BOLLETTINO DELLA SOCIETÀ 1 NATURALISTI IlV NAPOLI VOLUME LV - 1944-46 (Pubblicato il 30 ottobre 1947) con 27 tavole e 30 figure intercalate NAPOLI Stabilimento Tipografico G. Genovese Pallonetto S. Chiara. 22 - Tel. 22-568 1947 £***>%■ 35GS76 BOLLETTINO BELLA I3V KAPOI,! VOLUME LV - 1944-46 (Pubblicato il 30 ottobre 1947) con 27 tavole e 30 figure intercalate NAPOLI Stabilimento Tipografico G. Genovese Pallonetto S. Chiara, 22 - Tel. 22-568 1947 v ■ INDICE ATTI (MEMORIE, NOTE E COMUNICAZIONI) Trotter A. — Cenni biografici su F. S. Sorda ed i suoi scritti partico¬ larmente botanici ........... pag. 3 Ippolito F. — A proposito del problema delle migmatiti . » 12 Imbò G. — Azione dell attività vulcanica ed in particolare del parossismo del marzo 1944 sulle variazioni di forma del cono vesuviano . » 15 Augusti SJ — Ricerche sui colori di alcuni affreschi della chiesa supe¬ riore di S. Francesco, ìq Assisi . . , . . . . . » 24 Ippolito F. — Segnalazione di un’argilla in tenimento di Pimonte . . » 27 Pannain E. — Sulla teoria elettronica della valenza. Nota I ( con 3 tàvole ) » 29 Pannain E. — Sulla teoria elettronica della valenza. Nola li <( con 3 tavole ) » 38 La Greca M. — Il brachitterismo negli insetti. Analisi morfologica del- F articolazione alare degli ortotteri . . . . . . . » 52 Pannain E. — Sulla teoria elettronica della valenza. .Nota III (con 3 tav.) » 58 La Greca M. — Su di alcuni rasi teratologici negli ortotteri . . » 63 Augusti S. — Azione dei microrganismi e dei parassiti sui dipinti murali » 68 Alfano G. B. — Sulla inopportunità di modificare la nomenclatura classica tradizionale delle fasi vulcaniche . . . » 74 Parenzan P. — Contributo alla conoscenza del fungo parassita Blasto- cystis hominis Brumpt ........... 87 Sorrentino S. — Esame preventivo delle forme assegnate alla famiglia Phylloceratidae Zittel ....... ...» 92 Lazzari A. — Contributo alla conoscenza della fauna elveziana del Mali Gurdezes (Albania) . » 98 Lazzari A. — Su di un nuovo criterio dì interpretazione dei risultati dell’indagine sismica del sottosuolo nelle ricerche petrolifere. Nota preventiva . . . . . . . . . » 102 Ippolito F. — Primi risultati di studi geologici eseguili in Calabria nel 1946 . '. . . . » - 105 Io\ ene F. — Osservazioni sulle mofete vesuviane apparse in occasione delFultimo' parossisma vulcanico ... . . . . . » 108 IV Parenzan P. — Saroosiporidio i i psorospermosi) da nuova specie (Prot.: Sarcocystis atractaspidis n. sp.) in rettile ( Atractaspis ) . . pag. 117 Mazzarelli G. - Nota preliminare sul grande terremoto del Mediterra¬ neo orientale del 12 ottobre 1856 . » 120 Mazzarelli G. -- Su un rilievo vulcanico sottomarino al largo della costa meridionale della Sicilia ... » 1 23 Scherillo A. — I vulcani Sabatini . . » 125 Pannain L, — La struttura dell’ atomo e il sistema periodico degli elementi » 131 Parascandola A. — Notizie vesuviane. L'attuale fase solfatarica del Ver suvio (con 1 tavola ) ......... . » 135 De Rosa A. — La forma della testa del neonato ...... 140 La Greca M., Lazzari A. e Moncharmont U. — L’attività del Centro Speleologico della Società dei Naturalisti di Napoli durante Pan¬ no 1946 ... .......... 147 Parascandola A. — Il Monte Nuovo ed il Lago Lucrino \con 17 tavole ) » 151 PROCESSI VERBALI DELLE ADUNANZE Processi verbali delle Tornate del 1945-46 . . . . . » 313 Bollettino della Società dei Naturalisti in Napoli ATTI (MEMORIE E NOTE) Cenni biografici su F. S. Sorda ed i suoi scritti particolarmente botanici Nota del socio Alessandro Trotter (Tornata del 27 febbraio 1943) Nel 1910, in una mia biografia dell’agronomo e botanofilo avelli¬ nese Federico Cassitto (1), inserivo il semplice ricordo di altro stu¬ dioso e botanico della regione, Francesco Saverio Sorda. Poiché di lui e della sua meritoria attività botanica ben poco risulta (2), reputo interessante ricordarlo in modo particolare col presente scritto, quale contributo anche alla storia gloriosa della Botanica nel Mezzogiorno d’Italia. Francesco Saverio Sorda, di Celestino, nacque a Fragneto Mon- fo-rte (oggi in prov. di Benevento) il 3 gennaio 1793. Sua moglie fu una Maria Antonia Ruggiero dalla quale ebbe sei figli. Il primo, Giuseppe, esercitò la medicina in Napoli, il secondo, Luigi, pare l’avvocatura in Benevento; mi è ignoto il nome e l’attività degli altri. Francesco Saverio, all’età di 3-4 anni, da Fragneto M. fu condotto in Benevento, ove di poi iniziò la sua educazione, che completò suc¬ cessivamente in Napoli, conseguendovi il titolo di Dottore in Chimica, ed esercitando la farmacia in Benevento. Fu anche dal 1820 professore (1) Trotter A. — Federico Cassitto fiorista avellinese ed il suo tempo. Notizie storico-biografiche (con ritratto). Avellino 1910, 27 pag. con tav. (2) Nella Botanica in Italia di P. A. Saccardo (Venezia 1895 p. 156) è detto unicamente: « Sorda '(Francesco Saverio» in Roma (?). Opere. Notomia della pianta del grano d’india i Zea Màys )t Roma* 1828 (Giorn. Arcadico)». Notizia desunta dalla nuda citazione di due pubblicazioni del Sorda, le quali figurano nel voi. V, p. 754, del Catalogue of Scientific Papers (1800-1863), London 1871. Le notizie posteriori, relative al paese nativo, agli anni di nascita e di morte, apparse in uno scritto di Balsamo e Geremicca ( Botanici e botanofili napoletani (Ser. II) p, 71, in « Celebrazione I. Centen. R. Orto Botanico Napoli, 1809-1909 »), furono desunte dal mio scritto su F. Cassitto. citato alla Nota 1. AUG 2 "194® 4 di Agraria e di Scienze Naturali nel Liceo di Benevento, Istituto ohe più tardi cessò di esistere. Come lo comportavano le esigenze dei tempi, svolse la sua atti- vita anche nel cimpo economico-agrario, elaborando qualche relazione, rimasta inedita, richiestagli da locali Società Economiche. Da ricor¬ dare, una sperimentale sulla nutrizione del baco da seta a mezzo di foglie di lattuga (in data 16 luglio 1816), una sul modo di combattere le cavallette (in data 29 luglio 1824), ed altra ampia ed erudita, sul miglioramento delle industrie locali (in data 30 maggio 1835); in fine, ultima tra quelle a me note, di maggior mole e rimasta egualmente inedita, (in data 15 agosto 1815) sul miglioramento della praticoltura, con un diligente esame di un notevole numero di piante adatte a tal fine, secondo le diverse condizioni di altitudine e di terreno. È un la¬ voro il quale dimostra, oltre la sua competenza, anche una larghezza di vedute, intorno ad un argomento che per il Mezzogiorno è sempre stato di attualità. Tali relazioni manoscritte, si trovano conservate nel¬ l’Archivio Provinciale di Avellino, tra i materiali della antica Soc. Econ. del P. U. Ma ciò che valse a dare maggiore rinomanza al Sorda tra i suoi contemporanei, furono alcune memorie a stampa ed in particolare quel¬ le di argomento botanico, -tutte oggi assai rare e difficili a trovarsi. La sua attività scientifica è rappresentata dalle seguenti pubblicazioni, apparse nella prima metà del secolo scorso, qui ciccante nella loro successione cronologica. Nè mi risulta ve ne siene altre. Quelle di argomento boi a ni co. specialmente, saranno seguite da qualche breve commento: 1. — Quadro sinottico della Filosofia botanica , ossia Compendio delle Fisiologia ed Anatomia dello Piante (Benevento 1812, voi. in -16 di 72 pag.). Il volume ha inizio con la seguente dedica: Al suo Maestro Domenico Bruschi — Profesosre di Botanica — - Nell9 Università di Perugia — -■ Questo suo — Quadro Sinottico di Filo¬ sofia Botanica — Francesco Saverio Sorda — In segno di riconoscenza — Dedica e consacra (3). (3) Domenico Bruschi (n. 1"8 marzo 1787, m. ITI giugno 1863), dopo varie peregrinazioni^ dal 1811 passò all’Università di Perugia ad organizzarvi e dirigervi quell’Orto Botanico e ad insegnarvi Botanica. Però nel 1810 fu professore di Bo¬ tanica, Chimica ed Agraria in Benevento ( cfr. P. A. Saccardo, 1. c. 1895, p. 2:22). Ciò spiega il motivo della dedica, poiché il Bruschi nel suo insegnamento a Be- — 5 - È un lavoro giovanile del Sorda, scritto con intendimento scola¬ stico, nel quale si espongono le principali nozioni relative alla morfo¬ logia e fisiologia delle piante, secondo la successione delle loro fasi vegetative e riproduttive. L’ordine della materia è il seguente: Della prima epoca della vita della pianta, ossia del suo embrione (vi si parla Della Radice, Ilei Tronco, Della Foglia, Del Seme, De’ Bulbi,, e delle Gemme); Della seconda epoca della vita della pianta, ossia del suo sviluppo, ed accrescimento (oltre le nozioni generali, vi si parla Della Radice, Del Tronco, Della Foglia); Della terza epoca della vita della pianta, ossia della sua fioritura (vi si parla Del Fiore, Del Ricettacolo, Del Calice, Della Corolla, Degli Stami, Del Pistillo); Della quarta epoca della vita della pianta, ossia dell’ ingrandimento del suo pericarpo (vi si parla Della Casella, Del Legume, Della Bacca, Del Pomo, Della Noce, Dello Strobilo); Delle parti accessorie del vegetabile (Delle Stipole, Guaine, Bra- tea, Chiome, Involucro, Spala, Viticchio, Spine, Peli, Ghiandole, Ves. siehette. Verruche, Nettario); Dei prodotti Chimici che dopo la fioritura si hanno dal vegetabile. Il trattatello del Sorda differisce dagli altri similari, scritti in quel¬ l’epoca, in quanto astrae dalla sistematica dei vegetali e dalla fitote¬ rapia, che allora dominavano la letteratura botanica a carattere sco¬ lastico o divulgativo. Tutto ciò in armonia con un pensiero ed un in¬ dirizzo scientifico personale, come dirò più avanti. 2. — Riflessioni sulla teoria dell’etere (Giornale Enciclopedico di Napoli, Sesto anno d’associazione, t. II, 1812, pp. 306-316). È un contributo chimico, di carattere critico e sperimentale, sulla natura e la formazione degli eteri, per disidratazione degli alcool. 3. — Notomia della pianta del Grano-d’ India in tutti i stadii della sua germinazione, fioritura e fruttificazione (Giornale Arcadico di Roma, t. XXXIX, 1828, pp. 118-204. — Voi. in -16° di 89 pag.). È uno studio^ di minuta morfologia della Zea Mays. Sono prese in considerazione tutte le differenti parti costituenti la pianta, e per gli organi fiorali, maschili e femminili ed il seme, anche la loro evolti nevenlo, dovette trovare nel Sorda un allievo appassionalo, forse in quello stesso Liceo nel quale anche il Sorda, più tardi, doveva essere chiamalo a prestarvi la sua opera. — 6 — zione, cioè lo sviluppo. Il Sorda fornisce anche qualche breve notizia eli carattere microscopico circa la costituzione dei tessuti, essendosi anche giovato per il suo esame di trattamenti con decotto colorante tratto dall ’Haematoxylon campecheanum. È' spiacevole che egli non abbia allegato alle sue ricerche qualche figura, la quale avrebbe resa la sua memoria ben più interessante e gli avrebbe conferito un vero primato nello studio morfo-anatomico di questa pianta, per quanto redatto con linguaggio tecnico che risente l’autodidatta. Non troviamo registrata la memoria del Sorda nella monografia del Mayz di Wea therwax (4), nell’opera storico-bibliografica del Niccoli (5), come pure in altre pubblicazioni speciali relative a tale pianta. Questo lavoro procurò al Sorda una lettera di felicitazione da parte di Michele Tenore, che mi piace riportare (6). 4. — Discorso intorno dei una maniera di mietere detta da Plinio (« Archivio del Proprietario e deH’Agricoltore di Piacenza », fase. XVIII. 1835, p. 245. — Ristampato a parte: Benevento, Tip. Paterno, 1835, in 16°, di 14 pag.). È un articoletto pieno di erudizione, circa rinterpretazione da darsi ad un passo di Plinio, riguardante un modo molto spedito di mietitura usato nei latifondi delle Ga'llie e che egli ritiene applicabile anche da noi, purché i terreni sieno in piano. Il passo di Plinio è il seguente (Nat. Hist. lib . XVIII, cap. 72): « Galliarum latifundis valli i(4) Weatherwax P. — The Story of thè Mayze Plani. Chicago 1923. Con ricca bibliografia. (5) Niccoli V. Saggio storico e bibliografico dell’ Agricoltura Italiana (in «Nuo¬ va Encicl. Agrar. It. ». P. I., Torino 1902. pp. 199-1200). (6) A sua Ecc.za il Prof. Dr. Francesco Saverio Sorda - Benevento. Stimat.0 Sig.r Dr. Francesco Saverio, Vi rendo grazie distintissime pel pregevole dono che vi siete compiaciuto farmi della vostra dotta dissertazione sulla Notomia del Grano d’india, che ho letto col più vivo interessamento. Non dubito che il vostro egregio lavoro sarà accolto con pari premura dai cultori della scienza amabile^ ai cui progressi avete con sì felice successo conservate le vostre cure più assidue. Io vi prego di gradire i miei più sinceri ed affettuosi complimenti. Attribuisco a vostra amicizia per me le lusin¬ ghiere espressioni di cui vi siete compiaciuto onorarmi e che conosco pur troppo di non meritare. Vogliate continuarmi le grazie della vostra bontà, col comandarmi e col cre¬ dermi colla più divota stima ed amicizia, di Napoli 2 aprile 1829 V.° serv. dev.mo ed amico obi. ino Michele Tenore — 7 — praegrandes dentibus in margine infestis, duabus roti» per segetem im- pelluntur, jumento in centra riunì jnncto: ita direptae in valium ca¬ dimi spicae ». lì Sorda si sforza di spiegare .quale dovesse essere la struttura della macchina impiegata e quale il modo di funzionare. 5. — Memoria della Colera indiana patita in Benevento il 1837 (Napoli, Tip. dell’Iride, an. 1838, voi. in -16° di 93 pag.). Ricordate le vicende dell’apparsa e diffusione del colera in Eu¬ ropa, a cominciare dal 1831, e dopo aver illustrata l’organizzazione preventiva per la difesa contro il pericoloso morbo, descrive i casi verificatisi in Benevento nel 1837, riassumendoli in apposita tabella. 6. — Discorso storico sopra la vita e le opere di. Monsignor Fran¬ cesco Pacca Arcivescovo di Benevento (opusc. in- 8° gr. di pag. 7). Assai raro. L’esemplare esistente presso la Pubblica Biblioteca Arcivesco¬ vile di Benevento, risulta mutilato e manca altresì delle indicazioni di stamperia e di anno di pubbL). Con molta probabilità, 'l’Arciv. Pacca fu della stessa Famiglia del celebre Cardinale Bartolomeo Pacca, e del prelato, di lui nipote, Tiberio Pacca rii a Napoli di colera il 29 giugno 1337. Il Sorda mostra di aver avuto visione di un ins. dell’Arciv. Pacca a Saecula Beneven¬ tana », storia civile inedita compilata prima del 1752, anno di pubbli¬ cazione del Thesaurum Beneventanum del De Vita. Le altre notizie riguardano la vita dell’ Arci veseov o . 7. — Saggio di ricerche intorno il nascere de7 * 9 semi (Benevento, Tip. Paterno, a. 1840, v. in -16° di 83 pag.). È questa la Memoria, a carattere sperimentale (ispirata certo dalle precedenti ricerche morfo -fisiologiche sul Mais), la quale pro¬ curò maggior rinomanza al Sorda. Dopo soprattutto che il Barone Vincenzo Cesati (nel periodo che precedette la sua entrata nell’inse¬ gnamento medio a Vercelli), diede di essa un’ampia ed obiettiva re¬ censione (7). Il voi. del Sorda è diviso in due Parti: P. /. Dove si dichiara di quali condizioni di terra acqua aria e calore fa bisogno acciocché na (7) Cesati Vino. — Saggio di ricerche intorno il nascere de’ semi di Francesco Saverio Sorda, Benevento, dalla Tipografia Paterno, 1840, 8° picc., vi-18 (in « Gior¬ nale Agrario Lombardo -Veneto ecc. », fase, di ottobre 1840, Milano, Estratto di 14 pag.). 8 — scatto le sementi. — P. II. Dove si vede quali maniere di gas ingene¬ rano i semi posti in differenti modi coir acqua. Le prove effettuate dal Sorda con varie specie di semi (piselli, fave* lenti, spinaci, lino., grano, granone), ribadiscono conclusioni fondamentali già note anche in quel tempo, e cioè della contempo¬ ranea necessità dell’acqua, dell’ossigeno e del calore per determinare, il fenomeno. È nei dettagli piuttosto e nelle interpretazioni che il Sorda può aver apportato qualche contributo sperimentale. Negando l’in¬ tervento di fermentazioni (come allora si intendevano), nel determi¬ nismo della germinazione, egli riconosce invece la necessità che l’acqua, comunque penetrata, debba esser scomposta nei suoi elementi, e che, di conseguenza, avvenga una scomposizione anche delle membrane cel¬ lulari del parenchima del seme, convertite in acqua ed anidride car¬ bonica, di cui l’embrione si gioverebbe per il suo sviluppo. Il lavoro del Sorda comprende 20 paragrafi, o proposizioni spe¬ rimentali, ognuno dei quali considera qualche particolare aspetto del complesso argomento impreso a trattare. Anche per il tempo, l’ar¬ gomento non poteva dirsi certamente nuovo, poiché aveva suscitato osservazioni ed indagini da parte di Saussure, Treviranus, Meyen, Link, Raspail, De Candolle etc.. Sorda lo riprese con ampiezza e con intendimenti originali, e di ciò egli ha avuto per i tempi ed i luoghi notevole merito. — Anche tale lavoro procurò al Sorda le fe¬ licitazioni di Michele Tenore (8). (8) Al Chiarissimo Signor Dottor Frane. Sav. Sorda - Benevento. Napoli, 2 Giugno 1840 Pregiatissimo Amico, Le domando mille perdoni se ho così lungamente differite a ringraziarla del dono graditissimo delle sue dotte produzioni messe a stampa. L’assenza di qualche mese passato in Roma e la folla delle cose da riordinare dopo il ritorno, mi po¬ tranno impetrare il di Lei gentile compatimento. Ho letto col maggiore interesse il vostro Saggio di ricerche intorno al nascere de’ semi, e vi confesso di averne altamente ammirata la sagacità e la dottrina con cui Ella si è adoperata per chiarire i più oscuri fenomeni di questo importan¬ tissimo processo vegetativo. Sono certo che la scienza si è pel di Lei lavoro ar¬ ricchita di fatti nuovi che potranno esercitare la più estesa influenza sui progressi della Fisiologia vegetale e sulle analoghe applicazioni ad una delle più importanti pratiche agrarie. Io la prego di accettarne le mie più sincere congratulazioni, ed i voti premurosi perchè non desista dalFinnoltrarsi nell’ onorevole aringo di cui con tanto plauso ha percorsi stadii così luminosi. Sono coll® più divota stima Suo obb.mo e devoto. mo amico Michele Tenore 8. — Memoria sul quesito de 9 botanici del Congresso di Lucca: Determinare la parte che prende Varia nel germogliamento ette. (Negli « Atti VII Congresso Scienziati itali!- Napoli 1845 », pp. 846-852 e pag. 894 (Critica). Comprende la IIa Parte soltanto della Memoria presen¬ tata dal Sorda, la quale fu da lui ristampata a parte unitamente alla P. Comprende 40 pag. senza indicazioni di città e di stamperia, ma dalla veste tipografica sembrerebbe uscita dalla ricordata Stamperia dell’Iride di Napoli, di cui alla Memoria n. 5. In occasione del ricordato Congresso di Lucca, la Memoria del Sorda del 1840 ed in particolare le sue conclusioni, furono discusse dai botanici ivi intervenuti, con la proposta per la trattazione di un quesito così concepito : « Determinare per via di esperienze qual parte prenda l’aria atmosferica nel germogliamento, su quali sostanze del seme porta essa la sua azione, e quali cangiamenti induca nelle me¬ desime ». Con nuove osservazioni ed esperienze, il Sorda ribadisce le con¬ clusioni alle quali era precedentemente arrivato Tali i suoi meriti scientifici, i quali procurarono ai Sorda l’onore di essere chiamato a far parte di varie Società ed Accademie. Si ricor dano le seguenti: Accademia Pontaniana ed Accademia delle Scienze di Napoli, dei Quiriti di Roma, della Fiorimontana, dei Pellegrini affaticati, di quella del Progresso, della Economico- agraria Lucerina, dell’Istituto filotecnico. Fu anche Presidente dell’ Accademia degli A- spiranti naturalisti di Benevento fondata da Costa, Vice Presidente onorario della co Société des Instituteurs et des Institufrices de Mar- seille », e sino dal 4 sett. 1817 era stato nominato corrispondente della Società Economica del Principato Ulteriore, della quale fu poi Capo Ripartimento. Ci piace riportare un attestato della Curia Arcivesco¬ vile di Benevento, in data 18 marzo 1846, nella quale, in un latino non irreprensibile, per difetto probabilmente di trascrizione, sono riu¬ nite lodi e notizie sul Sorda e la sua famiglia (9). (9) Attestato della Rm. Curia Arcivescovile di Benevento, in data 18 marzo 1846: Dominicus miserationi Divina Tituli S. Mariae Angelorum ad Thermas S.R.E. Praesbiter Cardinalis Carata de Trajecto, S- Metropolitanae Ecclesiae beneventa- nae Archiepiscopus. Universis et singulis has praesentes literas inspecturis notum facimus atque testamur Doctorem in Cbyrnia Dm.um Francisc- Xaverium Sorda bonis honestisque moribus esse praeditum vitaeque integritatem apud omnes probavisse: pr a eterea captum ingenium scientiis exeoluisse ac lectiones tradidisse publicas et ex cathedra — 10 — Malgrado la modesta entità della sua produzione botanica, in re¬ lazione con la notevole durata della sua vita, il nome del Sorda vuol essere ricordato, poiché segna l’inizio di un periodo di transizione nella Storia della Botanica meridionale, la quale compì una più decisa evo¬ luzione con Guglielmo Gasparrini, succeduto, nel 1861, a Michele Tenore nella Direzione del R. Orto Botanico di Napoli. Erano cioè la Fisiologia e l’Ecologia vegetale che cominciavano ad apparire e ad affermarsi nelle indagini botaniche, sino allora pervase dalla sistema¬ tica, dalla floristica e dalla fitoterapia. Di tale necessaria evoluzione era perfettamente conscio il Sorda. xAticora nel 1828, nella sua Me¬ moria sul Grano d’india, egli dichiara la sua aperta adesione ad un ordine nuovo di indagini con le seguenti parole (pag. 3): cc Non mi pento di averlo fatto (cioè il suo lavoro), perchè solo operando così per ogni specie di pianta si può venire a giorno della precisa strut¬ tura de’ vegetabili: opera malagevole, come quella ch’esige l’ostinata pazienza di moltissimi, e per molto tempo; ina pur necessaria. Chè se si risolvessero a farla tanti felici ingegni che van raccogliendo pian¬ toli ne novelle per ogni dove della nostra terra; e facessero anche l’altra più assai difficile, ma ad un tempo più necessaria, di esaminare cioè i liquidi che i differenti organi nelle diverse parti della pianta rac- tum Agricolturae lum Historiae ut vocant Naturalis ab hinc vero triginta annis privatili! Chymias Botanicas Physicas et Matematicas Disciplinas jugiter docuisse: varia insuper opera praelis tradidisse non vulgari elogio digna, scilicet Botanica Georgica Mineralogica Oeconomiea et Philologica quorum aliqua quibusdam Aca- demiis ac severioris notae scriptoribus tura Italiae tum Germaniae probatissima in iis libelli® quibus scientiarum ephemerides consignantur maximis laudibus ef- feruntur: proinde dignuin liabitum num fuisse qui inter socios ascisceretur Aca-, demiae consilio et auspiciis Regis utriusque Siciliae institutae sub nomine Socie- tatis Oeconomicae Principatus Ulteriori cujus praecipuum est eivilis et ruralis oeconomiae studia undequaque promovere; atque ea exoptatum nuper ad hoc nu- meris implendum? ut uni ex duodecim segmentis in quae tota illa Provincia redita opera dissescitur praesset, quippe hoc titillo insignibus — Capo di Ripartimeuto della Reai Società Economica di Principato Ulteriore — . Testamur quoque prae- dictum Xaverium Sorda aetatem attigisse anno rum ekeiter quinquaginta duorum, et uxoreni duxisse • D.nam Mariani Antoniam Ruggiero ex qua sex filios suscepit quorum major natu Joseph in Civitate Neapoli Medicinam profitelur, eique aetate proximior Aloysius munus patroni Beneventi exercet. Satis denique constai aedes proprias culli in colere, quae palatii formam referunt, sacello seu Oratorio Privato decoratus ejusdemque familiam quarn decentissime vivere opibus et more nobi- lium, ac inter honestiores liujusce Civitatis recenseri. In quorum Beneventi ex Curia Archiepiscopali hoc die 18 Martii anni 1816 Vicarius Generalis. P.ex March. Balsamo Aloysius Grami gnali seniore Notarius Ar- chiepiscopalis adest sigillum. — TI — chiudono, si verrebbe ad avere finalmente una completa notomia, Ja quale ci menerebbe poi ad una esatta fisiologia vegetabile. Così non avremmo più a dolerci che fra tutte le scienze naturali la parte meno conosciuta è la più filosofica e più utile della botanica ». Forse il Sorda non dovette allora ignorare un memorabile discorso pronunciato an¬ cora nel 1818 da Michele Tenore, in cui la necessità di un indirizzo fisiologico era chiaramente preconizzata (10). Francesco Saverio Sorda, di forte razza sannita, morì in Bene- vento, più che novantenne, il 21 gennaio 1835. Ringrazio il Prof. N. Vessicbelli, nonché la Biblioteca Arcivesco¬ vile di Benevento, l’Archivio e la Biblioteca Prov. di Avellino, per le 'pubblicazioni e manoscritti messi a mia disposizione, e Mr. Gio¬ vanni Sorda per le notizie familiari comunicatemi. (10) Tenore Michele. — Discorso pronunziato in occasione dell’apertura della nuova sala destinata per le pubbliche lezioni , nel Reai Orto Botanico di Napoli, il dì 7 maggio 1818. Napoli, 1818, Tip. Giornale Enciclopedico, 32 pag. con 1 tav* A proposito del problema delle migmatiti a Nota del socio Felice Ippolito (Tornata del 14 giugno 1945) Nell’ultimo fascicolo del 1943 del Geologische Rundschau, dedi- cato ai problemi geologici dell’Europa settentrionale e destinato ad onorare il 60° compleanno di uno dei massimi scienziati europei, lo svedese Helge Backlund. C. E. Wegmann — che da lunghi anni si interessa al j>roblema delle migmatiti (1) — presenta ed illustra due interessantissime fotografie a colori che rappresentano due stadi ini¬ ziali della formazione di una niigmatite (2) e, prendendo da ciò lo spunto, aspramente polemizza contro quelli che, legati a teorie ormai divenute insufficienti a spiegare da sole tutti i fenomeni patogenetici, si ostinano tuttavia a non voler accettare le osservazioni inerenti alla formazione dei migrili. Le due fotografie sono prese all’estremità settentrionale dell’isola Amitsok nella Groenlandia del sud, allo shocco del fjord meridionale di Semerlick. Questa isola, infatti, nonché la penisola compresa tra il detto fjord e quello di Tasermjut, è costituita da una serie piegata di sedimenti antichi , rappresentati principalmente da quarziti che qua e là fan passaggio in scisti carboniosi e fino grafitici. Tra i vari strati di queste quarziti giacciono sovente accumuli caotici di conglomerati poligenici che franarono sui sottosuolo di quarziti non ancora ben consolidato e furono a loro volta ricoperti da un altro strato di quar¬ ziti. Tali conglomerati sono costituiti da elementi più o meno arro¬ tondati, che vanno dalle dimensioni di V2 m fino alla grandezza di granuli di sabbia, di graniti, gneiss, quarziti, rocce basiche, ecc.. Il complesso di quarziti, con i conglomerati in essa interstratificati, passa (1) Wegmann C, E. Zur Deuturìg der Migmatile. Geol. Rundschau. XXVI, 5, 1935» (2) Wegmann C. É. Zwei Bilder zur Entivicklung der Migmatite und ihrer Deutung. Geol. Rundschau, XXXIV, i2-6, 1943. — 13 — gradualmente verso il basso e di lato in graniti e gneiss; fenomeno questo analogo a quelli osservati e descritti da J. J'. Sederholm fin dal 1913 e riconosciuti per ampie estensioni in Finlandia e in Groen¬ landia da lui, da C. E. Wegmann, S. Von Bubnoff, H. Backlund, A. E. Mittelholzer ed altri. Ma qui la presenza fra le quarziti degli strati di conglomerati, che formano quasi delle linee di guida, per¬ mette di seguire il fenomeno in un campo più ampio del solito. Il fenomeno, secondo quanto afferma Wegmann, è osservabile così: dapprima si formano sottili vene anulari riempite da quarzo, feldspati e talvolta minerali scuri; queste vene poi man mano si riu¬ niscono a formare una rete che va sempre più sfumando, mentre le parti più scure si trasformano anche esse in macchie nebulose e sva¬ niscono. A questo stadio il complesso poteva già cominciare a mo¬ bilizzarsi, sì che le nuvole oscure poterono trasformarsi in fiamme ( Schlieren ). Cioè a questo punto, secondo la più recente classifica di A. Rittmann, passiamo già dal migma al palingene e quindi, come prodotto oggi consolidato, da una migmatite ad una paiingenite . In¬ fatti, secondo il quadro schematico della petrogenesi dato recentemente da Rittmann nell’appendice al volume Vulcani : Attività e genesi (1) — a parziale modifica di quello da lui e da Gloos dato nel 1939 (2) — e secondo le sue più recenti definizioni (3), una roccia sottoposta ad azioni di ultrametamorfosi, con apporto di transudati magmatici, passa dapprima nello stato di migma, quando è parzialmente fusa e non ancora in grado di intrudersi nel suo complesso, e poi, non appena — progredendo la fusione — diviene capace dì intrudersi, in quello di magma pelingenico ovvero palingene. Allorché il migma consolida si ha una migmatite, quando consolida il magma palingenico una vera e propria magmatite che, nel caso specifico, può anche dirsi una pa¬ li ugelli te. Nell’esempio descrìtto da Wegmann mentre gli ammassi di granito cui fan passaggio le quarziti sono paiingeniti, le rocce di tran¬ sizione, per essersi il fenomeno arrestato allo stadio di migma, sono oggi migmatiti. L’illustrazione di questi fenomeni induce Wegmann a ribadire il concetto che, se anche in questi ultimi tempi si sono levate voci contro queste interpretazioni, esse provengono in ogni caso da parte di geo¬ logi che non hanno sufficientemente lavorato sul terreno. La difficoltà (1) E. P. S. A. Napoli, 1944. (2) Geol. Rundschau, XXX, 5, 1939 e riportato anche da Penta F. Periodico di mineralogia, A. XI. n. 1, 1940. (3) Le temperature nella crosta terrestre e V oro genesi. Rend. R. Ace. Se. Fis. Mat. $. 4a, XIII, Napoli, 1945; vedi anche Ippolito F. Intorno ad una nuova teoria sull' origine del Sial e sull’ orogenesi, ibidem. — 14 — di interpretazione di questi Jenomeni, egli dice, si comprende quando si risale al punto di vista dal quale si guarda: alcuni hanno studiato solo i campioni delle collezioni o al massimo piccoli massicci alpini, altri invece hanno percorso e rilevato vastissime estensioni della pe¬ nisola finnoscandinava o dello scudo canadese. Ma è altresì vero che fin dal tempo di Rosenbusch il concetto tdi magma non bastava più nell’esame critico della geologia cristallina. È ovvio pertanto, con¬ clude Wegmann, che non bisogna' cristallizzare i concetti con men¬ talità da « conservatori di museo », e rifiutarsi di modificare le proprie idee quando le conoscenze di ulteriori fatti costringono al riesame delle teorie; riesame che si impone in ogni scienza, e particolarmente nella nostra, abbastanza di frequente. Ho voluto riassumere quanto dice Wegmann a questo proposito perchè mi pare — al di fuori di ogni intenzione polemica che egli può aver avuto — che non si insiste mai sufficientemente sul concetto che la Scienza è in continuo divenire e che quanto viene affermato e pare incontestabile oggi diviene domani, quando altri «fatti-» sono stati acquisiti e altri concetti formulati, superato o compreso in altre ipo¬ tesi più ampie. Il maggiore ostacolo che trovano talvolta le nuove idee ad affermarsi nel campo scientifico non dipende tanto dalla loro in¬ trinseca difficoltà, quanto dalla riluttanza delfiimmo ad abbandonare vecchi e superati schemi per adottarne di nuovi: come si racconta ac¬ cadesse anni or sono a quel giovane geologo che, riconosciute sul ter¬ reno delle faglie, venne ad invitare il suo maestro, il quale insegnava che faglie non esistevano, a recarsi con lui sul terreno dove si potè* vano toccare con mano, e si sentì rispondere che era inutile andare perchè tanto è impossibile che le faglie esistano. Ili fondo è sempre la vecchia, eterna questione dell ’ipsedixismo e perciò accanto a coloro che negano il procedere della Scienza ed il suo continuo divenire — che è la sua stessa vita — vediamo appa¬ rire il buon Simplicio, del dialogo galileiano, che si rifiuta di met¬ tere rocchio al canocchiale perchè a lui bastava sapere quanto aveva affermato Aristotile, Napoli, R. Università 1° marzo 1944. Istituto di Geologia Applicata e di Arte Mineraria. Azione dell’ attività eruttiva ed in particolare del parossismo del marzo 1944 sulle variazioni di forma del cono vesuviano Nota del socio Giuseppe Imbò (Tornata del 14 giugno 11)45) L’escursionista che ritorna alla cima del Vesuvio anche a breve intervallo da una visita precedente è. sempre colto da meraviglia per le trasformazioni, spesso rilevanti, che subito colpiscono il suo sguardo. Si sarebbe al certo maggiormente meravigliato se si fosse reso conto che le variazioni da lui osservate, originate da: fratturazioni, collassi, abbassamenti, sollevamenti, sottrazione o aggiunte di mate¬ riale eruttato, sono limitate alle sole zone terminali del vulcano e direi insignificanti rispetto alle altre variazioni dipendenti invece e- sclusivaimente da moti d’insieme, invero per lo più impercettibili, ma spesso estese a tutto l’edificio vulcanico. L’importanza di questi ultimi moti è notevole perchè sono ap¬ punto essi che, oltre ,a dare un autodiario delle vicende eruttive del vulcano, nello svelare gli spostamenti delle masse interne od anche le energie eruttive da queste possedute, permettono l’effettuazione di previsioni dei parossismi a lunga scadenza, ed in alcuni casi favorevoli anche di quelle a breve scadenza. Se le osservazioni di detti moti, direi microscopici, rilevabili sol¬ tanto mediante le indagini sismiche, rappresentano quindi per il loro interesse scientifico e pratico, ricerche sommamente indispensabili per un vulcanologo, non prive d’importanza sonò le variazioni macrosco¬ piche, ossia proprio quelle direttamente osservate, in quanto che esse offrono la possibilità, spesso unica, nel caso in cui non sia consentita la continua osservazione diretta dei fenomeni, di dedurre una ero- n istoria retrospettiva dell’attività del vulcano. La forma di un vulcano rappresenta difatti il risultato del com¬ plesso degli eventi costruttivi e distruttivi verificatisi in antecedenza, spesso col concorso di altre azioni, alcune endogene, altre anche e- sógene. Un esempio convincente della sopraenunciata possibilità viene — 16 — offerto dall’osservazione della forma attuale del Somma-Vesuvio, dalla quale osservazione eon evidenza possono rilevarsi indizi di importanti eventi eruttivi anche antecedenti al parossismo vesuviano del 79 del¬ l’era cristiana, che è il primo parossismo del quale, con le lettere di Plinio il giovane (rappresenti, insieme al poema didascalico « Aet¬ na », attribuito a Virgilio, i primi documenti vulcanologici) è stato trasmesso il ricordo. È difatti ovvia la deduzione che il Vesuvio è stato costruito per sovrapposizioni di prodotti eruttati sui ruderi di un altro monte, de¬ capitato per oltre 1000 metri in conseguenza di una violentissima fi¬ nizione eminentemente esplosiva, di cui non si conosce l’anno in cui avvenne, ma che, secondo l’opinione di gran parte degli studiosi del Vesuvio, rappresenta con grande probabilità l’eruzione di chiusura dell’ultimo ciclo eruttivo sommano, separato da quello successivo ve¬ suviano da diversi secoli di inattività. L’orlo del vastissimo cratere formatosi in seguito all’eruzione, an¬ cora oggi parzialmente visibile, è dato dalla cresta del Monte Somma, ossia dell’edificio recingente la parte settentrionale del cono vesu¬ viano tra l’est ed il nord-ovest e di cui si hanno ancora i resti nella collina del Salvatore, sulla quale trovasi l’Osservatorio Vesuviano e nelle zone pianeggianti della regione meridionale a circa 600 metri sul livello del mare, che stanno a rappresentare la piattaforma (otte¬ nuta per riempimento del cratere) sulla quale poggia il cosiddetto Gran Cono. Se è ovvia la deduzione che un’ispezione, spesso semplice, della forma di un vulcano permette allo studioso di formarsi un’idea della successione dei fenomeni eruttivi presentati dal vulcano nel corso della sua attività, ed ancora della natura delle materie ignee che ralimen- tano, parimenti ovvia risulta anche l’altra deduzione di una stretta relazione tra singole manifestazioni eruttive e variazioni di forma. L’osservazione quasi continua dei fenomeni eruttivi vesuviani, a partire dal 1701, ha permesso di rilevare attraverso l’estrema varia¬ bilità con la quale si presentano i fenomeni, una notevole uniformità nella successione di essi. Secondo tale interessante deduzione i parossismi eruttivi vesu¬ viani sono fasi finali di un’unica eruzione a lunga durata durante la quale rimane sempre attiva la bocca centrale con semplici esalazioni ed anche fuoruscite di materiale di varia natura o provenienza. L’eru¬ zione, o per meglio dire il periodo eruttivo, come è stato denominato per evitare confusioni dipendenti dal fatto che abitualmente si usano segnalare come eruzioni le varie recrudescenze del vulcano nonché i'fe- notti eni parossismici, risulta delimitato da intervalli di tempo durante — 11 — i quali il condotto eruttivo rimane ostruito. Ostruzioni -occasionali pos¬ sono aversi anche nel corso di un periodo eruttivo, ma queste si di¬ stinguono nettamente dalle prime: sia per la durata, brevissima per le occasionali, sia per la diversità dei fenomeni sismici e sismo erut¬ tivi che accompagnano i due tipi di ostruzioni. NeH’andamento eruttivo vesuviano si nota pertanto una succes¬ sione continua di periodi di riposo e di periodi eruttivi. Una caratteristica fondamentale dei periodi di riposo è la pre¬ senza di un più o meno vasto cratere, formatosi generalmente e pre¬ valentemente per collasso, avvenuto gradualmente o bruscamente nel corso del parossismo di chiusura del periodo eruttivo precedente. Durante il periodo di riposo si hanno variazioni sia nella forma interna del cratere, ad opera prevalente delle frane, sia in quella e- sterna del Gran Cono per effetto delle frane staccantisi dall’orlo non¬ ché delle valanghe e delle acque piovane che incidono sui suoi fianchi solchi più o meno profondi. Al periodo eruttivo, che comincia con la riapertura della bocca di fuoco sul fondo del cratere, corrispondono altre variazioni interes¬ santi prima le sole zone intracrateriche e successivamente anche i fian¬ chi esterni del vulcano. Esse sono da porsi in relazione con: gli espan¬ dimenti lavici, i fenomeni esplosivi, le deformazioni del fondo crate¬ rico, la prima costruzione di un piccolo cono con successive demoli¬ zioni e ricostruzioni totali o parziali. È evidente che le più marcate variazioni di forma si hanno du¬ rante i parossismi eruttivi che si presentano discontinuamente nel corso dei periodi eruttivi ed in modo altamente prevalente durante il pa¬ rossismo di chiusura dei periodi stessi. Una perfetta corrispondenza tra i fenomeni descritti ed i feno¬ meni osservati si è ottenuta pei due ultimi consecutivi periodi: di ri¬ poso ed eruttivo, aventi rispettivamente una durata presso a poco di 7 e 31 anni e complessiva di ben 38 anni, la quale durata rappresenta la più alta osservata tra due parossismi di chiusura di periodi erut¬ tivi, a datare dal 1701 e cioè dall’epoca in cui è possibile seguire l’at¬ tività vesuviana con quasi continuità. L’altro intervallo precedente, e cioè tra il 1872 ed il 1906, fu anche eccessivamente lungo rispetto agli altri, ma la durata di 34 anni può essere giustificata dalle diverse e prolungate attività effusive laterali che si svolsero nel corso di esso, mentro nell’ultimo nessun vero fenomeno eruttivo laterale si è verifi¬ cato non solo durante il periodo eruttivo ma anche nel corso del pa¬ rossismo di chiusura. Questo fatto rappresenta una caratteristica tipica del parossismo del marzo 1944, in quanto solo per la prima volta nel corso del,. -pa- 2 fossi smo di- -chiusura di un periodo eruttivo si hanno solo efflussi ter¬ minali e cioè sgorganti direttamente dalla bocca principale. Ai due tipi di parossismi coi quali si sogliono generalmente chiudere i pe¬ riodi eruttivi ed indicati dal Mercalli: tipo 1872, tipo 1760, vi è quindi da aggiungere un terzo, il tipo 1944. Per questo parossismo che ha avuto inizio a 16h 80 111 del 18 marzo, si sono distinte quattro fasi, ognuna delle quali ha lasciato la sua par ticolare impronta sul vulcano. Durante la prima fase « fase effusiva », coincidente con la prima parte del parossismo, le lave, riversatesi lungo i fianchi del Gran Cono secondo varie direzioni, hanno alimem tato due principali correnti: una diretta a sud e l’altra a nord. Questa ultima, costeggiando il Somma, si è spinta rapidamente fino alla base del Gran Cono, investendo e seppellendo parzialmente Massa e S. Se¬ bastiano nella giornata del 21. Nella stessa giornata si arrestò anche la prima corrente ad una quota di circa 300 metri. Le principali variazioni di forma nel corso di questa prima fase interessano prevalentemente le zone intracrateriche, sia per le lave che vi scorrevano in quasi tutte le direzioni raggiungendo i margini della platea e successivamente sopraelevantisi fino a superare gli orli del cratere per indi traboccare all’esterno, sia per le continue proie¬ zioni di scorie e brandelli lavici, il cui accumularsi aveva già la' sera del 18 determinalo la ricostruzione parziale del conetto, quasi comple¬ tamente crollato fino dal giorno 13 con la formazione di una piccola voragine profonda una trentina di metri. La cima del conetto, visi¬ bile dall’Osservatorio fin dalla mattina del 19, subiva frequenti va¬ riazioni j)er: crolli, proiezioni, sovrapposizioni di materie. Essa rag¬ giunse un’altezza massima di circa 1260 m., quasi eguale a quella mas¬ sima raggiunta nel corso del periodo eruttivo (fig. 1). Rapide e notevoli furono invece le variazioni di forma nel corso della seconda fase, la fase delle « fontane laviche », che perdurò tra le 17 h 15 m del 21 e le 12 h circa del 22, durante il quale intervallo per otto volte e per durata ciascuna volta variabile da mezz’ora a quasi quattro ore, che rappresenta presso a poco la durata dell’ultima fontana, dalla bocca slargata del vulcano si sollevarono vere colonne di lave quasi verticali ad altezze variabili, spesso raggiungenti i mille metri rispetto all’orlo del cratere, dalle quali dipartivansi zampilli laterali. Il materiale, ricadente o scorrente sulla platea e sui fianchi del Gran Cono, ne causò prevalentemente un aumento di altezza con restringimento del vecchio orlo. Se la fase delle fontane fosse durata più a lungo, in poche ore il Vesuvio avrebbe riacquistata la forma conica anche più aguzza di quella, a cima relativamente piatta, avuta prima del parossismo del 1906. — 19 — Le principali trasformazioni si ebbero tra il nord e 1’ est, ove l’orlo, avvicinandosi di oltre 200 metri all’asse eruttivo, si sollevò in media di un cento metri ed in qualche punto, specialmente a nord-est* anche di 150 in.. La osservata dissimmetria che sembrerebbe contrastare con la pre Fig. 1. — Veduta aerea del Gran Cono da E. Sono nettamente visibili le colate terminali riversatesi lungo i fianchi nel corso del periodo erut¬ tivo. La colata settentrionale fluente dalla sera del 18 marzo, il cui per¬ corso è indicato dai fumi avvolgentisi alla superficie, all’incontro con le pareti del Somma ( a destra) piega ad W . Risulta visibile anche il co¬ netto, sventrato ad E. parte anteriore) in accentuata attività esplosiva (19 marzo 1944). valente direzione, a SE, delle traiettorie seguite dai proietti, almeno di quelli che raggiunsero le piu alte quote, è sicuramente dipendente dalla eccentricità dell’asse eruttivo che era spostato a SW di oltre cento metri rispetto all’asse craterico. Analoghe trasformazioni, ma meno accentuate, si sono avute dm rante la terza fase ossia durante la fase esplosiva detta « mista » per i contemporanei lanci di proietti scuri ed incandescenti, antichi o coevi. La causa della riduzione nella rapidità di variazione di forma deve ritenersi la sempre crescente prevalenza delle ceneri sui proietti di altra natura, poiché a causa della relativa leggerezza e del con¬ seguente raggiungimento da parte di esse di maggiori altezze, le zone sulle quali il materiale andò a depositarsi risultarono sempre più e- stese in direzione del vento spirante nelle regioni raggiunte dal pino vulcanico: La fase si svolse in due tempi. Il primo, immediatamente succes¬ sivo alla cessazione della seconda fase c con intensità presso a poco identica a quella dell’ultima fontana’ lavica, rappresenta con questa il periodo di massima violenza esplosiva del parossismo, durato per¬ tanto dalle 8 h alle 18h del 22 Lo sconquassamento della zona terminale, a causa delle continue percussioni durante la precedente fase esplosiva, dovette agevolare la formazione di due bocche che, fin dall’inizio del secondo tempo, a 21 h, apparvero indipendentemente attive. Con graduale riduzione nel- l’ intensità media le esplosioni miste perdurarono con continuità fino a circa le 12 h del 23, seguite immediatamente da una quarta fase che denominerei « fase sismo-esplosiva » e corrisponde in generale alle contrastanti azioni da un canto dell’energie eruttive del vulcano, an¬ cora in grado di dare violente manifestazioni esplosive, e d’altro canto dei continui creili, franamenti della cima od anche di irrigidimenti terminali della colonna magmatica, i quali provocavano effimere ap¬ parenti cessazioni o semplici riduzioni dell’attività. È quindi evidente che, nello svolgersi della quarta fase, l’attività esplosiva, con proiezioni del materiale proveniente dal disfacimento della cima del vulcano e delle pareti del condotto ed anche, sebbene in quantità sempre decrescente, di materiale incandescente o coevo, risulta discontinua ed intervallata da fenomeni sismici avvertiti spesso fin quasi alla base del monte. Le ceneri rappresentano però il pro¬ dotto più copioso proiettato. Per la frequente obliquità del lancio esse si riversarono continuamente sui fianchi sotto forma di colate sormon¬ tate da nube anche cinerea. Sotto l’azione prevalente della tensione degli aeriformi racchiusi in esse ed anche di quelli sviluppati per raf¬ freddamento, si spingevano vertiginosamente fino alla base del Gran Cono e qualcuna anche oltre, trascinando tutto il materiale incon¬ trato. Non sono mancate colate di ceneri, denominate cc valanghe sec¬ che », il cui movimento era determinato dalla sola azione della gra¬ vità. Alle prime colate si dà il nome di « nubi ardenti ». Esse sono nettamente visibili ancora oggi e si presentano nella parte frontale come bastioni in modo da conferire al Gran Cono, specialmente per •: •••'■ i-; v . e co — 21 — chi lo guarda dall’Atrio del Cavallo, l’aspetto di una misteriosa lessale fortezza (fig. 2). Il depositarsi delle ceneri lungo il fianco meridionale fu più ac¬ centuato nei giorni 25 e 26 marzo per effetto del forte vento di NE, al cui spirare è da attribuirsi in gran parte l’apparente intensifica¬ zione dell’attività eruttiva, mentre questa^ pur subendo ancora qual¬ che effimero rinforzo, gradualmente si andava sempre più riducendo. LI forte vento permise però di svelare un altro fenomeno e cioè quejlo Fig. 2. — Il Gran Cono dopo la fine del parossismo nei primi giorni del periodo di riposo. I fumi esalati dal materiale eruttato ancora caldo e ceneri sono trascinati a SW dal forte vento di NE. È nettamente visibile al piede delle pareti del Somma la colata prima diretta a N e poi piegante ad W. Il confronto con la fig. 1, riproducente il Gran Cono visto anche da aeroplano presso a poco secondo la medesima di¬ rezione, mostra le profonde trasformazioni subite dal cono in conse¬ guenza del parossismo. Ai piedi del Gran Cono sono visibili e rico¬ perte di ceneri le testate delle colate di ceneri e massi caotici, deri¬ vanti alcune da nubi ardenti altre da valanghe calde. (23 aprile 1944). dell’obliquità del lancio, dipendente probabilmente dall’obliquità del condotto eruttivo, almeno fino alle profondità alle quali avevano ori gine i lanci, in quanto che esso esercitava un’azione crivellatrice, se¬ parando il materiale leggero che veniva convogliato a SW,, mentre il materiale pesante si riversava prevalentemente sul fianco NNE se¬ guendo la direzione della proiezione, opposta a quella del vento. Verso la fine della quarta fase la frequenza dei sismi si ridusse notevolmente, ma continuarono i soli sbuffi cinerei i quali anche si — 22 — resero sempre più radi. Il 29 può ritenersi cessata l’attività parossi- smale e con la cessazione di questa anche le variazioni di forma fu¬ rono connesse con le sole frane intracrateriche ossia con le sole ma¬ nifestazioni caratteristiche dei periodi di riposo. Nel corso del parossismo tra l’ alternarsi dei fenomeni distruttivi e costruttivi hanno avuto prevalenza questi ultimi: fatto questo elle rappresenta altra caratteristica del parosssimo del marzo 1944. Vi è -tato in effetti durante la quarta fase il graduale collasso delle zone terminali con la formazione del cratere, ina sono sprofondate preva¬ lentemente le sole zone meridionali ed occidentali mettendo a nudo le vecchie pareti del cratere del 1906, mentre quelle settentrionali ed orientali hanno subito solo limitati crolli, come appare dalle pareti crateriche di questi versanti che mostrano la sovrapposizione degli strati lavici del periodo eruttivo precedente il parossismo. Per gli orli settentrionfiJe ed orientale si sono avute pertanto solo piccole vଠri azioni di quote rispetto a quelle già raggiunte nel corso della se¬ conda ed anche della terza fase. Il cratere si è ottenuto quindi in base al crollo delle sole zone quasi uniformemente situate rispetto all’asse eruttivo, in modo da ottenere un minore distacco tra asse craterico ed asse eruttivo che, per gli svagamenti più accentuati a sud ed a ovest, ap¬ pare oggi spostalo a nord-est rispetto al primo e cioè in direzione dia¬ metralmente opposta relativamente alla posizione di esso nel prece¬ dente cratere. Alla fine del parossismo il cratere aveva una profon¬ dità di oltre 300 m. ed una capacità di circa 25 milioni di m3, ossia poco meno di ulì terzo rispetto a quella del cratere del 1906. L’orlo del cratere può approssimativamente ritenersi giacente su di un piano inclinato da NE a SW. La più alta quota, a NE, è di circa 1270 m. e cioè essa risulta di poco maggiore della quota massima del vertice del conetto nel corso del periodo eruttivo precedente e la più bassa, a Sud, è di circa 1160 in. ossia presso a poco la medesima precedente il parossismo. In tale ultima direzione, l’orlo, scostandosi dal piano, presenta una slabbratura, analoga a quella a NNE dell’orlo craterico del 1906 e dipendente dalle continue basse proiezioni nella zona me¬ ridionale durante le ultime fasi del parossismo. A queste trasformazioni originate in generale dalle molteplici e- nunciate cause: natura delle proiezioni, altezze raggiunte dai pro¬ ietti e loro grossezza, direzione ed intensità del vento spirante alle varie quote, obliquità delle proiezioni e del condotto eruttivo, eccen¬ tricità della bocca rispetto al centro craterico, sono da aggiungersi an¬ cora: il sollevamento medio di oltre 20 metri del fondo della Valle dell’Inferno già coperto da lave in essa discontinuamente fluite dal 1926 ed ora tappezzate di ceneri e sabbie, l’aumento uniforme di vo- — 23 — lume del Gran Cono che presenta una superficie liscia costituita in prevalenza da sabbie e da ceneri (che gli conferivano alla fine del parossismo un aspetto niveo, specie se illuminata dal sole) pei settori W, S, SE; méntre da blocchi misti .a ceneri e sabbie per quello set¬ te* rionale, La forma regolare conica è interrotta alla base dalle già descritte valanghe. L’effettuata delimitazione delle cause, oltre a consentire Pelimi, nazione di dubbi sorti per Pintei prelazione di analoghi fenomeni os¬ servati dopo il 1906, ha permesso di .avere un’idea chiara della ge¬ nesi delle trasformazioni subite dal Gran Cono nel corso del periodo eruttivo e prevalentemente del parossismo di chiusura del marzo 1944, delle quali trasformazioni molte sicuramente avranno una notevole influenza sitile, manifestazioni eruttive del prossimo futuro del vulcano. R. Osservatorio Vesuviano , giugno 1944. Ricerche sui colori di alcuni affreschi della chiesa superiore di S. Francesco, in Assisi Nota del socio Selim Augusti (Tornata del 28 novembre 1945) Riporto nella presente nota un cenno sommario dei risultati da me ottenuti dall’analisi di colori prelevati da dipinti murali (affreschi) della Chiesa Superiore di S. Francesco, in Assisi, e di cui mi riservo di dare, in altre note, le relazioni dettagliate. I frammenti da sottoporre ad analisi sono stati prelevati, con tec¬ nica particolare ed in quantità assolutamente minime, dai seguenti di pinti murali : 1) Cimabue — Vele delia crociera superiore, sul transetto (I) — Prelevamento in data 19 e 26 Agosto 1942; 2) Giotto — Affreschi della navata grande — Prelevamento in data 19 e 20 Agosto 1942 — Poiché però tali affreschi erano stati di recente restaurati, ho ritenuto opportuno, per maggior precisione e sicurezza di analisi, prelevare i frammenti dagli affreschi di Giotto della Cappella degli Scrovegni, in Padova. Questo prelevamento è stato eseguito in data 8 settembre 1942; 3) Turriti — Affreschi della navata grande (in alto) — Prele¬ vamento in data 19 Giugno 1943. L’analisi è stata da me eseguita con metodi microchimici (2) ed ha fornito risultati che mi hanno permesso, in riassunto, di stabilire che i colori adoperati da questi antichi Maestri sono stati i seguenti: (1) Il prelevamento dei frammenti è stato reso possibile dalla presenza di impalcature, erette, volta a volta, per l’esecuzione di lavori di restauro. (2) S. Augusti — Metodo sistematico per il riconoscimento microchimico dei colori minerali. Nota 1: Colori bianchi — Mikrochemie, XVII, 1 (1935) — Marcila sistematica para e! reconocimiento microquimico' de los colores minerales. I: Colores blancos Revista del Colegio de Farmaceutkos Nacionales, Rosario III, 15 (1936) — id. Nota 2: Colori azzurri e verdi — Mikrochemie XVII, 344 1935) — II: Colores Azules y verdes — Rev- Col. Farm. Nac. Ili, 3 (1936) — id. Nota 3: Colori gialli — Mikrochemie XIX, 230 (1936); III: Colores Amaril- los — Rev. Col. Farm. Nac. IV, 1 (1937) — Nota 4: Colori rossi, bruni e neri — a) Colori impiegati da Cima bue: bianchi : rossi : gialli : verdi : azzurri : bruni : grigi: biacca (carbonato basico di piombo) (3); bianco di calce (ossido e carbonato di calcio). Talvolta., nel¬ l’affresco, questo bianco è dato su di un fondo azzurro di preparazione* a base di rame; ocra rossa (terra c< dorata da ossidi di ferro) cinabro (solfuro di mercurio); ocra gialla (terra colorata da ossido idrato di ferro) oro (metallico); malachite (carbonato basico di rame) (4) ed altri verdi a base di rame; azzurrite (carbonato basico di rame) (4) ed altri azzurri a base di rame (forse misti a bianco di calce negli azzurri chiari); ocre brune (Terra di Siena, ecc.) (terre colorate da ossidi di ferro e di manganese); miscele di terre colorate brune (tipo Terra di Siena) con¬ bianchi a base di calce. b) Colori impiegati da Giotto: bianchi: bianco di calce (creta o bianco Sangiovanni) biacca; rossi: ocra rossa; gi alli : ocra gialla ; Mikrochemie XX, 65 (1936); IV: Colore® Rojos, Pardos y Negros — Rev. Col. Farm. Nac. IV, 138 (1937) — S. Augusti — Microchemical Recognition of Pigments frolli Paintings — Mikrochimica Acta III, 239 (1938) — id. IJeber den mikro- ehemischen Nachweis des Kupferkations in blauen und griinen kupferhaltigen Mineralfarben — Mikrochimica Acta II, 47 ( 1937) — : S. Augusti — Sul ricono¬ scimento microchimi, co del catione Pb nei colori minerali a base di piombo — Mikrochemie verbunden mit Mikrochimica Acta XXX, 237 (194i2). (3) La biacca su questi, come su altri dipinti murali, ha dato, a causa del suo annerimento, degli inconvenienti molto gravi. Tipico l’esempio dell’affresco di Cimabue, La Crocefissi one, nel transetto della Chiesa Superiore di S- Francesco in Assisi, che appare, per Fannerimento dei bianchi, quale un negativo fotogra¬ fico. Ho in corso di studio e di pubblicazione lo studio di queste alterazioni. (4) Negli affreschi di Giotto, Cimabue, ecc. si è molto spesso verificato il grave inconveniente della trasformazione degli azzurri in verdi, dovuto ad un pro¬ cesso di trasformazione dell’azzurrite in malachite. Anche di questa trasformazione ho eseguito uno studio dettagliato, che è in attesa di pubblicazione. — 26 — verdi: terra verde (terra di Verona) (terra naturale colorata in verde da silicato ferroso); azzurri: azzurrite (4); — - lapislazzuli (oltremare naturale) (silicati di alluminio, calcio e sodio, con solfuri); bruni: ocre brune (terra di Siena, terra d’ombra). c) Colori impiegati da Toniti: bianchi : rossi : gialli : verdi : azzurri : bruni : bianco di calce ; biacca ; ocra rossa; ocra gialla; oro (metallico); verdi a base di rame : malachite (carbonato basico di rame) e verderame (acetato basico di rame); azzurrite (4); ocre brune (terra d’ombra, terra di Siena). In altre note darò relazione dei risultati dell’esame delle altera¬ zioni osservate su alcuni colori di questi ed altri dipinti murali e dei risultati di analisi microchimiche esegute su frammenti prelevati da altri dipinti. SOMMARIO Si descrivono i colori riconosciuti all’esame microchimico ese¬ guito su frammenti prelevati da dipinti murali (affreschi) di Cimabue, Giotto e Toniti. Segnalazione di un’argilla in lenimento di Pimonte Nota del socio Felice Ippolito (Tornata del 28 novembre 1945) 111 località Franche di Sotto, lungo la bella carrozzabile che da Gragnano si inerpica verso Pimonte ed Agerola, è stato da poco tempo messo in luce un affioramento di un materiale argilloso, rossastro, ivi già impiegato per la fabbricazione di laterizi in un rudimentale im¬ pianto. L’affioramento messo in vista ha una. potenza dell’ordine di 4-5 m per un fronte, visibile anche dalla strada, di oltre 50 m, ma dagli scavi fatti risulterebbe che la potenza complessiva in . quella zona è di oltre 10 m ; esso si estende, per quanto è stato possibile vedere in un breve sopraluogo, per oltre 500 m in lunghezza e larghezza, sem¬ pre sulla sinistra della via provinciale andando verso Pimonte, con una potenza media che si può valutare sui 5-6 m. Nè questo affioramento è l’unico della zona; che anzi proseguendo nella strada anche oltre Pimonte ho avuto l’opportunità di poter os¬ servare almeno altri due affioramenti, meno estesi, del medesimo ma¬ teriale, fra i calcari compatti attribuiti all’Urgoniano (1) che costi¬ tuiscono in quella regione l’ impalcatura del rilievo. Nulla segnala in proposito la carta geologica d’Italia al 100.000 (foglio 185) rilevata dal 1888 al ’95 da Baldacci e Cassetti, che ap¬ pare per questa zona alquanto imprecisa in quanto la strada Gragnano, Pimonte, Agerola non corre già — come è ivi segnato — sovra tufi vul canici subaerei, bensì direttamente sovra e fra i calcari. L’argilla ap¬ pare costituita da due diverse varietà: l’una ((grassa» è di un rosso più vivo; l’altra ((magra» alquanto più chiara. Verso l’alto si pre senta anche un piccolo straterello molto più chiaro della restante mass;: potente al massimo una decina di cm. La particolarità interessante che presenta questa formazione è la presenza di numerosi cristalli e (1) Ma poi con maggior precisione al Cenomaniano : — Vedi Bassani F. e d’EKASMo G. La Ittiofauna del calcare cretacico di Capo di Orlando Meni, della Soc. II. delle Scienze, S. 3°, T. XVII. Roma, 1912. — 28 — detriti di cristalli di silicati; così, ad esempio, nell’argilla « magra » si riscontra abbondante presenza di sanidino, di una mica (probabil¬ mente flogopite), di un pirosseno (augite) e di rari individui di quarzo limpido. Nell’argilla cc grassa » si rinviene ancora il sanidino e la mica ed inoltre un feldspato. Nello straterello chiaro infine si riscontra sa¬ nidino ed augite in egual proporzione. La presenza di questi minerali freschissimi di indubbia origine ignea, in un materiale prevalentemente argilloso, mi ha invogliato ad eseguire uno studio completo geologico e 'petrografico della roccia specie in relazione alla sua genesi. Studio che ho in corso, in collaborazione con l’ing. Luciano Vichi, e che sarà pubblicato prossimamente. Napoli , R. Università . ottobre 1945- Istituto di Geologia Applicata e di Arte Mineraria. Centro Studi Risorse Naturali Italia Meridionale. Sulla teoria elettronica della valenza NOTA l del socio Ernesto Pannain (Tornata del 28 dicembre 1945) La teorìa elettronica della valenza si fonda sul postulato che tutti gli atomi tendono ad assumere la struttura elettronica , stabile del- V atomo del gas nobile più vicino , cioè di quello che nel Sistema Pe¬ riodico precede il corrispondente elemento, se esso appartiene ai primi tre gruppi del S. P., o di quello che lo segue, se appartiene agli altri gruppi, per modo che l’orbita periferica risulti di 2 elettroni • — orbita K dell’elio — e di otto elettroni — ottetto degli altri gas nobili . Tale struttura stabile può essere assunta in tre modi: 1°. — Per perdita o per somma di elettroni: se l’atomo ha da 1 a 3 elettroni periferici, tende a perderli, assumendo la struttura elettronica del gas nobile che lo precede nel S. P., e rimane carico con tante cariche positive quanti sono gli elettroni perduti; se ha più di 3 elettroni periferici, tende a sommarne tanti, fino a completare l’ottetto, assumendo la struttura elettronica del gas nobile che lo segue nel S. P., e rimane carico con tante cariche negative quanti sono gli elet¬ troni sommati. Gli atomi assumono la struttura elettronica dei corri" spondenti ioni, che, per attrazione elettrostatica, si uniscono in mole¬ cole, con legame ionico , eteropolare o elettrovalente. 