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OCT O REM] VETRINE “bs MEIER ui: | LO 0A (da i ui y * cp fi Mi ATTI SOCIETÀ TOSCANA SCIENZE NATURALI RES TDENTE ENTPTISÀA eden INAEGENZIO NRE Vol TX Dedicato alla Memoria del Prof. &. Meneghini 167854 ALLA MEMORIA DEL PROF. G. MENEGHINI PRIMO PRESIDENTE DELLA SOCIETÀ TOSCANA DI SCIENZE NATURALI RESIDENTE IN PISA Il 29 gennaio 1889 morì in Pisa il prof. G. MexeGHINI, socio fondatore e primo presidente della nostra Società. Nel marzo successivo si costituì un Comitato promotore per erigere al sommo scienziato un monumento nel Camposanto urbano, dove, per deliberazione del Municipio pisano, la salma di Lui aveva trovato onorata sepoltura. Compiuto il monumento e la cerimonia dell’inaugurazione nel dì 11 giugno 1899, rimase un’eccedenza di cassa di L. 800, che dal Comitato fu consegnata alla nostra Società. Nell’ accettare il dono, il Consiglio direttivo, facendo aumentare per questo volume il numero ordinario dei fogli di stampa, deliberò che il volume stesso fosse dedicato alla memoria del suo primo presidente. Ponendo oggi in atto la sua deliberazione, il Consiglio sente il dovere di esprimere qui, a nome di tutti i soci, la sua gratitudine all’anzidetto Comitato che elargì la conspicua somma a vantaggio appunto di quella isti- tuzione scientifica, la quale tanto si accrebbe e si avvantaggiò mercè l’opera indefessa e il nome illustre del venerato e sempre compianto G. MeNEGENI. Pisa, 10 maggio 1903. PER IL CONSIGLIO DIRETTIVO Pror. S. Ricuiarpi, Presidente Pror. M. Canavari, Segretario. | | | i Ro ra “ Dei RAS Da PASTE h papera D h, Ù hi Ri; Hi i) 183 ARI VE ATI To potiiteiie . Ò Il % È i de 6 RIENTRI se I pg e ed LI e Ora OE 4 E, ; "i sp) i : i, LUO È Ù TI TM ‘x der A $ » * = n x 3 è É d CEI Ul o w î : E ri ; ks R3 At ; } LI A ni \ À Ù i ' E i I È i - ì x Y ’ 4 P: LEOPOLDO BARSANTI CONTRIBUZIONE ALLO STUDIO DELLA FLORA FOSSILE DI IANO ‘) Il gruppo di Iano, costituito da colline poco elevate, comprese fra le due valli dell'Era e dell’Elsa, si può considerare come l'estremo lembo settentrionale della Montagnola senese, ovvero quale anello di congiun- zione tra questa e i Monti Pisani a NO, da cui è separato per la valle dell’Arno e per una breve distesa di colline plioceniche. Fa parte di questo gruppo il Monte di Torri, oggi divenuto una località molto nota, non solo per lo studio dei terreni paleozoici in Italia, ma anche per le industrie minerarie, che da vari anni vi hanno preso una mediocre estensione. Del Monte Torri ne hanno dato per primi una descrizione geologica il Savi e il MENEGHINI nel 1851 ?). Spiegavano essi l'improvviso appa- rire di quel forte ammasso di verrucano, che rappresenta gli strati più antichi del Monte, in mezzo ad un territorio tutto di epoca terziaria, ammettendo che questi furono sollevati dall’eruzione di una massa di roccia plutonica, che secondo le loro osservazioni si trovava al di sotto di essi strati. In seguito però a più accurate ricerche sembra che quell’ammasso plutonico di eufotide serpentinosa non sia stato la causa dell’inalza- 1) Questo lavoro è stato eseguito sotto la direzione dell’ illustre prof. G. AR- CANGELI, al quale debbo esternare la mia più viva gratitudine per la benevola accoglienza che ha sempre usata verso di me ogni volta sia ricorso a Lui per schiarimenti. Debbo inoltre porgere infiniti ringraziamenti all’ amico dott. Cor- RADO AGNOLUCCI, il quale ha agevolato di tanto il mio studio permettendomi di valermi di alcuni suoi appunti riguardanti questo medesimo argomento. 2) P. Savi e G. MENEGHINI. — Memoria sulla struttura geologica delle Alpi, degli Appennini e dei Carpazi di R. T. Murchison. Traduzione dall’ inglese ed appendice sulla Toscana. Firenze, 1851. 4 L. BARSANTI mento del Monte, ma ciò sia avvenuto nel periodo postpliocenico per via delle comuni forze generatrici delle montagne. Infatti BerNARDINO Lotti 4), che segue pure il parere del DE STEFANI, avrebbe osservato che poco di- stante da Torri le rocce plutoniche si trovano a contatto con gli scisti carboniferi e son ricoperte dal pliocene. Per tale giacitura era facile essere indotti, come infatti avvenne, nella falsa opinione che tali rocce fossero sottostanti a quelli antichi strati e costituissero il fondamento di tutte le formazioni stratificate dei monti di Iano. Una più attenta ispezione però fa vedere in modo chiaro che esse, lungi da esser sot- toposte, sono soltanto contrapposte al carbonifero, come osserva anche il DE STEFANI ?), ed anzi se ne può constatare in qualche punto la so- vraposizione. Del resto sebbene non si scuoprano gli alberesi diretta- mente a contatto con le rocce ofiolitiche, si ritrovano però a pochi passi di distanza, andando verso Torri, separati da esso soltanto per una pic- cola vallecola di erosione, e non vi ha dubbio alcuno che tale contatto diretto si verifichi sotto il pliocene, che ricuopre per una gran parte la massa serpentinosa. Nel gruppo di Iano abbiamo detto che la formazione del verrucano rappresenta le rocce più antiche, che giacciono a forma di cupola, sco- perta però ed interrotta a SO dove si vedono gli strati più profondi per poche centinaia di metri quadrati. Questi sono costituiti prevalen- temente da scisti argillosi ed arenacei, sono tutti neri e carboniosi, talora addirittura antracitiferi, e specialmente nelle masse più tenere e argillose e carboniose si trovano delle vene di cinabro, della baritina, della pirite ed altri minerali in minor quantità. Tutta la serie di questi strati contiene fossili, specialmente vegetali, che secondo il MENEGHINI appartegono al sistema carbonifero. Le forme fossili che abbiamo preso ad esaminare, gentilmente cedute per studio dal prof. M. CANAVARI, giacchè si trovano nel Museo geologico di Pisa, furono estratte dalla galleria SAvI, tagliata in questi strati fossiliferi per i lavori delle miniere. Continuando in scala ascendente la serie delle roccie, che si seguono nel gruppo di Iano, si osserva che sopra i terreni paleozoici concordano 1) B. LorTI. — Alcune osservazioni sui dintorni di Jano presso Volterra. Bul. del Com. geol. ital. vol. X, 1879. i 2) C. De STEFANI. — Un nuovo deposito carbonifero nel M, Pisano, Atti R. Ace. dei Georgofili, vol. XIV. Firenze, 1891. CONTRIBUZIONE ALLO STUDIO DELLA FLORA FOSSILE DI IANO D quelli triassici, che stendendosi tanto a Nord quanto a Sud ricuoprono il carbonifero. La loro serie è la seguente: scisti lucenti bianchi e rossi, quarziti bianche o rossastre e micascisti, quarzite con ghiaiette di quarzo bianco o roseo. Si noti che questi strati di Iano sono litologicamente iden- tici a quelli delle Alpi Apuane, dei Monti Pisani, della Montagnola e di Capo Corvo, i quali pure appartengono al trias. Concordante sopra il trias sta l’infralias, formato inferiormente da piccoli strati di calcare terroso giallastro e superiormente da una grande massa di calcare ce- ruleo cupo compatto, talora cavernoso. Con l’infralias terminano le rocce antiche del poggio. Nelle porzioni più settentrionali esso è coperto qua e là da uno schisto argilloso rosso e biancastro, in straterelli, friabile, simile a galestro, che per il carattere litologico e per la posizione stra- tigrafica il De STEFANI attribuisce alla creta !). Tutto intorno alla cupola delle rocce antiche stanno gli alberesi e l’eufotide appartenenti al piano eocenico superiore, al solito con discor- danza grande di tempo e di stratificazione. In molti luoghi l’eufotide è a contatto col carbonifero, onde fece credere ad altri, come abbiamo già veduto, che esso fosse sottostante al carbonifero stesso, ma si è pro- vato come ciò non sia in realtà. Tutte le rocce ricordate vengono cinte e ricoperte dal pliocene che è per lo più sabbioso nella regione orien- tale, argilloso e meno litorale in quella occidentale. Tratteggiato così rapidamente il taglio geologico del gruppo di Iano, passiamo ora in ras- segna i primi studi che furono fatti sopra i suoi fossili. Abbiamo già detto che le prime impronte vegetali estratte dal M. di Torri furono studiate dal MENEGHINI e pubblicate nel suo lavoro sulla geologia della Toscana. Egli cita cinque Newropteris di cui una sola con determinazione di specie, e ciò a causa della conservazione non troppo buona degli esemplari. Nota pure varie Pecopteris, Calamites, Annularie, un Adiantites, e una Odontopteris. In una nota allo stesso lavoro a pag. 484, sotto il titolo “ Nuovi fossili del Verrucano , ricorda i lavori che si facevano a Iano per l’escavazione della nuova miniera cinabrifera, lavori che apportarono alla scienza la felice scoperta di fossili animali, appartenenti come i vegetali, secondo il MENEGHINI, all’epoca carbonifera. Fa notare come mentre gli avanzi vegetali si erano trovati negli scisti grigio-scuri a grana fina, quelli animali si trovarono in prevalenza negli scisti a grana grossolana. Anche di questi animali ne descrive i migliori 4) C, De STEFANI. — Loc. cit. 6 L. BARSANTI esemplari, e convalida la sua opinione di dovere attribuire al carboni- fero la formazione detta del verrucano “ giacchè se poteva rimanere dubbio fintanto che non se ne conoscevano che soli fossili vegetali, la presenza di fossili animali, egualmente appartenenti a quel periodo, in un piano superiore di quel medesimo terreno elimina qualunque dubbio che in proposito si potesse conservare , 1). Non sempre però furono tali le opinioni sull’età della formazione verrucana, come lo mostrano le numerose controversie che si ebbero tra insigni geologi, riguardo specialmente al verrucano dei Monti Pisani, che forma un identico orizzonte con quello di Iano e di altre località. In origine il SAVI ritenne questo verrucano come primario ?), di poi nel 1832 trovati alcuni fossili nei calcari di S. Giuliano, ammise che fossero ter- reni secondari trasformati, e li chiamò Verrucano. In seguito il prof. SismonDa con altri l’attribuirono al lias. Nel 1850 si scuoprirono i fossili di Iano che dal MENEGHINI sono riconosciuti carboniferi. Nel 1864 il CAPELLINI 3) e poi il Coquanp pongono parte del verru- cano nel permiano. Nel 1874 il DE STEFANI trova alcuni fossili di aspetto triassico, onde a tale epoca sono riportati parte degli scisti verrucani. In seguito alle scoperte di fossili fatte dal cav. pe BosNIASKI e dal LortI rimasero in campo le due questioni se si trattasse di resti paleo- zoici o secondari. 3 Il De SterANI dai fossili scoperti alla Traina nel Monte Pisano ascrive 4) quelli strati con quelli di Iano alla parte superiore del carbo- nifero superiore, corrispondenti agli strati di Radnitz in Boemia; ma il pe BosNIASKI da alcune impronte trovate nella stessa località conclude che tali terreni sono del permiano inferiore corrispondenti agli strati di Rossitz e Vettin in Boemia °). Il DE STEFANI in altra pubblicazione 5) dimostra che le forme trovate 1) P. Savi e G. MENEGHINI. — Loc. cit. 2) P. Savi. — Catalogo ragionato di una collezione geognostica contenente le rocce più caratteristiche dell'a Toscana. Pisa, 1830. 3) G. CAPELLINI. — Descrizione geologica dei dintorni del golfo della Spezia e Val di Magra inferiore. Bologna, 1864. 4) C. Dr STEFANI. — Le flore carbonifera e permiana del M. Pisano. Atti d. Soc. tosc. d. Sc. Nat. 1894. 5) S. DE BosNIASKI. — Flora fossile del Verrucano nel M. Pisano. Pisa, 1890. 6) C. Do STEFANI, - Un nuovo deposito carbonifero nel M. Pisano. Firenze, 1891, CONTRIBUZIONE ALLO STUDIO DELLA FLORA FOSSILE DI IANO vd dal De BosNIASKI non sono caratteristiche del permiano ma bensì del Carbonifero superiore. Intanto il pe Bosniaski dallo studio di altri fossili rinvenuti portava nuove prove !) in favore della sua opinione, paragonando il permiano del Monte Pisano al gruppo Autuniano di Francia. Nel 1891 il prof. CANAVARI ?) annunziava il ritrovamento di un’altra località fossilifera al Monte Vignale, contenente una flora diversa da quella della Traina, perchè le forme della prima sono maggiormente diffuse nel permiano inferiore, onde il De STEFANI deduceva che gli strati di Monte Vignale sono del permiano inferiore e corrispondenti ai Cu- seler-schichten, al permiano inferiore di Stockheim Mamback etc. Egli dunque attribuiva le due fiore della Traina e di Monte Vignale a due età diverse, cioè assegnava la prima al carbonifero superiore, la seconda al permiano inferiore, mentre il pe BosNIAsKI le univa ambedue con quella di Iano al permiano inferiore. Le osservazioni da noi fatte ci inducono piuttosto a secondare l’o- pinione del De STEFANI *) ammettendo che la flora di Iano appartenga al carbonifero superiore, e che quindi i suoi terreni siano in relazione con quelli della Traina. Ma d’altra parte sebbene fra i nostri esemplari non abbiamo trovato Walchia e Callipteris, tuttavia ci è nato un dub- bio nel riconoscere quattro saggi di Neurocallipteris gleichenioides, che secondo lo StERZEL sarebbe una delle specie proprie del permiano. Non rimanendo perciò nemmeno ora del tutto certa la determinazione di questi terreni, mi propongo di continuare presto lo studio, giacchè nel- l’Istituto di Botanica esiste un buon numero degli stessi fossili di Iano, che il prof. ARCANGELI con squisita cortesia mi ha proposto di studiare. Intanto per le indagini fatte siamo per ora, come già si è detto, più propensi ad assegnare a quei terreni un’età carbonifera, giacchè se pas- siamo in rassegna i tipi speciali al carbonifero superiore, vediamo la perfetta corrispondenza che questi hanno con quelli studiati da noi. Infatti la flora carbonifera superiore è caratterizzata per l'abbondanza di felci specialmente del gen. Pecopteris e Odontopteris; le Calamites 1) S. DE BOSNIASKI. — Nuove osservazioni sulla flora fossile del Verrucano nel M. Pisano. Pisa, 1894. ?) M. CANAVARI. — Due nuove località nel M. Pisano con resti di piante carbonifere. Atti d. Soc. tosc. d. Sc. Nat. 1891. 3) C. De STEFANI. — Flore carbonifere e permiane della Toscana. Firenze, 1901. 8 L. BARSANTI sono le stesse che nel carbonifero medio. Tra le Asterophyllites predo- mina l’Asterophyllites equisetiformis. Le Annularie sono rappresentate da due specie: l’Annularia sphenophylloides e V Annularia stellata, che nate verso l’estremo orizzonte dell’età precedente si sostituiscono a poco a poco all’Annularia radiata. Tra gli Sphenophylum appariscono i nuovi tipi, prima lo Sphenophyllum oblongifolium e poi in alto lo Sphenophyllum Thoni, la più grande specie del genere. Le Sphenopteris sono molto di- minuite, infatti anche noi abbiamo trovato un solo esemplare della Sphenopteris delicatula. Le Neuropteris conservano ancora in parte certe forme della flora carbonifera media, ma sono per lo più rappresentate da specie nuove, come la Neuropteris auriculata. Le Dictyopteris dell’età precedente sono rimpiazzate da altre specie, quali la Dictyopteris Bro- gniarti, la Dictyopteris Schiitzei. Nel gruppo delle Neuropteridae è più importante in questa età il genere Odontopteris. Si presenta pure il ge- nere Callipteridium, che nei nostri esemplari si è mostrato numeroso sotto la specie di Callipteridium subelegans. Su tutte le felci però, come è facile vedere, ha la superiorità il genere Pecopterîs colle specie Pe-. copteris cyathea, P. polymorpha, P. unita e P. longifolia. I Lepidodendri sono quasi scomparsi e non hanno che un posto secondario, infatti noi ne-abbiamo trovato solo qualche impronta molto indecisa; persistono ancora per qualche tempo i Lepidostrobus e i Lepidophyllum. Tra le St- gillarie predominano le forme Sigillaria Brardi e Sigillaria Spinulosa. Le Cordaiti sono al loro apogeo con le specie Cordaites borassifolius e Cordaites principalis, delle quali anche noi abbiamo trovati numerosi esemplari. I Calamodendri sono rappresentati in abbondanza in tutto il piano superiore dal Calamodendron nodosum. Le Gimnosperme sembrano bene sviluppate dai numerosi frutti che ad esse devonsi riportare. Con un rapido confronto tra l’elenco dato e la flora di Monte Torri si vede chiaramente come quest’ultima corrisponda in tutte le particolarità ai tipi fondamentali caratteristici della flora carbonifera superiore, per cui crediamo poter stabilire che il piano degli scisti antracitiferi di Monte Torri, da cui provengono i nostri esemplari, appartiene al carbonifero superiore, e corrisponde agli strati della Traina del Monte Pisano. La relazione è evidente se noi confrontiamo le specie trovate a Iano con quelle della Traina; notiamo solo che la flora di quest’ultima si mostra un po’ più antica rispetto a quella di Iano. Il pe BosnIaski in tutti i suoi lavori sulla flora del verrucano è venuto sempre a conclusioni differenti dalle nostre e da quelle del DE CONTRIBUZIONE ALLO STUDIO DELLA FLORA FOSSILE DI IANO Ò SterAaNI. Egli ha paragonato la flora di Iano e della Traina a quelle degli strati Rossitz e Wettin in Boemia, che si riferiscono alla porzione inferiore del permiano; ma noi facciamo osservare che molte delle specie di Iano da noi studiate sono caratteristiche del carbonifero superiore e tutte molto comuni nel terreni di questa età. Riguardo alla nota impronta, che si può vedere figurata nel Museo geologico di Pisa, attribuita a G/ossopteris, a noi sembra, per quanto abbiamo osservato, che non sì tratti veramente nemmeno di una foglia ma piuttosto di una brattea, e verosimilmente del LepidophyWlum maius, figu- rato e descritto da molti autori, fra i quali FrisrmantEL nell’opera Die Virsteinerungen der bòhmischen Ablagerungen; tav. XIII, n. 2. Il cav. pe BosNnIasKI ritiene sicura la determinazione generica di Glossopteris “ mancando nella nostra flora permocarbonifera un altro ge- nere col quale a cagione delle dimensioni e della forma della foglia potrebbe essere confusa , 1). A noi sembra però che osservando attentamente il nostro esemplare e confrontandolo con la figura di FEISTMANTEL e degli altri si giunga a conclusioni alquanto diverse da quelle del DE BOSNIASKI. In primo luogo il disegno della supposta foglia, che si trova nel nostro Museo, non sembra ritrarre con tutta precisione l’esemplare, perchè in questo non si osserva alcuna traccia del picciolo, che è dise- gnato nella figura. Quella parte poi della foglia che è stata presa per base, a noi sembra rappresenti invece la sommità, come abbastanza chiaramente lo attesta la nervatura mediana, che come in ogni foglia è più grossa alla base e si assottiglia verso l'apice. Vi è inoltre da os- servare che nell’esemplare non vi è alcuna traccia di quella fitta rete di nervature secondarie, che si osservano nelle foglie di GIossopteris. Si potrebbe opporre a ciò che lo stato di conservazione del fossile non è così buono da mostrare tali nervature; ma se ciò fosse dovrebbe es- sere poco distinta anche la nervatura mediana, che spicca invece molto bene sulla superficie liscia della brattea. Guardando attentamente l’im- pronta alla base si vede che ivi presenta come una piccola area schiac- ciata e di apparenza diversa dal resto della foglia; in questo spazio anche la nervatura mediana sì fa meno appariscente, in una parola a noi sembra intravedere la forma che hanno alla base le brattee degli strobili. 1) S. De BosNIasKI. — Nuove osservazioni sulla flora fossile del Verrucano nel M. Pisano. Pisa, 1894. 10 L. BARSANTI Riassumendo quindi i caratteri che vi abbiamo potuto osservare, cioè mancanza assoluta di nervatura secondaria, mancanza di picciolo, base della foglia quasi rotonda e con l’impronta di un ricettacolo per gli spo- rangi, pare che non debba ritenersi come una foglia di Glossopteris, ma piuttosto una brattea di Lepidophyllum matus, di cui mostra tutti i ca- ratteri. Già anche il De STEFANI aveva dubitato della primiera interpre- tazione di quell’impronta, dicendo: “ la G/ossopteris (del Museo di Pisa) è così mal conservata che potrebbe essere tutt’altra cosa , !); parimente lo ZEILLER conferma che sia stata male interpretata?), e pure il prof. ARCANGELI, molto competente in materia, la riferisce ad una brattea di Lepidophyllum maius. Trattandosi del resto di uno studio molto difficile e di forme così- poco ben conservate da poterle determinare con sicurezza, non è a me- ravigliarsi se non ostante gli accurati studi si giunga a conclusioni spesso tra loro molto disparate. | Nello studio dei nostri fossili abbiamo riconfermato alcune specie nuove già fatte dal MenEGHINI, come l’ Annularia macrophylla e VAn- nularia ramosa, perchè mostrano abbastanza chiaramente caratteri suf- ficienti per farne nuove specie. Però alcune impronte di Asterophyllites segnate dal MENEGHINI come specie nuove, ci hanno lasciato un poco in dubbio, perchè si trovano in così cattivo stato che riesce molto difficile raccoglierne caratteri decisivi. Il De STEFANI pure ha fatto una nuova specie in un tronco di Ca- lamites, che presenta nella porzione superiore le coste molto acute ad angolo, cosa che non si verifica in altra forma. Noi crediamo osservare però che tale particolarità si presenta solo al di sopra dell’articolazione mentre al di sotto di essa le coste si mostrano piane: dunque trattan- dosi di parti di un medesimo pezzo si può supporre che il rialzamento delle coste della porzione superiore sia stato un effetto di pressione laterale, molto più che in questa parte il tronco si presenta un poco piegato ad arco. Abbiamo constatato infine la presenza di forme trovate ancora al 1) C. Dn STEFANI. — Un nuovo deposito carbonifero del M. Pisano. Firenze, 1891. 2) R. ZaiLLeRr, — Paléontologie végétale. Annuaire geologique universel 1890. Paris, 1892, p. 1122. CONTRIBUZIONE ALLO STUDIO DELLA FLORA FOSSILE DI IANO 11 Museo pisano, e che furono da altri diversamente determinate, cioè i generi SphenophyUum e Callipteridium. La prima forma si trova dal MENEGHINI riferita agli Adiantites; ma con più minute ricerche abbiamo osservato negli esemplari 4 e 5 tre di queste foglioline riunite in verti- cillo attorno ad un fusticino, disposizione che non si può avere negli Adiantites. Oltre la presenza dei verticilli, anche il numero delle ner- vature e le dimensioni delle foglie fanno riportare l’impronta alla spe- cie Sphenophyllum Thoni MARR. var. minor STERZEL. Questa varietà è creata e descritta dallo STERZEL !) per la mancanza dei denti sul con- torno della foglia, che egli ha notato in alcuni esemplari; per questo carattere forse la nostra impronta fu erroneamente riferita al genere Adiantites. Con ciò non intendiamo davvero di fare una confutazione alle determinazioni fatte da così insigni conoscitori della paleontologia, ma vogliamo solo unire alle loro le nostre osservazioni, se queste po- tranno servire mai di un qualche schiarimento in uno studio così dif- ficile e incerto. Tra le felci quella che si è mostrata per numero superiore a tutte è il Callipteridium subelegans di Poronig. Egli ne ha fatto una nuova specie fondandosi sopra una particolarità delle pinnule secondarie, per avere cioè alcune nervature secondarie inserite direttamente sulla rachide, an- zichè riunirsi sulla nervatura principale ?). Questo fatto l’abbiamo osservato anche noi assai bene in molti esem- plari, ma in altri la cosa è rimasta indecisa per il loro cattivo stato di conservazione. Forse alcuni di questi ultimi potranno riferirsi alla spe- cie molto prossima ai Callipteridium, cioè alla Pecopteris polymorpha, alla quale il MenEGHINI ed HeER riportarono anche tutti gli altri’ esemplari da noi riconosciuti come Ca/lipteridium. Può darsi anche che quest’ ul- timo rappresenti una forma di Pecopterìîs polymorpha, perchè ancora non fu ritrovato con sporificazioni, ma il PoToNIE fa notare che la Peco- pteris polymorpha si distingue dal Callipteridium subelegans oltre che per la mancanza di nervetti callipteridici anche per le nervature più lasse, non così diritte e non così forti come si trovano nell’altra specie ?). Notiamo pure nell’elenco due specie nuove descritte già dal prof. 1) I. T. SrerzEL. — Die Flora des Rothliegenden im Plauenschen Grunde Bei Dresden. Leipzig. 1893. ?) H. Poronib. — Die Flora des Rothliegenden von Turingen. Berlin, 1893. 3) Loc. cit., pag. 67. 12 L. BARSANTI ARCANGELI, che le scuoprì negli stessi scisti di Iano, cioè la Daubreeia Biondiana e lo Zoophycos Iani 1). In numerosi pezzi abbiamo trovato le impronte di foglie riferibili a SigWlarie; ad alcune di più importanti abbiamo dato il nome e una particolare descrizione. Ricordiamo per ultimo una nuova forma di fungo fossile trovato ade- rente alla superficie di un fusto, che presenta una grande somiglianza con la Tubercularia vulgaris ora vivente. Si presenta in forma di tuber- coletti riuniti in gruppi, muniti talora di una depressione nel centro; si è chiamata per la somiglianza suddetta col nome di 7ubercolarites Tani. Tutte le varianti e le osservazioni di minore importanza, da noi ap- poste alla determinazione di questi fossili fatta dal MENEGHINI e dagli altri, sono minutamente esposte nell’elenco che segue. In questo descri- - viamo in particolare tutte le specie nuove e gli esemplari migliori di quelle già note. Le forme che si trovano in gran numero, e che abbiamo una volta descritte sono indicate in seguito semplicemente per nome. 1) G. ARCANGELI. — Sopra due fossili di Iano. Boll. Soc. bot. ital. Firenze, 1896. ELENCO E DESCRIZIONE DELLE SPECIE FOSSILI (I numeri scritti in parentesi sono quelli che portano i fossili nella collezione del Museo geologico di Pisa). I. (1) — Due pinnule di secondo ordine, l'una lunga cm. 5, l’altra cm. 3; sono oblunghe, ottuse, con nervature arcuate, uscenti dalla base, dicotome, sottili; alla base le foglie sono dilatate e auricolate. Questo resto si riferisce alla Neurodontopteris auriculata (Brone.) Poron. In altra parte di questo esemplare si ha una foglia di SpherophyWum Thoni MARR. var. minor SteRZ. Ad essa sta vicino un piccolo fusto angoloso con una articolazione, che appartiene certamente allo stesso Sphenophyllwn come più chiaramente si vede in migliori esemplari, che troveremo. II. (2). — Impronte mal conservate di. SphenophyWum Thoni MARR. var. mìnor STERZ. INI. (3). — Numerose impronte poco descrivibili di SphenophyMWum Thoni MARR. var. minor SteRZ. Frammenti di pinnule di Ptychocarpus unitus (Brone.) Weiss. Le foglioline sono unite fra loro sino quasi alla sommità; l'andamento delle nervature secondarie è molto obliquo. Da un lato dell’esemplare si osserva un resto incompleto di Annularia stellata (SCHLOT.) STERNB. IV. (4). — Questo esemplare ed il seguente sono stati ottenuti da un sol pezzo, per cui l’uno è la controimpronta dell’ altro. Il numero che ora descriviamo porta diverse impronte, riferite in collezione al ge- nere Adiantites, ma dai manifesti caratteri che offre, noi lo riportiamo al genere Sphenophyllum. Infatti si osservano tre foglioline riunite in verticillo intorno ad un fusticino, cosa che non si riscontra negli Adiar- tites. La forma di queste foglie è ovale triangolare; sono rotondate al margine superiore; dalla base si partono da 5-7 nervature principali, che verso la metà della foglia si dividono per dicotomia, e ciascun ramo si suddivide poi in altri minori. Sull’estremità del lembo non esiste den- tatura, e per questo carattere appunto STERZEL ha fatto una varietà della 14 L. BARSANTI specie Sphenophylum Thoni indicandola col nome di Sphenophyllum Thoni MAHR. var. minor STERZ. Lo stesso saggio porta pure numerose impronte ben conservate di Annularia stellata (ScHLOT.) STERNB. Le foglie sono larghe circa mm. 1, 5; lunghe da 15-29 mm. in numero di circa 22 per verticillo, lineari, lan- ceolate, acuminate all’estremità, con nervatura mediana assai distinta. Da un lato si ha una pinnula di Ptychocarpus unitus (Brone.) Wesss. Infine si nota un’impronta a forma di radice, formata di un asse prin- cipale lungo cm. 4, 5, largo 0, 5 cm., dal quale si partono sei assi minori, alterni, in parte incompleti. Il prof. ArcanceLI l’ha denominata col nome di Radicites Iani n. sp. ARCANG. V. (5). — La controimpronta del precedente offre perciò le stesse forme fossili di questo, cioè un fusticino con tre foglioline in verticillo di Sphenophyllum Thoni MAHR. var. minor STERZ., diverse impronte di È Annularia stellata (ScHLOT) STERNB., un frammento di Ptychocarpus unitus (Brone.) WrIss., e in ultimo la solita impronta di Radicites Ianì n. sp. ARCANG. VI. (6). — Un frammento di pinnula a foglioline nette con denti acuti, in ciascuno dei quali termina una nervatura secondaria. Si riporta alla Goniopteris foeminaeformis SCHLOT. VII. (7). — Una pinnula a foglioline ottuse, connate alla base, con nervature sottili, uguali, forcate, tutte nascenti dalla base. Si riferisce alla Odontopteris osmundaeformis ScaLot. Da un lato si ha un'impronta di Annularia stellata (ScHLOT.) STERNB. in gran parte piritizzata. VIII. (9). — Porzione di pinnula di penultimo ordine, formata da dieci foglioline ottuse, molto vicine tra loro e leggermente imbricate, con nervatura mediana evanescente verso l’apice, le secondarie forcate. La riferiamo alla Newrocallipteris gleichenioides (STUR) STERZ., mentre in collezione porta il nome di Neuropteris rotundifolia, di cui però non ha i caratteri. IX. (10). — Pinna mal conservata di Neuropteris rotundifolia GuTB. con foglioline a contorno quasi rotondo, lunghe 12 mm., larghe da 10 a 11 mm. Da un lato dell’esemplare vi è anche un'impronta di Annularia stellata (SCHLOT.) STERNB. X. (11). — Un frammento di fronda con tre pinne a pinnule mal conservate, ma che sembrano riferirsi alla Neurocallipteris gleichenioides (Stur) Sterz. Anche questa in collezione è indicata col nome di New- ropteris rotundifolia. adr CONTRIBUZIONE ALLO STUDIO DELLA FLORA FOSSILE DI IANO 15 XI. (12). — Una pinnula di ultimo ordine lunga cm. 5, divisa da lobi ovali a contorno intero e in qualche parte leggermente sinuoso, con nervatura mediana ben netta, secondarie oblique, biforcate e legger- mente arcuate. Per tali caratteri la riportiamo alla Pecopteris Pluckeneti ScaLor. È ancora molto vicina alla 2. pinnatifida ScHIMP., ma ne diffe- risce perchè questa ha pinnule un poco più distanti e il margine intero. Differisce anche dalla P. Sterzelì ZeiLr. perchè questa ha i lobi più grandi e più divisi. © XII. (13). — Una pinna lunga cm. 10, 5 di Callipteridium subelegans Poron.; sono ben visibili i nervetti callipteridici. XIII. (14). — Una pinnula lunga circa 20 mm. e larga 8, con nerva- tura mediana che si prolunga quasi fino all’apice; le secondarie sono numerose, diritte alla loro origine, poi fortemente arcuate, e toccano normalmente il lembo della foglia. Si riferisce alla Dictyopteris Schiitzei Row. In collezione è data come Dictyopteris Brongniarti, ma tale deno- minazione non è esatta, perchè in questa la nervatura mediana giunge solo a metà o due terzi della foglia, e le nervature secondarie toccano molto obliquamente il lembo. L’esemplare porta pure un’impronta di Calamites, ma in stato da non potersi determinare la specie. XIV. (15). — Frammento di pinna con pinnule lunghe da 3-4 cm. larghe da 6-7 mm., toccantisi leggermente tra loro, con l’ apice arro- tondato. Nervatura mediana netta fino a circa ?/3 della foglia, nervature secondarie poco discernibili. Sembra doversi riferire alla Dictyopteris Brongniarti GuTB. XV. (16). — Frammento di pinnula della Dictyopteris Schiitzei Réw. lunga 17 mm., larga 7. Si ha pure una pinnula di Ptychocarpus unitus Weiss., forma longifolia Brone., che mostra ben distinta la sola nerva- tura mediana. Altro resto di pinnula, che da un lato ha numerose foglioline munite di denti acuti, con nervature secondarie formanti angoli molto acuti e con nervo medio. Si riferisce alla Gondopteris foeminaeformis ScHLOT. Altra pinna di penultimo ordine lunga cm. 6,5 con foglioline alterne, sessili, ottuse, con nervo medio evanescente all’ estremità, e nervature secondarie numerose ed arcuate; le foglioline si cuoprono in parte l’ una con l’altra. Sembra corrispondere alla Newropteris imbricata GòPP., ma il nostro esemplare ha un numero di nervature secondarie molto maggiore che non ha il tipo di G6PPERT, dobbiamo perciò riportarla alla varietà di questa specie cioè alla Neuropteris imbricata GuòPP. var. densinervosa REL. 16 L. BARSANTI Vi è anche un’impronta di Calamites Cisti Browne. Dall’articolazione sì partono numerose coste longitudinali finissime e serrate; all’estremità delle strie si notano piccoli tubercoli che appariscono come tante pun- teggiature. Dal lato opposto dell’ esemplare si ha una foglia lineare, certo di SigWMlaria, di cui diamo una sommaria descrizione in latino: Folia li- nearia, longa cm.8, lata mm. 8,5, nervo medio recto et patentissimo, alia duo collateralia minus distineta. Essendo, come è noto, il nome di Sigil- laria riservato esclusivamente per i fusti, si è designata quella foglia col termine speciale di ,Sigiariophyllum, e precisamente il prof. ARCAN- GELI l’ha determinata SigWariophyllum tricarinatum n. sp. ARCANG. XVI. (17). -— Estremità di una pinna formata da una foglia grande a forma di lingua, lunga cm. 3, 5., larga cm. 2, riferibile alla Odonto- - pteris subcrenulata Rost. Si presentano poi altre due pinne a foglioline ottuse con nervatura indecifrabile da riportarsi, crediamo, alla Newrocal- lipteris gleichenioides (STUR) STERZ. Dal lato opposto del modello si ha una ben conservata impronta di Cordaites borassifolius STERNB., le cui nervature, una sottile tra due grosse, sono parallele e regolari. XVII. (18). — Una pinna a grossa rachide striata longitudinalmente, formata da varie 'pinnule a foglie larghe, ottuse, talora quasi rotonde. La nervatura mediana giunge presso la metà della foglia, le secondarie sono numerose e dicotome all’estremità. Qualche fogliolina si attacca con metà della base; allora in quel punto le nervature s’inseriscono sulla rachide. La riferiamo alla Neurocallipteris gleichenioides (StuR) STERZ. XVIII. (19). — Due frammenti di pinne primarie, l’una lunga em. 4, l’altra cm. 5, ambedue formate da pinne secondarie alterne, di cui le inferiori sono composte di foglioline ovato-rotonde, le superiori sono con- nate. In alcune di esse si osserva che talune nervature della base si inseriscono sulla rachide. Queste impronte rappresentano la parte supe- riore di due pinne di Callipteridium subelegans PotoN. Si ha pure un’impronta di Calamites Cistiù Brone., in cui le stria- ture sono visibili solo da una parte. XIX. (20). — Vari frammenti di pinnule di Odortopteris obtusa BRroNe. Le foglioline sono ottuse e si attaccano con tutta la base alla rachide; nervatura quasi indistinta. Da un lato si osserva pure una pinnula di Asterotheca suberenulata (Rost.) PrEsL. assai ben conservata. CONTRIBUZIONE ALLO STUDIO DELLA FLORÀ FOSSILE DI IANO 17 XX. (21). — Alcune pinnule di Pecopterîs, ma molto incerte; dalla nervatura ramificata e dalla lunghezza varia delle foglioline sembrano appartenere alla Asterotheca cyathea (ScuaLoT.) PRESL. Si osserva ancora qualche resto di Annularia stellata (ScHLOT.) STERNB. XXI. (22). — Grosso frammento di una pinnula di Asterotheca arbo- rescens (ScHLoT.) PRESL., ed un altro più piccolo di Ptychocarpus unitus (Brone.) WrIss. XXII. (23). — Porzione di pinna con tre pinnule a foglioline quasi rotonde alla sommità, e unite fra loro; crediamo poterla riferire al Ptychocarpus unitus (Brone.) WEISS. XXI. (24). — Alcuni resti di Asterotheca arborescens (ScHLOT.) PRESL., e due impronte di Annularia stellata (ScHLOT.) STERNB. XXIV. (25). — Alcune pinnule a nervatura indistinta, ma per la forma delle foglioline sembrano riferibili alla Asterotheca cyathea (ScHLOT). PRESL. Si ha anche qualche frammento di Annularia stellata (ScHLOT.) STERNB. XXV. (26). — Una rachide primaria con qualche pinnula piritizzata ed in buono stato, che a quanto pare deve riportarsi alla Asterotheca cyathea (ScHLoT.) PrESL. Vi sono anche pochi resti di Annularia stellata (SCHLOT.) STERNB. XXVI. (27). — Una foglia incompleta di Cyclopteris orbicularis BRONG. Il lembo è molto slargato, le nervature distanti, dicotome, grosse e in- flesse obliquamente. Si crede che fossero appendici foliari, che si for- mavano intorno al fusto e alla rachide delle Felci. Dall’altro lato dell'esemplare si hanno resti di Asterotheca arbore- scens (ScHLOT.) PRESL. XXVII. (29). — Una bella pinna lunga cm. 18,5 di Asterotheca ar- borescens (ScHLOT.) PRESL.; poche sono però le pinnule ben conservate. XXVIII. (30). — Esemplare con alcuni resti di pinna ben conservati. Il migliore rappresenta la parte superiore e media con pinnule e foglio- line distinte. È evidente il carattere di alcune nervature della base che vanno direttamente alla rachide; perciò dobbiamo riferire il nostro esemplare al Callipteridium subelegans Poron. Si noti che la parte su- periore di questa pinna offre caratteri affatto diversi dalla parte media e tali da renderla somigliante ad altri generi. XXIX. (31). — Una pinna ben conservata lunga cm. 8 di Asterotheca arborescens (ScHLoT.) PRESL.; un frammento sporificato di Ptychocarpus unitus (Brone.) WerIss., e dal lato opposto numerose foglie di Annularia stellata (SCHLOT.) STERNB. 18 L. BARSANTI XXX. (32). — Una grossa rachide con pinnule sporificate, ma senza alcuna traccia di nervatura. Sembra doversi riferire alla Asterotheca cyathea (ScaLor.) PresL. Nello stesso pezzo si vedono qua e là fram- menti di Goniopteris foeminaeformis ScHLot. Si osserva pure la parte in- feriore di una pinnula di Dactylotheca dentata (Brone.) ZEILL., e alcuni resti di Ptychocarpus unitus (Brone.) WrISS. XXXI. (35). — Frammento ben conservato di Callipteridium subele- gans Poron. Una pinnula mal conservata di Goniopteris foeminaeformis ScHLoT. Infine abbiamo delle foglie lineari, sottili, che il prof. ARCANGELI ha indicato col nome di SigilariophyUWlum Tani n. sp. ARCANGE. di cui diamo la seguente diagnosi in latino: Folia linearia 1, 5-2 mm. lata, 10 cm. longa, pagina inferiori obtusa, striata, margine integra. Nella parte op- posta dell'esemplare si ha il Cordaites borassifolius STERNB. XXXII. (42). -—- Resto di pinna lunga 11 cm. formata da otto pinnule a foglioline quasi acute, con nervetti callipteridici, perciò da riferirsi al Callipteridium subelegans Poron. XXXIII. (43). — Parte inferiore di una pinna di Callipteridium su- belegans Poron. Al lato di questo si ha un frammento di foglia, a quanto pare, di Neurodontopteris auriculata (Brona.) Poron. La foglia è molto incompleta, ma nella parte visibile la nervatura è ben netta. XXXIV. (44). — Una pinna con contorni foliari appena visibili e senza traccia di nervatura. È una forma tra il Callipteridium subelegans Poron. e la Pecopteris polymorpha Brone., ma per la mancanza di ca- ratteri essenziali non ci permette di decidere per alcuno dei due. XXXV. (45). — Impronta di una grossa foglia lunga cm. 6, larga al massimo cm. 3, con nervatura mediana evanescente all’estremità; da essa si partono le nervature secondarie sottili, ed arcuate. Dobbiamo ripor- tarla alla Odontopteris subcrenulata Ros. Si osservano pure impronte di Callipteridium subelegans Poron., di Goniopteris foeminaeformis ScHLor. e di SigillariophyWlum Ianì n. sp. ARCANG. già descritta. XXXVI. (46). — Alcuni resti in cattivo stato di Callipteridium sube- legans Poton. XXXVII. (47). — Estremità di una grossa pinna con altre minori di Callipteridium subelegans Poron. In alcune foglioline si possono vedere chiaramente alcuni nervetti callipteridici. XXXVIII. (48). — Altre pinnule di Callipteridium subelegans PoroN. Dal lato opposto dell'esemplare si ha un resto che sembra doversi rife- rire al Cordaites borassifolius STERNB. CONTRIBUZIONÈ ALLO STUDIO DELLA FLORA FOSSILE DI IANO 19 XXXIX. (49). — Questo residuo ci offre il migliore esemplare di Cal- lipteridium subelegans Poron., che abbiamo trovato : ci mostra le foglioline e i nervetti callipteridici in ottimo stato. Sul lato opposto si ha una larga impronta di Cordaîtes borassifolius STERNB. XL. (50). — Parte di pinna di Callipteridium subelegans Poron. Dal lato opposto dell'esemplare si ha la solita forma di Radicites lani n. sp. ARcANG. costituita da un asse principale ad arco, da cui si staccano nu- merose appendici, che sono tutte segnate da striature longitudinali. ‘ XLI. (51) — Altri resti di Callipteridium subelegans Poron. di poca importanza perchè in cattivo stato. XLII. (58). — Una pinna grande ed altri frammenti di Callipteridium subelegans Porton. Dal lato opposto si hanno due impronte di tronco non bene decifrabili. XLIII. (62). — Un ramoscello a tre verticilli di foglie, le quali sono in numero da 8-20, lineari, terminate in punta acuta, uninervate e unite un poco alla base. Si riferisce alla Anmularia radiata Brone. Dal lato opposto si ha un frammento di pinna, che sembra avere sulla rachide primaria e sulle minori delle squamette. Le foglioline sono alterne, a contorno rettangolare, arrotondato all’estremità, con nervatura mediana netta e nervature secondarie semplici. La riportiamo alla Asterotheca paleacea ZeiLr. Si ha anche un resto di Callipteridium subelegans Poron. XLIV. (63). — Vari frammenti di Callipteridium subelegans Poton. Dal lato opposto un’ impronta incerta di Calamites. XLV. (64). — Varie pinnule a quanto pare di Scolecopteris poly- morpha (Brone.) ZENK. Le nervature sono più lasse, meno forti e diritte che nel Callipteridium. Dal lato opposto si ha la parte inferiore di una foglia di Cordaites borassifolius STERNB. XLVI. (66). — Parte superiore di una pinna di Callipteridium sub- elegans Poton. Da un lato dell’ esemplare vi è un’ impronta che sembra di Cordaites, ma molto in cattivo stato. Si ha poi la solita forma di £Ra- dicites Iani n. sp. ARCANG. XLVII. (67). — Corta pinnula a foglioline arrotondate all’ estremità, che si inseriscono sulla rachide con tutta la base; nervatura poco distinta. Per questi pochi caratteri non resta tanto facile esattamente determi- narla, ma sembra avvicinarsi alla Asterotheca abbreviata (Brone.) PRESL. XLVIII (69). — Una rachide con varie pinnule distintissime. Le fo- glioline sono ad apice rotondato e le nervature ramificate. Si riporta alla Asterotheca cyathea (ScHLOT.) PRESI, Sc. Nat. Vol. X1X À 2 20 L. BARSANTI XLIX. (71). — Un resto di nessuna importanza di Callipteridium aa PoTon. L. (73). — Bellissima impronta di Ptychocarpus unitus WrISS. torni longifolia Brone. È ben noto il contorno delle foglie con le nervature secondarie ramificate. Dal lato opposto dell’ esemplare si ha un ramo- scello a tre verticilli di Anmularia stellata (ScHLOT.) STERNB. Appresso di questo vi è una foglia lineare lunga cm. 5,5 larga mm. 5, tricarenata, con nervatura mediana grossa e due laterali più sottili. È incerto se devesi riferire ad una Sigillaria o ad un Lepidodendron. LI. (74). — Due frammenti di Aspidiopsis coniferoides var. minor Poron. Sono bene visibili le impronte che nel tessuto distrutto hanno lasciato i raggi midollari. LII.(75).— Una porzione dellembo di una foglia a quanto pare di Aphle-- bia PRESL., che non presenta caratteri sufficienti per determinarne la specie. LITI. (81). — Una pinnula con sporificazioni di Ptychocarpus unitus (Brona.) WrIss. Al lato di essa vi è un frammento di Annwaria stel- lata (ScHLOT.) STERNB. LIV. (82). — Alcune pinnule ben distinte e sporificate di Asterotkeca cyathea (SCHLOT.) PRESL. LV. (84). — Meschinissimo frammento di Pecopteris, di cui non è pos- sibile determinarne la specie. LVI. (85). — Una pinnula lunga cm. 8 con foglioline oblunghe, ottu- se rotondate, contigue e con la rachide coperta di piccole squame. La riferiamo alla Asterotheca lepidorhachis (Brone.) PRESL. LVII. (86). — Un tronco di Aspidiopsis coniferoides Poton. lungo cm. 10, largo cm. 2,5 quasi tutto coperto di uno strato di pirite. Da un lato si ha un'impronta di Annularia stellata (ScHLOT.) STERNB. LVIII. (87). — Un tronco di Calamites o Calamodendron, sulla cui superficie si osservano tanti tubercoletti, generalmente rotondi, talora un poco allungati, riuniti con una certa regolarità in tanti gruppi; ta- lora i tubercoli hanno una leggera depressione nel centro. Essi rappre- sentano un fungo fossile che ha grandissima somiglianza colla Zubercu- laria vulgaris che cresce sulla corteccia degli alberi morti. Per tale somiglianza il prof. ArcancELI ha dato a questo fungo il nome di Zw- bercolarites Ianì n. sp. ARCANG. LIX. (89). — Due foglioline arrotondate all’ estremità, leggermente crenulate al lembo, colla nervatura mediana grossa e le secondarie poco visibili. Le riferiamo alla Asterotheca crenulata (BRonG.) PRESL. CONTRIBUZIONE ALLO STUDIO DELLA FLORA FOSSILE DI IANO 21 LX. (93). — Un frammento in cattivo stato di Asterotheca cyathea (ScHLOT.) PRESL. LXI. (95). — Estremità di una pinna di Dactyiotheca dentata (BRoNG.) Zen. In essa si vede che le pinnule vanno riunendosi verso l’ estremità, hanno margine rotondo, nervo medio netto con poche nervature semplici. LXII. (96). — Altra pinnula lunga cm. 6,5 ben conservata di Astero- theca cyathea (ScaLOT.) PRESI. LXIII. (97). — Due frammenti mal conservati e in parte piritizzati di Dactylotheca dentata (BronG.) ZEILL. LXIV. (98). — Alcuni resti di Asferotheca crenulata (BRoNG.) ZEILL. Le pinnule sono arrotondate alla estremità, leggermente crenulate ai margini e un poco saldate alla base; le nervature secondarie sono di- vise una sola volta per dicotomia. Nello stesso esemplare si hanno pure delle pinnule di Ptychocarpus unitus (BroNne.) WEISS con sporificazioni, e alcuni frammenti di Asterotheca arborescens (ScHLOT.) PRESL. LXV. (99). — Esemplare in pessimo stato che porta un frammento di pinna a quanto pare di Asferotheca Candolleana (Bronc.) PRESL.; ma non si può determinare con certezza. LXVI. (100). — Alcuni resti che pare debbansi riferire allo Ptychocar- pus unitus (Brone.) Weiss e alla Asterotheca Candolleana (Brone.) PRESL. LXVII. (102). — Tre pinnule sporificate di Ptychocarpus unitus (Brone.) Weiss in alcuna delle quali sono ben visibili gli sporangi. Si hanno pure alcune foglie lineari riferibili al solito SigillariophyMWlum IJanì n. sp. ARCANG. Si osserva inoltre un’ impronta di fusto legnoso lungo cm. 8, largo cm. 2,5 che mostra all’ esterno delle cicatrici rilevate che rappresentano le impronte dei raggi midollari distrutti per la ma- cerazione subìta. A questi avanzi si dà il nome di Aspidiopsîs coniferoides var. minor Poton. LXVIII. (103). — Alcuni resti poco importanti di Asferotheca arbore- scens (ScHLoT.) PrESL. e di Ptychocarpus unitus (BRona.) WrISS. LXIX. (104).— Impronta incompleta di una grande foglia con tre nerva- ture. Mancano i dati per poterla determinare. Da un lato dell’esemplare si ha anchela parte superiore di una pinnula di Ptychocarpus unitus (Brona.) WEISS. LXX. (109). — Due grossi frammenti di pinna a pinnule arrotondate all’ apice, unite alla rachide per tutta la base e un poco saldate fra loro. Si riporta questo residuo alla Pecopteris pennaeformis Brona. LXXI. (110). — Estremità di pinna riferibile alla Asterotheca arbo- rescens (ScHaLOT.) PRESL.; in alto le pinnule sono connate tra loro, 22 L. BARSANTI LXXII. (111). — Esemplare che ci offre la parte media e la parte estrema di una pinna di Asterotheca arborescens (ScHLOT.) PRESL. ; l'estrema presenta delle pinnule sporificate. LXXIII. (112). — Due pinnule a foglioline ovali leggermente crenu- late, con nervo medio ben netto, nervature secondarie divergenti. Si ri- portano alla Pecopteris leptophylla Bung. In collezione è data come . Nevropteris convugata, ma come si può vedere i suoi caratteri sono ben differenti. LXXIV. (113). — Alcuni resti piritizzati di Ptychocarpus unitus (BRONG.) Wess., dei quali taluni si debbono riportare alla forma longifolia Brone. Questi frammenti rappresentano delle pinnule aventi le foglioline totalmente fuse tra loro, e sembra dovessero appartenere alla parte su- periore della fronda. : LXXV. (114). — Frammento di Ptychocarpus unitus (BRrone.) WrIss. LXXVI. (118). — Alcuni resti di Callipteridium subelegans Poton. LXXVII. (119). — Due grossi frammenti ed altri minori di Goniopteris foeminaeformis SCHLOT. LXXVIII. (120). — Due pinnule a foglioline uguali, ad apice ottuso, nervatura non ramificata. Si riportano alla Asferotheca arborescens (SCHLOT.) PresL. Dal lato opposto dell’esemplare si hanno alcuni resti di Amnu- laria stellata (ScHLOT.) STERNB. LXXIX. (121). — Tre pinnule da riferirsi alla Pecopterìis platyrhachiîs Brone. Le pinnule sono ellittiche, rotondate all’apice, perpendicolari alla rachide; le nervature sono semplici. LXXX. (122). — Alcuni resti poco importanti di Pecopteris longifolia Brona. e qualche avanzo di Asterotheca arborescens (ScHLOT.) PRESL. LXXXI. (123). — Vari frammenti di Asterotheca cyathea (SCHLOT.) PrEsL. tutti ben conservati e sporificati. LXXXII. (125). — Alcune pinnule ben distinte di Asterotheca arbo- rescens (ScHLot.) PresL. Dall'altro lato dell’ esemplare si ha un tronco di Aspidiopsis coniferoides var. minor Poron. Presso di questo vi è un altro tronco tutto trasformato in antracite, che si riferisce al genere Calamites, di cui però non è possibile determinare la specie perchè privo di caratteri distintivi. LXXXIII. (126). — Alcuni resti incerti di Callipteridium subelegans Poron. LXXXIV. (128). Grossa pinna lunga 17 cm., a foglioline nette e sal- date alla base. La pinnula basilare della parte inferiore apparisce mu- CONTRIBUZIONE ALLO STUDIO DELLA FLORA FOSSILE DI IANO 23 nita di un lobo più grande che le dà un’ apparenza auricolata. Per i caratteri che presenta la riportiamo alla Dactylotheca dentata (BRona.) ZEILL. LXXXV. (132) — Due piccoli frammenti di Sphenopteris delicatula ZeruL. La rachide è cilindrica; le pinnule secondarie sono subpicciolate pinnatifide, ottuse; le nervature sono semplici. LXXXVI. (133). — Impronta di foglia attribuita in collezione a Glos- sopteris e ritenuta dal cav. DE BOSNIASKI come specie nuova. Confrontando il modello con le descrizioni e le figure del gen. G/ossopteris, che ci danno i Paleontologi, sì vede a prima vista che ne differisce moltissimo. In primo luogo la nostra supposta foglia non ha picciolo e non ha al- cuna traccia di quella fitta rete di nervature secondarie, che si osserva nelle foglie di G/ossopteris. Osservando poi l’impronta alla base si vede che ivi presenta una piccola area schiacciata e di apparenza diversa dal resto della foglia; in questo spazio anche la nervatura mediana si fa meno appariscente. Per questi dati noi riportiamo l’esemplare al Lept- dophyllum maius Brone., e precisamente sarebbe la brattea di uno stro- bilo con alla base la parte sporangifera. LXXXVII. (134). — Numerosi resti poco importanti di Ptychocarpus unitus (Brone.) Wrerss. Dal lato opposto dell’esemplare si osservano dei fusticini di varia grossezza con nodi e striature longitudinali, che sì crede appartengano allo SphenophyIlum Thoni MARR var. minor STERZ., perchè accanto si vedono numerose foglie di questa specie; anzi un fusticino porta ancora attaccata una di queste foglie. LXXXVIII. (140). — Alcuni resti mal conservati che sembrano rife- rirsi al Calamites Suckowii BroNG. LXXXIX. (141). — Altro resto di Calamites Suckowii BRrone. con un’ articolazione e qualche tubercolo. Le coste sono un poco ad angolo e confluenti tra loro. Dal lato opposto dell’ esemplare si ha l’Annularia stellata (SCHLOT.) STERNB. XC. (142). — Resti di Calamites con caratteri indecifrabili. XCI. (144). — Un tronco di Calamites Suckowii BRrONG., le cui coste sono poco appariscenti e in gran parte piritizzate. XCII. (145). — Altro esemplare di Calamites Suckowii Brone. che si attacca al precedente in modo che costituisce un sol fusto fornito di due nodi. XCIII. (147). — Un tronco di Calamites Suckowii Brone. lungo 74mm., largo circa 45 mm., che ha l'aspetto di un modello esterno. Alcune foglie DA L. BARSANTI di Annularia stellata var. angustifolia (ScELOT.) STERNB. Si riportano a questa”specie per avere essa foglie più numerose nei verticilli, più strette e più acute verso l’apice come è nel nostro caso. XCIV. (148). — Un nodo di tronco di Calamites Suckowit Brone. Si ha una articolazione, ma poco manifesta e senza tubercoli. XCV. (149). — Un frammento di tronco riferibile a Calamites, ma con caratteri incerti. XCVI. (150). — Un tronco ad articolazioni molto vicine e coste grosse che può attribuirsi al Calamites Suckowi Brone. XCVII. (151). — Altro frammento che rappresenta un nodo di tronco di Calamites Suckowi BRroNna. XCVIII. (152). — Altro resto di Calamites Suckowti Brone. e di An- nularia stellata (SCHLOT.) STERNB. i XCIX. (153). — Altro esemplare di Calamites Suckovòù Browne. di poca importanza. C. (154). — Due impronte ben conservate di Calamites Suckowii Brone. Dal lato opposto dell’esemplare si ha un resto di Anmularia stellata (SCHLOT.) STERNB. CI. (155). — Un tronco a quanto pare di Calamites undulatus STERNB. Nello stesso esemplare si hanno poi due pinne, l’una di Asterotheca ar- borescens (ScHLoT.) PrESL., l’altra di Pecopteris unita Brone. CII. (156). — Un fusto lungo cm. 12, largo 4cm., con una sola ar- ticolazione e coste poco visibili. Lo riferiamo con certezza al Calamòtes Cistii Brona. Si hanno inoltre alcune pinnule sporificate di Pecopteris. CIII. (157).—- Impronte di tronco di Calamites Cistàù Brone. Le coste sono piane, sottili, diritte, separate da un piccolo solco. CIV. (158). — Impronta in gran parte piritizzata di Calamites Cisti BRONG. CV. (159). — Impronte poco importanti di Calamites undulatus STERNB., di Calamites Suckowiù Brona. e di Pecopteris. CVI. (160). — Impronta di Calamites secondo il DE STEFANI specie nuova col nome di Calamites Heerì De Ster. Rappresenta un pezzo di tronco diviso da un’articolazione; le coste sono più salienti e ad angolo, carattere della nuova specie. Facciamo notare che nella parte inferiore dello stesso pezzo le coste sono piane, e dunque può darsi che la par- ticolarità della parte superiore sia un effetto della pressione subìta dal fossile. Noi la riporteremo piuttosto al Calamites Suckowii BRona. CVII. (161). — Un tronco in parte piritizzato di Calamites Suckowii CONTRIBUZIONE ALLO STUDIO DELLA FLORA FOSSILE DI IANO 25 Brona. Le coste sono piane e arrotondate all’estremità, i solchi sono deboli, mancano i tubercoli. CVIII. (162). — Frammento di foglia di Cordaites principalis GERMAR. È solcata da nervature diritte e alternanti con un numero variabile di nervature più fini; in generale due nervature grosse comprendono da 4-5 più fini. Lo STERZEL ne fa una sola specie col Cordaites borassifolius STERNB. perchè di quest’ultimo se ne trovano esemplari somiglianti al Cordaites principalis GeRMAR. Nello stesso esemplare si ha pure un frammento di Callipteridium subelegans Poron. CIX. (163). — Residuo di Calamites che non offre nessun carattere distintivo. CX. (164).— Pezzo di tronco lungo cm. 13, 5, largo cm. 6, senza artico- lazioni, a coste bene distinte e a quanto pare di Calamites Cisti BRrona. CXI. (165). — Alcuni resti poco visibili di Calamites Cistà Brone. e di Anmularia stellata ScHLOT.) STERNB. CXII. (167). — Diverse impronte di Calamites undulatus STERNB., che presentano coste piane leggermente ondulate e separate da solchi poco profondi. Si ha inoltre un frammento di Asterotheca arborescens (SCHLOT.) PRESL. CXIII. (168). — Quest’esemplare ci offre una foglia di Cordaites prin- cipalis GERMAR. lunga cm. 14, larga cm. 6,5; la nervatura non è bene distinta perchè l’esemplare è qua e là coperto di pirite. CXIV. (169). — Impronta di Calamites in cattivo stato, senza arti- colazione e tubercoli, per cui non se ne può determinare la specie. Varie impronte di Annularia stellata (ScHLOT.) STERNB. CXV. (170). — Un tronco lungo cm. 8, largo 2, 5-3 cm. con tre ar- ticolazioni e coste appena notate e segnate irregolarmente da leggere strie. Dobbiamo riferirlo al Calamodendron nodosum BRons. CXVI. (171). — Un frammento di scorza ricoperta da placche poli- gonali leggermente striate, che può darsi sia la scorza di un Calamites o Lepidodendron. CXVII. (172). — Tronco di Calamites Suckowii Brone. con quattro articolazioni tra loro poco distanti. Le coste sono piane ed hanno all’e- stremità dei tubercoli rotondi; alla lente sono anche visibili le striature dei solchi. CXVIII. (173). — Un resto di Calamites Cistii Brone., che rappre- senta un nodo di tronco. 