nelle montagne di Desulo; il Pachybrachys anoguttatus, che precedentemente aveva sempre trovato in regioni montuose. Degli Ortotteri erano ab- bondanti |’ Aphlebia sardoa e la Ephippigera rugosicollis, di cui la femmina offriva due varietà molto diverse nel colorito, luna d’un verde come il maschio, l’altra color foglia secca, con tre serie longitudinali di macchie rotonde più pallide sull’ addome. Nelle parli elevate era frequente la Cicada orni, quantunque non vi fosse alcun frassino ; e nelle più basse eravi anche più abbondante la Cicada cisticola. Di Ditteri rinvenni una specie non ancor conosciuta d’ Italia, la Tephritis ramulosa, descritta da Low so- pra individui del Portogallo e posteriormente trovata in Dalmazia: sicchè il Rondani non ne fa menzione nelle Ortalidinae Italicae. Anche di Aracnidi vi fu qualche specie che non possedevo di Sardegna. 4. Esploro altra parte del Capo Figari; e sebbene neppur molto abbondante fosse stato il prodotto, pure varie buone specie raccolgo non trovate il giorno precedente. Principalmente, di Coleotteri, rinvengo un Tropideres curtirostris, specie non segnata ancora della Sardegna, nè del resto d’Italia, conoscendosi soltanto della Francia e della Corsica; il Metholcus cylindricus, che vi era abbondante. Di Ortotteri raccolgo un Bacillus granulatus, che solo nel 1883 avevo trovato sul Monte Chiesa di Aritzo. Di Emitteri rivedo con piacere il mio Myrmecomimus paederoides. Di Imenotteri una buona specie di Epyris? Lasciato il Capo Figari, raggiungo la spiaggia del golfo degli aranci. Qui, intorno * Me a’ piccoli fiorellini violacei d’una specie di Statice, unica pianta in fiore che vi esisteva, si aggiravano molti Imepotteri Apiarii, tra quali dominavano in numero le Nomada fu- cata e furva. Presso la sabbia erano abbondanti l’ Enodia albisecta e l'Ammophila rubriventris. 5. Alle 5 a. m. sono già levato per la idea di profittare del treno che parte alle 5 1/, per Terranova ed ha una fermata alla Mar:nella, luogo che desideravo esplorare. Però il cielo era interamente coperto ed una leggiera pioggia cominciava a cadere. Stimai quindi miglior consiglio attendere per vedere cosa facesse il tempo. Alle 7, es- sendo cessata la pioggia e le nubi cominciando a dissiparsi, mi avvio al sito stesso a piedi, costeggiando sempre il binario della ferrovia che di tratto in tratto è tagliata nel nel granito, misto qua e là con lo schisto. Lungo il cammino, fermandomi a frugare tra i soliti lentischi, cisti ecc. rinvengo un grazioso Eupelmus dalle ali brevissime lin- guiformi, nere con fascia bianca, specie che posteriormente ho raccolto pure a Terra- nova e più frequente ancora presso Siniscola, ovunque sopra la medesima pianta, e che non ancora ho potuto determinare. Anche di Lepidotteri raccolgo una specie non an- cora trovata. À Nella marinella vi ha ampia spiaggia sabbiosa, nella quale vegetano in abbon- danza ed erano in fiore molte Euforbie e poche altre piante. Chi fosse stato nuovo per la Fauna Sarda avrebbe potuto far ricca provvigione di buone specie d’Imenotteri che si agiravano intorno i fiori delle due cennate piante. Per me vi fu di buono qualche minuta specie di Pteromalini. Erano poi frequenti sulle dette Euforbie le larve della corrispondente Sfinge, Deilephila euphorbiae. Entro la sabbia alla radice delle piante eravi anche poco ed ordinario. 6 Alle 5 1/4: a. m. lascio il Golfo degli Aranci, ove la residenza è tanto acconcia pel Naturalista, ed in ferrovia mi reco a Terranova, ove giungo alle 6. Questa città era da me già conosciuta , essendovi stato nel giugno del 1883. Però la mia dimora in allora non fu che di due soli giorni: uno de’ quali fu impiegato a curiosare il Golfo de- gli Aranci, cui in quello anno non ancora si accedeva in ferrovia. Alle otto esco col proponimento di esplorare più posatamente che non avessi fatto l’altra volta le sponde del fiume Padrongianus. Però la guida, anzichè a quello, mi mena ad un rivolo che è assai più presso alla città. E non me ne venne mica male dallo scambio. Dappoichè in una delle vie percorse rinvenni una piccola Mutilla che giun- gevami del tutto nuova, non avendola mai trovata nè nella Sardegna, nè nelle province napoletane. E dessa costituì l'oggetto più interessante della giornata. Era la Mut. Per- ristî, descritta da’ sig. Sichel e Radoszkovsky sopra un solo individuo di Corsica. Le sponde del rivolo erano ricche di vegetazione svariata, sopratutto di ombrel- lifere; ma di importante vi raccolsi solo buoni individui della mia Megachile carinulata. Presso le radici delle piante raccolgo una Brya®is, che giace indeterminata. Era abbon- dante l’Ophonus puncticollis: e tra i molti individui raccolti, uno offre una singolare ano- malia di colorito, della quale sarà detto nella parte terza. 7. A circa venticinque chilometri da Terranova vi ha il denominato Stagno San Teodoro. E poichè in tutte le contrade percorse, là dove sono stagni ho avuto premura di visitarli, volli vedere ancor questo; tanto maggiormente, in quanto è il primo che s incontra sul littorale orientale. Per accedervi si batte la via nazionale che mena a Siniscola e che prosegue poi fino a Cagliari: e solo quando si è in prassimità dello sta- Mie gno, si lascia la via carrozzabile per mettersi in un sentiere che traversa la boscaglia, e che solo i veicoli detti sa/tafossi {di cui appunto mi avvalsi) possono percorrere. Il tenimento di Terranova, all'infuori di pochi vigneti e di qualche piccolo orto, è tutto terreno incolto e ricoperto della consueta boscaglia costituita di Cisti, Lentischi e giovani Corbezzoli. Sicchè a pochi passi dalla città non vi ha che questa boscaglia, sia nella parte piana, sia nella montuosa: e da sotto quelle macchie vedevansi frequente- mete levare a volo individui parecchi delle rinomate Pernici sarde ( Perdriw petrosa). Appena un poco prima di raggiungere lo stagno trovasi qualche ettaro di superficie coltivato a cereali. Quindi luoghi deserti. Non meno di tre ore e mezzo s’ impiegano per giungere al posto. Di tutti gli stagni della Sardegna che finora conosco (e son la massima parte), questo di San Teodoro più di ogni altro l’è un puro e semplice vastissimo seno di mare, dal quale lo separa semplicemente una linea di canne destinate a regolare l’entrata del pesce. Quindi sulle sponde non vedesi punto vegetazione palustre. In taluni tratti vi ha un’angustissima zona con Salsole , oltre la quale comincia immediatamente la boscaglia. Le mie esplorazioni cominciarono tra le radici delle Salsole; e vi trovai taluni Co- leolteri non rinvenuti innanzi, come il Pogonus flavipennis, che non era molto comune e l’Heterocerus hamifer, che invece vi era abbondante. Comunissimo era il Pogonus chal- ceus, che in altri luoghi avevo visto assai scarso. M'interessò poi moltissimo una minu- tissima specie di Imenolteri alteri del genere Diapria e proprio di quel gruppo di cui Jurin costituì il g. Psilus. Sopra le salsole vive anche abbondante la Cicadula salsolae che prende dalle stesse un bel color roseo. 1 suffrutici mi offrirono di buono varii Micro-Imenotteri. Vagante sulla sabbia rinvengo una varietà del Lygaeosoma reticulatum. L’oggelto infine che può considerarsi come il più interessante della giornata fu una Ewoprosopa che, a vederla, mi risvegliò alla mente qualche cosa di non europeo. Ed infatti essa è la Ex. rutila, Wiedm., descritta dapprima sopra un individuo acefalo proveniente dal deserto arabico e poscia trovata nell'Asia minore e nella Siria. 8. Superiormente ho accennato il mio primo pensiere nel giungere in Terranova essere stato quello di esplorare le sponde del fiume Padrongianus, e non averlo effet- tuito per imperizia della guida. Non volli però rinunziare a quel proponimento. Cono- sciuto quindi il posto, per averlo traversato il giorno innanzi, mi ci recai a piedi, di- stando poco più d’un’ora dalla città. Lo raggiunsi in vicinanza del ponte crollato e quindi percorrendo la via nazionale. Le sponde sono molto alberate da Salici e da Alni. Vi cresce in oltre abbondante la Typha palustris. Parecchie furono le cose buone rac- colte; ma due sopratutto mi giunsero interamente nuove. L'una fu una specie per quanto piccola, altrettanto graziosa di Coleotteri del gruppo degli £2m:s, la quale pare viva sopra la Tifa e che è il Limnius Dargelasti Latr. (tuberculatus, Mull.), che in Sar- degna dicesi trovato soltanto dal Ghiliani; l’altro fu quel grazioso e singolare Fri- ganeideo, Chimarrha marginata, che nelle provincie napoletane non avevo mai incon- trato. Ancora fu interessante una specie di /chneumon affine all’erythraeus Grav. ed al discrepator Wesm. senza potersi ad alcuno di essi riferire, e due specie di Sa/da, am- bedue nuove per la Sardegna, cioè la S. cineta, generalmente piuttosto rara, e la S. opacula, i cui individui convengono più esattamente con la varietà nitidula indicata da Puton sopra individui della Corsica. In fine noterò di aver riveduta la Sisyra îridipen- nis, che precedentemente avevo raccolta presso Milis. Pe pe Poco fuori la città, verso la spiaggia, vi ha suoli ricoperti qua e là di acqua marina che rimane impantanata, e presso i quali cresce abbondante la salsola. In questa è frequente un Gapsino l’Hadrophyes sulphurella, che tingesi in roseo , siccome in quelle dello Stagno San Teodoro vi era una Cicadula salsolae. E non è il solo caso in cui so- pra una medesima pianta vanno congiunti un Capsideo ed una Cicadaria che assumono identica tinta. Altro bello esempio ce lo porgono i Tamarici con la Tuponia hippo- phaes e l' Athisanus stactogalus. Notai ancora lungo la via un’abbondanza del Chrysops marmoratus: tutti individui maschi. 9. Tempio non era nel programma dell’attuale viaggio, avendone discretamente esplorate varie parti del suo territorio nel giugno 1882. Però due cose m’interessavano ; l'una, di poter trovare esemplari completi del Friganeideo, Thremma sardoum, da me descritto sopra uno malconcio e mutilato ricevuto dal sig. Antonio Giuseppe Cabella; l’altra, di raccogliere altri individui dell’Amnicola physaeformis del Rio Coghinas, pos- sedendone due solamente. A tale scopo pensai fare una piccola diversione, la quale riusciva molto agevole da Terranova. Mi vi recò quindi in vettura. 10. Perlustro un bosco di Querce-sughero in un sito detto Monte di Corte, in fondo al quale scorre un rivolo di acqua, sulle cui sponde vi ha parecchi Alni. Ne percorro un lungo tratto, come quello che mi offriva la possibilità di trovarvi il Taremma, ma fu opera vana. V'erano altri friganeidei, come il Limnophilus vittatus, ma non quello. O1- tre a ciò la caccia fu in generale scarsa, sebbene non priva di qualche specie interes- sante di Imenotteri, come la G/ypta flavolineata ed un Cryptus affine al viduatorius. So- pra lElci trovai alcuni individui del Cyrtopsochus irroratus, ed assai abbondante |’ 0- ribates humeralis. Noterò ancora aver riveduta la Chaetostoma princeps; un individuo solo. Presso il rivolo raccolgo alcune buone specie di Microlepidotteri, fra quali l'Argy- restia albistria; e di Cicadarie la Euptery® corsica. 11. Mi rimaneva l’altro desiderio, quello di ritrovare l’Amnicola. A tale scopo in questo secondo giorno di dimora in Tempio mi reco al Rio Coghinas e proprio in quella parte che è in vicinanza della Cappella di S. Rocco, la stessa cioè che esplorai nel giu- gno 1882. E per aver maggior tempo per le mie ricerche, anzichè di cavallo, mi avval- si di una vettura, sicchè partito da Tempio alle 5 ‘/,, alle 7 fui sul posto indicato. Pe- scai quante piante aquatiche vegetavano nelle sponde del fiume per una estensione assai maggiore di quella in cui ricordavo molto bene aver trovato quella nominata specie ; vi rinvenni, oltre le comuni, buoni individni della Physa truncata, ma nè dell’ Amnicola physaeformis, nè della PAysa saeprussana, che erano le specie più interessanti , potetti trovare un individuo solo. Questa simultanea mancanza delle due indicate specie , le quali avean comune il vivere là dove le piante fluviali eran maggiormente alterate o vi- cine alla putrefazione, mi fece comprendere che col ritirarsi delle acque per la stagione più inoltrata avean dovuto rimanere a secco e quindi distrutte. Mancato lo scopo principale, mi detti a ricerche entomologiche. A poca distanza dalle sponde, là dove non vi sono Cisti e Lentischi, vegeta in abbondanza una specie di Equisetum, e sopra questo trovavasi in grande abbondanza una graziosa specie di Crypto- cephalus che non avevo ancora veduta, e che sembrami non descrilta, onde l’ho nominata Cr. equiseti. Altra specie dello stesso genere, anche assai piccola e nuova, era sopra i Salici che crescono in numero sulle sponde. Ancora sui Salici era abbondante il Pé- diopsis virescens. E sopra di questi ancora rinvenni due Tentredinidei del genere Ne- Wa matus,i quali, per la grande rarità degl’Imenotteri di tale famiglia nella Sardegna ave- vano uno speciale interesse, facendo elevare ancora il numero totale delle specie finora rinvenulevi. Aggiungi a questo, che uno di essi, maschio, è molto affine al Nematus ce- brionicornis da me descritto tra quelli della Fauna Napoletana, e che io stesso dopo l’unico individuo che mi servì alla descrizione non ho più veduto. L'altro è femmina, e probabilmente della specie stessa. Ed in conferma sempre della poca frequenza di sif- fatti Imenotteri, di cadauno non potetti trovare che un individuo solo. Poco distante dal sito in cui mi trovavo vi ha il paese Perfugas, che non cono- scevo, e nel cuì tenimento trovansi acque termali assai rinomate nella Sardegna, che avevo premura di visitare, Per lo che mi ero determinato andare a pernottare nel no- minato paese. Esaurite quindi le indagini, mi rimisi in veltura e vi fui in un’ora. Perfu- gas è uno dei paesi più infelici della Sardegna, sicchè sarebbe stato impossibile trovare un alloggio qualunque. Ma una lettera dell’ingegnere Francesco Maria Gabella di Tempio mi fece aver adito presso il sig. Salvatore Tortu-Mùrino , dal quale fui accolto assai cordialmente, del pari che da suo figlio Giacomo, giovane colto, educato negli studii tecnici prima in Sassari e poi in Napoli. 12. Esco alle 5 ‘/, a cavallo, con pedone ben esperto de’ luoghi, essendo la via da percorrere per raggiungere le Terme del Castel Doria lunga e intrigata. Si traversa una vasta pianura leggermente accidentata, in massima parte coltivata a cereali, e quindi si scavalcano varii monti, l’ultimo dei quali va denominato Serra Barula. Da questo si do- mina una vastissima pianura, che si termina nel mare, e nella quale serpeggia l’ultimo tratto del Coghinas il quale, avendo un letto assai poco profondo e mancando di ogni sorta di argine, spessissimo straripa ed invade tutta intera quella pianura, che si converte in ampia palude. Discendendo da quel monte si tiene a destra un'altura su cui siede l'antico Castello Doria, dal quale han preso nome le acque termali. Circuendo i piedi di questa altura, dopo poco men che quattr’ ore di non interrotto cammino, da Perfugas, si giunge alla meta. Il fiume in tal sito a destra (considerata la corsa del fiume) bagna la nuda roccia che vi discende a picco, ed a sinistra ha angusta spiaggia arenosa. Dal fondo del fiume sprigionasi |’ acqua termale , il cui calore è di tale potenza, che per l’intera ampiezza del fiume e per una lunghezza d’una quarantina di metri l’acqua è scottante tanto, da non potervi tenere la mano neppure un secondo. La temperatura nel punto in cui son le sorgenti è stata calcolata a 73 R. Certamente è l’acqua termo-minerale più calda della Sardegna. Molti infermi di malattie per le quali quelle acque sono indicate, vi si recano a fare i bagni. Però, non essendovi ricovero di sorta alcuna, coloro che oltengono dal Municipio la concessione delle acque, e quindi assumono la direzione dei bagni, lungo quel tratto del fiume in cui l’acqua è scottante costruiscono bagnarole tem - poranee, Per cadaun infermo scavano neila sabbia un fosso capiente della persona a qualche metro distante dal margine del fiume, ed in quello mediante un canale, che poi si ricolma, fanno passare l’acqua, di cui temperano il calore con acqua fresca. Una tenda costituita da lenzuoli sostenuti da rami secchi di alberi copre ogni cosa. Altra tenda simile è destinata a far riposare l’infermo che esce dal bagno. Di caccia non v'era tempo da occuparmene , nè il luogo si sarebbe prestato. L’u- nico ricordo che ne riportai fu il Tachytrechus ripicola, che vive in gran numero sulla sponda sabbiosa del fiume, là dove l’acqua comincia a divenir tiepida. A mezzo giorno mi rimetto in cammino prendendo altra via, che mi menò alla ciao cantoniera di Coghinas, ove avevo disposto si trovasse la carrozza che mi ricondusse in Tempio. 13. Da Tempio ritorno a Terranova, onde riprendere il corso del Littorale orien- tale, secondo il programma propostomi. 14. Non volli lasciare questa città senza esplorare nuovamente le sponde del fiume Padrongianus. Però nulla mi si offerse che non avessi già trovato nell'altra visita. Anzi noterò un fatto che dimostra sempre quanto sia eventuale il rinvenimento di talune specie. Del Limnius Dargelasii trovatovi in allora in abbandanza non ne vidi uno solo, non ostante avessi ripetute le indagini proprio sul medesimo luogo. Nella vasta pianura incolta e destinata a pascolo, che precede il fiume, era frequen- te la Sphex paludosa, che si aggiungeva alle specie trovate precedentemente nell'isola. 15. Proseguendo la linea littoranea, il primo paese di una certa importanza che s’ incontra è Siniscola. Da Terranova vi si può accedere in carrozza, essendovi la strada nazionale. Le carrozze però son quelle di cui vi ha grande penuria. D'altronde una porzione l'avevo già conosciuta nello andare allo Stagno San Teodoro. E però mi decido recarmivi per mare. M'imbarco sul piroscafo che viene da Genova per fermarsi a Cagliari toccando i principali scali della costa orientale dell’isola. Si parte all’una e quarto pomeridiana. Alle 4 il piroscafo si arresta a sufficiente distanza dalla marina di Siniscola. L'unica barcaccia che viene deve caricare dapprima le mercanzie e poi im- barcare i passeggieri. Sicchè non prima delle cinque sono a terra. Qui si trova una spiaggia arenosa deserta, l’unico edifizio che si vede essendo quello destinato alle guardie di finanza. Quindi nessun mezzo di trasporto per accedere al paese, il quale di- sta dalla marina circa sei chilometri. Per fortuna un bovaro, che aveva un piccolo carro destinato al trasporto di merci venute col piroscafo, condiscese a mettere sopra di esso il mio bagaglio. Io lo seguii a piedi, e dovendo accomodarmi al lento passo de’ bovi, s' impiegarono non meno di due ore e quarto. Lungo la via ebbi a notare la grande frequenza di Mutille, sia in individui, sia per numero di specie, tra quali talune che in altri luoghi avevo sperimentate rare, come la Spinolae e la Chiesi, le altre essendo la brutia, la coronata, la rufipes e la capitata: poteva davvero dirsi la via delle Mutille. Siniscola è paese che non offre alcun albergo propriamente detto , e non potendo per l'ora avanzata far uso delle mie relazioni, dovetti adattarmi all’unica stanza che mi si assicurò esistere; stanza, o meglio ammezzato, cui si accedeva per una botola che per decenza non descriverò, che però abbandonai dopo due notti, trasferendomi in una stanza in famiglia procuratami dal Brigadiere de’ rr. Carabinieri sig. Pibiri, e nella quale mi trovai molto bene. 16. Il giorno precedente, nel percorrere la vasta pianura che segue alla marina, mi avvidi che, mentre in generale era rivestita de’ consueti suffrutici, in taluni siti eranvi vasti campi con Euphorbia Cupani in fiore. La prima perlustrazione quindi volli farla in questi. All’opposto di Terranova, Siniscola ha un territorio coltivato estesissimo. E però, per qualunque direzione si esca, ci è da fare lungo cammino noioso innanzi di trovarsi nella parte incolta. Il posto pertanto prescelto fu veramente importante. Vi raccolsi molti buoni Imenotteri, tra quali un secondo individuo dell’Apaeleticus sardous da me descritto nella memoria quarta; l’Anthidium nanum Mocs., che pare sia cono- sciuto soltanto di Ungheria; non rara la Nomia aureofasciata. Di Coleotteri segnerò l’Ochthenomus unifasciatus, non registrato tra gli abitanti dell’isola. -—@ + 17. Visito il bosco del Monte Graziano, per accedere al quale si cammina circa due ore. Il bosco è formato di Elci, Corbezzoli, Eriche veramente arboree, Olivi sel- valici, Tassi. Qua e là vi ha campicelli con Euforbie. Hanvi due fonti di acqua, luna assai in alto, detta fonte graziano, l’altra più giù detta fonte cantaru; dalle quali fonti si originano due rivoli che si disperdono pel bosco. L’è questo un insieme di condizioni che farebbe augurare una caccia copiosa ed importante. Nondimeno poche furono le specie che m'interessarono perchè non ancora ritrovate nell'isola. Ma tra le poche vi fu la Leptidea brevipennis, che in Sardegna dicesi trovata soltanto da Ghiliani. Trovai una Chalcis non ancor definita. Era notevole la frequenza della Acmaeodera lanuginosa sopra i fiori del Cardo scardasso. Sopra i Lentischi una varietà più piccola dell’ Aspido- coris cyaneus. In vicinanza delle acque la Oxycera trilineata. Sopra un grosso macigno si aggiravano varii individui un di Sa/t7cus non ancora definito. Intorno le acque era ab- bondante uno Psi/opus, di cui non potetti trovare un solo maschio. Intorno ai fiori di Euforbie moltissimi apiarii, sopratutto del genere Ha/ictus; e tra le diverse specie, ta- lune non comuni. 18. In vicinanza di Siniscola scorre un modesto fiume, il quale poco innanzi di versarsi nel mare si dilata in cul di sacco. Le sponde del fiume sono in buona parte alberate. Quelle dello stagno nella state si disseccano più o meno col marcimento delle rispettive erbe, producendo l’aria miasmatica, per la quale sono spesso sofferenti gli abitanti e del paese e delle campagne. Nelle parti che rimangono asciulte vi vegetano in copia, come all’ordinario, la Salsola e la Salicornia. Quantunque già sapessi che non aveva il carattere de’ veri stagni, pure volli visitarlo, facendo un cammino di sei chi- lometri circa per raggiungerlo. Nulla di speciale potetti rinvenirvi, meno una varietà dell’Engistus boops. Lungo le sponde del fiume non era rara la Serenthia atricapilla. 19. Dicesi di nostro Signore che septimo autem die requievit. E così feci io in que- sto giorno, ch'era Domenica. Però non fu desiderio o bisogno di riposo che mi fece astenere dall’uscire in campagna, bensì l'assoluta necessità che avvertivo di riordinare le collezioni già fatte e le note del viaggio. 20. A pochi chilometri da Siniscola (sei in sette) trovansi due piccoli paesi di men che un migliajo di abitanti ciascuno, che volevo visitare. E poichè non poteva farsi a meno dell’ospitalità privata, già per mezzo di amici eromi per entrambi procurato un asilo. Esco da Siniscola alle 5 ‘/, ed a piedi mi dirigo a Posàda. Ne’ campi ad Euforbie che s'incontrano frequenti per via mi traltengo varie ore, avendone sperimentata la importanza. Erano soprattutto gl’Imenotteri Scavatori quelli che richiamavano l’attenzio- ‘ne. E parecchie specie vi rinvenni che non avevo ancor viste nell'Isola. Predominava il più vistoso Pompilideo di Europa, il Priocnemis annulatus, che spiccasi a voli sì lunghi, ora quasi diritti, ora ad arco di cerchio, ch'egli è ben malagevole dargli la caccia. E non fu senza fatica che de’ molti potelti chiapparne due soli maschi e due femmine. Dello stesso genere Priocnemis rinvenni il variabilis ed una terza specie che mi giungeva nuova, e nella quale ho riconosciuto il Pr. (Calicurgus) egregius descritto da Lepeletier sopra individui di Corsica. Parimenti fu per me interessante il trovare un secondo in- dividuo della Mutilla Agusti, poichè mi dimostrava la costanza de’ suoi caratteri speci- fici. Del genere Enodia, oltre alla ordinaria albisecta, eravi assai abbondante la livido- cineta. D'Icneumonidei trovavasi il bello Jechneumon fusorius. Sopra i Lentischi raccolgo buone specie di Microimenolteri. ArtI— Vol. IT. Serie, 20-N. 8. 2 uu ni Alle 12 giugno a Posàda, paese edificato al ridosso di una rocca calcarea, sulla cima della quale si eleva l'antico castello baronale, che vedesi anche da mare nella traversata da Terranova a Siniscola, Sono ospitato dal Cav. Francesco Giovanni De Giorgio, Sin- daco del paese. Il giorno salgo a visitare gli avanzi dell’antico castello, meno per curiosità, che per vedere se sotto le pietre che ‘sogliono stare sparse intorno a siffatti antichi fabbri- cali si rinvenisse qualcosa, ma nulla vi trovo d’interessante. La notte, a causa dello straordinario numero di zanzare, non fu possibile dormire un minuto solo. 21. Mi reco ad uno Stagno che dista circa due chilometri dal paese. Le sponde di esso in varii tratti divengono vere puzzanghere fetide in modo, che l'olfatto vi soffre non poco rimanendovi dappresso. Per la qual cosa non è a meravigliare che Posàda sia paese in cui dominano le febbri miasmatiche e l’abito cachettico negli abitanti. Aggiun- gesi ancora che l’acqua della quale debbono far uso è tutt'altro che buona. L'esplorazione eseguita tra le radici delle Salsole, che son le sole piante che vi vegetano, mi fece riconoscere come anche gl’insetti rifuggissero da quelle condizioni mefitiche. Non vi erano che pochi minuti Carabicini e Stafilini. La sola cosa che m' in- teressò fu un minulissimo Pteromalino attero, di color rossiccio uniforme, che credo non conosciuto. Nella campagna percorsa erano frequenti la Cerceris specularis e la Leucospis sardoa. Non accomodandomi di passare una seconda notte in veglia assoluta, il giorno lascio Posàda per recarmi all’altro vicino paese Torpè. Parto alle 6, e camminando a giusto passo vi giungo alle 7 !/,. Torpè è paese anche più meschino di Posàda, messo in pia- nura ed a case quasi tulte terranee. Ero indirizzato ad uno dei più agiati propiietarii del paese, Giovanni Pilosa. Questi mi accoglie con quella effusione di cuore che è pro- pria de’ Pastori della Gallura, sicchè faceami dimenticare di trovarmi nel Distretto di Nuoro. La sera, dubitando che mi annoiassi, volle che uscissi con lui e mi condusse dal Sindaco Michele Bona, e poi dal sig. Francesco Ilari piemontese, Direttore di una mi- niera che è presso Torpè, quindi da un botteghiere per prendere qualche bibita non contento che nelle visite fatte ci si era servito caffè, vino, cognac. Infine dovetti pre- garlo perchè si persuadesse a farmi rientrare in casa per riposare. 22. A poca distanza dal paese scorre un modesto fiumicello che forma qua e là de’ seni, ne’ quali l’acqua rimane quasi stagnante e putrida, rendendo anche l’aria mal- sana, Impiego la giornata nella esplorazione delle sponde di un tratto del fiume e di varii seni, le quali son tutte alberate e fornite di piante palustri. Sopra i Salici trovo abbondante il Cryptocephalus sulphureus, che non trovasi registrato nel Catalogo dei Coleotteri della Sardegna pubblicato dal Bargagli; nè nella Monografia de’ Criptoce- fali dell’antico continente di De Marseul ‘) trovasi menzionata la Sardegna tra le pa- trie di detta specie; oltre l’altro piccolo già raccolto sugli alberi stessi presso il Coghi- nas. Ne’ prati umidi sparsi in varie parti raccolgo un Rhopalum gracile, di cui altro in- dividuo avevo trovato nel 1883. Rinvengo un Pompilus nel quale non esito a ricono- scere lo spissus, Schdt., non ostante sia specie trovata sinora solo nel settentrione di europa. Il rinvenimento di questo Pompilo ha pure grande importanza, pel fatto che in Sardegna la sezione de’ Pompili con addome rosso alla base, che nel continente euro- 1) L'Abeille, vol. XIII, 1875 — peo è largamente rappresentata, in Sardegna è oltremodo scarsa. Nel 1882 trovai due maschi di specie assai piccola che rimase allora indeterminata , e nella quale ho potuto posteriormente riconoscere il Pompilus trivialis '*). Questo quindi è il secondo esempio di un gruppo di cui si hanno parecchie specie europee. Nelle praterie eravi il Melithre- ptus flavicauda, di cui un individuo solo avevo trovato presso Oristano nell’Agosto 1883. Qui sembrava non molto raro. Ne’ luoghi aridi trovo un secondo individuo della Ex0- prosopa rutila, raccolta presso lo Stagno San Teodoro. Eran le nove di sera: Giovanni ed io facevamo una frugale cena, quando un amico di lui lo chiama in disparte e gli dice qualche cosa sotto voce. Ritorna turbato e pen- sieroso, sì che fui spinto a dimandargli di che si trattasse. Allora mi disse avergli il suo amico comunicalo essere penetrata nel vicino paese Posàda una banda armata di crassatori ; tutti gli uomini del paese che avean fucili essersi armati, ed una porzione capitanata da un carabiniere che trovavasi in perlustrazione (non essendovi in paese stazione) essersi direlta a Posàda, altra essere rimasta alla custodia del paese. Io, sog- giunse, non vado per non lasciar te; non aver paura, perchè dovranno prima ammazzare me e poti toccare un tuo capello: intanto bisogna prendere delle precauzioni. Si arma fino a’ denti, chiude la casa, manda innanzi la famiglia e presomi per la mano mi dice: vieni con me e sta tranquillo. Invero io non era punto palpitante, per la semplicissima ragione che i crassatori dopo aver commessi reati in un paese, anzichè andare a com- metterne altri in paese vicino, che comprendono trovarlo in difesa, cercano guadagnar la campagna per sottrarsi alle investigazioni della forza. Nondimeno feci il voler suo, apprezzando immensamente l’affettuosa premura che spiegava per me. Si andette in una casa la quale per la umile condizione degl’inquilini non avrebbe in alcun caso ri- chiamata l’attenzione de’ crassatori. Lì ci trovammo riuniti in unica stanza dodici per- sone; donne coricate, ragazzi dormienti sdraiati a terra, madri con bimbi irrequieti. Gli uomini s'intrattenevano a fare i loro comenti sul fatto, l’uno raccontando le simili crassazioni avvenute nello stesso Posàda , un altro narrando quelle avvenute nel paese proprio. Io pensavo ad una cosa sola, cioè che, posta la esistenza di questa banda di cras- satori, mi conveniva abbandonare il distretto di Nuoro e quindi tutto il proseguimento del mio itinerario e prendere regioni sicure. Mentre così passavano le ore, si sente pic- chiare alla porta; Giovanni, impugnando sempre il fucile, dimanda chi vive. Assicuratosi essere il proprio fratello, apre; e dopo pochi istanti rientra annunziando essersi avuto l'accertamento ch'era stato un falso allarme, e che nessuna banda esisteva nè a Posàda, nè altrove. Tranquillizzati da tale non equivoca rassicurazione si ritorna alla propria casa. Si seppe poi l’allarme essere nato dal fatto che parecchi contadini di Posàda, ve- nuto il bujo, si erano divertiti in prossimità del paese a sparare numerose fucilate: diver- timento che costò caro anche a loro, poichè dovettero risponderne alla giustizia. 23. Da Torpè ritorno a piedi a Siniscola. Vista la importanza de’ campi ad Eufor- bie, che mi avevano dato sempre buone cose, non volli neppur ora percorrerli senza farvi delle ricerche. Ed in fatti, vi raccolsi, appunto sopra le Euforbie, un bellissimo in- dividuo della Mordella Gacognii, la quale non solo non era stata prima trovata in Sar- degna, ma anche in Francia, di dove si conosceva, è generalmente rara, Oltre a ciò vi raccolsi ùn secondo individuo del Priocnemis egregius. Eranvi individui maschi della 1) Vedi Memoria 5°, pag. 12. er, pae Mutilla brutia. E più di tutti fu di molta importanza l’Eristalis quinquelineatus, non co- nosciuto dal Rondani, e che citasi soltando della Spagna e dell’Africa. 24. Esploro le sponde del fiume che scorre in vicinanza del paese, che finisce nello stagno visitato già il giorno 18, e che per la ricca vegetazione sia di Salici, sia di piante palustri, faceano presagire ancora abbondanza di entomati caratteristici di simili luoghi, ma ivi nulla vi trovo che meritasse esser ricordato. Noterò soltanto avervi rinvenuto quel singolare Friganeideo raccolto presso le sponde del Padrongianus a Terranova. Invece, qualche buona specie rinvenni in una vicina aia incolta con Eufor- bia Cupani ed Asclepias fruticosa. E sopratutto vi fu un’ Icneumonideo del genere Pim- pla del tutto nuovo, una specie di Anthidium da me non conosciuta, ed un Crabro non prima trovato nell'isola e che neppur possedevo delle provincie napoletane. Anche in Imenotteri citerò lo Sphecodes hispanicus e due altri individui del Rhopalum gracile. Di Lepidotteri era notevole |’ abbondanza della Sesia uroceriformis. La sera, passando in casa per una stanza buia, richiamò la mia attenzione una fiammella di luce fosforescente attaccata alla parete. Proveniva da una Zygia oblonga. 25. Fra i due tenimenti di Siniscola e di Lula vi ha un esteso monte, la cui mag- giore altezza si eleva circa 800 metri sul mare, e che dalle creste di calcarea nuda e bianca va acconciamente denominato Montalbo. Esso però è troppo distante da Siniscola per poterne in un giorno stesso ascendere la vetta e fare ritorno in paese. Sapevo che proprio a’ piedi della maggiore altura vi ha una cantoniera costruitavi dalla So- cietà di uno Stabilimento minerario che è in quelle adiacenze, ed ora di proprietà pro- vinciale, nella quale avrei potuto rimanere al coperto la notte, stante che per gentile cura del sig. Domenico Cordella, Ingegnere in capo della provincia di Sassari, ero mu- nito di lettera che mi autorizzava a pernottare in qualsiasi dalle cantoniere provinciali. Sicchè mi propongo profittarne e quindi vi destino due giorni. Parto alle 4 ‘/, a. m. a cavallo. Alle 6 sono alla fonte Graziano che già conoscevo (vedi giorno 17). Qui mi fermo per fare qualche ricerca. E quantunque fosse località di già esplorata, pure vi raccolgo la Megachile maritima, Apiario che sebbene non sia raro nel continente, pure vedevo per la prima volta, e qualche altro Imenottero di specie non ordinaria. Fo colazione all'ombra d’una vetusta Elce. Alle nove mi rimetto in cam- mino. Costeggiando l’un dopo l’altro diversi monti coperti di boscaglia e sempre sulla via di Lula, si traversa un bosco di Elci detto sa janna de sa mela, nel quale parimenti mi fermo. Vi raccolgo una Friganea nuova per la Sardegna, il Grammotaulius atomarius. Era notevole la straordinaria abbondanza della Tephritis formosa. All’una p. m. giungo alla indicata casa cantoniera. Resto sorpreso dello stato cadente ed oltremodo lurido in cui questa si trovava, mentre le case cantoniere edificate dalla Provincia sono general- mente edifizii aventi, per lo meno esternamente, l'aspetto molto decente. Certo l’inge- gnere sig. Cordella deve non averla mai veduta; in contrario non avrebbe esitato un giorno solo a renderla abitazione accomodata per uomini, anzichè per maiali. Pertanto, non potendo più retrocedere, nè rimanere a cielo scoperto, dovetti accontentarmi di una delle stanze di quel tugurio, Ho già detto che la cantoniera trovasi proprio in prossimità della maggiore altura di Montalbo. Un dolce declivio rivestito di Eriche, Cisti e Corbezzoli conduce alla cre- sta di nuda roccia. Siffatto pendio mi occupo a ricercare nelle ore pomeridiane. Vi trovo due Coleotteri che non ancor conoscevo : un bel Cleonus, che mi destò l’idea di specie sb molto interessante e probabilmente nuova, quale in effetti la credo anche ora in seguito allo studio fattone, sicchè la chiamerò C. montalbicus; ed il Cryptobrachys cinctus, che è una delle molte specie che, per quanto finora si sa, sono esclusive della Corsica e della Sardegna, Di specie non ordinarie eranvi abbondanti l’Hysteropterum areolatum, il Sy- stoechus lucidus, men frequente un Peritelus (indelerminato). Di Lepidotleri notturni eravi la Porthesia auriflua, la Cidaria coraciata, trovata già nel Gennargento e l’altra piccola Geometra, Acidalia bisetata. Non era rara la Tibicina luctuosa, confermandosi essere questa Cicala propria di luoghi montuosi. Sul tramonto vedevansi levati a volo mollissimi individui di quel minuto -Bostri- chideo che è lo Xyleborus sareseni. 26. Volendo risalire sulla vetta, formata di roccia nuda che scende quasi a picco, oltre alla guida che portavo con me da Siniscola, prendo in mia compagnia uno dei cantonieri che molto meglio conoscea la montagna. Ci mettiamo in cammino alle 4 ‘/, a. m. Superiamo il declivio da me già esplorato nel precedente pomeriggio, e per un senliere erlo e disastroso si scavalca la nuda cresta, giungendo in alto dopo tre quarti d’ora di totale cammino. Superata la cresta trovasi un vasto altipiano coperto principalmente di E/ychrysum, Ononis, Teucrium. Ne’ lembi soltanto sorgevano due giovani Ginepri ed un Tasso. Fin da che comincia la nuda roccia e nell’altipiano incontravasi frequente la varie- tà della Clausilia Kusteri che la Paulucci ha chiamata sancta ') e qualche Zyalina. Sotto i numerosi sassi dell’altipiano null’altro rinvenni che l’Ophonus rotundatus. Svolazzava in questa pianura oltremodo abbondante la Cledeobia angustalis e qualche individuo della Phorodesma smaragdaria. Sopra il maggiore de’ due Ginepri trovo un Crphostethus tri- striatus, che nell’agosto 1883 avevo rinvenuto in numero sul Tasso nella valle di Corre- boi, ed un Gonocerus juniperi. Esaurita l'esplorazione dell’altipiano, ne discendo pel versante opposto, coperto di folto bosco di Elci denominato boseu Maria de Janu, il quale si continna sino ad incon- trare la via carrozzabile, e prosegue giù fino al fondo del vallone. In questo bosco rac- colgo per la prima volta, de’ Locustidei, la Cyrtaspis scutata. Erano frequenti due specie di Chrysopa. Raccolsi ancora buone specie di Braconidei e Pteromalini non trovate in altri boschi simili. Vedevansi svolazzare individui di Catocala, ma mi fu impossibile chiapparne alcuna. Di Coleotteri uno solo fu interessante, l’Hylesinus vestitus. Muls, che nè il Bargagli registra tra i Coleotteri sardi, nè il Bertolini tra quelli di tutta Italia. Alle 9 fo colazione presso la sorgiva di freddissima acqua che è nel bosco stesso poco al disotto della strada, la fonte de Maria de gianu, durante la quale raccolgo an- che quivi la Mutilla Chiesi. Quindi ritorno alla cantoniera, ove mi rimetto a cavallo alle 10:7,, e facendo soltanto un po’ di sosta alla fonte Graziano, all'una p. m. giungo a Siniscola, 27. Avevo appreso che a pochi passi dal paese eravi una grotta che internasi sensibilmente nelle viscere di un masso calcareo, conosciuta col nome di grotta ganna- gortòe e più corrottamente gane-gortòe. Nella lusinga che potesse albergare insetti ca- vernicoli, ebbi premura di visitarla. Vollero tenermi compagnia il Sindaco Avv. Luigi 1) Risulta da ciò non essere costante il fatto notato dalla Marchesa Paulucci, che questa varietà, a differenza delle al- tre e del tipo, vive sotto le cortecce degli alberi. te Sanna ed altri galantuomini e signore. Il vano esterno, per lo quale si penetra, è ampio appena da passarvi un individuo che non fosse di smodata grossezza, e basso in modo da doversi entrare a capo chino, Superato il vano, si scende giù scivolando sopra macigni per circa due metri, e trovasi una vasta ed alta galleria. Qui ciascuno de’ visitatori ci accendiamo una candela stearica. Procedendo oltre, non è più possibile caminar ritto, ma ora a capo chino, ora assolutamente carponi. Tanto il suolo, quanto la volta sono estremamente irregolari. Molto innanzi incontrasi una galleria dalla cui volta pende uno stalattite enorme quasi cilindraceo, lungo circa tre metri, col maggior diametro di quasi un metro. Vicino a questo vedesi la base di altro simile, che è stato asportato. E ciò senza parlare de’ molteplici e svariati stalatliti di secondo e terzo ordine. Andando an- cora innanzi, cominciasi a trovare il suolo coperto di acqua, ed in ultimo si raggiunge abbondante scaturiggine di acqua limpida e di sapore leggermente minerale, la quale s'insinua in meati sotterranei per quindi venir fuori. Nello inverno poi il volume d’ac- qua di siffatta scaluriggine cresce in guisa, da inondare tutta intera la grotta, e venir fuori dal vano pel quale nella state si entra. Osservai in oltre un fatto che non mi si era presentato giammai in altre grotte analoghe visitate, e che richiamò tutta la mia atten- zione. Da uno de’ macigni, sul quale non corrispondeva alcuno stillicidio di acqua, si elevavano verticalmente due fasci di fili bianchissimi come serici, impiantati in mucchi di terra ed immersi in vapore aqueo. Il maggiore di tali fasci aveva l'altezza di 75 millimetri, con un diametro di 28 m.; il minore era alto la metà, ma simile al primo per diametro. Non sapevo in quel momento riconoscere se si trattasse di produzioni vegetali analoghe alle muffe, ovvero di efflorescenze minerali. Pertanto pensai racco- gliere il più grande, conservandolo tra carta: e lo aver que’ fili conservata la loro rigidi- tà, prendendo, dopo disseccali, uno splendore argentino, mi fecero convincere trattarsi di sostanze minerali. Avendone pregato il chiaro collega prof. A. Scacchi, perchè vo- glia esaminarla, riserbo per ora il giudizio definitivo intorno alla na'ura di tale sostanza. L'andamento totale e le accidentalità della grotta ganna-gortòe mi facevano risov- venire della grotta de’ Coccodrilli, di Egitto, La somiglianza è grande, stando però una enorme diversità in ciò, che quella di Egitto, scavata in colline del deserto, è asciutta e quindi senza alcu na traccia di stalalliti, mentre in questa si hanno le condizioni per- fettamente opposte. In quanto alla vita animale dirò dapprima che nessuno indizio vi si trova d’in- setti cavernicoli. Di che s'intende facilmente la cagione pel fatto già riferito, che durante l’inverno essa è completamente ricolma di acqua. Per modo che di Coleotteri non ve- devansi neppure le Blaps e le Akis, che per lo meno nella prima galleria avrebbero tro- vato nella state le condizioni che esse ben spesso prediligono. L'ordine meglio rappre- sentato era quello de’ Lepidotteri. Oltre alla consueta Hypaena obsitalis, vi erano pa- recchi individui della Amph:pyra effusa ed una Depressaria thapsiella. E queste ultime due specie non erano già nella prima galleria, bensì nelle interne. Di Ditteri era ab- bondante un Tipulario. 28. Vado ad un'altro piccolo bosco, ove è una sorgente di acqua assai rinomata in paese per la sua ottima qualità, detta fonte de Luittu. Il bosco nulla mi offre che meriti di esser menzionato. Soltanto lungo il cammino raccolgo alcune specie poco comuni, fra quali mi giunge interessante la CArysopa Genei, che non vi era rara. La osservazione di essa mi ha fatto constatare che la mia Chrysopa difidilinea, sebbene molto affine a LIE questa, rimane sempre specie molto distinta. Raccolsi ancora una buona Altichella ; l'Hoplisus concinnus, ecc. 29. Con la vettura postale passo da Siniscola ad Orosei, che a quello succede sulla linea littoranea. Si parte alle ore selte e mezzo del mattino e si giunge presso all'una pomeridiana. Si percorrono quarantasei chilometri, ed in sì lunga estensione, tranne nelle adiacenze de’ due paesi, non altro si vede che terra incolta coperta di boscaglia, senza alcuna casa, fuori le tre cantoniere provinciali. L'è veramente sconfortante. D'altro lato, quando si pon mente alla natura geologica del luogo e vedesi essere tutta calcarea e schisto, lungi dallo addebitarne la poco premura de’ Sardi per l'agricoltura, ci è da meravigliare come vi vegetino rigogliosi que’ Lentischi, Cisti e Mirti, Orosei è paese di poco men che due mila abitanti, messo in pianura, con parecchie strade ampie e con alcuni edifizii che farebbero buona figura anche in città. Vi ha una discreta locanda, tenuta da un piemontese Baldassarre Ardito, nella quale mi colloco. Nelle ore pomeridiane il Cav. Giovanni Guiso, che spiegò per me molta premura, mi conduce in taluni giardini di agrumi, di cui vi ha abbondanza ne’ contorni del paese. Gli aranci se non giungono alla bontà di quelli di Milis da me ben conosciuti, di poco restano inferiori. 30. Due chilometri circa separano il paese dal mare, col quale è in comunicazione mediante buonissima strada. Quasi parallelo alla spiaggia ed in taluni punti distante soltanto pochi metri da essa, vi ha lo Stagno Petroso , lungo ed angusto, il quale non è uno slagno nel senso ordinario, ma una vasta palude non avente alcuna comunicazione col mare, non ostante gli stasse a tanto poca distanza, Le sue sponde sono fittamente coperte di Canne e Tife: ed è superfluo il dire come siffatta palude sia quella che con- tribuisce maggiormente a rendere l’aria d’ Orosei malsana. Fu questo stagno cui prima mi diressi. Ed a parte da ciò che può considerarsi comune con altri simili, vi erano talune specie che potevano considerarsi come quelle che gli davano una caratteristica speciale. Di esse la dominante era la Ceroxys urticae, non prima conosciuta di Sardegna; il Teratocoris notatus, con una varietà ad elitre complemente nere, che vedevo per la prima volta. Per eventualità vi raccolsi un Dicondylus, che sinora tengo indefinito. A si- nistra incontrasi lo stagno Santa Marta, che è pur esso una palude, la cui estremità si cerca meltere in comunicazione col mare, cui è vicinissima, mercè un canale sca- vato nella sabbia. Sulla sponda di questo sotto i detriti vegetali trovo abbondante un piccolo malachiideo che non ancor possedevo. 81. In prossimità del paese ha pure il suo termine il Fiume Cedrino, il quale scor- re per buon tratto per una lunga e flessuosa valle che da esso prende il nome di Valle del Cedrino. lo l'avevo traversata nel 1882 quando da Nuoro mi recai ad Oliena, e ne avevo riconosciuta tulta l’importanza. In questo giorno cominciai ad esplorare le sponde, e dico cominciai, dappoichè convinto che parecchi giorni sarebbero stati a destinare per esse. In fatti, in questa prima visita potetti percorrere meno di un chilometro di una delle sponde, la destra, dappoichè la importanza della caccia mi costringeva a progre- dire a lunghe pause. Non istarò a riferire ogni cosa, ma mi limiterò a dire delle specie che presso nessun altro fiume avevo trovato. Esse si riferiscono principalmente ad Ime- notteri e Ditteri. Fra i primi citerò varii Pteromalini da me non conosciuti e che non ho poluto ancora definire; il Nematus fulvipes non ancora conosciuto d’Italia e la Nomia diversipes. Fra i secondi la Cero0ys hortulana, assai affine all’altra raccolta il giorno L= innanzi presso lo Stagno Petroso, la Curticae. E da’ molti individui raccolti, poichè non era rara, potetti rilevare la poca validità della specie distinta da Rondani col nome di pomariana. Dappoichè le due macchie apicali, se ne’ più restano ben separate tra loro, in taluni confluiscono e riunisconsi lungo la costa. Di Coleotteri eravi il Litargus colora- tus. Come specie interessanti, ma estranee alle sponde del fiume, sono da menzionare il Bombylius quadrifarius, che citasi soltanto del mezzogiorno della Russia e 1’ Ogcodes pallipes, che è la seconda specie del genere e nel tempo stesso della ristretta famiglia de’ Cirtidei, che si rinviene .in Sardegna. Agosto 1. Nel passare da Siniscola ad Orosei avevo osservato che le condizioni del luogo in cui è piazzata la Cantoniera di Bèrchida, messa nel mezzo del cammino, sono alquanto diverse e più variate che non tutto il resto; e che in conseguenza quel posto meritava essere esplorato. Mi ero in oltre assicurato che nel piano superiore di detta canto- niera eravi una stanza decente, quella riservata agl’ingegneri, nella quale avrei ben po- tuto passare qualche notte. Pensai quindi fare un passo in dietro e recarmi colà, anche perchè per tal modo sarebbe diminuita la grande distanza che rimaneva inesplorata. Fatta quindi provvigione di quanto potea abbisognarmi per vitto di due giorni, la mat- tina alle sette partii col legnetto postale e vi giunsi alle dieci. La Cantoniera di cui è parola è stata intitolata di Bèrchida dal nome di un villag- gio che un tempo fu in quelle adiacenze e del quale oggi vedesi tuttavia qualche ru- dero. Essa è situata in una vasta pianura leggermente accidentata, di pochi metri su- periore al livello del mare, cinta da una corona di umili e disuguali monticelli, di cui il maggiore, che le sta quasi di fronte, è il Monte Labellino elevato in acuta punta, men- tre da dietro i monticoli che le restano alle spalle scorgesi una parte delle nude creste del Montalbo di cui si è già parlato. È poi traversata da un corso di acqua assai umile, nella parte bassa disseccato durante la state, mentre all'inverno ingrossando invade anche l’attigua campagna. La pianura l'è in parte ricoperta dalla caratteristica bosca- glia, in parte adorna di Euforbie, in parte tappezzata di Menta e Timo. La sponda del fiumicello è adorna di grossi e numerosi Vitex Agnus castus, ch'erano in fiore. Non appena preso posto nella cantoniera mi occupai ad esplorare quanto potetti di questa pianura. Nella boscaglia raccolsi il Conosimus corsicus e la Tettigometra Dam- ryti, per me nuove in Sardegna, non ostante di simili macchie ne avessi esplorate esten- sioni immense a cominciare da Capo Figari, senza parlare de’ viaggi precedenti. Pa- rimenti giungeami nuova una Noctua, la Toxocampa ephialtes, che non conoscevasi an- cora esistesse in Sardegna, sapendosi solo di Spagna e Sicilia. Trovai poi esser frequente la Excoprosopa rutila, della quale potetti raccoglier la femmina, assai più brillante del maschio. Sul letto asciutto del fumicello vagavano l’Aprzstus Sturmii e qualche Anthicus. 2. Raggiungo la spiaggia del mare che è distante, nel sito più vicino, tre in quattro chilometri. Percorsa la parte corrispondente della pianura in cui sta la cantoniera, si tra- versa la corona di monticelli per una gola che tiene a destra {a mezzogiorno) il Monte Labellino, ed a sinistra altra piccola altura, In fondo a questa gola trovasi una fonte di mediocre acqua denominata da remoto tempo /onte di Re Vittorio, presso la quale fo colazione, tanto per profiltare di un’acqua men cattiva; quella della cantoniera essendo i pessima. Varcata questa gola si esce in altra ampia pianura che finisce nel mare, per una piccola parte seminata a grano. In questa pianura trovasi una palude, i cui con- torni sono quasi ovunque irti di giunchi, ed un ampio canale alimentato dalla fonte di Re Vittorio e che, quando le acque son gonfie, raggiunge il mare, mentre nella state si arresta a cul di sacco un poco prima della sponda. I suoi margini sono riccamente alberati di vetusti Tamarici. Le ricerche ne’ campi di Euforbie, che dovetti traversare, mi dettero ancora varie specie che non avevo trovate prima. Non era rara una distin- ta varietà della Nezara Heegeri, specie non ancora trovata nelle Sardegna. Essa vive esclusivamente sopra le euforbie. Svolazzanti su fiori raccolsi la bella Callicera Macquar- tiù e V'Eristatis frutetorum. Interessanti mi riuscirono ancora un secondo individuo della Mutilla Perrisii, trovata a Terranova, e del Pompilus spissus. Fra le macchie svolazza- va sovente la Myelois crudella, Piralideo da Staudinger non segnato d’Italia. Le sponde della palude e del canale non mi offrirono alcuna cosa degna di nota. In fine potetti constatare che l'abbondanza della Exoprosopa rutila raggiunge il suo massimo presso quella spiaggia. 3. Alle 10 il carrozzino postale viene a rilevarmi per ricondurmi in Orosei, ove giungo alla mezza pomeridiana: ora in cui non era possibile uscire novellamente per la caccia: in vece mi occupo a riordinare le cose raccolte. 4. Esploro la sponda sinistra del fiume Cedrino. Raccolgo alcune specie non co- muni e non trovate nella sponda destra, come il Pompilus spissus, altro piccolo Pompi- lus che giudico specie non conosciuta, cui ho dato il nome di rubiginicollis e la Laphria fimbriata. Ciò però non mi produceva alcuna meraviglia. Sono specie di cui trovansi eventualmente degl’individui, e che non sono caratteristiche. Quel che mi sorprese fu il non trovare un individuo solo della Ortalidina che nella parte opposta avevo rinvenuta se non comune, per lo meno discretamente frequente. Del resto varie specie erano le stesse. 5. A pochi chilometri da Orosei vi ha quattro paesi, i quali insieme formano la così detta Baronia di Orosei, tutta cospersa di piccoli paludi putridi, sì da essere rite- nuta come Ja contrada più micidiale di tutta la parte littoranea orientale. Volendo per- tanto espletare la esplorazione di tutta intera la Baronia, mi determinai di recarmivi, anche perchè per accedere ad essi avrei percorso un tratto interessante della valle del Cedrino. Alle 5 a. m. esco a piedi con la mia guida. Si prende lo stradone che mena a Nuoro. Fatti pochi passi dal paese vedeva svolazzare per aria una quantità d’ insettolini aventi l’apparenza di moscherini e che dubitai dapprima si trattasse in realtà di qual- cuno di quei minutissimi e comuni Chironomus che sogliono appunto col loro numero formare nubecole. Pensai però prenderne alcuni, e con sorpresa ebbi a vedere che trat- tavasi di un’Efemerideo, il più piccolo di quanti si conoscano, avendo un corpo lungo appena due millimetri e mezzo e con due sole ali amplissime , nel quale ho potuto in seguito riconoscere una specie di Caenis affine alla Zactea, ma nondimeno distinta per la grandezza molto minore. Dopo aver percorsi circa due chilometri sullo stradone, m’immetto nella valle de] Cedrino, che da quel punto diviene più angusta. Essa si presenta qual ridente giardino animato dai fiori di Oleandro e Agnocasto, di cui tutta la sponda del fiume, e sopratutto la destra nella quale io mi trovava, era abbondantemente coperta, e che trovavansi in piena fioritura. Gran differenza però passa tra i fiori di Oleandro e quelli dell’Agnocasto in rap- ATtTI— Vol. II, Serie 2.°-N 0 8. id = a porto agl’Insetti. Su quelli del primo non un solo se ne vedeva di qualsiasi ordine, men- tre intorno a’ secondi era un via vai di Imenotteri e di Ditteri incessante. Bensì eran l’Ape da miele e la Eumenes gallica che col loro sterminato numero facean girar gli oc- chi in guisa da lasciare appena distinguere tutt'altro che vi capitasse; ma pure molte erano le buone specie che vi si potevano raccogliere. Per me vi trovai d’inleressante l’Ichneumon calabrarius da me stesso descritto nel 1863 in una memoria sulla Entomo- logia della Calabria Ulteriore sopra unico individuo, e che dopo quell'epoca non avevo: più incontrato. Terminata questa valle angusta si esce in una vastissima pianura, tutta coltivata , quella in cui sono disseminati varii piccoli paludi ed intorno la quale stanno distribuiti i quattro paesi, Onifài, Irgòli, Loculi e Galtellì, de’ quali i tre primi posti dalla sinistra del fiume che in conseguenza traversai a piedi e gambe nudi, essendo appunto quelli cui in precedenza dovevo essere. ll primo e nel tempo stesso più infelice che s'incontra è Onifài, ove mi arresto un quarto d’ora onde rifucillarmi con ova da bere ed un po’ di vino, essendosi giunti alle dieci, Dopo altri tre quarti d'ora giungo ad Irgòli, ove mi conveniva pernottare, E poichè è piccolo paese che non offre nè alloggio, nè persone accessibili, per la prima volta feci uso d'una lettera gentilmente fornitami dal Colonnello de’ RR. Carabivieri in Cagliari, Cav. Raimondo Allasia, la quale mi facoltava ad avere non solo scorie, ma anche alloggio in qualunque stazione ne avessi desidera- to. Vi trovai Brigadiere un gentile giovane fiorentino , sig. Alfredo Lelli, il quale con squisita cortesia mise la stessa sua stanza a mia disposizione. 6. Mi delermino recarmi a Loculi. Innanzi però di lasciare il paese (ore 6 a. m.), per condiscendere alie affettuose istanze del sig. Giovanni Luche, giovane che studia medicina in Cagliari, mi recai in sua casa a bere un bicchiere di vernaccia giusta l’uso sardo. Lungo la via, tra le aje coltivate vi ha campi di Euforbie e varii paludi intorno ai quali mi agiro, con scarso risultato. La sola cosa importante fu la Odontomya annu- lata, che è una delle specie rare del genere. Lòculi è uno de’ paesi ben rinomati del di- stretto di Nuoro per abbondanza di crassatori. Ed io volli entrarvi e fermarmi un tan- tino per farvi una frugalissima colazione, ed ebbi a notare il predominio de’ visi truci, i quali quasi evitano che il loro sguardo s’'incontri con quello di gente dabbene. Alle 6 p. m. lascio Irgòli ed a cavallo mi reco a Galtellì, giungendo attorno la sette. Quest'ultimo paese di poco è superiore agli altri tre già nominati, e quindi sarebbe pazzia lo aspettarsi di trovarvi un alberguccio qualunque; e neppure vi ha stazione di Carabinieri. Però sapevo già per fama che vi abitava una persona distinta per coltura e per cortesia, il sig. Sisinnio Pala Campus, Vicario Parrocchiale, A questi dunque, die- tro prevenzione fattale, mi diressi, e l'accoglienza corrispose perfettamente al concetto che per le avule informazioni me ne avevo formato. 7. Mi dirigo alla montagna che soprasta immediatamente il paese, delta montagna tutta-vista. Mi tiene compagnia il sig. Francesco Currias, giovane che studia legale nell’ Università di Cagliari. La montagna è coperta de’ soliti suffrutici, ed a mezza al- tezza soltanto vi ha un certo numero di Elci. Nè i primi, nè le seconde mi offrono cosa alcuna. Si discende pel versante opposto onde raggiungere un’angusta valle, nella quale era una sorgente d’acqua discretamente buona a bevere. Qui un pastore ci reca del latte premuto poco innanzi dalle capre, del quale ci abbeveriamo. Nella pianura nella quale eranvi campi incolti con Euforbie trovai la Sphea paludosa, qualche Chalcis (Sir- pes) biguttata. Annojato per l'assoluta mancanza di qualche oggetto importante ritorno al paese. — 19 — Avevo determinato nelle ore p. m. restituirmi ad Orosei, lo che potevo effettuire sia profittando della vettura postale che passava alle 2 p. m. proveniente da Nuoro, sia recandomici a cavallo nelle ore fresche del giorno, Però una colica viscerale sopravve- nula , e che io attribuì al latte, il quale suol cagionare tali malori quando gli animali han mangiato qualche pianta virosa, mi costrinse a guardare il letto. 8. Riavutomi abbastanza, alle 6 a. m. parto a cavallo ed alle 7 ‘/, sono ad Orosei. Avendone già molto di questa micidiale contrada, mi determino passare innanzi an- dando a Dorgali. I mezzi che il paese offriva erano sempre gli stessi, i saltafossi dei fattorini postali, a cavallo abbisognandovi sei in sette ore per contrade deserte e quindi insicure. Sicchè alle 5 ‘/, p. m. parto con uno di siffatti veicoli. Non si era ancora fatta la metà della strada, ed eran le ore sette, che la ruota sinistra, quella cioè corrispon- dente al lato che io occupavo, fuoresce dall’asse. Nessun danno nella persona, ma gra- vissimo danno per la posizione imbarazzante nella quale mi trovavo. Per fortuna era poco lontana una casa cantoniera, Mi dirigo quindi a piedi a questa, inviando i due can- tonieri in aiuto del fattorino per portare il legno sino alla cantoniera. Questa però non era di quelle che hanno stanze superiori. Pulite ed eleganti al di fuori, internamente sono luridi tugurii: si componea di tre stanze, una mediana che serve di vestibolo, ed una da cadaun lato per le famiglie de’ due cantonieri, che erano miserabili, e composta ognuna di sei e selte individui, Per la qual cosa mi convenne passar la nolte sdraiato a terra, senza poter chiuder occhi per la quantità di pulci che m'invasero il corpo d’ogni parte, e tenendo a poca distanza un pantano, le cui esalazioni giungevano sino alla cantoniera! 9. Non mi parve vero quando vidi penetrare nella stanza i primi albori per uscire a respirare aria libera, nonostante non sana. Il fattorino pertanto mi assicurava che la ruola erasi aggiustata in guisa da poter tirare innanzi fino a Dorgali. Sebbene non per- suaso, pure per la smania di uscir da quella triste posizione, cedetti. Alle cinque parto, ma dopo altra ora di cammino la ruota fuoresce novellamente. Presi allora l’ultimo par- tito che mi rimaneva, quello di andarmene a piedi a Dorgali, ove giunsi dopo altra ora e quarto di cammino, seguito dal fattorino col bagaglio sul cavallo. Trovai una stanza abbastanza decente presso un piccolo albergo. Però avvertivo di essere febbricitante, sicchè fui costretto prender letto, e vi rimasi tre giorni, assi- stito da affettuose cure dell'ottimo amico Dott. Gavino Putzu e dal Sindaco sig. Rai- mondo Serra. Ristabilitomi, non volli più saperne di ricerche scientifiche. Il giorno 15 scesi alla marina delta Gonone, ove alle 2 p. m, m'imbarcai sul Vaporino che fa il ser- vizio della costa orientale, il quale mi ricondusse in Cagliari. Durante la breve dimora fatta in questa città, visitando, come ho sempre fatto, il Museo Zoologico dell’Univer- sità, vidi con piacere che il prof. Lepori avea cominciato con molto zelo a riunire materiali per una collezione entomologica sarda. Il giorno 20 m’imbarco per Napoli. — DD PARTE SECONDA Elenco delle specie raccolte, non rinvenute ne’ viassi precedenti. Insetti COLEOTTERI Scarites arenarius, Bon. var. opacus. — Ne abbiamo rinvenuto un individuo nelle adiacenze di Orosei. Ophonus puncticollis, Payk. — Non raro presso le sponde del Padrongianus in quel di Terranova e nelle adiacenze di Siniscola. | Pogonus luridipennis, Germ.— Trovato non raro tra le radici delle Salsole sulle sponde dello Stagno San Teodoro presso Siniscola. Perileptus areolatus, Creutz. — Specie non registrata nel Catalogo di Coleotteri della Sardegna. L’ abbiamo rinvenuta presso le sponde del Cedrino in Orosei. Bryaxis corsica? — Non rara presso le sponde de’ fiumi a Siniscola-ed Orosei. Lathridius productus, Rosenh.— Specie non registrata tra i Coleotteri di Sardegna; trovata nelle adiacenze di Orosei: rara- Litargus coloratus, Rosenh. — Neppure que” sto trovasi registrato tra gl’ inquilini della Sardegna. Rinvenuto nelle pra- terie delle sponde del Cedrino presso Oresei: non sembrava raro. Dermestes vulpinus, Fab. — Raccolto nelle campagne di Siniscola. Limnius Dagerlasii, Latr. — Trovato abbon- dante sopra piante palustri in un punto solo delle sponde del Padrongianus. Heterocerus hamifer, Gen. — Trovato abbon- dante tra le radici delle Salsole sulle sponde dello Stagno San Teodoro. Rhizotrogus . . . . ? —Ne abbiamo un individuo soltanto, raccolto sulla collina di Capo Figari. Acmaeodera Revelieri, M uls. — Specie (o va- rietà della pulchra Fab.) non registrata tra Coleotteri della Sardegna. Sembra abbastanza rara. Ne abbiamo rinvenuto un individuo nel tenimento di Orosei. Adelocera punctata, Herbs.— Poco diffusa. Ne abbiamo trovato un individuo nel te- nimento di Siniscola. k Metholcus cylindricus, Germ.—Trovato piut- tosto abbondante sulla collina di Capo Figari. Anobium domesticum, Foure. — Raccolto nella campagna di Tempio. Tribolium ferrugineum, Fab.—Raccolto nelle adiacenze di Siniscola. Helops ebeninus, Vill. —Specie assai poco diffusa. Ne abbiamo rinvenuto un in- dividuo nel Campidano di Cagliari. Notoxus monoceros, Lin. — Trovato molto abbondante sopra i Salici delle sponde del Cedrino presso Orosei. Ochthenomus unifasciatus, Bon. — Ne abbia- mo rinvenuti due individui, l'uno in Siniscola entro casa, l’altro nelle cam- pagne di Orosei. Nel catalogo de’ Co- leotteri della Sardegna non è registrato. Mordella Gacognii, Muls.— Specie poco dif- fusa. Ne abbiamo rinvenuto un bello in- dividuo sopra i fiori della Euphorbia Cupani , ne’ campi di Siniscola. Neppure questa trovasi segnata nel catalogo citato. Mordellistena micans, Germ. — Molto abbon- dante su’ fiori della nominata Euphorbia presso Siniscola. Anaspis Geoffroyi, Mull. v. 4. maculata.— Raccolta nelle vicinanze di Orosei. Bruchus lentis, Bohm.— Non segnato come inquilino della Sardegna. Raccolto nelle campagne di Orosei. Tropideres curtirostris, Scop. — Specie non ancora segnata della Sardegna, ove sem- bra pur rara. Ne abbiamo rinvenuti due sd DD individui, l'uno a Capo Figari, l’altro alle pendici di Montalbo. Attelabus atricornis, Muls. var. obsidianus.— Rinvenuto nel tenimento di Orosei. Rhinoncus perpendicularis, Reich. ( sub/a- sciatus, Gyll.)