2°. — L’ottetto periferico, o la coppia dell’orbita K, si può completare, senza che gli atomi perdano o sommino elettroni, ma mettendoli in comune: un atomo mette in comune con un altro uno o più elettroni, ricevendone altrettanti in cambio, che rimangono aii" ch’essi in comune, completandosi le orbite di entrambi, unendosi con legame omeopolare o covalente. 3°. — Un atomo, che ha già completato il suo ottetto , può met¬ tere in comune con un altro 1 o 2 elettroni, completandone l’ottetto, senza riceverne altri in cambio: gli atomi si uniscono così con legame semipolare o coordinativo. — 30 — Con questa teoria, dovuta al Lewis,. (1) sviluppata dal Lang- inuir (2) gli otto elettroni dell’ottetto occuperebbero i vertici di un cubo, al cui centro sarebbe collocato il nucleo dell9 atomo, corrispon¬ dentemente alla inassima simmetria, ma in posizioni fisse. Una tale struttura statica dell’atomo non è d’accordo col mo¬ dello Rutherford-Bolir, dove gli elettroni di tutti i livelli quantici sono animati da incessante moto, descrivendo orbite ellittiche, quasi circolari, per modo che gli elettroni di un ottetto, sono in continuo movimento, percorrendo orbite, che giacciono sopra un ellissoide quasi sferico, il cui raggio è determinato dalla velocità dell’elettrone, dal¬ l’attrazione delle forze elettriche del sistema e dall’energia dell’elet¬ trone. Nella rappresentazione grafica preferisco pertanto collocare gli elettroni, anziché nei vertici di un cubo, su di una circonferenza o racchiuderli in essa. Tale circonferenza rappresenta l’ellissoide, sulla cui superficie gli elettroni descrivono le loro orbite. Procediamo ora a rappresentare in tal modo i tre tipi di legami predetti e a determinarne le caratteristiche chimiche. I. — Il legame ionico si ha per scambio di elettroni: gli atomi dell’elemento elettropositivo cedono gii elettroni periferici a quelli dell’elemento elettronegativo, assumendo la forma stabile del gas no¬ bile che lo precede nel sistema periodico, con la coppia o l’ottetto dell’orbita sottostante a quella periferica, e si caricano ciascuno positi' vomente con tante cariche quanta è la loro valenza; gii atomi dell’ele¬ mento elettronegativo, sommati gli elettroni che gli sono stati ceduti, completano l’ottetto nelTorbita periferica, assumendo la forma sta¬ bile del gas nobile successivo, e si caricano negativamente con tante cariche quanti sono gli elettroni sommati. Questi atomi, carichi di segno opposto, per attrazione elettrosta¬ tica si uniscono e formano la molecola. Gli atomi dei metalli alcalini, che hanno un solo elettrone pe¬ riferico, lo cedono e si caricano con una carica positiva, assumendo la struttura elettronica del gas nobile che immediatamente li precede nel sistema periodico rimanendo l’orbita completa sottostante a quella periferica. Gli atomi degli alogeni che hanno 7 elettroni periferici, som¬ mando l’elettrone del metallo alcalino, completano l’ottetto, assumono (1) J. Am. Chem. Soc., 38, 1916, p. 762. (2) J. Am. Chem. Soc., 41, 1919, pp. 558, 1543; 42. 1920, p. 274. la struttura elettronica del gas nobile successivo e si caricano con una carica negativa. Così il metallo M e l’alogeno A, diventati M+ e A~ -, formano la molecola MA. Il sodio e il cloro formano il cloruro di sodio, NaCl. (Tav. I. I) e analogamente l’idrogeno e il cloro formano l’acido cloridrico HC1, (Tav. I, 2). Quando l’atomo d’idrogeno cede il suo unico elettrone, si ca¬ rica positivamente, rimanendo solo il suo nucleo: il protone. Il calcio, che ha due elettroni periferici, li cede a due atomi di cloro, coi quali si combina, formando, il cloruro di calcio (Tav. I, 3). Lo zolfo, che ha 6 elettroni periferici, ne ha bisogno di altri due per completare l’ottetto; onde si combina con due atomi di sodio (Tav. I, 4) e con uno di calcio (Tav. I, 5). formando rispettivamente il solfuro di sodio, Na2S, e il solfuro di calcio, CaS. Il legame ionico, che è caratteristico degli elettroliti, si apre per azione dell' acqua, quando l’elettrolito vi si scioglie, e si originano gli ioni : NaCl ~t Na+ + CI HC1 ~t H+ + CI CaCl2 ■£ Ca++ -f 2C1 Eliminata l’acqua, gli ioni formano di nuovo la molecola. Questo legame si rappresenta con puntini tra i due atomi. Na ... CI H ... Cl CI ... Ca ... CI II. — Il legame omeopolare ha luogo tra gli atomi dello stesso elemento elettronegativo nella formazione della molecola: tra due a- tomi di cloro, di ossigeno, di azoto, ecc. I due atomi mettono in co¬ mune elettroni dell’uno e dell’altro in egual numero, formando uno o più doppietti elettronici, che rimangono in comune ai due ottetti dell’uno e dell’altro atomo. Tra cloro e cloro (Tav. I, 6) un sol dop* pietto; tra ossigeno e ossigeno (Tav. I, 7) due; tra azoto e azoto (Tav. I, 8) tre. Questo legame si rappresenta con un trattino tra i due atomi, per ogni doppietto elettronico : Cl — Cl o — o nen Anche due atomi d’idrogeno formano la molecola unendosi con legame omeopolare, H-H, mettono in comune il rispettivo elettrone — 32 — é formano un doppietto, che costituisce l’orbita K dell’uno e dell’altro atomo (Tav. I, 9). Questo doppietto elettronico costituisce un legame più solido di quello ionico: non viene scisso dall’acqua. La sua apertura richiede una certa quantità di energia e la presenza di altre molecole, che an- ch’esse si sdoppiano nei loro atomi, e gli uni e gli altri poi si com¬ binano. Se il legaine omeopolare è costituito da un sol doppietto elettro¬ nico , come è il caso delle molecole d’idrogeno e di cloro, la quan¬ tità di energia richiesta per la sua scissione è minore che se il legame e costituito da due doppietti , e una quantità ancora maggiore di e- nergia occorre se il legame risulta di tre doppietti. Difatti il cloro, la cui molecola ha un sol doppietto elettronico, si combina con l’idrogeno sotto l’azione della luce. Perchè l’ossigeno si combini con l’idrogeno occorre innescare la reazione con l’accen- sione, che determina l’apertura dei doppietti elettronici delle prime molecole di ossigeno e dhdrogeno, che reagiscono, e poi il calore che si sviluppa nella reazione determina la scissione dei doppietti delle altre, e la reazione prosegue. Perchè l’azoto, nella cui molecola figu¬ rano tre doppietti elettronici, si combini con l’idrogeno è necessario mantenere sempre la miscela dei due gas a temperatura piuttosto ele¬ vata, favorendo la reazione con alte pressioni e con un catalizzatore. Il legame omeopolare si manifesta anche tra atomi diversi di ele¬ menti elettronegativi, cioè di metalloidi. Nel tricloruro di fosforo, PC13, ciascuno dei tre atomi di cloro si lega all’atomo di fosforo con un doppietto formato da un elettrone di un atomo di cloro e un altro dell’atomo di fosforo (Tav. I, 10). III. — Il legame semipolare o di coordinazione si ha tra due a- toini, uno dei quali completa l’ottetto dell’altro con uno o due dei suoi elettroni, che rimangono a far parte del suo ottetto, che, essendo già completo, non prende nessun elettrone dall’altro. Quando dal tricloruro di fosforo si passa al pentacloruro, mentre i primi tre atomi di cloro (1, 2, 3) rimangono uniti al fosforo con le¬ game covalente, completandosi vicendevolmente gli ottetti degli atomi del cloro e dell’atomo di fosforo, i due nuovi atomi di cloro (4 e 5) vengono coordinati dalTatomo di fosforo, il cui ottetto è già com¬ pleto, e completano i loro ottetti ciascuno con uno dei due elettroni liberi del fosforo, che rimangono a far parte dell’ottetto di questo atomo, che non ne riceve in cambio altri dai due atomi di cloro (Tav. I, 11). Quando per azione dell’acqua sul pentacloruro si passa all’ossi- — 33 — cloruro, l’atomo di ossigeno, che va appunto a sostituire questi due a- tomi di cloro (4 e 5), viene coordinato all’atomo di fosforo per mezzo di tutti e due gli elettroni di questo metalloide, che dapprima coor¬ dinavano separatamente i due atomi di cloro (Tav. I, 12): si ha in questo carso un legame di coordinazione tra fosforo e ossigeno, for¬ mato da un doppietto elettronico , nel quale i due elettroni apparten¬ gono entrambi al fosforo , mentre ciascuno degli atomi di cloro vi era coordinato con un solo elettrone del fosforo. / legami di coordinazione sono dunque di due tipi , a seconda che la coordinazione avviene per mezzo di un solo elettrone o di un dop¬ pietto elettronico , e differiscono per il loro comportamento nelle rea¬ zioni chimiche: quello costituito dal doppietto elettronico resiste alle reazioni chimiche , mentre quello costituito da un solo elettrone è anche meno stabile del legame covalente 9 ma questo è meno stabile del legame di coordinazione che ha luogo per mezzo del doppietto elet¬ tronico. Difatti, quando il pentacloruro di fosforo reagisce con una quan¬ tità equimolare di acqua, si forma l’ossicloruro : PCV + H20 = 2 HCl + POCI3 Sono i due atomi di cloro coordinati al fosforo che vengono so¬ stituiti da un atomo di ossigeno di una molecola d’acqua, i cui atomi d’idrogeno formano col cloro l’acido cloridrico: questi due atomi di cloro, uniti al fosforo con legame semipolare, vengono portati via dall’idrogeno dell’acqua più facilmente che non gli altri tre, uniti al fosforo con legame covalente. Ma quando l’acqua è in eccesso, anche gli altri tre atomi di cloro, uniti al fosforo con legame omeopolare. vengono asportati dall’idro¬ geno dell’acqua, e si forma l’acido ortofosforico POCI3 + 3H20 | 3 HCl + H3P04 Ciascuno dei tre atomi di cloro viene sostituito da un atomo di ossigeno, dai quali il fosforo prende i tre elettroni per completare il suo ottetto; e, poiché il legame dell’atomo di fosforo coi tre atomi di cloro è covalente, tale deve essere anche quello coi tre atomi di ossi- geno, ciascuno dei quali completa il suo ottetto con l’elettrone del- l’atomo di idrogeno, e poiché questo si dissocia come ione, deve aver ceduto all’atomo di ossigeno il suo elettrone e si è caricato positiva- mente, mentre l’ossigeno rimane carico negativamente, con sette elet¬ troni nell’orbita periferica, come i tre atomi di cloro dell’ossicloruro, 3 olle in tal modo vengono sostituiti da tre ossidrili (Tav. II, 13). Il quarto atomo di ossigeno rimane invece coordinato all’atomo di fo¬ sforo, come vi era coordinato neirossieloruro. Qualche Autore sostiene che negli acidi ossigenati gli atomi di idrogeno cederebbero il loro elettrone all’atomo del metalloide, com¬ pletandone l’ottetto, e caricandosi positivamente, mentre quello si caricherebbe negativamente e jdoì coordinerebbe gli atomi di ossigeno. Secondo questi Autori, nel caso dell’acido ortofosforico, per es., i tre atomi d’idrogeno completerebbero l’ottetto dell’atomo di fosforo cedendogli i tre elettroni, caricandosi positivamente, mentre l’atomo di fosforo caricatosi con tre cariche negative coi tre elettroni dei tre atomi d’idrogeno, coordinerebbe poi i quattro atomi di ossigeno. Se ciò fosse, nella fosfina — PH3 — i tre atomi d’idrogeno do¬ vrebbero esser parimenti legati all’atomo di fosforo con legame ionico, e la fosfina dovrebbe essere un elettrolito, mentre non lo è affatto, onde i suoi tre atomi d’idrogeno, che non sono dissociabili, devono essere legati all’atomo di fosforo covalentemente: ciascuno di essi col suo e- lettrone forma un doppietto elettronico con un elettrone dell’atomo di fosforo, e i tre doppietti rimangono in comune all’orbita completa periferica dell’atomo di fosforo e all’orbita K di ciascun atomo di idrogeno (Tav. II, 14). Seguendo la teoria di tali AA. anche negli acidi ipofosforoso e fosforoso i tre atomi d’idrogeno dovrebbero completare l’ottetto del¬ l’atomo di fosforo con legame ionico, e poi coordinare rispettivamente due e tre atomi di ossigeno; talché anche questi due acidi dovrebbero essere tribasici, mentre l’ipofosforoso è monobasico e il fosforoso è bibasico, rispettivamente con un solo ossidrile (Tav. II, 15) e con due ossidrili (Tav. II, 16), d’accordo con la rappresentazione cubica (Tav. II, 17, 18, 19) e con le formule strutturali 0 /H P— H X OH /H O «-P — OH X OH / °H 0 <-P — OH X OH nelle quali il legame di coordinazione è rappresentato da una freccia che va dal l’atomo che coordina a quello che rimane coordinato. Nella molecola di un acido ossigenato figurano tanti ossidrili quanta è la sua basicità; da questi ossidrili nella dissociazione elettrolitica si stacca l’atomo d’idrogeno che è unito all’atomo di ossigeno con legame eteropolare, mentre l’ossigeno rimane unito al metalloide con legame covalente, come si è dimostrato per l’acido fosforico in conse- guenza della sua formazione dail’ossicioruro. — 35 — La presenza dei due ossidrili neW acido solforico , H2S04, (Tav. II, 20) si dimostra per la sua relazione eoi cloruro di solforile. SOCL, (Tav. II, 21) che si ottiene dall’acido solforico per azione del penta- cloruro di fosforo, e che, reagendo con l’ammoniaca dà la sol fammi- de, S02(NH2)2, (Tav. II, 22), mentre reagendo con l’acqua ridà l’a¬ cido solforico. S02(0H)2 + 2PC15 = 2HC1 + 2P0C13 + S02C12 S02C12 + 2NH3=2HC1 + S02(NH2)2; S02C12+2H0H=2HC1 + S02(0H)2 L "’atomo di cloro, Vossidrile e il gruppo ammidogeno si sostitui¬ scono l’uno all’altro, perciò devono essere legati allo stesso modo con l’atomo del metalloide, cioè tutti e tre covalentemente. Con questi ossidrili si completa Tottetto dell’atomo del metalloide al quale gli altri atomi di ossigeno sono uniti per coordinazione. Così è anche per tutti gli altri acidi ossigenati, come gli acidi ipo- cloroso (Tav. Ili, 23). cloroso (Tav. Ili, 24), clorico (Tav. Ili, 25) e perclorico (Tav. Ili, 26), ai quali, come per l'acido solforico, volendo mettere in evidenza l’ossidrile, assegniamo le formule (H0)2S02 HO— CI HO— CIO HO— C102 PIO— C103 La presenza degli ossidrili negli acidi ossigenati del cloro risulta dalla loro derivazione dalla rispettiva anidride: V acido perclorico, HC104 deriva da Wanidride perclorìca C1207, (Tav. Ili, 27), nella quale un atomo di ossigeno è unito covalentemente a ciascuno del due atomi di cloro e ne completa gli ottetti; ognuno di questi, completato il suo ottetto, coordina altri tre atomi di ossigeno, donde la formula di struttura 0 0 t t 0+-C1— O-Cl^O o o Quando una molecola di anidride reagisce con l’acqua ne addi¬ ziona una molecola e si sdoppia dando origine a due molecole dell’a¬ cido, ognuna con uno dei due atomi di cloro, ad uno dei quali rimane unito con legame covalente l’atomo di ossigeno, che completa il suo ottetto con un elettrone di uno dei due àtomi d’idrogeno della mole^ cola di acqua, che vi si unisce con legame ionico; l’altro atomo di cloro si unisce con legame covalente all’ossidrile dell’acqua così rima- — 36 — sto, che cambia il suo legame tra l’ossigeno e l’idrogeno in legame ionico. A ciascuno dei due atomi di cloro separatosi dalla molecola dell’anidride, rimangono coordinati i tre atomi di ossigeno, come vi erano nell’anidride. Anche negli acidi organici figurano gli ossidrili il cui idrogeno è dissociabile, come risulta dalla relazione tra cloruro di acetile 9 Tav. II, 28), acido acetico (Tav. II, 29) e Vacctammide (Tav. II, 30). Nel cloruro di acetile l’atomo di cloro è legato all’atomo di car¬ bonio covalentemente e viene sostituito tanto dal l’ossidrile dell’acido quanto daH’ammidogeno dell’ammide, che sono parimenti legati al carbonio covalentemente, e che si sostituiscono vicendevolmente. Di fatti, trattando l’acido col pentacloruro di fosforo all’ossidrile si sostituisce il cloro; nell’acieloruro così ottenuto, si sostituisce il cloro con Tammidogeno, per azione deU’ammoniaca; trattando l’ammide con acido nitroso si sostituisce Tammidogeno con l’ossidrile, e si ri¬ torna all’acido. E così è per tutti gli acidi organici. Dalla precedente esposizione risulta quanto segue: 1) la rappresentazione grafica da me adottata per i legami iute, ratomici è più semplice e chiara di quella cubica. 2) gli atomi degli elementi dei primi tre gruppi del sistema pe riodico si uniscono con quelli degli elementi dei gruppi F, VI e VII con legame ionico ; 3) gli atomi degli elementi dei gruppi F, VI e VII si uniscono tra di loro per formare corpi semplici con legami covalenti , completando i rispettivi ottetti con uno , due o tre doppietti elettronici , ognuno for¬ mato da un elettrone di ciascuno dei due atomi; 4) gli elementi di questi tre gruppi si uniscono tra di loro per formare le molecole dei corpi composti con legami covalenti o con le¬ gami di coordinazione ; 5) il legame di coordinazione si stabilisce quando un atomo ha completato il suo ottetto e si unisce con un altro atomo al quale man¬ cano uno o due elettroni nelVorbita periferica per completare il suo ottetto per modo che , mentre V atomo che ha già completato il suo ot¬ tetto mette in comune con V altro uno o due elettroni , fino a comple¬ tarne V ottetto , non ne riceve nessuno in cambio. 6) i legami interatomici sono caratterizzati dal diverso compor lamento nelle reazioni chimiche : a) il legame ionico si apre facilmente per azione delVacqua . far. Ili Tav.II ( 0 * - 4 0 X ( 0 ) n p ) 0 J s T-L U j 20 o T T 0 } con formazione degli ioni, che reversibilmente ridanno la molecola , quando si elimina V acqua; b) il legame di coordinazione formato da un solo elettrone è il più labile; si apre per azione dell’ acqua, che determina trasforma¬ zioni profonde, che non permettono più il ripristino del primitivo composto ; c) il legame covalente formato da un doppietto elettronico tra due atomi di elementi differenti è più stabile del legame di coordina¬ zione con un solo elettrone , ma ancK esso si apre per azione dell9 acqua ; c) il legame covalente tra due atomi dello stesso elemento è molto più stabile e la stabilità aumenta con il numero dei doppietti che costituiscono il legame; d) il legame di coordinazione col doppietto di due elettroni dello stesso atomo presenta la massima stabilità; 7) rimane dimostrata la struttura ossidrilica degli acidi ossigenati. Mi riservo di comunicare il risultato di questo studio, esteso ad al¬ tre classi di composti, come quelli del carbonio, gli pseudoatomi, gli idr ossidi, i sali complessi, ecc., tenendo sempre presente il compor¬ tamento dei legami nelle reazioni chimiche, perchè le teorie debbono sempre essere in pieno accordo coi fatti sperimentali. Istituto Universitario Navale. Gabinetto di Chimica , novembre 1945, Sulla teoria elettronica della valenza NOTA II del socio Ernesto Pannain (Tornata del 27 febbraio 1946) Nella precedente nota (1), esaminando i diversi tipi di legami tra gli atomi di uno stesso elemento e di elementi differenti- posi in evidenza come gli atomi degli elementi dei primi tre gruppi del Si sterna Periodico si legano con quelli degli elementi dei gruppi V, VI e VII, come gli atomi degli elementi di questi tre gruppi si legano tra loro per formare corpi semplici e corpi composti, e il diverso va¬ lore dei diversi tipi di legami, in dipendenza del modo come si com¬ pletano le orbite periferiche dei singoli atomi, per assumere la forma stabile del gas nobile più vicino. In questa nota comincio dal carbonio, il cui atomo ha 4 elettroni di valenza , che ruotano intorno alVorbita K. Pur dovendosi ritenere che la molecola del carbonio, sotto forma di diamante o di grafite, risulti di parecchi atomi, non essendosene potuto determinare l’atomicità, perchè dei diversi metodi per la de¬ terminazione del peso molecolare, nessuno è applicabile al carbonio, sotto qualunque forma si trovi, non è possibile stabilire come si com¬ pletino gli ottetti dei diversi atomi nella molecola. È probabile che ogni atomo completi il suo ottetto, unendosi ad altri tre, con legami covalenti, perchè, come vedremo, nei composti del carbonio tali sono i legami tra i suoi atomi. Dal diverso numero di questi atomi e dal diverso modo di col¬ legarsi nella molecola hanno origine il diamante, la grafite e le altre forme del carbonio nativo, le quali differiscono per la forma cristallo- grafica, per il reticolo spaziale e probabilmente anche per l’atomicità della molecola. Quando il carbonio si combina con l’idrogeno per formare il me* tano , CH4, ciascuno dei 4 atomi d’idrogeno si unisce all’atomo di '(1) 3 pag. 29. — 39 -- carbonio con legame covalente (Tay. IV, 1); perciò il metano non è elettrolito. L’ottetto dell’atomo di carbonio risulta formato da 4 doppietti elettronici, ognuno dei quali forma l’orbita K, intorno ai nucleo di un atomo d’idrogeno. Questo legame è abbastanza stabile; si apre però per azionò del cloro e nella combustione. Quando una molecola di cloro reagisce con una di metano, uno dei suoi due atomi si combina con un àtomo d’idrogeno del metano e si forma acido cloridrico, mentre l’altro atomo di cloro va a sosti¬ tuire quello d’idrogeno, unendosi al carbonio con legame covalente, come vi era legato l’idrogeno, e si forma il cloruro di metile , CH3C1, (Tav. IV, 2). Questa sostituzione prosegue per tutti e quattro gli atomi d’idrogeno fino ad ottenersi il tetracloruro di carbonio, CC14, nel quale analogamente a quanto avviene per l’idrogeno nel metano, ognuno dei 4 elettroni dell’atomo di carbonio va a completare l’ottetto di ciascun atomo di cloro; questi rimangono uniti al carbonio con 4 dop¬ pietti elettronici, che costituiscono l’ottetto dell’ atomo di carbonio. Tutti questi composti non sono elettroliti. Se l’atomo di cloro del cloruro di metile viene sostituito da un ossidrile, si forma Valcol metilico, CH3OH, nel quale l’atomo d’idro¬ geno è unito all’atomo di ossigeno covalentemente , come parimenti l’atomo di ossigeno all’atomo di carbonio (Tav. IV, 3); perciò anche Valcol metilico noti è elettrolito. Nella combustione del metano, l’idrogeno con l’ossigeno forma acqua e il carbonio con l’ossigeno forma V anidride carbonica, C02, nella quale i due atomi di ossigeno sono legati a quello di carbonio con legami covalenti, formati ciascuno da due doppietti elettronici : dei 4 elettroni dell’atomo di carbonio due vanno a completare l’ottetto di un atomo di ossigeno e due quello di un altro , ricevendone in cambio due da ognuno, e così si completa il suo ottetto (Tav. IV, 4). Questi legami covalenti sono analoghi a quelli tra due atomi di ossi¬ geno della stessa molecola, che parimenti completano gli ottetti del¬ l’uno con due elettroni dell’altro, donde la stabilità della molecola di anidride carbonica. Nell’ossido di carbonio, CO, invece, l’atomo di carbonio e l’atomo di ossigeno mettono dapprima in comune due elettroni dell’uno e due dell’altro, così si completa l’ottetto dell’atomo di ossigeno con due doppietti elettronici, e poi altri due elettroni dell’ottetto dell’ossi¬ geno, così completato, coordinano l’atomo di carbonio, completandone l’ottetto (Tav. IV, 5). Talché nell’ossido di carbonio tra i due atomi di carbonio e di ossigeno vi sono due legami : uno covalente e V altro di coordinazione , (t — 40 — Ciò spiega la facilità con la quale l’òssido di carbonio quando brucia somma l’ossigeno e forma l’anidride carbonica, e a contatto col cloro lo addiziona, dando il fosgene, C0C12. Si spezza il legame di coordinazione e rimane quello covalente tra l’ossigeno e il carbonio, e questo lega covalentemente un altro atomo di ossigeno, quando forma l’anidride, e separatamente due a- tomi di. cloro nel fosgene (Tav. IV, 6). Nei composti organici saturi, il legame semplice tra due atomi di carbonio, è un legame covalente , formato da due elettroni, ciascuno di uno dei due atomi di carbonio, ognuno dei quali ha ancora tre elettroni periferici, coi quali collega, per es., tre atomi d'idrogeno con legame covalente,, e forma V etano (Tav. IV, 7). Nel legame doppio o etilenico e nel legame triplo o acetilenico , tra i due atomi di carbonio si hanno rispettivamente due o tre dop¬ pietti elettronici, ognuno formato da un elettrone di un atomo e da uno dell’altro, come nelle molecole delTossigeno e dell’azoto, con la differenza però che tanto i due doppietti dei due atomi di ossigeno quanto i tre dei due atomi di azoto completano gli ottetti di ciascun atomo con gli elettroni dell’altro, mentre col legame etilenico o aceti¬ lenico gli ottetti dei due atomi di carbonio rimangono incompleti; a completarli intervengono gli elettroni di altri atomi, che si uniscono coi due atomi dà carbonio, come, per es., 4 atomi d’idrogeno nell’eti- lene e 2 nell’acefi/ene (Tav. IV, 8 e 9). Questa differenza dà ragione del diverso comportamento del le¬ game etilenico e di quello acetilenico rispetto a quello semplice: il legame acetilenico, nel quale due atomi di carbonio completano gli ottetti con due soli atomi d’idrogeno, risulta meno stabile del legame etilenico, nel quale due atomi di carbonio completano i loro ottetti con quattro atomi d’idrogeno, e questo risulta meno stabile del le3 game semplice, nel quale i due atomi di carbonio completano i loro ottetti con sei atomi d'idrogeno; onde per azione dell’idrogeno, di un alogeno il legame triplo si apre e diventa doppio e questo diventa semplice, e si hanno prodotti di addizione. I legami semplice, doppio e triplo tra due atomi di carbonio si possono rappresentare anche con la configurazione tetraedrica del¬ l’atomo di carbonio (Tav. IV, 10, 11, 12), dalla quale però non ap¬ pare il completamento degli ottetti. Tra gli atomi di carbonio di tutti i composti organici aciclici sa¬ turi, come, per es., gl’idrocarburi normali ed isomeri, gli atomi di carbonio sono sempre uniti con legame covalente e a ciascun atomo si uniscono sempre con legame covalente gli atomi degli altri elementi, — 41 — come si è visto in quei li con l’idrogeno, con il cloro, ed anche in quelli con l’azoto, come nelle animine ed ammidi. Tenendo presente quanto riportai nella precedente nota per il cloruro di acetile, l’acido acetico e J’acetammide, è facile darsi ra¬ gione di tutti i collegamenti tra gli atomi dei composti organici aci- clici saturi e non saturi, in relazione col loro comportamento chimico. Anche per le diolefine coi due doppii legami coniugati la teoria dell’ottetto dà una rappresentazione, che ne giustifica il comporta¬ mento chimico. Difatti nelVeritrene, CHa ==, CH — CH = CH2, tra i due atomi di carbonio centrali, che sono uniti con legame sémplice, vi è un le¬ game covalente, costituito da due elettroni appartenenti ciascuno ad uno dei due atomi, mentre i doppi legami tra il primo ed il secondo e tra il terzo ed il quarto atomo di carbònio sono legami etilenici, formati da due doppietti elettronici, costituiti ciascuno da un elettrone dell’uno e uno dell’altro dei due atomi di carbonio. Gli ottetti di cia¬ scuno dei 4 atomi di carbonio sono completati dagli elettroni degli atomi d’idrogeno, che vi sono uniti con legame covalente (Tav. IV, 15). Quando il bromo reagisce con un tale idrocarburo, una molecola dell’alogeno attacca simultaneamente entrambi i doppi legami coniu¬ gati, li apre e lega i suoi due atomi agli atomi di carbonio estremi, spezzando in ognuno dei due doppi legami uno dei due doppietti elettronici, i cui elettroni ritornano ognuno al proprio atomo: quelli degli atomi estremi legano covalentemente ciascuno un atomo di bromo, mentre quelli dei due centrali formano tra questi un doppietto elet¬ tronico, che insieme all’altro già esistente stabilisce tra i due atomi un legame etilenico (Tav. IV, 16). Negl’idrocarburi ciclici parimenti si completano gli ottetti dei diversi atomi di carbonio e l’orbita K dell’atomo d’idrogeno o gli ottetti degli altri atomi. Nel benzene , C(-H(1, ogni atomo di carbonio è unito ad un atomo d’idrogeno con legame covalente completandone l’orbita K, e com¬ pleta il suo ottetto, prendendo dai due atomi di carbonio tra i quali è compreso due elettroni dall’uno , al quale ne dà uno solo , e uno dal¬ l’altro, al quale ne dà due, per modo che due atomi di carbonio contigui mettono in comune tre elettroni, uno dell’uno e due dell’altro (Tav. V, 18). I sei legami tra i sei atomi di carbonio del nucleo risultano così identici tra di loro, con netta differenza dal legame etilenico , giusti- — 42 — fi cali do Ja differenza del comportamento chimico, cioè la maggiore sta¬ bilità del legame tra gli atomi di carbonio del nucleo benzenico ri¬ spetto a quello etilenico. NelVesaidrobenzene , CGH12, il legame tra i due atomi di carbonio contigui è covalente (Tav. V, 14), analogo a quello delle paraffine. Ciò spiega l’analogia tra le paraffine e i ciclani e giustifica il nome di ciclo par affine dato a questi ultimi, che da quelle si ottengono, trai tando con sodio i bibromoderivati, aventi i due atomi di bromo nei due carboni terminali. La rappresentazione del benzene qui riportata dà piena ragione de\Y equivalenza dei sei legami tra gli atomi di carbonio del nucleo , senza ricorrere alla teoria del Thiele delle valenze residuali. I sei le¬ gami risultano ciascuno dì tre elettroni, due appartenenti ad un a- tomo e il terzo alV altro. Da quanto precede risulta altresì che i legami tra gli atomi di carbonio del nucleo benzenico non hanno nulla di comune con quelli dell' eritrene, perciò non sono analoghi a quelli dei doppi legami co¬ niugali. ❖❖❖ Con la teoria dell’ottetto si spiega anche la formazione del gruppo ammonio dall’ammoniaca, tanto nell’ idrossido che nei sali di am¬ monio. Questo pseudoatomo, NHt, non esiste libero, ma come catione, cioè come un gruppo elettropositivo monovalente, analogo al catione di un metallo alcalino, che abbia ceduto un elettrone ad un atomo o ad un gruppo di atomi elettronegativo. I tre atomi d'idrogeno dell’ammoniaca sono uniti all’atomo di azoto con legami covalenti, formati ciascuno da uno dei 5 elettroni deU’atomo di azoto e da ciucilo dell’atomo d’idrogeno, che costitui¬ scono l’orbita K intorno a questo atomo (Tav. V, 17), e l’ottetto del¬ l’atomo di azoto viene completato dai 3 elettroni degli atomi d’idro¬ geno, e dispone di due elettroni che possono coordinare altri atomi. Quando l’ammoniaca si trova, per es. in presenza di acido clori¬ drico, che è formato da un eloroione e un idrogenoione, questo viene coordinato dall’atomo di azoto, rimanendo carico positivamente e forma Vammonioione con una carica positiva, mentre il eloroione rimane con una carica negativa, (Tav. Y, 18) e, per attrazione elettrostatica, si forma il cloruro d’ammonio. Analogamente, quando l’ammoniaca si scioglie nell’acqua si forma Ti diossido di ammonio. In modo analogo si comporta il gruppo ammidogeno, — NH2, che. 43 — in presenza di acido cloridrico o di acqua, forma l’anione alchilam- mooio. Mentre le animine hanno la configurazione dell’ammoniaca, il corrispondente cloridrato, prende la configurazione di un sale d’am¬ monio, per cui il cloridrato di monometilammina è il cloruro di mo- nometilammonio , CH3 — -NH3C1, (Tav. V, 19). Lo stesso si ha con le animine secondarie e terziarie. Tanto l’ammoniaca quanto le ammine, sciogliendosi ne IT acqua danno reazione alcalina, perchè mentre l’atomo di azoto coordina un idrogenoione, rimane libero un idrossilione, al quale appunto è dovuta la reazione alcalina: NH3 + HOH ~t NH4+ -f OH- CH3 • NH2 -f- HOH ~t CH3 . NH3+ + OH" In modo analogo si comporta il gruppo ammidogeno di un ammi¬ noacidi >, che, quando si scioglie nell’acqua si comporta contempora¬ neamente da acido, liberando l’ idrogenoione dal carbossile, e da base, liberando pssddrilioni per reazione tra il gruppo ammidogeno e l’acqua CH2-NH2 + HOH I COOH CH2 I eoo NH3+ + OH + Hf Per tal ragione gli amminoacidi hanno carattere anfolero , ma a differenza degl’idrossidi anfoteri che reagiscono o come acidi, in pre¬ senza di basi forti, o come basi, in presenza di acidi forti, essi reagi¬ scono contemporaneamente come acidi e come basi: se, per es., un "am¬ minoacido ha reagito come acido, impegnando il carbossile, può poi reagire ancora come base perchè il gruppo ammidogeno funziona da gruppo ammonio sostituito. Nel gruppo mitrile , CN, i due atomi mettono in comune tre elet¬ troni per ciascuno e formano tre doppietti, che completano l’ottetto dell’atomo di azoto, mentre nell’orbita periferica dell’ atomo di car¬ bonio sette elettroni danno all’ aggruppamento la configurazione del¬ l’atomo di cloro, al pari del quale si comporta da monovalente, e, assu¬ mendo un elettrone di un atomo d’idrogeno o di un metallo, si carica negativamente e si unisce con legame ionico a quell’atomo, che si è caricato positivamente, formando V acido cianidrico , HCN, (Tav. V, 20) e i cianuri. Nei nitri li l’ottetto dell’atomo di carbonio del gruppo — CN si 44 — completa con la formazione di un legame covalente, al quale partecipa un altro atomo di carbonio del radicale alcolico, come, per es., nel- Vacetonitrile (Tav. V, 22). NegVisonitrili o carbilammine i due atomi del gruppo funzionale mettono in comune due elettroni per ciascuno, formando due doppietti elettronici, coi quali si completa l’ottetto dell’atomo di azoto, che poi, con altri due dei suoi elettroni, coordina lo stesso atomo di carbonio, completandone l’ottetto, che risulta costituito dai due doppietti elet¬ tronici, dai due elettroni del legame di coordinazione e da due suoi elettroni, come nella metilcarbilammina (Tav. IV, 22). Nei ritirili dunque l’atomo di carbonio del gruppo funzionale è stabilmente unito con legame covalente, mediante un doppietto elet- tronico, ad un altro atomo di carbonio del radicale alcolico, mentre ad esso è unito debolmente l’atomo di azoto con tre doppietti elettronici. N^gl ’isonitrìli è invece l’atomo di azoto del gruppo funzionale che è unito stabilmente all’atomo di carbonio del radicale alcoolico con un doppietto elettronico, e ad esso è invece unito debolmente l’atomo di carbonio del gruppo funzionale con due doppietti elettronici ed un legame di coordinazione. Questo diverso collegamento tra gli atomi di carbonio e di azoto nei nitrili e negl’isonitrili dà ragione del loro diverso comportamento quando s’idrolizzano: entrambi sommano due molecole d’acqua, ma il mitrile forma il sale d’ammonio del corrispondente acido e l’isonitrile forma un’ammina primaria e l’acido formico, per distacco dell’atomo di carbonio da quello di azoto : CH3— CN+2H0H = CH3-COONH4 CH3-N€ + 2HOH = CH3-NH2 + HCOOH Questo distacco ha luogo per la presenza simultanea del legame covalente e di quello di coordinazione, tra l’atomo di azoto e quello di carbonio, analogo a quello tra l’atomo di carbonio e quello di ossigeno nell’ossido di carbonio. ❖❖❖ Gli atomi dei metalli per la loro tendenza a perdere gli elettroni periferici, quando si combinano con l’ossigeno, con tali elettroni vanno a completarne l’ottetto, e vi si uniscono con legame eteropolare. Se l’atomo del metallo Ira un solo elettrone periferico, con un atomo di ossigeno si combinano due atomi del metallo, come nell’ossido di sodio , Na-O-Na, (Tav. V, 23); se ne ha due, con un atomo di ossigeno si combina un solo atomo del metallo, come ne\V ossido di calcio , Ca = (), (Tav. V, 24). Quando questi ossidi vengono a contatto con l’acqua, vi reagiscono e formano gl’idrossidi, che rimangono dissociati nei metalloioni e negli ossidrilicni, che, eliminata l’acqua, per attrazione elettrostatica for¬ mano le molecole nel Fidi-ossido solido, nel quale l’ossidrile ha la me¬ desima configurazione elettronica dell’atomo di cloro, al pari del quale rimane unito all’atomo del metallo con legame ionico: l’atomo del metallo rimane con Forbita completa sottostante agli elettroni peri¬ ferici, che sono stati ceduti agli atomi di ossigeno, ognuno dei quali completa il suo ottetto con l’elettrone che l’atomo d’idrogeno mette in comune con esso e forma un doppietto elettronico che va a costi¬ tuire l’orbita K intorno al nucleo dell’idrogeno. Uulr ossido di sodio ha un solo ossidrile (Tav. Y, 26), perchè l’atomo di sodio ha un solo elettrone di valenza; Vidrcssido di calcio ne ha due, (Tav. V, 27), perchè l’atomo di calcio ha due elettroni di valenza. Quando l’ossigeno si combina con un metalloide, per la tendenza 'die questo ha a completare il suo ottetto, assumendo altri elettroni, al pari dell’atomo di ossigeno, che ha sei elettroni periferici, l’atomo del metalloide e quello dell’ossigeno mettono in comune uno o due elettroni per completare i rispettivi ottetti, e si uniscono con legami covalenti, come ne\V anidride ipoclorosa , CFO-C1, (Tav. V, 25); ilia, completati gli ottetti, l’atomo del metalloide coordina altri atomi di ossigeno, come neìV anidride perclorica (Tav. Ili, 27). Nelle anidridi del cloro un atomo di ossigeno si unisce con le¬ game covalente a due atomi di cloro, ed abbiamo visto come per azione dell’acqua la molecola si sdoppia e l’atomo di ossigeno completa il suo ottetto con l’elettrone di un atomo d’idrogeno, che rimane ad esso legato con legame ionico (v. nota I). Se l’atomo di ossigeno, è unito all’atomo del metalloide con due doppietti, come nelle anidridi dello zolfo, all’atomo di ossigeno, che è legato al metalloide con due doppietti elettronici, per l’apertura del legame, si sostituiscono due ossidrili, in ognuno dei quali l’atomo d’idrogeno è sempre legato ionicamente all’atomo di ossigeno. Gli ossidrili degli idrossidi e quelli degli acidi ossigenati risultano essenzialmente differenti, sia perchè gli atomi dei metalli hanno un piccolo numero di elettroni periferici, che cedono all’ossigeno, unen- dovisi con legame ionico, mentre gli atomi dei metalloidi, avendo un maggior numero di elettroni, completano l’ottetto, al pari dell’atomo di ossigeno, col quale ne mettono in comune, sia perchè l’atomo d’idro¬ geno tanto può cedere il suo unico elettrone, e rimane il protone ca¬ rico positivamente, quanto può mettere il suo unico elettrone in co- — 46 — nume con l’atomo di ossigeno, formando un doppietto elettronico, die intorno al suo nucleo costituisce Forbita K dell’elio, die a diffe¬ renza di quelle degli altri gas nobili, ba due soli elettroni, invece di otto. Quando un atomo di ossigeno si combina con due atomi d’idro¬ geno, tra questi e quelli si stabiliscono due legami covalenti, comple¬ tandosi l’ottetto dell’atomo di ossigeno coi due elettroni dei due atomi d’idrogeno e le due orbite K intorno a questi: così si formo V acqua che non è elettrolito (Tav. Y, 28). L’ossidrile che si forma per legame covalente tra l’atomo d’idro¬ geno e quello di ossigeno ba la medesima configurazione elettronica del cloro: l’atomo di ossigeno .nell’ossidrile ha l’orbita periferica di sette elettroni, e, come due atomi di cloro si uniscono con legame covalente parimenti si uniscono due ossidrili e formano l’acqua ossi¬ genata, HO-OH, nella quale i due atomi di ossigeno sono uniti con legame covalente mediante un doppietto elettronico, e ognuno è unito al corrispondente atomo d’idrogeno con un legame anch’esso covalente (Tav. Y, 29). Per giustificare la facilità con la quale la molecola dell’acqua os¬ sigenata perde uno dei due atomi di ossigeno, si è supposto che ad essa non spetti la formula perossidica, e che invece di risultare dal¬ l’unione di due ossidrili, derivi da una molecola d’acqua, nella quale un atomo di ossigeno con due elettroni abbia coordinato l’altro atomo di ossigeno (Tav. V, 30). Ma un legame di coordinazione tra due a- tomi della stessa specie non si presenta in nessun altro caso; inoltre, come rilevai nella precedente nota (1), esso è sempre più stabile di un legame covalente, anche se formato da un sol doppietto; onde in tal modo non viene affatto giustificata la facilità con la quale l’acqua ossigenata perde un atomo di ossigeno dalla sua molecola. La instabilità della molecola dell’acqua ossigenata è conseguenza del legame perossidico, formato da un solo doppietto elettronico, meno stabile di quello tra due atomi di ossigeno, costituito da due doppietti elettronici; perciò la molecola facilmente si sdoppia in due ossidrili, che, non potendo esistere liberi, formano una molecola d’ac¬ qua e liberano un atomo di ossigeno, come nell’elettrolisi degl’idros- sidi alcalini, dove precisamente all’anodo, quando gli ossidrili hanno (lì a pag. 33 e pag. 37. neutralizzate le loro cariche, non potendo esistere liberi, formano una molecola d’acqua e liberano un atomo di ossigeno. La formazione dell’acqua ossigenata dall’acido dipersolforico ne conferma la struttura perossidiea. L’acido solforico concentrato è pre¬ valentemente dissociato in idrogenoioni e idrosolfatoioni; questi, al passaggio della corrente elettrica migrano all’anodo, dove, neutraliz¬ zate le loro cariche, formano l’acido dipersolforico, unendosi a due a due: OLI t- 2H+ + 2H0 — S02 - Cr all’anodo HO — S02 — O 2 HO — S02 — O — = | HO — S02 — O acido dipersolforico L’acido dipersolforico, così formatosi, per azione dell’acqua si decompone, formando dapprima l’acido monopersolforico, che con altra acqua forma l’acqua ossigenata, secondo lo schema seguente: H0- o 1 CO O Xfl H HO — S02 — OH acido solforico ... , ... . + ., >. j ... __ + HO — o 1 O m OH o 1 o 1 cn O m 1 O acido monopersolf, HO - S02-0 H HO — S02 - OH acido solforico ... 1 .. . + .. ,. | ... m •L HO OH HO — OH acqua ossigenata La teoria dell’ottetto si applica soddisfacentemente anche ai sali complessi del Werner, come negli esempi qui appresso riportati. A]la formazione del ferrocianuro e del ferricianuro potassico par¬ tecipano il cianuro potassico e rispettivamente il cianuro ferroso e il cianuro ferrico," che sono tutti e tre elettroliti, per cui tra i gruppi CN e gli atomi di potassio e di ferro hi e trivalente vi sono legami ionici. Nella formazione del ferrocianuro potassico le quattro molecole di cianuro potassico conservano il loro legame ionico e si uniscono al ferro bivalente per coordinazione , mettendo in comune con esso ciascuno un elettrone delVatomo di carbonio , mentre i due legami ionici tra l’a¬ tomo di ferro bivalente e i due gruppi CN diventano covalenti (Tav. VI, 31). Così si completa l’ottetto •dell’atomo di ferro, ottetto che ri¬ sulta costituito dai 4 elettroni dei quattro atomi di carbonio ad esso 2 HO — S02 — al catodo 2H = H2 48 — coordinati e da due doppietti covalenti, costituiti ciascuno da uno dei due elettroni dell’atomo di ferro e da uno dell’atomo di carbonio del gruppo CN. Nel ferrocianuro potassico al ferro bivalente sono coordinati solo 4 gruppi CN ; gli altri due vi sono uniti con legame covalente, che è più stabile, d’accordo col comportamento del ferrocianuro potassico sotto l’azione dell’acido solforico, che sviluppa acido cianidrico e rimane il cianuro ferroso: K4Fe(CN)6 + 2H2S04 == 2K2S04 + 2Fe(CN) + 4HCN Si staccano dal ferro solo i 4 gruppi CN, che vi sono uniti con le¬ garne di coordinazione mediante un solo elettrone, mentre gli altri due cambiano il legame covalente in legame ionico. Nella formazione del ferricianuro potassico le tre molecole di cia¬ nuro potassico conservano parimenti il legame ionico tra l’atomo di potassio e il gruppo CN, e si uniscono all’atomo di ferro trivalente, mettendo in comune con esso un elettrone dell’atomo di carbonio, con un legame di coordinazione, mentre dei tre legami ionici l’atomo di ferro trivalente e i tre gruppi CN del cianuro ferrico due diventano covalenti e l’altro di coordinazione, cioè il terzo elettrone dell’atomo di ferro va a completare l’ottetto dell’atomo di carbonio del gruppo CN, rimanendo in comune con l’ottetto dell’atomo di ferro, che risulta costituito dai tre elettroni dei tre atomi di carbonio, che lo hanno coordinato, dai due doppietti covalenti, costituiti ciascuno da un elet¬ trone dell’atomo di ferro e da un altro di carbonio, ed infine dal terzo elettrone dell’atomo di ferro trivalente, che coordina il quarto gruppo CN (Tav. VI, 32). Anche nel ferricianuro potassico i gruppi CN cooordinati al ferro sono 4. Nei sei gruppi CN, i due atomi sono sempre uniti coi tre doppietti elettronici, come nell’acido cianidrico. Da quanto precede risulta che non vi è differenza sostanziale tra i sali degli acidi ossigenati, come solfati, fosfati, ecc. e i ferro e i ferri- cianuri, all’infuori della complessità dell’anione che in quelli è formato da un atomo di un metalloide unito ad atomi di ossigeno, come S04 P04 ' * *, ecc., e nei ferro e ferricianuri è formato da un atomo di ferro bi o trivalente con 6 gruppi CN : •Fe,/(CN)6 , Fe"'(CN)r> “ L’elettronegatività dei primi deriva dagli elettroni degli atomi del me¬ tallo, che, formando il sale, vanno a completare l’ottetto dell’ossigeno, quella di questi ultimi deriva parimenti dagli elettroni degli atomi di — 49 — potassio, che vanno a completare gli ottetti degli atomi di carbonio del gruppo CN. Chiudere quindi tra parentesi quadre l’ione complesso serve solo a mettere in evidenza che il ferro non funziona da ione, ina entra a far parte deH’anione eoi sei gruppi CN, come lo zolfo e il fosforo nei solfati entrano a far parte di un unico anione insieme con l’ossigeno. Al cobalto cianuro potassico, K4Co(CN)6, e al cabaUicianuro po¬ tassico . K3Co(CN)G corrispondono quindi formule strutturali analoghe a quelle riportate per il ferro e il ferricianuro potassico. Nel cloruro di cobaltiesammino, Cq(NH3)gC13, il cobalto trivalente completa il suo ottetto con tre molecole di ammoniaca, che vi si uni¬ scono con legame 'di coordinazione: due mettono in comune con l’ot¬ tetto dell’atomo di cobalto trivalente i due elettroni dell’atomo di azoto e la terza uno solo (Tav. VI, 33). Completatosi così l’ottetto dell’atomo di cobalto, questo coi suoi tre elettroni periferici coordina tre atomi di azoto di tre molecole di cloruro d’ammonio, per mezzo degli atomi di azoto, nei quali due dei tre atomi di idrogeno sono uniti all’azoto con legame covalente e il terzo è un protone, che, come nei sali d'ammonio viene coordinato dall'atomo di azoto, dopo aver ce¬ duto il suo elettrone all'atomo di cloro, che vi rimane unito con le¬ garne ionico; perciò questo composto è un elettrolito uni-trivalente. Sono questi tre gruppi NH3 che vengono sostituiti ad uno ad uno dal cloro, onde in definitiva si ha il cobaltitriclorotriammino , Co(NH3)C13, che non è elettrolito (Tav. VI, 34), perchè i tre atomi di cloro sono coordinati dall'atomo di cobalto, completando ciascuno il suo ottetto con un elettrone di questo metallo. Sono questi tre gruppi NH3 che vengono sostituiti da tre gruppi H20, di tre molecole d'acqua, coordinati dall’atomo di cobalto per mezzo dell’a Ionio di ossigeno, che completa il suo ottetto con un a- tomo d’idrogeno, che vi rimane unito con il legame covalente, e, com¬ pletato il suo ottetto, coordina il protone dell’altro atomo d’idrogeno che ha ceduto il suo elettrone ad un atomo di cloro, che vi rimane unito con legame ionico, e si ha il tricloruro di cohaltitriaquotriam- mino , Co(H20)3(NH3)3C13, che anch’esso è un elettrolito unitrivalente (Tav. VI, 35). Al posto dei tre cloroioni del cloruro di cobalti esaminino possono trovarsi tre anioni dell’acido nitroso e si ha il nitrito di cobalticsani - mino, Co(NH3)6(NQ2)3, che è anch’esso un elettrolito unitrivalente, come il corrispondente cloruro. Anche in esso i tre gruppi NH3 possono essere sostituiti suc¬ cessivamente da gruppi NO2. Quando vengono sostituiti tutti e tre si 4 — 50 — ottiene il composto Co(NH3)3(N02)3, che non è elettrolito, al pari dei corrispondente composto col cloro. Ma mentre la sostituzione dei gruppi NH, col cloro si arresta a questi tre gruppi, quella coi gruppi NO2 prosegue anche per gli altri tre gruppi dell’ammoniaca, con la differenza che questi altri anioni dell’acido nitroso conservano la loro carica negativa: uno dei due atomi di ossigeno completa il suo ottetto con un elettrone datogli da un atomo di un metallo, col quale forma il sale, come, per es., dah l’ atomo di potassio, formando il cobaltinitrito potassico , K3(NOa)f.Co, (Tav. VI, 36), che è un elettrolito unitrivalente, nel quale a differenza dei composti precedenti, il complesso è elettronegativo. Alle conclusioni cui pervenni nell’altra nota vanno ora aggiunte le seguenti: 1) Nei composti organici i legami semplici tra due atomi di car¬ bonio sono sempre covalenti , formati da un sol doppietto elettronico; 2) I legami etilenico e acetìlenico sono formati rispettivamente da due e tre doppietti elettronici , che hanno comportamento chimico differente da quelli tra gli atomi di ossigeno e di azoto ; questi sono stabili e quelli sono instabili , perchè mentre nelle molecole di ossi- geno e di azoto con tali doppietti si completano gli ottetti dei due atomi , nei legami etilenici e aceiilenici gli ottetti degli atomi di carbonio si completano con altri atomi , mediante legami covalenti. 3) Nel nucleo benzenico i legami tra gli atomi di carbonio risul¬ tano di tre elettroni posti in comune da due atomi contigui , uno del¬ l’uno e due dell’altro, con netta differenza dai legami delle diole fine coi due doppi legami coniugati . In entrambi i casi figurano legami elettronici, senza valenze re¬ siduali; 4) L’atomo d’idrogeno si può unire all’atomo di ossigeno con legame covalente o con legame ionico , a seconda della elettropositività o elettronegatività dell’ atomo o dei gruppi di atomi col quale si com¬ pleta l’ottetto dell’ atomo di ossigeno. In conseguenza si hanno due tipi di ossidrili: l’uno che si unisce con gli atomi dei metalli con le¬ game ionico , formando gli idrossidi , dando poi origine agli ossidri- lioni ; l’altro, che figura negli acidi ossigenati, nel quale il legame tra l’atomo di ossigeno e quello d’ idrogeno è ionico, e l’atomo di ossigeno completa il suo ottetto unendosi ad un metallide con legame covalente. 5) Le molecole dei metalli sono monoatomiche, perchè i loro a - tomi hanno nell’ orbita periferica da uno a tre elettroni, onde, anche quando due atomi li mettessero tutti in comune, non si possono com¬ pletare i rispettivi ottetti, come avviene invece per il cloro, l’ossigeno , 51 — V azoto, che hanno rispettivamente 7, 6 e 5 elettroni periferici e possono quindi completare , a due a due , i rispettivi ottetti con uno due o tre doppietti elettronici. 6) L'atomo d'idrogeno , che , al pari di quelli dei metalli alca lini , ha un solo elettrone , a differenza di questi forma la molecola con due atomi , che mettendo in comune i rispettivi elettroni , costituiscono V orbita K dell'elio, che è il gas nobile che segue immediatamente l'idrogeno , orbita K che ha due soli elettroni ; 7) Nei saZi complessi del Werner i legami elettronici sono iden¬ tici a quelli degli altri composti : non occorre pertanto ricorrere alla ipotesi di valenze secondarie o residuali. Il numero dei gruppi elettro- negativi o neutri uniti al metallo con legame di coordinazione è mi¬ nore dell' indice di coordinazione : nel caso dei cianuri complessi del ferro e del cobalto l'indice di coordinazione è 6, ma il numero dei gruppi uniti al metallo con legame di coordinazione è 4, tra i quali vi sono sempre quelli uniti al metallo alcalino con legame ionico . ai quali perciò è dovuta la elettronegatività del complesso. Istituto Universitario Navale. Gabinetto di Chimica , gennaio 1946. Il brachitterismo negli insetti Analisi morfologica dell’ articolazione alare degli ortotteri Nota del socio Marcello La Greca (Tornata del 28 novembre 1945) Espongo in questa breve nota preliminare i risultati di mie ri¬ cerche sull’articolazione alare degli Ortotteri brachitteri. e microtteri, riservandomi di tornare più diffusamente sull’argomento in una mia prossima pubblicazione. È facilmente rilevabile negli Ortotteri una spiccata tendenza verso la riduzione degli organi di volo, più o meno accentuata (brachitte¬ rismo e microtterismo o subatterismo), fino a giungere ad un com¬ pleto atterismo. Questa tendenza è particolarmente notevole allorché si ha in seno ad una stessa specie una variazione sensibile della lun¬ ghezza relativa degli organi di volo nei vari individui dello stesso sesso, variazione che raggiunge il massimo quando si manifestano ad un tratto forme macrottere in ispecie tipicamente brachittere o mi- crottere [ Metrioptera roeseli (Hagenb.), Xiphidion dorsalis (Latr.); Gryllus desertus (Pall.), Gryllotalpa gryllotalpa (L.); Chrysochraon dispar (Germ.), Chorthippus parallelus (Zett.), Podismo pedestris (L.), eoe.]. È però da notarsi che gli Efippigerini, alcuni Decticini e Fane- rotterini ed i Pamfagini non presentano mai forme macrottere in ispecie normalmente microttere (Chopard) (1). Nè ciò è da attribuirsi sempli¬ cisticamente al fatto che un’estrema riduzione degli organi di volo in una specie vieti il ricomparire di individui normalmente alati, poiché si conoscono forme macrottere di specie': tipicamente subattere ( Chrysochraon dispar 9 ? Podismo pedestris , ecc.) con le elitre ri ¬ dotte a due brevi monconcini laterali e le ali appena accennate e co¬ munque non più svilupate che nelle specie costantemente microttere. Parecchi autori si sono interessati del brachitterismo negli Or¬ totteri e ne hanno data una interpretazione basandosi essenzialmente su fattori ecologici (Morse, Zacher, Ramme, Burr. Nabours, Rehn). Dal punto di vista morfologico si hanno le ricerche di Karny e di (lj Chopard, L. La biologie des Orthoptères . (Enc. Ent. XX, Paris 1938). — 53 — Salfi sulle variazioni della nervatura delle tegmine. Poiché non mi risulta che si siano effettuate ricerche sulle variazioni che occorrono certamente nell’articolazione degli organi di volo col variare dello sviluppo degli stessi, ho intrapreso in questo senso lo studio dell’in¬ teressante fenomeno negli Ortotteri propriamente detti. Nella descrizione delle articolazioni e delle nervature alari seguo la terminologia usata da Snodgrass (1) ormai generalmente adottata per la sua semplicità. I Fasgonuridi brachitteri da me esaminati presentano un’articolazione alare normale che non si allontana, se non per parti¬ colari di poca importanza, da quella degli individui macrotteri. Un aspetto caratteristico presenta invece l’articolazione delle tegmine delle specie microttere di questa famiglia [ Rhacocleis bormansi (Brunn.), Metaplasia pulchriperinis (Costa), Pholidoptera chabrieri (Charp.), Poecìlinion jonicus (Koll), Uromenus confusus (Finot)]. Il primo a- scellare si fonde col mesonoto per mezzo del suo margine prossimale; dorsalmente, la base della tegmina si presenta come un’unica super¬ fìcie ben chitinizzata, derivante dalla fusione del secondo e terzo a- scellare e lamine mediane fra loro e dalla completa saldatura di questi scleriti con le basi delle vene. Talora può verificarsi anche la fusione fra primo ascellare e secondo ( Rhacocleis bormansi $ , Uromenus con- jusus 3 Pholidoptera chabrieri 9). Ventralmente, la saldatura fra secondo e terzo ascellare, fa sì che questi appaiano come un unico pezzo fornito di tre processi: il pro¬ cesso pleurale del secondo ascellare diretto in fuori e normalmente in rapporto con l’epimero; il margine prossimale del secondo ascel¬ lare che si articola col margine superiore del primo ascellare; il terzo ascellare diretto in basso (disposizione naturale nell’insetto ad ali chiuse). La membrana ascellare fra terzo ascellare e processo esterno del secondo, e fra terzo ascellare e margine prossimale del secondo, può essere anche notevolmente chitinizzata ed ispessita (Uromenus confusus ). La membrana ascellare conserva il suo carattere membra¬ noso anteriormente presso la tegula, che è sempre presente e libera, e posteriormente, dove può essere anche grandemente sviluppata ( Pho¬ lidoptera chabrieri ). La corda ascellare è presente. Il processo alifero della pleura è rìgidamente unito al processo ventrale del secondo a- scellare ed alla tuberosità anteriore della tegmina. L’articolazione della tegmina dei Fasgonuridi microtteri, per que¬ sto suo particolare aspetto morfologico, non è più funzionale e la tegmina non può compiere il minimo movimento di apertura. (1) Snodgrass R. E. The thoracic mechanism of a grasslwpper and its antece- dents (Smith. Mise. Coll., 80, 1927). — 54 — Dell’articolazione dell’ala, che è vestigiale, non restano che tracce; dei parapteri sussiste solo quello epimerale; il processo antere pleurale è saldato con i margini laterali del metanoto e la linea di confine fra pleure e noto è ispessita internamente. Dei G r i 1 1 i d i ho potuto esaminare solo specie brachittere, che presentano l’articolazione delle tegmine ed ali del tutto regolare [Gryllulus desertus var. melas (Gharp.), Nemobius sylvestris (Bosch.)]