26 L. BARSANTI CXIX. (175). — Impronta di tronco riferibile a Calamites lejoderma GuTB.; presenta un’articolazione distinta e tre cicatrici rameali; le coste sono diritte e un poco meno strette che nel Calamites Cisti BRronG. CXX. (176). — Una pinna mal conservata di Asterotheca arborescens (ScuLor.) PresL. Nelle foglioline prevale l’ottusità dell’apice, sono di uguale lunghezza, e le nervature sono semplici. Dal lato opposto del- l'esemplare si ha l'impronta di un fusto cilindrico con tre articolazioni approssimate. Le coste all’esterno sono appena distinte e non vi sono tubercoli. Per questi pochi caratteri non possiamo determinarlo con cer- tezza, ma sembra avvicinarsi al Calamites approximatus BRone. CXXI. (177). — Due pezzi di tronco, l’uno lungo cm. 10,5 con tre articolazioni, l’altro cm. 6 lungo e con una sola articolazione, sono segnati da leggiere e irregolari strie. Per i caratteri li riportiamo al Calamites nodosus Brone. Dal lato opposto dell’esemplare si hanno dei resti di foglie ‘ lunghe, strette, riferibili a Sigillarie. CXXII, (178). — Un pezzo di tronco, lungo cm. 14, largo 5 cm. in parte coperto dalla scorza silicizzata; è segnato da coste piane e solchi poco profondi, ed è limitato da due articolazioni. Lo riferiamo, ma non sicuramente, al Calamodendron striatum (GutB.) Brone. Da un lato si osservano foglie di Sphenophyllum Thoni MARR. var. minor STERZ. e due SigiMariophyUlum. CXXIII. (179). — Un fusto cilindrico senza articolazioni, irregolar- mente e leggermente striato secondo la lunghezza. Sembra riferirsi al Calamites nodosus BRrona. CXXIV. (180). — Un tronco di Calamodendron striatum (GuTB.) BROoNe. Dal lato opposto dell'esemplare si osservano delle forme di radici, di ramoscelli e di rachidi di Felci. CXXV. (181). — Un tronco di Calamites di incerta specie per il suo cattivo stato di conservazione. CXXVI. (183). — Si ha in questo esemplare un pezzo di scorza ru- vida, leggermente e irregolarmente punteggiata e striata; dal lato de- stro si seguono in linea retta quattro cicatrici ellittiche, lunga ciascuna circa 8 mm. e larga 5 mm. Si tratta di un Syringodendron, ma non è possibile determinarne la specie. Le cicatrici ci rappresentano la base di organici secretori. CXXVII. (184)..— Frammenti di piccoli tronchi articolati, con sottili striature longitudinali, i quali si riferiscono molto probabilmente a Ca- - lamodendron. CONTRIBUZIONE ALLO STUDIO DELLA FLORA FOSSILE DI IANO 27 CXXVIII. (186). — Impronta poco importante di Calamites Suckowii BronG. CXXIX. (187). — Lungo tronco di Calamites nodosus BRone. con cinque articolazioni e con leggiere ed irregolari strie secondo la lun- ghezza. CXXX. (188). — Un grosso pezzo ben conservato di Aspidiopsis coni- feroides var. minor Poron. Si hanno poi alcune pinnule di Ptychocarpus unitus (Brone.) WeIss. ed alcuni frammenti di Annularia stellata (ScHLOT.) STERNB. e di Asferotheca arborescens (ScHLOT.) PRESI. CXXXI. (189). — Estremità apicale di un ramoscello di Asterophyl- lites equisetiformis Scuaror. Gli articoli sono lunghi da 9-10 mm.; le fo- glie sono in numero di 12-16 per ogni verticillo, uninervate ed acute in punta. CXXXII. (190). — Una spiga di fruttificazione che porta qualche sporangio ovale nel centro degli internodi; nelle articolazioni si vede ancora qualche foglia. La riferiamo alla Bruckmannia tuberculata STERNB. Si crede che fossero le spighe di fruttificazione dell’ Annularia stellata (ScHLOT.) STERNB. COXXXIII. (191). — Una spiga imcompleta senza traccia di sporangi e di foglie, che si avvicina molto alla Palacostachya pedunculata Win. Si ha pure un frammento di pinnula a foglioline con punta ottusa e ner- vature secondarie numerose e biforcate; la riferiamo alla Pecopteris or- eopteridia (ScaLor.) Browne. Si hanno infine alcuni resti di Annularia stellata (ScaLOT.) STERNB., e di AsferophyIlites equisetiformis ScHLOT. CXXXIV. (192). —Un ramoscello di AsterophyMites equisetiformis Scanor. lungo cm. 10, ed a foglie bene distinte. Intorno a questo si ve- dono altri frammenti minori della stessa specie. CXXXV. (193). — Alcuni verticilli poco importanti di AsterophylMites equisetiformis SCHLOT. CXXXVI. (194). — Ancora altri minuti frammenti di Asterophyllites equisetiformis SCHLOT. CXXXVII. (195). — Altri resti a foglie ben distinte di Asterophyllites equisetiformis SCHLOT. CXXXVIII. (196). — Impronta di un fusto con articolazioni, da cui si partono dei rami sottili, che portano talora delle foglie filiformi. Il MENE- GHINI lo ha riferito al genere Asterophyllites facendone una specie nuova col nome di Asterophyllites calamopteris n. sp. MENEGH. Nello stesso pezzo si osservano numerosi frammenti di Asterotheca arborescens (ScHLOT.) PRESI. 28 L. BARSANTI CXXXIX. (197). — Ramoscello mal conservato di AsterophyIlites equi- setiformis SCHLOT. CXL. (198). — Alcuni verticilli ben distinti di Asterophyllites equise- tiformis SCHLOT. CXLI. (199). — Un ramoscello piatto e largo con articolazioni molto prossime, dal MeNEGHINI riferito al genere Asterophyllites e ritenuto specie nuova col nome di Asterophyllites crassicaulis n. sp. MENEGH. I caratteri per una specie nuova non ci sembrano molto manifesti, del resto ha molto somiglianza con la Bruckmannia tuberculata STERNB. CXLII. (200). -— Alcuni resti di Asterophyllites, ma senza caratteri buoni per la determinazione. CXLIII. (201). — Un’impronta che il MENEGHINI riporta al genere Asterophyllites facendone una specie nuova col nome di Asterophyllites. calamopteris n. sp. MENEGH. Anche questa ci sembra possa esser rife- rita alla Bruckmannia tuberculata STERNB., ma senza sporangi. Si hanno anche vari frammenti di Asterotheca arborescens (ScHLOT.) PRESL. CXLV. (203). — Un frammento di ramoscello di Asterophyllites equi- setiformis ScHLOT., che rappresenta un internodo lungo 2 cm. il quale porta all’estremità un solo verticillo di foglie. CXLVI. (204). — Altro ramoscello di Asterophyllites equisetiformis ScHLoT., lungo cm. 7,5 e ben conservato. Presso di questo si osserva un'impronta che sembra di Calamites. CXLVII. (205). — Una spiga di Bruckmannia tuberculata STERNB., di cui non sono visibili nè gli sporangi nè le foglie. Si hanno pure nume- rose foglie di SphenophyUlum Thoni MARR. var. minor STERZ. CXLVIII. (206). — Due spighe di Bruckmannia turberculata STERNB., ed un frammento di Odontopteris obtusa Brone. Dall'altro lato dell’esem- plare si osservano le impronte di Annularia stellata (ScHLOT.) STERN. e di Pecopteris, di cui non è possibile determinarne la specie. CXLIX. (207). — Altra spiga di Bruckmannia tuberculata STERNB. con qualche foglia e qualche sporangio. Dal lato opposto dell’esemplare si hanno delle impronte in cattivo stato di Calamodendron e di Pe- copteris. CL. (208). — Una pinna di Asterotheca abbreviata (Broxs.) PRESL.; alcuni ramoscelli di Asterophyllites e di Asterotheca arborescens cute PRESL. CLI. (210). — Ancora un’ altra spiga di Bruckmannia tuberculata STERNB.; in questa è visibile anche qualche sporangio tra un’articolazione CONTRIBUZIONE ALLO STUDIO DELLA FLORA FOSSILE DI IANO 29 e l’altra. Dal lato opposto dell'esemplare si hanno impronte incom- plete di foglie lineari, con quattro nervature parallele, appartenenti certo a Sigillarie, e che comprendiamo perciò sotto il nome di Sigi- lariophyllum. CLII. (211). — Alcuni resti di Annuaria, dai quali il MENEGHINI rinviene i caratteri sufficienti per farne una nuova specie che stabilisce col nome di Arnularia macrophylla n. sp. MeNEGH. Le foglie hanno l’e- stremità slargata, una nervatura mediana e due coste rilevate laterali, che nella pagina inferiore formano come due scanalature. La superficie delle foglie è coperta di peli, che sembrano partire dal nervo medio e si dirigono al margine convessi in alto. Le foglie sono raggruppate a destra e a sinistra rendendo sempre visibile il fusto. CLIII. (212). — Una foglia lineare con diverse nervature parallele da riferirsi al nome generico di SigilZariophyUum. Il MENEGHINI la se- gna come Taeniopteris, ma le nervature laterali non esistono e le me- diane sono più di una. CLIV. (213). — Alcuni verticilli frammentari di Annularia macra- phylla n. sp. MENEGH. CLV. (214). — Un ramoscello mal conservato di Annularia macro- phylla n. sp. MENEGH. CLVI. (215). — Altri resti poco importanti di Annularia macrophylla n. sp. MENEGH. CLVII. (216). — Varie impronte di foglie lineari, che riferiamo al nome generico di SigilariophyWIum. Alcuni resti di Annularia stellata (SCHLOT.) STERNB. CLVIII. (217). — Qualche residuo di foglie di Annularia macrophylla n. sp. MENEGH. CLIX. (218). — La stessa Annularia macrophylla n. sp. MENEGH. e una debole impronta di Cordaîtes di incerta specie. CLX. (219). — Un ramo mal conservato di Calamites senza nodi e articolazioni e con coste appena visibili. CLXI. (220). — Altra Annularia macrophylla n. sp. MENEGR., ed al- cuni pochi resti di Pecopteris. CLXII. (221). — Alcune impronte poco decise a quanto pare di Sphe- nophyllum, e da un lato dell'esemplare si nota anche un frammento di Annuluria. CLXIII. (222). — Un residuo di Annularia longifolia Brona. CLXIV. (223). — La medesima Annularia macrophylla n. sp. MENEGH. 30 L. BARSANTI CLXV. (229). — Alcuni ramoscelli di Annularia stellata (ScHLOT.) STERNB. i CLXVI. (230). — Altri frammenti di Annularia stellata (ScEnot.) STERNB. CLXVII. (231). — Annularia macrophilla n. sp. MENEGH. e Astero- theca arborescens (ScHLOT.) PRESL. CLXVIII. (232). — Resti mal conservati di Annuaria longifolia BRons. CLXIX. (233). — Un ramoscello di Annularia sphenophylloides ZENx.; da un lato si vedono alcuni verticilli di Asterophyllites equisetiformis SCHLOT. CLXX. (259). — Un ramoscello a tre verticilli di Annularia ramosa n. sp. MENEGH. Questa nuova specie si avvicina molto alla A. radiata - ZEILL., ma ne differisce essenzialmente per avere le foglie di ciascun ‘ verticillo divise in due gruppi, l’uno a destra, l’altro a sinistra dell’asse che porta le foglie; queste sono larghe nel centro da 1-1, 5 mm., uni- nervate e acute all’estremità. CLXXI. (272). — Due foglie lineari, l’una larga 1 cm. con varie ner- vature parallele, l’altra più stretta e con una sola nervatura. Le attri- buiamo a foglie di Sigillarie e le indichiamo col nome generico di ,Sì- gillariophyilum. Da un lato si osserva un’impronta, a quanto pare, di Lepidodendron, ma non sicuramente. CLXXII. (274). — Un frammento di fusto mal conservato da riferirsi con incertezza a Lepidodendron. CLXXIII. (273). — Resti di Annularia stellata (ScHLOT.) STERNB. e di Asterotheca arborescens (ScHLOT.) PRESL. CLXXIV. (275). — Cono di fruttificazione a forma quasi cilindrica, un poco ottuso all’estremità, largo da 3, 5-4 cm., lungo cm. 6. È formato di un asse con piccole cicatrici ovali corrispondenti all’inserzione delle brattee sporangifere. Lo riferiamo al Lepidostrobus Geiniìtzì ScHIMP. CLXXV. (276). — Un’altra impronta molto frammentaria e indistinta di Lepidostrobus d’incerta specie. CLXXVI. (278). — Impronta di Syringodendron con le cicatrici degli organi secretori disposte in due linee parallele; le cicatrici sono ovato- ellittiche distanti tra loro verticalmente da 7-8 mm. e orizzontalmente circa 10 mm.; sono un poco approfondate nella scorza. Questi organi si trovano alla base del tronco di alcune piante (Si- gillarie), e secernevano sostanze gommose e resine in gran quantità. se sarà CONTRIBUZIONE ALLO STUDIO DELLA FLORA FOSSILE DI IANO 31 CLXXVII. (279). — Frammento di tronco della Sigillaria mutans Weiss. forma Brardì Brone. Le cicatrici foliari sono a forma quasi esagonale, più larghe che alte, con angoli laterali acuti e longitudinali arrotondati. CLXXVIII. (280). — Questo esemplare rappresenta la controimpronta di quello descritto al n.° CLXXVI, per cui rappresenta lo stesso Syrèx- godendron. CLXXIX. (281). — Foglie lineari di SigillariophyWum e impronte in- certe di Sigillaria. CLXXX. (282). — Impronta di Syringodendron approrimatum REN. con cicatrici geminate, non confluenti, ovali, collocate in due linee ver- ticali, parallele; l’una coppia di linee è distante dall’altra circa 6-7 cm. CLXXXI. (285). — Foglie lineari, uninervate di SigiWariophyMWlum. CLXXXII. (286). — Impronta di Sigillaria mutarns WrIss. forma de- nudata GoPP. Le cicatrici sono in linee parallele, nella parte superiore ad angolo, nell’inferiore arrotondate ; nell’ interno contengono tre piccole cicatrici; gli interstizi tra le cicatrici sono attraversati da linee rugose, talora leggermente ondulate. CLXXXIII. (287). — Questo esemplare rappresenta la controimpronta del precedente, per cui rappresenta anch’esso la Sigillaria mutans WrISS forma denudata GòPP. | CLXXXIV. (293). — Un pezzo di tronco compresso di Sigillaria mu- tans Weiss forma Brardì Bronxa. CLXXXV. (294). — Tronco di SigiZaria mal conservato, in cui non sono visibili le cicatrici foliari, onde riesce impossibile la determina- zione. Per la forma del tronco somiglia molto alla specie precedente. CLXXXVI. (299). — Le solite impronte di foglie lineari riferibili a SigillariophyIlum. CLXXXVII. (300). — Porzione media di una foglia di Cordaites principalis Germ. L’esemplare è ben conservato, e mostra chiaramente alla lente le nervature principali, che ne racchiudono altre più sottili. CLXXXVIII. (301). — Frammento di pinna di Callipteridium sube- legans Poron.; numerose impronte di Sigillariophyllum, e di foglie di Cordaites principalis GERMAR. CLXXXIX. (302). — Una pinnula di Asterotheca cyathea (ScHLOT.) PrESL. e qualche impronta incerta di Cordaites. CXC. (303). — Varie impronte frammentarie di Cordaîtes principalis GERMAR. Si osserva pure nello stesso esemplare un frammento di tronco 92 i L. BARSANTI deteriorato, che ha lasciato sulla roccia l’impronta della trama le- gnosa. CXCI. (304). — Quattro foglie lineari di varia larghezza, una delle quali presenta una grossa nervatura mediana, senza alcuna traccia però di nervature secondarie. Si riferiscono ai soliti SigiariophyUum. CXCII. (305). — Due frammenti legnosi alterati, che mostrano le cicatrici di fasci midollari. Tali esemplari si presentano spesso nei ter- reni carboniferi, ma non sappiamo a qual pianta siano appartenuti. Il BRONGNIART riferisce i suoi esemplari a tronchi di Felci, e precisamente alla Asterotheca lepidorhachis, perchè vi ha trovato accanto le pinnule di questa Felce. Il nostro pezzo non è accompagnato da nessun resto di foglie, e crediamo bene riferirlo all’ Aspidiopsîis coniferoides Poton. CXCIII. (309). — Impronte che hanno apparenza di fusti schiacciati - con ramificazioni dicotome e attraversati da numerose nervature. Si pos- sono attribuire a rachidi di Felci o a foglie di Cordaòtes, che talora sono ramificate. Stante la loro cattiva conservazione non si possono però con sicurezza determinare. CXCIV. (310). — Diverse impronte di rachidi di Felci, di cui una porta ancora attaccate due pinnule di Pecopteris. Tutte le impronte presentano la superficie scabra. CXCV. (311). — Infiorescenza di Cordaianthus Germarianus GòPP. L’asse apparisce robusto, lungo 11 cm., largo 5 mm., diritto; i semi sono oblunghi, ravvicinati, acuminati all’estremità, lunghi 9 mm., larghi 6 mm., contornati alla base da brattee scagliose ed acute. Da un lato dell’infiorescenza si osserva l'impronta di una foglia di Cordaòtes. CXCVI. (312). — La controimpronta del precedente esemplare, per- ciò lo stesso Cordaianthus Germarianus GoOPP. CXCVII. (313). — Alcune foglie di SphenophyMlum Thonì MARR. var. minor STERZ. ni; CXCVIII. (314). — Un’impronta indecifrabile formata come da sol- chi, che noi riportiamo a quelle forme strane conosciute col nome ge- nerico di Noeggerathia. CXCIX. (315). — Frammento di pinna di Odontopteris crassinervia GoPp. Le nervature sono grosse e distintissime, e nascono dalla base delle pinnule, scorrono verso il margine a ventaglio, dove terminano divise dicotomicamente. ‘ CC. (316). — Altra impronta di Noeggerathia, di cui come la prima; non si può determinarne la specie per mancanza di caratteri decisivi. CONTRIBUZIONE ALLO STUDIO DELLA FLORA FOSSILE DI IANO 33 CCI. (317). — Una foglia frammentaria di Daubrecia Biondiana Arcano. Il nostro esemplare corrisponde esattamente alla nuova specie descritta dal prof. G. ArcanGELt !). La foglia a margine subrotondo con tre sole nervature grosse principali in rilievo, tra le quali se ne scor- gono altre secondarie, e fra queste in alcuni punti si mostra qualche stria più sottile parallela alle prime e tra loro. L’ARcANGELI non con- divide con ZEILLER l’opinione che le foglie di Daubreeia si possono con- frontare con sei foglie di Aspidistra troncate e connate insieme, ma è più propenso all'opinione di GERMAR, che paragona questi strani orga- nismi ai lobi fogliari inferiori del Platycerium alcicorne. Non è infatti improbabile, osserva l’ARCANGELI, che, come oggidì nei Platycerium si hanno lobi fogliari rotondati devoluti alla funzione trofilegica, un fatto simile si verificasse pure nelle Filicarie delle epoche passate. CCII. (318). — Un’impronta incompleta di Zoophycos Tani Arcana. 2). Questa forma si avvicina pei suoi caratteri allo Spirophyton Caudagalli (VANUX.) HALL., ma secondo l’ARCANGELI ne differisce per essere spesso fornito di una costa mediana maggiore delle altre, e per aver talora nel margine della fronda qualche pinnula. Riguardo all'origine di questi strani fossili si è molto discusso, ma noi riteniamo che sieno dovuti a vegetali, anzichè ad animali o a azioni meccaniche, come altri ha am- messo °). 1) G. ARCANGELI. — Sopra due fossili di Iano. Nuov. Gior. bot. ital. 1896. 2) G. ARCANGELI. — Loc. cit. 3) L. BARSANTI. — Considerazioni sopra il genere Zoophycos. Soc. Tose. di Se. Nat. — Memorie, vol. XVIII. 1901. ELENCO SISTEMATICO DELLE SPECIE DESCRITTE Fungi. . Tubercularites Ianì n. sp. ARcANG. (Saggio n. 87). Pteridophytae. Filicales. . Aphlebia sp. (Saggio n. 75). . Asterotheca abbreviata (Brone.) PreESsL. (Saggi n. 67, 208). 4. Asterotheca arborescens (ScHLoT.) PrESL. (Saggi n. 22, 24, 27, 29, 31, DD LIS O 98, 103, 110, 111, 120, 122, 125, 155, 167, 176, 188, 196, 202, 208, 231, 274). . Asterotheca Candolleana (Brona.) Pres. (Saggi n. 99, 100). . Asterotheca crenulata (Brone.) PrESL. (Saggi n. 89, 98). . Asterotheca subcrenulata (Rost.) PrESL. (Saggio n. 20). . Asterotheca cyathea (ScHLOT.) PrESsL. (Saggi n. 21, 25, 26, 32, 69, 293 MON 30302)! . Asterotheca lepidorhachis (Brone.) PrESL. (Saggio n. 85). . Asterotheca paleacea Zen. (Saggio n. 62). . Callipteridium subelegans Poron. (Saggi n. 13, 19, 30, 35, 42, 43, 45, 46, 47, 48, 49, 50, 51, 58, 62, 63, 66, 71, 118, 126, 162, 301). . Oyclopteris orbicularis Brona. (Saggio n. 27). . Dactylotheca dentata (Brone). Zeri. (Saggi n. 32, 95, 97, 128). . Dictyopteris Brongniarti GutB. (Saggio n. 15). . Dictyopteris Schitzeì Rom. (Saggi n. 14, 16). . Goniopteris foeminaeformis ScaLOoT. (Saggi n. 9, 11, 17, 18). . Neurocallipteris gleichenioides (StuR) StERZEL. (Saggi n. 9, 11, 17, 18). . Neurodontopteris auriculata (Brona.) Poron. (Saggi n. 1, 43). . Neuropteris imbricata GòPP. var. densinervosa RòHL. (Saggio n. 16). . Neuropteris rotundifolia GutB. (Saggio n. 10). . Odontopteris crassinervia GùPP. (Saggio n. 315). . Scolecopteris polymorpha (Brone). ZENK. (Saggio n. 64). . Sphenopteris delicatula (Brone.) ZELL. (Saggio n. 133). CONTRIBUZIONE ALLO STUDIO DELLA FLORA FOSSILE DI IANO 35 . Odontopteris obtusa Brone. (Saggi n. 20, 206). . Odontopteris osmundaeformis ScHLOT. (Saggio n. 7). . Odontopteris subcrenulata Rost. (Saggi n. 17, 45). . Pecopteris leptophylla Buns. (Saggio n. 112). . Pecopteris longifolia Brone. (Saggio n. 122). . Pecopteris oreopteridia (ScaLot.) Brona. (Saggio n. 121). . Pecopteris pennaeformis Brone. (Saggio n. 109). . Pecopteris platyrhachis Brone. (Saggio n. 121). . Pecopteris Pluckeneti (ScHLOT.) (Saggio n. 12). . Ptychocarpus unitus (Brone.) WeIss. (Saggi n. 3, 4, 5, 22, 23, 31, 32, 81, 98, 100, 102, 103, 104, 113, 114, 134, 188). . Ptychocarpus unitus WrISs: forma longifolia Brone. (Saggi 16, 73, 113). Ri Equisetales. . Annularia longifolia Brone. (Saggi n. 222, 232). . Annularia macropylla n. sp. MENEGH. (Saggi n. 211, 213, 215, 217, DB 20N2239231): . Annularia radiata Brone. (Saggio n. 62). . Amnmularia ramosa n. sp. MENEGH. (Saggio n. 259). . Annularia sphenophylloides Zenx. (Saggio n. 233). . Annularia stellata (ScHLoT.) STERNB. (Saggi n. 3, 4, 5, 7, 10, 21, 24, 253020, 81,/3;181, 120,44, d6o27 154, 165, 169, 188, 191, 206, 216, 229, 230, 274). . Annularia stellata var. angustifolia (ScHLOT.) STERNB. (Saggio n. 147). . Asterophyllites calamopteris n. sp. MENEGRH. (Saggi n. 196, 201). . Asterophyllites equisetiformis (ScaLoT.) Brone. (Saggi n. 189, 191, 19219 SARO O 988203 02,0478238). . Bruckmannia tuberculata STERNB. (Saggi n. 190, 199, 202, 205, 206, 207, 210). . Calamites approrimatus Brone. (Saggio n. 176). . Calamites Cistiù Brone. (Saggi n. 16, 19, 156, 157, 158, 164, 165, 173). . Calamites Heerì De STEP. (Saggio n. 160). . Calamites lejoderma GutB. (Saggio n. 175). . Calamites nodosus Brone. (Saggio n. 170, 177, 179, 187). Sc. Nat. Vol. XIX È 36 L. BARSANTI 50. Calamites striatus (GutB.) Brone. (Saggi n. 178, 180). 51. Calamites Suckowii Brone. (Saggi n. 140, 141, 144, 145, 147, 148, OI ie do Ie ICL LT. 0) 52. Calamites undulatus StERNB. (Saggi n. 155, 159, 167). 53. Palaeostachya peduneulata Winx. (Saggio n. 191). 54. Eadicites Iani n. sp. Arcano. (Saggi n. 4, 5, 50, 66). 55. SphenophyUum Thoni MARR. var. minor SteRzEL. (Saggi n. 1, 2, 3, ta), eb ue 200 SO Lycopodiales. 56. Lepidodendron sp. (Saggi n. 171, 273). 57. LepidophyUum maius Brone. (Saggio n. 133). 58. Lepidostrobus Geinitzì ScHimP. (Saggio n. 275). i “59. Sigillaria mutans WrIss. forma Brardii Brone. (Saggi n. 279, 293).. 60. Sigillaria mutans Wriss forma denudata GoòPP. (Saggi n. 286, 287). 61. Sigillariophyllum Iani n. sp. Arcane. (Saggi n. 35, 45, 102). 62. SigillariophyUum tricarinatum n. sp. ARcaNG. (Saggio n. 16). 63. Syringodendron sp. (Saggio n. 183). 64. Syringodendron approrimatum REN. (Saggio n. 282). Gymnospermeae. Coniferales. 65. Cordaianthus Germarianus GoòPP. (Saggi n. 311, 312). 66. Cordaites borassifolius STERNB. (Saggi n. 17, 35, 48, 49, 64). 67. Cordaites principalis GERMAR. (Saggi n. 162, 168, 300, 301, 303). Cycadales? 68. Noeggerathia sp. (Saggi n. 314, 316). Species incertae sedis. 69. Aspidiopsis coniferoides Poron. (Saggi n. 86, 305). 70. Aspidiopsis coniferoides var. minor Poron. (Saggi n. 74, 125, 188). 71. Daubrecia Biondiana Arcana. (Saggio n. 317). 72. Zoophycos Ianiì Arcana. (Saggio n. 318). Pisa, R. Istituto botanico dell’ Università, luglio 1902. PROF. GIUSEPPE RISTORI STUDIO IDROGRAFICO E GEOLOGICO DEI BACINI IMBRIFERI DI CoLtiBono SECCIANO E CAFAGGIOLO NELLA CATENA CHIANTIGIANA (VALDARNO SUPERIORE) Parte I. Generalità. È ormai dimostrato da molte osservazioni che i bacini imbriferi che alimentano le sorgenti sono in intimo rapporto con le condizioni orogra- fiche ed orotettoniche dei sistemi o del sistema montuoso a cui appar- tengono, di modo che è anzitutto necessario rendersi conto di queste per farsi adeguato concetto della potenzialità sorgiva di quelle. La porzione della catena chiantigiana che è oggetto del nostro esame idrografico si estende dall’altura (m. 761) di Monte Piano Orlando a quella di Montigrossi (m. 701-650) percorrendo lungo la dorsale di spartiacque una distanza retta di circa 7 chilometri. Le elevazioni più accentuate che in questa plaga controdistinguono lo spartiacque fra il vasto e classico bacino del Valdarno superiore ed il Chianti non superano gli 850 metri ed il crinale nel suo generale andamento non si deprime mai al disotto di 650. In corrispondenza dei culmini più elevati, come Monte Piano Orlando, Monte Pescinale, Monte Petraja, Monte Maione, Monte Porcigliano, Pog- gio Martini e Monte al Porro, si distaccano dei contrafforti o propag- gini collaterali che chiudono e individualizzano assai nettamente alcuni bacini idrografici solcati da torrenti e torrentelli che raccolgono le acque superficiali unitamente alle sorgive ed a quelle delle sorgenti che smaltiscono per la massima parte la potenzialità imbrifera di ciascuno di essi. Il regime sotterraneo delle acque mentre in parte si armonizza con questa costante disposizione orografica, in parte subisce delle varianti, 38 G. RISTORI le quali sono in rapporto con la tettonica delle formazioni e con il pre- dominio che alcune di queste prendono sulle altre. Ad onta di ciò in tutta la regione esaminata sono notevoli i caratteri che hanno spesso in comune i torrenti ed i torrentelli di un dato bacino: essi infatti mentre per la generale iniziano il loro corso da una sorgente (d’altro canto accen- tuando, via via che scendono a valle, la loro azione erosiva, sia sulle roccie in posto, come sui detriti di frana e di falda specialmente accumulati nei semiconi d’erosione e nelle depressioni di carattere vallivo da essi stessi determinate) lo accrescono notevolmente e con molta rapidità in un per- corso relativamente breve. Questo fenomeno è per noi di una certa im- portanza, perchè evidentemente dimostra che le sorgenti in generale più ricche di acque, che troviamo assai a monte quasi in testa a ciascun bacino imbrifero, non ci rappresentano tutta la sua potenzialità sorgiva. Lo smaltimento si opera molto frazionato ed una parte delle acque d’imbibizione prende la via delle fratture più profonde che interessano alcune peculiari formazioni, le quali fratture meandriformi e molteplici frazionano e rendono intricatissima la rete acquifera sotterranea, per modo che le acque sgorgano sporadicamente, allorchè l’erosione torren- ziale medesima aperse loro un qualsiasi sfogo all’esterno. Ma non basta. Alcune di queste acque sorgive traversano frequentemente la compage delle formazioni detritiche di frana e di falda ed interessandole più o meno estesamente si mescolano a quelle freatiche insite e proprie delle formazioni incoerenti suddette e vengono fuori più a valle con proprietà e portata più o meno alterate ed incostanti. ì A disturbare il regolare regime sotterraneo delle acque si aggiun- gono nella plaga qui presa in esame le condizioni geotettoniche e lito- logiche delle formazioni, che prima descriverò sommariamente per porre in relazione di esse le diverse sorgenti ed il modo peculiare di smal- timento dei diversi bacini imbriferi. La zona montuosa da noi presa in esame di fronte allo speciale ca- rattere di questo studio idrografico può ritenersi delimitata a valle dal- l’altopiano caotico che ci rappresenta le formazioni di riva del bacino lacustre del Valdarno. Lungo questa linea altimetricamente assai costante ‘ si sviluppa la zona arenacea con caratteri litologici e fisici abbastanza variabili, giacchè alle arenarie propriamente dette si alternano o sì so- stituiscono formazioni galestrine e marnose, le quali in qualche plaga pren- dono assoluto predominio. I caratteri di questa zona si mantengono special- mente nelle propaggini perpendicolari alla direzione della valle, le quali n STUDIO IDROGRAFICO E GEOLOGICO DEI BACINI IMBRIFERI ECC. 39 con notevole costanza e regolarità dicemmo distaccarsi dalla dorsale chiantigiana, la quale si dirige da SSE. a NNO. quasi parallella all’ asse del bacino valdarnese. In corrispondenza di una seconda linea altimetrica assai più elevata della prima, ma essa pure assai costante, la natura delle formazioni geologiche assume un carattere alquanto diverso. Que- sta seconda zona è controdistinta in generale da scaglie marnose rosee e da scisti policromi e galestrini spesso ricchi di druse calcitiche ed interessati da ossisali idrati di manganese e di ferro. A questa forma- zione prevalente, a quando a quando si sostituiscono estesi banchi di are- narie molassiformi e relativamente povere di cemento calcareo, ricche di mica e di elementi marnosi. Sulla formazione promiscua arenaceo-gale- strina e marnosa si adagiano stratigraficamente parlando calcari screziati e nummolitici, i quali ultimi, di carattere più brecciforme a monte, si mu- tano successivamente in calcari screziati durissimi silicei tenacemente cementati coni quali alternano e forse succedono in ordine discendente, calcari compatti i cui strati sempre poco potenti a quando a quando sem- brano alternare con le marne rosee. Al vertice della dorsale e più di frequente nei picchi più elevati, alle breccie nummolitiche si sostituiscono arenarie e scisti arenacei misti a marne coltelline grigie. Mi risparmio per ragioni d’opportunità il discutere la genesi di queste formazioni che si succedono con una relativa regolarità, molto più che questa singolare promiscuità di roccie ha indotto tanta confusione e tante controversie per l’interpetrazione della compage stratigrafica nelle nostre propaggini apen- niniche, per la massima parte riferibili a piani diversi del periodo eo- cenico. È mia convinzione che il problema sia stato complicato, perchè spesso in questi studi di stratigrafia forse le facies diverse sono state confuse coi pian?. A parte questi rilievi, quello che a me interessa porre in evidenza nella plaga qui studiata sotto il punto di vista idrografico sem- pre connesso con le condizioni geologiche e tettoniche, si è la costante sovrapposizione in questa seconda zona più montana dei calcari alle marne e spesso anche delle arenarie, per modo che il piano impermeabile, su cui in modo certamente incostante e saltuario si accumulano le acque sorgive, è da ritenersi in generale la formazione marnosa o galestrina. Le condizioni tettoniche suesposte hanno necessariamente determinati degli scoscendimenti e delle frane, i detriti delle quali si sono con mag- giore o minore potenza accumulati nelle vallecole costituite dalle erosioni dei torrenti i quali alla loro volta hanno a quando a quando costituito dei piccoli coni di deiezione ben riconoscibili per l’elaborazione subìta dai 40 G. RISTORI materiali caotici. In alcune località, e specialmente ove prevalgono le marne rosee, le frane sono assai profonde per modo che i massi di cal- care screziato scoscesi e distaccati dalle alte vette, abbandonati all’ im- peto delle frane medesime scesero assai a valle e poi furono ulteriormente ricoperti e compresi nelle frane successive delle marne e dei galestri per cui si formarono terreni detritici con una promiscuità di roccie molto ca- ratteristica. D'altro canto questi terreni, ricoprendo estesamente le de- pressioni dei semiconi d’erosione dei diversi torrenti, ammantarono le formazioni calcari e arenacee in posto e spesso fecero.sì che le sorgenti da quelle sgorganti fossero, prima di fluire all’esterno, costrette ad inte- ressare quelle neoformazioni e, raccogliendosi sul piano di scorrimento unirsi alle acque freatiche delle frane e falde medesime ed uscirne più in basso ove l'ulteriore erosione torrenziale raggiunse le roccie in posto - e quindi il piano di scorrimento suindicato. Questo in tesi generale il’ regime sotterraneo delle acque, regime il quale presenta delle varianti per ciascun bacino imbrifero e per ciascuna sorgente, spesso complican- dosi per le condizioni d’imbibizione e di smaltimento, variabilissima a seconda delle roccie e dei caratteri fisici e chimici ad esse inerenti. Altre circostanze ed altre condizioni a questo si aggiungono se fer- miamo un poco l’attenzione sui punti e sulle linee di contatto fra le di- verse formazioni che sommariamente furono descritte. I contatti che maggiormente interessano sono: 1.° quelli fra le arenarie altimetricamente superiori ed i calcari; 2.° quelli fra calcari, marne o galestri; 3.° fra queste ultime roccie ed i banchi di arenarie che saltuaria- mente si sviluppano nella zona marnosa e galestrina. In ultimo poi potremmo considerare i contatti delle roccie sopra de- scritte pertinenti alla plaga più montuosa con le roccie prevalentemente arenacee ed in parte galestrine che dicemmo appartenere alla seconda zona 0 zona più a valle. L'ubicazione assai elevata dei bacini imbriferi e delle sorgenti da noi esaminate ci costringono ad insistere ancora sulle condizioni geotetto- niche e litologiche della zona più a monte, riserbandoci in ultimo poche parole sulle condizioni in cui si trova la zona più bassa che solo indiret- tamente può interessare questo studio. Le roccie che costituiscono i bacini imbriferi della plaga che mag- giormente ha richiamata la nostra attenzione possono in ordine alla loro: importanza indicarsi così: Arenarie superiori che costituiscono i picchi STUDIO IDROGRAFICO E GEOLOGICO DEI BACINI IMBRIFERI ECC. 41 più alti della dorsale e dello spartiacque in questa porzione della. ca- tena chiantigiana — Calcari screziati e brecce nummolitiche — Marne rosee con strati alternati di calcari compatti spesso selciferi — Galestri e scisti policromi — Banchi arenacei della zona delle marne rosee e dei galestri — Detriti di frane e di falde. Le formazioni arenacee altimetricamente superiori hanno caratteri litologici e fisici molto vantaggiosi per l’imbibizione e la loro capacità cubica per l’acqua è certamente molto notevole, sia perchè gli elementi loro sono piuttosto grossolani, sia perchè il cemento calcareo che gli tiene uniti è relativamente poco abbondante e quindi poco tenace. La regolare stratificazione di queste roccie, che sogliono disporsi in pieghe molto ampie ed assai regolari, può fare convergere le lame d’acqua dalle discontinuità degli strati verso il centro di un dato bacino, ed è allora che qui si veggono scaturire acque sorgive. Queste condizioni così sem- plici non sono però le più comuni e spesso le acque d’imbibizione si raccolgono nelle fratture che si presentano assai frequenti ove, come ac- cade di sovente in questa regione, le roccie stratificate relativamente molto permeabili giacciono su quelle scistose scorrevoli, poco permeabili e di capacità cubica notevolmente ridotta. Le acque che tengono la via delle fratture, quando non sgorgano all’esterno direttamente da quelle, prendono spesso la via che si apre a loro sempre facile lungo il con- tatto di due roccie di natura diversa, e così si conducono più a valle 0 scaturiscono in carica se presto raggiungono il piano impermeabile, come nel caso che questo sia determinato dalle marne rosee, dagli scisti ga- lestrini o da qualche altra roccia simile a base argillosa. Difficilmente le acque sorgive, che hanno per roccia imbrifera le masse arenacee scen- dono molto a valle o scaturiscono a grandi distanze, perchè è ormai di- mostrato che simili formazioni nelle propaggini apenniniche in generale, e nella catena chiantigiana in particolare, non hanno, pure essendo assai sviluppate, grande continuità nella loro compage tettonica, ma spesso sono sostituite ed interrotte da altre formazioni più o meno diverse, le quali rappresentano o piani, o facies diverse di un medesimo piano. Passando ai calcari screziati e nummolitici come roccie imbrifere, che . per importanza in questa regione vengono subito dopo le arenarie, con- viene notare come questi si presentino per lo più con stratificazione apparentemente molto sconvolta, che spesso vela e rende difficile il rin- tracciare le vere e proprie pieghe orotettoniche, le quali nel loro insieme si presentano abbastanza regolari e sconcordanti con quelle delle arenarie 42 G. RISTORI superiori già esaminate. I cedimenti, le frane, le falde e gli assettamenti, sempre accentuati nelle roccie marnose e galestrine che stanno alla base delle formazioni calcaree, si sono manifestati con tale entità d’effetti mec- canici da determinare in esse pieghe serrate e rotture frequenti, le quali hanno sconvolto notevolmente il primitivo loro assettamento stratigrafico, quando non hanno determinato estesi scoscendimenti e frane profonde. Tutti questi movimenti e sconvolgimenti indussero assettamenti peculiari nella compage tettonica di questi calcari, e rotture profonde e spesse, le quali alla loro volta vennero modificate dalla stessa azione delle acque filtranti più o meno carbonate. Non estesissime plaghe costituite da si- mili roccie, ma sempre importanti poterono per speciali condizioni geo- logiche non prendere parte a questi movimenti complessi, da varie cause estrinseche all’orogenesi determinati, per cui restarono capisaldi a rappre- sentarci ancora la vera compage tettonica della formazione e ci dettero modo di conoscerne i rapporti stratigrafici, i quali non concordano con quelli delle arenarie, mostrando, p. es. a M. Grossi, una costante immer- sione a N. 25°, E. di 32 a 35 gradi, mentre pur si veggono discordanti con la stratigrafia delle marne rosee e dei galestri che ordinariamente si immergono ad O. con pendenze variabilissime, che da 25 gradi pas- sano a raddrizzamenti sulla verticale, quando non ci danno esempi di pieghe ribaltate. Dal complesso di queste condizioni tettoniche e dalle intricate frat- ture, dalle quali più comunemente sono interessati i banchi calcarei, si desume facilmente come il regime sotterraneo delle acque debba formare una rete oltremodo complessa tanto più che la roccia di per sè possiede una capacità cubica molto ridotta e l'interessamento della roccia mede- sima per le acque meteoriche si fa precipuamente per la via delle frat- ture grandi e piccole più che per quella di una vera e propria imbibizione. Del resto per una parte non si può assolutamente escludere il fenomeno di filtrazione delle roccie calcari e tanto meno in quelle interessate da mol- teplici ed intricate fessure. In queste spesso le discontinuità meno aperte vengono riempite dalla decomposizione stessa della roccia, i cui elementi litologici non essendo qui esclusivamente costituiti da Ca CO3, ma ag- giungendovisi in intima connessione elementi marnosi e sali metallici, questi si liberano dopo la soluzione della calce operata dalle acque car- bonate e sospendendosi in queste vengono poi deposti a riempire non tanto le piccole fratture quanto le medie ed anche le discontinuità esi- - stenti fra banco e banco, fra strato e strato della roccia in posto. È in STUDIO IDROGRAFICO E GEOLOGICO DEI BACINI IMBRIFERI ECC. 43 questo modo che si forma un sistema di canali a diaframmi clastici i quali lasciano passare le acque con lentezza operando come filtri natu- rali di valore non trascurabile e ritardando e rallentando lo smaltimento delle acque meteoriche passate per le rotture più aperte nel sottosuolo ed interessanti la compage meandriforme di queste roccie. Di fronte però a queste fratture riempite più o meno completamente da materiali clastici ne stanno altre beanti e spesso ingrandite dal- l’azione dell’acqua carbonata stessa. Queste in generale sono le maggiori e quelle che possono avere dato luogo anche a vacui e a caverne più o meno estese frequentemente occupate da depositi di acque. Per questo secondo sistema di drenaggio le acque passano e non filtrano e quindi si smaltiscono con relativa rapidità, per modo che le sorgenti in queste re- gioni calcaree sogliono presentare notevole incostanza molto risentendo delle magre. Ad ogni modo nelle speciali condizioni primieramente esposte anche le sorgenti di queste roccie e più specialmente dei calcari scre- ziati e nummolitici possono avere un certo valore e darci acque sorgive con una relativa costanza d’efflusso. In quanto alla formazione marnosa e galestrina questa non ha cer- tamente l’importanza delle due prime, però costituendo nella nostra plaga più ordinariamente l’imbasamento delle arenarie e dei calcari ci rappre- senta lo strato relativamente impermeabile su cui o presso cui adunan- dosi le acque sgorgano spesso in prossimità del piano di contatto, ed allorchè vi si raccolgono in grande quantità determinano le frane e le falde unitamente a tutti quei terreni detritici che giacciono a valle delle formazioni arenacee ed ancora più estesi e potenti a piede di quelle calcari e calcareo-marnose. Le marne rosee ed i galestri come roccie imbrifere hanno per noi scarsa importanza, giacchè la loro compage, anche se interessata dalle acque non lascia ad esse facile lo sgorgo all’esterno per modo che il coefficiente di cubicità, per quanto basso, si smaltisce sporadicamente e si divide in piccoli e numerosi stillicidii i quali sogliono più di frequente far capo in corrispondenza delle discontinuità fra strato e strato ove spesso si veggono druse calcitiche ed anche silicee, forse esse stesse dovute alla proprietà solvente delle acque. Le formazioni galestrine vengono, nella zona qui presa in esame, di frequente a contatto con banchi più o meno estesi di arenarie i quali probabilmente hanno rapporti tettonici con le arenarie più a valle che insieme ai galestri costituiscono la formazione geologica predominante 44 G. RISTORI alla base della catena chiantigiana su cui riposano direttamente le argille e sabbie plioceniche del Valdarno ed anche gli appoggi più a riva dei banchi lignitiferi. In corrispondenza delle linee di contatto dei galestri e delle arenarie prima ricordate sogliono sgorgare delle sorgentelle e degli stillicidii i quali smaltiscono la potenzialità imbrifera di questi banchi arenacei e forse in parte anche quella dei galestri. Le frane e l’accumulo dei detriti di falda sono pure notevoli in corrispondenza di queste for- mazioni, per modo che si hanno frequenti accolte di acqua che devonsi ritenere di duplice provenienza, sorgive e freatiche di falda. Ad onta di ciò queste acque non sono da trascurarsi e convenientemente utilizzate, stante la loro frequenza, possono sempre dare incremento ad una con- duttura che nel suo sviluppo passi loro vicino. Ultima roccia imbrifera della serie sono le formazioni detritiche di frana e di falda. Accumulate con variabile potenza a valle lungo i semi- coni d’erosione dei torrenti e torrentelli ci rappresentano ed occupano una superficie piuttosto notevole. Su queste sono principalmente stabi- lite le coltivazioni, ed i poderi più fertili debbono alla miscela delle varie roccie, elaborate dall’azione meccanica delle frane medesime e da quella meccanica e chimica delle acque, la loro fertilità e la prospera cultura della vite e dell’olivo. La potenzialità sorgiva di questi terreni detritici è nel suo complesso abbastanza importante, ma per la cultura intensiva che su di essi è andata e va continuamente esplicandosi, le acque che in generale ne provengono non possono nè debbono essere utilizzate per potabili, giacchè facilmente si comprende come siano soggette ad in- quinamenti molto pericolosi per le vicine abitazioni e per le concimazioni del soprassuolo, le quali stante la notevole permeabilità del detrito roccioso, possono arricchire le acque più profonde di sostanze organiche e di microrganismi anche patogeni. Non sempre però le formazioni de- tritiche sono sottoposte a cultura, se ne hanno molte coperte da vege- tazione boschiva, specialmente quelle più a monte, per modo che non di rado acque sorgive le interessano costituendo acquitrini e pollini assai estesi ed importanti dai quali, con le debite cautele, potrebbesi ritrarre una certa quantità d’acqua potabile, sempre che si abbia cura di esa- minare, nelle magre più accentuate, la potenzialità sorgiva che esse con- servano. D'altro canto queste singolari formazioni servono anche a celare le sorgenti che scaturiscono nei punti più depressi lungo i semiconi d’erosione torrenziale, per modo che esse vengono ad uscire all’aperto . come risorgive da quelli stessi detriti che le hanno occultate. In questi STUDIO IDROGRAFICO E GEOLOGICO DEI BACINI IMBRIFERI ECC. 45 casi speciali il più conveniente sarà il rintracciare il vero punto di sca- turigine dalla roccia in posto, e quando questo fosse oltremodo difficile, una trincea di sbarramento il più possibile a monte ove il detrito è meno potente potrebbe benissimo costituire un facile lavoro di presa a garan- tire la quantità e la qualità delle acque. Esaurito così l’esame delle rocce imbrifere che costituiscono la prima zona più a monte, che è per molte ragioni preferibile, ci resta di spen- dere qualche parola intorno alla seconda più a valle. I caratteri geolo- gici di questa sono determinati da una singolare promiscuità di roccie arenacee e galestrine con tutti quei lenti passaggi intermedii che co- stituiscono, tanto nelle arenarie, come nei galestri, quelle variabilità di struttura fisica e di natura litologica che danno ragione a distinzioni pe- culiari, come sarebbero scisti galestrini puramente argillosi — scisti ga- lestrini con druse di calcite ed inquinamenti di manganese e ferro — scisti policromi — scisti arenacei — arenarie molassiformi alternate con marne ed argille galestrine — marne coltelline grigie e plum- bee — alberesi scistosi — banchi d’arenarie più o meno compatte, più o meno tenacemente cementate (pietra bigia e serena). Anche in questa zona non mancano le sorgenti. Di frequente appariscono in corrispondenza dei più estesi banchi delle arenarie più compatte e delle molassiformi al- ternanti con le marne grigie e colle argille galestrine. Le plaghe occu- pate dai veri e propri galestri non presentano che stillicidii più o meno diffusi e frequenti. Allo stato dei fatti la zona inferiore arenaceo-gale- strina, che pure ha soffermata alquanto la nostra attenzione, non può ritenersi fra quelle consimili ricca di acque sorgive, come spesso altrove si presenta, anzi si può dire che qui ne faccia difetto: infatti le poche sorgenti che vi si riscontrano hanno portate molto ridotte e le adunate d’acque, fatte per mezzo di scavi interessanti specialmente le arenarie, sogliono dare acque perenni, ma non in grande quantità. In conclusione, da questo esame superficiale consegue che lo smaltimento di questa zona imbrifera si fa in modo molto diffuso e sporadico da togliere gran parte della sua importanza dal punto di vista della idrografia applicata alla ricerca delle acque potabili. Del resto, dal complessivo esame parmi resultare con notevole evidenza che le arenarie ed i calcari della prima zona giacenti sulle marne rosee o sui galestri hanno come roccie imbrifere la maggiore importanza e sono quelle che presentano il maggiore numero e le maggiori sorgenti. Alle altre formazioni appartengono sorgive di minore entità e non sempre 46 G. RISTORI atte a dare acque potabili assolutamente sicure. Ad onta di ciò non poche sorgenti si presentano qua e là in buone condizioni da dare un prezioso sussidio ad una conduttura importante che, movendo dai bacini imbriferi principali della zona più montana, può con profitto utilizzare le acque sorgive che si presenteranno lungo il suo sviluppo. In tesi astratta e teoretica noi dovremmo a priorì scartare anche le sorgenti dei calcari per tema della loro presunta incostanza e per tema che ad esse non siano miste acque superficiali, che passando attraverso alle beanti fratture, non abbiano subìto quella filtrazione che preintende alla loro purezza e potabilità. E quasi questo non bastasse, si aggiunge anche, a farci ulteriormente diffidare di queste acque, la loro possibile ricchezza in sali calcari. Dovremmo quindi scegliere e preferire solo le sorgenti che vengono dalle arenarie o sgorgano fra queste e le roc- cie marnose e galestrine; ma i criteri assoluti e recisi nella scienza applicata alla pratica non sono e non saranno mai quelli che ci da- ranno l’indirizzo più logico e più attendibile per la soluzione delle molteplici difficoltà che sempre si incontrano nello studio idrografico ed idrologico di una regione che vogliasi prescegliere per avere acque po- tabili abbondanti e chimicamente e batteriologicamente pure, di quella relativa purezza tollerata dall’igiene e reclamata dagli ultimi portati della scienza. — Altri criteri, altre osservazioni più speciali e minute debbono entrare in campo se non a sostituire totalmente ad arrotondare le assolute sentenze della scienza puramente teorica. In natura le roccie calcari non sono tutte d’un modo ed il litologo ve ne può presentare una serie infinita con proprietà fisiche, chimiche e litologiche così varie e variabili da ingenerare profonde e sostanziali differenze nel giudicarle sotto il punto di vista di roccie imbrifere. I calcari che prevalgono nella zona imbrifera da me studiata sono di tre differenti tipi, i più abbondanti ed estesi sono i calcari screziati costituiti da piccoli gusci di foraminifere politalamiche, da elementi spi- culari di spugne e di radiolarie e da altri molteplici e vari organismi propri delle faune costiere e di media profondità. La formazione di questa roccia è altresì dovuta all’aggregazione di frammenti clastici di natura litologica variabilissima tutti strettamente uniti e cementati da Ca CO3 e dalla pressione. La loro genesi e la loro natura non è quindi quella di puri calcari, ma di calcari che possono ed hanno anche inelusi in sè non pochi degli elementi stessi delle arenarie più tenaci, per cui - tanto la loro capacità cubica per l’acqua, come il loro carattere d’ag- STUDIO IDROGRAFICO E GEOLOGICO DEI BACINI IMBRIFERI ECC. 47 gregazione non esclude che una parte delle acque, che li interessano, possano da essi essere molto bene filtrate. Le fratture che dicemmo attraversarli non sono in generale molto ampie in questi calcari il cui coefficiente di flessibilità non è tanto basso. Oltre a ciò la massima parte delle discontinuità sono compenetrate e ripiene dagli elementi di decom- posizione e da quelli clastici in esse stesse trascinati dalle acque. Le frat- ture beanti ed aperte si riducono quindi a poche, a quelle forse in cui circolano per ultimo le acque, facendosi alla loro volta strada all’esterno. Il secondo tipo dei calcari è quello brecciforme nummolitico propria- mente detto. In questo gli elementi clastici sono ancor più abbondanti ed il cemento è meno tenace per cui più facilmente è soggetto alla degradazione degli agenti esterni ed alla disgregazione. La capacità cubica per l’acqua deve quindi essere tanto maggiore quanto ne è minore la sua compattezza e tenacità di fronte ai calcari screziati. Inquanto agli elementi clastici questi sono prevalentemeate silicei; gli elementi orga- nici sono costituiti quasi esclusivamente dalle conchiglie delle nummuliti- dee spesso calcaree. Oltre a ciò sono presenti elementi eterogenei di varia provenienza, come frammenti di calcari compatti, frammenti silicei, e per- fino quelli delle stesse marne rosee e dei galestri che preesistenti ed emersi, dettero incremento alla degradazione di spiaggia e alla forma- zione di quelle roccie. Come roccia imbrifera le breccie nummolitiche nulla hanno da invidiare alle arenarie, solo il loro sviluppo in superficie ed in potenza essendo immensamente minore, non possono avere la poten- zialità sorgiva di queste e neppure quella dei calcari screziati, perchè anch'essi sono più estesi e potenti. Il terzo tipo è rappresentato dai calcari compatti, che si presentano intimamente connessi ai calcari screziati ed anche alternati colle marne rosee. Queste poi aumentando dal basso all’alto l'elemento calcare deter- minano un graduale passaggio ai calcari medesimi che per la genesi può benissimo mettersi in rapporto con un sollevamento graduale del fondo marino o bradisismo positivo che ne abbia avvicinate le coste. Di fronte a queste peculiari condizioni geotettoniche, il regime sotterraneo delle acque si dispone fra strato e strato in sottili lame seguendo i piani marnosi che presentano minore permeabilità e dando spesso luogo a frane e falde, le quali interessano a quando a quando le masse sovra- stanti dei calcari screziati e nummolitici ed anche quelle delle arenarie. Tutto questo fa sì che le acque sorgive proprie di questa formazione mar- noso-calcarea spesso si mescolano con quelle delle soprastanti e di per 48 G. RISTORI sè non lasciano più giudicare esattamente del loro valore e della loro potenzialità. Del resto le masse marnoso-calcaree come roccie imbrifere sono certamente da porsi fra quelle che presentano le maggiori garanzie anche dal lato chimico, perchè le acque che le interessano anche se primitivamente ricche di Ca CO* hanno poi modo di decalcificarsi suffi- cientemente lungo il percorso sul piano impermeabile qui sempre po- vero di calce. Da tutto questo consegue che nel nostro caso, mille volte riscon- trato consimile nelle propaggini apenniniche pertinenti all’eocene medio e superiore, le acque sorgive delle arenarie saranno le prime a pren- dersi in considerazione per la loro presuntiva purezza che difficilmente verrà meno. Ma anche le sorgenti delle formazioni calcari sudescritte avranno sempre una notevolissima importanza; molto più che lo smal- timento operandosi in esse con carattere meno frazionato è qui che si ritrovano le sorgenti di maggiore portata per quanto esse possano in ge- nerale risentire delle magre e presentare una certa incostanza. Ad ogni modo la bassa temperatura spesso riscontrata in alcune sorgenti di questi calcari è sempre garanzia molto attendibile della profondità e quindi della potenzialità relativamente costante del bacino imbrifero che le ali- menta. Ad onta di ciò, per le sorgenti che provengono dai calcari, come p. es. la sorgente del Fringuello, quella della Vena e anche quelle di Ca- faggiolo, non sarebbe assolutamente superfluo qualche esperimento di co- lorazione fatto nei torrentelli a monte delle sorgenti medesime i quali sogliono, avere acque perenni. Questo al solo intento di escludere asso- lutamente ogni carattere anche parziale di acque risorgive, che potrebbero per avventura concorrere e mescolarsi a quelle più proprie del sottosuolo ed insite alla roccia imbrifera. Del resto io credo, per svariate e com- plesse considerazioni geologiche, molto probabile che gli esperimenti riescano negativi, ma l’assicurarsene sarà sempre prudente, perchè nelle roccie calcari le sorprese di questo genere non sono infrequenti e non potrebbero maravigliare, per quanto nel nostro caso speciale e per queste peculiari formazioni si abbia ragione di sperare 90 su 100 in un responso negativo. Dopo queste riserve e dopo la descrizione sommaria sulla successione stratigrafica e sulla disposizione e sviluppo delle singole formazioni, in rapporto al regime sotterraneo delle acque sorgive ed alle proprietà chi-. miche delle medesime, parmi tempo di accennare ai criteri generali che STUDIO IDROGRAFICO E GEOLOGICO DEI BACINI IMBRIFERI ECC. 49 debbonsi seguire nella ricerca delle acque nella regione qui presa in esame. Primo di tutto trovo opportuno parlare dei lavori di presa e più special- mente di gallerie più o meno sviluppate, che empiricamente sono state proposte per avere acque potabili abbondanti da un solo bacino imbrifero, cercando o meglio tentando con queste di poterne sfruttare in un sol punto e con una sola opera d’arte quasi completamente la potenzialità sorgiva. L’idea della ricerca delle acque nelle viscere delle montagne è an- tica, antichissima ed è fondata su teorie d’idrografia sotterranea con- troverse e spesso anche erronee fino a toccare l’aberrazione come nella teorica esposta in Francia nel 1703 dal Fontenelle segretario dell’acca- demia reale delle scienze. Quella teoria fu fatta rivivere recentemente da alcuni Ingegneri ed Imprenditori, che proposero a forfait d’allagare con acque potabili una fra le città più grandi ed artisticamente pùù belle d’ Italia !! Ma non è questo il luogo opportuno a discussioni ed a sfoggio di erudizione: oggi si ritiene universalmente che la potenzialità sorgiva di un dato bacino imbrifero sia dovuta alla media pluviometrica annua, al potere d’assorbimento delle formazioni geologiche o roccie, alla maggiore o minore facilità di smaltimento ed alla disposizione stratigrafica delle formazioni. Studiate queste condizioni ci troveremo in grado di giudicare degli effetti pratici che si possono ottenere con lavori sotterranei intenti alla ricerca delle acque. Le roccie imbrifere che predominano nella nostra zona, giova ripe- terlo, sono le arenarie, i calcari screziati e l’insieme delle formazioni marnose e galestrine. La disposizione stratigrafica ed i rapporti tettonici fra queste ci sono nel loro complesso ben noti, per cui già conosciamo sommariamente il regime sotterraneo delle acque d’imbibizione che le interessano ed i punti ove queste concorrono per poi scaturire all’esterno. Dicemmo già come le marne rosee e le formazioni galestrine costitui- scano generalmente il diaframma impermeabile su cui si formano le falde d’acqua più importanti, sia che esse provengano dalle arenarie o dai calcari. Presso alla linea altimetrica di contatto si veggono appunto sgorgare le maggiori sorgenti e vi si trovano in gran numero stillicidii ‘e piccole sorgive. Questo sta a rappresentarci nel suo complesso lo smal- timento più o meno sporadico, e sempre molto diviso di quel dato bacino. Da ciò ne consegue legittimamente che chiunque volesse pretendere di ricercare con lavori sotterranei acque sorgive non potrebbe svilupparli altro che presso i piani di contatto delle varie roccie suindicate. In 50 G. RISTORI quanto ai resultati pratici, questi anche nella ipotesi più favorevole non giungerebbero che ad accumulare in un sol punto la maggior parte della potenzialità sorgiva del bacino, la quale ci è poi rappresentata dalle naturali sorgenti che sgorgano all’esterno, e che implicitamente servono a mantenere l'equilibrio nella circolazione sotterranea delle acque. Lo sviluppo delle formazioni nelle nostre propaggini apenniniche e la loro compage geotettonica in generale non presenta potenzialità e con- dizioni tali da farci supporre con simili lavori grandi resultati pratici, quali a volte si sono veduti nell’ Apennino e nei massicci orografici di gran lunga più potenti ed estesi. Ma se questo non bastasse, l’esperienza e la teoria stessa ci pongono sull’avviso, che anche quando i primi re- sultati ottenuti con una galleria, interessante un dato bacino imbrifero, sembrano perfino avere superata l’aspettativa, col tempo essi vanno len- - tamente degradando fino a ricondurci nella normalità d’efflusso, che è' sempre proporzionata e proporzionabile alla potenzialità del bacino. Questi effetti immediati, questi fuochi fatui sono tanto più facili quanto più rotta e frastagliata è la compage geologica delle formazioni, per cui nel nostro caso nei calcari saranno più frequenti che nelle arenarie. L’accolte d’acqua più o meno importanti, che possono formarsi nelle diverse roccie imbrifere per dato e fatto dell’esistenza di vacui sotterranei di variabilissima capa- cità, danno sufficiente ragione del fenomeno suaccennato, per modo che io mi risparmio d’insistervi ulteriormente. Anche le gallerie che fossero condotte e molto sviluppate lungo i contatti di due roccie una più, una meno permeabile, come le arenarie e le marne, come i calcari e le marne, come i galestri e le marne ed anche i calcari e le arenarie, potrebbero dare resultati positivi, ma sempre entro limiti ristretti essendo la potenzialità sorgiva di ciascun dei nostri bacini assai limitata. Si racconta è vero di gallerie ferroviarie che hanno incontrate masse d’acqua considerevoli, e che contemporaneamente o quasi sì sono viste asciugate tutte o quasi tutte le sorgenti di un dato bacino imbrifero. Non nego il fatto, anzi io stesso a Ruta in Liguria fui testimone oculare di un simile fenomeno. Debbo osservare però che queste acque sono come dissi sempre soggette a successiva riduzione fino a raggiungere l’equilibrio determinato dalla potenzialità sorgiva di una data zona. Inoltre non sogliono quasi mai sfruttare superfici imbrifere molto estese ma si limitano a zone relativamente molto ristrette, per modo che in tesi generale non presentano molto notevoli vantaggi di fronte ai resultati che STUDIO IDROGRAFICO E GEOLOGICO DEI BACINI IMBRIFERI ECC. 51 si possono avere coll’allacciamento bene studiato delle principali sorgenti di un dato bacino, quando ci si valga dell’utilità e dei vantaggi molte- plici e vari che possono spesso ottenersi con bene intesi lavori di presa. A conferma di queste pratiche e teoriche considerazioni non parmi superfluo richiamare l’attenzione su le acque sorgive trovate in alcune gallerie praticate nell’arenaria dell’Apennino mugellese lungo il tronco ferroviario Ronta-Crespino. Le acque sgorgarono da prima in tale abbon- danza che si trovò opportuno condurle a valle per il servizio ferroviario medesimo. Queste sorgive seguitarono per parecchio tempo a mantenere una relativa costanza ed una portata considerevole, la quale però, in un lasso di tempo assai lungo, andò lentamente degradando e si ridusse no- tevolmente; tanto che le speranze di potere utilizzare con molto profitto queste acque, in gran parte, si dovettero abbandonare. Il fatto è per noi tanto più eloquente ed atto a metterci in guardia, perchè nell’esempio citato le condizioni geotettoniche e litologiche della formazione arenacea apenninica erano delle più favorevoli sotto tutti gli aspetti fra cui primeggia lo sviluppo e la potenza veramente notevole che ivi quelle roccie raggiungono specialmente nella parte montana. Bisogna dunque concludere che mentre simili lavori sono sempre di dubbia riuscita, non hanno, poi che ben lontana probabilità anche nelle migliori condizioni, di risolvere il problema e ritrovare me nostri monti in generale e nella catena chiantigiana in particolare, acque nella quantità sufficiente ai bisogni di ciascuno dei popolosi paesi del Valdarno supe- riore. Nella migliore ipotesi le gallerie interessanti molto le roccie im- brifere più importanti possono fare da collettori di quasi tutte le acque sorgive di un dato bacino imbrifero che occupi una plaga relativamente molto limitata. Del resto la potenzialità sorgiva di questo sarà d’altronde rappresentata dalle sorgenti che in esso sempre si ritrovano; purchè si usi somma diligenza e cura nel ricercarle e non si risparmino escursioni, fatiche ed informazioni. Le spese occorrenti per l’escavazione di galierie nelle roccie sudde- scritte sono tutt'altro che indifferenti ed @ priorì si può affermare che superino di gran lunga quelle necessarie per il maggiore sviluppo delle condutture libere occorrenti a fare convergere tutte le sorgenti di un dato bacino nella località convenientemente scelta per iniziare la con- duttura principale. In quanto al presunto aumento di portata che po- trebbe ottenersi con una o più gallerie questo oscillerà entro limiti assai ristretti e tali da non francare la spesa; tanto più che gli speciali lavori So. Nat. Vol. XIX 4 52 G. RISTORI di presa che si possono e si debbono suggerire per ciascuna sorgente pos- sono quasi sortire il medesimo effetto, anche nella supposizione più ot- timista che fare si possa a favore delle gallerie. I lavori di presa considerati per ora in modo astratto, per meglio specializzarli e concretizzarli nella seconda parte di questa memoria, possono riassumersi così: 1.