—Raccolto nelle cam- pagne di Orosei. Coeliodes rubicundus, Payk. — Specie non segnata tra Coleotteri sardi; trovata non non rara presso Orosei. Smicronyx jungermanniae, Reich. — Specie non registrata tra Coleotteri sardi. Tro- vata sopra Montalbo: rara. Orchestes testaceus, Mull.— Rinvenuto nei boschi di Elci presso Tempio. Cleonus (Plagiographus) montalbicus, A. Co- sta. — Ne abbiamo rinvenuto un indi- viduo sulle pendici di Montalbo. Nanophyes rubricus, Rosenh.— Specie piut- tosto rara ; raccolta nelle adiacenze di Terranova. Hylesinus vestitus, Muls.—Specie non se- gnata come abitatrice della Sardegna, nè del resto d’Italia. Rinvenuta sulla mon- tagna di Montalbo. Phloeophthorus tarsalis, Forst. — Neppur questo è notato tra i Coleotteri sardi. Rinvenuto nelle adiacenze di Orosei. Xyleborus saxeseni, Rotz. — Trovato a Mon- talbo: abbondante. Clytus antilope, Zett.—Specie non prima tro- vata in Sardegna. Ne abbiamo rinvenuto ° un solo individuo nel territorio di Orosei. Exilia timida, Men.— Rinvento nella mede- sima località che il precedente. Leptidea brevipennis, Muls. — Ne abbiam trovato un individuo solo sopra le Elci, nel Monte Graziano presso Siniscola. Leptura scutellata Fab. — Raccolta nel teni- mento di Orosei, poco frequente. Crioceris paracenthesis, Lin. var. Dahl, Lac.—Raccolta nelle adiacenze di Si- niscola. Cryptocephalus sulphureus, Oliv.—Truvato molto abbondante sopra i Salici delle sponde del fiume presso Torpè. Nel Ca- talogo de’ Coleotteri della Sardegna non è registrato. — equiseti, nob.—Abbondantissimo sopra l’Equisetum presso le sponde del Rio Coghinas in luogo detto S. Rocco. —. cognatus, nob.—Abbondante sopra i Salici delle sponde del Coghinas |. d. S. Rocco e del fiume di Torpè. Pachybrachys cinctus, Su ff.—Neppur questa specie conoscevasi abitasse in Sardegna. Ne abbiamo rinvenuto un individuo tra Cisti e Lentischi alle pendici di Mon- talbo. Pachnephorus tesselatus, Duft. — Trovato nelle adiacenze di Orosei. Chrysomela polita, Lin.—Raccolta nelle adia. cenze di Siniscola; non frequente. Plectroscelis aridula, Gy]l.— Rinvenuta nei boschi di Tempio. Epithrix pubescens, Ent. Hest. —Raccolta presso Orosei: poco frequente. ORTOTTERI Cyrtaspis scutata, Char.—Specie non ancora segnata tra gli Ortotteri Sardi: trovata ne’ boschi di Montalbo. Leptophyes punctatissima, Bosc. — Ne ab- biamo rinvenuti due individui, nelle campagne di Orosei. NEVROTTERI Libellula striolata, Charp. — Specie diffusa per quasi tutta l’isola: molto fre- quente. Chimarrha marginata, Lin .—Rinvenuta pres- so le sponde de’ fiumi di Terranova e Siniscola: non rara. Limnophilus vittatus, Fab.—Raccolto nei bo- schi di Tempio. Grammotaulius atomarius, Fab.—Ne abbiamo raccolto un individuo ne’ boschi di Mon- talbo. Chrysopa Genei, Ramb.—Raccolta nelle adia- cenze di Siniscola e Posàda. Caenis pygmaea, A. Cost. — Abbondantissima presso Orosei nella prime ore del mattino. IMENOTTERI Sphex paludosa, Ross. —Trovata molto ab- bondante nelle pianure incolte presso Terranova. Qualche individuo presso Ir- gòli e Galtellì. Enodia lividocincta, A. Cost.—L’abbiam vin- venuta frequente in tutti i campi ad Euforbie tra Siniscola e Posàda e presso Galtellì. Stizus bifasciatus, Fab.— Specie piuttosto rara. Ne abbiamo rinvenuto un indi- viduo solo nel tenimento di Orosei. ea Nysson trimaculatus, Ross. — Ne abbiamo raccolto un inlividuo nelle adiacenze di Tempio, Crabro, sp. n.? — Ne abbiamo un individuo solo trovato ne’ campi incolti del teni- mento di Siniscola. Priocnemis !) grossus, nob.—L’abbiam tro- vato molto frequente ne’ campi ad Eu- forbie tra Siniscola e Posàda. Qualche individuo ancora ne abbiam veduto pres- so Terranova ed Orosei. i — egregius, Lep.—Anche di questa spe- cie abbiam trovato due soli individui femine nella medesima località preci- tata. Pompilus spissus, Zett.—Sembra assai poco diffuso. Ne abbiam trovato un individuo presso le sponde del piccolo fiume di Torpè, un altro nella valle del Cedrino ed un terzo in contrada Bérchida in quel di Orosei. — rubiginicollis, A. Cost.—Ne abbiam rinvenuto un individuo nella valle del Cedriro in quel di Orosei. Mutilla carinata, Sic. Rad.7* — Ne abbiamo un individuo solo maschio raccolto nel Capo Figari. i — Perrisii, Sic. Rad.2 — Minuta e gra- ziosa specie, stata descritta sopra unico individuo della Corsica, che sembra poco diffusa: ne abbiam trovato un indivi- duo presso Terranova ed un altro nella contrada Bérchida. Colobopsis truncata, Spin.-—Raccolta nel te- nimento di Siniscola; però osservata an- cora in altri luoghi. Tetramorium caespitum , Lin. var. meridio- nale, Em.—L’abbiamo raccolto nelle adiacenze di Tempio. Megachile maritima, Kir.—Trovata presso la fonte Graziano in quel di Siniscola. Pare non debba esservi molto rara. — sericans, Fonsc.—Raccolta nelle cam- pagne di Siniscola, poco frequente. Lithurgus fuscipennis, Lep.—Rinvenuto nei luoghi stessi. Nomia diversipes, Latr.—Ne abbiamo rac- colti due individui maschi nelle adia- cenze di Orosei. — aureocincta, A. Cost. — Raccolta nel tenimento di Siniscola, meno rara della precedente. Anthidium nanum , Mocs.—Ne possediamo un individuo rinvenuto ne’ campi incolti ad Euforbie di Siniscola. Nematus sardiniensis, A. Cost.g' —Ne abbia- mo rinvenuto un individuo sopra i Salici sulle sponde del Rio Coghinas in contra- da S. Rocco. — (an £ praecedentis?)—Ne abbiamo tro- vato un individuo sugli stessi Salici che la specie precedente. — fulvipes, Fall.—Specie non ancora se- gnata d’ Italia. Ne abbiamo rinvenuto una femmina nelle adiacenze di Orosei, sopra i Salici. Xylocopa cyanescens, Br. (minuta, Lep.)— Raccolta nel tenimento di Orosei. Ichneumon calabrarius, A. Cost.—Ne abbia- mo un individuo solo rinvenuto nella Valle del Cedrino tra Orosei ed Onifai. — obsoletorius, A. Cost.—Raccolto nelle adiacenze di Siniscola: sembra abbastan- za raro. Cryptus spiralis, Fourc. — Ne abbiamo rin- venuto un individuo ne’ boschi di quer- ce-sughero presso Tempio ed un altro in quelli di Montalbo. Glypta lycorinoides, A. Cost. — Ne abbiamo rinvenuti i due sessi (un maschio ed una femmina) nelle adiacenze di Siniscola. — flavolineata, Grav.— Raccolta ne’ bo- schi di Tempio. Ephialtes carbonarius, Christ.—Ne abbiamo un solo individuo femmina raccolto nelle adiacenze di Orosei. Bactyrischion bicoloratum, A. Cost. — Rac- colto presso Siniscola ed Orosei. Aspidocoris cyaneus, A. Cost.—Abbondante sopra i Mirti a Capo Figari, Siniscola, Orosei ?). EMITTERI Crocistethus Waltli, Fieb.—Ne abbiamo tro- vato un solo individuo sotto i sassi nel Capo Figari. Nezara Heegeri, Fieb. — Trovata frequente nella pianura di Bérchida sopra l_Eu- forbia Cupani; qualche individuo ancora presso Orosei. 1) Non ostante le innovazioni introdotte recentemente da Kohl a questo genere , nol proseguiremo a considerarlo ne' sensi di Dahlbom. Discuteremo in altro speciale lavoro su quelle idee. : 2) Moltissimi Pteromalini giacciono indeterminati, non avendo potuto riconoscerli nelle non poche opere, anche specia- lissime, che abbiamo a nostra disposizione. de Be Salda ciocta, H.Sch.—L'abbiam rinvenuta sulle sponde del Padrongianus presso Terranova. . — opacula, Zett. var. nizidula , Put. Trovata nella stessa località che la pre- cedente. Rhiparochromus chiragra, Fab. — Trovato nelle adiacenze di Posàda. Pterotmatus suberythropus, A. Cost. — Ne abbiamo rinvenuto un individuo nel Cam- pidano di Cagliari. Acompus rufipes, Wolff—Rinvenuto ne’ bo- schi de’ dintorni di Tempio. Hadrophyes sulphurella, Fieb. Put.—Tro- vata abbondantissima sopra le salsole; presso Terranova. Conosimus corsicus, Leth.—Rinvenuto nella pianura di Bérchida, sopra i Cisti, non raro. Delphax Mulsanti, Fieb.—Raccolto presso le sponde del Cedrino in quel di Orosei. Tettigometra Damryi, Leth.— Trovata ab- bondante nella pianura di BércR:da : nel. la boscaglia. Pediopsis cerea, Germ.— Raccolta presso le sponde del Coghinasin contrada S. Rocco. — virescens, Fab.—Trovato abbondante sopra i Salici delle sponde del Coghinas, contrada S. Rocco. Chiasmus translucidus, Muls. R.—Rinve- nuto presso lo Stagno di San Teodoro: raro. Cicadula salsolae, Put.—Specie trovata ab- bondante tra le salsole delle sponde dello Stagno di San Teodoro.. Eupteryx urticae, Fab.—Raccolta ne’ boschi delle adiacenze di Tempio , non rara. — corsica, Leth.—Rinvenuta con la pre- cedente, del pari frequente. Typhlocyba jucunda, H. Sech.—Anche questa l’abbiam trovata ne’ boschi di Tempio, ma piuttosto rara. LEPIDOTTERI Rhodocera rhammi, Lin.—Trovata nelle adia- cevze di Siniscola, non rara. Thecla quercus, Lin.—Raccolto ne’ boschi di querce-sovero delle adiacenze di Tempio. Deilephila celerio, Lin. — Ne abbiamo rinve- nuto un individuo presso Siniscola. — euphorbiae, Lin.—Le larve in diverse età erano abbondantissime sopra la co- mune euforbia presso il littorale di Capo Figari, ne’ primi giorni di luglio. Heterogenea asella, Schiff.— Raccolta nelle adiacenze di Terranova nella prima metà di luglio. Dianthoecia nana, Rotl.—Ne abbiamo trovati due individui nelle adiacenze di Terra- nova. Amphipyra effusa, Boisd. — Trovata abbon- dante entro la grotta ganna-gortòe pres- so Siniscola. Scoliopteryx libatrix, Linn.—Rinvenuta nelle adiacenze di Orosei. Cucullia lychnitis, Schr.— Ne abbiamo tro- vate larve nelle adiacenze di Orosei. Catocala dilecta, Hubn.—Rinvenuta nel Cam- pidano di Cagliari. Acidalia bisetata, Hubn.—Ne abbiamo rinve- nuto un individuo nelle adiacenze di Si- niscola. Lythria purpuraria, Lin.—Raccolta nel Cam- pidano di Cagliari nella seconda metà di Agosto. l Hypotia corticalis, Schiff.—Rinvenuta nella boscaglia in Capo Figari. Botys diffusalis, Guen.—Rinvenuta nelle cam- pagne di Siniscola. Crambus pallidellus, Dup. var. (2) —Raccolto nelle adiacenze di Siniscola. — chrysoconchellus, Scop. — Raccolto nel Campidano di Cagliari. Pempelia lacteomarginata, A. Cost. — Rinve- nuta presso le sponde del Coghinas, in contrada S. Rocco. Myelois crudella, Zett.— Raccolta nella pia- nura di Bérchida, alquanto frequente. Depressaria thapsiella , Zett. — Rinvenuta nella grotia garna-gortòe di Siniscola: poco frequente. Argyrestia albistria, Ha w. — Raccolta rei boschi di Tempio. Gracilaria alchimiella, Scop. — Trovata al- quanto abbondante presso le sponde del Padrongianus nelle adiacenze di Terra- nova. Stagmatophora albiapicella? Hubn.—Rac- colta ne’ boschi di Elci di Montalbo. Mimaeseoptilus pterodactylus. Lin.—Raccol- to nelle adiacenze di Terranova. DITTERI Odontomya annulata, Meig. — Raccolta nel Campidano di Cagliari : poco frequente. Oxycera trilineata, Fab.—Ne abbiamo rinve- nuto un individuo nelle adiacenze di Si- niscola. = dè Sargus cuprarius, Lin.—Trovato presso le sponde del Padrongianus in vicinanza di Terranova. Exoprosopa rutila, Wiedm.— Specie non an- cora conosciuta di europa. Diffusa per molti luoghi, dallo Stagno San Teodoro sino ad Orosei: abbondantissima presso la spiaggia del mare di Bérchida. Ogcodes pallipes, Latr.—Ne abbiamo rinve- nuto un individuo presso le sponde del Cedrino in quel di Orosei. Laphria limbata, Mgn.—Trovata nel luogo stesso della specie precedente. Tachytrechus ripicola, Loew. — Abbondante presso le sponde del Coghinas là ove sono le terme di Castel Doria in quel di Per- fugas. Callicera Macquarti, Rond.—Specie a bastan- za rara: ne abbiam rinvenuto un indivi- duo solo nella pianura di Bércehida. Eristalis quinquelineatus, Fab.—Specie piut- tosto rara: ne abbiamo raccolto un indi- viduo nelle adiacenze di Terranova. Ceroxys urticae, Lin.—Trovata presso le spon- de dello Stagno petroso in quel di Orosei. Tephritis ramulosa, Loew.—Specie piuttosto rara e non conoscinta dal Rondani: ne abbiam trovato un individuo a Capo Fi- gari !). TISANURI Sminthurus fuscus, De Geer.—Raccolto nella valle del Cedrino presso Orosei. Orchesella villosa, Geof. — Raccolta al Capo Figari; non rara. Machilis rupestris, Luc. — Trovato frequente sulle nude rocce delle adiacenze di Ca- gliari presso l’Anfiteatro. Lepismina aurea, L. Duf.—Specie diffusa per tutta l’isola, sotto i sassi, e fin entro le abitazioni in luoghi oscuri e reconditi. Aracnidi Oribates humeralis, Herm.— Trovato in gran copia sopra alberi di giovani Elci nelle adiacenze di Tempio. Molluschi Clausilia Kusteri, Rossm. var. sancta, Paul. — Trovata molto abbondante sopra le nu- de rocce e sotto i sassi della massima al- tura di Montalbo. Ferussacia lubrica, Mull.—Ne abbiamo rin- venuti alcuni individui sulle sponde del Padrongianus presso Terranova. Planorbis spirorbis, Lin —Trovato nel fiume Padrongianus, poco abbondante. SPECIE DA AGGIUNGERE ALLE MEMORIE PRECEDENTI Coleotteri Stenus flavipes, Steph. (flum Erich.) — Rinvenuto nelle adiacenze di Villacidro. Bruchus ?) pallidicornis, Bohm. — Raccolto nelle campagne di Ozieri. — foveolatus, Gyll. — Trovato su’ monti del Gennargento nel Settembre. — murinus, Bohm.,—Raccolto nelle adia- cenze di Tempio in Settembre. Bruchus obscuripes, Gyll. — Specie non se- gnata nel Catalogo de’ Coleotteri d’Italia. Raccolto nelle praterie delle campagne di Assemini, in giugno. — picipes, Germ.—Trovato molto abbon- dante nelle praterie delle vicinanze di Cagliari, in Aprile. — dispar, Germ.—Raccolto sulle mon- tagne del Gennargento, in Settembre. 1) Son queste le poche specie che abbiam potuto determinare ; ma maggiore è il numero di quelle che rimangono in- nominate. 2) Conserviamo il nome di Bruchus nel senso Linneano per serbare la uniformità di nomenclatura con le memorie precedenti. “ie Nevrotterì Hydropsyche exocellata, L. Duf.—Raccolta presso i rivoli di Tissi ed il fiumicello di San Sperate. Beraea maurus, Curt.—Trovata abbondante presso la sorgente di acqua di caronge- ponte, nel tenimento di Guspini. Ambedue queste specie non figurano d'Italia nella classica e recente opera del Mac- Lachlan, dal quale ci sono state de- terminate. Imenotteri Pompilus retusus, nob.—Ne abbiamo un indi- viduo femmina, raccolto a Scala di Gioc- ca; ne possedevamo già un altro della Sicilia. Sembra però a bastanza raro. — luctigerus, nob.—Raccolto presso Igle- sias, Serrenti e Porto Torres. Ne abbia- mo ambedue i sessi. Molluschi Clausilia Meisneriana, Shuttl.— Raccolta in copia nelle adiacenze di Sassari, sopra muri ombrosi della valle di Loculento : in maggio. Buliminus obscurus, Mull.— Anche questa specie l'abbiamo raccolta nelle adiacenze di Sassari, in maggio: poco frequente. PARTE TERZA Descrizione delle specie nuove ec. illustrazione di altre sià conosciute. Scarites arenarius, Bon. var. opacus. L'individuo segnato come varietà dell’arenarius differisce dal tipo non tanto per minore splendore, il quale potrebbe dipendere da cause puramente accidentali; quanto per diversità di scultura. Le rughe frontali sono in piccol numero e meno forti ; l’ oc- cipite manca di rughe. Sul protorace vedesi appena qualche vestigio delle rughe tra- sversali ondulate: gl’intervalli dell’elitre sono più spianati e lisci. Ophonus puncticollis, Payk. specimen anomalum. Fra i molti individui conviventi presso le sponde del Padrongianus ve ne ha uno che presenta un'anomalia di colorito proveniente da parziale e non simmetrica man- canza di melanismo. L’elitra destra presenta una macchia fulvo-ferruginosa quasi cir- colare poco innanzi l'estremità posteriore. L’elitra sinistra ha dello stesso colore una macchia circolare più innanzi di quella dell’elitra destra ed un’altra più avanti, oblunga, poco discosta dal margine esterno. Attelabus atricornis, Muls. var. obsidianus. Niger, nitidissimus, antennis immaculatis, prothorace elytrisque nigro-piceis uni= coloribus. Molto distinto è questo Attelabo, sì che a primo aspetto si direbbe una specie di- ATTI Vol. II, Serie 2.a-N 8. = Soa e versa dalle ordinarie di europa. Nel fondo però non vi troviamo caratteri essenziali che lo facciano differenziare dall’ atricornis tanto diffaso in Sardegna. Il fatto notevole che lo distingue è il colorito del protorace e dell’ elitre, che si uniforma quasi a quello del resto del corpo, e solo a certa inclinazione vi si scorge il piceo. Cleonus ( Plagiographus ) montalbicus, nob. C. niger, supra squamositate ferruginea indutus, pronoto vitta utrinque in humeros continuata alba; subtus cinereo squamulosus, fusco irroratus; rostro in medio carinato et utrinque canaliculato ; pronoto antrorsum sensim paulo angustato, haud coarctato , dorso planiusculo, in medio antice carinulato, postice sulcato, utrinque punctato-scabro ; elytris convexiusculis, punctato-striatis et seriatim pallido guttulatis, vittis duabus obli- quis obsoletis, etin margine inflexo macula alba elongata notatis. — Long. mill. 16. Rostro crasso, lungo una volta e mezzo il capo , robusto, un poco allargato da dietro in avanti: con una carena ben marcata, biforcuta presso la estremità, solcato tra la carena ed i margini laterali. Antenne robuste; il primo articolo del flagello poco più lungo del secondo. Torace un poco più corto della propria ampiezza alla base, poco ristretto da dietro in avanti, a lati quasi diritti, senza traccia di strozzatura trasver- sale, a lobi dietroculari mediocremente sporgenti: dorso poco convesso, con delicata carena nella metà anteriore ed un solco ampio ma poco profondo nella posteriore : d’ambo i lati con punti impressi stivati e disuguali. Elitre ovato-oblunghe, convesse, con otto serie di punti impressi, distanti tra loro per uno spazio doppio del proprio dia- metro, assai minuti nella porzione posteriore. | Il colore nel fondo è nero. Tutta la faccia superiore è fittamente coperta di squame ferruginose che ne occultano completamente il colore fondamentale. Nel capo vi ha un delicato contorno orbitale bianco : nel torace vi hanno due ampie strisce laterali (una per lato) bianche, le quali sì continuano sugli omeriì dell’elitre; queste hanno in oltre una striscia bianca verso il mezzo della parte inflessa : e guardate con ingrandimento le strie punteggiate presentano una serie di goccioline più chiare: le due striscie obli- que e la macchia anleapicale, solite a trovarsi nelle specie di questo genere, sono ap- pena accennate. Il petto anteriore è coperto di squamette assai stivate cenerine; il re- sto del petto ed il ventre sono rivestiti di peli cenerini che lasciano punti nudi e quindi oscuri. Antenne e piedi con pubescenza cenerina. Osservazione. Grande è la difficoltà di poter giudicare della novità di un Curculio- nite e specialmente de’ Cleonus. Però ci siamo determinati a ciò fare dopo averlo co- municato a due distinti Coleotterologisti, quali il Conte Baudi di Selve, che ha in ispe- cialità la più ricca collezione di Coleotteri della Sardegna, ed il Dott. Edm. Reitter. Da ambedue abbiamo avuta identica risposta di essere specie a loro ignota. Cleonus Raymondi, Perris '). Di questa specie, che finora è esclusivamente propria della Sardegna , possediamo due individui fin dal 1881, i quali mentre non lasciano alcun dubbio nell'animo in 1) Descriptions de quelques Coleoptères nouveaux — L'Abeille, VII, p. 22. dp =" quanto a spettanza specifica , ci porgono occasione a qualche illustrazione utile , attese le variazioni cui la specie va soggetta. Lo che facciamo tanto più volentieri, in quanto i nostri due individui sono in ottimo stato di conservazione. Il rostro nel mezzo è nudo, quindi nero, elevato in ottusa car ena, percorsa da un solco, il quale in uno degl’ individui s' interrompe innanzi l'estremità posteriore per lo avvicinarsi e fondersi delle pareti. In tal condizione sono stati gl’individui osservati dal Perris, il quale perciò disse che la carena posteriormente ha una fossetta ed in avanti è solcata. Nell’altro individuo, che è più piccolo, lungo sedici millimetri, il solco rimane integro per tutta la lunghezza della carena, I solchi che fiancheggiano la carena sono rivestiti di peluria stivata e coricata cenerina che forma due strisce laterali ( una per lato ). Sull’occipite vi ha una piccola striscia di simile peluria che fa continuazione con la striscia media del protorace. Le elitre hanno le due fasce oblique e lo spazio subapicale nudi; e questi nell’individuo più piccolo hanno piccoli tubercoli rilevati e splendenti, e nell’individuo più grande questi tubercoli sono in numero maggiore, più sviluppati e congiunti da rilievi parimente di un nero assai splendente formanti quasi una rete a maglie irregolari. Cryptocephalus equiseti, nob. Cr. fulvus, antennis apice fuscis; pronoto marginibus antico et lateralibus macu- lisque duabus ante scutellum pallidis; elytris fortiter et aeque a basi ad apicem puncta- to-striatis, flavis sutura vittaque illi parallela brunneis; pectore medio et postico abdo- mineque nigro-cinerascentibus. — Long. mill. 2. Antenne delicate, lunghe più della metà del corpo ; i primi cinque articoli fulvi, i rimanenti nerastri. Capo spianato, liscio, con pochi punti impressi; una linea impressa un poco angolosa separa la faccia dalla fronte: colore fulvo chiaro. Protorace più largo che lungo, molto convesso, liscio, solo con forte ingrandimento vedendosi punti esilis- simi, sparsi; fulvo, col lembo anteriore e i laterali e due macchie rotonde contigue nel mezzo della base innanzi lo scutello, pallidi. Elitre con strie ben marcate e fortemente punteggiate dalla base alla estremità, con gl’intervalli leggermente convessi; il callo omerale ben rilevato e liscio; gialle, con la sutura bruno-nerastra ed una striscia bruno- rossastra più ampia, più vicina al margine esterno che alla sutura, occupando gl’inter- valli sesto, settimo ed ottavo, diritta fino al callo subapicale, ed in tutto il cammino pa- rallela alla striscia suturale e quindi da questa del tutto separata ; il fondo de’ punti impressi bruno-rossastro. Petto anteriore fulvo; il resto del petto e l’addome neri ten- denti al cenerino. Piedi fulvi. ; Osservazione. Secondo la monografia de’ Criptocefali del sig. De Marseul ') que- sta specie appartiene al gruppo XXIII nanî. Le sue maggiori affinità sono col Cr. mi- nutus. Ed a primo aspetto potrebbe confondersi con la varietà di questo descritta da Marseul, nella quale la macchia omerale si continua formando una striscia dorsale bruna. Però se ne distingue per i pupti dell’elitre più forti e più ravvicinati e per gl’in- tervalli delle strie più convessi. I quali caratteri veggonsi costanti sopra centinaja d’in- dividui, senza che tra essi trovisi un solo appartenente al tipo del minutus. 1) Monographie des Cryptocephales du Nord de l’Ancien monde — L'Abeille, tom. XIII. = = Cryptocephalus cognatus, nob. C. flavidus, plus minusve in pronoto rufescens, antennis apice fuscis, pronoto po- stice, elytris anterius scutelloque limbo subtilissimo nigro; pronoto laevi, subtiliter pun- ctulato ac impressione transversa utrinque notato; elytris punctato-striatis. — Long. mill. 2-2, 5. Variat: pygidio ventreque plus minusve nigricantibus. Corpo interamente di color gialliccio, tendente al rosso nel pronoto: solo vedesi un esilissimo profilo nero nel margine posteriore inflesso del pronoto, nell’anteriore dell’elitre e nel perimetro dello scutello: gli ultimi quattro o cinque articoli delle an- tenne bruni, Faccia inegualmente punteggiata, senza solco mediano: una linea impressa tra la base delle antenne. Torace mediocremente convesso, finamente e poco stivata- mente punteggiato; con una impressione trasversale da ciascun lato, poco dietro la metà della lunghezza: la quale impressione nel fondo è lineare e ben marcata, Scutello troncato. Elitre a strie punteggiate, regolari, più superficiali ne’ due quinti posteriori. Pigidio a margine rilevato, stivatamente punteggiato. Tibie anteriori diritte , tarsi non dilatati. Osservazione. La specie cui maggiormente si avvicina questo Criptocefalo è il po- litus. Se ne distingue nettamente per le impressioni trasversali del pronoto. Per queste partecipa del populi e del fallax, che sono altri due Criptocefali nani con impressioni trasversali nel pronoto ‘); ma dal primo differisce per le tibie anteriori diritte, dal se- condo pel pronoto il quale non ha punti assai infossati, un po’ allungati e più o meno stivati, e per l’elitre le cui strie punteggiate non sono molto irregolari. Leptophyes punctatissima, Bosc. Sebbene ne avessimo rinvenuto soltanto due maschi, pure la loro determinazione non ci ha dato alcuno imbarazzo dietro i confronti con quelli raccolti nelle Calabrie uni- tamente a femmine. De’ due indicati, l’uno più grande lungo quindici millimetri, quadra benissimo con la descrizione fattane dal Fischer (più precisa di quella del Brunner). Vi è solo da aggiungere che lungo il dorso dell'addome vi ha una serie di macchie (una per ciascun anello) quadrangolari, diminuenti gradatamente di grandezza , ciascuna di- visa in due metà da una linea longitudinale pallida. Il colore di queste macchie è roseo- ferruginoso come le quattro angolari del protorace. L'altro individuo più piccolo corri- sponde alla varietà notata da Serville mancante delle strisce laterali gialle dal proto- race: varietà che Fischer menziona, ma non conobbe in natura. Caenis pygmaea, nob. C. fusco-rufescens, abdomine albo-cinerascente, pedibus albidis, femoribus anticis apice nigris, setis caudalibus corpore plus triplo longioribus; alis lacteo-hyalinis, vena 1) Il sig. De Marseul assegna a’ Criptocefali nani « pronoto senza impressioni trasversali», e vi registra il populi che le ha al pari dell’affine /aZa%. Ai quali aggiungendo questo da noi descritto, si hanno tre specie di Criptocefali nani con pronoto a impressioni trasversali. Ig secunda (subcostali) et tertia nigris; antennarum scapo nigro, seta albida.—Long. corp. m.2, 5; set. caud. m. 9. Antenne coi due primi articoli neri, il terzo capillare bianchiccio Capo e torace di color bianco-rossiccio. Addome bianco cenerognolo. Piedi bianchicci; l'estremità dei femori anteriori nera. Ali leggermente lattiginose, la sola vena sotto costale e la terza nere. Certamente questa è molto affine alla Oeycypha lactea Burm. ') o Caenis lactea , Pict. *). Se ne distingue primamente per la grandezza di molto minore e pel colorito del capo e del torace bruno-rossastro, per lo meno nello stato secco, ma anche nel vivo non griggio come lo dice Burmeister. | Priocnemis grossus, nob. P. valde robustus, niger, antennis, capite, pronoto, mesonoto, scutello ac postscu- tello flavo-ferrugineis, abdomine rufo-ferrugineo, summa basi et segmentorum 1-4-5 margine postico nigris; pedibus flavo-ferrugineis coxis, trochanteribus, femorum basi tarsorumque apice nigris ; alis flavo-ferrugineis apice nigris; antennis validis, articulo tertio quarto parum longiore; metanoto transversim striato, medio canaliculato. 2 — Long. mill. 26. d' paulo minor at pariter robustus, fascia frontali et mesonoti margine antico (scutello et postscutello) nigricantibus.— Long. mill. 23. Femmina. Corpo grossolano, assai robusto. Antenne robuste, proporzionalmente meno allungate, col terzo articolo appena di ‘una quinta parte più lungo del quarto. La prominenza antennifera ampia, profondamente biloba in avanti, leggermente solcata nel dorso. Metanoto convesso, tutto striato per traverso, canalicolato nel mezzo. Antenne, capo, dorso del protorace e del mesotorace, scutello e dietroscutello giallo-ferruginosi. I primi quattro o cinque anelli addominali rosso-ferruginosi, col mar- gine posteriore nero; il primo nero anche alla base. Piedi rosso-ferruginosi con le àn- che, i trocanteri , la base de’ femori per una estensione maggiore o minore e gli ultimi articoli de’ tarsi, neri. Ali giallo-ferruginose, con la estremità lunulata nera: la terza cellola cubitale grande, poco ristretta verso la radicale. Maschio. Più piccolo della femmina, ma anch’ esso robusto. La prominenza anten- nifera è più angusta, compressa, fortemente canalicolata nel mezzo. Una fascia frontale, il margine anteriore del mesonoto, talvolta ancora lo scutello ed il dietroscutello , e per lo più i quattro ultimi anelli addominali per intero, nerastri. Il primo anello addominale talvolta è più estesamente invaso dal nero, rimanendo di rosso una macchia discoidale. Osservazione. Certamente questo Priocnemide ha molta affinità con l’annulatus: noi stessi nella relazione che precede (pag. 9) lo abbiamo indicato con tal nome. Però un accurato esame comparativo di molti individui d’ambedue i sessi delle due specie, che teniamo a nostra disposizione, ci ha convinti essere due specie nettamente distinte. Questo descritto differisce dall’annulatus pel corpo assai più grossolano e robusto; per le antenne anch'esse meno allungate, più robuste, col terzo articolo appena di una quinta parte più lungo del quarto, mentre nello annulatus lo supera quasi di una terza parte: 1) Handb. der Entom. II, p. 796. 2) Ephemeriens, p. 276. —.30— pel primo anello addominale meno attenuato verso la base e più tozzo. In fine le fasce addominali che nell’annulatus sono d’un giallo puro, in questo sono di un rosso-ferru- ginoso assai marcato. Quest'ultimo carattere associato al grossolano corpo gli danno un abito che lo fa immediatamente distinguere. Aggiungi che nelle località in cui abbiam trovato abbondantissimo questo Priocnemide con ambedue i sessi, non un solo abbiam visto del Pr. annulatus. Pompilus retusus, nob. P. niger, subopacus, brevissime brunneo puberulus; alis totis saturate fuscis viola- scentibus; metanoto postice verticaliter truncato , concavo, truncatura superius orizzon- tali, arcuato-emarginata, lateribus retrorsum rotundato-vel subangulato-productis, in fundo verticaliter subtiliter striolata; alarum posticarum cellula anali in ipsa origine venae cubitalis terminata. 9, — Longit. mill. 11. Corpo nero, poco splendente, cangiante in bruno rossiccio per affetto di una corlissima pubescenza coricata di tal colore. Vertice con due fossette quadrate poste all’esterno degli ocelli superiori. Contorno posteriore del protorace ad arco leggermente rientrante, in taluno un poco angoloso nel mezzo. Metatorace più largo che lungo, quasi piano e senza solco nel mezzo, nel dorso; troncato verticalmente e concavo in dietro, col contorno superiore della troncatura ad arco rientrante orizzontale marginato; i lati di essa prolungati in dietro in lobo ritondato o angolato-ritondato; il fondo della tronca- tura con finissime strie verticali. Addome poco acuminato. Ali di color fosco cangiante in violaceo: terza cellola cubitale alla base lunga quanto la seconda, anteriormente molto ristretta; la cellola anale delle posteriori terminata nel punto stesso della origine della vena cubitale. | Osservazioni. Nella collezione del Museo dell’ Università di Torino abbiamo osser- vato un individuo di questa specie proveniente dalla Sicilia ed etichettato dal Ghiliani P. stygius, Klug. Di esso però non troviamo fatta parola in alcuna delle tante opere che possediamo; e non la troviamo menzionata neppure nel Catalogo degl’Imenotteri del Museo Britannico, Neppure si trova tra gl’ Imenotteri descritti nelle Symbolae Physicae. Ignoriamo quindi se e dove sia stata descritta. E nell’affermativa, rimarrebbe a vedere se la descrizione sia tale da far comprendere che si riferisca a questa specie e non a qualche altra di quelle a corpo nero ed ali nero-violacee. Infatti anche noi nella Fauna Napoletana abbiamo riportato un Pomp. stygius, Kl.; ma dobbiamo confessare che ora, dopo le specie raccolte in Sardegna, troviamo che quella frase diagnostica ater unicolor, alis aeque fusco-fuliginosis, non ha alcun valore. In tale incertezza, abbiam creduto preferibile distinguere questo Pompilo con altro nome, anzichè creare maggior confusione. Pompilus luctigerus , nob. P. alter, nitidus, orbitis subtiliter flavo marginatis, alis nigrise, violascentibus; metanoto convero, haud sulcato; alarum posticarum cellula anali paulo ante originem vel in ipsa origine venae cubitalis terminata. £ — Long. mill. 9. gd segmento sexto, ventrali bipenicillato. Due specie conosciamo finora di Pompili a corpo ed ali nere e con le orbite mar- gli ginate di giallo, l’argyrolepis ') e quella che ora descriviamo. La differenza tra esse è sensibile, tra le femmine, poichè della prima la sola femmina conosciamo. Il P. lucti- gerus è più piccolo , ha l’addome meno acuminato, manca della pubescenza squamosa argentina, ha la cellola anale delle ali posteriori in tutti i tre individui, d’ambo i sesi, che possediamo terminata all’origine della vena cubitale od un poco prima, mentre nel- l’argyrolepis essa si termina sensibilmente al di là della origine della vena cubitale. La terza cellola cubitale in una femmina è poco ristretta verso la radicale con venetta tra- sverso-cubitale esterna quasi diritta, quindi pressocchè rettangolare come nell’ argyro- lepis; in due maschi è immensamente ristretta verso la radicale con la venetta trasverso- cubitale esterna molto inarcata. Il maschio si distingue da quello dell’holomelas oltre che pel contorno orbitale giallo, pel sesto anello ventrale fornito di due ciuffetti di peli corti e stivati neri. Pompilus rubiginicollis, nob. P. niger, vertice, orbitis, prothorace, mesonoto et alarum tegulis rubiginosis; me- tanoto subtilissime transversim striolato ; alis saturate fumatis; cellula anali paullo ante originem venae cubitalis terminata. — Long. mill. 6. Capo nero tendente al cenerino; le orbite intere , il vertice ed il margine del cli- peo rosso-ferruginosi. Torace nero; il protorace ed il dorso del mesotorace rosso-fer- ruginosi. Metatorace convessamente declive in dietro e ne’ lati; assai finamente striolato per traverso; senza traccia di solco mediano. Addome di un nero più intenso, splen- dente: l’ultimo segmento fiancheggiato da poche setole. Piedi completamente neri. Ali densamente affumigate: la terza cellola cubitate delle anteriori più corta della seconda, poco ristretta anteriormente verso la radiale; la cellola anale delle posteriori terminata poco innanzi la origine della vena cubitale : le tegole ferruginose. Osservazione, La specie con la quale presenta maggiore affinità è il Pompilus che noi consideriamo come il vero dimidiatus, Fab. *); e lo considereremmo come semplice varietà se le differenze stassero soltanto nel colorito. In vece la differenza più impor- tante sta nella fattezza e scultura del metatorace, il quale nel dimidiatus è più convesso, con pieghe trasversali ben distinte oltre la striatura sottile, ed ha nel mezzo un solco ampio ma poco profondo. In quanto a colorito, ne differisce pel capo in gran parte e lo scutello per intero, neri. La statura è molto minore. Ichneumon calabrarius, A. Cost. Ichneumon calabrarius, A. Cost. Entom. Cal. Ult. p. 37, tav. I. fig. 9. I. capite, thorace antennisque nigris; harum scapo infra, orbitis totis, macula fa- ciali sub antennarum radice, clypei lateribus , ore, colli margine, mesonoti lineis qua- tuor, linea ante alas, altera sub alis, aliis in mesopleuris, scutelli margine et postscu-. tello albis ; abdomine ovato-elongato rufo, segmento primo nigro postice flavo margina- 1) Nella descrizione di questa specie data nella memoria prima non trovasi fatta menzione di questo interessante carat- tere del contorno orbitale giallo, perchè ci era sfuggito. 2) Abbiamo altrove fatto notare che erroneamente Smith (Hymenopt. of British Museum III, pag. 168 ), considera la Sphex dimidiata Fab. come la Ferreola algira Lep. fard to; gastrocaelis profundis; pedibus rufis, coxis anterioribus infra flavo notatis ; coxis posticis, trochanteribus omnibus, pedum posticorum apice tibiarum tarsisque nigris; alis hyalinis, stigmate et radice nigris, tegula albida.—Long. mill. 12. Antenne lunghe poco più della metà del corpo; nel dorso nere; inferiormente il primo articolo bianco, gli altri bruno-ferruginosi. Capo stivatamente punteggiato-sca- bro; nero: le orbite anteriori o frontati più ampie sulla faccia, le orbite posteriori, le guance e due macchie nella parte superiore della faccia (una sotto la inserzione di ca- . dauna antenna) bianchicce. Clipeo non intaccato, levigato , splendente, a grossi punti impressi: nero nel mezzo, gialliccio sui lati. Mandibole giallicce con la estremità picea. Torace nero: il collare, una linea innanzi le ali sul margine interno de’ lobi del protorace, due corte linee longitudinali sul mezzo del mesotorace, due più corte innanzi gli angoli basilari dello scutello, contorno dello scutello, dietro scutello, una linea immediatamente sotto la inserzione delle ali, una linea verticale ed altra longitudinale in dietro, formanti quasi angolo retto, sulle pleure medie, di color giallo pallido. Metatorace finamente gra- nuloso; l’aja postero-mediana grande, anteriormente in triangolo il cui apice s' insinua nell’aja antero-mediana. Addome ovato-allungato : il primo segmento punteggiato , fi- namente striolato per lo lungo fra le due carene longitudinali, che si arrestano prima del margine posteriore; questo più liscio e con due linee longitudinali impresse, una per lato ; il colore è nero fin dove giungono le carene; il margine posteriore è giallo , colore che in avanti è intaccato in corrispondenza delle due linee impresse. Tutti gli altri segmenti di color rosso tendente al castagnino, fittamente punteggiati; il primo di questi (secondo) à le fossette della base (gastrocaeli) assai profonde ed una leggiera de- pressione su ciascun fianco presso il margine posteriore ; il mezzo della base è longi- tudinalmente striolato : il secondo (terzo) ha poche e corte strie nel mezzo della base. I piedi sono del colore rosso dell’addome: i quattro anteriori hanno la base delle ànche e i trocanteri neri, il resto delle ànche gialliccio ; i due posteriori hanno le ànche, i trocanteri, l'estremità delle tibie e i tarsi neri, Ali trasparenti , incolori; lo stigma ne- rastro, la radice picea, la tegola grande, gialla. Sebbene questa specie si trovasse ampiamente descritta e figurata nella memoria Nuovi studii sulla Entomologia della Calabria Ulteriore, pure, altesa la rarità di essa, abbiam creduto riprodurne la descrizione. L’Icneumone descritto riunisce tale un in- sieme di caratteri, da non poterlo ad alcuno ravvicinare. Secondo il sistema di Wes- mael apparterrebbe alla prima divisione a causa della grandezza e profondità de’ ga- strocaeli, ed al secondo gruppo pel clipeo integerrimo. Ichneumon obsoletorius , n. gd I. rufus, capite cum antennis, metathorace, pectore medio, abdominis petiolo et segmento sexto nigris ; antennarum annulo, orbitis frontalibus , collari, scutello, post- scutello, lineola infra alas ac tarsorum posticorum articulis tertio et quarto albis; alis hyalinis , stigmate fusco, radice pallida, tegula nigra. — Long. mill. 7. Antenne di un settimo più corte del corpo, quasi dentate, assottigliate verso la estremità; nere con gli articoli 12-15 bianchi. Capo nero con le orbite frontali gialle. Torace rosso ; il collare, una linea sotto la inserzione delle ali anteriori, lo scutello ed il dietroscutello bianchi; la parte mediana del petto ed il metatorace neri. L’aia su- =" peromediana quasi confusa con la posteromediana, a causa della cresta divisionale quasi obliterata ; angoli esterni non sporgenti. Addome rosso, il picciuolo dei primo segmento ed il segmento sesto neri; il settimo ha dorso bianco. Piedi: i quattro ante- riori di color livido con le ànche e i trocanteri neri, con una striscia più chiara lungo la faccia esterna de’ femori, e gli articoli terzo e quarto de’ tarsi bianchi. Ali trasparen- ti, incolori; lo stigma nerastro, la radice pallida; la tegola nerastra. Osservazione. Gravenorst descrisse l’/chn. erythraeus '), ma la femmina soltanto. Noi ne abbiamo ambedue i sessi e possiamo assicurare che il maschio, se si eccettuano le antenne più lunghe e più assottigliate verso la estremità e la mancanza di trivella , caratteri proprii del sesso, per colori simiglia completamente alla femmina. Più tardi Wesmael descrisse un /chn. diserepator ?), esprimendo il dubbio che non fosse diverso dall’erytAraeus di Gravenorst. Ed in effetti leggendo la descrizione della femmina che noi abbiamo trovata in Sardegna vi somiglia moltissimo : la differenza per lo scutello interamente rosso sarebbe di troppo poca importanza per stabilire caratteristica di spe- cie. Però il maschio ne differirebbe moltissimo per avere il torace in fondo per intero nero, rimanendovi solo il collare, le linee avanti e sotto-le ali e il dietroscutello bian- chi. Il nostro obsoletorius quindi , che è maschio, terrebbe un posto medio tra le due, erythraeus e diserepator. Aggiungesi a’ caratteri distintivi di colorito la scultura del metatorace. Glypta lycorinoides, nob. GI. rude crebre punctata, breviter villosa, abdominis segmentis 1-5 lineis obliquis anterius conniventibus valde profundis et posterius cum sulco transerso anteapicali con- tunctis; areis metanoti completis: nigra, clypeo, mandibulis partim, orbitis esxternis (2 maculis duabus facialibus, scutello lineaque postscutelli et segmentorum abdomina- lium margine postico ) flavidis ; pedibus rufo-fulvis , coris, trochanterum parte, posti- corum apice tibiarum tarsisque nigris, tibiarum posticarum basi albida: alis fusce- scenti-hyalinis stigmate nigro, radice et tegula albis: 2 terebra 34 abd. longa. — Long. corp. mill. 6,7 2. Femmina. Antenne di un sesto più corte del corpo, il flagello cilindraceo, fitta- mente villoso, nero. Capo punteggiato; faccia leggermente convessa, a punti forti e poco stivati, con due solchi longitudinali paralleli che la dividono in tre aie, di cui la media più ampia delle laterali: nero, con una macchia sulla parte inferiore delle aje la- terali della faccia e un delicato profilo sull’orbite posteriori, giallicci. Clipeo liscio, con scarsi puntini impressi, giallo, splendente. Mandibole gialle con la base nera. Torace levigato, splendente, con punti impressi ben marcati, ma poco stivati: gli angoli ome- rali sporgenti dentiformi: metatorace breve con punti impressi più grossi, con le aje medie e laterali ben circoscritte, l’antero-mediana che occupa il dorso, più lunga che larga, la postero-mediana assai più grande, quasi esagonale. Scutello piano-convesso, ampiamante ritondato in dietro; di color fulvo, solo alla base nero. Addome molto accorciato , poco più lungo del capo e torace insieme ; il primo segmento lungo quanto posteriormente largo, leggermente ristretto da dietro in avanti; i tre seguenti di un terzo più larghi che lunghi, i rimanenti assai corti ; tutti separati da incisure profonde: 1) Ichneumon, europ. I, p. 632. ?) Tentam. disposit. meth. Ichneumonum Belgii, p. 102, n. 110. Arti— Vol. II, Serie 24-N 8. 9 ME... pe tutto stivatamente punteggiato-granelloso, poco splendente. Ciascuno de’ primi quattro segmenti à un solco trasversale delicato e profondo innanzi il margine posteriore e due altri solchi profondi ed ampii che partono uniti dal mezzo della parte anteriore e diver- gendo in forma di A vanno posteriormente a congiungersi al solco trasversale ante- apicale. L’aia compresa nel triangolo è più elevata e convessa delle aje laterali. Il co- lore dell’addome è nero col profilo posteriore di ciascun anello di color giallo-fulviccio. Piedi rosso-fulvi: le ànche e parte de’ trocanteri nere, l’ estremità delle tibie e i tarsi de’ piedi posteriori, bruno-nerastri. Ali leggermente ombrate ; lo stigma nerastro con l'angolo verso la base pallido; la radice e la squama di color bianco-gialliccio; areola nulla. i Maschio. Differisce dalla femmina pel corpo più gracile: per lo scutello quasi inte- ramente nero e per gli anelli addominali non orlati di giallo posteriormente. Queste. dif- ferenze di colorito potrebbero anche essere eventuali. Possedendo una femmina ed un ma- schio soltanto, non possiamo dire se abbiano luogo variazioni nell’uno o nell’altro sesso. Osservazione. Evidentemente questa specie stabilisce il passaggio dalle vere Glypta a quella per la quale l’Holmgren ha stabilito il genere Zycorina. La scultura de’ pri- mi quattro segmenti addominati è perfettamente simile a quella che egli descrive: hae lineae ita positae et impressae sunt ut triangulum clevatum in medio segmentorum confor- ment. Aggiungesi a questo il corpo accorciato ed il primo anello addominale non più lungo che largo: caratteri che trovansi nella Zycorina e non nelle-vere Glypta. Quello che manca perchè la nostra specie potesse riferirsi a Lycorina è la forma dello scutello, non elevato e posteriormente troncato come ne’ Metopius , cui l'’Holmgren dice simi- gliare quello della Lyc. triangularis. Aspidocoris cyaneus, A. Cost. Nel 1863 pubblicammo la descrizione del nuovo genere di Calcididei Aspidocoris *) distinto per lo eccessivo sviluppo dello scutello, che si avanza in dietro ricoprendo la maggior parte dell’addome, rimanendo ancora nello stato di riposo nascoste sotto di esso le ali, proprio come nelle Scutellere. La specie la denominammo Asp. cyaneus. L’avevamo ottenuta dalle Cocciniglie degli aranci. In quella nota pertanto notammo che il sig. Haliday passando per Napoli ed avendo osservato i nostri Aspidocoris ci as- sicurava che un Calcidideo genericamente identico aveva egli ottenuto dalle Cocciniglie del Mirto ( Aspidiotus Myrti) e che solo non poteva giudicare a memoria della identicità specifica. Ora noi abbiam raccolto in Sardegna |’ Aspidocoris in luoghi ne’ quali è ab- bondantissimo il Mirto e mancano gli agrumi. Sicchè dobbiamo credere che essi pro- vengano dalla Cocciniglia del Mirto, come quelli osservati dall’ Haliday; e paragona tili con quelli napoletani, non vi abbiamo riconosciuta alcuna apprezzabile differenza, Per la qual cosa pare non possa mettersi in dubbio la identicità specifica de’ parassiti delle due indicate Cocciniglie. Aggiungasi a ciò che presso Napoli, posteriormente alla pubblicazione della citata nota, abbiam trovato lo stesso Aspidocoris entro la comune Cocciniglia del Fico. Da che si conchiude essere un parassita che si adatta facilmente a diversi ospiti. 1) Nota sopra nn nuovo genere di Imenotteri della famiglia de’ Calcididei — Annali dell’ Accademia degli Aspiranti Na- turalisti, 1863, Bullettino. « e Essendo pertanto assai poco diffusi gli Annali ne’ quali trovasi la descrizione di questo Calcidideo, stimiamo utile consacrarla pur quì; anche per notare talune legge- rissime variazioni che gl’individui sardi presentano in rapporto a’ napoletani. Asp. cyaneus ; anltennis, tibiis tarsisque fulvis , primis et ultimis summo apice fu- sco ; capite, thorace scutelloque crebre punctatis; abdomine levissimo, nitidissimo, dorso nigro-piceo, infra virescente; alis hyalinis, vena subscostali cum appendiculo fusco-te- stacea.—Long. mill. 1,9 —2. Capo brevissimo, verticale, ampio quanto il torace, a margine superiore taglien- te, posteriormente concavo ed applicato al torace, di cui gli occhi abbraccciano gli angoli: una ottusa carena dal margine inferiore dalla faccia si eleva, restringendosi, fin tra la inserzione delle antenne: la superficie è stivatamente punteggiata, a punti pro- porzionalmente grossi. Antenne inserite nel basso della faccia in vicinanza del clipeo, se- parate alla base dalla carena facciale: robuste; lo scapo elevato supera di poco il li- vello del contorno inferiore degli occhi; il flagello è di un terzo più lungo dello scapo, leggermente ingrossato verso l’ estremità, composto di sette articoli (escluso il pedicel- lo), tra loro strettamente uniti, de’ quali i primi cinque trasversali, gli altri due più grandi, formanti quasi una piccola clava. Protorace ampio quanto il lobo medio del mesotorace , brevissimo, in modo da rimanere quasi occultato dal capo quando vi sta esattamente applicato: Mesotorace convesso, con due linee impresse oblique di- ritte che lo dividono nettamente in un lobo medio e due laterali: questi marginati nel contorno esterno attiguo alle tegole delle ali, ed anteriormente prolungati al di là del lobo medio, abbracciando il protorace. Scutello ampio quanto il mesotorace , prolun- gato fino a coprire i due terzi dell'addome, posteriormente più angusto, ma ampia- mente ritondato; mediocremente convesso, verso dietro declive e quasi piano; con una fossetta oblunga presso i margini laterali poco dietro la base. Addome nella femmina terminato da trivella brevissima , dirilta, robusta. Il capo, il torace e lo scutello sono di color blù oscuro, stivatamente punteggiati; e osservati con buono ingrandimento vi si veggono brevissimi peli setolosi di color fulvo. L’addome è levigatissimo, nel dorso nero-piceo, nel ventre tendente più o meno al verde-scuro. Antenne fulve con la estremità della clava scura. Piedi coi femori blù ; le tibie e i tarsi fulvi, questi ultimi con la estrema punta nerastra. Il margine posteriore dello scutello sovente è rosso-ferruginoso. Bactyrischion bicoloratum, A. Cost. ‘) I diversi individui raccolti ci han permesso di riconoscere alcune varietà di colo- rito cui la specie va soggetta. In qualche individuo l'addome è testaceo con la base e la parte posteriore del dorso di color verde metallico: il rimanente come nel tipo de- scritto. In aliro individuo il dorso dell'addome è verde con una macchia centrale ful- va; il ventre è testaceo: i femori posteriori sono di color verde scuro come le corri- spondenti ànche, rimanendo tra quelli e queste il trocantere testaceo. 1) De quibusdam novis insectorum generibus. = Bia Pempelia lacteomarginata, A. Cost. Avendone un individuo solo in perfetto stato di conservazione, rimasto con le ali adattate al corpo come nel riposo, non abbiam voluto sconciarlo col distenderne le ali; con che si sarebbe perduto l'abito naturale della specie. Per la qual cosa delle ali in- feriori, che rimangono del tutto nascoste, nulla diremo. D'altronde il loro colorito va- ria di poco nelle specie tutte del medesimo gruppo. Descriveremo quindi l’insetto nella forma sotto cui si ritrova. Capo: fronte molto convessa, sporgente, con squame allungate direlte in avanti formando un bel ciuffo avanzato al di là della faccia: questa verticale, piana, quasi rettangolare, rivestita di squame minutissime non elevate. Palpi foltamente squamosi : inferiormente con una cresta compressa a margine seghetlato costituila da squame più grandi; l’ultimo articolo molto ottuso all'estremità. Antenne robuste: il primo ar- ticolo ingrossato, cilindraceo. Ali superiori anguste, fortemente accartucciate, sic- chè nello stato di riposo l’insetto si presenta di forma cilindracea. Il di sopra del corpo ha color di vinaccia. Nel capo vi ha una striscia da cadaun lato contigua al rispettivo occhio e la faccia per intero, argentine. Le ali hanno il margine costale o esterno di un bianco latteo e la frangia del margine estremo ceneri- no-argentina, Il pelto ed i piedi sono piombini con scarse squame argentine. L’addome è rivestito di squame argentine. Osservazione. La fattezza del capo di questa specie è alquanto diversa da quelle di molte altre Pempelia da noi osservate. Non ci saremmo pertanto azzardati a dar come nuova la specie, se non fossimo stati in ciò confortati dall’ autorevole parere del chia ro Lepidotterologo Staudinger, cui l'abbiamo comunicata. Nomia aureoncincta, A. Cost. Lorchè descrivemmo questa Nomia nella Fauna Napoletana conoscevamo il ma- schio soltanto. In Sardegna abbiamo incontrato ambedue i sessi. La femmina, a parte dalle differenze dovute al sesso, come lo scutello inerme e i piedi posteriori semplici, differiscono per le antenne interamente nere, il primo articolo de’ tarsi posteriori ne- rastro come i rimanenti. Delle fasce alla base degli anelli addominali ordinariamente solo quelle del secondo, terzo e quarto sono assai ben pronunziate. Mutilla Chiesii, Spin. var. Differisce dal tipo per la figura delle due macchie nude del secondo segmento ad- dominale; chè, in luogo di essere esattamente rotonde, sono semicircolari con la con- vessità verso dietro. Nematus sardiniensis, nob. N. niger, palpis albidis, pronoti lobis lateralibus, tegulis alarum pedibusque flavis, RETE pedum tarsis anterioribus apice, posticorum apice libiarum tarsisque nigris; alis um- bratis, stigmate piceo, radice tegulaque albidis, antennis compressis, articulis 3-8 angulo apicali infero producto, dentiforme. gx — Long. mill. 5. Maschio. Antenne lunghe quanto il corpo; i due primi articoli brevissimi , nodi- formi; i sei articoli seguenti, allungati, compressi, col margine inferiore un po’ sinuoso, terminato da angolo sporgente dentiforme: nere. Capo nero: il labbro superiore e le mandibole bruno-rossastre: palpi bianchicci. Torace nero; i lobi laterali del protorace di color fulvo pallido: pleure medie molto splendenti, con brevissima pubescenza ce- nerina. Addome interamente nero. Piedi fulvi; tutte le ànche più pallide, quasi bian- chicce; gli ultimi tre articoli de’ tarsi anteriori gli ultimi quattro de’ tarsi medii , estre- mità delle tibie e tarsi de’ piedi posteriori, neri. Ali leggermente affumicate: vene e carpo neri, radice e tegole bianchicce. Osservazione. Per la forma delle antenne questo Nemato simiglia completamente al nostro cebrionicornis, e forse ancora al compressicornis, Fab. Da ambedue però differi- sce per i lobi laterali del protorace gialli. Nematus . ..?92. Antenne un po’ più corte del corpo, brevemente villose nere. Capo nero: clipeo e mandibole color fulvo oscuro: palpi bianchicci. Torace nero; i lobi laterali del pro- torace di color fulvo pallido, pleure medie molto splendenti, con brevissima pubescenza cenerina. Addome giallo-rossastro ; il dorso più oscuro, con una fascia nerastra inter- rotta nel mezzo su ciascun segmento. Piedi come nella specie precedente. Osservazione. Abbiamo descritta questa femmina di Nematus senza darle alcun nome perchè sospeltiamo fortemente che essa sia la femmina del Namatus di cui abbiamo più sopra descritto il maschio. I due individui sono stati raccolti sopra i Salici nel me- desimo luogo. E molta simiglianza vi ha pure nella loro fattezza e colorito del capo e torace. La sola differenza, e certo notevole, sta nel colorito dell’ addome. Ulteriori ricerche potranno concorrere a far chiarire siffatto dubbio. Cephus flavisternum, A. Cost. Nella Memoria Seconda abbiamo descritto il maschio di questa specie , solo sesso che allora possedevamo. Attualmente ne abbiamo ancora la femmina, la quale com- pleta la conoscenza della specie. Essa, tranne quel che riguarda il sesso , nel resto si- miglia completamente al maschio; si aggiunge solo una piccola macchia cedrina su cia- scun lato del secondo anello addominale ‘), ma ciò può essere anche eventuale. Nezara Heegeri , Fieb. var. Considerando la descrizione datane dal Fieber, e poi l’altra dell’ accuratissimo Puton come rispondente al tipo, gl’individui sardi ne differiscono per l’ angusto mar- gine del protorace e della base dell’esocorio di un giallo-aranciato ben pronunziato , 1) Nella descrizione italiana data nella citata memoria in luogo di anelli quarto e sesto deve dire terzo e quinto, e in luogo di settimo, sesto, in conformità della frase diagnostica latina. = = non bianco gialliccio (Fieber) o bianco-verdastro (Puton). Anche le antenne unifor- mente verdi sono caratteristiche, mentre Fieber le dice con gli ultimi due articoli più oscuri, e Puton con gli ultimi due o tre articoli rossi. Callicera Macquartii, Rond. Se non avessimo posseduto nelle collezioni del Museo la Callicera Macquartii, ri- cevuta dallo stesso Rondani, saremmo rimasti in dubbio se riferire a questa la Calli- cera raccolta in Sardegna. Dappoichè il Rondani nella descrizione che dà ‘) della nominata specie dice, l'addome nel maschio nero verdastro, come il torace e lo scu- tello; mentre nell’individuo che possediamo, da lui ricevuto, e che è per l'appunto un maschio, l'addome è di color bronzo dorato con una macchia nerastra nel mezzo della base del primo segmento. L’ individuo di Sardegna ha precisamente l'addome color bronzo dorato col mezzo del primo segmento nero-porporino. Resterebbe ora a sapersi se Vi è stato equivoco nella descrizione, ovvero sia variabile il color dell’ addome ; lo che potrebbe decidersi dietro un esame degl’'individui esistenti nella collezione Ron - dani. Exoprosopa rutila, Wiedm. (Anthrax rutila, Wiedm. Zool. Mag. II, 16— Auss. europ. Zweifl. I. p. 276). Riferiamo senza esitare la bella Exoprosopa raccolta in Sardegna alla rutila Wiedm. per le assicurazioni avute dal distinto Ditterologo Mik, cui l'abbiamo co- municata, di simigliare agli individui esistenti nelle collezioni Vindobonensi, altri del- l'Asia minore, altri della Siria (Wiedman l’ebbe dal deserto della Tartaria meridio- nale), tranne leggiere differenze. Ma se avessimo dovuto deter minarla con l’opera dal Wiedemann, certo saremmo rimasti molto in dubbio a riconoscerla. Dappoichè in primo luogo egli descrisse la femmina e non conobbe la grande differenza che passa tra i due sessi. In secondo luogo, egli parlando dell’addome dice soltanto che il secondo ed il quarto segmento hanno due macchie trasversali bianche, lo che ci fa credere ch'egli abbia avuto sott'occhio individui in cui il vello era in parte caduto , ovvero che fossero una varietà. In terzo luogo manca la indicazione del colore dell’ epistoma, perchè nel- l’unico esemplare che ebbe il capo mancava. Sia quindi per completare le lacune esi- stenti, e sia perchè è specie che comparisce per la prima volta nella Fauna europea °) crediamo utile darne una descrizione completa, fatta sopra individui freschissimi. E. atra, epistomate antennarumque articulo primo flavis; alis basi margineque co- stali fulvis, vittaque pone marginem costalem nigricante— 3 totus atro hirtus— 2 tho- race abdominisque segmenti primi lateribus rufo villosis, reliquo abdomine atro villoso, 1) Species italicae generis Callicerae—Ann. de la Soc. Ent. de France, 2° ser. tom. 2° 1844. i 2) L’Anthrax Miegti, L. Duf. (Quelques diptères d’Espagne—Ann. de la Soc. Entom. de France 1850, p. 140, pl. 5, fig.4.) che è pure una Ezoprosopa, della Spagna , sebbene sembri molto affine alla rutila, pure deve differirne grandemente per la colorazione delle ali, dicendosi in quella alis limpidis costa late rufo-fulva, e pel colore dell’epistoma che in quello» non parlandosene, si suppone nero come il resto del corpo, e per altri caratteri secondarii. Al che si aggiunge che neppur egli parla di differenze sessuali, nè indica il sesso che descrive, e che per analogia può giudicarsi essere femmina. Re; segmentis secundi tertii et quarti fascia argentea villosa, illa tertia late interrupta. — Long. mill. 11-13. Maschio. Corpo nero , coperto interamente di vello nero. Epistoma e primo articolo delle antenne di color giallo sporco. Piedi neri. Ali col quarto basilare color di miele : indi il margine costale, fino alla terminazione della seconda vena longitudinale, di color fulvo che in dietro passa al nero fulginoso; nel resto vitree: il nervo costale e la dila- tazione basilare della costa neri: il penultimo nervo longitudinale color di miele. Bi- lancieri bruni col capitello bianco calceo. Femina. Collo, fianchi e lati del primo segmento addominale coperti di lungo e stivato vello rosso-fulvo. Il secondo terzo e quarto anello addominali dorsali con fascia basilare di vello coricato argentino: quella del terzo largamente interrotta, in guisa da essere rappresentata da due macchie trasversali. Nel resto simile al maschio. Osservazione. La colorazione dell’addome della femmina che abbiamo descritta è quella che si osserva negl’individui tipici ben conservati. Sovente però i peli argentini cadendo, le macchie del terzo segmento si riducono a due punti, e la fascia del quarto è interrotta. ‘Psilopus eximius, nob. ( Psilopus.....? Mem. 2°, p. 76) Ps. cupreo-purpureus, facie tota, thoracis lateralibus, scutello postice et segmento- rum omnium abdominalium fascia postica pube adpressa argentea vestitis, antenna- rum articulis duobus primis pallide flavis, tertio fusco; pedibus pallide flavis, tibiis tar- sisque obscurioribus ; alis hyalinis. — Long. mill. 4. d' tarsorum anticorum articulo quarto brevissimo , eaetus in lobum oblongum mar- gine externo fimbriatum producto, quintoque nigris: segmento ventrali quinto antice stylo filiformi erecto ; sexto appendibus duabus filiformibus apice subcapitulatis, setulo- sis; appendice membranacea apice emarginata, limbo setulosa. 9 fasciis abdominalibus argenteis latioribus. Antenne coi due primi articoli assai corti, di color giallo pallido: il terzo ovato- subtriangolare ad estremità ottusa. Capo con un tubercolo assai rilevato sul quale stanno impiantati gli ocelli, e dal cui vertice si elevano due lunghe setole divergenti. Occhi non pelacciuti: i loro margini interni diritti, un po’ convergenti in basso. La femmina ha i femori anteriori nel margine inferiore forniti di una serie di cin- ‘que a sei setole spiniformi. Il maschio ha uno stiletto delicato filiforme elevato dal margine anteriore del quinto anello, due altre appendici filiformi un poco ingrossate e setolose alla estremità, una membrana pallida, quasi diafana, biloba, cigliata. Il quarto articolo de’ tarsi ante- riori è assai corto, esternamente prolungato in lobo oblungo poco più corto del quinto articolo, barbato sul contorno esterno. Sì il quarto che il quinto articolo sono neri. I femori anteriori sono assolutamente inermi: nè pare che ciò dipenda dall’esser cadute le setole. = be Osservazione. Fra le specie descritte da Meigen, Macquart, Schiner e Loew non abbiamo trovata alcuna cui la descritta possa riferirsi. Quella con la quale ha forse maggiore affinità è il fasciatus, Macq. di Sicilia. N. B. — Il Priocnemis perligerus descritto nella Memoria seconda deve trasferirsi al genere Ceropales. Sarà quindi Ceropales perligerus. finita stampare il dì 16 Giugno 1886 Vol, II, Serie 2.° Ne 9 ATTI DELLA R. ACCADEMIA DELLE SCIENZE FISICHE E MATEMATICHE ANTROPOLOGIA DELL’ ITALIA NELL’ EVO ANTICO E NEL MODERNO MEMORIA del Socio ordinario GIUSTINIANO NICOLUCCI ( Adunanza del dì 10 Luglio 1886) PARTE PRIMA DAI PRIMI TEMPI FINO ALLA INVASIONE DE’ BARBARI. Posta nel centro del mondo antico, ed in mezzo il mediterraneo, l’Italia si è tro- vata naturalmente sulla via de’ popoli che venivano a cercar patria nel nostro occiden- te. Come per le altre parti dell’ Europa occidentale, così ancora per essa è compro- vato il fatto, che un popolo dal lungo teschio, e di caratteri disformi da quelli di co- loro che vi giunsero in epoche posteriori, avesse posto qui il piede fin dall’antica età quaternaria ‘), e che più tardi si aggiungessero ad esso altre genti dolicocefale e bra- chicefale di cui si sono trovati gli avanzi in grotte e sepolture in diverse contrade della Penisola °). 1) Cocchi — L'Uomo fossile nell’ Italia Centrale, nelle Memorie della Società di Scienze na- turali residente in Milano. 1867, 4°. 2) Ponzi, nel Rapporto sugli studi e sulle scoperte paleoetnologiche nel bacino della Cam- pagna Romana. Roma, 1867.— Nicolucci, Sopra un cranio preistorico rinvenuto presso Isola del Liri, nell'Archivio per l’Antropologia e la Etnologia, t.I, 1870 — Perrando Deo-Gratias, Sur deux cavernes de la Ligurie, ne’ Comptes-rendus del Congresso Antropologico di Bologna, 1871. Rivière, Decouverte d’un squelette humain de l’époque paléolitique dans les cavernes de Baussé Roussé, dites grottes de Menton. Paris, 1873, 4° — Sur trois nouveaux squelettes trouvés dans les grottes de Menton. Matériaux pour l’histoire nat. et primitive de l’homme. Toulouse, 1874 — De l’antiquité de l’homme dans les Alpes maritimes. Paris, 1878-84, 4° — Baron v. Andrian, Pri- historische Studien aus Sicilien. Berlin, 1875 — Issel, Nuove ricerche sulle caverne ossifere della Liguria, nelle Mem. dell’Accad. R. de’Lincei. Roma, 1878 — Incoronato, Scheletri umani della caverna delle Arene Candide presso Finalmarina in Savona, Ibid. 1876 — Sergi, La stirpe Li- gure nel Bolognese, Atti e Mem. di Storia patria per le Provincie di Romagna. Bologna, 1883— Id., Liguri e Celti nella Valle del Po. Ibid. 1883. — Per altri crani preistorici italiani, vedi i Comptes Rendus del Congresso Antropol. dì Bologna, 1871. AttI— Vol. II. — Serie 22 -— N 9. È Il Si Il nuovo tipo dolicocefalo apparso in Italia doveva esistere, in quella età remotis- sima, in una gran parte all’ Europa occidentale, se ne giudichiamo da’ crani raccolti o in caverne, o in antichi tumuli in Portogallo '), Spagna 2), Francia *), Belgio 4), Gran Brettagna *) e Germania meriggio-occidentale °). Era un tipo al quale gli illustri autori de’ Crania Ethnica , Quatrefages ed Hamy, han dato il nome di Cro-Magnon, che non trova riscontro in alcun popolo odierno nè dell’ Italia nè d’altre parti d’ Euro- pa, ma che presenta caratteri che lo ravvicinano a quello de’Berberi odierni dell’Africa settentrionale; sicchè potrebbe ammettersi come probabile la opinione , essere stato un ramo di ceppo camitico tramutatosi in antico d'Africa in Europa, forse fin da quando lo stretto di Gibilterra non separava ancora l’ uno dall’ altro continente ?). 