. Gli A c r i d i d i da me esaminati presentano l’articolazione a- lare normale, sia in specie con maschi macrotteri e femmine brachit¬ tere ( Chorthippus parallelus) o microttere ( Chrysochraon dispar ), sia in specie brachittere in entrambi i sessi [Prionotropis appaia (Costa), Zonocerus elegans (Thunb.)] o microttere in entrambi i sessi [ Chro - togonus hemipterus (Schaum), Pezotettix glorimi (Rossi), Podisma pe- destris (L.)]. Le ali, anche nelle specie che le hanno soltanto vestigiali, contrariamente a quanto si riscontra nei Fasgonuridi microtteri, con¬ servano ben distinti tutti gli ascellari, specialmente primo e secondo, e sono, in genere, abbastanza riconoscibili le principali venature (Zo¬ nocerus elegans , Chrotogonus hemipterus , Podisma pedestri s); nei casi di massima riduzione alare, e conseguentemente del campo anale in particolare, le venature non sono più discernibili ed il terzo ascellare è rappresentato da una semplice granulazione chitinosa ( Chrysochraon dispar ). Anche quando si ha un microtterismo estremo, tale da essere con¬ siderato atterismo completo in sistematica, con tegmine ed ali entrambe vestigiali, minutissime e rappresentate da una tenue duplicatura mem¬ branosa, gli pteralia mantengono intatta la loro individualità, pure es¬ sendo ridotti al minimo compatibile con ali così rudimentali ( Podisma costai Targ.). Si allontanano invece dalle condizioni normali i Pamfagini mi- crotteri, con tegmine corte, strette e laterali ed ali vestigiali, la cui ar¬ ticolazione alare è caratteristica e si distingue nettamente da tutte le altre ( Pamphagus marmoratus Burm.). La membrana ascellare è ri¬ dotta ad una strettissima striscia coriacea, di notevole spessore, con la parete dorsale saldata alla ventrale, non più trasparente e molto resi¬ stente alla trazione; la brevità della membrana ascellare nel suo tratto posteriore vieta alle tegmine un ampio movimento. Gli ascellari, piccoli e ridotti, hanno una consistenza di poco superiore a quella della mem¬ brana ascellare e non è facile poterli distinguere nettamente da essa specialmente per quanto riguarda il terzo ascellare. Il primo ascellare, completamente fuso col noto, è ridotto ad una lieve convessità del mar¬ gine laterale del mesonoto in corrispondenza del secondo ascellare. Questo è il meno ridotto degli pteralia, presentando però solo una stretta lamina dorsale ed il processo ventrale, che è strettamente arti- colato col processo alifero della pleura. I parapteri pleurali sono sal¬ dati col resto delle pleure senza alcun tratto membranoso fra essi ed epimero ed episterno. Il tratto anteriore del margine superiore dell’e- pisterno mesotoracico è strettamente saldato col lato corrispondente della cresta notale anteriore (anterior notai ridge di Snodgrass). Un cenno a parte merita l’articolazione alare degli Acridiini: nelle tegmine la membrana ascellare è ben distinta e normalmente svilup¬ pata; i tre ascellari sono minutissimi e fortemente chitinizzati ; il se¬ condo ascellare presenta la caratteristica di essere saldato, col suo pro¬ cesso ventrale, con il processo alifero della pleura [Acrydium depressum (Bris.), A, subulatum (E.)]. L’articolazione delle ali non subisce al¬ cuna variazione nelle forme ad ali corte. Secondo quanto ho sopra esposto, gli scleriti ascellari e la mem¬ brana ascellare sono sempre presenti in tutti gli Ortotteri propriamente detti, per quanto possa essere spinta la riduzione degli organi di volo : infatti essi sono sempre presenti nelle tegmine di tutte le forme mi- crottere ed anche nelle ali vestigiali di quste stesse forine. Naturalmente, quando l’estrema riduzione dell’ala ( Podismo, costai) non consente la coesistenza di ascellari normalmente sviluppati, questi si riducono al massimo, fino ad essere rappresentati da semplici granulazioni. Ne con¬ segue, come del resto generalmente ammesso, che negli Ortotteri, bra chitterismo e microtterismo sono condizioni secondarie. È però un fatto di grande rilievo che, mentre le forme brachittere di Fasgonuridi ( Metrioptera se piu m ) e di Grillidi ( Qryllus desertus var. melos e Nemobius sylvestris ) e la maggior parte "degli Acrididi bra- chitteri e microtteri ( Chrysochraon , Chorthippus, Prionotropis , Oro - togonus , Zonocerus , Pezotettix e Podismo) da me esaminati presentano un’articolazione che ha l’aspetto normale dell’articolazione delle forme macrottere, si riscontra invece in tutte le specie microttere di Fasgo¬ nuridi ( Barbitistes , Poecilimon , Rhacocleis, Anterastes, Pholidoptera , Uromenus) e nei Pamphagus fra gli Acrididi, un mutamento profondo nella struttura dell’articolazione. Infatti gli individui di tali specie si trovano nell’impossibilità di usare per il movimento di apertura degli organi di volo, le articolazioni alari, anche se avessero le ali normal¬ mente sviluppate. Si distingue quindi un primo gruppo di forme in cui il brachitte- rismo si manifesta soltanto con un accorciamento più o meno spinto degli organi di volo ed un secondo gruppo, costituito da Fasgonuridi e Pamfagini microtteri, in cui il braehitterismo si manifesta, oltre che con un accorciamento delle ali, anche con una trasformazione dell’ar¬ ticolazione alare. Fra le specie del primo gruppo vi sono alcune ( Gryllulus melas , 56 — Chrysochruon dispai -, Podismo, pedestris , P. alpina «, ecc.) che presen¬ tano anche forme macrottere. Tale fenomeno, in seguito ai risultati delle ricerche di Zacher, Ramme, Nabours, Lutz, eoe. è considerato teme conseguenza delle variazioni delle condizioni ecologiche al di fuori di qualsiasi influenza ereditaria (Chopard). È senza dubbio da ascriversi alla stessa causa il brachitterismo delle altre specie del primo gruppo, se si tien presente che molte di esse appartengono a generi comprendenti pure specie macrottere (Mot rio pt era, Chorthippus, Prio - notropis. Podismo). Un cambiamento sostanziale e persistente delle condizioni ecologiche può, secondo me, spiegare il mancalo rinveni¬ mento di individui macrotteri in alcune specie macrottere di questo gruppo. Non credo che dello stesso tipo possa considerarsi il brachitterismo degli Ortotteri del secondo gruppo: non è possibile pensare che le va¬ riazioni ambientali abbiano potuto trasformare così notevolmente l’ar¬ ticolazione alare, nè si può pensare che ciò si sia prodotto secondaria¬ mente per ràccorciamento delle ali causato dal fattore ecologico (come aVviene per le venature), poiché ciò si sarebbe dovuto verificare per la totalità delle forme microttere, comprese quelle del primo gruppo. Aggiungasi il fatto (che di per sè non avrebbe però valore probativo per quanto detto sopra) che non si conoscono forme macrottere delle specie del secondo gruppo e che inoltre dei generi a cui esse apparten¬ gono non si conoscono nemmeno specie macrottere. Ne concludo che in questo gruppo, che annovera solo forme microttere, il brachitterismo è carattere facente parte del patrimonio ereditario della specie, non una semplice reazione dell’organismo ai fattori ambientali, ed è ma¬ nifestazione di un’ortogenesi regressiva. Si può spiegare così il fatto della inesistenza di forme macrottere in queste specie, in base alla legge dell’irreversibilità di Dollo ed alla conseguente asserzione di Cuenot (1) che « l’orthogénèse regressive est irreversible; si elle ne reste pas sta¬ ti onnaire, elle aboutit fatalement à la rudimentation ». Esisterebbero quindi, in ultima analisi, due tipi di brachitterismo: a) un brachitterismo e microtterismo fenotipici, non ereditari, semplici somazioni dovute a variazioni ambientali (discendenza ma- crottera, brachicela o microttera a seconda delle condizioni ecolo¬ giche) ; h) un microtterismo genotipico, ereditario, mainfestazione di un’ortogenesi regressiva, indipendente dall’ azione delle modificazioni dell’ambiente (discendenza sempre microttera). (1) Cuenot, L. La senése des espèces animales. 'Parie 1932), Nel caso di brachitterismo fenotipico, mi pare doversi ammettere con Salfi (1) che si tratti di un fenomeno dovuto a cause interne che si manifesti soltanto sotto l’azione di particolari condizioni esterne. Del tutto particolare mi sembra che sia il brachitterismo degli A- cridiini: in essi, giusta gli studi di Nabours su Paratettix texanus e quanto ho detto sopra circa la struttura morfologica normale della loro articolazione alare, le ali subiscono il brachitterismo fenotipico; le tegoiine viceversa non subiscono l’azione dell’ambiente e perman¬ gono sempre squamiformi o sono sempre assenti: in esse, come ho già detto, il secondo ascellare è saldato col processo alifero; le tegmine quindi mostrano un microtterismo genotipico ereditario. Nè deve sembrare strano questo comportamento indipendente delle tegmine e delle ali se si pone mente ad un fatto che mi pare degno di considerazione e che dimostra sufficientemente come le tegmine ed ali ìisentano in misura diversa delle spinte interne che, sotto razione o non, delle condizioni ambientali, provocano il brachitterismo e come le ali siano maggiormente sottoposte all’accorciamento che non le tegmine. Infatti, si riscontra sempre, che in individui soggetti ad uno stesso tipo di brachitterismo, le ali, in proporzione, si accorciano molto più delle tegmine e spesso, se non scompaiono addirittura, si riducono allo stato vestigiale; così, mentre nei Fanerotterini macrot- teri le ali superano nettamente le tegmine, esse sono quasi nulle nei miorotteri. A questa regola fanno eccezione solo apparentemente gli Acridiini ed il fenomeno sarebbe inspiegabile se non si ammettesse appunto che le tegmine subiscono una rudimentazione genotipica, mentre le ali manifestano una riduzione fenotipica. Istituto di Anatomia Comparata dell’ Università. (1) Salfi, M. Contribuzioni alla conoscenza degli Ortotteri libici. 3. Di al¬ cune specie cirenaiche di Mantidae , Pkasgonuridae e Locustidae. (Ardi. Zoo!, Ita!., 11, 1926). Sulla teoria elettronica della valenza NOTA III del socio Ernesto Pannalo (Tornata del dì 27 novembre 1946) Da quanto ho esposto nelle precedenti note (1) risulta: 1) che nei composti del carbonio, oltre i tre legami ionico , co¬ valente e di coordinazione , si presenta il legame benzenico , che risulta di tre elettroni, posti in comune da due atomi di carbonio, due da un atomo e uno dall'altro, caratteristico deW esagono benzenico , nel quale ogni atomo di carbonio è compreso tra due di tali legami: un atomo di carbonio inette in comune due elettroni con uno dei due atomi tra cui è compreso e uno con l’altro, e questi mettono in comune con esso rispettivamente uno e due elettroni; 2) che, mentre due atomi di uno stesso elemento si uniscono tra loro con legame covalente, per mezzo di un solo doppietto elettro¬ nico (cloro), di due (ossigeno) o di tre (azoto), e formano la molecola , due atomi di carbonio si uniscono con legame covalente per mezzo di uno, due o tre doppietti elettronici, formando un aggruppamento esa- valente , t-etr avalente o bivalente , le cui valenze devono essere satu¬ rate da altri atomi o gruppi atomici, perchè sì completi la molecola: per gli altri elementi il legame è tanto più solido quanto maggiore è il numero dei doppietti elettronici tra i due atomi, ma per il carbonio il legame triplo è meno stabile di quello doppio e questo meno di quello semplice A ciò è precisamente dovuto il caratteristico comportamento dei composti organici e la differenza tra paraffine, olefine, acetileni, ci- ciani e composti aromatici. Nell’esagono benzenico tra i sei atomi di carbonio si presentano sei legami benzenici , equivalenti tra di loro, d’accòrdo con i fatti spe¬ rimentali. Questi legami, come vedemmo, non hanno nulla in comune con i doppi legami coniugati delle diolefine, nè in essi figurano va¬ lenze residuali o parziali: sono tre elettroni, posti in comune da due atomi contigui, che costituiscono un particolare legame, che caratte¬ rizza la stabilità del nucleo benzenico . (1) v- a pagg0 29 e 38. — 59 — Per la equivalenza di questi sei legami, la formula del KekulÈ con i tre doppi legami alternati, quella centrica del Baeyer, quella diagonale del ClàUS e tutte le altre finora proposte non corrispondono alla struttura elettronica del complesso C(VH,;. La formula dedotta dalla teoria delle valenze residuali del Thiele, nella quale ad ogni lato dell’esagono si aggiunge un archetto, così i sei legami risultano equi¬ valenti, soddisfa a questa equivalenza, solo che quell’ archetto sta¬ rebbe a rappresentare un legame dovuto a valenze residuali, che in realtà non esistono, onde è da ritenersi un ripiego per mettere in evi¬ denza tale equivalenza. Come il legame ionico si rappresenta con puntini tra i due atomi, il legame covalente con un tratto pieno e quello di coordinazione con una freccia, propongo che il legame benzenico venga rappresentato dal lato deW esagono e da un trattino , lungo metà di questo lato, se¬ gnato parallelamente ad esso , nell' interno deir esagono ? per modo che la rappresentazione strutturale del benzene verrébbe a corrispondere alla figura 1 della tavola VII. Il legame benzenico , essendo costituito di tre elettroni, due di un atomo e uno dell' altro, si potrebbe considerare come un legame eovalente e mezzo: il doppietto elettronico sarebbe rappresentato dal lato deir esagono e il terzo elettrone dal trattino parallelo ad esso. Questa medesima simboleggiatura varrebbe anche per gli omo¬ loghi del benzene, per i composti polinucleari a nuclei coniugati, come il difenile, il difenilmetano, il tri e il tetrafenilmetano, ed ancora per i fenoli, l’acido benzoico, gli acidi ftalici, eoe.; cioè per tutti i com¬ posti che derivano dal benzene per sostituzione di uno o più atomi d’idrogeno con altrettanti atomi o gruppi monovalenti, perchè il fe¬ nile, — ‘Cf)H5, i fenileni, = (1) Ebner R, Orthopterologisehe Studiali in Nordwest Tiroh (Konowia XVI. 14, 1937). (2) Ramme W. Revision u. Neubeschreibungen in der Gaìtung Pholidoptera. CMitt, ZooP Mus. Berlin, XYI, 5. 1930). Azione dei microrganismi e dei parassiti sui dipinti murali Nota del socio Selirn Augusti (Tornata del 28 dicembre 1945 Sunto. — L’A. riferisce sull’azione nociva esercitata dai microrganismi e dai parassiti animali e vegetali sui dipinti murali e su di un caso particolare di grave danneggiamento di affreschi, in Firenze dovuto all azione combinata dei micror¬ ganismi ( batteri!, muffe) e di parassiti animali (insetti). Nella presente nota riporto i risultati delle mie osservazioni sul Tazione dei microrganismi e dei parassiti animali a vegetali sui dipinti murali, e riferisco in particolare sulle alterazioni osservate su dipinti murali, in Firenze, e dovute appunto a tale azione. I) Aziono dei microrganismi . I microrganismi (batterii. muffe) agiscono sui dipinti murali pro¬ ducendovi un’azione lenta, ma continua, sensibile ed inesorabile, di disgregazione. / batterii esercitano la loro attività disgregante sui dipinti mu¬ rali, sia con la produzione di salnitro (batterii nilrifieanti), sia con una azione di alterazione della sostanza, organica. I batterii infatti elaborano la sostanza organica delle tempere e quella proveniente da sostanze introdotte in operazioni di restauro (specie colle e gomme) e producono danni gravissimi, dovati all’alte¬ razione dello stato di coesione e compattezza del dipinto, con con¬ seguente disfacimento e polverizzazione dello strato pittorico. La so¬ stanza organica elaborata può inoltre diventare un terreno adatto di nutrizione per parassiti animali e vegetali, che concorrono all’altera¬ zione de! dipinto e ne accelerano il disfacimento. I batteri nitrificanti provocano la formazione di salnitro (nitrato potassico, K'NG3), die è causa diretta ed indiretta di alterazione dei dipinti murali : diretta quando viene a prodursi sulla superficie del dipinto, indiretta quando si limita al muro di sostegno del dipinto. — 69 — L’azione del salnitro si manifesta sia come azione meccanica di disgregazione e disfacimento dello strato pittorico, poiché altera la superficie cristallina di carbonato di calcio, che è quella che dà com¬ pattezza e resistenza al dipinto, e sia come azione chimica di altera¬ zione della composizione dei colori e di concorso alla formazione del nitrato di calcio (Ca(N03)2), che accompagna il carbonato di calcio nella formazione di efflorescenze bianche che si producono talvolta, sulla superficie del dipinto, danneggiandolo (1). Il salnitro è ancora causa indiretta di alterazione poiché, come sostanza azotata, fornisce un ottimo terreno di sviluppo per parassiti. L’azione batterica, in generale, può dar luogo inoltre alla formazione di sostanze che agiscono chimicamente sui colori e sugli altri compo¬ nenti dello strato pittorico. Le muffe , oltre all’azione generale di alterazione che si ricollega a quella che si manifesta in tutti i luoghi umidi, producono spesso sui dipinti dei veli bianchi, che ne imbianchiscono la superficie e ne alterano il valore dei rapporti cromatici. Nelle giornate umide lo strato di muffa diviene trasparente e la¬ scia chiaramente distinguere la pittura sottostante, mentre nelle gior¬ nate asciutte si forma il velo bianco, che nasconde il dipinto. Basta infatti alitare su questi veli perchè essi diano l’impressione di scom¬ parire, mentre dopo poco ricompaiono, per F asciugarsi del vapor d’acqua prodotto dalla respirazione (2). Le muffe inoltre, come i batterli, attaccano le sostanze organiche che, come si è detto sopra, possono trovarsi sul dipinto sia per effetto di sostanze adoperate dal pittore, nei processi a tempera, sia per so¬ stanze introdotte in operazioni di restauro, e le sostanze organiche ori¬ ginate dalLorganicazione dell’anidride carbonica dell’ aria, ad opera dei batterli nitrificanti (3). L’attacco delle sostanze organiche da parte delle muffe, specie quando questa avvenga accompagnata dall’azione dei batterii, il che si (1) In altro mio lavoro ho dimostrato che le efflorescenze bianche, che si for¬ mano' sulla superficie dei dipinti murali, e che vengono generalmente ritenute formazioni sainitrose, sono invece forniate da carbonato di calcio, al quale può accompagnarsi presenza di nitrato di calcio, oppure di nitrato di calcio e nitrato di potassio, se vi è presenza di salnitro. (2) Ho osservato molto spesso questo fenomeno su dipinti murali, ad es. sugli affreschi di Piero della Francesca, nella Chiesa di S, Francesco, in Arezzo. (3) La formazione di sostanze organiche ad opera dei batterii nitrificanti ha fornito la spiegazione di processi di alterazione là dove non vi era, e non doveva esservi, presenza di sostanze organiche originarie. ' verifica quasi sempre, può condurre a danni gravissimi, fino alla pol¬ verizzazione e caduta della superficie del dipinto. L’ azione prolungata delle muffe conduce all’ alterazione dello strato di colore, con formazione di minuscoli puntini neri, che detur¬ pano la superficie del dipinto (4). 2) Azione dei parassiti animali e vegetali. I parassiti animali, insetti in particolare, possono produrre dei danni gravissimi alla superfìcie del dipinto, alterandola meccanica mente ed imbrattandola con le deiezioni (5). L’azione di questi parassiti va spesso collegata a quella dei mi¬ crorganismi in quanto che questi, come già si è detto, elaborando la sostanza organica, preparano il terreno adatto alla nutrizione dei pa¬ rassiti stessi. I parassiti vegetali, nei luoghi molto umidi (il che purtroppo si verifica spesso nei dipinti murali) possono mettere radici sui muri di sostegno del dipinto, concorrendo direttamente ed indirettamente al danneggiamento del dipinto stesso. Su alcuni dipinti in luoghi umidi, specie negli ipogei, si rinviene spesso un fungo, volgarmente denominato « crittogramma », che logora rintonaco ed il colore e che si rivela sotto forma di piccoli punti neri die, asportati, lasciano dei forellini bianchi. 3) Azione combinata dei microrganismi e dei parassiti. Un. caso molto interessante, e purtroppo doloroso, di danneggia¬ mento grave dei dipinti murali è quello da me verificato sugli affreschi di Paolo Uccello, nel Chiostro Verde di S. M. Novella, in Firenze. All’atto dei miei sopraluoghi, nel 1942 (6), questi dipinti erano in tale stato di deperimento da potersi ritenere seriamente compro¬ messa la possibilità della loro ulteriore conservazione (7). Essi infatti erano in gran parte alterati, ricoperti da efflorescenze biancastre in buona parte della loro superficie, e presentavano rigonfiamenti e bolle. (4) Questo fenomeno è stato da me osservato e controllato su di un affresco di Filippo Lip'pi, nel Chiostro della Chiesa del Cannine, in Firenze. (5) Naturalmente qui si prescinde dalFazione di più grossi animali parassiti e.... dall’azione dell’uomo. (6) Per incarico di S. E. il Ministro della P. I., su richiesta del Direttore del- » 'Istituto del Restauro. (7) Questi dipinti sono stati successivamente restaurati dalFIslituto del Re¬ stauro, in Roma. Lo strato pittorico, in molti punti, era nettamente distaccato dal sub' strato sottostante, tanto da allontanarsene completamente e facilmente per lievissimo attrito, fino a ridursi del tutto in polvere. Si dimostrava in tal modo assoluta mancanza di coesione, sia della superficie in sè stessa, che rispetto allo strato sottostante. In taluni punti la massa era talmente incoerente da restare aderente alla parete soltanto perchè trat- Fig. 3. tenuta da ragnatele. Le pareti sulle quali erano siti gli affreschi presen¬ tavano caratteristiche molto evidenti di umidità e di formazioni sal¬ ii istrose. Su alcuni frammenti da me prelevati ho eseguito analisi microchi¬ mica, che mi ha dimostrato, oltre a normali componenti del dipinto e dell’intonaco, la presenza di carbonato di calcio, nitrato di calcio e ni¬ trato di potassio, a cui sono dovute le efflorescenze bianche riscontrate sulla superficie del dipinto. L’esame microscopico mi ha dimostrato presenza di hatterii, di filamenti di muffe e relative spore, nonché un numero eccezionalmente elevato di scaglie di insetti (figg. 1 e 2), che un esame dettagliato mi ha permesso di caratterizzare come appartenenti ad un Lepisma (Tisa- nuri). Si osservano inoltre (come si rileva dalle fotomicrografie ripor¬ tate) peli e frammenti di organi, che vanno attribuiti a piccoli aracnidi, la cui presenza vien confermata daH’aver riscontrato in alcuni prepa¬ rati microscopici, allestiti con il materiale prelevato, la presenza di spoglie di cpiesti animali (fig. 3), derivanti da mute effettuate in un periodo della loro esistenza. L’attacco della sostanza organica da parte dei batterli e delle muffe ha prodotto il disfacimento della superfìcie del dipinto, con le gravi conseguenze sopra descritte, cui hanno contribuito gli insetti (lepisma) che di tale sostanza organica elaborata si sono nutriti e che dovevano essere in gran numero ed aver vissuto lungamente su questi dipinti per avervi richiamato degli aracnidi, dei quali a loro volta sono diven¬ tati preda. Roma - Laboratorio Chimico deli’ Istituto Centrale del Restauro. Sitila inopportunità dì modificare la nomenclatura classica tradizionale delle fasi vulcaniche Nota del socio Prof. Giovan Battista Àìfano (Tornata del dì 29 maggio 1946) Rittmann nella sua opera cc I Vulcani» (Napoli, Politecnica, 1944) da pag. 5 a pag. 78, e interpolatamente nel libro, e poi Ippo¬ lito in una sua comunicazione presentata all9 Accademia Pontificia del¬ le Scienze (Acta voi. IX, n. 18, pag. 187-196) il 7 ottobre 1944, col titolo: « Sulla sistematica dell’ attività vesuviana », si sono- adoperati a dimostrare l’inesattezza della nomenclatura classica tradizionale delle fasi vulcaniche: pliniana , lumai jana, vulcaniana 9 stromholiana , pe- léana, ischiana ecc. ed hanno ritenuto opportuno modificarle e sosti¬ tuirle con altra nomenclatura che corrisponderebbe meglio ai concetti e ai fenomeni che si vogliono indicare. Rittmann, ripudiando i concetti e le nomenclature usate da va 1 orosi vulcanologi, li a ammesso trenta due condizioni differenti, in cui può trovarsi un vulcano attivo. Ho detto condizioni di mia iniziativa, perchè Rittmann non ha dato nessuna denominazione al riguardo. Queste treiìtadue condizioni sono riunite ili sette categorie; (anche questa denominazione non è stata usata: il Rittmann si è servito sem¬ plicemente della t scoanpartimentazioiie tipografica). 1) Attività permanente diffusa; 2) attività permanente centrale; 3) attività eruttiva lenta ; 4) eruzioni improvvise a condotto aperto; 5) eruzioni iniziali , 6) perforazióni iniziali; 7) eruzioni lineari. Per la seconda categoria forse Rittmann voleva dire : attività per¬ manente localizzata. Nella terza categoria Rittmann lia messo le eruzioni effusive; ed avrebbe fatto meglio a chiamarle così. Non s’intende però come in que. sta categoria vadano le nubi ardenti del Pe/ée, che sono un fenomeno tutto esplosivo. Nella quarta categ. Rittmann tra le eruzioni improvvise ha cata- c — 75 — legato le eruzioni laterali ed eccentriche del Vesuvio (tipo 1906 e 1760) e quella dell’Etna. Ma anche le eruzioni vesuviane del 79 e dei 1631. furono improvvise . Nella settima categ., ossia denominazione: eruzioni lineari , pre¬ domina, come indica la dicitura usata, il carattere morfologico; e quin¬ di si genera confusione nella mente dello studioso, perchè nelle altre categorie predomina il carattere dinamico. Magari occorreva anche nelle altre categorie includere qualche carattere morfologico, e così si sarebbe presentata una classificazione morfologica e dinamica insieme. Veniamo un poco ai particolari. Alla denominazione eluizione piini una, RittmàNN ha sostituito quella di perforazione iniziale : che può avvenire o senza condotto (M. Nuovo), oppure con condotto ostruito (Vesuvio 79). Alla denominazione esplosione hawaijana ha sostituito eruzione terminale elettiva o attività di lago di lava (Vesuvio 1779). Alla voce stromboliana (la più bocciata) Rittmann ha opposto la denominazione: attività di lancio di scorie e di lave. Alla voce esplosione vulcaniana (in verità poco presa in conside¬ razione) ha opposto quella di eruzione iniziale esplosiva a condotto ostruito (Vulcano 1888). Gli efflussi laterali vesuviani rapidi, tipo 1906, sono stati detti : eruzioni laterali, improvvise. E così dì seguito. Ritengo opportuno fare un po’ di difesa delle principali, deno¬ minazioni condannate alla epurazione. 1) La denominazione veramente classica di eruzione o esplo¬ sione plintana, che ricordava la vittima più illustre dell’eruzione ve¬ suviana del 79 e le lettere di suo nipote Cecili o, è stata senz’altro abo¬ lita e sostituita dal termine perforazione iniziale a condotto ostruito. Eppure si doveva pensare che se il condotto era ostruito la perfora¬ zione non poteva più considerarsi iniziale , perchè il condotto già e- sisteva. 2) La nomenclatura tradizionale avea usato la denominazione di efflusso hawaijano , oppure di esplosione hawaijana , per indicare che il magma emesso, sotto forma di colata o come materiale piroclastico, è estremamente fluido, come è il magma dei vulcani Kilauea e Manna Loa nell’isola Hawai. Cascate di fuoco negli efflussi e fontane di fuoco nelle esplosioni sono fenomeni caratteristici di questi vulcani. Nulla di errato quindi se queste forme eruttive si riferiscano ad altri vulcani quando vi è so¬ miglianza di attività. Rittmann, e la sua scuola, ha preferito la denominazione eru¬ zione elettiva , che, in verità, dice poco, perchè non richiama affatto ij concetto di efflusso continuo o di getto continuo di lava molto fluida; 76 — mentre Ja denominazione kawaijana ricorda appunto tale modalità che, come si è detto, è così frequente nei vulcani Manna Loa e Ki lanca. 3} La denominazione esplosiva stromholiana ha incontrato la maggiore opposizione. Per esplosione stromholiana , la nomenclatura tradizionale intende la proiezione di materiale piroclastico autogeno, neogenico, fluido, allo stato di incandescenza, proveniente direttamente dalla parte su- per’ficiale del magma in contatto con l’atmosfera nella porzione ter minale del condotto. La natura dei prodotti di queste esplosioni fa però supporre un magma molto meno fluido di quello delle esplosioni hawaijane. Le esplosioni seno più o meno ritmiche, e ordinariamente mode¬ rate; ma non rare volte sono aritmiche, intensissime, parossismali. Poiché furono classicamente descritte da Spallanzani quando vi¬ sitò lo Stromboli nel 1778. così ebbero da Stoppani il nome di esplo¬ sioni stromholiane. Con ciò non si vuole escludere che allo Stromboli non avvengano efflussi lavici, molto limitati però, o non si abbiano eiezioni di mate¬ riale non coevo, solido, metagenico o paleogenetico. La maggior parte dei vulcanologi, • specialmente quelli della scuo¬ la italiana e della scuola francese, hanno adottata questa denomina¬ zione, e la seguono tuttora, non perchè siffatte esplosioni sono escili sive dello Stromboli, o perchè allo Stromboli non avvengano altre manifestazioni che quelle, ma perchè tali esplosioni in altri vulcani sono simili a quelle che sono così frequenti allo Stromboli. Ingomma non si può negare che tali esplosioni rappresentino Cat¬ tività abituale e secolare dello Stromboli. Questione di intendersi sulla nomenclatura con un po’ di buona volontà. Rittmann (op. cit., p. 21) chiama queste esplosioni': attività dì lancio di scorie e di lava , diluendo inutilmente la denominazione. 4) In poco conto sono state tenute le denominazioni delle esplo¬ sioni vulcaniane e ultravulcaniane , le quali includono un concetto di¬ namico non trascurabile. Per esplosioni vulcaniane la scuola tradizionale intende esplosioni, per lo più aritmiche, di materiale piroclastico neogenico, ma solido o quasi solido, caldissimo, la cui incandescenza è appena visibile soltanto di notte. Nel vulcano che dà esplosioni di tale tipo, il magma non è in di retto contatto con l’atmosfera, perchè la parte terminale del condotto è, tra una esplosione e la successiva, più o meno ostruita, sia dai ma¬ teriali solidi ricadenti dopo l’esplosione immediatamente precedente e non rifusi, sia dal magma che parzialmente e rapidamente solidifica e si raffredda, rinsaldandosi nella gola del vulcano, dato il suo punto alto di fusione. Onde tra un'esplosione e la seguente si ha una calma effimera al cratere, fino a quando gli aeriformi del condotto non acqui¬ stano la tensione sufficiente a disostruire il tappo. Queste esplosioni furono caratteristiche dell’isola di Vulcano (Eo¬ lie) nel periodo eruttivo 1888-1890. Ma si riscontrarono anche al Ta- raivera (N. Zelanda) nel giugno 1886; alla montagna Pelée e a St. Vin¬ cent (Piccole Aoti Ile) nel 1902; a Sant orino negli anni 1866-1870; al Calbuco (Cile) nel 1893; al Te. Meni (N. Zelanda) nel 1892 e 1896, tutti vulcani trachitici o andesitici. Rittmann, e la sua scuola, pare che non abbiano preso molto in considerazione siffatta modalità di esplosioni, che hanno luogo quando il magma ha un alto grado di fusione. Le esplosioni ultravulcaniane sono di tipo di quelle vulcaniane, ma il materiale eiettatoT pur sempre caldissimo, è ancora meno in¬ candescente, perchè formato da magma di punto eli fusione ancora più alto. Si verificano nei vulcani ultraacidi, o il cui magma si trovava in condizione ultraacida. Diedero esplosione ultravulcaniane l’isola di Nisiros (Egeo) nel 2 giugno 1873; V Azuma-San (Giappone) nel maggio giugno 1893; il Bandai-San (Giappone) 1888; il Tur rialba (Costarica) nel 1864, 65, 66; il Galounggoung (Già va) nel 1822 e il 1894; il Te Mari (Nuova Zelanda) nel 1892 e nel 1896. 5) Gli efflussi laterali rapidi, tipo 1906, sono stati detti: eruzioni dai fianchi (o laterali) improvvise. Perche improvvise ? Eppure Mer- calli attendeva da anni l’efflusso laterale vesuviano del 1906. Forse sono state chiamate improvvise tali eruzioni perchè avvengono senza prodromi premonitori, varrebbe, per esempio quella dell’ 8 maggio 1902 alla Montagna Pelée. Ma del resto è discutibile se le eruzioni del tipo 1906 avvengano senza prodromi. Si legga a tal proposito l’opera di Mercalli : I vulcani attivi della terra (Milano, 1907) a pag. 96, 157 e altrove. Inoltre la semplice denominazione di eruzione dei fianchi è in completa. Un’eruzione laterale qualsiasi, o, come si vuoi proporre, dai fianchi , può essere non solo effusiva, ma anche esplosiva; ma dalla denominazione proposta non si comprende se le eruzioni vesuviane tipo 1737, 1822, 1850, 1872, 1906 e le altre simili, siano state esplosive o effusive. Un’eruzione laterale può essere anche esclusivamente esplosiva. Dai 200 e più coni laterali del VEtna non tutti sono sorti per eruzioni laterali effusive, ma alcuni anche per eruzioni esclusivamente esplo¬ sive (1764, 1811, 1812 ed altre). Intanto nella denominazione di clas¬ sifica dei fenomeni, 1’ Ippolito, nella sua citata commi 'cazione, ci ani- monisce che bisogna evitare confusioni. Si noti inoltre che nelle eru¬ zioni 1906 non è soltanto l’apparato laterale che dà carattere all’eru¬ zione, quanto anche il complesso dei fenomeni imponenti esplosivi che avvengono al cratere. Ogni eruzione tipo 1906 è laterale effusiva ed è terminale esplosiva. Poiché il Vesuvio dal 1737 ha dato 9 eruzioni di tale tipo (1737, 1767, 1822, 1834, 1839, 1850, 1868, 1872, 1906) così Mercalu chiamò tale forma di eruzione col nenie di vesuviana tipica ( Elementi di geografìa fisica, Milano, Vallardi, 1918). È vero che Rittmann e la sua scuola distinguono le eruzioni laterali del Vesuvio in eruzioni senza fase di cenere (1855) o con la fase di cenere (1906), ma non pare che la de¬ nominazione di fase di cenere sia sufficiente a fare intendere lutto il complesso delle esplosioni parossismali clic seguono al cratere dopo l’efflusso lavico laterale. 6) ha fase solfatariana è stata detta attività solfatarica ; quella ischiana è stata detta attività fumar olica ; il che fa pensare che la Sol¬ fatara di Pozzuoli ed Ischia non siano vulcani quiescenti, come riten¬ gono la massima parte dei vulcanologi, ma vulcani attivi . Cade quindi la distinzione, molto logica e pratica, dei vulcani attivi , quiescenti e spenti, senza che se ne veda la necessità. Questo può bastare per dare un’idea dell’azione distruttiva, più che costruttiva, compiuta nella vulcanologia dai surriferiti studiosi. Intanto lo stesso Rittmann, che, secondo le sue idee, rifugge dal- l’usare denominazioni che si riferiscono a tipi di vulcani, nello stesso volume suo: I Vulcani . a pag. 40 e 41, nella didascalia di alcune figure rappresentanti differenti forme di nubi ardenti, aggiunge la dicitura: tipo Pelée 9 tipo Souf rière de St. Vincent, tipo Meràpi, tipo Stromboli. Quindi si appella a vulcani speciali per indicare speciali condizioni fenomeniche, nè più nè meno come i vecchi vulcanologi si erano ap¬ pellati allo Stromboli, a Vulcano, al Vesuvio, al Pelée, al Kilauea, per indicare fenomeni non esclusivi, ma più abituali in detti vulcani; per denominare forme di eruzioni più caratteristiche dei detti vulcani, coi nomi di hawaijane, stromboliane, vulcaniane , peleane 9 che vole¬ vano dire tipo Hawaij, tipo Stromboli, tipo Vulcano, tipo Pelée. Nien¬ te di antiscientifico, nè confusionismo. Invece da parte di Rittmann rileviamo una contradizione per il proposito fatto di non volere usare denominazioni che si riferiscano a vulcani particolari. — 79 — Intanto viene alla luce un altro lavoro di uno studioso della scuola di Rittmann. LIng. Felice Ippolito ha pubblicato una nota: cc Sulla sistematica dell' attività vesuviana » (Acta Pontificiae Academiae 'Scien- ti arimi, Voi. IX, N. 18, pag. 187-190). In questo lavoro I’Ippolito fa inoltre rilevare che le classifiche delle manifestazioni vulcaniche proposte da Rittmann nei lavori del 1937 e 1944, e una classifica dell’attività del Vesuvio pubblicata dallo stesso Rittmann nel 1934, si sono dimostrate insufficienti ed hanno richiesto delle modifiche. Questa duplice ricognizione, fatta da un fervido Seguace della scuola di Rittmann, mentre da una parte ci dimostra la onestà di questi studiosi, da altra parte ci rende perplèssi sulla sufficienza ed opportunità di ulteriori proposte provenienti dai medesimi Autori e ci conferma le nostre opinioni sulla inutilità di demolire i concetti tradizionali. Faccio seguire alcune; mie osservazioni sul lavoro di Ippolito. 1) L’Ippolito fa notare a la difficoltà grave che hanno incontrato i vulcanologi allorché hanno tentato di stabilire una sistematica del¬ l’attività vulcanica o). A me pare che la difficoltà vi è, ma che non è stata inai grave. 2) Lo stesso Autore ricorda che Mercalli fu il primo a stabi¬ lire l’antica nomenclatura; ma è in equivoco, perchè fu STOPPANI, mae¬ stro di Mercalli. Basta leggere il Bel Paese dell’illustre geologo Ione bardo. 3) Ippolito dice che le ricerche moderne richiedono tale modi¬ fica. Io avrei detto: le vedute moderne; ed aggiungo, come vado di¬ mostrando, che non tutti i vulcanologi vedono egualmente le ragioni di queste modifiche: quindi si tratta di reclute particolari. 4} L’A. fa notare che tutti i vulcani presentano nella loro atti - vità eruzioni di specie diverse. Io domando : ma proprio tutti i vul¬ cani? Anche il Pelée , anche il Krakatoa , anche il M. Nuovo nella sua breve vita! 5) L’A. scrive che è preferibile cambiare nomenclatura; io. mo¬ destamente avrei scritto: sarebbe preferibile, sembra preferibile , 6) L’A. aggiunge che con tale modifica si evitano confusioni ; a me pare che tali confusioni non vi sono; i libri di Mercalli rifulgono per ordine e chiarezza, scritti allo scopo di farsi capire e di istruire. 7) L’A. dice che è opportuno bandire (vocabolo assolutistico!) tali denominazioni di carattere geografico , ed io mi permetto di dire: niente affatto geografico, ma dinamico. — 80 — 8) Intanto Voi della nuova scuola siete tanto attaccati ad altre denominazióni geografiche: magma, vulcani di tipo atlantico , di tipo pacifico , di tipo mediterraneo. Queste sono denominazioni geografiche; le quali, quod peius , non corrispondono che molto lontanamente alla realtà, non hanno che un minimo rapporto con il concetto che vo¬ gliono indicare; ed è proprio il caso di dire che generano una vera confusione, per le notevoli eccezioni delle quali bisogna tener conto seguendo quella nomenclatura. 9) Ippolito scrive che occorre tentare di stabilire una sistema¬ tica, nella quale ogni denominazione definisca, magari convenzional¬ mente , (sottolineato da me) il carattere della manifestazione vulcanica. Ma non sono convenzionali anche le denominazioni della vecchia scuo¬ la? Tutti i vecchi vulcanologi (se è giusto chiamarli così) le hanno seni pre usate per convenzione 9 tacitamente accettata. 10) Inoltre, scrive I’Ippolito, « il classificare l’attività del Ve¬ suvio presenta difficoltà notevoli, perchè, come è noto, questo splen¬ dido vulcano non è, come volgarmente (ho sottolineato io) si ritiene, il prototipo degli edifizi vulcanici; ma anzi uno dei meno comuni ». Osservo io, quali sono stati questi vulcanologi, che volgarmente hanno creduto che il Vesuvio sia uno dei vulcani più semplici o il prototipo degli edifizi vulcanici? tutti hanno detto (die, morfologicamente con¬ siderato, il Vesuvio può essere il prototipo dei vulcani a recinto , e basta, e niente altro. 11) Segue ancora Ippolito: « In primo luogo il Vesuvio non è un edilìzio vulcanico semplice, bensì un vulcano misto » e questo lo sape¬ vamo. Ce ne parlarono molto bene nei loro lavori Johnston-Lavis, Mercalli ed altri. 12) Inoltre scrive il su riferito Autore: «il Vesuvio , precisa¬ mente, è un vulcano a strato, composto, con successione inversa; per¬ chè la successione delle forme costruttive è ivi inversa di quella dei normali vulcani composti ». Avremmo desiderato degli esempi di vulcani a strato, composti con successione diretta. Ma, domando io, è proprio una legge ben definita, ben dimo¬ strata, che nei vulcani composti vi sia prima una fase basica e poi quella acida? ossia, come dice TA. una successione diretta? Non mi pare. In alcuni vulcani il magma da acido diventò basico proprio come al Somma Vesuvio: nel Tarawera, nell’isola di S. Paolo, nell’Etna, nello Stromboli, in Pantelleria. In altri vulcani, invece, il magma fu prima basico e poi acido: nei colli Euganei, in Islanda, nel Lourons di Giava, nel Popocatepetl. In altri vulcani il magma fu prima acido, poi basico, poi di nuovo acido: a Santorino, nel Krakatoa. In altri il al - magma fu prima basico, poi acido, poi di nuovo ]>asico: in Rocca- re enfio a ; in alcuni Puys dell’Alvernia. E 'finalmente in altri iì magma ha subito variazioni più complicate : l’isola Vulcano diede trachi an- desiti acide al Monte Lentia;* andesiti e basalti al cratere del Piano; an- desiti e doleriti alla Fossa; andesiti e leucobasaniti a Vulcanello. rio- liti e tradì iandesiti alla Fossa. Quindi, pare, che la successione sia stata la seguente: prodotti prima acidi, poi basici, poi di nuovo acidi, poi di nuovo basici, e finalmente un’altra volta acidi. Anzi il Vulcano Réunion nel 1874 diede efflusso terminale di magma acido ed efflussi laterali di magma meno acido, mentre abitualmente questo vulcano è basaltico. Ne concluderemo che il magma dei vulcani varia sia nello spazio che nel tempo, e che non vi è una legge fissa nella successione dei magmi, o almeno non la conosciamo. 13) L’A. continua: et Nel Vesuvio e in altri vulcani ad esso af¬ fini si osserva una fenomenologia affatto diversa ». Si prega di nuovo di riferire esempi di questi vulcani affini, se si vuole istruire i lettori, e anche per documentare ciò che si dice. 14) L’A. ha dichiarato di usare i termini di esalazione od effu¬ sione per l’emissione tranquilla e continua. Si intende: dei gas nel primo vocabolo e di lava nel secondo; ma dall’enunciato non appare questa distinzione. Anzi apparirebbe che si possa usare indifferente¬ mente l’una o l’altra denominazione. 15) Col nome di lancio l’A. intende V emissione ritmica. Emis¬ sione di che cosa? e perchè ritmica? forse perchè ininterrotta, o a periodo eguale? meglio essere più chiaro. 16) Col nome di eiezione l’A. intende l’emissione violenta e con¬ tinua (di che cosa?). 17) Col nome di esplosione l’A. intende l’emissione violentissi¬ ma e breve. Qui evidentemente si intende: esplosione di gas e vapori. Ma precedentemente le indicazioni, ripeto, generano equivoco; mentre l’intento dell’A. è proprio di evitare equivoci , e di stabilire una no¬ menclatura precisa. 18) Non mi pare poi esatta la distinzione tra fenomeno centrale e fenomeno terminale , intendendo per centrale quel fenomeno che av¬ viene alla bocca principale, e per terminale quello che avviene in una bocca effimera nel cratere. A me pare che il vocabolo terminale sia più largo di centrale. Ogni fenomeno che avviene alla cima del vulcano e nel cratere è terminale. Se avviene alla bocca principale, è questa è centrale o quasi, allora il fenomeno è centrale. 19) L’ Ippolito avverte che nella nuova nomenclatura da lui pio- posta ha creduto restringere la denominazione di eruzione ai casi di 6 attività parossistica, quando si succedono a breve distanza, o anche' quando si sovrappongono più elementi di attività. 10 invece sarei dèll’opiniòne che è più opportuno allargare i! concetto di eruzione. Per eruzione io intenderei tutto Pinsieme delle manifestazioni che accompagnano restrinsecazione di masse magmatiche solide, pastose e gassose, e di energia termica dall’interno all’esterno della terra. Tutto ciò non avviene nè in un istante, nè in una forma semplice, ma con un complesso di fenomeni più o meno complicati,, più o meno imponenti, costruttivi e distruttivi, che variano da una eruzione al¬ l’altra. Questi diversi fenomeni possono essere: efflussi di magma; eie¬ zione di materiale frammentario, per lo più incandescente; esalazione di sostanze gassose o di vapori; boati, detonazioni, fiamme, scariche elettriche, terremoti, maremoti, aeremoti, bradisismi ed altri feno¬ meni ancora. 11 concetto di eruzione è analogo a quello di terremoto. Per terremoto infatti si intende tutto l’insieme di fenomeni che accompagnano la manifestazione all’esterno della litosfera di un urto avvenuto nell’interno di essa. La scossa sismica è uno dei fenomeni di un terremoto; altri fe¬ nomeni possono essere: maremoto, boati, crepacci del suolo, varia zioni nelle sorgenti, lampo sismico, disturbi magnetd elettrici ed altri. Quando infatti si cita il terremoto di Messina del 28 die. 1908 , oltre l’evento storico, in sismologia si vuole intendere il complesso di tutti i fenomeni concomitanti quell’avvenimento: scosse sismiche, maremoto, lampo sismico, modificazioni dello stretto, sprofondamen¬ ti ecc... Similmente quando si dice: V eruzione del Vesuvio del 1906, si deve intendere l’insieme di tutte le manifestazioni che si ebbero in quella occasione: i fenomeni precursori, le lesioni del conetto intercra- terico} la formazione dei crepacci sulle pareti dei Gran Cono; gli ef¬ fluvi lavici che ne vennero fuori, le violenti esplosioni al cratere; la decapitazione dell’edifizio vulcanico; la caduta delle ceneri; le scosse sismiche concomitanti, i torrenti di fango e così di seguito. Quindi ogni eruzione è un complesso di fenomeni principali e secondari che vanno studiati prima separatamente, analiticamente, poi sinteticamente, allo scopo di avere un concetto chiaro e completo del fenomeno totale, dell’eruzione avvenuta. Fenomeni principali sono: gli efflussi lavici e le esplosioni . Ne segue una clasificazione molto logica delle eruzioni: in effu¬ sive o esplosive secondo che predomina l’uno o l’altro fenomeno. Eruzioni miste possono dirsi ej fjusive-esplosive. Vengo ora alle denominazioni e alle caratteristiche date per i principali tipi di eruzioni del Vesuvio secondo la nomenclatura di Ippolito. 1) L’A. chiama eruzione plioiana quella del 79. Manco male, questa denominazione si è salvata; Rittmann l’aveva già bocciata, sostituendola con la denominazione: perforazione iniziale a condotto ostruito. k: 2) Ippolito, seguendo Rittmann, chiama eruzione elettiva l’ eru¬ zione vesuviana del Maggio 1900, che Mercalli classificò tra le eru¬ zioni stromboliaiiè parossismali , non rare al Vesuvio (1652, 1660, 1682, 1707, 1900). Con la parola elettiva forse questi studiosi si appellano al voca¬ bolo eiezione , con cui intendono un’emissione violenta e continua. In¬ vece l’eruzione del 1900 fu violentissima. 3) Inoltre i due sullodati A., indicando le caratteristiche di questa eruzione la dicono: senza fase di cenere. Leggiamo invece ciò che scrisse l’accurato e coscienzioso osser¬ vatore che fu Mercalli : « verso le ore 11 del 13 Maggio 1900, ad in¬ tervalli molto regolari, si alzavano dal cratere alti pini di fumo denso, talvolta quasi nero, per la gran quantità di cenere e di pietre di cui il pino era carico ». (( Dopo le esplosioni più forti la cenere cadeva fitta da oscurare l’atmosfera (figura fotografica) ». Mercalli denominava tali esplosioni vulcaniane , ma questo vo¬ cabolo è stato bandito dalla nomenclatura moderna; anzi, a quanto pare, le esplosioni di tale tipo non sono state prese in considerazione, da questi studiosi, come già ho detto. Lo stesso Mercalli assicura che queste emissioni di pini di cenere durarono dal 13 al 31 maggio, e furono frequenti anche nel mese seguente ( Notizie vesuviane , Gen¬ naio-giugno 1900. Boll. Soc. Sism. Ital., Voi. VI, 1900 1901, N. 6, pag. 155-156). 4) Ippolito ritiene che l’eruzione del 1779 sia stata quasi dello stesso tipo di quella del 1900; e che ci sia stata differenza soltanto perchè in quella del 1779 vi fu la fase della cenere, e non in .quella del 1900. Invece, come già ho detto, la cenere vi fu anche in quella del 1900. Piuttosto l’eruzione del 1779 differì da quella del 1900 per le fontane di fuoco , per i getti di lava (vera fase hawaijana esplosiva ), che invece mancarono nel 1900. Difatti nè Mercalli, nè Matteucci — M — parlano di fontane di lava nell’eruzione del 1900; un fenomeno di tanta importanza non sarebbe sfuggito. 5) L’eruzione del 1929 è detta da Ippolito: eruzione effusiva terminale; quindi, se vogliamo attenerci alla denominazione, avrebbero dovuto aversi soltanto efflussi di lava da bocche effimere, intercrate- riche; niente esplosioni, niente fontane di lava, che invece vi furono; la denominazione della vecchia scuola avrebbe detto: eruzione ha - waijana effusiva-esplosiva , ed avrebbe detto tutto. 6) Della eruzione de I i’ 1 1-13 settembre 1810 I’Ippolito si serve per paragonarla a quella del 1929. Ma dell’eruzione 1810 poco sap¬ piamo. Alcune notizie sono date da Auldio J. in Vues du V ésuve uvee uri précis de ses éruptions principales. Naples, Glass, 1832, pag. 70, il quale scrisse nel 1832, e non riferisce donde abbia appreso le no¬ tizie; nè il suo libro dà mai notizie bibliografiche o di fonti originali. Forse I’Ippolito si è ispirato alla figura dell’eruzione del 1810 ripor¬ tata nel volume di Alfano e Friedlaenber. La storia del Vesuvio. Ulm. 1929, Tav. 35; ma da una figura fatta da ira acquarellista poco si può argomentare. (Si noti anche lo sbaglio della data ai piedi della figura, dove è scritto dicembre invece di settembre ). Oppure FIppo lito si è riferito ad una notizia di Rittmann riportata nella tav. Ili dell’opera « I Vulcani ». Ma io penso che ivi la data 1810 sia affetta da errore di stampa, e che l’autore abbia voluto scrivere 1811; perchè difatti il segno convenzionale corrisponde meglio a tale anno nel rias¬ sunto delle eruzioni dato in detta tav.; della quale eruzione pure ab¬ biamo poche notizie dal su ricordato Auldio nella medesima opera, in seguito a quella del 1810; ma, ripeto, non abbiamo notizie con¬ temporanee. Quindi non è facile classificare l’eruzione del 1810. Riporto in ultimo uno specchietto che comprende le principali eruzioni del Vesuvio classificate prima con la nomenclatura classica tradizionale e poi con la nomenclatura proposta, per domandare, non dico a studiosi dilettanti, ma a tecnici di vulcanologia quali denomi¬ nazioni siano più opportune, più adeguate, più semplici e più chiare. Nomenclatura tradizionale Nomenclatura proposta Perforazione iniziale a condot- 79 Eruzione pliniana esplosiva. dotto ostruito (Rittmann). Eruzione pliniana flPPOLlTo). 1631 Eruzione pliniana esplosiva, effusiva. Eruzione iniziale a condotto o- struito. 1652 Parossismo Stromboli ano (ti¬ po 1900). Eruzione elettiva centrale, senza la fase di cenere. 1660 Parossismo stromboliano (ti- po 1900). 1694 Efflusso lavico terminale ex- iracraterico. 1707 Parossismo stromboliano (ti¬ po 1900). 1737 Eruzione vesuviana tipica (t. 1906). 1754 Efflusso laterale hawajano (t. 1855). 1760 Eruzione etnea (o eccentrica). 1767 Eruzione vesuviana tipica (t. 1906). 1779 Eruzione esplosiva termina¬ le, hawajana. 1794 Eruzione etnea (o eceen- trica) (t. 1760). 1810 Efflusso subterminale (con fase di cenere?). 1822 Eruzione vesuviana tipica (t. 1906). 1934 Eruzione vesuviana tipica (t. 1906). 1850 Eruzione vesuviana tipica (t. 1906). 1855 Eruzione effusiva laterale, liawaijana. 1861 Eruzione etnea (tipo 1760). 1872 Eruzione vesuviana tipica (t. 1906). 1891-94 Eruzione effusiva, latera¬ le, lenta. 1895-99 Eruzione effusiva laterale lenta (tipo 1891-94). 1900 Parossismo stromboliano. 1903-04 Eruzione effusiva laterale lenta (tipo 1891-94). Eruzione eiettiva, centrale, senza la fase di cenere. Efflusso lavico, centrale. Eruzione eiettiva, centrale, senza la fase di cenere. Eruzione dai fianchi con fase di cenere. Eruzione dai fianchi, senza la fa¬ se di cenere. Eruzione eccentrica. Eruzione dai fianchi con fase di cenere. Eruzione terminale eiettiva con fase di cenere. Eruzione eccentrica. Eruzione terminale effusiva, con fase di cenere. Eruzione dai fianchi, con fase di cenere. Eruzione dai fianchi con fase dì cenere. Eruzione dai fianchi con fase di cenere. Eruzione dai fianchi senza fase di cenere. Eruzione eccentrica. Eruzione dai fianchi con fase di cenere. Eruzione dai fianchi, lenta. Eruzione dai fianchi, lenta. Eruzione eiettiva centrale senza la fase di cenere. Eruzione dai fianchi, lenta. — 86 — Eruzione dai fianchi con fase di cenere. Eruzione terminale (1) effusiva, senza la fase di cenere. Eruzione terminale (1) effusiva, con la fase di cenere. Concludendo: a me pare che non è affatto opportuno, nè neces¬ sario, modificare le denominazioni classiche tradizionali, che indicano le fasi delle eruzioni del Vesuvio e degli altri \ulcani. Le denominazioni antiche, sono state seguite da Mercalli, Joiin- ston-Lavis, Matteucci, Lacroix, Perret, Malladra, Maurice, Ro- mer, Escher, Ktenas, De Quervain, Ponte ed altri, tutti uomini di indiscusso valore scientifico. Costoro non* hanno creduto opportuno modificare l’antica nomenclatura, anzi Thanno ritenuta utilissima per esprimere con una sola parola ( convenzionale , si intende) un concetto, un fenomeno, o un insieme di più fenomeni. In ogni modifica vi deve essere un vantaggio. A me pare che la nuova nomenclatura, più che semplificare le idee, riesca a complicarle notevolmente, e non raggiunge lo scopo che si sono prefisso gli egregi studiosi ai quali mi sono permesso di sottoporre queste mie modeste osservazioni. I £ 1906 Eruzione vesuviana tipica. 1929 Eruzione effusiva-esplosiva, terminale, hawajana. 