° Brevi gallerie o grotte artificiali praticate al punto d’efflusso delle sorgenti per potere con opportuni lavori in muratura impedire qualsiasi mescolanza d’acque esterne e raccogliere in un solo pozzetto sorgente e gemitivi collaterali. 2.° Trincee più o meno profonde praticate lungo i detriti di frana o di falda, interessati dalle acque sorgive, allo scopo di ritrovare la vera sca- turigine dalla roccia imbrifera in posto; oppure allo scopo di raccogliere ad una profondità, che nel miglior modo garantisca dagli esterni inquina- menti, le acque sorgive avvicinandosi il più possibile al piano impermeabile su cui va formandosi la principale falda acquifera. 3.° Trincee trasversali praticate in testa a quelle longitudinali allo scopo di potere profittare non solo della scaturigine principale, ma anche delle secondarie e quindi utilizzare la massima parte delle acque sor- give nei luoghi ove presentano un carattere sporadico, che in generale va esplicandosi in una zona molto ristretta ed attorno alla principale scaturigine naturale. 4.° Lavori semplicissimi di presa con pozzetti murati per le sorgenti di secondaria importanza, che si presentassero in opportuna ubicazione per essere immesse nella conduttura principale lungo il suo sviluppo, magari con semplici condutture di piombo. 5.° Trincee praticate nei luoghi e nei terreni detritici ove si mostrano abbondanti stillicidii ed ove si abbia probabilità di rintracciare la sea- turigine naturale dalla roccia in posto, molto più se questa si sviluppa a poca distanza od è ricoperta da formazione detritica di poco spessore. 6.° Sbarramenti e scavi più o meno profondi allo scopo d’interessare totalmente, presso le roccie in posto, le formazioni detritiche per impe- dire che da queste sfuggano le acque sorgive. i Con questo pongo termine allo studio generale e sintetico della re- gione imbrifera prescelta e mi accingo a svolgere con maggiore dettaglio la parte speciale ed a descrivere partitamente i diversi bacini imbriferi per intuire il valore intrinseco delle singole sorgenti che in essi si trovano. STUDIO IDROGRAFICO E GEOLOGICO DEI BACINI IMBRIFERI ECC. 53 Parte Il. Studio speciale dei Bacini imbriferi e delle Sorgenti. La regione che ho presa ad esaminare specialmente sotto il punto di vista della idrografia sotterranea, per i suoi caratteri orografici ed orotettonici, ben si presta ad essere divisa in tre distinti bacini imbri- feri ciascun dei quali presenta sorgive più o meno importanti. Questi tre bacini possono distinguersi coi seguenti nomi: il primo più a S. può dirsi bacino imbrifero di Coltibono-Saliceto, il secondo procedendo a NNO. in continuazione di questo ed estendendosi a monte fra Secciano e Casignano potrebbe benissimo prendere nome da questi villaggi; men- tre il terzo è comunemente conosciuto col nome delle sue principali sor- genti la Vena e Cafaggiolo. I caratteri orografici di questi tre bacini si somigliano notevolmente, per modo che anche la disposizione dei corsi d’acqua che superficialmente li interessano hanno in comune molti caratteri. A valle in corrispondenza della quota altimetrica di circa 300 metri i fossi o torrentelli montani tendono a convergere ed a costituire torrenti di maggiore importanza e meglio individualizzati nel loro corso, i quali assumono caratteri più costanti. Il primo bacino posto in relazione coll’orografia e coll’idrografia è il più vasto, specialmente nella sua porzione a monte. Esso comprende la linea di spartiacque fra Monte-Maione e M. Grossi, e solo notevol- mente si restringe fra Luceto e C. Ripoli per il convergere dei due con- trafforti quasi perpendicolari alla dorsale chiantigiana, i quali distaccan- dosi dalle due alture summentovate, limitano lateralmente la vallecola torrenziale del Bruciomo il più importante affluente del Cerbia. A mano a mano che il bacino si allarga i torrentelli, che ne solcano la superfi- cie a monte si dividono e suddividono e prendono una quasi regolare disposizione ventagliforme, iniziando una serie numerosa ed intricata di piccoli semiconi d’erosione i quali insieme al torrentello che li ha costituiti infilano e convergono nei principali contigui i quali alla loro volta, e proporzionalmente alla potenzialità d’ erosione e di trasporto, hanno escavate vallecole più o meno profonde ed interessanti la compage tettonica delle varie formazioni geologiche. 54 G. RISTORI La disposizione ed il numero dei torrentelli più montani, i quali pre- feribilmente iniziano il loro corso presso il riposo delle arenarie e dei calcari sulle marne e sui galestri, ci segna, con un’ approssimazione rela- tivamente esatta, la zona altimetrica delle sorgenti e delle scaturigini più o meno diffuse (stillicidii) delle acque sorgive, che provengono dai mas- sicci arenacei e calcari che costituiscono la giogaia di spartiacque fra il Valdarno ed il Chianti. La disposizione orografica, geologica ed orotet- tonica delle formazioni in questo bacino si presenta con peculiari carat- teri. Anzi tutto si nota uno sviluppo prevalente delle roccie arenacee, le quali occupano una zona assai estesa più a monte e costituiscono le prin- cipali vette della giogaia suindicata; mentre le più depresse sono formate dai calcari screziati e dalle breccie nummolitiche. Tutte queste forma- zioni, come abbiamo più volte ripetuto, riposano indistintamente sulle . marne rosee e sui galestri, che unitamente ai banchi d’arenarie più com- patte e più dure si dispongono lungo una linea altimetricamente inferiore che è poi la linea delle sorgenti principali, unitamente a quella d’ origine della maggior parte dei torrentelli montani. Questi mentre da una parte escavarono i loro semiconi d’erosione nelle roccie in posto ed in quelle detritiche di frana e di falda, dall’ altra resero più agevoli gli scoscen- dimenti dei calcari e le frane delle roccie arenacee. La tettonica delle arenarie è quella a pieghe ampie ed a larghe on- dulazioni, cui contrastano alcuni ripiegamenti locali stretti e serrati, che provocati dall’instabilità della roccia marnosa sulla quale giacciono, hanno poi determinate le fratture nei banchi ed anche facilitate e provocate le frane. L’immersione degli strati alla cascina di Monte Lucci è di 30 gradi ad O. 15° S. pendenza che si mantiene costante per la direzione e per l’angolo d’immersione a S.Lorenzo ed a Coltibono, mentre a Poggio Mar- tini (quota 781) ed a Monte al Porro si volge più decisamente ad O. con inclinazione alquanto meno sentita. I calcari screziati si immergono a N. 25° E. con un angolo di 20 gradi il quale si presenta, causa le molte rotture e dislocamenti degli strati, ben poco costante. Dalla suesposta disposizione tettonica dei calcari e delle arenarie rie- sce evidente come, avendo le une e gli altri per roccia di riposo la for- mazione marnosa 0 galestrina, debbono su quella indistintamente arrecare, come su piano impermeabile, le acque da cui sono interessati per imbi- bizione e per rete acquifera di fratture più o meno complicate. Si deve però osservare che la disposizione tettonica è evidentemente favorevole: pei calcari contraria per le arenarie, giacchè nei primi troviamo la pen- STUDIO IDROGRAFICO E GEOLOGICO DEI BACINI IMBRIFERI ECC. 55 denza dei diversi banchi concorrente a scolare le acque su detto piano impermeabile; mentre i banchi arenacei si presentano in generale con- tropendenti e talmente disposti da facilitare il deflusso delle falde d’acqua degl’interstrati nel versante del Chianti. Ad onta di ciò anche le are- narie smaltisecono buona parte delle acque d’imbibizione di cui sono capaci nel versante del Valdarno e specialmente lungo la linea di con- tatto con le formazioni marnose o galestrine, su cui evidentemente si rac- colgono per il carico delle falde acquifere degli interstrati e per il sistema consparso di fratture che gli interessano. La disposizione delle sorgenti che nascono da queste due formazioni, le arenarie ed i calcari, e la loro portata, in relazione con l’ estensione delle correspettive roccie imbrifere da cui provengono, dimostra |’ esat- tezza del concetto suesposto: infatti di contro allo sviluppo dei calcari, molto più limitato di quello delle arenarie in questo primo bacino, ab- biamo che le sorgenti dei primi presentano oggi una portata maggiore quantunque sia caratterizzata, come sempre avviene per le proprietà fisiche della roccia, da minore costanza d’efflusso e da magre più ac- centuate. Nel nostro versante le sorgenti delle arenarie sono invece meno po- tenti più numerose e più sporadicamente disseminate, ma di contro a questo sta la loro potenzialità complessiva e la portata notevolmente maggiore di ciascuna di esse nell’ opposto versante del Chianti. Ma veniamo al singolo esame diretto delle sorgenti del bacino di Coltibono e Saliceto. _ Le prime sorgive che si incontrano sono vari stillicidii lungo il fosso del Fringuello, che si fanno assai frequenti alle falde della formazione calcarea di M. Grossi ed interessano per la maggiore i detriti di frana e di falda accumulati lungo il fosso medesimo. Poco oltre la via provin- ciale a N. del ponte presso all’antica via senese, sgorga da un cumulo piuttosto potente di frana precipuamente costituito da marne rosee e ricoperto da detriti e massi di calcari screziati e compatti rotolati dal- l’alto, una sorgente. Presso questa furono tempo indietro praticati dei lavori di saggio che ne spostarono a monte la scaturigine. Indipenden- temente da questo efflusso artificiale, la sorgente seguita a sgorgare in carica fluendo dal basso all'alto. Questo dipende da chè la sua origine dalla roccia in posto trovasi un poco più in alto e certamente nei calcari o fra questi e l’arenarie che lì presso prendono sviluppo, mentre alla base degli uni e dell’altre sta la formazione marnosa e galestrina, 96 G. RISTORI Questa sorgente nel 6 aprile 1902 dava, misurata presso il fosso del Fringuello, ove si raccolgono tutte le acque che interessano la formazione detritica di falda, Litri 2 a minuto secondo ed una temperatura alla sca- turigine di 12 centigradi. Le sue acque sono alquanto incrostanti quindi piuttosto ricche in Ca CO. L’analisi potrà con esattezza determinarne la quantità e giudicare in concreto delle proprietà chimiche di queste acque sorgive. Volendo utilizzare questa sorgente abbisognano dei lavori di presa, i quali devono essere diretti alla ricerca della vera e propria scaturigine. Seguendo il corso delle acque sotterranee con un fosso longitudinale fino all’ incontro delle masse calcaree, questo ci condurrà sicuramente al punto d’efflusso dalla roccia in posto che con ogni probabilità sarà il calcare screziato presso il suo contatto colle arenarie e il suo riposo sulle marne - o sui galestri. Questo lavoro relativamente facile e spedito avrà l’effetto sicuro di raccogliere e riunire tutte le acque sorgive, ed ovviando alle perdite, potrà forse anche accrescere la portata della sorgente specialmente nelle magre estive, allorchè la diffusione nelle roccie detritiche non può che aumentarne la evaporazione e quindi le perdite. Dopo questa sorgente principale seguendo il corso del fosso del Frin- guello alla sua destra, da una lente di arenarie che si sviluppa in mezzo ai galestri manganesiferi scaturisce una sorgentella in buone condizioni. Essa proviene dalle arenarie e la roccia in posto è lì prossima, traversa però per poco tratto detrito di falda. La temperatura è 12 centigradi la portata il 6 aprile 1902 era di Litri 0,30 al minuto secondo. Le acque non sono affatto incrostanti e non giustificano nessun sospetto circa le loro proprietà chimiche. Un poco a monte lungo il sentiero per Valle Strana in piena forma- zione arenacea, presso due fossatelli affluenti del Fringuello, sì trovano due sorgenti l’una all’altra vicine, il Fontino ed il Fontone. Escono dalle arenarie in posto presso la formazione marnosa e galestrina e traversano pochi detriti. Le acque hanno 12 centigradi di temperatura non sono affatto incrostanti e presentano notevoli garanzie sotto ogni rapporto. Il Fontino al 6 aprile 1902 dava Litri 0,33 a minuto secondo, il Fontone Litri 1.67. Risalendo verso la fattoria di Coltibono presso la via troviamo la fonticella di S. Lorenzo, così nominata per un tabernacolo dedicato al Santo di cui pure sta presso un effige in arenaria molto degradata dal. tempo. Un’antica iscrizione latina su una tavola pure d’arenaria ci dice che STUDIO IDROGRAFICO E GEOLOGICO DEI BACINI IMBRIFERI ECC. 57 le acque sorgive disperse furono a quel luogo artificialmente ricondotte. Una muratura a nicchia forse ci rappresenta il punto artificiale di sca- turigine. Oggi la sorgente è raccolta per un doccetto ed attorno ad essa abbiamo stillicidii e perdite diffuse non indifferenti, il fosso stesso lì presso prende incremento d’acque sorgive lungo il suo corso ed in basso a Valle Strana ha considerevole portata. La sorgentella il 6 aprile 1902 dava Litri 0,16 di portata con 12 centigradi di temperatura. Procurando con un lavoro di presa d’interessare le arenarie da cui scaturiscono le acque potremo ottenere da questa sorgente una portata maggiore ed una costanza d’efflusso molto notevole. Un poco più a monte nel bel mezzo delle arenarie molassiformi che costituiscono il Poggio Martini (781) abbiamo una cavernetta artificiale praticata per la presa d’acqua che serve alla Fattoria di Coltibono. Il pozzetto di presa è alimentato da scaturigini che si manifestano in senso ascendente e che provengono probabilmente dai banchi delle arenarie, che per una delle tante pieghe d’assettamento, convergono con lieve pen- denza verso quel punto. Queste acque sorgive hanno una temperatura di 12 centigradi ed una portata che al massimo potrà giungere a Litri uno per minuto secondo. Nella regione arenacea di Coltibono abbiamo poche manifestazioni esterne di acque sorgive, mentre escavando pozzi nella roccia ad una profondità di 5 a 6 metri si trovano spesso acque abbondanti: infatti il pozzo nel cortile della Fattoria escavato proprio nelle arenarie è ali- mentato da una falda acquifera, assai potente e mantiene costantemente un’ altezza nelle sue acque di 2 ai 3 metri. Non è improbabile che con- simili escavazioni praticate nella massa arenacea di Poggio Martini sieno per dare buoni resultati, però entro certi limiti, giacchè la roccia im- brifera non presenta in generale molta estensione e la disposizione tet- tonica non è, come già accennammo, favorevole per il massimo deflusso delle acque sorgive nel nostro versante. Ad ogni modo consimili espe- rimenti praticati p. es. in corrispondenza della fonticella di S. Lorenzo potrebbero aprire un campo ad investigazioni speciali, i cui resultati pra- tici non saranno negativi. Le manifestazioni esterne delle acque sorgive si fanno invece più fre- quenti in basso presso il podere Valle Strana; qui il fosso stesso che scende da Poggio Martini va notevolmente arricchendosi d’acque ed una prima sorgente, in parte proveniente dai detriti di falda su cui si sono costituite le coltivazioni intensive, serve a parziale irrigazione e ad uso 58 G. RISTORI domestico della colonìa suddetta. La sorgentella il 16 aprile 1902 dava 12,7 centigradi di temperatura ed una portata, escluse le perdite, di Litri 0,20 a minuto secondo. A NE. della casa colonica verso monte, alla lente di calcare screziato che si sviluppa a sinistra del fosso che scende da S. Lorenzo succedono le arenarie mantenendo, uniforme, continuo e prevalente il loro sviluppo; solo più a valle ricompaiono i calcari screziati e poi l’imbasamento co- stante della formazione marnosa e galestrina. Fra i calcari e le marne si di- spongono a brevi intervalli, presso il sentiero che mena a Saliceto, una serie di sorgentelle delle quali le più importanti sono:1.° Lo stillicidio fra il bosco ed il campo a NE. della casa colonica di Valle-Strana. — 2.° La fontanella degli Alberini — 3.° La fonte dei Marroni di Riesci. Lo stilli- cidio esce dalle arenarie che sono quivi a contatto coi galestri manga- - nesiferi e subito interessa il detrito di frana ed ivi si perde. Alla me- glio fu potuta misurare la sua portata il 16 aprile 1902 e fu trovata di Litri 0, 25 a minuto secondo con una temperatura di 12 centigradi. Nelle condizioni attuali della sorgiva non sono possibili esatte misure e le per- dite non possono assolutamente evitarsi. Il facile lavoro occorrente per la ricerca della scaturigine naturale di queste acque dalle arenarie, ne- cessario per l’allaccio, facilmente accrescerà la potenzialità di questa sor- gentella che trovasi nelle migliori condizioni per essere utilizzata. La fonticella degli Alberini esce da un ammasso di terreni detritici che con poca potenza ammantano una depressione tettonica. Si presenta sul sentiero divisa in tre scaturigini diffuse per modo che difficilmente possono essere riunite per una esatta e complessiva misura. Ad onta di ciò si potè ottenere un getto riunito, che, non considerando le molte perdite, ci dette Litri 0, 20 a minuto secondo e la costante temperatura di 12 centigradi. Una trincea trasversale che interessi le attuali divise scaturigini potrà raccogliere facilmente le acque da un sol punto ed evi- tare le perdite. Procedendo poco a monte, sempre lungo il sentiero in una larga de- pressione di frana ammantata dai detriti delle arenarie che prendono a monte notevole sviluppo, esce una sorgente non lunge dalla roccia in posto. La sua portata notevolmente diminuita dalle perdite il 16 aprile 1902 era di Litri 0,33 con una temperatura di 9,5 centigradi. Questa sorgente che prende il nome dai Marroni di Riesci è a mio avviso degna di molta considerazione, perchè, allacciata alla sua scaturigine dalle are- - narie, potrà dare notevole e costante incremento d’acque sorgive stante STUDIO IDROGRAFICO E GEOLOGICO DEI BACINI IMBRIFERI ECC. 59 la disposizione stratigrafica locale dei banchi arenacei e stante la sua bassa temperatura che ne attesta origine profonda, e quindi una poten- zialità di carico assai notevole. Un'altra sorgente che alimenta un torrentello ricco di acque, assai discosta dall’ antecedente, si incontra lungo il solito sentiero in condizioni speciali di scaturigine, giacchè una piccolissima parte delle acque sorgive che interessano pochi detriti di falda vengono raccolte da un doccetto di legno, mentre la massima parte si espande e si riversa successivamente nel torrentello surricordato. La scaturigine dalle arenarie in posto non può essere che molto prossima e solo la folta vegetazione boschiva ne ha impedito l’accesso: infatti il torrentello poco a monte della via non ha acqua. Queste peculiari circostanze mi costrinsero a misurare la. por- tata di queste sorgive nel torrente medesimo che il 16 aprile 1902 fu trovata di Litri 0,70 al minuto secondo, mentre il termometro centi- grado al doccetto segnava 11 gradi. Per questa sorgente manca dunque di rintracciare il punto di scaturigine, ma nel resto si presenta in condi- zioni molto favorevoli sì per la temperatura come per la portata e per la potenzialità di carico che qui hanno le roccie imbrifere da cui è ali- mentata. Poco lungi da questa sorgente abbiamo il fosso della Forra o Croce alla Forra, che arreca notevoli quantità di acque sorgive raccolte lungo il suo semicono d’erosione operato nelle arenarie. Probabilmente il ca- rattere sporadico dei numerosi gemitivi non ci darà modo di potere effi- cacemente utilizzare la potenzialità sorgiva di questa plaga, che per la roccia inbrifera potrebbe essere di non scarso valore. Risalendo a monte, presso una mulattiera che si conosce col nome di strada di Firenze, ci si imbatte presso il culmine di spartiacque sopra a Porcigliano, sempre però nel versante nostro, in una profonda frana ab- bastanza recente, che ancora lascia scorgere le vestigia della fiumana da cui probabilmente fu travolta. Dall’ammasso detritico sgorgano ancora acque in abbondanza, ma la sorgente che di lì, a dire dei boscaioli, scaturiva è del tutto scomparsa. Il rintracciarla in un terreno così pro- fondamente franoso riuscirebbe malagevole e di dubbio resultato pratico; pur non tenendo conto delle gravi difficoltà che offrirebbero i lavori di presa. Non potendosi raccogliere i dati positivi sul valore di questa sor- gente e dovendo stare semplicemente alle informazioni, così spesso fal- laci ed inesatte, non credo opportuno prenderla per ora in considerazione altro che sotto il punto di vista della potenzialità sorgiva di questo ba- cino imbrifero. 60 G. RISTORI Più a valle verso Saliceto nel versantello solcato dal fosso che scende dalla suindicata sorgente oggi scomparsa, fra Campocorto e Lavatoio anzi a NE. di quest’ultimo casolare a valle della mulattiera che vi mena, abbiamo una estesa frana tutta interessata da acque sorgive che proven- gono poco a monte dalle arenarie in posto. La verdeggiante superficie costituita di terreno detritico ora limaccioso fa scorgere di lontano que- sta località. Il suo nome è quello di Acqua viva, nome significativo per indicare acqua perenne. Le scaturigini sono diverse ed incerte, ed espan- dono le loro acque all’intorno nel terreno di falda. Il fossatello a valle le raccoglie in parte, tanto che fu possibile misurarne la portata appros- simativa che il 16 aprile dava Litri 0,50 a minuto secondo con una tem- peratura di 12 centigradi. Lavori di presa simili a quelli proposti per la fonte dei Marroni di Riesci potrebbero utilizzare queste acque sorgive. in quantità sufficiente a dare un contributo non indifferente. Molto prossima a questa sorgente in una gola determinata da due elevazioni l’una d’arenarie (Monte-Palione) l’altra di calcari screziati (Marroni grandi) abbiamo due sorgenti, quella così detta del Sodo dei Marroni che interessa estesi ma poco potenti detriti di falda, e quella del Doccino di Lavatoio, che esce da un banco arenaceo fesso nel senso verticale. La prima che potrebbe utilizzarsi, il 16 aprile 1902, dava Litri 0, 45 a minuto secondo, la seconda Litri 0,33, la temperatura era in ambedue 12 centigradi. L'origine di queste due sorgentelle è forse co- mune. Le acque sotterranee seguono la linea di contatto fra le arenarie ed i calcari per cui il modo d’allaccio sarebbe facile e sicuro. Dal lato pratico bisognerebbe lasciare in disparte il Doccino di Lavatoio, perchè serve al casolare, ma si potrebbe utilizzare la fonte del Sodo dei Mar- roni che ha maggiore portata ed oggi espandendosi nel terreno detritico non serve ad alcuno. Facile riuscirebbe il rintracciarne la scaturigine, perchè i gemitivi attualmente si iniziano sulla linea di contatto delle arenarie in posto e dei calcari col terreno detritico, e ben si scor- gono i punti ove le acque sgorgano più abbondanti. Una trincea o fosso trasversalmente condotti ci indicheranno subito ove sono le naturali sca- turigini che probabilmente a poca profondità si fonderanno in una sola. Fra Lavatoio e Secciano comparisce un jatus di sorgive che a priori non trova plausibile spiegazione; tanto più che le propaggini del mas- siccio arenaceo di Monte Maione, prevalentemente costituite di arenarie presentano una superficie imbrifera molto importante. La pendenza dei banchi arenacei si volge a questo punto più decisamente ad O. e l’angolo STUDIO IDROGRAFICO E GEOLOGICO DEI BACINI IMBRIFERI ECC. 61 d’inclinazione è più piccolo, giacchè il clinometro segna 43 gradi ad 0.10°S. Queste caratteristiche tettoniche spiegano forse la povertà delle acque sorgive nel versante valdarnese, mentre sappiamo che queste sono assai abbondanti in quello chiantigiano e più precisamente in quello della Pesa, ove si volgono specialmente anche quelle del principale mas- siccio rappresentato da Monte Maione. Ad onta di ciò nel contiguo bacino imbrifero ed anche immediatamente sotto Monte Maione alla quota di circa 700 metri compaiono delle sorgenti irregolarmente disposte, le quali hanno un valore relativo per noi e poco si prestano per l’ ubicazione e per la distanza. Riepilogando brevemente l'esame che abbiamo fatto della massima parte delle sorgenti che si trovano nel bacino imbrifero di Coltibono- Saliceto dobbiamo concludere che delle 15 a 17 sorgenti studiate e misu- rate solo 11 dovrebbero e potrebbero essere utilizzate per la conduttura. La loro portata complessiva oggi ammonta a Litri 6,89 al minuto secondo così distribuita: Temperatura Portata Centigradi Litri al secondo 1. Fonte al Fringuello . . . . IO 2,00 2. Fontino dei Marroni a destra del torrentello nos nese e n. i 12 0, 30 SUONATO NI TE 12 0, 33 MBEGRLONe E CARE Riga e 19 JR: sglionte St Lorenzo, i iL 12 0, 16 6. Stillicidio di Valle Strana . . . 12 0, 25 igebonte degli Alberini =... 12 0, 20 8. Fonte dei Marroni di Riesci . . 95 0, 33 9. Fonte le forre al Docciolo . . . 11 0, 70 ioseBonte Acqua viva. 0, 4 12 0, 50 11. Fonte del Sodo dei Marroni presso RAvab010: Ti esa SMR 12 0, 45 Portata totale Litri al secondo 6,89 Questa considerevole portata dovrà essere notevolmente ridotta nelle magre estive, e per esperienze e misure fatte in anni addietro su alcune di queste sorgenti, e per le considerazioni geologiche ed idrografiche spe- ciali che abbiamo svolte non sarà esagerato contare su circa 3 Litri d’acqua a minuto secondo, 62 G. RISTORI II secondo bacino imbrifero, a monte di Secciano e di Casignano, che potrebbe anche prendere nome da S. Pancrazio, è prevalentemente costituito da formazioni arenacee, le quali a valle presso Secciano assu- mono un singolare carattere trasformandosi lentamente in scisti are- nacei alternanti con filari di arenarie e di marne grigie coltelline. Tutte queste roccie costituiscono una peculiare formazione promiscua che si in- cunea fra i banchi arenacei più sviluppati a monte e la formazione marnosa e galestrina. Presso questa ricomparisce il calcare screziato con sviluppo da prima più limitato poi sempre più notevole mano a mano che sì pro- cede a NO. verso Monte Pescinale ove il predominio dei calcari screziati e nummolitici sulle arenarie si fa assoluto e non più interrotto. I limiti laterali del bacino qui preso in esame sono determinati dai due contraf- forti su cui sono costruiti i villaggi di Secciano e di Casignano. Lungo - questi contrafforti da valle a monte si succedono le formazioni che ab-' biamo enumerate e bene si vede come le marne, i galestri ed i calcari, per limitato che sia lo sviluppo di quest'ultimi, sono in discordanza con le are- narie nel modo stesso e colla stessa disposizione stratigrafica che notammo nel bacino di Coltibono. A monte le arenarie riprendono l’inclinazione ad O. 23° S. ma il clinometro segna in molti punti anche un immersione di 40 gradi. Strette pieghe d’assettamento che sembrano perfino ribal- tate si notano presso la Petraja (quota 768). La vicinanza dei calcari screziati ed i loro notevoli scoscendimenti non avranno avuta influenza negativa nel peculiare assettamento stratigrafico delle arenarie nella limitata plaga qui presa in esame. Resulta quindi che la roccia imbrifera in questo bacino è prevalentemente costituita dalla zona superiore delle are- narie e più in basso da quelle scistose, a lasso cemento calcareo argilloso, alternanti coi galestri e specialmente colle marne grigie coltelline. L’imba- samento di queste roccie marnoso-arenacee con la zona delle marne rosee e dei galestri si fa più a valle, e non è su questo contatto che abbiamo il principale deflusso delle acque sorgive, le quali principalmente si accumulano in quella zona intermedia che dicemmo costituita dalla for- mazione promiscua di arenarie di scisti arenacei e di marne coltel- line, le quali ultime possono ben fare da diaframma impermeabile. Per questa costituzione geologica ed anche per quella tettonica si può spie- gare bene come in questo bacino la maggior parte delle sorgenti si trovi ad una quota altimetrica superiore a quella comunemente occupata dalle marne rosee e dai galestri, che nel primo bacino costituivano il piano impermeabile ove accoglievasi la più cospicua falda acquifere STUDIO IDROGRAFICO E GEOLOGICO DEI BACINI IMBRIFERI ECC. 63 originata dalle arenarie e dai calcari. Lo stesso villaggio di Secciano non trovasi in condizioni molto propizie di avere acque sorgive abbondanti, ed è costretto servirsi di sorgenti quasi direi artificiali, che si otten- nero interessando più o meno profondamente gli scisti arenacei ove qua e là, presso il contatto colle marne grigie coltelline presentano stillicidii più o meno diffusi ed abbondanti. Lungo questa linea altimetrica infatti non riscontriamo che acque sorgive consimili senza mai vedere una vera e propria sorgente degna di tal nome almeno per la sua portata. Lo smaltimento di questo. bacino e della massa arenacea, sviluppata più a monte, si fa assai più in alto da dove prendono generalmente origine i fossi o torrentelli montani, i quali avendo coi loro semiconi erosivi assai profondamente interessata la zona arenaceo-galestrina, su cui dicemmo accogliersi la falda d’acqua proveniente dalle vere e proprie arenarie, si presentano molto ricchi di acque ed accrescono con notevole rapidità ed in un percorso relativamente molto breve la loro portata. Uno di questi torrentelli è quello di Casignano l’ultimo più a NO. che affluisce al torrente che solca la depressione orografica fra S. Pancrazio e Casi- gnano. Del resto anche gli altri due, che confluiscono più a valle e prendono origine quasi al vertice di spartiacque sopra Secciano, hanno acque perenni ed abbondanti senza che la loro origine si inizii da una vera e propria sorgente. L’eccezionale abbondanza di acque recate dal primo torrentello de- scritto ( 15 Litri a minuto secondo senza calcolare le molte perdite) mi consigliò a risalire il torrente fino alle sue origini. In questa escursione mi potei convincere della potenzialità sorgiva della località e nello stesso tempo, assai in alto, si trovarono un gruppo di sorgenti o meglio una zona acquifera molto importante ed in condizioni tali da essere facilmente sîiuttata con notevole profitto. Poco sotto Monte Pratilungo (quota 768) una leggera depressione tettonica ed in parte anche erosiva, ammantata da un detrito di falda molto esteso ma poco potente, determina l’ origine principale del torrentello di Casignano. Quivi si trovano alcune sorgenti, ma quello che più interessa un terreno profondamente limaccioso e ricco d'acque, le quali mano a mano che si sprofonda il letto del torrentello a quello fluiscono con crescente misura. Queste caratteristiche, pure comuni a tutta la zona montana delle arenarie le quali costituendo la porzione frontale di questo secondo bacino imbrifero e per ragioni tettoniche più volte ripetute smaltendo precipuamente nel versante del Chianti la loro potenzialità sorgiva, limi- tarono le nostre ricerche alla zona più alta in cui si trovano 9 sorgenti. 64 G. RISTORI La prima deve considerarsi quella prossima a Secciano, la quale, come già accennammo, consiste in una raccolta d’acqua artificialmente determinata interessando le roccie arenacee con una escavazione poco profonda praticata in corrispondenza di uno dei più abbondanti stillicidii che a brevi intervalli si succedono in quella zona. La temperatura di queste acque è di centigradi 11,5 ma la portata non può misurarsi non avendo la sorgente efflusso esterno. La seconda sorgentella poco più in alto è determinata da uno stil- licidio che si manifesta lungo il sentiero che conduce al vertice di spar- tiacque. Queste acque sgorgano da detrito di frana quantunque eviden- temente provengano dalla zona superiore delle arenarie. La loro tem- peratura è centigradi 12, con una portata approssimativa di Litri 0,12 a minuto secondo. Il villaggio di Secciano potrebbe profittare pure di queste acque praticando presso lo stillicidio una raccolta artificiale, molto più che nelle magre le sorgive più prossime ed attualmente utilizzate si mostrano insufficienti ai bisogni. Più a monte ancora in testa al semicono d’erosione di uno dei prin- cipali torrentelli montani di questo bacino, abbiamo una sorgentella a cui fa seguito un detrito di falda limaccioso e ricco di acque. Il torren- tello prende da queste notevole incremento ed accresce in breve tratto la sua portata, la quale diviene notevolissima nel punto ove è traver- sato dal già indicato sentiero. Le misure di queste acque non furono potute eseguire per le speciali e difficili condizioni in cui le sorgive si trovano e per il loro sporadico deflusso, mentre sarebbe stato se non inutile superfluo il rendersi conto della portata complessiva del tor- rentello. : La quarta sorgente dell’ Albola o Petraja, pur non essendo situata nel nostro versante ma in quello del Chianti, appartiene per la sua ubicazione assai a monte alla zona imbrifera delle arenarie superiori se pure non riceve una parte d’acque sorgive provenienti dai calcari scre- ziati che già prendono un prevalente sviluppo a NO. di Petraja. Questa sorgente che dà origine ad uno dei torrentelli montani della Pesa è fra le maggiori, e perchè fluisce nel senso della pendenza delle masse are- nacee ne rappresenta il principale coefficiente di smaltimento ; come del resto lo attesta la sua notevole portata che si mantiene abbastanza alta anche nelle magre. Sgorga presso il sentiero che conduce a Petraja sotto un culmine segnato nella carta con la quota 704. Per la sua vici- nanza ai bacini imbriferi di Cafaggiolo e della Vena si pensò di poterla STUDIO IDROGRAFICO E GEOLOGICO DEI BACINI IMBRIFERI ECC. 65 aggiungere a queste sorgenti; ma essendo all’uopo necessaria una gal- leria di qualche chilometro, in roccie di carattere franoso come sono i calcari poggianti sulle marne rosee e le marne rosee stesse, non ci sembra oggi opportuno utilizzarla per la nostra conduttura che può meglio es- sere alimentata dalle sorgive che si trovano nel nostro versante. Non insisto ulteriormente a dimostrare la poca convenienza di simile lavoro che io scarterei come inadeguato ai vantaggi che se ne potrebbero otte- nere aumentando di 2 o 3 Litri al secondo la portata della nostra conduttura, mentre altrettanta acqua sorgiva puo attenersi con allacci più numerosi, ma più semplici fatti per le sorgenti del nostro versante che vado a descrivere. Già accennai come il torrentello di Casignano si mostri ricchissimo di acque e come esso nasca a monte da una depressione in parte tettonica in parte erosiva completamente interessata dalle acque. In questa plaga si trovano anzi tutto tre sorgentelle e due stillicidii che impregnano alcuni detriti di falda. La prima di queste sorgentelle assai a monte sul comodo sentiero che conduce a Casignano sgorga quasi sulla via e subito defluisce nel fosso surricordato. Esce da una profonda fessura delle arenarie a destra del torrentello, ha una temperatura di centigradi 11 ed una portata (16 aprile 1902) di Litri 0,60 a minuto secondo. I lavori di presa per questa sorgente non possono essere di grande importanza. Un’ escavazione nella roccia arenacea in posto potrà accogliere in un pozzetto di presa convenientemente murato tutte quante le acque che è capace di dare. i Le altre due sorgentelle, che si trovano un poco più a monte quasi sul limitare del deposito detritico che ingombra, con notevole esten- sione ma poca potenza, la depressione surricordata, sgorgano a pochi metri l’una dall’altra dal detrito di falda, ma lì a poco si vede com- parire la roccia in posto. Si conoscono col nome di fontini di Berci. Le loro acque che, attese le molte perdite, non si possono misurare diretta- mente alle scaturigini, immediatamente si raccolgono nel fosso vicino ed ivi riunite il 16 aprile 1902 davano Litri 2,20 a minuto secondo, ed ai fontini l’acqua aveva una temperatura di 11 centigradi. Poco più a valle, avanti di giungere alla prima sorgentella descritta che sgorga presso la via mulattiera per Secciano, troviamo ai due lati del solito torrente due stillicidii che invadono estesamente i detriti di frana e costituiscono un terreno limaccioso che dà acque da ogni parte. Ben presto queste si riversano nel torrente, il quale dopo averle ricevute 66 G. RISTORI aumenta del doppio la sua portata. La temperatura delle acque stillanti è circa 12 centigradi, ma nel loro percorso per quanto breve, hanno certamente modo di riscaldarsi. È a credere quindi che quest’acque, non possano per le loro proprietà fisiche e chimiche essere in nulla differenti da quelle dei fontini di Berci li prossimi. L’ utilizzare la potenzialità sorgiva di questa zona mi sembra per il caso nostro molto utile ed opportuno, sì perchè con un fosso e trincea di sbarramento possono raccogliersi molte acque con poco dispendio, sì perchè riesce facile e spedito muovere da questo punto un braccio di conduttura che, sviluppato sul comodo sentiero per Secciano, presto raggiunga i pressi di quel villaggio ove pure dovrebbe fare capo la con- duttura principale delle sorgenti di Cafaggiolo e della Vena. Ad ogni modo per non invadere campo non mio, mi affretto al rie- - pilogo delle sorgenti di questo bacino che secondo le esposte conside- razioni potrebbero utilizzarsi. Solo cinque delle nove passate in rassegna mi parrebbero atte a dare incremento vantaggioso alla nostra condut- tura sì per la qualità come per la quantità delle acque. Queste cinque sorgenti oggi hanno in complesso una portata di Litri 4,05 a minuto secondo così distribuita: Temperatura Portata Centigradi Litri a secondo 12. Sorgente sulla via mulattiera per Secciano a destra del torrente . . 11 0, 60 15. Stillicidio e pollino di frana. . . 196 1,00 TR ASRrimosfontimnog dif .erc o 11 susa 14. Secondo fontino di Berci. . . . 11 “al 16. Stillicidio a sinistra del torrente e Pollinogrelativo Reese sane 12 0,25 Totale portata Litri al secondo 4, 05 Tutte le considerazioni che ho svolte, sì nella parte generale, come in questa speciale descrittiva, concordano a farci ritenere questo bacino e le singole sorgenti prescelte in condizioni assai buone, sia per le roccie imbrifere che le alimentano, sia per la loro ubicazione, sia per le spe- ciali caratteristiche tettoniche della limitata zona che le comprende. Ad onta di ciò non possiamo pretendere che la portata odierna, dopo un. Sì piovoso inverno possa mantenersi costante, o poco risentire delle magre, per cui sarà ragionevole ridurre il minimo di portata complessiva da 4 STUDIO IDROGRAFICO E GEOLOGICO DEI BACINI IMBRIFERI ECCO. 67 a 2 Litri al minuto secondo. Questa notevole riduzione, in questo bacino e per le sorgenti prescelte è probabile non sia mai raggiunta, molto più che lungo il sentiero per Secciano esistono altre sorgentelle tutte in condizioni d’ubicazione molto opportuna per una facile immissione di esse nella conduttura principale. Ma se questo non bastasse i lavori di presa presso i fontini di Berci ripromettono un aumento di portata non indifferente, che necessariamente influirà e modererà con sensibile van- taggio l'abbassamento di massima magra. Il terzo bacino imbrifero o bacino della Vena e di Cafaggiolo ha carattere più uniforme degli altri fin qui esaminati. Per vastità poco differisce da quello contiguo di Secciano e Casignano ed è al pari di questo limitato lateralmente da due contrafforti perpendicolari alla dire- zione della catena chiantigiana che includono il borro di Pianale e delle Masse che scende a Castelnuovo dei sabbioni. I torrentelli che conver- gono fra il Casino e Maestrino alla quota altimetrica di circa 400 metri si dispongono a ventaglio ed i loro coni erosivi prima interessano pro- fondamente le marne rosee ed i galestri e più a monte le frane dei calcari sereziati e finalmente i calcari medesimi. Si contano ben cinque torren- telli che hanno eroso le roccie fino quasi al culmine di spartiacque; ma specialmente si sono sprofondati nei detriti franosi e nelle marne rosee e galestrine presso il cui contatto con i calcari si notano le mag- giori sorgenti. Queste precipuamente alimentano i torrentelli suindicati e ne rendono incessante la loro azione erosiva. Il carattere litologico della formazione imbrifera più interessante è dato dai calcari screziati e nummolitici, i quali costituiscono tutti quanti i rilievi più a monte lasciando che le marne ed i galestri, su cui evidentemente riposano, si sviluppino solo alla quota di circa 500 metri, mentre essi toccano quella di 756-777-761 a Monte Cafaggiolo, a Monte Pescinale ed a Monte Piano Orlando. Fra i veri e propri calcari screziati ed i galestri si adagia una formazione promiscua di marne rosee e di massi ingenti dei cal- cari medesimi probabilmente franati dall’alto. Questo peculiare giaci- mento, che avrebbe per il suo carattere promiscuo tutta l’apparenza di terreno di frana, in alcune trincee naturali ed artificiali si presenta come stratificato con alternanze successive di marne rosee e di massi di cal- care. Siccome è ormai dimostrato che le marne ed i galestri sono stra- tigraficamente inferiori ai calcari non può implicitamente ammettersi un’alternanza ed una promiscuità senza ricorrere alla plausibile spiega- zione che questi giacimenti abbiano origine relativamente molto antica Sc. Nat. Vol. XIX 5 68 G. RISTORI da estesissime frane e scoscendimenti che interessarono largamente tutta la regione sconvolgendo in parte la successione stratigrafica, le pieghe tettoniche ed orogenetiche, e prendendo da per sè un assettamento speciale che oggi simula una successione ed un’ alternanza estrinseca all’origine ed alla formazione delle singole roccie cronologicamente distinte. Ad ogni modo questi terreni rimpetto al regime sotterraneo delle acque che pos- sono interessarli non hanno da considerarsi come detritici di frana e di falda ma sibbene come roccie in posto che hanno insita quella compattezza e continuità di struttura da esercitare sulle acque che le traversano un'azione filtrante comparabile a quella esercitata dai calcari nelle in- tricate fratture che dicemmo riempite da materiali clastici di decomposi- zione provenienti dalla roccia medesima per l’azione delle acque carbo- nate. Ma neppure in questa regione ed in questo bacino mancano le - formazioni detritiche di frana e di falda, le quali più frantumate e più ’ confusamente disposte nel loro precario assettamento e nei loro ele- menti rocciosi si lasciano troppo facilmente riconoscere. Questi terreni detritici però nel bacino di Cafaggiolo e della Vena prendono sviluppo assai più a valle della zona ove sgorgano le maggiori sorgenti. Ad onta di tutto ciò, mi permetto di ripeterlo, la roccia imbrifera di questo bacino è principalmente rappresentata dai calcari screziati e dalle breccie nummolitiche che vi assumono un notevole sviluppo. Queste for- mazioni che regolarmente si succedono dal basso all’ alto, in senso altimetrico e stratigrafico, hanno varia potenza, maggiore i calcari screziati sottostanti, minore assai le breccie nummolitiche superiori. I banchi del calcare screziato si presentano con inclinazione di 25 gradi a SE. e discordano con le marne rosee e coi galestri che si immergono nella opposta direzione, ma con pendenze che s’avvicinano molto a rad- drizzamenti sulla verticale senza escludere pieghe strette ed anche ribal- tate specialmente ove compaiono le pendenze degli strati molto meno sentite ed invertite nell’orientamento stratigrafico, come può vedersi presso la Vena. La lieve pendenza dei calcari screziati specialmente nella regione più alta e la continuità dei banchi, che appariscono spesso denudati dall’e- rosione, pone in evidenza che questa formazione non è stata così pro- fondamente interessata e sconvolta dai cedimenti e dagli assettamenti della zona marnosa e galestrina sottostante; o per lo meno questi feno- meni ebbero effetti grandiosi e continui solo in tempi assai remoti, . quando si costituirono e si assettarono quei terreni promiscui di cal- STUDIO IDROGRAFICO E GEOLOGICO DEI BACINI IMBRIFERI ECC. 69 cari o di marne rosee franiformi di cui già tenemmo parola. Al pre- sente i cedimenti e le frane sono in periodo d’arresto forse determinato dalla stessa formazione pedemontana promiscua che serve alle sopra- stanti roccie come di base e di sostegno. I banchi dei calcari screziati si presentano qui ben poco dislocati e le fratture che li interessano, per quanto numerose ed intricate, pure non sono in generale molto aperte. Ad onta di ciò esistono qua e là delle cavità formate dalle acque carbonate e da esse incrostate, che ci mostrano la costante natura cavernosa e meandriforme di simili formazioni, le quali per quanto profondamente modificate da un complesso di fenomeni intrinseci ed estrinseci alla loro natura, pure sempre mantengono certi caratteri che devonsi tenere presenti dal geologo che studia queste roccie in rapporto all’idrografia sotterranea e dall’idrologo che deve avere di mira le pro- prietà chimiche delle acque. Ad ogni modo richiamo qui una osserva- ‘ zione che ebbi occasione di fare nella parte generale di questo lavoro, quella cioè di usare sempre prudenza somma nella scelta delle sorgenti che provengono da queste roccie, nulla trascurando per assicurarsi in modo assoluto che le acque sorgive non vengano mala mescolarsi e ad inquinarsi per acque superficiali che si aggiungano ad esse per la via di aperte fratture. Le esperienze di colorazione estese ad una zona relati- vamente ristretta a monte delle scaturigini che si vogliono utilizzare, sarà sempre un provvedimento prudente che non dovrebbe essere trascurato. Ed a questo proposito non si obietti che l’analisi chimica e batterio- logica potrebbe, opportunamente ripetuta, indirettamente assicurarci della non esistenza assoluta degli inquinamenti esterni, perchè è ormai dimo- strato dalla esperienza che simile teoria è spesso riuscita fallace ed è stata a volte smentita dalle esperienze medesime che mi è parso in- dispensabile proporre. Il pericolo esiste in astratto, bisogna assicurarsi che in ogni caso possa o meno verificarsi. Il bacino imbrifero della Vena e di Cafaggiolo è provvisto di 7 sor- genti fra cui due molto importanti e degne di diligente studio. Procedendo con ordine topografico la prima di queste sette sorgenti che si riscontrano è quella conosciuta col nome di fontino del Felciaio. Questa sorgentella giace in un’ insenatura erosiva dovuta ad uno dei soliti torrentelli montani e scaturisce da alcune fessure che interessano un banco assai potente di calcare screziato. L’efflusso all’esterno non è riunito, ma la roccia in posto presenta per un estensione frontale di circa 5 metri abbondanti gemitivi che, interessando immediatamente al- 70 G. RISTORI cuni detriti di falda, vanno lì a poco a riunirsi nel torrentello, il quale solo da questo punto scorre con acque perenni più o meno abbondanti. Il 9 aprile 1902 si potè riscontrare una portata, non comprese le note- voli perdite, di Litri 0, 25 con una temperatura di centigradi 10. Le condizioni di carico di questa sorgentella sono in tutto simili a quelle della Vena lì prossima e pochi e facili lavori di presa intenti a remuo- vere i detriti di falda ed a mettere a nudo il più profondamente pos- sibile il calcare screziato che presenta molteplici e diffusi gemitivi, dei quali buona parte se ne perde nelle stesse intricate fratture della roccia imbrifera, ci daranno un certo aumento di portata, che potrà servire a compensare le sensibili diminuzioni probabilissime nelle magre. Fra il fontino del Felciaio e la sorgente della Vena comparisce un tor- rentello di immediata origine con acque sorgive che vi affluiscono dai - calcari screziati, i quali presentano su questa linea molte rotture sempre interessate da numerosi e spesso abbondanti gemitivi. È evidente che questa zona che pure comprende la sorgente della Vena è ricchissima di acque sorgive e forse la potenzialità di questo bacino si smaltisce, per peculiari condizioni geotettoniche e per caratteri fisici delle roccie, prin- cipalmente in questa plaga. Il torrentello dà Litri 0, 25 a minuto secondo ed una temperatura di 12 centigradi. La temperatura però non è cer- tamente quella delle acque sorgive che non possono essere direttamente misurate alla scaturigine. Essa all’efflusso deve trovarsi assai inferiore e non vi è ragione alcuna perchè non sia identica a quella del fontino del Felciaio ed a quella della Vena. Questi stillicidii potranno io credo fa- cilmente essere utilizzati interessando la roccia calcarea con qualche trincea più o meno profonda, la quale potrà svilupparsi in ragione del- l'utilità pratica che potremo giudicare dagli effetti immediati ottenuti dai primi saggi e dalle prime escavazioni. Ed eccoci alla Vena. — Questa sorgente che è da inscriversi fra le principali fluisce da una spaccatura piuttosto ampia che deve profonda- mente interessare i calcari screziati sviluppatissimi in questa regione e spesso contradistinti da fratture e da cavernosità. Il suo efflusso è pros- simo al sentiero che conduce a Cafaggiolo un poco a monte di esso. Quando la visitai fu necessario aprirsi la via fra una folta macchia di spine che la celavano e rendevano oltremodo difficile l’accesso alla vera scaturigine dalla roccia in posto. Superate queste prime difficoltà potei vedere come la sorgente sgorgasse in carico, e l’acqua fluisse dall’alto al basso con una spinta assai notevole. Il fatto ha, secondo me, molta STUDIO IDROGRAFICO E GEOLOGICO DEI BACINI IMBRIFERI ECC. 71 importanza per giudicare della vera origine di queste acque sorgive. Non molto a valle nè molto lungi dalla scaturigine affiorano le for- mazioni marnose e galestrine su cui dicemmo appoggiarsi i calcari scre- ziati. La disposizione stratigrafica delle marne rosee e più specialmente quella dei galestri manganesiferi che compaiono poco a valle nel con- trafforte a destra del torrentello del Felciaio è quasi concordante con quella dei calcari screziati stessi e per giunta presenta una lieve inclina- zione. È per tal modo che il piano degli strati marnosi e galestrini tro- vasi nelle più propizie condizioni per fare da piano impermeabile su cui facilmente possono raccogliersi le falde acquifere. D’altro canto i calcari screziati coi loro potenti banchi presentano un’immersione a SSE. di 35 gradi, che deve necessariamente coadiuvare il deflusso delle acque che interessano gl’interstrati e le fratture sul piano suindicato delle marne. Tutto questo concorre efficacemente a rendere ben ricca questa plaga di acque sorgive e bene spiega come accogliendosi masse di acque no- tevoli sul diaframma impermeabile al riposo della roccia imbrifera (cal- cari screziati) e non potendo facilmente per peculiari ragioni e circo- stanze sgorgare all’esterno sulla linea di contatto delle due formazioni surricordate, esse acque risalgono in carica per le fratture stesse dei calcari sovraincombenti e ne escono per quelle medesime all’ esterno. La portata della Vena al 9 aprile 1902 era di Litri 3 a minuto se- condo con una temperatura all’ efflusso di centigradi 10. Questa bassa temperatura che pure tale abbiamo trovato per il fontino del Felciaio depone molto favorevolmente per questa sorgente e per tutte quelle ad essa vicina. Discorda però con la portata di magra che fu dall'ing. Mor- FEO MORFINI, nell’agosto del 1897, trovata di litri uno a minuto secondo. Riferendosi però alle osservazioni ed alle considerazioni idrografiche, che per il modo speciale d’efflusso di questa sorgente credetti rilevare, si può nell’ abbassamento della falda d’acqua, rispondente alla magra estiva, trovare la ragione della notevole riduzione di portata in questa sorgente che in ultima analisi ci rappresenterebbe un sifone in carica alimentato dallo strato acquifero giacente sul piano impermeabile delle roccie mar- nose e galestrine. Allo stato dei fatti non occorrono per questa sorgente lavori speciali di presa, il solo consigliabile sarebbe quello d’abbassarne di alcuni metri il punto d’efflusso per vedere se con questo potessimo ottenere una ca- rica più costante e quindi una magra meno accentuata. Trovo anche superfluo il ritornare sulla questione della ricchezza di queste acque 72 ' G. RISTORI sorgive in sali calcari e sulle loro proprietà incrostanti come pure sui probabili inquinamenti per acque esterne. Di tutto questo tenni parola e ne proposi già le precauzioni da prendersi avanti di dare un giudizio assolutamente inappellabile sul valore di questa sorgente, che oggi giu- dicherei se non ottima certamente buona ed atta a darci notevole in- cremento. A NO. della Vena ed assai più a monte si trovano le sorgenti di Cafaggiolo, le quali escono da quella singolare formazione pedemon- tana di frana che ha riunite e confuse le marne rosee con i calcari scre- ziati rotolati dall’alto. L’assettamento speciale di queste roccie di cui già tenni parola, garantisce sufficientemente dagli inquinamenti dell’ acque superficiali e da quelle freatiche di frana e di falda e pone dette sor- genti nelle migliori condizioni. Oltre a ciò il passaggio delle acque, che evidentemente provengono dai calcari screziati, attraverso alla sudescritta formazione caotica costituita dai detriti delle marne rosee e dei calcari - e più da quelle che da questi, le sottopone ad una seconda filtrazione e ad una decalcificazione così sensibile da togliere ad esse buona parte del Ca CO? disciolto, riducendo questo sale a proporzioni tali che le acque sgorganti all’esterno non lasciano incrostazioni di sorta. In questa plaga è da notarsi un sempre crescente sviluppo delle formazioni galestrine ed una correspettiva riduzione dei calcari screziati, per modo che questa presunta roccia imbrifera quivi presenta una po- tenzialità sorgiva ridotta di fronte a quella della Vena. Le due sorgenti di Cafaggiolo forse riunite al loro primitivo deflusso dalla roccia in posto, entrando nella zona franosa antica, hanno in questa modo di separarsi e sgorgare l’una all’altra vicina forse depauperate di una certa quantità di acque le quali fino sul ciglio del fosso di Pianale interessano i ga- lestri ed i detriti di falda più recenti. Le due sorgenti riunite davano il 9 aprile 1902 Litri 1,67 al minuto secondo, con una temperatura di centigradi 11,5. Alcune escavazioni fatte presso l’efflusso hanno posto in evidenza la singolare natura e di- sposizione del terreno da cui escono le acque sorgive. Un escavazione meglio intesa più sviluppata in profondità ed in superficie, che interessi tutto il terreno di antica frana costituito da un rilievo la cui sezione frontale può misurare circa 50 metri, facilmente riunirebbe tutte le acque sorgive di questa plaga in una sola scaturigine evitando altresì la mag- gior parte delle perdite che ora sono notevolmente diffuse e non facili a . calcolarsi nella loro entità. STUDIO IDROGRAFICO E GEOLOGICO DEI BACINI IMBRIFERI ECC. 73 Ad ogni modo dal complesso di queste considerazioni e vista la natura speciale delle roccie imbrifere principali (calcari sereziati) e quella delle secondarie (detritì precipuamente marnosi di antichissime frane nuova- mente ricomposte e rese compatte) le magre a cui potranno essere soggette queste sorgenti non potranno essere con ogni probabilità sensibili quanto quelle della Vena. Presso queste due sorgenti principali da un detrito di falda su cui stanno i terreni a cultura del podere di Cafaggiolo abbiamo uno stillici- dio diffusissimo che probabilmente è da ascriversi a perdite e deviazioni delle sorgenti suddette per cui non mi sembra il caso di parlarne espres- samente. Un ultima sorgiva ci è rappresentata dalla fonte della Giuncaja che giace presso la via mulattiera di Cajano alle falde di Monte Piano-Or- lando (quota 761). Anche queste acque, che sgorgando in senso ascen- dente formano un laghetto, provengono dai calcari del rilievo surricordato. Fluiscono all’esterno in carica, nello stesso modo e per l’identiche ragioni che ebbi occasione di esporre dettagliatamente per la Vena. Le marne rosee ed i galestri che di lì a poco assumono un prevalente sviluppo ap- punto ci rappresentano il piano impermeabile su cui si accoglie la falda aquifera che con ogni probabilità alimenta dal basso all’alto la sorgente. L'ubicazione di questa sorgiva e la sua portata non molto notevole (9 aprile 1902 Litri 0,40 a secondo, temperatura 12 centigradi) mi di- stolgono dal proporla per essere allacciata alla conduttura che dovrebbe iniziarsi alle fonti di Cafaggiolo. Resterà ad ogni modo come riserva non priva d’interesse e sempre atta a dare un non trascurabile incremento essendo le sue condizioni molto simili a quelle che furono poste in evi- denza per le acque della Vena. Le 5 sorgenti che da questo bacino imbrifero potrebbero essere pre- scelte ed utilizzate con notevole vantaggio danno una portata complessiva di litri 5,17 a minuto secondo così distribuita : Temperatura Portata Centigradi Litri a secondo RornimodeleFelciaio: tei 0. . 