1) Delgado, Noticia acerca das grutas da Cesareda, 1867 — Pruner-Bey, Comptes rendus du Congrès Antropol. de Paris, 1867, p. 33. 2) Tubino, Los Aborigenes Ibéricos ò los Berbèros en la Penìnsula. Madrid, 1876—Pei crani preistorici spagnuoli confr. Verneau, La race de Cro-Magnon, nella Révue d’Antrhopologie, 1886, ove si trovano registrate le misure con le descrizioni de’ teschi raccolti nella Cueva del Milagro, al nord di Oviedo, nella Cueva de la Sotana, in Provincia di Segovia, nella Cueva de Los Letre- ros, presso Velez-Blanco, nella Provincia di Almeria, e nella Cueva de La Mujer, presso Alhama, Provincia di Granata. 3) Sur les fouilles pratiquées p. M. Brun dans la Caverne-abris de Lafage, Bull. de la Soc. d’ Anthrop. 2* serie, t. 1, p. 48-52. Brun, Notice sur les fouilles paléontologiques de l'àge de la pierre executées è Bruniquel et Saint Antonin. Montauban, 1867 — Lartet, Une sépulture des Troglodytes du Périgord, Bullet. de la Soc. d’ Anthropol. 1868, 2° série, t. III — Broca, Sur les crànes de la caverne de l’Homme mort (Lozère). Revue d'Anthropol. +. II, p. 1-53, 1868 — Lartet et Christy, Reliquiae Aquitanicae, p. 62 e sq. — Hamy, Précis de paléontologie humai- ne. Paris, 1870, p. 247 — Massenat, Matériaux pour l’hist. primit. de l’homme, série II, 1869, t. I, p. 335 — R.Owen, Description on the cavern of Bruniquel and its organic contents. P. 1. Human Remains. Prilosoph. Trans. of the R. Soc. of London, 1869 — Pruner-Bey, Le Maconnais préhistorique, 2 part. — Supplement Anthropol. Macon, 1869 — Ducrot et Lortet, Études sur la station de Solutré. Ann. de Géologie, 1871-72 — Quatrefages et Hamy, Crania Ethnica. Dèuxième Race humaine fossile, ou Race de Cro-Magnon, p. 44 e sq. 4 Schmerling, Recherches sur les ossements fossiles découverts dans les cavernes de la Province de Liège. Liège, 1883, t. I, p. 60 — Spring, Les hommes d’Engis et les hommes de Chauvaux. Bull. de V Acad. Roy. de Belgique, sér. 2, f. X. 5) Wilson, Preistorical Annals of Scotland. Edimburg, 1850, p. 83-87 — Id. Ancient bri- tish Skull’s Forms. Edimb. Philosoph. Journal, 1863, t. XVIII — Bateman, Ten Year's Digging, 1861, p. 147 — Rolleston, in Greenwell, British Barrows. Oxford, 1877. ©) Eker, Crania Germaniae meridionalis occidentalis. Freiburg, 1864 — Crania Germanica Hartogovensia, Nordhausen, 1864 — Helder, Beitrige zur Ethnographie d. Wurtenberg. Archiw fir Anthropologie, II, 1867. 7) Tale è pure la opinione del Tubino (loc. cit., p. 107), il quale la trova confermata dalle fauna e flora, in parte fossili, delle coste mauritane ed ispano-provenzali, e dalla quasi unità etnica che si riscontra fra i Berberi del Rif e i montanari della Serrania di Ronda. — Così pari- menti ne discorrono Quatrefages ed Hamy: « De quelque fagon que l’on explique l’ancienne mèlange des faunes et des départs que les a isolées, il n’y a rien d’etrange à voir les populations humaines présenter un fait analogue. De quelque fagon qu'on explique la présence en Europe aux temps post-pliocènes de l’éléphant d’Afrique, d'un rhinoceros voisin de celui du Cap, de l’hippopo- tame, du lion, des hyènes, des antilopes, ete., il n'y a rien que de naturel à trouver a còté de ces espèces meridionales une race humaine ayant alors son foyer principal au sud de nòtre mediterra- née, mais ayant multipliée ses stations dans presque toute l'Europe occidentale alors habitable — Cela méme explique bien naturellement la presence actuelle à l’état erratique en Europe du type de N Rispetto a’crani brachicefali, che tanto in Italia quanto in altre contrade d'Europa sì trovano associati a quel teschio dolicocefalo, sembra molto fondata la conghiettura onde possano considerarsi come testimoni della presenza di un tipo turanico , il quale, sparso in quella età vetustissima per gran parte dell’ Europa, era anche penetrato nell’Italia, irraggiandosi, in piccole colonie, al nord, nel centro e nel mezzogiorno della Penisola, associandosi e confondendosi con le altre genti che vi avevano dimora. Erano questi avvenimenti che succedevano durante i periodi delle epoche archeo- litica e neolitica, ma in sul finire di quest'ultima età, cominciarono ad iniziarsi nel- l’ Europa occidentale le prime immigrazioni de’ popoli ariani. Ella è comune opinione che la pastorizia e l’ agricoltura fossero state introdotte dagli Aryi nel nostro occidente; e poichè l’ una e l’altra erano esercitate in Italia fin dall’epoca della pietra polita, così è da credersi a buon senno, che coloni ariani ne recassero fin d’allora la conoscenza nelle nostre contrade, conducendo seco animali addomesticati e semi di piante, con altri germi di civiltà che prontamente attecchiro- no nel nostro suolo. Quindi è che fin da quell’epoca cominciarono i nativi ad abban- donare la vita trogloditica, e, seguendo l’esempio de’ nuovi venuti, costruirono anche essi stabili dimore, si riunirono in villaggi, e formarono consorzi obbedienti a leggi, a riti, a comuni credenze religiose. Di che abbondano prove da per tutto, e numerosi sono gli elementi raccolti che ci rivelano la vita di quelle antichissime popolazioni. Nella Valle della Vibrata '), e cito questa sola località, senza ripetere ciò che è stato osservato anche in quel di Brescia °), nel Modenese, nel Reggiano *), nel Bolognese 4) e ne dintorni del Lago di Lesina nella Capitanata #), si scopersero dal Rosa più di 200 capanne riunite in otto o dieci villaggi. Dal fondo dì ciascuna capanna si trasse ogni specie di arnesi domestici in pietra, corna ed ossa, fittili di ogni forma, di pasta più o meno grossolana e lavorati a mano, ornamenti muliebri, amuleti ed avanzi di ossa frante di bue, pecora, capra,-porco. Le capanne erano formate, come altrove, con sistema uniforme; circolari, alquanto incassate nel suolo e composte , di pali e frasche intrecciate, e rivestite all’interno e all’esterno da un intonaco argilloso, tal quale si pratica anch’oggi nelle dimore contadinesche di quella valle medesima. Fin dall'epoca neolitica adunque cominciarono in Italia le prime immigrazioni arye, le quali succedentesi le une alle altre arrecarono sempre più nuovi elementi, di benessere con la introduzione dei metalli, del bronzo prima e poi del ferro. La nuova Cro-Magnon, et son existence, plus fréquente, plus franchement accusée dans le nord-est de l’Afri- que, et surtout dans les îles, ou il s'est trouvé plus à l’abri des metissages». Crania Ethnica, p. 107. 1) C. Rosa, Ricerche di archeologia preistorica nella Valle della Vibrata —L’Età della pie- tra — Archiv. per lAntropol. e l'Etnologia. Firenze, 1871 — Ragguaglio delle ricerche fatte nella Valle della Vibrata durante l’anno 1872. Ibid.—Id. 1878—Nicolucci, l’àge de la pierre dans les Provinces napolitaines. Compt. Rendus del Congresso Antropologico di Bologna — Ulteriori scoperte relative all’Età della pietra nelle Provincie napoletane. Napoli, 1874. 2) Bullettino di paleoetnologia italiana, t. I, pag. 172. °) Scoperte dovute quasi tutte al Chierici, e pubblicate nell’ Annuario scientifico italiano, 1874, t. I, p. 205, e nel Bullettino di paleoetnologia italiana , +. I, II, III. 4) Zannoni — Monitore di Bologna, 1872, n. 357 — Lettera dello stesso al prof. Calori — nella classica opera di questi — Sulla stirpe che ha popolato l'antica necropoli alla Certosa di Bolo- gna. 1873, fol. 5) Nicolucci — Ricerche preistoriche ne’ dintorni del Lago di Lesina — Napoli, 1879, 4°. * = = fase che allora si svolse fu memorabile pei progressi che si compirono. Col sostituirsi ai poveri arnesi di pietra e d’osso solidi strumenti metallici, l'agricoltura prese uno slancio novello. Molte arti, che erano rimaste fino allora bambine, si svilupparono ma- ravigliosamente, e l'alito di una nuova civiltà soffiò vivificante non pure sull’Italia, ma su tutta l'Europa occidentale; e quando i metalli, e singolarmonte il ferro , entrarono maggiormente negli usi della vita, cominciarono ad apparire i primi barlumi della storia, non già la storia vera, ma la leggenda ed il mito i quali traevano i loro fon- damenti da fatti realmente avvenuti, che ci furono trasmessi più o meno magpifi- cati dalla fervida fantasia dei poeti che furono i primi raccoglitori e narratori delle memorie antiche. Era già l’Italia completamente arianizzata, e costituita in diversi gruppi di popo - lazioni, quando nuove genti vennero ad allogarsi in questa e in quella parte della Pe- nisola, e modificarono, coll’innesto del loro sangue, lo stipite genuino de’primi Itali in quelle regioni in cui elleno si stabilirono, e furono gli Zlirici al nord-est, i Celti al settentrione, i Pelasgi e gli Etruschi nel centro sull’uno e l’altro mare, e i Greci in quasi tutta la Sicilia e nelle costiere tirrenica, ionica ed adriatica dell’Italia Inferiore. Egli è duopo pertanto dare anche uno sguardo a cotesti nuovi elementi che convennero nel nostro suolo per valutare la importanza e la influenza che essi ebbero nella costi- tuzione etnica delie popolazioni italiche preromane. Ma innanzi a tutto fa mestieri di- scorrere degli Italo-Aryi, quali ci appariscono nelle più antiche memorie patrie, e, senza dilungarci nelle singole divisioni secondarie, li studieremo ne’ loro gruppi princi- pali, Liguri, Umbri, ed Osci. è I. — I LiGuri. I Liguri furono tra i primi Aryi che con gli Iberi e coi Celti, movendo dall’ orien- te, penetrarono nell’ Europa occidentale. Nelle lunghe loro peregrinazioni a traverso l Europa ebbero a mescolarsi con genti turaniche, le quali vi erano sparse da per tutto, e per le frequenti commistioni che dovettero avvenire con quelle stirpi, n’ebbero siffattamente modificati i loro caratteri naturali, che nelle forme del loro cranio si palesa ancora, dopo tanti secoli, più o meno forte l'impronta del tipo turanico. Tali erano gli Iberi, i Liguri, i Celti quando giunsero nel nostro occidente *). I primi tennero per qualche tempo in loro dominio le Gallie, ma discacciatine dalle susseguenti immigrazioni de’ Liguri, abbandonarono quelle sedi, e, varcati i Pi- renei, s introdussero nella Penisola Spagnuola, che da essi prese il nome d’Iberia, pur conservando per lunga età il possesso dell’Aquitania. Una parte di quegli Iberi che stanziavano sulle rive della Sequana (oggi Senna), abbandonando le Gallie, preferirono di volgersi all’Italia, e sotto il nome di Sicani li troviamo sul Tevere ?), donde poi furono scacciati da’ Siculi che, a loro volta, ne furono espulsi dagli Aborigeni a’ quali ne rimase stabilmente il possesso. 1) Pe’ Celti divide questa nostra opinione anche il Thierry: La nation Gauloise, egli dice, mélange de Sarmates et des Germains. 2) Molti autori credono che i Sicani fossero così chiamati da un fiume omonimo della Spagna, che il d’ Avezac opina essere lo Xucar nella Provincia di Valenza—(Examen critique de l’étude sur de Però intorno alla provenienza degli Iberi variamente sentono gli scrittori. Taluni li credono Semiti, altri Celti o Gotoni, altri avanzi di que’ popoli che abitavano la mi- steriosa Atlantide, isola sterminata al di là delle colonne di Ercole , che si stendeva tra il vecchio e il nuovo Continente, e della quale favoleggiarono Platone, Teopompo, Posidonio, Ammiano Marcellino, Pomponio Mela ed altri molti fra gli antichi, per ta- cere di parecchi fra i moderni che ne propugnano tuttavia la esistenza; ma il nome d’Iberia, che fu proprio di una vasta regione caucasea tra il mare Ircanio ed il Pon- to '), e che lo conserva tuttora, benchè in limiti più ristretti, ci fa rimaner fermi alla opinione sopra esposta, cioè ch'e’ fossero partiti dalle stesse contrade orientali onde mossero gli altri Aryi co’ quali crediamo avessero comune la origine. Nè diverso ci sembra essere il parere di G. de Humboldt, il quale, nella conchiusione della sua ce- lebre dissertazione sugli antichi idiomi iberici comparati con la lingua basca, lasciò scritto: potersi dire confermata la opinione, dedotta anche da altre ragioni, che gli Iberi appartengono al più antice ceppo delle nazioni europee, e che il parlar loro può al- logarsi nella stessa linea de linguaggi antellenici *). I Liguri tennero la stessa via degli Iberi per penetrare nell’ occidente dell’ Euro- pa. Anch’ essi ebbero lungo dominio nelle Gallie , e lasciarono il lor nome ad un fiume; la Loire (A:yvpos) nel centro della Francia, ove rimasero fino alla immigrazione dei Celti che li costrinsero ad abbandonare quelle sedi=). Una parte di essi prese allora stan- za nelle coste orientali dell’ Iberia e nelle meridionali delle Gallie, ma il numero mag- giore discese in Italia, ed occupò quanto è il littorale che dal Varo si estende fino alla Tirrenia, mescolandosi, e soprapponendosi alle popolazioni più antiche, verosimil- mente camitiche, che sin da secoli vi avevano dimora. Venuti in Italia, vi si divisero in piccoli gruppi indipendenti gli uni dagli altri, ma formando sempre, per unità di sangue e di costume, un sol corpo di nazione altamente franca e valorosa. l’ origine des Basques de Bladé nella Revue critique d’histoire, mar. 1870) — poggiando la loro credenza sulle parole di Servio (Ad Enezd. VIII, 320) — Sicani autem secundum nonnullos, populi sunt Hispaniae a fluvio Sicori dicti, — ma io propendo per la opinione sopra espressa, che è pur quella del d’ ArboisdeJubainville, il quale scrive: — Les Sicanes étaient des Ibères établis sur les bords du fleuve Sicane. Ce fieuve Sicane était situé en Ibérie; et c’était, croyons nous, la Seine (Sequana), dont le bassin a été, tres anciennement, compris dans la vaste étendue des pays soumis à la domination des Ibères — « Les Ligures » — nella Revue d’Archéologie, t. VII, nov. 1875, p. 317. 1) Gli Iberi furono i primi abitatori della odierna Georgia, e dimorarono ad occidente dell’ Alba- nia. Erano guerrieri ed agricoltori (Strabone XI, III, 6), ed ebbero voce di essere fra le nazioni più numerose del Caucaso, dopo che i Sapiri e gli Alarodi mutarono il nome o si spensero — Apollodoro, per rendersi ragione della presenza degli Iberi ne’due estremi opposti dell'Europa, suppone che gli Spagnuoli, od Iberi occidentali, si fossero condotti invece nel Caucaso, dove denominossi Arago od Aragona un fiume, il quale cade nel Cur, compagno dell’Arasse di Armenia — Ved. anche Grimm. — Geschichte der deutsche Sprache, p. 162 — Diefenbach — Origines Europaeae, p. 113. 2) Priifung der Untersuchungen iiber die irbewohner Hispaniens vermittelst der waskischen Sprache — Berlin, 1821, 4. 3) Così Avieno nelle Ora marit., v. 133e seg. >». . . . +... + Celtarum manu Crebrisque dudum proeliis Ligures pulsi, ut saepe fors aliquos agit, Venere in ista quae per horrenteis tenent Plerumque dumos. sd= Nella Liguria marittima, dal Varo al Paglione, erano i Vedianzi. Alla Turbia (Trophea Augusti) cominciavan gli Intemeli, che confinavano a levante con gli Zngau- ni, che avevano per loro capitale Albenga. Seguivano i Sabazi, che tennero il golfo di Vado, e quasi nel bel mezzo della Liguria signoreggiavano i Genwati, il cui territo- rio prolungavasi sino a Portofino, eccetto la deliziosa valletta della Polcevera occu- pata da’ Veturiî. Da Portofino al Capo Mesco tutta la costa apparteneva a’ Tigulî, ma le vallate de’ monti, le cui acque riunite formano l’ Entella, albergavano le tribù dei Lapicini, de’ Garulî e degli Ercati. Nella limitrofa valle della Vara erano i Brinzati 0 Friniati, ma dal confine de’ Tiguli, oltre alla Magra, tutto il littorale, non meno che gli alti gioghi, erano tenuti dai bellicosi Apuani. | A tramontana de’ monti il dominio de’ Liguri si estendeva largamente nel territo- rio circompadano fra l’Apennino, il Ticino e le Alpi. Dal Tanaro al Po erano i Vagienni, fra il Gesso e la Stura i Veneni, nella bassa valle del Tanaro i Levi ed i Marici. Segui- vano appresso gli Stazielli fra il Tanaro e l’Orba, e sulle rive della Scrivia e della Staf- fora, i Dertuniati. I Celetati, i Cerdiciati e gli IMuati si ripartivano fra loro il territorio dalle sorgenti della Trebbia al Po; e dalla Trebbia al Panaro i Frinzati davano mano a’ Liguri dello stesso nome che popolavano i gioghi e le valli de’ Monti Apuani. Nè a questi soli si restringevano i territori della gente ligustica, avvegnachè essa allargavasi ancora sulla sponda sinistra dell’Eridano, che in sua lingua chiamava Bo- dinco, ed è noto altresì per antiche memorie, che i Vagienni fondarono Torino, i cui abitatori presero il nome di Taurîni, ed erano padroni delle terre chiuse tra il Po, il Mallone e le Alpi. Stretti in federazione con essi erano i Segustani sulle rive della Dora Riparia, da Susa a Brianzone, e nella valle di Viù e di Lanzo i Garocelli, che si stendevano fin sull'alta Moriana, dove a lor confine stavano i Salassiî. Limitrofi a questi, dal lato del Vallese, erano i Seduni, e nella Tarantasia î Centroni; di qua dalle Alpi, nella region sesita (val di Sesia), d’onde dominavano fino in Valtellina, i Leponzi, a mezzogiorno, i Libui, e nel rimanente del territorio, fra il Ticino e il Po, i Levi. Una tribù de’ Leponzi, detta dei Viberî, era padrone dell’ Alto Vallese, un’ altra chiamata dei Mesiati avea fissa dimora in val di Mesocco, e quella degli Agoni abitava presso la sorgente dell’Agogna e della Sesia, non molto lungi del Verbano, o Lago Maggiore. La presenza de’ Liguri ne’ limiti indicati non è in modo alcuno da contestarsi. Vi sarebbero indizi che li farebbero estesi ancor più verso oriente e verso mezzogiorno, ma questi indizi, come riflette lo Schiaparelli, dipendono da indicazioni parziali e spes- so sommamente vaghe, di cui non si deve, nè si può esagerare la importanza fino a de- durre conclusioni generali assolute o quasi assolute *). Egli è però certo, che da questi lati ebbero frequenti contrasti co’ vicini Umbri ed Etruschi fino a che non vennero sta- bilmente fissati i loro rispettivi confini. I Liguri per altro non rimasero sempre tranquilli in quelle loro sedi. I Celti, so- spinti verso occidente e mezzogiorno dai Galati o Galli, che, passato il Reno , s'erano introdotti nelle regioni settentrionali delle Gallie, si riversarono a loro volta sulla Spa- gna e sull'Italia molti secoli innanzi della venuta di Belloveso, ed occupate dapprima le vallate delle Alpi occidentali, discesero quindi nella pianura, e in più e in minor numero s'infiltrarono nelle contrade tenute dai Liguri , e pare anzi che , se non tutta, !) Un capitolo di storia patria antica e moderna — Torino, 1880, p. 70. ML buona parte almeno della sinistra del Po, nella regione subalpina, fosse venuta in lor potere, come è dimostrato da tanti nomi epicorici delle attuali provincie liguri e pie- montesi ‘), e dai vernacoli che sono in uso presso quelle popolazioni *). Egli ha più di venti anni che io descrissi, in una particolare Monografia sui Li- guri, il cranio di quelì. -*irpe, e da antichi teschi rinvenuti qua e là in diversi luoghi della Liguria, e da quelli che son comuni agli abitanti odierni delle stesse contrade, potei conchiudere, che quel teschio, decisamente brachicefalo, presenta caratteri mor- fologici tali, che lo rivelano fortemente commisto di elementi turanici, il che non si osserva così manifestamente in verun altro cranio italiano °); ed anche oggi, non ostante il diverso opinare del Lombroso *) e del Sergi *), non credo dover mutare quel giu- dizio, che trovo anzi confortato da nuove e ripetute osservazioni ‘°). Quel cranio infatti ha un indice cefalico medio di 850. Jl profilo della sua calvaria è presso a poco emisferico, e solo alquanto più inar- cato in quella parte corrispondente alla porzione media della sua metà posteriore ove il teschio si mostra più elevato, e d'onde discende rapidamente verso l’occipite, il quale è schiacciato e depresso, mentre che negli altri crani italici brachicefali è sempre più o meno prominente. i Manca non di rado della linea semicircolare, e più spesso della sua protuberanza. Le gibbosità corrispondenti alle fovee del cervelletto sono piccole ed inclinate sotto un 1) Sono decisamente celtici que’ nomi che, anche al presente, conservano le terminazioni in ate in ago e le voci briga, briva o riva in principio o infine delle parole, come Briga, sul colle di Tenda; Brigaglia e Sommariva nella Provincia di Cuneo; Auriga e Riva in quella di Porto Mauri- zio; Rivarone e Rivalta in quella di Alessandria; Vespolate, Tordalbiate, Belgirate, Bellinzago, Mercurago, nel Novarese; Rivalta , Rivalba, Rivoli, Rovigliano, Rivarossa nella Provincia di To- rino; Rivarolo nella Provincia di Genova e nel Canavese, ecc. Terminazioni celtiche sono ancora nei nomi di alcuni popoli liguri, come i Genuati, i Friniati, i Celetati, i Cordiciati, gl’Illuati, e ciò, conferma, io credo, la opinione, che tribù celtiche in antichissimo tempo si fossero introdotte e sta- bilite permanentemente fra i Liguri, e però non so con quanta ragione storica il Niebuhr abbia potuto dire, « che i Galli non ebbero mai un palmo di terreno di ciò che ai di nostri appartiene pi Piemonte ». (Storia Romana, 1). ?) Il genovese, o diciamo addirittura il ligure, ha per fermo, una fisonomia propria, che gli fa tenere un posto distinto nel sistema de’ dialetti italici, ma deve insieme ancora annoverarsi fra i gallo-italici, perchè « tuttociò che è veramente caratteristico de’ dialetti gallo-italici ricorre anche nel genovese, e vuol dire un complesso di fenomeni che non si risolvono già in mere alterazioni, o in fasi particolari di maggiore o minore integrità latina, ma sì in vere e specifiche trasformazioni che il substrato gallico fa subire alle parole di Roma ». Ascoli, Archivio glottologico italiano. Roma, 1875, t. II, p. 160. 3) Nicolucci, La stirpe Ligure in Italia ne’ tempi antichi e ne’ moderni; nelle Memorie della R. Accad. delle Scienze fisiche e mat. di Napoli, 1884, vol. III 4) Note d'Antropometria della Lucchesia e Garfagnana. Roma 1878; nel vol. I. serie 2* degli Annali di Statistica. 5) La stirpe ligure nel Bolognese, negli Atti e memorie di storia patria per le Provincie di Ro- magna. Bologna, 1882, vol. I— Liguri e Celti nella Valle del Po, nell’ Archivio di Antropologia ea Etnologia. Firenze, 1883. ®) Confr. la stupenda opera del Calori: Della stirpe che ha popolato l antica Necropoli alla Certosa di Bologna. Bologna, 1873, fol. con XVII Tav. — Quatrefages et Hamy, Crania Ethnica. Paris, fol., p. 489.—Virchow, Ueber einige niederer Menscherassen am Schadel. Ber- lin, 1875, p. 38. — H. Hélder, Beitroge zur Etnograph. d. Wiirtemberg. Archiv. fùr Anthropol., 11,56 — Canestrini, Sopra due crani antichi trovati nell’ Emilia, Modena, 1366, Re angolo più o meno aperto sul piano della base craniale, mentre che negli altri crani italici si trovano quasi orizzontali con essa. La base stessa del cranio è larga, sopratutto nella sua parte media e posteriore. La sua altezza è maggiore di quella degli altri crani italici, e questa sua maggiore elevatezza non è già nel mezzo del teschio , ma sì nella parte posteriore corrispondente verticalmente al margine posteriore del forame occipitale. La fronte è larga, ma ristretta in basso verso le tempia. La faccia è ampia , spianata, ed offre un tipo che non è quello al quale si confor- mino i tipi de’ rimanenti popoli italiani, perciocchè nel ligure la faccia è quasi sempre altrettanto larga quanto è lunga, denti che negli altri italici la lunghezza ROY i co- stantemente di un decimo e più la larghezza. Le orbite sono anche fra loro più distanti che non sieno negli altri crani italiani, lo spazio della glabella è sempre maggiore, le arcate alveolari più tondeggianti, il mento più largo e più piano; e più lontane fra loro le parti laterali ed ascendenti della ma- scella inferiore. In quali proporzioni poi questo tipo ligure si conservi al presente in Liguria ed in Piemonte cogli altri tipi craniali dominanti nella Penisola, io non saprei determinarlo con dati precisi, ma dalla comparazione di molti teschi da me studiati, e da osserva- zioni fatte sui viventi, credo potersi ritenere con molta probabilità, che oggi in Pie- monte quel tipo sia proprio delle due terzi parti, ed in Liguria di oltre la metà della popolazione. Nell’uno e nell’altro paese è più comune nelle classi inferiori del popolo che ne’ ceti alto e mediano della cittadinanza. In Liguria signoreggia più ne’ monti che nelle regioni littorane, e nel Piemonte più nelle Provincie che avvicinano la Liguria e nelle centrali, che non in quelle che si congiungono con l'Emilia ela Lombardia, e, per le valli alpine, con la Svizzera e con la Francia. « Che i Liguri non fossero stati originariamente un medesimo popolo co’ rima- nenti abitatori d’Italia, anche le testimonianze degli scrittori degli antichi tempi ad ogni tratto ce lo rammentano, e più d’ogni altro ce lo chiarisce il fatto, che mentre tutti gli altri Italiani si mescolarono fra di loro, e si riunirono in un sol patto sotto l'alto dominio della Città Eterna, i Liguri ostinatamente rifiutavano di obbedire alla autorità di Roma, ed aspre e diuturne guerre sostennero per conservare la propria in- dipendenza , e serbarsi stranieri alla comunanza politica italiana 1). Anche vinti rima- sero per lungo tempo sceverati dal resto d’ Italia, e non fu se non l’opera de’secoli che venner dopo, che, stringendosi coi popoli circostanti, ne trassero in gran parte i costumi, e sopra ogni altra cosa la lingua, ed innestandosi gli uni negli altri, acquistarono il re- ciproco sentimento di fratellanza, e con voce profonda di cuore han di poi sempre chiamato e salutato col nome di patria quanto è il terreno che si distende dalle Alpi 1) I Romani per tenerli in freno fecero trasportare nel Sannio e nel Beneventano 47 mila fami- glie di Apuani nel 572 di Roma, sotto il consolato di Cornelio e Bebbio, onde que’ Liguri si dissero Bebiani e Corneliani (Livio, XL, 38-41). Nelle terre loro assegnate costruirono molti villaggi e due città principali, cioè Cornelianum, che credesi essere stata a sinistra del Calore a 12 o 13 miglia da Benevento (Guarini —IMustrazione dell'antica campagna Taurasiana. Napoli, 1820), e Bebianum, riconosciuto a Macchia poco più di cinque chilometri distante da Circello tra Benevento e Sepino (Guarini, Antichità de’ Liguri Bebiani. Napoli, 1845).—Otto anni appresso, cioè nel 580 di Ro- ma, parecchie altre migliaia ne furono trasferite sulla sinistra del Po. ca a Scilla e dal Mar Tirreno all’ Adriatico. Ma benchè fra i Liguri e gli altri Italici si sta- bilisse comunione di favella , di religione , di statuti municipali e di latine tradizioni, non però mai si spense quella varietà portentosa che ha sempre distinto il settentrione del centro e dal mezzogiorno d'Italia, e chi ponga mente ai raffronti storici, e consideri quel che furono e quel che sono oggi i popoli della Liguria e del Piemonte, troverà per avventura il loro stampo esser rimasto tuttora quasi vergine ed immutato. E per fermo gli antichi ci rappresentano unanimemente i Liguri come i più gagliardi degli uomini, e vi erano proverbi i quali dicevano che gracil Ligure valesse più di fortissimo Gallo, e che le loro donne avevano il vigore degli uomini, e questi quello delle fie- re *). Vivendo i più sopra un terreno povero e petroso erano giunti a dissodarlo strito- lando il macigno e ingrassando l'arena, e non potendo neppur con la fatica e con l’arte superare la sterilità del suolo, uomini e donne si allogavano fuori paese per faccende rusticane. E comechè grandemente incerta apparisse la propria natura, e po- vero il loro stato, non per questo si meritavano quella brutta fama di ladroneccio , di menzogna e di frodi in che si dicevano allevati ?); imperocchè se i Romani li chiama- rono per ispregio ladroni e peggio, quel vocabolo, che i popoli vincitori posero pari- menti ai Sanniti, non aveva altro significato , se non quello di uomini accorti , destri , insidiosi negli agguati di guerra, ed espertissimi in quelle maestrie che suppliscono al difetto del numero e della forza con la sagacità e l’astuzia. Tuttavia in questa razza non è ancora al dì d’oggi cancellata ogni traccia della sua robusta virilità d'altri tempi. In Piemonte e in Liguria il popolo comparativamente Tiene ancora del monte e del macigno; una sobrietà, una gravità, una sodezza, una più che italiana vitalità può tuttavia scor- gersi nelle genti subalpine, qualità che hanno senza dubbio contribuito a distinguerlo dai loro fratelli di levante e di mezzogiorno, e che ha giovato a plasmare quella loro forte e tenace indole, quell'amore della stabilità e dell’ordine che fa di essi il po- polo meglio fazionato a governo, come dice il Botta , e che, divenuto egemone in Ita- ia, potè promuovere la riunione delle divise membra materne , e spianare la via alla icostituzione della nostra unità nazionale, desiderio, speranza e voto di tanti secoli 5). 1) Strabo, lib. III, IV, 17 — Diodoro, V. : ?) Sed ipsi (Ligures) unde oriundi sunt exacta memoria illitterati, mendacesque sunt, et vera minus meminerunt. ( Cato, in originib. ap. Servium, XI, 75 ). Non diversamente scriveva di loro Nigidio Ficulo : « nam Ligures qui Apenninum tenuerunt latrones, insidiosi, fallaces, men- daces: e Virgilio (AMneid. XI, 7-15-17): Vane Ligur, frustaque animis elate superbis, Necquicquam patrias tentasti lubricus artes: Nec fraus te incolumen fallaci perferet Auno. *) Nicolucci — La stirpe ligure cit., p. 84-85. Arti— Vol. II. — Serie 2° — N° 9. 2 cen Me è II — GLI UMBRI. Le tradizioni patrie ricordano gli Umbri come popoli antichissiml dell’Italia *). Erano Aryi, che fin dall'epoca neolitica erano penetrati nel bel Paese, soprapponen- dosi, come i Liguri, a quelle più antiche genti camito-turaniche che erano sparse da per tutto nella Penisola. Posero dapprima sede sulla destra del Po, che occuparono fino a Piacenza. Ignari ancora de’ metalli non tardarono ad averne conoscenza da quegli altri Ariani che man mano si aggiungevano ad essi, da’ quali veramente può dirsi essere stata propagata appo noi la civiltà del bronzo, perciocchè i suoi primordi ci appariscono soltanto in quelle antiche stazioni ov’ei si posarono nell'Italia Superiore. Le quali stazioni, benchè vetustissime , son tuttora rappresentate da quelle piccole e spianate collinette che si di- cono Terremare *), e che si trovano sparse sulla destra del Po, da Piacenza ad Imola, e si prolungano interrottamente anche qua e là fino ai più alti colli dell’ Apennino °). Pratticandosi scavi in. quelle collinette son venuti in luce , negli strati superiori, oggetti appartenenti ai tempi romani, medioevali, ed anche più vicini a noi, ma negli strati inferiori sì raccolsero ossa di animali domestici spaccate e mancanti de’ capi ar- ticolari, frammenti di stoviglie con disegni triangolari, o a circoli concentrici, e sin- 1) « Gens ampla et antiqua » li chiamò Dionigi (Lib. I, 19), e Plinio: « Umbrorum gens anti- quissima Italiae » (Zist. Nat. III, 14), e Floro: « antiquissimus Italiae populus » (Hist. III, 17). ?) Il Brizio — (Gli Italici nella valle del Po — I Liguri nella Terremare — Nuova Antologia, 1880, apr. e ottobre — Ancora della stirpe ligure nel Bolognese. Bologna, 1882), e il Sergi, (Sulla stirpe ligure nel Bolognese. 1882 — Celti e Liguri nella valle del Po, 1883) — sono di cere- dere che, più che agli Umbri, la Terremare si debbano giudicare appartenenti a'Liguri, che avrebbero abitato prima degli altri Ariani anche la Media e Bassa Valle del Po, e vi sarebbero rimasti per tutta l’epoca del bronzo; ma si oppone a tale opinione il fatto, che i Liguri, nelle loro proprie sedi, nelle contrade che mai non abbandonarono, dal Ticino al mare, non si è rinvenuta traccia di quelle palafitte, che sono sparse dappertutto nell'ampia contrada fra il Ticino e l'Adriatico. 3) Le Terremare sono composte di una terra argillosa mista a ceneri, carboni e copiosi avanzi di materie animali e vegetabili unitamente ad ossa frante di animali, e frammenti di stoviglie ed altri simili rifiuti di antica umana provenienza. Il celebre Cavedoni, il Crespellani ed altri le avevano giudicate avanzi di roghi di Etruschi, di Galli, di Romani; grandi cemeteri co’ resti dei banchetti funerei, vasi cinerari, e con ogni sorta masserizie riferibili alle costumanze funebri de’ po- poli summentovati; ma il Gastaldi, nel 1861, ne riconobbe, se non la vera natura, almeno l’età re- motissima ; ed aprì la via che con tanto successo percorsero Strobel, Pigorini, Chierici ed altri molti. Per lo studio di questi uomini egregi si è venuto a chiarire, che le Terremare non sono che ammassi d’immondizie e resti di vettovaglie accumulatisi al disotto e all’intorno di abitazioni di nu- merose generazioni di uomini che in tempo antichissimo, dall'ultimo periodo dell’ Età della pietra fin quasi a tutta quella del bronzo, vissero in que’ luoghi in capanne edificate sopra palafitte, in mezzo a bacini artificiali, orientati, e circondati da un argine e da una fossa. In mezzo al bacino si pianta- vano pali che non superavano col loro capo superiore il piano dell’argine, e sui quali si costruiva un tavolato su cui s'innalzavano le capanne, in maggiore o minor numero, secondo l'ampiezza della pa- lafitta. Le capanne, come le altre preistoriche rinvenute altrove, erano formate da pali, frasche, canne intrecciate insieme, e ricoperte da uno strato di argilla. In molti luoghi, essendosi colmato il bacino, il popolo che abitava quelle capanne continuò a dimorarvi, tenendo stanza sul piano rialzato del ba- cino stesso, e così, continuando ancora il gettito delle immondizie e degli avanzi di pasto, la quan- - tità di quei depositi si accresceva, e diventava superiore al livello della pianura circostante. cor Bf golari per la forma lunata delle loro anse , più o meno ornate e circinate , fusaiuole, macine, oggetti diversi di osso o di legno, strumenti agricoli ed una serie svariatis- sima di oggetti di bronzo, senza traccia alcuna di ferro. Si rinvennero ancora nel più basso strato, oggetti di pietra polita, avanzi di un’ età che tramontava, ma che pur continuava la sua languida esistenza in mezzo all’ invadente Età de’ metalli. I bronzi caratteristici delle Terremare sono identici a quelli che si trovano sulla valle del Danubio, come i bronzi delle necropoli danubiane non si differenziano da quelli dei Terramaricoli, onde gli uni e gli altri par che si debbano riferire ad una medesima civiltà , alla civiltà Zalstattiana , colla quale convengono anche gli oggetti funerari della maggior parte dei tumuli e delle necropoli della stessa età scoperti nel- l'Europa centrale. E poichè i medesimi elementi si rinvengono ancora in altre tombe sparse di più in più verso oriente, sino a raggiungere quelle di Kuban, nel Caucaso, sulle quali hanno sparsa tanta luce Wyruboff'), Chantre °), Vircho w°), Ba- yern ‘), così possiamo conchiuderne, da quella remota regione europea essere a noi pervenuta la prima conoscenza del bronzo per mezzo delle colonie ariane che sempre più si addensavano nel centro e nell’occidente dell’ Europa. Ma col progredire dell’incivilimento quella somiglianza di carattere nelle arti non si conservò costante in tutte Je contrade. Il genio artistico di ciascun popolo impresse a quella civiltà una fisonomia propria e particolare, ond’essa, nella più florida età del bronzo, nelle nazioni più favorite del Mediterraneo, si svolse con elementi più geniali, e rifacendo il cammino verso il mezzo e l'oriente dell’ Europa , vi recava a sua volta i germi di un più elevato progresso. Gli Umbri non si tennero paghi a quelle sole contrade ove prima si stabilirono, ma, a testimonianza di Erodoto °), si estesero fino alle Alpi, e non è inverosimile che possedessero tutta l’Italia Settentrionale fin là dove verso oriente cominciavano le stirpi Illiriche, e verso occidente i Liguri °). Dal lato di mezzogiorno spinsero colonie nelle regioni centrali ed occuparono quanto è il terreno che si distende dal Po fino al Tevere e dall’uno all’altro mare. Sappiamo infatti che la Tuscia , pria d’ essere tenuta dagli Etruschi, era chiamata Umbria ’), e Plinio ricorda che il fiume Ombrone, navi- gabile a’ suoi dì, nel mezzo della Toscana, doveva agli Umbri la propria appellazione *). Anche nomi locali attestavano la loro presenza sulle spiagge del Tirreno, fra i quali Ombricolo alle Allumiere presso Civitavecchia. Livio, parlando di Chiusi, riferisce che quella città, che poi fu detta Clusium da un figlio di Tirreno, chiamavasi dapprima Ca- 1) Objets d’antiquité du Musée de la Société des amateurs d’Archéologie du Caucase. Tiflis, 1877, con XII Tav. ?) Contribution è l’Archéologie du Caucase. Lyon, 1832. Una grand’ opera intorno alle an- tichità del Caucaso è già prossima ad essere pubblicata dal sig. Chantre, e si comporrà di 3 vol. grandi in 4° con 120 Tav. 3) Das Griberfeld von Koban, in Lande der Osseten, Kaukasus. Berlin, 1883, con atl. di 11 tavole, e vignette nel testo. 4) Untersuchungen iiber die zilteste Graber-und Schatzfunde in Kaukasien. Berlin, 1885, 8° con XV tav. 5) Lib. 1, 94. *) Mommsen — Rom, Geschichte — 6 Aufi., 112. ?) Erodoto, lib. 1, 19. ) Umbro navigiorum capax, et ab eo tractus Umbricae portusque Telamon. Lib. III, 8. _ fi — mars ‘), il qual nome, essendo analogo a quelli de’ Camerti umbri, ci dà ragione al credere, che fosse stato edificata dagli Umbri, che, a detta di Ellanico, avevano pos- seduto anche Cortona, città ricca e potente *), ed avevano altresì fondata Perugia, secondo scrive Servio, probabilmente sulla fede di Catone °). L’Ombrica poi nota ai Greci sull’Adriatico ha una estensione indeterminata e vasta, e Scilace, oltre il Piceno, vi comprende anche la costa fino al Promontorio Garga- no ‘), ove nel centro di quei monti trovasi ancora un'estesa valle che porta il nome di Valle degli Umbri. Tutto l'ampio territorio dominato allora dagli Umbri era diviso in tre grandi re- gioni che si dissero Is-Umbria, Vil-Umbria ed Oll-Umbria. La prima, che era | Um- bria bassa e pianeggiante, comprendeva tutta l’ ampia pianura eridanica, dove poi fu- rono le Gallie Traspadana e Cispadana ; la seconda, l'Umbria alta, o montana, si allar- gava tra l’ Apennino e il mare adriatico, e comprendeva tutto il Piceno dall’ Aterno al- l’ Esino e il resto del territorio dall’Esino al Po; l’ultima, o l'Umbria marittima, tra l'A- pennino e il mare mediterraneo, comprendeva l’Etruria propriamente detta, gran parte della Sabina e quella che modernamente chiamasi Umbria. Possessori così di un vasto paese vi ordinarono uno stato potente in cui sì conta- vano molte città, ed una numerosa popolazione , che distribuita convenientemete su d’un fruttuoso territorio, sostenne per più secoli la domestica felicità delle seguenti ge- nerazioni °). Ma una gente nuova , straniera all’Italia, gli Etruschi, insediatasi fra l'Arno e il Tevere, arrestò il corso d’ogni loro prosperità, e fu cagione della lor com- pleta rovina. 3 Guerreggiati fieramente da que’ nuovi venuti, furono costretti ad abbandonare le più belle contrade e restringere il lor dominio ad una sola Provincia, la quale dall’ A- pennino volgendo all’ Adriatico, si allargava fino al Po in vicinanza di Ravenna. E nep- pur quivi riposarono tranquilli. I Galli Senoni ne li scacciarono, e agli Umbri vinti dalle avversità non rimase altra libera terra, se non quella che nell’interno dell’ Apen- nino ha conservato fino ad oggi inalterato il proprio antico nome. Sorte di un popolo vinto fu mai sempre quella di essere umiliato , e gli Etruschi vincitori, non solamente esercitarono alto dominio sulle terre conquistate sugli Umbri, ma lo stesso breve territorio ch'era rimasto libero ad essi, fu per molte età anche di-. pendente, se non suddito degli Etruschi. Pur nondimeno col tempo Umbri ed Etruschi si accomunarono fra loro , e costumi, credenze, riti, sacrifici °), divennero comuni ad ') Clusium quod Camars olim appellabant. Servius ad Zneid. X, 167. 2) Dionigi. I, 20. i Ì 3) Sarsinates qui Perusiam condiderunt. Servius ad Eneid. X, 201. ‘) Strab. lib. V, 1, 11. — Plinio, Hist. nat. II, 14. 5) Micali, Storia degli antichi popoli italiani. Milano, 1836, I, 69. ©) Che gli Umbri ed Etruschi avessero comunione di religione e di templi, lo provano le Tavole Eugubine IV, e la 11° latina, ove vengono menzionati i Turschi o Toschi Tarsinati intervenuti ai sacrifici degli Umbri. Le Tavole chiamate Eugubine, perchè scoperte nel 1444 presso Gubbio, l'antica Iguvium o Ikuvini, sono sette, tutte di bronzo, scritte in lingua umbra, cinque in caratteri etruschi e due in caratteri latini, e recano testimonianza di un’antica letteratura sacerdotale fra gli Umbri di un periodo molto remoto. Si studiarono di illustrarle il Grutero, il Passeri, il Gori, il Lanzi e Filippo Buonarroti che fu il primo a dire, nella « Etruria Regalis », ch’ erano scritte in lingua umbra, mentre prima si credeva che fossero etrusche. Intorno ad esse han pubblicato lavori impor- pre, pa entrambi, e le gloriose memorie umbriche, ch’erano sparse in tanta parte d'Italia, fu- rono da’ popoli susseguenti credute e giudicate toscaniche. Importanti scoperte falte, dopo la seconda metà di questo secolo, nel territorio bo- lognese *), han ritolto quel popolo dall’ oblio immeritato , e rivendicato ad esso una parte di quella civiltà che era stata attribuita esclusivamente agli Etruschi. Dal sepol- creto umbro di Villanova, così splendidamente illustrato dal conte Giovanni Goz- zadini ”), e da tanti altri sepolcri arcaici di quella città e di quella Provincia appar- tenenti ad epoche , quando ancora gli Etruschi non avevano estese le loro conquiste in quella che si disse Etruria Circumpadana °), son venuti fuori cimeli importantissimi, da’ quali si è potuto argomentare del grado di civiltà cui s'erano sollevati gli Umbri innanzi la loro commistione con gli Etruschi. Sepolcri somiglianti si son pure scoperti in altre parti dell'Emilia, nelle Marche, ma più frequentemente al di qua dell’ Apennino, nell’ Etruria Centrale, a Poggio Renzo, presso Chiusi ‘), a Sarteana 5), ad Orvieto *), Corneto, sopra una di quelle al- ture dette le Morre °), Allumiere °), ecc., e anche al di qua del Tevere, e in Roma tanti il Grotefend, il Lepsius,l’ Aunfrecht e Kirchhoff, el Huschke. Una edizione molto accurata n’è stata data dal Fabbretti nel suo « Glossarium Italicum ». 1) Il territorio bolognese non v ha dubbio che fosse stato Umbro, ma vi è discrepanza di pa- reri fra gli archeologi intorno all'origine di Bologna. Taluni, e di questa opinione è anche il Mom- msen (Rom. Geschich. 6* Ediz. I, 121), la credono fondata da Tarcon, e quindi città originariamente etrusca, e poggiano il loro giudizio sopra una leggenda riferita da Cecina e Varrio Flacco, altri so- stengono invece che l'avessero molto innanzi fondata gli Umbri. «L'ill. collega prof. Rocchi, (scrive il Calori nella sua lodata opera « Della stirpe che ha popolato l’ antica necropoli alla Certosa di Bologna » p. 63-4), nella sua Dissertazione « Sull’antichissima origine della città di Bologna », 1866, ha dimostrato con tutta l'evidenza onde sono capaci cose così lontane ed oscure, che Felsina fu dap- prima città umbra, poi etrusca. E pare che intorno a sette secoli innanzi che sorgesse Roma, Ocno, non si sa bene se figlio, o fratello di quell’Aulete che edificò Perugia, togliendosi dalle avite contrade qua venisse con molta compagnia a porre sua sede, e fondasse Felsina, detta perciò da SilioItalico Ocni prisca domus (De Bello punico, VIII, 601), conciosiacchè poi n’ebbe un’altra in Mantova, di cui esso altresì fu autore, o, com’altri dicono, i Sarsinati, ciò che torna il medesimo ». 2) Di un sepolereto etrusco scoperto presso Bologna. 1855, 4°. — Intorno ad altre settantuno tombe del sepolereto etrusco scoperto presso Bologna. 1856, 4°. 3) I sepoleri arcaici del tipo di Villanova sono quelli rinvenuti ne’ predi Benacci, de Lucca, Casa Malvasia (più arcaici). Quelli de’predi Arnoaldi, Tovaglini, Stradello della Certosa, Arsenale mostrano un più largo svolgimento, e quindi appartengono ad un'epoca, sempre antica, ma meno remota. Di tutte coteste scoperte ha pubblicate dottissime illustrazioni il conte G. Gozzadini, delle quali cito qui le principali: — Di un antica Necropoli a Marzabotto nel Bolognese. 1865, 4°—Di alcuni se- polcri della Necropoli felsinea, Ragguaglio del conte G. Gozzadini, 1868, 8° — Di ulteriori scoperte nell’ antica Necropoli di Marzabotto nel Bolognese, 1870, 4° — Intorno ad alcuni sepo!- cri scavati nell’Arsenale militare di Bologna, 1875, 4°— Intorno agli scavi archeologici fatti dal Sig. Arnoaldi-Veli presso Bologna, 1877,4°—Nuovi scavi nel fondo San Polo presso Bologna, 1884, 4°. 4) Brogi — Sopra le tombe a pozzo scavate nell’agro Chiusino. — Poggio Renzo. Bullettino di corrispondenza archeologica, 1875, p. 216-20 — Id. — 1876, p. 152-44— Id.—Lettera all’Helbig Bullett. cit. 1882, p. 330-33 — Helbig, Scoperte presso Chiusi sul Poggio Renzo. Bullett. cit. 1875, 233-35 — Bertrand nell'opera « Archéologie celtique et gauloise » Paris, 1876, p. 128 etc. *) Helbig, Viaggio nell’Etruria. Bultett. corrisp. archeol. 1879, p. 233-335. 5) Kòrte, Bullet. cit. 1877, p. 154-163-170.— Helbig, Bullett. cit. 1878, p. 220. *)Gherardo Gherardini. Scavi di Corneto, nelle Notizie degli scavi di antichità pub- blicate per cura della R. Accademia de’ Lincei; 1878-79. Pregevoli relazioni sugli scavi eseguiti per cura del Municipio di Corneto nel territorio di Monteroni. *) Klitsche de la ‘Grange, Monografia intorno alcuni sepolcreti arcaici rinvenuti nei monti cuni DB i stessa '), e tutti, nella costruttura delle tombe, nel rito del seppellimento, nella sup- pellettile funeraria, rappresentano i vari periodi di quella civiltà che fu comune a tutte la stirpe umbra , ceppo originario di tanta parte della popolazione italica. La costruttura di que’ sepolcri è quasi identica : una fossa, o pozzetto, più o meno profonda, quasi sempre circolare, più di rado quadrata, rivestita, ove n’era d’uo- po, di sassi nell'interno; un vase cinerario, coperto da una ciotola o da una lastra di pietra, deposto nel fondo di quella fossa, e cenere di rogo accumulata intorno all’ olla funeraria ; vasettini accessori intorno all’urna, e dentro alla medesima altri piccoli vasi fittili ed ornamenti personali di bronzo, rarissimamente di ferro, fibule, armille, anelli, pendagli, aghi crinali, collane ed altri gingilli; raramente qualche paalstab od accetta di bronzo. I fittili fatti a mano, di pasta imperfettamente depurata e poco cotta, ra- ramente ornati, e se pure ornamenti vi sono, sono linee graffite e figure geometriche. Il rito della cremazione è quindi pressochè generale, tranne poche eccezioni; perocchè fra i molti combusti pur si trovano talora cadaveri inumati fra gli spazi in- termedi alle fosse, ed alla stessa profondità, accompagnati dal medesimo corredo fu- nebre, da non potersi punto dubitare che appartenessero alla stessa età de’combusti. Da ciò si può argomentare, che due riti di seppellimento erano allora promiscuamente adoperati, ma con prevalenza costante della cremazione sulla inumazione. Nelle tombe arcaiche di Tarquinia e di Vetulonia, nell’Etruria propria, e in quelle del territorio albano, nel Lazio, compariscono inoltre, come vasi funerari, alcune ter- recotte rappresentanti la casa del defunto, e delle quali non si è trovata traccia nelle necropoli fra l’Apennino e le Alpi. Si dicono Urne-capanne, e se n’ ebbe la prima co- noscenza nel 1817 nell’aprirsi una strada sul rovescio della costa occidentale del lago Albano, oggi detto di Castel Gandolfo °). Fra le varie fogge di tali sepolcri, una delle più notevoli è la seguente, che fu così descritta all’epoca del suo scoprimento dall’Archeologo Fea. « Bisogna figurarsi, egli dice, un tempietto sferico , piano al di sotto, senza alcun ornamento nelle pareti, e co- perto da un tetto fatto a guisa d’elmo, e ornato di strisce rilevate di terra, che ad eguali intervalli lo dividono, somiglianti a travicelli che s'incrocicchiano nelle testate. Questa tettoia è alquanto sporgente, e sul davanti vi si trova quasi sempre un segno come A che sembra un tridente rovesciato, del quale anzi è talvolta segnata l’ asta. La misura in altezza e in diametro di que’ monumenti è per gradazione dal mezzo palmo (circa 11 centim. a quasi due, (centim. 45 circa); la qual cosa per avventura doveva essere determinata dall’età del morto. Sul davanti poi è una porta movibile e proporzionata alla grandezza del sepolcro, e in ambo i lati sono strisce rilevate a guisa d’informi co- lonne forate nel mezzo. Passa per questi forami, da un canto all’altro, una spranga di metallo che serve di chiavistello nella porta. « Per entro si trovano ceneri ed ossa non terminate di abbruciare...A mano sini- delle Allumiere. Roma, 1879 — Notzzie degli scavi di antichità, 1830, p. 45 — Lettera all’ Helbig sugli oggetti ceramici trovati nelle tombe antiche del territorio delle Allumiere, Bullett. di corr. archeol. 1883, p. 209-12 — Ulteriori scoperte arcaiche nel territorio delle Allumiere. Id., 1884, p. 189 — Notizie degli scavi di antichità, 1884, p. 152. )Gamurrini, Bullettino di corrisp. archeol., 1877, p. 91-92. 2) A. Visconti, Lettera al sig. G. Carnevali di Albano sopra alcuni vasi sepolcrali rinvenuti nelle vicinanze dell’antica Alba-longa. Roma, 1817. s- = stra dell'interno vedesi un piccolo vasello di terra in cui stanno alcuni pezzetti rotondi di terracotta (fusaiuole?) Alcuni però di tali vaselli hanno la forma di anfore, diffe- renza che forse indica la diversità del sesso. Sparsi poi sulle ceneri sono molti pezzi di metallo, cioè un coltellino di forma non inelegante, un piccolo cucchiaio piatto e una fibula, la cui forma è sempre eguale, ma il travaglio diverso. In alcuni altri, ol- tre le cose mentovate, si rinvengono pur di metallo una specie di stilo da scrivere, ed ornamenti di testa femminile, una punta di lancia col suo buco per l'asta, e uno scudo ora rotondo, ora oblungo, coll’interna imbracciatura. Le quali cose tutte sono piccolissi- me e quasi in miniatura ') ». Ma dal non essersi mai rinvenute simiglianti urne nell'Italia Centrale, e molto meno nel Bolognese, che furono delle stazioni più importanti degli Umbri, si potrebbe argomentare, che le fossero imitate da qualche colonia forestiera stabilita sulle coste del mediterraneo, la quale potrebbe essere stata probabilmente fenicia. Di fatti il no- me che tuttora conserva il capo Telamone è fenicio , e vuol dire la Collina (Tell) di Ammone; tale anche è il nome di Ruselle (da Russ, promontorio, ed E, ch'era il Sa- turno de’Fenici), e però è credibilissimo, che in antico fossero stabilite in quei siti co- lonie di quella stirpe, come di un’altra presso Cere ci conservò memoria sia il nome del piccolo sito sulla spiaggia ceretana detta Punicum, sia quello di Agylla, antica ap- pellazione di Cere , che viene a dire in fenicio Città rotonda, perchè appunto la si pre- sentava sotto questo aspetto a chi vedevala da lontano *). Da antichi sepolcri umbri del Bolognese sono stati esumati crani, che confrontati con altri d' Umbri parimenti antichi del contado di Camerino, e descritti dal Calori ?) vi si ragguagliano quasi completamente. Vi sono in entrambe la serie e dolicocefali e brachicefali, ma la media delle loro misure ha dato un indice cefalico di 796 negli uni ‘) e di 782 negli altri °), con capacità cubiche approssimative di 1378 e 1386c.c. Nell’in- sieme, essi sono mesaticefali, diversi da’crani bolognesi odierni che sono brachicefali °). Ne’ crani bolognesi adunque e negli Emiliani, in generale, non meno che in quelli della odierna nazione umbra, circoscritta nella Vallata del Tevere, la brachicefalia si è accentuata di più, perciocchè dalla proporzione percentuale del 42°/, che ella serbava in antico rispetto ai dolicocefali Umbri, si è elevata oggidì a quello del 71 per °/, ‘). La ragione di questo forte accrescimento numerico de’ brachicefali, ove si voglia in- dagarne le cagioni, parmi si debba ripetere da’ Celti brachicefali, che per più di due secoli dominarono in quelle regioni, ed anche quando furono vinti dai Romani, rimasero in gran parte in quei luoghi, che per la lunga consuetudine, erano già loro di- venuti naturali, se pur non vuolsene attribuir parte anche a’ Veneti (Illirici), che han 1) Fea, nelle Notizie del giorno di Roma del 15 al 17 aprile, 1817. ?) Mommsen, op. cit. p. 127 — Lib. I, cap. X. °) Della stirpe che ha popolato l’antica Necropoli alla Certosa di Bologna, p. 67-76. ‘) Nicolucci, Sui crani rinvenuti nella Necropoli di Marzabotto e di Villanova nel Bolo- gnese, Lettere all’ illustrissimo sig. conte G. Gozzadini, Senatore del Regno — Napoli, 1865 — Altra lettera allo stesso, nella splendida opera del Gozzadini«Sopra ulteriori scoperte nell’ an- tica Necropoli a Marzabotto ». Bologna, 1876, p. 69. °) Calori, op. cit., p. 158. °) Calori — Del tipo brachicefalo negli italiani odierni. Bologna, 1876, p. 7. Mu potuto a lor volta, dal lato di levante, introdursi e mescolarsi con le popolazioni della destra sponda dell’ Eridano. Il tipo brachicefalo degli Umbri non è però quello del cranio ligure-piemontese. La sua forma è più armonica, le diverse parti del teschio sono meglio proporzionate fra di loro, e la curva superiore della calvaria non declina già presso il terzo superiore della stessa rapidamente, quasi ad angolo retto, verso l’occipite schiacciato e depresso, ma tondeggia dolcemente fino a raggiungere la poco lieve convessità occipitale. Insom- ma è la forma tipica comune a tutti gli altri crani brachicefali italiani. Nè punto diversa da quella dei rimanenti popoli italici, è la forma dolicocefala del cranio umbro, di cui abbiamo un esempio nel cranio di Raffaello da Urbino. Quel te- schio non è stato studiato che sopra l’unica copia di un getto che ne fu fatto, quando, venute alla luce, nel 14 settembre 1833, le ossa del grande Urbinate, prima che venis- sero rinchiuse nell’urna che fu deposta nel modesto monumento sacratogli nel Panteon, l'Accademia de’ Virtuosi di Roma, volle che ne fosse cavata la stampa. E da quella stampa fu tolta la copia unica, molto ben condotta, che la stessa Accademia de’ Virtuosi del Panteon donava per insigne privilegio, il 6 aprile 1870, all'Accademia Raffaello di Urbino, che la conserva, come preziosa memoria del suo grande concittadino. Quel getto fu studiato con cura amorosa dal compianto amico Filippo Cardona, ed io, in grazia dell’uomo insigne al quale il cranio appartenne, riproduco qui testualmente una parte di quella descrizione, non senza chiederne venia al lettore. « Veduta e riveduta più volte e sotto diversi aspetti e anche di sopra in giù, que- sta copia fedele si mostra di mezzana dimensione, armonizzata in tutto e perfettamente simmetrica, fornita oltr’ a ciò di molta dolcezza di contorni e di attaccature in sì bel modo che i piani e le curve rigirano con un garbo avente un non so che di molle e di femmineo, a usare una frase di Ovidio. E quest’aria donnesca vien confermata in tutto l’andar della testa che mostrasi piuttosto lunga che no nel diametro fronto-occipitale, e piuttosto corta nel bi-parietale ; talchè la stessa appartiene senza alcun dubbio alla schiera di quei tipi, i quali modernamente son detti de’ dolicocefalî, ossia teste a man- dorla. « Una parte sola non sembra al tutto femminile, e questa è la mascella inferiore, non solo perchè ornata di denti grandetti e fortemente piantati ( de’ quali si vedono le due fila piene ), ma anche perchè sviluppata alquanto, e sporta più che lievemente, se non quanto nell’Alighieri, poco meno: particolarità che non di rado si riscontra nella stessa fisonomia degli Etruschi. Il mento, oltre a tutto questo, un pochetto angoloso, con quella garbata rivoltura che è propria di simile tipo raffaellesco. « Guardiamo quest'immagine di prospetto. E che troviamo? Un liscio voltar di linee dalle tempie al vertice in sommo al quale la curva riccamente notasi tondeggia- re. Le occhiaie sono grandi e nell’orbita più quadre che rotonde , specialmente nel punto inferiore estremo allato alla fessura sfeno-mascellare. « Riguardando questa forma dal bel profilo, si scorge che la fronte dal basso in alto si china all'indietro alla greca maniera, e come suol notarsi nell’invoglio cere- brale della donna e in quello delle stirpi che più alle donne somigliano. Apparisce in quello scambio una curva occipitale , o vogliasi denominarla coppa , ricolma più che ') Calori, Sul tipo brachicefalo, etc., p. 25. ci non si aspetterebbe a prima giunta, perchè senza aderire minutamente al sistema dei frenologi, potremo tuttavia ammettere in genere, che nel posteriore inferior canto dei parietali sia la sede dell’ istinto il meno spirituale, istinto che nel fattor della 7rasfigu- razione non si supporrebbe. Dopo ciò, se noi su su porteremo l’occhio fino alla som- mità o cocuzzolo riscontreremo nuovamente sporgente la curva, la quale finisce col dare un movimento gradevolissimo al carattere della vòlta del cranio per tutto il sin- cipite. « Nel toccar questo a così dirlo visoreperto sarà caduto nella mente di chi mi legge il desiderio di sapere quali affezioni, proclività ed attitudini dovesse aver l’ ani- ma di colui che mediante l’encefalo versava in tale stanza sì ben modellata.... Io mi restringerò ai sommi capi, e senza prevenzione mi atterrò ad alcuni principi di cranio- scopia e di fisonomia.... « Le facoltà dunque percettive predominano sulle riflessive in questa fronte, la quale è spaziosissima nelle ciglia e in tutte le altre parti che gli osservatori craniologi riconobbero comuni alle persone ispirate dalle arti belle. L'ampiezza della faccia, la gradazione della lineatura, l'equilibrio fra le diverse regioni di questo caro capo pro- verebbero vastità di idee, gentilezza di sentimenti, temperanza in tutte le passioni, fuor quella dell'amore, che trovasi molto palesemente contrassegnata dalla protube- ranza dell’occipizio. E chi porrà attenzione all’ abito sanguigno-nervoso, temprato dall’epatico nel creator della Disputa, di tanti altri miracoli del pennello e della matita..., e chi rifletterà alla grandezza del forame oculare e allo svolgimento della mandibola di sotto, non potrà finalmente non riconoscere una certa fierezza e sdegno- sità d’affetti in quel giovane che, se contemplava la natura coll’intelletto d’ amore (onde sono privilegiate le gentili compagne nostre), sapeva altrettanto rappresentarla con viril bravura, quando e come voleva, massimamente nella sua terza maniera, pra- ticata al finire della sua vita brevissima ‘) ». $ IN. — GLI Osci. Gli Osci od Opici, che vuol dire terricolî, o abitatori indigeni del luogo, erano quegli altri Italici, che dai confini meridionali dell’ Umbria si distendevano fino alla punta estrema della Penisola. D'onde e come venuti è ciò che è involto nell’oscurità più profonda, e solo conget- turando può dirsi, ch’ei si fossero introdotti in Italia prima degli Umbri per le spiagge orientali, occupando il paese fra l’ Apennino e il mare, ed allargandosi quindi al di qua del Tevere fino agli ultimi confini dell’ Esperia e della Sicilia. Erano variamente designati, in antico, co’ nomi di Enotri, Ausoni, Aurunci, Coni, Morgeti, ecc., secondo i luoghi che abitavano, o secondo i gruppi in cui erano divisi, ma il loro nome generale era sempre quello di Osci, che si rinviene dappertutto come ligame di consanguineità fra le popolazioni indigene dell’Italia meridionale. Fra i Greci 1) Filippo Cardona, Del cranio di Raffaello conservato in un Getto ad Urbino dall’Accade- mia di tal nome nel Giornale intitolato il Raffaello — Anno II, Urbino, 30 aprile 1870. Att — Vol. II. — Serie 2° — N° 9. 3 — RR prevalse il nome di Ausoni, ond’è chiamata anche Ausonia tutta la parte d’Italia da essi conosciuta, ed ausonio lo stesso mare siciliano *). Antioco fu il primo a dimostrare per via d’istorie, che Ausoni ed Opici non erano che una gente medesima *). Aristotile °) e Tucidide 4) non tennero sentenza diversa, per lo che, secondo i Greci, l’Italia cistiberina era abitata unicamente da Osci, e quindi giustamente si disse fondata in contrada opica l’eolica Cuma, la più vecchia colonia di quante mai i Greci ne conducessero in Italia ed in Sicilia. Gli scrittori romani riconobbero anch'essi questa grande estensione degli Osci, voce derivata da Ops, nome italico della Dea Terra °), dalla quale voce si formarono poi i nomi di Vo/scus, Aequus, Auruncus, Auson, e da questo quello di Ausonia °). Abitavano il più gran numero sul pendîfo e nelle valli degli Apennini che divi- dono, come ognun sa , per lo lungo d’Italia , e s' aggruppano come centro nella regio- ne degli Abruzzi a lato della Sabina, dell’ Umbria e del Piceno, Quivi fertili terreni e ricche praterie rendevano facile la vita a popoli attesi massimamente alla vita pastora- le, onde pochi i bisogni, ed agevoli ad essere soddisfatti dalla natura benigna del paese. Vivevano in questo stato di semplice ed agreste vita, quando il grande impeto delle spesse e reiterate invasioni liburniche misero in movimento quegli Osci che abitavano sulle coste orientali dell’Apennino, e li spinsero a cercare nuove dimore fra le genti vicine. E prima a partirsi fu una mano di coloro che dimoravano su gli alti monti ove hanno lor fonti il Velino, il Tronto e il Pescara. Mossi da Testrina, rustico villaggio de’ dintorni di Amiterno °), sotto gli auspici del Dio Sabo, si volsero ad occupare il paese che dal nome del loro Dio tutelare chiamarono Sabina, e scacciandone parte 1) Virgilio chiama antiqui Ausones i più vecchi abitatori dell’ Italia: O fortunatae gentes, Saturnia regna, Antiqui Ausonii, quae vos fortuna quietos Sollicitat suadetque ignota lacessere bella? — ZMneid. XI, 252-54 esp. E Festo chiosa in quel luogo: quia primi Italiam tenuerunt Ausonii dicti sunt. Anche Eliano (IX, 16) scrisse: Tù Ira)txv dixnrav mporoi Abroves abtògFoves. ?) Strabo, V, rv, 3.— Anziochus ab Opicis habitatam fuisse cam regionem ( scil. Campa- niam) narrat, qui tidem et Ausones appellantur. 3) “Ormai, xa mpotepov xaL irwvopiav Abroves. Politie. VII, 10. 4) Lib. Nkx1; 3) Varro, de L. L., lib. IV, 9, 64 — Ops Terrae Dea. Terra Ops, quod hic omne opus, et hoc opus ad vivendum, et ideo dicitur Ops mater, quod Terra mater. Festus in v. Ops. ©) La derivazione di Volscus da Oscus è dimostrata dal Niebuhr (Sor. rom. 1.), Buttmann ( Lexilog. Th., I, p. 67), Fabretti ( Glossarium italicum, v. Opsci). — Per la formazione di Ae- quus da Opicus, v. Niebuhr (loc. cit.), Miller ( Die Etrusker, I, 30), Henop (De lingua Sabina, 17, 18), Grotefend ( Rud. lingua osc., 48, 49), Mommsen (Die unteritalian. Dialekte, 223, 359 ), Fabretti (Gloss. ital. sub voce ). — Per le forme Auson ed Auruncus, e la mutazione dell’ s in r, ved. Niebuhr (loc. cit.), @rotefend (op. cit.,50, 51 e Rudimenta linguae Umbricae, P. VIII, 3), Aufrecht e Kirckoff(Die umbrisch. Sprachdenkm.I, 102 e seg.), Mommsen (Un- terital. Dialeckte, 223-5 ). L'identità storica degli Ausoni e degli Aurunci è attestata da Dione Cassio, I. 11, — Festo v. Ausonia, e Servio ad Ameid. VII, 727. — Corcia, Storia delle due Si- cilie, I, 456. °) Amiterno era presso l’estremità della Sabina, oggi S. Vittorino, dove veggonsi le sue rovine in vicinanza dell’ Aquila. peeE (1 degli Umbri che l’abitavano, e mescolandosi agli altri che vi rimasero diedero stabilità e nome alla gente Sabina '). Altri Aborigeni, ai quali Festo dà il nome di Sacrani, perchè usciti fuori del luogo natio pel rito delle primavere sacre *), partiti da Reate si calarono fino al Tevere, e non senza gravi contrasti occuparono le terre tenute da’ Siculi , e vi presero il nome di Casci o Prisci Latini, sia perchè tale era il proprio nome di cotesti Aborigeni *), sia perchè, secondo scrive Paolo nel Compendio di Festo, furono i primi che diedero ori- gine alla gente latina ‘). I Siculi, espulsi da quelle sedi e respinti verso il mezzogiorno, fatti audaci dalla necessità, varcarono lo stretto mare fra l’Italia e la Sicilia, cercando una nuova patria in quell’ isola dove si stabilirono °). Intorno a questi Siculi variamente opinarono gli scrittori dell’ antichità. Li ten- nero per Iberi Filisto Siracusano °), Virgilio ‘), Servio °), Silio Italico °), ma Dionigi ‘‘). Gellio ''), Macrobio ) gli ebbero invece per un popolo affine agli altri indigeni d’I- talia. Quello però che risulta di certo dalle scarse notizie che si possono raccogliere intorno ad essi, è ch'ei non ebbero mai relazioni amichevoli nè con gli Umbri, nè con gli Osci, chè con gli uni dovettero sostenere le guerre maggiori e più ostinate che si 1) Dionigi, I, 14— Silio Italico, lib. VIII, 240 e seg.: TTSPREATI Pars laudes ore ferebant, Sabe, tuas qui de patrio cognomine primus Dixisti populos magna ditione Sabinos. 