1944 Eruzione effusiva-esplosiva, terminale, hawajana. \1) Ossia da una bocca effimera del cratere. Contributo alla conoscenza del fungo parassita Blastocystis hominis Brumpt Nota del socio Pietro Parenzan (Tornata del 26 giugno 1946) Nelle feci di soggetti che accusano disturbi intestinali, ed anche di molti a funzione intestinale normale, si notano con grande frequen¬ za certi corpuscoli tondeggianti od reiittici, a seconda del loro stadio di sviluppo, mono o poliniu leati, che si riproducono per scissione bi¬ naria regolare (divisione eguale) e per gemmazione (divisione ine¬ guale). Nel passato tali corpuscoli vennero erroneamente considerati come oocisti di Coccidi (Perroncito), come cisti di Trichomonas (Schau- DJ.NN) o di Boclo (Chatton). Difatti la prima descrizione era apparsa nel 1901 sotto il nome di Cocddium jalinum PerR. ( prò parte). Fu il Brumpt a riconoscerne la natura micotica e a considerarli nel gruppo delle Blastosporee col nome di Blastocystis hominis (1912) (sin. Bla¬ stocystis enterocùla Alexeieff, 1911, prò parte). Tali organismi sono però tut t’ora problematici, tanto che lo stesso Brumpt dichiara che le sue affinità botaniche sono ancora mal defi¬ nite; ed è pertanto che la loro sitemazione fra gli Ifomiceti del grup¬ po delle Tallosporee era provvisoria, in attesa cioè di approfondire meglio la conoscenza del fungo parassita in questione. Dal punto di vista della patogenicità il Brumpt è per l’innocuità della B.h. , e la sua opinione è basata sul fatto che « les diarrhées provoquées semblent favoriser l’abondance de ces parasites et sur sa grande fréquence chez des individus sains ». Altri Autori, fra i quali l’eminente parassitologo argentino Salvador Mazza , attribuiscono al parassita un ruolo patogenetico. Il Goiffon ritiene che la presenza delle Blastocystis può testimoniare l’esistenza di varie turbe intesti¬ nali. In seguito a numerose osservazioni, esprimo l’opinione che le Blastocisti possano acquistare una particolare virulenza, più o meno rimarcabile, in determinate circostanze, come nel caso che originò la presente nota. — 88 — - 'Nell’ottobre di quest'anno (1945) esaminai le feci del marittimo Gap. P. d’anni 38, il quale accusava disturbi viscerali incostanti e va¬ ghi. Il risultato dell’esame fu il seguente. Leucociti Cellule di sfaldamento Frammenti di fibre muscolari non ben digeriti Blastocystis (in vari stadi, in ri- produz. rigogliosa) Notai però abbastanza numerosi, fra i detriti alimentari, dei corpi tondeggianti, sferici od elittiei, rigonfi, col diametro massimo oscil¬ lante fra i 40 e gli 80 micron o poco più, che non riuscivo a identi¬ ficare. Schiacciando un po’ il coprioggetti sul portaoggetti, notai con viva sorpresa che da alcuni dei detti corpi, uscivano, sotto l’azione della pressione, numerose Blastocisti di varie proporzioni, verosimil¬ mente in rapporto al loro stato di maturità, unitamente a masse mu¬ cillaginose. Quest’ultime si espandevano come chiazze d’olio, con¬ fluendo. Qualche capsula, evidentemente meno matura, sotto la pressione emetteva la mucillagine sotto forma di cordoni più o meno spessi e lunghi, a volte contorti, sempre molto chiari, incolori, rifrangenti. I corpuscoli ben definiti che uscivano dalle capsule più mature, avevano la forma delle normali Blastocisti, ed anzi cominciavano poco dopo la loro uscita a dividersi per scissione uguale e per gemmazione. Dalla prima capsula, che emise le Blastocisti forse spontaneamente, uscivano, fra corpuscoli non maturi, Blastocisti già col carattere do¬ vuto all’azione della purga, cioè con vacuolo ampio e nuclei marginali. Balle capsule meno mature, o maturatesi nei giorni successivi in la¬ boratorio, esclose per pressione, uscivano i corpuscoli coi caratteri noti per le feci normali, cioè più omogenei, meno rigonfi, con nu¬ cleo centrale o più nuclei sparsi, e la massa mucillaginosa residuala usciva a cordoni. Dopo più giorni di permanenza delle feci in labo¬ ratorio, le capsule, evidentemente alterate, sotto l’azione della pres¬ sione emettevano masse mucillaginose irregolari e granulari, quasi de- t litiche, con corpuscoli non maturi. Evidentemente i corpi o capsule in parola, che non presentano i caratteri dei periteci fungini, non si può considerarli altro che spo¬ rangi, e le Blastocisti quindi sarebbero le forme vegetative derivate direttamente dalle spore subito dopo l’uscita, e fors’anche già prima dell’uscita dagli sporangi. Ho scoperto quindi uno stadio di sviluppo -f -f + '+ + /+ + fino ad oggi ignoto, elle ci consente di dare mia migliore posizione sistematica alla Blastocystis, come vedremo in seguito. In alcuni sporangi, trasparenti, notai una capsula trasparente con¬ tenente una grossa spora bruna. In un saggio (prep. ilici, in balsamo: Nr. 198) trovai parecchie di tali capsule minori, sia vuote che conte- Preparato fresco con tre sporangi di Blastocystis. Quello di sinistra è integro. L’infe>riore, maturo, è escloso, e in una massa fluida mucillaginosa escono le forme ve¬ getative alcune delle quali iniziano subito la scissione. Quello di destra (in gran - parte fuori del campo), non maturo, per azione della pressione esercitata artificial¬ mente, emette . cordoni mucillaginosi granulari. nenti il corpo bruno. Non lio avuto la possibilità di interpretare la natura e la funzione di tali formazioni, interpretazione che lascio agli specialisti che avranno l’occasione di ritrovarle e l’eventuale possibi¬ lità di coltivarle. Negli sporangi non maturi, la cui superfìcie appare più o meno liscia e tesa, oppure lievemente striata, si nota la formazione di masse mucillaginose cerebriformi, quindi più o meno cordoniformi, nelle quali si formano i corpuscoli, o spore, che formano man mano le bla- — 90 — stocisti vegetative. In un preparato notai un cordone mucillaginoso re¬ lativamente grosso, d’aspetto granulare, evidentemente. in alterazione. La sostanza mucillaginosa si colorava fortemente con lo iodio, come gli sporangi aperti, nei quali la soluzione iodica penetrava. Gli sporangi integri invece restavano incolori. La membrana degli spo¬ rangi svuotati, colorata sia con blu di metilene die con blu cotone, o con fucsina carbolica di Zielil, mostrava una distinta punteggiatura (preparati duraturi incl. in bals. : dal Nr. 193 al 198), dovuta però alla presenza di micrococclii fecali. Fra le Saccaromicetacee (Ascomiceti della alasse degli Emiasco- miceti) è stata descritta una specie parassita i cui elementi furono tro¬ vati in una notevole massa gelatinosa intra peritoneale : Saccharojny- ces Blanchardi Guiart 1906; alcuni degli aspetti riproduttivi di tale specie ricordano certi aspetti degli elementi rilevati nelle masse mu¬ cillaginose da me studiate. Anche la riproduzione delle blastocisti, in¬ fine ricorda i caratteri delle Saccaromicetacee; manca in queste però una capsula sul tipo di quella descritta, capsula die invece si trova in alcuni generi di Chytridiaceae del sottordine degli Oomiceti (Fico- niiceti). Si sa che nelle Chitridiacee sono inclusi alcuni generi aberranti, die il Da Fonseca vorrebbe riuniti nella famiglia delle Protomiceta- cee da lui istituita nel 1928, e precisamente i generi Coccidieides , Pa- racoccidioides , Pseudococcidioides e Rhinosporidium. Questi generi, effettivamente, presentano tutti qualche carattere tuttora incerto, af¬ finità cioè non ben definite. Ritengo quindi die per l’esistenza di spo¬ rangi spessi e voluminosi e per i caratteri descritti, la Blastocystis ho. minis sia più a posto nelle Protomicetacee, tantoppiù che particolar¬ mente notevoli sono le sue affinità col Rhinosporidium Scekeri (Wern. 1900), anch’esso nel passato scambiato per un Coccidio ( Coccidium scekeri Wern. 1900). Nel Rhinosporidium , che produce i pseudotumori poliposi delle mucose nasali, e die si può trovare isolato nel muco nasale, il tallo sferico od dittico di ogni individuo forma uno sporangio. Le spore elitticlie che si formano gradualmente nello sporangio in una massa grassosa o mucillaginosa di riserva, appena escono (da un poro unico o fessura) si arrotondano. Nelle spore, che qualche Autore chiamò pansporoblasti, si trovano dei granuli (spore p. d.). Contrariamente a quanto avviene nelle Blastocisti, questi pansporoblasti si ingrandireb¬ bero direttamente per formare nuovi sporangi. Non è stato possibile fino ad oggi, ottenere colture di Rh. Scekeri e pertanto non si cono¬ scono altri eventuali stadi del suo ciclo biologico. Non si può comun¬ que negare l’affinità degli stadi da ine studiati della Blastocystis ho - minis coli gli sporangi del Rhinosporidium. Ritengo pertanto che sia — 91 — opportuno spostare il gen. Blastocystis dalle Tallospore (gruppo delle Blastosporee), per collocarlo, come quinto genere, nella famiglia delle Protomicetacee (Da Fonseca, 1928), che comprende forme di transi¬ zione fra i Ficomiceti e gli Ascomiceti. Questa breve relazione deve essere considerata come cc nota preli¬ minare », riservandomi di pubblicare in avvenire una relazione cor¬ redata delle necessarie illustrazioni documentarie. Campo Prigionieri di Guerra N. 356 (Kenya), nov. 1945. ISapoli, giugno 1946. Esame preventivo delie forme assegnate alla famiglia Phylloceratidae Zittel Nota del socio Stefano Sorrentino (Tornata del 26 giugno 1946) Sunto. — In riferimento a quanto ebbe ad esporre nella nota pubblicata nella Rivista Italiana di Paleontologia - Milano 1942 (« Osservazioni su forme e gruppi di Ammonirti della famiglia Phylloceratidae » - Fase. 3), l’A. riesamina qui, in breve sintesi, le forme descritte e figurate dai diversi autori, allo scopo di deli¬ neare uno schema di sistemazione di esse, fondandosi sulle concezioni sviluppate appunto in quello studio. L’esame ed i confronti necessari a rintracciare i caratteri indi¬ cati come ce determinanti » dei gruppi non possono svilupparsi solo sul materiale posseduto, anche se più numeroso, ma bisogna conside¬ rare le principali specie descritte e figurate dagli autori, onde avere una massa di dati che facilitino la ricerca dei caratteri. Ciò anche allo scopo di basarsi su forme ben conosciute e classificate precedente- mente, scevre quindi da queU’influenza personale che può subire la determinazione specifica stessa. Inoltre una monografia sulla famiglia Phylloceratidae è in istu- dio, malgrado le difficoltà d’ordine pratico, secondo lo schema con¬ frontabile con quello qui seguito, in cui si procede alla comparazione di forme descritte dagli autori. Le forme descritte e figurate dal Meneghini (Stoppani, Monogr. des Fossiles du calcaire rouge ammonitìque de Lombardie et de l’Ap- pennin Central , et Appendice. Milano, 1867-81) sono da raggrupparsi quasi tutte nel genere Phylloceras ad eccezione di Phyll. mimatensis, calais , dolosum , hébertinus che sono da ritenersi del gruppo dei Ra¬ refi liti, e del Phyl. lariensis, e lariensis n. sp. che bisogna assegnare al sottogenere Meneghiniceras. Le numerose forme di filloceratidi descritte e figurate da G. G. Gem MELA ARO nei lavori: Alcune faune giurese e liassiche della Sici¬ lia; — Sui fossili degli strati a Terebratula aspasia etc.; Sulla fauna del calcare a Terebratula Janitor - Palermo 1872-82, 1884, 1868-76, sono da raggrupparsi come segue. Nel genere Phylloceras, il Phyìl : partschi, il Wldnheri , alontinum (!), oov. spec. ind. ( !), Kiintii , Erti- peci odi s, beiiancense , me dit e rr attenni , consan guineum, disputabile (questo ha i caratteri, di Disco phyllites ), ete. Al genere Racofillite , i Phyl. liberi uni , silesiacuni , mimatensis. Al sottogenere Meneghiniceras i Phyl. diopsis; mentre il Phyll. mi - crogoitium , i] torti silicatimi ed il silenti s sono da assegnarsi al sotto- genere Martelliceras, eri il Phyll. euphyUum ha i caratteri del sot¬ togenere Neumayericeras . È opportuno rilevare però che il Phyll. Me¬ neghini', descritto dal Gemmellaro, presenta un esemplare che si di¬ scosta dagli altri e che per i suoi caratetri si .avvicina più ai Neuma¬ yericeras. M. Neumayer, Jurastudien , Jahrbuch k.k. Geol. R cicli Band XXI. Wien , 1871. Tutti i filJoceri descritti e figurati restano raggnippati nel genere Phylloceras, ad eccezione di quelli della serie di forme del Phyll. ta¬ tricum. Esse, in base ai caratteri figurati e descritti, vanno riferiti in¬ vece al sottogeuere Neumayericeras, come qui è stato inteso. In verità, non si tratta di portare al nuovo sottogenere il Phyllo¬ ceras tatricum Pusch, così come è dato (che resta invece nel genere Phylloceras ); ma quelli che questo autore ha distinti sotto la serie determinata di tatricum. Infatti il Neumayer nella descrizione del Phyll -tatricum si ri¬ porta (pag. 322) a quella data dallo ZlTTElL (1), ma l’esame delle figure e delle linee suturali riportate da questo autore fanno vedere con evidenza un lobo sifonale profondo quanto il primo laterale; men¬ tre la specie descritta dallo Zittel ha il lobo sifonale (ventrale) che è circa la metà più corto del primo laterale. Infatti lo Zittel dice: cc ... Die Lobenzeichnung ist verhàitnissmàssig einfach und wenig zer- schlitzt. Die Blàtter der Sàttel breit und ganz randig. Ma zàlilt auf del Seiten deutlicli 9 in gleicher Linie endigende Loben; der Ventral- lobus ist nur halb so lang als der ersi e Seitenlobus. Von de Sàttel etc...)>. Quindi i filloceri dello Zittel, compreso il tatricum , restano nel genere Phylloceras, mentre la serie del tatricum , compreso questo, descritti dal Neumayer, vanno raggruppati nel sottogenere Neumaye¬ riceras. E poiché la denominazione « tatricum ». resta per il fillocera descritto dallo Zittel, propongo, per quello descritto dal Neumayer, la denominazione di Neumayericeyas Dosioi, onde evitare possibili scambi o confusioni (2). (1.) K. Zittel. Bemerkungen iiher Phylloceras tatricum Pascla etc. Jahrbuch k. k. Geol. Reich., Band. 19. Wien, 1869. (2) Restano pertanto due forme distinte, anche se non si tien conto del diverso — 94 — Per quanto riguarda invece il Phylloceras aff. tortisulcatum ed il Phyll. tortisulcatum , essi sono da assegnarsi al sottogenere Martel- leiceras. Le specie descritte da M. Canavarì, (Contribuzioni alla fauna del Lias inferiore di Spezia , Memorie per servire alla descrizione della carta geol. d’Italia, Voi. III0. Roma, 1876) vanno incluse nelle rispet¬ tive determinazioni fatte da questo autore, salvo il Phyll. Calais che passa ai Racofilliti , il Phyll. cilindricum ai QeyeroceraS; il Phyll. oc - ciduale ai Martelleiceras ed infine il Phyll. lunense ai Neuymericeras . Delle forme di fìlloceratidi descritte e figurate da T. Wringt (Mo¬ no grò. pii of thè Lias Ammonites , Palaeont. Soc. London 1880-84), due sono da escludersi totalmente dalla famiglia, non avendo nè la linea suturale paragonabile, nè l’aspetto generale della conchiglia, e cioè il Phyl. Sub-carinatum Jounh and Bird 1822 (tav. LXXXI, Fig. 1, 2, 3) ed il Phyl. buvignieri d’Orbigny 1842 (tav.. LXXXVI, fig. 1, 3). D’altro canto il Phyl. loscombi Sow. appare più confrontabile con le forme del gen. Rhacophyllites {Trago phylloceras), mentre il Phyl. zetes d’Orb. ed il Phyl. heterophyllum Sow. sono tipiche forme fillo- ceratidi. Per le forme descritte dallo Stoliczka F. ( The Fossil Cephalopo- da of thè Cretaceous Rocks of Southern India Palaeontologia indica, Voi. I, parte 6a, Calcutta) bisogna convenire che i caratteri rilevabili dalle figure e dalle descrizioni vanno raggruppate nel sottogenere Mar telleiceras; le ammoniti A. Yama Forbes e VAm. inanis Stolic. al genere Rhacophyllites; VAm . improvisum Stolic. al genere Phylloce¬ ras V Ani . Velledae Michel.; mentre l’im. Rouyanus d’Orb., VAm. diphylloides Forb., sono da assegnarsi al sottogenere Neumayericeras . Anzi per VAm. diphylloides Forbes, si devono distinguere i due esem¬ plari: quello di Pondicherry (fig. 8 e 9), da quello di Trichinopoly (Fig. 10 e 11). Il primo, per quanto l’autore dice di trattarsi di un esemplare molto giovane, mostra l’insieme della linea suturale com¬ plessa quasi come quella dell’altro, ma anzi presenta in più un ele¬ mento sellare (tra il primo lobo sinfonale e la prima sella) così svi¬ luppato che può considerarsi una vera e propria sella inizialmente c( precoce », ma restata atrofizzata; e che non può assolutamente es¬ sere considerata un elemento particolare della prima sella. Questa caratteristica non trova nessun riscontro nell’altro individuo, pur con¬ siderato più sviluppato. Anche questo carattere giustifica la separa¬ zione specifica delle due forme e propongo per la forma di Pondichery raggruppamento qui dato ; poiché non è possibile ritenerle unite quanto quel carat¬ tere è valido a distinguere altre forme in due specie diverse. — 95 — ii nominativo di Neumayericeras, Stoliezkaei . Per gli altri caratteri distintivi fra queste due forme, mi riporto a quelli enumerati dal- l’ autore stesso, e cioè: conchiglia più compressa, priva di solchi dor¬ sali, ecc. Circa poi YAm, Varimi Forb„, e YAm . Indras Ferir., sono da escludersi dai Fi lineerà ti di, come intesi qui, per i caratteri rilevabili dalla linea suturale che si avvicina molto di più a quella dei Desmo- ceratidi , Nei riguardi delle forme descritte e figurate da Penato Fucini in vari lavori: ( Fauna del Lift s medio del M. Calvi (Campiglio) Palaeont. italica, Pisa, 1896; Faunula del Lias Medie di Spezia , Boll. Soc. it., Roma, 1896; Ammoniti del Lias medio dell* Appennino Centrale, Pa- leont. italica, Pisa, 1899; Cefalopodi Uassici dei M. Cotona , Palaeont. italica. 1901; ecc.) si può dare un quadro sintetico, e raggruppare le specie come appresso : Al gen. Phyl7 il Phyl. Vdhneri, Partschi e var. Savii ; Oenotrinm , Zetes, Bonarellii , Meneghinii, frondosum , Bicicolae , Emeryi , selinoi - des , Spadae , Qeyeri • malgrado che qualche esemplare del Phyl. fron¬ dosum e Meneghini 9 si distaccano alquanto dalla specie tipica. Sono da restringere invece nel sottogenere Geyroceras , il Phyl. cylindricum, è le sue due varietà Bialzei e Compressa; al sottogenere N eumay eri cera s si devono assegnare il Phyl. convexum, il Partschi var. ter ui striatimi e var. grotsepUcatùm. Nel genere Rhaccphyllites si comprendono il Phyl. Capellini , il Phyl. Mioptickum, il Rhac. li - bertus j il Phyl caìais , per sane use s , li poidii 9 dubhim 9 gigas , adiniran- dus e var. inermis; inseparabilis , lunensis 9 longispirata, idi cala e var. incerta; il quadri e var. nlanulata , il soUdul-a , il dolosa 9 stella , mium. Al sottogenere Meneghiniceras si possono riunire tutti i raco filliti: Rhacop. lariensis , nardi , lariensi-costicillata , transylvanicus e var. dorso - curvata . Gli esemplari descritti e figurati da F. Cossmat | U (iter suchun gen iieher die S'iddndischc Kreideformadon . Beiti ag z. Palaont u. Geol. Oesterr. Ungami, Band IX, Wien, 1895) appartengono al genere Phyl- loceras nel concetto svelto nel seguente lavoro; ad eccezione del Phyl. decipiens ; che deve riportarsi al genere RhacophylUtes , e del Phyl. forbesianus , che, come già accennato, va incluso nei Neumayericeras. Dei filloceratidi descritti da B. Greco (Il Uas superiore nei cir¬ condario di Rossano Calabro , Boll. Soc. Geol. It., Voi. XV, Roma, 1896) bisognerà distaccare dal genere RhacophylUtes^ il Rhac. N ardii ed il lariensis , per assegnarli al sottogenere Meneghiniceras. Al sottogenere Neumayericeras devesi ritenere anche il Phyll . for¬ besianus d’Orb. descritto e figurato da Boule, Lemoine e Thévenin ( Céphalopodes crétacés des ('riviro ns de Diego-Suarez. Annales de Pa- léont., Voi I, Paris, 1906). I Filloceratidi descritti e figurati da P. Rosemberg (Die Liassische C e phalo poderi fauna der Kr alzai pe ira Flagengebirge. Beitrage z. Pa- làont. ii. Geol. Oesterr. Ungarns. Band XXII, Wien, 1909) sono così raggruppabili: Gen. Phylloceras : Phyl. frondosuni, tetraphyllus , Die- neri. Al sottogenere Neuinayriceras il Phyl. tenui striatimi, spec. ind. n. Rosea. (3), il grosse pii cat uni, proclive. Il Phyll. « lipoldi » come è descritto da questo autore, che pur non figura il campione, può es- sere un Martelleiceràs infatti* a proposito della linea suturale si legge: « die Sutur ist . Unter den Loben erreicht dei Extemlohus fast die Tiefe des ersten Laterals , die ànderen werden allmàlich seichter _ ;». ÀI genere Racofillites il Rime, eximius ; il cfr. diopsis , stella, li- Hiatus, cfr. planispira . Sono invece da assegnarsi al sottogenere Geye - roceras il Geyr. cylindricum vai*, compressa ed il Phyl. sulcocassum. II RhacophylUtes diopsis, messo in sinonomia col Rime. Nardii da F. Trautij (Gresther schichten der òsterreichichen Voralpen und ifire Fauna Beitrage z. Palaont u. Geol. Oesterr. Ungarn, Band XXII. Wien, 1909) è da ritenersi appartenere al sottogenere Meneghinìcerae. Le forme descritte da O. Haas ( Die Fauna des Mittleren Lias von Ballino in siici Tirol. Beitrage z. Palaont u. Geol. Oester. Ungarn u. Orients, Band XXVI, Wien, 1913) restano raggruppate nei generi dati dalFautore, eccetto il Phil. sulcocassum, che è da iscriversi tra i Rha- cophyllites; mentre i Rime, libertus , eximhim, lariejisis, e sua varietà dorsinodosa sono dei Meneghiniceras. Nei riguardi dei Phyl. anony- tnum, nuovo denominativo proposto da questo autore per il Phyl. te- nuistriatum9 ed allo scopo di limitare la numerosa sinonomia con al¬ cune forme descritte, dato che appartiene al sottogenere Neumayri- ceras , la sua denominazione resterebbe determinata in N eumayericeras anonimum Haas, con la sinonomia data da quell’ autore. Tutti i filloceratidi di M. G. Sayn ( Les Phylloceras gargasiens dii sud-est de la F rance. Meni. Carte géol. dett. de Franco, Minisi, des Travaux Pnbbl. Paris, 1920) restano nel genere Phylloceras ; credo opportuno però far notare che del Phyl. kiliani Sayn. la prima sella ha il carattere di tendenza a forme di Dischophyllites secondo il con¬ cetto di Hyatt. Oltre i citati autori, si sono esaminati anche altri numerosi lavori sui Phylloceras ; ma, o per mancanza di figure degli esemplari, o per mancanza della rappresentazione delle linee suturali, non si è potuto fare un confronto esatto. (3) Potrebbe denominarsi Neum. Rosembergei. Così, i Phylloceras descritti dal KiLLlAN ( Aptìen inferi eur cìcs en- virons de Montélimar. Meni. Carte géol. détt. F rance. Parigi, 1915), quelli di C. F. Pakona ( Contributo alla conoscenza delle ammoniti Classiche di Lombardia ; Ammoniti del Lias inferiore del Salt rio. Ménti. Soc. Paléont Suisse, voi. XXIII. Genève, 1897); quelli di P. Lemoine (Ammonites du furassi que sup. du cercle d’ Anal alava, Madagascar, Ann. de Paléont., voi. V, Parigi, 1910). Di questo autore però il Phyl. me diter raneum, razza indica , è da ritenersi un Rhacophyìlites , ed il Phyl. Feddedi pare sia un Neumyaericeras. Restano pure nel genere Phylloceras le forme descritte da M. Ca- navari (La fauna degli strati ad Aspidoceras acanthicum. di M. Serra, Camerino. Palaeont, italica, Voi. II, Pisa, 1896) e quelle di C. F. Pa¬ roma e G. Bonarelli ( Fossili albiani etc. di E xragnolles etc. Palaeont. italica, Voi. II, Pisa, 1896). Anche nel genere Phylloceras restano in¬ cluse tutte le forane figurate e descritte dallo Spath (A monograph of thè Ammonoidea of thè Gault. Palaeont. Society, Voi. LXV, Lon¬ don, 1921). I due Racofilliti nuovi descritti da P. Vi MAS SA (/ fossili e V età dei calcari marmorei toscani. Boll. Soc. Geol. It. Voi. 52, Roma, 1933) restano nel genere, mentre il Rhac. julianiis Vinassa ha il carattere della prima sella tendente a Dischophyllites . Contributo alia conoscenza della fauna elvezìana del Mali Gurdezes (Albania) Nota del socio Antonio Lazzari (Tornata del 26 giugno 1946) Nowack, nella prima parte dei suoi Beilràge zur Geologie von Albanien (1) lia segnalato, per le formazioni argillose elveziane del Mali Gurdezes, che si eleva a poco più di 500 m. nella Malakastra, una ricca fauna essenzialmente costituita da molluschi. Successivamente, nel suo definitivo lavoro sulla geologia dell’Albania (2), pubblicato come illustrazione alla carta geologica in scala 1:200.000 edita nel 1929, detto Autore ha aggiunto ancora alcune forme a quelle già se¬ gnalate, e ciò in base alle determinazioni effettuate da paleontologi dell’Istituto Geologico di Vienna su materiale raccolto dal Nowack. A partire da! 1925, la zona fu oggetto di studi da parte dell’Anglo Persian Gii Company (A.P.O.C.) in quanto le formazioni affioranti sul Mali Gurdezes rappresentavano la base di una serie a spiccato in¬ teresse petrolifero; ma dei risultati paleontologici di tali indagini non si hanno notizie. Dall’estate 1939, e lino al 1943, questa zona della Malakastra, caduta nell’ambito delle concessioni petrolifere italiane, fu oggetto di ricerche geologiche di gran dettaglio, e pertanto la raccolta dei fossili, esulando dal carattere quasi occasionale, che talvolta assume nei rilevamenti del tipo di quello eseguito dal Nowack, fu curata in modo del tutto particolare con numerosi sopraluoghi e scavi sistema¬ tici, risultando così possibile disporre di una ingente mole di mate¬ riale, nel quale spesso le singole specie si trovavano ad essere rappre¬ sentate da molte centinaia, od addirittura da migliaia, di esemplari. Poiché, oltre ai già indicati lavori del Novack, non esistono altre (1) Nowack E., Beitmge zur Geologie von Albanien: I. Dìe Malakastra; Neues Jahrb. f. Min. ete., Sonderband 1. — Stuttgart, 192i2:. (2) Nowack E., Geologiche Uebersicht von Albanien Erlauterung zur geoio- gischen Karte 1.200.000), Salzbourg, 1929. — 99 — notizie sulla fauna elveziana del Mali Gurdezes, ritengo utile segna¬ lare i parziali risultati di un sistematico esame da ine eseguito del ma¬ teriale raccolto dall’A.I.P.A. (Azienda Italiana Petroli Albania) fa- cendo presente che, essendo andate perdute, in seguito alla situazione determinatasi in Albania dopo il settembre 1943, tutte le osservazioni critiche da me raccolte, mi debbo purtroppo limitare a fornire sol¬ tanto un elenco delle forme riconosciute. Cenno stratigrafico. — A cibi, abbandonando la strada provin¬ ciale Fieri-Berat, prenda la deviazione che, dirigendo verso Sud, porta a BalJshi, si presenta subito la possibilità di osservare una completa serie stratigrafica che dal Villafranchiano va fino al Langhiano, nelle caratteristiche facies note anche per l’Italia, salvo quanto si riferisce al Tortoniano che nella zona di Patos, come del resto in quasi tutta l’Albania, è salmastro e ricco di manifestazioni petrolifere. La serie pende di 15° circa verso NNW ed è in giacitura monocli- nale; le condizioni morfologiche e la scarsezza della vegetazione fanno sì che una grande ricchezza di affioramenti si offra all’osservazione. Verso Sud, oltre la valle del torrente Janitza, le pendenze aumentano, specialmente ad Ovest, fino a circa 30°. I diversi piani strati grafici sono quasi dappertutto concordanti, è solo fra l’Elveziano ed il Langhiano si nota una discordanza angolare bene evidente, accompagnata da un congloraniento di trasgressione di debolissima potenza (poche decine di cm.). L’Elveziano, che assume una potenza complessiva di 100-130 in., si suddivide nettamente in una parte inferiore, rappresentata da cal¬ cari a Lithothamnium (60-80 rii.), ed in una superiore, della potenza di 40-50 ni . , che offre un bellissimo esempio di passaggio laterale di facies da Est verso Ovest. Difatti, mentre ad oriente si rinvengono sabbie, di grana media e grossolana e con intercalazione di letti ciot¬ tolosi, ad impregnazioni petrolifere, e molto ricche di fossili, fra cui anche vistose colonie di coralli; verso Ovest si passa, abbastanza gra¬ dualmente, ad argille marnose tipo « Tegel », che affiorano sul fianco settentrionale del M. Gurdezes, quasi dappertutto privo di vegeta¬ zione, nelle quali i fossili risultano oltremodo abbondanti ed in ottime condizioni di conservazione. È appunto in tali argille che è stato rac¬ colto il materiale fossilifero di cui alla presente nota. Elenco delle forme. — La fauna del M. Gurdezes è talmente ricca di specie, e queste di esemplari, da potere essere paragonata a quella dei giacimenti molto noti per la loro ricchezza. L’elenco che qui di seguito viene fornito si riferisce ai gasteropodi, e di questi solo alle forme più comuni, o che più agevolmente era possibile determinare in — 100 relazione alla bibliografia disponibile sul posto, comprendente le clas¬ siche opere del Sacco e Bellardi, dell’HoERNEs, dell’HoERNEs e Auin- ger, nonché le monografie della Montanaro sui moluschi di Monte Gibbio, e numerosi altri lavori di minore importanza. Ma non meno di un centinaio di specie di gasteropodi sono rimaste ancora da deter¬ minare e gran numero di lamellibranchi, nonché gli Ech inidi. dei quali il genere Clypeaster deve risultare rappresentato da parecchie specie. È da augurarsi che tutto quel prezioso materiale possa essere completamente ed esaurientemente illustrato quando saranno ristabi¬ lite le normali relazioni con l’Albania, il che potrà portare anche alla individuazione di qualche nuova specie. Nell’elenco che segue vengono indicate con un asterisco quelle forme che già erano state segnalate * Tritoli affine Dekh. * » » Desh. var. ( ilb unica Opph, Tritoli corrugatimi Lk. Si ni pillimi tarbellianum Gral. * Ranella gigantea Lk. * » marginata Brongn. » scrobiculata Kien. Aspa sub granulata cTOrb. Follia lapugyensis Hoern. e Auing. * Euthria clavitiformis Opph. » infiala Bell. * Ph os polygonus Brocc. Fusus clavatus Brocc. var. magnico stata Sacc. * Fusus intermedius Miche * » valenciennesi Grat. » virgineus Grat. Glabella brevicaudata Bell. Lathyrus sp. Nassa Brugnónis Bell. Caesia subprismatica Hoern, e Auing. Pleurotoma contigua Brocc. * » coronata Munst. * » ramosa Bast. » rotata Brocc. var. D Bell. * Surcula dimidiata Brocc. » yy Brocc. var. derto - mutica Sacc. Surcula intermedia Broun. » Mercatii Bell. Genotia Bonaitnii Bell. » Craverii Bell. da Nowack. Genotia V aleriae Hoern. e Auing. * Drillia Gurdezensis Opph. » pustulàta Brocc. » sejuncta Bell. » spinescens Parttch. * Clavatula Agassizi Bell. * ». gothica Mey. E. » implexa Bell. » mar gariti fera Jan. » romana Defr. » rugata Bell. » rugata Bell. var. granuloso- costa Sacc. * Clavatula rustica Brocc. * » semimarginata » Sotterii Micht. » Styriaca Auing, » cf. turriculoides Bell. » cf. unico s'tàta Bell. * » vigulensis May. Roualtia subterebralis Bell. * Bathytoma catafracta Buccinimi limatimi Chemn. » obliquimi Hilb. » podolicum Hoern. e Auing. Mitra alligata Defr. » confundenda Bell. » exarata Bell. » cfr. multistriata Bell. » piramidella Brocc. » sabatica Bell. » scalarata Bell. » scrobiculata Brocc. — 101 * Mitra Sismondae Micht. » suballigata Bell, * » sp. * Uromitra B or sordi Bell. » planicostata Bell. » » var. F. Bell. * Volutilithes rarispina Lk. Mitrella turgidula Brocc. Scabrella sp. Cassis postmammillaris Sacc. » sp . Semicassis laevigata Defr, Cassidea cypraeiformis Bors. Oniscia cithara Brocc. * Polinices raderti pta Micht. * Natica rnillepunctata Lk. Neverita Josephinia Risso Subula conoplicaria Sacc. * » fuscata Brocc. Terebrurn subtesellatum d’Orb. Terebrum sp. Hastula cf. F ariti esii Font. Conus antidiluvianus Brug. » betulinoides Lk. * » ponderosus Brocc. * Dendroconus sp, Leptocouus Brocchii Bromi. » elatus Micht. », subacuminatus d’Orb. * Lithoconus Mercatii Brocc. Strombus Bonellii Brong. » coronatus Defr. Strombus nodosus Bors. Chenopus sp. Zonaria fabagina Lk. var. juvenoqspira Sacc. * Zonaria fabagina Lk. var. rniopercella Sacc. * Trivia af finis Dnj. Trigonostoma fenestraturn Eichw. *- Cancellaria ampulacea Brocc. » cancellata L. » scrobiculata Hoern. » cf, wesdana Grat. » Michelini Bell. * Qerithium vulgatum Brongn. * Ptychocerithiurn granulinum Bors. * Archimediella Archimedis Brocc. » dertonensis May. Haustator vermicularis Brocc. Xenofora infundibulum Brocc. » sp. * Jonacus crepidulus L. » » L. var. subcàrinata Sacc. * Bolina rugosa L. Oxistele rotellaris Micht. Pleurotornaria sp. * Sparella obsoleta Brocc. Baryspira glandiforrnis Lk. * Murex albanica Opph. Ocenebra sp. Melongena sp. Si tratta quindi di ben 83 forme, precedentemente non ancora segnalate, che vengono ad arricchire la fauna già conosciuta per il M. Gurdezes e che comprendeva solo 39 specie di gasteropodi. Particolarmente significativa l’abbondanza delle Pleurotoniidae per le quali è da segnalare che molto materiale* per insufficiente let¬ teratura disponibile, non è stato studiato. È comunque da presumersi che nuove forme potranno essere istituite ove si completi lo studio da me iniziato. Analoghe considerazioni possono essere fatte per le Mi- triclae. Su un nuovo criterio di interpretazione dei risultati dell' indagine sismica del sottosuolo nelle ricerche petrolifere Nota preventiva del socio Antonio Lazzari (Tornata del 31 dicembre 1946) Già da molti anni, la ricerca dei giacimenti petroliferi trae pro¬ fitto dei metodi geofisici sopratutto per la individuazione delle strut¬ ture sotterranee nell’ambito di zone ove gli studi geologici di super¬ ficie non potrebbero svelare quelle particolari condizioni tettoniche nelle quali il petrolio si accumula. Allo stato attuale di tale genere di ricerche, il metodo maggior¬ mente seguito, e che fornisce i risultati rivelatisi migliori e di enorme interesse pratico perchè hanno portato alla individuazione di molti giacimenti petroliferi, è quello sismico a riflessione, essendo quasi com¬ pletamente caduto in disuso quello a rifrazione, ugualmente sismico, e fornendo solo indicazioni di massima il metodo gravimetrico. Con l’applicazione dell’indagine sismica, le onde elastiche gene¬ rale dallo scoppio di una carica affondata di qualche metro nel ter¬ reno, si trasmettono nel sottosuolo con velocità dipendenti dalla na¬ tura delle rocce, per venire poi riflesse verso l’alto, dagli strati che per le loro caratteristiche litologiche posseggono proprietà riflettenti, ritornando così alla superficie ove vengono raccolte e registrate da con venient i a p p aree eh i atur e . Si viene così a disporre, dopo avere proceduto alla interpretazione dei « sismogrammi y> ed ai relativi calcoli, di una serie di profili sismi¬ ci, di appropriato orientamento, nei quali appaiono i segni indicanti le tracce, su determinati piani verticali passanti per gli allineamenti dei punti di scoppio, degli strati riflettenti. Buone riflessioni si ottengono fino a profondità di 5-6.000 ed anche più metri; e quindi in un profilo sismico è dato osservare, nel maggior numero dei casi, un complesso di segni grafici, la cui maggiore o minore abbondanza dipende dalle caratteristiche litologiche delle serie esplorate, ed indicanti quelle che oel linguaggio tecnico in uso fra chi si occupa di tali ricerche si dicono ce le riflessioni ». Nel loro insieme, tali segni, su ciascun profilo sismico, forniscono subito un’idea abbastanza precisa dell’andamento degli strati riflettenti; ma ai fini pratici, per stabilire quali sono le condizioni strutturali de¬ gli strati profondi ili una data zona, si ricorre ad una interpretazione dei vari profili sismici eseguiti secondo un certo numero di allinea¬ menti intersecantisi fra di loro, e di solito disposti secondo due dire¬ zioni generali , longitudinale e trasversale. Il criterio normalmente adottato per l’inténp rotazione dei profili, e per la conseguente redazione della carta strutturale, sulla quale poi- si basa l’impostazione della ricerca petrolifera, consiste nel correla- zionare i segni grafici delle riflessioni in modo da ottenere T anda¬ mento di mi orizzonte, il così detto « orizzonte fantasma » della lette¬ ratura americana. Con opportuni accorgimenti, si vengono così a svelare le condi¬ zioni strutturali, profonde, della zona, e quindi si individuano le cul¬ minazioni strutturali, l’ampiezza delle pieghe ed altri elementi utili per l’impostazione della esplorazione del sottosuolo a mezzo di son¬ daggi. Con ciò si parte dal presupposto, attendibile nella maggior parte dei casi, che, esistendo strati porosi nella serie esplorata sismi camente e favorevolmente piegata, gli idrocarburi si siano accumu¬ lati, seguendo la « legge deH’anticlinale », generalmente nella porzio¬ ne media ed alta della piega. Ma non sempre gli idrocarburi si trovano in tali condizioni di accumulo. In alcuni casi, vale a dire in quelli in cui dopo il piega¬ mento si è avuto un periodo, anche molto lungo, di emersione e con¬ seguente erosione e modellamento superficiale, cui è seguita una nuo¬ va ingressione con deposizione, in discordanza, di nuovi elementi po¬ rosi, gli idrocarburi, migrando da altri siti, sono andati ad accumu¬ larsi proprio in tali elementi trasgressivi. La serie di copertura può non risultare affatto piegata, o presentare un piegamento che non coin¬ cide con quello delle serie sottostanti. Così, ad esempio, avviene in alcune zone dell’Italia; e pertanto, per l’impostazione della ricerca, non basta conoscere l’andamento della struttura profonda, desunta dal¬ l’andamento dell’cc orizzonte fantasma », la cui culminazione anticli- oale può non coincidere — e in generale non coincide — con le cul¬ minazioni morfologiche determinatesi in seguito alla emersione ed alla conseguente erosione. E può avvenire che fra i suddetti due tipi di culminazione intercorrano anche notevoli distanze, fino a parecchi chilometri, il che del resto è facilmente spiegabile, essendo noto — dalla Geologia — il fenomeno della inversione del profilo. Intravisto un tale aspetto della ricerca degli idrocarburi, mi è — 104 — stato possibile procedere alla interpretazione dei profili sismici di una zona della pianura Padana, stabilendo dei criteri del tutto nuovi, atti a svelare, con sufficiente approssimazione, il contatto stratigrafico, trasgressivo, fra serie inferiore, piegata in un primo tempo e. poi emer¬ sa, e serie superiore di copertura che tale piegamento non lia subito. Tali criteri, sono stati da me applicati per la prima volta per conto dell’A.G.I.P, - Ricerche. I principi sui quali si basa tale nuovo metodo di interpretazione sono i seguenti: a) — diverso andamento generale delle riflessioni nelle varie se¬ rie strati grafiche; b) — presenza di complessi di riflessioni disordinate in corri¬ spondenza dei disturbi tettonici (faglie ecc.); c) — mancanza di riflessioni nei casi in cui i disturbi tettonici sono più complessi. Rinviando ad una successiva nota, corredata di materiale grafico illustrativo, la dettagliata trattazione deirargomento, posso sin da ora render noto che un tale criterio interpretativo risponde pienamente allo scopo, dando la possibilità di redigere delle carte paleo-topogra- ficlie che mostrano la probabile morfologia delle serie inferiori al tem¬ po in cui si andarono progressivamente sommergendo per l’avanzarsi del mare, e sulle quali si determinò la deposizione dei nuovi sedi¬ menti. In un caso di cui mi sono occupato, e che ragioni di riserva¬ tezza non mi consentono per ora di citare, è risultato che la culmina¬ zione strutturale è posta a circa 4 Km. dalla culminazione morfologica, il che fa assumere un indirizzo del tutto diverso alla impostazione «lei problema della ricerca. Primi risultati di studi geologici eseguiti in Calabria nel 1946 Nota del socio Felice Ippolito (Tornata del 27 novembre 1946) Seguendo una consuetudine, iniziata dal Prof. Penta, di infor¬ mare questa Società dei risultati degli studi eseguiti dal Centro Studi delle Risorse Naturali dell’Italia Meridionale (1), riassumerò breve¬ mente i primi risultati degli studi geologici, conseguili nella cam¬ pagna del 1946, dal Centro Studi e dal Centro Ricerche Geomineraric dcll’I.R.L (Istituto per la Ricostruzione Industriale), sotto l’alta dire¬ ziona del Prof. A. Rittmann. Come è noto esistono in Calabria, in connesso con i tre massicci della Sila, della Serra e d’Asproinonte, giacimenti metalliferi di pro¬ babile interesse industriale e numerosissimi indizi di altre zone me tallifere non ancora studiate. Secondo un elenco eseguito alcuni anni fa dal Penta (2) vi sono in Calabria oltre cinquanta importanti se¬ gnalazioni di mineralizzazioni metallifere, che metterebbe conto stu¬ diare e che, anche per ovvie ragioni di interessi industriali già al¬ trove precostituiti, non sono stati mai oggetto di un serio studio geo¬ logico e geominerario, condotto secondo criteri moderni e prescin¬ dendo da ogni dannoso preconcetto di cc autarchia » economica. Ed è questo un aspetto, e non il meno importante, della Questione Meri¬ dionale. La Calabria è in effetti una regione la cui geologia è mal co¬ nosciuta. ina che presenta un certo interesse industriale, l’entità del quale nell’attuale stato delle nostre cognizioni, è diffìcilmente preci¬ sabile. Per poter emettere un parere sulle possibilità minerarie della Calabria è indispensabile eseguire uno studio geologico della regione, (1) Vedi questo Boll.; volume L (1938), LI (1940). (2) Alti Ist. d’incoraggiamento in Napoli, 1938. 106 accompagnato da rilievi di dettaglio di vaste zone allo scopo di sta¬ bilire le relazioni esistenti tra le rocce cristalline e le ricordate mine¬ ralizzazioni. Il fine strettamente pratico — cioè a dire economico — può essere raggiunto solo attraverso un risultato teorico — cioè a dire scientifico: — certamente inolio interessante, che costituirà un contri¬ buto notevole alla conoscenza della geologia italiana e die avrà delle ripercussioni anche per l’interpretazione geologica di altre vaste plaghe dell’Italia Meridionale e della Sicilia. È superfluo ricordare che un rilevamento dettagliato e la cono¬ scenza sicura delle relazioni tettoniche e stratigrafiche, nonché della natura e dell’origine delle rocce cristalline, è assolutamente indispen¬ sabile per la valutazione e la ricerca di giacimenti industrialmente interessanti. Senza di che si rimarrebbe tuttavia in un empirismo cieco che esclude qualsiasi direttiva nelle ricerche future e nello sfruttamento regionale dei giacimenti già noti e parzialmente uti¬ lizzati. Sulla base di' queste considerazioni, fu iniziata la campagna hi Sila nella primavera del 1946. In base al programma iniziale era pre¬ visto, per il primo anno, uno sguardo d’assieme a tutta la regione per poter delimitare i problemi più importanti e le zone di speciale interesse pratico, senonchè, per difficoltà di carattere logistico, il pro¬ gramma iniziale è stalo parzialmente mutato e sono state studiati zone più ristrette, scelte però in modo da ottenere dal loro studio elementi indispensabili per il lavoro successivo. I risultati provvisori raggiunti in questa campagna si possono brevemente riassumere come segue: 1. È stata definitivamente accertata la presenza di una falda cristallina di ricoprimento, (‘he interessa un’area vastissima; gli studi futuri dovranno precisare la sua reale estensione ed eventualmente la ubicazione delle sue radici. Ciò significa che uno dei punti maggiormente discussi della geo¬ logia calabrese, cioè l’esistenza o meno di falde di ricoprimento, deve intendersi, per lo meno qualitativamente, chiarito. 2. Questa falda cristallina è costituita da rocce granitiche e da una numerosa serie di catametainorfiti, che formano il tetto dei piu toni diapirici di granito. 3. Il cosidetto « granito arcaico » del Cortese (3) si è rivelato essere un complesso di graniti diapirici erciniani, attraversato da nu¬ merosi dicchi granitici, leucotonalitici, api itici e lamprofirici appar¬ tenenti al medesimo ciclo magmatico. (3) M*m. descr. Carta Geol. d" It . - voi. IX; Roma 1895 (ristampa, 1934). 4. I eosidetli « graniti anfibolici » e « dioriti .» del Cortese sono invece rocce ultrametamorficlie e fanno probabilmente parte del l’antico tetto sedimentario del plotone granitico; costituiscono cioè, per k» meno nella zona del M. Carlo Magno, quello che i geologi an¬ glosassoni chiamano un roof pendant. 5 II muro della falda cristallina è. in Sila, formato da filladi e altre epimetamorfìti probabilmente provenienti da sedimenti paleo¬ zoici, mentre nella catena del litorale tirrenico è costituito da un’ampia serie di rocce sedimentarie, che comprende probabilmente il Pernio* carbonico, il Trias (formazione anidritico dolomitica) e tutto il Meso¬ zoico medio e >uperiore in facies geosinclinale (argille, arenarie e olio- liti). Tutti questi terreni del Mesozoico medio e superiore erano stati invece definiti dal Cortese come « filladi prepaleozoiche ». 6. È stata scoperta una serie di colate e cupole riolitiche e mi¬ crogranitiche appartenenti ad un ciclo di vulcanesimo recente, poste¬ riore al ricoprimento ed alla denudazione dei graniti (4). 7 È stata accertata la presenza di numerose grandi faglie col¬ legabili al recente sollevamento della zona silana. Benché lo studio petrografico del materiale raccolto sia ancora in corso, in base alle conclusioni scientifiche sopra riportate si possono già trarre talune conclusioni generali e pratiche. La regione silana ha certamente subito gli effetti di due oroge¬ nesi: durante la prima, ereiniana, si sono formati i grandi ammassi di graniti diapirici e le catametamorfiti ; durante la seconda, alpina, si è avuto la formazione della falda cristallina di ricoprimento prima, il vulcanesimo orogenetico (rioliti) poi ed infine il sollevamento re- ccnte accompagnato da una tettonica di faglie. È lecito quindi atteri’ dersi il ritrovamento di zone mineralizzate, sia erciniane che alpine, oltre che giacimenti utili sedimentari di varie età e giacimenti me¬ tamorfici. Napoli, Centro Studi Risorse Naturali delVltalia Meridionale. Istituto di Geologia Applicata e di Arte Mineraria dell’ Università. (4) Rittmann A. Sull’ esistenza di colate riolitiche recenti in Sila. Remi. Àc. , Naz. dei Lincei (in corso di stampa). Osservazioni sulle moie te vesuviane apparse in occasione dell’ultimo parossisma vulcanico Nota del socio Francesco lovene (Tornata del 27 novembre 1946) Tra i tanti fenomeni verificatisi nel finitima eruzione vi sono le mofete. Nella presente nota esporrò le osservazioni raccolte dedueen- done alcune conclusioni. il giorno 21 giugno 1944, nel discendere dal fi Osservatorio vesu¬ viano, attraversai le lave del 1858, visitai diverse grotte senza riscon¬ trare inizi di C02; alcuni addetti ad una cava di pietre mi accertarono che dal giorno dell’eruzione non avevano avvertito mai alcun disturbò dovuto a mofete. A quota 251, nella zona dei Tironi, la massaia Olivieri, alla sera del Giovedì santo, 6 aprile, nel mungere la capra sentì un senso di stordimento e abbattimento che svanì ripigliando la posizione eretta. Non badò alla causa del momentaneo disturbo, ma al mattino, nel vi¬ sitare il pollaio, situato sotto una testata lavica, trovò la capra con otto galline morte. I seminati della masseria andarono completamente per¬ duti; il trapianto dei pomodori dovette ripetersi; gran numero di piante da frutta, e specialmente gli albicocchi, seccarono. 2) — Villa Pastore, pochi metri sottoposta alla precedente mas¬ seria, notò le mofete prima di Pasqua, 9 aprile; cessarono al principio della terza decade di giugno. 3) — Casa Gioia, a duecento cinquanta metri sul mare, ha le masserie fortemente danneggiate. L’apparizione mofetiea si avvertì ira il venerdì ed il sabato santo (7-8 aprile) con la morte di animali. Vi notai diversi crepacci e una grotta da cui si era fatto sentire molto C02, ma al 6 giugno era in scarsa attività. Il suolo agrario era poco spesso e le piantine di pomodoro seccarono, le patate ed un noce av¬ vizzirono e poi si ravvivarono, mentre altre piante fra cui gli albicocchi seccarono; la vite non era rigogliosa e l’agricoltore disse che sarebbe seccala nell’annata successiva. 4) — Un po’ sottoposta a Casa Gioia v’è la masseria Cozzoliuo — 109 — ove i gas furono avvertiti anche prima di Pasqua e cessarono agli ul ¬ timi di giugno. Il suolo agrario appariva più sottile dello strato di Casa Gioia, i danni un pò più gravi, poiché le patate non si ravviva- rono ed i pomodori furono trapiantati tre volte. ■5) — Scendendo nella Contrada S. Vito, a destra e a manca, si osservavano inofete. I primi indizi si ebbero il 20 marzo con la morte di due galline. 6) — Nella villa Rossano fu notato che nei giorni caldi non si avvertiva disturbo, contrariamente negli umidi. Noci e 'fichi piantati in prossimità di una testata lavica seccarono, come pure delle rose ad’ dossale alle mura maestre della casa. Le manifestazioni mofetiche scom parvero ai primi di giugno. 7) Nella villa Rossi c’è un ricovero profondo sette metri; da una fessura di un blocco di lava del 1631 si sentiva un soffio con fuoruscita di gas. L’emissione gassosa cominciò lunedì' in Al bis (10 aprile). Nei primi giorni si rese inaccessibile anche la stanza a pian¬ terreno ove mette la botola di accesso. Quando si tentava sollevare la botola, il gas si sprigionava con una certa pressione; era più copioso nei giorni umidi e sciroccosi che in quelli freschi o ventosi. Il giorno 14 giugno la CO 2 si sollevava tre metri dal suolo. 8) — In un terraneo a monte della villa Rossi, una famiglia, nella notte del lunedì in Albis, stava per morire asfissiata. Nelle adiacenze della chiesa di S. Maria di Pugliano e lungo il percorso della ferrovia Funicolare Vesuviana apparvero mofete dai crepacci della lava scoperta, ma non è stato possibile determinarne l’inizio. 9) — Nel ricovero di via Trentola, in Resina, nella notte della seconda incursione tedesca, 24 aprile, si ebbero due vittime per esa¬ lazione mofetiche. 10) — Oltre Casa Beliomo, a cinquecento metri circa sotto il palazzo detto dei Monaci, nella villa Panico, nel giorno di Pasqua furono trovate delle galline morte. 11) — Più giù, un certo Ciro Maronna osservò la manifesta zinne gassosa anche il giorno di Pasqua con la morte di uccelli e di topi. La vigna, ove lo strato agrario era intorno ai sei metri, era ri¬ masta illesa. 12) — Nicola Nazareno, poco discosto dal precedente, al principio di aprile, trapiantando i pomodori, notò che seccavano e fu costretto a trapiantarli più volte. Al ventuno giugno i gas erano scomparsi, 13) — Al limite NW della contrada incontrai un certo Salva¬ tore lacomini nel cui cellaio interrato era apparsa la mofeta. Potei notare che non ostante il tenue spessore del suolo agrario l’ulivo era — 110 rimasto immune, mentre il cotogno era stato più sensibile dell’albi¬ cocco all’azione dell’acido. 14) — A ridosso della Croce dei Monti, una certa Antonietta Ci¬ rino, nel giorno di Pasqua, trovò il cavallo svenuto. La zona mostra molte piante disseccate, tra cui un annoso carrubo dal fusto di oltre un metro di diametro. Anche qui la potenza del suolo agrario è pie cola, e le piante più colpite sono nelle adiacenze di una testata la¬ vica sotto il cui letto sono minute scoriette da cui, al dir di diversi contadini, vien fuori il gas. 15) — La via Croce dei Monti percorre il fondo di una valletta ove la campagna è stata danneggiata, mentre sul fianco sinistro, che è più elevato, la vegetazione è florida. 16) — Camminando verso giù s’incontra una grotta inaccessi¬ bile per la presenza del gas e appartenente a Domenico Aldizio. 17) Più giù ancora una certa Luigia Amore osservò la mofeta prima di Pasqua. 18) — A cento metri a SE della strada Croce dei Monti, dopo la casa Amore, si incontra un altro vigneto danneggiato appartenente a Stefano Ciro. 19) — A 400 metri più a valle c’è un podere colpito dalle mo- fete ed in esso una cisterna invasa dal gas. Un cavallo per aver bevuto di quell’acqua acidulata trovò la morte. 20) — 100 metri a monte dell’autostrada, sul lato sinistro del- l’inerocio con via Croce dei Monti, nel vigneto di Coppola Antonio c’è un cellaio scavato in ceneri bianche e rossicce coperte da una colata. Il Coppola attestò che in prossimità della Pasqua non potè accedervi. Il giorno 6 giugno trovai che il livello del gas si elevava a due metri dal suolo, ed osservai che il podere era illeso ed aveva un suolo agrario di alta potenza. 21) — Dall’incrocio di via Croce dei Monti con l’Autostrada, seguendo verso Pompei, dopo pochi passi, c’è un viottolo a destra (4ie porta alla proprietà Niglio, q 109. Sotto l’abitazione c’è un ceb laio interrato ed in esso. Sabato santo sera, 8 aprile, stavano tro¬ vando la morte due persone che incautamente vi discesero. 22) — Poco più a valle della precedente vigna sta quella di Mattia Rachiello, il quale "anche l’8 aprile, avvertì la mofeta. Os¬ servai piante secche in vicinanza di testate laviche. 23) — Un’altra manifestazione mofetiea si ebbe poco più a valle delle precedenti in un interrato di Ferdinando Marini. Non è stato possibile stabilire l’epoca dell’apparizione; al 21 giugno il gas era molto diradato e la respirazione quasi impossibile. 24) — Camminando una decina di minuti verso est si giunge alla Cappella della Grotta, ove esiste una caverna, scavata in cenere - Ili — vulcaniche bianche sottoposte alla colata del 1631; in essa le emissioni di C02 incominciarono nella settimana di Pasqua e rimase inaccessi¬ bile fino al 15 maggio in cui era tollerabile la permanenza. Nelle adiacenze anche gli agrumeti sono seccati. 25) — Nella contrada Villanova, più ad est della Cappella della Grotta, in una cisterna appartenente a Felice Fiele ed in un celi aio scavato sotto la colata del 1631 si notò la presenza di gas irrespirar bili nella settimana di Pasqua. Al 21 giugno la respirazione era im¬ possibile nelle ore vespertine e nelle prime del mattino. Qui la pian¬ tagione è rimasta illesa non ostante la presenza delle mofete. 26) — L’ultima contrada, a sud del Vulcano, colpita dalle mo¬ fete è Casacampora. Un sotterraneo, profondo oltre 10 metri e sca¬ vato sotto una colata di metri 2,50 di potenza, fu inaccessibile il 15 maggio. Al 21 giugno vi si accedeva senza difficoltà. 27) — Alla stessa Casa-Campora c’è una grotta, che serviva di ricovero, profonda pochi metri ed avente per tetto uno strato roc¬ cioso spesso circa 5 metri (lava del 1631). Nella prima incursione tedesca, avvenuta nel mese di aprile, vi si notò una certa difficoltà nella respirazione e si fu costretti ad uscir fuori. Nell’incursione del 24 aprile la reptazione era nettamente impossibile; al 21 giugno era sparita ogni traccia di gas. Le piante nelle * immediate adiacenze non li anno subito danno. 28) — Il giorno 6 luglio 1944, partendo da S. Vito scesi sulle lave del 1767 e mi portai fino al Cimitero di Portici, indi ritornai a Pugìiano e potei osservare quanto segue. Le località sono segnate a numero sulla carta topografica allegata: I — In questa zona, q. 220 le mofete si fanno appena sentire, II — Le mofete si avvertirono subito dopo l’eruzione, prima di Pasqua, ma non si è riuscito a precisare il giorno; attualmente non si notano, ma l’acqua di una cisterna è ancora inquinata. Ili — Una cisterna, scavata sotto la colata del 1767, è stata inquinata dal C02; mentre nel cellaio posto sopra lo strato roccioso non si è avvertito presenza di gas. L’inquinamento dell’acqua si notò al 21-22 marzo; ora è scomparso. Le piantagioni non hanno sofferto, non ostante che il suolo agrario fosse di circa 2 metri di spessore. IV — La mofeta si osservò verso il 26 marzo in un cellaio pro¬ fondo 6 metri; ora si avverte poco. Nessun danno all’agricoltura. V — L’apparizione del gas si notò con la morte di una chioccia con tutti i pulcini, in vicinanza di una testata di lava; ma non si potè precisare il giorno. VI — Niente mofete. VII — Niente mofete. Si avvertono continue scosse sussultorie. Il luogo è roccioso e brullo. Vili — Niente mofete. IX — Niente mofete. X — A sud del Cimitero di Portici, in un sotterraneo, scavato sotto una colata si è avuta esalazione di C02 e odore caratteristico di H2S (come mi è stato riferito). Il sotterraneo, è adibito a eellaio. si rese inaccessibile la sera del 10 aprile e tuttora (6 luglio) è impra¬ ticabile. Nei giardini circostanti gli albicocchi e le rimanenti pianta' gioni sono completamente disseccate. XI — Una ventina di metri più a monte trovasi un’altra villa che lia i sotterranei inaccessibili ed il giardino distrutto. XII — Segue un’altra villa che fino alla metà di giugno ebbe i sotterranei invasi dal gas nelle ore notturne e mattutine, il disturbo si notò in occasione di una incursione nella settimana in ÀI bis. XIII — - Il fenomeno delle mofete si avvertì come nella pre¬ cedènte. XIV — Nei prati ai primi di aprile si osservò che come si piantavano i pomodori seccavano e l’inconveniente durò fino a maggio. XV — Quasi la totalità delle ville, che dal Cimitero di Por¬ tici-comprese tra linee di livello 100-120, vanno a Pugliano, sono state più o meno gravemente colpite. XVI — Villa Villani osservò emissioni gassose verso il 24-25 marzo, nella cantina e nel pozzo ove tuttora si avvertono. Io stesso ho notato una ventarola acida ed altre esalazioni mofetiche dai cre¬ pacci della lava. XVII — Dopo villa Villani segue una zona molto colpita. 29) — A nord del palazzo del Corallo, nei cui terranei anche vi sono manifestazioni di C02, alla contrada Bocca, c’è una cava di pietre. Il tagliapietre addetto mi affermò che quasi contemporanea¬ mente all’eruzione, cioè due o tre giorni dopo l’inizio, dalle scoriette sottostanti il letto dello strato lavico del 1631, si sprigionò una grande quantità di gas da formarne, al mattino, uno strato di oltre un metro che rendeva impossibile il lavoro fino alle ore 11. Attualmente, mi diceva, lo strato di gas va scomparendo, lo si avverte nelle prime ore del mattino 'fino all’altezza di cm. 30 dal suolo. 30) — 1 In un terraneo del signor Loia, via Salute, osservai verso mezzogiorno, uno strato di gas alto m. 0,30; mi fu detto che ai mat¬ tino e alla sera era inaccessibile e le prime manifestazioni apparvero il 10 aprile. 31) — In via Luigi Zuppetta, nel prato adiacente all’abita¬ zione segnata al N. 12, è stato scavato un ricovero in un terreno di ceneri rossicce ricoperte da uno strato lavico di oltre 3 metri di spes¬ sore. In questo locale, il giorno 13 aprile, -i avvertì la presenza di — Ì13 — C02 che si sollevò due metri dal suolo. Io vi trovai un passerino morto di recente e mi si spense la fiamma ad un metro dal suolo. 32) — Più a monte del precedente ricovero, in una vigna è stato notato emissione di C02 che ha cagionato morte a cani e a gatti. quelli sottolineati si riferiscono alle analoghe apparizioni avvenute nel mese di aprile; ed i numeri romani riguardatilo le località menzionate nel testo al n. 28. Le crocette denotano 1’ intensità dei danni causati dalle mofeté. [Scala 1:30.000]. 33) — A Portici, al Corso Garibaldi, dopo il tabaccaio, a destra, è stata avvertita la mofeta. 34) — Ho visitato la Chiesa della Madonna S. Maria dell Aiuto in Torre del Greco e nella cappella sotterranea, circondata dalla lava 8 _ 114 — 3794, che coperse la città e raggiunse il mare, potei osservate l’antica mofeta che conservava la sua vita normale. Mons. Parroco mi disse che la cappellina è generalmente inaccessibile nel tempo di scirocco e dalla seconda quindicina di luglio a tutto agosto. Mi assi¬ curò che nelle incursioni verificatesi dopo l’eruzione, egli con parte del popolo s’era rifugiato nella cappellina senza trovare disturbo. 35) — Nel giorno 20 luglio visitai in Bosco Reale, nel podere di Renato Marango, un pozzo profondo 142 metri, per il cui scavo è stato necessario perforare 4 strati di colate laviche successive. Le pareti del pozzo sono rivestite di cemento; ma presentano dei foreliini, che nei giorni umidi e sciroccosi sibilano emettendo C02 mentre in quelli asciutti o di tramontana non si avverte presenza di gas. Durante Lui lima eruzione vesuviana 'fino ad oggi mi è stato as¬ sicurato che il comportamento delle emissioni gassose è stalo normale. 36) — Un contadino, nella stessa Bosco Reale, mi disse che si notano le niofete sotto le colate che poggiano su lapilli bianchi, ma per quanto ricercai, non potei accertare alcunché. Tutti asserivano che dall’ultima eruzione non si era avvertita alcuna mofeta. Deduzioni 1) — La zona mofetica dell’eruzione vesuviana 1944 è racchiusa tra i radianti ovest e sud-ovest e tra le curve di livello 277-25. Essa comprende le seguenti regioni: Tironi, Monte, Monaci, Croce dei Monti, Casacampora, Tironcelli, Villanova, Bosco, Contrada Ge¬ novese, Novelle di S. Vito, Le Madonnelle, Fosso Grande, Novelle di Portici, Trentola, Contrada di S. Vito, Pugliano, Bellavista e Re¬ gione Campitelli. Nelle altre zone circumvesuviane le ricerche hanno avuto esito negativo. 2) — La C02, che costituisce il principale componente delie esalazioni mof etiche, avendo un peso sp. 1,529, una volta e mezzo più pesante dell’aria, si accumula negli strati inferiori dell’atmosfera, diradando I O che è necessario per la respirazione e quando il tenore di essa si avvicina intorno all’8T0j% dà la morte ai viventi che si tro¬ vano in quell’ambiente. Cosicché lutti i rettili, topi, conigli, uccel¬ lini, gatti, cani, galline, ruminanti, viventi di notte in vicinanza di mof et e hanno trovato la morte, dico di notte perché di giorno !a maggiore ventilazione e l’azione clorofilliana purificano l’aria. Inoltre la C02 attraversando l’acqua del sottosuolo, delle cisterne e quella contenuta nel terreno agrario vi si discioglie dando luogo a formazione di H2COa che è per sua natura velenoso e dannoso ai tes¬ suti delicati; cosicché questa acqua bevuta dagli animali o assorbita — 115 — dai vegetali cagiona distruzioni e morte; difatti si è avuta la perdite! di un cavallo (vedi N. 19) e la distruzione di intere zone coltivate. 3) — Le regioni ove più intensamente si è risentita l’azione malefica sono: Novelle di S. Vito, Contrada di S. Vito, Croce dei Monti, parte di Villanova ed una striscia tangenziale all’ edificio vul¬ canico. In secondo ordine vengono le regioni: Madonnelle e Casacani- poni. Seguono le rimanenti regioni che hanno dato solo lievissime manifestazioni. 4) Le prime manifestazioni mofetiche si ebbero quasi con¬ temporaneamente all’eruzione cioè nel giorno 20 marzo a q. 200, nel giorno 21 a q. 220 e giorno 24 a q. 118, da una cava di pietre e da crepacci sulle lave del 1631. Altre esalazioni si notarono nei giorni 6-7-8 9-10-24 aprile e queste hanno inferto maggiori danni all’agricoltura, perchè sono affiorate in terreno agrario. 5) — Le esalazioni mofetiche costituiscono quattro caratteristici allineamenti di cui tre sono radiali ed uno tangenziale rispetto al¬ l’edifìcio vulcanico. I primi tre sono: I — S. Vito, Le Madonnelle, Bellavista, con prima sensibile manifestazione : 20 marzo q. 200 24 » » 118 II — Tironi, Novelle S. Vito, Pugliano, Trentola 6 aprile » 275 7 » » 250 8 » » 220 *■ 10 » » 162 24 » » 64 III — Croce dei Monti, Villanova 9 » » 277 8 » » 161 IV — L’allineamento tangenziale aH’cdificio vulcanico parte dal Cimitero di Portici, segue Bellavista, Pugliano, Trentola e va quasi ad allacciarsi a Villanova formando una striscia compresa fra le curve di livello 100-120, con manifestazioni che si notarono il 10 aprile. 