10 0, 25 Fontanella e stillicidio presso la Vena. 12 0, 25 EATER RSI O RC E DE CAZIANA 10 3, 00 Fonte prima di Cafaggiolo. . . . Mb Fonte seconda di Cafaggiolo . . . LIS ui Portata totale al secondo Litri 5,17 T4 G. RISTORI Questa portata oggi (9 aprile 1902) così notevole deve essere molto ridotta nelle magre, tanto più che la roccia prevalente, in questo bacino, è rappresentata dai calcari screziati e dalle breccie nummolitiche che minutamente esaminai sotto il punto di vista del loro valore imbrifero. Ad ogni modo io credo che si possa sempre calcolare su un minimo di Litri 2 a minuto secondo; giacchè lo sviluppo della conduttura libera da Cafaggiolo a Casignano può darci favorevoli opportunità di facili e spe- diti allacci di sorgentelle secondarie, le quali potranno ad ogni peggiore ipotesi compensare ad usura magre e perdite più sensibili delle previste; per quanto queste siano state calcolate con una riduzione che @ priori avremmo diritto di ritenere eccessiva. Riepilogando finalmente le portate di tutte quante le sorgenti pre- scelte, delle quali eseguimmo le misure il 6, il 9 ed il 16 aprile 1902 queste ci danno un complessivo di Litri 16,11 a minuto secondo che nelle magre estive calcolai ridotto a Litri 7, sembrandomi questa riduzione abbastanza notevole anche in casi eccezionali di prolungate siccità. Ad onta di ciò mi riserbo di ripetere gli esperimenti di misurazione nella secca stagione per procedere con le debite cautele avanti di pronunziarmi definitivamente sulla scelta delle diverse sorgenti che dovrebbero fornire le acque potabili da condursi a Montevarchi. Alla fine di questo studio mi è grato ricordare il dott. Canuto Rrz- ZATTI già R. Commissario di Montevarchi, il quale affidandomelo, mi diede modo d’illustrare sotto il punto di vista idrografico un interes- sante regione che potrà con profitto essere utilizzata. Eguale sentimento di riconoscenza mi fa rammentare il dott. Gru- sePPE PARIGI e l’ing. Morreo MORFINI, che mi furono graditi ed utilis- simi compagni nelle escursioni, coadiuvando con tutti i mezzi l’opera mia e gli studi analitici di campagna che mi convenne di fare. A tutti rendo sentiti ringraziamenti. APPENDICE ee OSSERVAZIONI SULLE ACQUE FREATICHE IN RAPPORTO ALLA NATURA E DISPOSIZIONE DELLE DEPOSIZIONI FLUVIALI DELL'ARNO VALDARNO SUPERIORE La relativa povertà di acque sorgive dei monti che limitano e cin- gono il bacino del Valdarno superiore e la notevole distanza di questi dalla pianura alluvionale dell'Arno, specialmente dovuta all’ interposi- zione delle estese e potenti formazioni plioceniche pedemontane, altre volte fece nascere l’idea di profittare delle acque del sottosuolo onde approvvigionare di acque potabili 1 più popolosi paesi. I comuni pozzi di cui in generale oggi sono provviste le abitazioni di questi paesi non rispondono più all’ esigenze ‘della igiene, giacchè gl’inquinamenti per le sostanze organiche, delle quali è ormai ricchissimo il sottosuolo immediato, troppo influiscono sulla natura delle acque frea- tiche che li alimentano. Queste speciali condizioni in cui ci troviamo nel Valdarno superiore e la tendenza che i profani hanno di generalizzare e di applicare ovun- que i dettami ed i ritrovati della scienza, partendo dal concetto che gli esperimenti e le applicazioni riuscite in una data regione non possano, per analogia, mancare in altre, influirono a diffondere la pratica di ricercare anche da noi le acque potabili per mezzo di trivellazioni artesiane. Ne furono praticate dai Comuni e perfino dalla Società delle ferrovie Adria- tiche. Io stesso interpellato direttamente ed indirettamente ne previdi i resultati pratici, ma indarno ne sconsigliai coscienziosamente l'esecuzione, solo riuscii forse a ridurne il numero, mentre le difficoltà pratiche da una parte ed il dispendio dall’ altra ne limitava lo sviluppo in profondità. Facile profeta, allora predissi che le acque della lama freatica delle alluvioni recenti del fiume Arno potevano in certe speciali località e circostanze riuscire se non ottime discrete come acque potabili. Le più 76 G. RISTORI profonde invece che interessavano le formazioni plioceniche rispondenti a quelle che costituiscono il sistema collinesco pedemontano sarebbero state generalmente ricche di elementi e sostanze organiche vegetali, di sali metallici e terrosi, ed avrebbero contenuto ed anche tenuto sospesi elementi silico-alluminiferi (argille smettiche) in tale quantità da riuscire impotabili per il gusto e per la velata loro trasparenza (acque albule). Inquanto al sollevamento delle acque nel pozzo tubulare questo non po- teva verificarsi, fino a che si traversavano terreni alluvionali e forma- zioni plioceniche, perchè quelli e queste non tenevano acque in carica essendo la loro stratificazione, specialmente a valle, in perfetta orizzonta- lità. Le acque solo sarebbero risalite allorchè avessimo raggiunto le for- mazioni eoceniche (arenarie galestri calcari) che costituiscono l’imbasa- mento delle caotiche plioceniche e si continuano nelle propaggini apen- niniche della catena chiantigiana ed in quella di Pratomagno. A questo intento occorreva una perforazione molto profonda che con larga appros- simazione doveva calcolarsi non minore di 200 metri di profondità nel perimetro occupato dalle alluvioni dell’Arno e solo poteva divenire minore, via via che ci fossimo avvicinati ai monti. Interpellato oggi sullo stesso argomento nulla ho da aggiungere e nulla da togliere a quello che fin d’allora ebbi occasione di manifestare a voce e per iscritto. Ma poichè si desidera sapere ciò che io pensi in tesi generale delle acque freatiche dell’alluvioni del fiume Arno dirò senza reticenze che spesso ho ad esse rivolta la mia attenzione e diligente- mente ne ho seguiti gli esperimenti pratici, i quali mi fu dato di co- noscere e studiare specialmente nei dintorni del mio paese nativo (Fi- gline). Per personale convinzione che mi sono formata in un lasso di tempo assai lungo e per ripetuti esperimenti non sarei punto alieno dall’uso di queste acque come potabili, nè potrei scartarle a priorì come sempre sospette e sospettabili, seguendo le teorie di molti Idrologi ed Igienisti. Le notevoli masse di acque freatiche che si incontrano nel sottosuolo alluvionale del nostro Arno per la loro stessa abbondanza dovrebbero e potrebbero presentare delle garanzie non spregevoli, purchè le condi- zioni peculiari dei giacimenti caotici che le racchiudono non lascino troppo facile passaggio all’inquinazione del soprassuolo e all’influenza delle acque dell’ Arno da una parte e di quelle dei suoi affluenti dall’ altra . Gli esempi di malattie epidemiche che si sono sviluppate in molte città europee che usarono delle acque dei fiumi vicini e di quelle frea- OSSERVAZIONI SULLE ACQUE FREATICHE ECC. 17 tiche soggette all'influenza più o meno diretta delle prime (Vienna, Pa- rigi, Berlino, 1877-1886-1889) sono state troppo frequenti e troppo vi- cine; perchè non si debbano tenere ognora presenti quando si studiano le acque freatiche delle alluvioni fluviali di fronte all’influenza che il fiume può esercitare su quelle nelle piene e nelle magre. Indipendentemente da queste riserve, a me resulterebbe che le acque freatiche della pianura alluvionale intorno a Figline (Valdarno sup.) si presentano ovunque mediocri ed in qualche limitata plaga, se non ottime, buone. L’esame della costituzione peculiare delle formazioni alluvionali in questa località dà ragione sufficiente dell’incostanza riscontrata nella na- tura chimica ed organica delle acque freatiche ed anche delle speciali e propizie condizioni in cui i pozzi di alcune plaghe si trovano. Il piano alluvionale generalmente si presenta costituito da un imbasamento di limo argilloso (stelliccione) che fa da diaframma impermeabile, sì per la sua estensione e continuità, sì per il suo notevole spessore. Su questo sedimento giace uno strato di sabbia grossolana turchiniccia ricca d’ele- menti quarzosi, la quale è appunto interessata totalmente o quasi dalla falda d’acqua freatica che ordinariamente sta alla profondità media di 6 a 7 metri, che in casi speciali salgono a 5 o scendono anche a 12. La lama o falda d’acqua ha in piena un’altezza media di met. 1,80 a 2 che in massima magra difficilmente scende al disotto di met. 0,70. Lo strato sabbioso acquifero è di solito ricoperto da una lente più o meno estesa e potente di limo argilloso sulla quale riposano e si succedono con variabile alternanza banchi di sabbie e ghiaie sabbiose e finalmente il terreno e terriccio vegetale generalmente tenuto a cultura intensiva. Allorchè si pratica in aperta campagna, nel piano alluvionale dell’Arno il più possibile lontano dall’abitato, un pozzo, interessando queste forma- zioni alla distanza di 200 o 300 metri dal fiume e ci imbattiamo, dopo avere traversati i banchi sabbiosi e ghiaiosi, in una lente di limo argilloso molto estesa e potente (la potenza spesso è in rapporto diretto dell’estensione e viceversa), passata questa, troviamo la falda freatica che ci dà sempre acque assai buone, le quali per giunta sono poco o punto influenzate da quelle del fiume, che in questo caso speciale dei sedimenti fluviali si tengono al disopra della lente di limo che fa ad esse da strato imper- meabile o le sottopone a lenta filtrazione. Se al contrario dopo traversati i banchi sabbiosi ed arenacei ci imbattiamo in una lente di limo poco spessa, quindi poco estesa e facilmente permeabile, le acque della lama 78 G. RISTORI acquifera sottostante sono influenzate da quelle del fiume e si presentano incostanti per massa e per proprietà chimiche e spesso inquinate da sostanze nitrogenate. Queste, in modo sommario, le condizioni, saltuaria- mente ed in modo capriccioso, presentate dalla pianura alluvionale dei dintorni di Figline. Le deposizioni fluviali caotiche e clastiche, di qualunque natura, si dispongono, allorchè i fiumi sono liberi nel loro corso, in modo molto irregolare ed anche incostante. Questa irregolarità ed incostanza è il resultato di leggi e di forze idrauliche di trasporto che hanno in fun- zione un numero molto notevole di elementi vari e variabili, i quali de- terminano continuamente mutamenti nell’alveo fluviale e quindi nei de- positi di magra e di piena. Ma non è qui il luogo di teorizzare, il rilievo che deve farsi riguarda solo la costatazione dell’incostanza delle depo- sizioni che possono variare notevolmente da luogo a luogo anche a pic- cole distanze, tanto che le analogie apparenti e superficiali non ci danno modo ad intuire a condizioni simili nel sottosuolo alluvionale di una data zona. Solo l’esperienza edi saggi sono atti a renderci conto delle reali condizioni esistenti nella successione dei depositi alluvionali. Del resto molto indirettamente possiamo formarci un giudizio assai attendibile sulle condizioni del sottosuolo rispetto alle acque freatiche. L°influenza delle acque fluviali esercitata in modo più o meno accentuato sulla lama freatica che alimenta i pozzi di una data località è quella che ci rivela l’esistenza o meno di quello strato impermeabile superiore che esercita un’azione depurativa tanto per le acque che lo raggiungono in senso verticale come su quelle che vi si stendono orizzontalmente pertinenti al fiume o ad una falda acquifera superiore a quella la quale deve sem- pre raggiungersi per avere un pozzo nelle migliori condizioni di resi- stenza e potabilità. I pozzi che più o meno lontani dall’alveo dell’Arno risentono delle piene e delle magre del fiume hanno in generale acque potabili poco costanti per proprietà chimiche e per inquinamenti organici, sieno essi provenienti dal fiume o dal soprassuolo coltivato. Al contrario se questa influenza sarà nulla o poco sensibile e non immediata, ma me- diata per un tempo abbastanza lungo, le acque freatiche di questi pozzi riusciranno all'esame chimico e batteriologico se non ottime buone ab- bastanza, e quindi la plaga da essi occupata adatta per fornire acque discretamente potabili ed assai costanti nelle loro proprietà. Non insisterò ulteriormente su questi fatti di cui l’esperienza mi fece edotto; solo mi permetterò di osservare che è proprio la peculiare OSSERVAZIONI SULLE ACQUE FREATICHE ECC. 18) costituzione del sottosuolo alluvionale che molto bene li spiega. La presenza o l’assenza del diaframma argilloso superiore alla falda acquifera che ordinariamente è da raggiungersi per avere se non altro acqua ab- bondante, è evidentemente condizione essenziale per avere o meno un’acqua discretamente potabile. RICCARDO UGOLINI RESTI DI FOCHE FOSSILI ITALIANE (CON UNA TAVOLA) Studiando lo scheletro quasi completo di foca trovato nelle argille plioceniche di Orciano !), ebbi opportunità di conoscere che alcuni autori avevano ricordato resti di foche di altre località conservati in diversi musei italiani. Mi parve utile di riunire il detto materiale e farne 0g- getto di una breve nota. Alla mia richiesta corrisposero gentilmente i professori DE STEFANI, IsseL e PARONA, respettivamente direttori dei mu- sei di Firenze, Genova e Torino. Il prof. SimoneLLi di Parma, al quale mi ero rivolto per avere quei resti colà esistenti, secondo le indicazioni comunicate dallo StroseL al VAN BENEDEN %), mi rispose che in quelle collezioni paleontologiche, generale e degli anzichè Stati, non esisteva assolutamente nulla. Il prof. Bassani ebbe poi la cortesia di man- darmi in esame alcuni denti molto danneggiati, fra cui quello de- scritto e riferito dal Costa 3) al gen. Phoca, e dal GeRrvaIS 4) ascritto più tardi insieme agli altri al Physodon leccense. Il bellissimo frammento di testa descritto dal Guiscarpi 5) con il nome di Phoca Gaudini, con- 1) UgoLINI R. — Di uno scheletro fossile di Foca trovato ad Orciano (Nota preventiva). Atti Soc. tosc. Sc. Nat., Proc. Verb., vol. XII, pag. 147. Pisa, 1900. IpaM. IZ Monachus albiventer Bonn. del Pliocene di Orciano. Palaeontographia Italica, vol. VIII, pag. 1, tav. I-III. Pisa, 1902. 2) VAN BENEDEN P.-J. — Description des ossements fossiles des environs d’ An- vers. Pinnipédes oa Amphithériens. Ann. du Mus. d’Hist. Nat. de Belgique, tome I, pag. 37. Bruxelles, 1877. 3) Costa 0. G. — Paleontologia del Regno di Napoli, parte I, pag. 12, tav. I, fig. 1. Napoli, 1853. 4) GERVAIS P. — Coup d’oeil sur les mammifères de l Italie. Bull. Soc. géol. de France, tome XXIX, sér. II, pag. 101. Paris, 1872. 5) GuiscarDI G. — Sopra un teschio fossile di Foca. Atti Accad. Sc. Fis .e Mat. di Napoli, vol. V. 1871. RESTI DI FOCHE FOSSILI ITALIANE 81 servato del pari nel Museo di Napoli, data la sua fragilità non potè essermi comunicato. Non potei infine avere in esame i denti provenienti dal calcare miocenico di Lecce che il FLorEs !) citò sotto il nome di Phoca sp. ind. E neppure il bel dente canino di pinnipede che il Simo- NELLI 2) disse di aver veduto, con l’indicazione di Phoca Gaudini GuIsc., nella collezione di fossili della Pianosa che il Museo di Firenze ebbe dal Pisani: dente che egli omise nell’elenco delle specie studiate, perchè in- certo se veramente provenisse dal Pliocene dell’isola e perchè il dente non corrispondeva alla descrizione del GuiscarDI. A tutti i ricordati pro- fessori porgo i miei più sentiti ringraziamenti. Dirò subito che uno degli esemplari esaminati proviene da terreni miocenici ed appartiene, secondo me, alla Phoca Gaudini; gli altri dal Pliocene, e si riferiscono tutti questi al Monachus albiventer. Fa eccezione una vertebra che probabilmente appartiene ad un pinnipede, di genere però incerto. Phoca cfr. Gaudini Guisc. Tav. I [I], fig. 1. 1871. Phoca Gaudini GuiscarpI. Sopra un teschio fossile di foca. Atti Accad. di Sc. Fis. e Mat., vol. V. Napoli. 1895. Palacophoca Gaudini FLores. Catalogo dei mammiferi fossili dell’ Italia meridionale continentale. Atti Accad. Pontan., vol. XXV, pag. 39 (estratto). Napoli. 1897. Pristiphoca occitanica De AressanpRrI. La pietra da Cantoni di Rosi- gnano e di Vignale (Basso Monferrato). Mem. Mus. civ. St. Nat. e Soc. ital. Sc. Nat., vol. VI, fasc. I, pag. 17, tav. I, fig. 1. Milano. Alla specie del GuIscARDI, istituita sulla testa trovata nel terreno probabilmente miocenico di Roccamorice (Chieti), credo riferire il dente canino inferiore sinistro che il DE ALESSANDRI riunì invece con la Pristi- phoca occitanica Gerv. La forma infatti della corona, le dimensioni di questa rispetto a quelle della radice, la presenza di due carene longi- tudinali percorrenti i due margini anteriore e posteriore della corona e i) FLorEs E. — Catalogo dei mammiferi fossili dell Italia meridionale conti- nentale. Atti Accad. Pontan. di Napoli, vol. XXV, pag. 40 (estratto). 1895. ?) SIMONELLI V. — Terreni e fossili dell’isola di Pianosa nel mar Tirreno. Boll. Com. geol. ital., vol. XX, pag. 209, Roma, 1889. 82 R. UGOLINI concorrenti all’apice, ed infine l’aspetto generale del dente, sono altret- tanti caratteri propri del dente canino inferiore della Phoca Gaudini, dal quale diversifica solo per la mancanza della terza carena situata sulla faccia interna in mezzo alle due su ricordate. Non credo però che tale piccola differenza abbia l’importanza di un carattere specifico. DIMENSIONI Lunghezza massima del dente . . ; . mm. 49 Larghezza » » 6 c : î » 15 Lunghezza » della corona . ; c o DINRANT Come si rileva da queste dimensioni la lunghezza della corona è quasi un terzo della lunghezza totale del dente, e non un quinto come forse per inavvertenza disse il DE ALESSANDRI. Il riferimento proposto da questo autore non parmi giustificato, perchè nessuna analogia passa fra il dente in esame e quello delle argille mio- ceniche di Poussan, tra Montpellier e Clermont-l’Hérault, figurato dal GERVAIS (tav. 38, pag. 8), ed al quale fu paragonato. Si noti poi che lo stesso GERVAIS, quantunque parli di questo dente nel capitolo in cui tratta della sua nuova specie: Pristiphoca occitanica, pur nonostante non lo riferisce effettivamente a questa; nella spiegazione poi della tavola 38 lo chiama soltanto Phoca. Devesi finalmente aggiungere che tale dente ed altre parti schele- triche che il GERVAIS considerava come di Phoca, dovrebbero invece se- condo il giudizio di competenti !) riferirsi a Delfinoidi o a Xifioidi. Il dente in esame proviene dal Miocene di Vignale (Basso Monfer- rato) e fa parte della collezione VascHETTI del Museo geologico dell’ Uni- versità di Torino. Monachus albiventer Bonn. Tav. I [I], fig. 2-7. 1785. Phoca albiventer BonpaerT. Elenc. Anim. 1859. Pristiphoca occitana GervaIs. Zoologie et Paltontologie Frangaises, pag. 272, tav. 82, fig. 4 e 4a (non tav. 8 fig. 7, 7a, tav. 20 fig. 5, 6, tav. 38 fig. 8. 1) ALuen J. A. — History of North American Pinnipeds. A Monograpk of the Wabruses, Sea-Lions, Sea-Bears and Seals of North America, pag. 268. Wa- shington, 1880. RESTI DI FOCHE FOSSILI ITALIANE 83 1875. Pristiphoca occitana Law1ev. Dei resti di pesci fossili del Pliocene to- seano. Atti Soc. tosc. Sc. Nat., vol. I, pag. 66. Pisa. 1876. Pristiphoca occitana? LawLev. Nuovi studi sopra è pesci ed altri ver- tebrati fossili delle colline toscane, pag. 103. Firenze. 1877. Pristiphoca occitana Forsyra-Mayor. Considerazioni sulla fauna dei mammiferi pliocenici e postpliocenici della Toscana. Atti Soc. tosc. Sc. Nat., vol. I, pag. 239. Pisa. 1893. Pristiphoca occitanica Zirter. Handbuch der Palaeontologie. Parte I, Palaeoxoologie, vol. IV, pag. 683. Miinchen u. Leipzig. 1893. Phoca sp. Zisren. Ibidem, pag. 684. Miinchen u. Leipzig. 1902. Monachus albiventer UGoLInI. Il Monachus albiventer Bonn. del Pliocene di Orciano. Palacontographia Italica, vol. VIII, pag. 1-20 tav. I-II. Pisa. Le parti scheletriche che riferisco a questa specie provengono da terreni pliocenici della Toscana. Esse furono raccolte, insieme ad altri resti consimili ora dispersi, per la prima volta dal LawLEY, che ne parlò, sino dal 1875, in due lavori già citati, ed appartengono a tre località diverse, e cioè: vicinanze delle Saline nel Volterrano, Orciano nelle colline pi- sane, e dintorni di Volterra stessa. Saline. — Sono delle Saline due denti canini inferiori isolati ed un bellissimo esemplare di mandibola (fig. 2 a, 26) appartenenti ri- spettivamente a due diversi individui e di età evidentemente assai avan- zata. I denti isolati mancano quasi totalmente di corona; però dall’e- same della forma generale della radice fu facile di determinare la specie alla quale sono stati riferiti. La mandibola poi consiste di ambedue i rami separati. La porzione superiore della branca quadrilatera manca in tutti e due; invece sono ben conservate tanto la sinfisi, quanto la re- gione occupata dai denti. Il corpo di ciascun ramo è robusto, più spesso in prossimità della sinfisi, più sottile nella regione opposta. La sinfisi è relativamente breve, ma ben delineata e distinta da tutto il resto del corpo mandibolare. Dei denti alcuni, gli /, mancano affatto e tutti gli altri, eccetto il C di sinistra che è quasi completo, sono mal conservati e privi della corona; le loro radici trovansi però ancora saldamente impiantate nei respettivi alveoli ed in posizione caratteristicamente serrata ed obliqua. Ciò che permise di riconoscere la forma uniradiculata dei Pm! e quella biradiculata dei successivi e quindi il gruppo cui doveva con sicurezza venir riferito l’esemplare in esame. Il C di sinistra è robusto e prov- Se. Nat. Vol. XIX er 84 R. UGOLINI visto di una corona così profondamente consumata che dello smalto non vi è rimasta più alcuna traccia. i Le dimensioni principali del ramo mandibolare sinistro sono le seguenti : Lunghezza . : ì 4 " 7 i . mm. 184 Spessore massimo al principio della sinfisi . 7 » 120 Altezza massima a metà circa della lunghezza . » 28 Lunghezza della sinfisi . 3 : - ì 5 DIE Spessore della radice del C' sinistro . ; ; po Lil Lunghezza della corona dello stesso . 5 7 duale Dall’insieme dei suddetti caratteri si riconobbe dunque trattarsi di una specie del gen. Monachus, e del M. albiventer, di cui già un bell’esem- plare proveniente dal giacimento pliocenico di Orciano fu da me recen- - temente descritto. Si potè inoltre a un dipresso calcolare che la statura ‘ di questo individuo dové raggiungere non meno di due metri e mezzo circa di lunghezza. Questi esemplari appartengono attualmente al Museo geologico di Firenze al quale furono donati molti anni or sono dal LAawLEy. Orciano. — Provengono da questo giacimento, ormai già noto per la varietà dei suoi vertebrati marini, vari resti scheletrici di foca, e cioè alcuni denti ed un frammento di mandibola, appartenenti a tre individui evidentemente differenti per età e statura. Ad uno di questi si riferiscono certamente il dente incisivo perfettamente conservato, ed il molare incompleto che ora descriverò. L’incisivo è piccolo, ha la radice relativamente robusta, rigonfia presso al colletto, acuminata ed un po’ ricurva a guisa di uncino all’estremità inferiore, e la corona piuttosto sottile, rivestita di uno smalto legger- mente e fittamente rugoso, provvista di tre cuspidi di cui quelle laterali piccolissime, posteriormente riunentisi in un rilievo cerciniforme assai accentuato ed avente una lunghezza uguale ad un terzo circa. della lun- ghezza totale del dente. Il molare manca quasi totalmente delle radici ; ha però la corona quasi perfettamente conservata, formata anch’ essa da tre cuspidi ricoperte di smalto non consumato, carenate, rugose, di cui la mediana, più sviluppata delle altre due e ricurva un po’ in dentro, e le due laterali, più piccole, riunentisi caratteristicamente sulla faccia in- terna della corona a formare il solito rilievo cerciniforme assai promi- nente. Tali caratteri, che negli individui adulti specialmente divengono - ancora più accentuati, concordano pienamente con quelli dei denti con- RESTI DI FOCHE FOSSILI ITALIANE 85 simili del Monachus albiventer, ed a questa specie vennero perciò riferiti, ritenendosi che essi abbiano appartenuto ad un individuo molto giovane, come ne attestano lo smalto perfettamente conservato e le dimensioni loro qui appresso indicate : Incisivo Molare Lunghezza massima del dente . 5 . mm. 10 mm. ? Spessore massimo } È c " 0 » 5 ER Altezza della corona . ) : ò o DINO DIRLO, Larghezza » . : 3 : ; di 18) DAME, Spessore » c . o o . DIS » 8 Se poi questi denti facessero parte della mascella superiore o piut- tosto della mandibola non si potè con sicurezza determinare. Va riferito ad un altro individuo della stessa specie un dente molare isolato che, sebbene si trovasse in collezione confuso coi due precedenti, va da essi certamente separato a causa del diverso grado di sviluppo. Esso manca della radice anteriore e di una parte della posteriore, e deve molto probabilmente avere appartenuto al lato sinistro della mascella superiore. La corona è conservata per intiero, distintamente tricuspidata, carenata, rugosa, nettamente separata dal principio della radice per un solco abbastanza pronunziato, fornita dal lato interno di cercine, e prov- vista insomma di tutti quei caratteri, niuno eccettuato, che sono propri dei molari del Monachus albiventer. A questo perciò l’abbiamo riferito, tanto più che la porzione di radice che ancora si conserva non presenta caratteri diversi da quelli propri delle radici dei molari della specie suc- citata. Le dimensioni relative alla corona di questo dente sono le seguenti: Altezza massima . 7 ; - 5 b pai 6) Larghezza » 0 : 0 . . 5 c » d11 Spessore massimo . È 5 ; ; 5 ; DINANS L’usura abbastanza accentuata del dente in esame, ci indica inoltre che esso dovette avere appartenuto ad un individuo già adulto. Il frammento di mandibola più sopra ricordata (fig. 3) appartiene al terzo individuo. Esso presenta le seguenti dimensioni: Lunghezza massima . : . . ; o Sinn TAL Altezza » o . ò , 5 5 » 32 Spessore massimo : , 6 7 ; } o 10 Massimo diametro dei due alveoli dentari di un medesimo dente presi insieme ; . : » 15 Profondità media di ciascun alveolo . È , SILA: 86 R. UGOLINI Tale frammento che appartiene al lato destro rappresenta quella por- zione della branca mandibolare che è compresa fra la metà circa della sinfisi e l’alveolo posteriore del M?. Dei denti nessuna traccia; si può tuttavia dalla forma, dalle dimensioni e dalla disposizione caratteristica degli alveoli, a un dipresso desumere la forma e lo sviluppo all’in- circa da quelli posseduto. Gli alveoli presenti sono in un numero di otto, larghi, profondi e corrispondenti rispettivamente alle radici del Pm? e Pm3, ed a quelle del M* e del M?; è da notarsi che l’alveolo posteriore del M? è ancora riempito dalla rispettiva radice. È superfiuo di osser- vare inoltre che i pochi caratteri di tale frammento sono perfettamente simili a quelli che già abbiamo avuto occasione di riscontrare nella branca mandibolare destra della foca delle Saline testè descritta: carat- teri che sono propri della specie MM. albwwenter, più volte ricordata. Si è potuto calcolare che l’intero ramo mandibolare dell’individuo in esame raggiunse non meno di 22 centimetri di lunghezza, e che la statura del- l’animale fu di poco inferiore alla lunghezza di due metri e mezzo circa, vale a dire molto prossima a quella della foca delle Saline. Volterra. — Appartengono alla stesa specie un certo numero di ossa provenienti dai dintorni di Volterra. Di queste, parte sono inerenti alla testa, e parte agli arti anteriori e posteriori di due individui di dif- ferente età, come attestano il loro diverso grado di sviluppo. Le ossa appartenenti all’ individuo più vecchio sono in maggior nu- mero, ma così danneggiate e mal ridotte che a poche soltanto di esse fu possibile di assegnare un posto sicuro nella serie scheletrica dell’a- nimale. Tali sono: a) Una porzione considerevole della faccia, contenente parte delle ossa frontali, l’origine delle nasali, ed un frammento del mascel- lare destro (fig. 4). © 5) Due pezzi della cresta occipitale ed uno molto piccolo della sutura sagittale dei parietali. c) Un Pm!, da ascriversi con molta probabilità al lato destro della mascella inferiore. d) Le radici di due C superiori. Quelle tra di esse che più c’interessano e di cui maggiormente ci oc- cuperemo sono per altro il frammento facciale, primo ricordato, ed i denti. Il frammento facciale ha una lunghezza di 11 centimetri e mezzo ed una larghezza minima di 38 millimetri circa, misurata in corrispon- denza della origine dei nasali. Le suture, in gran parte obliterate e RESTI DI FOCHE FOSSILI ITALIANE 87 perciò anche difficilmente riconoscibili, ci danno prova sufficiente della non giovane età dell'individuo, ed il loro andamento, unitamente alla speciale conformazione delle ossa che sono delimitate da queste suture, ci fanno maggiormente certi della esattezza del nostro riferimento; ciò che meglio potrà vedersi mediante un accurato esame dei denti posseduti. L’unico Pm! conservato appartiene, come dicemmo, al ramo mandi- bolare destro, e misura una lunghezza totale di 19 millimetri, dei quali non meno di 15 appartengono alla radice: ciò per la ragione che la corona è talmente corrosa in tutti i sensi, che dello smalto che la ri- vestiva non vi è rimasto più traccia. La radice è grossa, fortemente ricurva in dietro, compressa sui lati ed avente un diametro antero-po- steriore di 10 millimetri ed un diametro trasverso di 7. Le dimensioni adunque di questo dente, e la corrosione da esso subita per l’uso, con- fermano ancora trattarsi di un individuo già abbastanza adulto, ciò che avemmo occasione di osservare testè: la sua speciale conformazione ed i caratteri della radice, simili perfettamente a quelli dei Pm del IMona- chus albiventer, servono poi ad avvalorare maggiormente l’esattezza della determinazione. Gli altri due denti, che rappresentano rispettivamente l’ uno il de- stro e l’altro il sinistro della mascella superiore, mancano quasi com- pletamente di corona. Ma osservando accuratamente quest’ultimo non è difficile di riconoscervi le traccie del colletto ed una piccolissima por- zione di corona priva affatto di smalto. DIMENSIONI 5 Diametro Diametro Lunghezza antero-posteriore trasverso Frammento del C destro mm. 33 mm. 18 mm. 14 » » sinistro » 38 » 18 » 14 È ovvio di avvertire che la differenza in lunghezza di tali due fram- menti non sta a rappresentare altro che il pezzetto di corona ancora superstite nel C' sinistro. Ed inoltre che l’aspetto particolarmente tozzo e robusto delle due radici e la forma spiccatamente arrotondata delle loro estremità inferiori stanno a dimostrare che essi appartennero alla mascella superiore di un individuo già abbastanza avanzato di età e di statura non certo superiore alla lunghezza di due metri e mezzo circa. Le ossa appartenenti all’ individuo più giovane consistono: dello scafoide del carpo sinistro (fig. 5), dell’astragalo incompleto del del medesimo lato (fig. 6), dello scafoide (fig. 7) e dei tre cuneiformi 88 R. UGOLINI del tarso destro, e di varie falangi ridotte in frammenti più o meno indecifrabili. Qui appresso sono indicate le dimensioni di alcune fra le più im- portanti di esse. DIMENSIONI ‘ Massimo diametro antero-posteriore . È . mm. 18 Scafoide carpiano » » trasverso . o o 7 c x7029 Altezza massima . 6 5 ; ò : ; 0 ir Lunghezza massima del frammento . 3 È DETRI Larghezza » » ; : . » 32 Spessore massimo » ; 3 3 DST, Astragalo . Di San Line int ; iametro longitudinale del condilo di articolazione con la tibia ed il perone - o . È » 18 Diametro trasverso dello stesso . . : È PINMNZO Diametro antero-posteriore esterno ò c : DIRSI » » interno : 5 0 » 20 Scafoide tarsiano » trasverso : ; 3 . ; - » 26 Altezza massima . ò 0 5 ò : È » 24 » minima . ò c o . o o » 9 Dai confronti istituiti con le ossa corrispondenti del Monachus al- biventer, si potè stabilire la perfetta somiglianza esistente tra di esse e quelle in esame, così per l’aspetto generale come per la qualità e pel numero dei caratteri loro propri. Siamo perciò in grado di ritenere suf- ficientemente esatto il riferimento di questi residui alla specie tipica vivente, ed aggiungiamo che l'individuo in questione, oltre all’ essere giovane, siccome dalle succitate dimensioni anche risulta, raggiunse una statura relativamente assai piccola e tale da non oltrepassare la lun- ghezza di un metro e mezzo circa. Come gli esemplari delle Saline, anche quelli di Orciano descritti, e questi dei dintorni di Volterra si conservano nel Museo geologico di Firenze. Phoca ? sp. ind. Tav. I [I], fig. 8. Già da qualche tempo nelle marne plioceniche di Savona fu rinve- nuta, insieme a diversi altri tipi di animali, una vertebra caudale di un pinnipede che IsseL e SQuINABOL !) credettero di riferire dubitativamente 1) A. IsseL e S. SQquinaBoL. — Sui fossili pliocenici di Savona. Boll. Soc. geol. it., vol. VI, pag. 455. Roma, 1887, e RESTO DI FOCHE FOSSILI ITALIANE 89 ad una specie del gen. Phoca. Avendo io, per gentilezza del prof. IssEL, potuto esaminare accuratamente il detto fossile, sono in grado di dire che essa presenta ben poca somiglianza con le vertebre caudali dei pinnipedi della famiglia delle foche, e che per lo stato imperfetto di conservazione in cui la detta vertebra si trova non potè farsi alcun con- fronto utile per riconoscere a qual gruppo dell’ordine possa essa con qualche probabilità di esattezza appartenere. Solo può dirsi che questa vertebra ha appena manifesti i rudimenti delle apofisi, è di piccole di- mensioni ed ha le epifisi incompletamente fuse con il corpo vertebrale ; ciò che permise di determinare la giovane età dell’ individuo. Si conserva nel Museo geologico dell’ Università di Genova. Pisa, Museo geologico, Agosto 1902. Fic. 1. » 5-1. SPIEGAZIONE DELLA TAVOLA I [I] Phoca Gaudini Guisc., dente canino inferiore sinistro veduto dalla parte esterna; Miocene di Vignale (Basso Monferrato) — Colle- zione VascARTTI del Museo geologico di Torino, — pag. 4. Monachus albiventer Bopp., mandibola; @)ramo sinistro; 6) ramo destro; Pliocene delle Saline (Pisa) —- Collezione LawLEY del Museo geologico di Firenze, — pag. 6. Idem, frammento di ramo mandibolare destro di un altro indi- viduo; Pliocene di Orciano (Pisa) — Collezione idem, — pag. 8. Idem, frammento facciale della testa di un altro individuo mo- strante parte delle ossa frontali, delle nasali e del mascel- lare destro; Pliocene di Volterra — Collezione idem, — pag. 9. ldem, ossa carpiane e tarsiane di un altro individuo: 5) sca- foide del carpo sinistro; 6) astragalo sinistro incompleto; 7} scafoide del tarso destro; Pliocene di Volterra — Collezione idem, — pag. 10. Phoca? sp. ind. — Vertebra caudale incompleta veduta dal lato sinistro; Pliocene di Savona — Collezione del Museo geologico di Genova, — pag. ll. (Eccetto le fig. 2a e 25, che sono impiccolite di 1/7, tutte le altre sono in grandezza naturale). Laboratorio di farmacologia sperimentale dell’ Università di Camerino DIRETTO DAL PROF. BENEDICENTI _____=î PROF. DOMENICO FILIPPI VICE-DIRETTORE DELL'ORTO BOTANICO L'AZIONE DEGLI ANESTETICI SULLA TRASPIRAZIONE DEI VEGBTALI Non è argomento nuovo quello dell’azione degli anestetici sulla tra- spirazione dei vegetali; è argomento però tuttora discusso e sul quale fisiologi e botanici non hanno ancor detto l’ultima parola. Consigliato dal prof. BENEDICENTI io ho ripreso a studiare questo problema, a ciò indotto anche dalla lettura di due recenti lavori che riguardano l’anestesia dei vegetali. Il primo è un lavoro del Drxon *) il quale cominciò col dimostrare che la traspirazione nei vegetali non è dovuta alla pura capillarità, ma è veramente un fenomeno vitale. Collocò un ramo, munito di foglie, in una soluzione acquosa di eosina, poi saturò di vapor d’acqua la cam- pana sotto la quale il ramo era posto e vide ugualmente ascendere fino alle foglie la soluzione colorata. In un’ atmosfera di ossigeno osservò che il ramo traspirava come 135,8, nell’aria come 100, nell’acido car- bonico come 87,3, nell'atmosfera carica d’etere come 82,3 e in quella carica di vapori di cloroformio come 66,4. Una gran parte di queste differenze venne ascritta dal Dixon alla minore o maggior rapidità colla. quale può il vapore acqueo diffondersi nell’aria comune o in ambienti fatti d’altri gas o saturi di altri vapori. Egli evaporò dell’acqua nell’aria comune e in altre atmosfere e ottenne valori assai differenti fra loro, ma concordanti tuttavia con quelli che indicherebbero la traspirazione dei vege- tali nei differenti ambienti. L'acqua evaporò nell’ossigeno nella propor- zione di 104, nell’aria come 100, nell’acido carbonico come 89, nell’etere come 81 e nel cloroformio come 59. La differente azione attribuita alle diverse sostanze anestetiche sulla traspirazione sarebbe poi anche da ascri- 1) Drxon. — Proced. of the Roy. Irish Society. Ser. III, vol. IV, 1898. Sc, Nat. Vol. XIX x 92 D. FILIPPI vere, in parte almeno, ad una seconda causa d’errore e cioè alla maggiore 0 minore rapidità colla quale le diverse sostanze penetrano nei tessuti vege- tali. Infatti avendo le differenti sostanze sperimentate un diverso peso spe- cifico è impossibile, secondo il Drxon, che tutte penetrino nei tessuti colla stessa rapidità e facciano sentire sul vegetale nello stesso tempo e colla stessa intensità la loro azione. Con altre esperienze il Dixon venne inoltre a concludere che, come l’etere e il cloroformio, così rallentano la tra- spirazione anche gli olii essenziali ai quali, come è noto, già compete l’ufficio di difendere la pianta dalla soverchia temperatura: l’ essenza di Arthemisia absinthium rallenterebbe notevolmente, a quanto egli dice, la traspirazione della Syringa e del Cytisus. L'altro lavoro, cui ho testè accennato, è dovuto al KosArorr ') il quale più specialmente studiò l’assorbimento acqueo e la traspirazione nei rami - delle piante durante l'inverno, quando cioè essi sono completamente sprovvisti di foglie. Im un vaso cilindrico, della capacità di 200 cm?, introdusse un ramo. Questo ramoscello veniva reciso sott'acqua e la su- perficie di sezione era mantenuta immersa impedendo che venisse co- munque in contatto dell’aria. Il cilindro era chiuso ermeticamente da un tappo munito d’un foro pel quale il ramo passava, e alla base, per mezzo di una tubulatura laterale, era poi unito ad un lungo tubo ca- pillare disposto verticalmente e graduato. Il livello del liquido discendeva in questo tubo man mano che la pianta assorbiva e la discesa era tanto più rapida quanto più attivo era l’assorbimento. Kosarorr determinò quantitativamente 1° acqua traspirata dal ramoscello pesando il vaso e, per maggior costanza nelle sue osservazioni, sperimentò dalle 9 !/, alle 12 del mattino e dalle 2 alle 4 di sera, periodi in cui la traspirazione è meno variabile. Per rami di Prunus la quantità di acqua traspirata dalle 9 alle 5 fu di gr. 1,8 (8 ore) e dalle 5 alle 9 del mattino fu di gr. 3,1 (16 ore) vale a dire che l'oscurità modificherebbe ben poco la traspirazione dei rami privi di foglie. Le soluzioni molto concentrate di alcool, al 25°/, di etere al 20°/,, e l’acqua carica di acido carbonico diminuirebbero l’assorbimento dell’acqua nei rami sfogliati, ma vivi. Il sublimato alla dose di 0,1-0,2-0,5°/o rimane senza effetto; dosi più forti di 1-2-4-8°/, aumenterebbero l’assorbimento dell’acqua e la traspirazione. Nei rami secchi e morti di Persica, Morus, Prunus ecc. queste sostanze 1) Kosarorr. — Wasseraufnahme der Pfanzen. Beiheft d. Botan. Cen- tralblatt, Bd. XI, Heft. 2. L'AZIONE DEGLI ANESTETICI SULLA TRASPIRAZIONE DEI VEGETALI 93 rimangono tutte senza alcun effetto. Anche la temperatura bassa che deprime e l'elevata che attiva la traspirazione rimangono senza effetto alcuno sul ramo privo di vita. La tecnica usata in questi lavori è così imperfetta, le dosi delle so- stanze adoperate sono talmente enormi che difficilmente le conclusioni alle quali questi autori sono giunti possono essere del tutto attendibili. Di più, in queste esperienze, come in quelle fatte da altri autori, la traspirazione è confusa coll’assorbimento dell’acqua, cose queste che non sono del tutto fra loro identiche. Un’ altra causa d’ errore si ha pure in ciò che le esperienze furono fatte su rami staccati dalle piante e in condizioni fisiologiche non del tutto normali. In simile errore cadde anche il JomeLLE !) al quale si devono numerosi e interessanti esperimenti sulla traspirazione. Egli ammise la traspirazione clorofilliana sostenuta dal WIESNER e, guidato da questo concetto, venne alla conclusione che ogniqualvolta i raggi luminosi non possono essere utilizzati dalla cloro- filla per l’assimilazione, essi vanno ad aumentare l’altra funzione cloro- filliana, cioè la traspirazione. In questo caso i raggi luminosi trasformati in calore aumentano la tensione del vapor d’acqua, e la traspirazione necessariamente s’accresce. Questa sua conclusione JUMELLE crede legit- timata dal risultato di alcune esperienze fatte sugli anestetici. L’etere che ritarda i fenomeni assimilatori aumenta la traspirazione, ma sola- mente se la pianta è alla luce, poichè la diminuisce all’oscurità. Il primo risultato si spiegherebbe coi concetti sopra ricordati; in quanto alla di- minuzione data dall’ etere all’oscuro, JUMELLE non tenta di trovarne la ragione. La teoria della traspirazione clorofilliana difesa precipuamente dal WiesNER ?) ha trovato, come è noto, molti oppositori. Fra questi ram- menterò solamente il PrinesHEIm 5) e il KorHt *) i quali, insieme a pa- recchi altri autori, ammettono che l'influenza della clorofilla sia pura- mente meccanica, destinata cioè a funzionare quale schermo protettore dei plastidi contro certi determinati raggi della luce solare. Per tutti costoro le esperienze del JUMELLE avevano sapore di cose poco atten- ') JumeLLE. — Revue générale de Botanique. N.° 1, 1889; N.° 22, 1890; N.° 31, 1891. ?) WIesNnER. — Annales des Sciences naturell., 1876 e Ber. der deutsch. bot. Gesellsch. 2. 1891. °) PRINGSHEIM. — Lichtwirkung und Olorophylifunetion. 1881, 4) KoHL, — Die Transpiration der Pflanzen. 1886, I 94 D. FILIPPI dibili ed esatte cosicchè non mancarono coloro che si incaricassero di ripetere le sue esperienze e di sottoporle a rigoroso controllo. Lo ScHNEIDER !) pubblicò in proposito recentemente un accurato lavoro e colle sue esperienze venne a conclusioni opposte a quelle del JUMELLE. Egli, a differenza di quest’ultimo, sperimentò su pianticelle intere ser- vendosi di un apparecchio ideato dal KogL e adoperando, di solito, pic- coli esemplari di Solanum tuberosum. Egli pure stabilì l'intensità della traspirazione dalla quantità di acqua assorbita nell’unità di tempo dal vegetale il quale era ricoperto da una campana entro cui si faceva circo- lare lentamente dell’aria secca. Per studiare l’azione dell’etere, del cloro- formio, del nitrito d’ amilo lo ScaNEIDER imbeveva un batufolo di cotone nell’una o nell’ altra di queste sostanze e le lasciava liberamente eva- porare sotto alla campana; in breve l’ambiente diveniva saturo di va-- pori così che sovente le foglie della pianta ne soffrivano gravemente. Egli venne tuttavia alla conclusione che la quantità di anestetico usata non modifica notevolmente l’intensità della azione: le quantità minime richiedono un tempo più lungo per agire, ma in ultima analisi giungono allo stesso effetto. Però siccome l’aria continuava a circolare nella cam- pana queste diverse quantità di anestetico adoperato non potevano evi- dentemente essere calcolate che con approssimazione. Dagli esperimenti fatti sui Solanum, come da altri fatti su pianticelle di Fuchsia e di Gera- nium SCHNEIDER venne alla conclusione che gli anestetici rallentano la traspirazione tanto alla luce come all’oscurità. Le variazioni della tem- peratura, l’infuenza dei diversi raggi dello spettro solare, le condizioni di maggiore o minor saturazione della atmosfera con vapor acqueo non modificano l’azione degli anestetici sulla traspirazione dei vegetali. L’etere (e come questo tutti gli anestetici in genere) ritarda la traspirazione e l'assimilazione paralizzando l’azione del protoplasma. L’aumento trovato dal JUMELLE è, secondo lo SCHNEIDER, spiegabile con ciò che gli aneste- tici possono talora alterare i tessuti vegetali profondamente per modo che non si ha più a che fare colla funzione di traspirazione, ma con un fenomeno puramente fisico di evaporazione. La traspirazione non es- sendo funzione clorofilliana viene dall’etere arrestata o rallentata in tutte le condizioni possibili. Ma, a rendere più complesso lo studio delia traspirazione, compar- 1) SCHNPIDER. — Influence of anaesthetics on plant transpiration. Botanical Gazette, N.° 2. 1893. L'AZIONE DEGLI ANESTETICI SULLA TRASPIRAZIONE DEI VEGETALI 95 vero in questi ultimi anni, oltre a quelli già ricordati, parecchi altri lavori i quali, o direttamente o incidentalmente, dimostrarono come que- sta funzione possa facilmente essere modificata da un numero svariatis- simo di fattori. WiLLms !) che si occupò delle condizioni che possono favorire la cultura delle patate, notò che la quantità di liquido conte- nuta nel suolo può di molto favorire la traspirazione rendendo più com- pleta e facile l'apertura degli stomi. Vide inoltre che non tutte le foglie di un vegetale traspirano nello stesso modo: le foglie più basse della patata traspirano per esempio molto meno delle foglie più elevate. SEELHORST *) studiò il rapporto che passa fra la ricchezza delle sostanze nutritive contenute nel suolo e l’assorbimento dell’acqua da parte del vegetale, e vide che questo è inversamente proporzionale alla quantità di sostanze nutritive disponibili. BònM *) si occupò più specialmente della traspirazione delle gemme appena sbocciate, e concluse che questa funzione è rallentata dal nitrato potassico, dall’acido ossalico e dal su- blimato corrosivo. OLIVER 4) che studiò in un lavoro interessante l’azione dei componenti del fumo sulla vegetazione, vide che anche l'anidride solforosa può modificare la traspirazione, rallentandola enormemente an- che a dosi relativamente piccole. _ Taccio poi di tutti i lavori che riguardano l’azione della luce solare, della temperatura, dell'umidità atmosferica e di tante altre condizioni sull’importante funzione della traspirazione, come pure di quelli che ebbero più specialmente di mira lo studio delle variazioni diurne che sì constatano nella traspirazione. Che le piante non traspirino ugualmente di giorno e di notte è cosa nota già da tempo, ma dati assolutamente esatti in proposito non si hanno ancora, per quanto io ne sappia. HartIe °) già fino dal 1863 stu- diando gli apici dei rami constatò che essi traspiravano diversamente nelle diverse ore del giorno, cioè la traspirazione andava aumentando dalle prime ore del mattino fin verso mezzogiorno per diminuire poi col venir della sera. KnoP *) sperimentò su rami di Corylus, immersi in un cilindro ripieno d’acqua, che pesava con intervalli di tempo dai 10 ai 70 1) WiLLms. — Dissertazione di Jena. 8°, 46 pp. Merseburg, 1899. ?) SeeLHORsT. — Journal f. Landwirtsch. XLVII. Heft. 4. pag. 369-78. 3) B6HM. — Bericht. d. deutsch. botanisch. Gesellsch. X. 1892. 4) OLiver. — Journal of the Horticoltur. Soey. XVI. 5) HarTIG. — Botanisch. Zeitung. pag. 261. 1863. 6) Knop, — Landwirtschaft. Versuchsstation, VI. 1864. 96 D. FILIPPI minuti e venne alla stessa conclusione, cui giunsero pure con simili metodi EDpER !), WIESNER e PACHER ?), BùRGERSTEIN *) e molti altri. Il KosAROFF, nel lavoro che già ho ricordato, ha pure determinato ogni mezz’ora la traspirazione del ramo privo di foglie e, sperimentando nei periodi di tempo dalle 9 !/, alle 12 e dalle 2 alle 4, la trovò costante nei diversi intervalli sia che il cielo fosse sereno o nuvoloso sia che la tempera- tura fosse mite o cadesse abbondante la neve. Egli sperimentò sotto una tettoia in aperta campagna e i suoi risultati sotto questo punto di vista sarebbero più interessanti se prendessero a considerare anche i_ rami muniti di foglie. Volendo ora studiare con metodi il più possibilmente precisi l’azione degli anestetici sulle piante, dal punto di vista della traspirazione, non si può far a meno di tener presente la somma facilità colla quale questa - funzione può da un momento all’altro modificarsi e conviene prima di’ tutto formarsi un’idea esatta della funzione fisiologica normale per stu- diarne le alterazioni che gli anestetici vi possono apportare. Per tale ragione io mi sono prima di tutto preoccupato di determinare esatta- mente la curva della traspirazione, e i mutamenti che vi si presentano per una oscurità di breve durata o per la continua oscurità della notte. Ho studiato poi l’azione dell’acido carbonico e dell’ etere a dosi minime, a dosi elevate e continue e a dosi refratte riserbando ad una prossima memoria lo studio interessante dei rapporti che passano fra la costi- tuzione chimica di alcuni anestetici, ancor poco noti, e la loro azione sulla traspirazione. L'apparecchio del quale mi sono servito nelle mie esperienze è rap- presentato nella figura 12. Esso consta di un pallone A a triplice tubu- latura. La tubulatura più ampia 5, che rappresenta il collo del pallone, è chiusa da un tappo a due fori. Uno di questi è traversato da un tubo di vetro che serve all’adduzione dell’aria destinata a circolare nel pal- lone, l’altro permette il passaggio di un ramo che deve essere intro- dotto nel pallone e sul quale si vuole sperimentare. Delle altre due tu- bulature più piccole e laterali una C serve all’ uscita dell’aria, l’altra D all'introduzione di un termometro per determinare la temperatura nello interno del pallone. L'aria che vi giunge è misurata in un contatore E e 1) Eppr. — Sitzungsber. Kaiser. Akademie. Wien, 1875. 