2) Un uso particolare ad alcune primitive genti italiche contribuì molto a diffonderle sopra gran parte della Penisola. Quando carestia od altra calamità le travagliava, per placare gli Dei offerivano loro in sacrificio tutte quelle cose che nel corso di una primavera nascessero ( Ver sa- crum), non eccettuati neppure i figliuoli allora usciti al mondo; ma poscia, cessata affatto la pri- mitiva ferocia, offerivano agli Dei solamente gli animali e i frutti che dava la terra, e i giovani, sacri al Dio, tosto che fossero venuti in età da ciò, sì spedivano in altro paese, ove sempre tro- vavano lieta ventura, poichè avevano confidenza nel proprio valore e nel Dio cui erano sacri, e che la fama diceva mandare a loro guide divine. 3) Appiano, De Reg. Roman. 4) Priscì Latini appellati sunt i qui prius quam conderetur Roma fuerunt; e perciò Virgilio ( Eneid. V, 598-XII, 823) e Lucano (1I, 432) li dissero milioni del Lazio, il che non vuol significare altro, se non che erano ivi antichissimi. °) Al dire del Fréret questo passaggio dei Siculi in Sicilia sarebbe avvenuto 1364 anni a- vanti l’ Èra volgare, poichè Ellanico di Lesbo, storico più antico di Tucidide ed anche di Erodoto, ne fissa la data al ventesimo sesto anno del sacerdozio di Alcionea sacerdotessa di Argo, che, se- condo la cronologia di Tucidide, corrisponderebbe all'anno 80 prima della guerra di Troia, cioè al 1364 av. G. C.Il d’ Arbois de Jubainville invece, basandosi sopra altri dati forniti da Omero, Erodoto, Tucidide, Diodoro relativi a Dedalo inseguito da Minosse re di Creta fin presso Cocalo, re de’ Sicani, crede che la data della immigrazione insulare dei Siculi non possa risalire al di là di 1034 anni avanti G, C. 6) Citato da Dionigi, I, 22. ?) Eneid. XI, 317-8. 5) Ad locum Virg. cit. °) Lib. VIII, v. 658. 10) Loe, citi 1!) Lib, I, cap. X. 1?) Saturnalia, lib. I, cap. V. 26 fossero fino allora combattute in Italia ‘), e dagli altri furono lacerati, rincalzati e final- mente espulsi dal Lazio e respinti verso il mezzogiorno, e quindi in Sicilia. AI di fuori del Lazio verano anche Siculi sparsi qua e là nella Sabina ?), fra gli Equi *), ne’ Marsi ‘), e se ne ricordava il nome, ne’ primi secoli di Roma, anche nella parte estrema dell’Italia fino alla guerra del Peloponneso *). Vuolsi ancora che fa- cessero parte delle loro vetuste abitazioni i luoghi a piè dell’Apennino, ove sorsero più tardi Faleria e Fescennia °), e che fossero anche loro pertinenze Cenina, Antennae e Ficuleia presso i monti tiburtini e corniculani °). Ma una mano più forte di Siculi era stabilita nel Piceno fra il Tronto e il Matrino dove appunto una piccola contrada interiore irrigata dal Vomano porta tuttora, con singolare concordanza di vocabolo, il nome di Valle Siciliana *). Ora, se dietro le testimonianze di Plinio °) e di Tolomeo *°), noi consideriamo, che anche in Dalmazia ed in Epiro vi erano Siculi, che ve n’erano altresì tra le popo- lazioni preelleniche del Peloponneso, dell’Attica e dell’Isola di Naxos *) e della Tra- cia 4°), possiamo a buon diritto dedurne, che que’ Siculi che avevano dominato per sì lungo tempo nel Lazio, che avevano lasciato di sè memoria in tante parti d’Italia, fos- sero uno di quei potenti popoli liburnici (illirici) dell’opposta sponda dell’ Adriatico, i quali, occupato dapprima stabilmente il Piceno, si erano di poi estesi per l'interno della Penisola fino a raggiungere le coste laziali del Tirreno. Gli scrittori greci e latini ci rappresentano gli Illirici come corsari, barbari ed i- gnari di ogni gentile disciplina 18), ma quando si rifletta che Illirici erano anche i Veneti !) Dionigi, I, 19-20. ?) Dionigi, Il. c. 3) La Valle del Salto ha conservato ancora il nome de’ Siculi nella sua appellaziono attuale di Cicoli o Cicolano. 4) Lo stesso nome de’ Siculi trovasi nella Marsica in un paesello che chiamasi Goriano-Siculo. 5) Tucidide, VI, 5. — Plinio, Lib. II, V. °) Phalaerium et Phaescennium.... quoque olim Siculorum fuerint. Dionigi, I, 21. 7) Et praeter alias civitates condiderunt ( Siculi ) quae extant nunc quoque, Antemnates, Tel- lenenses, Ficulenses prope montes Corniculos ac Tiburtinos, apud quos hodieque pars urbis Sicu- letum dicitur. Dionigi, I, 16. 1l Martelli, autore d’ una Sforza sull'antichità de’ Siculi ( Aquila 1830 ) scrive, che nel 1829, avendo percorse molte tenute nell’agro romano, trovò un luogo che apparteneva a’ marchesi Acco- ramboni di Roma fra la distrutta città di Fidene (oggi Castel Giubileo ) e Nomento ( Mentana ), che è chiamato Re-di-coli, e soggiunge, che anche un’altra tenuta fuori porta trigemina, oggi detta di S. Paolo, è parimenti chiamata Re-di-culi, nome che indica l’alto dominio che v’ebbero i Sicoli, in conferma del testo di Dionigi I. 1. Urbs Roma. ...eam tenuerunt primi quidem in- digenae dicti Siculi, multorum etiam aliorum Italiae locorum incolae, quorum non pauca nec ob- scura monumenta manent usque ad nostra tempora, et in his aliquot locorum appellatio Siculicum priscae habitationis vestigium. Martelli, p. 144. 8) Siculi et Liburni plurima ejus tractus (Piceni) tenuere, in primis Palmensem, Praetutianum, Adrianumque agrum. Plinio, 111, 14. — Micali, Storia degli antichi popoli italiani. Milano 1831, I, 178. °) Hist. Nat. Lib. III, 22. 10) Scholiast. in Odyssacam. XVITI, 85. ‘!) Fligier, Zur praehistor. Ethnolog. der Balkanhalbinsel. Wien 1877, p. 49. de Zizeva: Kopatng Opares, Hesych. '?) Illyrii, Liburnique, gentes ferae, et magna ex parte latrociniis maritimis infames. Livio, — Me e gli Euganei, che lasciarono nelle necropoli d'Este tanti monumenti della loro civiltà *), che Illirici erano anche coloro ai quali appartengono que’ numerosi cimeli raccolti nei sepolcri di Gorizia, Istria, Carinzia, Stiria, ed Austria Inferiore *), dobbiamo pur con- venire, che anche quelle colonie che tennero in lor potere, sotto il nome di Siculi, e il Lazio ed altre parti ancora dell’ Italia di Mezzo, non fossero stati punto estranei al progresso civile dell’Italia antica, e non meritassero punto quella nota di barbari e di ladroni che i Greci non si peritavano di attribuire anche agli Etruschi °). Non abbiamo memorie sul modo e quando le colonie latine si stabilirono nel paese che indi in poi portò il nome loro, ma da alcune induzioni retrospettive possiamo con- getturare, che l’isolato monte Albano, che assicurava a'coloni l’aria più salubre, le più fresche sorgenti e la più sicura posizione, fosse occupato per il primo da’ nuovi venuti. Su quel colle difatti trovavasi distesa, in angusto altopiano tra il lago di Albano ( lago di Castello ) e il Monte Cavo, la ciltà d'Alba, che passava generalmente per la sede 0- riginaria della nazione, la matrice di Roma edi tutte le altre antiche comunità latine. Su per le sue chine erano Lanuvio, Aricia e Tuscolo, e sugli ultimi rami dei monti sa- bini, forti naturali della pianura latina, vi erano castella da cui nacquero più tardi Ti- bur e Preneste. Nella pianura fra il colle Albano, le montagne della Sabina e il Tevere erano Labici, Gabio e Nomento. Sul littorale stavano Laurento e Lavinio ed altre co- munità più o meno ragguardevoli di cui si e perduto finanche il nome. Erano trenta colonie stabilite in trenta distinte comunità, ed ognuna viveva poli- ticamente indipendente dalle altre, retta dal proprio principe col concorso e il consiglio degli anziani, ma tutte unite in federazione fra loro, a capo delle quali era Alba, che era considerata come la più antica e la più autorevole fra tutte. Fra coteste piccole co- munità frastagliate in tutto il lerritorio si conservava sempre vivo il sentimento della comunanza della schiatta in una festa annuale (feriae latinae) che celebravasi sul monte Albano in onore del Giove Laziale, protettore della lega, a somiglianza delle feste pan- beozie e panionie de’ Beozi e de’ Joni della Grecia. In occasione di tale solennità si raccoglievano anche in comune adunanza i rappresentanti di ciascun comune latino nel vicino luco sacro alla sorgente Ferentina (presso Marino) per affari concernenti gl’ interessi generali della federazione. Roma ancora non era, ed erano invece Alba, Lavinio, Laurento le città alle quali riferivasi ogni gloria nelle antiche tradizioni latine. Ubî Roma est, scrive Livio, solitu- dines erant, e i nomi di luoghi e la comune credenza parlano solamente di selve e di solitudini. Denso bosco ingombrava le falde del Palatino. Il colle Saturnio , poi detto X, 2. — Mannert invece ( Geograph. d. Griech. und Romer ) chiamò i Liburni il più antico ed attivo popolo nautico dell’ Europa. 1) Prosdocimi, Le necropoli Euganee Atestine, nelle Notizie degli scavi di antichità, 1883. — Orsi, Fittili e bronzi singolari delle Necropoli d’ Este; Bullett. di Corrispond. Archeologica 1885.— Molon, Le Necropoli atestine. Sanremo, 1882. — Soranzo, Scavi e scoperte nei poderi Na- zari di Este. Roma, 1885. 2) Per tutte queste scoperte ved. la dotta relazione di P. Orsi, nel BulZett. di Paleoetnol. Italiana, 1885, ed Amorosi, I Castellieri Istriani di Pizzughi , e la Necropoli di Vermo presso Pisino. Atti e Mem. della Società Istriana di Archeol. e Storia patria. Anno 1.° 3) Tyrrheni, qui et Etrusci et Tusci dicti apud Romanos, gens latrociniis dedita et crudelis. Eustath. Comm. în Dionisium Peryeget. $ 347. RL Tarpeo e Capitolino, era orrido di rupi, di gran selva e di dumi. L'Aventino nereggiava di selve di lauri, di mirti e di lecci. Il Celio chiamavasi Querquetulanus da’querceti che lo vestivano. Il Viminale ebbe nome da una selva di Vimini (salia viminea), | Esqui- lino dagli Eschi ( ab Aesculis ), e chiamavasi anche Fagutale da’ faggi. Su que’ colli, ove mantenevano puro aere le selve e le acque abbondanti, nacque Roma, la cui fon- dazione mitica tenevasi cominciata a’ 21 di aprile, giorno che divenne solenne, perchè vi sì legava la fortuna della nuova città, e si continuò a festeggiarlo finchè Roma ebbe impero, ed anche quando non più comandava la prima sua religione, perocchè nelle leggi stesse di Giustiniano, il natalizio di lei è annoverato fra le ferie solenni ‘). Roma ancora non era, ed intorno alla origine sua sì sono intessute tante favole e tante leggende, che, o accettandole per vere, o ripudiandole, è egualmente difficile di trovar credito presso il lettore °). Ciò che sembra più verosimile egli è, che sulle colline intorno alle sponde del Tevere esistessero tre consorzi detti de’ Ramni de’ Luceri e de’ Tizi, i quali, indi- pendenti dapprima l’ uno dall’altro, si costituirono in repubblica indivisibile, al modo stesso che nell’ Attica, dalla riunione di vari Demi, surse più tardi la nobile Atene. Il primo, e forse il più potente, che diede il nome alla federazione, era il consor- zio dei Ramnes, d'onde il nome di Roma e Romani °), che taluni credono poter essere an- !) Vannucci, Storia dell Italia antica. Firenze 1868, t. I, p. 825. — Parecchi di quei boschi e nell’ interno e all’esterno di Roma rimasero in piedi per molto tempo, anche dopo edifi- cata la città. Per impedirne la distruzione si resero sacri, e si dedicarono a diverse divinità, sic- chè ve n’ erano dei consacrati a Bellona (nel luogo ove oggi è la Colonna Trajana), a Fauno, nel- l'Isola Tiberina, a Lucina (in S. Lorenzo in Lucina e S. Maria Maggiore), a Minerva ( nella piazza della Consolazione ) e via dicendo. Un Collegio Silvano (Collegium Silvanum) ne aveva la cura, ed attendeva specialmente alla loro conservazione. Que’ boschi peraltro non potevano essere molto estesi, e dovevano essere presso a poco come gli Squares, così in voga a’ giorni nostri, Col- l’ allargarsi della città, iboschi sacri si distrussero, finchè scomparvero interamente.—Ved. G. Pin- to, Storiu della Medicina in Roma, 1879, p. 121-438, e la pianta topografica de’ boschi sacri che l’accompagna. ?) Livio comincia la sua splendida narrazione dicendo, che se ad alcun popolo è lecito di consacrare le origini e recarle agli Dei, siffatta gloria si appartiene ai Romani, i quali, grandi in guerra, a buon diritto possono vantarsi discendere da Marte; tuttavolta è costretto a confessare, che ciò che si diceva della fondazione della città e dei tempi anteriori erano favole poetiche, non cor- roborate da verun sincero monumento: Quae ante conditam, condendamque urbem, poeticis ma- gis decora fabulis, quam incorruptis rerum gestarum monumentis traduntur, ea nec affirmare, nec refellere in animo est. E tali sono veramente le tradizioni de’ suoi tempi primitivi. « Si trovano nel Lazio Dei, Semidei ed Eroi. Vi sono Giano e Saturno re ed istitutori primi del popolo, che abi- tavano sul Gianicolo e sul Capitolio, detto allora monte Saturnio. Succedono ad essi Pico, Fauno e Latino, poi deificato e adorato sotto il nome di Giove Laziale. Viene l’ Arcade Evandro e fabbrica una città sul Palatino; e finalmente Ercole stesso nelle sue corse avventurose tocca le rive del Te- vere e vi opra portenti.... Da queste tradizioni, nella credenza degli antichi, cominciava la Storia più antica del Lazio e la prima cultura delle genti che composero il nome latino. A Giano e a Saturno si attribuivano le prime monete, e le istituzioni più antiche: al nome di Saturno e di Fauno si le- gavano le prime memorie della cultura poetica. Da Saturno ebbe nome l’ Italia antichissima, e da lui si appellarono Saturnii i primitivi versi cantati dai Fauni, antichi Dei e primi poeti dei Ca- sci. E finalmente all’arcade Evandro, apportatore di altra cultura, si riferivano le prime idee della grandezza latina predetta dalla profetessa Carmenta alla vista delle Sette Colline »—Van- nucci, Storia cit. t. I, 306-7. ?) Nella più antica nomenclatura storica da noi conosciuta, i soci del distretto delle colline del Tevere non sono detti Romani ma sibbene Ramni (Rummnes). me che derivato da Ruma, robur, fortezza. I Luceri non vi ha argomento che ci vieti a cre- derli, come i Ramni, di stipite latino ‘), ma i Tizi si crede generalmente che fossero di origine sabina; opinione, secondo osserva il Mommsen, fondata senza alcun dubbio sulla tradizione degna di fede del consorzio tizio,che si crede stabilito all’epoca dell’in- gresso di questa gente nell’ unione romana , a fine di conservare il suo rituale nazio- nale separato °). Dalla riunione adunque di que’ tre consorzi nacque Roma, la quale crebbe rapi- damente coll’aggregarsi le altre piccole colonie che le erano raccolte intorno. Servio Tullio, ricingendo di muraglie e il Campidoglio e la città interna ed esterna, non meno che i sobborghi indifesi, fuse insieme i vari elementi delle colonie, e diede saldo fondamento all’ unità romana. Roma, fatta potente, cominciò ad aspirare alla signoria della Federazione latina e l’ottenne colla distruzione di Alba, al quale avvenimento rimase congiunto un fatto d'armi de’ Romani, che, sotto forma di mito storico, era tut- tavia vivo nella memoria dei posteri °). Da’Sabini, già cresciuti oltre misura di numero, si staccò di poi a tempo e luo- go, per consiglio di religione e per forza di costume, quel superfluo di popolo, che per qualunque infelicità li aggravava, e così essi divennero gli istitutori di tutte le nazio- ni guerriere della Bassa Italia, dove principalmente si indirizzarono le loro colonie sacre. La maggioranza però di questi popoli era puramente osca, e benchè prontamente latinizzata, pur conservò per molto tempo l’ uso della propria lingua più o meno alte- rata ne’ pubblici monumenti, come è comprovato da molte iscrizioni ‘). Ma prima di volgersi al mezzogiorno una mano di Sabini si diresse verso il Mar Superiore, e sotto la guida di un picchio sacro a Marte, s’ aprì il passo per terre più liete, e tirando a sè gran moltitudine di persone, e incorporandosi con quelle, pervenne a costituire la ragguardevole nazione de’ Picentini °), alla quale poi si aggiunsero, fra il Tronto e il Pescara, i Palmensi, i Pretuziani e gli Adriani, che in tempi più antichi vivevano separati e indipendenti. E continuando per la catena degli Apennini e per le valli adiacenti, altre tribù, miste sempre di Sabini ed Osci, formarono que’popoli che si dissero Equi od Equicoli °), Ernici, e Volsci; gli Equi e gli Equicoli per la valle dell’ Aniene fino a Tivoli, e per gli aspri e selvosi monti dell'interno fino al Lago Fucino; gli Ernici, non lungi dalle sor- genti dell’Anio e del Liri, e in luoghi angusti fra rocce e dirupi da cui traevano il loro nome ‘); i Volsci a mezzogiorno degli Ernici per gran tratto di suolo sui monti Lepini 1) Mommsen, Op. cit., pag. 43. 2) Mommsen, Ibid. 3) Roma interim crescit Albae ruinis: duplicatur civium numerus. Caelius additur urbi mons, et quo frequentius habitaretur, eam sedem Tullius regiae capit. Livio. 1, XII. 4) Ved. Mommsen, Die Unteritalianise. Dialekte, p. 317-362.—Fabretti, Glossarium Italicum. 5) Parlando di essi Plinio (III, 13) scrive: orti sunt a Sabinis voto vere sacro —V. Festo alla voce Ver Sacrum, e Servio ad Aeneid, VII, 796. 8) Virgil Aeneid., VII, 644, ove Servio chiosa: Sabinorum lingua saxa %erna vocantur. Quidam dux magnus Sabinos de suis locis elicuit et habitare secum fecit saxosis in montibus, unde dicta sunt Hernica loca et populi Hernici. — Festo soggiunge, che anche nella lingua dei Marsi, i sassi sì dicevano Rernae. 7) Prisciano, V, 12-65: Cato in primo originum, agrum quem Volsci habuerunt plenus — Re e nella sottoposta pianura fra Anzio e Terracina , e più oltre ancora fin sulle rive del Liri e suoi affluenti. Le memorie antiche soggiungono, che altri sciami di popoli uscirono di Sabina e sì allargarono fra il Matrino e il Sangro, fra gli Apennini e il mare, e diedero ivi ori- gine a quelle genti sabelliche celebrate per amore di libertà e per ispirito marziale, e che si dissero Marsi, Vestini, Marruccini, Peligni 1). Ma più numerosa e gagliarda fu quella schiera di giovani che, mandata fuori dalle paterne montagne, e protetta per via da un toro di maravigliosa bellezza , si mosse dall'alta Sabina inverso la Bassa Italia fra gli Osci. Venuta innanzi fino alle falde del Matese ivi si collocò per la continuata giogaia che lega insieme il Matese col Taburno, e spargendosi pe’ luoghi all’intorno, vi diede origine a quel popolo che con appellazione comune chiamossi Sannita ), ma ch’ era diviso e distinto in Frentani, Pentri, Caudini, Irpini e Caraceni o Sariceni. Questa gente famosa, che avanzò ogni altra in appresso per ricchezze ed imperio, resistè eroi- camente alla prepotenza romana, e tenne per molto tempo in dubbio la lance a chi dei due contendenti toccasse in sorte l'egemonia dell’Italia. Nello stesso modo un’altra banda di giovani Sanniti tragittò , con auspici egual- mente benevoli, il fiume Silaro, si distese per la Calabria, e diede origine alla nazione dei Lucani, che si elevarono rapidamente a prospero stato, e si meritarono gli onori di popolo valoroso e forte, non meno che la bella riputazione di giusti e liberali *). Ma discordie intestine turbarono più tardi l'armonia di quella nazione. La parte più rustica de’ Lucani, che in qualità di servi attendeva alla custodia degli armenti, fuggì primie- ramente negli impenetrabili recessi della Sila ove il lor numero si accrebbe talmente Aborigenum fuit.—Varrone (de L. L. VII, 28) riconosce ancora questa influenza sabinica nel nome di Cassinum, che fa derivare da cascum, casna, o casnar, che significa antico. Cascum, egli scrive, significat vetus: ejus origo Sabina quae usque radices in oscam lingua agit. 1) Ovidio, nato Peligno, chiama i Sabini suoi proavi (Fastor. III, 95): Et tibi cnm proavis, miles Peligne, Sabinis Convenit. Altri poeti romani, quasi con la medesima sicurezza , annoveravano i Marsi fra i Sabelli. Gli stessi canti magici son chiamati da Orazio e marsi e sabellici ( Epod. XVII, 28-9 ): Sabella pectus increpare carmina, Caputque Marsa dissilire nenia, Virgilio accenna anch’ egli alla comunanza de’ Marsi co’ Sabelli nel II. delle Georgiche. Gio- venale congiunge i Vestini a’ Marsi e agli Ernici in termini tali, che, considerati senza preoccu- pazione, posano la loro unità nazionale : O pueri, Marsus dicebat et Hernicus olim Vestinusque pater. — Satyr. XIV, 180-1. Pe’ Marruccini ved. Catone ap. Priscianum, IX. *) Varro, de L. L. VI, 3. — Festo alla voce Samnites. — Strabo IV, II. A questa tradizione nazionale fanno allusione alcune medaglie sannitiche in cui si vede un toro prostrato. I San- niti stessi alludevano forse alla loro parentela sabinica nella iscrizione MINIBN& che leggesi nelle medaglie del Sannio battute al tempo della guerra sociale. 3) Eliano, Variar. hist., IV, 1. — Eustath. Comm. în Dion. Peryegeten, $ 362. sposizione od omissione od aggiunzione di alcune lettere, non fosse stato in tutto con- forme al latino, al volsco, al marso, al marruccino *), tuttavia nel complesso, cioè nella identità fondamentale de’ vocaboli e nelle forme grammaticali mostrava avere con essi la più grande affinità, e le differenze fra loro non erano maggiori di quelle che oggi si incontrino fra vernacoli e vernacoli d’una stessa Provincia. L'idioma del Lazio però che in antico sembra essere stato l'anello, per così dire, di congiunzione tra il sermone degli Osci e quello degli Umbri, per effetto del dominio che Roma esercitò sopra tutta l’Italia, s' impose agli altri parlari della Penisola, ed acquistò col tempo una fiso- nomia propria la quale si andò a grado a grado sempreppiù individualizzando col pas- sare successivamente dalla prisca e rozza forma de’ tempi antichissimi alla latina pro- priamente detta che si continuò fino a’ Decemviri, e da ultimo a quella che si disse ro- mana, che fu la lingua classica di Roma per tutto il tempo repubblicano , e per tutto il secol d’oro della letteratura scitta. E però se l’umbro e l’osco, come bene s’avvisa il Mommsen, non erano distinti che per alcune particolarità non molto diverse da quelle che distinguevano il dorismo di Sicilia da quello di Sparta , il latino invece, per queste sue successive trasformazioni, si trovò, rispetto agli altri idiomi italici, nella stessa condizione del dialetto jonico col dorico nella Grecia ?). Ne’ crani degli Oscì si notano pure alcune differenze, come si trovano ne’loro dia- letti, e pare che, come per mezzo del latino (e fors'anche del sabino e del picentino) |;- dioma umbro s’ innestò co’ parlari degli Osci, così parimenti il tipo craniale degli Um- bri s'infiltrò per la stessa via fra le stirpi osche, modificandone il tipo primitivo, che probabilmente era il dolicocefalo °), se ne giudichiamo da’ teschi antichi appuli, luca- ni, sannitici, marsi, i quali sono, in media, dolicocefali a gradi diversi, o lievemente me- saticefali. E perciò nel Piceno, “) nel Lazio ®) ed anche nella Campania °) troviamo che i crani erano, in media, mesaticefali coll’indice rispettivo di 784-782-777, mentre che nel Sannio e nella Marsica °) quell’ indice si abbassa a 760, e ne’ Lucani 5) e negli Appuli non supera i 750 °). 1) Questi tre dialetti, oltre il sannitico, sono i soli di cui finora si conoscano monumenti scritti. 2) Rom. Geschichte, I, 14. °) Dico probabilmente, perchè gli antichi crani osci da me studiati non sono in gran numero, ma potendosene avere un numero maggiore, forse i risultati da me ottenuti potrebbero variare, nel senso di un ravvicinamento maggiore co’ crani umbri. 4) Sergi, Crani italici del Piceno, nelle Mem. della R. Accad. de’ Lincei, 1883.— Alle misure de’ cinque crani antichi del Piceno descritti dal Sergi ho aggiunto quelle di altri crani antichi picentini da me posseduti. La media dell'indice cefalico sopra notato è stata dedotta da’ crani delle due serie riunite. 5) Nicolucci, Antropologia del Lazio p. 21; nelle Mem. della RR. Accad. delle Scienze di Napoli, 1873. °) Nicolucci, Cranza Pompeiana. Ibid. 1882. ?) Nicolucci, I Crani de’ Marsi. Ibid. 1883.—I crani sannitici inediti sono conservati nel Gabinetto di Antropologia della KR. Università. 8) Da’ crani nel Gabinetto di Antropologia della R. Università. °) Nicolucci, in Angelucci, Ricerche preistoriche e storiche nell'Italia meridionale—To- rino, 1876, p. 59-62.—M. Centonze, Sopra un cranio italo-greco. Napoli, 1884— Sopra altri tre crani italo-greci, negli Atti dell'Accademia degli Aspiranti naturalisti. Napoli, 1885. Mede Confrontando poi gli antichi crani umbri con quelli delle genti stabilite al di qua del Tevere, si osserva, che come i teschi de’ Latini, de’ Picentini e dei Campani si av- vicinano e quasi si confondono nel loro indice cefalico con quelli degli Umbri (789), così quei dei Marsi, de’ Sanniti, de’Lucani, degli Appuli se ne distaccano completa- mente, laonde se su questi l’ influsso etnico degli Umbri fu assolutamente nulla, nei Latini invece, nei Picentini e ne’ Campani (?) ci si rivela in proporzioni più o meno considerevoli. è IV.—1 PELASGI E GLI IAPIGI-MESSAPI A)—- I Pelasgi. A’ popoli italici sopra menzionati, Umbri ed Osci, altre genti vennero ad ag- giungersi da varie contrade, e primi tra queste e di maggior fama presso l’antichità, ì Pelasgi, sulla cui venuta in Italia sono concordi le testimonianze di tutti gli scrittori. Mossì dall’ Epiro, come suona la fama, e volta la prora verso l’ occidente, la fortuna del vento li sospinse alla foce del Po, in quel braccio chiamato spinetico , dove alcuni di essi rimasti a guardia delle navi diedero principio alla città di Spina, che indi molto e lungamente fiorì sull’ Adriatico ‘). Gli altri si avviarono alla volta di Ravenna d’ on- de, scacciati dagli Umbri, s'inoltrarono raminghi verso l’Apennino, e giunsero finalmente al lago di Cotilia, ove dall'isola galleggiante furono ammoniti che l'oracolo di Dodona, consultato prima della loro partenza per l’Italia, s'era al tutto compito °). Qui si rac- conta, che venendo contr’essi gli Aborigeni con grande esercito, i Pelasgi si facessero loro incontro con fronde sacre, supplicandoli che insieme con essi li ricevessero ad a- bitare, promettendo di non esser loro in ‘alcuna guisa molesti. Accolti amichevolmente ottennero facoltà di rimanere, ed ebbero concessa parte del territorio ch'era intorno al lago di Cotilia. Gli Aborigeni si avvalsero del loro braccio nella guerra che combattevano contro i Siculi del Lazio, e conquistato il paese, ai Pelasgi fecero facoltà di allargarsi nelle vaste terre fra il Tevere e il Liri ’). Parte di essi preferì per sua stanza il Settimonzio, e quivi sciolse il voto dell’ oracolo dodoneo, innalzando un sacello a Plutone ed un’ara a Saturno ‘). Divenuti padroni di ampie e feconde terre, secondo narra Dionigi, vi crebbero in breve tempo di numero, di ricchezza e di potenza, ma la loro prosperità non ebbe lunga durata. A un tratto caddero dal colmo della fortuna nella più grande miseria, perseguitati, continua a dire lo storico, da inauditi flagelli. L’aridità rese sterili i campi, bruciò le piante e le messi, e seccò le sorgenti delle acque. Un influsso maligno 1) Dionigi, I, 17. ®) Così l'oracolo di Dodona rispondeva a’ Pelasgi che lo interrogavano sulla loro partenza: Pergite quaerentes Siculum Saturnia rura, Atque Aborigidinem Cotylen, ubi se insula vectat. — (Dionigi, I, 19). ®) Dionigi I, 23. 4) Vastatisque Siculiensibus insulis, occupavere regionem; decima predae, secundum respon- sum, Apollini consecrata, et Saturno ara cujus festum Saturnalia nominaverunt. Macrobio, $Sa- turnal. lib. I, VII * en. pesava sopra tutta la natura. Le donne abortivano ; sovente co’ bambini appena nati morivano le madri; gli uomini sul fiore dell’età erano afflitti da grave malore, e spesso morivano di morte violenta; ed eglino oppressi da tante sventure, non potendo più tollerare tanta piena di mali, abbandonarono per sempre l’Italia, e si dispersero in lontane regioni ‘). Presso di noi altre terre conquistarono, così nell'interno come nelle costiere marine ?), e fondarono città che munirono di muraglie , che simili a quelle d’ Argo, di Tirinto e di Micene, che si dicevano pur da essi costruite in Grecia, rimangono an- cora immobili contro le violenze della natura e degli uomini, mentre ogni giorno porta una rovina alle opere soprapposteci de’ Romani e de’ Barbari °). La non lunga dimora che i Pelasgi fecero in Italia non permise loro che vi la- sciassero tracce durature della loro stirpe, onde la loro influenza etnica sulla popolazione italica fu nulla, e se pure alcuna ve ne fu, scomparve tosto nelle generazioni susse- guenti. Grandissimo per converso fu l'ascendente ch’ eglino ebbero sulle condizioni civili e religiose dell’Italia antica, se è vero che da essi trassero gli Itali quelle cre- denze religiose che han fondamento nel culto della natura personificata negli Dei della vita sedentaria ed agricola, quali erano Giano, Saturno, Cerere, Hestia, Silvano, di- vinità pelasgiche , le quali divennero anche gli Iddii più venerati in Italia, come quelli che più particolarmente provvedono alla prosperità e al benessere della comunità e del- le famiglie. Ma chi era mai questo popolo misterioso? Quale la sua patria originaria ? Con quale altra stirpe imparentato? Le tradizioni tacciono intorno a ciò, e solo ci ricordano che i Pelasgi vissero anticamente nella Tracia, che di là si sparsero per l’ Asia Minore, le Isole dell’ Arcipelago, la Macedonia, l'Epiro e dall’Epiro, che rimase loro stabile pa- tria, vennero in Italia; e però non pare improbabile, ch’ ei fossero di origine Trace ‘) ed avessero intime relazioni di parentado co’ Medi 5), con gli Sciti °) e co’ Sarmati Sau- romati 7), i quali erano tutti Aryi 5), ma Aryi in cui erasi introdotto in larga vena il ') Dionigi I, 24. ?) Id. I,23.— Virgilio, Zneid. VINI, 600.— Plinio III, 8.— Silio Italico, VII, 442. 3) Più grandiose sopra tutte le altre sono le mura di Cori, Segni, Ferentino, Alatri, Arpino ne’ paesi degli Ernici e de’ Volsci. 4) Conf, Plinio. IV, 11. — Diefenbach, Origines Europeae. Francf. 1861, p. 81. — Giseke, Trakisch-Pelagische Stimm der Balkanhabinsel. Leipzig, 1858. — Corcia, nel Giornale di Na- poli, #1 Progresso, Luglio e Agosto 1839 — Del Pitagorismo di Numa. Rendiconto dell'Accademia di Archeologia e Lettere di Napoli, 1864. — Come i Traci erano potenti per numero, così parimenti erano riveriti per la loro dottrina. Platone parla di un celebre medico trace, che guariva gli in- fermi sotto la ispirazione di Zalmolxi. Trace era Orfeo, il giovane poeta che accompagnò Giasone nella spedizione degli Argonauti, e Traci Museo e Tamiri, che Omero celebra come sovrano maestro del canto, e di cui le Muse vendicatrici fecero così duro scempio. 5) Mardoî #9v0s Op&zre, Steph. Byzanth., De Urbibus. edit. Berkl., p. 527. 5) xzdbat #9v0s Opaziov. Tbid., p. 674. ") Diodor. II, 43. — Plinio, IV, 11. — Q. Curzio VII, 7. 8) Si può giudicarne dal nome stesso della Tracia che in antico era quello di Arya (Steph. Bizanth. ). I Medi chiamavano sè stessi anche Aryi ( Erodoto), ed Arya il paese nel quale abita- vano, I nomi scitici de fiumi, luoghi, persone, ed altre parole conservateci dagli scrittori, son tutti spiegabili con le lingue ariane, sicchè non v' ha dubbio, che presso questi popoli l’ elemento aryo non vi rappresentasse la sua notevole parte. Donaldson, Varronianus. London, 1860, cap. IX-XII- ci sangue turanico : gruppi di popoli che sotto nomi diversi, compariscono e scompari- scono nelle storie per fondersi più tardi nelle grandi nazionalità finniche, slave e ger- maniche ‘). Daila lingua che or si favella dagli Albanesi, discendenti odierni degli antichi Pe- lasgi, e che molto verosimilmente è quella stessa, o poco variata che parlavasi dai loro antenati, non possiam trarre argomento per avvalorarne l’affinità etnica con gli altri po- poli sopra nominati, perocchè gli idiomi di questi popoli sono scomparsi, e a noi man- cano i termini di comparazione, ma ciò che può dirsi intorno ad essi è, che questa lin- gua è chiaramente un membro della famiglia ariana, il quale, sebbene distinto dal greco eda qualunque altra lingua cognita, può riferirsi ad una delle stirpi prossime ai Greci ed agli Illirici, e si suppone il solo rappresentante sopravvissuto delle varie così dette lin- gue barbare che circondavano e compenetravano i dialetti greci °). Peraltro ciò che invano domandiamo alla linguistica ci si appresta dall’ Antropo- logia, la quale ci dimostra, che gli Albanesi hanno un tipo craniale diverso affatto da quello dei Greci, ma similissimo a quello delle altre genti slave che d’ogni intorno li circondano, e questo tipo, non limitato soltanto a quegliSkipetari che vivono nella an- tica loro terra, l’Epiro, ma comune altresì a tutti quegli altri Albanesi, e sono moltis- simi, che sono in Tessaglia, in Macedonia, nel Peloponneso, nell’Isole dell'Arcipelago, nella Creta, nelle Isole Jonie, nella stessa città di Atene, e in quei numerosi coloni che vivono sparsi qua e là, in comunità proprie, nel mezzogiorno dell’Italia peninsulare ed in Sicilia. _ Il cranio adunque di tutti questi Albanesi, a differenza di quello degli Elleni che è mesaticefalo, è brachicefalo, e il suo brachicefalismo raggiunge in molti un indice così elevato, che fa collocarli nella classe degli iper-brachicefali °). L'indice cefalico medio però è 840, identico all’ indice mediano dei crani serbo-croati e di altre genti della grande famiglia Slava. Da ciò pare potersi con molta probabilità affermare, che i Pelasgi fossero stati un ramo di quelle genti Aryo-turaniche, le quali tennero in lor dominio, ed hanno anche al presente tanta parte dell’ Europa orientale e centrale, e che la loro stirpe, non punto scomparsa, viva tuttora di rigogliosa vita ne’ moderni Skipetari od Albanesi. B) — Gli Iapigi-Messapi. Un'altra gente strania pose stanza nella regione sud-orientale della Penisola no- stra, occupando l’estesa contrada littorana delle Provincie di Foggia e di Bari, e quasi tutta la Provincia di Terra d’ Otranto. Si chiamavano Iapigi-Messapi, ed erano divisi i primi in Dauni e Peucezi, che abitavano fra il Gargano e Brindisi, occupando i Dauni le costiere fra il Gargano e Bari, ed i Peucezi il rimanente fra Bari e Brindisi; i secondi tenevano tutta la penisola ad oriente di Taranto, ed erano da Strabone spartiti in due 1) Scytharum nomen usquequaque transiit in Sarmatas atque Germanos. Nec aliis prisca illa duravit appellatio, quam qui extremi gentium harum ignoti prope caeteris mortalibus degunt. — Plinio IV, 12. 2) Max Maller, Letture sopra la scienza del linguaggio, trad. Nerucci. Milano 1864, p. 200. *) Nicolucci, Antropologia della Grecia, nelle Mem. della R. Accad. delle Scienze, 1867, p.80.—Zaviziano, sul Tipo Arvano-EUlenico. Napoli 1864. i — 30 — altre minori nazioni, Calabri e Sallentini, gli uni sulla spiaggia da Manduria a Basta, e gli altri da Basta a Brindisi. I Latini, più genericamente cognominando questi popoli , li dissero Appuli e Calabri, comprendendo fra i primi i Dauni.e i Peucezi, e fra i se- condi i Calabri e i Sallentini. Gli Osci formavano quivi, come nelle altre parti del- l’Italia del mezzogiorno, il fondo e il pieno della popolazione, ma i coloni stranieri che vi si erano stabiliti vi durarono lungamente, e vi lasciarono tracce della loro do- minazione. Molte sono le ricordanze degli antichi scrittori intorno alla venuta di quegli stra- nieri ne’ nostri lidi, e ne discorrono Stefano Bizantino ‘), Varrone °), Plinio *), Festo ‘), e più particolarmente la tanto divulgata leggenda di Nicandro da Pergamo *), la quale diceva esservi state condolte tre forti colonie da Dauno, Peucezio e Iapige, che diedero ciascuno il nome alla contrada ove presero dimora. « Ed invero, scrive il Micali, tal- mente scambievole ha dovuto essere altre volte la frequentazione delle genti fra l’ uno e l’altro lido, che l'isola di Sason, all'imboccatura dell’ Adriatico presso l’ Acrocerau- nia... vien chiamata ella stessa calabrese da Lucano °) ». Verosimilmente erano Pelasgi, perocchè Nicandro trasse dal Mar Ionio i tre figli di Licaone pelasgo , e la leggenda greca riferita da Antonino Liberale fa venire diret- tamente Dauno dall’Illiria con un seguito di gente di quella nazione. Darebbe credito a questa opinione anche il linguaggio che parlavasi nella Iapigio-Messapia, il quale, secondo lo Stier, avrebbe molte analogie con la lingua albanese ”). Ma, oltre delle colonie sunnominate, altre e più numerose e commiste di elementi greci se ne introdussero con Idomeneo dall'isola di Creta, e con Diomede da Argo nel Peloponneso. Il nome di questo eroe risuona frequente ne’ canti di Omero, e nelle antiche tradizioni iapigiche. Compiuta l'impresa di Troia, ritorna in Argo e gli si fe” nota la infedeltà della moglie Egialea. Risalito allora co suoi compagni le navi, fug- ge la terra nativa, e dopo lunghe peregrinazioni approda finalmente nella Daunia, territorio, e fonda una città, che, in memoria della sua cara Argo, chiamò Argos Hippium, la quale di poi fu detta Argyrippo e quindi Arpî *). Edificò pure Venosa e Brindisi °), nè v'era città di qualche conto nell'Italia sud-orientale che non si dicesse da lui fondata, e 1) Sub voce Aòdovr, in Fragm. edit. Pinedo, p. 744. 2) Ap. Probum, ad Virgil. Eclog. VI. 31. >.B. NI 16. 4) Sub voce Daunia. °) Ap. Anton. Liberal., Fab. 31. ©) Oggidì chiamata Sareno. Plinio H. N. III, 26. — Micali, Storia degli antichi pop. ital., I, p. 179. 7) Nel Giornale di linguistica comparata compilata dal Kuhn (vol, VI. pag. 142 sg.). Il ch- Henzen parrebbe anch’ egli inclinato al parere dello Stier, argomentandolo dal seguente passaggio del N. IX del Bullettino di Corrispondenza Archeologica pel 1859. « Lo Stier ha rilevato non poche analogie tra la lingua messapica ed albanese. Siccome quindi termina in quest’ ultima l’accusativo del singolare in n, ossia ne (Bopp., Ueber des Albanesischen Sprache. Berlin, 1855, p.4—G. Stier, Hieronimi de Rada, Carmina italo-albanica. Brunsw, 1856, p. 16), così ci si presenta in ciò una nuova corrispondenza. 8) Strab., VI, III, 9.— Plinie, III. 16.— Virgil., Eneid. VIII, 9.— X, 28—XI, 246.—Servius ad locum.— Livio, XXX, V. — Giustino XX, 1. — Klausen, Z#hneas, II, 1173. °) Servius ad Znedd. VIII, 9. — XI, 246. PES || E non mostrasse sue reliquie per accertarlo. Sulle rive dell'Ofanto si additavano infatti i campi di Diomede; in Luceria sì serbavano nel tempio di Minerva i donativi e l’ar- matura dell'eroe, nè altri segni mancavano del di lui imperio nelle Puglie ‘'). Le due isole dirimpetto il Gargano si nominarono dal figlio di Tideo, ed ivi favoleggiarono che egli scomparisse, ed i suoi compagni fossero stali convertiti in augelli ?), benchè altre voci dicessero esser egli sempre vissuto nella Daunia, ed aver quivi dato termine alla sua carriera mortale. S' ebbe fin gli onori divini a Metaponto ed a Turio °), come pure fra i Veneti presso il Timavo *), e fra gli Umbri vicino ad Ancona *). Fu per questa intromissione di colonie greche, che la Daunia e la Peucezia si el- lenizzarono con sorprendente facilità, mentre la Messapia si mostrò più ritrosa a quel grecismo, non ostante che sulle sue spiagge si fossero già fondate le colonie tarentine di Gallipoli e d'Otranto ©). Il suo dialetto vi si mantenne in fiore fino ai due ullimi secoli della repubblica, ed era vivo tuttora a’tempi di Strabone ?), il quale non seppe indicare in tutta la Messapia che una sola città completamente ellenizzata, ed era Rudie, patria del poeta Ennio discendente, com’ ei vantavasi, del Re Messapo. Non però di meno l'elemento ellenico vi rappresentava una parte importante, e ne abbiamo autentici documenti in più crani che sono stati raccolti in diversi luoghi della Provincia di Lecce. Que’ crani nel bell’ovale della calvaria, nell’indice cefalico, nella morbidezza generale de’ contorni, nella elevatezza della fronte, nella lieve depressione della glabella, nelle aperture orbitarie grandi e tondeggianti, nella elevatezza delle ossa nasali, negli archi zigomatici poco prominenti, nel loro perfetto ortognatismo, presen- tano tutto quell’assieme di caratteri morfologici, che sono propri, anzi tipici del cranio greco °). Il medesimo tipo greco si ravvisa ancora in alcuni dipinti di una nobilissima tom- ba gnatina °) conservati fra le pitture antiche nel Museo Nazionale di Napoli. Il sepol- *fSteab,, VI. III, 9. ?) Strab. Ibid. 3) Schol. Pind, ad Nem. X, 12. 4), Strab..V, 1,8. SR VE, LIT, TO. $) Servius ad Eneid.VII,691.—Silio Italico, XII, 393.—Mommsen, Unterital.Dialekte, p. 91. 7) Della lingua messapica diede conoscenza per il primo il de Ferrari da Galatone sua patria soprannominato il Galateo, nell’ opera de Situ Japigiae, che fu edita a Basilea nel 1558, dopo la morte dell'autore che finì di vivere il 22 novembre 1518, ma il Mommsen fu quegli che ne scrisse dottamente in una classica memoria sulle Iscrizioni messapiche pubblicata nel vol. XX degli Annali dell Istituto di Corrispondenza Archeologica (1848), e riprodotta con maggiori illustrazioni nell’ Opera Sui dialetti dell'Italia Inferiore. Egli ne raccolse tutte le iscrizioni fino allora conosciu- te, ne riconobbe le leggi grammaticali, e venne alla conchiusione, che, sebbene quell’idioma non sia ancora ben dichiarato, tuttavolta si rivela propagine del grande albero indo-europeo, e si ricongiun- ge, per molti lati, più col greco, che con le altre lingue che si parlavano in Italia. Più recente- mente una Collezione quasi completa di quelle iscrizioni fu edita in Lecce (1871) da’ Signori cav. Luigi Maggiulli, e Duca Sigismondo Castromediano, uomini così benemeriti della loro nativa pro- vincia e dell’ Italia. 8) I tre cranii da me studiati e descritti nella Memoria Sulla stirpe Iapigica. Napoli 1866 , pro- vengono da Fasano, da Rugge e da Ceglie, ed hanno l’indice cefalico di 75,00—75,4—76,84. °) L'antica Gnatia era nel luogo oggi detto Ayrazzo, sulla spiaggia del mare a poche miglia da Fasano. Me uo cro in cui furono scoperti sì componeva di tre stanze, di cui la sola che conteneva il cadavere era dipinta con affreschi rappresentanti molte figure alte circa un metro, a piedi ed a cavallo, quasi tutte in abito guerriero. Una iscrizione in lingua messapi- ca, disposta orizzontalmente sopra una delle pitture, indicava il nome dell’estinto, che era un Dasumio, una delle famiglie più illustri che avevano maggiore potenza ed autorità nell’ Apulia ‘). Le figure di questi dipinti, confrontate con tipi greci, presentano, direi quasi, quella somiglianza di famiglia che non sfugge all’ occhio di alcuno. Nella mia memoria sulla stirpe Iapigica io ho riprodotto ( Tav. III ), la testa di una di quelle figure, e ciascuno può osservare nei tratti delicati di quel volto i caratteri che son comuni alle più belle fisonomie elleniche. Il profilo della fronte, del naso del mento e di tutto il viso, e il contorno intero della testa richiamano tosto al pen siero i più bei tipi greci rappresentati in tanti capolavori della statuaria antica. Anch’ oggi in quelle Province, e soprattutto nella Provincia di Lecce, le fisonomie della maggior parte de’ nativi ricordano quel tipo che fu proprio, negli antichi tempi, di quella contrada: cranio dolicocefalo, raramente mesaticefalo, mezzana statura, vali- da complessione, capelli castagni, occhio nero e vivace, da cui traspare la pronta mo- bilità dell'animo e la pacata mitezza del carattere. Il contorno del volto morbido e de- licato, il viso quasi sempre ovale, la fronte alta e larga, il naso profilato e quasi punto depresso nella sua radice, com'è carattere quasi costante della stirpe greca. Pronto e vivace l’ingegno, fervida la fantasia, ardente, ma spesso e trasmodante l’affetto ; prov- vidi, laboriosi, leali; onesti, caldi nel sentimento dell'amicizia, ma non di rado in- costanti ne’ propositi, e dominati da una quasi puerile vanità che ci ricorda anch’ essa quella razza greca, dalla quale traggono in parte l'origine. Lieto anzi che no il tempe- ramento, quasi mediano tra la burbanzosa serietà e la scurrile leggerezza. Dolce, ac- centuato , armonioso il dialetto, tanto più grato all'orecchio, quanto più vicino al capo di Leuca °). è V. — GLi Evucanel E 1 VENETI. Nel fondo dell’angolo nord-est dell’Italia Je antiche memorie ci ricordano un po- polo che balestrato, per ragioni inconosciute, dalle sedi native in quella nostra terra, vi prese stabile dimora, e vi crebbe in prosperità ed in potenza. Erano questi gli Eu- 1) Mommsen, Iscrizioni messapiche, p. 64-65. — Unteritalianisch. Dialeckte, p. 72. 2) Nicolucci, La stirpe Iapigica , p. 29-30.—Riferisco qui sotto un saggio del dialetto, di Caballino, traendolo da’ Canti popolari delle Provincie meridionali raccolti da V. Imbriani e Ca- setti, e pubblicati nella Collezione de’ Canti popolari italiani editi per cura di D. Comparetti, ed A, d’Ancona, 1871-72: Pulece fortunatu quantu puoi! Quant’ ete la putenzia ci tu hai! De la mia bedda nde faci cce vòi; Sulle bianche soi carni jeni e bai; E te ba’ minti ’nfra le minne soi, Pizzechi e suchi e nu furnisci mai! Fallo pell’ arma de li mubrti toi, Portanci pure a mmie quandu nci vai ! mem: cc ganei che noi troviamo come in propria sede fra l’Alpi Rezie, l'Adige e il mare ‘) ove conservarono per lunga stagione la loro indipendenza, finchè i Veneti non ne usurpa- rono l'impero, e ne annientarono fino il nome che si confuse col proprio, sol rimanen- done memoria ne’Colli Euganei del territorio patavino. Gli autori antichi non tacciono dell'importanza di quel popolo, e ci dicono che possedesse trentaquattro terre nelle Basse Alpi °), e che il suo nome, che significa nobile, forte, generoso, avesse tratto dal- l’essere stato compagno di Ercole quando questi passò le Alpi Graie ‘). Nondimeno i suoi fatti più memorabili rimasero abbuiati nella oscurità de’ tempi, e sol da pochi anni in qua son venuti in luce monumenti che lo rialzano nella sua antica fama, e lo sol- levano al pari de’ popoli più civili dell’Italia antica. È da Necropoli scoperte nel territorio d’ Este, che fu il centro principale degli Euganei, che si è tratta inaspettatamente quella ingente copia di cimeli che rivelano le fasi progressive della civiltà di quel popolo, dal primo periodo dell’età del ferro fino all’epoca della dominazione romana *). Il Prosdocimi che ha descritto con tanta diligenza e doltrina quelle Necropoli, le divide in quattro periodi, secondo le qualità degli oggelti che vi sono stali raccolti. Nel primo periodo (1° epoca del ferro), vasi grossolani, fatti a mano, poco o nulla or- nati, bronzi pochi e semplici, e privi quasi affatto di ornamenti. Nel secondo e terzo periodo (2° e 3° epoca del ferro), la ceramica ha mutato di natura; il tornio si è so- stituito alla mano ed alla stecca, l'impasto ne è fino, le forme più variate ed eleganti , e le superficie ornate di meandri, di circoli, di spire ricorrenti. In alcuni vasi la de- corazione è formata da piccole borchiette di bronzo incastrate nell’ argilla, e disposte in guisa da rappresentare graziosi meandri e disegni circolari °). I bronzi sono più abbondanti, più vari, più eleganti, e le urne cinerarie de’ più ricchi consistono in ciste enee decorate di ornamenti fatti a sbalzo e a graffito rappresentanti chimere, uccelli, buoi e cervi pascolanti, e figure di uomini, e carri e cavalli, e fogliami che s'intrecciano vagamente in mezzo a quelle varie rappresentazioni. Con le ciste gareggiano in lavoro artistico le placche de’centurioni cesellati con ogni specie di fantastici disegni. Nel 4° periodo comincia l’influenza romana, ma ciò non ostante continuano i costumi euga- nei, i quali perdurano fino al 79° anno dopo G. C., cioè 263 anni dopo la dedizione a Roma degli Euganei. 1) Inter mare Alpesque incolebant. Plin. II, 1. 2) Catone, citato da Plinio, III, 20. 3) Praestantesque genere Euganeos, inde tracto nomine. Plinio, III, 20— Livio, 1. 4) Intorno alle Necropoli atestine sono da consultarsi la dotta e particolareggiata Relazione del ch. prof. Prosdocimi nelle Notizie degli Scavi delle Antichità del Regno pel 1882; la Me- moria del Molon, Le Necropoli atestine. S. Remo 1885, e quella del Soranzo, Scavi e scoperte ne’ poderi Nazzari di Este. Roma 1885. 5) Queste borchiature metalliche sono state trovate ancora in un ossuario di un antichissimo sepolero di Casinalbo, nel Modenese ( Bullett. di Paleoetn. italiana, VI. 189 ), in alcune pen- deruole degli Scavi Benacci, nel Bolognese, ed in qualche vasetto degli Scavi della Certosa di Bologna. Nella Collezione Scarabelli ad Imola vi ha un tintinnabulo di argilla decorato parimenti di borchiette di bronzo (Bullett. di Corrisp. Archeolog., 1875, 211-20). Altri due orciuoli, egual- mente ornati dello stesso metallo, si sono trovati nelle tombe antichissime a pozzo di Corneto, e tracce di una decorazione simile si ravvisano nel tetto di un’ urna a capanna proveniente anch’ essa . dagli scavi cornetani. At11— Vol. II. — Serie 2° — N° 9. 5 iaia Lavori artistici di tanta eccellenza per quella età non potevano esser opera che di gente industre e civile, presso la quale all’agiatezza del vivere era congiunto il culto delle arti belle. È opinione di alcuni archeologi, che le industrie atestine avessero avuto incita- mento ed esempio dalla vicina colonia greca di Adria, ma, ammesso pure che l’ im- pulso fosse venuto d’altronde, non può togliersi agli Euganei il merito di averle eser- citate e sviluppate ancora dippiù, per guisa che i loro prodotti danno alle tombe estensi un'impronta particolare, e rivelano in quell’obliato popolo i progressi notevoli da lui fatti nelle vie della civiltà. Proprie ancora e particolari di que’ sepolcri atestini sono le stele funerarie per indicare il luogo delle Necropoli e di certe tombe. Quelle de’ sepolcri più antichi sono masse informi di trachite, ma le altre de’ periodi più recenti e di maggior civiltà sono cippi piramidali a quattro facce con o senza scrittura, la quale non solamente sì trova nelle stele, ma anche in ciotole e vasi, in caratteri e lingua fino ad ora non dichiarati dagli archeologi, ma che accennano, a quanto pare, ad una somiglianza con le iscri- zioni messapiche '). Agli Euganei successero i Veneli, che, facendo guerra a’ primi, ne occuparono le sedi fino all’Adige, e si resero padroni di tutto il territorio da quel fiume al mare, e dal Tagliamento (Tilavemptus) fino al Po, occupando così una parte del Friuli , il Tre- visano, il Padovano, la Provincia di Venezia, il Polesine, il Vicentino e gran parte del Veronese ?). Quivi non furono mai sloggiati dalle terre che fecero loro sede, e vi si conservarono quasi puri di ogni mescolanza fino al loro contatto co” Romani. Ebbero grido al di fuori, fin dalla più alta antichità, di illustre nazione 3), e nel lor paese i poeti finsero le favole più celebri dell’Eridano, di Fetonte e delle sorelle di lui trasformate in pioppi stillanti l’ambra sulle rive del Po ‘). Furono rinomati altresì per la loro intelligenza nell’allevare generose razze di cavalli, de’ quali correva tal fama in Olimpia , che i Veneti puledri vi prendevano il soprannome di portantî co- rone °). Questo parve a’ Greci un argomento per crederli venuti con Antenore dalla Pa- flagonia ov’era per eccellenza esercitata una simile industria °), e il celebre storico pa- ') Le altre iscrizioni euganee raccolte in Adria, in Padova ed in Este stessa sono state pub- blicate dal Lanzi (Saggio di lingua etrusca, II, 649 e seg.), dal Furlanetto (Le antiche lapidi padovane illustrate. Padova, 1847, p. 43e seg.) e dal Fabretti (G/ossarium Italicum, tav. II-V)— Se ne è occupato anche l' Helbig nel Bullett. di Corrispond. Archeol. 1886, —Il dotto autore cre- de che le iscrizioni piuttosto che euganee debbano chiamarsi venete. ?) Dotto de'Dauli, Op. cét., I, 482. È ?) Polibio, II. 17 — Strabone, V.1. 9. 4) Euripide in Hippol. 785 — Hygin. Fab. I. 54 — Dionis. Ord. Descript. 288 e seg. -— Festo Avieno, Descript. orbis terrae, v. 425 e seg. Hic prius Eridani propter nemorosa fluenta Fleverunt liquidae lapsum Phaetonta sorores, Mutataeque manus planxerunt pectora ramis. 3) Heysich. v. ’Evétidzs Two. ) Sofocle, nella Presa di Troia, raccontava tutto il fatto di Antenore (Strabone V, I), benchè == tavino, per orgoglio della sua patria, cercò di accreditarne la voce anche presso i Ro- mani ‘). Altri li giudicarono Galli derivati dalla Gallia Celtica e dagli ultimi lidi del- l'Oceano °), ma che tali non fossero lo assicura espressamente Polibio, quando asse- | risce che, parlando una lingua diversa, non potevano appartenere a quella stirpe °). L'opinione più accreditata, e tenuta anch’oggi in maggior conto dal più gran numero degli scrittori, è quella divulgata già da Erodoto, cioè ch’ ei fossero Illirici, come le altre genti che fin da tempo antico avevano occupato le coste orientali dell’ Italia ‘ Che tali poi fossero veramente è confermato dalla craniologia , la quale ci mostra nei Veneti odierni un tipo craniale identico a quello degli Slavi del littorale nordico-orien- tale del Mar Superiore, che prendono il nome di. Sloveni , e sono sparsi, misti ad Ita- liani e Friulani in Gorizia, Gravisca, nel Territorio di Trieste e nella parte setten- trionale dell'Istria ). Confrontando infatti i cranì veneti e sloveni in tutti i loro detta- gli, non vi si notano che lievi ed insignificanti differenze. Non enumero qui, chè sa- rebbe fuor d’ opera, tutti i particolari che li concernono, ma limitandomi ad accen- narne due de’ principali caratteri, la capacità cubica, cioè, e l’indice cefalico, dirò che ne' primi la capacità craniale è rappresentata dal volume di 1493 c. c., e l'indice del cranio dalla cifra proporzionale di 822, e ne’ secondi la detta capacità si eleva a 1485 c. c., e l’ indice craniale a 828 ‘). Questo elemento illirico, 0, per parlare più propriamente , slavo nel popolo ve- neto, benchè rimasto persistente nella forma del cranio, si è del resto completamente italianizzato nella lingua e ne’ costumi, e in quel popolo generoso non è men vivo di quello - degli altri Italici il sentimento di fratellanza che tutti gi unisce da un capo al- l’altro dell’ Italia, dalla cima delle Alpi fino alla punta estrema della Sicilia. $ VI. — Gui ErruscHI. Erano già sulla costa orientale della Penisola fortemente stabilite le colonie Illiriche, quando un altro popolo straniero, gli Etruschi, Tirreni, o Raseni, come pur altri scrittori lo narrassero diversamente ; ved. Virgilio, Zneid. I, 242—Eustath. in Dionisium Pe- ryegeten. 378 — Meandr., Miles, Fragm. 9 — Giustino, XXI— Plinio, XXX, V. !) Questa è la narrazione di Livio, lib. I, cap. I.—Casibus deinde variis, Antenorem cum mul- titudine Henetum qui seditione ex Paphlagonia pulsi, et sedes et ducem, Rege Pylaemene ad Troiam amisso, quaerebant, venisse in intimum mari Hadriatici sinum ;} Euganeisque, qui inter mare Alpesque incolebant, pulsis, Henetos Troianosque eas tenuisse terras: et in quem primum egressi sunt locum, Troia vocatur; pagoque inde Troiano nomen est, gens universa Veneti appellati. ?) Cioè da’ Veneti collocati nell’ Armorica, spesse volte nominati da Cesare. Strab., V. IV. 3) Polibio, lib. II. 17.—Plinio N. XXIV, 7 distingue parimenti la lingua de’ Veneti da quella . de’ Galli. 4) Erodoto lib. I cap. 10.—Servio (ad Enezd, 1, 242) scrisse esser venuto dall’ Illiria a re- gnare nella contrada de’ Veneti un tal Eneto, che v impose il suo nome, che indi si cangiò in quello di Veneto e di Venezia.—Appiano, 8. Mithridat., 1. V.— Eustath. ad Dionis. Peryegeten, 378. 3) C. F. Czoernig, Die ethnologischen Varhiltnisse des bsterreichs. Kiistelandes nach dem rich- tiggestellten Ergebnisse der Vollzihlung vom 81 december 1850. Triest, 1885. — Marinelli, Slavi, Tedeschi, Italiani nel così detto Littorale austriaco (Istria, Trieste e Gorizia), negli Att del R. Isti- tuto Veneto, t. III, ser. 3°. °) Weisbach, Beitrige zur Kentniss der Schadelformen osterreichischer Volker. Vien, 1864.— Virchow, Zur Craniologie Illriens. Monatsbericht der Akad. d. Wissensch. zu Berlin, 1871. * a si chiamarono, venne a porre le sue tende sulla sponda occidentale del nostro mare fra il Tevere e l'Arno. Secondo le più numerose ed autentiche testimonianze dell’ anti- chità, erano partiti dalla Lidia, o Meonia od altre parti dell’ Asia Minore ‘). Occupato dapprima un piccol tratto di paese, si allargarono di poi man mano per le terre circo- stanti, guerreggiando gli Umbri che n’erano gli antichi possessori. La fortuna delle armi arrise loro così, che poterono dilatarsi per tutto il vasto territorio, che da’ due fiumi sunnominati si estende fino a’ piè degli Apennini, riducendo in lor soggezione ben 300 terre degli Umbri °), che furono obbligati a riconoscere la supremazia di quei nuovi venuti. Nè paghi di tante conquiste, invaso il mare di sotto, presero ai Liguri il Golfo della Spezia ed il paese più propinquo alla Magra dove edificarono Luni, che divenne col suo porto l’emporio più grande della nazione. Valicati più tardi gli Apennini, discesero nelle campagne bolognesi e ferraresi, e quindi nell’adiacente pianura fra l’Apennino e le Alpi, e fondarono ivi una Nuova E- truria, di cui fecero capitale Felsina, oggi Bologna. Avanzandosi di poi di luogo in luogo verso il mezsogiorno, trapassato il Liri, s'inoltrarono per la Campania fino al Silaro, e vi fondarono una terza Etruria, alla quale diedero per capo Volturno, che poi s'ebbe il nome di Capua, e divennero così, prima che Roma si mostrasse, dominatori di quasi tutta l’Italia °). A tanta fortuna tennero dietro precipitosi rovesci. Sorpresi dalle orde galliche di 1) Erodoto 1. VIII. — Intorno a questa migrazione Lidia scrive il Maspero: « Quoi qu’en dise « Herodote, cette migration ne se fit pas dans une seule fois, et dans une seule direction: elle se « prolongea pendant près de deux siècles, du temps de Sethi I. au temps de Ramses III, et se porta < sur les régions les plus diverses—(Hist. ancien. des peuples de l Orient Paris, 1884, p. 250) ». Il racconto di Erodoto è stato accolto per vero da tutta l’antichità, ad eccezione di Dionigi di Alicarnasso, il quale riteneva gli Etruschi per indigeni della contrada dove abitavano (lib. I, 30). Frai moderni è la opinione più comunemente seguita, e mi basti citare i nomi più autorevoli: Schle- gel (Heidelb. Jahrbuch. 1816, n. 54 ed Opuscula latina, p. 146), — Wachsmuth (Die altere Gesch. d. ròmisch.Staates.Halle, 1819), —Le psius(Ueder die Tyrren. Pelasg.in Etruria. Leipzig 1842) —Cur- tius (Stor. greca, trad. ital.I, 238, 251), — Kiepert (LeQrd. der alten Geographie, 401, 3), e più recentemente il Milchhofer (Die Anfange der Kunst in Griechland, p. 233) fra i Tedeschi; — Noél de Vergers (2 Etrurie et les Etrusques, ou dix ans de fouilles dans les maremmes touscanes. Paris 1862, 64), —De Rougè (Revue archéologig., 1867, p. 35-45-80-103),—Chabas (Etudes de lantiquite historique... p.291) fra i Francesi; Dennis (The Cities amd Cemeteria of Etruria. Lon- don, 1845, I, XXXII) fra gli Inglesi; e fra gli Italiani l’ Orioli, in varie Memorie pubblicate negli Opuscoli letterari di Bologna, negli Annali e Bullettino di corrispondenza archeologica e nei Monumenti Etruschi dell’Inghirami,—Canina(Descrizione di Cere antica, ed Etruria marittima), — Connestabile (Della vita, studi cd opere di G. B. Vermiglioli. Perugia, 1855-20-26 )— Gozza- dini, Di un sepolereto etrusco scoperto presso Bologna, p.35,—Fabretti(Glossarium Italicum sub voce Etruria), — Vannucci (Storia dell’Italia antica, t. I, c. 3), — Schiaparelli (Le migrazioni degli antichi popoli dell'Asia Minore, p. 10), e più recentemente, con molta copia di erudizione, il ch. Brizio in una Dissertazione Sulla provenienza degli Etruschi pubblicata negli Att? della Deputazione di Storia patria per le Province di Romagna. Bologna 1885, III" serie, vol. III °) Trecenta eorum oppida T'usci debellasse reperiuntur. Plinio, H. N. III, 14. °) In Tuscorum iure pene omnis Italia fuerat; Cato ap. Servium. ZBneid, XI, 517, e più partico- larmente Livio (V. 33): Tuscorum ante romanum imperium late terra marique opes patuere mari supero inferoque, quibus Italia insulae modo cingitur, quantum potuerint, nomina sunt argu- mento; quod alterum Tuscum communi vocabulo gentis , alterum Hadriaticum mare, ab Hadria Tu- scorun colonia, vocavere Italicae gentes, Graeci gadem Tyrrhenum atque Hadriaticum vocant. —.i Sla — Sigoveso, Belloveso ed Elitovio, perderono le loro conquiste al di là degli Apennini ‘); assaliti quindi ne’ possedimenti campani dalle armi unite delle greche colonie e dei Sanniti, si trovarono ridotti nel IV. secolo di Roma a tale stato di decadenza po- litica e militare, che non rimaneva a rappresentante del Tosco impero che la sola e primitiva Etruria Centrale. Ma già il fato della Città Eterna pesava inesorabile sopra quella nazione. Combat- tuta nel 444 a Vadimone, venne in quella memorabile giornata ad essere per sempre stabilita la sorte dell’ Etruria. Soggettata a Roma, le sue memorie, le sue scienze, le sue arti migliori, la sua letteratura perirono; la lingua e le glorie latine offuscarono la lingua e le glorie etrusche. I Greci non ne parlarono più che come di corsali e scape- strati, i Romani come di aruspici e di artisti; e fra gli stessi Etruschi la dominazione altrui soffocò fin le memorie delle virtù degli avi, null’ altro lasciando che il desiderio di divenire allo intutto romani. Non periva però la fama che gli Etruschi si erano acquistata nelle nobili discipli- ne, e non potè mai loro negarsi il vanto di essere stato il popolo a cui Roma doveva non poca parte della sua civiltà, e basti il ricordare che da essi trassero i Romani i sacri indovinamenti secondo i vetusti dommi dell’ aruspicina e dell’estispicio, i prin- cipali strumenti musicali, i giuochi, i circhi e gli anfiteatri, i gladiatori, i canti e sa- crifici nuziali, gli ordinamenti delle castramentazioni e delle battaglie, i calcei sena- torii, le bulle ed innumerabili altre cose che non importa numerare °). Ho accennato alla provenienza lidia o meonia de’ Tirreni, ma altre opinioni sono state emesse in proposito, e, lasciando da parte le origini armene, egizie, iberiche, illiriche, semitiche, oramai abbandonate, ricorderò quella sola messa innanzi nello 1) Alla invasione de’ Galli credesi dovuta la presenza degli Etruschi nella Rezia ove un nu- mero di questi rifuggivasi per sottrarsi alla dominazione de’ vincitori: Tusci quoque, scrive Giu- stino, duce Rhaeto, avitis sedibus amissis, alpes occupavere, et ex nomine ducis gentem Rhaeto- rum condiderunt; nè altrimenti scrissero Livio (V,33) e Plinio ( III, 24), soggiungendo, che la natura de’ luoghi rese col tempo siffattamente rozze ed incolte quelle genti, che delle cose antiche null’ altro ritenevano se non l'accento, e questo ancora corrotto. — Senza seguire a pun- tino le orme di questi scrittori, io inclinerei col Conestabile ad ammettere, oltre lo stabilimento etrusco nelle Alpi retiche in conseguenza della invasione de’ Galli, anche altri colonizzamenti an- teriori a quella età; «imperocchè, dice il Conestabile, omai tutti gli argomenti suggeriti dalla cri- tica storica, dagli avanzi monumentali, e, direi, anche dal semplice criterio razionale, persuadono definitivamente , che al tempo dello stabilimento cicumpadano, gli Etruschi si spingessero e s’impiat- tassero nelle Alpi, e assai facilmente in più punti di esse, e che per la difesa di quelle nemiche genti, affranto e sconvolto lo stabilimento medesimo, si ritirassero in que’ luoghi montuosi, ove la loro sicurezza in quegli istanti di decadimento e di sconfitta, principalmente doveva affidarsi alle basi di un impianto precedente , che , esaminate le condizioni e le forze dell etrusco allargamento, non potè non essere un annesso, una conseguenza, e una dipendenza dello stato Circumpadano. — Di alcune scoperte avvenute dal 1850 al 1855 nell’ agro trentino, p. 4. Per le antichità etrusche scoperte nella Rezia, ved. Giovannelli, De’ Rezi, dell’ origine de’ popoli d’Italia e d’ una iscrizione Rezio-ctrusca. Trento, 1844. — Le antichità etrusche sco- perte presso Matrai. Trento, 1845.