6) — Da questi allineamenti appare: I — Che lungo il primo di essi le manifestazioni si osserva¬ rono nei primi giorni del parossisma vulcanico e precisamente dopo tre giorni dall’inizio. Sembra strano, ma il numero delle concordi testimonianze (sette) fa ritenere di dover escludere la possibilità di errori di date da parte degli osservatori. II — Il ritardo della manifestazione mofetica risulta funzion 1 — 116 — della distanza dall’asse vulcanico. Ciò si osserva molto evidente nei primi due allineamenti. IH — Anche la durata dell’attività mof etica presenta una re¬ lazione con la distanza nel senso di un aumento con il crescere deh l’edificio vulcanico. Di fatti: a q. 275 non si osservarono più manifestazioni mofetiche nella terza decade di giugno; a q. 250 le mofete avevano scarsa attività nella fine della prima decade di luglio; a q. 100 le mofete si estinsero alla metà di novembre. 7) — Il suolo agrario si è dimostrato un mezzo molto assot^ Lente della C02. I danni alle colture sono tanto più gravi quanto più sottile è lo spessore dello strato agrario, anzi ove questo è intorno ai 5-6 metri nessuna azione deleteria viene osservata in superficie. Questa circostanza spiega la presenza di oasi immuni o appena dan¬ neggiate tra le zone allineate gravemente colpite. Così la regione del Genovese, zona ricoperta superficialmente da suolo agrario è situata tra il secondo e il terzo allineamento. 8) — L’ulivo è apparso la pianta più tenace all’azione distrut¬ tiva dell’acido carbonico, ma non si può dire che le piante sempre verdi resistano maggiormente, poiché anche gli agrumi ed un annoso carrubo hanno soggiaciuto all’azione delle mofete. 9) — Confrontando la zona mofetiea e il campo di lava della eruzione del 1631 nella regione in esame si scorge che le due zone hanno presso a poco gli stessi contorni, e lungo questi l’esalazione mofetiea è più intensa, anzi diversi osservatori hanno notato che l’e¬ salazione mofetiea proveniva direttamente dalla roccia. 10) — Nonostante che nelle altre zone circumvesuviane ci siano dei pozzi profondi dalle cui pareti, in determinate condizioni di pres¬ sione, si sprigiona la C02, tuttavia durante il parossisma vulcanico ultimo, non si sono avuti particolari e straordinarie esalazioni, poiché il loro comportamento è stato normale durante l’eruzione e dopo. Come pure é stata normale l’attività della mofeta di Torre del Greco in S. Maria L’Aiuto. Questi due ultimi dati ci assicurano che la causa delle mofete che appaiono durante i parossismi vesuviani è inerente a particolari condizioni fisiche o fìsico- chimiche in cui verrebbe a trovarsi la zona interessata. 11) — L’attività mofetiea è in funzione inversa della pressione atmosferica. Sarcosporidiosi (psorospermosi) da nuova specie (Prot.: Sarcocystis atractaspidis n. sp.) in rettile ( Atractaspis ) Nota del socio Pietro Parenzan (Tornata del 27 novembre 1946) In un esemplare lungo 60 cm. di Atractaspis leucomelas (Oplii- dia) della Piana di Uasin Gishu (Kenya, alt. 2,200 m) trovai (gennaio 1944) dei noduli ellittici bianchi disposti in serie lineare nella mem¬ brana mesenterica, nel terzo distale, ed uno uguale nel polmone. All’esame microscopico del contenuto potei identificare tali no¬ duli per cc balbianie », cioè cisti macroscopiche vecchie di Sarcospo” ridi, protozoi inclusi attualmente, sebbene con incertezza, nella classe dei Neosporidi (Sottotipo: Citomorfi). Notizie su tali protozoi ci sono date da vari AÀ., fra i quali Brumpt, Braun, Boschetti G., Croveri, Cesari M., Crawley, Dar- ling, Declich, Erdmann, Kasparek, Rei Arai, Koch, Lambert S. W., Laveran, Marullaz, Moulé, Mesnil, Negri, Négre, Pfeiffer, Pùtz, Probst, von Ratz, Schneidemùhl, Smith, Sergent, Splendore, Sato S., SCHULZE, TeICHMANN, ZlBORDl. I Sarcosporidi sono ben noti come parassiti di mammiferi, ^opra- tutto degli animali domestici: bovini ( Sarcocystis Blanchardi S. Bc- noiti ), equini (S. Bcrtrami ), ovini e caprini (S. tenella ), bufalini (S. Blanchardi , S. tenella bubali ), suini (S. miescheriana ), roditori (S. miiris), di altri vari mammiferi (S. aucheniae, S. h aneti , S. itur- bei ), e di poche specie di uccelli. Sono stati riscontrati fino ad òggi rari casi di Sarcosporidiosi umana (da Sarcocystis Lindemanni e S. tenella), mentre non sono noti per altri gruppi zoologici. I fenomeni tossici prodotti da questi parassiti sono l’ipertermia, il dimagramento, le contrazioni tonico-cloniche e infine la morte. Secondo il Vanni, ospite intermedio della S. tenella sarebbe il dittero Calli phora vomitoria. II mio reperto neW Atractaspis acquista un interesse particolare — 118 — come prima segnalazione di infestazione sarcosporidica in rettili nel Kenya . Anche il rinvenimento in parola sta a dimostrare come la sarco- sporidiosi possa essere presente, come è noto, senza dare apparenti manifestazioni morbose anatoino-fisiologiche. Le condizioni generali del reti ile erano normalissime, l’aspetto dei vari oygani normale per colorito, struttura e proporzioni, muscolatura costale di colore nor¬ male, panicelo adiposo abbondante. La balbiania polmonare (diam. magg. 3 min) appariva bianco¬ gialliccia, di consistenza membranacea. Le balbianie mesenteriche, in numero di 16, presentavano una consistenza maggiore, colorito per¬ fettamente bianco, forma ellittica oyalare col diametro maggiore di min 3 e minore di inm 2; alcune di esse erano lievemente maggiori (min 3,8) ed alcune minori (1-2 inni). All esame microscopico le balbianie risultarono incapsulate nella membrana mesenterica. La cisti propriamente detta presentava la inembranella anista esterna estremamente sottile, e la parte membra uosa interna spessa. Le dette balbanie contenevano una massa di spo- rozoiti in vari stadi degenerativi. Gli sporozoiti non alterati o poco alterati erano più o meno piriformi, più o meno affusolati, con dimen¬ sioni oscillanti fra 15 e 25 micron. Con lieve colorazione al blu di metilene e inclusione in glicerina (previa formalinizzazione delle bal¬ bianie in toto) gli sporozoiti apparirono a citoplasma omogeneo e fine¬ mente granuloso, a volte fibrillare, con ampia areola nucleare inco¬ lora. apparentemente vuotale nucleo compatto o plurigranulare, in certi casi a rosetta, in altri a due o più granuli irregolari od un gra¬ nulo maggiore ed uno o più minori. I granuli nucleari apparivano a volte come imbrigliati nell’ampia areola nucleare. Ho riscontrato an¬ che due spore evidentemente morte in fase di scissione. Fissando le balbianie in liquido di Bouin, all’esame del contenuto gli sporozoiti si identificavano bene perchè apparivano fortemente tinti in giallo omogeneo. Denomino questa specie di Sarcosporidio : Sarcocystis atractaspi- dis n. sp. .In febbraio dello stesso anno dissezionai un altro rettile della stes¬ sa località (non velenoso e non determinato), lungo circa 70 cui, ed ebbi l’occasione di trovare in esso, sempre nel mesentere, parallela¬ mente all’intestino, delle balbianie (una dozzina), tre delle quali lun¬ ghe da 6 a 7 inni. Nelle b. di 2 3 inni trovai degli sporozoiti ancora in condizioni ottime, mentre in quelle di 6-7 min trovai solo il pro¬ dotto della degenerazione grassa: granulazioni, cristalli di acidi grassi, — 119 — gocciole più o meno grandi di grasso. Non notai sporozoiti nel sangue di questo secondo rettile. Diagnosi: Sporozoiti piriformi più o meno affusolati e falcati, con la parte nueleata relativamente molto dilatata, e la parte opposta a volte arrotondata ma più spesso acuminata, talvolta assottigliata da sembrare, un corto flagello. Ampia areola nucleare nettamente deli¬ mitata, con nucleo centrale monogranulare o poligranulare. Lunghez¬ za totale da 15 a 25 micron. Balbianie ellittiche ovalari, bianche, con¬ sistenti, di proporzioni massime di 7 x 4 min (nei materiali esaminati), insediate nei polmoni e nella membrana mesenterica. — Sporozoiti in circolo sanguigno riscontrati in scarso numero, lievemente più tozzi dei precedentemente descritti. — Il parassita è stato rinvenuto in ret¬ tile velenoso: Atractaspis leucomelas, nella Piana di Uasin Gisliu, nel Kenya (Africa), a circa m. 2,200 s.m. Sporozoyta ut piri forma, plus minusve producta sicut fusi atque falcata, nueleata parte comparate dilatatissima et contraria parte ali quando rotundata, sed saepius acuta, aliquando extenuata ut breve flagellmn videatur. Ampia nuclei corona, nitide terminis circumscrip- ta et dehnita, cui medius nucleus unius grani aut plurium granorum est. Iota longitudo ab 15 usque 25 micron. — Balbianiae ovatae, al- bae, firmae, quibus rationes maximae 7x4 mm (in rebus probatis) sunt, sibi domicilium constitutae in mesenterica membrana. — Spo¬ rozoyta in sanguineo circuì o recognita in exiguo numero leniter magis pinguia quam ea quae supra deseripsimus. — Parasitus inventus est in venenoso ophidio cui nomen est Atractaspis leucomelas , in Kenya apud planitiem Uasin Gishu cui altitudo 2,200 metra circiter supra mare est. Una nota preliminare >ul reperto, oggetto della presente relazio¬ ne è stata pubblicata in ciclostile (45 copie) durante la prigionia del- l’A. ne! Kenya, dalla War Prisoners’ Aid of thè Young Man’s Chri“ stian Associations under thè auspices of World ’s Committee of thè Y.M.C.A. '(Geneva, Switzerland), 1944. Napoli, novembre 1946. Nota preliminare sul grande terremoto del Mediterraneo orientale del 12 ottobre 1856 Nota del socio Gustavo Mazzarelli (Tornata del 28 dicembre 1945) Al curii anni or seno il Prof. Giovanni Agamennone, l’insigne si¬ smologo già direttore deH’Qsservatorio di Rocca di Papa, mi affidava gentilmente l’incarico di studiare il grande terremoto del 12 ottobre 1856 il quale non solo causò grandi distruzioni con perdita di vite uma¬ ne in gran numero nelle isole di Rodi, Scàrpanto, Creta e Santorino, ma produsse gravi danni con qualche vittima anche in località assai lontane come nella regione del delta del Nilo a Tanta e al Cairo, in Sicilia a Grammichete e inoltre causò il crollo di alcune case nel¬ l’isola di Malta, L’epicentro dovette trovarsi a notevole profondità perche l'area macrosismica fu molto estesa essendo stato avvertito il terremoto fino in Egitto, in Siria, in Asia Minore, a Palermo, a Urbino, a Zara. Nell’epoca attuale lo studio di un terremoto può essere reso più facile dalle registrazioni ottenute nei numerosi osservatori sparsi sul globo e dalla possibilità di avere un gran numero di notizie macro- sismiche; ma nell’istante in cui avvenne il terremoto in oggetto Pu¬ nico sismografo esistente nell’area macrosismica, era quello del Pal¬ mieri a Napoli ed era fermo. L’unico osservatorio che potè fornire l’ora esatta della scossa fu quello astronomico di Palermo ove A fer¬ mò il pendolo cc Mudge ». Sono stato quindi costretto a eseguire uno studio soltanto macro- sismico, che ho dovuto sospendere durante il periodo bellico, e al¬ l’uopo mi sono valso dell’abbondante, materiale di osservazioni che P Agamennone aveva raccolto in molti anni, al quale era accluso una vasta bibliografia, e a me consegnato. Nella presente nota riassumo brevemente il lavoro eseguito spe- rando di poterlo pubblicare al completo non appena saranno elimi¬ nate le difficoltà di stampa del momento attuale. L’ora della scossa a Rodi sarebbe stata 2h 31,1 m. am. (tempo medio riferito al meridiano di Atene), ma non vi sono elementi che provino la sua rigorosa esattezza. Il Mercalli nel suo libro cc Vulcani e fenomeni vulcanici in Italia » commette un errore e cioè a pag. 324 parla di due terremoti del 16 ottobre 1856, uno avvenuto a Malta verso le 2 am. e un altro verso le 3 am. die danneggiò Candia e altre isole dell’arcipelago greco, ma si trattava invece dello stesso terre¬ moto indicato con ore diverse a causa della differenza di longitudine. Da quanto ho potuto rilevare attraverso le varie notizie raccolte e di fonte diversa, ritengo che l’epicentro del terremoto occupi una striscia del fondo del mare tra l’isola di Santorino e l’arco formato da quelle di Creta, Caso, Scàrpanto e Rodi, probabilmente in corri' spondenza della depressione che supera i 2000 metri di profondità. Poiché tale depressione si può ritenere die coincida con una faglia, tenuto conto del rapido dislivello di oltre 1000 metri a pochi chilo¬ metri di distanza, avviene che al manifestarsi di un terremoto la fa¬ glia vibra tutta e i paesi che si trovano sul suo prolungamento, come la città di Candia e la regione settentrionale di Creta a ponente di questa città, le isole di Caso, Stacchida, Scàrpanto, Calchi e Rodi, vibrano aneli ’essi subendo talvolta conseguenze anche gravi. Nella città di Rodi e nella regione occidentale dell’isola omo¬ nima, nelle isole di Calchi, Scarpanto, Stacchida, nelle città di Can¬ dia, La Canea, Chissamo nell’isola di Creta si trovano entro i’iso- sisma del grado X'° della scala Marcalli-Sieberg. Considerando altri fenomeni come lo sprofondamento di villaggi nell’isola di Santorino, quello di Chissamo a Creta, e inoltre nell’isola di Rodi spaccature del suolo presso Cesellino, franamento di rocce a Lindo, formazioni di sorgenti a Monolito, si potrebbe ritenere che nella zona epicen- trale il terremoto sia stato dell’intensità del grado XP. Le isosisme di grado IX0 e X’ con molta probabilità si trovano nel mare; nemmeno è individuabile quella di Vili0. L’isosisma di VII’ passa certamente per Castelrosso, ma mancano altri dati per poterla tracciare; a questo punto devo far notare che in Egitti) il Cairo e Tanta fanno parte di un’isola del VII0 grado mentre ad Alessandria e a Damietta la scossa fu di VP grado. Così pure in Sicilia Grammi- chele si trova in un’isola di VIP grado mentre a Pozzallo, Siracusa, Catania e Messina passa l’isosista di VP grado che prosegue per Ni- castro, Catanzaro, Lecce, Corfù, Prevesa, Santa Maura, Giànina, Ate¬ ne, Sira, Smirne, Aidin, Boudrum, Beirut, Damasco, Tiberiade, Giaf¬ fa. Anche il gruppo di Malta e Gozo deve essere consideralo come — 122 — un’isola di grado VII0. L’isosisma di V'° grado passa per Palermo, Foggia, Bovino, Ragusa (Dalmazia) e quella di IV'0 per Napoli, Man¬ fredonia, Bari, Valona, Monastir, ma mancano altri elementi per determinare quali altre regioni attraversino. Ad Ancona e forse an¬ che a Zara il terremoto fu di III0 grado. Quanto al forte terremoto avvertito a Chambery, a Montiers, e a Cliarge con frane sulle mon¬ tagne, ritengo che si tratti di fenomeni locali, come pure quello che riguarda la scossa avvenuta anche lo stesso giorno a Zittau. Riguardo poi l’alto grado d’intensità della scossa nelle regioni di Malta e di Grammichele così lontane dalla zona epicentrale, es^o può spiegarsi con la vibrazione della faglia o delle faglie successive esi¬ stenti lungo l asse, diretta da levante a ponente, attraversante la grande depressione mediterranea tra Creta e C° Passero e Malta con profondità superiori ai 3000 metri. La stessa spiegazione può farsi all¬ eile per la regione del delta del Nilo per la presenza di una faglia che dallo stretto di Caso si dirige presso a poco verso Alessandria. Questa faglia si troverebbe su per giù lungo una linea di depressione da me individuata sovrapponendo sulla carta idrografica italiana dello Istituto Idrografico della Mafina n. 370 le quote della carta idrografica pure italiana n. 64 6 B (1929) e quelle fornite dalla cc Carte Bathyme- trique des Océans » di S.A.S. il Principe di Monaco. Anche in occasione di altri grandi terremoti aventi l’epicentro nella regione di Creta e di Rodi in epoche precedenti o seguenti quello del 1856, si ebbero danni in Egitto, a Malta e in Sicilia e questo fenomeno è oggetto di uno >tudio che sto facendo. Colgo l’occasione per ricordare che J. F. Julius Schmidt consi¬ derò prima l’epicentro nell’isola di Sanlorino, poi stabilì che si tro¬ vasse in un punto del Mediterraneo a circa 200 Km. a sud di Rodi. Non comprendo come mai abbia potuto considerare questo secondo epicentro sapendo che le maggiori rovine si erano avute nella parte settentrionale a Candia e a ponente di questa citttà. Nel terminare la presente nota sento il dovere di ringraziare il Prof. Agamennone per il lavoro affidatomi. Su un rilievo vulcanico sottomarino al largo della costa meridionale della Sicilia Nota del socio Gustavo Mazzarelli (Tornata del 28 dicembre 1946) Nell’estate del 1927 mi venne affidato dalla Divisione Pesca del Ministero dell’Agricoltura, l’esplorazione della zona di Mediterraneo compresa tra la costa meridionale della Sicilia, la Tripolitania e la Tunisia allo scopo di compilare le carte di pesca e di eseguire ricer¬ che geofisiche varie. Le esplorazioni vennero eseguite con la R. Nave « Tritone ». Tra le regioni esplorate una delle maggiormente interessanti è quella del Banco di Graham al largo di Sciacca. Tale banco come è noto, rappresenta gli avanzi dell’isola Ferdinandea, la famosa isola vulcanica apparsa il 19 luglio 1831 che ebbe il nome di « Graham » dal Capitano Senhoijse della Marina Inglese il quale fu il primo a sbarcare nell’isola e a porvi la bandiere del suo paese. Nel 1890 il banco fu scandagliato dalla Marina Italiana con la R.N. ((Washing¬ ton » al comando dell’allora Ten. di Yasc. Pasquale Leonardi Catto¬ lica il quale trovò una profondità minima di m. 6,50 e potè determi¬ nare le coordinate geografiche di questo punto. Le coordinate, cal¬ colate con metodo astronomico e geodetico assai rigoroso, furono le seguenti : Lat. = 37° 09’ 48”, 95 N Long. - 12° 43’ 06”, 85 E Gr. Da tale determinazione risultò che il banco era segnato sulla car¬ ta idrografica inglese N, 2127 con un errore di 1355 ni. nella dire¬ zione N 75'° 24’ E. ■ _ . Nel 1923 nel volume N. di degli « Annales Hydrographiques » della Marina Francese, era detto che il Dott. I. B. Charcot Coman¬ dante del (( Pourquoi-Pas? » scandagliando nella regione del banco di Graham non era riuscito a rintracciare il banco stesso e che nel 1922 — 124 — il Prof. Pruvot neppure era riuscito a ritrovarlo. Il Dolt. Charcot esprimeva il dubbio die il banco fosse scomparso, anzi dichiarava (thè al suo posto aveva trovato profondità da 70 ad 80 metri. Tale dichia¬ razione non poteva passare inosservata alla Marina Italiana la quale provvide a far scandagliare accuratamente la zona con la nave cc Ma¬ gnagli ». Il 13 luglio 1926 il banco fu ritrovato e la sua sommità era alla profondità di metri 8,5 e non di m. 6,50 come trovò il Leonardi Cattolica, ma tale minima differenza è dovuta evidentemente a dif¬ ferenti livelli della marca e alla influenza di fattori meteorologici; ma non è neppure da escludersi l’ipotesi che sia prodotta da feno¬ meni erosivi. Le eordinate geografiche della sommità del banco determinate anche questa volta col metodo astronomico e con quello geodetico, facendo use dei medesimi capisaldi di cui si vervi il Leonardi Catto¬ lica. rhultarono identiche a quelle calcolate nel 1890. Evidentemente le navi dei due eminenti oceanografi francesi >uhirono spostamenti a causa del vento o delle correnti. Dagli scandagli eseguiti dalle navi « Washington » e « Magnaghi » rispettivamente negli anni 1890 e 1926, è risultato che il banco shnnalza da profondità di circa 180 metri e che nella direzione NW-SE presenta due guglie, delle quali la più meridionale è quella più elevata e corrisponde alla quota di 8 metri. In seguito all’esplorazione e alla raccolta di materiale di fondo fatta col palombaro della « Magnaghi », la sommità del banco, die ha un’area di circa 30 metri quadrati, con profondità oscillanti tra gli 8 e i 12 metri, appare sparsa di crepacci ricoperti da vegetazione assai fitta e costituita da roccia basaltica. Le dragate che io eseguii con la nave « Tritone » fornirono campioni di roccia vulcanica ricoperta da spessi strati di Madrepore e Briozoi. La presente nota riassume brevemente uno studio molto più este¬ so che per le difficoltà del momento non posso ancora pubblicare. BIBLIOGRAFIA Leonardi- Cattolica Pasquale, Trattato di Idrografia , parte II, fase. IL Genova, Tip. del R. Istituto Idrografico, 1906. Istituto Idrografico della R. Marina. Boll. idr. Genova, maggio 1926. I Vulcani Sabatini Nota del socio Antonio Scherillo (Tornata del 30 dicembre 1946) Lo scopo che mi propongo colla presente nota, in attesa di poter riprendere le ricerche sul terreno, è di riassumere brevemente i ri¬ sultati degli studi sui Vulcani Sabatini. Ho parlato di « vulcani » non di « vulcano » perchè la regione Sabazia, che, come è noto si trova immediatamente a nord di Roma non consta di un unico grande edificio vulcanico tipo Vulcano La¬ ziale, Roccamonfina, Somma Vesuvio, ma di numerose bocche erut¬ tive che si sono addensate in un territorio relativamente piccolo, creando una serie di edilizi modesti o piccoli. Dal punto di vista morfologico e petrografie© la regione si divide in due zone. L’orientale, che è l’unica regione d’Italia che possa esser paragonata ai Campi Flegrei, è caratterizzata dalla presenza in uno spazio ristretto di numerosi erateri, disposti con un evidente allinea¬ mento est ovest. Mentre questa zona è poverissima di lave, le lave sono invece abbondanti nella zona occidentale che, morfologicamente, è caratterizzata dalla presenza del lago di Bracciano, la cui conca rappresenta probabilmente, piuttosto che un cratere, l’effetto di uno sprofondamento. Un’altra particolarità della zona orientale è la presenza di un tufo giallo che la carta geologica indica come « tufo a elementi in gran parte traehitici ». Se teniamo presente la distribuzione di que¬ sto tufo il limite tra le due zone è segnato approssimativamente dal tracciato della via Cassia, se, viceversa, vogliamo tenere unito il grup¬ po dei crateri dobbiamo spostare il limite di circa 8-10 Km. più ad occidente fino al corso dell’Arrone e alla riva orientale del lago. La distribuzione dei tufi gialli indica che questi sono stati erut¬ tati, almeno per la maggior parte dal cratere di Campagnano. I miei studi petrografici a cui è da aggiungere il recente studio di A. Due- — 126 — Ci (1) hanno mostrato che si tratta di tufi vulsinitici, vicoitici, leucò- tefritici. Un lembo di tali tufi pare che affiori anche nella parte set¬ tentrionale del fianco interno del recinto del cratere di Baccano, men¬ tre mancano negli altri crateri più occidentali. Ricompaiono però, ma il fatto non è ancora accertato, nel cratere di Vigna di Valle. Quasi sempre questi tufi rappresentano la formazione vulcanica più antica, e si appoggiano sulle sabbie e argille plioceniche, a Mor- ! tipo però tra il tufo giallo e le sottostanti formazioni plioceniche si interpone una lava vulsinitica, che è l’unica tra le lave affioranti dei Sabatini che si appoggi su formazioni sedimentarie. Nella zona mar¬ ginale il tufo giallo è ricoperto in alcuni punti da un lembo di tufo rossastro litoide a pomici nere, su cui torneremo in seguito. Il tufo a pomici nere, o, dove questo manca, il tufo giallo è ricoperto da un tufo terroso rossastro che, in mancanza di un termine più preciso, viene classificato nella carta geologica come « tufo basaltico ». Tufi di aspetto analogo si stendono su tutta la regione Sabazia occidentale, dove rappresentano probabilmente tufi leucotefritici o leueititici. Sui margini esterni del cratere di Campagnano si trovano* i co¬ netti eruttivi di M. Maggiore, a nord e di M. Mosino a sud che hanno dato piccole colate di leucitite. Alquanto più a sud di M. Mosino si eleva, evidentissimo sull’altipiano tufaceo il conetto di M. Aguzzo che ha prodotto una colata di leucotefrite. J prodotti di queste piccole bocche eruttive ricoprono il tufo giallo. Altri due piccoli affioramenti di lava nella zona si osservano nei dintorni di Castelnuovo di Porto. Qui però non esiste alcun conetto: la lava del maggiore dei due affio¬ ramenti che è quello che può esser meglio studiato, attraversa il tufo giallo e si spinge fino al limite inferiore del tufo rosso. In complesso, se prescindiamo dal tufo a pomici nere alla cui ori¬ gine accenneremo più avanti, in questa zona orientale sembra clié la differenziazione magnatica sia proceduta dai tipi più acidi (vulsinite di Morlupo) ai più basici (leucotefriti e leucititi dei conetti), mentre i tufi gialli, che sono di tipo da vulsinitico a leueotefritico sono inter¬ medi. Questo in linea generale: non si può però escludere che nel corso dell’attività vulcanica non si sia avuto qualche parziale ritorno verso tipi più acidi. Un punto particolarmente interessante, sempre nella zona, orien¬ tale, si trova immediatamente a nord di Roma. Fungo il primo tratto della via Flaminia da Ponte Milvio a Grotta Rossa, sottostante al tufo giallo si trova un tufo leucititico, il così detto cc peperino ». Que- (1) Di cci A. Il centro eruttivo del M. Maggiore e alcune particolari facies laviche o proclastiche. Boll. Uff. Geol. It., voi. LXIX, 1944. Sio tufo ha tutto l’aspetto di esser stato prodotto da una bocca vul¬ canica locale, non sappiamo però se appartenente ai Vulcani Sabatini o al Vulcano Laziale. Il medesimo tufo si trova pure ai Par ioli, >ulla sinistra del Tevere. In questo punto quindi i tufi gialli sono stati pre- A bachiti (.tos canili), B vulsiniti, C leucofonoliti. D leucotefriti, E leucotefriti basiche e leu cititi. I Poggio Muratella, II M. Raschio, III M. Termini, IV Poggio il Sassetto, V. M. di Rocca Romana, VI M. Guerrano, VII M. Topino, Vili Macchia di Monterosi, IX M. Agliano, X M. delPOlmo, XI M. Fogliano, XII M. Lucchetti, XIII M. Maggiore, XIV M. Mosino, XV M. Aguzzo. Crateri: 1 Trevignano, 2 Monticchio '(?), 3 Acquarella, 4 Frazione di Roma, 5 Stracciacappe, 6 Polline, 7 Martignano quattro crateri?), 8 Pimelo (?), 9 Baccano, ]0 Lagusello, 11 Monterosi, 12 Campagnapo, 13, Vigna di Valle, 14 M. Calvi, 15 Valle Gaiana, 16 Poggio Tondo, 17 La Caldara. ceduti da altri tufi assai più basici. È pure degna di nota la circo¬ stanza che il tufo giallo che si incontra lungo questo primo tratto della via Flaminia contiene in taluni punti degli inclusi anche di no¬ tevoli dimensioni analoghi a quelli che si trovano nei tufi di alcuni dei vulcani 1 cucitici della Penisola. Sorge quindi la questione se an¬ che il tufo giallo in questo tratto sia stato prodotto da bocche vulea- nidi e locali o se i proietti si trovino nel tufo giallo in seguito alla de¬ molizione della parte superiore del tufo peperinico che li conteneva originariamente. Al cratere di Campagnano segue, procedendo verso ovest una se¬ rie di altri crateri con un distinto allineamento in direzione est-ovest. Alcuni di questi sono meglio conservati del cratere di Campagnano, il quale è stato per buona parte colmato. Lo studio petrografia dei prodotti di tali crateri è ancora da compiere: si tratta di tufi che. se¬ condo un esame sommario, appaiono di tipo basico (leucotefritico o leucititico), ad eccezione del già ricordato lembo di tufo giallo che ap¬ pare nella parte settentrionale del recinto del cratere di Baccano, È da questi crateri, in particolare da quello di Martignano, che proven¬ gono per buona parte i proietti con minerali di contatto, analoghi a quelli del peperino del Vulcano Laziale e del Somma, conservati nel museo di mineralogia dell’Università di Roma. Poiché i « tufi basici )> sono sempre superiori al tufo giallo, si deve concludere che i crateri in questione sono posteriori a quello di Campagnano. Al gruppo può essere aggiunto il cratere di Trevignano, mentre isolato e molto più al nord si trova il cratere di Monterosi. Alcuni di questi crateri hanno il cono pochissimo accentuato (Monterosi, Stracciacappe) o mancante (Trevignano) onde sono stati paragonati da von Rath ai maaren dell’Eifel. Non pare che i crateri di questo gruppo abbiano emesso lave: le lave che si vedono nella parete interna del cratere di Trevignano sono anteriori alla bocca erut¬ tiva e sono state appunto messe in evidenza dall’apertura della bocca eruttiva stessa. Si tratta di leucititi. Nel rimanente della regione Sahazia le correnti di lava sono in¬ vece relativamente abbondanti. Alcune grandi correnti di leucitite si trovano intorno al paese di Monterosi; nella zona sono ancora rico¬ noscibili vari conetti eruttivi che, probabilmente, sono in relazione con queste lave. Le lave sono pure abbondanti nei dintorni di Mon- terano Diruto, e, almeno topograficamente, potrebbero provenire da M. Raschio o da M. Termini. Notevoli colate di lava affiorano in molti punti sul fondo dei fossi che confluiscono verso Cervetri. L’origine di queste colate si deve trovare probabilmente in una o in diverse boc¬ che imprecisate nei dintorni di Bracciano. Tutte queste lave sono per lo più leucititi, ma in parte anche leucotefriti basiche. Infine le cor¬ renti di lava hanno un’estensione imponente a sud del lago tra Gale¬ ria e Croeicchie. Queste lave sono leucititi e sembrano scaturite dalla, base del cono del cratere di Vigna di Valle. Lungo la via Claudia tra il ponte sull’Arrone e Bracciano si trova però qualche piccolo af¬ fioramento di una lava molto alterata ricca di fenocristalli di leucite, 129 — che forse è una ìeucotefrite. Altre piccole colate nella zona Sabazia occidentale si trovano qua e là: sono sempre o quasi sempre leueititi. Anche in questa zona si osserva il tufo a pomici nere che è sopra¬ tutto esteso nei dintorni di Cervetri, ed è inferiore alla coltre del tufo rosso. A Cervetri questo tufo è superiore alla leucitite, mentre è in¬ feriore alle lave di Monterano Diruto e alla leucitite di Galeria. Que- ^t’ultima è una constatazione importante, perchè dimostra che tale leucitite è posteriore al tufo giallo della regione orientale. La por¬ zione che rimane del cono del cratere di Vigna di Valle appare co¬ stituita da tufo giallo, ma non ne è ancora stata determinata la na¬ tura petrografica. Le lave situate nel bacino idrografico del lago presentano una maggiore varietà. Qui bisogna distinguere tra le lave messe in evi- denza per lo scoscendimento delle rive o perchè fanno parte della parete interna dei crateri parzialmente demoliti compresi nel pe¬ rimetro del lago stesso, e le colate laviche che si sono riversate nel bacino del lago. Le prime sono anteriori alla forntazione della conca del lago, le seconde sono posteriori. Tra le prime oltre alla leucitite di Trevignano, già ricordata, sono da menzionare le leueititi del tratto di riva a N.E. di Anguillara Saba¬ zia, e le lave (leueititi e vicoiti) nell’interno del cratere di Vigna di Valle; tra le seconde le colate di leucofonolite di Poggio Murateli a e di Vicarello, che proseguono ancora sotto il livello delle acque, come è mostrato dall’andamento delle curve hatimetriche. Si sono pure ri¬ versate nel bacino del lago le colate di leueititi e di leucofonoliti basi¬ che che si osservano nel tratto fra Bracciano e Vigna di Valle. In complesso, tra le lave della regione Sabazia occidentale pre¬ dominano le leueititi. Quanto all’ordine di successione non si può stabilirlo con sicurezza, tuttavia le colate di leucofonolite sono cer¬ tamente posteriori ad alcune almeno delle leueititi, p. es. a quelle di Trevignano, mentre le leueititi di Crocicchie sono alla loro volta po¬ steriori ai tufi gialli della regione orientale Secondo me il fatto che le colate visibili (quindi le colate superiori) sono per la maggior parte leueititi, dovrebbe indicare che le lave più recenti sono state in prevalenza appunto leueititi salvo temporanee e locali differenzia j zioni verso tipi più acidi (leucofonoliti di Vicarello e Poggio Mura¬ tella). Del resto le leueititi di Trevignano sono state precedute da rocce più acide (leucofonoliti e forse anche leucotefriti) che si tro¬ vano fra i blocchi rigettati dalla bocca di Trevignano, di altre pros¬ sime bocche eruttive e di Monterosi. Tali blocchi, che si riconoscono ^ per l’abbondanza dei fenoeristalli di leucite^ non rappresentano bombe vulcaniche di un magma coevo, ma frammenti di colate precedenti 9 attraverso le quali il condotto vulcanico si è aperta la via. Inoltre abbiamo vicoiti preesistenti alla formazione del bacino del lago (Vigna di Valle) e, viceversa, colate di leucititi e leucotefrili basiche più recenti. È probabile che le diverse lave, così come non sono state emesse dallo stesso condotto vulcanico, non rappresentino il prodotto della differenziazione del magma di un medesimo focolare, ma derivino da vari focolari secondari, semi indipendenti fra loro, in cui il corso della differenziazione può esser dipeso da cause locali, oppure pro¬ vengano da punti diversi di uno stesso focolare il cui magma, in se¬ guito a differenziazione, presentava in punti diversi composizione differente. Effettivamente nella distribuzione dei tipi delle lave più recenti (o che sembrano recenti come le leucotefriti della Madonna del Riposo e di Poggio Cotognola presso Bracciano, e le vicoiti del M. di Rocca Romana a nord di Trevignano) sembra esservi una certa regolarità: le rocce più acide si trovano tra Vicarello e Poggio Mura- tella, e a queste, sia verso Trevignano che verso Bracciano segue una fascia di leucotefriti. Abbiamo ricordato che al di là di Bracciano le lave recenti continuano con tipi ancora più basici. Una questioni molto controversa è l’origine della conca del lago di Bracciano. Dopo aver visitata la regione intorno al lago mi pare più esatto vedervi, piuttosto che un cratere, l’effetto di uno spio- fondamento, dato che in nessun luogo si vedono le tracce dell’even¬ tuale cinta craterica. Lo sprofondamento sarebbe stato posteriore al¬ l’apertura delle bocche eruttive di Trevignano, Acquarella, Polline, Vigna di Valle i cui crateri sono aperti dalla parte del lago, mentre sarebbe stato anteriore a tutte o a buona parte delle formazioni vul¬ caniche della riva occidentale. Escluso che la conca del lago di Bracciano rappresenti una bocca eruttiva non si vede però a quale bocca attribuire l’origine dei tufi a pomici nere. Non resta che supporre che questa bocca si trovasse appunto nella zona che è sprofondata, o attribuirne l’origine al vul¬ cano di Vico che è appunto circondato da un’imponente formazione di tufi a scorie nere, molto simili a questi, salvo però la tendenza ad una maggiore basicità del tipo petrografieo delle scorie. Con questa ipotesi si semplificherebbe il quadro dell’evoluzione magmatica dei Vulcani Sabatini, perchè i tufi con pomici (di tipo acido) si trovano, come si è detto, compresi nella regione occidentale tra le colate di leucitite di Cervetri e di Crocicchie. Ricordo da ultimo che dove, nella zona di M. Calvario presso Manziana, vengono a contatto le leucititi colle trachiti del gruppo della Tolfa, le leucititi sono più recenti di queste ultime. La struttura dell’ atomo e il sistema periodico degli elementi Nota del socio Lea Pannain (Tornata del 30 dicembre 1946) In relazione con la struttura dell’atomo e con la loro posizione nel Sistema Periodico del Mendele IEFF, gli elementi chimici vengono riuniti in quattro aggruppamenti: 1° - I gas nobili, 2° - Gli elementi tipici, 3° - Gli elementi di transizione, 4° - Gli elementi delle terre rare. I gas nobili, — Elio, Neo, Argo, Kripto, Xeno e Nito o Emanio o Radon — costituiscono il gruppo ZERO, sono zerovalenti, perchè non hanno elettroni di valenza, l’orbita o strato periferico è comple¬ to, formato da 2 elettroni nell’elio e da 8 negli altri. Le orbite sot¬ tostanti sono parimenti complete e contengono un numero di elet¬ troni uguale al doppio dei quadrati dei numeri naturali, a comin¬ ciare dallo strato più interno; IC = 2 x l2 = 2 L = 2 x 22 = 8 M = 2 x 32 = 18 N = 2 x 42 = 32 O = 2 x 32 = 18 P = 2 x 22 8 Elementi tipici sono stati considerati finora gli elementi dei tre piccoli periodi: — 1°, 2° e 6° — nonché i due primi e gli ultimi cinque di ciascuno dei tre grandi periodi. Sono caratterizzati da uno strato elettronico, periferico, incompleto, contenente da 1 a 7 elettroni, meli- tre gli strati sottostanti sono tutti completi. Gli elettroni periferici, in numero uguale al numero del gruppo in cui è compreso l’elemento, ne caratterizzano la valenza limite. Gli elementi tipici dei gruppi dal I al IV presentano la stessa valenza tanto rispetto all’idrogeno e agli alogeni, quanto rispetto al- Tossigeno. Gli elementi dei gruppi V, VI e VII presentano rispetto all’os¬ sigeno la valenza massima uguale al numero degli elettroni perife¬ rici, e rispetto all’idrogeno e agli elementi elettropositivi la valenza minima uguale al numero degli elettroni che occorrono nell’orbita periferica, affinchè si completi l’ottetto. Gli elementi di transizione sono 10 per ogni grande periodo: la triade del gruppo Vili con i 5 elementi che la precedono e i 2 che la seguono. Essi, pur essendo stati compresi nei gruppi dal I al VII del 'S. P , non sono strettamente analoghi ai corrispondenti elementi tipici, per cui, vengono separati verticalmente da questi; così ogni gruppo viene diviso in due sottogruppi, uno degli elementi tipici e l’altro di quelli di transizione. Questi non presentano la valenza tipica del gruppo, hanno tutti due elettroni periferici, ma oltre a comportarsi da bivalenti, e non sempre, presentano altre' valenze, tra cui anche quella del gruppo. Gli elementi del gruppo II, ritenuti di transizione, sono tipica¬ mente bivalenti , al pari di quelli tipici dello stesso gruppo; quelli del gruppo III sono sempre trivalenti. Ritengo che gli elementi del sottogruppo b del gruppo II si deb¬ bano comprendere tra gli elementi tipici, non solo perchè hanno due elettroni periferici e sono caratteristicamente bivalenti, ma perchè tutti gli involucri sottostanti sono completi , al pari di quelli degli ele¬ menti tipici, mentre la caratteristica degli elementi di transizione è che Vinvolucro immediatamente sottostante agli elettroni periferici è incompleto. La differenza tra i due sottogruppi del gruppo II si riscontra nel numero di elettroni dell’involucro completo più esterno, che ne con¬ tiene 8, negli elementi del sottogruppo a, e 18 in quelli del sotto¬ gruppo b. Di questi solo il mercurio dà due serie di sali: i mercurosi col catione biatomico bivalente Hg2++ , e i mercurici col catione mono¬ atomico, bivalente, Hg++ forse perchè la struttura elettronica di que¬ sto atomo è più complessa. Gli elementi di transizione del gruppo III si comportano da tri¬ valenti, al pari di quelli tipici dello stesso gruppo, perchè insieme ai due elettroni periferici perdono il nono dell’ orbita sottostante — M,N,0 — per la tendenza a formare l’ottetto, corrispondente al gas nobile che li precede. Gli elementi delle terre rare, sono caratterizzati dalla presenza di due orbite incomplete — N ed O — al disotto dei due elettroni peri- f e rici : Forbita. O, al pari di quella del lantanio, ha 9 elettroni, ai disotto dei due elettroni periferici, die vengono ceduti insieme col nono dell’orbita 0, così si comportano da trivalenti, in analogia con gli elementi di transizione del gruppo III, analogia, che, per la loro struttura elettronica, è maggiore col lantanio die lia parimenti For¬ bita O di 9 elettroni. Gli elementi di transizione dei gruppi IV, V, YI e VII, preseli* Lano anche la valenza limite tipica del gruppo, per la tendenza de¬ gli elettroni dell’involucro incompleto, oltre gli otto, a passare in quella periferica, per modo che il loro atomo prende la struttura elettronica degli elementi tipici del gruppo. Il cromo , per es., assume la esavalenza, perchè 4 dei 12 elettroni dell’orbita incompleta M passano nello strato periferico, che così com¬ prende 6 elettroni e il cromo si comporta da esavalente in analogia con lo zolfo. il manganese si comporta da eptavalente , in analogia col cloro , perchè 5 elettroni dello strato M passano in quello periferico. Ma, se ne passano solo 4, il manganese si comporta da esavalente in analo¬ gia con lo zolfo. Il cromo e il manganese possono anche cedere solo i due elet¬ troni periferici, rimanendo nell’orbita incompleta M rispettivamente 12 e 13 elettroni, e formano cationi bivalenti, dando i sali cromosi e manganesi; ma se, oltre i due periferici cedono anche un elettrone dell’orbita M, formano cationi trivalenti e danno i sali cromici e man¬ ganici. Ciò in perfetta analogia con ferro, cobalto e nichelio, che con analogo meccanismo possono funzionare da hi e trivalenti. Quanto precede trova riscontro in una tabella elei S. P., nella quale le tre triadi Fe-Co-Ni, Ru Rh-Pd, Os-Ir-Pt, rimangano nel gruppo Vili, dove le collocò il Mendelejew, e i gas nobili siano com¬ presi nel gruppo Q, perchè zerovalenti. Mentre per i gruppi dal I al VII il numero del gruppo corrisponde al numero degli elettroni di valenza degli elementi tipici, gli ele¬ menti del gruppo Vili, che sono elementi di transizione hanno solo 2 elettroni periferici e corrispondentemente sono bivalenti, ma pre¬ sentano almeno un’altra valenza, per la possibilità di perdere uno o più elettroni dell’orbita incompleta. Il Rutenio e l’Osmio danno i tetrossidi perchè possono perdere 6 dei 14 elettroni di tale orbita in¬ completa, che in tal modo diventa un ottetto. È da ritenersi che anche il ferro possa dare il tetrossido, perchè la sua orbita incompleta ha del pari 14 elettroni. L’idrogeno deve essere collocato nel gruppo I, quale monova¬ lente, in corrispondenza dei 5 metalli alcalini, al pari dei quali ha — 134 — un solo elettrone di valenza, e con l’ossigeno forma l’acqua e l’acqua ossigenata, le cui formule sono analoghe a quelle dei loro ossidi — X20 — e dei loro perossidi — X2Q2 — . Conclusione Da quanto ho esposto in questa nota emerge: I. — che i gas nobili sono caratterizzati dalla distribuzione degli elettroni in orbite complete , compresa quella periferica , che com¬ prende due elettroni nell’ elio e un ottetto negli altri; II. — che gli elementi tipici sono caratterizzati da un’orbita in¬ completa, peri /erica, che contiene da 1 a 7 elettroni , corrispondente¬ mente al numero del gruppo in cui sono compresi , alla quale sono sottoposte tutte orbite complete ; III. — che gli elementi di transizione sono caratterizzati da due elettroni periferici , ai quali è sottoposto un involucro incompleto , il cui numero di elettroni varia da 9 a 17. Pertanto essi sono 9 per ogni grande periodo, e non 10 giacché anche i 3 elementi del sottogruppo b del gruppo li sono elementi tipici bivalenti avendo due elettroni pe¬ riferici ai quali sono sottoposti involucri tutti completi ; IV. — che gli elementi delle terre rare, pur avendo due elettro¬ ni periferici, come gli elementi di transizione, se ne differenziano perchè hanno due involucri elettronici incompleti , TV ed O, al disotto dei 12 elettroni periferici; V. — che la trivalenza degli elementi di transizione del grup¬ po III. al pari di quella degli elementi delle terre rare , è dovuta alla tendenza del nono elettrone, dell’ involucro, sottoposto ai due elet¬ troni periferici , di uscirne insieme a questi, assumendo la struttura stabile del gas nobile che li precede nel S. P.; VI. — che gli elementi di transizione dei gruppi IV, V, VI e VII assumono la valenza limite del gruppo, per la tendenza a lasciare 8 elettroni nell’orbita incompleta, come in particolare il cromo e il man¬ ganese, i quali, al pari del ferro, del cobalto e del nichelio , oltre a comportarsi da bivalenti, cedendo i due elettroni periferici, si com¬ portano da trivalenti, cedendo, insieme con questi due, anche uno degli elettroni dell’orbita incompleta. VII. — L’osmio e il rutenio formano i tetrossidi cedendo sei dei 14 elettroni dell'orbita incompleta, che assume la forma stabile di ottetto, parimenti il ferro dovrebbe dare il tetr ossido perchè nell’or¬ bita M ha aneli’ esso 14 elettroni. Napoli, Liceo Umberto /, luglio 1946 , NOTIZIE VESUVIANE L’ attuale fase solfatarica del Vesuvio Nota del socio Antonio Parascandola (Tornata del 30 dicembre 1946) Nel 1312-946 mi sono recato a visitare il Vesuvio; le pareti del Cono, in ispecie nel settore erano fortemente fumiganti ed il vapore si sollevava copioso e sollecito, probabilmente in rapporto alle copiose precipitazioni atmosferiche effettuatesi nei giorni precedenti. Il vento spostava rapidamente il vapore svolgentesi, e senza interru¬ zione nuovo vapore copioso affluiva senza soluzione di continuità nel¬ l’efflusso (tavola, fig. 1). Volli sperimentare lo stesso fenomeno die si verifica alla Solfa¬ tara di Pozzuoli che si manifesta mediante corpi accesi; così ottenni una rapida, copiosa e vasta manifestazione neH’incremeUtata fumiga¬ zione per tutto il settore delle pareti del Gran Cono a me visibili, fino alla sommità dell’orlo craterico. È da avvertire clic durante questa esperienza mentre le colate la¬ viche dell’ultima eruzione poco fumigavano, invece le valanghe ardenti della medesima conflagrazione, depositatesi lungo il Gran Cono fino alle ime pendici, fortemente svolgevano vapori. Sicché per tutta la parete del Gran Cono a me visibile fino all’orlo del cratere il feno¬ meno della ionizzazione gassosa era abbondantemente vistoso. Appena finito il canalone scavato nelle valanghe ardenti e che fa capo alla base del Gran Cono, venendo dalla fermata della ferro¬ via vesuviana, lì dove è il nuovo sentiero delle guide, prima di giun¬ gere alla stazione inferiore della funicolare ho rilevato con sorpresa ben caratteristico l’odore di cloro che già avevo avvertito nella zona basale del Gran Cono, oltre che altrove, già dalla fine della attività eruttiva (1). (1) Parascandola A. L’eruzione vesuviana del marzo 1944. Rend. R. Acc, Sc„ fis, e mat. Napoli, 1946, — 136 — Non ho notizie della presenza del eloro al Vesuvio in epoche precedenti, nè in altri vulcani. Perciò ritengo importantissimo tale rilievo. In questa visita al vulcano mentre ascendevo alla cima osservai numerosi, e voluminosi perfino, gomitoli di lava, nonché grandiosi blocchi lavici antichi parzialmente rifusi. Molte delle fumarole dif¬ fuse lungo il Gran Cono erano ad altissime temperature, per cui la inano non sopportava il contatto col vapore già a distanza. Accanto a tre di queste fumarole, a circa 850 m. di altezza, rin¬ venni tre piantine; il vapore condensandosi sul lapillo circostante, quasi allo sbocco del foro d’uscita, permetteva la possibilità della esi¬ stenza di questi organismi. La prima piantina incontrata e la seconda sono probabilmente dei generi Veronica e Lolium. Dico probabilmente perchè le determinazioni sono state fatte su esemplari giovanissimi, per cui occorrono ulteriori investigazioni; la terza pianta era un muschio e precisamente il Mnium ornurn. La presenza di queste tre pianticene ed in ispecie del muschio, che occupava una superficie di 4 emq. ed era rorido di goccioline di acqua e di colore verde smeraldo cupo, davano un senso di piacevole freschezza sulle aride infocate spalle del vulcano, testimoniando la eterna sete di vivere, che, attraverso quella che manifestano le -vio¬ lenti inorganizzate ina razionali forze di natura, si estrinseca poi in quella della natura vegetale. Giunto sulla cima occidentale del Gran Cono mi si parò davanti la voragine craterica. La parete che mi stava di fronte, quella cioè orientale, preseli' lava pareti precipiti verticali, composte prevalentemente di materiale lavieo a strati ad andamento orizzontale. L’orlo superiore, che, come un manto di materiale piroclastico, copre la sommità, era tutto co. sparso abbondantemente di solfo che aumentava da sud verso nord dove era copiosissimo; ed anzi notai in questo settore una grandis¬ sima plaga di eritrosidero. Lo spettacolo dello zolfo, giallo, e dell’eritrosidero, color rosso arancio, sul lapillo, che i vapori inumidivano, tendente leggermente al rosso viola, costituivano una visione policroma di insuperabile bel¬ lezza, die, commista alla visione delle precipiti rupi crateriche fu¬ manti e torride, ripagò ad usura la ingrata ascensione, che fu al¬ quanto disagevole per avere le acque diluviami distrutte le tracce dei sentierueoli prima praticati Aperta una boccetta di ammoniaca, tanto il tappo di vetro ba¬ gnato, che Torlo della boccetta, fumigarono sensibilmente per vapori bianchi e pesanti di cloruro di ammonio. Evidentemente produceva A . Parascandola — Notizie vesuviane. — 137 ciò la presenza dell’acido cloridrico, quantunque le nari non l’avver¬ tissero che debolmente e fugacemente, per il fatto che il vento, che veniva dal mare, portava via rapidamente i vapori ed i gas sollevan- tisi dalle pareti e dal fondo craterico. Le pareti crateriche occidentali, sul cui orlo io stavo, per l’alta temperatura delle fumarole che le pervadevano, rendevano tremula l’aria. Di tanto in tanto, e quasi ritmicamente, il cratere si riempiva di vapori che si sprigionavano dalle pareti crateriche occidentali e alla hase di queste, e lentamente ascendendo, favoriti dall’alta tem¬ peratura delle pareti e dalle correnti che vi si verificavano, poi si dileguavano. (Ma sopratutto caratteristico era il fatto che questi spri¬ gionamenti di vapori avvenivano come tanti soffi, come se qualche cosa dall’interno pulsasse e spingesse su il vapore; quasi accennando ad una pulsazione magmatica. Inoltratomi lungo l’orlo verso il nord del cratere, lì dove si sono verificate molte frane, per cui da Napoli attualmente si vede sull’orlo come una Y, osservai la parete verticale, la quale presentava al di sotto del manto di materiale piroclastico la lava ultima. Questa pre¬ sentava una grande frattura con porzione tendente a distaccarsi; at¬ traverso a questa frattura usciva copioso e rapido il vapore (tavola. fig. 2). Occorre tener presente che l’orlo piroclastico in sèguito alle ac¬ que dilavanti si presentava intersecato da solchi d’erosione >ui quali spessissimo si sono formate caratteristiche piramidi di erosioni. Sulle pareti rilevate si era depositato solfo, su quelle incise non se ne tro¬ vava evidentemente era stato asportato dalle acque. Nel fondo craterico, nell’angolo formato dalla parete su cui mi trovavo ed il fondo stesso, e quindi nell’angolo NW (tavola, fig. 3), si svolgeva copioso e violento il vapore (a questa fumarola del fondo io darei la stessa denominazione che fu data da Malladra ad un’al¬ tra fumarola del fondo del cratere nel 1906, ossia fumarola Mer- CALLi) e lasciava vedere evidentemente due punti di uscita. Il vapore veniva fuori dal materiale piroclastico che quasi contemporaneamente franava dagli orli e perciò lasciava scorgere deposizioni minerali. Ma la mia guida mi assicurò che sul fondo del cratere ha notato spesso deposizione di solfo, che le frane di volta in volta ricoprivano. Que¬ sto sbuffo energico di gas die viene dal fondo della voragine crate¬ rica è quello che; si nota salire, più o meno copioso, dal lato nord, agli osservatori che da Napoli guardano il monte. Faccio osservare che subito dopo l’eruzione notai che fumava il fondo del cratere nel¬ l’angolo sud; mentre ora tale angolo non dà svolgimento alcuno di — 138 — gas. Alcuni gas che si svolgevano dal fondo del cratere avevano co¬ lore debolmente azzurrognolo. Ritornando all’orlo occidentale della voragine osservai lungo la parete craterica meridionale una fumarola il cui vapore, invece di ascendere, scendeva verso il fondo del cratere per lungo tratto finche dileguavasi. Una violenta fumarola notai nel lato sud dell’orlo craterico, che sbucava tra il materiale piroclastico, ad un terzo dall’orlo. Un de¬ bole odore di cloro e di acido solfidrico notai anche sul cratere. Il fondo del cratere è tutto invaso da materiale franato. Procedendo verso la insenatura di franamento del lato nord pre¬ detto, vidi a mezza via, a pochi metri dall’orlo, un sistema di cinque fratture. La guida mi disse che prima erano due e poi tre, indi cin¬ que. Esse presentavano una larghezza media di circa 50 cm. ed una profondità non precisabile, perchè una canna lunga tre metri ancora sarebbe affondata. Una di queste fratture era lunga circa 10 metri. Attualmente le piogge col materiale trascinato hanno alquanto occluso superficialmente queste fenditure; ma la carta, come la gui¬ da Vincenzo ScogNAMIGOO mi dice, dopo circa dieci secondi si ac¬ cendeva; per vero la temperatura che si avvertiva presso queste fen¬ diture era elevata, e la mano messa nello spacco non solo doveva es¬ sere immediatamente allontanata, ma avvertiva pure una fortissima corrente ascendente d’aria ad elevata temperatura. Ci troviamo in questo caso di fronte ad autentiche ventarole. La corrente d’aria di¬ retta verso l’alto esercitava sulla mano una notevole spinta. Difatti, accesa la carta e messa su queste ventarole, a distanza già tentava smorzarsi. Mi disse la guida, che dove è la porzione dell’orlo crate¬ rico franato nell’angolo NW del pari si erano formate analoghe frat¬ ture: una superiore, trasversale all’orlo craterico, ed una inferiore ad arco colla concavità rivolta in alto. Anche queste spaccature, che poi si definirono in frane, lasciavano accendere la carta che vi si ac¬ costava. Qualche volta queste ventarole si interrompono per pochi se¬ condi e poi si rinnovano. La carta accesa sull’orlo del cratere diede vistoso il fenomeno della ionizzazione gasosa» Mi fu possibile osservare in tal caso il fe¬ nomeno analogo agli spettri del Broeken , altra volta da me osservato alla Solfatara e al Rione delle Mofete nei Campi Flegrei, e che già io avevo poco prima osservato durante 1’ ascesa sul versante occi¬ dentale. La guida mi asserì che sull’orlo craterico di NE si avverte forte l’odore dì zolfo: trattasi probabilmente di anidride solforosa. Mi disse — 139 — pure di avvertire sovente, alla base del 'Gran Cono, scosse, come si avvertivano pure nei primi mesi dopo l’eruzione. In conclusione il Vesuvio attraversa la fase splfatariana, come rivela l’abbondante deposizione dello zolfo; ma rivela altresì una termalità abbastanza elevata, e, quel che è più, la presenza di gas i quali fanno sospettare un’attività un poco più accentuata di quella che può essere propria di una semplice fase soifatariana. Ad esempio la presenza del cloro, che di sovente si avverte, è il segno più evidente di un magma, che rivela la sua alta termalità, e perciò è da ritenere die probabilmente il magma non sia tanto lontano dalla superficie. Inoltre da tutto il complesso di fatti die si osservano è da ritenersi die la parete occidentale del Gran Cono sia attualmente la più debole e che perciò attraverso di essa la termalità si manifesti più facilmente. Ciò d’altronde è in accordo con i fatti osservati nella conflagrazione avvenuta, perchè io notai die i fenomeni esplosivi con abbondante colonna cinerea si verificavano più verso l’orlo occiden¬ tale della piattaforma craterica, e quindi la compagine di questa par¬ te dell’orlo craterico e della sottostante parete del Gran Cono ne fu più rilasciata e più minata. Di più, trovandomi allora sul teatro del¬ l’eruzione, io vedevo nettamente, immediatamente dietro la colonna cinerea, la colonna di densi vapori bianchi, die evidentemente usciva dal magma, fluidissimo e ricco di vapori, riversantesi pel piano cra¬ terico. Sicdiè in effetti la piattaforma craterica era divisa in due set¬ tori: uno lavico e uno piroclastico, onde l’attuale bocca craterica non dovrebbe esser tutta di sprofondamento, ma, in buona parte e ori¬ ginariamente, di esplosione. Sorge quindi spontanea una domanda: dove si aprirà la nuova bocca eruttiva? Sul fondo dell’attuale imbuto, spostata su tale fondo verso il nord, sfondando la parete? Oppure sarà sulla piattaforma residuale dell’antico piano craterico, attualmente ingombrato da ma¬ teriale piroclastico? Infatti noi vediamo fumigare fortemente tutto l’orlo piroclastico orientale, senza die le pareti orientali sottostanti che si affacciano nella voragine diano manifestazioni fumaroliche evidenti. Napoli, Istituto di Mineralogia dell’ Università, Dicembre 1946. 1 La forma della testa del neonato Nota del socio Autoaio de Uosa (Tornata del 30 dicembre 1946) In questa nota sono presi in esame i fattori che determinano la forma della testa nel feto, quelli che tendono a modificare tale for¬ ma ed infine la forma della testa nel feto a termine in relazione alla futura forma cranica del medesimo individuo. Sviluppo della base. I punti di ossificazione delle diverse ossa che costituiscono la base cranica, comparsi nella massa cartilaginea, >i estendono per la loro circonferenza, si raggiungono e si fondono insieme. Il processo di ossificazione continua nei primi anni di vita extrauterina e si completa in media intorno al 6° o 7° anno. Sviluppo della volta . Tutti i punti di ossificazione primitivi e complementari situati nel cranio membranoso e che concorrono alla formazione delle ossa della volta si estendono dal centro alla perife¬ ria delle singole ossa. Ne segue che gli angoli della volta che si tro¬ vano lontani dal centro sono gli ultimi ad ossificarsi ed alla nascita queste zone, ove convergono gli angoli, sono coperte da membrane fibrose e costituiscono le fontanelle . Nel Taltante normale tutte le fontanelle si chiudono per sostitu¬ zione di tessuto osseo a quello fibroso nel primo bimestre di vita extrauterina, ad eccezione di quella bregmatica che può ancora es¬ sere presente dal 18° al 24° mese, talvolta rilevabile come una piccola depressione sopratutto per incompleta ossificazione del tavolato ester¬ no. Le differenze di epoca osservate dai vari autori circa la ossifica- zione delle fontanelle in generale e della bregmatica in particolare sono dovute a vari fattori. Un certo ritardo si osserva quando la fontanella anteriore è molto ampia alla nascita. Hanno notevole influenza il tipo di alimentaziope — 141 — (naturale o innaturale) e l’apporto vitaminico dell’alimentazione stessa; fattori ambientali che permettono la utilizzazione delle pro¬ vitamine; il meccanismo di fissazione del calcio inoltre ha una grande varietà individuale per determinati aspetti biochimici che sarebbe troppo lungo esaminare. Voglio solo ricordare che il lattante ha bi¬ sogno in media di un gramma di calcio prò die e che il tasso calce- mico (intorno ai 10 milligr. |%) è in particolare relazione col tasso ematico del fosforo inorganico, essendo il normale quoziente Ca/P = 1,8 — 2. Vi sono infine altri fattori patologici che ritardano la ossi¬ ficazione delle fontanelle. Le suture si saldano in media entro il primo trimestre di vita (ultime la coronaria e la lambdoidea), conservando tra i loro mar¬ gini un tratto di membrana osteogeniea, alla quale è devoluto l’ultej riore accrescimento delle ossa piatte del cranio. Il VoN HÒlder riteneva che già nel feto a termine e prima an¬ cora dell’ultimo periodo fetale si fosse già determinata la forma del cranio. Anche il Calori ammette che la forma della testa sia già de¬ terminata sin dalla nascita delTindividuo. Noi riteniamo che nello studio della forma della testa del neonato allo scopo di porla in re¬ lazione con quella dell’individuo adulto bisogna tener conto delle trasformazioni 'che la testa subisce durante la vita endouterina ad opera dell’ambiente nel quale il feto si sviluppa, della forma del¬ l’utero e della sua attività muscolare; della presentazione e posizio¬ ne del feto senza dimenticare la energia di accrescimento del tessuto osseo della testa fetale e dello sviluppo del viscere endocranico. Tuttavia lo studio della forma cranica del feto a termine non è possibile se questo non è allontanato dall’utero materno; perciò dob biamo ricorrere allo studio della testa dopo che l’individuo ha ab¬ bandonato la dimora dove si è sviluppato. Sarebbe necessario poter studiare la forma che il cranio aveva assunto negli ultimi giorni di permanenza nell’utero materno; ma questo è possibile solamente nei casi in cui il feto viene estratto per mezzo del taglio cesareo. Nel parto la testa del feto esce più o meno deformata; tali de¬ formazioni sono causate dalla resistenza che le parti ossee del bacino e le parti molli del canale del parto oppongono alla testa fetale nelle diverse posizioni e presentazioni. Secondo le osservazioni di alcuni autori le deformazioni causate dal parto scompaiono dopo 7-9 giorni dalla nascita ed il neonato riprende la forma della testa che aveva nella vita endouterina. Il ripristino della forma originaria del capo — 142 — dipende dal grado di deformazione e dalla elasticità dei tessuti che formano la testa. Le deformazioni del cranio clic si riscontrano negli adulti si de¬ terminano probabilmente nella vita endouterina ( acrocefalia , trigo- noccfulia , sca foce f alia). Occorre tuttavia notare che la influenza che ha sulla forma della testa umana la posizione tenuta dal feto neh l’utero materno non sia ancora nota e che gli studi relativi a questi problemi son rari. Gli studi effettuati su crani di feti a termine non forniscono mai dati sufficientemente esatti poiché il materiale disseccandosi si de¬ forma. D’altra parte la ricerca sulla testa viva pur non presentando tale inconveniente ed offrendo una maggiore attendibilità non è scevra di errori, specie nel rilievo di alcune misure facciali e somatiche che vanno eseguile preferibilmente dallo stesso osservatore con una tec¬ nica determinata. È desiderabile, quanto è possibile, la ricerca dei caratteri somatologici e somatometrici dei genitori, provvedendo in tale maniera a raccogliere dati per lo studio della ereditarietà di al¬ cune caratteristiche antropologiche. Le osservazioni cui si riferisce la presente nota sono state effet¬ tuate nel Brefotrofio della S. Casa dell’ Annunziata in Napoli. Abbiamo riassunto i dati ottenuti nelle tabelle come segue: Tab. I. — Media delle misure assolute masch. femm. Lunghezza massima della testa ...... 