2) WIESNER e PACHER. — Osterreich. botan. Zeitsechr. Jahrg. XXV. Heft. V. 3) BURGERSTRIN, — Osterreich, botan, Zeitschr. Jahrg. XXV. Heft. VI, 1875. L'AZIONE DEGLI ANESTETICI SULLA TRASPIRAZIONE DEI VEGETALI 97 quindi seccata nella boccia di lavaggio 7 contenente acido solforico con- centrato. Allorquando si voglia sottoporre il vegetale all’azione di un ane- stetico questo viene versato nella boccia G; la corrente d’aria lo fa eva- porare; i vapori sono poco alla volta condotti nel pallone ed escono poi, commisti coll’aria, all’esterno. Siccome poi l’etere, o altro anestetico usato, può contenere traccie di acqua così queste sono, per ogni evenienza, trattenute nei due tubi a cloruro di calcio H e L cosicchè l’aria, per- fettamente secca e carica o no di vapori anestetizzanti giunge nel pal- lone in contatto col ramo. Io ho preferito servirmi di un ramo unito alla pianta ed in perfette condizioni fisiologiche piuttosto che d’ un ramo reciso per le ragioni che già ho indicato: non ho poi adottato il metodo dello ScHNEIDER perchè permette di operare solo su pianticelle tenere e piccolissime e munite in genere di un numero assai ristretto di foglie. L’aria destinata a circolare nel pallone veniva spinta con un gasometro attraverso tutto il sistema ed è superfluo il dire che non cominciai ma un’ esperienza senza prima essermi assicurato che tutte le chiusure fos- sero perfette, cosa della quale facilmente mi convincevo osservando ces- sare il gorgogliamento dell’aria traverso l’acido solforico della boccia 7, non appena chiudevo l’ apertura del pallone C per la quale era unica- mente permessa l’uscita dell’aria. L’acqua traspirata dalla pianta, e tra- scinata dalla lenta corrente d’aria, era costretta a passare traverso il tubo a cloruro di calcio JV dove veniva fissata. Questo tubo a cloruro di calcio, pesato accuratamente prima e dopo l’esperienza in una bilancia d’analisi al decimo di milligrammo, dava l’esatta misura dell’intensità della traspirazione. Ma d’una grave causa d’errore mi avvidi subito fino dalle prime esperienze nelle quali volli sperimentare l’azione dell’etere e questa consiste in ciò che il tubo 27 ripieno d’aria comune o d’aria satura di vapori d’etere ha peso assai diverso, pesando notevolmente di più in quest’ultimo caso. Da ciò la necessità di scacciare lentamente i vapori d’etere senza per altro perdere traccia dell’umidità fissata sul cloruro di calcio. A questo sono pervenuto colla seconda parte dell’ap- parecchio disegnato nella figura 1. L'aria giunge dal gasometro diret- tamente in un tubo a due vie N. Da una branca una parte dell’aria va al contatore e traverso il sistema già descritto giunge al pallone; dal- l’altra branca un’ altra porzione è condotta in una boccia a lavaggio P e quindi in una torre a pomice solforica O dove viene perfettamente seccata. Il tubo a cloruro di calcio M, prima di venir pesato, è unito allora per quindici minuti alla torre O in modo che la branca in cui 98 D. FILIPPI l’umidità si è raccolta (ed è sempre in quantità minima) sia messa di- rettamente in rapporto colla torre stessa, quindi si fa traversare da una corrente d’aria lentissima. Le traccie di vapor acqueo di cui l’aria si carica al penetrare nella prima porzione del tubo I sono cedute al ri- manente cloruro di calcio prima d’uscirne e solo i vapori d’etere ven- gono eliminati. Molte esperienze in bianco mi hanno assicurato che in tal modo il peso di un tubo a cloruro di calcio, già contenente vapor d’acqua, non variava nemmeno di decimi di milligrammo: pesato, riem- pito di vapori d’etere, scacciati questi vapori e ripesato mi dava co- stantemente lo stesso peso. Con questo apparecchio dal quale era esclusa, a quanto mi sembra, ogni possibile causa d’ errore io ho eseguito nelle più diverse condi- zioni 237 determinazioni della traspirazione ed ora riferirò i risultati ai quali esse mi hanno condotto. Tutte le esperienze che io ho fatto finora, ebbero a soggetto 1’ Evo- nymus japonica L.; in seguito mi riprometto di studiare la traspirazione anche in altre specie vegetali come già HartIc !) fece in tempi rela- tivamente più recenti. Per le ragioni, che ho già più sopra accennato, io ho cominciato col determinare d’ora in ora la quantità d’acqua traspirata da un vigoroso ramo di Evonymus japonica e questo per un periodo consecutivo di pa- recchie ore onde farmi idea del decorso diurno e notturno della curva della traspirazione. Si sa infatti che le piante traspirano meno di notte che di giorno, ma non era ancora determinato se esistessero, indipen- dentemente da ciò, variazioni notevoli nella traspirazione da un’ora al- l’altra e se vi fossero di giorno e di notte dei massimi e dei minimi quali si possono verificare nel decorso di altre funzioni fisiologiche ve- getali, come ad esempio nella respirazione ?). i Delle molte esperienze che ho eseguito due sole io riferisco e i ri- sultati di queste sono consegnati nelle curve delle fig. 7 e 2 che accom- pagnano questo lavoro, dove l’ ascissa indica il tempo e le ordinate la quantità di acqua traspirata in centigrammi. La determinazione del- l’acqua traspirata fu fatta d’ora in ora senza alcun intervallo di tempo; 1) HartIG. — Sitzungsber. d. botanisch. Vereins Miinchen. Flora Bd. LXVI. pag. 361. 1883. ?) BENEDICENTI e De-TONI. — L'azione della formaldeide sul ricambio respi- ratorio nei vegetali. Atti Istituto veneto 1902, L'AZIONE DEGLI ANESTETICI SULLA TRASPIRAZIONE DEI VEGETALI 99 le condizioni rimasero durante tutta l’esperienza costanti. L'aria fatta circolare nel pallone ogni ora fu di litri «sei precisi, la velocità della corrente fu sempre uguale in ogni esperienza e ho anche tenuto conto della temperatura e delle condizioni di luce più o meno intensa che si potessero verificare nell’ambiente. La prima determinazione dalle 9 alle 10 nell’esperienza rappresentata dalla fig. 7 dà come acqua traspirata la quantità di gr. 0,1195 (Temperatura 18°; luce diffusa, cielo sereno); dalle 10 alle 11 gr. 0,1219 (stesse condizioni) dalle 11 alle 12 gr. 0,1174 e quindi trovo successivamente i valori 0,1204 — 0,1351 — 0,1287 — 0,1332 — 0,1328 — 0,1369 — 0,1420 — 0,1296 — 0,1238 — 0,1229 — 0,1032 — 0,1158. Quest'ultimo valore dalle 11 a mez- zanotte, come i due che lo precedono, furono ottenuti nell’oscurità assoluta della notte. Essendo l’esperienza fatta il 7 giugno, in una stanza bene illuminata non si ebbe l’oscurità quasi assoluta cne dopo le ore 8 di sera. La temperatura durante la giornata si mantenne costante a 18° e discese a 17° verso le 9 di sera. I valori ottenuti di poi furono: 0,1176 {dalle 12 alle 1); 0,1162 — 0,1228 — 0,1008 — 0,1046 — 0,1076 — 0,1038 — 0,1050 — 0,1052 (dalle 8 alle 9). Una luce abbastanza chiara si ebbe nella stanza alle 5 del mattino. Dalle 9 alle 10 ottenni il valore 0,1209 indi i valori 0,1202 — 0,1220 e finalmente dalle 12 all’ 1 il valore 0,1354. Se prendiamo a considerare la curva della fig. 7, in cui i valori so- pranotati sono graficamente esposti, vediamo subito che da un’ ora al- l’altra la traspirazione in un grosso ramo di Evonymus subisce delle notevoli oscillazioni, rimanendo tuttavia inalterate tutte le condizioni di luce, di temperatura e di saturazione dell’ atmosfera. Nella prima ora del mattino la traspirazione è meno attiva che nelle ore del pomeriggio. Un massimo si ha verso le 2 e le 3 pomeridiane e questa maggiore e più attiva traspirazione dura fin verso le 7 di sera. Col diminuire della intensità luminosa diminuisce pure la traspirazione la quale, durante le ore di assoluta oscurità, è segnata nella curva da una linea punteggiata. Vi è una rapida diminuzione fin verso la mezzanotte, quindi una nuova ascesa che raggiunge il suo massimo verso le 3 antimeridiane per poi discendere di nuovo pronta a risalire all’albeggiare vale a dire appena ricominci di nuovo ad agire sulla pianta la luce. Il rimanente della curva è somigliante nel decorso alla prima parte testè descritta. La prima cosa che noi possiamo concludere da questa esperienza è che la traspirazione deve considerarsi come un fenomeno veramente vitale che numerose cause le quali sfuggono alla nostra indagine sono capaci di mutare sensibil- 100 D. FILIPPI mente. È davvero singolare ottenere da un’ora all’ altra, nella piena oscurità della notte valori diversi per la traspirazione di un ramo rin- chiuso in un pallone in cui la temperatura è costante e in cui pure è immutata la corrente d’aria secca che lentamente vi scorre. Come spie- gare i massimi ed i minimi che si verificano nella curva diurna e not- turna se non come effetto di ricambi chimici più o meno attivi che si verificano in seno ai tessuti della pianta vivente? E in questa ipotesi ci conferma maggiormente l’esame della traspirazione in un altro ramo fornito di pochissime foglie e già malandate in parte e ingiallite per le numerose esperienze sull’etere alle quali questo ramo era stato assog- gettato. L'esperienza cominciò alle ore 3 pom. del giorno 12 giugno e la curva indicante i diversi valori ottenuti d’ora in ora è delineata nella stessa figura 7, immediatamente al disotto della precedente. Anche in. questo caso, come nell'esperienza prima citata, la temperatura discese solamente d’un grado e la quantità d’aria circolata e la sua velocità furon costanti per tutte le determinazioni. I valori, come si vede dalla curva, sono assai più bassi di quelli ottenuti sul ramo vegeto e ricco di foglie e le oscillazioni sono meno sensibili durante il giorno per divenire quasi inapprezzabili poi durante la notte. Molte foglie ingiallite caddero prima del mattino. Dalla curva (in cui però i decimi di milligrammo sono tra- scurati) è facile farsi un’idea sommaria dei valori ottenuti d’ora in ora ed io mi dispenso quindi dal riportare qui, inutile documento, un arido elenco di cifre. Su un’ altra curva, come già dissi, voglio invece richiamare l’attenzione del lettore ed è sulla curva 2? la quale ripro- duce graficamente il risultato di una determinazione fatta su un ramo fresco e molto fronzuto di un altro esemplare di Evonymus japonica. Dico qui, una volta per sempre, che le piante usate per le mie espe- rienze erano trasportate direttamente dall’orto botanico in Laboratorio, ove venivano mantenute sempre in condizioni propizie alla loro vege- tazione e inaffiate tutte le sere alla stessa ora (quando non si faceva esperienza) con 100-150 cm di acqua comune. La curva o fig. 2.* dimostra il decorso della traspirazione dalle 7 del mattino alle 10 di sera, ma essa colpisce l’attenzione per le oscillazioni enormi che vi si riscontrano. Quest’ esperienza cominciò alle 6 antime- ridiane del 15 giugno ed i valori successivamente ottenuti d’ora in ora furono gr. 0,1469 — 0,1388 — 0,1904 — 0,1814 — 0,1409 — 0,1901 DI 0,1647 — 0;1468/— 0;1408— 0,1836 — 0;2022 — 0,2124 — 0,1780=- 0,1612 — 0,1820 — 0,1426. Anche in questa curva come nella prece- L'AZIONE DEGLI ANESTETICI SULLA TRASPIRAZIONE DEI VEGETALI 101 dente vi è un massimo che viene raggiunto nelle ore dalle 5 alle 7 pom., ma nelle ore antimeridiane nella funzione traspiratoria si osservano sbalzi srandissimi cosicchè l’acqua eliminata dalla pianta è caeteris paribus assai diversa da un’ ora all’altra. Verso .sera vi è pure una discesa e verso le ore 10 (dopo il massimo) la traspirazione ha raggiunto i va- lori minimi normali per discendere poi molto al disotto nelle ore suc- cessive. La curva punteggiata, descritta immediatamente al disotto della precedente, riguarda una esperienza fatta il 14 giugno sullo stesso ramo dalle 4 alle 10 di sera. Essa dimostra la stessa discesa serale ma la traspirazione è meno attiva nelle ore in cui la pianta fu esposta alla luce e ciò forse per la minore intensità luminosa trattandosi di una gior- nata con cielo coperto e nuvoloso. Noi dobbiamo adunque ammettere in base alle nostre esperienze anche gli altri fatti seguenti: 1.° La funzione della traspirazione varia molto da un’ ora all’altra nello stesso individuo non solo, ma i massimi ed i minimi non si verificano regolarmente e non seguono una legge costante. 2.° L'unica regola generale è questa che la traspirazione va aumentando fino nelle ore tarde del pomeriggio per diminuire poi nella notte e risalire al mattino sotto l’azione della luce; 3.° Le oscillazioni sono tanto meno sensibili quanto meno il ramo è vegeto e ricco di foglie. Stabiliti questi fatti è facile comprendere come debbasi parlare di azione depressiva o eccitante di una sostanza sulla traspirazione sola- mente quando i valori trovati sotto la influenza di quella siano talmente superiori o inferiori ai normali da rimanere escluso che si tratti delle oscillazioni e variazioni che potremo dire fisiologiche. Vediamo adesso se, e in quale misura, questo valga per l’etere e per l’acido carbonico che sono le sostanze da me, per ora, sperimentate. Prima però di as- soggettare la pianta a queste sostanze, come per saggiare la sensibilità della funzione traspiratoria di fronte a condizioni rapidamente anormali ho voluto vedere che cosa accadesse allorquando ‘durante il giorno la pianta fosse esposta momentaneamente ad una oscurità assoluta, cosa che facilmente potevo ottenere coprendo il pallone con un panno nero. La fig. 6 dà idea dei risultati di una simile esperienza. La linea con- tinua indica il decorso della traspirazione nella pianta esposta alla luce; la linea punteggiata il decorso della funzione durante l’oscurità che durò dalle ore 3 alle 6. Mentre in queste ore normalmente la traspirazione si accentua, in modo da superare i massimi precedentemente raggiunti, noi vediamo invece la curva sotto l’azione di una oscurità temporanea 102 D. FILIPPI diminuire indi risalire lentamente senza però raggiungere i valori nor- mali primitivi. Mantenendo la pianta all’oscurità noi abbiamo cioè potuto sopprimere dalla curva quotidiana il caratteristico rialzo delle ore po- meridiane, rialzo che si osserva come già dissi costantemente. In altre esperienze questo fenomeno si manifestò ancor più marcato e cito per esempio quella del 16 giugno nella quale operai su un ramo nuovo e fronzuto cominciando alle 9 antimeridiane par terminare alle 8 di sera. I primi tre valori sul ramo esposto alla luce furono 0,1900 — 0,1940 — 0,2078; messo il ramo all’oscurità trovai: 0,1527 — 0,1484 — 0,1450 — 0,0970 — 0,1016 e finalmente esposto nuovamente alla luce ebbi i valori seguenti: 0,1484 — 0,1426 — 0,1364 valori questi che dimostrano come l’azione dell’oscurità temporanea abbia anche in questo caso agito sopprimendo l'aumento della traspirazione nelle ore pomeridiane così che anche esposto il ramo alla luce i valori che si riscontrano invece di essere superiori sono molto inferiori a quelli normali delle ore anti- meridiane. Un fatto simile avviene per l’azione dell’etere, ma è solo facendo un numero grande di esperienze che si può constatare l’azione deprimente dell’etere sulla traspirazione. In alcuni casi il fenomeno ap- pare semplice come è rappresentato nella curva della fig. 5*. I valori ottenuti normalmente in questo caso sono molto costanti. La tempera- tura si accrebbe d’un grado (da 14° a 15°) durante le prime tre ore, poscia rimase costante. I valori normali ottenuti furono 0,1149 — 0,1164 — 0,1156 — 0,1121 —- 0,1164 — 0,1164 — 0,1168. Assoggettato il ramo per un’ ora intera all’azione dell’etere ottengo 0,1002 e quindi due va- lori normali di 0,1182 e 0,1120. Nella curva l’azione dell’etere è rap- presentata da una linea punteggiata, la quale indicherebbe adunque una notevole e pronta diminuzione della traspirazione. Questa diminuzione si continua però in realtà anche dopochè fu cessata l'immediata azione dell’etere perchè i valori che si raggiungono nelle ore pomeridiane sono contrariamente alla regola anche in questo caso di poco o nulla su- periori ai normali. Ma in altri casi questa azione dell’etere è meno evidente o si può prestare facilmente ad interpetrazioni erronee come per esempio nel- l’esperienza rappresentata dalla fig. 10. In questa figura sono delineate due curve. Quella superiore indica il decorso normale della traspirazione nelle ore dalle 3 alle 11 pomeridiane; quella inferiore il decorso della traspirazione nello stesso ramo e nelle stesse ore ma sotto l’azione del- l’etere, Nella prima ora dalle 3 alle 4 sottoposi il ramo per 15 minuti L'AZIONE DEGLI ANESTETICI SULLA TRASPIRAZIONE DEI VEGETALI 103 all’azione dell’etere (linea punteggiata) e chi si limitasse a prendere in considerazione il risultato di tale esperienza per la sola durata di 1 ora dovrebbe concludere che l’etere non ha alcuna azione sensibile ovvero che eccita tutt’ al più leggermente la traspirazione, ma non direbbe cosa . esatta poichè il decorso ulteriore della curva ci dimostra che mentre normalmente la traspirazione deve andare aumentando in questo caso decresce invece notevolmente nell’ora successiva. Sottopongo ancora dalle 6 alle 7 (periodo della massima traspirazione) la pianta all’azione del- l’etere e questa volta per la durata di 25 minuti. La traspirazione si accresce sotto l’azione dell’etere, ma non raggiunge nemmeno il valore normale primitivo e nell’ora successiva poi ricade rapidamente in basso. A questo punto si uniscono due azioni deprimenti la traspirazione; cioè l’etere e la oscurità e noi vediamo la curva mantenersi inferiore ai va- lori ottenuti sullo stesso ramo il giorno precedente in condizioni normali. Non mi dilungo in altre considerazioni; desidero invece richiamare l’at- tenzione sulle curve della fig. 9.* e 4.* le quali pure mostrano l’azione dell’ etere su rami di Evonymus japonica. L'esperienza della fig. 9 fu eseguita il 31 maggio. La temperatura di 17 gradi rimase quasi co- stante in tutta l’ esperienza variando solo di alcuni decimi di grado verso sera. L'esame di queste curve dimostra all'evidenza che l’azione del- l’etere (rappresentata in questa curva dalla linea continua) non si estrin- seca solamente nei periodi di tempo nei quali la pianta è sottoposta alla sua azione, ma è duratura. Essendo il valore normale della traspi- razione dalle 9 alle 10 uguale a 0,0936 diviene nell’ora successiva sotto l’azione dell'etere 0,1142 per discendere poi a 0,1026 e 0,1084 quando la pianta venga sottratta all’azione dell’anestetico. Facendo agire l’etere nuovamente dalle 2 alle 3 si ottiene il valore di 0,0842 e a simili valori bassi rimane anche nelle esperienze successive in cui i vapori d’etere non agiscono più nella pianta. Ai valori di 0,0904 e 0,0886 sussegue sotto l’azione dell'etere il valore 0,0978 e questo dalle 5 alle 6 nel periodo cioè in cui normalmente la traspirazione dovrebbe raggiungere i più elevati valori. L'esperienza consegnata nella grafica della fig. 4 fu fatta il 24 mag- gio mantenendo per un’intera giornata il ramo sotto l’azione dell’etere. La quantità d’etere introdotta nella boccia G ed evaporata fu di 150 cm?. Il primo valore ottenuto normalmente fu 0,0972 (dalle 9 alle 10) e quelli successivi sotto l’azione dell’etere furono 0,0856 — 0,0880 -— 0,0786 — — 0,0938 — 0,0794 — 0,1002 — 0,0752 — 0,0928 — 0,0812 il che signi- 104 D. FILIPPI fica che durando a lungo l’azione dell'etere la traspirazione non cessa ma presenta delle oscillazioni periodiche rimanendo però sempre nella sua totalità notevolmente inferiore al normale. I massimi che caratte- rizzano la curva normale della traspirazione non si verificano più e il decorso della curva diviene irregolare. Giunti a questo punto, e ricordando gli studi del Dixon citati in principio di questo lavoro, potrebbesi confermare a prima vista l’idea che il rallentamento della traspirazione per effetto dell’ etere sia dovuto al fatto che il vapor d’acqua si diffonde meno rapidamente in un am- biente saturo di vapore d’etere di quello che nell’aria comune, ma le nostre esperienze dimostrano non essere questa la ragione del fenomeno. Se così fosse i valori trovati sotto l’azione dell’ anestetico dovrebbero essere sempre inferiori ai normali mentre basta consultare le fig. 9 e 10: per convincersi del contrario. Anzi il fatto osservato più volte nelle curve che il ramo sotto l’azione dell’ etere presenta talora una linea ascen- dente estrinsecandosi solo in seguito l’azione depressiva (fig. 9 e 10) ci fa ammettere che questa sostanza in un primo momento produca un vero e proprio eccitamento della traspirazione. E questo fatto sarebbe impor- tante perchè ravvicinerebbe ancor una volta di più, sotto il punto di vista farmacologico, il protoplasma. vegetale al protoplasma animale. E che tale periodo di eccitamento della funzione traspiratoria esista, meglio che coll’ etere si può constatare coll’acido carbonico. La fig. 8 rap- presenta appunto una simile esperienza. L'aumento repentino, della tra- spirazione che si ottiene riempiendo il pallone di acido carbonico, è così notevole che non ha bisogno di descrizione. Il periodo di tempo durante il quale la pianta si trova sotto l’azione dell’acido carbonico è rappre- sentato nella figura con una linea punteggiata ed è facile constatare come nell’ore successive pur perdurando l’azione della anidride carbo- nica la curva discenda rapidissimamente per raggiungere poi verso la sera dei valori notevolmente inferiori al normale. Ma la figura 3, che dimostra un risultato quasi simile, ottenuto col- l'etere, merita due parole di delucidazione. Questa figura dà il decorso della traspirazione in un ramo pressochè privo di foglie essendone già cadute la massima parte in seguito a ripetute esperienze fatte coll’etere. Ora è facile constatar come la curva della traspirazione sotto l’in- fluenza dell’ etere (linea punteggiata) salga in questo caso notevolmente per mantenersi poi anche nelle ore successive a valori molto elevati. Cessata l’azione dell'etere la curva ridiscende rapidamente in basso per salire di nuovo sotto l’azione dell'etere e di nuovo assai sensibilmente. L'AZIONE DEGLI ANESTETICI SULLA TRASPIRAZIONE DEI VEGETALI 105 L'aumento della traspirazione in rami deperiti e quasi secchi per effetto dell’etere fu da me constatato più volte. Se questo fatto possa spiegarsi, come vorrebbe lo ScANEIDER, aminettendo che non si abbia qui a fare colla funzione traspiratoria ma col fenomeno fisico della evaporazione non saprei. Ad ogni modo questa spiegazione sarebbe in contradizione colle ri- cerche del Dixox secondo le quali, come dissi, l’acqua evaporerebbe meno in un ambiente carico di vapori d’etere che non nell'aria comune. Io lascio per ora da parte questo problema e mi limito a riassumere i risultati delle mie presenti esperienze nei periodi seguenti: 1. — La traspirazione non è un fenomeno puramente fisico; essa è un fenomeno veramente vitale, complesso assai e può mutare da un momento all’ altro per cause molteplici e diverse; 2. — La curva della traspirazione normale presenta dei massimi e dei minimi. La traspirazione massima è verso le 6-7 di sera (nei mesi estivi) e diminuisce poi rapidamente per raggiungere il minimo nelle ore notturne; 3. — Pur conservandosi questo tipo generale di curva traspiratoria esistono differenze notevoli nello stesso ramo da giorno a giorno e pur notevoli differenze negli individui della stessa specie; 4. — L’oscurità temporanea altera il decorso della curva diurna e impedisce il manifestarsi del massimo della traspirazione; 5. — L’etere deprime la traspirazione e ne inverte la curva produ- cendo una diminuzione in luogo dell’ aumento normale. La sua azione postuma è duratura. Per piccole dosi non si ha alcuna azione. Per dosi medie può osservarsi talora un periodo breve di ecci- tamento della funzione traspiratoria al quale succede poi il periodo lungo della depressione; 6. — L'acido carbonico produce in un primo periodo aumento note- vole della traspirazione, quindi una diminuzione pronta e duratura; 7. — Nei rami con poche foglie ingiallite e profondamente alterati l’etere pare produca un aumento dell’ evaporazione dell’ acqua. GIOVANNI D'ACHIARDI LIBERO DOCENTE DI MINERALOGIA NELL’ UNIVERSITÀ DI PISA METAMORFISMO SUL CONTATTO FRA CALCARE E GRANITO AL POSTO DEI CAVOLI PRESSO S. PIERO IN CAMPO (ELBA) Già fino dal 1898 descrivendo un caso di metamorfismo di contatto da me osservato a Berdiauch negli Urali !) fra il granito e il calcare vi poneva in confronto un caso assai analogo nell’ isola d’ Elba nella lo- calità indicata col nome di Posto o Punta dei Cavoli. Delle rocce di questa ultima località non dava che una descrizione sommaria del calcare metamorfosato in marmo sul contatto granitico, mancandomi dirette osservazioni e materiale da me stesso raccolto, onde a colmare questa lacuna recatomi sul posto nel maggio del 1899 insieme al mio amico dott. E. MANASSE cercai con ogni cura di osservare le par- ticolarità tutte del contatto e raccolsi numerosi esemplari di granito e calcare, lo studio dei quali forma l’argomento di questa nota, alla quale altre ne seguiranno per studiare diversi dei fenomeni di contatto fra il granito che forma l’ossatura del Monte Capanne, e altre rocce che vi si adagiano sopra o ne sono compenetrate dalle sue apofisi. Il calcare di Posto dei Cavoli appartiene a quella formazione di rocce sedimentarie metamorfiche del Monte Capanne che il LortI dice costi- tuita 2) “ da scisti diasprini, ftanitici e felsitici con piriti e con vene granatiche, scisti micaceo-arenacei, scisti variegati manganesiferi e scisti ardesiaci macchiettati; calcari e compatti ceroidi a lastre, calcari e cì- pollini saccaroidi per lo più grigi o verdi chiari. In pochi punti soltanto, direttamente a contatto col granito, sono gneis a grana fine o media, micascisti gneisici e scisti quarzitici, che devono ritenersi con molta pro- babilità corrispondenti a quelli presiluriani della parte orientale ,. 1) Due esempi di metamorfismo di contatto. Atti Soc. Tose. Se. Nat., Mem., vol. XVI. Pisa, 1898. i ?) Descrizione geologica dell’ isola d'Elba. Mem. deser. d. Carta geol. d’Italia, pag. 53. Roma, 1886. METAMORFISMO SUL CONTATTO FRA CALCARE E GRANITO 107 Il calcare cristallino di Posto dei Cavoli dice il CoccHI *) che fa pas- saggio all’alberese, ma il LotTI *) non riescì ad osservare tale passaggio, nè a me fu possibile il constatarlo nel 1899, nè or sono pochi giorni essendomi a bella posta di nuovo recato in Cavoli. Il calcare è sempre più o meno cristallino, più o meno scistoso con filaretti, bande e straterelli d’aspetto selcioso, e ricorda certamente, come dice il LortI, alcune varietà del calcare presiluriano così detto di Cala- mita e di cui ho potuto in quest'anno raccogliere esemplari diversi. ‘Granito e calcare per un tratto assai grande si vedono alternare alla superfice in masse più o meno considerevoli e spesso esili apofisi granitiche traversano le masse calcari, le quali terminano col ridursi, col divenir sempre più fogliettate e con lo scomparire per esser poi sostituite in alto e dalla parte del colle di Palombaia dalla formazione scistosa. La zona di contatto da cui fu presa la maggior parte dei cam- pioni si trova circa a un centinaio di metri sul livello del mare, che batte poco lungi alle falde del monte, e di là a chi guardi verso il mare restano in basso le cave di granito e la piccola cala di Punta dei Cavoli a breve distanza. Una vegetazione poco rigogliosa ricopre il terreno e fu l’abile ricercatore di minerali elbani, Lurci CELLERI 8), che mi con- dusse a raccogliere i miei campioni nello stesso punto in cui fu per la prima volta ritrovata la wollastonite elbana, che il Savi 4) ritenne per grammatite e mio padre °) e vom RaTH %) determinarono per wollastonite. Il granito più o meno alterato, incotto alla superfice dalle intem- perie, dal sole e dal salmastro, a pochi centimetri sotto la scorza su- perficiale di alterazione si mostra resistente, inalterato, di color grigio, grana mezzana e abbondanza di mica nera con aspetto del tutto simile a quello che costituisce la massa del Monte Capanne, quando sì osservi ad una certa distanza dal contatto calcare. In vicinanza di esso invece comincia a cambiar d’aspetto, assume una colorazione biancastra, scar- 1) Descriz. geol. dell’isola d’ Elba. Mem. Com. Geol. d’It. I. 1871. 2) Op. cit., pag. 56. 3) LuiGr CELLERI è morto or sono due anni lasciando largo rimpianto di sè in tutti coloro che l’ ebbero guida ed ajuto intelligente nelle escursioni attra- verso la sua isola natale. 4) Cost. Geol. dell’ Elba. 1833. °) Sopra alcuni minerali dell’ Elba. Pisa, 1870. 5) Die Insel Elba. Bonn, 1870. Sc. Nat. Vol, XIX 108 G. D’ACHIARDI seggia la mica nera ed è tutto attraversato da filoncelli a grana minu- tissima bianco-grigiastra di un microgranito, che per il suo colore ancor più chiaro, per la quasi mancanza di mica e per la minutezza della grana si stacca dalla massa rocciosa circostante. Questi filoncelli corrono pa- ralleli o quasi fra loro e mostrano nella massa biancheggiante dei fila- retti seguenti per il solito l'andamento della vena, più raramente con- vergenti, dalla cui massa si differenziano per il colore giallastro e gros- sezza maggiore dei minerali da cui risultano (tav. IV, fig. 2). Indipendentemente anche da questi filoncelli, mano a mano che ci sì avvicina al contatto il granito continua a mutar d’aspetto insensibil- mente, la pasta si rende sempre più uniforme, il colore tende al verdo- gnolo per disseminazione di puntolini o plaghette verdi, più raramente verde-nerastre, finchè al contatto si ha una formazione di pochi centi- metri di spessore, verdastra, talora giallo-verdastra o giallo-rossastra; sempre con tendenza al bigio, costituita da una roccia molto dura a grana minutissima, nella quale luccicano talora lamine di calcite, e che passa per gradi insensibili, verso il calcare, ad una banda più piccola giallastra per abbondanza di vesuviana, che a sua volta si connette e si mischia al calcare divenuto grossolanamente cristallino, talora sacca- roide, più o meno farinaceo, friabile alla superfice, di color bianco o leggermente verdognolo, a formare in alcuni punti un vero e proprio cipollino scherzosamente fogliettato. Sul contatto fra il calcare e questa banda d’apparenza selciosa, e nel calcare stesso compaiono quasi sempre, simili ad inclusioni, cristalli ma- croscopici, isolati e riuniti in gruppi od in fasci di specie mineralogiche di- verse fra le quali predominano wollastonite ora bianca, ora leggermente rosea, vesuviana giallo-verdastra, gialla-miele più o meno intenso fino a brunastra, a cui si associano massarelle fibroso-raggiate o laminari di scapolite, cristalletti di granato giallo-colofonia, talora uniti a vesu- viana, condrodite ecc. ecc. 1. — Granitite normale. Solo per confronto osservai diverse sezioni del granito normale di Monte Capanne già da tanti autori descritto. Per le mie osservazioni e per quelle degli altri i minerali suoi essenziali sono: ortoclasio, oligo- clasio, albite, biotite e quarzo. METAMORFISMO SUL CONTATTO FRA CALCARE E GRANITO 109 I plagioclasi sono più abbondanti dell’ortose e fra questi l’oligoclasio, sembra più frequente dell’albite. L’ortose, meno fresco di tutti gli altri materiali, mostra spesso inizio di alterazione caolinica molto limitata, quasi sempre allotriomorfo e non di rado con geminazione di Carlsbad. I plagioclasi presentano spesso struttura zonale con differenze pic- colissime di acidità da una zona all'altra ed estinzioni spesso ondulate; comunissima la geminazione dell’albite; spesso i cristalli hanno un man- tello micropertitico e talora sono parzialmente idiomorfi. Il concrescimento dell’ortose con l’albite non è raro, sia come man- tello nei cristalli freschi di albite, sia in vere e proprie lamine allotrio- morfe. Nelle sezioni da me studiate non ho trovato concrescimento mi- cropegmatitico, nè lamine di microclino l’uno e le altre ritrovati invece da VIOLA !). Il quarzo abbondante, ma in minor copia dei feldispati, è limpido incoloro, con numerose inclusioni solide, liquide e gassose. La mica nera, assai abbondante è per il solito fresca, fortemente pleocroica e assorbente: talora è convertita in sostanza cloritica. La copia del ferro svelata dall’analisi del dott. MAnaSSE ?) potrebbe far credere alla presenza di una mica nera più ricca in ferro della biotite, ma le lamine sottili di sfaldatura e quindi parallele alla base, mostrano figura di interferenza quasi uniassica, carattere della biotite, mentre ad es. per il lepidomelano, che potrebbe supporsi presente, si ha un angolo degli assi ottici di 7°-8° circa. Anche la mica bianca, benchè del tutto subordinata alla nera, non è molto rara sia come originaria, sia come prodotto di alterazione dei feldispati insieme a granuli epidotici quasi incolori e leggermente pleo- eroici, e di fascetti pure pleocroici dal verdolino-chiaro al verdolino di un minerale a bassissimi colori di interferenza che ritengo zoisite. Di minerali accessori va citata l’apatite come inclusione in tutti i minerali precedentemente descritti e in special modo nella mica. Ho trovato un’ unica sezione di un piccolissimo cristallo di torma- lina policroma terminata ad una sola estremità da faccette di {100}, i) Appendice a memoria di LoTTI: Sulle apofisi della massa granitica nelle roccie sedimentarie eoceniche presso Fetovaia nell’ isola d’ Elba. Boll. Com. Geol. Roma, 1894, N.° 1. °) Stilbite e foresite del granito elbano. Atti Soc. Tosc. Sc. Nat., Mem., Vol. XVII. Pisa, 1900. 110 G. D’ACHIARDI incolora a terminazione verdastra, come le così dette teste di moro in sezioni sottili. Così pure un’ unica sezione di minerale a forte rilievo, screpolature ed altri caratteri, fra i quali anomalia ottica, fa ritenere presente anche il granato. Assai scarso il rutilo in esilissimi aghetti e pur rare magnetite ed ema- tite. Invece non molto raro è lo zircone in nitidi cristallini e granuli inclusi nella maggior parte dei minerali principali. L’analisi eseguita dal dott. ManaASSE !) sopra un esemplare tipico di granito proveniente da Fonte del Prete sotto S. Piero in Campo dette i risultati seguenti: da Rapporti molecolari 2) STOSIECINANE 69,92 69,02 i I ZO Re tr. tr. PESO 0,24 0,24 ceo 1 0, 002 INDO 0. 56 15, 68 15, 48 0, 151 | 0.179 Fe,0,(+-Fe0)3) 4,57 4,51 0, 028 Ù Mn0r rai tr. tr. CAO 000 1,85 1,83 0,032 0,055 Mo Oro 0,92 0,91 0,023 | 0.157 RIONE 3,18 3 MAMMN0N033 | IGO \ i NASO oe 4,35 4,29 0, 069 3 , FEO MAIA 0,59 0, 58 Si SOLI RIINT MZ ORO3D 101,30 100,00 Il peso specifico da me determinato col picnometro sulla roccia ri- dotta in polvere è = 2,69, assai superiore a quello determinato dal dott. MANASSE sovra pezzi di granito per mezzo dei tubi graduati. Dai rapporti molecolari non tenendo conto nè dell’acqua, nè dell’a- nidride fosforica si deduce: III I II SiOs : Rs0: : (R2, R)O = 7,28 :1, 14: 1,00; I II R:0 : RO = 1,85 : 1,00 ; Na:0: K:0=2,09:1, 1) Mem. cit. ?) I rapporti molecolari in questa e per le analisi successive furono da me calcolati dai risultati analitici ridotti a 100. 3) Dosato tutto come ferrico, ma da ritenersi in parte come ferroso a far parte della biotite. METAMORFISMO SUL CONTATTO FRA CALCARE E GRANITO 111 da cui si deduce poi il coefficiente di acidità a, dato dal rapporto dell’os- sigeno delle anidridi a quello delle basi e il numero f delle molecole basiche per 100 di SiO» a= 3,29 ; B= 29,40. Dai dati dell’analisi si ricava: H,0 Nas0 K,0 Cao Mg0 FeO FesO; A1,03 P.0; Si0z Apatite. . . . — — — 031 — — —- — 0,24 Gi | RAI SO, . — — 2 — (—..— — ©. 2,29 — ‘8,11 a 3 NaAlSi;0g . — 4,35 — — — — — 7,16 — 25,38 Ei | O Neg E lola] OL alza Biotite . . . . 0,21 — 1,07 — 0,92 1,39 —. 2,30 —. 4,13 (HKMgFeAl,Si,0,3) Gicizoa IR = = = _ = E I i 28,98 Acqua . . . . 0,38 — = = = te dl La: e 4; Ossido ferrico. . — _ — — = — 3,03 — IRE teri 0,59 4,35 3,18 1,85 0,92 1,39 3,03 14,56 0,24 69,92 Composizione mineral. Pesi specifici in peso %/o e (0,05 UE SI Sai re Sg sasa 12,50 2,56 32,00 Feldispati Î » albitica . 36,89 36, 88 2,62 96, 63 » anortitica 7,67 1,67 2,76 21,17 BIO IENA RSA E LO 02 10,02 2,92 29, 26 UArZO TAO NR 28798 28,97 2,65 16,77 AGO eee e e o 0,38 1,00 0,38 BERdorierrico, RI Rie 00 3,03 4,00 12,12 100, 03 100, 00 270, 09 Differenza da analisi . . — 1,27 101,30 Il peso specifico 2,70 è così vicino a quello determinato direttamente, 2,69, che vien quindi in conferma della qui dedotta composizione mi- neralogica, che corrisponde a quella di una comune granitite. 112 G. D’ACHIARDI 2. — Granito alcalino. Il granito normale o granitite di Monte Capanne, man mano che ci sì avvicina al contatto calcareo va insensibilmente cambiando di aspetto e a pochi metri dal contatto stesso la mica nera è divenuta molto scarsa e la massa feldispatica sembra avere aspetto meno vetroso e più bianco. Inoltre in esso spesseggiano piccole vene di bianca aplite. AI microscopio si rivela una struttura granitica; solo in alcune se- zioni si ha accenno a struttura porfirica ipidiomorfa poichè si vedono le lamine maggiori di quarzo e di feldispato come circondate, rilegate da quarzo e feldispato di dimensioni molto minori (tav. IV, fig. 1), con abbondanza specialmente del primo, fatto già osservato dal VrioLa per le sezioni del granito costituente le apofisi negli scisti silicei di Fetovaia *). Predominano su tutti gli altri minerali i feldispati in grani quasi completamente allotriomorfi, salvo il caso che sieno di oligoclasio, il quale presenta invece grande tendenza all’idiomorfismo. Spettano a più specie o varietà, tutte però molto acide e a rifrangenza inferiore al quarzo e al balsamo del Canadà. Assai frequente è l’ortose in grani con geminazione di Carlsbad; ordi- nariamente torbidi per alterazione caolinica, inclusioni diverse e scre- polature. Pur molto torbido e grigiastro per inclusioni è il microclino, che io ritengo più copioso di quel che farebbe credere la struttura a grata dif- ficile a riscontrarsi, perchè d’ordinario cancellata dalla alterazione. Però in alcune lamine se ne vedono evidenti le tracce. Assai frequenti sono piccoli grani di micropertite, se non anche mi- cropegmatite, talvolta riconoscibili pure a luce ordinaria per le loro lu- cide vermiculazioni e sempre per la rifrazione notevolmente più elevata dei feldispati circostanti. A interposizione di esilissime lamelle albitiche in piani paralleli credo sia pure da attribuirsi la finissima striatura, visibile anche a luce ordi- naria per la differenza di rifrazione dei due feldispati associati (tav. IV, fig. 1), che molte lamine presentano, se pur queste non debbano riferirsi addirittura all’anortoclasio, tanto più che carattere di questo è sì fatta striatura, e come in questo si hanno rispetto ad essa estinzioni ad an- golo piccolissimo. 1) Mem, cit. METAMORFISMO SUL CONTATTO FRA CALCARE E GRANITO 113 L’oligoclasio è scarso, molto meno alterato e quindi più limpido degli altri feldispati. Struttura polisintetica per geminazione evidente e ben di- stinta dalla striatura testè ricordata. Indice di rifrazione più elevato degli altri feldispati, ma pur sempre minore del quarzo. È da notarsi come questi diversi feldispati e spesso il quarzo di pic- cole dimensioni, talora idiomorfi, si trovino inclusi nei cristalli maggiori sia di feldispato (tav. IV, fig. 1), che di quarzo e come i cristalli feldispa- tici che si vedono costituire le rilegature sieno molto più freschi degli altri. Il quarzo è assai abbondante forse però meno dei feldispati, dai quali lo distingue anche la maggiore limpidezza, quantunque questa non sia perfetta specialmente per la copia delle inclusioni aeroidriche . spesso disposte in piani apparenti in filari. Si presenta ora come materiale di ripieno fra i feldispati, quindi come nel tipico granito, ora in grani in- clusi specialmente nei feldispati come nelle apliti e nelle pegmatiti a dimostrarne la simultanea generazione, onde il comune allotriomorfismo e la tendenza della roccia alla costituzione pegmatitica. Già dissi del quarzo secondario in vene, spesso con polarizzazione di aggregato, a ri- legare fra loro i cristalli maggiori della roccia. La mica è quasi esclusivamente biotite, se non anche lepidomelano, per trasparenza giallo-bruna, molto assorbente, in lamine stracciformi all’ estremità, talora alquanto alterata. Rarissima, eccezionale la mica bianca, verosimilmente lepidolite, a giudicare dalla disposizione raggiata delle sue lamelle. Assai abbondante l’apatite in microliti bacillari, talora non molto piccoli, con evidenti terminazioni e linee di sfaldatura, spesso accumulati qua e là in numero considerevole. Come inclusione specialmente nella biotite e nei feldispati. I minerali accessori sono scarsissimi; lo zircone in cristalletti prisma- tici bipiramidati, che talvolta formano piccoli gruppetti; il rutilo in esili aghettini; la tormalina in piccole lamine fortemente pleocroiche dal verde- azzurro all’ azzurro-nerastro intenso; pochissime lamine di ematite tra- sparenti rosse-rubino, scarsi granuli di magnetite, pentagonododecaedri di pirite e in connessione con dei prodotti limonitici, i quali eccezional- mente derivano anche dalla alterazione della mica. L'analisi della roccia da me eseguita mostra la differenza che esiste fra essa e la granitite normale di Monte Capanne: 114 Sio, P,0; A1,0, Fe,0,(+Fe0) 1) . Cao Mgo K,0. Na,0 H,0 sotto 110° H,0O per arrovent. G. D’ACHIARDI °/o Rapporti molecolari Tipici 76,46 0,07 OO 13,31 13,20 0,129 0,81 0,80 0,005 | 1,32 1310000021 | d.8ad 0,21 ISIN 1005. Mae 3,21 3,18 0,034 | 0,105 4,39 4,85 0,071 0,05 0/57 0,42 100,85 100,00 P. sp = 2,659 1,266. 0, 0005 0,134 0,134 0, 023 Dai rapporti molecolari, non tenendo al solito conto nè di acqua, nè di anidride fosforica, si deduce: III I II SiOs : R203 : (R,R)O = 9,45: 1: 1; I II R20ETROT_i3R62E MEN Orte 0/_LA09EO da cui: a= 4,725 ; B=21,17. - Partendo dai dati dell’analisi si ottiene: Apatite Feldisp. Biotite . Quarzo . Acqua . Ossido ferrico . K AISi,0;, . NaAl Si,0g . Ca Al, Si,0g . H,0 Na0 K0 CaO Mg0 Fe0 LE ETA ERO e ae = 909 — (= — —. 4g > — SS I O ORO — N02, 00 SM NrO 0 Or 007, Ae Fes0; Al03 3,21 7,22 2,24 0,53 P.0; Si0a d'o7— SMAU — 25,62 (RERONGE 0,42 4,39 3,21 1,32 0,21 0,37 0,40 13,20 0,07 77,11 1) Dosato tutto come ferrico, ma da ritenersi al solito in parte come ferroso a far parte della biotite, nella quale però per la sua alterazione, non può | escludersi che vi esista anche come ferrico. METAMORFISMO SUL CONTATTO FRA CALCARE E GRANITO 115 Una parte dell’acqua deve ritenersi come igroscopica, ma una parte, e forse non la minore, come proveniente da prodotti di alterazione caoli- nici e limonitici. Alla limonite va pure attribuito un poco del ferro, ma la parte maggiore credo che spetti alla mica, qui nello specchio con- siderata non solo come biotite, ma sì anche nella sua composizione nor- male H K MgFe Als Siz 013 più teorica che reale. L’ossido alluminico è sempre sostituito da più o meno d’ossido ferrico che può anche diventar prevalente come in alcuni lepidomelani, onde si spiega facilmente l’eccedenza del ferro sulla supposta composizione, così come la presenza di materia caolinica spiega il piccolo eccesso di Als 03 anche se fosse maggiore, come quando si ritenesse questa in parte sostituita da Fez 03. Dallo specchio precedente si deduce: Composiz. mineral. Pesi specifici %/o PAC Re ON: 0,16 x 3,20 = 0,51 molecola ortosica . 17,54 17,42 2,56 1) 44,60 i » albitica . 37,23 36, 97 2,62 96, 86 » anortitica 6,12 6,08 2,16 16, 78 Battere HE eee 2595 2,38 2,92 6,80 O TUEZO NO RI 000 36, 27 2,65 96,12 INGOIO e n 40 0,37 1,00 0,37 OSsIdogfernico gie 010) 0,40 4,00 1,60 100,70 100,00 263, 64 Differenza da analisi . . — 0,15 100, 85 Il peso specifico di 2, 636 desunto dalla composizione mineralogica solo pochissimo si differenzia da quello direttamente determinato sulla stessa polvere della roccia che ha servito all’analisi, e che si è detto es- sere 2, 659 e che corrisponde a quelli dati dai vari autori per i graniti alcalini. I risultati dell’analisi corroborano lo studio fisico della roccia; in questa come nella granitite precedente non è certo anortite così come, se pre- sente, l’albite non lo è nelle proporzioni indicate nello specchio in cui si 1) RoseNBUSCH. — Z/emente der Gesteinslehre. Stuttgart, 1898. 116 G. D’ACHIARDI dà il rapporto delle molecole di vario tipo che possono oltrechè da sole trovarsi associate in una stessa specie. Le molecole anortitiche fan parte dell’oligoclasio, che l’esame microscopico vi fa riconoscere, così le albi- tiche vanno in parte riferite oltrechè ad esso all’ ortose, al microclino, all’anortoclasio, sempre più o meno sodiferi. Queste cifre valgono a farci riconoscere più la costituzione magmatica che la mineralogica, alla cui interpetrazione porgono non pertanto non piccolo aiuto. Si ha dunque a che fare con un granito diverso dalla comune gra- nitite di Monte Capanne per la scarsezza della mica, per la scarsezza dei feldispati sodio-calcici e abbondanza invece dei sodio-potassici, onde va ravvicinato ai graniti alcalini con tendenza alla costituzione pegmati- tica. Al gruppo aplitico-pegmatitico è la roccia anche da ravvicinarsi oltre- chè per la scarsezza della mica per la quasi assoluta mancanza di ossidi - originari e di silicati non alluminiferi. Anche il tenore dell’anidride sili-' cica, così come il suo reparto nella costituzione delle varie specie mine- rali e il peso specifico confermano il carattere di granito alcalino e il suo ravvicinamento al gruppo aplitico-pegmatitico 1). L'elemento albitico predomina sull’ortosico, ma ciò sembra un ca- rattere delle rocce granitiche elbane. Anche l’analisi del dott. MANASSE ha rivelato più soda che potassa nella granitite di Monte Capanne e nella stessa eurite di Portoferraio, da RoseNBUSCH riferita all’aplite, per 3,67 di K3 O si hanno 5, 28 di Naz O.. Si ha dunque una di quelle facies periferiche delle masse granitiche con tendenza alle forme pegmatitiche, quali il RoseNBUSCE (pag. 89) cita per le granititi di Brossnitz in Sassonia, di Geyer negli Erzgebirge e di Guéméné ecc. nel Morbihan ece. 3. — Vene di aplite nel granito alcalino. Roccia in piccole e bianche vene. entro la precedente a struttura mi- nutissimamente saccaroide. Sul fondo bianco punti quasi invisibili di mica nera. Esili filaretti giallognoli di circa 1 mm. di larghezza percorrono per lungo questi filoncelli parallelamente, o quasi, alle loro pareti. Al miero- scopio occorrono assai forti ingrandimenti per risolvere nettamente nei suoi elementi la roccia, la quale mostra struttura panidiomorfa granu- 1) RosoNnBUScH. — Elemente ecc. pag. 78, analisi 1-4. METAMORFISMO SUL CONTATTO FRA CALCARE E GRANITO TRIET lare a grani piccolissimi (tav. IV, fig. 2), onde la quasi apparente compat- tezza ad occhio nudo, di quarzo e di feldispato quasi isometrici scolo- riti, ordinariamente limpidi e solo alcuni e parzialmente torbidi. Scarse e qua e là disseminate piccole laminette e stracci di mica bruna. Altri minerali del tutto accessori. I feldispati sono quasi completamente allotriomorfi in grani irregolari; la massima parte di ortose, cui van certo riferiti i più torbidi. Altri lim- pidi e con segni più o meno evidenti di struttura polisintetica sono di oligoclasio, ma non sono molti; altri pure limpidissimi ritengo di albite, la quale solo per eccezione è micropertiticamente concresciuta con ortose. Microclino con tipica struttura a grata non ne ho visto; alcuni grani la- sciano però nel dubbio. Tutti hanno rifrazione molto inferiore al quarzo, quindi spettano alle varietà più acide. Nitidi prodotti di alterazione e determinabili non si scorgono; anche nei più torbidi, e sono ben pochi, la torbidezza sembra prodotta e da bolle d’aria e da piccolissime, innumerevoli fenditure che si vedono lu- meggiare a luce riflessa. Il quarzo è pure in grani rotondeggianti con accenn$é talora ad esae- dricità, che non mai appare però per linee rette; piccolissimi anche essi, forse anche più di quelli dei feldispati, fra i quali e dentro i quali in- differentemente si accolgono; forma e modo di presentarsi dell’ aplite e non dei tipici graniti. Del quarzo di questi ha le inclusioni aeroidriche e altre solide. La mica bruna scarsissima e solo in piccolissimi stracci a irregola- rissimo contorno. Mostra segni in qualche sezione di alterazione clori- tica, più spesso leggero intorbidamento e colorazione limonitica. Come minerali accessori si hanno: zircone assai frequente in piccoli cristalletti allungati prismatico-piramidali o in grani; ordinariamente in- cluso nel quarzo, talora insieme forse a qualche aghetto di rutilo. Apatite limpida, scolorita in bacilli inclusi nei minerali essenziali, e non molto abbondante; rara in cristalli più grandi. Tormalina assai rara, con pleocroismo da un cilestro-chiaro a un verde- cupo-turchiniccio; quasi sempre alterata in mica, carattere anche questo dell’ aplite. Granato rarissimo e così la vesuviana quasi scolorita, e l’epi- doto in scarsissimi nè bene accertati grani. Minerali di ferro del tutto eccezionali; solo qualche laminetta di ematite più o meno limonitizzata. I filaretti giallognoli sono pure essi costituiti di grani di quarzo e di feldispato però di maggiori dimensioni e sembrano i primi aver più 118 G. D’ACHIARDI irregolare contorno e più numerose inclusioni aeroidriche di quelli della massa circostante; quelli di feldispato, prevalentemente di ortose, hanno limpidezza molto minore per maggiore alterazione e più numerose in- clusioni fluide. Nell’ insieme dei caratteri rammentano questi piccoli filaretti il gra- nito alcalino circostante nei punti ove manca la mica. Le bianche vene poi sono indubbiamente di aplite di una varietà a grana estremamente minuta. L’analisi da me fattane dette: SIOE Oo 8090) ECO RE TRo 0,09 ALOE n 15,20 Fe,O,(+Fe0). . . tr. Cai 1,20 MEO tr. RO E 4,14 NEO eee 4,49 H,0 sotto 110° . . 0,07 H,0 per arrovent. . 0,36 | 99,45 100,00 P. sp. = 2, 60. Rapporti molecolari 1,230 0, 0006 0,150 0, 022 0,139 00 AE 0,073) 0, 024 Dai rapporti molecolari, come nell’analisi precedente, si ha: III I II STO: 31840 8 (10) = 8001083 1 e di qui II ROIO ZII OTO a=4,17; B= 23,5. Dai dati dell’analisi si ricava: H,0 Nas0 Apalito lea niciae _ — ( K AISi;0;. _ — Feldispati! NaAlSi;0; . _ 4,49 CaAl,Si,0; . — = QUIZ NA N _ — ACQUA, ar 0 — 0,43 4,49 0;12. i —i =; .74,49 SMI =; 7,30 oa OB OT 2,33 METAMORFISMO SUL CONTATTO FRA CALCARE E GRANITO 119 Si ha 1,35 %o di Al: 03 in meno che nell’analisi, differenza in parte imputabile alla mica, qui nello specchio non considerata perchè non poterono dosarsi nè magnesio, nè ferro. Lo stesso è a dirsi per l’acqua dovuta in parte ad alterazione caolinica. Dallo specchio precedente si ricava: Composiz. mineral. Pesi specifici in peso %o IDALILE Re e Re ve OI 09 20M 6r molecola ortosica . 24,54 25,02 2,56 64,05 Feldispati » albitica . 38,08 38, 82 2,62 101,71 » anortitica 5,38 5, 48 2,76 15,12 SIRO BNCESARE: MENTO o ae 29, 460 30, 03 2,65 19,58 ENER A n ORI 0, 44 1,00 0, 44 98,10 100, 00 261,57 Differenza da analisi . . — 1,35 99, 45 Qui pure si ha quasi perfetta corrispondenza fra il peso specifico, 2, 616, calcolato dalla presunta composizione mineralogica e quello ot- tenuto direttamente sulla roccia, 2, 60, e che corrisponde a quello della aplite. E non altrimenti che come aplite deve infatti considerarsi, e fra le rocce di questo tipo ci rappresenta una delle varietà più povere, se non scevre affatto di ossidi metallici e di silicati non alluminiferi, come prova anche il rapporto di quasi eguaglianza fra l’allumina e gli ossidi di radicali mono e bivalenti, che è il rapporto feldispatico. 4. — Granito a immediato contatto del calcare. Sul contatto con la roccia calcare e con l’intermezzo di una sottile banda di color verdastro il granito si trasforma in una massa con appa- renza di quarzo grasso tutta tempestata di piccole granulazioni o mac- chiuzze verdi dello stesso tuono di tinta della banda testè citata che lo separa dal calcare marmoreo, e da più scarsi e ancor più piccoli grani di color giallo-cuoio a lucentezza resinosa. Al microscopio la roccia mostra ancora evidente la costituzione gra- nitica con differenze però notevoli con il granito alcalino e l’aplite testè descritta. 120 G. D’ACHIARDI Di feldispati vi si osservano ortose e microclino molto ricchi di in- clusioni e molto torbidi sia per esse, sia per le alterazioni sofferte e derivatine prodotti secondari, fra cui assai abbondante caolino, e meno una mica bianca in straccetti, verosimilmente muscovite o sericite. Fra le inclusioni oltre l’aria introdottasi nelle screpolature e in piccolissime irregolari bolle aeroidriche, vi si osservano apatite in cristalletti bacil- lari ed ematite in laminette, però rarissima. Taluni feldispati mostrano la finissima striatura lumeggiante prodotta da intromissione di lamelle albitiche, ma sono assai più rari che nel granito testè descritto, mentre invece più frequente che in quello sembra essere il plagioclasio, il quale sia per la estinzione, sia per la rifrazione sempre maggiore di quella del quarzo conviene riferire a termini non meno basici della labradorite e sempre più basici e più calciferi quanto più ci si avvicina al calcare. Nel granito alcalino invece si avevano solò termini, e fra i più acidi, di oligoclasio. Questo feldispato basico si distingue facilmente dagli altri per molta minor copia di inclusioni e quindi maggiore limpidezza dei cristalli e per l’evidenza della sua struttura polisintetica a seconda delle due leggi dell’albite e del periclino. I cristalli sono assai più idiomorfi di quelli di ortose e altri feldispati alcalini, che continuavano ancora ad accrescersi durante la segregazione del quarzo, rispetto al quale sembra in parte anche configurarsi il loro contorno. Per questo granito è del pari a notarsi come i più acidi feldispati e il quarzo si producessero anche contemporaneamente, come ho già no- tato per il granito alcalino, dal momento che si trovano lamine di quarzo e di feldispato con inclusi minori di quarzo e di feldispato. Il quarzo è copioso in grani allotriomorfi: spesso riuniti anche fra loro con disposizione saccaroide, senza colore, limpido, quasi privo di inclusioni salvo le bolle aeroidriche, che talora sono assai grandi, non però in gran numero. La mica nera manca quasi del tutto, io ne ho osservato solo due 0 tre lamine in un numero grande di sezioni, onde anche per ciò differenza dal vicino granito; e differenza non minore si ha nella presenza di assai abbondanti minerali accessori e subordinati, fra i quali giova specialmente ricordare la titanite e la malacolite (tav. IV, fig. 3). È laTtitanite assai frequente in grani irregolari e spesso anche in cri- stalli apparenti in foggia di allungate losanghe di color nocciola dai tuoni chiari in sezioni sottili a tinte volgenti al giallo-verdognolo per pleocroismo, METAMORFISMO SUL CONTATTO FRA CALCARE E GRANITO 121 grani e cristalli che corrispondono alle macchiuzze di color giallo-cuoio, che si vedono anche con la lente sul fondo bianco della massa rocciosa. Ancor più frequente è il pirosseno e tanto più, quanto più ci si avvicina alla banda verde di separazione, rendendosi rarissimo e scomparendo an- che a breve distanza da essa. È del pari in grani a contorno irregolare, spesso anche con aspetto di coccoliti; ha colore nocciola-verdastro, ma con più spiccata tendenza al verde della titanite. Io ritengo anche per la estinzione a circa 38° e per la posizione dal piano degli assi ottici pa- rallelo alla linea longitudinale di separazione sia da riferirsi a una malaco- lite assai ricca in ferro ed intermedia fra il diopside e 1’ hedenbergite come fa credere anche il colore intensamente verde in sezioni non molto sottili. Alcuni pochissimi grani presentano debole pleocroismo dalla stessa tinta verde a verde-giallognola, onde potrebbesi credere alla presenza dell’ epidoto, non contradetta dagli altri caratteri e avvalorata dalla sua presenza nella ristretta zona verde di contatto. Zircone in microliti cristallini molto raro; ematite in laminette rosse rarissima; in alcune sezioni si osservano aree sporche per limonite, pro- dotto di alterazione di altri minerali che circonda. Pure rarissima è l’apatite, che però ricomparisce in assai copiosi cri- stalletti bacillari per poco che ci si scosti dal contatto. Ancor più rara la tormalina, di cui ho ritrovato in tutte le sezioni esaminate un solo e mal definito cristallo. L’analisi chimica da me fattane dette: %/o Rapporti molecolari SIOE Po) 15,60 15,24
—. 0,90 0,860 —
e) ER 0,30 Or. 1.0,07
MIiCaSiO, 0. ; i. i BM —. — LL MIL
Fee N ee oe
£( re RM Az = pg e L
Wesuviana . |. . . = —_ _ 0,1 — — 0,05 0,10 — —
(CasAl; [OH] [Si0,]z)
e e o 0,03 a MO Sta 0
(Mg; (0H,F1), [Si0,],)
Acqua i - . 0,09 O,ll — _ — = = = = ae
0,09 0,14 0,24 51,66 0,79 0,70 0,65 17,13 30,01 0,07
4) Dosato tutto come ferrico e calcolato come ferroso.
2) Pesato insieme al potassio.
3) Partendo da FeO=0,70, la magnesia fu qui e nell'analisi seguente calcolata
dalla quantità richiesta dalla formula della malacolite, sopra usata, Ca,MgFe [Si0;],.
136 G. D’ACHIARDI
Dalle proporzioni calcolate risulta un eccesso di silice di 1,35 e un difetto
di soda di 0,19.
II.
H,0 H,0 Na,0 Ca Mg0 Fe0 A10; Si0, CO, Cl
arrov
Calcite eee — — — 46,001 _ — — — — 36,15 —
|-CaAlSi0g 0 ei 10,28, (0390
=|2((Na,B)A1,S1,0,,0) 004/019 e Me
FICO — -
OSO e e O —_ | _ —
al re SO e ee iL u)45) SEO
Vesuviana . . ... — 0,01 — 0,831 — — 0,14 0,28 — —
Hume n 0 04 — 0,68 — | e 0,400
Acquatt.o d o10070 — —_ — — = — — —
0,07 0,09 0,19 52,01 0,88 0,45 0,92 9,11 36,15 0,09
Nel dipiro fu computato anche un po’ d’acqua, che le analisi svelano quasi
sempre in questa specie a compensare la deficenza della soda asportata forse
per alterazione.
JE
Composiz. mineral. Pesi specifici
in peso
o
Calcite . . . 5 . . 68,20 67,29 x 2,72 = 183,03
Dipiro 4) . . 7 6 0 si 6 2,51 2,62 6, 58
Wollastonite *).. ” ; î . 25,04 24,70 2,85 70, 40
Malacolite Ò > . 0 MTA58 4,47 3,40 15,20
Vesuviana 6 . o 0 . 0,26 0,26 3,40 0, 88
Humite . b 3 è ; o 09 0, 68 3,15 2,14
Acqua . 6 i o . NEIOR09 0,09 1,00 0, 09
101,35 100, 00 278,32
Differenza da analisi . : + 1,05
100,30
1) Computato detraendo l’ossigeno corrispondente al cloro e cioè 0,02.
2?) Dalla quantità di silicato calcico risultante dalle composizioni mineralo-
giche ne fu tolto quanto ne richiede la malacolite considerata con la formula
già indicata.