—Mommsen, Die Nordetruskischen Alphabete aus Inscrift. und Minzen; nelle Mittheilung. der Antiq. Gesellsch. in Zurich, VII, 1833,—P. Orsi, Za Necro- poli italica di Vadena. Rovereto, 1883—Panizza, Suz primi abitatori del Trentino, Trento, 1882. °) Orioli — Delle tre prime Tribù Romane, Discorso letto all'Accad. Rom. di Archeologia il 24 Luglio 1852. Roma 1852, p. 6. sb scorso secolo dal Frèret ‘), il quale congetturava, che i primi Etruschi fossero stati i Reti del Trentino, e che di quivi fosse mossa la nazione de’ Raseni, per ve- nire a conquistare |’ Etruria, e dare essere e nome a quel popolo famoso. Questa ipotesi, per nulla curata dapprima, levò gran rumore dopo che piacque al Nie- buhr 2) e ad O. Miller 3) di richiamarla in vita, fabbricando sopra di essa, come bene si esprime il Vannucci (I, 79), un sistema che non ha nessun fonda- mento nè sull’autorità, nè sulla ragione, anzi contraddetta apertamente dall’ una e dall’altra. La meritata autorità di que’ nomi si trasse dietro il Grotefend *), l'À- beken *), lo Steub °), il Gherardh ‘), il Danaldson *), il Mommsen °), il- Giovannelli ‘°), il Marsili ‘‘), il Bartolini ‘’) ed altri ancora, ma le ragioni non crebbero in proporzione, e la ipotesi retica non fece un passo più innanzi di quello che le avesse falto fare |’ accademico Frèret. Se non che è parso recentemente all’illustre Segretario dell’I. Istituto Archeologico Germanico in Roma, W. Helbig, di poter sostenere ancora quella opinione con altri argomenti desunti dalla somi- glianza delle tombe di alcune necropoli arcaiche del Bolognese con le più antiche sepolture dell'Etruria" centrale e marittima, che nella forma e nella suppellettile fu- neraria si rassomigliano grandemente fra loro !°)- Le quali somiglianze, secondo la opinione dell’ Helbig, darebbero a divedere , che tanto i sepolcri arcaici del Bo- lognese, quanto quelli più antichi, a pozzo, dell’ Etruria propria sieno opere di una gente medesima, la quale, venuta in Italia per le vie del nord , pose sede dapprima nelle pianure circumpadane, e quindi, varcato il più prossimo Apennino per la val- lata del Reno e per quella dell’Alimenta, trapassò nell’Etruria Centrale dove si estese fino al Mediterraneo, e vi formò la famosa Nazione, conservando i medesimi riti e le medesime costumanze funebri, che poi mutò , adottando una nuova maniera di seppellimento più confacente alla sua cresciuta civiltà ed agiatezza. Il Brizio però ya dimostrato, che quelle tombe a pozzo dell'Etruria propria non appartengono già agli Etruschi, ma sì ad un’epoca anteriore alla loro venuta in Italia, quando cioè gli Umbri erano i padroni esclusivi di quelle terre, e adoperavano costantemente o quasi il rito della cremazione, che era anche quello degli Umbri della regione cir- cumpadana, e non fu, se non raramente, quella degli Etruschi, i quali avevano sempre avuto in costume di deporre i loro cadaveri in tombe rettangolari, a ca- ') De lorigine des Etrusques, nell’ Histoire de l Academie des Inscriptions, t. XVIII, p. 4. 2?) Storia Romana, Artic. Tusci ed Etruschi. ®) Die Etrusker. Breslaw, 1828. 4) Zur Geographie u. Geschichte A. Alten Italien. Hannover, 1840-2. °) Mittel-Italien vor der Zeit der Romischen Herrschaft. Tubingen, 1843. ®) Ueber die Urbewohner Rithiens, u. ihre Zusammenhang mit d. Etrusken. Munchen 1843. °) Rapporto vulcente, negli Annali dell Istituto di Corrispondenza archeologica, 1821, p. 3. *) Varronianus, a critical and historical introduction to the Ethnography of ancient Italy. Lon- don, 1866, p. 60. °) Romische Geschichte, lib. 1, c. IX. 10) Op. cit. !!) Archivio storico italiano. Nuova serie, XIi, p. 11. 1°) Nuova Antologia, 1872, XX, p. 85. — La critica nella storia antica. Prolusione al corso di Storia antica nell’ Univers. di Bologna. — Storia d’Italia, I, p. 18. ‘’) Helbig, Sopra la provenienza degli Etruschi — Annali di Corrispond. Archeologica, 1884. ia mera, profonde, vaste, circondandoli di più o men ricco corredo, secondo il grado e la fortuna de’ defunti. « I rapporti in cui Umbri ed Etruschi si sono trovati nei primi tempi ancor non si possono indicare con precisione. Ma argomentando dalla semplicità delle tombe a pozzo e delle loro suppellettili, e dal fasto invece che regna ne’ sepolcri a camera, si può esser certi che gli Etruschi divennero ben presto la classe più ricca e privilegiata, gli Umbri al contrario costituirono la plebe. « Non devesi credere però che all'arrivo degli Etruschi la civiltà Umbra sia repentinamente scomparsa... Niente di più naturale che essi abbiano continuato e migliorato l’esercizio delle proprie industrie; miglioramento che sarebbe rappresen- tato dalla maggior parte delle tombe a fossa, non che da talune contemporanee a pozzo, nelle quali appaiono più perfetti i vasi fittili, più numerosi quelli di bronzo, e già s'introducono ornamenti in oro ed in argento. Non solo, ma la presenza di tombe a fossa di tarda età, sempre con la primitiva suppellettile funebre, col ca- davere non più bruciato, ma sepolto, dimostra che gli Umbri modificarono in se- guito anche il rito di sepoltura, adottando sull’ esempio dei nobili e ricchi |’ uma- zione in luogo della cremazione, per guisa che si rese predominante e divenne u- niversale ‘). È nelle tombe che gli Etruschi sfoggiarono il più gran fasto e la più grande splendidezza. Se ogni altra loro memoria fosse perita, se ogni altro loro monumento fosse scomparso, i cimeli raccolti ne’ loro sepolcri ne rivelerebbero la grandiosa e veramente mirabile civilià *). Per chiarire ancora di più che gli Etruschi non sono gente venuta dal nord, ma provenienza tutta orientale, il Brizio aggiunge alcune altre considerazioni, che io credo pregio dell’opera riferire qui sotto con le stesse sue parole. A differenza di qualunque altro popolo stabilito in Italia, gli Etruschi conser- varono ancora in epoca tarda costumi che subito ci richiamano alla Lidia in par- ticolare, ed all’oriente in generale. « Taccio, egli dice, de’ riti e de’ monumenti fu- nebri, e mi limito a rivelarne l’usanza molto curiosa in vigore presso di essi, cioè che le ragazze si procuravano da sè stesse la dote facendo mercato del proprio corpo. Plauto nella Cistellaria (ac. II. st. 3. 19) lo afferma con parole chiare: 1) Brizio. loc. cit., p. 422. 2) Fra le tombe più insigni dell’ Etruria, e che han fornito maggiore quantità di preziosi oggetti, sono la così detta Tomba del Guerriero di Tarquinia (Bullett. di Corrisp. Archeol. 1869 — Annali, id. 1874), il Sepolero Regulini-Galassi di Cere (Grifi, Monum. di Cere, nel Museo Gregoriano, Tav. I-II; 15-20; 62-67; 75-77; 82-85), la così detta Grotta d’Iside di Vulci (Mi- cali, Monum. inediti, Tav. 4,5, 6—Braun, Ann. dell Istitut. di Corrisp. archeol. 1843— Bul- lett. id. 1844, p. 105), parecchie tombe di Veii (Garrucci, Archeologia, XLI, 1868, p. 187, p. 21 e seg.—Helbig, Bullett. di Corrisp. archeol., 1876. Monumenti, X, XXXI, XXXIII, An- mali, 1876), di Chiusi (Helbig, Bullett. arch. 1874, p. 203-10— Annali, 1877, 399 e seq.—Monu- menti, X, XXXIV), di Poggio alle Sale (Helbig, Bullett. 1877, 193-6 — Annali, 1878, p. 216- 801), e di Palestrina, nel Lazio (Braun, Bullett. 18355—-Henzen, Annali, 1855, — Brunn, 2Mo- num. Institut. VIII, XXXVIII, 1866, p. 187 e sq. — Garrucci, Op. cit — Helbig, BuMlett. Cor- risp. arch. 1876, Annali, 1876 — Monumenti X, XXXI-XXXIII). — ia . tibi talenta magna viginti pater dat dotis. Non enim hic, ubi ex tusco modo tute tibi indigne dotam quaeras corpore. « Tale appunto era il costume delle figlie del popolo in Lidia , le quali, come racconta Erodoto, si prostituivano tutte per raccogliersi la dote , e ciò facevano finchè si maritavano ‘). Era un uso quello non soltanto de’ Lidi, ma di altri popoli del- l’Asia. Lo stesso Erodoto racconta, che altrettanto facevano i Babilonesi, ed ag- giunge che le donne, cinte di corona, sedute presso il tempio della Dea Milita , aspettavano che i forestieri, gittando loro del denaro, invocassero propizia la Dea, dopo di che andavano ad unirsi con essi ’). Anche gli abitanti di Aface in Fenicia prostituivano le donne in vicinanza del tempio di Venere sul Libano °), ed a Sicca, cento miglia da Cartagine, vigeva la stessa usanza ‘). Finalmente riferisce Strabone che anche gli Armeni consacravano alla Venere Anaitide non soltanto i servi e le serve, ma ancora le vergini di nobili famiglie, le quali, dopo avere, secondo il rito, meretricato per molto tempo presso la Dea, si sposavano, senza che alcuno mostrasse ripugnanza per tale connubio °) ». « Si può conchiudere pertanto, che tale usanza fosse propria delle genti asia- tiche, nel novero delle quali dovrebbonsi includere gli Etruschi per il solo fatto che essi la praticavano. Perchè qui non sì tratta di rilassatezza o corruzione di costumi, che in epoca di decadenza sociale invade le infime ed anche le alte classi, ma di un rito consacrato dalla religione, il quale esisteva anche in Etruria, perchè Plauto parla proprio del « Tuscus modus ». « Certo era un rito del tutto estraneo ai popoli europei. Non lo sì praticava da’ Germani, presso i quali, ancora al tempo di Tacito, una ragazza disonorata , fosse pur bella, giovane e ricca, mai non avrebbe trovato marito °); non dagli Ita- lici, presso cui, come sappiamo de’ Romani, dell’onore e della santità della famiglia severo vindice era il padre. Con quel costume invece molto bene se ne concilia un altro, pure etrusco, cioè che la prole pigliava nome non dal padre, ma dalla madre, senza dubbio per la difficoltà di stabilire chi ne fosse il genitore. Ora lo stesso Erodoto , seguito da Plutarco , riferisce che il chiamare i figliuoli dal nome della madre era proprio dei Licii 7), la cui civiltà offre tanti punti di contatto con quella dei Lidii. « Quella specie di emancipazione di cui godevano le donne bid già in 1) Erodoto, lib. I, 93. 2) Id. lib. I, 196 e seq. 3) Eusebio, De Vita Costant. III, 55. ') Siccae enim fanum est Veneris in quo se matronae conferebant, atque inde procedentes ad quaestum, dotes corporis iniuria contrahebant, honesto nimirum tam inhonesto vinculo coniuge iun- cturae. Valer. Max., II, 16, 15— Cfr. Justin. 18, 5. 5) Strabo, lib. XI, c. XIV, 16. °) Germania, cap. XIX.: publicatae enim pudicitiae nulla venia: non forma, non aetate, non opibus maritum invenerit. °) Erodoto, I, 173. — Plut., De mulier. virtute, — Curtius, Storia Greca, I, nota 2, trad. italiana. REN | Perse epoca molto antica, fin dal 6° secolo, è attestata anche da’ monumenti. Molte pitture di tombe tarquiniesi, ed anche un gruppo ceretano di terracotta ') rappresentano un funebre convito con uomo e donna amendue sdraiati sul letto. Basta la circo- stanza, che la donna etrusca nei conviti non sedeva al piè del letto, ma, al par dell’uomo, vi si coricava per subito pensare a costumi asiatici. Perchè è noto come presso i greco-italici la donna nei conviti non mai si sdraiava sul letto, ma com- postamente si sedeva ai piedi. Delle antiche donne romane dice Valerio Massimo: Feminae cum viris cubantibus sedentes caenitabant ?). Le donne greche poi dai tempi più antichi fino ad epoca molto tarda hanno sempre mantenuta quella severità e ri- servalezza di costume, « Il gruppo ceretano poi dianzi menzionato *), ci presenta non soltanto co- stumi, ma eziandio tipi asiatici. Giacchè l’ uomo con la barba rasa sotto il naso, sopra il mento e dietro le guance, secondo |’ antichissimo costume greco-asiatico, ha i capelli divisi in mezzo la fronte e scendenti a ciocche giù per le spalle con una mollezza tutta orientale, e la donna con neri capelli scendenti pure a ciocche sul petto e dietro le spalle, cinta la fronte di un diadema, porta in capo il tutulo e nei piedi i coturni lidi, finienti in punta ricurva, forma di calzamento originaria dell'Asia ‘). « Un ultimo argomento. Plutarco nella vita di Romolo, raccontando la prima vittoria riportata da Romani sui Veienti, aggiunge che ancora al suo tempo in Roma, nell’occasione di pubblici sacrifizi per ottenuta vittoria, si conduceva al Campidoglio, attraverso il Foro, un vecchio vestito di porpora e con bulla al collo , preceduto da un araldo, che gridava, Sardi da vendere, perchè gli Etruschi erano considerati come una colonia venuta da Sardi nella Lidia, e Veii era una città etrusca °). Questa notizia prova da quanti secoli fosse presso i Romani radicata la certezza, che gli Etruschi derivavano dalla Lidia. « E tale era altresì la convinzione dei Lidii e degli Etruschi stessi, i cui scrit- tori ed eruditi dovevano pur conoscere qualche cosa intorno la storia del proprio paese. Ora Tacito racconta ©), che undici città dell'Asia disputavansi l’ onore d’in- nalzare un tempio a Tiberio: nove furono lasciate in disparte e, rimaste sole Sardi e Smirne, quei di Sardi produssero un attestato rilasciato loro dagli Etruschi, nel quale erano riconosciuti come parenti: Sardiani decretum Etruriae recitavere ut con- sanquinei. « Conchiudendo: leggende, tradizioni, caricature , storia, documenti ufficiali, monumenti d’arte, tipi, costumi, tutto conferma la provenienza degli Etruschi dal- l'Asia: Tuscos Asia sibi vindicat ") ». 1) Monum. Istit. Archeol., 1861, tav. LIX. 2) Valer. Max. II, 1, 2;— Isidor. Orég. XX, 11-9: apud veteres Romanos non erat usus accubandi, unde et consedere dicebant. Postea ut Varro ait de vita populi Romani, viri discum- bere caeperunt, mulieres sedere, quia turpis visus est in muliere accubitus. Cfr. Marquardt, Rom. privat. Alt. I, p. 308. 3) Monum. Istit. Archeol., 1883, tav. LV, LVI, p. 194-200; cfr. Ammali, 1884, p. 14. 4) Mittheilung. d. deutsch. arch. Institut. in Athen., II, p. 460, n. 1. 3) Plutarco, Romolo, XXXIII; Festo sub. v. Sardi, Turrhenos. 9) Annali, lib. IV, c. 55. 7) Brizio, La provenienza degli Etruschi, p. 124-29. ATTI — Vol. II. — Serie 2° — N° 9. 6 — Md Aggiungerò a tali ragioni addotte dal ch. prof. Brizio un’altra considerazione dedotta dalla religione professata dagli Etruschi, la quale, spoglia di alcune Deità che vi s'erano introdotte da’ Panteon greco e latino, ci apparisce riboccante di quelle credenze e di que’ riti misteriosi, che formavano il fondo delle religioni orientali, tutte concordate alle mire occulte di una forte costituzione teocratica. Ciò che mag- giormente caratterizzava quella religione era la persuasione, che nel seno del mondo reale, e in comunicazione con esso esistesse un mondo di spiriti invisibili che si ri- velavano a’ sensi sia per lampi e tuoni, sia col volo e il canto degli uccelli, sia infine con que’ mille segreti indizi, di cui la Roma imperiale e scettica conservava ancora, molti secoli dopo, la singolare venerazione. Tutto in essa era tetro e fantastico, e non d’altro si compiaceva che di miste- riosi cicli numerici, di meditazioni, di costumi sozzi e crudeli lontani tanto dal lucido razionalismo romano, quanto dalla umana e gaia idolatria de’ Greci '). Tutti cotesti indizi sulla provenienza asiatica degli Etruschi sono avvalorati an- sor più dallo studio de’crani appartenenti a quella nazione *). Il cranio etrusco non ha riscontro con nessun altro de’ crani italiani, nè con quello d’altre genti europee, Greci, Celti, Germani, Finni, Slavi. È un tipo a sè, che quando pur voglia paragonarsi con altri, potrebbe mettersi a lato del semitico (fenicio o cananeo), col quale presenta maggiori tratti di rassomiglianza. In media, è mesaticefalo con indice cefalico di 77,65; ma vi ha fra essì dolicocefali e bra- chicefali, nelle proporzioni percentuali di 20 %/, de’ primi e 25 %/ de’secondi, co- me risulta dalle misure complessive di 44 teschi studiati dal Calori ?), dallo Za- netti °) e da me ‘). La sua capacità cubica è in media 1488 cc., ma ne’ dolicocefali è molto mag- giore (1520 c. c.) che non sia ne’ brachicefali (1456 c. c.), che, sotto questo ri- spetto, si avvicinano molto a’ crani umbri. Gli altri caratteri sono: la calvaria molto più angusta nella parte anteriore che nella posteriore, con le gobbe parietali in mezzo alla metà posteriore delle ossa di questo nome; la tuberosità occipitale poco sviluppata con lievi sporgenze per gli attacchi muscolari; la fronte non molto alta, fuggente e stretta nella sua parte inferiore; le gobbe frontali ravvicinate fra loro per guisa da formarne una sola nel mezzo della fronte; le orbite grandi, tondeggianti ed inclinate in basso verso l’ esterno; la radice del naso depressa; le ossa nasali lunghe , alte e strette; l’ arcata dentaria parabolica; la mascella superiore legger- mente prognata, la inferiore triangolare; il ramo ascendente poco elevato; la faccia . non molto alta, slargata trasversalmente nella linea corrispondente a’ zigomi. Fra questi crani, come abbiam detto, spesseggia anche la forma brachicefala , 4) Mommsen, Rom. Geschich., I, 117. °) Il primo che facesse oggetto di studio il cranio etrusco fu il mio amico carissimo, A. Gar- bigletti, in quella sua ben nota memoria: Brevi cenni intorno ad un cranio etrusco, pubblicata in Torino nel 1841; quindi il Maggiorani in due pregiate pubblicazioni, — Saggio di studi cra- niologici suli’antica stirpe romana e sulla etrusca. Roma 1858, 4°.— Nuovo Saggio di studi cranio- logici sull’antica stirpe romana e sull'etrusca. Roma 1864, 4°, °) Della stirpe che ha popolata l'antica Necropoli alla Certosa di Bologna, ete., p. 96-127. 1) Studi sui Crani etruschi. Firenze, 1871. °) Antropologia dell’ Etruria; nelle Mem. della R. Accad. delle Scienze di Napoli, 1869. A nella proporzione del 25 per ‘/; e la presenza di questa forma ci fa giudicare, che gli Etruschi fossero una razza mista; e però avendo osservato, come al pari di me l'hanno osservato antropologi di alta riputazione, che più che a qualunque altro tipo il cranio etrusco si avvicini al tipo semitico '), io sarei indotto a credere che questo fosse stato il fondamentale della razza, e che ad esso di poi si fosse asso- ciato un tipo brachicefalo che ne modificava in parte le forme originarie , sicchè, in conchiusione gli Etruschi sarebbero stato un popolo semitico al quale si sarebbe commisto un altro popolo di origine turanica ?). Oggi l'antico cranio etrusco non è raro ad incontrarsi in Toscana e in quelle della Liguria e della Provincia Romana che furono soggette al dominio rasenico; ma il tipo generale che predomina in quella parte d’ Italia ha già una forma che non si allontana guari da quella degli altri italici da’ quali è circondata. È tuttora mesati- cefalo, ma con proporzione maggiore di brachicefali, che dal 25 per %/, che erano ne- gli Etruschi antichi, raggiungono ora il 37 per °/ °). Vere teste etrusche esistono adunque anche oggi in Toscana, e chi si faccia a visitarne i paesi, sopratutto i contadi lontani da’ centri maggiori, vi troverà tipi somigliantissimi a quelli che si vedono effigiati nelle tombe etrusche, nelle terrecotte, e ne monumenti scolpiti in marmo o fusi in bronzo di quella celebre nazione *). Il più grande de’ poeti italiani, Dante Alighieri, nella forma del suo cranio, era un di- !') Il Maggiorani, nel suo primo Saggio sulla stirpe romana e sulla etrusca, p.5, aveva espresso il medesimo concetto: « È degno di osservazione, egli dice, come le forme etrusche e spe- « cialmente quelle che si riferiscono all'alta inserzione del naso, all’addentrarsi della sua radice, < alla prominenza delle ossa nasali si ritrovino cospicuamente nella stirpe israelitica ».—Pruner- Bey non esita a collocare in una stessa categoria i crani etruschi e i crani fenici ( Résultats de Craniometrie,— Mém. de la Soc. d’ Anthropol. de Paris, t. II, p. 182), e gli autori de’ Crania Ethnica non si allontanano punto da questa opinione: « S’il nous était permis (essi dicono) d’ émettre un « jugement sur les affinités ethniques des anciens Phéniciens è l’aide des seules tètes exhumées « par M. d’Herisson à Utique, nous n’ hésitérions point à les placer à peu de distance des Etrus- « ques, dont ces pièces reproduisent très-exactement les formes céphaliques, et exagèrent quelque « peu les traits », p. 502. — Finalmente il Calori a questa opinione aggiunge il peso della sua in- contestata autorità. « Qualora io fossi costretto (scrive l'illustre prof. di Bologna) a recare in mezzo «una congettura intorno alla gente più civile che si soprappose alle già stanziate in Etruria, e «le soggiogò facendo la nazione e la civiltà etrusca, considerati i confronti che questa ci ha di < preferenza dimostrati coll’ Egitto e coll’oriente, io propenderei a credere che fossero stati quei « solennissimi propagatori della civiltà egiziana ed orientale, specialmente assiria, i Fenici o Cananei « che vogliansi dire, i quali, benchè Semiti di favella, erano però Camiti, od un misto di entram- « bi »; e più innanzi: « Se fra i crani etruschi e quelli degli Ebrei, Egizi, Sardi hanno non poche « differenze, hanno non ostante delle analogie le quali, come si è veduto, non sono certo prive « di importanza. Son elleno poi camitiche e semitiche, e questa loro mista natura favorirebbe l’o- « pinione dell'origine fenicia, e fenico-egizia. Ma non ci è dato di poter nulla stabilire con sicu- «rezza», p. 121 ». 2) È nota nelle Storie d'Oriente la parte che han preso i Turanici nelle Rivoluzioni politiche dell’ Asia Orientale. Ved. Maspero, Histoire ancienne des peuples de l'Orient. Paris 1884. 9) Riccardi, Saggio di alcuni studi intorno ai crani delia Toscana. "Torino 1878. 4) Ved. le Tav. XLIV, LX, LXV, LXVIII, CVI-VIII dell’ Atlante che accompagna la Storia degli antichi popoli italiani del Micali,—i Monumenti etruschi pubblicati dall’Inghirami, Firen- ze 1821-26, ei vari monumenti editi nelle pubblicazioni dell’Istituto archeologico germanico in Roma. i * fl scendente degli Etruschi, bench’ei si dicesse propagine de’nobilissimi Frangipane di Roma '). Tale era anche il gentile poeta Che Amore in Grecia nudo e nudo in Roma D'un velo candidissimo adornando Ripose in grembo a Venere celeste *). Il suo cranio, studiato dal Canestrini, era squisitamente dolicocefalo , e l’ indice cefalico rappresentato da 74,04 *). Ma a fine di meglio distinguere questo antico tipo etrusco, e rilevare la so- miglianza che esso presenta con alcune sembianze de’ Toscani di oggidì, riferirò in parte le stesse parole che, parecchi anni or sono, io scrissi intorno allo stesso argomento ‘). Il tipo etrusco, osservabile in tutte le rappresentanze plastiche e figurate del- l’Etruria, si riassume in un viso di moderata altezza, in una fronte alquanto pro- minente nel mezzo, mediocremente alta, ma stretta nella parte inferiore al di sopra degli archi sopraccigliari, in occhi grandi e bene aperti, nel naso alto, sovente aqui- lino, ne’ pomelli delle gote un po'sporgenti °), in una bocca moderatamente grande, labbra sottili e mento aguzzo, e nella base della mascella, molto obliqua dagli an- goli al mento °). Nelle proporzioni delle varie parti del corpo fra loro non ravvisi, è vero, quel- l'armonia onde sono ammirabili i capolavori dell’arte greca ed italica, perocchè il ') Nel XV Canto dell'Inferno, egli, riputandosi di sangue romano, fa intimare a’ Fiorentini dal suo avolo Cacciaguida, che rispettassero la progenie che discendeva da’ suoi nobili lombi: Faccian le bestie Fiesolane strame Di lor medesme, e non tocchin la pianta, Se alcuna sorge ancor dal lor letame, , In cui riviva la semente santa Di que’ Roman, che vi rimaser, quando Fu fatto il nido di malizia tanta. Sul cranio di Dante ved. Nicolucci, Il cranio di Dante Alighieri, lettera all’ illustre antropo- logo F. Bruner-Bey. Napoli, 1866. ?) Foscolo, Sepolcri, v. 176, e seq. ?) G. Canestrini, Le ossa di Francesco Petrarca. Padova 1874, 4°. 4) Antropologia dell’ Etruria, pag. 54-58. 5) Ho misurato in alcune teste di terracotta e in alcune figure soprapposte a sarcofaghi, nel Putto in bronzo di Tarquinia e nel Puttino parimenti in bronzo di Perugia, nel Museo Vaticano di Roma, i due diametri frontale inferiore ed interzigomatico, ed ho trovato che corrispondono fra loro nella proporzione del primo col secondo, come 100: 106.— Ne’ crani etruschi quella proporzione è come 100:108; ne’ crani romani cone 100:92. — Insisto sopra questo carattere, perchè è uno dei più distintivi della Razza etrusca. *) Anche propria degli Etruschi, perchè comune a tutte le teste che ho avuto opportunità di misurare, è la particolarità della inclinazione della mascella inferiore. Essa dipende dalla grande apertura dell’angolo mascellare esterno, e dalla brevità del ramo ascendente della mandibola. L’an- golo mascellare che nel cranio romano è 100-120; nell’ Etrusco è di 125-150 gradi. —L’altezza del ramo ascendente della mandibola nel cranio etrusco, in confronto del romano, è come 83 a 100, ia tronco è alquanto lungo , e troppo brevi e robuste le membra superiori ed infe- riori, ma nondimeno le forme non mancano di una certa venustà ed avvenenza, e forse non a torto Teopompo diceva essere i giovanetti etruschi ewimiae pulchritudinis, e le donne nimirum in modum formosas, perchè anche allora, com’oggi, alle doti di una benigna nalura sapevano le Toscane congiungere la grazia e la gentilezza delle maniere ‘). Quanto al colore degli occhi i monumenti ci mostrano essere stati sempre neri, rarissimamente azzurri, come nelle figure di un Ipogeo scoperto presso Viterbo, in cui gli occhi erano coloriti in turchino *). Neri sono in una figura giacente sul co- perchio di un sepolcro di Chiusi *); neri nelle pitture di Tarquinia, di Vulci e di Chiusi. I capelli non sempre neri, ma talora castagni, e qualche volta biondi come in alcune figure muliebri di Tarquinia; ma qui osserva l’Helbig ‘) sembra che il biondo esprimesse più un effetto di luce, che non il vero colore de’capelli che nella testa sono brunastri, mentre sono biondi o rossastri i ricci che pendono e volano dietro il capo. La tinta delle carni nelle pitture era tutta convenzionale. Raramente facevano distinzione fra il colore dell’uomo e quello della donna. Nelle pitture di Chiusi e di Tarquinia uomini e donne sono rappresentati di color mattone, ma vi ha pure delle figure muliebri che sono distinte per bianca carnagione; insomma i colori d’ ordi- nario variavano a capriccio dell'artista. Nelle pitture vulcenti, le più finite delle pit- ture murali etrusche che si conoscano, le carni di ambo i sessi sono rossastre, ma in molte donne anche bianche, e in altre di una tinta che si avvicina al vero in- carnato, ed allora il colore delle guance muliebri è rappresentato da una viva tinta rosea sparsa sulle gote. Bellissime sono queste figure vulcenti , nelle quali predo- mina un certo idealismo greco, e la mano che le dipinse sapeva già rendere mae- strevolmente l'insieme della persona armonico ed elegante. Nelle pitture più antiche al contrario, come quelle di Cere, e le arcaiche di Chiusi e di Tarquinia, il dise- gno, benchè esatto e preciso, è molto più semplice. Le persone sono robuste e qua- drate così nel tronco come nelle estremità, le forme corrispondono meglio alla realtà, e l'impronta di quelle figure offre un carattere veramente nazionale ?). *) Apud Athaeneum, lib. XII, cap. 3. 2) Orioli, Ipogeo etrusco presso Viterbo. Bullett. dell Istituto di Corrisp. Archeol., 1850, pag. 30, ®) Fabretti, G/ossarium Italicum, p. 108. 4) Bullett. Istit. di Corrisp. archeolog., 1863, p. 108. 5) Ibid. ibid.—Brunn, Pitture etrusche negli Annali dell'Istituto Archeol., 1886, tav. XXXVI. Anche il Micali aveva notato, che nei monumenti arcaici dell’ Etruria le fisonomie vi sono nazio- nali e quasi diremmo per lo più locali e provinciali; quel tipo insomma che immutabile si è con- servato in natura, e si riproduce ancora al tempo nostro. Op. cit. Cap. XXV. — UR $ VIL — I Magno-GRECI. Uno de’ falti più certi dell’antica Storia è che i Greci occuparono molta parte del- l’Italia meridionale, benchè il tempo, l'occasione, il modo della lor venuta fossero tuttora involti in grande oscurità. La prima loro colonia si tiene essere stata quella dedotta, circa undici secoli prima dell’ Era volgare, da’Calcidesi dell’ Eubea, i quali, approdati dapprima alle Isole ed alle rive della Campania, fondarono Cuma, e quindi, estendendosi largamente all’intorno , diedero principio a Dicearchia (Pozzuoli) ed a Partenope o Paleopoli ‘). Altri Calcidesi, congiunti ad Eretrii, si volsero all'Isola di Pitecusa (oggi Ischia), e vi si mantennero in prospero stato infino a che per le eruzioni dell’ardente Epomeo, non furono costretti ad allontanarsene e riparare in Terraferma, ove si unirono ai loro fratelli di Partenope in alloggiamenti continui, ma più prossimi al mare *). Così, per opera de’ Cumei surse Neapoli, o la città nuova, la quale accre- sciutasi col tempo con altri coloni venuti da Atene, e divenuta essa stessa ateniese, oscurò il nome della vecchia città, e divenne un gran centro che racchiudeva nel suo recinto il piano dell’abitato. Tre secoli decorsero prima che nuovi coloni si fossero stabiliti in altre parti del Continente ed in Sicilia, ma dopo quell’epoca la tendenza del colonizzamento greco in Italia cominciò ad assumere una proporzione inusitata. La Calcide, Corinto, Megara, Sparta, gli Achei del Peloponneso, tutti concorsero , più o meno, in quella grande e memorabile impresa. Si fondarono sul Mar Tirreno, Terina, Medma, Posidonia, Reg- gio, ed altre città, e sul Jonio furono occupate tutte le coste, che dal Capo dell’Armi si estendono fino alla parte più settentrionale del golfo di Taranto. Quivi, per opera de’ Greci, sursero a grande potenza e splendore Locri, Caulonia, Scillazio , Crotone, Sibari, Turio, Siri, Eraclea, Metaponto, Taranto ed altre città famose, che per la grande prosperità che raggiunsero l’ antichità unanime diede a quella parte d’Italia il titolo fastoso di Magna Grecia °). Tutte coteste colonie formavano otto repubbliche, alle quali dava il titolo la città più insigne di ciascuna, e le regioni appartenenti ad ognuna di quelle repubbliche si dissero Reggina, Locride, Scilletica, Crotoniade, Sibaritica o Turina, Siritide o Era- cleotide, Metapontina e Tarentina, le quali tutt'insieme si distendevano pel versante orientale degli Appennini, sulle coste e sui seni Scillacio e Tarentino fino ai campi Sallentini ‘). Oltre di quelle possessioni tenevano i Greci sull’Adriatico alcuni luoghi fra il capo di Leuca e il promontorio Gargano , ed una colonia egualmente prospera in Ancona che i Siracusani più tardi vi dedussero all’epoca di Dionigi. Nel medesimo tempo che si fondavano i primi stabilimenti greci dell’Italia conti- ') Tucidide, VI, 4. — Dionigi, VII, 3. — Strabone, V, 4. — Velleio Patercolo, I, 4. ?) Paleopolis fuit hand procul inde ubi nunc Neapolis est; duabus urbibus populus habita- bat. Livio, VIII, 22. ?) Ipsi de ea (Italia ) iudicavere Graeci, genus in gloriam effusissimum, quotam partem ex ea appellando Graeciam Magnam. Plinio, H. N., III, 5. 4) Mazzocchi, Comm. în Tab. Heracl., Diatrib., I. Mi nentale, le coste orientali della Sicilia si popolavano anch'esse di colonie della mede- sima gente, le quali si posero prima in Nasso (736 av. G. C.) presso all’ odierna Taor- mina ed in Siracusa, quindi si diramarono in altri luoghi, e dettero principio (fra il 728 e 580 av. G. C.) a Catania, Leontini, Zancle, detta più tardi Messina, Mile, Imera, Tapso, Megara, Gela, Acre, Enna, Casmene, Eloro, Noto, Selinunte, Camarina ed Agrigento ‘). i Tutte le stirpi greche erano rappresentate in quelle colonie ; la dorica in Taranto, Locri, Siracusa, Acre, Casmene, Camarina, Megara, Tapso, Gela, Agrigento; l’achea ip Sibari, Turio, Metaponto, Crotone, Lao, Terina, Posidonia, Caulonia, Pandosia ; la calcidica, e quindi ionica, in Cuma, Paleopoli, Reggio, Elea, Scillazio, Siri, Zancle, Nasso, Catania, Leontini, Imera , Mile, Callipoli, Eubea. La stirpe Achea era più po- tente in Italia, le altre due in Sicilia ove i Dori tennero in Siracusa e in Agrigento le città più illustri ed insigni dell'Isola °). Come prima quei coloni comparvero nelle nostre coste, ogni qualunque lingua di terra, o seno di mare o foce di fiume, luoghi allora deserti, bastava loro a prender porto ed afferrare al lido. Erano il più delle volte giovani scapoli, senza famiglia, di fiero coraggio adorni e di spirito indomito, i quali come prima si erano collocati in sulle spiagge, si davan opera a porvi stabilmente le loro dimore. Dietro que’ primi occupatori altre bande di Greci con le loro famiglie emigravano verso que’ luoghi ove potevasi ottenere un largo spazio di fertile terreno, e vi erano accolte volentieri , ben- chè non fossero ammesse nell’istessa egualità di diritti de’ primi venuti, onde le colonie crebbero straordinariamente, e in breve tempo, di popolazione, e salirono ad alto grado di potenza e di ricchezze. Mutue relazioni si stabilirono tra esse e gl indigeni, che d’ordinario vivevano ri- stretti nelle alture e per le valli interne del grande Apennino ; e come i Greci anda- vano progredendo nella propria civiltà ed umanità, così parimenti se ne spargevano i semi in mezzo agli Italici che si elevarono anch'essi a prospero e felice stato. Le città che i Greci edificarono divennero non solamente centri politici, ma focolari de’ più di- lettevoli studi, della letteratura e delle arti. Taranto divenne sì grande in meno di un secolo per l’alta sapienza e l’accorgimento politico di Archita; Locri si rese famosa per l’autorità ed il senno di Zaleuco suo legislatore. La prosperità di Reggio e d’altre ciltà calcidiche ebbe un fondamento nulla meno durevole e glorioso nelle leggi di Caronda; Elea, o Velia, dovette a Parmenide le sue ottime leggi, ma i Pitagorici soprattutto, il cui istituto moveva da un principio religioso e insieme politico, ebbero seriamente più che altri il merito di concorrere alla fortuna della loro patria, unendovi la potenza col senno. Onde per opera loro, rigeneratasi Crotone, indi ogni altra città degli Achei, sa- lirono in quell’ altezza che a tutti è palese. Ugualmente Sibari, nel suo primo vigore cittadinesco, era pervenuta in poco più di un secolo a tale abbondanza di beni, che su- perava di fatto in dominio, in forza militare e in dovizie tulte le altre colonie greche a « Frutto d’energia, d’utili traffici e di belle imprese erano quelle dovizie. Taranto 1) Erodoto, VII, 153. — Tucidide, VI, 4, 5. — Scimno de Chio, Descersptio ord. terr. 264-297. — M. Amari, nell'Apperdice al vol. II dell'Archivio Storico Italiano. 2) Heyne, Opuscula Academica, Gòtting. 1787, vol. 2°. ®) Micali, Storia cit., I, p. 326. Rn e Crotone crebbero a un modo abbondantissime sì per commercio extramarini come per la frequentazione dei naviganti nei loro sicuri e capaci porti. E al pari di quelle Sibari, Reggio, Caulonia, Pandosia, Metaponto, e generalmente parlando le città più felici, partecipavano largamente de’ medesimi vantaggi della lieta situazione e del commercio forestiero, che s'estendeva per l’Egeo infino alla riviera della [Jonia. Mostrano in ef- fetti i tipi varialissimi delle medaglie quanto ciascun di loro avesse in grande onore la navigazione, il commercio e l'agricoltura *). Per la quale specialmente, moltissimi luo- ghi maremmani ed incolti furono dagli industriosi coloni ridotti in perfetti campi. Così le terre d’intorno Sibari, già paludose ed acquose, si vuole che rendessero il cento per uno. I Metapontini divennero opulentissimi per grande abbondanza di biade, e per lo studio che presero all’ arte agraria; arte maestrevolmente insegnata da’ Pitagorici: e veramenle per le cure de’ Greci l’agricoltura nella meridionale Italia s'arricchì di nuove piante e di frulti non meno graditi che salutari. La vite biblina, preziosissima, origina- ria di Nasso, fu di colà trasportata nel territorio d’ Eraclea, indi in Sicilia. Dall’Asia vennero i primi platani, e similmente il cipresso, nativo di Creta e dell’ Isole dell’Arci- pelago, si coltivò per la prima volta a Taranto. Oltracciò la pastorizia era per gli Italioti un’altra sorgente copiosa di ricchezze, dacchè massimamente i Tarantini con arte in- dustriosa ottennero dalle loro greggi quella lana finissima detta italica, uguale in pregio al vello di Mileto. Per tante industrie adunque, e per subiti guadagni, non è maravi- glia se l’opulenza mirando a nuovi godimenti fece nascere e prosperare in quelle repub- bliche le nobili arti, che diedero loro tanta gloria, mentre malauguratamente sete di maggior dominio, e brame disordinale, le riempirono al di dentro, chi più, chi meno, di passioni ingiuste e crudeli, che furono la prima e più potente cagione della loro rui- na °) ». Le rivalità surte fra le varie repubbliche suscitarono fra loro guerre le più disumane. Sibari, attaccata da’ Crotoniani, fu rasa al suolo, e la rovina di questa città, probabilmente diffamata male a proposito, certamente oltre misura , fu la prima ferita incurabile della Magna-Grecia. Sopraggiunsero a questo infortunio le sanguinose rivo- luzioni tra cui si spense Crotone ; e quando Dionigi entrò in Italia come conquistatore ed avido di vendetta non v' ebbe più nè misura, nè termine, nè riposo alle calamità e alle miserie. D’allora in poi, secondo l’espressione di un autor greco, parve che il flusso e riflusso sospingesse le sventurate città della Magna Grecia alternativamente dinanzi a Lucani, ai Bruzi e ai tiranni di Siracusa per offrirle alla loro funesta protezione; ma dopo le guerre annibaliche si trovarono finalmente ridotte a tale stato di decadenza, che della loro antica fortuna non conservavano più che il nome vano °). 1) Insegna la copiosa numismatica della Magna Grecia quali fossero i sentimenti predominanti del popolo. Cerere, Nettuno, Mercurio, il bue, le spighe, i granelli di frumento, le ancore, i rostri, le navi, il corno d'Amaltea, ecc, sono tanti simboli significativi ed evidenti. ?) Micali, p. 327-8. ®) La misera condizione de’ Greci sotto l’intollerabile giogo de’ conquistatori si vede riferita con senso di duolo dal dotto discepolo di Aristotile (Aristoen. apud Athen., XII, 7), il quale narrò che ai tempi suoi gli antichi coloni di Pesto, avendo perduta la lingua e i gentili costumi, non celebravano che una sola festa nell’anno per rammemorare i cari nomi e le usanze della Grecia, confondendo insieme le lagrime. — Micali, L'Italia av. il dominio de' Romani, II, 138.— E Cicerone, nel suo Dialogo dell'amicizia fa dire a Lelio: Nunc quidem (Graecia Magna) de- leta est, tum florebat. — Seneca, Consolat. ad Helvet., 6. — Valerio Massimo, VII, 7. ts DI Il tempo fece il resto. L'abbandono delle terre, lo straripamento de’ fiumi, le im- provvise inondazioni, i commovimenti del suolo resero selvaggio e deserto il paese, ed a gran pena, a’ tempi di Strabone, si potevano distinguere le vestigia dell’antico stato. Però se la Magna-Grecia sì spense, se le sue città scomparvero, se i suoi monu- menti perirono, la sua fama presso ogni animo gentile dura e durerà quanto il mondo lontana. Le necessità che tendevano di continuo ad avvicinare scambievolmente gli Itali e i Greci fecero sì che presso i nativi dell’ antico Bruzio, della Lucania e della Calabria si ritrovino anch’oggi permanevoli alcuni usi popolari che han contrassegni di for- me, creanze e modi ellenici. E oltre che, molte apparenti tracce di superstizioni gen- tilesche e di vecchie usanze si scovrono ovunque nelle maniere, nell’acconciatura e nelle mode dell’altro sesso. Un certo vivissimo trasporto pe’ piaceri de’ sensi, una forte passione per la danza e il canto posson dirsi generalmente predominanti ne’ Calabre- si ‘). « L’acceso ballo pugliese, detto della Tarantella, vien creduto da alcuni, con molta verosimiglianza, un avanzo degli antichi Baccanali; tanto le femmine ammae- strate in quell’intertenimento strano, sembrano realmente, ne’ capegli scompigliati ad arte, e nei movimenti tutti della testa e della persona, imitatrici di furiose baccanti?) ». I dialetti che usarono i Greci-Italici, a motivo della loro differente schiatta, furono il dorico e l’eolico: ma perchè que’ due parlari si confondevano fra loro, la piacevole rusticità del primo si fece predominante tra gli Italioti ed i vicini Siciliani. Con tuttoc- ciò, il dorico di largo suono che parlavasi nella Magna-Grecia, vi formò un linguaggio speciale, in cui si notavano certe voci peculiari #) e maniere proprie di favellare e di scrivere alquanto dissimili dagli altri dialetti dell’ Ellenica #). La lingua osca era non pertanto l’idioma volgare de’ popoli italici che circondavano da ogni parte i Greci, an- corchè la necessità di mantener con questi relazioni religiose, civili e domestiche in- troducesse appo loro egualmente l’uso della greca, come mostrano in ispecie le mo- nete de’ Bruzi e Mamerlini segnate con lettere greche, e come si nota anch’oggi in parole, accenti e frasi de’vernacoli di quelle regioni 5). Bilingui furono chiamati i Bruzi stessi °) ed i Canusini ‘), col parlar che facevano que’ due idiomi, nè per altra ragione 1) Sono notabili le canzonette erotiche proprie delle Tarantine, che ritengono certe piacevo- lezze greche, anco nel metro tutto languido e blando. 2) Swinburne, Travels in the two Sicilies, t. I, p. 392. — Riedesel, Reise durch Sici- lien und Grossgriechenland, p. 251. — L’ accesa fantasia de’ Pugliesi ha potuto soltanto prestar fede a quel morbo che chiamasi tarantismo, pel quale la musica è un rimedio molto efficace. Micali, op. cit. I, 176. 3) Morszr: Ira)wsr:des dicevansi le voci proprie del dialetto usato nella Magna Grecia. Vedan- sene molte appresso Hesych. — Vegg. pure Mazzocchi, Comm. in Tab. Heracl. p. 142, nota 2. 4) V, Mazzocchi, ». $ III. — GLI ITALIANI ODIERNI. Non tutti gli elementi etnici che, al dissolversi del mondo romano s’ introdussero in Italia vi lasciarono tracce della loro presenza. I Visigoti, gli Unni, i Vandali rapi- damente comparvero, e più rapidamente ancora scomparirono. Nessun vestigio rimase degli Eruli, e degli stessi Ostrogoti vive appena qualche debole avanzo in Forlì, in Ra- venna e nella vicina Lugo ove non è raro incontrarsi in uomini che per la forte e ro- busta corporatura mal non si appone chi li giudica di origine gotica. Ben altrimenti avvenne de’ Longobardi, i quali, fondato un potente Regno nella su- periore, ed il men non forte Ducato di Benevento nella inferiore Italia, pel lungo giro di anni che durò la loro dominazione, in sì grande numero vi crebbero, che si poterono spargere sopra quasi tutte le sue Provincie. L'elemento indigeno assorbì, è vero, ed assimilò a sè quasi dappertutto quell’elemento forestiero, ma nondimeno il sangue longobardo potè contrastare in alcuni luoghi con la potenza assimilatrice degli Ita- liani, e conservare fino ad oggi alcune sue impronte che ne rivelano ancora la pre- senza in mezzo ai tipi indigeni della Penisola. Quali si fossero i caratteri etnici di quei Longobardi che occuparono l’Italia per fermo noi l’ignoriamo; ne conosciamo però la origine germanica, onde crediamo con fondamento, che il lor tipo fisico non doveva essere diverso da quello che dei Germani ci lasciarono descritto e Cesare e Tacito ed altri scrittori dell’ antichità ?). Dovevano quindi essere, nel maggior numero *), di alta taglia, di robusta muscolatura, con chiome bionde ed occhi cilestrini. E se oggi non troviamo più presso coloro, che, a parer no- stro, li rappresentano ancora in Italia, nè l'occhio azzurro, nè la chioma biondeggiante che per effetto del connubio con le stirpi italiche, son mutati nell'occhio scuro e nel capello bruneggiante degli Italiani, troviamo nondimeno persistente la statura elevata e la gagliardia delle membra che contrastano notabilmente con la generale comples- sione degli Italiani. Hanno coloro per lo più il naso alto, ma alquanto ingrossato nella punta, i pomelli delle gote un po’ sporgenti, il contorno del viso fra il tondo e il qua- drato. Tali ci si mostrano di tratto in tratto alcuni individui in Lombardia, a Monza, a Varese, nel Comasco, nel Bresciano, nel Bergamasco; tali in vari luoghi della To- scana, nel Pisano, nel Lucchese, tali ancora in quel di Benevento, nel Molise, nel Principato Citeriore, e in quel tratto della Terra di Lavoro che da Nola si estende fino alle foci del Volturno. 1) Renan, 6.c. p. 28, 24. 2) Cesare (de B. G., XIX) scrisse i Galli (Germani) essere distinti ingenti magnitude corpo- rum, e Tacito (Germania, 4) descrisse le loro membra come magna et tantum ad impetum valida. Mela, parlando de’ Germani, disse: « qui habitant Germaniam immanes sunt animis atque corpo- ribus » (Descript. Orbis, III, 3); e Columella: « Germaniam decoravit natura altissimorum homi- num exercitibus » (De re rustica, 38). Anche Vellejo fece uso quasi delle stesse parole (III, 106). ®) Per fermo non tutti coloro che presero in Italia il nome di Longobardi appartenevano alla stessa nazione. A’ veri Longobardi erano frammisti Bulgari, Gepidi, Svevi, e qualche rimasuglio d’Ostrogoti ch'erano in Italia quando vi giunse Alboino. Dea Del sangue de’ Normanni non se ne incontra traccia, o almanco traccia notabile nella più bassa parte dell’Italia, tuttochè ivi fosse stato il primo teatro delle loro im- prese nella Penisola, ma in Sicilia, come già notammo (p. 68) ve ne ha ancora qua e là più chiare vestigia, specialmente nel ceto dei Signori di cui buon numero ripete da essi la nobiltà della stirpe e le ricchezze. L'alta statura e la carnagione bianca, il ca- pello più o meno biondo, e sovente anche l'occhio azzurro ci richiamano in mente quell’antica razza normanna, ch'era la più pura e la più genuina di quante stirpi ger- maniche penetrarono mai in Italia, In Sicilia parimenti dura tuttavia, poco alterata nei suoi caratteri etnici, la di- scendenza di quei Saraceni che per lungo tempo tennero quell’isola in lor soggezione, perciocchè « a quando a quando, scrive il Maggiorani nelle sue Reminiscenze antro- pologiche della Sicilia (pag. 2), ti occorre incontrarti co’ testimoni viventi della conqui- sla saracenica, e li sembrerà di vederti a passare vicino un satellite dell’Emiro: statura alta, tinta bruna, forme snelle e sottili, profilo allungato, occhi incavati e profondi, ma neri e lucenti, bocca piccola, naso aquilino con poca impressione alla sua radice. Questi caratteri che non si accordano punto col tipo greco, nè col romano, od italico, rappre- sentano i più recenti nipoti degli Arabi, e sono ricordo perenne dell'impero che un dì i loro antenati si ebbero in quell’Isola ». Le colonie straniere piantatesi qua e là in Italia introdussero anch'esse nuovi e diversi elementi etnici fra le popolazioni della Penisola, ma quegli elementi , limitati ad alcuni soli luoghi, tendono oggimai a scomparire assorbiti ed assimilati dagli ele- menti italici che da per ogni parte li circondano ed investono. E per vero non è facile al dì d’oggi distinguere in Calabria ed in Puglia un colono greco da un genuino cala- bro o pugliese, come nel Molise un colono bulgaro da un indigeno molisino, se si ec- cettui qualche piccola borgata ove rimane tuttavia qualche avanzo immutato della im- migrazione forestiera. Dicasi lo stesso de’ Greci di Cargese in Corsica, e de’ Barbari- cini e de Maureddu dell'Isola di Sardegna , i quali, benchè numerosi, pur mescolan- dosi del continuo con gli indigeni, le loro vestigie si vanno ogni dì cancellando. Una languida vita è pur quella che vivono le colonie francesi e tedesche del Mon- terosa, e le colonie tedesche del Tirolo meridionale, de’ VII. comuni del Vicentino e dei XIII. cantoni del Veronese. Però come dura tuttavia in parte presso alcune di esse, e l’idioma francese e il parlar de’ Germani, così parimenti il tipo celtico e il teutoni- co fanno ancora di sè debole mostra in quelle alpestri contrade. Ciò non ostante l’elemento italico va sempreppiù invadendole da tutte le parti, ed è probabile che fra non molto tempo le avrà interamente sopraffatte , come già fin d’ ora ì dialetti italici ne hanno in parte alterato e sfibrato il linguaggio. Nè diversamente è avvenuto ai coloni Slavi, che a guisa di cintura si distendono sui confini orientali dell’Italia. L'elemento italo-veneto gli assimila ogni dì più a sè, e non è lontana l’ora in cui gli avrà interamente assorbiti. I soli Albanesi, che sono sparsi in tanti gruppi nel continente meridionale della Penisola nostra ed in Sicilia, sono stati fin qui restii ad ogni loro assimilazione con le popolazioni italiane. Fieri della origine loro, son sempre quelli cui la sventura della patria spingeva a cercare asilo in terra italiana. E perciò stretti fra loro non han quasi nulla perduto del tipo originario della loro schiatta, e si son sempre serbati quasi immuni da straniera mischianza, laonde anche là, nel cuore d’Italia, essi for- a mano un etznos distinto, che in tutte le sue apparenze mostra sempre vivo il robusto elemento pelasgico. In tulta Italia adunque, tranne le poche eccezioni sopra mentovate, le popolazioni odierne conservano lo stesso stampo ch’elle avevano prima che i Barbari inondassero le belle contrade. Come i tipi etnici delle Province erano allora diversi gli uni dagli altri, così parimenti oggidì ciascuna regione ha nei suoi abitanti un'impronta propria che vale a distinguerla dalle altre. Raffigurate alle fattezze conte un Veneto non è già un Toscano, nè un Piemontese un Romano, come un Romagnolo non sarà mai un Ca- labrese o un Siciliano. E perchè meglio sieno chiarite queste varietà etniche regionali della Penisola no- stra dirò: Che ne’ Veneti la statura d’ordinario è più elevata che negli altri Italiani, le membra più tondeggianti, 0, come dicono gli artisti, più pastose. Il colore della carne è tra il bianco ed il bruno, i capelli quasi sempre castagni, sovente anche biondi affatto; l’i- ride per lo più di colore oscuro, ma non di rado più o meno turchino. Gli occhi non molto grandi, il naso piuttosto corto e carnoso, il viso largo e tondeggiante co’ po- melli alquanto estesi ai lati, e la mascella un po’slargata negli angoli, sì che si trova in questa parte sulla stessa linea verticale de’ zigomi ‘). Il Piemontese ha alcun che di duro e di austero che contrasta col geniale e simpa- tico veneziano. Ha statura mezzana, braccia e gambe muscolose e forti; il suo colore è più bruno che bianco, i capelli rari, presto caduchi, spesso castagni, raramente bion- di; gli occhi ne’ più grigio-verdastri, grandi ed aperti, la fronte alta, retta, spaziosa, il naso alcun po’ carnoso, le labbra per lo più sottili, e il viso più volgente al quadro che non al tondo od all’ovale. In Toscana si veggono ancora fisonomie che ricordano l’etrusca antica, e, in ge- nerale, tutta quella regione serba fino al dì d'oggi una lontana impronta del tipo rase- nico. Sono i Toscani, per lo più di mezzana statura, ma gli uomini alti neppure vi scar- seggiano. Brunetta n'è la tinta delle carni, e i capelli perloppiù scuri, gli occhi neri, 1) Il tipo veneto è stupendamente rappresentato dal Tiziano nel ritratto conosciuto sotto il nome di Flora, esistente nella Tribuna della Galleria degli Uffizi di Firenze. Proverbiale fra i Veneti poi è la bellezza delle donne di Chioggia, ove spesso recavasi il Tiziano per cercarvi i tipi delle Madonne, delle Veneri e degli uomini caratteristici delle sue tele immortali. Il popolo ve- neziano ne fa l'elogio ne’ suoi canti; e la Luigia Codemi, in uno slancio di fervida fantasia, così ne scriveva: « Poveri accademici di un tempo!— perchè ora speriamo che non ve ne sieno più... e mandavate a studiare le Agrippine e le Giulie de’ Musei!... Qua sono l’aure primitive della grande arte! E voi, stupidi copiatori delle fogge d’oltremonti, guardate le severe bellezze di queste Chioggiotte! Val proprio la pena di prodigare milioni per far venire con altre merci pu- tride le caricature di là, quando v’ ha modelli simili in casa ». Uno de’ canti chioggiotti ripor- tato dal Garlati (Chioggia e i suoi canti, Venezia, 1885) così ne favella: So sta a Chioza e ò visto le Chiozote; Le xe più bele de le Sempierote. Le Sempierote porta el busto tondo, E le Chiozote porta el fior del mondo. Loi raramente azzurri, grandi e largamente aperti, la faccia ovale, leggermente slargata sulla linea de’ pomelli ; il naso alto, retto, profilato, le labbra delicate, il mento al- quanto aguzzo, lo sguardo dolce ed espressivo, specialmente nelle donne, che per lo più son graziose e piacenti ‘). Diverso dal veneto, dal piemontese e dal toscano è il tipo umbro che si estende per tutta l’ Emilia, l'Umbria propria e le Marche. « La figura di questo tipo suol essere bella. Robustezza e muscolosità a snellezza congiungonsi. Non mancano le membra grosse e gli uomini tarchiati, ma non ne è il vero carattere. Sono or mezzani di sta- tura, ora un poco più alti e ben proporzionati fra gli arti, massime inferiori, ed il tron- co: di carnagione pendente piuttosto al bruno con negra capigliatura; negli occhi assai belli e intelligenti; tutta la fisonomia pur tale ed aggradevole. Le donne molto graziose e piacenti, lodate per negri occhi oltre dir leggiadrissimi ; assai accorte e versute: madri più che mogli incomparabili °). Il tipo romano non ha subîto, pel volger de’ secoli, la benchè minima variazione, Roma stette sempre salda contro i Barbari. Il dominio di Odoacre, di Teodorico e degli altri re Goti e Longobardi non le tolsero l'abito di regina, e ben oggi ella può vantarsi di non essere mai (in omne evum) caduta sotto la potestà de’Barbari. Quali erano i Ro- mani al tempo della repubblica, tali si mantennero nell’epoca imperiale e si conserva- rono nel generale rimescolamento delle razze di Europa nel Medio Evo, e tali si mo- strano anch’oggi nella loro verginale natura. « Non debbono però cercarsi in Roma questi tipi nelle classi elevate della Società, o ne’ Rioni più frequentati da’ forestieri, ma sì in quelli abitati principalmente da’ po- polani °), e nelle altre contrade del Lazio fra le genti di contado, che sono rimaste DI ') Bel tipo della donna toscana è il ritratto così ben noto della Mona Lisa di Lionardo, » [[897 | 880 | 884/487 | 480 | 484||843 | 848 | 846 || Mesoce-|| Brachi- || Ipsice- || Orto- || Mega- || Meso- || Camepr falo cefalo falo gnato || semo rino || sopo Piemonte 1502|1313|1408]| 850 | 849 | 850 ]|786 | 768 | 777 || 942 | 946 | 945|[894 | 879 | 887 || 490 | 485 | 488/869 | 869 | 869 id. id. id. id, id, id. id. Veneto I403l # (G»_G23it » (xel770) » (> | » | ». |.» ||656] » | » |1476]-» |<» |[867} » | » id. id. id. id. id. | id. | id. Lombardia ||r473|1270|1372]|826 | 828 | 827 || 740/739 | 740|| 949 | 937 | 943||878 | 871 | 875 || 496 | 492 | 494|[949 | 951 | 950 id. id. Ortoce-|| id. id. id, e Emilia 1494|1289/1392|[825 | 821 | 824|[740 | 742 | 741 || 944 | 937 | 941 ||892 | 900 | 896 (1492 | 476 | 484 ||960 | 962 | 961|| id. id. ia id. id. id. | pia Ma isor| » | > |{827| » | » {{739| » [ » || » | >» | » |[gro] » | » |[488| » | » [[g60] » | » id, id. id. id. id. {Lepto-|| id. Toscana 1503|1296|1400]| 787 | 788 | 7881740 | 738 | 739||976 | 984 | 980 || 962 | 964 | 963 [1473 | 472 | 473|{875|879|877]|| id. ||Mesati-|| id. id. id. Has || Camepr Lazio 1513|1302|1413]|782 | 782 | 782|1731|738|735|[946 | 950 | 948 || 971 | 976 | 974/473 | 469 | 4661970] 972 |971|| id. tu id. id. id. a lLeptop: Campania 1503|1295|1400]| 780 | 782 | 781||732 | 736 | 734|[963 | 962 | 963||978 | 972 | 975 || 471 | 453 | 462|[969 | 971 | 970 id, id. id. id. id. || id. | ja Beneventano ||1503|1289|1396|780 | 781 | 781/1736 | 734 | 735[[968 | 966 | 967 || 970 | 973 | 972 || 472! 473 | 475{{963| 966 | 965|| id. id. id. id. id. | i | ia. Avellinese ||r494|1293|1399||776 | 779 | 778|1736|735|736]||964| 961|963|[977 | 975 |976]||472 | 473|473]|964|964|964] id. id. id. id. i || id id. Salernitano ||1r486|1284|1385]|776|778|777]||733|737|735]||967 | 965 | 966 [970 | 972 | 971||471 | 470 | 471|[966 | 950 | 958|| id. id. id. id. id. id, id. Molise 1491|1290|1391||777 | 764 | 772|1736 | 736 | 736968 | g70 | 969 ||973| 975 | 974||472 | 470 | 471||958|952|956| id. id. id. id. id. | a la Abruzzi 1498|1290|1394]| 773 | 765 | 7691735 | 735 |735||966 | 964 | 965 ||966 | 970 | 968 || 471 | 473 | 472 [902 | 961 | 962 id. id. id. id. id. | id. | id. Puglie 1496|1279|1388|| 768 | 752 | 760||720|727|728||950|9g1|951]||968 | 974|971]||468|476 | 472 ||968 | 962 | 964 id. id. id. || id. id. | Lepto- | id. Basilicata ||1484|1272[1378]|749|739|744]725|723|724]||946|952|949]||972 | 962 | 9671470 | 464 | 4671965955 |960| id. {Dolico-| id. | id. id. | ia. | id. Calabrie ||1492|1273|1383]|743| 744 | 744||723 | 724|724||948| 952 | 950|[972 | 974|773]||470 | 476|473||968|970|969]| id. ca id. id. id. | id. | id. Sicilia 1489|1297|1393]|737 | 734 | 736||745 | 745 | 745|[967 | 971 | 969||976 | 984 | 980||470 | 477 | 474||970 | 966 | 968|| id. id. id. id. id, | id. | id. Sardegna 1438|1262|1350]| 742 | 736 | 738||712| 718 | 715 ||968 | 964 | 966 || 982 | 989 | 986 || 470 | 467 | 469 || 967 | 962 | 965 id, id. id. id. id. id. id. Cl e ln e PED DO0A SE SRI SE | Medie generali |1491|1287|1389]| 788 | 774 | 781 ||740 | 736 | 7381[958 | 958 | 958 ||946 | 952 | 949 || 476 | 474 | 475 || 943 | 945 | 944 | — 107 — Proporzione percentuale de’tipi craniali dolico-meso-brachicefali col numero relativo della popolazione nelle diverse regioni d’Italia '). Totale della popolazione della regione Dolico- | Mesati- | Brachi- ||N.° de’ dolico-|N.° de’ mesati-| N.° de’ brachi- cefali cefali cefali cefali cefali cefali Regione Piemonte e Liguria | 2,88 | 19,65 | 77,47 123,931 786,352 3,161,437 4,071,720 Veneto 375.0 10,1 | 77,19 107,021 551,260 | 2,226,389 2,884,670 Lombardia 5,56 | 24,35 | 70,09 208,164 809,653 2,726,140 3,743,957 Emilia 5 20 68 111,521 602,215 1,516,691 2,230,427 Umbria e Marche 4,67 | 27 68,33 72,148 AI7,122 1,055,652 1,544,932 Toscana LX, 00 | GHy12 || 37 269,192 | 1,558,343 838,392 2,265,927 Lazio 24,26 | 45,57 | 30,17 204,382 333,914 254,173 842,469 Campania 17,32 | 44:92 | 37,76 291,992 757,293 636,583 1,685,368 Beneventano 27,06 | 45,30 | 27,64 65,716 110,013 67,124 242,853 Avellinese 30,09 | 46,79 | 23,12 120,559 187,472 92,633 400,664 | Salernitano 29,25 | 47,67 | 23,08 169,916 276,918 134,073 580,907 Molise 30 48,44 | 21,56 112,767 182,079 81,041 375,887 Abruzzi 38,59 | 42,01 | 19,40 300,200 529,488 210,240 1,039,898 Puglie 31,78 | 46,88 | 21,34 500,231 737,911 335,901 1,574,043 Basilicata 81,23 | 14,48 4,29 442,889 78,949 23,390 545,228 Calabrie 64,71 | 25,56 | 09,73 832,122 328,683 125,120 1,285,925 Sicilia 72,75 | 19,74 | 7,51 || 2,101,354 | 570,183 216,933 | 2,888,460 Sardegna 75 16,08 | 8,92 509,331 109,201 60,576 679,108 Totale » » » 6,543:436 | 8,577,029 | 13;762,478 | 23,882,943 Proporzione percentuale generale fra i tipi craniali della popolazione totale d’Italia : Dolicocefali 22,665 Mesaticefali 29,692 Brachicefali 47,653 100,000 1) La popolazione del Regno d’Italia è quella dell’ ultimo censimento generale desunta dal numero delle anime registrate nello Stato Civile. Non vi è calcolata la popolazione del Trentino, che, quantunque italiana, non fa parte del Regno d’Italia. * — 108 — Dalle relazioni pubblicate dal Ministero della Guerra su gli iscritti della Leve e misurati nel decennio 1874-84 si rileva, che la statura de’ giovani italiani a 20 anni è m. 1,626; ma come l’accrescimento della persona progredisce fino all’età di 80 anni, e quell’aumento in altezza può calcolarsi approssimativamente di 10 millimetri ‘), così la statura media degli Italiani odierni, nel suo completo sviluppo, può ritenersi, in media, essere di m. 1,636. Essa però non è eguale in tutte le regioni della Penisola, ma sì più elevata in alcune e meno in altre, perciocchè nel Veneto, nella Lombardia, in Toscana giunge fino a m. 1,660, e in Sicilia e Sardegna non supera i m. 1,620 e 1,600 °). In tutto il resto dell’Italia, dividendola in due grandi regioni, al nord e al sud del Tevere, la statura si mostra più elevata nella prima che nella seconda. Nel suo completo sviluppo è nell’una, in media, m. 1,650, nell’altra fra i m. 1,640 e 1,630. Le regioni in cui la statura media degli uomini è m. 1,640 sono il Lazio, la Campania, il Beneventano, gli Abruzzi, le altre con m. 1,630 sono le restanti provincie continentali dell'ex reame napolitano, perciocchè, in quanto alla Sicilia e alla Sardegna, abbiam detto essere la comune statura di m. 1,620 — 1,610. Non si creda però che tutte le regioni abbiano, nel loro ambito, la medesima uni- formità di statura. V' ha paesi, in una stessa regione, in cui la statura è maggiore, in altri minore, e questo soprattutto al di là del Tevere, chè, quanto all'Italia Cistiberi- na, non vi ba quasi veruna discrepanza fra le stature medie de’ comuni della stessa Provincia. In Lombardia invece la statura è più alta nel Comasco, nel Bergamasco e nel Cremasco, che non in quel di Brescia, di Milano e di Pavia. In Toscana si distin- guono per l'altezza de’ loro abitanti Lucca, Massa, Livorno, mentre che nel resto di quella regione la statura è identica a quella del Lazio, della Campania e degli Abruzzi. Così pure nell'Emilia ove la statura de’ nativi di Parma, Reggio, Forlì, Ravenna è al- quanto più elevata che non sia quella di Modena, Bologna, Ferrara. Nelle Marche e nell’Umbria, Pesaro ed Urbino hanno maggior numero di uomini alti, che non Peru- gia, Ascoli ed Ancona. La statura della donna, in Italia, è di 3 centim. in media, inferiore a quella dell’uo- mo, ed anche per essa è da notarsi il fatto, che le settentrionali sono sempre, in altez- za, superiori a quelle del mezzogiorno, ma in proporzione men notevole di quella de- gli uomini. Nelle donne meridionali, come osserva il Raseri *), pare che le donne incontrino una maggiore difficoltà al crescere, per modo che fino al quindicesimo anno sono circa cinque centimetri più basse delle giovanette della stessa età dell’ Italia settentrionale; ma quando queste hanno già compiuto il loro sviluppo, le meridionali continuano a cre- scere fino ad approssimarsi alla statura delle prime, ma in età alquanto maggiore. 1) La cifra di quest’ accrescimento è valutata variamente da’ diversi autori. Il Topinard (An- thropologie genérule, p. 429), la fissa a 12 mill. A me pare che la più prossima al vero possa essere quella di 10 mm. 2) Ved. anche Lombroso, Sulla statura degli Italiani in rapporto all’ Antropologia ed all I- giene, nell’ Archivio per V Antropologia e V Etnologia, III, 1873.—Note di Antropometria della Luc- chessia e della Garfagnana, Annali di Statistica, Vol. I, Serie II", 1878. — Raseri, Materiali per l’Etnologia italiana raccolti per cura della Società italiana di Antropologia ed Etnologia riassunti e commentati; negli Annali di Statistica. Serie II, VIII, 1879. 