121 119 Larghezza bi parietale ........ 1C3 99 Larghezza frontale minima. ...... 67 72 Altezza soprauricolare ....... 75 73 Altezza facciale totale ....... 64 60 Altezza facciale superiore ....... 49 42 Larghezza bizigomatica ....... 80 71 Altezza nasale ......... 26 28 Larghezza nasale. ........ 23 24 Larghezza bigoniaca ... ..... 65 69 Circa la frequenza delle misure assolute si comunica che nei ma¬ schi la lunghezza massima della testa più frequente è di min, 126 méntre nelle femmine è 120 mm. La larghezza biparietale più fre* quente nei maschi è di mm. 98 mentre nelle femmine è di mm. 103. Nella tabella che segue riassumiamo lo scarto tra il minimo ed il massimo delle misure assolute. Tab. If. — Misure assolute masch. femm. min. mass. min. mass. Lunghezza massima della testa .... 102 134 93 130 Larghezza biparietale ...... 88 119 86 116 Larghezza frontale minima ..... 54 88 54 . 83 Altezza soprauricolare ...... 55 88 55 84 Altezza facciale totale ...... 45 79 48 70 Altezza facciale superiore ..... 34 57 35 52 Larghezza bizigomatica ...... 63 80 45 77 Altezza nasale ........ 22 32 22 32 Larghezza nasale ....... 17 28 20 29 Larghezza bigoniaca ...... 53 73 49 69 Tab. III. — Media aritmetica degli indici masch. femm. Indice cefalico orizzontale ...... 86 84 Indice auricoloverticale ....... 62 60 Indice facciale totale ........ 95 95 Indice facciale superiore ....... 64 66 j Indice nasale. . . . . . 90 84 , ' 1 Dalla tabella III risulta che per l’indice cef. orizzontale abbia¬ mo iperbrachicefalia per i maschi e brachicefalia per le femmine mentre per l’indice aurico! ©verticale sia Luna che l’altra serie sono ortocefale, sempre per i valori medi; per l’indice facciale totale e per l’indice facciale superiore dobbiamo considerare sia gli individui della serie maschile che quelli della serie femminile iperleptoprosopi ed egualmente tutti per l’indice nasale sono iperplatirrini. L’andamento percentuale dell’indice cefalico orizzontale risulta dalla tabella che segue. Tab. IV. - Indice cefal. orizzontale 1 , inascli. fermo. Sub-dolicocefali . ....... Dolicocefali ......... a. Mesocefali .......... 40,60 % 45,60 % Branchicefali. ......... 23,70 % Iperbranchicefali . . . . . . . 60,00 % 30,70 % ! 1 1 Mentre l’andamento percentuale dello stesso indice raffrontato a quello della madre nei casi in cui è stato possibile effettuare il rilievo è il seguente : Tab. V. - Indice cef. orizzontale Madri |- figli fi uri i e Subdolicocefali . . . . . . Dolicocefali ........ co o ^o, 1 Mesocefali ........ 65,50 % 33,40 % ! 43.00 % Branchicefali. ....... 25,70 % . 40,00 % Iperbrachicefali. . . . . . . ; 66,60 % 1 17,00 % 1 La percentuale dell’indice facciale è guente : riassunta nella tabella se- Tab. VI. — Indice facciale m : scll. fe m ni . Ipereuryprosopi . . 20,20 % ■ 1 Euriprosopi ........ Mesoprosopi . . . . . . 6,60 % ' 7,70% 15,39% Leptoprosepi. ...... 13,20% 23,38 % Tperleptoprosepi ...... 60,00 % 53,53 % | La percentuale dell indice facciale raffrontata a quella della ma- dre nei v Fig. 1. Frontespizio della lettera del Marchesino, cc Fu questa regione per circa un biennio agitata da gr aridi tre- muoti , si che ninna casa illesa non rimanesse, e ninno edificio che non fosse da certa c prossima mina minacciato. Ed infatti nel 26 e 27 settembre la terra fu continuamente e di giorno e di notte tutta comossa ; il mare per circa 200 passi retrocedette , nel (piai sito non solamente furon veduti gli abitanti prendere una immensa quantità di pesci , ma ancora sorgere in alto le acque dolci. Finalmente nel giorno 28 il gran tratto di terra , che giace fra le radici del monte , che gli abitanti dicono Barbaro , ed il mare vi¬ cino Averno , vedevasi sollevare e d’un tratto prendere la figura di un monte che nasce. E nello stesso giorno , all9 ora seconda della notte , questo cumulo di terra , aperta quasi una bocca , con gran fremito , vomitò grandi fuochi , e pomici e pietre , e tanta copia di brutta ce¬ nere che covrì gli edifici i quali ancora erano in Pozzuoli ; le erbe tutte coperchiò , schiantò alberi , e ridusse in cenere la vendemmia pendente , alla distanza di sei miglia , ed uccise gli uccelli e alcuni quadrupedi . mentre gli abitanti , per trovare uno scampo in Napoli . fuggivano tra le tenebre , cò loro nati e loro mogli , mettendo gemiti e grida e pianti. La qual cenere , per forza. della esalazione , è spinta a circa 60 mila passi lontano; e, ciò che può sembrare meraviglioso . presso la voragine cadde secca ed in lontananza fangosa ed umida Poi quello che supera ogni ammirazione , il monte presso la voragine i si vide , in una sola notte , ammassato di pomici e cenere , per una altezza di oltre mille passi; in cui molti certamente erano spiragli , elei quali ora due soli rimangono , Fimo presso il lido che si estende ad Averno , Poltro nel mezzo stesso del monte . Di Averno gran parte è coperto di cenere. Quei bagni , celebrati per tanti secoli, i quali a tanti infermi davano la sanità , giacciono sepolti nella cenere. E questo incendio dura fino a questo giorno , ma con qualche interruzione ». In questo autore rileviamo dunque: a) tremuoti per tutto il 26 e 27 settembre; b) ritiro del mare per circa 200 passi, con pesci rimasti in secco, sicché gli abitanti ne raccolsero. Questo fatto è di grande importanza, come richiameremo in se¬ guito, perchè ci dimostra un sollevamento reale della costa che do¬ vette essere di lunga durata se i puteolani potettero ben recarsi mi lido, dalle acque marine abbandonato, per raccogliere il pesce. Ci testimonia altresì la mancanza dell’onda di ritorno; che se fosse ciò al Viceré Don Pietro da Toledo. Traduzione italiana -preceduta da una illustra - zinne critica. Napoli, 1878. — 157 — avvenuto iì Porzio ce ne avrebbe parlato. Riguardo al valore dato di 200 passi ne discuterò in seguito; c) emergenza di acque dolci nella zona di terra lasciata asciutta dal mare; si parìa qui evidentemente di acque sorgive fuoriuscenti sul fondo sottomarino, e che, per iì ritiro del mare e per la dimi¬ nuita sovraincombente pressione delle acque, si videro « sorgere in alto »; d) sollevamento del suolo tra iì M. Barbaro e 1 Averno il giorno 28, a guisa di un monte che nasce, e rottura di un tale cumulo con proiezione del materiale igneo nello stesso giorno, c all ora seconda di notte. Quindi per Porzio l’eruzione avrebbe avuto inizio iì 28. Ciò è in disaccordo con tutti gli altri scrittori che pongono la data del 29 settembre. Per quanto riguarda iì sollevamento del suolo in Ifaodcyposì smisurato si trova riscontro solo nella lettera di Francesco deil Nero, il quale però assegna questo sollevamento del suolo alle ore 12 del 29. Ma leggendo bene la lettera di Porzio in verità egli non dà al Sollevamento del suolo tutta la entità attribuita dal Del Nero nella sua lettera, che poi esamineremo; e) oltre al cratere, il Monte Nuovo dovette presentare un altro spiraglio fumante, un’altra bocca eruttiva, eccentrica, lungo iì lido ciie conduce all’ Averno; /) pioggia di cenere secca vicino al monte, ma umida e fangosa più lontano: quivi interviene la conden-azione del vapor d acqua lon¬ tano dai centro eruttivo, che produsse il cadere delia cenere umida 4 fangosa, mentre vicino al centro eruttivo l’alta temperatura non consentiva la condensazione; g) alberi schiantati, che testimonierebbero la violenza con la quale furono lanciati il cenerume ed i proietti vulcanici, tal da ri¬ cordare un’eruzione tipo nube ardente, quantunque in proporzioni ridotte; h) Simone Porzio non cita il Lucrino, ma parla chiaramente del gran tratto di terra che era tra le radici del Monte Barbaro ed iì mare vicino all’ Averno. Dunque l’ Averno era a contatto con il mare, cioè con l’antica superfìcie del Lucrino occupata dal mare libero, dopo che il cordone litorale dei Lucrino si era sommerso. (Si potrebbe però obiettare che il Porzio dà i conifìni della pia¬ nura nella quale si aprì la bocca eruttiva; la quale pianura non a- vrebbe avuto per confine occidentale iì Lucrino, ma il « monticello del Pericolo »; ma questo forse era ben poca cosa di fronte alla vasta superficie del Lucrino. M‘BAREÀftO «oifotaba foro i^i'MOTE òSSMC i Al U-0SBA1S SCATTO IL MONTE IQ QV OSTA JL CAST.EUO ET ALTRI * gDIFlCi DI TRE PERGO LE I L LAGO A V ER NO • sta dietro a l predetto monto, et parte del monti cello del pe RI COLO -è -R I MAS* A sotto, LE ■ ■ fa IDt DEL MEDIAMO' ■ ' : — 158 — 2) Marco Antonio Delti Falconi scrisse alla Marchesa della Pa¬ chila; il suo opuscolo era ornato dalla figura 2. Ecco quanto nel suo. testo direttamente, riguarda la descrizione del fenomeno i(l). Fig. 2, cc Sono già hormai due anni che in Pozzuolo , in Napoli et nelle parti convicine son stati spessi terremoti . Et nel giorno innanzi che apparve tale incendio tra la notte e V giorno furono sentiti nelli pre - (il) Delli Falconi Marco Antonio. Delfincendio di Pozzuoli nel MDXXXVIIL Napoli, 1538. L’A. «na-cque a Nardo (Lecce) sul finire del secolo XV; fu al servizio di Bernardo Tasso quando questi era segretario del principe di Salerno. Era sa¬ cerdote, studiò filosofia e scienze naturali. Nel 1545 fu eletto vescovo di Cariati (Cosenza). Morì nel 1556. — 159 — detti luoghi tra grandi et piccioli più di venti terremoti. Il dì nel quale apparve detto incendio fu lo XXIX di settembre MDXXXVIII. Nel quale si celebra la festa di San Michel ’ Angelo et fu la domenica circa una bore di notte. Et secondo m’è «tato riferito, cominciarono a vedersi in quel luogo eh* è tra il sudatolo et tre per gale certe fiamme di foco , le quali cominciarono dal detto sudatolo et andavano verso tre pergole. Et ivi fermatosi , cioè in quella valletta eh* è tra il Monte Barbaro et quel monticello che si denomina dal pericolo, per la quale valletta s’andava al lago Averno, et alli bagni , in breve spacio. el fuoco pigliò tanta forza che nella medesma notte eruppe nel me¬ de sino luogo la terra, et eruttò tanta copia di cenere et di sassi mi¬ schiati con acqua che coperse tutto quel paese. Et in Napoli piobbe quella pioggia d'acqua et di cenere gran spacio della notte; la ma¬ rina sequente che fu il lunedì et l’ultimo del mese li poverelli citta¬ dini di Pozzuolo sgomentati da sì h or ribile spettacolo , abbandonate le proprie case piene di quella fangosa et cinerulenta pioggia, la quale durò tutto il giorno per quel paese, fuggendo la morte col volto però depinto dei suoi colon, chi col figlio in braccio, chi con sacco pieno delle loro masseritie. Et chi con qualche asinelio carico gui¬ dava la sbigottita sua famiglia verso Napoli. Altri d’uccelli di diverse specie li quali erano morti nel medesmo tempo che nacque l’incendio gran quantità arrecavano. Et alcuni de pesci li quali riavevano tro¬ vato et si trovavano in gran copia morti nel secco del mare che in buona parte era disseccato nel tempo medesmo. Sendovi V eccellen¬ tissimo Signor Don Petro de Toledo Viceré del Regno con molti ca¬ valieri andato per vedere sì maraviglioso effetto. Io anchora sul ca¬ mino sovragionto dall’honoratissimo et mai abbastanza lodato Cava¬ liere lo signor Fabritio Maramaldo v’andai. Et vidi l’incendio et molti miravigliosi effetti che con quello erano successi. Il mare verso Baia per gran spacio s’era ritirato, benché di ce¬ nere et di mine di pietre pomicee rotte et buttare dall’incendio ri modo verso il lido ricoperto fusse che tutto secco parca; vidi ancora dui fonti fra quelle mine nuovamente discoperti, uno innanzi la casa che fu della Regina , d’acqua calda et salsa, un’altra per quella spin¬ gi a più verso l’incendio per spacio de ducento cinquanta passi in circa d’acqua dolce et frescha. Altri dicono piu vicino all’incendio uri rivo d’acqua dolce a guisa di fiumicello esser sorto, et mirando per quello lido verso il fumo, il quale de continuo saliva, in un mo¬ mento si vedeva innalzare nell’aria dal sovradetto luogo extendendosi in sino al mare. Et indi anchora montagne altissime di fumo parte nigrissimo et parte bianchissimo sollevarsi, et dal ventre del fumo alle volte uscire alcune fiamme oscure, cori pietre grossissime et con — 160 — cenere con tanto strepito et rumore quanto infinito numero di grosse artegliarie non farebbono.... Dopo innalzate le pietre con cenere et nubi de fumo densissimo dall9 impeto .del fuoco e della exhalazione ventosa , come si vede in uno gran caldaio che bolle , insino alla mezza regione dell9 ari a. et vinte dal proprio et naturai peso mancando le loro, per la distantia le forze dell9 impeto, et ributtate dalla freda et nemica regione,- si vedano cascare grossissime et a poco a poco rischiararsi il conden¬ sato fumo et a piovere cenere con acqua et pietre di diversa grosezza secondo la distantia del luogo. Indi a poco a poco col medesmo stre¬ pito ad uscire il fumo ritornava . pur pietre et cenere gittando , et così alternatamente facendo perseverava; et questo durò dui giorni et due notti continove. ìndi la frequentici del fumo et la vehementict del foco a mancare incominciò; al quarto giorno, che fu il giovedì , verso le XXII hore, un tanto incendio apparve, ch’io, venendo da Ischia et ritrovandome al golfo di Pozzuolo poco distante da Miseno . vidi elevarsi in brevissimo intervallo di tempo infiniti globi di monti di fumo, col maggiore strepito che mai si sentisse; talmente eh’ el fumo moltiplicando sovra il mare venne vicino alla nostra barca ch’era distante più di quattro miglia del luogo dove nascea. Et le montagne di cenere , pietre et fumo parea che f ussero per coprire tutto quel mare et la terra. Dopo, mancando l’impeto, cadevano pietre grossis¬ sime ed altre picciole et cenere, più et meno secondo la forza del¬ l’impeto del fuoco et delle exhalationi. Di modo che la cenere è di¬ spersa per gran spacio di questo paese, et dicono molti che l’hannti veduto eh’ è arrivato al Valle de Diano et alcune parti de Calabria che son distante da Fazzuolo più di centocinquanta miglia. Il venerdì el sabbato non si vide buttar se non poco fumo. Talmente che molti assicurati andaro a vedere sovra il luogo. Et dicono che da la cenere et dalle pietre che ha gittato s’è fatto un monte in quella valle, che gira circa tre miglia, et è poco meno alto che Monte Barbaro che gli sta all’incontro, et ha coperto la canetteria et lo castello di tre pergole et tutti quelli edifìcij et la maggior parte di bagni ch’erano intorno. Et le falde della banda di mezzo giorno, verso il mare, et da tramontana insino al lago Averno si estendono. Et da ponente in¬ vino al sudatolo. Et da oriente col piede di monte Barbaro si cori- gionge, di maniera che quel luogo ha mutato forma, et faccia che non vi si conosce più niente di quello di prima; cosa che veramente parrà a chi non l’ha veduta incredibile, che un giorno et una notte sia fatto uno così gran monte. Alla sommità del quale è fatta una bocca a guisa di coppa che sarà di circuito di un quarto di miglio , benché altri dicono che sia poco meno del nostro mercato di Napoli , A. Parascandóla., il M. Nuovo ed il lago Lucrino ( foto Parascandóla) sperone della Ginestra dividente P Averno dal Lucrino. ( foto Parascandóla) 2. — Il M. Nuovo: la linea nera indica FandanieMo del Moaiticello del Pe ricolo, e il cerchietto limita una delle fosse. — 161 — 'donde exhcila continuamente fumo , et già dà funge io ilio veduto et mi pare assai grande ; la domenica seguente che furo li sei di Ot¬ tobre erano andate molte persone a vedere , et essendo ascese parte insino al mezzo , e parte più del monte , verso le XXII fiore si levò un sì spaventoso et subito incendio , et fumo sì grande che molte di quelle persone si sono soffocate , et molte non si trovavano nè morte , nè vive; et m’è stalo detto che tra quelle che si son ritrovate morte et quelle che non si trovano sono al numero più di ventiquattro . Dal bora in xpia non s’è visto effetto notabile , et pare che ritorni da pe¬ riodo in periodo come jet la quartana et la podagra. Credo per V avenire non haverà tanta forza , benché pur torni col medesmo incendio della Domenica che fu una pioggia pure di acqua cmerulenta per Napoli , et si vedeva estendersi in sino alla Montagna di Somma dall’ antichi chiamala Vesuvio. Anzi si come ho osservato il più delle volte quelle nubi di fumo che sorgevano dal¬ l’incendio si moveano per linea diritta verso detta montagna , come si havessero tai luoghi corrispondenti a et parentela alcuna fra loro; la notte si sono veduti molti juoglu a modo di travi et di colonne uscire dal medesmo incendio et alcuni a modo di lampi et di folgori. In questo caso si son da considerare molte cose li terremoti , l’incendio , il desiccare del mare. Tanta copia di pesci , et d’ucelh morti , li fonti nuovamente nati , la pioggia della cenere con acqua e senza acqua. Innumer abili arbori per tutto quel paese insino alla Grotta di Lu- cullo (1) svelti dalle proprie radici prostrati in terra coperti di ce - nere ch’era una pietà a vederli . Dico anchora che la medesma exhalatione rompendo le viscere et aprendo le caverne d’essa terra ha dato nuovo luogo all9 acque del mare et per questo si vede già essere ritirato , et ciò rie è manifesto segno cli’el detto ritirarsi avvenne innanzi che l’incendio erumpesse per spacio più di dieci bore et in quel tempo molti pozzi che erano prima secchi si ridderò riempiersi di molta acqua . secondo mi hanno riferito hu omini di Pozza olo degni di fede. Non negherò che parte delle acque del mare sia disseccata dallo ardente incendio et convertita in vapore et parte discesa nell’ arena et letto dessiccato d’esso mare. Et parte anchora buttata dall’impeto del- l’ exhalatione et dal detto incendio insieme con le pietre et cenere come si è veduto che col fumo che caclea cascava l’acqua et la cenere. (1) Ossia fido a Miseno; l,a grotta della Dragonaria, grande serbatoio di acqua, apparteneva, forse, a Lucullo. (Maiuri A. I Campi Flegrei. Roma. Libreria dello Stato, .1934, pag. 84), * 11 Et molti mi hanno detto e hanno veduta alcuna volta le fiamme del detto incendio ardere neW acque ». In Marco Antonio delti Falconi si citano dunque: a) terremoti che precedettero l’eruzione e che tormentarono non solo Pozzuoli, ma anche Napoli e le zone limitrofe; b) terremoti che crebbero in frequenza ed intensità nelle 24 ore precedenti l’eruzione; c) apparizione di fiamme al sudatolo, le quali si avanzano verso Tripergole. Si potrebbe pensare che le fiamme viste al sudatolo siano da paragonarsi a fiamme di metano. Il sudatolo è costituito dalle stufe di Nerone; d) esistenza di un monticello , detto del Pericolo (che doveva trovarsi sulle sponde orientali del Lucrino); e) esistenza di una vailetta tra il monte Barbaro ed il monticello del Pericolo; /) eruzione del Monte Nuovo per frattura apertasi nella valletta sopradetta, la domenica sera, 29 Settembre; g ) manifestazioni di folgori, come in tutti i violenti fenomeni vulcanici esplosivi; li) pioggia in Napoli d’acqua e di cenere, per buona parte della notte; tale pioggia d’acqua potrebbe spiegarsi sia come una diretta precipitazione del vapore di origine meteorica, come se la giornata fosse piovosa, sia come se fosse dovuta al vapor d’acqua vulcanico co¬ pioso; tale vapore non doveva raggiungere alta temperatura trattali dosi forse di un avanzato stalo di consolidazione del magma e quindi il suo rapido raffreddamento a contatto con l’aria produceva la con¬ densazione la quale originava la cenere umida; i) morìa di uccelli; l) pesci morti in secco pel mare che s’era disseccato nel tempo stesso della eruzione; ma anche forse per esalazioni uscenti dal fondo marino, come nel caso della mortalità del pesce del Lucrino e Fusaro si è verificato (1) e per elevata temperatura delle acque. Non parla '(1) Monticelli T. Muriato ammoniacale sublimato del Vcsuvio. Atti della R. Are. delle Se., Voi. V. Signore F. Sui fenomeno della mortalità del pesce del lago Lucrino verifica¬ tosi nell’ agosto 1922. Rend. R. Acc. Naz. dei Lincei, CI. Se. Fis. Mat. e Nat., Voi. XXXII, ser. 5a. 2° sem., fase. I, Roma 1923. Mazzarelli G. L improvvisa grande mortalità fra i pesci ed altri esseri viventi nel lago Lucrino manifestatasi il 14 Agosto 1922. Atti R. Ist. d’Ineor., Voi. LXXV, Napoli 1923. Signore F. Attività vulcanica e bradisismo nei campi Flegrei. Annali del R. Os¬ servatorio Vesuviano. IV ser., Voi. Ili, (1931-32), Napoli 1935, pag. 179. — 163 -H- però di sollevamento di suolo; ritiene invece che il mare sìa stato as¬ sorbito dai crepacci del suolo. Per vero si può ritenere die il solle¬ vamento del quale parla Porzio, e che prelude alla frattura, abbia comportato un sistema di fratture per le quali vene d’acqua infiltran¬ dosi, o l’acqua del mare penetrando, abbiano contribuito alla violenta esplosione del monte. rn) Delli Falconi si recò sul luogo dell’eruzione; ma non di¬ chiara in quale giorno; il De Stefani dice die Delli Falconi si recò sul luogo il 2 ottobre, mercoledì; ma ciò non si trova specificato nel¬ l’opuscolo di detto autore; n) ritiro del mare per gran spazio verso Baia; De Stefani dice che Delli Falconi racconta die secondo quanto riferiscono uomini di Pozzuoli degni di fede . « innanze che l9 incendio erompesse, per spazio di dieci ore il mare si ritirò » ; o) alberi sradicati: ciò farebbe supporre scosse sussultorie vio lente, ovvero esplosioni tipo nube ardente; p) fonti d’acqua calda e salsa, e fonti d’acqua dolce e fresca; q) fumo in parte nerissimo ed in parte bianchissimo; quello nero doveva recare gran copia di cenerume; anche la nube vesuviana del 79 era così (1). Il fumo bianco era dovuto al vapore svolgentesi direttamente dal magma in libero contatto dell’atmosfera, mentre le volute bigie per cenerume erano dovute a fenomeni esplosivi die frantumavano i prò dotti piroclastici lanciati in alto e ricaduti nel cratere, per cui si potrebbe congetturare che due bocche si fossero prodotte lungo l’asse eruttivo; o che la proiezione del materiale piroclastico si alternasse con copiosi sbuffi di gas svolgentisi dal magma; ciò ci fa dedurre un diverso stato fisico del magma dotato di viscosità varia, sicché opponeva differente resistenza allo svilupparsi dei gas. Delli Falconi, intanto, visto il fenomeno, dovette allontanarsi dal luogo e recarsi ad Ischia, da dove fu di ritorno al quarto giorno dell’eruzione, cioè il giovedì 3 ottobre; quindi non poteva il Delia Falconi essere mercoledì, 2 ottobre, sul luogo; probabilmente dovette recarsi ad osservare il fenomeno il lunedì, 30 settembre; ma egli non ascese al monte, nè dovette accostarsi al esso, se usa la locuzione: ce altri dicono che più vicino alV incendio un rivo di acqua dolce essere sorto ». Egli dovette in primo tempo assistere al fenomeno seguendo il Viceré, ma non salì il 2 ottobre al Monte, che se l’avesse fatto ce (1) Altrettanto, del -resto, abbiamo osservato anche nell’ultima conflagrazione vesuviana del marzo 1944. _ 164 — - lo avrebbe pure narrato; se si fosse trovato sul posto sarebbe pine salito sul monte. Comunque parrebbe che il Belli Falconi si fosse assentato dalla regione, e che per mare avesse seguitato ad osservare il fenomeno, mentre una imbarcazione lo conduceva ad Ischia. Ciò non toglie che potette la mattina flessa del giovedì, 3 ottobre, partire da Pozzuoli per andare ad Ischia ed essere di ritorno la sera. Pozzuoli era in quei tempi il punto di partenza per le isole; ma in quella occasione, spo¬ polata e pericolante con le case cadute, non doveva forse essere in efficienza per servire come comunicazione fra le isole; per cui si è tentati di credere che Belli Falconi non sia rimasto sulla zona spet¬ tatore, ma sia ben litornato a Napoli e partito da Napoli per Ischia. Delli Falconi andò il 30 settembre a vedere il fenomeno, e forse si fermò con il Viceré sul monte di S. Gennaro (presso Pozzuoli) da dove si poteva vedere il lido Baiano. Mercailli (1) dice che Belli Falconi era andato a visitare il luogo dell’eruzione fino a Bara il giorno 30 settembre, mentre ancora durava l’eruzione. Veramente dal racconto di Delli Falconi non risulta ciò; e se cita Baia è per visione lontana, e non perchè ivi recatosi; di più, essendo l’atto eruttivo durato 48 ore, non credo fosse stata cosa possibile acco¬ starsi al monte, giacche si dovette ben attendere il calmarsi della con¬ flagrazione per avvicinarsi, Delli Fai coni non fu testimone oculare dell’inizio dell’eruzione. Egli dice che fiamme di fuoco il 29 Novembre dal Sudatolo andavano verso Tre pergole. Ciò starebbe a dire, forse, che il sollevamento del suolo dalla parte del Lucrino era già avvenuto, per cui le fiamme po¬ tevano lungo questo tratto di terra avanzare; r) esplosione al 4° giorno (Giovedì 3 ottobre) che raggiunse la sua imbarcazione al largo del golfo di Pozzuoli all’altezza di Miseno; con esplosioni ritmiche brevemente intervallate, tipo vulcaniane, con globi di fumo a cavolfiore. Dovette essere una esplosione obliqua la quale si riversò nel settore di mezzogiorno risparmiando gli altri verj santi; se diversamente fosse stato si sarebbe ricoperto il tempio di Apollo sulle sponde di Averno; fu questa come quella del 6 Ottobre che si riversò sullo stesso settore meridionale; s) tranquillità al cratere del venerdì e sabato; ciò permise al Marchesino e ad altri di salire, come vedremo, al monte; t) tale periodo di tranquillità preparava l’esplosione della do¬ ti) Mercalli G. Vulcani e fenomeni vulcanici in Italia . Milano. Vallarcìi, 1883, pag. 32. menica (6 Ottobre) con la morte dei visitatori che si avventurarono mi le pendici del vulcano. 3) Altra relazione è quella scritta da Pietro Giacomo Toleto. Sir Hamilton (1), nel 1776, dice di aver rinvenuto due relazioni stampate e legate in un sol volume, offerte poi da lui al Museo Britan¬ nico. La prima è quella già citata da Marco Antonio Belli Falconi, la seconda ha per titolo: « Ragionamento del terremoto , del Nuovo Monte , dell’ aprimento di terra in Pozzuolo nell’ anno 1538 e della si¬ gnificazione di essi per Pietro Giacomo da Toledo stampato in Napoli per Giovanni Sultzbach Alemanno a 22 Gennaio 1539, con grazia , e privilegio » (2). La relazione sulla formazione del monte Nuovo di Pietro Gia¬ como da Toledo è in forma di dialogo tra Pellegrino e Subissano, per¬ sonaggi finti. Il primo dice: a Son due anni che questa provincia della Cam¬ pania è stata afflitta dal terremoto e la parte dei dintorni di Pozzuoli molto più delle altre; ma il 27 e 28 del mese di settembre scorso i terremoti si fecero sentire notte e giorno continuamente nella città di Pozzuoli; questo piano che si trova tra il lago di Averno , Monte (1) Hamilton W. Campi Flegrei , Naples, Fabris, 1776, pag. 70. (2) Nell’accurata Bibliografia Puteolana scritta da Artigliere Raffaele, in vari numeri del Bollettino Flegreo, redatto dallo avvocato Raimondo Annecchino, nel fascicolo' 1-3 dell’anno 6-7; 1932-33, a pag. 23, l’autore dell’opuscolo sulla eruzione (opuscolo di estrema «rarità) è riferito sotto il nome Pietro Giacomo Toleto. Trascrivo tutto ciò che in detta bibliografia riguarda l’autore della relazione: « All’ opuscolo precede una lettera di G. B. Pino, con la quale costui inco¬ raggia Fautore, celebre medico del XVI secolo, a scrivere in idioma italiano ab¬ bandonando il latino. Segue il ragionamento descritto per quanto lo permetteva la conoscenza delle scienze in quei tempi; v’è intercalata nel testo, una incisione in legno in cui è rappresentato il Monte Nuovo in eruzione con la veduta della città di Pozzuoli e del suo golfo ». Credo dunque opportuno citare Fautore dell’opuscolo con il suo vero nome, tanto più che può equivocarsi col nome del viceré spagnuolo di quegli anni: Pietro da Toledo (1532-1553), tenendo presente che invece il relatore dell’eru¬ zione era un medico e probabilmente napoletano. In questo equivoco è caduto De Stefani Carlo nella sua pregevolissima opera : Die Phlegràischen Felder bei Neapel, Peterm. Mitt. 1-56. Gotha, 1907, a pag. 3 (ultimo rigo). Se il Viceré D. Pietro da Toledo avesse scritto una relazione, Sci¬ pione Miccio nella vita del Viceré da lui scritta non avrebbe mancato di ripor¬ tarla nei documenti, ed invece riporta, come vedremo, quella di Francesco del Nero. — 166 — Barbaro ed il mare , si elevò un poco e molti crepacci si formarono, attraverso dei quali V acqua trovò un passaggio. Nello stesso tempo il mare , il quale era vicinissimo a tale piano , disseccò per lo spazio di circa 200 passi , talmente che i pesci restarono sulla sabbia in balìa degli abitanti di Pozzuoli. Infine il 29 dello stesso mese, verso le due ore di notte circa , la terra si aprì presso il lago e presentò una bocca spaventosa che vomitò con violenza fumo , fuoco , pietre e una specie di fango formato da ceneri , facendo nello stesso tempo dell’ esplosione un rumore che rassomigliava a quello di un violento tonare. Il fuoco che usciva da questa bocca si dirigeva verso la mura di questa città sfortunata. Il fumo era in parte nero ed in parte bianco. Il primo era più oscuro delle stesse tenebre, il secondo era così bianco come il più bel cotone. Il fumo che si levava nelVaria sembrava voler arrivare fino alla volta celeste. Le pietre proiettate erano convertite in pomici dalle fiamme divoratrici e la grandezza di talune sorpassò quella di un bue. Queste pietre dopo essere state lanciate presso a poco alla distanza di un tiro di balestra ricadevano poi qualche volta sid bordo e qualche volta nella bocca stessa. Vero è che la maggior parte di dette pietre non poteva essere sor guita nel loro lancio tanto spesso era il fumo, ma quando ricadevano esse uscivano da questo fumo ardente, testimoniavano molto bene il luogo del loro soggiorno per un odore di zolfo fortemente fetido , proprio come quelle pietre che vengono lanciate da un pezzo di arti¬ glieria e che sono passate attraverso una fumata di polvere da cannone infiammato. Il fango era di color cinereo e la sua fluidità in principio molto considerevole andò poi gradatamente diminuendo, e la sua quan¬ tità fu tale che in meno di dodici ore, con Vaiato delle pietre delle quali io ho già parlato , si vide levare una montagna di mille passi di altezza. Non solamente Pozzuolo ed i paesi vicino furono riempiti di fango , ma ancora la città di Napoli che vide macchiare a causa di questo flagello la bellezza dei suoi palazzi. Le ceneri furono portate fino in Calabria per forza dei venti , bruciando nel loro passaggio le piante ed i più grandi alberi e abbattendone una grande parte. Un numero infinito di uccelli e di animali di diverse specie, coperti da questa ce¬ nere sulfurea, caddero e si dettero essi stessi prigionieri spontanea - mente alle mani delVuomo. Questa eruzione, durò due giorni e due notti, senza intervallo, invero con un dinamismo talvolta più forte tal¬ volta minore. Allorquando questa eruzione era nella fase più violenta si udì fino a Napoli un rumore o piuttosto un tonare, simile a quello di una vigorosa artiglieria nel momento in cui un combattimento si inizia tra due armate. Il terzo giorno V eruzione cessò, di maniera che la montagna apparve allora completamente visibile alla meraviglia di — 167 — tutti gli spettatori. In tal giorno io andai con più persone alla som¬ mità di questa montagna, ed io guardai nella bocca che era una con cavità circolare di circa un quarto di miglio di circonferenza, nel mezzo della quale bollivano le pietre le quali vi erano ricadute , siccome fa V acqua di un grande caldaio, il quale è stato messo sul fuoco. Il quarto giorno V eruzione ricominciò ed il settimo più vivamente ancora, ma sempre con minor violenza della prima notte. Fu in quella occasione che molte persone che si trovavano malauguratamente sulla montagna furono subitamente coperte di cenere o soffocati dal fumo o ammazzate dalle pietre o bruciate dalle fiamme e morte sidlo stesso luogo. Il fumo continua al giorno d'oggi, e si osserva sovente durante la notte del fuoco nel mezzo dei suoi vortici; infine per dare comple¬ tamente la storia di questo fenomeno così nuovo e così straordinario, io aggiungerò che in più parti di questo nuovo Monte comincia a for¬ marsi il solfo. Fa rilevare Hamiolton che le due relazioni dicono, come con le prime aperture del suolo, uscirono delle sorgenti di acqua, la quale mescolata con la cenere produsse di certo la pioggia in forma di pasta liquida. Nella sua relazione Pietro Giacomo ToìLETO fa cenno del solleva¬ mento del suolo: cc il piano.... si sollevò un poco ». In ciò è molto più moderato del Porzio, il quale dice a che il gran tratto di terra — ve- devasi sollevare e di un tratto prendere la figura di monte che nasce »; ed ancora più moderato e logico appare in confronto di Del Nero, il quale, come vedremo, fa addirittura sollevare un monte quanto i! Monte Ruosi. Ma nessuno dei relatori trovavasi sul posto, e dovettero dalla narrazione orale dei locali apprender lo svolgimento del feno¬ meno al suo inizio. Invece il Toleto dovette seguire da vicino il fenomeno, e la sua relazione dovette esser conosciuta da Belli Falconi. Si preleva dalla predetta relazione ancora: a) fuoriuscita d’acqua dai crepacci, ed in ciò vi è concordanza con tutti gli scrittori; b) con la caduta di pietre talvolta sul bordo del cratere, talvolta nel cratere stesso, e chiaramente descritto il precipitare dei proietti quaquaversalmente ; c) il dirigersi del fuoco verso Pozzuoli è indice dello spirare di un vento di ponente, come chiaramente poi dice il Del Nero nella sua relazione; d) probabile copioso svolgimento di anidride solforosa, o, forse, più di idrogeno solforato: (« odore di solfo fortemente fetido »); e) copiosa caduta di cenere fangosa; — 168 — /) conferma la colonna bianca dei vapori e quella bigia ricca di cenere, ed inoltre ce ne indica la notevole altezza; g) il disseccarsi del mare nella zona vicinissima alla pianura interessata nel movimento; ma questo fenomeno secondo il Porzio av¬ venne tra il 26 e 27 settembre, mentre il suolo si sollevava il 28. Il Toleto ci dice clic il 28 il mare si seccava per 200 passi circa; mentre come vedremo il Del Nero assegna il disseccarsi del mare al 28 set¬ tembre a ore 18 (12 poni.) per 600 braccia. Ma se si parla di dissec¬ carsi del mare nelle parti vicinissime alla pianura, non dice che era interessata anche la zona del Lucrino nel sollevamento. h) il relatore sali alla sommità del Nuovo Monte il terzo giorno dell’eruzione, ossia il 2 ottobre, quando la montagna era sgombra. 4) Altro documento è la lettera di Francesco Del Nero a Nic¬ colò Del Benino « Sul terremoto di Pozzuoli , dal quale ebbe origine la montagna nuova , nel 1538 » . 'Trovasi, la citata lettera, nel codice segnato GLI, tra quelli pos¬ seduti del Marchese Gino Capponi, col seguente titolo: « Copia di una lettera di Francesco Del Nero mandata da Napoli a Roma questo anno 1538 (per errore 1558) a Nicholo Del Benino. Questo manoscritto appartenne un tempo alla famiglia Rofiia ni San Miniato (F. P.). Fu reso noto nel 1846 in «Documenti relativi al tempo e al governo di Don Pietro da Toledo, Vice Re di Napoli dal 1532 al 1553 », in appendice alla « Vita di detto Vice Re scritta da Scipione Miccio in Napoli il 10 giugno 1600 e messa in luce e com¬ mentata dall’Archivio storico italiano ». Voi. IX, Serie I, 1848. Ma la relazione che si riporta del Monte Nuovo è di Del Nero. « A dì 28 di settembre , a ore circa 18 (12 pom .), si seccò il mare di Pozzolo per spazio di braccia seccato; talché li di Pozzolo presero le carrate del pesce rimasto in secco . A dì 29, ad ore 14 (8,30 antm.) dove è oggi la voragine del fuoco, abbassò la terra dua canne ( m. 4,50), e ne uscì un fin metto di acqua freddissima e chiara secondo alcuni che abbiamo esaminati ; secondo altri , tiepida e alquanto sidfè (sul¬ furea): e perchè li uomini esaminati e che fanno tale attestazione sono tutti degni di fé credo tutti dichino il vero; e che prima (o anche contemporaneamente in diversi punti) uscisse in un modo, e poi un altro ; che anche . Il medesimo dì a mezzogiorno cominciò in tal luogo a gonfiare la terra; di maniera che dove era abbassata dua canne „ ad ora una e mezzo di notte ( 7,45 pom.) era alta quanto Monte Ruosi; cioè quanto quel Monte dove è quella torretta (1): ed in tal ora il (1) È da ricordare che a nord dell’ Averno vi è una collina detta Monte Rosso, — 169 — fuoco aperse , e fece quella voragine con tanto impeto, e tanto rornore e splendore, che io al giardino ebbi gran paura; non però di sorte che io, avanti passassi due terzi di ora , non andassi, così mezzo amma¬ lato, a certa altezza qui vicino, dove vedevo tutto. E per mia fè, era bel fuoco, che si era levato in capo tanta terra e tanta pietra, e del continuo buttava in alto, e cadevono allo intorno alla bocca del fuoco, che dalla parte del mare empiè un semicirculo di mare, ad uso di ba¬ lestro che la corda fu ssi miglio uno e mezzo, e la freccia duo terzi di miglio , Dalla parte di Pozzolo ha fatto una montagna alta poco meno di Montemorello (1); ed intorno miglia settanta, ha coperto la terra e li arbori di cenere. Alla mia masseria, non ho foglia non vi sia su alta una corda da trottola (2): ma vicino a Pozzuolo a miglia sei, non li è arbore che non abbi troncato tutti rami, nè si cogno- sce che alberi sieno stati; eh è qui è caduta più grossa, ed era molle e sulfurea e pesava ; e non solo ha spenti li arbori, ma ha ammazzato quanti uccelli . lepri e animali di piccola grandezza, yvi erano. Biso- gnommi ieri tornare per mare a Pozzolo con Messer Cecco De Lof¬ fredo, che è quello ha in mano la causa dove ha interesse Messer Paolo Antonio, Eravi tutto il mondo a vedere, e stupefacevano e li era niente altro che la montagna : dico niente, rispetto alla prima notte quando fece lo enfiare, cioè quando andai a vedere. E perchè nullo di Napoli vidde quella notte tal fuoco, e pochi altri che sap¬ pi no ridire la cosa, vengo ad essere, quasi solo che possa raccontarla; chè dalla notte in quà che vi' sono ite le brigate di qui, non è seguita cosa mirabile a gran pezzo come quella: però gliela voglio esempli¬ ficare. Immagniarsi V. S. quella bocca dì fuoco essere il Castello Santo Agnolo, che sia pieno di razzi ritti, che tocchino Vano V altro, e sia loro dato fuoco. Non è dubbio che tali razzi , benché vadino erti e ritti in nel cader danno certa volta, che non cascano nel ca¬ stello dove escono, ma in Tevere e in Prati. Immaginisi poi che siano cadute tante carte di razzi in Tevere, che lo abbino ripieno, ed al¬ zatovi la carta quattro canne; e di verso Prati vi siano cascate tante , che abbino fatto una montagna dalla vigna di Messer Biado fino a il) Paragone poco chiaro; forse voleva dire che sulle foglie la cenere era alta quanto è spessa la corda che usano i ragazzi per mettere ina rotazione la trottola; quindi 2-3 millimetri. (2) Monte presso Firenze, alto 934 ni.; evidentemente la misura e esagerata. Ma perchè scegliere per paragone un Monte presso Firenze? che non abbia voluto scrivere Monterillo a sud ovest di A verno? Ma scrivendo ad un fiorentino è evi¬ dente che avrebbe dovuto prendere un termine di paragone noto al lettore; la lontananza poi dello scrittore dalla zona fiorentina e la stima ad occhio abituale l’ha condotto nell’ errore di altitudine. 170 — Monte Mari , alta poco meno che SutlIo Silvestre in Tuscolano ; rii verso Santo Pietro non siano cascati molti razzi , perchè tirava vento di ponente , e piegava li razzi alle parti preallegate. Così faceva quella voragine che gittava il grosso della massa della terra , e le pietre grandi quanto uno bove , in alto , secondo mio giu¬ dizio miglio uno e mezzo. Di poi piegavano , e cadevano presso alla voragine uno o due o tre balestrate ; talché riempieno in una notte quello mare , e feceno quella montagna detta. Questa tal terra e pietre cadevono asciutte. Il medesimo foco , in nel medesimo tempo but¬ tava certa altra terra più leggieri e sassi minori , più alto assai ; e cadevano più lontano dal foco , ed erano molli e lotosi: segno ma¬ nifesto che aggiugnevono alla regione fredda ; e facevano come fanno li altri vapori che quando arrivano quivi si convertiscono in acqua. Questa medesima cagione fu ancora che fece che la cenere cadde molle con un poco di acquetta, scudo il del sereno. Potre li rendere ed assignare le cause naturale, così materiale come formali, e le efficiente, della siccità del mare, che provenne del nascimento di quel fmmetto. con acqua frigida in prima, poi te¬ pida; della de pressione della terra, e poi della elevazione ; e final¬ mente dell9 eruzione del fuoco; e medesimamente delli terremoti, che dieci dì avanti qui ne sentirno dieci per ora , e a Pozzolo non ces¬ sarono mai la terra di tremare; e fatta la eruzione, e quivi e qui non si sono sentiti. Ma sapendo che Messer Sirnone Porzio le ha scritte qui al Viceré, e così al Reverendissimo Farnese, dottissimamente , non voglio che paia che io mi voglia abbellire delle cose d’altri. Poz¬ zolo è al tutto disabitato , e non ' cognosceresti il mare, che vi parria terra arata; che li è sopra una scorza di petrolina, che qua chiamano rapido , alta uno e mezzo palmo , che sta a galla. Ma quello che io non mi so acconciare in testa , è la quantità grande della robba usci¬ ta di quella voragine; che considerato la ita in mare , la montagna nata, la cenere, che sapete portonno, e residuo della materia arsa, che chi la ragunasse insieme , faria una grandissima montagna. Che pure questa mattina ho parlato con uno che viene da Iebeli (Eboli), discosto dal fuoco miglia 45; e mi dice esser li piovuta di questa medesima cenere, e... che il fuoco si sia mosso sotto terra, più di miglia dieci, e levatosi in capo tal grossezza di terra: e sì che questo non basteria, che bisogna si sia allargata sotto. E Dio voglia. che la caverna non sia fatta sino sotto Napoli: e pure ieri, tornandovi per terra da Pozzolo, vedemmo nate di nuovo due Rocche di fuoco, vi¬ cino a Napoli tre miglia. Sonsi fatte belle dispute di valentissimi uomini; ed ecci chi ha opinione molto pericolosa per Napoli. Sonsi fatte processioni; farannosi infinità di pozzi profondissimi fra Napoli — 171 — e Tozzolo , per spegnere el foco. Quanto al pronostico, sendosi vol¬ tati e’ razzi, come ho detto , da ponente in verso levante, significa lo imperatore assaltare el Turco . — Di Napoli ». In Francesco Del Nero, il quale si trovava nei pressi di Pozzuoli e si recò subito su qualche terrazza ad osservare l’eruzione, si rileva: a ) Seccarsi del mare il 28 settembre ad ore 18, a mezzogiorno circa, di Pozzuoli di seicento braccia (metri 360): discuterò più avanti questa notizia; h) abbassamento del suolo per due canne (m. 4,50): dove poi l’ indomani si fece la voragine del fuoco con fuoriuscita di acqua fred¬ da e quindi calda; c) sollevamento e gonfiore del suolo iniziatosi a mezzogiorno, talché ad un’ora e mezzo di notte, verso le sette pomeridiane, era alta, secondo Del Nero, quanto Monte Ruosi. Per tal monte potrei) be intendersi tanto il Monte Rosso dietro l’Averno, quanto, pure pro¬ babile, come ne dà spiegazione il De Stefani, Monteruosi, il quale è un monte vulcanico a sinistra della vecchia via romana che va da Roma vicino a Viterbo. In tal senso l’intende anche Atanasio Kir- ker nel suo Mundus Subterraneus : cc Alter ramus versus Montem Ro¬ sami, (— Monte Ruosi) inter c{uem et Roncilionem novi Sulphurei sese exerunt crateres qui occulta sua commercia debent cum Monte Cimino ». d) manifestazioni del Fatto eruttivo nelle ore pomeridiane, ver¬ so le sette pomeridiane, del 28; non vide il Del Nero gonfiarsi la terra, come facilmente si può desumere dalla sua relazione, perché non fu testimone oculare del primo stadio del nascese del monte. Vi è tutta buona ragione che egli l’abbia sentito dire, e che anzi lo abbia tratto dal Porzio, in quanto dice che questo autore ne aveva fatta re¬ lazione al Vice Re e quindi non intendeva farsi pregio delle cose d’altri. Inoltre, come egli stesso dice, senlivasi poco bene, e due terzi d’ora dopo che le esplosioni erario incominciate poteva recarsi, am¬ malato come era, su di una altura vicino ad un suo potere, per os¬ servare il fenomeno; e) proiezione del materiale eruttato a notevole distanza; egli dice: per miglia settanta intorno; f) alberi con rami tutti spezzati, tali da essere irriconoscibili; uccisione di uccelli, lepri ed animali piccoli; g) proiezione di fascio parabolico dei proietti, con caduta mag¬ giore di questi a verso oriente a causa del vento di ponente che sof¬ fiava, e caduta dei proietti intorno al monte per due balestrate; h ) riempimento del mare, ma senza specificare lo specchio del Lucrino ; — 172 — i) caduta di cenere e pietre asciutte, e proiezione ad altezza maggiore di pietre di minor volume, clic cadevano più lontane dal centro eruttivo, come è legge generale della caduta dei proietti in ragione della loro grandezza; /) esodo totale dei cittadini di Pozzuoli, concordemente a quan¬ to dice il Marchesino, testificando le condizioni di inabitabilità della città. 5) Altro beli noto scrittore contemporaneo della eruzione del Monte Nuovo è Girolamo Borgia, il quale in versi latini cantò la con¬ flagrazione. Il poemetto latino, dedicato a Papa Paolo III da Giro¬ lamo Borgia, non ha per noi importanza; il >uo titolo è: H. Bor- gii. Incendium ad Avernum lacum borritile pridie Cai. Oetobris. M.D.XXXV III, nocte in tempesta exortum. Neapoli, Sultzbacb, Idi bus Octobris MDXXXVIII (1). Come si vede, però, anche il Borgia nel titolo del suo poemetto dice essere avvenuta l’eruzione presso il lago Averno e non cita il Lucrino. Di tale poemetto possiamo citare i seguenti versi; Quis jumus tur pai niger ora nitentia Solis Sulphureis tenebrosa palus effusa cavernis Fluctuat Aetnaeis eructans altius ignes. Xunquid avernales Phlegetlwn prorupit in undas Terribiles fluctus et saxa sonantia torquens? Baianae reboant undae ; simul agmen aquarum Dulce fluii , celeri jugiens contraria cursu ; Excidit e tremula Miseno buccina! dextra Rauca sonans, metuit 'rursus Prochyta aegra ruinam. Eruta visceribus fumantis murmura terree Horriflcis complent piceas mugitibus auras. Tristis ab occasu facies, et torva minatur , Unde lue s latias infecit tetrior urbes. Certatimque atrae tolluntur ad aethera nubes Tum quae saxa furens ingentia saepe sub alluni Spiritus emittit coelum, ceu Circiniis, orbem, Amphitheatralem struxere ad multa repente Millia, saxosos revomente voragine fluctus. Queste le relazioni finora conosciute dagli studiosi. (1) Il Borgia nacque nel 1475 nella Lucania, da famiglia spagnuola. Ebbe a maestro il Pontano. Fu vescovo di Massalubrense. Morì a Napoli nel 1550. — 173 — 2. La relazione di Francesco Marchesino. Ed ora fardo seguire la relazione del Marchesino. mettendo in rilievo l’importante contributo che questo osservatore oculare ha ar¬ recato alla conoscenza elei fenomeno a preferenza elegli altri (1). Copia di una Lettera di Napoli che contie¬ ne li stupendi . et gran pr od i g i apparsi sopra à P o z z o l o. Magnifico et Reverendo Signor mio. Di Napoli ho ben che avisar a V.S. che Domenica a sera doppo la tramontata del Sole fu un certo motivo de rumori, et intonation ci guisa de Tuoni anci foro propriamente Tuoni, quali si causavo da una svaporazione che si fece sopra Pozzolo per dui miglia in circa alla manna, et propriamente dove chiamano tre pergoli. dove era un Bagno , et altri edifici, che al presente non parano dove furo , et doppo eli tuoni per tutta la Notte fra la Domenica, e il Lune . et anche il dì sequente, sempre però minuendo la pioggia, piovete Cenere in color d’ Arena di mare, talmente che oltre à Pozzolo era sopra le Case . et per tutto da un palmo in circa, qua in Napoli era alta da un dito , che quando ce levamo la mattina del Lune parve à me d’esser in Mi- romagno il mese di Genaro , che tutto Napoli, è il contorno era co¬ perto de tal polvere. Io subito intese la ambasciata de Iddio, che si raccorda à Vhumana generatione il Primo di de Quaresima , cioè Memento homo. etc. Stavamo suspesi che cosa frisse , et finalmente non passar o Due hore del Lunedì, et se intese la detta causa dalli Pozzolani , che tutti vennero in Napoli, et dissero che havevano visto a Tre per gole un certo fuocho entro V acqua del mare , adherente però alla Marina, et questo fu la sera ovante della Domenica. La sera poi seguente della Domenica , quando poi sbuffaro li Tuoni , come ho ditto , et che la Notte poi del Lune et per tutto il Lune , se amuntuò la pia¬ nezza della Marina de Trepergoli per Dui Miglia , ò poco meno, dal qual Monte ha piovuto, et da longi , et dappresso tal Cenere ; Benché dappresso non solamente Cenere, ma pietre grosissime à buttato, della grandezza de un Cantaro et più , se non che sono leggere , per essere Pomice, et. le ha buttate intorno, intorno il Monte per più de Dui Miglia . Ita che tutto Napoli se mosse à andare à vedere, et il Marte andò la Processione co la testa de San Genaro fino alla Capello la (1) Nulla ho potuto rintracciare per conoscere chi fosse questo Marchesino. -r- 174 — quale è appresso a Fazzuolo , dove propriamente fu tagliata la testa à San Genaro et il Lune di primieramente andò la Eccellentia de Vi - tio”Ré, con tutta la sua Corte , andorno anchor gli Filosofi , et dicono questo caso trovarsi posto in Aristotile. Però non potetero passare Pozzolo per causa della Cenere che mandava il Monte, et piovevano sassi, et ancor del fuocho, che già per tutto il Lune , et Marti sempre di qua non sono intesi altro che rumori , et Tuoni cupi, et visti Ba¬ leni alzarsi, et venir di la, et perchè sempre sono andati le ntando , et diminuendo. Io ho espettato il sereno, et tempo che mi era detto se potea vedere. Et finalmente fieri, che fu el Venere , andai per Mare , et quantunche omnia vidi, tetigi , et audivi, reversus fui con- fusus, et incredulus ; fior audi bene omnia quae perstringere possimi. Quando fui allo pontone de Pusilipo un poco più incinte, et pro¬ prio alPIsola de Nisite (perchè andai per Mare, per non haver Ca¬ vallo ), la qual Isola e lontana da Pozzuolo da quatro, in cinque mi¬ glia. più presto più che meno, et dal Monte , da Setto Miglia in circa, e trovai una Nave sorta, che era stata lì molti giorni, et me dissero quelli della Nave . che il Giove a sera, che fu la sera arante, stettero non senza timore , per le Pietre grosse che cascavano dall' Aria, che venivano dal Monte, et questo se affirmava per quelli che erano pas¬ sati di là , perchè ogni giorno li Barcharoli passavano conducendo gente, et io facilmente il credeti, perchè di là avante truovai sempre sopra acqua Pietre pomice, fili lunghi, et a parte a parte rotoli, et per parlar più grossamente , rodile di Pietre Pomice minute, et giun¬ gendo più accosto Pozzuolo per mezzo miglio , et trovai (die Marine per fin al Monte, che erano da Dui boni miglio, tutte coperte de ditte pietre, con altri Mazzacani , et Pietre grosse Pomice, vicine (di' Acqua per quanto se po tirrar da terra un sasso con la mano, ita che a tirar la barella habbiamo havuto qualche fatica. Doppo entrai in Pozzolo : et alcuni de quelli edifici parca me dicessimo , Nigra som sed formosa fui. Alcuni altri. Non est sanitas in parte mei, Neque pax est ossibus meis. Et tutta la Città, Diruta som i soli, cernis mihi pergamo tota. Et ne multis te morer. Tra tutta la terra (parlando etiam senza figura) non erano Diece case a numero che non fossero, ò conquassate, ò in tutto o in parte in terra rovinate, et senza un Cittadino, et la conquas- satione era tale, che non stava Pietra quasi sopra pietra, come fu po¬ sta da Mastro. La Chiesa maggiore per la mità in terra. Poltra mità per essere in terra , et tutto pel Terremoto. Di fora tutti li giardini, che dura¬ vano circa Dui Miglia, tutti gli Alberi in terra , coperti di terra cine- rida, che non saranno mai più Giardini. Doppo ì cominciai ad ac¬ costare al Monte, dove vidi quello havevo inteso, cioè che il mare s'havea ritirato per mezzo miglio in circa . secùdo me dicano se esteri - deano le onde del Mare , et amentuato de tanta altura , et circuito quanto (si la memoria non me inganna) è il Monte de sant9 Aresto. Il quale sagli endo havea una via salda , et brusevole. però che già il piede facilmente il comportava » et a parte a parte pare ano alcune fosse di poco circuito , et di non troppo altura , ma non definisco , per¬ chè era discoste dalla via non se potea accostare per fu odio che era sotto quella superficie polverosa , come già me segnificavano alcuni , et molti fumi picoli che uscivano a poco a poco del Monte a guisa di un mondizaro quando il fuocho Vha arso , è mancato , et remasto sotto la Cenere , quale a poco a poco poi se mostra con fumo. Et sugli e rido alla sommità del Monte , trovai ch'il Monte non era pieno di dentro , ma vacuo , et era simile a uno Calice riverso , largo nella sommità, et stretto in giù , itache tutto era labbro in somma , et girava circa mez¬ zo miglio; et tutto scendea di dentro, come di fore, con una però dif - ferentia, che di fora il Monte scende dilatandose, talmente che il pie¬ de fa di girro da circa un miglio , et mezzo , in Z>z/i, et dentro scende sempre stringendosene , itachè el bascio pare un punto serrato senza Caverna. E ben vero che non mi parea a me che scendesse tanto di dentro , quanto di fora. Ma da più della mità del Monte la terra mo¬ strava haver mistura di Sul fore. Dalla parte della Grotta della Si¬ billa ha spartito il Mar maggior dal Mare morto (che così si chiama in questa parte); overo il Lavo della Sibilla talmente che il Mare grande non poi più entrare et refundere acqua al Mare piccolo. Visto questo spaventato , et confuso , come ho detto , per eandern vi a m re¬ versus sum in regionem me am . Ho voluto scrivere à V.S. lungamente , a tale se para esser stata puntualmente, come me, et si son state lun¬ go. inordinato et confuso , perchè essendo confuso io non li posso adimpire il lucido scrivere bisognava con V.S. et per tanto mi per¬ dona. Una cosa non lascerò et farò fine, che la Cenere non solamente si è stesa sin qui, ma è ita a Somma , et anche a Scaziventoli . Non altro facio fine basiandoli la mano. Di Vostra Signoria Reverenda Servitor , Francesco Marchesino. Di Napoli , olii V. d'Ottobre M.D.XXXVÌIl. Dunque il Marchesino dice che la domenica sera, dopo il tra¬ monto del sole, iniziarono a farsi sentire i tuoni in Napoli, ma che la sera prima i Puteolani avevan visto a a Tre pergole un certo fuoco nell' acqua del mare, aderente però alla marina ». La sera prima si intende il sabato, e difatti il Marchesino dice: « et questo fu la sera avanti della Domenica ». L’esplosione avvenne la sera della dome¬ nica; e ciò ili accordo con gli altri scrittori. Marco Antonio Deilli Falconi, anche pei quanto gli riferirono, dice che « incominciarono a vedersi in quei luogo ch’è tra il sudatolo e tre pergole certe fiamme di foco le quali incominciarono dal detto sudatolo et andavano verso tre pergole , et ivi fermatesi , cioè in quella valletta ch’è tra il Monte Barbaro et quel monticello che si denomina del Pericolo ». In tutti e due questi scrittori si fa menzione di fiamme; però il Marchesino assegna questo fenomeno alla sera di sabato, mentre Marco Antonio Belli Falconi lo attribuisce allo stesso giorno deb l’esplosione del Monte, ossia al 29 settembre, domenica. Ma il Marchesino. trovandosi in Napoli, potette raccogliere dalla bocca degli stessi puteolani, rifugiatisi in Napoli la notte stessa del¬ l’eruzione, le prime impressioni, e quindi con ogni probabilità ri¬ spondenti a verità. I puteolani nella notte stessa della domenica scapparono in Na¬ poli; difatti i! Marchesino dit e che nelle primissime ore del lunedi mattina arrivarono i primi rifugiati. Baleni e tuoni cupi >i videro e udirono fino a tulio il martedì, sempre lontano, finché passato il tempo opportuno il Marchesino A avviò il venerdì mattina per mare a Pozzuoli. All’altezza di Nisida udì da marinai d una nave in quei pressi ancorata, che la sera precedente, il giovedì sera, un violento atto erut¬ tivo aveva lanciato, non senza pericolo per loro, pietre di notevoli dimensioni, e ciò era confermato da altri barcaiuòli. Questa narrazione è in pieno accordo con quella di Marcantonio Belli Falconi, il quale dice che al quarto giorno, ossia il giovedì, ce verso le XXII bore un tanto incendio apparve , ch’io venendo da Ischia et ritornandomene al golfo di Pozzuolo poco distante da Mi seno vidi elevarsi in brevissimo intervallo di tempo infiniti globi di fumo, col maggior strepito che mai si sentisse , talmente ch’el fumo, moltiplicando sovra il mare venne vicino alla nostra barca ch’era di¬ stante più di quattro miglia dal luogo dove nasceva. Et la montagna di cenere , pietre et fumo parea che fossero per coprire tutto quel mare et la terra ». Bai due scrittori concordemente si ricava, che il dinamismo della eruzione portò il materiale piroclastico grosso fin oltre Nisida e fin oltre Miseno, siti tali punti ai due estremi dell’arco del golfo di Poz zuoli nella cui mediana era il centro eruttivo; sicché tale materiale, veniva a coprire, così, una superficie marina di poco più di 30 Km2, onde ben a ragione poteva il Marchesino dire che la superficie del mare era diffusa di pietre pomici, la cui frequenza e volume aumen- A. Parascandola. Il M. Nuovo ed il las;o Lucrino Fig. 1. — Il «tempio di Apollo» sull Avemo alle falde del M. *'t \ ìgSp i . f \ (foto Parisio ) Il M. Nuovo ed il lago Lucrino 177 — lava con 1 ’av vicinarsi al monte fino a costituire uri ostacolo nel tirare a secco la barca. Da ciò che abbiamo riferito circa questa esplosione del giovedì sèra bisogna concludere che fu una esplosione obliqua con direzio¬ ne sud. Sbarcato, il MARCHESINO, entrò dapprima in Pozzuoli : e la de¬ scrizione che ne dà è di certo impressionante. I cittadini avevano ab¬ bandonato la città, non ve ne era neppur uno, le case erano qua-i totalmente distrutte, quali parzialmente, ed in modo che « non stava quasi pietra sopra pietra come fu posta dal mastro ». Anche il Duomo era per metà crollato per l’altra metà pericolante, ed aggiunge che tutto questo fu per il terremoto. È l’unico autore che ci dà una esatta descrizione dello stato di Pozzuoli in sèguito al terremoto. Segue la descrizione della vegetazione, con gli alberi in terra git- tati. In ciò più particolareggiato è SlMONE Porzio che ci fa vedere al¬ beri sradicati. Parrebbe la causa da attribuirsi, come ho già detto ad una esplosione tipo nube ardente, per cui si potrebbe opinare che oltre che al terremoto, danni notevoli all’abitato dovettero essere arrecati da questo tipo di esplosione. Avviatosi il Marchesino verso il monte, potette constatare quan¬ to aveva inteso circa il ritiro del mare, di circa mezzo miglio, a giu¬ dicar da quanto si estendevano primieramente le onde del mare. Ciò è importante, perchè conferma il sollevamento del suolo in modo visibile e permanente; ma in sèguito ritornerò sulla misura in¬ dicata da Marchesino. Egli dice elevarsi il monte quanto il monte di Santo Aresto. Tale nome non si rinviene nella toponomastica fiegrea; è una corruzione di Santo Christo, o Mons Christi , ed è creduto da alcuni riferirsi al Redentore. Infatti Capaccio fi) « Ad Avernum etiam , Mons Christi est. Mi- ror doctos viros in du hi uni revocare an Christus Salvator ad Avernum resurre xerit in hoc monte et ab Averno puteolano praedam tulerit. nam poeta quem Eustasium falso dicunt: « Est locus Australis , quo portas Christus Aventi Fregit, et eduxit mortuos inde suos ». (1) Caìpacius J. C. Puteolana H istoria. Julio Cesare Capacio Neapolitanae urbis a secretis et cive conscripta. Accessit eiusdem de B ilneis libellus. Neapoli, excu- debat Costantinus Vitalis, MDCIIII, pag. 104. Questo storico nacque a Campagna (Salerno) verso il 1550 e morì a Napoli nel 1633= Scrisse anche una storia di Napoli in due volumi. fA 12 — ]78 — Et Alcadinus a pud eosdem eandem ignorantiam sequutus: « Est locus effregit quo portas Christus Averni . et sanctos traxit lucidus inde Patres ». Ferrante Loffredo dice: « Evvi inoltre un monte detto il Monte Cristo dalla voce greca Christos ( 1) scritta con Vita (7}) che vuol dire buono , utile , forse, per la fertilità ch'avesse avuto tal monte . ]l volgo scioccamente tiene che questa parola Christo s'intende pel nostro Re¬ dentore, ecc. » (2). Secondo alcuni sarebbe da ravvisarsi nel Monte Corvara , parte del Monte Gauro, sulla cui cima trovavasi una cappella dedicata al Sal¬ vatore. Il Capaccio però tiene distinti il Mons Christi dal Monte Cor¬ vara. Questo Monte Aresto , è, a parer mio, stando a paragone dell’al¬ titudine, da ravvisarsi nel Colle della Ginestra , (tav. I, fig. 1). quello sperone tufaceo che divide il cratere dell’Averno da quello del Lucrino. Ci sarebbe da ricordare che sul M. Corvara, l’altra vetta del Gauro (fig. 3) vi era una chiesetta, con convento, dedicata a S. Mi" chele Arcangelo detta « In cristo montis » per cui la cima occiden¬ tale del Corvara dove trovasi tale chiesa venne detta anche S. Angelo, come la carta topografica riporta, con la quota trigonometrica 308. Inoltre sul monte Barbaro, cioè sulla vetta meridionale del Gauro, sorse nel medio Evo una chiesa dedicata a Cristo Redentore, o Sal¬ vatore, per cui il monte Barbaro prese e conserva il nome di Sal¬ vatore (3). Probabilmente il nome di monte di Santo Aresto riferito da Mar- CHEsino è corruzione facile a derivare da monte di Santo Cristo, come dovette forse sentirlo nominare il Marchesino, e poi da lui mal ascol¬ tato, e dal copista o dal tipografo, trascritto in « Santo Aresto ». Del resto tali cattive, trasformazioni toponomastiche sono frequenti. (1) XP‘/1<3T°,?