METAMORFISMO SUL CONTALTO FRA CALCARE E GRANITO 137
KE;
Composiz. mineral. Pesi specifici
> in peso
%o
Calcite . 6 7 : ; . 82,16 82,21 x 2,72 = 223,61
Dipiro 4) . . è c 7 A IESZIO) 3,20 2,62 8,38
Wollastonite ?) . . . c MIO CO 9,80 2,85 27,93
Malacolite , : : : MD2Z9 2,9 3,40 9,89
Vesuviana o 3 3 3 . 0,74 0, 74 3,40 2,52
‘Humite . 5 2 £ 6 SION 1,07 3,15 3,97
Acqua . 5 3 È . 05, 0X7 0,07 1,00 0,07
99,94 100, 00 275,71
Differenza da analisi O, — 0,13
100, 07
I pesi specifici computati dalle composizioni mineralogiche, 2,783 el
2,758, corrispondono a quelli ottenuti direttamente dai due campioni di
rocce analizzate 2,81 e 2,72.
Lo studio chimico valutato rispetto alla composizione mineralogica
conferma la diminuzione graduale dalle precedenti rocce non solo della
vesuviana, humite, granato ecc., ma sì anche del pirosseno malacolite
o altro verdognolo. La stessa wollastonite poi, che si manteneva pur
sempre in proporzioni notevoli, va scemando gradatamente e dalla analisi
I alla II la differenza è notevole.
7.— Stratarelli d’aspetto selcioso.
Presso al contatto entro al calcare marmoreo vedonsi stratarelli,
bande grigio-verdastre d’aspetto petroselcioso, che talora per la sotti-
gliezza e frequenza loro e per le ondulazioni che presentano dànno alla
roccia apparenza di cipollino.
Queste bande grigio-verdastre, cui il LortI dette nome di fiiaretti
selciosi, percorse parallelamente all’ andamento loro da striscie di colore
più scuro, talora bruno-rossiccio, rassomigliano a ciò che i Tedeschi chia-
mano Kalksilicathornfels, cui secondo LoEwInson Lessine!) corrisponderebbe
il nome di cornubianite calcare, ma non vi corrisponde perfettamente
alle varietà più comunemente descritte la costituzione mineralogica.
(1) Lexique pétrographique. C. R. d. VIII. Cong. geol. intern, Paris, 1900.
138 G. D’ACHIARDI
Osservata al microscopio la roccia con deboli ingrandimenti appare
come una mescolanza microcristallina di elementi non facili a distin-
guersi fra loro.
Con forti ingrandimenti si nota essere costituita da piccoli granuli
verdolini irregolari nel loro contorno, involti ed immersi in un fondo
scolorito che, a nicol incrociati, mostra una struttura saccaroide per
unione di piccoli grani allotriomorfi. Questi sono limpidi, senza rilievo e
con bassissimi colori di interferenza; si direbbero di quarzo, ma a luce
convergente la maggior parte si mostrano biassici. Potrebbero credersi
di cordierite se la poca magnesia data dall’analisi non ne escludesse la
possibilità, onde e per la copia dell’allumina conviene riportarli a fel-
dispati calcici, sebbene i bassi colori di interferenza e la quasi costante
mancanza di evidente struttura polisintetica lascino ancora qualche dubbio.
Di questi grani alcuni, a rifrazione minore del balsamo, sono ve-
rosimilmente di albite; gli altri di anortite o altro feldispato molto
calcico. Soltanto in piccola parte sembrano riferirsi al quarzo, di cui è
dato vedere la figura di interferenza soltanto però nei bracci della croce
nera. Limitazione questa attribuibile all’ estrema piccolezza dei grani,
dalla quale deve verosimilmente dipendere anche la bassezza dei colori
di interferenza.
I grani verdolini sparsi fittamente per tutta la massa scolorita pre-
sentano in generale notevole rilievo (tav. VI, fig. 5) e mentre a luce
ordinaria per questo carattere e per il loro colore eguale in tutti sem-
brebbero spettare ad un’unica specie, a nicol incrociati mostrano no-
tevole differenza nei colori di interferenza benchè solo raramente alti.
Per la massima parte sembrano riferirsi a zoisite; alcuni probabilmente
fra i meno rilevati spettano a scapolite, come fa credere anche la pre-
senza del cloro svelatoci dall’ analisi, mancano però qui le forme ret-
tangolari del dipiro osservate nelle altre rocce, onde probabilmente sì
tratta di altra varietà di scapolite, del tipo della wernerite, che suole
presentarsi in grani sulle zone di contatto.
Non pochi di questi grani e in special modo quelli che presentano
linee longitudinali di sfaldatura insieme a forti colori di interferenza,
credo vadano riferiti alla solita malacolite, che si presenta in cristalloidi
maggiori (tav. VI, fig. 5 a destra) più coloriti in verdastro, con tutti
i caratteri essenziali del pirosseno a formare come delle piccole venule,
nelle quali anche i grani saccaroidi della massa incolora senza rilievo
acquistano maggiore sviluppo.
METAMORFISMO SUL CONTATTO FRA CALCARE E GRANITO 139
Con questi pirosseni maggiori si vede talora qualche traccia di an-
fibolo verde derivatone per alterazione.
Non posso escludere la presenza anche di qualche grano di epidoto
e vi si osservano anche rarissimi fasci di fibrosa tremolite.
Frequentissimi sono nei granuli di quarzo granuli di zircone in foggia
di piccolissime olive, rarissimi invece i microliti bacillari di apatite.
Le sezioni sono quasi sempre traversate da strisce giallastre corri-
spondenti alle zone bruno-rossiccie sopra ricordate. Queste strisce o mac-
chie giallastre osservate al microscopio mostrano oltre ai soliti minerali
abbondantissime laminette più o meno alterate, ordinariamente molto, di
una mica bruna divenuta giallognola per alterazione (tav. VI, fig, 6), la-
minette rotonde e dentate quali RosenBUSCH !) descrive di alcuni mica-
scisti nodulari, e quali ho pur osservato io stesso nelle sezioni di una
corneana nodulosa (Zmoterhornfels) di Marienberg nell’Harz.
Come prodotti derivanti da queste lamine micacee vi si osservano
frequenti e spesso anche ben definite laminette di ematite.
In questa stessa zona giallo-bruna della roccia, non è raro osser-
vare granuli metallici di difficile determinazione, forse di pirrotina.
L’analisi chimica fattane mi ha dato:
DIO AO do 47,43
CO, TT ITA TA RR NO tr.
Psosedlia fedi tr.
AO ea e 20. 22
BIOS a pia 2,09
EVER I a RO 5,22
MOON e tai 0,45
(CHO AR 20,17
Me e dis 3,25
REOEEMEIE A Vol 0,59
Na Ob A 0,57
H,0 sotto 110° . . 0,08
H,0 per arrovent. . 0,51
Cile te E 0,09
100, 67
—0= 0,02
100, 65
le, Spa = 8 (02
Da essa si ricava la composizione mineralogica seguente:
1) El. d. Gest. pag. 96.
Sc. Nat. Vol. XIX 10
G. D’ACHIARDI
‘ONuOWIt] eTe © © ogmewo,ITe
E
T
6
£ 1od ogrtogia oquemmeamewsso1dde ny 091119F OPISSO,] *OIIATP OUNTIOI [Op H9JqEIVI
t opuequeserd uou ‘ogrperieui Ip eun ® OHUOIRUI IP 9]0D9[OUr ONp ep IIMI1jS00 QUI09 EIE]OO]tO NJ ogrpodeos e] cipenb ogsonb ut
60°0
19
evi
33 ‘08
60‘
oz ‘0
68‘
‘003
co‘ 5°0
— 0
Cere ct
Go =
(OC OUN
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TIe‘o = 80°0
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- 80‘0
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“AOIIe 19d IT 09908
O'H » O0'H
QIIUOWIIT
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METAMORFISMO SUL CONTATTO FRA CALCARE E GRANITO 141
Dal quadro precedente si ricava:
Composizione mineral. Pesi specifici
in peso
%/
Diremportemisai ce n, 6,02 6R6Ss 270185036
GIORIO tO ei a ca 5, 66 5, 62 2,92 16,410
ROSTER nn AE 14,03 3,01 46, 439
Feldispati molecola ortosica — 2,12 2,10 2,62 5,502
» anortitica 32,27 32,06 2,76 88, 486
EPFASsEn a... 194,46 34,23 3,40 116, 382
OZONO ta 3,03 3,01 2,65 7,976
AGIO è l'io ISEE 0,08 0,08 1,00 0,080
Pratesi 1,39 1,38 4,00 5, 020
Mimoniberi: daga Cal 0,82 0, 81 3,60 1 2,916
100, 67 100, 00 307, 747
Il peso specifico di 3,077 è vicinissimo a quello direttamente trovato, 3,02.
Di tutte le varietà di rocce studiate questa è quella che lascia la
maggiore incertezza per la determinazione mineralogica. Da una parte
l'estrema piccolezza della grana, a risolvere la quale occorrono i più
forti degli abituali ingrandimenti, dall’ altra le difficoltà maggiori che
negli altri casi di risalire dalla composizione rivelata dall’analisi alla
composizione mineralogica, contribuiscono a lasciare nell’incertezza. Si
può infatti da quei dati risalire anche ad altra costituzione mineralogica
ammettendo altri silicati ricchi di allumina e calce che non sieno i fel-
dispati calcici, tanto più che alcuni caratteri, come la mancanza di strut-
tura polisintetica, non s’ accordano con l’abituale apparenza di questi;
ma a diversa determinazione oltrechè altri e non meno importanti ca-
ratteri ottici s' oppone la discordanza che ne risulterebbe fra il peso
specifico determinato direttamente e quello dedotto dalla interpetrazione
mineralogica: ciò che credo dimostri che fra le possibili, 1’ interpetrazione
più razionale è quella da me adottata, la quale si accorda poi anche bene
con la composizione delle altre rocce, che hanno preso parte al meta-
morfismo.
Si tratta per me senza dubbio di una di quelle forme di rocce d’aspetto
selcioso, che i Tedeschi chiamano, come dissi, XalXs:icathornfels. La
mancanza di idiomorfismo nei costituenti essenziali e la impossibilità di
stabilirne l’ordine genetico confermano la corrispondenza, la quale
142 G. D’ACHIARDI
può trovarsi anche fra i termini di quella famiglia cui il RosENBUScH
riferisce i suoi Epidotfels, Granatfels, Malakolithfels, Skapolithfels, Wol-
lastonitfels ecc. e, piuttosto che di uno o di altro di questi termini si tratta
probabilmente di un termine loro intermedio per la promiscuità delle
specie e che potrebbe anche dirsi pirossenico-anortitico essendo piros-
seno e anortite i minerali prevalenti; in ogni modo si ha sempre un pro-
dotto di metamorfismo a struttura criptocristallina d’ aspetto selcioso-cor-
neanico in mezzo a rocce calcari presso il contatto granitico.
Conclusioni.
Per le osservazioni da me fatte sul posto nel 1899 e 1902 e per
lo studio fisico-chimico delle rocce calcari e granitiche a contatto al Posto
dei Cavoli presso San Piero in Campo a me sembra possano ricavarsi,
fra le altre, le conclusioni seguenti :
1. — La roccia calcare si presenta al Posto dei Cavoli strettamente
collegata alla formazione scistosa entro alla quale forma talora delle
lenti, e tanto il calcare che gli scisti si trovano in vari punti a con-
tatto immediato con il granito.
2.— Il calcare sia a contatto diretto con il granito, sia incluso negli
scisti, non ha una notevole estensione e a non molta distanza da Posto
dei Cavoli termina con l’essere completamente supplantato dalla forma-
zione scistosa. È
3. — Tanto la formazione calcarea che quella scistosa mostrano evi-
dente metamorfismo in tutta la regione.
4. — La roccia calcare, tanto ad immediato contatto con il granito,
quanto a distanza da esso è completamente convertita in marmo sac-
caroide a grana assai grossa o in cipollino scherzosamente fogliettato
Sola differenza si ha che il calcare è più ricco in minerali accessori nei
punti ad immediato contatto con il granito.
5. — Non sono riescito a trovar traccia del calcare originario, albe-
rese o altro che sia, e che potrebbe indicarci l’aver esso dato origine
al marmo. Ciò d’accordo con le osservazioni del LoTtI che non riescì
a ritrovare l’alberese, indicato invece dal CoccHI.
6. — A dividere le due rocce contigue, calcare e granito, si ha una
zona molto ristretta di contatto da una parte della quale predominano
i materiali granitici, dall’altra i calcarei. Questa zona verde-scura è
grossa soltanto pochi centimetri.
METAMORFISMO SUL CONTATTO FRA CALCARE E GRANITO 143
Dall’una e dall’altra parte di questa zona granito e marmo presen-
tano specie minerali loro non proprie, ma la presenza di questi mine-
rali metamorfici presso il contatto cessa molto più presto dalla parte
del granito che del calcare.
7.— La normale granitite vicina al contatto perdendo mica si mo-
stra attraversata da piccole bianche vene aplitiche, nelle quali la mica
è quasi completamente scomparsa. La granitite stessa è più acida che
non quella a distanza. Il microclino, l’anortose, l’ albite s’uniscono in
copia all’ortoclasio e la granitite si converte in un granito alcalino a
grande prevalenza di feldispati sodio-potassici e scarsità di sodio-calcici e
con tendenza alla costituzione e struttura pegmatitica.
8. — Le vene aplitiche oltrechè per la quasi mancanza della mica
nera sembrano caratterizzate per maggior copia di elementi potassici e
sembrano più in relazione alla porzione periferica della massa granitica
che ad effetto di metamorfismo di contatto. Di queste vene aplitiche se
ne hanno, come si sa, moltissime anche a distanza dal contatto stesso.
9. —Sul contatto con la roccia calcare il granito, che mostra ancora
ortose, microclino, pertite, col diminuire di questi si arricchisce di fel-
dispati sodio-calcici, che sono ancora del tipo acido. Mentre tende a
sparire, fino a sparire del tutto, la mica nera compariscono titanite e
malacolite.
10. — La sottil banda di contatto verde-bruna dalla parte granitica
è costituita essenzialmente di una fitta granulazione di granuli pirosse-
nici ed epidotici, che sembrano sostituirsi alla titanite, che solo osser-
vasi, e in tanto minor copia, nella parte più esterna.
Il quarzo è scomparso e di feldispati, se qualche grano è presente e
in special modo esso pure verso l’esterno, è di termini molto basici ric-
chi di calce.
Dalla parte del marmo, non solo non più quarzo, ma neppur feldi-
spato e inloro vece wollastonite, dipiro e pirosseni qui pure, come quelli
precedentemente citati, ricchi di calcio e assai di ferro e poveri di ma-
gnesio.
11.— Queste stesse specie pirosseno, dipiro e wollastonite, segui-
tano ancora nel marmo al di là della verde-scura zona di contatto, ma
fra esse termina per predominare e rimaner quasi esclusiva a qualche
distanza la wollastonite.
Presso il contatto compariscono anche grossularia, vesuviana, hu-
mite ecc. ecc. tutti minerali calcici, come gli altri, meno quest’ultimo ma-
gnesiaco.
144 G. D’ACHIARDI
12.— Nel marmo anche a distanza dal contatto granitico alcune di
queste specie ricompariscono nelle lenti o stratarelli d'aspetto selcioso,
che formano il cipollino, o presso di esse. Anzi talora a me sembra che
esse formino concentrandosi dei veri e propri stratarelli che possono con
quelli confondersi.
13. — Cambia la qualità e la proporzione dei minerali metamorfici
con la distanza dal contatto, ma la metamorfosi interessa con la stessa
intensità tutta la originaria roccia calcare convertita totalmente in marmo,
onde per me conviene ritenere che qui si abbia un caso di metamor-
fismo normale, che sul contatto ha dato luogo alla formazione di minerali
diversi per la contiguità di due diverse rocce, senza negare che anche
altre cause mineralizzatrici possano essere intervenute posteriormente e
indipendentemente dalla marmorizzazione del calcare. Non mancano in-.
fatti sulla periferia della massa granitica di Monte Capanne testimo-
nianze di azioni idriche, verosimilmente termali.
14. — La quantità maggiore dei minerali metamorfici sul contatto, al
pari della natura loro, dipende dalla parte presa da entrambe le rocce
contigue alla produzione delle nuove specie, mentre a distanza avve-
niva solo la cristallizzazione degli elementi costituenti le rocce stesse.
15. — L’apparenza in filoncelli del granito entro al marmo, l’alter-
nanza anche di cipollino e granito presso al contatto non si oppongono
al concetto di metamorfismo normale: infatti è noto aversi tutto ciò
‘quasi costantemente alla periferia delle grandi masse granitiche.
16. — La reciproca azione degli elementi delle rocce a contatto è
evidente per la natura di minerali formatisi, in nessun posto però si
osservano segni di fusione o cottura per azione del contatto.
17.— I minerali formatisi presso al contatto nelle due rocce contigue
son quelli stessi che caratterizzano i casi di metamorfismo normale e
cioè pirosseni, titanite, wollastonite, granato, vesuviana, mica, feldi-
spato ecc. Mancano invece completamente o quasi quelli che contradi-
stinguono il così detto metamorfismo pneumatolitico, quali sono la tor-
malina, il topazio, la fluorina, e altri minerali boro-fluoriferi che si tro-
vano invece abbondanti nelle geodi dei filoni aplitici e pegmatitici nel
granito di altre località del Monte Capanne. Infatti fra tutte le analisi
solo eccezionalmente furono trovate tracce di fluore e di boro.
Laboratorio di Mineralogia dell’ Università. Pisa, luglio 1902.
Fig.
Fig.
SPIEGAZIONE DELLE TAVOLE
TAVOLA IV.
1. — Granito alcalino. Cristallo di anortose con inclusioni. Quarzo e feldi-
spati secondari a rilegare cristalli maggiori. Nicol +. Ingrandimento
18 diam.
2. — Vene di aplite nel granito alcalino. Filaretti paralleli ad elementi
maggiori. Nicol +. Ingrand. 18 diam.
3. — Granito alcalino vicino al contatto. Cristallo lanceolare di titanite
e lamine di pirosseno. Nicol=. Ingrand. 18 diam.
4. — Granito a contatto e zona di contatto pirossenica. Nicol =. Ingrand.
8 diam.
5. — Pirosseni di zona di contatto. Nicol=. Ingrand. 20 diam.
6. — Zona di contatto dalla parte del calcare. Lamine di calcite nelle aree
pirosseniche. Nicol +. Ingrand. 20 diam.
TAVOLA V.
1. — Zona di contatto dalla parte del calcare con lamina di dipiro. Nicol=.
Ingrand. 8 diam.
2. — Calcare bianco saccaroide con lamine di wollastonite e granuli di pi-
rosseno. Nicol +. Ingrand. 30 diam.
3. — A destra parte di grossa lamina di wollastonite con numerose inclu-
sioni. Nicol +. Ingrand. 18 diam.
4. — Geminato di wollastonite. Nicol {-. Ingrand. 18 diam.
5. — Lamine a struttura polisintetica di humite. Nicol +. Ingrand. 18 diam.
6. — Fascio di wollastonite fibrosa. Nicol 4. Ingrand. 18 diam.
TAVOLA VI.
1. — A sinistra lamine e granuli di humite e gruppo di cristalli di vesu-
viana. A destra lamine di humite. Nicol=. Ingrand. 18 diam.
2. — Cristalli aghiformi di sillimanite in lamine di humite. Nicol =. In-
grand. 30 diam.
3. — Inelusioni globulari di calcite nel dipiro. Nicol +. Ingrand. 18 diam.
4. — Raggruppamento di cristalli di dipiro framezzo a prodotti di altera-
zione in parte ferruginosi. Nicol =. Ingrand. 30 diam.
5. — Sezione degli stratarelli d’aspetto selcioso con abbondanza di piros-
seno. Nicol=. Ingrand. 30 diam.
6. — Idem. con grande abbondanza di mica nera. Nicol=. Ingrand. 30 diam.
IsTITUTO ANATOMICO DELLA REGIA UNIVERSITÀ DI Pisa
DOTT. F. PARDI
==
LA MORFOLOGIA COMPARATA
DEI MUSCOLI
PSOAS MINOR, ILIO-PSOAS E QUADRATUS LUMBORUM
Gli studi di miologia comparata in questi ultimi anni, sia che fossero
intesi ad illuminare gravi problemi di affinità zoologica o mirassero a
gettare nuova luce sul significato di quelle varietà, che un tempo erano
considerate lusi naturae, hanno subìto, per opera di valorosi e pazienti
ricercatori, un notevole impulso.
Il desiderio di portare un qualche contributo alla conoscenza di quel
cospicuo gruppo muscolare che dalla porzione assile, nei Mammiferi, va
ai due primi segmenti dell’arto pelvico, mi trasse da prima a fare 0g-
getto della mia osservazione i soli muscoli psoas. Ma procedendo nelle
mie ricerche mi convinsi della necessità di allargare le linee del mio
lavoro, comprendendovi altresì lo studio del muscolo quadratus lumborum.
È nota ad ognuno la grande influenza esercitata sugli studi di mio-
logia comparata dalla teoria della scuola di Heidelberg, la quale, fon-
dandosi sul principio che un muscolo deve considerarsi come organo ter-
minale di un nervo, stabilisce nella conoscenza esatta di questo un mezzo
sicuro ed infallibile per determinare il significato di quello.
KonLBRUGGE 2°!) in una monografia sui muscoli e nervi dei Primati
divide i primi, fondandosi unicamente sull’innervazione, in un certo nu-
mero di gruppi, ad uno dei quali, al 7°, appartengono il m. quadratus lum-
borum, il m. ilio-psoas e il m. psoas minor, innervati, prossimalmente dal
ligamento inguinale, dai rami del plesso lombare.
Partendo da questo principio fondamentale, oltre che dal fatto del-
l’intima connessione delle loro origini, ho completato dunque lo studio
dei mm. psoas con quello del m. quadratus lumborum, riunendo questo a
quelli in uno stesso gruppo, sebbene la maggior parte degli Anatomici
descrivano i primi coi muscoli dell’estremità inferiore e il secondo con
quelli dell’addome.
a ct
LA MORFOLOGIA COMPARATA DEI MUSCOLI ECC. 147
Notizie storiche.*)
È noto come fino dai tempi ippocratici i muscoli occupanti la por-
zione ventrale e laterale della colonna lombare abbiano assunto il nome
di dé: (da dda, as, lombo).
IpPocRATE !) nel libro IEPI APOPON (delle articolazioni) si esprime
così:
LARA Tapaphoric Èyer pubòy todto modyov tò yopioy în t6v elomdey
uepoy, dc dj za)éova. das **)
Ma da quanto affermano VEsALIo *) e FaLLoPPIO 4), i Greci chiamavano
questi stessi muscoli anche yenpopijrrat 0 venponirepes ed dA@brexes. Non ho
potuto farmi una ragione esatta del perchè di queste denominazioni,
sopra tutto della seconda. Per la prima possiamo riferirci all’ antico con-
cetto dei tendini, quos anatomici aponeurosz:s myuwn, id est nervosas Mu-
sculorum propagines, nominare solent (GALENO ”)). I mm. psoas, presentando
tendini robusti, potrebbero essere stati considerati come generatori di
nervi (vebpopiepar). A meno che non si sia voluto usare quest’ espres-
sione per il rapporto che detti muscoli hanno coi nervi del plesso lom-
bare, i quali, attraversandoli, apparirebbero come generati da essi.
Gareno ?) nel libro de musculorum dissectione, ab AUGUSTINO GADAL-
DINO versus, al cap. 25 dice: «.... in inferioribus vero, quae secundum
lumbos sunt, tota interior lumborum regio duos maximos habent mu-
sculos, quos omnes dissecandi professores, psoas nominant ». E nello
stesso libro, al cap. 31: « Cum Psoa quae haud exiguus musculus est,
ab undecima thoracis costa incipiat, interior quidem eius portio per va-
lidum ligamentum interiori coxendicis parti inseritur, eo praecipue in loco,
ubi os quidem pubis vocatum incipit, os vero ilium desinit: exterior
autem in principium ossìs ilium inseritur: reliquum vero ipsius psoae
universum iuxta interna ossis ilium partes progrediens, densum quen-
dam ex illo etiam osse exortum carnosum suscipit: postea, cum ambo
*) La ricerca della bibliografia antica mi ha permesso di portare un largo
contributo alla storia di questo gruppo muscolare. Ciò giustifica, a mio avviso,
la lunghezza apparentemente soverchia delle citazioni.
*#) In altri codici trovasi Voir: oppure dia: con or sopra 6. LIiTTRÉ (p. 195)
traduce: «....cette région est la seule qui, à la partie antérieure, soit recou-
verte par des muscles: on les appelle psoas».
148 F. PARDI
unicus evadit, per validum tendonem leniter latum parvo femoris trochan-
teri (quasi dicas ratori) inseritur: totam ipsius rotunditatem occupans ,.
E nel libro de anatomicis administrationibus, ALOANNAE ANDERNACO
latinitate donatus, al cap. 9 aggiungesi: “ Sequens igitur carnes deor-
sum tendentes, quas d5x< Graeci nominant, tendines duos has ex ilium
osse adeuntes in utraque lumborum carne reperies, quos anatomici apo-
neuros:s myon, id est nervosas musculorum propagines, nominare so-
lent: Alter ipsorum interior, quem etiam ligamentum rectius, quam ten-
dinem, appellet, ei maxime parti inseritur, qua pubis os cum coxa con-
nectitur: reliquus in parvum femoris processum (trochantera vocant)
pertinet ,.
Da quanto dice GaLeNO ?), appare manifesto innanzi tutto come gli
antichi Greci chiamassero »52< tutta la massa muscolare occupante ven-
tralmente e lateralmente la colonna lombare e non restringessero questa
denominazione al nostro m. psoas major. GALENO ?) infatti descrive il
m. quadratus lumborum come una porzione della intera massa denomi-
nata dirc, e a quello certo si riferisce colle parole: exterior autem in
principium ossis ilium inseritur. E a confermarci in questo convincimento
possiamo invocare l’autorità di VesaLio *), il quale al cap. XXXVIII (de
musculis dorsum moventibus ), p. 226, descrive il m. quadratus lumborum
(nonus et decimus dorsum moventium): “....nonus autem, et decimus,
quorum utrinque etiam unus est, in illorum musculorum habentur nu-
mero, qui déx. et vanconirpar et aXbrexes Graecis dicuntur ,.
Ciò stabilito, credo assai interessante insistere su di un altro punto
relativo alla storia di questo gruppo muscolare. Dagli anatomici, da
DoucLas !8) in poi, viene ordinariamente attribuito a RioLano 1%!) il
merito di avere osservato e descritto pel primo il m. psoas minor.
Leggendo accuratamente GaALENO ?) invece, ognuno può persuadersi
aver questi notato e descritto come parte della massa muscolare deno-
minata $das il muscolo che assunse di poi la propria individualità sotto
il nome di m. psoas minor. È certamente a quest’ ultimo che egli al cap.
31 surricordato si riferisce colle parole: “.....interior quidem eius
portio etc. ,. Ed è sempre del m. psoas minor che parla quando al cap. 9
SURTCRLONO LE ep alter ipsorum interior etc. ,,.
VEsaLio *), nel cap. de musculis dorsum moventibus, descrive assai esat-
tamente il m. quadratus lumborum e il m. psoas major, di cui ritorna a
parlare nel cap. de musculis femur moventibus. Non gli era nota la pre-
senza del m. psoas minor: s’indugia bensì a far risaltare l’ errore di
LA MORFOLOGIA COMPARATA DEI MUSCOLI ECC. 149
CLeARCO, il quale aveva chiamato 4éar i muscoli del dorso, e con fine
arguzia chiama giudice il lettore della poca fedeltà e chiarezza con la
quale GaLeNO ?) aveva descritto i mm. psoas della scimmia. “....Ipsa
enim simiae , egli dice “ non admodum quadrat, et longe minus homini:
. quod tum demum abunde intelliges, quando haec nostra, adhibitis sec-
tionibus, cum ipsius oraculis contuleris ,.
FaLLoPPIO 4) non fa che ripetere le cose di VESALIO 3).
Fra i commentatori di EUSTACHIO 9) (LANCISI, PETRIOLI, ALBINI) sorse
discrepanza intorno alla tavola XXXVIII, ritenendo alcuni che egli non
conoscesse il m. psoas minor.
ReALDO CoLomBo 5) nel cap. de musculis dorsi descrive primo fra tutti
il m. quadratus lumborum, e nel cap. de musculis femur moventibus il m.
psoas major.
VALVERDE ”), SpIGELIO 3), De MARCHETIS *), BARTHOLINI 19), CowPER !!),
VesLINGIO !2) nulla ci dicono d’interessante.
RioLano !* 14), cui da DouGLAS !°), come ho già detto, viene attribuito
il merito di aver descritto pel primo il m. psoas minor, al cap. XLI del
libro V dell’Anthropographia così si esprime: “ psoa parvus dicitur. In
mulieribus rarius reperitur, quam in viris, et anno Domini 1631 videre
contigit in muliere robustissima Viragine ,. E a pag. 410 dell’ Enchiri-
dium ripete press’a poco le stesse cose.
“ Hic est musculus , dice Dronis 1) “ille qui hanc adeo teneram
partem constituit costarum bubularum quam Galli filum (le filet) vocant ,.
VeRHEYEN !°) non fa cenno del m. psoas minor, suscitando le mera-
viglie di Morgagni 17): “...... miror quoque, cur Psoas parvus, qui
haud ita perraro inveniri solet, ab eodem Verheyenio ne memoretur
quidem ,.
PascoLi !8), DouGLas 19), WALTHER 2°), HristERO #1), ALBINI ??), LE-
BER 23), TARIN 24), SABATIER 2°) descrivono assai esattamente i muscoli
di cui mi occupo.
SARACENI ?%) e KuLmo 2°) non fanno cenno del m. psoas minor.
WinsLow 25) ha trovato quest’ultimo muscolo più frequente nella fem-
mina: descrive inoltre un m. psoas minor accessorio.
SOMMERING 2°) descrive il m. quadratus lumborum coi muscoli del to-
race, e gli psoas con quelli dell’arto inferiore.
CLoquer 3°) invece colloca questi ultimi col m. Zongus colli in una
regione prevertebrale.
CALDANI 31), BicHaT 82), De MICHELIS 33), BoyER 84), GoRrGONE 85),
150 F. PARDI
THEILE 36), JAMAIN 87), InzaAnI 88) e RupEL 3°) non ci dicono cosa che
meriti speciale menzione.
Delle opere più recenti avrò occasione di parlare in altro capitolo di
questo studio.
Prima di passare oltre, ritengo non del tutto inutile esporre nel
seguente quadro le antiche e nuove sinonimie dei muscoli che formano
oggetto della mia osservazione.
I. — Psoas minor.
Psoas parvus: RIioLANO 1% 14), De MARCHETIS °), CowpER 14), DouGLas 19),
MorgAGNI 1"), ALBINI 22), TARIN 24).
Piccolo psoas o lombare minore: PaAscoti 18).
Psoas minor: SOMMERING 29). i
Psoas parvus: CALDANI 81).
Prélombo-pubien: CHAUSSIER * ).
Pré-lumbo-pubien: Dumas 41).
II. — Psoas major.
Femur moventium sextus: VESALIO 8).
Quintus femoris: CoLomBo °).
Sextus femur moventium musculus: VALVERDE ?).
Lumbaris sive Psoas: RioLano 13:14).
Lumbalis musculus: SPreeLIo 8), BARTHOLINI 19).
Psoas magnus seu Lumbalis: CowPER 1).
Psoas magnus: DoueLas 19), MorgaGnI 17), ALBINI 2°), CAnDANI 31).
Psoas seu Lumbaris: DionIs 1°).
Lombare o m. Psoas: PAscott 18).
Psoas: KuLmo ?).
Psoa: SARACENI 2°).
Le Psoas ou Lombaire interne: WinsLow 28).
Psoas major: SOMMERING 29).
Prélombo-trochantinien: CHAUSSIER 4°).
Pré-lumbo-trochantinien: Dumas 41).
III. — Iliacus.
Sextus femoris: CoLomBo $).
Iliacus internus: SPIaeLIo 8), ALBINI 2°), SÒMMERING 2°).
Iliaco: WInsLow 28).
LA MORFOLOGIA COMPARATA DEI MUSCOLI ECC. 151
Iliaco-trochantinien: CmavssIER 4°), Dumas 41).
IV.— Quadratus lumborum.
Nonus et decimus dorsum moventium: VEsALIO 3), VALVERDE ?).
Primus dorsi musculus: CoLomBo °).
Sexti paris dorsi: FALLOPPIO 4).
Quadratus: RioLaNo 114), DoueLas !°), KuLmo 27).
Paris lumborum quadrati: SPiGELIO 8).
Quadratus lumborum: CowPeR 1!), ALBINI 22), CALDANI 81).
Triangolare: DronIs 15), PascoLI 8), SARACENI 6).
Le Quarré des lombes ou Lombaire externe: WinsLow ?8).
Ilio-costal: CHAUSSIER 4°).
Iio-lumbi-costal: Dumas 41).
Rectus abdominis posticus s. scalenus lumborum: LUuscHKA ?44).
Ordine del presente lavoro.
Ho studiato filogeneticamente i mm. psoas minor, ilio-psoas e quadratus
lumborum, dagli Anfibî sino all’ Uomo.
Con maggiore larghezza mi sono occupato — e lo si comprende age-
volmente — dei Mammiferi, cui seguono per ordine i Rettili, gli Anfibî
e gli Uccelli.
In quest’ ultima Classe il m. quadratus lumborum è rudimentale, e non
esistono morfologicamente e fisiologicamente gli omologhi dei mm. psoas :
donde la brevità con cui ne ho trattato.
Per quanto riguarda l'Uomo, più di ogni altra cosa mi sono occu-
pato dello studio delle varietà.
Quando l’ ho creduto opportuno ho fatto precedere delle brevi note
di osteologia (Anfibî, Rettili), quanto cioè era strettamente necessario
alla facile intelligenza delle osservazioni: così per ogni Mammifero esa-
minato ho creduto conveniente indicare il numero delle vertebre lombari.
Ogni Ordine poi è preceduto da rapide notizie bibliografiche e dal
riassunto delle osservazioni altrui, mirando così ad estendere, per questo
gruppo muscolare, le linee di quell’imponente lavoro che è l’opera ma-
gistrale di BRONN 4°).
Vengono in ultimo le considerazioni generali e le conclusioni.
La classificazione seguita è quella di RICHIARDI 48).
Mi sono valso del sussidio delle più importanti opere di Anatomia
152 F. PARDI
comparata, antiche e moderne, opere che io ritengo sia meglio qui subito
ricordare, come lavori generali cui debba necessariamente rivolgersi chi
sì accinga a studi di questa natura, e cioè: Cuvier 44), CuvieR e LAu-
RILLARD 45), MecKEL 46), CaRUS 4°), SrannIUS 45), STEBOLD e STANNIUS 4°),
MiLNnE-EDwaARDS 59), OwEN 51), Topp 5?), HumPHRy 53), HuxLEY 54), SCHNEI-
DER °°), ScHmIpt 56), Ber 57), Voet e Yune 58), WrieDERSHEIM 5°), GEGEN-
BAUR %°) e MAURER 81).
I. — Amphibia.
Brevi note di osteologia. —Il numero dei segmenti vertebrali è
molto maggiore negli Urodeli, nei quali subisce notevoli oscillazioni, di
quello che non sia negli Anuri. In questi con la lenta metamorfosi regres-
siva cui va soggetta la porzione caudale della colonna vertebrale, dalla fù-
sione di più vertebre embrionali ha luogo la formazione di un lungo osso
stiliforme, 1’ os coccygiîs. Il numero delle vertebre negli Anuri (Rana, Bufo)
è di 9, 8 presacrali e 1 sacrale. Tanto negli Urodeli come negli Anuri i
segmenti vertebrali sono provveduti di processi trasversi, più lunghi in
questi che in quelli. Le coste hanno subìto una regressione notevole.
La cintura pelvica tanto negli Urodeli come negli Anuri è costituita
di 3 parti: iliaca, pubica e ischiatica, cui nella maggior parte degli Uro-
deli aggiungesi la cartilagine marsupiale o epipubica (WIEDERSHEIM 59).
L’ilio negli Anuri è rappresentato da un lungo osso volto diretta-
mente in avanti per articolarsi col processo trasverso della vertebra
sacrale.
i I. — Urodela.
Ho consultato i lavori di MecxkEL 6?), Mrvart 63), HumPHRyY 54), DE
Man, 55), HorFMAnN $$) e quello recentissimo di Osawa 67).
Ho studiato: Zrifon cristatus LAuR., Triton taeniatus Lev. e Salaman-
dra maculosa LAUR.
Ma in quest’ Ordine non possiamo dimostrare entità muscolari che
possano riferirsi morfologicamente e fisiologicamente al m. quadratus
lumborum dei Mammiferi e tanto meno al m. èl20-psoas. Viene bensì con-
siderato come un omologo del m. éliacus dell Uomo il m. èleo-femoralis
di DE MAN 55) e HorrmAnn 69): ma Gapow °°) afferma che non si è an-
cora arrivati in quest’ Ordine alla formazione di un vero m. èliacus
internus.
LA MORFOLOGIA COMPARATA DEI MUSCOLI ECC. 153
MecKeL 5?) in Proteus, Triton e Salamandra descrive uno strato mu-
scolare formato da fasci longitudinali ed estendentisi dall’ occipite fino
all'estremità della coda. È da questo strato, segmentato assai nettamente,
specie nella porzione più craniale, che in vicinanza del bacino origine-
rebbero, secondo MEcKEL 5), in avanti e indietro, fasci che si attaccano
all’ileo e che sarebbero rudimenti del m. quadratus lumborum.
Negli Urodeli esiste assai bene sviluppato ventralmente e in vici-
nanza immediata della colonna vertebrale, un piano muscolare, che per
importanti ragioni morfologiche, di cui sarà tenuto parola nelle conside-
razioni e conclusioni, merita di esser qui descritto. Mi riferisco ai:
Mm. vertebro-costales: HoFrMann 86).
M. retrahens costarum: Mivart 88).
» transversalis: HumPHRY 64).
I mm. vertebro-costales sono rappresentati da fasci strettamente ade-
renti gli uni agli altri e costituenti un esteso piano muscolare dall’oc-
cipite fino all’origine della coda. Questi fasci nascono dalla colonna ver-
tebrale e con un decorso cranio-laterale s’ inseriscono all’estremità libera
delle coste.
II. Anura.
Oltre gli antichi lavori di KLOETZKE 98), ZENKER 6°), MECKEL °°), VAN
ArtENA “!), LeDEBOER ‘?), Ducés °3), CoLLan 4), ricorderò quelli più re-
centi di De Man 5), HorrMmann "5) e quelli recentissimi di MAURER 77),
PERRIN "8), GauPP ?°), EckeR e WiepERSHEIM 8°) nella nuova edizione
compilata da GaupP 8°).
Ho studiato in quest’Ordine vari esemplari di Rana esculenta L. e
Bufo vulgaris LAUR.
1) M. iliacus internus.
M. ileo-psoas: EcKER 8°).
ileo-femoralis anterior profundus: De MAN °5), HoFrMAnN °°).
» intra-ileo-fémoral: Duefs ?3).
» Iliacus: v. ALTENA 71).
iliacus internus: ZENKER 9°), LEDEBOER ??), GAUPP 89).
» pectinaeus: CoLLan 74), KLOETZKE 88).
» @xtenseur du fémur: PERRIN ?8).
154 F. PARDI
Più robusto in Bufo vulgaris che in Rana esculenta, origina dalla
superficie mediale dell’ileo e dal margine ventrale della cintura pelvica :
volge distalmente e lateralmente, ricoprendo l’articolazione del fianco, e,
insinuandosi fra il m. fensor fasciae latae (caput medium del m. triceps
femoris) e il m. cruralis, s'inserisce per un lungo tratto al labbro late-
rale della crista femoris. È innervato dal n. femoralis.
EckeR *°) chiamò questo muscolo ileo-psoas, ma evidentemente esso
corrisponde al m. éliacus dell'Uomo e non già al m. ?lio-psoas.
2) M. quadratus lumborum.
M. ileo-lumbaris (pars lateralis): EckER e GaupP 89).
» transverso-iliaque: Ducés "5).
Viereckiger Lendenmuskel: MEcKEL 19).
M. quadratus lumborum: ZENKER 5°), KLortzKE 55), Connan °4), v. Ax-
TENA "1).
» ileo-lumbalis: HorFmann °5).
Mrcxet °°) lo descrive con quelli dell'addome come un muscolo al-
lungato estendentesi dall’estremità anteriore dell’ileo alla faccia infe-
riore delle vertebre.
Ecker e GauPP #9) lo comprendono nella descrizione di quell’in-
tero tralcio muscolare (m. ieo-lumbaris) che nella Rana è situato la-
teralmente al m. longissimus dorsi. Il m. ieo-lumbaris, secondo questi
AA., è costituito di 3 specie di elementi: alcuni situati dorsalmente ai
processi trasversi, segmentati ed innervati da rami dorsali, altri situati
lateralmente e ventralmente ai processi trasversi, segmentati del pari
ed innervati da rami ventrali, ed altri infine (pars iliaca ) non segmen-
tati, sovrapposti al margine della porzione laterale e provenienti dall’osso
iliaco. Questa pars iliaca, che in Alytes, Bufo, Bombinator è assai robusta,
viene considerata come un muscolo dell’estremità inserito sul tronco.
Horrmann ‘5) afferma non esistere questo muscolo in Pipa americana.
MEcKEL ‘°) invece lo descrive come distintamente separato dai muscoli
del dorso e lo fa giungere sino ai corpi delle prime 2 vertebre.
In Bufo vulgaris (Tav. VII, fig. 1) è rappresentato da una cospicua
massa muscolare tesa fra l’ileo e î processi trasversi, di cui ricopre
gli estremi e parte della superficie ventrale. Origina dalla superficie
laterale dell’estremità più craniale dell’ileo con fibre per la maggior
LA MORFOLOGIA COMPARATA DEI MUSCOLI ECC. 155
parte carnose: da queste origini il muscolo volge cranialmente e me-
dialmente, ricoprendo colla sua faccia profonda la superficie laterale
dell’articolazione sacro-iliaca, raggiunge gli estremi dei processi trasversi
della 8* e 7? vertebra, che ricopre senza aderirvi, e, continuando il
suo tragitto, si slarga per saldarsi alla superficie ventrale dei processi
trasversi della 6°, 5° e 4* vertebra, confondendosi coi mm. intertra-
sversariò dorsi. Il muscolo, considerato nel suo insieme, apparisce di
forma triangolare colla base volta in avanti e l’apice indietro: il suo
margine mediale, progredendo cranialmente, da prima si avvicina ai corpi
vertebrali, poi leggermente se ne allontana, mentre il suo margine dorso-
laterale è in rapporto d’intima contiguità col margine laterale di tutta
la porzione rimanente del m. èleo-lumbaris, di cui il m. quadratus lum-
borum non è che una parte. Innervato da rami ventrali, la sua contra-
zione unilaterale avrà per effetto evidentemente di flettere il dorso da
quel lato, mentre la contrazione bilaterale avrà quello di flettere ven-
tralmente il bacino sul dorso.
Per quanto riguarda Rana esculenta, seguo EckEeR e GauPP 5°) nella
descrizione che essi danno di tutto il m. èceo-lumbaris. Questo è co-
stituito di 2 porzioni: una mediale e l’altra laterale. La porzione me-
diale, situata dorsalmente ai processi trasversi ed innervata da rami
dorsali, origina dal processo trasverso della 9* vertebra e si spinge,
scomposta in 5 segmenti per la presenza di septa tendinea, fino al pro-
cesso trasverso della 4°. La porzione laterale, corrispondente, secondo
il mio giudizio, al m. quadratus lumborum dei Rettili e dei Mammiferi,
origina, come in tutti gli Anuri, dalla parte più anteriore dell’ileo: si-
tuata lateralmente e ventralmente ai processi trasversi, di cui ricopre
gli estremi, ed innervata da rami ventrali, essa pure ci apparisce pro-
fondamente scomposta in 5 segmenti per la presenza di speciali setti
tendinei, che continuano secondo una stessa linea quelli della porzione
mediale, mentre superficialmente esistono fibre non segmentate. Questa
porzione raggiunge, diretta cranialmente e medialmente, la punta del
processo trasverso della 4* vertebra.
HI. — Reptilia.
I. — Ophidia.
Ho consultato i lavori di HuEBNER 8!, MreckeL 82), D’ALtoN 8°),
Owen 54) e Horrmann 59).
Se. Nat. Vol. XIX 1a
156 F. PARDI
Ho potuto esaminare un bell’esemplare di Boa constrictor L.
Potrebbe apparire strano a tutta prima come in uno studio inteso
a stabilire la morfologia dei mm. psoas minor, ilio-psoas e quadratus
lumborum, che sulle ossa dell’arto pelvico trovano una delle loro inser-
zioni, io mi sia valso del sussidio di un rettile sprovveduto di arti; ma,
come potrò dimostrare in seguito, la disposizione dei piani muscolari
tesi negli Ofidii tra la colonna vertebrale e le coste e i rapporti loro
coi nervi, mi sono di grande aiuto per la interpretazione del m. qua-
dratus lumborum della maggior parte dei Mammiferi.
Ho esaminato il mio esemplare di oa constrictor in diversi tratti
della sua lunghezza, ma presentando in ognuno la stessa fondamentale
costituzione, mi sono valso per la descrizione dei singoli gruppi musco-
lari della regione o della porzione in cui il rettile aveva il suo massimo
sviluppo (Tav. VII, fig. 2).
Se noi togliamo i visceri, ci si presenta subito, in vicinanza imme-
diata della colonna vertebrale, un piano muscolare assai cospicuo e di-
stinto, costituito da singoli fasci di forma romboedrica, che, originando
dalla colonna vertebrale, con direzione cranio-laterale prendono attacco
alle coste. Questi fasci sono i
1) Mm. vertebro-costales superiores *).
Mm. costo-vertebrales superiores: Horrmann 5°).
Questi muscoli traggono origine dai corpi vertebrali e, dirigendosi
cranialmente e lateralmente, prendono attacco al margine posteriore di
6 o 7 coste situate più in avanti: ogni fascio per conseguenza viene a
passar sopra a 6 o 7 coste più craniali di quella articolata col corpo
vertebrale da cui il fascio ha origine. Contraendosi abbassano le coste,
sono cioè dei veri refrahentes costarum: giacciono ventralmente ai mm.
intercostales propriù e ad un altro piano di piccoli muscoli rappresen-
tati dai
2) Mm. vertebro-costales inferiores.
Mm. costo-vertebrales inferiores: Horrmann 5°).
*) Io ritengo sia meglio, in servigio della funzione che essi compiono, chia-
marli vertebro-costales superiores, indicandosi così prima la inserzione fissa e poi
quella mobile.
LA MORFOLOGIA COMPARATA DEI MUSCOLI ECC. 157
Situati in vicinanza immediata dei corpi vertebrali per tutta la lun-
ghezza della colonna, sono piccoli muscoli di forma triangolare, diretti
caudo-lateralmente: hanno cioè una direzione opposta a quella dei pre-
cedenti. Ognuno di questi fasci origina dalla superficie ventrale dei
corpi di 2 vertebre contigue e dal legamento vertebro-costale, e s’ inse-
risce, saltando una costa, sul margine superiore dell’ estremo vertebrale
della costa seguente. Contraendosi sollevano le coste, le muovono cioè
in avanti.
I rami ventrali dei nervi spinali, appena originati, s’ insinuano fra
i mm. vertebro-costales înferiores, passando fra un fascio e l’altro: de-
corrono per breve tratto paralleli alla costa, poi attraversano lo spazio
intercostale, dorsalmente ai mm. vertebro-costales superiores e ventral-
mente a quelli intercostales proprii.
II. — Sauria.
Brevi note di osteologia. — In Lacerta viridis, che ho scelto come
tipo dei Saurii, la colonna vertebrale è composta di 7 vertebre cervi-
cali, di cui le ultime 5 sono provvedute di coste e di processi tra-
sversi, 21 vertebre dorso-lombari, 2 sacrali e numerose vertebre cau-
dali. Di quelle dorso-lombari, le prime 5 vengono dette sternali, perchè
provvedute di coste attaccate allo sterno, le 8 seguenti, dorsali propria-
mente dette, hanno delle false coste che si spingono ventralmente verso
la linea mediana, e le ultime 8, lombari o presacrali, presentano delle
coste assai piccole limitate alla porzione dorsale dell'addome. Una spe-
ciale descrizione meritano le 2 vertebre sacrali: queste presentano dei
processi trasversi assai sviluppati che in corrispondenza del loro estremo
laterale si saldano fra loro, costituendo una superficie articolare, rive-
stita di cartilagine, contro la quale viene ad appoggiarsi la superficie
mediale dell’ileo.
La cintura pelvica è costituita del pube, che ventralmente si unisce
a quello del lato opposto costituendo la sinfisi pubica coll’ epipubis, del-
l’ischio che costituisce, riunendosi anch’esso con quello del lato opposto,
la sinfisi ischiatica col postpubîs, e dell’ileo, che ha forma di lamina
leggermente incurvata, e che portandosi caudalmente, dorsalmente e me-
dialmente, viene colla sua superficie mediale ad articolarsi col sacro,
nel modo che più sopra ho esposto.
158 F. PARDI
Sui muscoli dei Saurii esiste una letteratura assai ricca: basti ri-
cordare i lavori di Mrvart 857) sulla miologia di Iguana tuberculata e
di Chamaeleon Parsonii, di RoLLestoN 5), di SAnpERS 5% 99 24) sulla mio-
logia di Platydactylus japonicus, Liolepis Belliù e Phrynosoma coronatum,
di FilrBrINGER °?), di HumPaRY °*) sulla miologia di Pseudopus Pallasti
e quelli più recenti e ormai classici di Gapow 499).
Ho esaminato: Lacerta viridis GessN., Lacerta muralis LAUR., Noto-
pholys fitzingeri GrAY, Platydactylus muralis Dum. Brer., Varanus arena-
rius Dum. BrBr., Ohamaeleon africanus Lavr., Gongylus ocellatus GRAY,
Stellio caucasicus GRAY, ma, come in tutti i Saurii, non possiamo di-
mostrare in queste specie un omologo del
1) M. ilio-psoas.
Mivart 5°, 5”) chiamò psoas-iliacus un robusto muscolo, che, diviso
in più porzioni, trae origine dal pube, dall’ischio e dal legamento fi-
broso che chiude il forame cordiforme e s'inserisce sul piccolo trocan-
tere o vicino ad esso sul femore. Il m. psoas and èliacus di Mrvart8® 8°)
corrisponde ai mm. pubo-trochantericus externus et internus di FùRBRIN-
GER °°), obturatorius internus di StanNIUS °°), sur-pubien interne et ex-
terne di Cuvier °°) etc. Horrmann °5) chiama m. ischio-pubo-femoralis
la massa muscolare, che origina dalla faccia interna delle ossa del ba-
cino e che s'inserisce, scomposta in 2 o 3 porzioni più o meno distinte
tra loro, sull’estremo prossimale del femore. Questa stessa massa è
quella che Gapow ?°) chiama m. pubi-ischio-femoralis internus.
2) M. quadratus lumborum.
M. carré des lombes: CuviER °°).
» quadratus lumborum: StAnNIUS 9°), FURBRINGER °?), Mivart 8587),
SANDERS 8% 99; 91), HorFMANN 8), GADow 4).
Per porre in evidenza questo muscolo e poterlo studiare convenien-
temente, è necessario, quando siasi aperta la cavità addominale e siansi
tolti i visceri, incidere la sinfisi pubica e quella ischiatica e spostare
ogni metà del bacino, coi muscoli che vi hanno origine, lateralmente.
In questo modo ho potuto osservare in Lacerta viridis *) quanto segue:
#) Ho esaminato, come ho detto già, esemplari di Lacerta muralis e Platydacty-
lus muralis, ma, non presentando queste specie differenze fondamentali dalla
disposizione osservata in Lacerta viridis, così mi attengo esclusivamente a que-
st’ ultima.
LA MORFOLOGIA COMPARATA DEI MUSCOLI ECC. 159
Subito al di sotto del peritoneo, apparisce teso fra l’ileo e la co-
lonna vertebrale un cospicuo muscolo piatto, le cui fibre hanno una di-
rezione dall’indietro all’avanti e dall’esterno all’interno: è il m. quadratus
lumborum, il quale origina dall’ileo nel tratto immediatamente prossimo
all’articolazione sacro-iliaca, dall’articolazione sacro-iliaca e dalla 1 ver-
tebra sacrale. Da queste origini le fibre si dirigono alcune cranialmente
e medialmente verso la colonna vertebrale, altre direttamente in avanti
verso le coste: raggiungono così la faccia ventrale dei processi trasversi
e delle brevi coste di cui sono provvedute le vertebre lombari o pre-
sacrali, e più cranialmente trapassano in modo insensibile nei mm. èm-
tercostales in corrispondenza della loro metà dorsale.
Fra il m. ilio-costalis dorsalmente e il m. quadratus lumborum ven-
tralmente s’insinua una fascia, la quale si salda all’apice dei processi
trasversi e costituisce l’origine posteriore per il m. obliquus internus e
il m. transversus abdominis.
I rami ventrali dei nervi spinali riposano adagiati sulla superficie
ventrale del muscolo.
Ma, come in tutti i Saurii, anche in Lacerta viridis il m. quadratus
lumborum è ricoperto nella sua porzione più craniale da uno strato mu-
scolare continuo e sottile, che dalla colonna vertebrale, dirigendosi in
avanti e lateralmente, si attacca alla superficie ventrale delle coste si-
tuate più cranialmente. Questo strato, situato ventralmente ai rami ven-
trali dei nervi spinali, costituisce il m. transversus dorsalis di TIEDE-
MANN ?°), di SCHNEIDER 19°) e di Mrvart 86,87): è quella stessa massa mu-
scolare, cui HoFFMANN ?8) e Gapow °4) hanno dato il nome di mm. re-
trahentes costarum.
In Varanus arenarius (Tav. VII, fig. 3), in cui le vertebre sacrali
sono rappresentate dalla 30% e 31 vertebra, il m. quadratus lumborum
origina con fibre carnoso-tendinee dal margine superiore della 1* ver-
tebra sacrale, come in Lacerta viridis e come in Ophryoessa superciliosa
(Gapow °4), e mediante un tendine assai robusto dall’ileo: diretto cra-
nialmente e medialmente, raggiunge la superficie ventrale dei processi
trasversi e delle ultime coste brevi, spingendosi fino alla superficie la-
terale dei corpi vertebrali. Io ho potuto seguirlo in avanti fino al corpo
della 23* vertebra e alla costa che da questa si diparte. Il suo mar-
gine laterale coincide coll’origine del m. transversus abdominis, il quale
(sia detto per incidenza) mostra in questo Sauriano una caratteristica
disposizione fascicolata o segmentaria.
160 F. PARDI
Il piano dei mm. retrahentes costarum si parte, mediante fibre car-
noso-tendinee, dalla superficie ventrale dei corpi vertebrali, per attaccarsi
con direzione leggermente ascendente e laterale, alla superficie ventrale
delle coste situate più in avanti, in prossimità immediata delle linguette
d’origine del m. transversus abdominis. I mm. retrahentes costarum, spin-
gendo caudalmente la loro origine fino al corpo della 25? vertebra, rico-
prono la porzione più craniale del m. quadratus lumborum. I rami ventrali
dei nervi spinali, che nella porzione non ricoperta dai mm. retrahentes
costarum riposano adagiati sulla superficie ventrale del m. quadratus lum-
borum, più cranialmente li vediamo decorrere fra questo e quelli.
In Chamaeleon africanus *) il m. quadratus lumborum proviene con
un piccolo tendine splendente dal margine superiore dell’ ileo, e con
fibre carnose da quello della 1 sacrale, nonchè da una sottile arcata
fibrosa tesa dall’ ileo al sacro: da queste origini volge, come negli altri
Saurii, cranialmente e medialmente, per perdersi sulla faccia ventrale
delle ultime coste brevi e sul corpo e i processi trasversi delle vertebre
presacrali, ma non è possibile, data la sua estrema sottigliezza, poter
dire dove esso termini.
I mm. retrahentes costarum, se hanno un minore sviluppo che nelle
specie sino ad ora esaminate, presentano per contrario una disposizione
assai complessa in Chamaeleon africanus, giacchè fra ogni corpo verte-
brale e la costa corrispondente esistono 3 distinti fascicoli, che si ve-
dono assai bene, sopra tutto quando si disponga il preparato in modo
da farvi cadere incidentalmente la luce:
a) un primo fascicolo, più ventrale, meglio sviluppato degli altri,
splendente (è costituito di fibre tendineo-carnose) si porta dalla porzione
più craniale della superficie anteriore del corpo vertebrale, con direzione
caudo-laterale, al margine posteriore della costa, occupando, dall’estremo
vertebrale in fuori, un’ estensione di 1 cm. circa, nella regione, ove questi
muscoli hanno il loro maggiore sviluppo,
b) un secondo fascicolo, assai breve, dorsale al primo, dal quale per
un piccolo tratto vien ricoperto, va, con decorso cranio-laterale, dal corpo
vertebrale (un po’ più indietro del precedente) al margine posteriore
della costa,
c) il terzo infine, diretto esso pure cranio-lateralmente, è teso fra
la superficie ventrale del corpo della vertebra (nella sua metà poste-
*) Le vertebre sacrali sono rappresentate dalla 23% e 24% vertebra.
LA MORFOLOGIA COMPARATA DEI MUSCOLI ECC. 161
riore) e il margine posteriore della costa, lateralmente al precedente.
Questi fascicoli, poco sviluppati nella regione presacrale, decorrono
ventralmente ai rami nervosi ventrali.
In Gongylus ocellatus il m. quadratus lumborum ripete la ormai nota
costituzione fondamentale; solo è da aggiungere come in questo Sauriano
sia evidentissima la origine del muscolo dalla capsula dell’articolazione
sacro-iliaca, oltre che dall’ ileo e dal sacro.
I mm. retrahentes costarum, bene sviluppati, spingono assai caudal-
mente la loro origine, ricoprendo quasi del tutto il sottoposto m. qua-
dratus lumborum. È noto come il piano dei retrahentes mostri in genere
tendenze involutive nella regione presacrale; ma in Gongylus ocellatus,
in cui le vertebre sacrali sono la 41° e 42? a partire dalla 1* cervicale,
i mm. retrahentes costarum raggiungono caudalmente il corpo della 38?,
spingendosi quindi assai vicino al sacro. Questa disposizione ricorda esat-
tamente quella descritta da Gapow °4) in Cyclodus Boddaerti.
Per quanto riguarda Stellio cavcasicus (Tav. VII, fig. 4), in cui le
vertebre sacrali sono rappresentate dalla 25* e 26% vertebra a partire
dalla 1° cervicale, ho potuto seguire il m. quadratus lumborum fino al
corpo della 15? vertebra e fino alla costa che da essa si diparte: quivi
trapassa in una maniera insensibile nella massa intercostale. I mm. re-
trahentes costarum caudalmente non oltrepassano il corpo della 18* vertebra.
In Notopholis fitzingeri, come in Gongylus ocellatus, il piano dei mm. re-
trahentes costarum sì spinge caudalmente assai vicino al sacro.
III. — Crocodilia.
Per quanto riguarda la miologia dei Coccodrilliani o Idrosaurii oltre
gli antichi lavori di BurTMANN 191!) e di HaUuGHTON !°?) sui muscoli di
Orocodilus, abbiamo quelli un po’ più recenti dello stesso HAuUGHTON 193)
e di Harr!°4) sui muscoli di Alligator. A questi debbonsi aggiungere quelli
oramai ricordati di HorrMann 19°) e di Gapow !°6) a proposito dei Saurii.
1) M. ilio-psoas.
In quest’ Ordine Gapow ?°) dimostrò esistere l’omologo del m. iliacus.