3) Loc. cit., p. 12. — 109 — Predomina in tutta Italia il colore brunetto della pelle, ma le carnagioni bianche non vi fanno neppur difetto, le quali sono maggiori più nell’Alta, che nella Media Italia. Riappariscono alquanto più frequenti nel Lazio, nella Campania, Beneventano, Princi- pati, Abruzzi, Puglie, per rendersi men comuni nella Basilicata, Calabria, Sicilia e Sardegna. In generale, il color bianco della pelle è rappresentato presso a poco dal 30 per °/o, ma dal 44 per °/, che esso è nel Piemonte, nella Liguria e nella Lombardia , di- scende al 29 nell'Emilia, al 27 nelle Marche ed Umbria , al 16 in Toscana, per risalire al 20 per °/ nel Lazio, al 23 nella Campania , Principati, Beneventano, Molise, al 29 negli Abruzzi e nelle Puglie °), e quindi nuovamente discendere al 25 in Sicilia, al 20 per °/ in Basilicata e nelle Calabrie, ed a meno ancora in Sardegna. I capelli degli Italiani son lisci, distesi, a sezione ovale, raramente crespi od a se- zione ellittica, ed in ragione approssimativa del 5 per °/,, 0d alcun poco più in Lom- bardia, in Sicilia ed in Sardegna. Generalmente sono abbondanti, ma più in Lombardia, in Sardegna e nelle Provincie napolitane inferiori; in Toscana invece ed in Piemonte sono piuttosto scarsi. Il colore prevalente è il castano, che ora volge al biondo ed ora si approssima al nero, quindi il nero, ed ultimo il biondo, che può valutarsi, in media al 7,5 per ‘/, in tutta Italia. Il Veneto ha il maggior numero di capelli biondi, e dopo il Veneto la Lom- bardia e il Beneventano. Nell’Italia centrale non v' ha alcun luogo in cui le chiome bion- de si mostrino in proporzioni molto valutabili, ma pur nondimanco v'ha de’ comuni in cui si trovano con una certa relativa frequenza. Le capigliature nere sono frequentissi- me nell’Umbria, in Basilicata, Calabria, Sicilia e Sardegna, ma raramente si vedono nel Veneto. In tutti i compartimenti del Regno si notano pure i capelli rossi, ma sem- pre in sì piccola quantità da non rappresentare che un’ incalcolabile minoranza. Proporzionati fra loro i capelli di diversi colori, si trovano ripartiti approssimati- vamente, in ciascuna regione, nell'ordine seguente. 2) Zampa, Vergleichende Anthropolog. ethnograph. in Apulien cit. — 110 — Colore de’ capelli Regioni Castani {| Neri | Biondi | Totale Regioni Castani Neri | Biondi | Totale Veneto 59 15 26 100 || Avellinese 60 35 5 100 Piemonte 47 37 16 100 || Salernitano 95 38 7 100 Lombardia 58 30 12 ro0 || Molise 57 37 6 100 Emilia 55 42 3 100 || Abruzzi 56 38 6 100 Umbria e Marche | 352 46 2 100 || Puglie SI 43 6 100 Toscana 53 41 6 100 || Basilicata 44 50 6 100 Lazio 55 40 5 100 || Calabria 44 52 4 100 Campania 55 38 7 100 || Sicilie 36 59 5 100 Beneventano 55 37 8 100 || Sardegna 18 81 I 100 Proporzioni percentuali: Castani 30,8 — Neri 41,7 — Biondi 7,5 = 100. Il colore de’ peli non sempre si accorda con quello de’capelli. — Il castano è me- no frequente, ed invece aumentano le proporzioni del nero e del biondo. — In molti casì a’ capelli castani si associa una barba nera, ma più frequentemente una barba bionda si congiunge a capelli castani. La foltezza della barba corrisponde con quella de’ capelli, ed è sempre più folta ed abbondante ove i capelli si mostrano più lussureggianti. Spiccano in modo preva- lente per questo carattere le regioni più meridionali del continente e le Isole di Sicilia e di Sardegna. Gli occhi nel maggior numero degli Italiani sono grandi, ma più nel centro e nel mezzogiorno, che nel settentrione, più nelle Isole che nel Continente. Rispetto al colore si può dire che ve ne sono de’ castani, de’ neri, de’ grigi ed azzurri, ma-i castani sovrastano a tutti gli altri, e sono il colore predominante nel- la Penisola. La Toscana, l’ Emilia, l Umbria e le Marche sono le provincie cistiberine che più abbondino di occhi neri; nelle provincie al di qua del Tevere il Lazio, la Basi- licata e le Calabrie, ma tutte son vinte dalla Sardegna, che ne conta il numero mag- giore. Gli occhi grigi si vedono in certo numero nel Veneto e nella Lombardia, ma come tipo prevalente non s'incontrano che nel Piemonte. Si mostrano appena in qualche luo- go dell’ Emilia, ma scompariscono quasi affatto nel resto dell’Italia. Gli occhi azzurri, invece, son rappresentati dappertutto, benchè in proporzioni diverse. Il maggior numero n’è in Lombardia ed in Piemonte, ma il Veneto li vince in quantità, che può ragguagliarsi al 28 per 9/, della popolazione, laddove in Lombardia — lll1 — ed in Piemonte il lor numero non eccede il 16 per 0/,. — Gli stessi occhi azzurri pre- valgono nelle regioni nelle quali è maggiore la proporzione de’ capelli biondi, come nel Veneto, ed ancora nel Piemonte e nella Lombardia, ma spesso si congiungono a capigliatura oscura, e tale è il caso di quasi tutte le Provincie dell’Italia meridionale. Il seguente specchio dimostra in quali rapporti si trovino fra loro i diversi colori degli occhi nelle diverse regioni. Colore degli occhi e loro proporzioni nelle diverse regioni d’Italia 1) i) o ° © d e) h >) s iS, E Regioni E z È 3 |Totale Regioni È s i Z |Totale (o) N s N o |° |< Diu < Veneto 5 | 45 | 22 | 28 | 100 || Avellinese 28 Iru07.].» 5 | 100 Piemonte 20 | 23 | 41 | 16 | 100 || Salernitano 26/71 | » 3 | 100 Lombardia 25 | 39 | 20 | 16 | 100 !! Molise 20072, e» 5 | 100 Emilia 31 | 60 4 5 | 100 || Abruzzi 22 5 100 Umbrie e Marche E, 0 MI © Mò 3 | 100 || Puglie 26 | 69 | » 5 | 100 Toscana as 02] » 4 | 100 || Basilicata 37 | 60 | » 3 | 100 Lazio Fa) 660» 3 | 100 || Calabria 32 | 65 | » 3 | 100 Campania 29 | 66 | » 5 | 100 || Sicilia ZO OS OI® 6 | 100 Beneventano 29 | 62 | » 9g | 100 || Sardegna 40 | 59 | » I | 100 Proporzioni percentuali: Neri 27,72 — Castani 60,50 — Grigi 4,83 — Azzurri 6,95 = 100 Secondochè si raccoglie da’ dati craniometrici e fisici sopra esposti, vi ha nelle di- verse regioni d’Italia una varietà di tipi che si differenziano fra loro in maniera più o meno evidente. Vi si trovano infatti, come già si è veduto, miste le tre forme craniali brachicefa- la, mesalicefala e dolicocefala, ma quest'ultima non domina che nelle provincie estre- me del mezzogiorno e nelle Isole maggiori, e così la mesaticefala prevale nelle provin- cie superiori dell’ex-reame di Napoli, nel Lazio e nella Toscana, e la brachicefala in tutto il resto dell’Italia centrale e settentrionale. Dicasi lo stesso per la statura e pel colore de’ capelli e per quello degli occhi. Le chiome bionde difettano quasi dappertutto, fuorchè solamente nel Veneto, nel Piemonte e nella Lombardia, come per converso i capelli neri spesseggiano nelle Isole, nelle Ca- labrie e nella Basilicata. Anche gli occhi azzurri non son punto scarsi nel Veneto, nel Piemonte e nella Lombardia, ma vanno scemando di molto nelle altre provincie. Gli occhi grigi non si vedono se non nel Piemonte, nella Lombardia e in qualche parte del Veneto, e non se ne trova quasi più traccia altrove, se si eccettui l'Emilia che può mostrarne a mala pena alcun saggio. A dir vero, non abbiamo verun documento per giudicare se questi caratteri degli — 112 — Italiani odierni esistano oggidì nelle stesse proporzioni de’ tempi antichi, e se le inva- sioni barbariche vi abbiano o no recato modificazioni. Ricavasi da’ romani scrittori, che il color biondo della chioma, e l'occhio cilestrino facevano pure di sè mostra ai loro tempi in Italia, ma ignoriamo affatto in quali pro- porzioni. Io non dubito però di affermare, che esse, nel Lazio almeno, non fossero di- verse da quelle di oggi, poichè egli è indubitato, che quella popolazione non ebbe mai a sostenere l’onta di straniero dominio. Parmi pertanto di poter conchiudere, che quelle varietà che oggi incontransi nelle varie contrade della Penisola in gran parte vi esistessero fin da tempo molto antico, sebbene io ritenga come certo, che altre pure ne sorgessero in epoche posteriori. Onde io non credo esser lungi dal vero asserendo, che le più fossero avanzi di invasioni av- venute in tempi assai più remoti. E per fermo l’occhio grigio de’ Piemontesi, de’ Lom- bardi e di parte del Veneto sono tracce persistenti di quella stirpe celtica che di buon ora s' insediò in quelle regioni, e così lunga dominazione vi mantenne, ma d'altra parte l’alta statura, l'occhio azzurro e la chioma bionda di una porzione di popolo di quelle stesse contrade ne fa altresì risovvenire di que’ Longobardi che in sì forte numero si addensarono nella superiore Italia, e per tanti e tanti anni ne tennero in mano il freno. E della schiatta longobarda è pur credibile che fossero reliquie la chioma bionda e l’alta persona de’ molti nativi del Beneventano e della Campania ov’ eglino vissero e signo- reggiarono per lungo giro de’ secoli. E a quali altri elementi etnici se non al normanno può attribuirsi e il pelo biondo e l'occhio azzurro, che pur non son rari nelle Puglie, nelle Calabrie ed in Sicilia? E nella Sicilia stessa, come nella Sardegna, non v'ha ne’ tratti del volto e nella chioma nerissima e talvolta increspata di molti loro abitatori la prova palese della persistenza in quelle Isole del sangue africano? Coteste commistioni di stirpi sono evidenti , ma non tali per altro da mutare o gran- demente turbare le condizioni etniche originarie degli Italiani. Imperocchè quando si vogliano valutare le proporzioni in che que’ tipi stranieri esistono col resto degli abi- tanti delle nostre provincie , troveremo che essi non formano che l’11 per °/ della po- polazione totale, e che per conseguenza l'elemento italico, non ostante il succedersi di tante e tante invasioni che ne hanno intaccata la integrità, ha sempre conservato e conserva tultavia nella sua grandissima maggioranza il tipo primitivo ed originale della sua propria stirpe. Il qual tipo, considerato nell’insieme, non che in ciascuna delle sue parti, non occupa certo l’ultimo luogo tra quanti dell'umana generazione meritino il titolo di belle. Non dirò per questo che gli Italiani sieno tutti fior di bellezza, ma ciò che singolarmente osservasi nel Bel Paese egli è, che in mezzo alla moltitudine vol- gare ed anche brutta, s'incontrano più sovente che altrove veri prodigi di perfezione maschile e femminile, maraviglie di trascendentale vaghezza di cui forse, a giudizio di un nostro distinto concittadino che vive da lunga pezza all’estero, ed ha visitato quasi tutte le contrade dell’ Europa e dell’ America, « in nessun’altra nazione si trova l’ e- guale, e neppur qualcosa che le si avvicini. È quella la bellezza che provvide ai grandi maestri delle varie scuole d’arte italiana i loro impareggiabili modelli, ed ogni scuola trasse il suo tipo speciale dalla località che le dette il nome, ed ove, per chi sa cer- carlo, il tipo esiste ancora, sebben s'incontri più raramente di prima » '). 1) A. Gallenga, L'Italia presente e futura. Firenze 1886, p. 318. INDICE PARTE I. DAI PRIMI TEMPI FINO ALLA INVASIONE DE’ BARBARI SL —I Liguri. SII —Gli Umbri . S III. — Gli Osci. MEA i SIV. —I Pelasgie gli Iapigi-Messapi. A) IPelasgi . Su B) Gli Iapigi-Messapi. SV. — Gli Euganei e i Veneti. SVI. —GliEtruschi . $ VII. — I Magno-Greci $S VIII. — I Fenici. SIX. —I Gallio Celti. PARTE II. DALLA INVASIONE DE’ BARBARI ALL’EVO MODERNO SI. —I Barbari . SIL — Colonie straniere. I. Colonie greche . DI ». “albanesi. >. uu + a è IST ATM A Ea ARE IV. » tedesche VE » francesi, VAL » berbere. VII. Ebrei . S IIIL —Gli Italiani odierni . ATTI — Vol. II, Serie 2" — N° 9. Pag. » » > Ali» cl cal 70: n 0 15 59 71 73 75 77 84 85 87 92 «i 4 A LI ® bigint... ET — Miret: 1 è alrglg = For COSE: - ped è virare sì sa vd «i bin » È, GrerieA de si pt di gedegi RA A a ila iizi peo pi T-4 rai i sa gi 6.23 ia 4 i Mer PRA: 4 4 91 METRES ape se ny gg lità LA AI o _ è "GA DI e (208) ume die s'.ll l ho h sr ted È su ‘Pei “lb + da Merini nat uf dd x ha Ro Nera ‘osato uffici TOTI pei Yi i Te Pte lei na Ta, DIA, IDRA pa SR i ha Coni) UR 9 puesa La ipa ut, € 5 bull rh la DI MM è P Il benigno lettore è pregato di correggere î sequenti errori incorsi nella stampa della presente Memoria. ERRORI . 7, verso ult. în luogo di 1366 ag > SANDI » 13, nota 5 » 26, verso 14 » 28, nota 4,v.6 » 32, » 12 » 33, >» 28 >» 38, » 9 » » » 26 » » » 30 » 42, nota 2 » >» verso 4 » 46, >» » » » 14 nds... i » » > Split SI “064. »— 1 » 70, » 6 » 81, » 14 » 82, nota 1 pag. 2 verso 2 » 60 = ba » 100 \AAAZZAAZIZIA AZ! ZA ZA GA AAA ABI » alla costituzione Bultlett. letteratura scitta Zalmolxi pen siero le placche de’ Centurioni Danaldson qa dimostrato quella degli Etruschi Garbigletti sulì alloggiamenti continui piano dell’abitato commercio extramarini studio che presero discipline de’ vincitori Fri-gento riti rarsi Ne lingualla in luogo di Europa 17 » 1409 32 » Canova 34 » CORREZIONI si legga 1866 VYWVYVYVYVVVWVWVXYVYVVXYXNYVXYY x si legoa secolo XVI av. C. » finita stampare il dì 5 Marzo 1887 alla ricostituzione Bullett. letteratura scritta Zamolxi pensiero le placche de’ Cinturoni Donaldson ha dimostrato quello degli Etruschi Garbiglietti sull’ alloggiamenti contigui pieno dell’ abitato commerci extramarini studio che posero discipline de’ vinti Frigento ritirarsi Nella lingua dell'Europa » 409 » Canosa secolo II av. C. ov Armi saprà damgiaezii ne esa ag E are da siroimubi bit Aia, tatto! Atto. en tarrogt@ dpr ODIANO, : babtigà nio. dati ba Ve beh Lanok] "a OTSITA uriaai esi id nou lib Dai ò Pai! ghia) a "(fia sd'w ibi Licosa è ugita qiatifa "ibel gal Late sè 19 Tan, La earn à urtoadey fo milite itulv “ala ngulgginiò ammgioi ivi) argat per 15 VR CT DR il 3 "That “ago dA, Ud 4 PIT ® #4 31 nana © ARS Ln PRI Vol. II, Serie 2.* N 10. ATTI DELLA R. ACCADEMIA DELLE SCIENZE FISICHE E MATEMATICHE LE ERUZIONI POLVEROSE E FILAMENTOSE DEI VULCANI MEMORIA del Socio Ordinario ARCANGELO SCACCHI ( letta nell’ adunanza del dì 16 Ottobre 1886). Sulla origine di quella sottil polvere che in talune conflagrazioni vulcaniche in gran copia vien fuori dalle bocche eruttive, e volgarmente conosciuta col nome di ce- nere vulcanica, anche a dì nostri i Geologi non convengono nella medesima opinione. Di questo argomento, invitato dal Sella, mi sono occupato depo l’incendio vesuviano del 1872 a) che è stato uno dei più memorabili per l’ abbondanza delle materie polve- rose eruttate per circa tre giorni continui. Ora mi dà Ì’ occasione di ritornare sullo stesso argomento l’ eruzione di sabbia avvenuta nel cratere di Vulcano nel mese di gennaio del corrente anno, la quale sabbia, per cortese dono del prof. Del G aizo, ho avuto l’op- portunità di esaminare. i Il primo, per quanto io sappia, che ha rivolto la sua attenzione sull’ argomento della presente memoria è stato il Borelli, il quale, discorrendo dell’ incendio dell’ Etna avvenuto nel 1669 d), ha cercato dare ragione del come si generi la sottil sabbia eruttata dai vulcani e, per dirla più giustamente, ha esposto le diverse maniere come le ceneri vulcaniche, secondo il suo avviso, si possono generare. E principalmente propone due ipotesi, che nascano cioè dall’ urtarsi delle rocce friabili che come limatura danno sot- til polvere, ovvero dalle lave scorrevoli e ghiaiose che si possono scindere in minute particelle c). Quest'ultima ipotesi non essendo con precisione dichiarata, rimane pre- a) Sulla origine della cenere vulcanica. Rendiconto della R. Accad. delle Scienze fis. e mat. di Napoli; anno XI. fasc. 8. pag. 180 e seg. b) Historia et meteorologia incendii Aetnaei anni 1669 Ioan. Alphonsi Borelli. Regio Julio 1670, pag. 90 e seg. c) Fieri etiam potest ut arenae de novo conficiantur duplici modo, aut quia saxa friabilia instar pumicis frangi et con teri possunt in illis vehementissimis Aetnaei montis concussionibus et fractionibus et sic scobis aut pulveris formam ac- quirant, eijcianturque a voraginibus Aetnaeis; vel potest de novo gigni praedicta arena, quatenus fluor ille vitreus gla- reosus potest scindi, trangique in plures particulas, duplici modo, aut dum fervet et fluiditatem pristinam retinet, aut post eius primam et inchoatam coagulationem concretionemque. ATTI — Vol. II, Serie 2.2— N.° 10. 1 ion valente la prima ch’è stata posteriormente la più comunemente adottata, come quella che sembra più naturale, o almeno è la più facile ad intendersi. Monticelli e Covel- li a), Poulet Scrope d) e Stoppani c) tra i più recenti han seguito questa opinione. Merita altresi essere ricordata, quantunque non accettabile, la teoria del Babinet, il quale reputaya il polviscolo vulcanico essere l’ effetto del consolidarsi in minime par- ticelle la sostanza della lava emanata allo stato gassoso d). Spettatore da molti anni degl’incendii del nostro vulcano ho avuto altro concetto sulla origine della cenere vulcanica, attribuendola allo scoppiare, dalla parte superficiale della materia fusa delle lave, le minutissime bollicine che si producono per le sostanze gassose nelle medesime lave, contenute. Le sottili pareti di queste bollicine rompendosi e ridotte in minute particelle costituiscono, secondo il mio avviso, la sottil polvere che si sprigiona negl’incendii vulcanici. L’aria soprastante alle materie fuse rarefatta per l’e- stuante loro calore , spingendosi in alto , produce la corrente necessaria perchè quelle particelle siano sparse nell’ atmosfera. Prima di esporre i fatti in sostegno di questa opinione mi conviene esporre le ra- gioni per le quali non posso aggiustar fede alla teoria comunemente adottata dello stritolarsi i proietti per lo scambievole urtarsi mentre sono eruttati. Le esplosioni vulca- niche, non v'ha chi ne dubita, sono dovute allo erompere delle sostanze che per elevata temperatura sono ridotte allo stato vaporoso, e che si trovano nella parte profonda della materia fusa delle lave contenuta nei crateri. A dir vero le rocce proiettate per queste esplosioni, come più volte ho potuto osservare stando a breve distanza dal cratere, non corrono così strette insieme da doversi stritolare urtandosi. Ed anche ammettendo che talvolta o spesso si urtassero, non è credibile che da ciò derivasse quella quantità in ta- luni casi maravigliosa di polviscolo che per molti chilometri di distanza nasconde la luce del sole. Se nelle esplosioni fossero sbalzate soltanto rocce solide e di tale fragilità che pel loro scambievole stropicciarsi sia facile prodursi gran copia di minuti granelli, sì avrebbe una certa probabilità in favore della contrastata teoria. Per lo contrario a tale supposizione osta tutto ciò che si osserva negli accendimenti vulcanici: dappoichè le esplosioni non succedano in mezzo a solide rocce, ma in mezzo a materie fuse, tra le quali soltanto accidentalmente si trovano i frammenti di rocce solide. Quindi è che in massima parte i proietti non sono altro che brani della medesima lava, i quali si con- servano pastosi anche dopo la loro caduta; e non è possibile che dal loro urtarsi si ab- biano minuti granelli e molto meno nubi di polvere. Ritornando alla spiegazione che preferisco dare al fenomeno che ho preso ad esa- minare, debbo in primo luogo ricordare che dalle lave fluenti si sprigiona gran copia di fumo per la massima parte originato dal vapore aqueo, al quale sì uniscono i vapori dei cloruri alcalini, che alla temperatura dell’ ambiente per cambiamento di stato diven- tano visibili. Per ora non reputo necessario dar ragione del come l’acqua che passa a) Storia dei fenomeni del Vesuvio avvenuti negli anni 1821, 1822 e parte del 1823. Napoli 1823, pag. 28. b) Poulet Scrope. Volcanos. London 1862; pag. 57 e 207. c) Corso di Geologia. Milano 1871-73; vol. 1. pag. 319. d) Cette pression (des continens sur le liquide intérieur) ne suffit point pour rendre compte de certaines éruptions des plus violents, et dans les quelles ce n° est pas la lave, mais une colonne de dixhuit à vingt Kilométres qui se fait jour au travers de l’atmosphère avec une force irresistible, dont la matière, évidemment de nature élastique et gazeuse retombe en pluie fine de sable volcanique. De la constitution intérieure du globe terrestre par Babinet de l'Institut. Revue des deux mondes; septembre 1855, pag. 1124. PERS e allo stato vaporoso a temperature molto più basse di quella che hanno le lave fluenti possa mantenersi nelle medesime lave. Importa soltanto prender nota di questo fatto incontrastabile ch’ è la prima origine delle eruzioni sabbiose. Potrei aggiungere, ciò che rende più maraviglioso lo svolgersi del vapore acqueo dalle lave, che queste anche dopo molti giorni da che sono sgorgate dal cratere, e quando la parte esterna è del tutto con- solidata, continuano ad esalare vapore acquoso, senza potersi sospettare che ciò derivi dall’acqua delle piogge che, penetrando sino alle parti interne infocate delle lave, sia obbligata a risolversi in vapore. Per aversi la certezza assoluta della origine delle eruzioni polverose sarebbe ne- cessario osservare da vicino il pantano di sostanze fuse che durante gl’ incendii ribolle nel cratere. La qual cosa essendo impossibile, dobbiamo contentarci di altre osserva- zioni che hanno quasi lo stesso valore della ispezione del fondo del cratere; e le abbiamo nelle lave fluenti là dove esse sgorgano dal vulcano nei casi non frequenti che conser- vino tale stato di mollezza prossima alla liquidità quale dobbiamo supporre che sia quando sono nello stesso fondo del cratere; e che sia agevole trattenersi ad osser- varle da presso senza essere impediti dall’ eccessivo calore. Uno di questi casi favorevoli mi avvenne nell'osservare presso la sua sorgente in alveo ristretto la lava che scaturiva dal cratere nel 1834. Allora mi fu dato vedere che formandosi su di essa frequenti bol- licine superficiali che mi davano l’ apparenza di superficiale effervescenza, avveniva che le pareti delle bollicine scoppiate, divenute filamentose, erano sparse nell’aria traspor- tate dal turbine di fumo che si sprigionava. In quel tempo io cominciava ad ascendere il cono vesuviano con la curiosità di contemplare i suoi fenomeni senza prevedere quel che avrei potuto conchiudere dai fatti osservati, e non ebbi l'accortezza di osser- vare se con i filetti della sostanza della lava erano proiettati, come è molto probabile, anche granelli di polvere. Non dimeno da quella osservazione mi fu manifesto che dalla superficie della materia fusa che costituisce le lave si possono distaccare piccole parti- celle che mescolate al fumo si diffondono nell’aria. La forma di tali particelle è condi- zione secondaria che dipende dalle diverse qualità di lave, ma il fenomeno è sempre lo stesso. E di qui a poco dovrò trattenermi ad esaminare le maravigliose eruzioni di filetti capillari frequenti ad osservarsi nel cratere di Kilauea che sono del tutto analoghe alle eruzioni sabbiose degli altri vulcani. Un altro fatto che posso citare in sostegno della esposta origine della cenere vul- canica fu osservato nel grande incendio del 1855 a). In una delle piccole bocche erut- tive che si aprirono sulle falde del gran cono vesuviano, e dalle quali era sgorgata la lava, trovai, finito l’incendio, che era rimasta un’ampia grotta formatasi per l’ abbassa- mento, e separazione dalla superior crosta consolidata, della sottoposta lava fluente. Aderenti alla volta ed alle pareti della grotta, come avviene d’ ordinario, vi erano varie concrezioni saline, e talune di queste ammirevoli per una certa somiglianza a lacerati ragnateli. Raccolta buona quantità di tali produzioni estremamente frali , per i saggi a- nalitici mi si mostrarono composte di cloruri alcalini mescolati a molta polvere impal- pabile di color bigio rossastro, la quale non mi parve potersi dubitare che si era spri- gionata dalla sottoposta lava quando era fluente. Allora toccando di passaggio l’ argo- a) Memoria sullo incendio vesuviano del mese di Maggio 1855. Napoli 1855, pag. 163-64. =, SÒ mento delle eruzioni polverose, soggiunsi: ci è facile immaginare come le sostanze gas- sose, scappando fuori dalle materie liquide o pastose delle lave, senza dare luogo a sen- sibili esplosioni, possono trasportare e spargere nell’ aria tenuissime particelle di tali ma- terie; ed oltre î vapori acquosi, possono contribuire, forse meglio, alla genesi delle ceneri vulcaniche i vapori dei cloruri alcalini. Per quanto è a mia notizia, è questa la prima volta che si è fatta parola della ori- gine delle ceneri vulcaniche dalla materia fusa che costituisce le lave. Non di meno lo stesso Borelli del quale si è innanzi discorso, forse tra le ipotesi da lui immaginate comprendeva anche questa quando scrisse: vel potest de novo gigni praedicta arena qua- tenus fluor ille vitreus glareosus potest scindi frangique in plures particulas, duplici modo, aut dum fervet et fluiditatem pristinam retinet, aut post eius primam et inchoa- tam coagulationem concretionemque. Sarebbe stato desiderabile che il Borelli avesse dichiarato, quel che più importava, la cagione che fa sprigionare le arene dalla lava che ritiene la pristina liquidità. Che dalle solide rocce, le quali si urtano , si distacchino mi- nuti granelli è cosa di per sè assai facile ad intendersi, nè occorre dichiarare la cagione ; ma che gli stessi granelli possano distaccarsi dalle lave scorrevoli, o dalle stesse lave consolidate ed immobili (!), sono fenomeni che non s’intendono quando non si dichia- ra la cagione. Un'altra pruova favorevole alla tesì che ho preso a svolgere, e forse la più persua- siva, l’abbiamo nelle sorprendenti eruzioni filamentose del cratere di Kilauea. E prima di venire a farne parola, non sarà disdicevole esporre quello che, stando alla osserva- zione dei fenomeni del vicino Vesuvio, ci è dato conchiudere ragguagliando le più fra- gorose esplosioni con le silenziose eruzioni di sottil polvere. Sì le une che le altre di- pendono dall’ elaterio di sostanze che per elevata temperatura si trovano allo stato gas- soso nelle materie che costituiscono le lave. Se mi sì vorrà mandar buona una espres- sione mitologica, dirò che dipendono da una lotta tra Nettuno e Vulcano, lotta senza della quale non vi sarebbero conflagrazioni vulcaniche. Quando nelle materie fuse, d’or- dinario pastose , il vapore erompe dalle parti più profonde , allora si hanno esplosioni gagliarde, e sono proiettati grossi brani delle stesse materie e di altri frammenti di rocce solide che si trovano a queste mescolate; per i vapori che vincono la resistenza delle materie fuse a minori profondità, lo scoppio non si avverte che a breve distanza, e sono proiettati piccoli frammenti scoriacei ai quali suol darsi il nome di Zapz/%; se poi lo spri- gionamento dei vapori è superficiale, allora si generano senza rumore sensibile le sab- bie vulcaniche. Spesso questi tre fenomeni in proporzioni tra loro molto diverse succe- dono in un medesimo incendio, e si osserva che i grandi proietti ricadono nel cratere o a brevi distanze , i lapilli ed i granelli di sabbia al contrario vanno più lontano in ra- gione inversa della loro grandezza, non per la forza di proiezione che li ha eruttati, ma trasportati dal vento del quale seguono la direzione. Fra i lapilli incontra talvolta che siano eruttati nitidi cristalli di augite, e nel Vesuvio in condizioni affatto speciali mi è avvenuto osservare la eruzione di cristalli liberi di leucite della grandezza di un grosso pisello, come d’ordinario sono i cristalli di questa specie incastonati nelle lave antiche del Monte Somma. Di tal sorta di eruzione , osservata per la prima volta nell’aprile del 1845 a) non è difficile intendere la origine, avendo presente a) Raccolta scientifica di Fisica e Matematiche N. 12, Roma 13 Giugno 1845. Annali Civili del Regno delle Due Sicilie, fasc. 87, Maggio e Giugno 1847. i che le leuciti non sono fusibili alla temperatura capace di fondere la pasta delle lave. Egli è però che se qualcuna delle lave o filoni preistorici del Monte Somma riboccanti di cristalli grandetti di leucite, s'incontra ove si accende la fucina di una recente con- flagrazione, avverrà la fusione degli stessi filoni restando intatti nella massa fusa i cri- stalli di leucite. Quindi per le esplosioni usciranno liberi i medesimi cristalli, soltanto inverniciati in qualche parte della materia fusa che li teneva inviluppati. In luogo dal Vesuvio assai lontano tra i vulcani dell’isola Hawaii (Polinesia) è me- morabile Kilauea o Lua-Pélé ove per uno speciale carattere di duttilità nelle materie fuse succede che, come molti di noi abbiam veduto nell’incendio del 1872 l’aria ingom- bra di sottil polvere, là durante l’incendio è l’aria ingombra di lunghi e splendenti fi- letti capillari; che gli abitanti dell'Isola chiamano capelli di Pélé, e dei quali vi presento alcuni saggi. Per dar notizia di questo ammirabile fenomeno a chi non ne fosse altri- menti informato, riferirò le osservazioni del Dana e del Dutton trasportando nel nostro idioma quanto essi ne hanno scritto, ed aggiungendo in nota le loro parole testuali pel caso che non mi sia riuscito di esprimere convenevolmente le loro opinioni. Il Dana, nostro Socio straniero, dà la seguente spiegazione del fenomeno a). « A « Kilauea la liquidità è talmente completa che zampilli di un quarto di pollice in larghezza — « sono talvolta gettati da sottili fenditure, e come essi ricadono l’ uno sull’ altro formano «una colonna d’indurite gocce di lava. Altre volte i venti trasportano la sostanza della « lava vetrosa nel bollente pantano portando via piccole porzioni e così formano ciò che « dicesi capelli di Pélé (Pélé's hair): il cratere essendo la residenza, secondo la mitolo- « gia degli abitanti, della dea Pélé ». Il Dutton si esprime in modo ben diverso 0). « La liquida lava venendo fuori da « luoghi profondi sempre contiene più o meno dell’acqua che lentamente e per gradi « si sprigiona nella medesima guisa che lo sciampagna manda via l’ acido carbonico « quando la bottiglia è sturata. Il vapore aqueo è mantenuto nella liquida lava con una c certa affinità simile all’affinità chimica, e quando finalmente esso si sprigiona, pure cesso è ritenuto dalla lava riluttante sino a che questa rimane liquida. Ma quando «la lava divien solida l’acqua è espulsa assai più facilmente, ed il vapore aqueo si se- « para in forma di minute vescichette. Poichè la congelazione di tutti i composti silicei « è un passaggio dallo stato liquido, per un intermedio stato di viscosità alla solidità fi- « nale, le pareti di queste vescichette sono capaci di essere tirate come nel caso del « vetro. La commozione prodotta dalla crosta discendente produce riflussi ed innume- a) At Kilauea, the liquidity is so complete that jets, but a quarter of an inch through, are sometimes tossed up from a tiny vent, and, as they fall back on one another, make a column of ardened tears of lava. Again, the winds draw out the glass of the lava-jets, in the boiling pools, into fine threads, by carrying off small fragments, and thus make what is called Pelé *s hair: the crater being the residence, in native mythology, off the goddess Pélé. Manual of Geology by Ja- mes Dana. New-York, 1874, pag. 708. b) Liquid lava coming up from the depths always contains more or less water, which it gives off slowly and by degrees, in much the same way as champagne gives off carbonic acid when the bottle is uncorked. Water-vapor is held in the liquid lava by some affinity similar to chemical affinity, and though it èscapes ultimately, yet it is surrendered by the lava with reluctance so long as the lava remains liquid. But when the lava solidifies the water is expelled much more energetically, and water-vapor separates in the form of minute vesicles. Since the congelation of all siliceous compounds is a passage from a liquid condition through an intermediate stage of viscosity to final solidity, the walls of these vesicles are capable of being drawn out as in the case of glass. The commotion set up by the descendig crust produces eddies and numberless | currents in the surface of the lava. These vesicles are drawn out on the surface of the current with exceeding tenuity, pro ducing myriads of minute filaments, and the air, agitated by the intense heat at surface of the pool, readily lifts them and wafts them away. It forms almost wholly at the time of the break-up. Theair is then full of. it. — Cap. Clarence Eduard Dutton: Fourth annual report of the United States Geological Survey. Washington 1884, pag. 108. ce (i « revoli correnti neila superficie della lava. Queste vescichette assai tenui sono traspor- « tate alla superficie della corrente producendo miriadi di minuti filamenti, e l’aria a- « gitata dall’intenso calore del pantano di subito li innalza e li trasporta via. Ciò si for- « ma quasi interamente quando si rompono. Allora l’aria ne è riempita. Il Dana quindi ritiene che i così detti capelli di Pélé si generino per il vento che passando sulla fluidissima lava ne porta via la parte superficiale in forma di esili filetti, opinione al certo notevole per la sua semplicità. Il Dutton li fa derivare dal vapore aqueo contenuto nella lava che giunto alla superficie in forma di bollicine, queste si rompono, e le loro pareti divenute filamentose si spargono nell’aria. Quest’ ultima inter- pretazione è conforme a quella da me data sin dal 1855 per la polvere vulcanica. Resta ad osservare che i due fenomeni delle eruzioni polverose e delle eruzioni fi- lamentose sono della medesima natura; e che se per le prime può supporsi che nascono per lattrito dei proietti, è del tutto impossibile attribuire la medesima origine alle se- conde. Il distaccarsi dalla materia delle lave granelli di polvere o filetti capillari deriva dall’indole speciale della medesima materia. Ed anche dalle lave del Vesuvio, in casi piuttosto rari, si sono avute eruzioni filamentose, quantunque non così eleganti ed am- mirevoli come quelle di Kilauea. Già si è detto come la prima volta furono osservate nel 1834, e nel 1871 sono state osservate dal Socio Palmieri e da me stesso, siccome fu annuziato all’ Accademia dell’ adunanza del dì 4 Marzo dello stesso anno a). Nella esposta relazione del Dutton sulla produzione dei capelli di Pélé è notevole ciò che egli riferisce per dar ragione dell’ acqua ritenuta nelle lave ad una temperatura di molto superiore a quella bastevole per farla passare allo stato vaporoso. È questo uno dei fatti ammirevoli che incontra osservare nei vulcani, e dei quali non è facile rendere giusta ragione. Secondo la sua maniera di esprimersi # vapore aqueo è mantenuto nella liquida lava con una certa affinità simile all’ affinità chimica..., ma quando la lava divien solida l’acqua è espulsa assai più facilmente. Sullo stesso argomento, tenendo conto di ciò che ci presenta il Vesuvio, ho manifestato una opinione che potrebbe considerarsi non essenzialmente diversa da quella del Dutton, quantunque diversa nel modo di di- chiararla, e credo anche più chiara. Secondo il mio avviso b) non solo per l’acqua ma per altre sostanze come |’ acido cloridrico, il cloruro ferrico ecc. volatili a temperature inferiori a quella delle lave fuse, le stesse lave fuse funzionano come solventi ritenen- dole disciolte del pari che l’acqua discioglie l’ acido carbonico, e l’ argento fuso discio- glie l ossigeno. Gelandosi |’ acqua e consolidandosi 1’ argento, manca il solvente e si sprigionano l’ acido carbonico e l’ossigeno. È dispiacevole che sia molto difficile ripro- durre artificialmente molti fenomeni che si riscontrano nelle lave, essendo questo il mezzo sicuro d’interpretarli senza timore di avventurarsi in vane ipotesi. L'esame delle sabbie vulcaniche è parte secondaria dell’ argomento che mi son proposto trattare sulla loro origine. Per quelle eruttate in diversi tempi dal Vesuvio può riscontrarsi ciò che ne ho scritto nella nota di sopra citata: e mi resta a dire qualche cosa sulla sabbia eruttata dal cratere di Vulcano nel precedente mese di Gennaio. Secondo la relazione data dal Prof. Mercalli c), l'eruzione di Vulcano cominciò a) Rendiconto dell’ Accad. delle Scienze Fis. e Mat. di Napoli. Anno X fasc. 3. pag. 49-50. b) Sopra un frammento di antica roccia vulcanica inviluppata nella lava del 1872. Atti della R. Accad. delle Scienze Fis. e Mat. di Napoli. Serie II, vol. 1°, 1883, pag. 4, c) La fossa di Vulcano e lo Stromboli dal 1884 al 1886. Atti della Società Italiana delle Scienze Naturali. Agosto 1886, pag. 352 e seg. SIE il giorno dieci di Gennaio eruttando con altri proietti molta sabbia, e nel di 26, divenute le esplosioni più gagliarde, la sabbia fu dal vento trasportata sino all’ Isola di Lipari. La sabbia che mi si è data ad esaminare ha i seguenti caratteri. Polvere bigia la maggior parte formata di granelli impalpabili ai quali sono uniti altri granelli che assai di raro hanno poco più di un millimetro di diametro. Osservata al microscopio si scorge che dei granelli più grandetti alcuni sono bianchi opachi altri di color bigio traslucidi, come le particelle più minute; vi sono non rari alcuni punti neri con isplendore metal lico, magnetici, e rarissimi si presentano altri granelli di color rosso o gialliccio. Sepa- rati con la calamita i granelli magnetici , e sottoposti al microscopio, quasi tutti si veg- gono formati degli stessi granelli traslucidi nei quali sono incastonate le minutissime particelle magnetiche che potrebbero essere di ematite, o più probabilmente di ma- gnetite. Essa contiene circa tre per cento di materie solubili nell’ acqua le quali separate con ripetute lavande, nella soluzione si scuoprono i caratteri dell’ acido solforico, del cloro, della calce e dell’ammoniaca. Portate a secchezza con lento calore le acque di lavanda, il deposito è formato per la maggior parte di cristallini di gesso, ed innalzando la temperatura sino al calor rosso, esso s’imbrunisce, tramanda odore alquanto somi- gliante a quello dei capelli bruciati, e prolungando il riscaldamento , ritorna il colore bianco. In questo residuo della soluzione avendo ricercato 1’ acido borico , i saggi sono riusciti negativi. Riscaldata a moderato calore tramanda odore di zolfo ; riscaldata fortemente in tubo da saggio, svolge pochi vapori aquei, e forte odore di acido solforoso per il quale si muta in rosso il colore azzurro della carta di tornasole. Nella parte bassa del tubo si raccoglie denso velo bianco che ha i caretteri del cloruro ammonico, ed il colore della polvere si muta di poco acquistando lievissima sfumatura di rossiccio. Il fatto più notevole della cenere eruttata da Vulcano è la presenza dello zolfo che debbo ritenere trovarsi isolato per i saggi più volte ripetuti che han manifestato odore di solfo quando essa è riscaldata a moderato calore inferiore a 100°. L'acido solforoso che si svolge quando è riscaldata al calor rosso potrebbe derivare sia dallo zolfo isolato come dai solfuri, ma la faciltà come si ottiene questo carattere mi fa supporre che lo zolfo si contenga soltanto isolato. Esso intanto non è riconoscibile con l’osservazione diretta, nemmeno facendo uso del microscopico. E quando ho esposto su lamina di pla- tino alla fiamma della lampada ad alcool qualche granello che pel colore rosso o gial- liccio avrei potuto credere formato da un solfuro di arsenico, esso non si è punto alterato. finita stampare il dì 29 Novembre 1886 sven albo ito lea pie it anita apt Ib nicet'ifa (antes anet aVA4toA pi cigicl anario o 191128, duntgna.i a ‘ ; odozitio SARA Uipriliag oasi y1oas js sigoozgia niunifa sderazzO 5 binolenni ci 0409, ib cala ita iu stoboalggi Gopsinag sita inyola {ut gotd 000% pi » na o GagR01 salo9 ibi ilo vaga «ale n i ° ‘A it Una i Qup olona oi cant ne si agrizziiunio: pi digolanani a008 At - gr dd sinabidadong . ig. don ihee n} miRans 180 HLat IDDE MIRTO iidole cia nb. ositollos. abbina Hal inatlimua,i uk iprsnpac si pr0fapsolasi epico vb oggieupido 06298 invialo ib lugo paz pasupla9g0bo afasmei I rd) ‘al09 dic cu 1 QVanmnebisasit li. obaegay der bi 102 IND = palnod oblar' onorati: GDAa A i Pagg. «bit polar ce nr ; atriomonokagabisszio; gox ib otobo Lbass i 20% ibra ohias si sq0ho, atoì, da is9pada lab ezasd 031007 piloti iinzegio) ibostiao silal soion. ti ha ogiooane pimofadab Jrattorno id: ‘io i so iposrtasgmnisairoli ol atto otion oleb sanoz9tg sl 4 | 0unainY ph 6 nt0h0 .01gteglisagi age arto itmsigin.o neotolloa ohinp}l. “001,0 a1oirakairt ng d ol inlori, 0Wos niteh sig9 oigvinab;addouog 0a201 1048 pa nrtocuua sl dog ri ABBI), angilto, ia, satoisemiozzati.1100 alidiozazionità gm. plant i di : «elqpiù oniami.se ojzogro-a4 abasup 4 sogig0 Jeig o /oz401 stoloa Jaguoro, osare. f .otni9lle oltagià ia non-0a29 0 sl ci "ara LE dt dr i Umore Mavi Tati grid perg pisiunnò d niger dh n $ Le Sa Fogli det" 4 i ivi “A, eni 3 M c.7n | wa da a’ Vol. II, Serie 2.° APPENDICE N° 4. ATTI DELLA R. ACCADEMIA DELLE SCIENZE FISICHE E MATEMATICHE RICERCHE INTORNO AL SENO CUTANEO INTERDIGITALE DELLA PECORA (OVIS ARIES, Lin.) STUDIO MONOGRAFICO di FR. SAV. MONTICELLI ( Adunanza del dì 3 Aprile 1886). Bilde mir nicht ein was rechts zu wissen, GoeTtHE— Faust, Erster Theil. Vagliami il lungo studio. . . . . . DANTE, Inf, c. L INTRODUZIONE Nell’imprendere lo studio del seno cutaneo, che trovasi tra le falangi delle dita della comune pecora e di molti altri Ruminanti, e che malamente vien chiamato glan- dola ungueale dai più, o glandola del canale biflesso, non ebbi già in animo di faré opera del tutto nuova; ma solo mi proposi di raccogliere e riordinare le osservazioni da altri prima di me fatte, studiare accuratamente la intima struttura di esso seno cutaneo, così dal lato anatomico che dall’istologico, nonchè il suo sviluppo e cercare di stabilirne, per quanto è possibile, il vero valore fisiologico. Questo è lo scopo del presente lavoro, il quale avrebbe potuto svolgersi in più vasto campo, se mi fosse riuscito di estendere le mie osservazioni e ricerche a tutti quei Ruminanti che si credono forniti di tale seno cutaneo ; ma è stato uopo restrin- gere lo studio solo alla comune pecora. Pure, così circoscritto il lavoro, a me sembra non diminuisca d’importanza, giacchè, tolte poche variazioni di forma che noterò a suo luogo, non pare esso seno sia diverso affatto negli altri Ruminanti ; sicchè dalle ricerche fatte su di un solo potrebbero benissimo trarsi conclusioni applicabili a tutti in generale. Il mio studio si limita alla sola parte anatomica e fisiologica, nè vuole occuparsi ATTI — Vol. II, Serie 2.* — Appendice, N.° 1. 1 ca di fatti patologici pei quali già molto fu detto e da persone competenti 1); e però mi propongo dividere il lavoro in due parti. Nella prima mi occuperò in generale di questo seno nei diversi Ruminanti ; come esso fu trovato e descritto, delle varie opinioni espresse in proposito ed in ispecie mi estenderò nel ricercare minutamente e riportare le osservazioni fatte sulla pecora. Nella seconda parte esporrò le mie proprie osservazioni, messe in relazione con le altrui, e cercherò trarne logicamente quelle conclusioni, che a me parvero risultare evidenti dallo studio fatto. Prima di por fine sento il dovere di rendere pubbliche grazie al mio ottimo mae- stro Prof. Trinchese, che mi fu largo di consigli e di incoraggiamenti, e sotto la direzione del quale ho menato a termine il presente studio. Debbo ancora testimoniare la mia riconoscenza a tutti coloro che mi fornirono importanti indicazioni, e mi aiutarono in qualche modo a compiere questo lavoro. PARTE I. Istoria Molti Ruminanti presentano poco al disopra delle ungule, alcuni in tutti e quattro i piedi, altri solo nei posteriori, o negli anteriori, fra le falangi delle dita una intro- flessione della cute, da molti detta a torto glandola ungueale, o del canale biflesso, o ancora glandola del piede *); da altri, con più ragione riguardata come un seno cuta- neo °). I primi opinano che sia un ammasso di follicoli sebaeei; gli altri invece sosten- gono, come è infatti, che non differisca la sua struttura dal resto della cute, ma che presenti solo alcune modificazioni nel sistema glandolare. 1) Oreste — Lezioni di Patologia sperimentale Veterinaria. Gazzetta medico-veterinaria, Na- poli, 1876. ?) Edwards Milne. — Legons sur la Physiologie, et l’Anatomie comparée de l'homme et des Animaux, tom. 10, pag. 64. O. Carus. — Handbuch der Zoologie, 1843-1868-75. R. Owen. — Anatomy of Vertebrata — Mammals. Tomo III, pag. 628. J. Chatin —Recherches pour servir a l’Histoire naturelle des glandes odorantes des Mammi- fères, Ann. Scien. Naturelles. Tomo XIX, 1873, pag. 14. Brandt e Ratzeburg — Medicinische Zoologie, Bd. I, 1829. J. Girard. — Traité d’Anatomie Veterinarie, 4 ediz. Vol. II, 1841. T. Spencer Cobbold—Article, Ruminantia, in Todd’s Cyclopedia of Anatomy. T. V, 1859, pag. 531. A. Della Valle — Note di Anatomia Comparata raccolte dalle lezioni di Paolo Panceri. Na- poli, 1877, pag. 48. 3) Cuviers Meckel— Vergl. Anatom. T. IV. Hurtrel d’Arboral— Dictionnaire de Medic. de Chirurgie et Hygiene Veterinaire. Pa- ris, 1828. E. F. Gurlt. — Handbuch der Vergl. Anatom. der Haussàugethiere, Berlin, 1822. Mazza — Corso completo di Chirurgia Veterinaria. Firenze, 1841. H. Stannius — Lehrbuch der Vergl. Anat. der Wirbelthiere, 1846. T. Sielbold. et H. Stannius — Manuel d’Anatomie Comparée. Paris, 1850. Colin — Traitè de Physiologie comparée des Animaux domestiques. Tom. II, 1856. Weis — Physiologie der Haussiugethiere, 1869. o Î L’ esistenza di tale seno cutaneo viene tultodì discussa per molti bisulci. Fra i Camelidi è stato finora riscontruto solamente dal Russeau ‘)e dal Klein?) in tutti e quattro i piedi della Auchenia Lama; nè sembra esistere a dire dello Stan- nius *) nel Camelus dromedarius, nè venne trovato in altri Camelidi. Pare che questo seno s' incontri più frequentemente nei Cervidi, fra i quali lo ha trovato il Bonn ‘) nel Cervus capreolus ed anche il Bruhl, che, a quanto riferisce il Balogh °) lo ha rin- venuto solo nei piedi posteriori, il che asserisce anche il Russeau (loc. cit. ). Nel Cervus elaphus, lo nota lo Schlemann secondo l’affermazione del Miller °). Nei quattro piedi del Cervus guianensis e C. Virginianus; nei piedi anteriori del Cervus por- cinus, C. axis, nel Rangifer tarandus, il Russeaued in quest'ultimo anche lo nota il Cam per ’). Infine lo Smith lo descrive nell’ Alces palmatus *). Nei Moschidi il seno è stato descritto dal Daubenton ?) nel Moschus moschiferus, ma tale osservazione non è confermata dall’ Edwards ‘°). Nei Cavicorni , la presenza di tale organo non è men frequente. Nell’ Antilope dorcas , lo cita il Daubenton ‘) ed il Gené ‘*); nei quattro piedi del Tetracerus quadricornus e del giovane ( Antilope Ke- vel ) e della femmina ( Antilope Corinna ) della stessa Antilope dorcas lo trova il Rus- seau (loc. cit. ). Nei piedi posteriori dell’ Antzlope Gora! e dell’ Alcelaphus bubalis lo novera lo stesso Russeau. Nel Bue (Bos taurus ) lo ha osservato il Bonn ‘*), ma non ne è stata da altri confermata l’esistenza. L’Hurtrel d’Arboral '*) ha, pel primo descritto il seno della comune capra ( Capra hircus ). Il Gené ‘5) dice non avervelo mai trovato e taccia 1’ Hurtrel di con- traddizione, perocchè questo autore, parlando della malattia propria dell’ organo nei montoni, aggiunge, non esserne mai affette le capre; ed il Gené dice questa essere una chiara dimostrazione della non esistenza di quest organo nella Capra. Ma posteriori studii hanno confermata l’asserzione dell’Hurtrel ed il Gurlt '°) ed il Klein '°) ne danno minuta descrizione. Ancora il Russeau nota tal seno nelle Rupicapra rupicapra. 1) Russeau — Revue et Magasin de Zoologie, 1851, n. 4. 2) Klein — Quadrupedum dispositio. 3) Stannius— Op. cit. loc, cit. 4) Bonn — Bijdragen tot de Kennis en genezing van hit Rotkreupel der Scaphen, Verhand- lungen der Niederland. Inst. tom. V, 1829, pag. 125, plat. 3 f. 1-4. 3) Balogh Colm. — Klauenschlauch des Schafes. Sitzungsbericht der K. K. Ace. der Wiss. Wien. B. 39, 1860. 6) Miller J. — Glandularum secernentium structura penitiori, Berolin, 1830, pag. 43. 7) Camper — Naturgeschichte des Orang-Utangs und Nashorns und Rennthiers, 8) Smith — New-York med. report. Vol. Il, 1799, p. 173. °) Description du Chevrotein, Buff. Oeuvres, edit. in 8, tom. XXVI, pag. 292. 10) Milne Edwards. Alph.— Recherches Anatomig., Zool. et Paleont. sur l’ordre des Che- vrotein. Ann, des Scien Naturell. 5 Serie, tom. II, 1865. 11) Daubenton—Description de la Gazette Buff. Oeuvres ec., tom. XXVI, pag. 19, pl. 356, fig. 3. 12) Gené — Observations sur quelques particularité organique du Chameau et du Mouton Mem. de l’Ac. de Tourin, 1834, tom, 38 pag. 202. 13) Bonn — loc. cit. plat 2, fig. 1-4. 14) Hurtrel d’Arboral— loc. cit. Article Fourchet, pag. 953. 15) Gen é — loc. citato. 15) Gurlt — Handbuch der vergleich. Anatom. der Hausstiugethiere. Berlin, 1822. 17) Klein — De Sinu cutaneo ungularum ovis et capreae, Berolini, 1830. * = = Fra gli Ovini il Carus ‘) dice esistere tale organo (Klauendrusen) nei quat- tro piedi dell’Ammotragus tragelaphus, il Russeau lo osserva solo nei piedi anteriori del Pseudoîs nahur, e nel Musimon argali, il Brandt *) lo designa col nome di « Dru- senbeutel ». (1803) Il Blumenbach È) descrive quesl’organo nella pecora (Ovis aries), e sem- bra tenersi alla opinione che debba riguardarsi come una glandola con grande dotto escretorio. La stessa opinione sostiene il Weith ‘) che lo descrive sotto il nome di Drusensack. (1822) Il Gurlt °) dice trovarsi fra le unghie della pecora una non « exigua cri- pta sebacea » che designa col nome di « Klauenschlauch » 0 « sacculum ungularum ». Ancora il Niemman °) descrive il seno cutaneo della pecora chiamandolo giustamen- te, checchè ne dica il Klein, fatto a testa di pipa (Pfeifenkopfe). (1828) Una descrizione abbastanza esatta la dà il citato Hurtrel, il quale, quan- tunque ne parli incidentalmente a proposito della malattia dell’ organo, pure indica il seno col nome di « canal biflexe formé par un repli de la peau qui s’enroule entre les doigts el contient un grand nombre de follicules sebacées secretant une humeur onc- tueuse, jaunàtre, odorante » e soggiunge « ce reservoir sert a entretenir la souplesse des parties environnantes ». (1829) Il Brand?) ed il Bonn anche se ne occupano, anzi quest’ultimo ne dà una figura d’insieme *). (1830) Il primo che si sia occupato minutamente dello studio di tale organo è cer- tamente il Klein®). Quest'autore dopo una breve introduzione nella quale propone che venga chiamato seno cutaneo, divide il suo lavoro in 4 parti. Nella prima, anatomia, si occupa della posizione e descrizione del seno, delle differenze che questo presenta tra la capra e la pecora, e nota ancora la interna struttura del seno medesimo, coperto di peli tenui. Nella seconda parte, fisiologia, si domanda se questo seno debba consi- derarsi glandola, o debba ritenersi semplice duplicatura della cute. Espone le opinioni preesistenti, e, dopo lungo ragionare della struttura del seno, dice che egli non lo ve- de differire dalla pelle, e che la secrezione, come in questa, è prodolta da singoli glo- meruli glandulari dette « cryptae sebaceae », e soggiunge che non puossi negare l’ uso di accumulazione e conservazione, a cui sembra destinato. E qui, a conferma di quanto asserisce, nota che lo smegma cutaneo, nelle parti del corpo esposte all’ aria , si soli- difica, e non si conserva liquido come nel seno, dove il calore proprio del corpo; e l’isolamento dallo ambiente esterno, permette al sebo di « conservarsi liquido » il quale sebo, senza dubbio alcuno ( fors'anco per le suesposte ragioni ) viene più ab- bondantemente colà segregato. Cerca egli di spiegarsi la funzione cui tale organo sem- 1) Carus — Handbuch der Zoologie, pag. 150. ?) Brandt e Ratzeburg — loc. cit. Bisulca. ?) Blumenbach — Handbuch der Vergleich. Anatomie, 1803. 4) Weith — Handbuch fiir Veterinir Kunde, pag. 527. 5) Gurlt — op. cit. ©) Niemman—Taschenbuch fiir Hausthierirtze Aerzte und Oekonomen, B. II, pag. 187. ") Brandt et Ratzeburg—loc. cit. 1829. #) Bonn—op. cit. pag. 125 pl. fig. 15, 1829. °) Klein—De sinu cutaneo etc. etc. Berolini 1830. ciù bra essere destinato; e, quantunque creda debba servire la secrezione come lubrifi- cante, sia per mantenere morbide le parti, sia per diminuire l'attrito fra le unghie; pure si domanda perchè altri Ruminanti ne sieno privi, e conchiude doversi reputare come destinato a difendere la pelle interdigitale dagli agenti esterni. Si occupa ancora del modo come avviene |’ uscila del secreto dal seno, che ritiene avvenire per la pres- sione delle parti laterali nell’andare dell’animale. Nella terza parte del suo lavoro dà ‘un'analisi della secrezione, e crede dover far rilevare la grande analogia di essa col cerume dell'orecchio umano. Nell'ultima parte si occupa di fenomeni patologici. (1830). Il Miller ‘) nel suo importante iavoro , al contrario di quanto afferma l' Ercolani, nonsi occupa per nulla di descrivere tale organo; ma solamente accenna al fatto, e riporta la descrizione del seno della pecora data dal Meckel *), che egli per altro dichiara trovare del {ulto esatta. Quest’ autore è quello che ne dà una descrizione più completa e coscenziosa. Egli nota la struttura esterna fatta di tessuto elaslico e ‘grasso, e dello strato formato di glandolette brunasire; strato che cresce in spessezza verso il cul di sacco del seno. (1834). Il Gené °), affatto ignorando i lavori precedenti, descrive quest organo come « une poche dont les parois internes sont herissées de poils longs et blanchàtres parsemées de follicules sebacées ». Egli invero opinava che la esistenza di quest'organo nelle pecore potesse essere ‘un carattere, che le distinguesse dalle capre, le quali a suo dire, come ho più sopra “notato, ne sono prive. (1841-42). 1l Girard *) ed il Mazza ’) menzionano tale seno: il primo lo con- sidera come un « reservoir folliculaire », simile ad altri che sì trovano nella pelle dei -Ruminanti, come la fossetta lagrimale. Il secondo ripete quello, che da altri era stato ‘ già detto sulla struttura del seno; cioè che debba riguardarsi come introflessione della cute, e non glandola; solo crede che le glandole che vi sboccano sieno sebacee. Quanto ‘alla funzione, ripete le ipotesi di Klein. (1844). Nella sua Zoologia il Carus °) descrive quest'organo come glandola un- : gueale, o glandola otriforme. (1846). Lo Stannius ?), mentre descrive il seno come introflessione della cute, o chiama « Klauendrusen »; egli fa consistere l'apparato speciale di secrezione in pic- coli follicoli raggruppati sotto la superficie interna del seno. (1854). Il primo a studiare la struttura del seno è stato l’ Ercolani *). Egli nega l’esistenza di follicoli sebacei; invece dice essere le glandole dei peli (glandole sebacee) sviluppate, e nota inoltre che in questa introflessione della cute ( seno cutaneo ) si tro- vano nel lasco tessuto cellulare numerose glandole a glomerulo molteplicemente ravvol- te sopra se stesse, con un unica apertura, che si apre alla interna superficie del seno. 1)J. Milller — Glandul. secern. structura penitiori, pag. 44, Berolini, 1830. 3) Cuvier Meckel— op, cit. Tomo IV, p. 550. 3) Gen è — Mem. cit. 4) Girard — Traité d’Anatomie Veterinaire, Vol. 2, pag. 435, 2da ediz. 5) Mazza — Corso completo di Chirurgia Veterinaria — Firenze, 1842. 5) Carus — Handbuch der Zoologie 1844-68-75. ?) Stannius— Lehrbuch ec. ec. pag. 374. 3) Ercolani — Giornale di Veterinaria. Torino 1854, p. 83. Volume XV. e Osserva ancora che il diametro di tali glandole è il doppio maggiore delle più voluminose glandole sudorifere della pelle, e crede che il color giallo delle glandole sia dovuto all’ umor segregato. (1856). Il Colin ‘') cita fra le produzioni glandolari sebacee della pelle « chez plusieurs Ruminants les glandes interdigitales et le sinus du méme nom (?) ». Egli dà una descrizione anatomica del seno del montone; ma circa la struttura di questa « po- che de peau », come egli la chiama, dice solo essere provvista di numerosi peli e glan- dole, senza nemmanco accennare a quali specie di glandole sieno da riferirsi. (1857). Ancora il Leydig ?) conferma le osservazioni e le opinioni di Ercolani circa l’interna struttura del seno cutaneo, solo egli opina, che le glandole a gomitolo ( Sudorifere Ercol. ), come le sebacee debbono ritenersi modificate. (1859). Il Cobbold Spencer *) sembra ignorare quanto pria di lui si era detto in proposito; perocchè annovera, fra le produzioni grasse della pelle che servono a mantenere la morbidezza della cute, il grasso segregato dal « glandular sebaceus fol- licle », di cui sono provvisti molte specie di Ruminanti ; dà la descrizione sommaria e la figura di quello della pecora , e aggiunge ancora , esser questo grasso destinato ad evitare l'attrito fra le dita. (1860). Un più completo lavoro anatomico ed istologico è venuto fuori per opera del Balogh ‘). Quest’autore dà una descrizione anatomica del seno (Klauenschlauch) e pel primo nota una rete capillare, che lo circonda: si occupa poco dei nervi che vi penetra- no, ed accenna al modo come si terminano. Trova che il seno è inviluppato da due mem- brane una interna e l’altra esterna, che si continua col connettivo sottocutaneo. Ri- guardando il seno come introflessione della pelle , si occupa pria del « corium », che divide in stratum glandulare e papillare, poi dello strato Malpighiano, che trova spes- so, più che nelle altre parti della pelle, e dello strato corneo che dice più sottile. Parla ancora dei peli, dell'abbondanza delle glandole sebacee , e sudorifere. Di quest’ultimo si occupa maggiormente, conferma l'opinione dell'’Ercolani, che sono glandole a go- mitolo; solo nega che esse siano da ritenersi sudorifere; perchè il loro secreto le rav- vicina alle ceruminose, e però crede debbano considerarsi modificate nella funzione : dippiù oppone all’ Ercolani, che il color giallo del gomitolo glandolare non dipende dal liquido segregato, perocchè egli ha trovato il liquido sempre incolore, e i gomitoli privi di grasso anche di colore gialliccio. Fa un esame microscopico del liquido contenuto nel seno dice che è debolmente acido, e vi nota delle tavolette rombiche (?). Sulla funzionalità di tale organo, confessa non esser giunto a risultati positivi; solo osserva che non pare debba servire esclusivamente come sebo per le unghie; giacchè in tal caso non si potrebbe spiegare l'assenza di tale seno nei piedi posteriori del Cervus ca- preolus ( secondo Bruhl). (1864). Il Bendz *) anch’egli si occupa del seno , ed è di opinione che le glan- dole a gomitolo del seno debbano ritenersi modificate nella loro funzionalità, come an- 1) Colin — Traité de Physiologie Comparée des animaux domestiques. T. III, 1856, p. 447. ?) Leydig— Lehrbuch der Histologie des Menschen und der Thiere. 1857, p. 68. 3) Cobbold Spencer — op. cit. pag. 581, fig. 354. 4) Balogh— op. cit. loc. cit. 5) Bendz — Haandbog den Physiologiske Anatomie af de almindeligste Danske Hunspattedyr. 1864, p. 35. — Bi cora le glandole sebacee ; il che, almeno per quest’ ultime, afferma anche il Carsten Harms '). i (1868). L'Owen °) invece fra le glandole sebacee dei Ruminanti « opening on the limbs », di fatto cita il seno della pecora, che rappresenta, descrive-e crede desti- nata « to lubricating or greasing the hoofs ». (1869). Il Weiss *) ancora si occupa della sola istologia e conviene col Bendz che le glandole, che si trovano nella pelle del seno sono glandole sudorifere e sebacee modificate. : (1870). Il Johnston ‘) pare voglia accennare al seno interdigitale, allorchè, nel parlare delle glandole del sistema tegumentario, dice che le glandole sebacee sono molto abbondanti fra le dita del bestiame. (1871). Il Ghodakowski °) nel suo lavoro, invero di indole molto generale, si occupa del seno cutaneo (die Haut des Klauenschlauches.); e quantunque noti somma- riamente la ricca bibliografia di questo seno, pare che egli abbia solo citati i libri, senza tener conto delle osservazioni fatte. Della anatomia del seno si occupa ben poco. Si limita solo a descrivere la forma di esso, che anch'egli dice rassomigliarsi ad una testa di pipa ( Pfeifenkopfe). Nota una certa analogia fra i lagrimatoi ed il seno in- terdigitale per l'abbondanza di glandole, e, perchè osserva qualche differenza negli strati epidermici e nell’ ordinamento delle glandole, si estende a parlare di quelli e di queste. Nei primi nota la sottigliezza del Corium, rispetto a quello delle altre parti del corpo , la maggiore spessezza dello strato del Malpighi, e, a differenza del Balogh (di cui egli cita il lavoro, mentre appare chiaro che non lo conosce ), trova lo strato corneo relativamente più spesso ( Eine gleiche Dickenzunahme bemerkt man auch an der Hornschicht der Epidermis). Inoltre egli non fa neppur menzione delle due mem- brane involgenti il seno, che furono dal Balogh descritte. Circa le glandole sebacee, nota il loro poco sviluppo, la scarsezza del loro numero ed il loro diminuire successivo di grandezza , dall'apertura esterna del seno verso il fondo. Delle glandole sudorifere dà una esatta descrizione, e dice che formano, occu- pando quasi tutta la spessezza del derma, uno strato glandolare. Una osservazione de- gna di nota è che l'apertura delle glandole ( sudorifere ) gomitoliformi non è ad im- buto come nelle altre glandole sudorifere; ma il dotto escrelore conserva lo stesso dia- metro fino allo sbocco. Egli non accenna però ad alcuna modificazione funzionale ; quantunque nel saggio bibliografico riporti varie opinioni in proposito. Molte delle sue osservazioni istologiche coincidono con quelle del Balogch; ma da altra parte la contraddizione, non avvalorata da discussione, sopra molti altri punti, sempre più mi convincono che tal lavoro era dal Chodakowski conosciuto solo di nome. (1872). Anche il Milne Edwards °) annovera la glandola sebacea, di cui son 1) Carsten Harms— Beitrige zur Histologie der Hautdriisen der Haussiugethiere. Han- nover 1868, pag. ll. 2) Owen — Comparative Anatomy af Vertebrata. tom. III, Mammals, pag. 628, fig. 499. 3) Weiss — Physiologie der Haussiugethiere. 1869, pag. 266-69. 4) Johnsson J. W.— Straugeaway's Veterinary Anatomy. Edimburg 1870, pag. 436. 5) Chodakowski— Anatomische Untersuchungen iiber die Hautdrisen einiger Siugethiere mit. 3 Taf. Dorpat 1871 — Schaf. pag. 26-28, Tav. I e Il, fig. 7-8-11. 5) Milne Edwards. H. — Legons sur la Phys. ecc. tom. 10. part. I. pag. 44, nota (a). MJ provvisti molti Ruminanti al disopra delle ungule ( seno ungueale ) destinata a lubrifi - carle e nella nota (a) riassume la descrizione della glandola ungueale della pecora. (1876). Debbo incidentalmente notare che l’ Oreste ') che si è occupato della patologia di quest'organo, volendo richiamare alla mente del lettore l’anatomica struttura del seno si limita troppo recisamente ad asserire che « tale seno anatomica- mente considerato non è altro che una introflessione della pelle ». (1878-82). Il Paladino °) nel parlare delle glandole sudorifere della pelle, nota che queste pigliano un grande sviluppo massime nel seno cutaneo delle pecore, mala- mente detto glandola del canale biflesso. Ancora si occupa delle glandole sebacee della pelle, e dice che seguono lo stesso andamento delle sudorifere, però crescono in isvi- luppo nelle introflessioni della cute, come specialmente nel seno ungueale , dove que- ste sono molto grandi. Accenna, e qui trovo opportuno il notarlo, alla modificazione funzionale sebacea di molte glandole, per struttura sudorifere: ma non si dà cura d’indagare se le gomitoliformi del seno (sudorifere, Ercol.) sieno o no modificate fun- zionalmente. Ancora il Della Valle *) lo Stannius ‘) riportano tale organo , il primo come glandola interdigitale il secondo semplicemente come una ripiegalura cutanea ricca di follicoli sebacei molto ravvicinati. Molti trattati di Anatomia comparata, Istologia e Zoologia, anche recenti, che qui per brevità non riporto, indicano tuttora come glandola ungueale, il seno cutaneo della pecora, e dei Ruminanti in generale e fra questi piacemi citare il Claus °) che nella sua Zoologia di recente pubblicazione, lo distingue col nome di glande des sabots. Nè lo Chauveau °) in tutte le sue edizioni, nè il Miller ?), nè lo Schwab), nè lo Zurn °), nè il Leyh ‘°) si sono occupati per nulla di questo seno cutaneo. A complemento della Bibliografia , che ho potuto raccogliere e consultare, debbo menzionare un lavoro del Lewingston ‘) sullo stesso argomento, che per la poco pre- cisa indicazione datane dal Balogh, non mi è riuscito a nessun patto poter riscontrare. PARTE II. Anatomia _-Istolosia - Embriolosia-Fisiolosia Come si può ben rilevare dalla bibliografia che ho riassunta nella prima parte di questo mio lavoro, il seno cutaneo dei Ruminanti, e quello della pecora in particolare, 1) Oreste — op. cit. Infiammazioni, Flemmosi della cute. pag. 158. ?) Paladino — Istituzioni di Fisiologia. Napoli 1877-82. Vol. I, pag. 510. (1878). . ®) Della Valle— op. cit. pag. 48. 4) Siebold et Stannius — Manuel d’Anatomie Comparée, Tom. II, pag. 410. 5) Claus— Traite de Zoologie traduit par Moquin-Tandon. Paris 1884, p. 1431-1486-1491, ©) Chauveau et Arloing— Traité d’Anatomie Comparge des Animaux domestiques. 