> leggendo 1’ 7] : ita. (2) Loffredo Ferrante' (Ferdinando). L’antichità di Pozzuoli et luochi convì- cini con le descrizioni dei bagni d’ A guano, e Tripergole trascritte dal vero anti¬ chissimo testo del generosissimo Messere Johanne Villano , tolte dalle fauce del Tempo dal Signor Pompeo Sarnelli. Napoli. Bulifom, 1675 (La prima edizione ri¬ monta al 1550). L’A. nacque in Napoli sul principio del secolo XVI da famiglia patrizia. Col grado di colonnello militò inelP esercito- di Carlo V. Poi fu governatore delle Puglie e vi lasciò buon nome. Morì neìFauino 1585, a Napoli. L-opera suddetta ebbe edizioni nel 1580, 1608, 1626. (3) Annecchino R. Il monte Gauro nei Campi Flegrei. Bollet. Flegreo, Anno III, Napoli, Geinnoio-Aprile 1929, pag. 11. — 179 — wr; Fig. 3. — 180 — Nell ^ascendere il monte, il Marchesino nota, lungo i fianchi, fosse fumanti e molti spiragli fumarolici; tali fosse possono conside¬ rarsi come bocche avventizie; forse residui ne sono quelle depressio¬ ni citate nel mio lavoro: « Il Monte del Pericolo nei Campi Fle- grei » (1). La depressione circolare messa in evidenza sulla fotografia del M. Nuovo (Tav. I, fig. 2), è una delle due che si notano, una più su e una più giù; io nel mio predetto lavoro le interpretai come forme di sprofondamento o saecature del materiale del monte Nuovo imba- santesi sul Monticeli o del Pericolo. Tali depressioni possono anche essere interpretate come parte di quelle fosse di cui parla il Mar CHESINO. le quali costeggiavano la strada, per il fatto che queste co¬ stituivano spiragli di più facile fuoriuscita di vapori; determinati, tali spiragli, dalla soluzione di continuità tra il Monticello del Pericolo ed il materiale del Monte Nuovo. Da quanto dice il Marchesino si deduce dunque che queste fosse, di breve circuito, dovevano costi¬ tuire delle bocche avventizie, o anche spiragli eruttivi tenuti ben distinti, « per fuoco che era sotto cjuestu superfìce », dai « molti fumi piccoli » spiragli fumarolici, che uscivano poco a poco dal monte a guisa di mondizzaro quando il fuoco l'ha arso , è mancato et remaste sotto la cenere la quale poi a poco a poco si mostra con fumo ». Molto chiara è la descrizione che dà del cratere con la sua qua- quaversale esterna ed interna, per la quale dice che dentro scende sempre stringendosi, « ita che el bascio pare un punto serrato senza caverna », sicché il fondo, come è logico, non si presentava pianeg¬ giante come è ora, ma come un tipico imbuto. Solo lo scoscendimento posteriore dei fianchi ne ha appianato il fondo. Marchesino non vide ribollire le pietre sul fondo sì come il To LETO; evidentemente la sfuggita dei gas non era così violenta come nel 3° giorno, nè vi era attività residuale esplosiva del giorno prece¬ dente all’ascesa di Marchesino ; tale esplosione svuotò la parte su¬ periore del condotto, nella cui porzione inferiore venne a trovarsi la colonna magmatica residuale, per giunta oppressa dal tappo pirocla¬ stico ricadutovi. Il magma ristagnando nel camino non poteva di ne¬ cessità essere sollevato dalla forza del vapore, il quale così compres¬ so, giù rattenuto, concomitante la viscosità del magma in via di conso¬ lidazione, acquistava energie per erompere con la proiezione dei blocchi lavici al settimo giorno, cioè la domenica 6 Ottobre. Il fondo del cratere si mostrava più a forma di imbuto, in sèguito allo spro (1) Parascandola A. Il Monte del Pericolo nei Compì Flegrei. Bollet. Soc. Nat. in Napoli, voi. XLVIII, 1936. A. Parascandola. Il M. Nuovo ed il lago Lucrino, (foto Aeronautica) Il monte Nuovo dall’ aereo; nella direzione di d è la mediana della seccatura. La parete delle frecce a , 6, c, e, «i notano le fossette; la direziona craterica eettentrionale mostra evidenti i solchi d’erosione. fondamento avvenuto coi collasso della porzione superiore del con¬ dotto, di quella porzione cioè più vicina al fondo craterico, dopo la esplosione del giovedì. Il Marchesino potette salire al monte dalla parte del mare, cioè dalla via più breve di accesso, siccome tuttora si usa. Da quanto abbiamo esposto risulta chiara la importanza della re¬ lazione del Marchesino, sia perchè fu il primo a darci una descri¬ zione del fenomeno, sia che per secondo salì il monte fra tutti i re¬ latori della eruzione, sia per la semplicità e genuinità con la quale, egli, testimone oculare, in breve ci dà una soddisfacente narrazione delle condizioni del monte e della zona. Considerata in confronto a quanto gli altri riferiscono, la relazione del Marchesino contribuisce, colmando varie lacune, ad una più complèta conoscenza di questo im¬ portante fenomeno vulcanico. 3. Altri storici dell’eruzione. Gli scrittori fino ad ora citati furono quelli che diedero rela¬ zione per visione diretta del fenomeno. Citerò ora quelli contempo ranci che non assistettero al fenomeno, e quelli posteriori di poco o di non molto all’epoca dell’eruzione. Così il Sanfelice, 1’ Agricola. il Loffredo, il Mazzella, il Castaldo, il Miccio. 1) Sanfelice Antonio, il quale, nato ad A versa, a quanto pare, e morto a Napoli, visse probabilmente tra il 1515 ed il 1570, e quindi fu contemporaneo dell’eruzione del Monte Nuovo, nella sua opera « Campania » non dà di questo fenomeno nessuna descrizione; ap¬ pena ne dà un cenno quando, parlando dell’ Averno, dice: « Questo a nostra memoria abbondava di pesci , i quali poc'anzi dall’ amaritu¬ dine della pioggia di cenere , furono tutti uccisi. Gli anni addietro con grande impeto di uno smisi iratissimo fiato della terra uscirono in¬ finite fiamme, e misti con le fiamme insieme sassi grandissimi e senza numero; i quali il giorno appresso furono visti congregati in monte , orribile a vedersi. In quella tempesta di fuochi si ricopersero alcuni bagni; e la pianura sottoposta a Pozzuoli in gran parte fu dal Monte occupata; il lago d’ Averno, oltre la morte dei pesci, si strinse per metà; anzi il mare fu costretto a ritirarsi in dietro , in modo che quelli che prima V avevan veduto si meravigliavano della nuova faccia del luogo » (1). il) Campania Automi Sanf elidi Monachi a partii Virginis , Anno MDLXII. — Descripsit Mathias Canger. Neapoli In 4°, fu questa prima edizione. Diverse altre Veramente non è esatto quanto dice circa la restrizione per metà dell ’A verno, che altrimenti pur il tempio di Apollo, che è alla sua base settentrionale, sarebbe stato ricoperto. Poeticamente inoltre trattò il Sanfelice l’avvenimento nel suo carme « De Baiano incendio » (1). Citiamo di questo carme i versi che più strettamente riguardano il fenomeno: Vidimus furvo cineres Averni E specu rauco sonitu per agros Ire Campanos volitante nube Solis ad ortum. Nos favìllarum pluviae, vel ora Luridi solis tenebroso amictu Mane terr ebani stupidos, sedebat Horror ubique Omnium rerum color unus, idem Tristis obscuro super incidentis Pulveris nimbo, Stygiis arenis Omnia squalent . Haec procul, sed quae proprius sub ipsos. Visa conspectu Èrebi f rementis aere munitos triplicis lorìcae et Robore sternant. Horresco ostentum referens, movebant Fiamma caligans, odor , ater imber , Et vomens vastus lacerata hiatus V iscera terrae. Fumidos ignes piceo vapore. Nube candenti piceum nigrorem, Sulphure accenso nutrimento utrisque Suppeditante. furono : 15%, 1600, 1636, 1656, 1723, 1726. Interessante questa di Napoli del 1726 con raggiunta dei carmi latini del Sanfeiliice dal titolo « Anlonii Sanf elici Cam¬ pania notis illustrata cura et studio Automi Sanf elidi Junioris, Editio V post Am- stelodamensem cui accesserunt auctorìs po emetta etc. ». L’ultima edizione, per quanto ci è moto, con il testo latino e la traduzione a fronte è « La Campania di F. An¬ tonio Sanfelice, recata in volgar italiano da Girolamo Aquino Capuano ora la prima volta data in luce da F. Nicola Onorati e provinciale dei Minori Osservanti con la vita dell’autore ». In Napoli MDCCXVI, Vincenzo Orsini, (1) Sanfelicius A. Carminum juvenilium Liber III, pag. 225 dell’opera « Cam¬ pania », — 183 Aeri grandes lapides furenti Perthrahi flatus violentar actos. Mox retortos praecipiti procella Condere montem. Fulminimi centum tonitru hoare Murmur , et fluctus simili aestuosos Ferre vix aures oculive possimi , Ingeniumve. L ' '■ 2) Giorgio Agricola (d), il quale scrisse intorno al 1545, dà la seguente descrizione del Monte Nuovo trovandolo ancora in attività: « In Campania Garus incendium alit , et a pud Avernum lacuni., ardet mons. quem incoine iccirco Modernum nominante quod nuper jactu pumicum et cinerum in campestri planicie factus sit ; Ventus enirn cum perfregisset terroni, exit cimi fiamma , et foras proiecit ar¬ dente s massas , obruitque Tripergulas pariter cum multis balneis : aedi- fi cium (j u od darti vetus doni uni amplissima , egentissimis hominibus apertam et hospitalem; hortos agrosque cultissimos ; partern etiaìn lacus Averni , Cinerem vero ad multa millia passimi in Apuliam et Brutium s par sit, qui jructus vicinine regionis omnes ac arbores cor- rumpens et depravans, permultum eam labefactavit . Iiic mons spi- raculis plenus iam ab ilio tempore , cimi enatus est, intus flagrai et fremii: fumumque multis in locis emittit: in quibusdam etiam rivu- los effundit calidissimos. Descendere in craterem cum nonnulli tenta- rint, perierunt misere. In radice Montis litus fumati calet arena: ae- stuat mare. Ibidem rnultae sunt fossae arena contectae in quas ali qui omnia incaute lustrantes, deciderumt et submersi sunt ». Da Giorgio Agricola si rileva dunque: a) che questo monte era pieno di spiraeoi i, ossia fratture clic rimontavano alla sua nascita; b) egli lo rinviene fremente e detonante; quindi esplosioni an¬ cora perduranti; c) monte fumante in luoghi moltissimi: quindi campi fuma- r olici; d) in alcuni luoghi sorgono anche rivoli di acque caldissime; e) impossibilità di scendere nel cratere, tal che decedettero quelli che ne tentarono la discesa; /) vapori che si svolgono lungo il lido alla base del monte; g) arena calda; h) mare fumigante; (1) Agricola Giorgio. De Natura earum quae efflunt ex terra. Basileae, 1657, lib. IV, pag. 563, — 184 — z) crepacci ( fossae ) occultati dall’arena, sotto il pelo dell’ac¬ qua, che inghiottirono gli incauti perlustratori; tali fosse erano ere pacci o depressioni generatisi durante l’eruzione e che erano masche¬ rati da cumuli di sabbia, come grosse dune submarine procacciate dal moto ondoso o dal sommuoversi violento del fondo marino ; oppure furono conseguenza del moto vibratorio ondulatorio. L’eruzione del Monte Nuovo è citata anche dal Munster (1), quantunque egli per sbaglio, parlando del Vesuvio, attribuisce a que¬ sto monte l’atto eruttivo: cc Caeterum nostris temporibus , anno Chri- sti millesimo quin gente simo trigesimo octavo , rursus (Vesuvius) or- re tì darri jecit eruptionem, et in loco plano magnimi terrae hiatum ape¬ rtiti, atque per circuitum ingentem molem in modum montis coacer¬ varti ». Qui chiaramente è detto che in luogo piano si aprì la terra e si formò un monte, e non è chi non veda in queste poche parole accem nata la formazione del Monte Nuovo, e non un’eruzione del Vesuvio. 3) Loffredo Ferrante nell’inverno del 1569 dimorava per ragioni di salute in Pozzuoli, c poteva attendere ad indagare e descrivere L eruzione. La prima edizione del Loffredo rimonta al 1570, quindi 32 anni dopo la eruzione del Monte Nuovo. Al Capitolo XVIII parla « Della Montagna Nuova ». Pozzuolo, e ’l suo territorio sono tormentati da terremoti, più che altro luogo d’Italia. Et nel tempo, che l’ e ssalati on e fece il monte novo, erano tanto continui, che il paese era, quasi tutto dishabitato , e standosi in questi conflitti di terremoti, una sera al tardi dalle grotte del Sudatolo, e da altre uscirono gran fiamme di fuoco, e due (fi dopo, apunto nel luogo dove doveva essere il lago Lucrino, che in quel tempo era per tutto mare, fece un fuoco dal profondo una cssa- latione, talché l’acqua del mare, l’arena, il mote, che sotto l’acqua, e quella parte di monte, che in molti anni dove a haver bru sciato, e fatto cenere, buttò in tanta quantità, e tanto in alto, che non solo fece il monte novo, mà la cenere, e pietre picciole bru sciate copersero quasi tutto il territorio convicino, e co ’l vento di ponente, che all’hora spirava, la cenere andò à cadere forse trenta miglia lunge da la detta essalatione, la bocca della quale rimase per alcun tempo aperta, e ne usceva fumo; mentre che quella apertura durò, non si udirono terre- (1) Munster. Chronografia Universali. Basilaeae 1552 e pag. 199 nel capitolo « De Monte Vesuvio ». Vedi anche Alfano G. Battista. Le eruzioni del Vesu¬ vio tra il 79 ed il 1631. Valle di Pompei, 19i24. moli , mà in progresso di tempo , come quella bocca dal terreno , e pietre , che le pi oggi e vi fecero cadere , fu serrata , £ terremoti ritor - nomo, e ando.r no di continuo crescendo, e si sentivano molto spes¬ so » (1). Da ciò clic dice il Loffredo si deduce che terremoti si fecero sen¬ tire dopo l’eruzione del Monte Nuovo in sèguito all’ostruzione del condotto magmatico. Per quanto mi è noto altri non fanno parola di ciò. 4) Amenduni (2) dice che in un manoscritto cartaceo del secolo XVI, che si conserva nella Biblioteca Nazionale di Napoli, segnato X. B. 48, intitolato: « Diario delle cose occorse in Napoli al tempo del Viceré Don Pietro da Toledo », e Fautore ne è Antonio Castai do, a carta 61 e segg. si legge: < i Approssimata la primavera , e stando le brigale la mattina del sabato santo ai divini uffizi, venne alVimproviso un tal terremoto, che fu per cadere le chiese e gli altri edifizi. Nè questo solo terremoto fu queir anno, perocché venendo V estate continui terremoti travaglio!' - no Napoli e Fazzuolo, così il giorno , come la notte, e massime nel- V entrare dell9 Alitano, in modo che molti per tema che le Case no n li cadessero addosso, dormivano nelle Piazze e nei campi. Ma come il sole entrò nella Libra , i terremoti fumo più spessi; e finalmente la sera precedente alla festa del Santo Michele Arcangiolo. o pur dir meglio di Santo Gier ottimo, verso le due bore di notte si sentì un va¬ lido terremoto , al quale seguì un gran tuono come di molte Bombarde sparate insieme , ne sapendosi che rumor fosse quello uscirono alle Piazze le genti , domandandosi Vun e P altro, che cosa fosse ; ma non stettero molto in questo dubio, che furono chiariti non solo dai poveri Pozzolana che con loro donne e figliuoli à Napoli se ne fuggivano ; ma d9 una continua pioggia de ceneri che fu tutta quella notte, e si seppe , come sopra il lago Locrino, che tre Pergole si diceva un tempo , era emersa una voragine, eco. ». Dal Castaldo A rileva che l’attività eruttiva iniziò la sera prece¬ dente al 29, ed in ciò è in accordo con il Marchesino. 5) Scipione MazzElla (1591) ecco quanto riferisce sul Monte Nuovo e le condizioni della zona prima e dopo l’eruzione (3). (1) Loffredo Ferrante (Ferdinando), Opera citata , pag. 15. (2) Opera citata, pag. 9. (3) Mazzella Scipione. Sito et antichità della città di Pozzuoli , e del suo amenissimo distretto con la descrizione di tutti i luoghi notabili e degni di me- — 186 — Al Capitolo dal titolo cc Della Montagna Nuova » egli dice: All9 incontro del monte Barbaro , si vede un monte , che gira circa tre miglia , et è poco meno alto , che monte Barbaro , e le falde d’esso dalla banda di mezzogiorno verso il mare, e da Tramontana insino cd lago Averno si estendono , e da Ponente vicino al Sudatorio, e da 0- riente col piede da monte Barbaro si congiunge ; chiamasi detto monte da Paseani Monte Nuovo , che fu fatto in un giorno ed una notte ; per- ciochè nell’ anno 1538 , a 29 di settembre , essendosi per tutto il ter¬ ritorio di Pozzu olo , per alcuni giorni prima sentiti alcuni terremoti; con spaventevole tuono, e ribombo, si aperse la terra qui a Tri pergola , che parve che rovinasse tutto il pace ; essendo il Cielo sereno, comin¬ ciarono ad uscire da questa apertura fiamme di fuoco, conducendo seco cenere accompagnata con sassi affocati, con gran fumo, e caligine ; erano portate dette pietre con tanto impeto verso il cielo, che era cosa meravigliosa da considerare esalando altresì gran furia di vento, erano portate da ogno lato V antidette cenere , e con tanto impeto erano con . dotte dal vento, ch’andarono infin nell’ Africa. Aperta dunque la terra et uscendo fiamme di fuoco con pietre, e cenere talmente intorno in¬ torno à detta apertura , l’ antidette ceneri composero con le pietre spon- gose le rive, che ne risultò il detto monte. Per tale apertura, e com po¬ siti one di monte lo castello di Tri pergole con gran parte del lago A- verno, e del Lucrino, e tutti quelli antichi, e nobili edifitij , e la mag¬ gior parte di Bagni eh’ erano intorno rimasero di sotto. Di questo in¬ cendio di Tri per gole , il celebre filosofo Simone Portio Napoletano ne scrisse in lingua latina un dotto trattato ; ma quel tanto che fa al nostro proposito, questo fra l’altro racconta ». Qui il Mazzella riporta quanto dice Porzio e quindi prosegue: cc Dove è hoggi la detta Montagna Nuova, avanti dell’incendio era maggiormente parte mare, nè molto lungi dall' acqua stava un borgo . e ne’ tempi de’ bagni era molto habitato; ivi erano molti spedali per li poveri che venivano à pigliar bagni: v’era altresì una Terme antica di bellissima architettura fatta; le quali cose tutte hoggi detta mori lagna, delle ceneri le tiene sepolte ». moria, e di Clima e di Baia, e di Miseno e degli altri luoghi convicine con le figure degli Edifizi, e con gli epitafi che vi sono. Postovi medesimamente tutti i bagni, e loro proprietà di Pozzuolo, di Baia; dell’isola di Ischia. In questa ul¬ tima edizione aggiuntovi un ricco apparato delle statue ritrovate in Cuma. Gen¬ naro dell’anno 1606. Napoli nella stamperia di Tarquinio Longo, 1606, pag. 79. L’opera ebbe molte edizioni: 1591, 1593, 1596. L’A. nacque a Napoli ma era oriundo di Precida ; visse tra la fine del secolo XVI e i primi anni del secolo XVII. Si aggirò per i campi Flegrei intorno al 1575. 6) Scipione Miccio scrisse la vita di Pietro da Toledo, datandola il 10 giugno 1600; in tale vita parla anche dell’eruzione del Monte Nuovo, ma non fa altro che riportare quanto aveva scritto Pietro To- ì,eto, come abbiamo già citato (1). Il Mercai li nella sua opera: Vulcani e fenomeni vulcanici in /- tali a (pagg. 25-26) si riporta a questa narrazione, citandola, quando parla del Monte Nuovo. Ecco quanto il Miccio dice nella sua vita di Pietro da Toledo ai capitolo dal titolo cc Ristetti razione della città di Pozzuolo » : cc Nell9 anno 1538 , la città di Pozzuolo e tutta la Terra di Lavoro furono tentate da spessi terremoti; e a 27 del mese di settembre , non cessorno mai in quella città, nè dì nè notte. Quel piano che è tra il lago Averno e Monte Barbaro, alquanto si sollevò, e si aperse in molti luoghi; dalli quali sorgeva acqua: e in quel medesimo tempo , il mare che era appresso al detto piano, si seccò per spazio di ducento passi: per il che, i pesci rimasti in secco, restorno preda di quelli del paese - E a’ 29 del predetto mese, circa due ore di notte, si aperse la terra vicino al lago, e mostrò una orrendissima voragine; dalla quale usciva furiosamente fumo, fuoco, pietre, e fango di cenere ; e fece nell9 aprir st¬ uri rumore a guisa di un grandissimo tuono, il quale fu udito sino a Napoli. Il fuoco uscito da detta voragine . corse appresso delle mura della misera città; il fumo era nero e bianco: la parte nera avanzava esse tenebre; e il bianco era a guisa di bianchissima bombace . Or questi fumi, nell9 aria alzandosi, parevano che toccassero il cielo: le pietre uscite quindi, erano, per la divoratrice fiamma, già convertite in pomice; la cui grossezza (d’ alcune dico) avanzava di gran lunga quella d’iin bue. Queste pietre s" inalzavano in aria quanto un tratto di balestra; e poi, ricadendo in giù, talora nel margine e talora dentro della voragine ricadevano. Ben vero è, che molte di quelle , nel salire in su, per l’oscurità del fumo non si vedevano; ma di poi, nell’ uscire della fumante caligine, chiarissima mostra di loro facevano , non con poca puzza di fedito zolfo: a guisa che si vedono uscire le palle dalle bombarde, poi eh’ è passato il fumo, dall’ accesa polvere generato. Il fango era di colore di cenere; nel principio , molto liquido; e dipoi, di passo in passo, più secco ; e in tanta copia, che in meno di dodeci ore, insieme con V antedette pietre, se ne fece un monte d’altezza dì un miglio. Di questa cenere, non che Pozzuolo e il vicino paese, ma anco la Città di Napoli fu ripiena; macchiando buona parte la leg¬ giadria de’ suoi palazzi:- e trasportato dalla rabbia de’ venti, travagliò (1) Miccio Scipione. Vita di Don Pietro da Toledo. Archivio storico italiano, voi. IX, S. I, 1846. La riportiamo per il paragone delle narrazioni. — 188 — incenerendo le verdi erbette , e gli alti arbori nel trapassare , e con la gravezza sua molti di quelli fracassando. Oltre che, infiniti uccelli e varii animali, coperti da quel fango, si facevano preda da loro istessi de gli uomini. Or, questo vomito durò due notti e due giorni incessati' temente. Ben vero è, che talora rinforzava più, e talora meno: onde, qualora che più s9 avvalorava, insino a Napoli s’udiva uno strepito , un rimbombare e un rumore, a guisa di una grande artiglieria , che rimbombasse tra due nemiche armate, azzuffate insieme. Il terzo giorno, il vomito cessò; onde il monte apparve discoperto, porgendo non poca meraviglia a ciascuno che lo vidde: e dalla cima di detto monte si vidde nella radice di quello una concavità rotonda , di lar¬ ghezza d’un quarto di miglio; nel mezzo di cui si vedevano ribollire < le ricadute pietre, a guisa che bollir suole un gran caldajo d’acqua posto sopra l’accese fiamme. Li Pozzolani se ne fuggirono, alcuni per mare, altri per terra, con le loro moglie e figlioli, abbandonando le loro case. Il Viceré subito cavalcò alla volta di quella città; e fermatose sul monte di San Gennaro , vidde lo spaventevole spettacolo, e la mi¬ sera città coverta tutta di cenere, che appena si vedeva vestigio di case. Di questa mina spaventati li Pozzolani, determinarono di ab¬ bandonare la città: ma il Viceré, non volendo consentire che si deso¬ lasse una città tanto antica e utile al mondo, fece bando che tutti ri¬ pudiassero, facendoli franchi di pagamento per molti anni. E per darli in ciò animo , fece un palazzo , con una torre forte e bella; e facevi fontane pubbliche, con una starza di lunghezza d’un miglio, con molti giardini e fonti; e rifece la via che va a Napoli, e ampliò e appianò la Grotta eh’ è nel cammino ; talmente che vi si può passare senza lume. Edificovvi una chiesa di San Francesco a sue spese; e a sua compia¬ cenza, vi furono edificati molti palazzi da’ signori Napoletani, e da’ suoi creati. Fece anco ristaurare i bagni, meglio che si potè; e fece rifare le mura della città. E per fomentare tutte queste cose , vi abitava per stanza la mittà dell’anno; avvenga che, per sua sanità, gli conve * ni va starci la primavera solamente ». In Scipione Miccio si conferma dunque lo stato di Pozzuoli per il terremoto, che fu così violento, e così deleteri gli effetti, da decidere i cittadini ad abbandonare la città; anche le mura della città subirono danni. 7) Tra gli scrittori di questi eventi è anche Giulio Cesare Capac¬ cio (1), il quale però si riporta alle descrizioni di Simone Porzio e di Marcantonio Delli Falconi, e quindi non aggiunge nulla di nuovo, (1) Capacius J. C. Op . cit., pag. 59 '(89?), Gap. XIX: /Voci Montis eruptio. « A. Parascandola. Il M. Nuovo ed il laso Lucrino. TAV. IV (foto Friaedlaender : 9-3-47 ) Fig. 1. — Fianco occidentale del M. Nuovo. Nella nuova sezione mostra i1 con tatto fra il tufo giallo e la valanga di scorie e blocchi lavici. ( foto Parascando Fig. 2. — Particolare della fig. 1 mostrante il contatto discordante tra il tufo e la va¬ langa di scorie. ( foto Parascandola ) Fig. 3. — Dov’è l’indicazione della mano è il limite tra il tufo giallo ed il grigio. ma con stile enfatico scrive: cc Quid admirabilius monte ilio cinereo , qui unius diei noctisque s patio , tantum ere vi t , ut rum aliis circum montis contendat? Anno 1538... pridie Kal. Octobris... terree cumulus erectus est... Aperto deinde velati ora , miror evomit ignes , lapides tantumque foedi cineris , et pumicum, ut obruerint aedi fida, e te. ». 8) Citerò in ultimo quanto dice Lionardo di Capoa (1) nelle sue cc Lezioni intorno alla natura delle Mofete ». a Non guari lungi vedeasi il lago Lucrino, oltremodo anticamente celebrato , per la pescagione spezialmente dell' ostriche; il quale, co¬ me eh è da alcuno non si distingua dal lago Bajano , non j)erò di meno altro essere stato, che quello che manifestamente avvisasi in Silio , allor che egli racconta d’ Annibaie che tenendo assediata Pozzuoli andava spiando que 9 luoghi: . ille tepentes Unde ferant nomea Bajae, comitemqi dedisse Dulichiae puppis stagno sua nomina . monstrat : Ast hic. Lucrino mansisse vocahula quondam Cocyti memorati 9) Oltre però ai riportati documenti contemporanei è opportuno citare, per la topografia locale precèdente la eruzione, quanto si legge nella cc Informalio prò hospetale di Tri pergole », nell’archivio vesco¬ vile di Pozzuoli, riportata dal Sarnhlli. È una testimonianza di un tal Antonio Russo, ottantenne, testimonianza che nel 1587 fu confermata da altri otto compaesani coetanei, alla presenza del Vescovo di Poz¬ zuoli. Racconta Russo: a uscì una bocca di fuoco vicino al detto ho spedale nominato « a Fumosa » da dentro mare e venne detta bocca di fuoco così aperta ad accostarsi al Castello ed hospedale di Triper - gole e tutto lo conquassò , ruìnò e poi lo riempì di cenere e pietre » (2). 10) Atanasio Kirker nel suo Mundus subterraneus non dice nulla d’interessante intorno al Monte Nuovo. Al cap. IV De Phlegraeo campo in agro puteolano così si esprime: cc Anno 1638 Neapolim fransi ens , non potui praetermittere quin omni¬ bus se culi s celeberrimos Campos sulfhureos quos veteres Pitie graeos vo- cant, inspicerem ». »(1) Lionardo Di Capoa. Lezione intorno alla natura della Mofete. Napoli. Castaldo, 1688, pag. 162. (2) Sarnelli Pompeo. Guida dei forestieri curiosi di vedere le cose più no¬ tabili della Reale Città di Napoli e del suo amenissimo distretto, pag. 48. Na¬ poli, 1865. — 190 — Ed a pag. 77 del voi. I: « Prope puteoles in Sinu Baiano ante annos circiter 120 , novus Mons ex mari unius noeti saevientis Natnrae sub- terrarieae violentia protuberans omnes in admirationem simid ac ter- rerem rapini , qui et in lume usque diem perseverai , nomine Monlìs Sancii triumphans ». Dopo quanto abbiamo esposto cerchiamo di dedurre un diario della eruzione, con i suoi fenomeni precedenti, concomitanti e conse cutivi, cosa non ancora tentata da alcun studioso, appena abbozzata da Suess (1) e da De Stefani (2), -poi vedremo quale era la confor¬ mazione della zona precedentemente all’eruzione e quali le modifi¬ cazioni da questa arrecate. È da notare che fino ad ora non conosciamo rappresentazioni della zona in discorso prima dell’eruzione, e anche le rappresentazioni po¬ steriori lasciano molto a desiderare. II. — L’Eruzione 1. I fenomeni precursori. a) Nuove sorgenti d'acqua termale? Dopo la morte di Cicerone nella sua villa sul Lucrino uscì una fonte di acqua termale. In merito Plinio ( tìist . nat ., lib. 31, cap. 3) dice: a Huìus in parte prima , exiguo post obitum ipsius , Antisteo Vo¬ lere possidente , eruperunt jontes cali di , per quam salubres oculis ce¬ lebrati carmino Laurae Tulii qui fuit e libertis eius ». Questo fenomeno di antica data potrebbe connettersi a quelli pre¬ cursori (3). Potrebbe avere la sua spiegazione forse anche in un ab¬ bassamento della zona ed in una salienza di acque della falda frea¬ tica. Io già feci parola della venuta a luce di una sorgente da me os¬ servata nei pressi della vasca di Poli io a Lucrino nel 5 gennaio 1935 (4). b) Il bradisismo ascendente acutizzatosi almeno mezzo secolo prima. Tra i fenomeni precursori può ascriversi il sollevamento della (1) Suess E. Das Antlitz der Herde, voi. II, pag. 479. (2) D. De' Stefani C. Die Phlegraischen Felder bei Neapel. Petermans Mittel- lungen, Erganzwngsheft N. 156, pag. 11. Gotha, 1907. (3) De Stefani C. La villa puteolana di Cicerone ed un fenomeno precursore dell' eruzione del Monte Nuovo. Atti R. Acc. Lincei, Rend. CL Se. fìs., serie V, voi. X, sem. 1°, jpp. 128-31. Roma, 1901. (4) Parascandola A. Il bacino idrotermale del Lucrino e dell' Averno nei Campi Flegrei. Boll. Soc. Nat. in Napoli, voi. XLVIII, 1936, pag. 17-18. — 191 — zona flegrea, iniziatosi diversi anni prima dell’eruzione del Monte Nuovo e sviluppatosi con relativa velocità, se stiamo a quanto i do¬ cumenti dell’epoca ci dicono. Difatti ricaviamo dal NlCCOtLINl (Op, cit ., pag. 39) che nel ] 501, a 22 maggio, fu emanato un R. editto il quale diceva: « Li cattolici Re Ferdinando e Isabella concedono ulla città di Pozzuoli qu od darri Demaniale territorium mare dessiccatum cìr- cumcirca praeftitam civitatem Puteòlorum in continentiìs ejusdem situatimi » ; di che abbiamo pure conferma nel successivo editto pub¬ blicato al 6 ottobre 1503 dal Viceré Raimundus de Cardona ne’ se- guenti termini : « Li cattolici Re e Regina avevano conceduto alV Università di Pozzuoli che lo Di man i o sia della ditta Università , quale Di ma ni o è quello che va seccando il mare intorno la terra ». « Sappiamo ancora che la pietà degli abitanti di Pozzuoli non tardò a mostrare quale esser doveva il primo effetto della indicata sovrana concessione con la fondazione della Chiesa parrocchiale di Santa Maria , la quale fu si presto in stato di ufficiare che poco dopo la eruzione del 1538 le fu aggregato un ospedale; nè alcuno vorrà supporre al certo che quella Chiesa sia stata edificata sotto acqua ». c) I terremoti precursori. In uno dei privilegi della città di Pozzuoli del 151Ì, si legge: « Cumque universitas ipsa (Puteoli )plerumque ob terremoto ex quii- bus singulis annis maximum per peti solet incommodum , ìacturamque et domorum ruinam non medi ocre-m ; qua de re eadem civitas in praesentia longe conquassata, parsque illius magna demolita est. (da De Iorio A. Ricerche sul Tempio di Serapide in Pozzuoli. Napoli 1820 , pag . 77). La data di questo privilegium poco differisce dalla data degli altri due (1501-1503), che si riferiscono al sollevamento della spiaggia di Pozzuoli quando, nei primi anni del secolo XVI, si rendeva tan¬ gibile il bradisisma ascendente della zona Flegrea. È possibile perciò che tale sollevamento fosse accompagnato da terremoti e da sposta¬ menti degli edifìzi dalla verticale. Comunque tale notizia merito- rebbe di essere controllata. Nel 30 dicembre 1458 regnando Alfonso D’ Aragona, fu (Poz¬ zuoli) da terremoti guasta; il che fu con gran mortalità d’huomini. onde fece notabile mina di molti edifìzi pubblici e privati; alcuni da fondamenti rumarono , alcuni andarono sotto terra, come sorbiti », (Mazzella Scipione. — Sito et antichità della città di Pozzuolo, del suo amenissimo distretto. Napoli , Longo , 1606. pag. 15). — 192 — a Sub Alphonso Aragoneo pridie Kalendas Angusti (31 luglio) anno 1488. domorum et hominùm inter necio jacta est ». (Capacius J. C., Pu teolana historiq. Neapoli, Vitale, 1604, pag. 64). Di queste due notizie Baratta M. (/ tei remoti d’Italia. Tonno, Bocca, 1901, pag, 82 e 788) riporta soltanto la seconda, riferendoci alla autorità di Capacio e di Bonito (T erra tremante , ovvero conti - ovazione dei terremoti dalla creazione del mondo fino al tempo pre ¬ sente etc. Napoli, 1691). Faccio però notare die tutte e due le notizie includono un errore storico; giacché Alfonso d’Aragona, il cui regno in Napoli cominciò dal 12 Giugno 1442, mori nel 27 giugno 1458, e gli successe Ferdinando I, il bastardo. Perciò Alfonso d’Aragona non era vivo quando avvenne il terremoto del 30 dicembre 1458, molto meno quello del 31 luglio 1488. Coni liiudendo : è probabile che il Mazzetta abbia equivocato riportando al 30 dicembre 1458 il terremoto del 31 luglio 1488, e che questa sia la notizia più certa, come difatti ha ritenuto il Baratta. Altri terremoti, dei quali noi abbiamo notizia nel Napoletano e che anche possono attribuirsi alla zona flegrea con riferimento in buona parte al M. Nuovo, furono quelli riferiti da Cola Aniello Pacca in un manoscritto inedito, intitolato cc Discorso di terremoti »., che è conservato nella biblioteca del Club Alpino della Società di Storia Patria in Napoli (1). Il Pacca ricorda i molti terremoti avvertiti nei 1534, il quale anno, come egli dice cc fu molto notabile per li spessi terremoti che quasi continuamente scossero Napoli , sicché vi fu tal giorno che quattro o sei volte s’intendeva durante le ventiquattro ore; e particolarmente narrano i vecchi che la mattina dei. sabato santo ( essendosi la notte precedente due o ire volte »in teso iì movimento) accadde che leggendosi il Vangelo , dove si fa menzione del terre¬ moto grande che fu nel risorgere di Cristo IV, S., nel duomo , in quello stesso punte in cui nel Vangelo si faceva memoria di quel terremoto, successe un grandissimo movimento in tutta la città , che non tanto diè timore quanto accrebbe la divozione, la notte seguente continua¬ rono, -e per molti mesi non finirono , perchè nel novembre di detto anno ancora ne successero e se ne intese uno alle otto ore dèU’otto novembre » (giorno in cui nacque l’autore). Un periodo sismico molto più frequente e violento è quello dal 1536 al 1538, del quale il Pacca ci dà notizie: « dal 1536 al 28 set¬ tembre 1538 in Napoli ed in Pozzuoli ed in quasi tutta la terra di Lavoro . vi furono molti terremoti . dei quali alcuni d’importanza ; (1) Mercalli. I terremoti napoletani del secolo XVI ed Un manoscritto inc¬ ido di Cola Aniello Pacca. Boll. Soc. Geol. Ita!., Voi. X, 1891. ( foto Parascandola ) Fig. 1. — Sezione lungo la strada prima di giungere al Lucrino, nel materiale del Monte Nuovo, mostrante il mantello di scorie ricoprenti gli strati pomicei. (foto Parascandola) Fig. 2. — Sezione S.N. sulla Montagnella nel materiale del M. Nuovo. Si notano gli strati di tufo bigo ed il banco di scorie in concordanza qua qua versa le — 193 — altri deboli; spesso di giorno e talvolta di notte e, tanto più si ap¬ prossimava il detto mese tanto con maggior impelo e più spesso se- guivano i terremoti . sicché dal 28 , che ju di sabato, tra il dì e la notte successe il terremoto venti volte , quando più quando meno vio¬ lento ». Di questi terremoti precursori anche il citato Antonio Castaldo riferisce che uno dei più forti si ebbe nel Sabato Santo del 1538, mentre si cantavano i divini uffizi (tra de ore 9-12). Il Pacca invece riporta questa scossa anche in detto giorno, ma nel 1534. Ma questo storico riferisce ciò che sentì dire, perchè egli nacque proprio nel¬ l’anno 1534. I terremoti aumentarono nell’entrare dell’autunno del 1538, ossia col 23 settembre. Nel giorno 29, a due ore di notte (otto pomeridiane) si avvertì una fortissima scossa e poi un grande boato come per sparò simultaneo di molti pezzi di artiglieria. Si apriva la bocca eruttiva d) Molti pozzi si riempirono di acqua mentre (die prima erano secchi (Delli Falconi) e) Tra il 27 e il 28 settembre nella pianura tra il Monte Bar¬ baro e l’ A-verii o e il mare, il suolo si sollevò , vi si formarono vari crepacci, dai quali uscì acqua (Pietro Giacomo Toleto). 2. Il diario dell’eruzione. 28 Settembre (Sabato). Alle ore 18 (mezzogiorno), magari lentamente anche nelle ore antecedenti tra il 27 e il 28, come riferisce Porzio, si seccò il mare per duecento passi (metri 388 circa), e dal lido prosciugato uscì acqua fredda e calda. Moltissimi pesci furono lasciati in secco, che furono raccolti dai Puteolani. Anche alla stessa ora il terreno nella valletta (die è tra il Monte Barbaro, il lago di Averno ed il mare si era un poco sollevato (Por zio), e sul rilievo si formarono molti crepacci dai quali uscì acqua (Toleto). Del Nero riferisce che tale sollevamento, avvenuto verso mezzo- giorno, continuò sino alla sera; il sollevamento era alto quanto Monte Ruosi (probabilmente M. Rosso dietro l’ Averno). Per tale altitudine vi è esagerazione; ma Del Nero non fu testimone oculare della con¬ flagrazione in sul nascere. Alla sera poi si abbassò il suolo dove era avvenuto il solleva¬ mento, e dove poi l’indomani, giorno 29, sor^e il monte e si aprì la bocca; l’abbassamento, lo sprofondamento fu di due canne (metri 4,50); e alle ore due di notte (ore 8 pomeridiane) si aprì una vora- 13 gin e con fuoriuscita di acqua fredda (acqua freatica?), e poi calda e solforata. Questa notizia del previo abbassamento, li dove nel giorno se¬ guente si aprì la bocca eruttiva, è riferita >o\ tanto da Del Nero, se il testo è stato bene interpretato. Da ciò che segue, se ì’abbassamenio si limitò soltanto lì dove poi si aprì la bocca eruttiva non è impro¬ babile che sia avvenuto tale sprofondamento lì dove si aprì il vul¬ cano; usciti fuori i primi aeriformi, diminuita la tensione, il suolo si abbassò. La sera alla stessa ora (8 pomeridiane) fu vista una fiamma, entro il mare, alla marina di Tripergole (Marchesino). Probabilmente co- minciava ad aprirsi il crepaccio eruttivo. 29 Settembre (domenica) . Durante la notte 28-29 -i sentirono sempre boati. Alle ore 1 di notte (7 poni.), come riferisce Deilli Falconi da notizie a lui date, si videro fiamme tra il 'Sudatolo e Tripergole, e nella valletta tra il Monte Barbaro ed il Monte del Pericolo; le fiam¬ me si spostarono dal Sudatolo a Tripergole e si fermarono nella Val- Jetta suddetta. Questa notizia è riportata anche da Marchesino, ma alla giornata precedente. È probabile che le fiamme, comparse nella sera del sabato, siano continuate nella giornata di domenica; che di giorno erano poco visibili, e si rivedevano col tornare della notte. Alle due di notte (8 poni.) il suolo si aprì nella vailetta. Si formò una bocca spaventosa, che emise fumo, fuoco, pietre, cenere fangosa, (on forte boato. Il boato, il tuono, come dicono gli storici, si sentì fino a Napoli. Si era aperto il crepaccio definitivo. Simone Porzio riferisce tale importante fondamentale notizia al giorno precedente. Ma ciò è in disaccordo con tutti gli altri relatori di questa eruzione, e quindi non è da tenerne conto; ma genera equi¬ voco in chi raccoglie notizie. Il pino che usciva dalla voragine era a volte bianco come bam¬ bagia, a volte nigrissimo; ed era diretto verso Pozzuoli, per vento di ponente. La notizia è di Delli Falcone e di Toleto. In sèguito a tali e- venti i Puteoluni fuggirono verso Napoli, alcuni fin dalla notte pre cedente; molti portando con sè i pesci e gli uccelli morti raccolti. Ma il grosso dei profughi si allontanò da Pozzuoli nella notte tra il 29 e il 30 (Marchesino). Pietro Toleto riferisce che vi fu esalazione di puzzo di solfo. •*- 195 — quindi H2S,S02 (od anolie HO?) e elle furono lanciate pietre grosse quanto un bue e che in dodici ore si formò il monte (1). Il massimo dell’eruzione fu nella notte tra il 29 e il 30. Folgori, tuoni, grossi massi furono lanciati all’altezza di un miglio e mezzo (m. 2775). I grossi massi ricadevano alcuni nella bocca, altri sul pendio del monte che si andava formando. Con questo primo materiale eruttato formante la piattaforma so¬ vrastante al magma veniva proiettata di certo anche il materiale delle congregazioni umane formanti l’abitato di Tripergole. Per vero tale materiale andò disseminato nella compagine del monte. Il De Stefani (2) dice di avere rinvenuto frammenti di mattoni sul lato orientale, tanto verso l’alto che in basso. Al tempo di De Stefani non erano però stati fatti scavi sul monte. Attualmente, nello scavo di recente operato lungo il fianco me¬ ridionale del Monte Nuovo, ho rinvenuto ideila compagine del tufo giallo e nel grigio frammenti di laterizi di indubbia spettanza al¬ l’abitato di Tripergole; ed ho anche rinvenuto laterizi impastati con la malta nella compagine del tufo grigio del Monte Nuovo e quindi spettanti anche a Tripergole. Le conchiglie di cui parla De Stefani, rinvenute nelle escursioni fatte dai naturalisti italiani al loro congresso del 1845 e da IssE’L ne! 1857, le ritengo pertinenti alla terrazza della Starza, la quale poteva poggiarsi anche sul fianco orientale del Monticello del Pericolo. I pezzetti di tufo giallo rinvenuti da Rotile sono da attribuirsi al tufo giallo, che costituisce la piattaforma locale clic iu avulsa nel¬ l’atto eruttivo; >ono ben distinti tali pezzetti di tufo giallo da quello che è il tufo giallo in massa costituente parte della compagine del Monte Nuovo, e da me rinvenuto come più avanti dirò. La maggior parte del materiale proiettato dell’abitato di Triper¬ gole forma forse la compagine basale del monte ed è perciò invisibile. II cielo era sereno. 30 Settembre (Lunedì) (1° giorno). Da alcuni relatori questa data è detta primo giorno dell’eru¬ zione; e noi seguiremo tale computo. Essi computavano il giorno dal tramonto del sole. Continuano i tuoni, i lampi; però vanno diminuendo. Ceneri e pietre di varie dimensioni, fino a un quintale circa, sono spinte per (1) È probabile che queste pietre così grosse appartenevamo a materiale al¬ logeno strappato dal nuovo condotto trapanato. (12) Op. cit. — 196 un raggio di due miglia (Km. 3,700). Nella notte 29-30 le ceneri raggiunsero Napoli. li Viceré di Napoli Don Pietro da Toledo, andò a Pozzuoli, ma non potè inoltrarsi. Probabilmente andò per la via di Agitano. Nella notte tra il 30 settembre e il 1° ottobre continuò l’attività del vulcano. In tale giorno Belli Falconi osservò direttamente il fenomeno; poi si recò ad Ischia, e ne ritornò il 3 ottobre e rivide l’eruzione. 1° Ottobre (martedì) (2° giorno). Continuarono i lampi e i tuoni per tutto il giorno. Fu fatta una processione con la testa di San Gennaro (da Napoli?) fino alla chiesa di San Gennaro alla Solfatara. La notizia è di Mar CHESINO, clic pare faccia intendere che la processione sia partila da Napoli. Ma non si potè andare oltre. 2 Ottobre ( mercoledì ) (3° giorno). Il monte si sgombrò de1 fumo e «Ielle ceneri e si vide l’edifizio vulcanico formatosi in poche ore; qualche relatore dice in dodici ore. L’attività era mollo diminuita, se non cessata; tanto che in questo .giorno il relatore Pietro Giacomo Toleto arrivò sul monte e potè guardare il cratere, che aveva un quarto di miglio di circonferenza (metri 462). Nel fondo del cratere si vedevano ribollire le pietre che vi erano ricadute (fenomeno probabilmente analogo, ma in proporzioni mag¬ giori, a quello ebe si vede nella Bocca Grande della Solfatara di Poz¬ zuoli per l’uscita di gas dai prodotti sabbiosi). 3 Ottobre ( giovedì ) (4° giorno). L’eruzione riprese l’attività. Alle ore 22 (verso le 4 pom.) vi fu una forte esplosione. Alcune navi che erano presso Nisida, come riferisce Marchesino, e come dice Belli Falconi, furono in pericolo per i proietti lanciati dal monte che emhe grosse pietre. La nube di cenere si ingigantì di nuovo, e -4 estese fino a Miseno con grossi globi di fumo, accompagnati da pietre grosse e piccole. Probabilmente \i fu un’esplósione obliqua \erso sud. A ciò >i aggiunge pure l’azione del vento che stava cambiando direzione, e diresse i lapilli prima verso' Nisida, e. poi verso Miseno. 4 Ottobre (Venerdì) (5° giorno). Al mattino Marchesi no andò a Pozzuoli per mare, e trovò l’acqua del mare di Pozzuoli coperta di pomice, di lunghi fili (?) (forse — 197 — frammenti eli lunghe pomici fibrose, come sovente se ne trovano). Presso il lido, nell’acqua, vi erano tante pomici, clic con difficoltà >i tirò la barca mila rena del lido. Dal cratere del Monte Nuovo usciva poco fumo. 5 Ottobre ( Sabato ) (6° giorno). Dal cratere del Monte Nuovo usciva ancora pot o fumo. 6 Ottobre ( Domenica ) (7° giorno). Altra ripresa delh eruzione, ina con minore velocità dei primi giorni. Le ceneri arrivarono sino al Vesuvio. Molte persone ascesero al monte, ma a due Lerzi del pendìo, alle ore 22 (4 poni.), furono sorprese da forti esplosioni e da cadute di pietre, e da emissione di gas; sicché molte di esse furono asfissiate, e. dicono i relatori, non -i trovarono i corpi nè vivi nò morti (forse furono seppellite o bruciate dai prodotti piroclastici dell’eruzione). Si ebbero 24 vittime (1). - Queste esplosioni che sorpresero persone che erano mi monte, come pure quelle del giorno 3 Ott. , erano probabilmente di na¬ tura vulcaniana, appunto perchè improvvise, caratteristiche dei vul¬ cani t rachitici Il magma, perduto il contatto diletto con l’atmosfera, sia per il materiale piroclastico ricaduto nella gola del vulcano, sia per la vi¬ scosità e per il raffreddamento della porzione mperiore della co¬ lonna magmatica, veniva sollecitato dalla forza espansiva dei gas che lo dilaceravano, facendolo estuberare piroclasticamente sotto forma di grosse scorie pili o meno in avanzatissima consolidazione. Non si notano difatti focacce laviche, nè pomici, nè bombe a crosta di pane; ma blocchi più o meno informi o tutto al più tendenti ad assumere una figurazione di bombe, da annoverarsi in prevalenza tra i blocchi lavici fessurati. Quantunque alcuni abbiano la tipica forma globu¬ lare, si presentano per lo più a superfìcie fessurate. Dopo questa data non vi furono altri fenomeni importanti. 1) Se delle vittime non si trovarono i resti, dovrebbe pur rinvernirsi qualche avanzo nel materiale piroclastico del 6 Ottobre. Fino ad ora gli scavi (non hanno dato reliquie umane; un sorvegliante ai lavori da me interpellato in merito, mi ha assicurato di aver rinvenuto, sotto il materiale piroclastico ««coriaceo, un osso daU’apiparenza di costola; ma di non avergli dato importanza. Anche io ho rin¬ venuto un frammento di osso, molto corroso, sul piano di cava di fresco e quindi da non attribuirsi ad apporto posteriore. — 198 — 3. La durata dell’ eruzione ed i suoi fenomeni concomitanti. a) 11 massimo dell’eruzione durò: la notte tra il 29 e il 30 set¬ tembre; lutto il giorno 30; e la notte tra il 30 e il T° ottobre. Circa 48 ore, con variazioni di intensità. Se in quarantotto ore si costruì un monte alto 150 metri, in circa altrettanto tempo si sono formati, probabilmente, ciascuno dei restanti vulcani flegrei. Poi ci furono due riprese : una nel 3 ottobre, alle ore 22 (verso le 4 poni.); l’altra nel 6 ottobre; questa ultima con vittime di visita¬ tori (1). b) Pietro Giacomo Toleto, che data la sua relazione col 22 gennaio 1539, descrive che in tal giorno il monte fumava ancora, e di notte dava bagliori di fuoco. c) I materiali piroclastici pesanti si estesero oltre Nisida e Miseno. Altri ne caddero a Somma e a Scazziventoli (?), e presso Napoli. I materiali leggeri, molto più le ceneri, si estesero fino a 6 miglia (Km. 11) con notevoli danni; la cenere più leggera arrivò fino a 60.000 passi lontano (Km. 117.4), fino in Calabria e nelle Puglie; evidentemente trasportata dal vento. La cenere presso il cratere era secca; quella che cadde lontano era fangosa. Ma Pietro Giacomo Toleto riferisce che dalla bocca del vulcano usciva anche cenere fangosa. A Pozzuoli cadde un palmo di cenere (circa 30 cm.), a Napoli un dito (2 cm.). Morirono lepri ed altri piccoli animali quadrupedi e molti uccelli. Probabilmente do¬ vette esserci emanazione di anidride carbonica, la quale produsse la morte dei piccoli quadrupedi, poco elevantisi dal terreno; così come, ad esempio, si è verificato iiell’ultima eruzione vesuviana per lo spri¬ gionamento di anidride carbonica dal suolo e producente moria di co¬ nigli ed altri animali, che per la loro altezza non riuscivano a stare con la testa fuori dello strato carbonico. De!l Nero e Belli Falconi riferiscono che sul mare da Baia a Pozzuoli vi era un palmo e mezzo (cm. 45) di lapillo galleggiante. Spirava vento di ponente, come è dato argomentare dalla dire¬ zione predominante delle ceneri, le quali a Napoli bruttarono le fac¬ ciate dei palazzi, molto più quando erano fangose. La fluidità del fango diminuì con l’eruzione. Queste ceneri fangose furono tali perchè così uscite dal vulcano, o per condensazione concomitante del vapor acqueo del pino? Se M) Belli Falconi notò un incremento ogni tre giorni: «come fa la febbre terzana e la podagra ». la cenere uscì fangosa dal cratere vi sarebbe stata anche una eruzione di fango. Del resto la zona flegrea è ricca di acqua freatica c di sor¬ genti termali, la cui acqua si potè mescolare alle ceneri magmatiche. Queste ceneri rovinarono le piante e le viti prossime alla ven¬ demmia, la quale andò perduta (1). (I) Molti alberi furono sradicati, spezzati, spogliati dalle foglie (Dei, Nero). Effetto di nube peleana? e) Dopo l’eruzione, riferiscono gli storici, in piìi parti del monte cominciò a formarsi dello zolfo. Subentrava la fase solfatariana. /) Il nuovo monte aveva un circuito di base di tre miglia Un. 5640). L’altezza, secondo Delli Falconi, era di poco minore del M. Barbaro (m. 331). Vi è molta esagerazione in questa ultima. Se¬ condo Marchesino il monte era alto quanto il Monte Santo Aresto. Probabilmente il relatore voleva intendere il vicino Monte Cristo, detto così non dal nome del Redentore, ma dalla sua fertilità: Monte fertile (dalla voce greca )(pY]aTÓisma, fu esso transitorio o permanente? Leggiamo le testimonianze che riferiscono gli eventi: Simone Porzio e Toleto scrissero che « il mare per circa 200 passi retrocedette ». Non sappiamo qui gli Autori di quale passo in¬ tesero parlare. Il passo napoletano era metri 1,85; in tal caso 200 passi sono m. 370. Un’altra misura del passo napoletano (o passetto) era metri 0,88; quindi 200 passi sarebbero m. 176; il primo valore si accosta però di più a quello dato da altri relatori. Belli Falconi: « Il mare verso Baia per gran spada s’era riti¬ rato » e ciò avvenne dieci ore prima che si aprisse la bocca eruttiva. — 201 — Del Nero.