Il m. pubi-ischio-femoralis internus è costituito di tre porzioni; la 1? e
la 2* riunite corrispondono per le loro inserzioni al m. pectineus dei
Mammiferi.
La 3° porzione, in Alligator mississipiensis ad esempio, è una cospi-
cua massa muscolare, che dai corpi e dai processi trasversi della 25% e
162 F. PARDI
26 vertebra, unendosi ad altre fibre provenienti dall’ ileo e in parte
anche dall’ischio, va, assottigliandosi distalmente, ad inserirsi sulla faccia
interna del terzo prossimale del femore. In Crocodilus acutus questa massa
proviene dalle vertebre 23%, 24% e 254.
Questa 3% porzione del m. pubi-ischio-femoralis internus è secondo
Gapow 5) omologa morfologicamente e fisiologicamente al m. iZiacus dei
Mammiferi, ma io trovo più giusto, data la sua origine, oltre che dal-
l’ileo anche dalla colonna vertebrale, riferirla addirittura all'intero m. éli0-
psoas.
2) M. quadratus lumborum.
StANNIUS 197) dice che negl’ Idrosaurii: “ il m. élio-costalis origina dal-
l'estremità anteriore dell’ ileo con un tendine che non è solo l’origine di
esso, ma anche quello di un m. quadratus lumborum subcostale, il quale,
diretto con le sue fibre obliquamente innanzi e in dentro, passa sotto
le coste e sopra i rami nervosi ventrali ,.
Le ricerche di Gapow °), d’accordo con quelle di Gorsk1 198), Butt-
MANN 191) e MecKEL 19°) hanno ormai stabilito che negl’Idrosaurii il m. qua-
dratus lumborum, originato dalla superficie interna dell’ estremo vertebrale
delle coste, dai processi trasversi e dai corpi vertebrali delle ultime 6
vertebre presacrali e della 1° sacrale, s'inserisce con un largo legamento
tendineo o con due, come in Alligator, sul trocantere esterno del femore.
IV. — Chelonia.
Brevi note di osteologia. — Nei Chelonii una porzione della co-
lonna vertebrale, quella dorso-lombare, è rigida e immobile nelle sue
varie parti, giacchè si fonde in sinostosi con le ossa dermatiche dello
scudo dorsale, mentre il collo e la coda godono di una grande flessibi-
lità e mobilità, come quelle parti che vengono retratte sotto la cassa
toraco-addominale. In genere nei Chelonii vi sono 8 vertebre cervicali,
sprovviste di coste e di processi trasversi, 10 vertebre dorso-lombari, di
cui 8 (dalla 2* alla 9°) sono intimamente fuse coll’ esoscheletro, e 2 o
3 sacrali, cui seguono un numero vario di vertebre coccigee. Le ultime
4 vertebre dorso-lombari possiamo considerarle con RaATHKE !!?) come
vertebre lombari.
Le coste a breve distanza dal loro punto d’articolazione fra il corpo
vertebrale e l’arco neurale trapassano in una larga piastra ossea, che si
connette per sutura con quelle contigue (piastra costale).
LA MORFOLOGIA COMPARATA DEI MUSCOLI ECC. 163
L’ileo è mobile sulle vertebre sacrali.
Della muscolatura dei Chelonii si sono occupati numerosi ricercatori.
Dei più antichi ricorderò WIEDEMANN !!°) e Boyanus !!!), che in un la-
voro vecchio ormai di più che 70 anni, fece l’anatomia di Testudo eu-
ropaca. Seguirono a varia distanza di tempo RaTHKE !!?), PrEIFFER 118),
StANNIUS 114) e Owen 155). Fra i moderni, FURBRINGKR 1!6), HorFMann 117)
e Gapow !!8) hanno potentemente contribuito con lavori ormai classici
allo studio della morfologia dei muscoli in quest’Ordine di Rettili.
Io ho potuto esaminare vari esemplari di estudo graeca L., Cistudo
europaea ScEn., un bell’esemplare di Thalassochelys caretta L., e un al-
tro di Emys crassicollis GRAY.
In tutte queste specie ci è possibile dimostrare l’omologo del
1) M. ilio-psoas.
M. psoas: Boyanus 111), StANNIUS 114), Owen 115).
Runde Lendesmuskel: WIEDEMANN 110).
TNliaque: CuviER 11°).
M. psoas-iliacus: MECKEL 129) *).
» dorso-femoralis: HoFrMann !!7).
s pubi-ischio-femoralis internus (2? porz.): GaApow 95).
*) HoFFMANN ‘!”) parmi non sia nel vero quando fa corrispondere quello che
egli chiama m. dorso-femoralis al Birnmuskel di MecKEL !29). Questi a pag. 409
del vol. V così si esprime: «...... se trouve un protracteur de la cuisse, qui a
deux tétes. La téte interne, qui est transversale et plus forte que l’autre, vient
de toute la face antérieure et supérieure du pubis, et se réfléchit en dehors, en
passant par-dessus l’estrémité externe de la branche antérieure de cet os. La
téte esferne, qui est plus longue, mais plus mince, tire son origine de la face
interne de l’iléon, tout à còté du muscle fessier, et en haut mème des verte-
bres lombaires; elle se dirige d’avant en arrière et de haut en bas.
« Ces deux téètes ne se réunissent entre elles qu’ à une petite distance de leur
point d’ insertion à la région supérieure du còté interne du fémur, immédiate-
ment en arrière du petit trochanter.
« Ce muscle tire la cuisse en dedans et en avant: il correspond incontesta-
blement, par son ventre externe, aux muscles psoas et iliaque, et, par son ventre
interne, vraisemblablement au muscle pectiné ». Evidentemente questo m. pro-
tracteur de la cuisse di MecKEL °°) corrisponde ai mm. dorso-femoralis+pubo-fe-
moralis internus di HorFMANN!!) e al m. pubi-ischio-femoralis internus di
GaDpow °°).
164 F. PARDI
Questo muscolo, assai bene sviluppato in Testudo grueca (Tav. VII,
fig. 5), apparisce ai lati della colonna vertebrale intimamente fuso, nella
sua porzione craniale, con un altro muscolo anche più cospicuo e che gli
è situato lateralmente, il m. dWeo-testo-femoralis di HorrMAnN !!”), descritto
esattamente sopra tutto da RATHKE !!?) in Zerrapene, Pentonyx capen-
sîs, Trionyx, Chelonia imbricata, Emys punetularia etc. In Testudo graeca
la inserzione fissa dei due muscoli si fa alla superficie laterale dei corpi
delle ultime 3 vertebre dorso-lombari, nonchè alla faccia inferiore dello
scudo dorsale per il tratto corrispondente alle ultime 2 o 3 piastre co-
stali. Caudalmente i due muscoli, differenziandosi, trovano la loro inser-
zione mobile, mediante tendini cospicui, in due punti differenti del fe-
more. Il m. deo-testo-femoralis prende attacco al gran trocantere, che
nei Chelonii in genere è fortemente sviluppato e rappresenta una grossa
tuberosità ossea, il cui maggior diametro è in senso trasversale. L'altro,
l’omologo del m. ilî0-psoas, mediale al precedente, fondendosi distalmente
col m. pubo-femoralis internus (Horrmann !!") si attacca in prossimità del
piccolo trocantere. Ma profondamente dal margine superiore dell’ileo e
del pube partono fibre, che si gettano sul corpo carnoso del muscolo,
fibre che stanno a rappresentare senza dubbio il m. &iacus non diffe-
renziato. Fra i tendini dei due muscoli ora descritti s’insinua l’estremo
craniale di un capo (cruraeus di Bosanus 11!) del m. extensor cruris triceps.
In Cistudo europaea (Tav. VIII, fig. 6) abbiamo una notevole differenza
per ciò che riguarda l’inserzione fissa e comune dei due muscoli, èeo-
testo-femoralis e dorso-femoralis (ilio-psoas). Quivi detta inserzione si fa
per un estremo abbastanza ristretto alla superficie laterale del corpo
della 8% vertebra dorso-lombare, immediatamente all’ indietro della
estrema origine caudale del m. dorso-ocerpitis, manca cioè la inserzione
alla superficie ventrale dello scudo dorsale. Per il resto ì due muscoli,
volgendo ventralmente, lateralmente e caudalmente, dopo aver ricoperto
per piccola parte un esiguo muscolo raggiato, di cui fra breve terremo
parola, accavallano il margine superiore dell’ileo e del pube, dal quale
ricevono molte fibre muscolari, e prendono mediante due tendini distinti
la loro inserzione mobile sul femore, come in Testudo graeca.
In Thalassochelys caretta (Tav. VIII, fig. 7) il muscolo dorso-femoralis
origina dalla superficie laterale del corpo della 17% e 18° vertebra (9*
e 10° dorso-lombare). Situato in avanti fra il m. festo-iliacus (Qquadratus
lumborum) lateralmente e il m. sacro-femoralis medialmente, è un robusto
LA MORFOLOGIA COMPARATA DEI MUSCOLI ECC. 165
muscolo fusiforme, che si dirige indietro e lateralmente per raggiungere
il margine superiore dell’ileo, dal quale riceve abbondanti fibre musco-
lari: s'insinua poi fra il m. rectus femoris, col quale in parte è confuso,
e il m. pubo-femoralis internus (pectineus), e con un forte tendine s’in-
serisce, riunito a quest’ultimo, sul trocantere esterno e sulla faccia ventrale
e laterale del femore, fra le due origini del m. extensor cruris triceps
(femoro-tibialis di GADow °°).
La disposizione osservata da me in Thalassochelys caretta è in tutto
simile a quella descritta da Ganow °) in Testudo tabulata.
In Emys crassicollis il m. dorso-femoralis si comporta esattamente
come in Cistudo europaea, salvo che invece di provenire, come in questa
ultima specie, dal corpo della 8* vertebra dorso-lombare, proviene da
quello della 9? (corrispondente alla 17?, a partire dalla 1° cervicale).
2) M. quadratus lumborum.
M. quadratus lumborum: RATHKE 112), GaApow °4).
Viereckiger Lendenmuskel: MECKEL 1°0).
Adducens pelvim + abducens pelvim: Bozanus !!!), OwEN 115).
M. testo-iliacus: HoFFMANN 117).
HorrMANN !!7), che ha studiato questo muscolo nei generi Triony® e
Chelonia, lo descrive come un muscolo giacente subito sotto la metà po-
steriore del dorso al di fuori del diaframma, e saldato con un estremo
largo ed arrotondato alla superficie ventrale di alcune piastre costali, e
con l’altro estremo, ristretto, tendineo, o anche in parte carnoso, all’ileo.
Lontano per quasi tutta la sua lunghezza dalla colonna vertebrale nel
genere Trionyx, è a contatto con essa in Emys punctularia.
RaTHKE !!?) lo ha trovato assai bene sviluppato nel genere 7rionyx,
meno nei generi Chelonia, Platemys e Terrapene, e di dimensioni assai
piccole in quelli Pentonye e Testudo.
Ecco le osservazioni mie: assai più sviluppato in Cistudo europaea
(Tav. VIII, fig. 6) che in Zestudo graeca (Tav. VII, fig. 5), apparisce come
un piccolo muscolo raggiato, avente una direzione dall’avanti all’indietro
e dall’esterno all’interno. Ricoperto nel suo estremo caudale dai due
muscoli riuniti, m. dorso-femoralis (ilio-psoas) e m. ileo-testo-femoralis, si
salda alla superficie ventrale della 7% e 8° piastra costale da una parte
e alla porzione superiore dell’ileo dall’altra.
In Thalassochelys caretta (Tav. VIII, fig. 7) è fortemente sviluppato.
166 F. PARDI
Origina dalla superficie laterale del corpo delle vertebre 15°, 16% e 172
(72, 8* e 9* vertebra dorso-lombare) e dalle piastre costali corrispon-
denti. Le sue fibre, a partire dalla colonna vertebrale, si estendono sulla
superficie ventrale dello scudo dorsale per un tratto di 11 cm. circa, ed
hanno direzione varia: alcune, quelle più mediali, originate dalla colonna
vertebrale, si dirigono caudalmente e lateralmente, altre, quelle mediane,
direttamente indietro, e finalmente quelle laterali volgono caudalmente
e medialmente, per riunirsi tutte in un robustissimo tendine, che si at-
tacca all’ileo, in vicinanza immediata dell’articolazione sacro-iliaca.
In Emys crassicollis il m. quadratus lumborum, abbastanza bene svi-
luppato, proviene dalla superficie ventrale delle piastre costali corrispon-
denti alle vertebre 15%, 16% e 17 (72, 82 e 9* vertebra dorso-lombare),
ma non raggiunge la colonna vertebrale: le sue fibre si riducono in un
corto e robusto tendine, che, come nelle altre specie, prende attacco
all’ileo.
Evidentemente questo muscolo ha per ufficio nei Chelonii di flettere
l’ileo sulle vertebre sacrali.
XII. — Aves.
Molti sono, fino da antico tempo, i ricercatori che si sono occupati
della miologia degli Uccelli. Per non citare che i principali, ricorderò
i lavori di WiepeMANN !?!), TrepeManN ‘??), CuvieR 125), MEcKEL 1%),
UccELLI 125), D’ALTON 12%), GurLT 127), Owen +23 129), Carus 139), ALmx 131),
DE Man 182), Watson 153) e Gapow 154 135),
Ho esaminato: Athene noctua Bore, Anas domestica L., Gallus do-
mesticus BRrIss., Larus canus L., ma negli Uccelli, giusta anche le an-
tiche osservazioni di Cuvier 12), MecKeL !?4), UccenLI !°°) e ALIx 181),
manca ogni e qualsiasi traccia dei mm. psoas. Esiste invece ben diffe-
renziato l’omologo del m. eiacus della specie umana nel
1) M. ilio-femoralis internus.
M. flexor femoris profundus: WIEDEMANN 121), TIEDEMANN 122).
» lliaque: CuvieR 123).
Darmbeimmuskel: MECKEL 124).
Iliacus internus: p’ALron 12%), GurLTt 127), Owen 12%), DE Man 183).
Pectineus: Watson: 155).
Ilio-femoralis internus: Gapow 194 159),
LA MORFOLOGIA COMPARATA DEI MUSCOLI ECC. 167
MreckeL !?4), pur dimostrandone la presenza in molte specie, non era
riuscito, malgrado le ricerche più minuziose, a scoprirlo nei Rapaci not-
turni, ammettendo che a causa della sua vicinanza coi visceri addomi-
nali questo muscolo, in genere assai piccolo, si fosse decomposto colla
putrefazione.
Più o meno sviluppato nei vari Ordini di questa Classe, sembra
raggiungere le massime dimensioni in Struthio camelus, mentre in Rhea
americana, Apterye australis e Casuarius galeatus è molto piccolo
(GApow 134).
In Athene noctua (Tav. VIII, fig. 8) è piccolissimo, nè riesce facile
il metterlo in evidenza. Ciò giustifica l’antica asserzione di MeckeL 124).
Proviene dal margine ventrale e dalla faccia esterna dell’ileo (e più da
questa che da quello), poco al di sopra dell’acetabulum, per gettarsi sulla
superficie interna dell’estremo prossimale del femore.
Assai più sviluppato si presenta in Anas domestica, in Gallus dome-
sticus e in Larus canus. In queste specie proviene, come in Athene noctua,
dal margine ventrale e dalla faccia esterna dell’ileo, per inserirsi, diri-
gendosi fra il m. ambiens e il m. femori-tibialis, alla superficie interna
dell’estremo prossimale del femore.
2) M. quadratus lumborum.
Secondo Carus 19), gli Uccelli, in cui non esiste la necessità di un
apparecchio motore per la porzione lombo-sacrale della colonna verte-
brale, non posseggono un muscolo, che per la sua posizione e per le
sue inserzioni possa ritenersi un m. quadratus lumborum. Per quanto
pochissimo sviluppato e non sempre ben differenziato, dobbiamo ormai
ritenere errata l’antica opinione di Carus 189).
La ragione del suo poco sviluppo, dobbiamo ricercarla senza dubbio
nella grande vicinanza dell’ultima costa al margine libero dell’ileo e nella
conseguente brevità dello spazio compreso fra queste porzioni ossee. Il
m. quadratus lumborum negli Uccelli viene considerato da Gapow 154)
come la continuazione dei mm. infercostales interni e del m. obliquus
abdominis internus nella regione dorso-lombare. Talora, come in Rhea
americana, si hanno due piccoli mm. quadrati lumborum.
Assai meglio differenziato in Athene noctua (Tav. VIII, fig. 8) e
in Larus canus che in Anas domestica e in Gallus domesticus, appa-
risce sotto forma di un piccolo muscolo triangolare teso fra l’ultima
168 F. PARDI
costa e l’ileo. Per la speciale inclinazione dell’ultima costa rispetto al
margine libero dell’ileo, il quale fa con quella un angolo assai acuto
ad apice volto in avanti e verso la linea. mediana, le fibre del muscolo
appariscono dirette quasi trasversalmente. Originate dal margine libero
dell’ileo per un tratto che in estensione può essere calcolato ad 1 cm.,
volgono lateralmente per attaccarsi alla superficie ventrale e al margine
posteriore dell’ultima costa per un’ estensione di cm. 1, 5, a partire dal
l’estremo vertebrale.
IV. — Mammalia. *)
I. — Monotremata.
Oltre l’antico trattato di MeckEL !°), ho potuto consultare i lavori
di Mivart !3”), Cours 138) e Aix 159),
A. — Psoas minor. — In Echidna hystrix (Mivar 3") è il più
grande dei muscoli subvertebrali: origina, come in Ornithorynchus pa-
radoxus (MeckeL 18°), dalle ultime 3 coste e dalle ultime 3 vertebre
toraciche. Secondo ALtx !8°) in quest’ultima specie originerebbe invece
dalle 4 ultime vertebre dorsali, dalle 4 ultime coste e dalle vertebre
lombari.
Psoas major. — Piccolo in Echidna (Mrvart !3"), è più cospicuo
in Ornithorynchus, e la sua inserzione distale si estende dal piccolo tro-
cantere fin presso il condilo interno del femore (Cours 138).
Niacus. — Nulla di notevole.
Quadratus lumborum. — Im Echidna (Aux !8?) il muscolo è
rappresentato da fibre #io-costali e ilio-trasversarie: in Ornithorynehus
(Aix 189), mancando i processi trasversi, le inserzioni si fanno sui corpi
vertebrali.
II. — Ditremata.
x
La miologia di quest’Ordine è stata oggetto di una grande quantità
di lavori per parte di MecxeL *5°, Hauenton 1454), Cours 14), MACcALI-
stER 143, 144,145). Youne 14°), Cunninezam 14"), Mac Cormicx 145), e
LecHE 14°),
*) Per evitare inutili ripetizioni, ogni Ordine è preceduto da brevi note
bibliografiche: con la lettera A intendo indicare il riassunto delle osservazioni
altrui, con la lettera B le osservazioni personali,
LA MORFOLOGIA COMPARATA DEI MUSCOLI ECC. 169
A. Psoas minor. — È straordinariamente sviluppato in que-
st' Ordine. In Dasyurus viverrinus (Mac Cormicgx 148) origina, insieme
al m. psoas major, dalla superficie antero-laterale dei corpi della ultima
dorsale e di tutte le lombari. In Halmaturus (MeckEL 14°) è dieci volte
più grande del m. psoas major, e proviene dai corpi di tutte le ver-
tebre lombari, l’ultima eccettuata, e dall’ultima costa, ove si confonde
colla porzione lombare del diaframma. In Phascolarcetos cinereus secondo
MacaristeR 1°) è uguale per grossezza al m. psoas major, mentre se-
condo Youne !*5) sarebbe di dimensioni maggiori. È più sviluppato in
Sarcophilus ursinus che in Phascolomys wombat (MacaLIsTER 14).
Psoas major. — In Dasyurus viverrinus (Mac Cormick 148) è co-
stituito di tre porzioni distinte, disposte in serie: dorso-lombare, lom-
bare e sacrale; le due prime sono quasi a contatto alle loro origini,
mentre alle inserzioni sono separate da un largo intervallo, entro il
quale sta il m. iliacus. In Myrmecobius, LecHE !4°) ha trovato un pic-
colo muscolo, che dalla prossimità dell’ acetabulum andava direttamente
al collo del femore: egli lo considera come un prodotto di differenzia-
zione del m. èio-psoas e lo ritiene analogo a quel medesimo muscolo de-
scritto come m. glutaeus quartus (scansorius) nei generi Thylacinus (CUN-
NINGHAM !4°), Dasyurus (Mac Cormicx 148) e Didelphus (Cours 142). In
Phascolomys wombat e in Sarcophilus ursinus (MacatisteR 14) origina
da tutte le vertebre lombari e dalle ultime dorsali.
Iliacus. — In Phascolomys wombat, Sarcophilus ursinus e Macropus
Bennettiù (MacaListeR 14) è intimamente unito al m. psoas major: la
separazione dei due muscoli si fa meglio nel Macropus giganteus e
nell’ Opossum che in Parameles lagotis (MacaLIstER 14°). In nessuno di
questi Marsupiali esiste il m. éeo-capsularis (MacaLISTER 148). In Dasyu-
rus viverrinus (Mac Cormick !58) origina dalla superficie interna del-
l'osso iliaco e da un sepimento tendineo comune ai mm. sartorius, glu-
taeus medius e minimus.
Quadratus lumborum. — In Phascolarctos cinereus, mentre Maca-
ListeR !4°) descrive un m. quadratus lumborum coi suoi tre ordini di
fibre, Youne 14°) afferma non esistere in questa specie come muscolo
distinto. In Halmaturus (MeckeL 14°) è lungo e forte. HauGTHON 141)
considera questo muscolo come un intfercostale lombare. In Phascolomys
wombat (MacaristeR 153) è largo, triangolare ed è costituito degli stessi
elementi che nell’ Uomo.
170 F. PARDI
III. — Cetacea et Sirenia.
Per quanto riguarda questi Ordini, mi riferisco ai lavori di MEz-
cxeL !°9), StAnNIUS !5!) e sopra tutto a quello di Carus 19?).
Secondo MecgeL !°°) e Carus !°), in questi animali privi in genere
di una cintura pelvica completa, il m. quadratus lumborum sarebbe con-
tenuto nel m. sacro-coccygeus (Niederzieher des Schwanzes), oin altre pa-
role detti AA. considerano questo muscolo come un omologo dei mm. qua-
dratus lumborum, psoas major e iliacus insieme. La muscolatura caudale,
x
avendo una parte così importante nella locomozione, è enormemente
sviluppata: il m. sacro-coccygeus è rappresentato da una potente massa
muscolare, che occupa la superficie laterale e ventrale dei corpi vertebrali
e dei processi trasversi, a partire dalla 9* vertebra toracica fino alla
punta della coda. In Manatus australis le inserzioni craniali si esten-
dono anche alle coste posteriori.
IV. — Anisodentata.
Frai numerosi lavori intorno alla miologia degli Anisodentati ho po-
tuto consultare quelli di Pouc®eT !°*), Macatister 194, Ganron 199),
Humpary !°°) MacxintosHa !°) e quelli recentissimi di WinpLe e PAR-
sons 158), e di BurnE 159).
A. — Psoas minor. — In Cyclothurus didactylus (GALroN 155), il
muscolo s'inserisce ad un tubercolo aguzzo, che trovasi nella faccia in-
terna dell’ileo e nel tratto di unione di quest’osso col pube. In Cho-
loepus didactylus (MackintosE !57) origina dalle 5 vertebre dorsali po-
steriori. In Bradypus tridactylus (MAckintosH !57) proviene dai corpi
delle 2 vertebre lombari superiori.
Psoas major. — In Bradypus didactylus, Bradypus tridactylus,
Manis Dalmanni e specialmente in Cyclothurus didactylus (HumPARY 199)
l’inserzione del m. è/î0-psoas si estende per un tratto considerevole lungo
il femore. Per quanto riguarda Bradypus tridactylus e Cyclothurus didac-
tylus i resultati di HumPaRY !°5) concordano con quelli di MACcALISTER 1°)
e di GALTON 15°).
Iliacus. — In Cyclothurus didactylus (GALtON 155) dal margine la-
terale del muscolo alcune fibre si gettano sul m. rectus femoralis. Nella
stessa specie, secondo HumPaRyY !°%), il muscolo si estende per un pic-
colo tratto sulla superficie esterna della spina iliaca, incrociando un po’
il territorio del m. glutaeus medius, col quale si trova in stretta con-
LA MORFOLOFIA COMPARATA DEI MUSCOLI ECC. 171
nessione. In Manis Dalmanni (HumparY !°%) si estende in basso oltre
alla metà del femore.
Quadratus lumborum. — Completamente trascurato in quest’Or-
dine lo studio suo.
V. — Perissodactyla.
Ho consultato, oltre i trattati di CHAuveAU e ARLOING 15°), FRANK 151),
ELLENBERGER e Baum 1°), GurLT !53) e MECcKEL 1°), i lavori di TURNER 154),
MurIE e Mivart !°°), HaueHtoN 199), MurIE 167), StreL!°8) e LesBRE 15).
A. Psoas minor. — In Tapirus indicus (MurIe 15”) origina dalle
ultime 3 coste in corrispondenza della loro articolazione colle vertebre
e termina con un tendine robusto ed arrotondato al margine della cin-
tura pelvica.
Ilio-psoas. — Nell’ Hyrax (Murie e Mivar !°°) i due muscoli ap-
pariscono distinti. In AWinoceros (HAUGHTON !66) origina dalle vertebre
lombari e dal margine interno del bacino. In Tapirus indicus (MurIE 15”) il
m. psoas major è largo ed ha le stesse origini del m. psoas minor.
Quadratus lumborum. — Nell’ Hyrax (MeckeL !°°) è fortemente
sviluppato: origina da una piccola porzione della superficie interna del-
l’ileo e va fino alla 11* vertebra toracica (22 vertebre toraciche). Nel
suo decorso ascendente emette due sorta di fasci, alcuni mediali che
vanno ai corpi vertebrali, altri laterali che nella regione lombare rag-
giungono il processo trasverso e in quella toracica la costa. Nei Peris-
sodattili, secondo LesBRE !5*), è poco sviluppato, mentre uno sviluppo
maggiore lo assume il m. psoas major.
B. Ho esaminato di quest’ Ordine: Equus caballus L. (2 esempl.)
ed Equus asinus L. (2 esempl.).
Equus caballus L. (5 vert. lomb.).
Psoas minor. — Situato medialmente al m. psoas major, origina
con fibre carnose dalla superficie ventrale delle ultime 3 coste in cor-
rispondenza del loro estremo vertebrale per un’estensione che va au-
mentando dalla terz’ ultima all’ ultima costa, dalla superficie laterale del
corpo delle 3 vertebre dorsali posteriori e di tutte le lombari, e dai
processi trasversi di tutte le vertebre lombari. Al ventre carnoso del
muscolo segue in corrispondenza della 3* lombare un robusto tendine,
che si attacca all’eminenza ileo-pettinea, espandendosi ampiamente al-
tresì nella fascia iliaca 0 aponevrosi lombo-iliaca.
Sc. Nat. Vol. XIX 12
172 F. PARDI
Psoas major. — Largo e robusto, origina con fibre carnose dalla
superficie ventrale delle 2 ultime coste (dalla penultima per un’ esten-
sione di 2 cm. circa, dall'ultima per un’estensione di 17-18 cm.), dal corpo
e dai processi trasversi di tutte le vertebre lombari, meno l’ultima. Le
sue fibre convergono indietro verso un tendine robusto, il quale viene
accolto fra le due porzioni in cui è distinto il m. iliacus, e trova attacco,
insieme a quest’ultimo, sul piccolo trocantere.
In uno degli esemplari da me esaminati, esisteva, separato dal mar-
gine laterale del m. psoas major, un fascio distinto, carnoso, largo 3-4cm.,
il quale, originando dalla spina iliaca anteriore superiore (angolo del-
l’anca, CHAUVEAU !6°), dirigevasi caudalmente e medialmente per gettarsi
sul corpo del m. psoas major. Veniva a costituirsi così fra il margine
mediale di questo fascio accessorio e il margine laterale del m. psoas
major un ampio spazio triangolare colla base in avanti e l’apice indietro,
nel fondo del quale appariva la faccia ventrale del m. quadratus lum-
borum, attraversata dai rami del plesso lombare.
Iliacus. — Distinto in due porzioni, una laterale più cospicua ed
una mediale più piccola rispetto al tendine del muscolo precedente, ori-
gina da tutta la superficie iliaca, dall'angolo esterno dell’ileo e dalla
cresta ileo-pettinea. La inserzione mobile è quella già descritta sul pic-
colo trocantere.
Il n. femoralis, decorrente in avanti fra il m. psoas minor ed il m.
psoas major, indietro trovasi compreso fra la porzione mediale del m.
iliacus e il m. psoas major.
Quadratus lumborum. — Lateralmente troviamo fibre, che par-
tendo dalla cresta iliaca e dalla sinfisi sacro-iliaca, dirette cranialmente,
prendono attacco ai processi trasversi di tutte le vertebre lombari e alla
superficie ventrale dell’ ultima costa (fibre èio-trasversarte e ilio-costali).
Medialmente troviamo fasci muscolo-tendinei, complicatamente scam-
biantisi delle fibre tra loro, che dai corpi delle 2 ultime vertebre dor-
sali, dalla superficie ventrale dell’estremo vertebrale delle ultime 2 coste
e dalla faccia ventrale dei processi trasversi delle prime 2 o 3 vertebre
lombari, vanno a trovare la loro inserzione mobile sull’apice dei processi
trasversi lombari (fibre dorso-lombo-trasversarie) *).
*) Ho usato questa denominazione, che non è rigorosamente esatta, per in-
dicare qui, come in altri Mammiferi, i fasci muscolo-tendinei, che dalla colonna
dorsale e lombare, ove hanno la loro inserzione fissa, volgendo caudo-lateral-
mente, trovano la loro inserzione mobile sull’apice dei processi trasversi lombari.
LA MORFOLOGIA COMPARATA DEI MUSCOLI ECC. 173
Gli Anatomici veterinari descrivono col m. obliquus abdominis inter-
nus (Caauveau 15°), e lo considerano come dipendenza di questo, un pic-
colo muscolo triangolare teso dall’apice dei primi 2 o 3 processi tra-
sversi lombari al margine posteriore dell’ultima costa. Questo piccolo
muscolo, retractor costae, contraendosi, ha una funzione importante nella
espirazione.
A me pare che, pur avendo diverso significato — e lo vedremo nelle
considerazioni generali — debba esser considerato e descritto col m. qua-
dratus lumborum. Non rappresenta esso infatti l'elemento trasverso-costale
dell'Uomo e di alcuni Carnivori?
Equus asinus L.
Come in Equus caballus.
VI. — Artiodactyla.
Oltre i più noti trattati di anatomia degli animali domestici (CHAU-
veau e Arnone !°!), Gurur !°2), FrANK !°3), ELLENBERGER e Baum 1%),
ho consultato i lavori di MecxeL *°°), di MurIe °°), Bel1 !°5), LesBRrE !°8)
e LòmBERG 17°).
A. — Psoas minor. — In Camelus dromedarius (MeckeL !°°) na-
sce dalle ultime 2 vertebre dorsali e da quelle lombari. In Sus scrofa
(MeckeL !°5) ha la stessa estensione del m. psoas major.
Ilio-psoas. — In Sus scrofa (MeckeL !°°) il'm. psoas major proviene
da tutte le vertebre lombari.
Quadratus lumborum. — Anche in quest’ Ordine, come nei Pe-
rissodattili, esiste, secondo LesBrE !°*), un rapporto inverso fra lo svi-
luppo del m. quadratus lumborum e quello del m. psoas major, questo
essendo assai più sviluppato di quello.
B. — Ho esaminato: Capra hircus L. (1 esempl.) e Ovis aries L.
(1 esempl.).
Capra hircus L. (6 vert. lomb.).
Psoas minor. — Origina dalla superficie antero-laterale dei corpi
della ultima vertebra dorsale e di tutte le lombari. Le fibre del muscolo
s'impiantano in una maniera semi-pennata su di un lungo tendine, che
apparisce all'altezza del disco fra la 1° e la 2° lombare: l’ inserzione del
tendine ha luogo all’eminenza ileo-pettinea. Dal tendine, in prossimità
della sua inserzione, originano alcune fibre aponeurotiche del m. sarto-
rus (lungo adduttore della gamba, CaAUvEAU e ARLoING 171).
»
174 F. PARDI
Psoas major. — Origina: 1°, con fibre carnose dalla superficie la-
terale del corpo della ultima vertebra dorsale e di tutte le lombari, dai
dischi interposti a queste vertebre, e, mediante fascetti che si pongono
assal bene in evidenza rovesciando medialmente il muscolo, dalla super-
ficie ventrale e dal margine posteriore dei processi trasversi delle prime
5 vertebre lombari: 2°, con fibre aponeurotiche, dirette caudalmente e
medialmente, dalla superficie ventrale e dal margine posteriore delle
ultime 2 coste, e dall’apice del processo trasverso della 1 lombare.
Tutte queste fibre, nate da così diverse origini, volgono verso un
robusto tendine, nel quale si continuano: il tendine, accolto caudalmente
in una specie di doccia costituitagli dal m. eliacus, trova la sua inser-
zione, insieme a quest’ ultimo muscolo, sul piccolo trocantere (trocantino
degli anatomici veterinari). i
Iliacus. — Origina: dall’angolo esterno (spina iliaca anteriore e
superiore) e dalla cresta dell’osso iliaco, dalla superficie iliaca interna
e dalla cresta ileo-pettinea. L'inserzione mobile del muscolo ha luogo,
insieme al m. psoas major, sul piccolo trocantere. È fondamentalmente
costituito di 2 porzioni, una laterale ed una mediale rispetto al tendine
del m. psoas major.
Il n. femoralis decorre, come nei Perissodattili, fra il tendine del
m. psoas major e la porzione mediale del m. &iacus.
Quadratus lumborum. — Complicatissimo nella sua costituzione,
possiamo fondamentalmente considerarlo come costituito di due ordini
di fibre: slio-trasversarie e dorso-lombo-trasversarie.
Le prime traggono origine dalla porzione più mediale della super-
ficie ventrale dell’ileo in prossimità dell’ articolazione sacro-iliaca: dirette
in avanti, per la massima parte aponeurotiche ventralmente, s’impian-
tano alla superficie ventrale e al margine posteriore dei processi tra-
sversi delle ultime 4 vertebre lombari. Alcune, più laterali, sì spingono
fino all'apice dei processi trasversi delle ultime 5 lombari.
Le seconde costituiscono 6 fasci muscolo-tendinei, complicatamente
scambiantisi delle fibre fra loro: originati dai corpi delle ultime 4 vertebre
dorsali, dalla superficie ventrale dell’estremo vertebrale delle ultime 4
coste e dalla superficie ventrale dei processi trasversi delle prime 3
lombari vanno, mediante robusti tendini appiattiti, all’ apice dei processi
trasversi di tutte le vertebre lombari.
Ovis aries L.
Come in Capra hircus.
LA MORFOLOGIA COMPARATA DEI MUSCOLI ECC. 1079)
VII. — Proboscidea.
Soltanto nel lavoro di MraLr e GREBNWOOD 18°) si fa qualche cenno dei
muscoli di cui mi occupo.
A. —- Psoas minor. — Esiste in Elephas indicus, ma non presenta
nulla di particolare (MraLL e GREENWOOD 18°).
Ilio-psoas. —I due muscoli appariscono distinti in Elephas in-
dicus (MraLL e GREENWOOD 189).
Quadratus lumborum. — In Elephans indicus (MIALL e GREEN-
woop 15°) il muscolo sorge dalle 2 coste inferiori per raggiungere la parte
più interna della cresta iliaca.
VIII. — Rodentia.
Ho letto, per quanto riguarda quest’Ordine, i lavori di MECcKEL 181),
TurNnER 182), Mivart e MuRrIE 188), Dosson 184), KrAUSE 185), BeDDARD 18%),
PaRSONS 187 194,195) Voet e Youne 188), WinpLE 189), LESsBRE 19°), REMY
Sarnt-LouP 19!) e ALEZAIS 19? 193),
A. — Psoas minor. — ALEZAIS 1°?) ha trovato questo muscolo una
volta sola in Cavia cobaya: PARSONS 194) per contrario afferma averlo
‘riscontrato due volte su tre. In Sciurus vulgaris, Dipus aegyptius, Ar-
ctomys marmotta e Lepus cuniculus (ALEZAIS 19?) è bene sviluppato: lo
è poco in Capromys melanurus, in cui sorge dalla 1-4? vertebra lom-
bare (DoBson 184).
Psoas major. — Mec€et !8!) ci dà qualche breve cenno di questo
muscolo in Lepus timidus, Sciurus vulgaris, Castor fiber e Dasyprocta cri-
stata. In Dipus aegyptius (ALEZAIS 1°?) origina dal corpo delle 4 o 5 prime
vertebre lombari ed è costituito da un sol fascio: in Sciurus vulgaris,
Arctomys marmotta, Cavia cobaya e Lepus cuniculus (ALEZAIS 1°?) invece
è formato di due porzioni, psoas esterno ed interno, separate dal n. fe-
moralîis. WinpLe 18°) in Dolichotis patagonica descrive il muscolo come
originante dai corpi delle vertebre lombari posteriori e dalla superficie
ventrale del sacro: caratteristica la sua inserzione distale, rappresentata
da un tendine ad Y, il quale per un corno si attacca al trochanter mi-
nor e per l’altro alla superficie interna del femore alla distanza circa di
1 cm. dal precedente. In Dasyprocta isthmica (WinpLe 189) il muscolo ha
la stessa disposizione che nell’Uomo. In Capromys melunurus (DoBsoN 184)
origina dai corpi delle ultime vertebre lombari. In Lepus cuniculus,
Voer e Youne 188) descrivono questo muscolo come proveniente dalla fac-
cia ventrale dei corpi e dei processi trasversi lombari: le mie ricerche
176 F. PARDI
dimostrano, d’accordo con quelle di KRAUSE 185) e ALEZAIS 192), come ab-
bia invece un’origine più craniale. È
Iliacus. — In Dipus aegyptius (ALezAIS 192) origina dal margine
inferiore dell’osso iliaco: in Cavia cobaya, Sciurus vulgaris e Lepus cu-
niculus (ALEZAIS 192) è costituito di due porzioni, una superficiale e
l’altra profonda.
Quadratus lumborum. — Poco studiato in quest’Ordine. Soltanto
Krause !8°) ci dà una descrizione dettagliata del muscolo in Lepus cu-
niculus.
B. — Ho esaminato: Cavia cobaya ScHREB. (10 esempl.), Lepus cuni-
culus L. (4 esempl.), Myoxus glis ScHREB. (3 esempl.), Myoxus avella-
narius L. (2 esempl.) e Mus decumanus PaLL. (5 esempl.).
Cavia cobaya ScareB. (Tav. VIII, fig. 9).
(6 vert. lomb.).
Psoas minor. — Su dieci esemplari non l’ho mai trovato.
Psoas major. — Robusto, addossato ventralmente al m. quadra-
tus lumborum, col quale in parte si confonde in avanti. Origina: con
fibre mediali dalla superficie ventrale del corpo dell'ultima vertebra
dorsale, di tutte le lombari, delle prime 2 sacrali e dei dischi inter-
posti: con fibre lateralè dall’apice dei processi trasversi delle prime 2
lombari e dalla porzione più craniale dell’aponevrosi del m. fransversus
abdominis *). Questi due ordini di fibre, convergendo caudalmente gli -
uni verso gli altri, si riuniscono all’altezza della 2% lombare all’incirca,
costituendo così un angolo aperto in avanti, il cui fondo è occupato dal
m. quadratus lumborum.
Ma il n. femoralis, nell’attraversare il muscolo, divide o segna la di-
visione del grosso fascio delle fibre mediali in due fasci minori, che se
non sono ben distinti l’uno dall’altro in corrispondenza della loro ori-
gine alla colonna vertebrale, lo sono invece assai spiccatamente indietro.
Il primo, laterale e craniale, che io chiamo costo-dorso-lombare, e al quale
si uniscono le fibre laterali ora ricordate, origina dalla superficie ven-
*) Credo a questo proposito opportuno ricordare le ricerche di DALL’AGQUA 198)
sulla morfologia delle aponevrosi addominali: egli ha dimostrato come nei Ro-
ditori le aponevrosi d’invoglio dei mm. quadratus lumborum e psoas major,
esilissime, si congiungono strettamente col m. fransversus abdominis.
LA MORFOLOGIA COMPARATA DEI MUSCOLI ECC. 177
trale dei corpi delle prime 4 vertebre lombari e del disco interposto
fra la 4% e la 5*; il secondo, mediale e caudale, che io chiamo 7ombo-
sacrale, proviene dalla superficie ventrale dei corpi delle ultime 2 lom-
bari e delle prime 2 sacrali.
Ognuno di questi fasci termina indietro con un tendine; i tendini
prendono attacco, riuniti nel loro estremo, sul piccolo trocantere.
Iliacus. — Proviene dalla cresta iliaca, dal margine inferiore della
porzione più laterale del ligamento inguinale, dall’articolazione sacro-
iliaca e dalla superficie ossea immediatamente sottoposta all’articola-
zione. La porzione più cospicua del muscolo, quella laterale, si getta sul
margine laterale del tendine del fascio dorso-lombare del m. psoas major,
mentre le fibre provenienti dall’articolazione sacro-iliaca e dalla sotto-
posta superficie ossea si uniscono intimamente al fascio Zombo-sacrale
dello stesso muscolo.
Quadratus lumborum. — Ricoperto dal m. psoas major per la
maggior parte del suo tragitto nell’addome, scende, addossato profon-
damente alla colonna vertebrale, dalla porzione più craniale della’ co-
lonna dorsale fino all’ileo. Origina per mezzo di fascetti carnosi dalla
superficie anteriore e laterale dei corpi della 6-13* vertebra dorsale,
dalla superficie laterale del corpo di tutte le vertebre lombari, dai di-
schi interposti a tutte queste vertebre e dalla base dei processi trasversi
di tutte le vertebre lombari. Ai fasci carnosi seguono caudalmente lunghi
e robusti tendini appiattiti, i quali vanno via via impiantandosi serial-
mente sull’apice dei processi trasversi delle vertebre lombari: l’ultimo
tendine, più robusto e splendente degli altri, si attacca ad un rilievo
osseo sul margine ventrale dell’ileo (spina iliaca anteriore ed inferiore).
Notevole è in questo roditore il rapporto che la porzione più cra-
niale del muscolo assume con quella più caudale del m. Zongus colli. La
dissezione ci dimostra infatti come la porzione caudale o posteriore del
m. longus colli (obliquus inferior colli) spinga la sua inserzione alla co-
lonna vertebrale fino alla superficie ventrale del corpo della 82 vertebra
dorsale, trovandosi così ad intimo contatto col margine mediale dell’estremo
più craniale del m. quadratus lumborum, il quale, come abbiamo già veduto
origina dal corpo della 6% vertebra dorsale.
Nei Mammiferi esaminati da me, e, per quanto io mi sappia, in
quelli osservati da altri ricercatori, non esiste un tale rapporto, o in
altri termini vi è sempre nei Mammiferi un tratto più o meno lungo di
colonna dorsale sprovvisto ventralmente di muscoli, fra la estrema ori-
b)
178 F. PARDI
gine caudale del m. Zongus colli e la estrema origine craniale del m. qua-
dratus lumborum. La serie dei muscoli prevertebrali mediali (longus colli,
longus capitis, rectus capitis anterior), che nei Mammiferi occupa ventral-
mente la colonna cervicale e parte di quella dorsale, viene in Cavia
cobaya continuata per tutta la rimanente porzione di colonna dorsale e
lombare dal m. quadratus lumborum.
Lepus cuniculus L.
(7 vert. lomb.).
Psoas minor. — Situato medialmente al m. psoas major, di cui
ricopre la porzione lombo-sacrale, è abbastanza robusto e proviene con
fibre carnose dalla porzione mediana del corpo delle ultime 5 vertebre
lombari. All’altezza dell’ ultima lombare il fascio carnoso trapassa in una
larga fascia, di cui una parte termina, sotto forma di un robusto ten-
dine contorto sul proprio asse, all’eminenza o tubercolo ileo-pettineo,
mentre l’altra, avvolgendo l’estremo caudo-laterale del m. psoas major,
si continua nella parte superiore e laterale del ligamento inguinale: tra
le due porzioni rimane uno spazio ovale, per cui passa l’arteria iliaca
esterna. Ventralmente alla fascìa ora descritta notasi una striscia ten-
dinea, assai rigida e splendente, che a guisa di cingolo, abbracciando la
fascia stessa e il sottoposto m. psoas major, si attacca da una parte alla
superficie ventrale della 1° vertebra sacrale, e dall’altra si perde nella
porzione superiore del ligamento inguinale.
Psoas major. — Lungo e robusto, assottigliato cranialmente, è
distinto fondamentalmente in due parti: una più cospicua, craniale, che
io chiamo costo-dorso-lombare, e una caudale, lombo-sacrale.
La 1? ricopre in parte il m. quadratus lumborum, ed è intimamente
fusa con esso. Origina per mezzo di 3 sottili striscie tendinee, laterali,
dalla superficie ventrale e dal margine posteriore delle ultime 3 coste,
e, per mezzo di altrettante striscie tendinee, mediali, dalla superficie ven-
trale dei corpi delle ultime 3 vertebre dorsali: proviene altresì dalla
superficie antero-laterale dei corpi delle prime 5 vertebre lombari e della
porzione più craniale della 6°, dai dischi interposti, nonchè dalle radici
dei processi trasversi delle prime 5 lombari.
La 2? porzione, intimamente fusa col m. ilîacus, trae origine dalla
superficie antero-laterale dei corpi della 6%, 7° lombare e 1° sacrale, dai
dischi interposti, e dalle radici dei processi trasversi deile ultime 2 lombari.
LA MORFOLOGIA COMPARATA DEI MUSCOLI ECC. 179
Da tutte queste origini, le due porzioni del muscolo trovano, fuse
tra loro e col m. iliacus, la loro inserzione comune sul femore. Più par-
ticolarmente può dirsi che la porzione lombo-sacrale si attacca, mediante
un tendine, manifesto ventraimente, al piccolo trocantere, mentre alla por-
zione costo-dorso-lombare segue distalmente un altro tendine (più mani-
festo quando si rovesci indietro la inserzione dell’intero muscolo), il
quale si fissa poco al di sotto (2-3 mm.) del piccolo troncantere: nel
breve tratto interposto ai due tendini prendono attacco fibre del m. dliacus.
Iliacus. — Sottoposto al muscolo precedente, proviene dal corpo
dell’ ultima lombare, dalla superficie laterale delle prime vertebre sacrali,
dall’articolazione sacro-iliaca e dalla sottostante superficie dell’ileo: si
unisce, come abbiamo già detto, al m. psoas major.
Quadratus lumborum. — È costituito di fasci mediali e laterali.
I primi originano dalla superficie laterale dei corpi delle ultime 5
vertebre dorsali, di tutte le lombari e dei dischi interposti: questi fasci
hanno una direzione leggermente obliqua dall’avanti all’indietro e dal-
l’indentro all’infuori, e terminano differentemente, gli anteriori dai po-
steriorì. Gli anteriori (dorso-lombo-trasversari), provenienti dalle vertebre
dorsali, dalla 12 lombare e dai dischi interposti, s'inseriscono, me-
diante 6 striscie tendinee, sull’apice dei processi trasversi delle vertebre
lombari, dalla 1° alla 6%; i posteriori (ilio-vertebrali), provenienti dai
corpi delle ultime 6 vertebre lombari e dai dischi interposti, conver-
gono verso i fasci /aterali e con questi prendono attacco all’ ileo.
I fasci laterali (ilio-costali ed ilio-trasversari) dal margine posteriore
e dalla superficie ventrale delle 5 ultime coste, nel loro estremo verte-
brale per un’estensione che diminuisce sensibilmente dalle coste poste-
riori alle anteriori, dai processi trasversi delle ultime 5 dorsali e di tutte
le lombari si portano, decorrendo leggermente obliqui dall’avanti all’in-
dietro e dall'esterno all’interno, fusi coi fasci posteriorì della porzione
mediale, alla spina iliaca anteriore ed inferiore. Il muscolo, nella sua
inserzione all’ileo, presenta ventralmente alcune fibre aponeurotiche.
Myoxus glis ScHREB.
(6 vert. lomb.)
Psoas minor. — Dalla superficie antero-laterale delle 3 prime ver-
tebre lombari e dai dischi fra queste vertebre si porta, espandendosi
ampiamente nella fascia iliaca, all’eminenza ileo-pettinea.
180 F. PARDI
Psoas major. — Come in Lepus cuniculus, è fondamentalmente co-
stituito di due porzioni, separate dal n. femoralis. La porzione mediale
(lombare) origina dai corpi delle ultime 3 vertebre lombari e dai dischi
interposti: la porzione laterale (costo-dorso-lombare) proviene dalle ultime
2 coste, dalla superficie laterale del corpo delle ultime 4 dorsali, me-
diante 4 sottili striscie tendinee, e con fibre carnose dalla superficie la-
terale del corpo delle prime 3 lombari e del disco fra la 3? e la 48.
L'inserzione si fa, col m. siacus, al piccolo trocantere.
Iliacus. — Come in Lepus cuniculus.
Quadratus lumborum. — Come in Lepus cuniculus.
Myoxus avellanarius L.
Come in Myoxus glis.
Mus decumanus Pant. (Tav. VIII, fig. 10).
(6 vert. lomb.)
Psoas minor. — Manca.
Psoas major. — Fortemente sviluppato, confonde cranialmente le
sue fibre con quelle del m. quadratus lumborum. Proviene dalla su-
perficie ventrale del corpo di tutte le vertebre lombari, dai dischi in-
terposti, e dalla base dei processi trasversi di dette vertebre: il tendine,
in cui trapassa il corpo carnoso del muscolo, s’impianta, col m. èdiacus,
al piccolo trocantere.
Come varietà, in un esemplare ho potuto vedere come alcune fibre
del m. psoas major, provenienti dalla superficie ventrale del corpo della
ultima lombare, si continuassero nel m. pectineus. Questa disposizione
ricorda quella descritta da HumpaRry ?*3) in Pteropus Edwardsiì.
Credo opportuno rilevare il rapporto esistente in questo Roditore fra
il m. psoas major e il m. sacro-coccygeus, il quale spinge cranialmente la
sua origine fino alla superficie ventrale della 1 vertebra sacrale: con-
trae così lateralmente un importante rapporto di contiguità col margine
mediale dell’estremo distale del m. psoas mayor.
Iliacus. — Come in Lepus cuniculus.
Quadratus lumborum. — È fondamentalmente costituito di fibre
dorso-lombo-trasversarie e di fibre èio-trasversarie.
Le prime originano aponeuroticamente dalla superficie antero-laterale
del corpo delle 4 vertebre dorsali posteriori e delle prime 2 lombarì:
LA MORFOLOGIA COMPARATA DEI MUSCOLI ECC. 181
seguono ben presto fibre carnose, le quali gradatamente trapassano in
6 lunghi tendini, che vanno ad impiantarsi con decorso caudo-laterale
all'apice dei processi trasversi di tutte le vertebre lombari.
Le seconde, originate dalla cresta iliaca, dirigendosi quasi vertical-
mente in avanti trovano attacco al margine posteriore dei processi tra-
sversi delle ultime 2 o 3 lombari: queste fibre, in corrispondenza della
origine loro dall’ileo, presentano ventralmente una sorta di guaina apo-
neurotica. È da questa guaina, in prossimità immediata dell’ileo, che si
partono fibre, le quali, unendosi ad altre provenienti dalla superficie me-
diale dell’ileo, costituiscono il m. ilio-caudalis 0 ilio-coccygeus di LecHE 14°),
quello stesso muscolo che Mrecxet !5!) chiama dleo-sous-caudien (flessore
superficiale della coda).
DIC — Pinnipedia.
Per quanto riguarda quest’ Ordine mi riferisco ai lavori di DuvER-
NoY 197), MecKEeL 198), HumPHRy 19°) e TURNER 200),
A. — Psoas minor. — MeckEL!?8) in Phoca vitulina considera il
muscolo come costituito di 2 capi, di cui uno s’inserisce al femore e
l’altro sull’eminenza ileo-pettinea. In Phoca communis (HumPARY 199)
dai corpi delle vertebre lombari e dal margine dell’ultima costa va ad
un’apofisi sporgente del pube, medialmente al m. psoas major. In Phoca
vitulina (TURNER 299) il muscolo origina dalla superficie ventrale della
14% e 15° vertebra dorsale, dalle coste corrispondenti e dalla superficie
ventrale dei processi trasversi di tutte le lombari. In Phoca darbata,
Phoca hispida, Macrorrhinus e Arctocephalus gazella (TURNER 299) pro-
viene dalle estremità dei processi trasversi della 2%, 3% e 4% lombare.
Psoas major. — In Arectocephalus gazella (TURNER 299) origina
per una serie di linguette muscolari dai corpi delle ultime 4 vertebre
dorsali e dalle prime 4 lombari, dalla superficie ventrale delle 4 ultime
coste e dai legamenti costo-vertebrali anteriori. Nelle Phocinae e in
Macrorrhinus leoninus (TURNER ?99), mancando il piccolo trocantere, il
m. psoas major s'inserisce sulla spina posterior ventralis iliî. Come psoas
tertius si descrive in quest’ Ordine, meno che in Macrorrkinus, un pic-
colo muscolo ricoperto dal m. psoas major e che s’inserisce distalmente
sul femore: in Arctocephalus gazella (TURNER 2°) proviene dalle ultime
2 lombari e dal disco interposto ad esse.
Iliacus. — In Phoca vitulina, secondo DuveRrNoY!??), non esi-
182 F. PARDI
sterebbe; MEckeL !98), HumPHRY !99) e TURNER 209) ci asseriscono il con-
trario. l
Quadratus lumborum. — Assai cospicuo in Phoca communis
(HumPHRy 199).
X. — Carnivora.
Ho consultato oltre i trattati di SrtRAUS-DUuRCcKEIM 291) (Anatomie du
Chat), ELLENBERGER e Baum 2°?) (Anatomie du Chien) e il libro recen-
tissimo di REIGHARD e JENNINGS 292) (Anatomy of the Cat), i lavori di
CaRUS 294), MACALISTER 295206), MACKINTOSH 2°), Warson e Youne 298),
Youna 299), SHEPHERD?!9) e di LESBRE 211).
A. — Psoas minor. — In Ursus americanus (SHEPHERD 21°), il
muscolo, fuso cranialmente col m. psoas major, s'inserisce, mediante -un
forte tendine, alla linea ileo-pettinea e alla spina del pube. Largo e forte
in Nasua fusca (MAckINTOsH?°?), è piccolo in Nasua narica e manda una
digitazione all’articolazione sacro-lombare. In Martes foina (MACKINTOSH?97)
proviene dai corpi della 3-6? lombare, in Viverra civetta e Galictis
barbara (MACALISTER 29%) dai corpi della 3°-5* lombare e dal margine
dell'osso iliaco, in Aonèx (MacaLIsTER 295) dai corpi delle prime 2 lom-
bari. In Canis familiaris (CHAUVEAU e ARLOING ?!2) è relativamente più
considerevole del m. psoas major. Caratteristico è il suo contegno in
Felis concolor, ove, secondo CARUS ?94), spingerebbe fino alla 9* vertebra
toracica la sua inserzione craniale.
Psoas major. — Dalle ricerche di SHEPHERD?!°) resulta originare in
Ursus americanus dai processi trasversi e dai corpi delle 3 ultime ver-
tebre dorsali e di tutte le lombari, meno l’ultima. In Nasua fusca
(MACKINTOSH 2°?) è più grande che in Nasua narica: in Martes foina
(MackintosH ?°") origina dalle 3 vertebre lombari posteriori, in Aonix
(MAcALISTER 2°) proviene, fuso col m. éliacus, dalle ultime 2 lombari
e dalla porzione ventrale del legamento ileo-lombare, in Viverra cè-
vetta (Youne?99) è assai sviluppato. In Canis familiaris (CHAUYVEAU e
ARLOING 12) non comincia che a livello della 3* e 4* vertebra lombare.
Iliacus. — Piccolo in Ursus americanus (SHEPHERD *1°) e in Vì-
verra civetta (Youne 29).
Quadratus lumborum. — Vedansi le descrizioni che ne danno
ELLENBERGER e Baum 2°?) in Canis familiaris e StTRAUS-DURCKEIM °°!) e REI-
GHARD e JENNINGS 293) in Felis domestica. In Viverra civetta (Youne *°9)
x
è assai debole e va dalla parte posteriore dell’ileo al primo processo
LA MORFOLOGIA COMPARATA DEI MUSCOLI ECCO. 183
trasverso lombare: nessuna fibra raggiunge l’ultima costa. In Ursus ame-
ricanus (SHEPHERD ?!°) ha la stessa disposizione che nell’ Uomo. CARUS 94)
dà una descrizione particolare di questo muscolo in Felis domestica e Felis
concolor, rassomigliandolo per la sua morfologia a quello dell'Uomo e di
Simia satyrus.
B. — Ho studiato di quest’ Ordine: Felis domestica BrIss. (3 esempl.),
Felis tigrina BrIss. (1 esempl.), Canis familiaris L. (2 esempl.), Canis
vulpes L. (2 esempl.), Mustela foina BrIss. (2 esempl.), Mustela martes
L. (2 esempl.), Puforius putorius L. (1 esempl.), Putorius vulgaris L.
(1 esempl.) e Vìverra abyssinica RuPPL. (1 esempl.).
Felis domestica BrIss. (Tav. VIII, fiig. 11).
(7 vert. lomb.).
Psoas minor. — È situato ventralmente e medialmente al m.
psoas major, col quale in gran parte in avanti confonde le sue fibre:
molto vicino alla linea mediana, trovasi separato da quello dell’ altro
lato da uno stretto e profondo solco, nel quale sono contenuti i pilastri
del diaframma, l’aorta etc. Assai complesso nella sua costituzione, pro-
viene mediante fibre carnose, ventrali, dal corpo delle prime 5 vertebre
lombari e dai dischi interposti, e mediante altre fibre carnose, dorsali,
dalla faccia anteriore di 5 striscie tendinee, che rappresentano l’origine
del m. psoas major. Tutte queste fibre trapassano e si continuano in un
largo tendine appiattito, il quale si attacca all’eminenza ileo-pettinea.
Psoas major. — Ricoperto in parte medialmente dal muscolo
precedente, ricopre alla sua volta il m. quadratus lumborum: lungo,
slargato verso la metà sua, apparisce assottigliato agli estremi.
Origina: cranialmente mediante 5 striscie tendinee dal corpo dell’ul-
tima vertebra dorsale e da quello delle prime 4lombari, e caudalmente
con fibre carnose dalla superficie antero-laterale del corpo delle ultime
3 lombari e dei dischi interposti. Il tendine più craniale, quello prove-
niente dall’ultima vertebra dorsale, si spinge tra i fasci del m. quadra-
tus lumborum. Ciascuno dei tendini poi presenta la particolarità se-
guente: mentre per la sua faccia o superficie mediale dà attacco, come
ho già accennato, a fibre del m. psoas minor, per quella laterale dà
impianto a fibre del m. quadratus lumborum. Havvi dunque, specie cra-
nialmente, fra questi muscoli, psoas minor, psoas major e quadratus
lumborum, intimo scambio di fibre.
184 F. PARDI
Indietro le fibre del muscolo, dopo essersi riunite a quelle prove-
nienti dall’ ileo e dal sacro (m. iliacus), si gettano su de un lungo e ro-
busto tendine, che prende inserzione al piccolo trocantere.
lliacus. — Poco sviluppato, è interamente nascosto dal muscolo
precedente. Origina dall’ileo, subito al di sotto della spina iliaca ante-
riore ed inferiore, e dal sacro: alcune delle sue fibre provengono dalla
superficie ventrale di un robusto tendine che appartiene al m. quadratus
lumborum. La inserzione mobile è stata già descritta.