1871-79, ?) Muller Fr. — Lehrbuch der Anatomie der Haussiugethiere ec. Wien. 1871. 8) Sehwab C. — Lehrbuch der Anatom. der Haussiiugethiere, 1821-1839. ®) Zurn A.— Anatomie und Physiologie der Haussiugethiere. Leipzig, 1869. 1°) Ley — Anatomie der Hausthiere, 1850-1859, Stuttgart. 15) Levingston — On the excretory duct of the feet of schep. Trans of the Society of New- Yorck II, p. 140. a — è stato oggetto di non pochi studii di autori diversi, i quali, oltre alla semplice strut- tura di esso, hanno ancora cercato indagare la funzione, cui sembra destinato. Le due quistioni , tanto quella della struttura, quanto quella della funzione del seno, non fu- rono poco agilate. Lavori assidui e, in rapporto ai mezzi ed alle conoscenze dei tempi, abbastanza coscienziosi, hanno cercato dare maggior luce intorno alla singolare strut- tura del seno, e dobbiamo all’Ercolani ‘) la conoscenza delle glandole a gomitolo del seno: egli pel primo, le descrisse, négando così la esistenza dei follicoli sebacei, affer- mata fino allora da Miller, Meckel, Gené, Girard, Siebold ed altri. Ciò nul- lameno altri autori a lui posteriori e da noi non lontani, continuano ad indicare il se- no, come una glandola sebacea, seguendo chi pel primo lo disse non egigua crypta se- bacea (Gurtl, Weith ). Ma altri lavori, come quelli del Balogh e del Chodakow- ski, hanno in qualche modo dimostrata l’anatomica struttura del seno. La quistione fi- siologica si è arrestata alla prima interpretazione data dal Klein, che il grasso del seno serva cioè a lubrificare le ungule e la regione interdigitale. Più o meno ampliata, tale è la spiegazione che tutti gli altri venuti di poi hanno dato. Il Balogh solamente ha du- bitato, se il seno dovesse servire unicamente a fornir sebo alle ungule; avendo notato la mancanza di esso nei piedi posteriori di alcuni Ruminanti; ma egli non ha emesso opinione di sorta circa qualsivoglia altra destinazione funzionale di quest organo. I miei studii, discordando in varii punti da quelli fatti finora, mi hanno permesso delle nuove vedute sulla funzione di esso. Pertanto è mestieri che io ritorni sull’ argo- mento da capo; e a ciò mi spinge ancora lo sviluppo dell’organo che ho in buona parte potuto seguire. Esporrò qui il risultamento delle mie ricerche, che completando e modificando, dove n'era d’uopo, le osservazioni preesistenti, mi hanno dato agio a trarne una nuova conclusione fisiologica. $ I. — Anatomia. Se si guarda il piede di una pecora, slargando alquanto le dita, di leggieri si ve- drà, là dove la pelle dorsale del piede si inflette fra le dita, quasi a pigliar figura di esse, adagiandosi alle falangi, un piccolo orifizio rotondetto dal quale fuoresce un ciuf- fetto di peli, lunghi, di un bianco sporco, sericei, il più delle volte attaccati fra loro da una sostanza grassa ed uptuosa ( Tav. I, fig. 1, a, è). Circonda l’orifizio la pelle in- flessa interfalangea, la quale mostrasi quasi nuda, sparsa di proeminenti papille der- miche, di colore bianchiccio, per uno spazio quasi triangolare, Questo spazio, molto più sensibile ed accentuato nei maschi che non nelle femmine, e nei giovani, chiamerò areola. Lo orifizio, posto nel mezzo di questo spazio varia di misura ; nei maschi rag- giunge il massimo diametro di mill. 3, mentre nelle femmine non sorpassa i 2 ‘/, mill. Nei giovani esso è di 2 mill. Supponendo ora tirata una linea, che passi per le eminen- ze piramidali delle terze falangi delle dita, l’orifizio descritto trovasi distare da questa linea: nei maschi per mill. 43-45 nei piedi anteriori, e 42-44 mill. nei posteriori; nelle femmine invece esso dista per 35-40 mill. nei piedi anteriori e per mill. 36-42 nei po- steriori. L’orifizio dista dalla articolazione metatarso-falangea per mill. 24-26 nei ma- schi, e 23-24 nelle femmine, e dall’articolazione metacarpo-falangea per mill. 20-23 1) Op. cit. pag. 83. Anti — Vol. II, Serie 2.* — Appendice, N.° 1. Lie nei maschi e per mill. 24-26 nelle femmine. L'orlo dell’orifizio è d’ordinario circon- dato da un cercine (Tav. I, fig. 13, è) appena appariscente, in molti casi coperto di peli piccoli bianco sericei e poco abbondanti; il suo diametro è di 9 mill. Operando un taglio trasversale della pelle al livello della articolazione falangea e continuandolo verticalmente, rasentando l’ areola, lungo la pelle dorsale delle dita , e finalmente asportando e pelle e dita di un lato, si scorge (Tav. I, fig. 2) che l’orifizio esterno si continua in una specie di canale, che evidentemente si vede continuarsi con la pelle dorsale del piede. Questo canale ha la forma, ben chiaramente detta dal Ni e m- man ‘') di testa di pipa ( Pfeifenkopfe ). Esso consta di una porzione discendente, che va dall’orifizio , quasi al livello del- l'articolazione della prima e seconda falange, poco più in giù, in vicinanza dell’ epifisi della falange seconda (Tav. I, fig. 3, /), in giù lungo il lato interno delle 2° falangi, in alcuni arrestandosi alla base delle 2° falangi, in altri (vecchi maschi) spingendosi verso le ossa sesamoidee delle terze falangi. Chiamerò questa porzione braccio discendente (Tav. I, fig. 3, d). A questo punto il canale forma un gomito ad angolo acuto, (Tav. I, fig. 3, A), e risale sempre rasentando la superficie interna delle 2° falangi, fin quasi, 0 poco più, al livello dell’articolazione delle 2°° falangi. Dirò questo secondo, braccio ascendente (Tav. I, fig. 3, c). Questo è il canale che venne indicato dal Klein ?) col no- me di sinus cutaneus ungularum (seno ungueale). Non parmi invero il caso di sostituire altro nome a quello del Klein; non essendovi altro vocabolo che renda meglio l’idea di quest’organo; solo credo utile cambiare la parola ungueale, con quella di interdigitale od interfalangeo che dir si voglia, nome che più corrisponde alla sua posizione. Ciò premesso incidentalmente, evvi ancora da osservare la posizione del seno ri- spetto alle terminazioni muscolari del piede stesso. Esso si trova disposto in guisa fra le dita, che il braccio discendente a mezzo di sua lunghezza, si trovi in corrispondenza delle branche interne degli estensori propri delle dita, che si vanno ad inserire sulla faccia anteriore delle 2° falangi (Tav. I, fig. 4, b, c; e, f). Il braccio discendente tro- vasi ancora in prossimità dello sbocco, fra le due branche dell’ estensore comune delle falangi, che si vanno ad inserire alla eminenza piramidale della 3° falangi ( Tav. I, fig. 4, a). Questa posizione del seno è in relazione con l’uscita del sebo contenuto, peroc- chè, quando gli estensori delle falangi (estensore proprio del dito esterno ed estensore proprio del dito interno), secondo quanto osserva il Lecoq *), discostano le dita in avanti, il braccio ascendente ed il gomito ed una piccola parte del braccio discendente ven- gono ad essere fortemente compressi dalla superficie interna delle seconde falangi , mentre, al contrario, quando in antagonismo agli estensori delle dita lo estensore co- mune, distendendo le dita le ravvicina, la pressione si opera sulla porzione del bracezo discendente , compresa fra la metà anteriore della superficie interna delle seconde fa- langi. Il contenuto del seno spinto nel braccio discendente, per l’azione degli estensori delle falangi, viene da questo espulso all’esterno, per l’azione antagonista dello esten- sore comune delle dita, 1) Niemman op. cit. pag. 187. 2) Klein. De sinu cutaneo etc. ?) Chauveau et Arloing—Traité d’Anatomie comp. des animaux domestiques, 1871, pag. 285 sc Di La forma del seno varia nei due sessi, e nei piedi anteriori e posteriori dello stesso sesso. Nei maschi esso è molto più sviluppato che non nelle femmine, e d’ordinario, an- che più nei piedi anteriori che nei posteriori. Il braccio ascendente è di lunghezza quasi uguale al discendente; ma, più largo e rigonfio, piglia spesse volte la forma di una fava (Tav. I, fig. 7, c). Il braccio discenden- te, molto ravvicinato, formante angolo acuto con l'ascendente (Tav. I, fig. 7, 6), è di ugual diametro, dal gomito all’orifizio esterno, dove in molti casi si allarga alquanto. Nelle femmine il seno ordinariamente è più piccolo, massime nei piedi anteriori, qualche volta, ma molto raramente, esso manca nei piedi anteriori. Vi si nota una sen- sibile sproporzione fra il braccio ascendente ed il discendente. Questo molto lungo, sot- tile, quello, relativamente corto, rigonfio, fagiuoliforme, tozzo (Tav. I, fig. 8, c, bd). Nei giovani tale seno è già bene pie: solo esso è più bieco che pifi adul- ti; ma la branca ascendente è ovoide. Nei castrati il seno è molto ridotto; molto spesso non ha forma determinata ed è tubulare e disposto perpendicolarmente alla superficie della pelle (Tav. I, fig. 14), altre volte presenta la forma indicata dalla fig. 9 (Tav. 1) cioè di una storta, il braccio discen- dente (b) essendo ordinariamente più lungo e un po’ ricurvo, ed il braccio ascendente (c) corto ed arrotondato. Nella seguente tabella sono indicate le misure prese nei due sessi ed in diverse età. MASscHI FEMMINE GIOVANI PieDI BRACCIA "pp —__—_—- e I ‘diamet.| diametro diametro | diametro diamatro , diametro lunghez. interno| esterno lunghez. interno | esterno lunghez. interno esterno ni pa re mm mm mm mm mm mm mm | mm asa discendente | 17—20 | 3-4 | 4—6 1Ig—20 | 25/,—-3 | 4-5 1I4—-15 2-3 3— anteriori . . ascendente. | 15—17 | 4—5 6-7 14—15 | 4—-4i/, | 6—6i/, | 13—14 | 4—-44/2 5—6 gomito ANIA DE 8—-9 8—9 6—7 I braccio discendente | 18—19 |2—2i/s| 3—5 Ig—20 2—=3 3 15—154/9 "=> 374 posteriori. » ascendente. | 16—17 | 41—6 6-7 15—16 4-6 | 6-7 13—14 | 4-49 | 5— di, gomito. ....... | 8—9 8-9 6— Osservando l'interno del seno si vede che esso consta di una cavità che presenta tal quale le forme esterne. La superficie di questa cavità è rivestita di peli bianchi, lunghetti, di splendore sericeo, che morfologicamente differiscono poco o nulla dai peli del resto del corpo. Essi crescono di lunghezza a misura, che dal braccio ascendente si va verso il discendente, e son disposti come tanti raggi, i quali partendo dal brac- cio ascendente convergono verso il gomito ( Tav. I, fig. 10, 11). Qui invece si dispon- gono verticalmente, rivolti verso i precedenti, ma, a misura che si va dal gomito al braccio discendente, essi si dispongono obliquamente verso l’orifizio esterno, donde i più vicini, più lunghi di tutti, fuorescono a formare il ciuffetto esterno. Nella cavità del seno si trova una massa, bianco-sporco, grassa, unluosa, che all'aria si fa gialla e si rapprende, di odore forte e sgradevole, massime nell’ epoca della monta, quando la se- crezione è più abbondante. Vi si trovano molti peli caduti, alcuni in via di disfacimen- to, che abbondano, a differenza di quel che osserva il Balogh, tanto nei giovani ani- mali che nei vecchi. All'esame microscopico risulta la massa formata di sostanza li- quida , grassa, frammista di cellule epiteliali sebacee, di cellule cornee e di pezzi di peli in decomposizione. e Il Balogh‘) dice, qualche volta il colore della massa essere nero bruno (russig); ma in quanti seni ho osservato, non ho mai trovata la massa così colorata. Noterò an- cora che la secrezione è scarsa nei giovani, scarsissima nei molto piccoli. Il colore della massa segregata a seconda degli animali, varia dal bianco sporco del montone fino al brunastro del Cervus Capreolus *). Quanto alla chimica composizione del secreto del seno non mi è riuscito stabilire niente di certo, per la mancanza di analisi accura- te; se però si può tener conto dell'analisi di Mitscherlich, abbastanza sommaria, riportata dal Klein *) e delle osservazioni fatte in proposito dal Balogh, risultereb- be la natnra del secreto molto simile al cerume dell’orecchio. Il seno è involto da due membrane una esterna e l’altra interna, che chiamerò col Balogh membrane involgenti. Entrambe ripetono la loro origine dal congiuntivo sot- tocutaneo. La prima, interna, è sottile, più consistente, e si lascia non difficilmente stac- care, conlinuandosi fin presso la pelle proprio là, dove il braccio discendente si conti- nua con quella. La esterna, che si continua col tessuto congiuntivo sottocutaneo ed in- terdigitale, arriva fino alla unione della metà posteriore con l'anteriore del braccio di- scendente, ed è meno consistente dell'altra ( Tav. II, fig. 1, m', m°). Fra le due membrane, non di rado specialmente negli animali adulti, trovansi gruppi di cellule adipose (Tav, II, fig. 1, gr), le quali spesse volte sono così abbondanti nella parte superiore del cul di sacco del seno ( Tav. I, fig. 7, 8, e), da formare un grosso nodulo di grasso. Liberato dalle membrane involgenti, il seno mostrasi di colore giallo ocraceo, all'aspetto granuloso, come formato di tante glandolette, ciascuna colorata in giallo. Venne già notata dal Balogh una rete vascolare, che involge il seno; ma in- vero tale rete è fatta alquanto diversamente di quanto ha descritto il succitato autore. Fatta una iniezione, con una massa di carminio e gelatina, per l'arteria radiale po- steriore, o per la tibiale; si vede, che da ciascuna delle arteriè ungueali (Tav. I, fig. 5, b, b), proprio nel punto, dove si dividono in rametti, per distribuirsi alle ungule, par- tono due ramicelli, i quali dirigonsi verso il braccio ascendente (Tav. I, fig. 5, d, d, fiz. 6, d), poco al disopra del gomito, ed attraversata la membrana involgente esterna, si ramificano sul seno. Dal dorso del piede, e propriamente dall'arteria dorsale delle di- ta, formata da una branca della digitale media (Tav. I, fig. 5, 6, 12, a) che passa fra le dita al livello delle 1° falangi, e che dirigendosi da sopra in sotto si volge a sinistra del seno (piede destro), e viceversa (piede sinistro) (Tav. I, fig. 6, e, e, fig. 12, c), al livello dello sbocco del seno, parte un unico ramicello, inferiormente e lateralmente al braccio discendente (Tav. I, fig. 6, g), che dà rametti secondarii (4) al braccio discendente, e, dividendosi in due verso la metà di questo, va a formare la rete vascolare che circonda il seno, anastomizzandosi con i ramoscelli che vengono dalle arterie ungueali (Tav. I, fig.5, 6, d). AI disopra ed al livello dello sbocco del seno, anche dall’arteria dorsale delle dita, parte un altro sottilissimo ramoscello arterioso (Tav. I, fig. 6, i), il quale, rasen- tando la parte superiore del braccio discendente, dà rami anastomotici, con quelli pro- venienti dal ramo principale inferiore, e si termina anastomoticamente alla base del 1) Balogh. cit. op. ' ?) Colin. Traité de Physiologie comparge des animaux domestiques pag. 447. Tom. II, 1856. *) De sinu, cutan. ecc. = i — braccio ascendente. È da notare, che queste arterie non si ramificano sulla membrana involgente esterna, alla quale danno pochi rametti, ma, come ho già sopra accennato, sulla membrana involgente interna. Tanto nei piedi anteriori, che nei posteriori, così delle femmine, come dei maschi, la disposizione delle arterie è la stessa: si deve fare eccezione solo per la provenienza di esse. I nervi, che si distribuiscono al seno, provengono tutti dai nervi collaterali dor- sali delle dita *), sia che trattisi di piede anteriore, sia di posteriore. Da questi nervi a livello dello sbocco del seno , partono due branche (Tav. I, fig. 12, #), una destra, l’altra sinistra, le quali accompagnano il braccio discendente dando rametti nervosi a questo, e si continuano, assottigliandosi, e si terminano in ultime ramificazioni in tutto il braccio ascendente. Non rare volte ho osservato tanto nei piedi anteriori, quanto nei posteriori, che dai nervi collaterali plantari delle dita, nel punto che essi si dividono per innervare le ungule partivano dei rametti, i quali si terminavano nel brac- cio ascendente del seno (Tav. I, fig. 5, k, k). Come per i vasi, così per i nervi noterò che questi formano rete sulla membrana interna, donde poi penetrano nelle pareti del seno. Indicherò qui incidentalmente un’ anomalia, non rara nella disposizione dei nervi del piede della pecora. Ordinariamente , a livello dell’ articolazione metacarpo o mela- tarso-falangea , il ramo nervoso, che proviene da una branca cutanea del nervo radia- le, si divide in due rametti nervosi secondarii ( nervi collaterali dorsali delle dita ) ; (Tav. I, fig. 12, ?, j) nel punto di divisione parte un terzo filetto nervoso, il quale tra- versa lo spazio interfalangeo, per anastomizzarsi con la branca del nervo plantare, che dà i rami collaterali plantari delle dita (Tav. I, fig. 5, î, j, j; fig. 12, b, g, /) ©). Or pa- recchie volle mi è occorso notare, che invece di un unico ramo nervoso interfalangeo, eranvene due, e si potevano dare due casi. Spesso ho osservato , che dal punto di divisione dei nervi collaterali dorsali delle dita si partiva, come d’ordinario, un unico nervino, il quale a mezzo lo spazio interfa- langeo si divideva in due, e ciascuna sua branca, si anastomizzava con il corrispettivo nervo collaterale plantare delle dita. Altre volte, come è appunto il caso rappresentato dalla fig. 12 della tav. I, da ciascuno dei nervi collaterali dorsali delle dita, partiva, invece un rametto nervoso (k), che si anastomizzava col corrispondente nervo collate- rale plantare. Questo ho io osservato tanto nei piedi anteriori quanto nei posteriori. Metodi di ricerca. Per osservare i mervi ho usata una soluzione di acido acetico '/.00 ® */soo, oppure una soluzione di acqua di mare ed acido formico ‘/100 a ‘/0» Ancora ho usato isolare il seno con la pelle dorsale ed il tessuto congiuntivo sottocutaneo inter- falangeo , e mettere il tutto nel liquido di Hertwig *), per un giorno, poi toglierlo e passarlo in alcool a 70°. Con questa seconda maniera di trattamento, ho potuto osser- vare i nervini che, dividendosi dicotomicamente, penetravano nelle pareti del seno. '‘) Chauveau et Arloing. op. cit. pag. 591, 606. ; » op. cit. pag. 810-824. ®) Acqua di mare 1000 parti. Acido acetico 2 parti. Acido osmico ‘/; (H. Fol.—Lehrbuch der vergleichenden. Mikroscopischen. Anatomie, Leipzig. 1884, Erste Lieferung. pag. 109). — YR- La forma del seno della capra differisce da quella dalla pecora, perchè non si può in esso far distinzione di braccia. Esso è ovale, e disposto perpendicolarmente fra le dita, si apre dal suo lato inferiore alla superficie della pelle. Pare si avvicina a que- st'ultima forma quella del seno del Cervus capreolus secondo Bruhl. Quanto alla for- ma del seno degli altri Bisulci, poco vi è da aggiungere, e sarebbe qui troppo lungo riportare le descrizioni datene da altri autori, che io ho già citati nella prima parte di questo lavoro. ConcLUSIONI ANATOMICHE Dallo studio suesposto dal seno credo dover far rilevare: 1. Che il seno è una continuazione della pelle dorsale del piede, e, come tale, ha tutti i caratteri anatomici di quella; che pur conservando il nome datogli dal Klein di seno cutaneo, è più logico che venga detto seno interdigitale, che ungueale, come dal Klein si volle chiamato. 2. Che sono notabili la variabilità di forma e di sviluppo da maschio a femmina, il poco sviluppo nei piccoli agnellini, la rara assenza sua nelle femmine ( piedi ante- riori) lo sviluppo maggiore nei piedi anteriori dei maschi e posteriori (meno frequente- mente) delle femmine, ed infine la grande riduzione di esso nei castrati. 3. Che esistono due membrane involgenti; una esterna, l’altra interna; questa più spessa è compatta, quella meno spessa e continuantesi col congiuntivo sottocu- aneo. 4. Che la rele arteriosa esterna è propria del seno e tutto lo involge. 5. Che la rete nervosa irregolare è formata dai filetti nervosi, che si terminano nelle pareti del seno. 6. Che la secrezione speciale raccolta nella cavità del seno, è grassa, di odore proprio e sgradevole, massime nell’epoca della monta, ed è differente dal sudore, e dallo smegna cutaneo; ma ha alquante analogie col cerume. $ II. — Istologia. Dalla esposizione anatomica che ho fatta emerge chiaro, che il seno cutaneo in- terfalangeo vuolsi considerato una produzione, o meglio una insenatura della pelle. Come questa siasi determinata, dirò più oltre. Ora arrestandomi al fatto, è d’uopo considerare il seno, come pelle introflessa e come tale essa ne mostra la stessa istologica struttura. Ciò che nella pelle del seno trovasi in più, è la esistenza delle due membrane involgenti ( Tav. II, fig. 1, m', m?), separate spesso nettamente l’una dall’altra da ammasso di cellule di tessuto grasso (Tav. II, fig. 1, gr). Queste due membrane sono fatte di tessuto congiuntivo elastico le fibre del quale, molto compatte, trovansi a formare una doppia rete elastica nella mem- brana interna, mentre formano una rete poco spessa ed a maglie larghe, nella ester- na. Lo spessore delle due membrane prese insieme è in media di mill. 0,65. Facendo una sezione della pelle del seno si vede ( dall’ esterno all’interno , cioè verso la cavità del seno), al disopra della membrana involgente interna (Tav. II, fig. 1, m'), un fitto strato di grosse glandole gomitiliformi, di colore gialliccio, in- sii fossate nella metà inferiore del derma , così fittamente l’una all'altra collegate, che il Balogh volle distinguere questa porzione del derma col nome di strato glandolare , ( Tav. II, fig. 1, gE). Nella rimanente porzione del derma, metà superiore ( strato | papillare del Balogh) si osservano le glandole sebacee (Tav. II, fig. 4, 8, gs). Nel der- ma sono anche impiantati i numerosi peli. Adiacente al derma e che segue tutte le on- dulazioni molto accentuate delle papille dermiche, scorgesi lo strato o reticolo Malpi- ghiano , ed a questo fa seguito lo strato corneo (Tav. II, fig. m, c). Lo spessore di questi strati della pelle del seno, è vario, e si differisce alquanto da quello del resto della pelle. In generale le pareti del seno, come già fu dal Meckel ') notato e da al- tri ancora, sono più spesse nel gomito e nel braccio ascendente, che non in quello di- scendente. Di ciascuno di questi strati è uopo partitamente ragionare; ciò che qui mi accin- go a fare. Stimo per altro non inutile l’esporre i principali processi di preparazione, di cui mi son valso. Processi di preparazione. — Per isolare le glandole a gomitolo, mi son servito di una soluzione di acido acetico ‘/.30 0 di pepsina dall’ */,50 a #/100; facendovi rimanere i pezzetti di pelle per uno o due giorni, ed ho operata la colorazione per mezzo del car- minio boracico od ammoniacale. Quanto alle sezioni, esse vennero eseguite in generale col microtomo di Yung; ma molto spesso ho fatto delle sezioni a mano. Ho trovata molto utile la colorazione dopo le sezioni, ed ho seguito il metodo di Mayer (Eiweéis- methode), solo ho sostituito ai carminii proposti dal Mayer il carminio allumico di Grieb preparatore del Gabinetto. Per fare questo carminio bisogna seguire le norme seguenti. Si fanno bollire due decigrammi di carminio in una soluzione di 100 gr. di acqua e 6 gr. di allume. Si toglie dal fuoco e vi si versano a caldo 20 gr. di alcool assoluto. Si filtra il tutto dopo il raffreddamento e si lascia riposare per un paio di giorni, poi si filtra di nuovo. Allora è pronto e si può con esso colorare. Si deve aver cura di lavare i pezzi dopo colorati, in acqua distillata. La colorazione che si ottiene con questo nuovo carminio è di un bel roseo violaceo e gli elementi rimangono molto bene conservati. Ancora bene mi è riuscita la colorazione delle sezioni col verde di metile. Per ot- tenerla bisogna seguire il metodo di Mayer fino al lavaggio in alcool a 70°, di qui si mettono le sezioni in alcool a 30° od a 25° ed infine in acqua distillata. Si colorano poscia con una soluzione di verde di metile 5°/,,3, si lavano di nuovo in acqua distillata e si montano in glicerina. Se le sezioni sono soverchiamente colorate, si leva l'eccesso lasciandole per qualche minuto (1 a 2) nell’alcool a 70° poi si montano direttamente in glicerina, Per le ricerche dei nervi, ho fatto uso del liquido di Hertwig, ma senza succes- so, e del cloruro d’oro, metodo di Ranvier °), tenendovi i pezzi di pelle un'ora e più; ed anche del metodo lowitiano modificato dal sig. Grieb °), lasciando lungo tempo i !) Meckel. op. cit. pag. 590 t. IV. ®) Ranvier. Traité d’Histologie, pag. 900 e 826. 3) Trinchese. Intorno alla terminazione periferica dei nervi motori dei Teleostei (comunica- zione preliminare) Riv. Ital. di Sc. Natur. e loro App. Ann. I, Comunicati, pag. I-II, 1885, Napoli. ME Pra pezzi nella soluzione di cloruro d’oro ‘/sso ( 15 m. a '/3 ora ) e poscia nell’ acido formi- co ‘/; per 18-20 ore. I. Derma. — (Tav. II, fig. 1, de). Questo strato è più sottile di quello della pelle del corpo. e non ne differisce, quanto a struttura. Esso è fatto di fasci di tessuto con- giuntivo e fibre elastiche , le quali meno spesse di quelle della pelle , formano un tes- suto consistente, foggiato a rete di maglie alquanto larghe; consistenza che aumenta, a misura che si va verso l'epidermide. Le papille dermiche variano di forma; d’or- dinario coniformi, molte volte tondeggianti spesso luna all'altra addossate. Le papille come ben nota il Chodako wski ‘) sono nel seno in maggior numero, che in qualun- que altra parte del corpo. Lo spessore del derma è in media di p 1,60-2. II. Strato del Malpighi. — (Tav. 1, fig. 1, m). È più spesso di quello del corpo, e giace addossato al derma. Le sue cellule sono piuttosto grandi, e conservano in ciò un carattere embrionale ( Tav. III, fig. 4, m). Il Chodakowski ha affermato, esser le cellule del Malpighi prive di pigmento. Non mi è stato dato osservare una pecora adulta a pelame nero o bruno, ma in un embrione a vello scuro (Tav. III, fig. 5, pg) ho osservato le cellule dello strato Mal- pighiano così profonde che superficiali, come anche i peli ed i loro follicoli, sopracca- richi di bruno pigmento. Questo fatto proverebbe il contrario delle osservazioni del Chodakowski, a meno che, fatto adulto l’animale, la pelle del seno non perdesse il pigmento, la qual cosa in vero non mi pare giustificata. Le cellule dello strato Malpighiano mostrano all'aspetto una bellissima rete proto- plasmatica, formata di granulazioni molto grosse (Tav. II, fig. 25, rpe). Anche nel nu- cleo si osserva una rete fatta di finissime granulazioni (Tav. II, fig. 25, rpn). La rete pro- toplasmatica delle cellule fu descritta pel primo dall’ Heitzmann *), come fatto gene- rale negli elementi anatomici degli animali, poi dal Fromman °) e dal Trinchese che l’ha trovata nella cornea della Rana esculenta ‘) e sotto molteplici forme nella Ca- lyphylia mediterranea °) e nella Spurilla neapolitana °) dandone egli pel primo un di- segno. Ultimamente venne descritta, nell’epitelio esterno dell’amnios del gatto, dal Marotta ?); ma non ho trovato da alcuno descritta una vera rete protoplasmatica, nelle cellule del corpo mucoso del Malpighi. Pare che il Ranvier *) accenni a questo fatto quando riferisce, che nelle cellule ont reconnue que leur substance costitutive que l’on considerait jadis comme granulose; est en realité constitué par de fils delicats nagés dans un matier jaline. 1) Chodakowski, op. cit. pag. 27. 2?) Heitzmann— Unters. iiber das Protopl. Sitzungsb. d. K. K. Ak. des Wis. zu Wien. 1873. 5) Fromman— Zur Lehre von der structur der Zellen, Jenaische Zeitschrift fir Naturg. IX, 1875. 4) Trinchese — Comunicazioni sulla rete di protoplasma. Rend. delle Sess. d. R. Acc. di Bo- logna, 1875-79, pag. 51-70-122. Li » Anatomia della Calyphylla mediterranea. Mem. Acc. di Bologna, ser. III, Tom. VII, 1876, Tav. II, fig. 32, 33, 34, 35. “) » Anatomia e fisiologia della Spurilla neapolitana, Bologna, 1878. ?)Marotta— Studii sulla struttura dell'’amnios del gatto. Att. R. Acc. di Sc. Fisiche e Mat. Napoli, Vol. I, ser. II, tav. I, fig. 2. #) Ranvier — Sur la structure des cellules du corps muqueuse de Malpighi, Comp. Rend. 1882, pag. 1374. du Po L'esistenza della rete protoplasmatica cellulare e le relazioni che questa stabilisce fra le cellule, mi permettono accennare ad una ipotesi, sul modo di unione delle cel- lule del corpo mucoso del Malpighi. Lo Schrén ') pel primo ha notato e descritto delle dentellature che separavano le cellule epiteliali dello strato Malpighiano. Secondo le sue osservazioni, queste den- tellature dovevano considerarsi, come porocanali scavati nelle pareti delle cellule molto spesse. Essi avrebbero avuto per iscopo di far comunicare le ceilule fra loro, Max Schultz °), dopo macerazione nel siero jodato del corpo del Malpighi, ha osserva- to, che le cellule invece erano dentellate sui loro margini, e che i dentelli di una (cel- lule spinose) si infrapponevano fra i dentelli di un’allra a mo’ d’ingranaggio. Bizzoze- ro °) fu anche di opinione, che si traltasse di prolungamenti, in luogo di canaletti. Lo Schròn *) ha replicato a Schultz e Bizzozero, sostenendo la sua prima opinione, e facendo osservare, che la macerazione veniva a distruggere, o parzial- mente o totalmente, la membrana cellulare. Egli non crede difficile, che i prolunga- menti osservati da Schultz e Bizzozero non sieno altro, che il contenuto baston- ciniforme, trovantesi nei porocanali, la cui parete è distrutta col disfacimento della membrana cellulare, per mezzo del liquido macerante. Il Kòlliker °), il Frey °) il Cornil e Ranvier ?) hanno sostenuto la ipotesi di Schultz; e Bizzozero °) più re- centemente, pur sostenendo quanto aveva prima affermato, ha emessa l'opinione che i dentelli delle cellule si tocchino per le loro estremità, invece di disporsi ad ingranag- gio. Tale opinione ha sostenuta, alquanto modificandola il Lott °). Egli infatti crede che i dentelli si addossino lateralmente per le loro estremità. Il Ranvier ‘°) nei primi fascicoli del suo trattato nota semplicemente il fatto della dentellatura delle cellule Mal- pighiane: ma in altro lavoro ‘'), sostiene che esse son unite per mezzo di filamenti proto- plasmatici, e che il nodulo, che occupa il mezzo del filamento ( sutura dei dentelli Biz- zozero, e punto di yustaposizione Lott), è un organo elastico, che permette la circo- lazione dei succhi nutritivi. Ultimamente lo stesso Ranvier ') ha dimostrato un nuovo modo di unione delle cellule Malpigbiane con la esistenza di fibre intercellulari , che 1) Schròn O. — Ueber porencénale ecc. Moleschotts Untersuchung. Bd. IX. 2) Max Schultz— Die Stachel und Riffzellen der tieferen Schichten der Epìdermis, Wirchow Arch. t. XXX, 1864, pag. 260, und Medical Centrablatt, 1864, N. 12. °) Bizzozero — Delle cellule cigliate. Milano, 1864. 4) Schròn 0. — Contribuzioni all’ anatomia e fisiologia della cute umana. Torino, 1865, pagi- na 34-35. >) Kélliker — Traité d’Histologie, trad. francese, ediz. 1869. 6) Frey — Traité d’Histologie et d’Histochimie. Paris, 1870. ?*) Cornil et Ranvier — Manuel d’Histologie patologique, p. 44. 8) Bizzozero — Sulla struttura degli Epitelii pavimentosi stratificati. Medical Centrablatt, 1871, pag. 482. °) Lott— Ueber den feineren Bau und die physiologische regeneration der Epithelien, Un- tersuchung aus dem Institute fiir Physiologie und Histologie in Graz, herausg. von. Bollet, 1873. 19) Ranvier — Traité d’Histologie, pag. 240. 11) » — Nouvelles recherches sur le mode d’union des cellules du corps muqueux de Malpighi. Compt. Rend. 20 ott. 1879, pag. 667. » Traité d’Histologie, fasc. VI, pag. 883-884. 12) Ranvier — Sur la structure des cellules du corps muqueux de Malpighi, Compt. Rend. 20 Dec. 1882, pag. 1374. Atti — Vol. 17, Serie 2.? — Appendice, N.° 1. 3 e formano reticoli intorno al nucleo , e intromettonsi fra i filamenti di unione, per rag- giungere le cellule vicine. Egli vuol vedervi degli equivalenti morfologici delle fibrille della nevroglia, ed avrebbero esse una speciale significazione funzionale relativa « par ecemple à la solidité du revetement epithelial de la peau ». Sopra sezioni della pelle del seno trattate col verde di metile °°/,,0, ho osservato, che la rete protoplasmatica di una cellula si continuava in quello di un’altra vicina. Questi prolungamenti della rete protoplasmatica altro non sono, che i filamenti di u- nione, descritti da Ranvier, i quali non sono continui, ma formati, come la rete, di granulazioni messe l'una appresso l’altra. Se si lascia per un'ora un pezzo di pelle del seno nel cloruro d’oro ‘/,00; si passa poi in acido formico ‘/, lasciandovelo per 12- 24 ore al buio, e si disgrega poscia con gli aghi il corpo mucoso del Malpighi, mon- tando le preparazioni in glicerina con aggiunta di acido formico, egli è ben facile scor- gere, nel campo del microscopio, gruppetti di due o tre cellule isolate. Osservando 3 > uno di tai gruppetti con forte obbiettivo (Sist. Zeis 1 app. ill. Abbe) , si vedrà chiara- 12 : mente quanto sopra ho affermato. Il corpo delle cellule, colorato in rosso mattone, più o meno scuro, lascia vedere una rete a grosse maglie, della larghezza in media p 0.002-3, fatta di grosse granu- lazioni. Le maglie verso la periferia delle cellule si fanno più rade, ed i fili della rete, si continuano, in quelli delle cellule vicine ( Tav. II, fig. 25, rpc, fu). La rete e il modo di unione delle cellule or ora descritto, si può bene osservare nelle sezioni di giovani embrioni (di cent. 10 X 6 ) colorate col carminio di Grieb. Limito le mie conclusioni a quanto ho osservato nel seno della pecora, e non intendo per ora generalizzare il fatto a tutti i Mammiferi, ma mi auguro, come ho in animo, di ritornare sull'argomento in altro lavoro. La larghezza dello strato Malpighiano dalla pelle del seno è in media di p 0,15-20, e le cellule misurano in media p. 0.04. III Strato granuloso.—(Tav. II, fig. 2, 3, g). Le cellule di questo strato, nei tagli si mostrano trapezoidali, il nucleo è scomparso, e vi è rimasto uno spazio tondeggiante e vuoto. In queste cellule la rete protoplasmatica è poco visibile (Tav. II, fig. 26, rpc) le cellule misurano in media p. 0.03. Il Ranvier ‘) or non è molto descrisse la speciale sostanza, che colorasi in rosso col picrocarminio, e la chiamò Eleidina. Tale sostanza ho trovata io abbondantissima nella epidermide del seno, forse anche più abbondante nel braccio ascendente, che nel discendente, molto più che non nella pelle del corpo, presa ad esame in varii luoghi. i ; 2 DR 4 : Ad un debole ingrandimento (Zeis 2) si scorge una zona nettamente colorata in ros- so, formata di granulazioni messe l'una accosto all'altra (Tav. II, fig. 2, E2). Se si E stra formata di granuli o flacculi, che occupano le cellule a nucleo vuoto e s' infil- trano nello strato corneo ( Tav. II, fig. 3, E). Questo fatto viene certamente in ap- i sù nti --_ 31 peli i guarda la medesima preparazione con più forte obbiettivo (Zeis 3) l’Eleidina sì mo- ') Ranvier — Sur un substance nouvelle de l'epidermide et sur le processus de keratinitation epidermique. Compt. Rend. 80 Juin, 1879. » Traité tecnique d’Histologie, pag. 881. A - poggio di quanto ha sostenuto il Ranvier ') contro il Waldeyer ?) e l’Unna 3), che cioè sia da ritenersi sostanza liquida. Se infatti essa fosse una sostanza solida colloi- de, secondo il Waldeyer, non si potrebbe avere l’infiltrazione nello strato corneo. Il Ranvier ‘), crede, che almeno quella parte, che infiltra lo strato corneo, sia li- quida, e da ravvicinarsi ad un olio essenziale. Credo qui poter dire almeno nel caso mio, che l’Eleidina tanto quella che infiltra lo strato corneo, quanto quella dello strato granuloso , è liquida. D'accordo col Ranvier credo che il nome, che Unna ha voluto dare ultimamente alla Eleidina (Keratoyalina), fondandosi sulle osservazioni di Wal- deyer, non può essere accettato, visto che essa non ha niente di comune con la jalina dei prodotti patologici di Recklingausen e Me yer, alla quale il Waldeyer pensava ravvicinarla. Ed a farmi ritenere che |’ Eleidina sia sostanza liquida, concorre il fatto, che Biesiadecki °), pria ancora che venisse descritto lo strato granuloso dal Langerhans°) ed Unna”), aveva notato in molte delle cellule degli strati superficiali del corpo del Malpighi, specialmente in quelle a nucleo vuoto, delle piccole vacuole, che egli credeva possibilmente allo stato fresco, riempiute d'un liquido limpido. Queste vacuole non è improbabile sieno appunto lo spazio occupato dalla Eleidina, che nelle preparazioni all’acido cromico di Biesiadecki rimaneva incolore. Posta la qual cosa, è da tener conto dell’opinione di quest'ultimo, circa il contenuto delle vacuole. L’im- portanza della Eleidina nel processo di cheratinizzazione dell’ epidermide , è stata di- mostrata pel primo dal Ran vier. Il Suchard °*) sostiene di più che la presenza di uno strato granuloso contenente della Eleidina, è in ragione diretta del processo di cherati- nizzazione, perchè la quantità di essa è in ragione diretta con la intensità del processo di cheratinizzazione. Le mie osservazioni sono concordi nel confermare questo enunciato, perchè infatti nel seno, dove lo sfaldamento dello strato corneo è sensibilissimo, tro- vasi abbondare la Eleidina. La qual cosa ne indica pure, che nell’epidermide del seno il processo di cheratinizzazione è intenso, che vi è, cioè, una rapida e continua tras- formazione delle cellule Malpighiane in cellule cornee. La larghezza dello strato granuloso è in media di p. 0.06. IV. Strato corneo. — ( Tav. II, fig. 1, c). Questo strato , che è la continuazione dello strato granuloso, differisce, quanto a spessore, da quello della pelle esterna. Men- !) Ranvier — De l’Eleidine et de la repartition de cette substance dans la peau, la muqueuse buccale et oesophagien des Vertebres. Arch. de Phys. norm. et patolog. Serie III, 15 feb. 1884, n. 2, pag. 125-141, Tav. IIL 2) Waldeyer — Untersuchungen iber die Histogenese der Horngebilde inbesondere des Haare und Federn. Beitrige zur anatomie und Embryrologie als Festgabe, Jacob Henle, Bonn. 1882. 3) Unna— Ueber das Keratoyalin und seine Bedeutung fiir den Prozes der Verhornung, Monasthefte fiir praktische Dermatologie, 1 Bd, 10 Heft, December 1882. ‘)Ranvier — De l’Eleidine et de la reprrtition ecc. °) Biesiadecki in Stricker Handb. Farabeuf—De l’epiderme et des Epiteliums. Paris 1882. ©) Langerhans— Ueber tastkorperchen und rete Malpighi, Arch. fiir mikr Ant. Bd. IX, 1873. 7) Unna — Beitrige zur Histologie und Entwicklung des Mensch. Oberhaut und ihrer Anhangs gebilde. Arch. fiir Mikr. Anat. XIII, 1876, p. 665. 8) Suchard— Des modifications et de la desparition du stratum granulosum de l’epiderme dans quelques maladies de la peau. Labort. d’ Histologie du Coll. de France — Travaux de l'ann. 1882, pag. 96-105, tab. VII. * 20 tre nel braccio discendente conserva quasi lo stesso spessore di quest'ultimo, nel brac- cio ascendente e nel gomito, per lo contrario, esso si mostra doppio e si sfalda facilis- simante in laminette sottili che cadono nella cavità del seno. Nel braccio discendente tale sfaldamento è molto meno sensibile. Le cellule cornee sono d’ordinario poligonali, più o meno irregolari negli strati profondi, molto appiattite negli strati superficiali. Nella cute palmare dell’uomo venne descritte dall’Oehl] ‘), e confermata dallo Schròn ?) una zona chiara mediana fra lo strato granuloso e lo strato superficiale dell’epider- mide cornea ( Stratum lucidum). Della esistenza di questo strato non ho potuto accertarmi nella pelle del seno, giacchè in entrambi i casi, sia cioè in preparazione all’acido osmico semplicemente, sia in quelle previo indurimento in alcool; ho notato sempre una uniforme colorazione dello strato corneo. A due cause potrebbe forse venire attribuita questa mancanza di strato lucido: 1.* la sottigliezza dello strato corneo del seno, rispetto a quello della cute palmare umana, nel quale facilmente si infiltra l’acido osmico, 2.° la grande quantità di grasso secondo Ranvier *) esistente possibilmente nella parte superficiale dello strato corneo, che qui stante la completa riduzione dello Osmium, pare esista invece in tutto lo strato corneo. Lo spessore dello strato corneo è in media di p. 0.12-18. V. Glandole. — Come nella pelle esterna, anche in quella del seno due maniere di glandole si debbono osservare. Le une a grappolo, formate di acini, glandole sebacee; le altre tubolari, molteplicemente su se stesse ravvolte, glandole a gomitolo, corrispon- denti in parte alle glandule sudorifere, che per altro, tenuto conto dei-dubbii, se la fun- zione di esse corrisponda alla loro denominazione; è bene distinguere anch'esse col nome che lor viene dalla forma, di glandole a gomitolo, come ben pensa l’Hyrtl *). a) Glandole sebacee. Sono esse molto grandi, situate ai lati del follicolo del pelo, e sboccano nel collo di quest'ultimo , trovandosi aggruppate nel suo terzo superiore, a differenza di quel che descrive e figura il Chodakowski °) che le dice invece dislto piccole, giacenti profondamente nel derma alla estremità del terzo inferiore del follicolo del pelo (Tav. II, fig. 4,8, 10, gs). ST il Balogh °) pur anteriore a questo ultimo dice ( sebbene indivi perchè si rileva dalle misure che dà), essere le glandole sebacee del seno bene sviluppa- te; il Chodakowski invece scrive « Schon în der Umgebung der Mindung des Klauen- sdickchens sieht man die Talgdrisen immer kleiner werden bis dann endlich im Klauensdick- chen selbst die Masse sich derart gestalten » e qui dà le misure, dalle quali risulterebbe il poco sviluppo di esse, e continua doch kommen auch noch kleinere Driisen vor. Delle glandole sebacee della pelle dà il Chodakowski una descrizione minuta, dalla quale, insieme alla figura si rileverebbe il massimo sviluppo di queste. Or a que- i) Oehl— Indagini di anatomia microscopica per servire allo studio dell'epidermide della cute palmare. Milano, 1857. *) Schròn — Contrib. ece., op. cit. ?) Ranvier — Traité tecnique d’Histologie, pag. 883. ‘) Hyrtl— Istituzione di Anatomia dell’uomo, 82 ediz., trad. Italiana, 1883, pag. 450. ?) Op. cit. pag. 27, tav. II, fig. 11, d. *) Op. cit. = LC ste osservazioni del Chodakowski') non posso sottoscrivere; imperocchè le cose stanno alquanto diversamente. Le glandole sebacee della pelle del seno, a differenza di quelie della pelle ester- na, che sono povere di acini (Tav. II, fig. 4, gs) sono, come già ho sopra notato, svi- luppatissime. Esse circondano da ogni lato il follicolo del pelo (Tav. II, fig. 11, gs). Al- cune sono formate di numero maggiore, altre di numero minore di acini e disposte in guisa, che quelle con maggiore numero di acini corrispondano a quelle che ne hanno minor numero del vicino follicolo pilifero. In quanto a sviluppo, le glandole sebacee del seno potrebbero venir paragonate a quelle dei lagrimatoi *). Le glandole del seno sboc- cano direttamente nel collo del follicolo del pelo, con largo e non distinto dotto escreto- re (Tav. II, fig. 4, 10, dgs) e incominciano a crescere di volume di là dal cercine (Tav. I, fig. 13) dove invero non son più grandi di quelle del corpo e forse anche un pochetto più piccole come non a torto il Chodakowski le dice esser nel Umgebung dell’ orifi- zio esterno del seno; ma nel braccio discendente crescono sempre di più, e raggiungo- no il loro massimo sviluppo nel gomito e nel braccio ascendente (Tav. II, fig. 4, 10, gs). Le glandole sebacee misurano in media ». 0,35 di lunghezza e p 0,19-20 di larghezza. Una modificazione nelle glandole sebacee del seno nota ancora il Carsten Harms °). L’Ercolani aveva già notato un tale maggiore sviluppo ‘) ed anche il Pa- ladino °), e fors anche il Jhonsthon che parla di glandole sebacee abbondanti e sviluppate, fra le dita del bestiame °). Le giandole sebacee della pelle, a differenza di quanto descrive e figura il Cho - dakowski, e conformemente a quel che dicono Gurlt 7) e Carsten Harms (loc. cit.), sono formate di più acinetti piccoli e rotondelti, e mostrano più acini da un lato ed uno o due acini dal lato opposto del follicolo pilifero (Tav. Il, fig. 6, gs). Esse non hanno dolto escretore distinto , e sboccano nel collo del follicolo pilifero (Tav. Il, fig. 6, dgs), e sotto questo aspetto le mie osservazioni son d'accordo con quelle del Chodakowski, ma non con quelle di Gurlt (op. cit.), il quale disegna le glandole sebacee con un dotto escretore chiaramente distinto. Le misure delle glandole sono in media lung. p 0,25, larg. p 0,13-17. Ciascun acino delle glandole sebacee del seno, come altrove, ha una tunica propria, che è limitata esternamente da uno strato più o meno compatto di tessuto congiuntivo. Il tessuto epiteliale occupa tutta la cavità dell’a- cino, e consla di grosse cellule, con un distinto nucleo (Tav. II, fig. 4, 10, 11, gs). In preparati trattati con l'acido osmico ‘/.00 , € colorati per mezzo del carminio di Mayer, si vede nello interno delle cellule, circondante il nucleo, anche con mediocre ingrandimento (Zeis 5): una bellissima rete protoplasmatica, formata di piccoli gra- nuli messi in fila. 1) Chodakowski, op. cit., pag. 22, tav. I, fig. 7. j » op. cit., pag. 25, tav. II, fig. 9. 3) Carsten Harms, op. cit., pag. ll. 4) Ercolani, op. cit., pag. 83. 5) Paladino — Ist. di fisiologia, 2° ediz. 1885, pag. 371, 372. ®) Jhonsthon I.,0p. cit., pag. 436. | ?) Gurlt — Vergleich. Untersuchung. iiber der Haussiugethiere, Mullers Archiv. fiir Anatomie 1835, fig. 5, tab. X. {or Le maglie di questa rete sono di forma irregolarmente poligonale o tondeggian- ti. La rete di una cellula si continua in quella delle cellule vicine per mezzo di pro- 3 lungamenti (filamenti di unione), fatti anch'essi di granuli (Zeis 1 app. ill. Abbe. ) 12 (Tav. II, fig. 22, rpc). Nel nucleo veggonsi ora granulazioni sparse, ora una vera e minuta rete ( Tav. II, fig. 22, rpr). Ciascuna cellula misura in media p 0,015. Ho osservato una rete protoplasmatica esistente nelle glandole sebacee del cuoio capel- luto dell’uomo e di altre parti del corpo umano. Esiste ancora nelle cellule dell'epitelio di due grosse glandole (sebacee ?) che trovansi ai lati della faccia del topo comune (Mus musculus). La rete in queste ultime è elegantissima, e le maglie sono formate di granu- lazioni finissime. Anche il nucleo presenta in queste una bella rete. Tulto ciò si vede Si) (Tav. II, fig. 14, rpe, rpn). Noterò qui incidentalmente un modo di divisione nucleare, che avviene nelle cel- lule dello epitelio della glandola faciale del Mus musculus. Nel mezzo dell’acino le cellule si disfano per divisione. S'incominciano dallo strozzare i nuclei, poi si dividono in due, poi si dividono anche le cellule. La parte più grande del nucleo diviso, resta nella cellula anche più grande verso la periferia dell’ acino, mentre la parte più piccola del nucleo, chiusa in piccola cellula trovasi verso il centro dell’acino, dove a poco scompare il nucleo e si disfà la cellula (Tav. II, fig. 12, nd, cd, fig. 13, nd). Le glandole sebacee del seno hanno allo stato fresco gli acini ripieni di grosse gocce di grasso, cosicchè sono così oscure che le cellule appena si scorgono ed il nucleo appena s’ intravvede, come nota giustamente il Balogh (op. cit.). solamente con forte ingrandimento (Zeis b) Glandole a gomitolo. Le glandole a gomitolo del seno, come fu osservato dall’Ercolani, sono svilup- patissime, tanto che questi scriveva essere il loro diametro il doppio maggiore delle più voluminose glandole sudorifere della pelle '). In una sezione falta a fresco (trasversale) delle pareti del seno, si vede un com- patto strato gialliccio, fatto di glomeruli glandulari, disposti l’uno accanto all’ altro (Tav. II, fig. 1, gE). Se si isola un glomerulo glandolare, per mezzo di una soluzione di acido acetico ‘/10 0 di pepsina “/100 (vedi pag. 15), e poi si colora con carminio, si ve- de (Tav. ll, fig. 4, gE) che il tubo glandolare ravvolto molteplicemente su se stesso, e che si termina in un dotto escretore del medesimo diametro della parle aggomito- lata, è situato di solto e di lato al follicolo pilifero, e tutto abbraccia il terzo inferiore dello stesso, e molte volte arriva fin sotto le glandole sebacee (Tav. JI, fig. 4,8, 9E). Il dotto escretore attraversa, quasi dritto, o appena ondulato, il derma e l'epidermide, e sbocca nel collo del follicolo pilifero, al disopra le glandole sebacee, a livello dello strato Malpighiano e dello strato corneo (Tav. II, fig. 4,8, 10, dg9E, s). Pur essendo d’ac- cordo col Chodakowski, che il lumen interno di queste glandole è quasi uguale nelle due porzioni (secretoria ed escretoria) debbo far osservare che il dotto escretore, nello sbocco alla superficie della pelle, non conserva lo stesso diametro, ma si allarga un ') Ercolani, op. cit., pag. 83. = ia poco da sotto in sopra a forma di un imbuto ( Tav. II, fig. 8, s). Rarissimamente ho osservato esistere due glandole a gomitolo con distinti dotti escretori, che sboccavano in un medesimo follicolo pilifero. Il Balogh ha sostenuto che le glandole a gomitolo sboccano alla superficie della pelle del seno e non nel collo del follicolo pilifero, ma a me non è riuscito mai di vedere una glandola a gomitolo sboccare libera alla superficie della pelle del seno. Le glandole sono ugualmente sviluppate, tanto nel braccio ascendente, che nel discendente, noterò solo, che nella porzione di quest'ultimo, vicina all’orifizio di uscita, sono esse un poco meno grandi; ancor più piccole si ritrovano nel cercine, e qui solamente ho potuto osservare uno sbocco libero alla superficie della pelle (Tav. II, fig. 5, gE, dgE, s). Quanto alla osservazione dell'’Ercolani circa il colorito delle glandole a gomitolo del seno, debbo pienamente confermare le sue affermazioni contrariamente a quanto asserisce il Balogh, che, cioè, il colorito giallo non è proprio delle glandole, come quest ultimo sostiene, ma dipendente dal secreto delle glandole stesse. Ed a rendere più evidente la mia asserzione , aggiungerò che non avrei saputo spiegarmi una metà degli elementi della g!andola a gomitolo, colorata in giallo (pars secretoria) ed un’ altra ora incolora, ora colorata per metà della lunghezza (pars ea- cretoria) del lubo, perocchè da ciò chiaramente si arguisce, che il color giallo è della sostanza segregata, che trovasi nel gomitolo della glandola e che raggiunge il dotto escretore, quando deve essere espulsa, e da incolore, lo fa giallo. Hanno notato lo sviluppo maggiore delle glandole della pelle; ma senza darne una minuta descrizione, il Leydig ‘), il Weiss °), il Bendz °) ed il Paladino ‘). Sorge ora la quistione, se morfologicamente differiscono queste glandole a gomitolo del seno dalle omologhe del resto della pelle. Ecco il risultato delle mie osservazioni: Quelle del dotto auditivo esterno (glandole del cerume) (Tav. II, fig. 9), in verità, sono quelle, che più si avvicinano alla forma delle glandole a gomitolo del seno; anzi soggiungerò, che fra le glandole del cerume, e quelle a gomitolo del cercine (Tav. II, fig. 5. gE) vi è quasi identità di volume e grandezza. Osserverò, per altro, che ciò che le distingue, si è l’avere esse un dotto escretore alquanto più corto, ed in generale il diametro del tubo glandolare, che pur conservasi lo stesso, tanto nel dotto escreto- re, quanto nel gomitolo, è quasi il doppio di quelle delle glandole aggomitolate del seno, Quanto alle glandole del resto della pelle del corpo, se ci attenessimo alla de- serizione del Gurlt ?) non vi sarebbe differenza, perocchè quest’autore le descrive co- me fatte di un canale molteplicemente ravvolto a spira, come nell'uomo. Il Carsten Harms ) ne dà una descrizione presso a poco simile, anzi, per di più, ne dà anche una figura, Le osservazioni del Leydig ”) sono conformi a queste: quelle del !) Leydig, op. cit., pag. 86. 2) Weiss, op. cit., pag. 269. 3) Bendz, op. cit., pag. 35. 4) Paladino, op. cit., pag. 510, ediz. 1878. 3) Gurlt, Mull. Arch. 1835, fig. 5, tav. X, pag. 415. 5) Op. cit., pag. 7, fig. IV e V. 7) Op. cit. ae Chodakowski '!) sono invece molto differenti. Quest autore descrive le glandole a gomitolo ( sudorifere ) del corpo come un lungo e semplice tubo, che non forma un vero gomitolo, ma nella parte secernente, molto slargata, mostra delle ondulazioni (windungen) che possono variare da 6-8. Isolando le glandole a gomitolo della pelle, ho trovato tre forme distinte (Tav. II, fig. 7, 1,1, m). Il dolto escretore, che, come hanno osservato, Gurlt, Chodakowski, ed Harms, sbocca con apertura imbutiforme nel follicolo del pelo, rasenta questo ulti- mo con debole spirale (Tav. II, fig. 6, gsu, des), si allarga inferiormente, a differenza di quello del seno, e si continua in uno slargato tubo glandulare, a forma di pera, pre- sentando appena qualche ondulazione (pars secretoria) (Tav, II, fig. 6, gsu, fig. 7, m, gsu). Questa è la forma più semplice; ancora se ne ha una più complicata , ed è quella in cui il canale glandolare, anche molto largo, presenta molti ravvolgimenti (Tav. II, fig. 7,1, gsu), e finalmente havvi delle forme intermedie tra la prima e la seconda, in cui i ravvolgimenti sono maggiori della prima e minori della seconda (Tav. II, fig. 7, 11, gsu). Morfologicamente queste glandole differiscono tanto da quelle del cerume, quanto da quelle del seno, per avere la parte secernente molto slargata e continuan- tesi in uno strelto dotto escretore. i Non ho osservato le glandole delle fosse lagrimali (lagrimatoi); ma stando alle os- servazioni ed ai disegni del Chodakowski (Die Haut der Thrànengruben *), le glandole gomitoliformi sarebbero anche qui, quantunque in picciol numero ed inca- stonate fra le sviluppate glandole sebacee, molteplicemente aggomitolate (vielfacher gewunden). Il dotto escretore sboccherebbe libero alla superficie della pelle o nel fol- licolo del pelo. Noterò, qui, che il Richiardi *) ha descritto nella pelle del Dromedario delle glan- dole sudorifere ad elica, formanti un numero maggiore o minore di volute, mentre ac- quistano uno sviluppo maggiore e costituiscono gomitoli complicati nella pianta del pie- de, e nella regione occipitale. Questa forma avrebbe un riscontro in quelle sudorifere della pelle della pecora, or ora descritte. Il dotto escretore delle glandole a gomitolo del seno, essendo una continuazione della parte secretoria, non si può stabilire fra le due parti un netto confine. Esso è ri- vestito da una tunica propria, non chiaramente visibile, continuantesi con la mem- brana basale della epidermide, ed esternamente a questa, da una tunica di tessuto con- giuntivo con distinti nuclei di tessulo congiuntivo ( Tav. II, fig. 21, mp, te, nte ). Le cellule del dotto escretore perdono la forma cilindrica e si fanno concavo convesse di- sposte concentricamente in più strati con distinti nuclei, che si fanno anche essi con- cavi convessi ( Tav. II , fig. 21, ep). Queste cellule, limitano una cavità, lumen, e sono coverte nella loro faccia in- terna da una cuticola, che rifrange fortemente la luce (Tav. II, fig. 21, ct). Esse in vi- cinanza del corpo di Malpighi, perdono tale forma, e assumono invece quella delle cellule Malpighiane. Lo stesso avviene nello strato corneo , sicchè il dotto escretore 1) Op. cit., pag. 23-24, Tav. I, fig. 7. 2) Op. cit., pag. 27-28, Tav. II, fig. 9. ?) Richiardi — Intorno alle glandule tubulari del derma del Dromedario, Zool. Anz. 4 Jharg., N. 83. su Ml rassomiglia nell’epidermide ad un foro che la traversi. Qualche autore accenna alla presenza di una cuticula, non nettamente visibile, che limiti il lumen del dotto escre- tore nel suo passaggio attraverso l'epidermide (Gatto) '); ma non ho potuto vederla nel dotto escretore delle glandole a gomitolo del seno. Nelle cellule superficiali del dotto escretore che stanno in relazione con lo strato Malpighiano, ho potuto consta- tare la presenza di Eleidenia, già altra volta affermata dal Ranvier°). Le cellule del dotto escretore misurano in media p 0,005, ed il nucleo p 0,002. La parte secretoria della glandola consta anch'essa di una membrana propria, che è continuazione di quella del dotto escretore, e di un epitelio glandolare (Tav. Il, fig. 18, 19, 20, 23, mp, ep). Le cellule che rivestono la cavità interna del gomitolo glandolare, sono disposte in un unico strato , e circoscrivono una cavità, che è il /umen ( Tav. II, fig. 19, 20, ep, lu). Hanno forma cilindrica o prismatica, sono relativamente piccole e nelle se- zioni si presentano poligonali od irregolarmente tondeggianti con un distinto nucleo (Tav. II, fig. 18, ep). Ciascuna cellula misura in media p 0.02, ed il nucleo p 0,01. Il contorno delle cellule è chiaramente visibile nelle preparazioni all’ acido osmico ‘/100 € colorazione successiva, ed anche meglio con la semplice colorazione col carminio di Grieb. Il Ranvier °) osserva che le cellule presentaro, nelle glandole sudorifere, una striatura longitudinale, analoga a quella che Heidenhaim *) ha descritto nelle cellule dei glomeruli renali striatura formata di granulazioni fine disposte in serie. In- vece di una striatura io ho osservato, che le granulazioni formavano una rete molto distinta, le cui maglie non erano molto grandi e, analogamente a quanto ho descritto per le cellule Malpighiane e sebacee, la rete di una, a mezzo dei filamenti di unione, si continuava in quella dell'altra. Non ho potuto osservare fra le ceilule quegli spazii canalicolati di cui parla il Ranvier °). Le maglie della rete rotondeggianti, misuravano in media p 0,001 (Tav. II, fis. 18, 23, rpe, fu). Nel nucleo non ho osservato una vera rete ma granulazioni sparse, o insieme aggruppate (Tav. II, fig. 23, gn). Le cellule del dotto escretore man- cano di rete protoplasmatica. Alla superficie interna della tunica propria, in sezioni traversali del tubo glandolare, ho osservato dei prolungamenti cuneiformi o triangola- ri, colorati in rosso col carminio, che penetrano fra le cellule dal lato della loro ester- na superficie ( Tav. II, fig. 20, cm). In sezioni longitudinali si vede che i prolunga- menti cuneiformi corrispondono a strisce longitudinali, che non sono altro, che muscoli lisci i quali giacciono al lato interno della tunica propria, e che s'intromettono tra le cel- lule epiteliali (Tav. II, fig. 18, 19, cm). Questi muscoli (cellule muscolari) si dispongo- no obliquamente a spirale intorno al tubo della glandola a gomitolo. Allo esterno ed al difuori la tunica propria, havvi la tunica di tessuto congiuntivo, ricca di nuclei di tes- suto congiuntivo (Tav. II, fig. 18, 19, 20, 23, te, nic). 1) Bubnoff—Zur Kennitniss der knàîuelformigen Hautdriisen der Katze, Arch. fiir Mikrosc. Anat., pag. 113, Vol. XX, Tav. VII, 1881. ?) Ranvier — Traité tech. d’ Histol., pag. 892. ” -_ op. cit., pag. 898. 4) Heidenhaim — Microscop. Beitrige zur Anatomie und Physiologie der Nieren (Arch. fiir Mikros. Anat. 1874, pag. 1. 3) Ranvier— Sur la structure des glandes sudoripares. Comp. Rend. 29 Dec. 1879. Atti— Vol. II, Serie 2.* — Appendice, N.° 1. 4 Mr SS Le glandole a gomitolo del seno hanno in media le seguenti misure : lunghezza del dotto escretore p. 0,85, larghezza esterna p. 0,10, larghezza del lumen p 0,015; lun- ghezza del gomitolo glandolare p. 4,50; larghezza esterna p 0,10, larghezza del lumen 0,04. Le glandole sudorifere della pelle quanto a lor fina struttura, anche differiscono da quelle del seno. L’epitelio di rivestimento della parte slargata del tubo glandolare, è fatto di cellule regolarmente poligonali ( Tav. IL, fig. 15, ep). Queste sono disposte in unico strato ( Tav. Il, fig. 16, ep), sono molto grandi, e posseggono una distinta rete protoplasmalica ( Tav. ll, fig. 17, rpc). Tale rete è molto bene sviluppata, le maglie sono grosse e tondeggianti, e, nella stessa guisa che nelle glandole a gomitolo del seno, comunicano con quelle di cellule vicine, per mezzo di filamenti di unione ( Tav. II, fig. 24, rpe, fu). Nel nucleo delle cellule, abbastanza sviluppato, non ho notato mai una vera rete; ma granulazioni sparse (Tav. II, fig. 17, 24, 9). Le cellule misurano in media p 0,03 i nuelei p 0,01; le maglie della rete protoplasmatica p 0,003. L’epitelio del dotto escretore non differi- sce da quello delle glandole a gomitolo del seno. A quanto sembra, e ciò posso rilevare dai miei preparati, la parte secretoria delle slandole a gomitolo ( sudorifere ) della pelle mancherebbe di cellule muscolari situate internamente alla membrana propria (Tav. II, fig. 16, 17, mp). Infatti nei preparati da me osservati, tanto in sezioni traversali, quanto in longitudinali, mancavano le zeppe cuneiformi nelle prime, e le strisce fusiformi nelle seconde (Tav. Il, fig. 15, 16). Allo esterno della tunica propria, è, in tutti i preparati, chiaramente visibile il rivestimento di tessuto congiuntivo coi suoi nuclei (Tav. II, fig. 15, 16, 17, tc, nfe). Queste osserva- zioni confermerebbero i dubbi emessi in proposito dal Chodakowski. Ultimamente il Bubnoff') ha osservato lo stesso fatto nelle glandole a gomitolo di buona parte del corpo del gatto domestico. Le glandole sudorifere della pelle hanno in media le misure seguenti: lunghz. del dotto escretore p. 0,70, 0,65, larghezza esterna p. 0.06, larghz. del 2umen p 9,02; lunghez. del gomitolo glandolare p 0,70—2, larghz. esterna dello stesso p 0,10 — 0,15, lumen interno p. 0,04 — 0,07. Le glandole del cerume, anche per la loro fina struttura, sono quelle che più si avvicinano alle glandole a gomitolo del seno. Il rivestimento epiteliale per forma e grandezza è così somigliante a quello delle glandole del seno, che se non fossi certo avere, nel campo del microscopio, una sezione della pelle del dotto auditivo esterno, giureresti essere quelle sezioni di glandole, che ti si presentano sotto gli occhi, di glandole a gomitolo del seno. In generale le cellule sono poco meno compresse di quelle delle glandole del seno. Esse misurano p 0,02 hanno una distinta rete protoplasma- tica ed un nucleo distinto misurante p 0,007. Esistono le cellule muscolari allo interno della tunica propria, ed esternamente a questa la tunica congiuntivale (Tav. II, fig. 30, 51, ep, rpe, mp, cm, te, nte). Il lumen (lu) è molto più largo. Le misure delle glandole del cerume sono: lunghz. del dotto eseretore p. 0,75, larghz. esterna # 0,09, lumen interno p. 0,02; lungh. del gomitolo glandolare p 4, largh. esterna p. 0,09, lumen interno p. 0,04. ') op. cit. pag. 117, Tav. VII, fig. 9. ici Pif Da più autori è stato molto commentato lo sviluppo maggiore delle glandole a go- mitolo del seno interdigitale dei montoni, e certamente esse dall'esame fatto, risultano morfologicamente, ed alquanto anche istologicamente, differenti delle glandole della pelle esterna del corpo. L’Ercolani ') le chiamò sudorifere; ma Leydig *), pel pri- mo pensò ad uua modificazione funzionale di esse, Anche il Balo gh sostiene la stessa cosa e trova una certa somiglianza del secreto col cerume dell’ orecchio umano, con- fermando quanto aveva osservato il Mitscherlich fin dal 1830 °). Il Bendz *) ed il Weis *) ammettono anch’ essi una modificazione funzionale delle glandole a tubo del seno. Ordinariamente una modificazione morfologica, ne importa una fisiologica, e le glandole del seno sotto questo aspetto, potrebbero bene paragonarsi alle glandole dell’ascella umana, che Robin °) sostenne differirsi dalle sudorifere per una pronun- ziata acidità e odore acre, ed il Meisner ?), invece ha ritenuto segregassero sostanza grassosa , dimostrando ivi la presenza di granuli grassi. Da altra parte , anche a non volerle considerare modificate morfologicamente, le glandole del seno, esse lo potreb- bero essere solo funzionalmente, perchè è risaputo che glandole, che morfologicamente ed istologicamente dovrebbero essere sudorifere , invece hanno una modificazione funzionale sebacea. Le glandole del corpo del gatto non sono sudorifere, afferma il Bubnoff, e pure esse ne hanno la identica struttura. Quanto ho detto non risolve la quistione , imperocchè si potrebbe ben obbiet- tare: perchè considerare morfologicamente e funzionalmente modificate le glandole del seno, e non quelle della pelle? Infatti va osservato, che a priori, non si può giudi- care, se le glandole del corpo abbiano subita una metamorfosi regressiva, per non uso o adattamento a nuova funzione, ovvero quelle del seno una metamorfosi progressiva. Lo studio dello sviluppo del seno ne mostra che lo sviluppo delle glandole a gomitolo comincia contemporaneamente nel seno e nella pelle, e vi ha un momento in cui le glandole del seno passano per la forma adulta delle glandole della pelle (Tav. III, fig. 5, gE ), e mentre quelle si ingrandiscono conservando la lor forma elicoidale, quesle si evolvono ed in molteplici giri si aggomitolano. Tutto ciò induce piuttosto a credere ad una metamorfosi progressiva delle prime, per adattarsi ad una nuova funzione , anzichè ad una regressiva delle glandole della pelle del corpo. Ed a confermare questo modo di vedere, viene la natura del secreto delle due maniere di glandole. Pensando ad una metamorfosi regressiva delle glandole del corpo , con una mo- dificazione funzionale, esse non dovrebbero essere sudorifere ; ma esse appunto secer- nono del sudore, il quale anzi, per le speciali condizioni con cui si sparge sul vello, si unisce al sebo ed alle cadute squame epidermiche e piglia il nome di sudore grasso °). 