Quadratus lumborum. — Straordinariamente complicato, tro-
vasi addossato alla superficie ventrale dei processi trasversi lombari,
estendendosi dal corpo della penultima vertebra dorsale fino all’ileo, dove
s'inserisce alla spina iliaca anteriore ed inferiore. Si presenta costituito
da un certo numero di fasci, i quali complicatamente si scambiano fibre
tra loro. Questi fasci sono di due ordini: èlio-trasversari e dorso-lombo-
trasversari.
Fasci iio-trasversari: dalla spina iliaca anteriore ed inferiore trae
origine una cospicua massa muscolare, la quale ventralmente si conti-
nua in una robusta espansione aponeurotica. Delle fibre costituenti questa
massa, alcune, quelle più laterali, si dirigono direttamente in avanti e
trapassano in un tendine piatto che trova la sua inserzione all’angolo
posteriore del processo trasverso della 6% lombare: le altre, quelle più
mediali, dirigendosi medialmente e cranialmente, costituiscono vari fasci
muscolari, i quali vanno rispettivamente ad impiantarsi al margine po-
steriore dei processi trasversi delle vertebre lombari 7, 6* e 5* e in
parte alla superficie laterale dell’ultimo tendine di origine del m. psoas
major.
Fasci dorso-lombo-trasversari: sono rappresentati da fasci muscolo-
tendinei, che dai corpi vertebrali dorsali e lombari vanno ai processi
trasversi lombari. I più craniali provengono, fusi in una massa comune,
dai corpi delle ultime 2 dorsali, della 1* lombare e dalla superficie la-
terale del 1° tendine di origine del m. psoas major: diretti caudalmente
e lateralmente vanno ad attaccarsi, mediante tendini distinti, all’apice dei
processi trasversi della 1°, 22, 3* e 4* lombare. A questi sussegue più
caudalmente un altro fascio, che dal corpo della 1* vertebra lombare va
al processo trasverso della 5*, dopo aver ricevuto fibre dal 2° tendine
di origine del m. psoas mayor. Dal corpo della 2% vertebra lombare trae
origine un altro fascio, il quale va ad impiantarsi, mediante un tendine
robusto, all’angolo anteriore del processo trasverso della 6° lombare,
LA MORFOLOGIA COMPARATA DEI MUSCOLI ECC. 185
dopo aver dato fibre ai processi trasversi delle vertebre lombari 4° e
5* e dopo aver ricevuto fibre dal 3° tendine di origine del m. psoas
major. Infine, dal corpo della 3' lombare ha origine un ultimo fascio, che
dirigendosi caudo-lateralmente termina sul processo trasverso dell’ ultima
lombare, dopo aver ricevuto fibre dalla superficie laterale del 4° tendine
di origine del m. psoas major.
Felis tigrina BrIss.
(7 vert. lomb.).
I muscoli di cui mi occupo ripetono in questo Carnivoro la disposi-
zione fondamentale osservata nel precedente.
Il m. psoas major distalmente apparisce costituito di due fasci, in
mezzo ai quali decorre il n. femoralîs: ognuno di essi si continua con
un tendine, di cui quello mediale termina sul piccolo trocantere, e
l’altro, laterale, prende attacco sul femore, distalmente, ma in vicinanza
immediata del piccolo trocantere.
Il m. iliacus è assai esiguo.
Canis familiaris L. (Tav. IX, fig. 12).
(7 vert. lomb.).
Psoas minor. — Robusto muscolo, intimamente unito cranial-
mente al m. quadratus lumborum. Origina mediante un tendine, che ri-
mane nascosto tra i fasci del m. quadratus lumborum, dalla porzione po-
steriore della superficie laterale del corpo della ultima vertebra dorsale
e mediante fascetti carnosi abbastanza bene distinti dalla superficie ven-
trale del corpo delle prime 4 vertebre lombari e dei dischi interposti.
L'origine di questi fasci si fa per modo che ognuno di essi si attacca
al terzo inferiore e superiore di due corpi vertebrali contigui e al rela-
tivo disco interposto, di guisa che il terzo medio di ogni corpo verte-
brale è completamente sprovvisto di fibre muscolari. Al grosso ventre
carnoso segue all’altezza della 5° lombare un robusto tendine appiattito,
il quale, scorrendo sulla faccia ventrale dal m. psoas major, si slarga in
dietro nella fascia ilio-lombare: questa, abbracciando a guisa di cingolo il
muscolo sottoposto, si fissa medialmente alla cresta ileo-pettinea, e la-
teralmente ai processi trasversi delle vertebre lombari.
Psoas major. — Proviene dai corpi e dai processi trasversi delle
186 F. PARDI
ultime 4 vertebre lombari, e dai dischi interposti a queste vertebre:
unito al m. iliacus, trova la sua inserzione ordinaria al piccolo trocantere.
Iliacus. — Originato dal margine ventrale dell’osso iliaco, dalla
cresta ileo-pettinea e dal tendine del m. psoas minor, trova, riunito al
muscolo precedente, la sua solita inserzione.
Il corpo muscolare dell’intero éi0-psoas s’insinua distalmente nella
fossa ilio-pettinea, tra i mm. adductor magnus e adductor longus medial-
mente, e il m. vastus medialis lateralmente.
ELLENBERGER e Baum ?°?) dividono il m. ili0-psoas in tre porzioni:
una lombare assai lunga e corrispondente al m. psoas major, e due por-
zioni del m. wWiacus, una laterale e l’altra mediale rispetto alla prima.
Quadratus lumborum. — È costituito, come in Felis domestica,
di fibre ilio-trasversarie e dorso-lombo-trasversarie. :
Le prime, più ventrali, originate dalla spina iliaca anteriore ed infe-
riore, volgono direttamente in avanti e trovano loro attacco al margine
posteriore dei processi trasversi delle ultime 5 vertebre lombari.
Le seconde costituiscono una serie di fasci muscolo-tendinei, i quali,
scambiandosi fibre tra loro e coll’ estremo craniale del m. psoas minor,
traggono origine: dalla superficie antero-laterale del disco fra la 10* e
11? vertebra dorsale, dal corpo delle vertebre dorsali 11%, 12% e 13?,
e da quello delle prime 4 lombari. Da queste origini i singoli fasci, di-
retti caudo-lateralmente, prendono inserzione, mediante tendini ben di-
stinti, sull’apice dei processi trasversi lombari.
La Fig. 12 mostra chiaramente rappresentati i fasci più craniali. Un
primo fascio origina, come vedesi, dalla superficie antero-laterale del
disco fra la 10° e la 11° vertebra dorsale e dal corpo della 11° dor-
sale, per portarsi all’apice del processo trasverso della 1° lombare, sal-
tando 2 segmenti vertebrali. Allo stesso modo comportansi gli altri fasci.
Canis vulpes L.
(7 vert. lomb.).
Questo Carnivoro presenta poche differenze dalla disposizione osser-
vata in Canis familiaris.
Il m. psoas major estende più in avanti, per quanto estremamente
assottigliata, la sua origine: nascosto fra il m. psoas major, considere-
volmente sviluppato, e il m. quadratus lumborum, esso raggiunge cranial-
mente la 2° vertebra lombare.
LA MORFOLOGIA COMPARATA DEI MUSCOLI ECC. 187
Il n. femoralis, dopo avere attraversato il m. psoas major, fuoriesce
in corrispondenza del suo margine laterale, dove il muscolo costituisce
al nervo una sottile arcata fibrosa: quivi il nervo fornisce il ramo, che
si distribuisce al m. sartorius, e il n. saphenus.
Mustela foina BrIss.
(6 vert. lomb.).
Psoas minor. — Dalla superficie antero-laterale del disco fra la
2° e la 3* vertebra lombare, dal corpo della 3* e della 4* lombare e dal
disco interposto a queste vertebre si porta nel modo ordinario all’emi-
nenza ileo-pettinea.
Psoas major. — Proviene dai corpi e dai processi trasversi delle
vertebre lombari 3*, 4° e 5* e dai dischi interposti. L’origine dai corpi
vertebrali ha luogo mediante tendini piatti, splendenti, i quali, come
in Felis domestica, per la loro superficie mediale danno attacco a fibre
del m. psoas minor e per quella laterale a fibre del m. quadratus lumbo-
run: ogni tendine s'impianta ad una speciale rilevatezza ossea della su-
perficie laterale del corpo vertebrale, rilevatezza posta nella porzione
posteriore del corpo vertebrale stesso *). L’ inserzione è quella ordinaria
sul piccolo trocantere insieme al muscolo seguente.
Iliacus. — Oltre alla consueta origine dall’ileo, proviene con al-
cune fibre dalla superficie laterale del corpo della 6* lombare.
Quadratus lumborum.— È costituito, come in Felis domestica,
di fibre ilio-trasversarie e dorso-lombo-trasversarie, alle quali si aggiunge
in questo Carnivoro un altro elemento, trasverso-costale.
L’origine dei fasci più craniali si spinge fino al corpo della terz’ ul-
tima vertebra dorsale e alla superficie ventrale ed al margine posteriore
delle 3 ultime coste.
Le fibre trasverso-costali sono rappresentate da un largo e sottile
muscolo triangolare, che dai processi trasversi delle prime 3 lombari va,
diretto cranialmente e lateralmente, a trovare la sua inserzione al mar-
gine posteriore dell'ultima costa per l’estensione di cm. 2 '/» dall’estremo
vertebrale costale.
#) Evidentemente queste speciali apofisi dei corpi vertebrali sono omologhe
alle ipoapofisi degli Ofidii. StRAUS-DuRCKBIM 204) chiama os upsilotdes due pic-
coli ossi avvicinati e uniti fra loro in forma di V, che si trovano sulla super-
ficie ventrale del corpo delle vertebre caudali di Felîs domestica.
Sc. Nat. Vol. XIX 5 13
188 F. PARDI
Mustela martes L., Putorius putorius L., Putorius vulgaris L.
Come in Mustela foina.
Viverra abyssinica RùppL. (Tav. IX, fig. 13).
(7 vert. lomb.).
Psoas minor. — Origina dal corpo delle vertebre lombari 3° e
4°, e profondamente dalla superficie mediale di 2 striscie tendinee,
provenienti dal corpo delle stesse vertebre e che sono insieme ad altre
immediatamente susseguenti striscie tendinee di origine del muscolo
seguente.
Psoas major. — Mediante fibre carnose proviene dal corpo della
3*, 4°, 5" e 6° lombare, e mediante 3 striscie tendinee dalle vertebre
lombari 3*, 4° e 5°.
Iliacus. — Niente di notevole.
Quadratus lumborum. — Presenta la stessa fondamentale co-
stituzione che in Mustela foina. Meritano però una speciale descrizione
le fibre trasverso-costali.
Queste costituiscono un largo e sottile muscolo triangolare, situato
ventralmente ai rami anteriori dei nervi spinali ultimo toracico e primo
lombare. Dai processi trasversi delle prime 4 vertebre lombari e dal
margine laterale dei tendini terminali dei fasci dorso-lombo-trasversari,
questo muscolo si dirige cranialmente e lateralmente per trovare attacco
al margine posteriore delle 2 ultime coste, per un’estensione di 3 cm.
circa dall’estremo vertebrale sull’ ultima costa, e per quella di 1 !fa cm.
sulla penultima.
XI. — Insectivora.
Scarsa è la letteratura riguardante quest’Ordine. Io ho potuto con-
sultare i lavori di DoBson 21214) e di LEcHE 21°).
A. — Psoas minor. — In Centetes e Crocidura origina dalle ul-
time vertebre toraciche e dalle lombari anteriori, in T'upaia ferruginea
dai corpi delle lombari posteriori, in Eriînaceus europaeus dal processo
trasverso della 2° lombare e dai corpi della 3° e 4% in Talpa euro-
paea dalle ultime lombari (LecHE ?!5). L'inserzione ha luogo sul tuber-
colo ileo-pettineo, ma in Gymnura Rafflesiù (Doson ?!4) termina insieme
al m. élio-psoas sul piccolo trocantere. È intimamente confuso con questo
LA MORFOLOGIA COMPARATA DEI MUSCOLI ECC. 189
muscolo in Tupaia e Macroscelides (Lecar?!5). Negli Erinaceidi (DoB-
son 213) il muscolo s'inserisce al legamento sacro-iliaco anteriore e al
margine del bacino.
Psoas major. — In Tupaia ferruginea proviene dai corpi delle
ultime 5 vertebre lombari: in Talpa europaca e Chrysocloris dai corpi
delle ultime toraciche e di tutte le lombari (LecHE ?!). L'inserzione in
Talpa europaea si fa, insieme al m. iliacus, non solo sul piccolo trocan-
tere, ma anche sulla cresta che da questo si diparte (LecHE?!5).
Iliacus. — In Tupaia ferruginea (Lecne ?!5) è costituito di 2 capi,
uno laterale proveniente dalla faccia ventrale dell’osso iliaco e uno me-
diale che origina dalle 3 vertebre lombari posteriori. In Chrysocloris (Le-
cHe 215) origina anche dalle vertebre sacrali anteriori.
Quadratus lumborum. — In Gymnura Rafflesii (Dosson 214) è
rudimentale: parte mediante fascicoletti dalla 15* vertebra toracica e
dall'ultimo muscolo intercostale, e si fissa dalla 2° alla 5* lombare:
altre fibre, partendo dal processo trasverso della 5* lombare, raggiun-
gono la cresta iliaca, per la maggior parte confuse col m. sliacus. Negli
Erinaceidi (DoBson 2!) è bene sviluppato e più carnoso che in Gym-
nura Rafflesti: si estende senza interruzione dall'ultimo spazio interco-
stale e dalla base dell’ ultima costa alla cresta iliaca, inserendosi suc-
cessivamente per mezzo di piccoli tendini all’estremità di ciascun processo
trasverso lombare.
B. — Ho esaminato: Erinaceus europaeus L. (6 esempl.).
Erinaceus europaeus L. (Tav. IX, fig. 14).
(6 vert. lomb.).
Psoas minor. — Proviene dalla superficie antero-laterale del
corpo della 2°, 3°, 4° e 5° lombare e dai dischi interposti, e con fibre
tendinee dal corpo della 6° lombare e dal disco fra la 6* ed il sacro:
segue in corrispondenza del promontorio un tendine appiattito, che si
fissa all’eminenza ileo-pettinea, dopo essersi espanso ampiamente nella
fascia iliaca.
Questo muscolo, in corrispondenza delle prime lombari, trovasi in
rapporto medialmente coi pilastri del diaframma, i quali, giusta l’osser-
vazione di BERTELLI 2!5), mandano fibre al muscolo stesso.
Il tendine del m. psoas minor, in prossimità della sua inserzione, dà
origine per il suo margine laterale al m. sartorius.
190 F. PARDI
Psoas major. — Situato dorsalmente e lateralmente al prece-
dente, origina dal corpo e dai processi trasversi della 3°, 4%, 5° 6*
lombare, e dai dischi interposti a queste vertebre. Le fibre che proven-
gono dalla 6* lombare e dal disco fra la 6? ed il sacro costituiscono un
piccolo fascio a sè, il quale caudo-lateralmente si unisce alla porzione
più cospicua, laterale: rimane così fra le due porzioni un piccolo spazio
triangolare, nel fondo del quale appariscono i nervi del plesso lombare.
Il muscolo trova, riunito al m. éliacus, la sua inserzione sul piccolo
trocantere.
Iliacus. — Assai sviluppato, origina dalla cresta iliaca, dalla sin-
fisi sacro-iliaca e dal margine ventrale dell’osso iliaco.
Quadratus lumborum. — È costituito di fibre ilio-trasversarie e
dorso-lombo-trasversarie.
Le prime costituiscono un fascio, il quale dalla cresta iliaca, dirigen-
dosi cranialmente e medialmente, trova attacco sull’apice dei processi
trasversi delle vertebre lombari 3% 4% e 5°: situato ventralmente al
m. ilio-costalis e lateralmente ai mm. psoas major e minor, apparisce
quasi completamente isolato dalle fibre dorso-lombo-trasversarie.
Le seconde provengono dal corpo della ultima dorsale, dai corpi e
dai processi trasversi delle vertebre lombari 1°, 2°, 3* e dai dischi in-
terposti: come d’ordinario, ai singoli fascicoli muscolari seguono piccoli
tendini, i quali s’impiantano serialmente sull’apice dei processi trasversi
delle vertebre lombari 2*, 3% 4% e 5°.
I rami ventrali dell’ultimo nervo toracico e del 1° lombare attra-
versano la porzione più craniale del muscolo ed hanno un decorso quasi
trasversale: i rami ventrali del 2°, 3°, 4°, 5° e 6° nervo lombare in-
vece, addossati profondamente alla colonna vertebrale, volgono diretta-
mente indietro medialmente al m. quadratus lumborum e dorsalmente ai
mm. psoas major e minor. Il n. femoralis attraversa, come vedesi dalla
fig. 14), il m. iliacus.
XII. — Cheiroptera.
Oltre i trattati di Cuvier 21°), MecKEL?!8) e UccELLI ?!°), notevoli in
quest’Ordine sono i lavori di ALix 229), MAISONNEUVE *?!), MACALISTER °°°)
e HumPHRyY ??3).
A. — Psoas minor. — Cuvier 21°), MecKEL °!8), MACALISTER 3?)
affermano essere costante questo muscolo in tutti i Chirotteri, ciò che
coincide col grande sviluppo dell’eminenza ileo-pettinea. CuvieR ?!) gli
LA MORFOLOGIA COMPARATA DEI MUSCOLI ECC. 191
assegna come origine la 1° vertebra lombare. MACALISTER 2?) in Noctulina
e Cephalotes lo dice costituito da una corta porzione muscolare e da un
lungo tendine, mentre in Megaderma esso è corto e carnoso per tutta
la estensione sua. In Pteropus Edwardsi, secondo ALIxX 229), proviene
dalle apofisi mediane dei corpi delle prime 5 lombari, mentre HumpHRY???)
dà per origine di questo muscolo 2-3 vertebre dorsali ed altrettante
lombari, ed aggiunge che alcune fibre di esso si continuano nel m. pecti-
neus: MACALISTER 22?) in tutti i casi da lui osservati è riuscito a sepa-
rarlo nettamente da questo muscolo.
Psoas major. — In Cephalotes origina dalla 2° e 3* lombare, in Me-
gaderma e in Artibeus dalle vertebre lombari, dal sacro e dall’osso iliaco,
in Oynonycteris manca la origine dal sacro (MAcALISTER ???). In Pteropus
Edwardst, HumPHARY??3) lo dice originare dalle vertebre lombari, dal
sacro e dall’ileo, mentre secondo ALix 229) proviene dai corpi delle 3
ultime lombari con delle digitazioni che sono confuse con quelle del m. qua-
dratus lumborum. MeckeL?!8) nei Chirotteri in genere gli assegna per
origine tutte le vertebre lombari, e Cuvier 217), cosa strana, asserisce che
non esiste.
Ilîiacus. — Per CuvieR ?!°) non esiste. In Pteropus Edwardsii
(ALtx 22°) lateralmente al m. iliacus trovasi un fascio ben distinto e spesso
(iliacus minor), che originando dalla spina iliaca anteriore e superiore
termina sulla linea aspra del femore al di sotto del piccolo trocantere.
AtIx?29), omologizzando la fossa iliaca interna a quella sotto-spinosa, il m.
iliacus al m. infraspinatus e il piccolo trocantere alla tuberosità late-
rale dell'omero, crede che detto fascio stia a rappresentare nell’ arto
pelvico il m. feres minor dell’arto toracico.
Quadratus lumborum. — UccELLI ?!°) asserisce erroneamente che
manca. Componesi in Pteropus Edwardst (ALtx??°) di due ordini di fasci:
1°, di una serie di muscoli corti intertrasversari; 2°, di una serie di fasci
sottotrasversari, che dai corpi delle ultime 2 dorsali e delle prime 5 lom-
bari vanno a terminare, mediante tendini, sull’apice dei processi trasversi
lombari, e l’ultimo sul tubercolo laterale della cresta iliaca.
B. — Ho studiato Vesperugo noctula ScEREB. (2 esempl.) e Plecotus
auritus L. (2 esempl.).
Vesperugo noctula ScHREB.
(5 vert. lomb.).
Psoas minor. — Assai sviluppato, si stacca dal corpo delle ver-
192 F. PARDI
tebre lombari 1°, 2* e 3* con fibre che si avvicinano sempre più alla
linea mediana dall’avanti all’indietro: il tendine appiattito che fa se-
guito al ventre muscolare si fissa al tubercolo ileo-pettineo, assai svilup-
pato sotto forma di un’apofisi aguzza volta cranialmente.
Psoas major. — È costituito di due fasci assai cospicui, confusi
alla loro origine. Il fascio mediale proviene dal corpo e dai processi
trasversi delle vertebre lombari 4* e 5°, dal disco interposto ad esse
e dalla superficie ventrale del sacro: diretto caudo-lateralmente, s’inse-
risce con un tendine, fuso coll’estremo distale del m. pectineus *), sul
piccolo trocantere o trocantere anteriore, giacchè per la speciale rota-
zione che gli arti hanno subìto in questi Mammiferi ciò che è interno
diventa anteriore.
Il fascio laterale origina dal corpo e dai processi trasversi delle ver-
tebre lombari 3* e 4° e dal disco interposto: riceve il m. éiacus e con
un tendine distinto si attacca poco al di sotto del piccolo trocantere.
Il n. femoralis decorre fra i due fasci del muscolo. o
Iliacus. — Ricoperto interamente dal m. psoas major, non è molto
cospicuo e proviene dal margine laterale dell’ ileo in prossimità della
cresta: è separato dal m. glutaeus medius per l’interposizione dell’estremo
craniale del m. extensor cruris, e s'inserisce, come è stato detto già,
insieme al m. psoas major, sul femore. ;
Per porlo in evidenza è necessario spostare medialmente il fascio la-
terale del m. psoas major: la esiguità del muscolo e la difficoltà di sco-
prirlo spiegano forse perchè Cuvier?!") abbia detto non esistere questo
muscolo nei Chirotteri.
Quadratus lumborum. — È costituito di fibre ilio-trasversarie,
ilio-costali e dorso-lombo-trasversarie, che ripetono la costituzione ormai
descritta nella maggior parte dei Mammiferi.
Plecotus auritus L.
Come in Vesperugo noctula.
*) La inserzione comune del tendine del fascio mediale del m. psoas major
con l’estremo distale del m. pectinevs sul piccolo trocantere è da tenersi pre-
sente per speciali considerazioni anatomo-comparative, di cui meglio sarà detto
nell’ ultimo capitolo di questo studio. Basti per il momento accennare come tale
disposizione ricordi esattamente quella di aleuni Rettili.
LA MORFOLOGIA COMPARATA DEI MUSCOLI ECC. 193
XIII. — Prosimiae.
Per quest’ Ordine mi riferisco sopra tutto ai lavori di BURMEISTER??4),
ALIx?25), Owen 226), Murie e Mrivart 22”), OuDEMANS??8) e ZUCKER-
KANDL °?9).
A.-- Psoas minor. — In Chiromys madagascariensis (ZUCKER-
KANDL??9) è debole, rudimentale ed origina dal processo trasverso della
1° lombare e dalle vertebre lombari 2?-5*: s'inserisce, lateralmente al-
l’arteria femorale, sul tubercolo ileo-pettineo. Secondo OupEMANS??8),
Murie e Mrvarrt 22°) origina in questa stessa specie dall’ ultima dor-
sale e dalle 3 prime lombari. OwEN??5) considera questo muscolo come
un ventre superficiale del m. psoas major.
Psoas major. — Assai robusto, proviene in Chiromys madagasca-
riensis (ZUCKERKANDL °°°) dalla 4°-6* lombare. MurIiE e MIvarT???) non
descrivono questo muscolo, mentre OupEMANS??3) lo fa originare dalle
ultime 3 lombari. In Tarsius spectrum (BURMEISTER?24) è doppio e ben
distinto dal m. &Wiacus. i
Iliacus. — Nel Galago (MurIE e Mivart ?2°) è doppio. In Chiromys
madagascariensis (ZUCKERKANDL 2°?) il n. femoralis attraversa la parte
sporgente del muscolo.
Quadratus lumborum. — Debole e stretto, in Chiromys mada-
gascariensis (ZUCKERKANDL °°°) è costituito di due porzioni: la superiore,
confusa col m. psoas major, dalla 12° costa va ai processi trasversi delle
vertebre lombari superiori, la inferiore, meglio sviluppata, dalla colonna
lombare va al margine superiore dell’osso iliaco e al processo trasverso
della 1° sacrale.
XIV. — Primates.
Ho potuto consultare i lavori di OweN?3°), DuveRNOY 231), WILDER?8?),
GratIoLET ed ALix?33), CHAMPNEYS?34), MACALISTER?35), BISCHOFF 236),
DENIKER?3"), KoBLBRUGGE?58), HePBURN®39), Fick?40) e SPERINO?41).
Duolmi non aver potuto avere i recenti lavori di PRIMROSE?4?: 243).
A. — Psoas minor. — In Troglodytes niger è bene sviluppato,
ed origina dalla 13° e 14* dorsale secondo GratIoLET ed ALIx 238),
dalla 13* dorsale e dalle prime lombari secondo CHAMPNEYS 34), mentre
nell’esemplare di SPeRINO 24!) proveniva dalla 1° e 23 lombare. HeP-
BURN?5°) lo ha descritto tanto in Zroglodytes niger come in Simia satyrus,
ove lo ha riscontrato del pari Fick 24°). HEPBURN 23?) non lo ha veduto
194 F. PARDI
in un esemplare del genere Hylobates, ma stando alle ricerche di DENI-
KER 237) e di KoHLBRUGGE ?38) origina in Hylobates agilis dalle 3 prime
lombari. In Troglodytes gorilla [MacaLIstER 235), DuverNoY 231), Hrp-
BURN?39)] è presente: secondo DENIKER 23") però mancherebbe 3 volte
su 5. Esiste bene sviluppato in Cynocephalus anubis (CHAMPNEYS 234).
Psoas major. — In Troglodytes niger [HEPBURN 239), SPERINO 241) ]
proviene dai corpi e dalla base dei processi trasversi delle vertebre
lombari 2°, 3°, 4* e 1° sacrale: GRATIOLET 233), ALix 233) e WILDER 282)
avrebbero osservato un'origine più craniale, mentre CHAmPNEYS 284) ha
notato che il muscolo estendeva la sua origine al margine inferiore del-
l’estremo vertebrale dell’ultima costa. In Troglodytes gorilla[ DuvERNOY 231),
BiscHoFF 36), MACcALISTER?35), HePBURN?39)] si parte dai corpi delle 3
prime lombari, dai dischi intervertebrali e dal processo trasverso della
3° lombare: in Simia satyrus | HEPBURN 239), Ficx 24°)] dall’ultima dorsale
(12°) e da tutte le lombari (4). In Cynocephalus anubis (CHAMPNEYS 234)
componesi di due porzioni separate dal decorso dei nervi lombari: una,
craniale, innervata dal n. femorale anteriore, e l’altra, caudale, innervata
dal 3° n. lombare. In Pithecus satyrus (OwEN 3°) è più lungo che nel-
1’ Uomo.
Iliacus. — In Troglodytes niger |SPERINO?4!), CHAMPNEYS?34), Hrp-
BURN ?39)], in Zroglodytes gorilla |[MAcALISTER?3*), HEPBURN ?39)] e in Simia
satyrus [HEPBURN 239), Fick ?24°)] come nell’ Uomo. CHAMPNEYS 234) in 0y-
nocephalus anubis descrive, oltre l’ordinario m. siacus, 2 fasci sopran-
numerari. Il pròmo origina mediante un capo dal margine laterale del
m. psoas major e mediante un altro dal m. iliacus: questi due ventri,
riunendosi, costituiscono un tendine rotondo, che prende attacco sul pic-
colo trocantere. Si ha così un doppio m. ili0-psoas. Il secondo, staccatosi
dall’ileo e dal tendine del m. rectus femoris, s'inserisce sul femore se-
condo una linea, che partendo dalla porzione superiore della linea aspra
decorre a spirale in basso ed in avanti. In Pithecus satyrus OwEN ?3°)
descrive un piccolo muscolo distinto, che dalla parte anteriore dell’ileo,
passando sopra all’articolazione del fianco, con cui contrae aderenza, va
ad inserirsi alla radice del piccolo trocantere.
Quadratus lumborum. — SPerINO 24!) ci dà un’ esatta descri-
zione del muscolo di Troglodytes niger, in cui mancano i fasci trasverso-
costali, e Fick ?4°) quella del muscolo di Simia satyrus, in cui la por-
zione élio-costalis apparisce piuttosto isolata. Del resto anche in quest’Or-
dine il m. quadratus lumborum è stato scarsamente studiato.
LA MORFOLOGIA COMPARATA DEI MUSCOLI ECC. 195
B. — Ho potuto esaminare: Cercopithecus cephus L. (1 esempl.), Ma-
cacus cynomolgus L. (1 esempl.), Cynocephalus babuin Desw. (1 esempl.),
Hapale penicillatus GroFFR. (1 esempl.).
Cercopithecus cephus L. (Tav. IX, fig. 15).
(6 vert. lomb.).
Psoas minor. — Dalla superficie laterale del corpo delle ver-
tebre lombari 1°5*% e dai dischi interposti va, mediante un tendine
appiattito, alla linea innominata, subito al davanti della sinfisi sacro-
iliaca.
Psoas major. — Staccatosi dalla superficie antero-laterale del
corpo delle vertebre lombari 4#-6*, dai dischi interposti ad esse e da
quello fra la 6° ed il sacro si porta, fuso col m. éliacus, al piccolo tro-
cantere.
Iliacus. — Origina dalla cresta iliaca e dalla faccia ventrale del-
l’ileo, immediatamente al di sotto del muscolo seguente.
Quadratus lumborum. — Esile ed allungato, è costituito di tre
ordini di fibre: ilio-trasversarie, ilio-costali e dorso-lombo-trasversarie.
Le prime dalla porzione più craniale della superficie ventrale del-
l’ileo e dal legamento ileo-lombare vanno, dirette cranialmente e me-
dialmente, al margine posteriore dei processi trasversi delle vertebre
lombari 6* e 52.
Le seconde costituiscono il margine laterale del muscolo: originano
dall’ ileo insieme alle precedenti, e, dirigendosi direttamente in avanti,
vanno ad attaccarsi al margine posteriore delle ultime 2 coste per un’e-
stensione di 2-3 mm. dall’estremo vertebrale delle coste stesse.
Le fibre dorso-lombo-trasversarie infine si staccano dalla superficie
laterale del corpo delle 2 ultime dorsali e, delle prime 3 lombari, per
portarsi, come d’ordinario, mediante tendini appiattiti, più profondi quanto
più craniali, all'angolo anteriore di tutti i processi trasversi lombari.
Rapporti coì nervi del plesso lombare. — Il ramo ventrale del-
l’ultimo nervo toracico, il n. ?20-Rypogastricus 0 grande addomino-geni-
tale (ramo ventrale del 1° n. lombare) e il n. ilio-inguinalis 0 piccolo ad-
domino-genitale (ramo ventrale del 2° n. lombare) attraversano il m. qua-
dratus lumborum. Il n. genito-femoralis, costituito dalla riunione di radici
provenienti dal 3° e 4° n. lombare, attraversa invece il m. psoas minor,
per scorrere sulla faccia ventrale di questo muscolo, e più caudalmente
196 F. PARDI
su quella del m. psoas mayor. Il n. cutaneus femoris lateralis, originato
dal 3° n. lombare, attraversa il m. psoas major nella sua porzione più
craniale, scorre quindi sulla faccia ventrale del muscolo per raggiungere
il m. Wiacus: situato fra questo e la fascia, si perde caudalmente nella
regione della coscia. Il n. obturatorius origina dal 4° e 5° n. lombare per
due radici, che si riuniscono nella spessezza del m. psoas major: esce
da questo muscolo in corrispondenza del suo margine mediale, e decor-
rendo direttamente indietro, ricoperto per breve tratto dal m. psoas minor,
arriva al foro sotto-pubico. Il n. femoralis proviene dal 4° e 5° lombare,
attraversa esso pure il m. psoas major, e volge lateralmente e caudal-
mente per porsi fra il m. psoas major e il m. iliacus.
Macacus cynomolgus L.
(6 vert. lomb.).
Psoas minor. — Si stacca dal corpo delle prime 4 vertebre lom-
bari, dai dischi interposti a queste vertebre e da quello fra la 4° e la
5. La inserzione è quella ordinaria: merita soltanto di essere accennato
come dal tendine del muscolo, in prossimità della sua inserzione all’ileo,
originino fibre del m. èlio-coccygeus.
Psoas major.-— Proviene dal corpo e dai processi trasversi delle
vertebre lombari 3-62.
Iliacus — Come in Cercopithecus cephus.
Quadratus lumborum. — Come in Cercopithecus cephus.
Cynocephalus babuin Desm.
(6 vert. lomb.).
Psoas minor. — Assai sviluppato, confonde cranialmente le sue
fibre con quelle del m. psoas major. Origina: dalla superficie laterale
del corpo dell’ultima dorsale e delle prime 2 lombari, nonchè dai di-
schi fra queste vertebre. Il tendine, in cui si continua il fascio carnoso
del muscolo, indietro si espande ampiamente nella fascia èdliaca, fissan-
dosi all’eminenza ileo-pettinea.
Psoas major. — Si stacca dal corpo e dai processi trasversi
delle vertebre lombari, compresi i dischi intervertebrali: origina pure
con fibre carnose dalla linea innominata per tutto il tratto che corre dalla
sinfisi sacro-iliaca all’eminenza ileo-pettinea, e dal margine mediale del
LA MORFOLOGIA COMPARATA DEI MUSCOLI ECC. 197
tendine del m. psoas minor. Quest'ultima origine si pone assai bene in
evidenza tagliando verso la metà il tendine del m. psoas minor, e ro-
vesciandolo medialmente.
Iliacus.— Proviene dal legamento ileo-lombare, dalla cresta iliaca
(labbro interno), da tutta la fossa iliaca interna, dalle spine iliache an-
teriori (superiore ed inferiore) e dallo spazio ad esse interposto.
La inserzione si fa, col m. psoas major, sul piccolo trocantere.
Quadratus lumborum. — Consta di una porzione mediale e di
una laterale.
Quella mediale origina dalla superficie laterale dei corpi delle ul-
time 3 dorsali e di tutte le lombari, e s'inserisce, mediante tendini de-
correnti caudo-lateralmente nella spessezza del muscolo, sull’apice dei
processi trasversi lombari (fibre dorso-lombo-trasversarie).
La porzione laterale, assai cospicua, proviene dal legamento ileo-
lombare e dalla cresta iliaca: costituita di fibre dirette cranialmente,
trova la sua inserzione sui processi trasversi lombari e sul margine po-
steriore dell’ ultima costa per un’estensine di 3 cm. circa a partire dalla
colonna vertebrale (fibre iio-trasversarie e ilio-costali).
Hapale penicillatus GEOFFR.
(6 vert. lomb.).
Psoas minor. — Staccatosi cranialmente dalla superficie laterale
del disco fra la 2° e 3% lombare, dal corpo della 3, dal disco fra la 3* e
la 4°, dal corpo della 4° e dal disco fra la 4° e la 5°, s'inserisce, come
d’ordinario, sull’eminenza ileo-pettinea.
Psoas major. — Dalla superficie laterale del corpo della 4 e 5°
lombare e dalla superficie ventrale della 1° sacrale si porta col m. iliacus
sul piccolo trocantere.
Iliacus. — Come in Cercopithecus cephus.
Quadratus lumborum. — Come in Cercopithecus cephus.
Homo sapiens L.
16
Per non accennare che ai più recenti, la maggior parte degli Ana-
tomici considera i mm. ili0-psoas e psoas minor con quelli dell’ estremità
inferiore, e pone il m. quadratus lumborum nel piano posteriore dei mu-
198 i F. PARDI
scoli dell’ addome. Così LuscHKA?**, KrAuse?4°), HvRrL?46), RAUBER?4"),
GEGENBAUR 248), BraunIS e BoucHARD?4°), PorrIER?5°), Quarn 251), Ro-
MITI 252), HENLE- MERKEL 95).
CRUVEILHIER 254), STRAMBIO 255), TENCHINI 255), SAPPEY 257), TESTUT 258)
per contrario li riuniscono tutti in un solo gruppo, appartenente alla
regione lombare.
HenLE?5?) li considera coi muscoli dell’ estremità inferiore.
LANGER e ToLpT?6°) riuniscono il m. quadratus lumborum al m. dia-
phragma, e pongono i mm. psoas con quelli del fianco.
DEBIERRE 25!) sotto il nome di muscoli interni del fianco descrive il
m. diaphragma, il m. ilio-psoas, il m. psoas minor, il m. quadratus lum-
borum e il m. transversus thoracis.
Oltre a questo, nei libri di anatomia umana viene, certo per comodo
didascalico, riunito il m. psoas major al m. iliacus.
LE DouUBLE 262) giustamente osserva: “On a tort de réunir dans les
livres d’anatomie l’iliaque et le grand psoas. L’iliaque appartient au
bassin et le grand psoas, qui naît des apophyses costiformes des ver-
tèbres lombaires, appartient au système des còtes; l’un paraît dériver du
feuillet profond de la masse musculeuse qui donne naissance aux mu-
scles dorsaux de la cuisse, l’autre du feuillet profond du muscle ventral
(HumPHRy 263), l’un a pour homologue le muscle sous-scapulaire, l’autre
n’a pas d’homologue au membre supérieur ou en a un sur le déter-
minisme duquel on ne s’entend guère; enfin, dans la série animale:
l’iliaque est tantòt interne, tantòt externe, le grand psoas toujours in-
terne; l’iliaque peut exister sans étre accompagné d’un muscle grand
psoas, et réciproquement ,.
In GEGENBAUR ?°4) leggesi: “ Dem Psoas entsprechende Muskulatur
ist wohl aus subvertebraler entstanden (Rue ?5), was davon nicht
verschieden ist, wenn man jene Stàtte nur unter Querfortsitzen von
Lendenwirbeln annimmt (EISsLER 28) ,,.
Credo perciò sia razionale scindere il m. psoas major dal m. iliacus,
la cui vera sede è tra i muscoli del bacino, e riunire il primo al m.
psoas minor, in un gruppo di muscoli, che io chiamerei prevertebrali
lombari.
A questo gruppo ritengo poi sia giusto, per ragioni morfologiche, di
cui meglio sarà detto nelle considerazioni generali, aggiungere il m. qua-
dratus lumborum, che nella maggior parte dei Mammiferi ha assunto il
carattere di vero muscolo prevertebrale.
LA MORFOLOGIA COMPARATA DEI MUSCOLI ECC. 199
II.
Nella costituzione del m. quadratus lumborum della specie umana
entrano, com’è noto, vari elementi, i quali hanno servito di base agli
Anatomici per sostenere che il muscolo stesso rappresenta la riunione
o la fusione di varie entità muscolari, distinte in specie animali infe-
riori. I trattati descrivono infatti tre ordini di fasci: 4lio-costali, ilio-
trasversari e trasverso-costali.
Questi ultimi [ricordati a buon dritto come muscolo speciale, pars
lumbo-costalis di LuscHKa?44), transversalis lumborum di altri AA.|] sono
rappresentati da 2 o più fasci muscolari lunghi e sottili, situati ventral-
mente alla massa principale del muscolo, fasci, che nascendo dai pro-
cessi trasversi lombari, vanno alla testa dell’ultima costa.
Dopo numerose osservazioni, ho potuto convincermi che i fasci tra-
sverso-costali sono d’ordinario assai esili e ben poco distinti dal corpo
principale del muscolo. Originano talora con fibre carnose, talora con
fibre tendinee, dai processi trasversi delle vertebre lombari (2-52), e
spingendosi cranialmente si attaccano, mediante una laminetta aponeu-
rotica, al margine inferiore e alla superficie ventrale dell’ ultima costa,
in prossimità del suo estremo vertebrale.
Ma quello che a me più d’ogni altra cosa preme porre in evidenza
è il rapporto che questi fasci, o meglio la laminetta aponeurotica, che
ne rappresenta il termine, ha coi rami ventrali dei nervi spinali (ultimo
toracico e 1° lombare): questi trovansi situati dorsalmente alla porzione
trasverso-costale, o in altre parole i nervi ora ricordati decorrono fra la
massa principale del muscolo (fasci dlio-costalì ed èlio-trasversari) e il
sottile piano ventrale (fasci trasverso-costali). Ciò ha, secondo il mio giu-
dizio, un alto valore morfologico, giacchè da questo rapporto apparirà
manifesto più oltre il significato dello strato più ventrale del m. qua-
dratus lumborum.
Per quanto riguarda il significato dell’ intero muscolo, ricorderò come
secondo MEecKEL °°") esso rappresenti i mm. Zevatores costarum (sopraco-
stali), levator scapulae, scaleni e pyramidalis. Meyer 58) chiama m. ileo-
lumbaris la porzione posteriore del m. quadratus lumborum (fasci ilio-
trasversari) e m. scalenus lumborum quella anteriore (fasci trasverso-
costali), omologizzando quest’ultima al m. scalenus colli.
Però l’opinione generalmente seguìta oggidì è che la porzione ven-
trale, omologa ai mm. scaleni, rappresenti un certo numero di mm. im-
200 F. PARDI
tercostales longì, e quella dorsale, più cospicua, sia omologa del m. ser-
ratus anterior.
Ma niuno dei moderni Trattati accenna agli studi importantissimi di
Gapow °4), alle nuove idee da lui svolte.
Già Hauenton !4!), a proposito dei Marsupiali, aveva considerato il
m. quadratus lumborum come un intercostale lombare, ma spetta senza
dubbio a Gapow ?4) il merito, rimasto sino ad oggi oscuro, di aver dato
del muscolo una nuova interpretazione, alla quale ora solo brevemente
accenno, per riprenderla in momento più opportuno. Egli, che ha potuto
fare lunghi studi di miologia comparata, ritiene che il m. quadratus lum-
borum della specie umana sia derivato da quello dei Rettili, e lo consi-
dera come un m. intercostalis, il quale, per l’accorciamento subìto dalle
coste nella regione presacrale, abbia perduto il primitivo carattere, tra-
sformandosi in un muscolo unico. Riporto senz’altro quanto Egli dice:
“....Indem nun die Vertebralstùcke der Rippen eine Verkilrzung er-
leiden, verliert die Muskellage ihren intercostalen Charakter, der nur
theilweise noch durch aponeurotische Septa angedeutet bleibt, und wird
zu einem einheitlichen Muskel (Quadratus lumborum), der in Ermange-
lung der aus ihm fòrmlich zuritekgezogenen Rippen von der Innenflàche
der Proc. transversi, und wie gewonhlich ausserdem von den Wirbelkòr-
pern selbst, fleischig entspringt ,.
III. Varietà.
1. Assenza del m. psoas minor. — La questione della maggiore
o minore frequenza del m. psoas minor nella specie umana è stata lun-
gamente dibattuta tra gli Anatomici, i quali hanno ottenuto resultati
straordinariamente discordi.
Alcuni, e sono per la verità i più, hanno stabilito, dopo un gran nu-
mero di osservazioni, doversi ritenere che il muscolo è con maggiore
frequenza assente, donde la necessità di porlo fra i muscoli soprannu-
merari, allo stesso modo dei mm. omo-trasversario, occipito-scapolare,
dorso-epitrocleare ecc., 0, come vuole LE DouBLE 25%), fra i muscoli passò
vamente progressivi. Basterà ricordare come TarILe?"°) lo abbia trovato
una volta sola su 20 cadaveri esaminati, PeRRIN?°!) 32 volte su 112,
Testur ?"?) 8 volte su 32, Le DouBLE ?°?) 263 volte su 600. Dwriear®°3)
lo trovò mancante nel rapporto del 60%, ScawaLse e Prirzner 7) in
quello del 57%, THomson °°) in quello del 59%;
LA MORFOLOGIA COMPARATA DEI MUSCOLI ECC. 201
MrecxeL ?5°) d’altra parte afferma che manca di rado e GRUBER ?75)
su 1500 osservazioni lo ha trovato presente 769 volte.
Io stesso ho voluto portare il mio piccolo contributo, e da 100 os-
servazioni (505 e 50 9) sono venuto alle conclusioni che riassumo nel
presente quadro :
Numero
Muscolo assente Muscolo presente
dei soggetti esaminati
100 52 48
Da A A
ambo i lati| destra sinistra
26 9 13
Si è voluta anche invocare per questo muscolo la influenza etnica,
essendosi osservato che presso certi popoli è più frequente di quello che
non sia presso altri. CHUDZNISKI 2"), ad esempio, crede caratteristica
della razza negra la mancanza del muscolo, ma dalle osservazioni di
Frower e More"), Giacomini #°?) e TestuT ?"?) dobbiamo ormai rite-
nere che ciò non è conforme alla verità.
2. Il m. psoas minor secondo il sesso. — È stato attribuito al
m. psoas minor un carattere sessuale. Riorano !*) nell’ Anthropographia
afferma: “...in mulieribus rarius reperitur quam in viris ,. WinsLow 25)
e BeLL ?5°) per contrario hanno asserito esser più frequente nella fem-
mina che nel maschio. i
Le ricerche di GruBER 275), Dwicar 2°), THomson 27°) e LE DOUBLE 25?)
portano a stabilire che il m. psoas minor manca più spesso nella femmina.
Allo stesso resultato conducono le mie osservazioni, riprodotte nel
quadro seguente:
È
Muscolo assente 21 Muscolo assente 31
| da ambo i lati 20 da ambo i lati 7
| id. presente 29) adestra . . 2 id. presente 19 Î a destra . . 6
| \ a sinistra . tdi a sinistra . .6
| Totale 50 29 Totale 50 19
202 F. PARDI
3. M. ileo-capsulo-femorale. — |M. petit iliaque di WinsLow 28);
iliacus minor di QuAIn ?°!); ilio-capsulo-trochantérien di CruveLLATER?94)].
FioRANI 281) in un recente lavoro si è occupato di questo muscolo, de-
scritto per la prima volta nell’ Uomo da WixsLow ?5), e successivamente
noto per le ricerche di molti altri, di cui qui io non ricorderò che i
principali: DENONVILLIERS 282), THEILE 3%), CRUVEILHIER 254), SAPPEY 25") ecc,
Ma Fiorani 281), estendendo le sue ricerche agli Anfibî, Rettili, Uc-
celli e Mammiferi, ha di questo muscolo stabilito l’omologia, confermando
l'opinione già espressa da TrHEILE 86), CruveILHIER 254), SApPEY ?57) e Trs-
TUT ?"2): che il muscolo in parola debba considerarsi come normale nel-
l'Uomo.
HEPBURN 283) ha descritto come origine accessoria del m. iliacus un
forte nastro tendineo, che, partendo dalla superficie di osso iliaco situata
immediatamente al di sotto ed esternamente alla spina iliaca anteriore
inferiore e dalla capsula dell’articolazione, si riuniva, passando al di die-
tro del m. rectus femoris, al m. iliacus.
Bryce 284), confermando le precedenti osservazioni di Testur ?°?), ha
descritto nel Negro uno speciale lacerto muscolare, proveniente dalla
spina iliaca anteriore ed inferiore, lacerto muscolare, cui devesi indub-
biamente dare la interpretazione di un m. èeo-capsulo-femorale.
Io stesso, in varie osservazioni praticate su cadaveri umani, ho ve-
duto, in corrispondenza del margine laterale del m. siacus, un fascio mu-
scolare, interamente distinto da questo, partirsi.dalla spina iliaca anteriore
ed inferiore, al di sotto dell’inserzione del tendine diretto del m. rectus
femoris, e prendere attacco isolatamente, dopo aver contratto rapporto
colla superficie ventrale del legamento ileo-femorale anteriore, al di
sotto del piccolo trocantere.
E in un caso, nella dissezione del cadavere di una bambina di circa
due anni, ho notato come alcune fibre del fascio in parola provenissero
dal tendine diretto del m. rectus femoris. Questa disposizione ricorda assai
da vicino quella riscontrata da HEPBURN?3°) e da KoHxLBRUGGE??5) in
Hylobates, nel quale una parte del m. éliacus prendeva origine dal mar-
gine esterno del tendine del m. rectus femoris.
Per quanto riguarda l’anatomia comparata del m. è/eo-capsulo-femorale,
rimando il lettore agl’importanti lavori di Testur?"?) e Le DouBLE 5°).
Ad essi aggiungerò soltanto come CHAMPNEYS:?4) e SPeERINO 4!) in
Troglodytes niger, OwEN 239) in Simia satyrus, DENIKER ®3") nel feto di un
Hylobates abbiano descritto il muscolo di cui mi occupo.
LA MORFOLOGIA COMPARATA DEI MUSCOLI ECC. 203
Questo, secondo Testur?"?), sarebbe specialmente sviluppato, rap-
presentandovi da solo la porzione iliaca del m. ilio-psoas, in quei Mam-
miferi (Chirotteri ad esempio), con élio prismatico (SABATIER 28°), 0 sprov-
visto di fossa iliaca interna. Ciò per la verità non concorda con l’osser-
vazione di Artx??°), che in Pteropus Edwardsii descrive lateralmente al
m. dliacus uno spesso e distinto iliacus minor.
4. Fascio soprannumerario del m. iliacus (Tav.IX, fig.16). — In
un cadavere di adulto ho notato, ventralmente al m. iliacus, la presenza di
un fascio muscolare assai cospicuo, appiattito, il quale dalla sua origine
nella porzione media del labbro interno della cresta iliaca, veniva, con
una direzione obliqua dall’alto al basso e dall'esterno all’interno, a con-
fondere le sue fibre con quelle del m. diacus. Il n. femoralis, nell’attra-
versare obliquamente la fossa iliaca interna passava fra il m. iliacus e
il fascio soprannumerario ora descritto.
Nella letteratura non trovo che i casi di MACALISTER ?85) e di Woop 287),
i quali possano rassomigliarsi a quello descritto da me. MACALISTER ?86)
parla di un fascio muscolare appiattito che originatosi dalla fascia iliaca,
dopo aver ricoperto il m. diacus sottostante, si confonde in basso con
esso. Woop?57) pure ha notato un fascio accessorio del m. iliacus stac-
carsi, completamente distinto dal corpo principale del muscolo, dalla metà
della cresta iliaca e gettarsi sul tendine del m. éli0-psoas.
5. Varietà del m. psoas major coesistente a varietà del n.
femoralis (Tav. IX, fig. 17). — DEBIERRE?88) nel suo lavoro (des ano-
malies des muscles coexistantes et correlatives des anomalies des nerfs) fra
le varietà che non si possono spiegare coll’atavismo e che sono determi-
nate dall’anormale decorso dei nervi, descrive quella della presenza di
un piccolo fascio indipendente del m. iliacus per la divisione in due rami
del n. femoralis, dei quali rami uno passava sopra e l’altro sotto al fa-
scicolo muscolare, per poi nuovamente riunirsi distalmente.
Io stesso ho due osservazioni consimili. In un bambino di due anni
circa ho veduto, a destra, il n. femoralis presentare nel suo decorso at-
traverso la fossa iliaca interna un vasto occhiello della lunghezza di
em. 3 ‘/,, in mezzo al quale passava un fascicolo muscolare del m. psoas
major: questo fascicolo, proveniente dal margine inferiore del processo
trasverso della 3* vertebra lombare, in basso, dopo avere attraversato
l’occhiello anzidetto, si gettava per mezzo di sottili fibre aponeurotiche
sul tendine del m. ili0-psoas.
Osservazione quasi simile a questa ho fatto in un cadavere di adulto.
Se. Nat. Vol, XIX 14
204 F. PARDI
Considerazioni generali e eonclusioni.
1. Psoas minor.
Di questo muscolo, che OwENn??5) a ragione considera come un ventre
superficiale del m. psoas major, non troviamo traccia nei Vertebrati in-
feriori. Esso apparisce distinto e- bene sviluppato soltanto nei Mammi-
feri, ove assume la speciale funzione di tendere la fascia iliaca.
Sviluppatissimo nei Monotremi, ove in talune specie (Echidna hy-
strix, Mivart 187) è il più grande dei muscoli subvertebrali, è del pari
assai cospicuo nei Ditremi, nei quali talora ( Halmaturus, MrEcKEL 4°)
giunge a proporzioni dieci volte maggiori del m. psoas major.
Negli Anisodentati (Oholoepus didactylus, MAcKINTOSA 15?) può spin-
gere le sue origini fino al corpo delle 5 vertebre dorsali posteriori.
Nei Perissodattili (Equus caballus, Equus asinus) proviene, oltre che
dalle 3 ultime vertebre dorsali, anche dalle 3 ultime coste.
Negli Artiodattili (Capra hircus, Ovis aries) dall’estremo distale del
tendine ha origine, con alcune fibre, il m. sartorius.
È bene sviluppato ordinariamente nei Roditori: manca in Mus de-
cumanus e quasi sempre in Cavia cobaya. In quest’ultima specie, su 10
esemplari io non l'ho mai trovato: ALEzaIs!??) lo ha veduto una volta
sola fra numerose osservazioni, PARSONS 194) per contrario due volte su tre.
Nei Carnivori è intimamente unito, specie cranialmente, col m. psoas
major, provenendo, come in Felis domestica, dai tendini di origine di
quest’ultimo muscolo.
Negl’ Insettivori termina, come d’ordinario, sul tubercolo ileo-pettineo:
solo in Gymnura Rafflesii (DoBson?14) s'inserisce, col m. élio-psoas, sul
piccolo trocantere. Ciò costituisce insieme ad altri su cui avrò occa-
sione di ritornare più tardi un bell'esempio delle modificazioni, talora
estese, che può subire un muscolo nelle sue inserzioni.
Il m. psoas minor è costante in tutti i Chirotteri, ciò che coincide
col grande sviluppo del tubercolo ileo-pettineo.
Nelle Prosimie (Chiromys madagascariensis, ZUCKERKANDL °°°) è rudi-
mentale.
Nei Primati invece è bene sviluppato: in Macacus cynomolgus dal
tendine del muscolo, in prossimità della sua inserzione, hanno origine
fibre del m. èlio-coccygeus.
LA MORFOLOGIA COMPARATA DEI MUSCOLI ECC. 205
2. Psoas major.
Anfibì e Rettili. — EckeR 8°) negli Anfibî Anuri aveva chiamato ileo-
psoas un cospicuo muscolo, che in Bufo vulgaris e Rana esculenta ori-
rigina dal bacino per portarsi al labbro laterale della crista femoris, e
Mivart 8987) chiamò nei Saurii psoas-diacus un robusto muscolo [ischio-
pubo-femoralis di HorrMAnn °8), pubi-ischio-femoralis internus di GADOw 9°)],
che diviso in più porzioni trae origine dal pube, dall’ischio e dal lega-
mento fibroso che chiude il forame cordiforme per inserirsi sul piccolo
trocantere o vicino ad esso sul femore. Ma, come si comprende, questi
due muscoli sono di pertinenza esclusiva del bacino, nè possono esser
considerati come corrispondenti all'intero ‘ilio-psoas della specie umana.
Le prime traccie del m. psoas major le troviamo negl’Idrosaurii 0
Coccodrilliani e nei Chelonii. Nei primi GApow ??) ha dimostrato che il
m. pubi-ischio-femoralis internus è costituito di 3 porzioni, di cui la 1*
e la 2? riunite corrisponderebbero per le loro inserzioni al m. pectineus,
e la 3°, proveniente dalla colonna vertebrale e dall’ileo, vien conside-
rata come omologa del m. sliacus dei Mammiferi e dell'Uomo. Ma, dal
momento che questa 3* porzione proviene, oltre che dall’ileo, anche dalla
colonna vertebrale prossima al bacino, qual difficoltà vi sarebbe a con-
siderarla addirittura come corrispondente all’ intero m. ilio-psoas?
Frai Chelonii, nel m. dorso-femoralis di HorrmaAnn 1!) [2* porzione
del m. pubi-ischio-femoralis internus di Gapow !!8)] abbiamo il corrispon-
dente morfologico e funzionale del m. ilio-psoas. In Testudo graeca ad
esempio (Tav. VII, fig. 5) il m. dorso-femoralis proviene, come abbiamo
veduto, dai corpi delle ultime 3 vertebre dorso-lombari, dalla faccia
inferiore dello scudo dorsale e dal margine superiore dell’ileo e del
pube, per portarsi, fuso col m. pubo-femoralis internus (pectineus), al
piccolo trocantere o in prossimità di esso. In Thalassochelys caretta
(Tav. VIII, fig. 7), del pari che in Zestudo tabulata (Gapow 118), il
muscolo sposta la sua inserzione distale dal trocantere interno alla su-
perficie ventrale e laterale del femore, fino a raggiungere il trocantere
esterno.
Uccelli. — In questa Classe, come già avevano osservato CuUvIER!?3),
UcceLLI!5), MeckeL *24 e Arrx!3!), manca ogni e qualsiasi traccia del
m. psoas major.
Mammiferi. — È bene sviluppato nei Monotremi e nei Ditremi:
in questi spinge cranialmente le sue origini fino alle ultime vertebre
206 F. PARDI
dorsali, ed è in Dasyurus viverrinus (MAc CormicK 148) costituito di 3
porzioni distinte: dorso-lombare, lombare e sacrale.
È del pari bene sviluppato negli Anisodentati, Perissodattili, Artio-
dattili e Proboscidati.
Caratteristica tra i Roditori è la disposizione descritta da WinpLE!89)
in Dolichotis patagonica, ove la inserzione distale del muscolo si fa per
un tendine ad Y, di cui un corno va ad attaccarsi al piccolo trocan-
tere, e l’altro alla superficie interna del femore alla distanza di circa
1 cm. dal precedente. In Cavia cobaya, Lepus cuniculus e Myoxus glis
il muscolo è distinto in 2 porzioni, che io ho chiamato costo-dorso-lom-
bare e lombo-sacrale, separate dal n. femoratis.
Tra i Pinnipedii, nelle Phocinae e in Macrorrhinus leoninus (Tur-
NER 29°), mancando il piccolo trocantere, il m. psoas major s’inserisce
sulla spina posterior ventralis ilit. Come psoas tertius si descrive in que-
st Ordine, meno che in Macrorrhinus, un piccolo muscolo ricoperto dal
m. psoas major e che s'inserisce distalmente sul femore. CLARKSON e
RaInY?8°) hanno descritto nell’ Uomo, come varietà, 4 mm. psoas per
parte, e li omologizzano così coi muscoli omonimi dei Pinnipedii:
Pinnipedii Uomo
Psoas magnus
ESOASNIASDUSI A AU AC
Psoas parvus
Ps0as'PaArvus i. it NEO AS CRS
Prsoas tertiUs” ona Laglio RAS AURA
Più o meno complicato nella sua costituzione, presentasi d’ordinario
bene sviluppato nei Carnivori, Insettivori, Prosimie e Primati.
Notevole, a mio avviso, è nei Chirotteri la fusione del tendine del
fascio mediale del m. psoas major con l’estremo distale del m. pectineus.
Questa disposizione ricorda assai esattamente quella descritta negl’Idro-
saurii e nei Chelonii, ove i corrispondenti morfologici dei muscoli sur-
riferiti sono distalmente fusi in un’unica porzione.
3. Iliacus.
Anfibî. — Negli Urodeli venne considerato come omologo di questo
muscolo il m. deo-femoralis di De MAN) e HorFMAnN 55), ma Gapow99)
afferma ragionevolmente che non si è ancora arrivati in quest’Ordine
alla formazione di un vero m.