1) op., cit., pag. 83. 2) op. cit., pag. 68. 3) Klein — De sinu cutaneo, ece. III « Sebi analisi ». 4) op. cit., pag. 35. ?) op. cit., pag. 266-69. 8) Robin — Note sur un espèce particulière de glande de la peau de l’homme, An. d. Sc. Na- tur., serie 3, 1845, t. IV, p. 380. ?) Hyrt], pag. 450, $ 207. #) Paladino, op. cit., ediz. 1885, pag. 375. = E che esso sia sudore, lo dimostrano se non analisi quantitative , certo analisi qualita- tive accurate '). Le glandole del seno invece , oltre alla morfologica modificazione , chiaramente mostrano una speciale secrezione di odore forte, rassomigliante al cerume dell’orecchio, il quale secreto è certamente in relazione con la funzione cui il seno stesso è destinato. Tutto ciò individualizza le glandole del seno; ond’è che tenuto conto delle loro morfologiche, istologiche e fisiologiche modificazioni, propongo vengano esse distinte da altre di simil genere ( glandole ceruminose, glandole di Moll, glandole del fettone dei Solipedi ) e dalle glandole della pelle del corpo, col nome di colui che pel primo le descrisse. Chiamerò adunque queste: glandole dell’Ercolani. VI. Peli. — I peli che si trovano nella cavità del seno , differiscono, come ho so- pra notato, poco o nulla morfologicamente dai peli del corpo; presentano essi poca so- stanza midollare e sono quindi trasparenti e bianchi. Essi sono impiantati obliqua- mente nelle pareti del seno, e in generale sono poco abbondanti, rispetto a quelli del corpo occupanti una superficie uguale a quella del seno. La loro lunghezza, calcolata al disopra lo strato corneo, è dai 7 ai 10 p.. I follicoli dei peli, molto profondamente ipfitti nel derma, misurano p 0,85 —1 di lunghezza, e p 0,15 di larghezza, e non diffe- riscono, quanto a struttura, da quelli delle altre parti del corpo. La membrana vitrea , che si continua con la basilare del derma, è qui alquanto spessa ( Tav. II, fig. 28, mo, Tav. III, fig. 1, mv) ed è rivestita esternamente di fibre longitudinali e anulari, che costituiscono l’involucro connettivale del follicolo del pelo ( Tav. II, fig. 11, 28, inc). Nel collo del follicolo pelifero, della stessa struttura della epidermide, ho notata la presenza di granuli di Eleidina nello strato granuloso, e che infiltrava anche lo strato corneo. Qui, come in ogni altra parte del corpo, la radice del pelo possiede una guaina epiteliale esterna ed una interna ; la prima è continuazione dello strato di Malpighi ( Tav. II, fig. 28, gepe; Tav. III, fig. 1, gepe), la seconda è formata dallo strato di Henle, di Huxley e dalla cuticola della guaina epiteliale in- terna (Tav. II, fig. 28, gepiî, sHe, sHx, ci). Queste guaine hanno le cellule cheratinizzate. In sezioni trattate coll’ acido osmico ‘/,00, € successivamente colorate col carminio di Mayer, ho potuto osservare che le cellule della guaina interna (cuticola), appena vi- sibili, ed interamente cheralimizzate, presentavano delle sporgenze da sopra in sotto corrispondenti a sporgenze simili, e disposte in senso opposto, da sotto in sopra, della epidermicula del pelo ( Tav. II, fig. 28, ci, epm, dt). Queste dentellature son disposte a modo di un ingranaggio, cosicchè il pelo, dal collo del follicolo in giù, è strettamente legato alla parete della guaina epiteliale interna. Il pelo non perde queste dentellature, anche di là dal collo del follicolo pilifero; ma esse son meno accentuate, mentre la den- tellatura della guaina epiteliale interna finisce al disotto dello sbocco delle glandole se- bacee ( Tav. II, fig. 28 ). L'esistenza di queste dentellature disposte in senso inverso, vorrebbe provare il contrario, di quel che si crede, sulla formazione della guaina epi- teliale interna. Essa secondo Ranvier nasce dalla papilla del pelo, come gli elementi formativi dello stesso pelo, e non dalle cellule della guaina epiteliale esterna. L' esi- stenza, e la disposizione delle dentellature, si spiegherebbe più facilmente, ammettendo ') Chevreul — Note sur la nature du suint de Mouton. Compt. Rend. de l'Académ. 1856, Tom. XLIII, pag. 130. «= — che la guaina epiteliale interna abbia origine dalla esterna. Questa arrivata alla papilla si ripiegherebbe su se stessa per formare il pelo, e la cuticola della guaina interna for- merebbe, ascendendo , l’epidermicula del pelo, ed i dentelli, nel ripiegarsi della cu- ticola, si dispongono in senso inverso, formando così il meccanismo di ingranaggio che tiene in sito il pelo ( Vedi figura ). strato di Malpighi membrana basale strato granuloso strato corneo o]9d [9p 0[00HI93 [PP 01109 - glandole sebacee epidermicula membrana vitrea guaina epiteliale esterna strato di Heule » diHuxley | guaina epiteliale interna cuticula o]od |op eoIpea papilla Rappresentazione schematica di metà di un follicolo pilifero per lasciar vedere il mec- canismo dei dentelli e il loro mutare di direzione nell’atto che la cuticola della guaina epiteliale interna passa a formar l’epidermicula del pelo. I peli sono altri a bulbo pieno, altri a bulbo vuoto. Vi è ordinariamente da notare una grande produzione di peli in rimpiazzo di quelli che cadono abbondantemente nella cavità del seno. Non di rado , nello stesso follicolo pilifero , si osservavano due peli, uno dei quali in via di sviluppo, ai lati dell'altro grosso e a bulbo pieno. Muscoli della orripilazione. Gli angoli formati dal follicolo pilifero ( radice del pelo ) con la superficie inferio- re della pelle del seno, uno fortemente ottuso, l’altro acuto, a cagione della inserzione obliqua del follicolo nel derma, sono sottesi da due muscoli orripilatori. Essi sono di straordinaria grandezza; misurano in media p. 1,15 di lunghezza quelli che sottendono l'angolo acuto, e p 1,50 quelli dell'angolo ottuso. La loro larghezza in media di p 0.10. Questi muscoli, formati di lisce fibre muscolari, sono inseriti ciascuno da un lato del follicolo pilifero , sopra la superficie convessa di un rigonfiamento della guaina epite- liale esterna (Tav. II, fig. 10, mor; Tav. III, fig. 1, 2, mor). Le fibre muscolari s' in- seriscono, raggruppate in due o tre, a mezzo di piccoli tendini al disopra la membrana basale (Tav. III, fig. 1, mor). I muscoli orripilatori vanno dal basso in alto, e, rasentando la parte inferiore +e: delle glandole sebacee ( Tav. II, fig: 10), si dividono, poco al disopra in due fascelti, che si terminano alla lor volta in fascetli minori ed isolati nelle papille del derma. Kélliker, che ha per primo descritto questi muscoli ( Haarbalgmuskeln), ha ri- tenuto, come Eylandt, Henle, Lister e Mercier, che l’hanno ricercati in va- rie parti del corpo umano, che fossero al numero di uno; e infatti sopra sezione di cuoio capelluto dell’uomo, ho trovato sempre un unico muscolo, nelle condizioni descritte dall'Eylandt. Altri, come il Milne Edwards ‘) e Besiadecki °), sostengono la esistenza di due muscoli orripilatori: solo quest’ultimo parla di una condizione speciale dei muscoli orripilatori, che non ha riscontro nel seno °). L'esistenza di due muscoli orripilatori è già un fatto noto; ma essa mi spinge qui a delle considerazioni sulla loro funzione. Considerando adunque la loro duplicità e spessezza, in rapporto col grande svi- luppo delle glandole sebacee, sono indotto a credere, che essi, più che alla semplice orripilazione, sieno destinati ad operare una certa pressione sulle glandole sebacee, perchè il loro secreto venga spinto nel follicolo pilifero; anzi credo che il fatto della orripilazione, nel seno, sia del tulto secondario. Questa opinione ha già emessa il Mole- schott *) per i muscoli orripilatori del cuoio capelluto, sostenendo che essi pur servi- vano alla erezione del pelo. Hesse *) ancora ha insistito sulla disposizione dei muscoli d’orripilazione e non li riliene estranei alla uscita del sebo. I muscoli orripilatori evidentemente qui servono ad esercitare pressione sulle glan- dole sebacee, da alto in basso, da fuori in dentro. Per le loro contrazioni in un primo momento, il sebo spinto fuori, si accoglie nel collo del follicolo pelifero, ciò che io ho potuto osservare in sezioni orizzontali (Tav. II, fig. 11, gr). In un secondo momento, una nuova contrazione del muscolo spinge nuovo grasso nel collo del follicolo pilife- ro, e questo scaccia il primo colà accumulato occupandone il posto. L'erezione del pelo aiuterebbe l'uscita del sebo dal collo del follicolo pilifero. VII. Vasi sanguigni. — All’ esterno del seno sulla membrana involgente interna ( Tav. I, fig. 6) trovasi una elegante rete sanguigna. Questa rete è formata di larghe maglie che misurano in media p 0,75, fra le quali è sostesa una rete a maglie più pic- cole misuranti in media p 0,35 ( Tav. Il, fig. 29). Da questa rete partono ramoscelli capillari, i quali salgono alla base del derma e vi formano una seconda rete (Tav. II, fig. 1, v). Da questa partono dei rami principali per ogni due glandole dell’ Ercola- ni, i quali formano una elegante ed intricata rete capillare, che le circonda ed ab- braccia (Tav. II, 27); e partono contemporaneamente rami tortuosi, i quali nella parte superiore del derma formano una terza rete a magliette molto piccole. Alla lor volta da questa rete partono ramoscelli tortuosi ed avvolli, che vanno a terminarsi supe- ') Milne Edwards. H., op. cit., pag. 41, nota 3. ?) Besiadecki — Stricker-Handb. 1872, pag. 599-600, I Band. *) Manche Haare besitzen zwei Muskeln welche iiber die Talgdriisen sich kreuzen und diese halbmondfirmig umgreifen. ‘) Moleschott — Note sur le follicule pileux du cuir chevelu de l'homme, Ann. Se. Natur. , se- rie 4, 1860, pag. 531, Tom. XIII. °) Zur Kenniniss der Hautdriisen und ihrer Muskeln, Zeitschrf. fiir Anat. und Entwick., tom. II, 1876, pag. 274. == riormente nelle papille dermiche, ed inferiormente vasellini capillari, i quali vanno a formare delle anse altorno le glandole sebacee (Tav. II, fig. 11, rugs). VIII. Nervi. —Nella descrizione anatomica ho seguiti i nervi i quali, dopo che di- venuti sottili filetti, penetravano, dividendosi dicotomicamente, nelle pareti del seno. Or pervenuti nello spessore del derma, essi si dividono ancora, e senza formare una rete dermatica, mandano rami secondari, dei quali alcuni vanno a disporsi a rete attorno le glandole dell’Ercolani (Tav. HI, fig. 2, rn), altri salgono più in su e in- trecciandosi ed anastomosandosi, formano una vera e distinta rete attorno le glandole sebacee (Tav. III, fig. 3, rn). Una simile disposizione delle fibre nervose è stata descritta dal Colasanti ‘*) nelle glandole di Meibomio, dei bulbi delle ciglia del cavallo, del bue e della stessa pecora, che dice averla osservata pure nelle glandole sebacee della pelle. Altre fibrille nervose infine si spargono e terminano nel derma. Dalla rete delle glandole dell’Ercolani partono delle fibre nervose che vanno al follicolo pilifero ( Tav. HI, fig. 2, fn). Non mi è riuscito a nessun patto il poter vedere terminazioni nervose nella epidermide del seno, quantunque avessi usato tutti i mezzi oggidì conosciuli per queste ricerche. i Il mezzo che mi ha più giovato per la ricerca dei nervi delle glandole dell’Erc o - lani e sebacee, è stato quello del metodo léwitiano del cloruro di oro, modificato dal Grieb ( vedi pag. 15). Le fibre nervose del seno sono fibre pallide, formate da cilin- dro assile accompagnato da poca mielina. Esse presentano un aspetto varicoso. ConcLusioni IsroLoGIcHE Dalle cose dette circa la istologia del seno risulta : 1. Che la pelle del seno istologicamente non differisce da quella della pelle del corpo. 2. Che lo strato delle membrane involgenti esterna ed interna, che non si trova nelle altre parti della pelle, è fatto di tessuto congiuntivo, le cui fibre formano una rete più compatta nella membrana involgente interna, meno compatta nella esterna. 3. Che il derma, alquanto meno spesso di quello della pelle esterna, è fatto di fasci di tessuto congiuntivo e fibre elastiche, formanti un tessuto più lasco del derma della pelle del corpo. 4. Che lo strato del Malpighi è più spesso di quello della pelle del corpo, ha cellule alquanto più grandi di quelle della pelle e provviste di una bella rete pro- toplasmatica, fatta di granulazioni abbastanza grossolane, i fili della quale sì continua- no con quelli di cellule vicine. 5. Che lo strato granuloso è abbondantemente provveduto di E/eidina, fatto che è in relazione con lo sfaldarsi dello strato corneo, e accenna ad una rapida cheratiniz- zazione della epidermide del seno. 6. Che manca lo strato lucido. 7. Che lo strato corneo è più spesso di quello della pelle esterna nel braccio a- scendente e gomito , e si sfalda facilmente; mentre è simile per spessezza a quello esterno, e si sfalda meno facilmente nel discendente. ') Colasanti — La terminazione dei nervi nelle glandole sebacee — Ricerche fatte nel labora- torio di Anatomia normale della R. Università di Roma, 1872, tav. VI, pag. 89-92. > i 8. Che le glandole sebacee sono molto più grosse e sviluppate di quelle della pelle del corpo, e crescono di volume dall’ orifizio esterno (cercine), dove sono relativamente piccole ,fino al gomito ed al braccio ascendente, dove raggiungono il massimo svilup- po. Il loro epitelio è sferoidale e presenta una rete protoplasmatica che serve ad unir le cellule fra loro. 9. Che le glandole a gomitolo sono in gran numero, morfologicamente e fisio- logicamente differenti da quelle del resto del corpo. Queste essendo eliciformi e segre- ganti sudore; mentre quelle sono molteplicemente ravvolte e aggomitolate e secernono un liquido molto somigliante al cerume. Esse hanno maggior somiglianza con le glan- dole ceruminose, e sboccano nel follicolo pilifero (collo), eccezion fatta di quelle del cercine, che sboccano libere alla superficie della pelle. L’epitelio è cilindrico e prisma- tico, e nelle cellule, si osserva la rete protoplasmatica che le unisce fra loro per mezzo dei filamenti di unione. Essendo esse glandole morfologicamente e funzionalmente di- stinte da quelle della pelle, si propone chiamarle glandole dell’ Ercolani. 10. Che i peli non sono differenti da quelli del corpo, solo presentano, alla fac- cia interna della cuticola della guaina epiteliale interna, una serie di dentellature, cor- rispondenti a dentellature disposte in senso inverso, della epidermicula del pelo, in guisa da formare un meccanismo d’ ingranaggio. 11, Che esistono due grossi muscoli orripilatori, uno per lato, i quali, più che destinati alla erezione del pelo, sembrano deputati a far uscire il sebo dalle glandole sebacee, operando con la loro contrazione una pressione su quest ultime. 12. Che esiste una rete sanguigna al difuori della membrana involgente interna, una intricata rete capillare che circonda le glandole dell’Ercolani, ed anse della rete subepidermica a piccole maglie, che abbracciano le glandole sebacee. 13. Che i nervi penetrati nelle pareti del seno si suddividono in filamenti e van- no a formare reti attorno alle glandole dell’Ercolani e sebacee. $ II. — Embriologia. Ho potuto seguire lo sviluppo del seno in quattro distinti e ben caratterizzati pe- riodi della vita embrionaria. Degli embrioni da me presi in esame, il più piccolo ave- va incirca 15 giorni, l’ultimo dai mesi 3-4; degli altri intermedii, il secondo poteva avere un mese o poco più, il terzo dai 2 ai 2 ‘/,. Indico per comodo coi numeri I, IT, III, IV, ciascuno degli embrioni da me os- servati e riporto le loro misure a più certo documento. | | | Emb. ! Lung. totale | Larghezza | Lungh. del piede ZENO con ungula I cent. 10 cent. 6 cent. 4 mill. 8 II cent. 15i/, | cens. 11 cent. 5 mill. 14 III cent. 24 cent. 15 cent. 8 mill. 18 IV cent. 30 | cent. 19 cent. 14 mill. 22 Esporrò qui il risultamento delle ricerche fatte su ciascun embrione. MIE. Processi di preparazione. Per gli embrioni I, II e III, stante la nessuna o imper- fetta ossificazione delle falangi, ho potuto praticare delle sezioni orizzontali saggittali e frontali di tutto il piede, per il III e IV essendo già inoltrato alquanto lo sviluppo e le falangi in via di ossificarsi, ho isolato il seno ed ho praticato sovr esso sezioni sag- gittali ed orizzontali. Mi son valso per l’indurimento, dell’acido cromico '/,o0 per l em- brione II, con colorazione successiva delle sezioni con picrocarminio; dell’ alcool per l'embrione I, III e colorazione successiva delle sezioni con carminio di Grieb per l’emb. III; colorazione diretta con carm. di Grieb o di Mayer per l'embrione 1. Embrione I. — (Tav. III, fig. 7-10). Osservando il piede (porzione falangea) di questo embrione, ho visto che in questa regione, la pelle dorsale si infletteva molto fra le dita, e tale inflessione si prolungava fino all’articolazione metacarpo o metatarso falangea, in un solco profondo mediano che chiamerò solco mediano. All'esterno non vi era traccia alcuna di orifizio ( fig. 7, sm). Fatte le sezioni frontali si osservava in un punto ( prime sezioni ) apparire una figura ellittica di epitelio, continuantesi col solco mediano e circondato dal derma. È questa la prima apparizione del braccio discendente del seno ( fig. 8a, B). A poco a poco questa si faceva indipendente (fig. 88, 8) e andava allargandosi , finchè si poteva seguire tutto il braccio ascendente (fig. 8y, c) situato molto in alto, fra le falangi non ancora ossificate (fig. 8, fc 192, 2°), sicchè la parte più alta di esso (cul-di-sacco) tro- vavasi proprio in mezzo, poco al di sopra, dell’articolazione falangea ( fig. 8y, c, af). Sopra sezioni sagittati, si poteva scorgere il seno per intero (fig. 10 s). Esso è già determinato, ha la forma di una storta ed è accompagnato esternamente dal derma, che misura in media p 0,05 di spessezza (fig. 10, de), e che si continua col derma della pelle, Il seno è situato in modo che il braccio discendente (fig. 10, B) è quasi perpendi- colare alla superficie della pelle, nel terzo medio e posteriore un poco incurvato in basso. Il braccio ascendente ( fig. 10, c) corto e rigonfio forma angolo ottuso col di- scendente e capita a livello dell’articolazione falangea. La sua forma ricorda alquanto quella del castrato adulto rappresentato nella fig. 9 della Tav. I. Il rivestimento epiteliale della pelle (strato Malpighiano profondo ) si continua nel seno (fig. 10, smp), e da questo tanto nel seno, quanto esternamente, na- sce per proliferazione lo strato Malpighiano superficiale (fig. 10, sms), il quale nel punto di sbocco del seno, molto slargato ed imbutiforme (fig. 10, a), si salda e forma una sola e compatta massa epileliale. Tale rivestimento epiteliale esterno del dorso del piede, non forma una superficie liscia, ma molto incavata: perocchè il seno, e specialmente la sua apertura esterna molto larga, corrisponde in direzione del solco mediano. Nella fig. 9, a, 8, y, A, si può vedere nelle tre sezioni orizzontali ivi rappresen- tate, andando da sopra verso sotto, dalle falangi cioè alle ungule, il modo come il se- no si apre allo esterno. Nell’interno del seno lo strato Malpighiano superficiale (fig. 10, sms, fig. 98, sms) non si salda a formare un'unica massa; ma limita una distinta cavi- tà, che esiste tanto nel braccio ascendente, che nel discendente (fig. 10, cv); solo in vi- cinanza dello sbocco avviene quanto sopra ho descritto (fig. 9, a, 8, , A). Tale cavità misura nel braccio ascendente p 0,07-8 di larghezza e p 0,34 di lunghezza, e nel braccio discendente p 0,90 di lunghezza e p 0,02 di larghezza. ATTI — Vol. 17, Serie 2.4 — Appendice, N.° 1. ut Aa Insisto su questo fatto, imperocchè la cavità che occupa l'interno del seno non è produzione di escavamento dell’epitelio Malpighiano ; ma invece si vede chiaramente (fig. 10) che questo, proliferando, si è arrestato ad un certo punto limitando una cavità. Se tal cavità si fosse prodotta per iscavamento, avremmo dovuto scorgere le tracce di un disfacimento cellulare, e sia anche la formazione di uno strato corneo, che qui non: esiste, mentre nella pelle esterna già è accennato. Ecco le misure del seno: lunghezza del braccio discendente p 1,05, largh. p 0,20; lunghezza del braccio ascendente p 0,57, largh. p 0,35; punto di sbocco, larghezza k 0,25, lungh. n 0,20. Embrione II. — (Tav. III, fig. 11, 12, 13, 16, 17, 18, 19). Pigliando ad esame il piede di questo 2° embrione si vede chiaramente che il sol- co mediano è scomparso fra le dita, la pelle è un poco inflessa, e si scorge un punto chiaro trasparente (4) che è l’orifizio del seno coperto dall’epitelio tegumentario (stra- to Malp. superf. ) (fig. 11). Operando delle sezioni orizzontali e sagittali del piede ( porz."° falangea ), si può formarsi chiara un'idea del seno. Esso qui è più svi- luppato, la sua posizione primitiva è alquanto spostata. Il braccio discendente trae in giù posteriormente e quello ascendente, più sviluppato, si è ripiegato sul gomito, e sì è disposto verticalmente (fig. 17, B, c). Il derma si è maggiormente ispessito e circon- da tutto il seno; esso misura p 0,15. Esternamente al derma, il tessuto congiuntivo sub cutaneo si è ancor esso fatto più spesso (fig. 19, cs). In sezioni, fatte a livello del gomito, si può rilevare come il seno sia disposto fra le falangi ( fig. 12, 13, s). Esso non raggiunge la loro metà posteriore. L’ orifizio del seno (fig. 18, a), od a meglio dire, là dove l’epitelio profondo s' inflette a formare il seno, è molto ristretto e misura p 0,20 di largh. per p 0,19 di lunghz. Esso è ricoperto dall’epitelio superficiale Malpighiano della pelle, che è alquanto trasparente, e lascia intravvedere questo punto all’esterno, come sopra ho notato. Nella fig. 16 si può rile- vare in quella serie di sezioni orizzontali, fatte a livello del punto a (ved. fig. 11), il modo come sbocca all’esterno il seno, e puossi ancora stabilire un confronto con quello dell'embrione precedente (fig. 9, «, #, y). Qui infatti è appena accennata (fig. 16, «-e) quella insenatura così profonda dell’ embrione I (fig. 9, &, 8, y). Il seno ha perduta la interna cavità. L’epitelio Malpighiano superficiale ba proliferato ed ha occupata tutta la cavità del seno ( fig. 19). Le cellule profonde sono cilindriche, le mediane grandi e con di- slinta rete protoplasmatica, le superficiali accennano a divenir cornee (fig. 17, c). Solo a mezzo del braccio ascendente queste cellule perdono il loro nucleo, diven- tano vere cellule cornee e si va scavando una piccola cavità a mezzo di delto braccio, ripiena di grasso gialliccio, che proviene dalle poche cellule cornee che si disfanno ( fig. 13, cv). Tal cavità misura in media p 0,05 per p 0,07. Le misure del seno sono: lunghezza del braccio ascendente p 1,05, largh. p 0,60; braccio discendente lungh. p 1,50, larghez. # 0,40-0,43. «rec 11 _°"__——— ——————@ î . il Embrione Ill. — (Tav. III, fig. 14, 20). In questo embrione il forame esterno era chiaramente visibile ( fig. 14, a), ed il piede essendo abbastanza grandetto, si potè più agevolmente disseccare. Molto cauta- mente asportando il dito di un lato (esterno, piede sinistro), si vedeva chiaro apparire il seno ( fig. 14). Il braccio discendente traeva in dietro ed in giù ( fig. 14, B), edil braccio ascendente (c) ripiegato sul gomito (p) s inclinava alquanto sul discendente. Fatte le sezioni orizontali si vedeva il seno ( fig. 20 ) circondato dal derma ispes- sito misurante p 0,19-0,20, constare dell'epitelio Malpighiano profondo e superficia- le. L’orifizio esterno si era ristretto, e lo strato superficiale Malpighiano , trasformato nella sua parte superiore in corneo, aveva delimitato una distinta cavità (fig. 20, cv). Questa occupava per x 1,20 di lunghez. e » 0,11-0,12 di larghezza, l'interno del braccio ascendente. Nel braccio discendente l’escavazione non era completa, e vi si no- tava una distinta trasformazione in cellule cornee , che si disfacevano nel mezzo, per dar luogo alla cavità, la quale qui misurava appena w 0,4 di larghezza e p 1-2 di lungh. Contemporaneamente tanto su la superficie della pelle quanto su quella del seno si scorgevano follicoli piliferi in via di formazione, anzi in quest'ultimo si incominciavano a vedere i primi accenni di formazione delle glandole dell’Ercolani (fig. 20, /p, gE). Le misure del seno sono: braccio discendente lungh. x 5,00, largù. g 1,10; brac- cio ascendente x 3,10 di lungh., e p 2 di largh. Embrione IV. — (Tav. III, fig. 4, 5, 6, 15). Tale embrione era già molto innanzi nello sviluppo, cosicchè le falangi già ossifi- cate permettevano di operare come per | Embrione III. Asportando il dito esterno ( piede sinistro ), si vedeva il seno completo come nell’ adulto, maggiormente appari- scente; imperocchè, essendo la pecora a vello nero, anche il seno era carico di pigmento negli strati epidermici, ed il derma essendo a sua volta alquanto trasparente, il seno spiccava in bruno sul bianco fondo di tessuto congiuntivo ( fig. 15 ). Ad occhio nudo era visibile l'apertura esterna e ne fuorusciva qualche peluzzo. Il seno aveva subito un nuovo spostamento. Il braccio discendente si era inclinato in giù ( fig. 15,8) formando angolo acuto con la pelle fino a raggiungere nel gomito (d) la base delle 2° falangi, ed il braccio ascendente ripiegato sul primo (c), formava angolo acuto con quello, come nell'adulto. Facendo delle sezioni del seno isolato, si scorge che tutto è completamente formato. Nell’ interno si è costituita ancor meglio la cavità, anche nel braccio discendente, e sì definitivamente stabilita la comunicazione fra l'esterno e la cavità del seno. Lo strato Malpighiano profondo è sovraccarico di pigmento ( fig. 4, pg), ed ha già dato origine ai follicoli dei peli, e questi già svilup- pati fuorescono nella cavità del seno (fig. 4, p). Ai lati del follicolo sono già visibili grosse glandole sebacee che misurano p 0,17 ( fig. 4, gs). Le glandole a gomitolo sono sviluppate, od in via; ma esse non sono an- cora gomitoliformi; ma quasi elicoidali con poche spire (fig. 5, 9E ) e ricordano la for- ma più semplice di quelle della pelle degli adulti ( Tav. II, fig. 6 e 7, m). Esse misurano » 0,60, sono provvedute di membrana propria, e, a differenza . ni di quelle della -pelle degli adulti, esistono già alla superficie interna della membrana propria distinte cellule muscolari (fig. 6, mp, cm). L’epitelio interno di rivestimento è formato di cellule poliedriche a nucleo distinto (fig. 6, ep). Le misure del seno sono: braccio discendente lungh. p 7-8, larghezza p 2-3; brac- cio ascendente lungh. p 4, largh. p 3. Spessore del derma p 0,25-30, dello strato di Malpighi p 0,20, dello strato corneo x 0,05-09. I fatti da me osservati in questi quattro distinti periodi dello sviluppo del seno mi inducono a cercare una spiegazione del modo di formazione del seno. Ed in primo mi domando se esso provenga dalla pelle esterna del corpo, ed in qual modo. A parer mio dovrebbesi escludere ogni idea di formazione del seno con meccanismo glandolare di introflessione; imperocchè, in questo caso, avremmo dovuto notare in prima una gemmazione dello strato profondo, la quale dapprincipio ripiena di cellule, si fosse successivamente escavata; lo stesso si può dire se anche si voglia intenderlo formato per semplice proliferazione senza introflessione dello strato Malpighiano profondo. I fatti appoggiano questa esclusione. Il seno infatti non presenta nell’ Embrione I, che è il più piccolo e quindi il meno sviluppato, niente che indichi un simil fatto , anzi il seno è già formato e ricorda, come ho già notato, la forma del seno di un ca- strato (Tav. I, fig. 9). D'altra parte volendo supporre una formazione con meccanismo glandolare, come spiegare la larghezza dell’orifizio nel punto d’introflessione del- l’Embr.I, che si va mano mano restringendo nell’Embr. II, II, quando sappiano invece che in quelle formazioni avviene ordinariamente il contrario? Come spiegarsi ancora la cavità esistente nel seno dell’Embr. I, la scomparsa di questa nell’Embr. II, con ac- cenno di neoformazione di cavità per escavazione, fatto che si continua nell’ Embrione III, con la formazione di uno strato corneo ; cavità che diventa definitiva nell’Embr. IV, quando sappiamo che la gemma glandolare da principio compatta e piena di tessuto epiteliale, successivamente si va escavando? Come spiegare la presenza del derma? Come quella delle membrane involgenti? Come dunque spiegare la formazione del seno? Appoggiandomi sui fatti, e spe- cialmente su quelli offerti dallo Embrione I, si deve conchiudere: che il seno non è al- tro che un pezzo di pelle esterna rimasto introflesso , e che dapprima l’epitelio Malpi- ghiano non trovando ostacoli nè resistenza, nel cavo determinato dalla introflessione della pelle, abbia proliferato, occupando tutta la cavità stessa (Embr. II), e che nell’ e- poca della formazione dello strato corneo, le cellule superficiali entrando in decompo- sizione abbiano determinata a poco a poco, la formazione definitiva della cavità, men- tre che dallo strato profondo malpighiano andavano formandosi i peli le glandole e tutto ciò che è inerente alla pelle. E che sia pelle introflessa lo dimostrano ancora le sue proprietà formative di glandole, peli ecc., e l'essere essa accompagnata dal derma. Sorge ancora la domanda come è che tale introflessione è avvenuta? Mi sia qui lecito fare un’ipotesi che potrebbe spiegare tale fatto. È risaputo ormai che gli antenati dei bisulci avevano dite distinte, ed anche 0g- gi viventi Ruminanti, conservano questo carattere ancestrale, e citerò ad esempio il Tragulus melanotis, T. sylvicultrio ed altri fra i viventi Moschidae. Potremmo ben quindi supporre che un periodo filogenetico, che nello svilup- po ontogenelico sia soppresso, le due dita dapprima divise e distinte, si sieno sal- O date, e tale unione sia avvenuta per mezzo di saldatura della pelle dorsale del piede ( di che niente esclude possa esser la traccia il solco mediano dall’Embr. I). Nella sal- datura sarebbe rimasto rinchiuso fra le dita un pezzo di pelle di forma indeterminata, forse simile a quella di alcuni castrati ( Tav. I, fig. 14 ). Così si sarebbe determinato il seno, il quale dapprima senza comunicazione con lo esterno, col formarsi dello strato corneo all’esterno della pelle e nell'interno del seno, ha acquistata l’apertura esterna. Certamente la forma primitiva del seno era molto semplice, ed è naturale il supporre che la forma accidentalmente determinatasi nell’inclusione, sia nella ontogenesi scomparsa, imperocchè il seno così formato si è dovuto adattare a compiere una nuova funzione, forse in relazione con la saldatura medesima delle dita, e quindi si è successivamente modificato fino a pigliar la forma definitiva che si è perpetuata nella specie, mostrando nelle varie fasi embriologiche, le trasformazioni successive del seno dalla forma più sem- plice Embr. I a quella che si osserva nell’adulto. E che siasi il seno determinato per suc- cessive trasformazione per adattarsi a nuove funzioni, può far fede il fatto che nei ca- strati, dove pare questa non si esplichi, si trova una riduzione sensibile del seno la quale ricorda una forma molto primitiva, indistinta (Tav. I, fig. 14, 9) o la forma Em- brionale I (Tav. IIT, fig. 10). Circa poi le due membrane involgenti, si può ritenere che la cosa sia andata in questa guisa. Il seno introflesso ha portato con sè una parte del tessuto congiuntivo subcutaneo il quale è rimasto aderente al derma, e si è alquanto ispessito. Così si sarebbe formata la membrana involgente interna. La esterna, che come ho detto non raggiunge la metà del braccio discendente, si sarebbe formata a spese del tes- suto congiuntivo interdigitale, che, nello svilupparsi, si è ripiegato ad abbracciare il seno. Questa spiegazione abbastanza ipotelica mi son data del modo di formazione del seno, essendo qualunque altra che ricorra ad un meccanismo glandolare, per le ragioni suesposte, improbabile. I fatti concorrono a renderla possibile come pure la conoscenza di forme atavisti- che, a dita distinte, dell'ordine dei Ruminanti, forme di cui tuttodì vivono rappresen- tanti. Ad ogni modo io credo questa spiegazione la più probabile e quindi Ja più accet- tabile, fino a che non ne venga da altri data una nuova che abbia più apparenza di vero. ConcLusioni EMBRIOLOGICHE Dallo studio dello sviluppo del seno risulta: 1. Il seno esiste ben distinto fin nell’ Embrione di due settimane. 2. Esso non differisce dalla pelle, di cui ha tutti i caratteri e le proprietà. 3. Esso è dapprima cavo, tranne che nello sbocco esterno molto largo, poscia l’epitelio delle pareti, proliferando , si salda e forma un tutto compatto. 4. In questo tutto, nel centro, le cellule si vanno appiattendo e disfacendo, fatto che è in relazione con la formazione dello strato corneo della pelle del corpo. 5. Si determina finalmente una distinta cavità, limitata dallo strato corneo, che si continua con quello della pelle esterna. 6. Si formano a questo stadio le glandole sebacee dell’Ercolani. QI 7. Le glandole sebacee conservano la loro forma tipo; solo crescono di volume con lo sviluppo. Le glandole dell’ Ercolani, dapprima simili a quelle a gomitolo della pelle del corpo dell'adulto, si evolvono e raggiungono la forma adulta. 8. Dalle cose esposte si rileva non essersi il seno formato con meccanismo glan- dolare. 9. Il seno deve però considerarsi pelle introflessa che ha conservate le sue atti- tudini e proprietà. 10. Il seno potrebbe immaginarsi formato da un pezzo di pelle rimasto racchiu- so per il saldarsi che han fatto le dita, in tempi lontani divise. 11. Le membrane involgenti si sarebbero formate a spese del congiuntivo sub- cutaneo, che ha accompagnata la pelle inflessa , e dal congiuntivo interfalangeo , di nuova formazione, che ha abbracciato il seno nella sua trama. $ IV. — Fisiologia. Le conclusioni anatomiche, istologiche ed embriologiche ci fan chiara fede della natura del seno, ed esso non deve quindi esser considerato glandola come molti osser- vatori han preteso. Quanto allo scopo funzionale di quest’ organo non si può dire alcun che di certo; ma egli è possibile, traendo partito dai dati anatomici, istoligici ed embrio- logici, nonchè dalle analogie che il seno dei Ruminanti ha con organi di simil genere negli altri Mammiferi , fare delle ipotesi le quali potranno essere invalidate e confer- mate da ulteriori e diligenti osservazioni sulla vita, i costumi e le abitudini di questi animali. In quasi tutti i Mammiferi la pelle presenta delle localizza zioni funzionali ora rappresentate da glandole ( da riferirsi in generale a glandole sebacee ) , or da insena- ture, o semplicemente sacchi, che segregano sostanze più o meno odorose. Esaminando le diverse modificazioni che subiscono queste glandole, sacchi o seni, si può facilmente rilevare come esse sieno in strelta relazione con le abitudini degli a- nimali e con il loro genere di vita. Tali produzioni abbondano tanto in quei Mammiferi dove gl’individui si uniscono a gregge , come in quei che vivono liberi ed erranti ed hanno larga estensione geografica. In pochi solamente esse sono ridotte o mancano affatto. Degno di nota è il fatto dello scomparire di siffatte produzioni nei Primati, mentre nelle Prosimiae, le quali presentano anche per questo lato un legame sempre più stretto con le Scimmie, vanno riducendosi e scomparendo ‘). Questo ridursi di tali organi nei Mammiferi più elevati per scomparire nei Primati, i più vicini all’ uomo, ne induce a credere che essi debbono indubitatamente essere destinati a compiere una funzione che ha stretto legame con la vita di relazione dei Mammiferi meno elevati e che in quelli più elevati, invece, il genere di vita che per adattamento si è determinato, non richiedendo il sussidio di tali organi, essi sieno andati riducendosi (Lemuri) fino a scom- parire affatto nelle Scimmie. Sebbene per lo stato attuale delle conoscenze, sempre troppo scarse , delle abitu- 1) In molti Lemuridi esistono infatti dei sacchi anali; ma essi sono molto ridotti ( Chiromys), in altri mancano affatto *). *) Owen — Anatomy of Vertebrates, Vol. III, Mammals, p. 637. sù LYY dini e della vita di relazione degli animali sia impossibile dimostrare con certezza la funzione di questi organi, pure l'opinione da più autori manifestata, che essa sia in rapporto con le funzioni sessuali, che tali organi cioè sieno organi sessuali seconda- rii, è un'ipotesi che ha maggiore probabilità di avvicinarsi al vero. Questa ipotesi vien corroborata dal fatto di uno sviluppo di siffatti organi mag- giore in un sesso che nell’ altro, e dall’abbondanza di secrezione, con odore più forte, nell’ epoca della fregola. Pei Lemuri non conosco osservazioni in proposito; ma nei Chirotteri il Dobson !) ha considerati come caratteri sessuali secondarii, le tasche, le glandole, ed i seni di moltissime forme di Micro e Megacheiroptera ; e per le mie proprie osservazieni, non sarei alieno dal considerare anche come organi sessuali secondarii, le glandole faciali dei Vespertilionidae, contrariamente alle opinioni di Tiedmann ?) e Kolenati °). Per molte delle glandole odorifere dei Roditori e Carnivori lo Chatin ‘) emette la stessa opinione, ed il Colin °) accenna alla più abbondante secrezione delle glandole temporali dell’ Elefante nell’ epoca della fregola. Dispensandomi dal seguire l’ enumera- zione delle glandole degli altri Mammiferi, come degli Insettivori (Ta/pidae, Soricidae) °), dei Perissodattili ( Rhinoceridae ) ’), degli Sdentati ( Vermilinguia ) #) , dei Marsupiali (Didelphydae) *), dei Monotremi (Ornithorhynchus, Echidna) '°) [Vedi in proposito la Bi- bliografia in fine], e delle loro funzioni, dirò solo che fra i Pachidermi il Dicotyle 4!) possiede simili produzioni, e fra i Ruminanti lO wen crede '°), most nearly to relate to the sewual function, e che sono, usually larger in the male than in the female and its developpement is checked by castration, i lagrimatoi, i seni mascellari, inguinali e po- st’ auditivi. Il Dorotea ‘’) esprime la stessa opinione a proposito delle fovee del Camoscio, ed il Colin "*) per le glandole occipitali del Camello. Nel caso di coesistenza di glandole varie alla superficie del corpo , niente si op- pone a farle ritenere, alcune in relazione con le funzioni sessuali, altre veri organi pro- 1) Dobson — On secundary sexual characters in Chiroptera, P. Z. S. 1873, p. sal, 252. 2) Tiedmann — Meckels-Deutsch. Arch. II, p. 11, 12, pl. II, fig. 9 e 10. 3) Kolenati—Beitrige zur Naturgeschichte der Europàischen Chiroptern, Dresden, 1857, p. 15. 4) Chatin—Glandes odorantes des Mammifères, Ann. d. Sc. Natur. 1873, XIX, pag. 50. 3) Colin— Traité de physiologie comparée des animaux ece., 2 edit., t. II, pag. 749. °) Lucarelli e de Santis—Compendio di Anat. Comp. Napoli 1870, pag. 37. Talpa europaea ; Geoffroy-Saint-Hilaire — Mémoire sur les glandes odorantes des Musaraignes, Mémoire du Mus. pag. 299, p. 15, fig. 106, 1815, Vol. I. 7) PA the Anatomy of the Indian Rhinoceros, Trans. of the Zool. Soc. 1852, t. IV, pag. 34, pl. 9, fig. 1-2. 8) Tiedmann — Hautdriise der Wangen beim kleinen Ameissenfresser, Meckels Arch. IV, pag. 221, 1818. °) Lucarelli e de Santis, op. cit., pag. 37. 19) Claus—Traité de Zoologie ecc., pag. 1461. —Owen—Comparative Anatomy of Vertebrates, Vol, III, pag. 638-639. » Tyson — The Aa of the Mexican Musk—Hog. Philos. Trans. XIII, p. 155. 12) Owen, op. cit., pag. 652 13) Dorotea L. gg] camoscio e sulle fovee cervicali dello stesso segreganti una sostanza mu - schiata. Ann. Acc. Asp. Natural. 138 Gennaio 1842, 14) Colin, op. cit., pag. 749. = tettori; il qual fatto è pure in relazione con le abitudini di vita di molti animali, e citerò ad esempio la Melivora capensis, animale lento e pigro, « voué d’avance ad une destruction rapide, sil ne possedait un moyen de defénse analogue a celui des Thiosmus et des Me- phitis ( glandes anales ) '). , Premesse queste idee generali vengo al caso particolare , cioè al seno cutaneo in- terdigitale della pecora. La maggior parte degli pra come ho fatto rilevare nelle considerazioni, che fan da proemio alla parte II° di questo lavoro, sono stati d'accordo, nel ritenere che questo seno fosse destinato a secernere grasso per le ungule. Questa spiegazione è molto chiara e facile, ed è quella che a prima giunta si presenta all’osservatore: ma a mio credere è poco soddisfacente. La mancanza di quest’organo, nei piedi posteriori del Cervus capreolus, fece dubitare al Balo gh ?) della destinazione funzionale del se- no. Infatti, astrazion facendo dalla mancanza accidentale nella pecora, come spiegare l’assenza del seno or nei piedi anteriori, or nei posteriori in molti altri bisulci [ Cervus porcinus, Caais, Rangifer tarandus (piedi anteriori), Antilope Goral, Alcelaphus bubalis (piedi posteriori)], e l'assenza totale in moltissimi altri (la maggior parte delle Antilopi), quando il seno fosse semplicemente destinato a lubrificare le ungule? Mi si potrebbe opporre che non dovrebbe ciò maravigliarmi, poichè l'organo es- sendosi determinato accidentalmente si è adattato a questa funzione. Ma gli è che la funzione alla quale si è adattato tale organo a me sembra molto differente; e, pur ac- cettando che il suo secreto possa servire indirettamente a lubrificare le ungule , faccio l’ipotesi, fondata sulle osservazioni anatomiche, che tale organo possa considerarsi, come gli altri di simil genere dei Mammiferi che ho sopra enumerati, organo sessuale secondario. Qui a schiarimento dico, incidentalmente, che ritengo come organi sessuali secon- darii tutti quegli organi accessorii, i quali servono in un modo qualsiasi di aiuto e sussidio alle funzioni generative. Gli organi sessuali secondarii possono quindi esistere sotto la stessa forma, eccezione fatta dallo sviluppo maggiore o minore, tanto nel ma- schio che nella femmina, e compiere funzioni differenti, che sono in istrelto rapporto col sesso nelle funzioni generative, come ad esempio. Le glandole dei Chirotteri, nelle femmine, possono servire di richiamo *), e nei maschi in uno come organo di richiamo ed eccitatore nell'atto dell’accoppiamento. Tornando quindi al seno della pecora, se consideriamo l’anatomica struttura di quest organo, vedremo che le conclusioni anatomiche sono favorevoli alla mia ipotesi. Infatti sono da invocare la variabilità di forma e di sviluppo da maschio a femmina, il poco sviluppo negli agnelli, lo sviluppo maggiore nei piedi anteriori dei maschi e po- steriori delle femmine ( meno frequentemente ), la riduzione del seno nei castrati, da ricordare forme embrionali, la secrezione grassa di odore sgradevole che cresce ed ha più forte odore nell'epoca della monta. L’Istologia pure favorisce la mia ipotesi. E da tenere in conto lo sviluppo considerevole delle glandole sebacee ed a gomitolo, che è in relazione coll’ abbondante secreto del seno. Infine anche l’ Embriologia mostra una !) Chatin, op. cit., pag. 50. 2) Balogh, op. cit. ?) Dobson — Catal. of the Cheiroptera of the British. Mus., pag. XXIX, Introduct. — Mi — trasformazione progressiva del seno e delle sue glandole, il che è in relazione con la funzione alla quale è destinato. Questi argomenti parlano evidentemente in favore della mia ipotesi, e vuol essere ancora considerato il fatto che il montone, come ho potuto osservare, segue la femmi- na che vuol far sua fiutandola nei piedi posteriori, nei quali, d’ordinario, il seno è più sviluppato. Questo fatto potrebbe ben farci supporre che il seno, almeno nella femmi- na, possa servire come organo di richiamo pel maschio, che verrebbe eccitato dall’ o- dore dell’abbondante secreto espulso nel camminare, per la pressione che determinano sul seno i muscoli del piede, di cui ho fatto parola a pag. 10. Prevenendo la giusta osservazione di coloro che in vista della mancanza totale o parziale ( piedi anteriori o posteriori ) del seno in altri Ruminanti potrebbero dubitare della probabilità della ipotesi, dirò che essa è fatta da me, per la sola pecora, dove la quantità delle osservazioni me |’ hanno permessa. Quanto ad estenderla agli altri Ru- minanti, che posseggono tale seno, si potrà solo ciò fare, allorchè le conoscenze sulla sua esistenza , oggidì molto scarse, risultanti da osssrvazioni fatte su unici individui e senza indicazione di sesso, lo permetteranno. Farò anche notare che, stante la scarsezza delle osservazioni, l'assenza del seno neì piedi anteriori o posteriori di qualche specie potrebbe ben essere acciden- tale, come ho notato che è rarissimamente accidentale nella pecora. Aggiungerò di più che i lagrimatoi esistono ma molto ridotti, nella pecora e nella capra, e sì nella pecora che nella capra non esistono altri seni o fovee che possano servire come organi sessuali secondari, Sulla coesistenza poi di seni interdigitali con sub-orbitali, lagrimali, mascellari ecc. in altri Ruminanti, osserverò, che nulla si oppone a che alcuni servissero come organi di protezione, altri come organi sessuali secondarii. I soli animali nei quali si darebbe questo caso, fra i Ruminanti, sono gli Anti/o- pini, e mi sia permesso dubitare della esistenza del seno in quelle poche specie citate da me nella Istoria, citazione che non ha altra fonte che delle indicazioni vaghe di Russeau ‘), del Daubenton ?’) e del Gené °), che ne parlano incidentalmente, quando l Owen, che tratta minutamente dei seni e tasche delle Antilopi, non ne fa cenno alcuno. Nei Cervidi, la mancanza ed il poco sviluppo dei lagrimatoi pare sia in relazione con la presenza del seno interfalangeo , e l’ assenza di questo importi il massimo svi- luppo di quelli: citerò ad esempio il Cervus capreolus nel quale esiste il seno *), men- tre i lagrimatoi sono « presque entierement rudimentaires °) ». 1) Russeau, op. cit. ?) Daubenton — Description de la Gazelle, op. cit. 3) Gené, op. cit. Owen, op. cit., pag. 632-633. 4) Bonn, op. cit., fig. 1-4, pl. 3. Bruh], vedi Balogh. Russeau, op. cit. Questi due ultimi autori lo dicono esistere solo nei piedi anteriori; ma nessuno dei tre indica il sesso dell’ individuo osservato. 5) Claus— Traité de Zoologie, pag. 1489. ATTI — Vol, II, Serie 2.2 — Appendice, N.° 1. at Conchiuderò coll’invocare un ultimo argomento in favore della mia ipotesi. L’Owen ha sostenuto che lo sviluppo dei lagrimatoi, seni ecc. « ds checked by ca- stration ». Ora se il seno è un organo sessuale secondario, dovrebbe soggiacere alla stessa legge. E che vi soggiaccia , si rileva a prima giunta da chi guardì per poco alle fig. 9 e 14 della tavola I, che rappresentano i seni di castrati. Gabinetto di Anatomia ed Embriologia Comparate della R. Università di Napoli. Giugno 1885. BIBLIOGRAFIA DELLE GLANDOLE DEI MAMMIFERI Non sono riportate le opere già citate nelle note del testo, nè tutte quelle che ri- guardano le glandole cutanee dei Carnivori e di alcuni roditori, perchè già enumerate dallo Chatin (vedi pag. 2, nota 1°). 1638. 1657. 1677. 1682. 1694. 1696. 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Milne-Edwards. — Legons sur le Physiologie et l’Anat. Comp.ecc. Tom. VIII, pag. 53 e seg. (glandole prepuziali ed anali). SPIEGAZIONE DELLE TAVOLE Tavora I. — (Anatomia). Fig. 4. — Porzione falangea del piede anteriore destro di un maschio, vista di fronte: a apertura esterna del seno cutaneo col ciuffo di peli d. 2. — Porzione falangea del piede anteriore destro di un maschio, vista di lato, il dito interno è stato asportato: a seno cutaneo nella sua posizione naturale, b apertura esterna. 8. — Ossa del dito esterno del piede anteriore sinistro di un maschio giovane per | far vedere la posizione del seno rispetto alle falangi (grand. natur.); a pri- ma falange, è seconda falange, s seno, c braccio ascendente, d braccio di- scendente, e orifizio esterno del seno, fipofisi delle falangi, g ungula cir- condante la 3* falange, A gomito. 4. — Porzione falangea del piede destro anteriore di una femmina vista di fronte per far vedere la disposizione dei tendini dei flessori delle dita: a tendine dello estensore comune delle falangi; 6 estensore proprio del dito esterno con la branca ec che si termina sulla faccia anteriore della 2° falange, e d che si termina sulla esterna della 3° falange; e estensore proprio del dito esterno che si divide in due branche / e g che terminano come e e d; A seno. 5. — Porzione falangea del piede anteriore destro di un maschio iniettato per l’ar- teria radiale posteriore, visto da dietro; a arteria digitale media continua- zione della collaterale del metatarso K, che si divide nelle arterie ungueali b, b; ce, c ramificazioni delle arterie ungueali che vanno all’ungula, d, d ra- metti che vanno al seno e; f arteria digitale interna, g arteria digitale e- sterna, A branca del nervo plantare collaterale del dito interno, ? branca del nervo plantare che dà le collaterali interne delle dita 7, j; #,% rametti nervosi che vanno al seno. » 6. — Seno del piede anteriore destro di una femmina (un poco ingrandito) per far vedere la rete vascolare: a arteria digitale mediana; b, d arterie ungueali; c, c,crami delle arterie ungueali che vanno alle ungule, d ramo che va al seno, e branca dorsale delle dita proveniente dalla digitale media poco al disopra della metà della 1"* falange, f branca anastomotica con l'arteria perforante, g ramo principale che va a formare la rete vascolare del brac- cio ascendente dando rami 4 al braccio discendente, ? braccio secondario che si ramifica sul braccio discendente. 7. — Seno del maschio isolato: a apertura esterna, d braccio discendente, c braccio ascendente, d gomito, e cul di sacco. 8. — Seno della femmina, lettere come sopra. » di castrato » » » 10. —Spaccato antero-posteriore del seno per lasciar vedere la disposizione dei peli nell'interno: a taglio dell’areola , è apertura esterna, e gomito, d braccio discendente, c braccio ascendente. = Fig. 14.—Spaccato trasversale (figura schematica alquanto ingrandita) del seno, lettere come sopra; si scorge la disposizione dei peli. » 42.—Seno anleriore sinistro di un maschio che lascia vedere la disposizione dei nervi: a arteria digitale media, d, e arterie ungueali, c branca interfalangea della digitale media, è branca del nervo plantare che dà le collaterali delle dita 9g, f; î,j nervi collaterali dorsali delle dita , 4 branca anomala sinistra che va dal nervo collaterale dorsale : al nervo collaterale plantare g: l’altra branca anomala corrispondente giace nascosta da questa e dalla branca interfalangea dell’arteria digitale media; % rametto nervoso destro che va al seno. » 13.— Orifizio esterno del seno: a orifizio, & rigonfiamento a guisa di cercine che lo circonda. » 44.— Seno di un castrato, forma molto semplice; lettere come nella fig. 7. C. El. ine. POT, mv. gepe. gepi. sHe. sHo. cer. epm. dt. MO. —— ___ _— — _ (N.B. — Nella figura 4 la lettera c superiore va cancellata). LETTERE COMUNI ALLE TAV. Il, HI. strato corneo. » granuloso. Eleidina. strato malpighiano. derma. congiuntivo sottocutaneo. grasso. membrana involgente interna. » » eslerna. pigmento. vasi. — vene. — peli. follicolo del pelo. involucro connettivale del follicolo del pelo. rivestimento epiteliale del collo del follicolo pilifero. membrana vitrea. — guaina epiteliale esterna. — guaina » interna. strato di Henle. strato di Huxley. cuticola della guaina epiteliale interna. — epidermicula. — dentelli. muscoli orripilatori. it rn. — rete nervosa. fn. — filelto nervoso. gs. — glandole sebacee, dgs. — dotto escretore delle g!andole sebacee. gE. — glandole dell’Ercolani. dgE.— dotto escretore delle stesse. Ss. — sbocco delle glandole. gsu. — glandole sudorifere della pelle. ge. — glandole del cerume. des. — dotto escretore tanto delle glandole sudorifere quanto delle ceruminose. rv. — rete vascolare della glandola dell’Ercolani. ap. — ramo principale che parte dalla rete esterna del seno. rugs.— anse vascolari che abbracciano le glandole sebacee. ep. — epitelio delle glandole gomitoliformi. mp. — membrana propria delle stesse. em. — cellule muscolari. te. — tunica congiuntivale delle glandole a gomitolo. nte. — nuclei della tunica congiuntivale. et. — cuticola delle cellule del dotto escretore. rpe. — rete protoplasmatica cellulare. rpn. — » nucleare. gn. — granulazioni nucleari. fu. — filamento d’unione delle cellule. cd. — cellule in disfacimento. nd. — nuclei in divisione, nv. — nuclei vuoti, cu. — cavità del seno. ung. — ungula. sm. — solco mediano. fe. — falangi cartilaginee. af. — articolazione falangea. cl. — cellule cartilaginee. smp. — strato malpighiano profondo. SMS. — » » superficiale. Tavora II. — Istologia. I disegni vennero eseguiti con la camera lucida di Nachet. Sistema Zeiss. ocul. Il ; | 1, 2, 3, 4, obb. AA, DD, E, F ed TO) ad immersione omogenea con appa- rato d’illuminazione Abbe. Fig. 4.— Sezione trasversale del braccio ascendente dopo iniezione con bleu di Prus- ; i i 4 4 2 sia e colorazione con carminio di Mayer, UA » 2. — Sezione trasversale del seno; E/ Eleidina, trattamento col metodo di Ra n- 9 vier e colorazione con picrocarminato d’ammoniaca, va LIL ABI-= Fig.3. — La stessa sezione veduta con più forte obbiettivo; E? Eleidina che infiltra lo 3 E . » 4. — Grossa glandola dell’Ercolani gE che sbocca nel follicolo pilifero fp; gs glan- dole sebacee, dissociazione della pelle del seno in acido acetico '/100 € colo- stralo corneo, È sl Ret : 2 razione con carminio ammonico, we » 5. — Glandola dell’Ercolani gE che sbocca libera alla superficie della pelle, tolta dal cercine che circonda l’ orifizio esterno del seno (Tav. I, fig. 13), me- 2 | AA . » 6.— Glandola sudorifera della pelle gsu che sbocca nel follicolo pilifero pf; gs desimo trattamento che nella fig. 4, glandole sebacee, medesimo trattamento che nelle fig. 4, 5, x: » 7.— Glandole sudorifere della pelle isolate, I. la forma più complessa corrispon- dente a quella rappresentata dal Carsten-Harms, II. forma intermedia, III. forma più semplice corrispondente a quella rappresentata da Choda - 3 kowsky, mà » 8. — Sezione trasversale a livello dello sbocco di una glandola dell’Ercolani in cui si vede il suo sbocco s, nel collo del follicolo pilifero, slargato e imbu- tiforme, des dotto escretore della glandola; sezione fatta dopo iniezione con bleu di Prussia, e colorazione successiva con carminio di Mayer, » 9. — Glandola del cerume isolata come le precedenti, fig. 4, 5, 6, e colorata con carminio neutro. 10.—Pelle del seno trattata con cloruro d’oro ed acido formico, sono visibili i muscoli della orripilazione mor, x * 14. — Sezione fatta al livello del collo di un follicolo pilifero; fra le pareti del collo 2 SER - i) dettagli 3; acido ed il pelo vi è del grasso accumulato gr; contorni osmico ’/,o0 e carminio ammonico, 12.— Sezione della glandola facciale del topo comune (un acino) (Mus muscuLus ) colorazione con carminio ammonico, nel mezzo si vedono le cellule in via di disfacimento, E: » 43,—Cellule della glandola facciale del topo con nuclei in via di divisione, mede- 3 4 simo trattamento, +. F 14.—Id. per lasciar vedere la rete protoplasmatica cellulare e nucleare pc, 3-4 Tp, + . 15.— Glandola sudorifera della pelle (tipo II), colorazione con carminio ammonico, lucal i Do: ridotta la metà col pantografo. i : : 2 » 46.— Sezione trasversale della stessa (pars secretoria); medesimo trattamento, Ne “a Fig.17.— Sezione sagittale della stessa: nelle cellule si nola la rele protoplasmatica 3 E » 48. —Sezione sagittale del cul di sacco di uma glandola dell’Ercolani; nelle cellule notasi la rete protoplasmatica: acido osmico ‘/,w, e carminio di rpe chiaramente distinta; acido osmico ‘/.00 e carm. ammonico, 3 Mayer, E: » 9. — Sezione sagittale di un’ansa del glomerulo di una glandola dell’Ercolani: 3 I 03 » 20. — Sezione orizzontale della stessa: medesimo trattamento, — medesimo trattamento, » 2/. — Sezione orizzontale del dotto escretore di una glandola dell’Ercolani: me- ] 3 desimo trattamento, + . » 22.—Cellule di una glandola sebacea del seno: acido osmico ‘/,y e carminio di Mayer, per lasciar vedere la rete protoplasmatica rpc, ed i filamenti di u- 3 nione fu, 1 app. ill Abbe. x 7 » 23.—Cellule di una glandola dell’ Ercolani: colorazione col carminio di Grieb, 3 1 app. ill. Abbe. 12 » 24. .—Cellule di una glandola sudorifera della pelle, semplice colorazione con car- 3 minio ammonico, ! app. ill. Abbe. 12 » 25.— Cellule dello strato del Malpighi isolate dopo il soggiorno di un’ora in cloruro d’oro '/v, e dodici ore in acido formico ‘/; sono chiaramente visibili i fila- = menti di unione che provengono dalla rete protoplasmatica rpe, 1 app. - Abbe. » 26.—Cellule dello strato granuloso: trattamento col verde di metile ?°/,00: si vedono 3 ° DD | » 27.—Rete vascolare di una glandola dell’Ercolani TA ridolla a metà col panto- i contorni dei nuclei vuoti e la rete protoplasmatica poco distinta Î grafo, iniezione con bleu di Prussia, colorazione con carminio neutro e dis- sociazione in acido acetico 2/10. » 28.—Sezione longitudinale di un follicolo pilifero per lasciar i la dentellatu- 2 ra del pelo e della cuticola della guaina epiteliale interna, — zi dettagli, pp DD: acido osmico + /100, colorazione con carminio di Mayer. » 29.—Rele vascolare esterna del seno, ve venuzza efferente; iniezione con bleu di! 2 Prussia , ie » 30.—Sezione orizzontale di una glandola dei cerume, colorazione con carminio di - 3 Grieb, ui » 3/.—Sezione sagiltale del cul di sacco della stessa: medesimo trattamento, + »E° ATTI — Vol. 11, Serie 2.° — Appendice, N.° 1. 8 Mr pe Tavoca III. — Istologia — Embriologia. I disegni, eccetto 7, 11, 14, 15, vennero eseguiti con la camera lucida di Nachet. Sistema Erice oc. I, 2, 3, 4, obb. AA, DD, E. Le lettere, A, B, c, p, E, hanno in questa tavola lo stesso significato che nella fig. 7, della Tav, I; s seno. Fig. 4. — Follicolo pilifero : rigonfiamento su cui s'inseriscono i fascetti muscolari dei muscoli della orripilazione. Cloruro d’oro '/.w0 e dissezione in acido ace- È 0 tico 2 °/o, SS » 2. — Rete nervosa che abbraccia la glandola dell’Ercolani, /n filetti nervosi che vanno al ae” del pelo. Cloruro d’oro ‘/s00, e dissezione in acido acetico, 7; dettag gli, di » 3. — Rete nervosa di una glandola sebacea, medesimo trattamento 3 ? DD . — Sezione trasversale del seno di un embrione di cent. 30 X 19, IV; indu- rimento in alcool, colorazione con carminio di Grieb: le cellule dello strato profondo del crOigi On come quelle del follicolo pilifero sono so- o & praccariche di pigmento pg, E dett., » 5. —Sezione del seno dello stesso bibita cli trattamento: si veggono le glandole der cole) I, II, in via di sviluppo ed una sezione tra- ‘9 sversa delle stesse 9E ; dett. 7 binate: ° DD' » 6. — Cul di sacco di una glandola dell’Ercolani in via di sviluppo molto ingran- dito, — . 7] E 2 » 7. — Piede anteriore, porzione falangea, di un embrione di cent. 10 X 6, I, molto ingrandito, sm. solco mediano; grand. naturale (8 p). » 8. — a, 8, y, Sezioni frontali del piede dello stesso embrione; indurimento in al- 2 2 cool, colorazione con carminio di Grieb, A ; dettagli, DD » 9.— a, 8,y, Sezioni orizzontali dello stesso a livello dello sbocco esterno del se- ’ 2 : 2 no: medesimo trattamento, TV. dellagli, si » 40.—Sezione sagiltale dello stesso: medesimo trattamento, EI 0 Do ; dett., ni ( Que- sta sezione è un po' laterale). » 44. — Piede posteriore di un embrione di cent. 15 '/, X 11, II, porzione falangea, lungh. p. 14]; in A si vede per trasparenza un accenno del forame esterno. » 42.— Sezione orizzontale dello stesso a livello del punto A; indurimento con acido cromico, colorazione col RIRpRDDORiRIA, contorni, x (ridotta la figu- ra a metà col pantografo); dettagli, 7 So _ Sar Fig.13.— Braccio ascendente B tagliato a mezzo di sua lunghezza orizzontalmente: nel centro si va scavando una cavità cv ; trattamento come sopra gli, 2 DD . 1 KE detta- 14. — Piede anteriore destro di un embrione di cent. 24X 15, III, porzione falan- gea [lungh. x 18]. E stato asportato il dito interno. 15. 16. 17. 18. 19. 20. — Piede anteriore sinistro di un embrione di cent. 30 X 19, IV, porzione falan - gea [lungh. p 23]. Si è operata l'asportazione del dito esterno. -— Una serie di sezioni orizzontali a livello del punto A (vedi fig. 11), di un em- brione di cent. 15 ‘/, X 11, II; indurimento con acido cromico ‘/1v0; colo- razione con picrocarminio 3 i dett. 3 ° DD ‘ — Sezione sagittale del piede dell'embrione II, indurimento in alcool, colo- razione carm. di Grieb: braccio ascendente e metà del discendente, in mezzo le cellule si fanno piatte 1 ? AA ; dett : 2 — Sezione orizzontale dello stesso; trattamento come nella fig. 16,—; dett. SD — Sbocco esterno del seno; medesimo trattamento ed ingrandimento. D ei > AA? ° DD © — Sezione sagittale del piede dell'embrione III; indurimento in alcool ; colorazione : 3 Lo n : con carm. di Grieb, = (ridotta a metà la figura col pantografo); dettagli, 2-3 DD . Si veggono tanto nel seno che nella pelle i follicoli (fp) dei peli e le glandole dell’Ercolani (gE) in via di formazione. ERRATA Auchenia Lama solo nei piedi posteriori o chiama Di quest’ ultimo destinata Balogch della 3°a falange ; ma la branca massa di carminio e gelatina gomitiliformi (Tav. I, fig. 1, m) (Tav. III, fig. 5, p9) epitelio esterno dell’amnios glandola faciale delle glandole della pelle lungh. del gomitolo glandolare p 4,50. ha osservato strato di Heule e circondato sagittali nel gomito (d) dite distinte glandole sebacee dell’ Ercolani istoligici Auchenia lama solo nei piedi anteriori lo chiama Di quest'ultime destinato Balogh delle 3°° falangi ; la branca massa di bleu di Prussia e gelatina gomitoliformi (Tav. II, fig. 1, m) (Tav. III, fig. 4, 5, DI) epitelio interno dell’amnios glandola facciale delle glandole del seno lung. del gomitolo glandolare 5,50. ha osservato strato di Henle e circondata sagittali nel gomito (D) dita distinte glandole sebacee e dell’ Ercolani istologici INDICE INEIRODEZIONE:, {4h allovit isinonno-iete; "è “.. 0° ila RE » 22 Vie;fy Peli do ivo) assioni rai vil. Vasi!sanguigni ‘. isbn cd aa Vitti Nerwi.°. . Befane RO Conclusioni siulagioie We n g II.— EmBrIoLOGIA . . 1g e Conclusioni cmbrielonigni ei GU IV. FisioLogia, o “i ebei re iiee i Spiegazione delle:itawole: 4. 0 80,0 0° ‘alt 0 VI. e e finita stampare il dì 30 Luglio 1886 «Muti dle d Sc ti cAMul VoLLl Sor 2 Ape. e Fig 14 - ì mr : | = 23 leg 1. d 6 me y di ni Co so ENT RN, POI x: RSI (i CRETE RAecad delle Sctenze LL - Uto della FSM nticelli ds. e Pe " } he | : | fg SS AlnHicolli Ricerche sul seno mnterdigitale della pecora Tav Il | ca” ; 2 7 = — —_ f i | 7 Ì ar — LV tà ES è = at se cea elelo PICS SILA f. Serino inc.e lit «Ati delli Lo AMed dello St Ieicerche sul seno dilerdigitale della pecora. Vavtl fo Se RION DI di DN i ba \ | ‘ = gs i { È pai É \ dè A) 7” Da 1 K ara vai Su Ss e SSA 4 = * È LI è e rea è cc è ssiche © 88 31-119812 AMNH LIBRARY INAIUNALK 100051587 : ì TRA, a x A Pisi ume . l SOC a ner » 1a P ; a : , Pe) IRIS A dA IA sl . “= Pa ‘ vir A È | PL PICO: ia VONTI e ANIA, Ve va Sly x : St roti Ata . ne % NARO cal Spie MN gine e a a eo i ii 7%, dini siii cri te I i I IRAN EN LOR RITA Zi ANA ADANI IRONIA MILIARE AISIIIITZI E TS TIE VII ITTICA AA o oca PAL did apfrane propia nà tt mtrrar 9 entrati s Loans lo a "i, SC s-Suerotat o nno ft MIAMI in Ln a eo td i DATA i gle e de dir ma Daci leciti ny "oro cisus si