- « Si seccò il mure dì Pozzolo per 600 braccia » ( metri 360) (1). MarchesINO : « Il mare s’era ritirato per mezzo miglio » (metri 926). Ricapitolando : Porzio e Toleto riportarono 370 metri; Del Nero 360 metri; Marchesino 926 metri (oltre il doppio della misura data dagli altri relatori. Nessuno parla di onda di ritorno, la quale, se si fosse realizzata, sarebbe stata disastrosa e quindi notata dai relatori. Il certo è che rimasero moltissimi pesci in secco e eli è furono raccolti dai Puteolani. Il che farebbe supporre che o non vi fu ondata di ri¬ torno, o al più che ritardò assai, e che non fu di tale entità da essere notata dai relatori (2). Quindi con tutta probabilità avvenne non un maremoto, ma un bradisisma ascendente occasionale. In base ai riferimenti numerici dati dai relatori circa il ritiro ilei mare dalla costa verrebbe l’idea che le misure indicassero l’e¬ stensione del sollevamento lungo la costa, e forse in tale senso po¬ trebbe/ intendersi la misura data dal Marchesino. Ma gli altri relatori parlano chiaro, e i loro dati vanno intesi in senso trasversale alla costa. Ed anche Delli Falconi nella figura da lui riportata scrisse: termine del mare de prima. In seguito a questo concetto, ed in base alle misure riferite dai relatori si potrebbe calcolare il reale innalzamento verticale del suolo presso la marina del teatro dell’eruzione? Capocci (3) diede un valore di metri 6,468, e ritenne che il sol¬ levamento si -ia esteso dall’attuale Punta dell’Epitaffio fino a Ba¬ gnoli. Il valore clic egli dà pare sia riferito al totale sollevamento del Serapeo, che si sarebbe accentuato durante Ignizione. Ma ciò non solo avrebbe richiesto un sollevamento vertiginoso di cui non ab¬ biamo altri esempi, ma è contro i documenti che abbiamo riguardo al Serapeo, la cui emersione fu lenta. Tentiamo un calcolo anche noi. Rappresentino ABC e A’B’C’, nell’annessa figura 4, le linee della costa puteolana rispetto al livello del mare MN rispettivamente prima e durante l’eruzione, nella por¬ zione immersa (AB) (A’N) e nella porzione emersa (BC) (NB’C’). (1) Del braccio nei libri di Pesi e Misure antiche viene dato differente va¬ lore; una inedia corrisponde a metri 0,60. (2) Da vari maremoti nel golfo di Napoli si è notato che l’onda di ritorno si è realizzata dopo 12-15 minuti primi; tale sarebbe il periodo della oscillazione marina sulle nostre coste. |(3) Capocci. Op . di pag. 66. — 202 — IN ella caria del « Piano del Gol lo di Pozzuoli » rilevata negli anni 1882-1885, disegnata ed impressa dall’Istituto Idrografico della Ma¬ rina italiana, la isobata —5 lungo la spiaggia di Pozzuoli è, in inedia, a 250 metri dalla costa. Possiamo quindi costruire un triangolo rettangolo A’MN con un cateto verticale di metri 5 e un’ ipotenusa di m. 250. L’altro cateto rappresenta il livello del mare. Risolvendo tale triangolo si lia : 5 — 250 X sen a sen a- rio = 0,02 donde a = 1° 10' Passiamo a risolvere l’altro triangolo rettangolo NBB’, che ha per ipotenusa il valore dato dagli storici per l’arretramento del mare durante l’eruzione, ossia in. 370; l’angolo al lido è PIO’. Si ha BB’ = 370 x sen a = 370 x 0,02. = m. 7,40. Quindi il suolo p uteoi ano, durante l’eruzione del M. Nuovo, presso la spiaggia, si sarebbe sollevato di in. 7,40, più o meno. Questo valore non è molto lontano da quello dato da Capocci in m. 6,47; ambedue si accostano al sollevamento completo del Serapco. Rimangono le stesse difficoltà fatte precedentemente. L’angolo molto limitato, di P 10’, dell’inclinazione della spiag° già spiegherebbe come i puteolani abbiano potuto avventurarsi lungo il lido disseccato per raccogliere « le carrate dì pesci ». Nei Campi Flegrei tale fenomeno del ritiro del mare senza l’onda di ritorno che si riversa violentemente sul lido si verificò anche nel- — 203 l’eruzione vesuviana del 79, quando il Vesuvio rientrò in azione dopo lunghissimo riposo. Plinio Junior dice: pazio s’era ritirato, è perchè l’osservazione dell’autore era diretta da Pozzuoli verso Baia, cioè nella direzione del fenomeno. \ Inoltre era quella la zona interessata nel sollevamento in parte apparente pel gran cumulo di lapillo. Bisogna ancora aggiungere che l’osservazione non poteva estendersi alla zona anteriore a Poz¬ zuoli; pel fatto che ad oriente della città si eleva il Monte Olibano, il quale non era costeggiato dalFattuale via litoranea che fu costruita dal Viceré Rihera 30 anni dopo l’eruzione. La città di Pozzuoli era completamente deserta e minata, sicché l’attenzione non poteva essere data al fenomeno del sollevamento, essendo gli occhi di tutti intenti ai fenomeni che si ^volgevano dalla parte del nuovo monte che nasceva. Noi non abbiamo dati per de¬ durre di sicuro un sollevamento di Pozzuoli, ma non è da escludersi che, se quella città fu così rovinata dal terremoto in dipendenza del — 206 — fenomeno eruttivo, non sia stata interessata dal fenomeno del solle¬ vamento. Anche gli edilizi sulle sponde occidentali del Lucrino dovettero subire danni; aggiungo pure che quantunque sia gratuita l’osserva¬ zione del Capocci (1) che il sollevamento per l’eruzione si dovette estendere fino a Bagnoli, tuttavia l’osservazione che egli fa in merito al sollevamento ha un valore, quantunque discorde da Niccolini : Infatti il Capocci dice: «ehi facesse le meraviglie del come si potesse sollevare quel tratto di suolo da Bagnoli a Pozzuoli senza che la gente se ne avvedesse, sappia che quella strada lungo la spiaggia di sotto al monte Olibano allora non era aperta che fu costruita dal Viceré Ribera 30 anni dopo. La strada passava di sopra ai Cappuccini presso lo Solfatara, e niuno poteva por mente agli sconvolgimenti che il terremoto aveva prodotto negli inaccessibili dirupi presso il mare di sotto. Arroge a ciò gran copia di cenere e lapillo eruttata dal nuovo vulcano che doveva naturalmente mascherare e sformare per tal modo l’aspetto del conquassato suolo da togliere compiutamente allo sguardo degli attoniti spettatori la facoltà di ravvisare la intume¬ scenza sotterranea in discorso ». Ricapitolando le nostre idee sul sollevamento della costa puteo- 1 ana durante l’eruzione del Monte Nuovo, dobbiamo concludere che si ebbe un vero bradisisma ascendente, ma che non abbiamo elementi per conoscere se esso rimase poi permanente. Ricordiamoci però che quella plaga già era in bradisisma ascendente. Non si può negare la probabilità che la costa si sia poi lenta¬ mente riabbassata, come avvenne sul lido di Torre del Grecò dopo l’eruzione vesuviana del 1861. Così ho concluso nel mio lavoro sul Serapeo. Questo bradisisma occasionale, ascendente, vistoso molto più sul lido, fu un ridestarsi dell’attività endogena flegrea come riflesso del- l’attività sismo-vulcanica vesuviana, ovvero fu la potente costrizione del bacino magmatico campano alimentatore del Vesuvio, il quale bacino, premuto, di conseguenza fece sentire il suo effetto sulla parte predominante sialica corrispondente alla zona flegrea, spingendo il materiale soprastante, e quindi determinando il fenomeno del solle¬ vamento del suolo e del ritiro del mare? Non é da negarsi il dovuto valore al sollevamento di cui par¬ di Capocci E. Nuove ricerche sul noto fenomeno delle colonne perforate delle foladi del Tempio di Serapide in Pozzuoli. Il Progresso delle Scienze, Lettere ed Arti, voi. XI. anno 1835. — 207 — lano gli scrittori contemporanei, verificatosi nella eruzione, del M. Nuovo. I relatori dell’eruzione del 1538 fanno distinzione molto chiara tra il sollevamento della spiaggia (e di -conseguenza il ritiro del mare) e il sollevamento del suolo tra il monte Barbaro e l’Averno, lì dove poi si formò il monte; quindi due tempi ben distinti l’uno dall’altro. iSimone Porzio scrisse: « nel giorno 28 (qui equivoca il 28 per il 29) il gran tratto di terra che giace fra le radici del monte che gli abitanti dicono Barbaro ed il mare vicino V Averno, vedevasi solle¬ vare e di un tratto prendere la figura di un monte; (quindi si trattò di un sollevamento differente da quello del lido). E nello stesso giorno . alVora seconda di notte , questo cumulo di terra , apertasi (piasi una bocca (formazione della frattura) vomitò grandi fuochi » ecc. (se¬ condo tempo). Pietro Giacomo Toleto: « questo piano che si trova tra il lago di Averno , Monte Barbaro ed il mare, si elevò un poco e molti cre¬ pacci si formarono ». Intercorse quindi un intervallo di tempo ben separato tra il sol¬ levarsi del suolo e la formazione del crepaccio eruttivo. Questo sollevamento locale lì dove [loco dopo si formò il vul cano si potrebbe spiegare con la tensione dei vapori magmatici prima di aprirsi un varco attraverso il crepaccio vulcanico- Ciò non deve meravigliare se pensiamo al relativamente rapido ritiro del mare, cioè alla relativamente rapida emersione che il territorio di Pozzuoli andava subendo dalla fine del 1400 e il principio del 1500, come ne fan fede gli editti citati, per cui il magma sottostante, sollecitato da cause varie prementi contro la crosta sovraincombente e spinto verso occidente della zona flegrea, fondendo la coltre ricoprente, nella sua fase massima dovette provocare un sollevamento più rapido e più sensibile. Del resto nella eruzione del Vesuvio del 1631 il fondo del cratere non venne sollevato? In seguito a questi fenomeni, dai fautori della teoria dei crateri di sollevamento il Monte Nuovo fu nel novero di questi considerato, basandosi in ispecie su ciò (die dice il Porzio che « il gran tratto di terra , che giace tra le radici del Monte che gli abitanti chiamano Barbaro . e il mare vicino V Averno vedevasi sollevare e di un tratto prendere la figura di un monte che nasce ». Inoltre « questo cumulo di terra aperta una bocca... ». Ma dalle parole del Porzio non si desume che il suolo si gonfiò in tal modo da assumere l’aspetto di un monte, che poi si crepaccio, perchè dice più oltre che daH’ammassarsi delle pomici, delle ceneri in una notte fè — 208 — un'altezza (in ciò esagerando) di oltre mille passi. Ma la teoria del sollevamento in occasione dell’eruzione del M. Nuovo, fu contradetta dal Neumayr pel fatto che altrimenti il contiguo tempio di Apollo ne avrebbe sofferto. Egli, dopo aver riferito quanto dice Del Nero. scrisse: cc È impossibile tenere la soprariferita relazione come una prova certa che «da avvenuto un sollevamento del suolo, tanto più che esiste un fatto assolutamente contrario a questa opinione. Al piede del Monte Nuovo vi sono le rovine di un antico tempio di Apollo le cui colonne sono perfettamente erette e verticali e portano un’arehr trave orizzontale; il che esclude qualsiasi spostamento del molo. Per conseguenza noi possiamo con pieno diritto considerare il Monte Nuovo quale un puro prodotto di accumulamento come altri scrittori del tempo affermano » (1). Però, a voler essere precisi, ai piedi del Monte Nuovo v’è real¬ mente un edificio nel versante nord, sulle rive orientali dell’ Averno; volgarmente conosciuto come tempio di Apollo (tav. II, fig. 1), ma nè colonne, nè architravi vi sono; forse erano al tempo di Neumary; ma ad ogni modo detto edificio ha le mura verticali Tuttavia noi, fautori della teoria vulcanica della sovrapposizione, ben lontani dall’ammettere nella formazione del Monte Nuovo un sollevamento forte, da generare il monte, in lutto o in parte, non pos¬ siamo negare che il magma eruttivo, quantunque subordinatamente, sia estraneo a fenomeni di sollevamento parziale del suolo nelle eru¬ zioni vulcaniche. Lo stesso Neumayr difatti dice (2): « In realtà è un grande pro¬ gresso quello di non vedere più in ogni cratere un sollevamento, e di considerare come causa generale dei coni vulcanici l’accumulamento delle sostanze da essi rigettate. •Ma se noi ci accordiamo in ciò con la maggioranza dei geologi, portiamo però l’opinione che nella reazione si oltrepassi il segno, quando si nega qualsiasi fenomeno di sollevamento nelle eruzioni vul¬ caniche: si trascurano fatti incontestabili allorché si nega al solleva¬ mento una qualsiasi parte, anche affatto secondaria, accanto all’accu¬ mulamento ». Più oltre lo stesso Autore a pagina 179 dice: «Una serie di fatti hanno condotto al risultato che la reazione contro la teoria dei crateri di sollevamento ha oltrepasasto il giusto segno, che la parte attiva delle rocce eruttive è stata valutata al di sotto del vero, e che la ca¬ pacità di esse di produrre certi spostamenti di masse, ed in ispeeie di 11); Neumary. Storia della Terrei. Voi. I. pag. 181. Torino. UTET. 1896, (2) Neumary M. Op. cit.. pag. 174. TAV. VI. À. Parascandola. il M. Nuovo ed il lago Lucrino. foto Parascandola) Fig. 2. — M. Nuovo: pareti crateriche settentrionali con i solchi d’erosione. (foto Parascandola) Fig. 1. — M. Nuovo: pareti crateriche orientali col Monte Gauro in fondo. (foto Parascandola) Fig. 3. — Il lago Lucrino visto dall’alto del M. Nuovo, con la striscia della Via Herculea e la collina di Tritoli in fondo. — 209 — . sollevare in cupole gli strati sovrapposti, non è stata avvertita. Og¬ gidì si può ritenere come dimostrato che le masse eruttive hanno una parte limitata nel movimento delle masse ». Ma la questione dei vulcanologi sulla teoria del sollevamento era nel modo di costituirsi deH’edifizio vulcanico, e non se il suolo possa essere sollecitato o no dalle forze erultive. Oggi riteniamo che il gonfiamento del molo di Pozzuoli lì dove si formò il Monte Nuovo possa essere spiegato, come abbiamo detto, con la tensione dei vapori prima di aprirsi un varco attraverso il cre¬ paccio vulcanico, oppure con spinte dovute a fluttuazione magmatica. 4. I fenomeni consecutivi all’ eruzione. Per gli anni posteriori all’eruzione abbiamo poche notizie, eviden¬ temente perchè il vulcano era entrato in quiescenza. Dello stato del cratere nel febbraio 1540 abbiamo una figura di¬ segnata da Francesco de Hoìllanda (Fig. 5), Vi si vede un ciglio più alto ed uno più basso,, come oggi, vi si scorgono i solchi scavati sulle pareti interne dalle acque piovane e dalla caduta dei massi, come oggi; il vapor acqueo viene su dal fondo del cratere (1). Giorgio Agricola (1545), sette anni dopo l’eruzione, vide il Monte fumante; trovò le ceneri ancora calde; ed era caldo anche il mare sul lido (Gir. a pag. 185). Loffredo (1569) scrisse che col chiudersi del cratere del M. Nuovo ripigliarono i terremoti: dovuti probabilmente ad assestamento del focolare vulcanico svolgentesi dal raffreddamento magmatico. Nessun altro relatore dà questa notizia. Nel 1770 Hamilton osservò nel cratere, sul fondo sud-ovest, una fumarola di « vapeur chaude et humide précisement semblable a celle de l’eau bouilìante, et avec aussi peu d’hodeur » (2). Ai tempi di Niccolò Braucci (1773) il M. Nuovo era « ancora sprovveduto di alberi » (3). (1) Francesco De Hollanda» nato a Lisbona intorno al 1517, fu dal re Gio¬ vanni III mandato in Italia a studiare i monumenti classici dei Romani, e vi venne nel 1538; si incontrò con Michelangelo e con Vittoria Colonna. Disegnò i monu¬ menti antichi e nuovi d’Italia, paesaggi, fortezze; i disegni furono pubblicati nel 1540 a Madrid dall’editore Elias Tornio. 11 foglio 53 presenta il cratere del M. Nuovo (De Lorenzo G. Il cratere del M. Nuovo disegnato da Francisco de Hol- landa nel febbraio 1540 (con una tavola). Rend. R. Acc- Se. Fis.c mat. >s. 4a, voi. XII, 1941-42. Napoli, 1942). (2) Hamilton, Op. cit ., pag. 75. (3) D’Erasmo G. Di Niccolò Braucci di Coivano ( 1719-1774 ) e della sua opera inedita dal titolo r Istoria Naturale della Campania sotterranea. Alt. R. Acc. Se. fis,. 14 — 210 — Nel luglio 1794 Lazzaro Spallanzani razzolando (come egli scrive) fra le pietre del fondo del cratere del Monte Nuovo lo trovò ancora caldo, e vide dalle profonde escavazioni uscire tenui e caldi fumi. Vi osservò anche, sempre nel fondo, una grolticella abbondante di fiori¬ tura solida di soda (1). Tale fioritura è 'tata da ine osservata all’e¬ sterno sul fianco meridionale. Fig. 5. — Il cratere del M. Nuovo, disegnato da Fr. De Holeanda, sterile e fu¬ mante ( da De Lorenzo)., Nel 1849 A. Scacchi lungo il pendìo interno del cratere, a sud- ovest, osservò abbondanti esalazioni di vapori che depositavano .Ia¬ lite (2) nel luogo detto fumeta di trave di fuoco. Nel 21 dicembre 1927 rintracciai una fumarola sulla parete sud¬ est nell’interno del cratere, della quale altri avevano soltanto dato e m., voi. II, serie 3a, n. 2. pag. 18. — Il Braucci fu medico e naturalista molto stimato ai suoi tempi il manoscritto di quest’opera si conserva nella Biblioteca Naz. di Napoli (MS. di S. Martino, S. II, 9). . (I) Spallanzani Lazzaro. Viaggi alle due Sicilie ed in alcune parti dell’ Ap¬ pennino, tomo I. Milano, 1825, pag. Ili e 113. '(2) Scacchi A. Memorie geologiche sulla Campania. Napoli. 1849. pag. 249. Rend. R. Acc. delle Scienze di Napoli. — 211 — notizia vaga senza ubicazione; veniva fuori da un crepaccio lungo circa due metri, e largo 20-30 centimetri. Aveva la temperatura di’ 41® G. ; al vapore acqueo era mescolata anche anidride carbonica in minima quantità. Coloro che abitualmente salgono il monte riferiscono che di mattina non solo si vede fumigare la suddetta fumarola, ma spesso se ne osservavano altre fumigare intorno alla base interna del cra¬ tere (1). Altre volte ho rinvenuto la stessa fumarola. Così in una delle mie ascensioni (17-3-1947), giunto sull’orlo del cratere alle ore 9,30, notai che la fumarola solita da me individuata, fumava copiosamente, ed il vapore saliva in alta colonna, velocemente svolgendosi dalla fenditura. Accesa una carta ed introdotta nello spac¬ co, la fiamma subiva energica deviazione verso l’esterno; sembrava una ventarola, forse derivata dalla corrente d’aria esterna che si pre¬ cipitava nello interno generando una controcorrente; ma è più prò* babile che è la forza ascensionale del vapore, che esce copioso, la quale produce tale deviazione della fiamma. Altra fumarola è nelle pareti crateriche meridionali ad una al¬ tezza dal fondo craterico inferiore a quella a cui si trova la prima fumarola, e situata come questa in uno spacco del tufo grigio. Tale fumarola presenta lo stesso fenomeno della ionizzazione gassosa me¬ diante corpi accesi ed analoga deviazione della fiamma. Ancora (2) alla base del cratere del Monte Nuovo verso il mare, all’estremo sinistro della sacèatura rivolta al meridione, osservai le temperature rispettivamente di 61° e di 62°, 3; e più volte ho riseorn Irato su tale versante, sul lapillo e le scorie di detta sacèatura, il car¬ bonato acido di sodio in copiosa efflorescenza. Come pure in un pozzo sul versante occidentale del Monte Nuovo riscontrai la temperatura di 37° il 29-12-1935 (3). Perlustrato moltissime volte attentamente il cratere, non ho finora mai rinvenuto mofete. Indagini condotte sia nel pozzo esistente nel nord del fondo cra¬ terico, sia in quello trivellato per la energia endogena, non hanno ri¬ velato presenza di anidride carbonica. Nel 1940 nell’interno del cratere del Monte Nuovo fu eseguito dalla ( 1) Parascandola A. Su di alcune misure di temperatura eseguite nel Rione delle Mofete e nel cratere del Monte Nuovo nei Campi Flegrei, Boll. Soc. Nat. in Napoli, voi. XL, Napoli, 1929. <(2) Parascandola A. Osservazioni di temperatura nei Campi Flegrei. Boll. Soc. Nat. in Napoli, voi. XLVII, 1935, pag. 138. (3) Parascandola A. Il bacino idrotermale del Lucrino e delV Averno. Boll. Soc. Nat. in Napoli, voi. XLVIII, 1936, pag. 30, ^ Società Anonima Forze Endogene Napoletane (S.A.F.E.N.) un son¬ daggio fino alla profondità di metri 670; furono incontrate tutte rocce costituenti la cosiddetta breccia de! tappo, ossia tutta formata dal ma¬ teriale caduto dalle pareli del cratere e dal condotto nel condotto stesso rimasto vuoto, almeno fino a quella profondità, in seguito alla ultime esplosioni (1). La temperatura fu riscontrata prima lievemente crescente, poi persistente intorno ai 15CF-1700 C. Faccio però rilevare che quando il Toleto salì al Monte Nuovo, sul fondo del cratere si vedevano ribollire le pietre; quindi il condotto era ripieno di materiale comunque esso fosse stato, e che poi nel 6 ottobre l’eruzione lavica scoriacea, o meglio la esplosione di blocchi lavici, si manifestò procurando la uccisione di quelli che si avventu¬ rarono sul monte; quindi non si può parlare in quest’ullima esplo¬ sione lavica di una grande copia di materiali che avesse lasciato il condotto craterico v uoto fino a quella profondità, a giudicare dal ma teriale proiettalo. 5. Gli effetti dell’eruzione. Il disastro cagionato dall’eruzione e le conseguenti modificazioni della zona sono bene specificate nella relazione di Delìli Falconi. Il Nuovo Monte « ha coperto la canettaria et lo castello di Tre - pergole che gli sta incontro e tutti quegli edifici et la maggior parte di bagni che erano intorno. Et le falde dalla banda di mezzogiorno . t erso il mare, et da tramontana insino al lago Averno sì estendono. Et da ponente vicino al sudatolo. Et da oriente col piede di Monte Barbaro si congionge , di maniera che quel luogo ha mutato forma, et faccia che non vi si conosce più niente di quello di prima ». Più numerosi particolari possono raccogliersi da altri relatori coevi e non coevi. Come già si è detto. Pozzuoli fu molto rovinata dai terremoti, dalle esplosioni e dalla caduta dei prodotti piroclastici. Il Duerno per metà crollò per d terremoto, l’altra metà era pericolante. L’Archivio della Curia Arcivescovile fu incendiato. La città fu poi splendidamente restaurata da Pietro Giacomo da Toledo, Viceré spagnuolo, e dai no¬ bili napoletani. (1) Ippolito F. Su alcuni pozzi profondi del Napoletano. Boll. Soc. Nat. Na- popi, voi. LIII, 1942. pag. 131. — Penta F. Studi e ricerche in corso nei Campi e nelle Isole Flegree condotti allo scopo di utilizzare Ir energie del sottosuolo. Boll. Soc. Nat. Napoli, voi. LI, 1940, pag. 197. ( foto Parascandola) Fig. 1. — Regolare disposizione di banchi di tufo grigio pomici oso col mantello di scorie io direzione N.W.-S.E. TAV. VII ( foto Parascandola) Fig. »2. — La vasca grande di Pollio con il Lucrino ed il M. Nuovo. Il Monticeli o del Pericolo, die segnava l’estremo orientale del lago di Lucrino, fu seppellito dai lapilli e dalle ceneri, e rimase incluso nel fianco occidentale del Nuovo Monte. Il canale che Agrippa avevi* allargato tra l’ Averno e il Lucrino fu interrato. Lò storico Sanfelice riferisce che nell’ Averno morirono i pesci, e che questo lago diminuì di superfìcie. Se il Lucrino fosse esistito, il Sanfelice non avrebbe mancato di dire, così come delLAverno, della riduzione di superficie die il Lucrino avrebbe dovuto subire. La ridu¬ zione dell’Averno fu permanente; difatti le propaggini occidentali del M. Nuovo attualmente si estendono sulla riva orientale del lago di Averno. Il villaggio di Tripergole, die sorgeva proprio dà dove si aprì il crepaccio, fu distrutto e seppellito completamente dall’edifìzio del monte. Alcuni ritengono die anche il Lucrino sia stato distrutto, o meglio in buona parte o nella totalità riempito dall’eruzione del monte; ma più esattamente questo lago all’epoca dall’eruzione del M. Nuovo era in fase di subsidenza. Mi fermerò appunto su Triper¬ gole e molto più sul Lucrino. 6. Fenomeni sismici postumi. 1543. — Nell’archivio del capitolo del Duomo di Pozzuoli si con¬ serva una pergamena in cui è detto che, per decreto pontifìcio del 1543, si dispensa il clero per un decennio dal pagamento delle decime a causa del paese minato dai terremoti . 1552. — Un’altra pergamena è del 1552, nella quale è detto che con decreto pontificio dell’8 Dicembre di quell’anno il clero è dispen¬ sato per un altro decennio del pagare le decime per le conseguenze ancora sensibili dell’incendio di Tripergole del 1538. Il Baratta nel suo monumentale lavoro: I terremoti d’Italia (To¬ rino. Bocca, 1901), riferisce di molti terremoti puteolani di epicentro locale (corocentrici) che sono da supporre in relazione con fenomeni postumi dell’eruzione del 1538. La fonte principale della notizia è data da Mercalli G. I terremoti napoletani del secolo XVI ed un mano¬ scritto inedito di Cola Aniello Pacca. (Boll. Soc. Geol. Ital., voi. X. fase. 2°. Roma, 1891). 1564. — Si avvertirono in Pozzuoli quasi continuamente terre¬ moti, molti dei quali leggeri; nel luglio ne avvenne uno violento, e poi dopo otto giorni un altro, avvertito anche a Napoli. Non appoL" tarono danni. 1566. — Secondo il Pacca, poco dopo le ore 18 del 23 gennaio un terremoto assai sensibile scosse Napoli senza causare danni. Verso le ore 15 del 1° Maggio si ebbe una scossa fortissima; a 4 ore della — 214 — notte fra il 6 e 7 dello stesso mese fu avvertito in Napoli un terremoto ehe il Pacca dice abbia avuto origine a Pozzuoli (1). 1568-69. — Il Pacca dice che nella notte fra il 31 dicembre e il 1° Gennaio 1569 in Napoli e dintorni si sentì un violento terremoto, ehe ebbe sua origine in Pozzuoli « per il quale cadde parte di quel sasso che è nell’entrare della famosa grotta di Lucullo, posta fra l’una e l’altra delle dette città ». 1570. — • Nella notte fra il 30 aprile ed il 1° maggio, circa ore 4l/2 (ital .), un terremoto assai forte scosse, secondo Pacca, Napoli; in Pozzuoli causò danni a qualche edificio, e particolarmente all’ospe¬ dale. Ai 1-7 giugno, circa le ore 16]/2 (ital.), si intese un’altra scossa, ma assai meno intensa della prima. Il Summonte (e dietro lui il Bonito e il Capaccio) ricorda un terremoto disastroso per Pozzuoli il 17 giugno 1570; e non menziona il primo successo il 30 aprile; ma dalle notizie del Pacca, che sono certamente le più attendibili, risulta che la scossa più forte è stata la prima. 1582. — Bonito, in Terra tremante (Napoli, 1691), riferisce che nel principio di maggio 1582 i terremoti urtarono violentemente Poz¬ zuoli; furono più intensi nel maggio, recando notevoli danni a mol¬ tissime case, rovinando le più deboli e lesionando le più forti. Cau¬ sarono anebe vittime. Furono sentite oltre a dodici miglia dalla città. A Napoli si ruppero le volte delle cisterne. 1594. — Perrey nella sua opera Memoires sur Ics trémblement de terre de la Peninsule Italique (Bruxelles 1848, pag. 20), scrive: « Nell’anno 1594 a Napoli e a Pozzuoli violenti scosse vi furono du¬ rante le quali il mare si ritirò dal lido per 200 passi ». 1832. — In febbraio, forti scosse nella località Monte S. Angelo, ove furono danneggiate molte case rurali. III. — La tettonica del Monte La quaquaversale interna non è dovunque ben conservata. Lo è invece nel versante orientale; in quello settentrionale ed occidentale la quaquaversale interna è accennata; in quello meridionale è assente. Evidentemente l’esplosione obliqua del 6 ottobre dovette raschiare E imbuto craterico maggiormente nel settore meridionale, distruggendo quivi la quaquaversale interna. Difatti quando il Marchesino vide il cratere osservò che scendea (1) Si noti che le ore sono ore italiane, ossia vanno contate dairAve Maria doli a sera. — 215 — tanto di dentro quanto di fora; solo che aH’infuori si allargava ed al di dentro si restringeva; quindi evidentemente il materiale, a libera caduta, costituito dalla pioggia di cenere e pomici, si disponeva or¬ dinatamente, quaquaversalmente, intorno all’asse eruttivo, costituendo neH’intcrno un ben formato cono rovescio. La saccatura, ossia la de¬ pressione sul fianco meridionale del Monte Nuovo può spiegarsi come conseguenza di una eruzione esplosiva obliqua, la quale raschiò vio¬ lentemente ed asportò in quel settore la massa cinerea incoerente e vi si appose. La tavola III mostra il M. Nuovo dall’aereo con la saccatura me' i idionale e le depressioni circolari citate. Difatti nelle sezioni rappresentate nelle figure 1 e 2 della tavola IV, si nota tale discordanza; mentre altrove, come nella nota sezione ri¬ portata da De Lorenzo c Simotomai (1) ed in quelle da me osservate susseguentemente (tav. VIL, fig. 1 e tav. V, fig. 1 e 2), si nota la concor¬ danza di deposizione del materiale scoriaceo, che i nuovi scavi hanno messo in evidenza in tutta la sua vasta formazione. Evidentemente non vi fu, in queste zone di concordanza, asporto di materiale. Se poi si volesse interpretare il materiale scoriaceo che riveste buona parte del fianco meridionale siccome una eruzione la quale avesse trapa¬ nato lateralmente tale fianco, vi sta contro il fatto che in corrispon¬ denza le pareti crateriche interne non si mostrano costituite di scorie, le quali invece obliquamente eruttate si lanciarono come valanghe infuocate sulle incoerenti ceneri facendole giù rumare a loro volta come enormi valanghe, che precipiti scesero al piano, rotolarono sulle acque de! mare sotto la irruenza del materiale scoriaceo incalzante. Fu quindi tale materiale lavico scoriaceo che produsse la saccatura meridionale (tav. Ili e tav. IV, fig. 1 e 2). Ed io penso che in due tempi avvennero esplosioni oblique; in un primo tempo quella del giovedì ed in un secondo quella della do¬ menica seguente. Alla base nord-occidentale del Monte Nuovo il tempio di Apollo fu in parte interrato dal Monte Nuovo ed in parte rumato per quello che è la parte imponente scoperta. Ma questi ruderi ci stanno a dire che effettivamente il vento durante la eruzione del Monte Nuovo spi¬ rava da ponente, e che il giovedì e la domenica le esplosioni furono esclusivamente oblique. Certo l’eruzione contribuì non poco, oltre che al "Uo parziale interramento, anche al crollo delle volte, forse già pericolanti, mediante la caduta dei pesanti proietti. (1) De Lorenzo G. e Simotomai H. I crateri del Monte Gauro nei Campi Fle- grei. Atti R, Acc. di fis. e mat„ voi. XYI, s, 2a, n. 10, pag. 26, fig. 4. Napoli, 1915, — 216 La terrazza di cui De Lorenzo e Simotomai nel citato lavoro par¬ lano sull’orlo N-E del Monte Nuovo, oltre a ritenersi come formata dal franamento del recinto del cratere, è possibile ritenerla formata anche per concomitante modellamento >u di un rilievo preesistente. Difatti mentre ad ovest il Monte Nuovo ricopriva il Monticeli o del Pericolo, verso il nord doveva modellarsi >ullo sperone meridionale, quantunque basso, del cratere di Averno. Su tali disuguaglianze il materiale do¬ vette susseguentemente assestarsi e quindi generare le forme attuali. Dalla morfologia del Monte Nuovo (big. 6) >i vede bene come questo Fig. 6. 11 M. ISiiovo (Scala 1:20.000). cono nei vari settori assume profilo ben diverso da quello che avrebbe assunto se non vi fosse stata la influenza della preesistente morfologia. Ciò si nota anche osservando la fotografia dall’aereo della tav. III. La fig. 1 della tav. VI ci mostra : le pareti orientali del cratere del M. Nuovo con la cima orientale non ancora spianata per le esigenze belliche; inoltre il declinare di detta cima mostrante la deposizione del materiale a libera caduta senza sottoposti ostacoli. Ben. diversa si presenta la parete craterica settentrionale (fig. 2, tav. VI) con i solchi ben visibili, nella sua compagine di tufo grigio pomicioso incoerente. — 217 — Da Pozzuoli si nota nel profilo nord del Monte Nuovo una sella; probabilmente dovrà essere data dal rilievo sottostante del corno me¬ ridionale destro del cratere deH’Averno, sul quale il materiale del Monte Nuovo si modellò. Per cui anche tale corno contribuiva, assieme alla terrazza della Starza ed al Monticello del Pericolo, a delimitare la v alletta per cui si andava al lago di Averno ed al 1 i bagni. Anche guardando il Monte Nuovo da mare, da sud, si nota il pendio ricoprente il Monticello del Pericolo, mentre poco dopo il pendio s’in¬ flette adattandosi tra la crinale del Monticello del Pericolo e la cri¬ nale del Monte Nuovo, cioè Passestamento del materiale piroclastico tra il Monticello e l’asse della crinale craterica. Ciò ricorda lo spez- varsi della sagomatura tra Torlo del vecchio cono del Vesuvio ed il nuovo materiale piroclastico imposto dall’eruzione del 1944. Il taglio effettuato recentemente sulla Montagnèlla fino alla profondità alla quale è stato condotto, di circa metri dieci, lascia vedere la comune costitu¬ zione geologica del monte. Difatti si ha la formazione basale di ceneri, pomici, lapilli, disse¬ minati qui e lì di scorie laviche, prevalentemente di quelle simili alle superiori che come un mantello avvolgono quasi tutto il Monte Nuovo, dove più dove meno, in ispecie nel settore che fu sotto l’influenza d'a¬ zione della esplosione del 6 ottobre. Sopra le pomici, si adagia con- cordanteinente, per lo spessore medio di circa 40 cm., il mantello sco¬ riaceo delTullima esplosione. La fig. 2 della tav. V ci consente di OS" servare come questi strati, tanto quelli che possiamo chiamare di tufo bigio pomicioso incoerente quanto quelli di >corie, dimostrano una di¬ sposizione a mantello con strati inclinati verso nord-sud e modellami un rilievo sottostante, il quale potrebbe benissimo essere dato dalla ter¬ razza della Starza; di quella porzione cioè della terrazza la quale doveva, come detto, pur appoggiarsi al Monticello del Pericolo nel suo lato occidentale. Forse Tulteriore proseguimento dello scavo ci porterebbe sul piano della terrazza della Starza. Questa disposizione stratigrafica riproducente esattamente la formazione cupolare esterna della Montagnèlla non trova, almeno, altra spiegazione. Ciò ci rende maggiormente ragione del fatto che la Montagnèlla non può essere porzione del Monticello del Pericolo, perchè se ai 36 metri della Montagnèlla togliamo i dieci metri di scavo finora fatti (e che col proseguire dei lavori potrebbe aumentare ancora la potenza del materiale piroclastico del Monte Nuovo), sì vede che il rilievo sot¬ tostante alla Montagnèlla non è che addirittura insignificante; si ri¬ duce cioè appena alle modeste dimensioni della terrazza della Starza che si osserva a Lucrino, e che forse sotto l’attuale Montagnèlla rag¬ giungeva dimensioni ancora più modeste* - 218 Ciò maggiormente dà ragione della denominazione del Pericolo, che tale terrazza inferiva al Monticello al quale si addossava, come farò rilevare, costituendo una secca pericolosa, un frangionde da te¬ nersi lontano nello entrare nell’ Averno o nel costeggiare la insenatura del Lucrino durante la fase di subsidenza. In qualche altra sezione del taglio da poco eseguito si riscontrano due strati paralleli di scorie, sicché vien fatto di pensare ai materiali della esplosione del giovedì. Propriamente dopo tale sezione si osserva che gli strati pendono a doccia inclinando verso est e verso ovest, sa¬ gomando, come nella sezione della Montagnella, qualche nucleo sot¬ tostante, il quale potrebbe essere proprio il Monticello del Pericolo che questi strati del Monte Nuovo coprirebbero in senso normale a quelli della Montagnella, disponendosi a cavaliere del Monticello del Peri colo. La regolare disposizione del tufo bigio col mantello di scorie si nota pure nella fig. 1 della tav. VII, rappresentante una nuova sezione diretta da SE a NWI; ciò dimostra la regolare caduta dei proietti lavici quaquaversalmente, ma senza valanghe che abbiano disturbato, come nel versante meridionale, il primitivo andamento statigrafico. Si conosce che il Monte Nuovo in linea generale è costituito da (ufo grigio e da un banco di scorie ricoprenti il settore meridionale del monte per notevole -potenza, e qui e lì sparse per le spalle del Monte; per vero or sono diversi anni, verso il 1935, lì dove nel fianco meridionale si cavava la così detta ferrugine, notai che alla base del Monte Nuovo, al disotto del banco di scorie il quale non tocca il piano di base, affiorava il tufo giallo. Data la non vasta superficie osservata, e il caso singolo, rimandai a miglior tempo di fame parola (1), a quando avrei trovato altri esempi in posto. Intanto già nell’isola di Procida, nel cratere di Socciaro fin dal 1923 avevo rinvenuto un bel¬ l’esempio di graduale passaggio di tufo grigio superiore in quello giallo, ed anche altrove nella stessa isola ho riscontrato interdipendenza fra tufi grigi e gialli. Al Monte Nuovo, ora, nello scavo fatto di recente e che taglia di traverso secondo est-ovest il fianco meridionale del Monte, ho tro¬ vato, salendo da sud-ovest, in un taglio, una poderosa formazione di tufo giallo inferiore che superiormente fa passaggio al bigio, e prima di giungere a questo è attraversato da piccole lenti di tufo verde. La già citata figura 3 della tav. IV, lascia vedere, lì dove è la indicazione della inailo, il limite tra il tufo giallo e il grigio. È questa il) Appena me accennai nel mio lavoro: Il Monticello del Pericolo nei Campi Flegrei. Boll, della Soc dei Nat, in Napoli, voi. XLVIII, 1936, ipag. 73. — 219 — la prima volta che si osserva così evidente la trasformazione graduale del tufo grigio in giallo. Quattrocentonove anni sono bastati per trasformare quello elio originariamente era tufo grigio in giallo; e ciò per notevole potenza, perchè tale formazione scende fino alla base del Monte all’esterno. Quindi indubbiamente questo tufo giallo, che fa parte di quella por¬ zione del Monte Nuovo, deriva dalla alterazione del tufo originaria¬ mente grigio; sicché anche qui, ed a maggior ragione, si può dire ciò thè De Lorenzo notava agli Astieni per una consimile, ma breve, formazione che si rinveniva all’ingresso di quel cratere; cioè che questo tufo giallo, portato lontano dal luogo di origine, per nulla si distingue dal tufo giallo di Posillipo (1). E tale era l’impressione che si provava accedendo alla zona in questione sul Monte Nuovo, ed osservando i grandi cumuli di tale tufo estratto ed ammucchiato. Esso è pervaso da molte pomici alterate, di color giallino, in tutto simili a quelle del comune tufo giallo attribuito al secondo periodo dei Fegrei. Le pomici invece che pervadono la massa del tufo grigio del Monte Nuovo sono fresche. In primo luogo io penso che la trasformazione del tufo grigio in giallo, (a parte il dare un giudizio sulla velocità di trasformazione del grigio in giallo), sia stata nel caso del Monte Nuovo, facilitata dalla pervasione del vapore tuttora perdurante, a temperatura prima più elevata ed ora meno. Difatti sul piano della figura 2 (tav. IV), lì dove era un banco di scorie, dove sono figurati gli operai, vi era una manifestazione di va¬ por d’acqua saliente dalla base del Monte all’orlo esterno, in dire¬ zione di quella fumarola a 62°, 3 da me rinvenuta nell’agosto 1935 (1). Inoltre credo che alla trasformazione del tufo grigio in giallo abbia contribuito anche lo stato di umidità con cui cadde parte del materiale del Monte Nuovo; ed ancora, poiché in quel settore il tufo era coperto dal poderoso banco di scorie, ritengo che un pigmento di ossido ferrico idrato abbia facilitato anche la formazione del colore. Certo non tutto il tufo grigio del Monte Nuovo si trova così tra’ (1) De Lorenzo G. Il cratere (li Astroni nei Campi Flegrei. Atti Acc. Se. Fis. e Mal. Napoli, 1902. li). I crateri di Miseno nei Campi Flegrei . Ibich, 1905, pag. 5. — In quest’ultimo lavoro De Lorenzo parla di formazione di tufo giallo, oltre che ad Astroni, anche neirinlerno del cratere del Monile Nuovo. Io inel cra¬ tere di tale Monte non ho mai rinvenuto fino ad ora tufo giallo siccome costi¬ tuente la compagine del monte; debbo ritenere che probabilmente il tufo giallo citato da De Lorenzo e De Stefani sia da attribuirsi piuttosto a porzioni di tufo della piattaforma flegrea, oppure faccia parte di opere dell’abitato di T ripergole. (2) Parascandola A. Osservazioni di temperatura nei Campi Flegrei. Boll. Soc, Nat. in Napoli, voi. XLVII, 1935. Napoli, 1936. — 220 — si ormato, ma quello osservato è già di per se notevole. Per cui si può dedurre ancora da questa osservazione, che quello che è ora chiamato tufo giallo del secondo periodo dei Campi Flegrei non sia stato in¬ dubbiamente di natura sottomarina, ma che si sia potuto formare anche per accumulo suba eneo e che Pai ter azione in giallo possa essersi ef¬ fettuata anche subaereamente. Resta, ben s’intende, la distinzione dei periodi, essendo intercorso un lasso di tempo tra la formazione dei coni di tufo giallo e quelli di tufo grigio. Ma può nascere il dubbio: tutti i coni di tufo giallo del 2° periodo furono pressoccbè contemporanei o di poco susseguentisi in quell’intervallo di tempo intercedente tra il 1° ed il 3° periodo? È la uniformità di colore, e presso a poco di costituzione, indice della pertinenza di tutti i coni di tufo giallo al 2° periodo? Furono tutti sottomarini? Furono in parte sottomarini ed in parte subaerei? Fu¬ rono taluni esclusivamente subaerei? Quale fu la durata del 2° periodo Certo lunga, se per nascere Nisida dovette prima essere distrutto l e- dificio di Coroglio. In tale lungo intervallo il magma poteva pur su¬ bire qualche modifica. Quindi la uniformità del tufo giallo non sta ad indicarci unica modalità di origine, perchè di certo Nisida venne molto dopo di Coroglio; eppure hanno uniforme il tufo giallo (1). La massa del tufo giallo in esame del Monte Nuovo si presenta at¬ traversata dalle comuni fratture come conseguenza della contrazione nella diagenesi; le quali fratture invece non interessano le masse del tufo grigio. Per tutte le pareti crateriche interne non -i vede traccia di tufo giallo. Esse presentano pomici, in prevalenza sparse nella massa ci¬ nerea e lapidosa lavica, la quale è cosparsa qua e là da pochi blocchi lavici, in genere piccoli. Anche la sezione che è sul fondo del cratere, nel pozzo fatto per i! servizio di acqua alle macchine, tempo fa, quando se ne tentò lo sfruttamento dell’energia interna, mostra per tutta la sua profondità, circa 22 m., la stessa costituzione delle pareti crateriche: ossia tufo grigio pomicioso con lapillo lavico minuto. Anche il pozzo eseguito dalla S.A.F.E.N., e spinto fino a 666 m. di profondità, non ha dato diversità di costituzione litologica, trattari- 1* Parascanoola A. / vulcani occidentali in Napoli. Boll. Soc. Nat., voi. XLV1II. Napoli, 1936, pag. 51. Di certo non possiamo considerare nella loro totalità sottomarini alcuni edilizi vulcanici. Se Miseno fosse stato tutto sottomarino il tufo grigio incoerènte che copre nettamente distinto, il tufo giallo, non sarebbe stato risparmialo datazione degradatrice delle onde. TAV. Vili (foto Parascandola) Fig. 2. — Il lago Lucrino e la Via Herculea col suo attacco orientale sulle pendici del M. Nuovo. A. Parascandola. Il M. Nuovo ed il lago Lucrino. Fi-g. 1. (foto Parascandola) — Il lago Lucrino con la collina della Ginestra. dosi ri i materiale piroclastico occludente il condottò, per lo meno lino a quella profondità. Bombe a crosta di pane qui non se ne rinvengono. Tri genere si tratta di blocchi più o meno globulari fessurati, che si ritrovano nella valanga dei proietti scoriacei. Invece le bombe pomieee, quantunque piccole, sono alquanto frequenti. Ciò ci sta a dire che il magma estrin¬ secatosi il 6 ottobre era già in avanzato raffreddamento. La trachite discontinua del Monte Nuovo era stata ritenuta una trachite fonolitica. Il Dell’Erba la riportò ad una trachite sodalito- anortitica (1), L’analisi del Washington ci dà : SiOo : 60,33 ; A1203: 18.27; Fe2ff3:2,84; Fe0:I,29; Mg0:0,38; CaO: 1,15; Na20:7,]5; K20:7,30; H20 + : 0,56; Ti02: 0,43; P2Ò,:0,04; Ch 0,43; totale: 100,17. Come già feci rilevare, questa trachite si avvicina per il tenore sodio e potassio in rapporti uguali a quella della Lingua dell’isola di Precida da me studiata (2). ed altresì perciò si avvicina alla trachite di Cuma ed al piperno, nelle quali rocce il tenore in alcali è pure no¬ tevole, con predominio, di poco, della potassa sulla soda (3). Nel tufo giallo del Monte Nuovo >i notano pirosseni verdi, mica, magnetite, sanici ino. Nel tufo grigio incoerènte si rinviene scarsissima magnetite in piccolissimi cristalli frammentati. Alcune piccole pomi- vette contenevano pochissima magnetite. Questo minerale di la conso¬ lidazione, e che per la gravità specifica non dovrebbe apparire tanto frequente nelle parti superficiali dei magmi, pur tuttavia in queste po mici è presente. Ciò evidentemente è dovuto alla forza espansiva del vapore, che trascinò tale minerale dalle parti più profonde alle -u- perficiali. Sicché nelLeruzione del Monte Nuovo: la la eruzione, quella delle pomici, estrinsecò magma fuso formante un cappello; la 2a eru¬ zione, quella delle scorie, estrinsecò magma più viscoso e in via di consolidazione. La degassazione per cristallizzazione qui non può es¬ sere invocata a causa della scarsezza dei cristalli. il) Dell’Erba L, La snnidinite sodalito-anòrtitica di Monto Nuovo. Napoli. 1893. (2) Parascandola A. Sulla trachite sanidinica vitrofiricu della Punta della Lin¬ gua '( Is . di Procida). Read. R. Ace. Se. fis.. e ni at. Napoli, 1936. (3) Avendo gli eventi bellici del 1943 dispersa il manoscritto, questo lavoro fu. fra P altro, privato dello studio chimico -petrografieo, il quale verrà trattato ini altra pubblicazione. IV. — Ipotesi sul magma flegreo E SUL BRADI SIS MA PUTEOLANO Il magma flegreo, probabilmente filiazione di quello vesuviano e costituente la parte più acida superficiale del bacino magmatico, fu spinto verso la periferia occidentale di detto bacino, ed all’alba del quaternario estrinsecò la sua attività con eruzioni prima sottomarine, di natura non ben conosciuta, formanti un imbasamento sul quale si doveva poi sopraelevare il restante materiale vulcanico. Quale fu il primo materiale di queste prime eruzioni? Fu di piperno e di rocce consimili? O prima del piperno fu emesso il tufo verde d’Iscbia? Il tufo verde dovette avere grande estensione se noi costantemente lo troviamo qui e lì diffuso, quantunque non abbondante, nel tufo giallo. Il tufo giallo poi sovrasta al piperno, per cui è da ritenersi che il tufo verde dovette avere una estensione maggiore del piperno stesso, perchè comunemente il piperno non si rinviene in blocchi avulsi ed inclusi nel tufo. Ma si tro\ ano proietti di piperno nel tufo giallo dei Camaldoli? Evidentemente se il tufo giallo sovrastante al piperno fosse stato pro¬ dotto dalla stessa bocca eruttiva che diede luogo al piperno, dovrebbe contenerne; se non ne ha, vuol dire che Tasse eruttivo dal quale uscì il materiale piroclastico che poi originò il tufo giallo non attraversò la piattaforma di piperno; quindi il piperno non era molto esteso. D’altra parte mentre ai Camaldoli si ha la seguente serie ascendente: piperno, breccia museo, tufo giallo; nella isola di Proeida la serie ascendente è questa: tufo giallo, trachite pipernoide, breccia museo. Quindi dovrebbe essere il tufo verde anteriore al piperno. Ma non si può generalizzare e trarre per ora qualche conclusione sulla costi¬ tuzione litologica profonda dei Flegrei. Quello che ci pare poter dire è che la coltre di materiale vulcanico che si estende sui Flegrei sia relativamente esile e risenta con facilità delle fluttuazioni magmatiche. Questo magma probabilmente è una propaggine di quello vesuviano, e quindi risente, nel suo stato, delTat- tività interna del magma vesuviano, sia per quel che riguarda le con¬ dizioni puramente chimico-fisiche, sia per ciò che sono le azioni meccaniche di costrizioni delle pareti del bacino magmatico in conse¬ guenza dei movimenti orogenetici ed epeirogenetici, che farebbero sen¬ tire il loro influsso sul bacino vesuviano. Il magma flegreo così solleci¬ tato, specialmente perchè premuto, si sposterebbe, e farebbe sentire la sua azione sul soprastante tetto, il quale oscillerebbe sollevandosi ed abbassandosi. Ma non regolarmente: perchè noi osserviamo che mentre tutta la costa tirrena si abbassa, invece lungo la zona dei Fle- grei che va da Posili ipo a Miseno, la cQSta subisce i massimi sposta¬ menti sulla verticale, e la zona più interessata è quella baiano puteo- lana. Io penso èbe la parte superficiale del magma, sollecitata dal flusso vesuviano, trovi un ostacolo costituito dagli zoccoli tufacei dei piu an¬ tichi vulcani di tufo giallo che costituiscono le piattaforme profonde su cui essi si imbasano, specialmente il blocco degli antichi vulcani che da Miseno, pel Monte di Proeida, vanno all’isola omonima. Questi costituiscono come un massiccio rigido, contro il quale il magma fle- greo spinto, urta, rigurgita, per poi riabbassarsi col (‘essale della causa perturbatrice. Difatti il bradisisma che un tempo a Proeida pur do¬ vette essere notevole, a giudicare dai pozzetti verticali che si trovano a notevole altezza sul cratere di Socciaro, ora è inosservabile (1). Nei Campi Flegrei il bradisisma discendente, lentissimo, era in atto da tempo. Quando nel 79 il Vesuvio eruttò, nella zona flegrea si ebbe un bradisisma ascendente (Plinio) per il movimento del magma vesu¬ viano premente contro quello flegreo; finito il parossismo, cessata l’a¬ zione della spinta, svuotato parte del serbatoio magmatico, il magma flegreo seguì quello vesuviano nel suo riflusso; di conseguenza: un bra¬ disisma discendente. Quando nei secoli dopo l’eruzione del 79. l’attività vesuviana fu varia fino al riposo secolare che finì con l’eruzione del 1631, nella zona flegrea dalFXI secolo o poco più si ebbe bradisisma ascendente per l’azione costrittiva del magma vesuviano; il magma flegreo costr palo iniziava la fase ascendente; ma compresso contro il pilastro ri¬ gido tufaceo dei vulcani anzidetti di tufo giallo, premette contro il tetto magmatico; ne fuse le rocce a contatto, sollevandole, fratturan¬ dole, venendo a luce con Feruzione del Monte Nuovo. Avvenuta l’eruzione di questo monte in periodo di calma vesu¬ viana, si iniziò il bradisisma discendente, pur essendo otturato il con¬ dotto vesuviano, perchè al parossismo eruttivo doveva pure seguire una fase di subsidenza, sia pel vuoto originatosi con lo svuotamento del serbatoio sottoposto, sia per una controreazione del magma preceden¬ temente premuto. Può perciò ben dirsi che il bradisisma oscillatorio flegreo è una conseguenza della fluttuazione magmatica. Ma il magma per quale causa fluttua? Potrebbe fluttuare: o per vapori, che altrove svolgendosi spostano le masse già semifluide adia¬ centi, o pervadono le masse fluide adiacenti, costringendole a far pres¬ ti) Parascandola A. Sui pozzeti verticali e su talune altre forme che si rinven¬ gono nell’isola di Proeida. Boll. Soc. Nat. in Napoli, voi. XL, 1928. — 224 — pione sul tetto magmatico; oppure per spinte magmatiche da parte di magma vicino più attivo a sua volta sollecitato da altre cause. Ma l’eruzione del Monte Nuovo fu effetto di una degassazione del magma? Ed allora perchè il magma si è aperta una via colà e non al¬ trove? La costituzione litologica del Monte Nuovo ci fa vedere come esso sia essenzialmente costituito da pomici intercalate con proietti la¬ vici. Evidentemente la porzione superiore del magma eia fusa e per¬ vasa da vapori, che, divelto il tappo, fecero sprigionare il magma, e- s tra endo di tanto in tanto porzioni della massa magmatica sottostante, la quale per non essere così ricca di vapori, nè eccessivamente fluida da lasciarsi pervadere da questi, venne fuori in diverse condizioni fi¬ siche. La degassazione per cristallizzazione qui non può essere invocata come causa determinante della eruzione del Monte Nuovo a causa della scarsezza dei fenoc ristai li nella massa magmatica. Fu piuttosto una degassazione provotata dalla compressione alla quale venne a tro¬ varsi il magma del Monte Nuovo, come ne fa fede il sollevamento in quella zona rapidamente avvenuto. lo penso ancora che le stesse esplosioni oblique delle eruziuni del giovedì 3 ottobre e della domenica 6 ottobre siano da considerarsi come la risultante della riflessione dell’onda magmatica urtante contro i pilastri di tufo giallo delle masse tufacee dei crateri preaverniei a Nord, ed estrinsecantesi quindi tale onda nel settore meridionale. Inoltre non è da escludersi che nella conflagrazione del Monte, il quale poi è a contatto dell’Averno (distando il suo asse eruttivo circa un km. da quello dell’Averno) siano potute verificarsi crepaccia- ture nella falda freatica e sorgiva imbevente l’Averno, e forse interes¬ santi anche le pareti profonde dell’Av»erno. Ciò spiegherebbe la ce¬ nere fangosa caduta, poiché la colonna ascendente del materiale piro¬ clastico avrebbe aspirato con sè parte di quell’acqua. A. Parascandola. Il M. Nuovo ed il lago Lucrino. TAV. IX. ( foto Parascandola) Fig. 1. — Le pendici occidentali del M. Nuovo con la sella della Montagnella (foto Parascandola ) Fig. 2. — Il lago Lucrino coni le sue sponde orientali ed il M. Nuovo con la sua soprastruttura: alla terrazza della Starza -col limite in a, al Monticello del Pe¬ ricolo col limite in b ; a destra si nota una delle fosse. — 225 — PARTE IL Le modificazioni della zona con particolare riguardo al Lago Lucrino. 1. Il villaggio di Tripergole e la sua distruzione. Tra il Monte del Pericolo e il Monte Barbaro nell’area attual¬ mente occupata dal Monte Nuovo esisteva il villaggio di Tripergole. detto « tre pergole » nella dizione di Marco Antonio deilli Falconi. Di questo villaggio non abbiamo notizie coeve. Gli archivi di Pozzuoli furono distrutti dall’eruzione del 1538. Il SarnelLi nella sua « Guida dei forestieri » : Napoli 1685, (pag. 55), nel processo intitolato « Informano prò hos pitali de Tri per gola » riporta quanto nell’anno 1587 attestavano davanti al Vescovo di Poz-^ zuoli il Mastro giurato, il Sindaco ed altri puteolani: « Praesentata die ])Hmo Julii 1587. Puteolis per magnificos Dominos FranciscuM de Com¬ posta Magistrum Juratum, Hieronimum de Fraya Sin di curri , Lanze- lucturn de Bono homìne , Polidorum Fraya patre Electos ex civihus cor am illustre Domino Episcopo Puteolano per quem fuit receptum , si\c ed in quantum etc _ Avanti Vincendio della cenere che uscì da Tripergole, in detto luogo ci era una chiesa nominata S. Spirito con F ospedale , il quale ospedale era nominato olim di S. Marta , il quale di anno in anno continuamente si teneva aperto per gli infermi dalli Maestri dello sacro hospedale di S. Maria della Annunziata di Napoli... >c dopo detto incendio detta chiesa ed hospedale, per ritrovarsi sotter¬ rato ed occupato di cenere, fu da detti olim signori maestri trasportato vicino all’ Annunziata di Pozzuoli ». Altro documento che riporta il SARNELLI nella stessa a informatio » è quello di Antonio Russo di Pozzuoli, uomo di ottanta anni. « Die 30 mensis Julii 1587 Puteolis. — Magnificus dominus Antonius Russus de Pu teoli , aetatis annorum octuaginta (1) et plus, in circa testis sum- i(l) Quindi all’epoca della eruzione del Monte Nuovo aveva 31 anni. 15 marie productus, et medio suo iuramento interrogatasi et examinatus , super tenore memorialis magni ficae Universitatis Puteolanae dicit: c( che esso testimonio si ricorda a tempo che era figliuolo , che andava alla festa di Santo Spirito, la quale Chiesa stava dentro il Castello no¬ minato T ripergola, ed in detta festa se ci spendevano per li Mastri le cerase , e se ci abballava; dove concorreva tutta la città in detta festa ; ed in detto castello vi era un hospedale dalla parte di basso sopra li bagni terraneo , et esso testimonio entrava dentro detto hospedale , e vi vedeva da circa trenta letti, più , e meno, nelli quali dimoravano molti infermi forestieri e cittadini, i quali aveano bisogno dei bagni suda¬ tori, e tutte in ferinità, ed anco vi stava alla strada la quale di passo in passo era situata, et habitata da più persone delle quali esso testi¬ monio se ne ricorda , circa tre h oste rie le quali servivano per li Ca¬ valieri, che andavano alli bagni, e persone facoltose che havevano de¬ nari da spendere; e giontamente in detta strada con dette hosterie vi stava una spedarla, la quale crede esso testimonio, che stasse là per benefìcio di detto hospedale, e dopo essendo venuto in età più perfetta , vedeva esso testimonio, che detto hospidale di Tripergola si esercitava per li Mastri, delli quali si ricorda molto bene, che un anno vi fu Mastro il quond. magnifico Parise Adamiano di Pozzuoli -, il quale poi continuamente ne teneva protettione, e dopo di là a certi anni, et proprie l’anno 1538. nel giorno di San Geronimo, si sentì per detta città un gran terremoto il quale allo spesso lasciava e pigliava , e tutta la città si mise in rivolta e quasi tutta la disabitò, e andando in Napoli e per le campagne, chi fuggiva in un luogo e chi in un altro; e pareva che il mondo volesse subbissare, e le genti fugirono etiam aU« nuda; et uscendo esso testimonio coi suoi figli e sua moglie ritrovò alla porta di Pozzuoli una donna nominata Zizula , moglie di Mastro Ge¬ ronimo Barbiero , la quale andava in camicia a cavallo ad un sorniero alla mascolina, scapellata; e tutti piangevano e gridavano misericordia! E come fu verso un’ora in due di notte uscì una bocca di fuoco vicino al detto ospedale, nel largo nominato la Fumosa da dentro mare e menava gran moltitudine di pietre pomici e d’arena; e venne detta bocca di fuoco, così aperta, ad accostarsi al castello ed ospedale di Tripergola. e tutto lo conquassò e rovinò; e poi lo empì di arena e di pietre, e vi fece una montagna nuova in 24 ore dove sino ad oggi si vede » (1). Secondo De Criscio l’edificazione di Tripergole « trae origine dagli (1) Il Panvini Pasquale: Il forestiero alle antichità e curiosità naturali di Pozzuoli, Clima, Baia e Miseno. Napoli, 1818; pag. 80-81, riporta anche tale re¬ lazione traendola dal Sarnelli. — 227 — ammalati che portavansi ai bagni della famosa terma omonima che gli stava dappresso, non solo, ma anche della frequenza dei diversi prin¬ cipi angioini e aragonesi, i, quali portavansi a caccia nelle boscaglie delle vicinanze. Il villaggio divenne più popolato e frequentato nel principio del XVI secolo della nostra èra, per avervi il Re Carlo II d’Angiò costruito un ospedale per uso speciale degli ammalati che andavano a fare i bagni nella terma di Tripergola ; nonché una chiesa annessa al titolo di S. Marta, detta anche di Santo Spirito, perchè l’o¬ spedale dipendeva dal celebre Nosocomio di Roma detto Santo Spirito in Saxia, come risulta dalla decretazione del 5 settembre 1299 dello stesso Re, il quale destinatagli per la sua manutenzione 500 once d’oro annuali (pari a L. 7.000), da prendersi detta somma dalle gabelle della città di Pozzuoli, e dai beni demaniali, commettendone l’amministra¬ zione all’arcivescovo di Napoli Filippo Minutolo. Detto ospedale e chiesa di S. Marta fu costruita sulla terra della Mensa vescovile di Poz¬ zuoli, come ricavasi dal diploma del 16 marzo 1305, col quale il Re Carlo II d’Angiò dava facoltà al Mastro Regionale della R. Camera di Napoli, Nicola de Somma, di poter permutare e dare in cambio del luogo detto Cumazzano, ove dal Re fu fondato l’ospedale di S. Marta di Triperg'ole, di proprietà del vescovo di Pozzuoli Giovanni, e dalla Chiesa Maggiore di detta città, con un territorio poco arbustato e de¬ maniale con grotte contigue, detto l’Orto del Signore, sito in Pozzuoli nel luogo detto Vallenito, con diverse esenzioni al Vescovo pel jus della piazza di Pozzuoli. L’ospedale assieme con la chiesa di Santa Marta venne intera* mente completato nell’anno 1307, nel quale vi lavorò in qualità di architetto e da scultore Gagliardo Primario, figlio del maestro Ric¬ cardo. L’anno appresso il nobile napoletano Matteo Carafa a sua spesa edificò nello stesso villaggio una chiesa dal titolo di S. Maddalena. In tale modo il villaggio di Tripergole presso Pozzuoli, oltre a contenere un certo numero di case per i villici che tenevano in fitto i terreni della Mensa Vescovile di Pozzuoli, e di quelli dei due monasteri dell’isola di S. Salvatore di Napoli e di Montevergine, la casina reale con canetteria ed altri accessori, l’ospedale e le chiese di S. Marta e di S. Maddalena, conteneva anche tre osterie per uso dei signori che andavano a fare i bagni alla terma che gli stava dappresso, una far¬ macia, ed in seguito anche una Regia Cavallerizza; tanto che nella festa di Pentecoste molti della plebe di 'Pozzuoli si portavano pel diporto nel villaggio di Tripergole, ove secondo il costume solevansi dispensare ad essi dei panetti e delle ciliegie » (1). (1) De' Criscio G. I Campì Flegrei illustrati. Poz2. Tip. Granito 1895. pag. 18. I — 228 — Da quanto esposto si rileva che il villaggio di Tripergole era ab¬ bastanza sviluppato. Ma donde il nome di Tripergole? Nelle antiche carte trovasi spesso il nome di questo villaggio pu- teolano sotto la denominazione di Tripergulàe , castrimi tri per gul arimi. Ferrante Loffredo (Op. cit., pag. 14) ci ricorda che la località sarebbe stata accennata da Properzio, però sotto il nome di Trispoto. Difatti Properzio (Elegie, lib. I, 11): Ecquid te mediis cessantem, Cynthia, Bajis, Qua jacet Herculeis semita littoribus Et modo Trespoti mirantem subdita regna Proxima Misenis aequora nobilibus. Nostri cura subit memores obducere nocte's? Scrive quindi Loffredo: cc Vicino a questo castello (a questo vil¬ laggio) era un colle assai delicioso detto Trespoto, del quale fa men¬ zione Properzio. ed oggidì serba tal nome quantunque alquanto cor¬ rotto perchè dicesi volgarmente Trispote. Da questo Trispote per av¬ ventura derivò il nome di detto castello, qual si dice Tripergole ». Anche Annecchino (1) fa rilevare: ul fianco di un monte. Nel cc montis » del Lombardo sembra di vedere un accenno al Monacello dei Pericolo, in quanto esso costituiva l’emergenza più vicina al tenimento Tripergole. Un altro bagno era detto di « Raniero ». Il Lombardo (4) dice: cc Ranèrium Baln. in Tri pergola est , cuius aqua ab inventore nomeji sumens , salsi phlegmatis hostis est. Scabiem enim, et impetigine-m , seu serpiginem sanai, pulridum corpus mandai, restaurai catini, le - prosis prodest. Exigit tamen , si qui sanitatem consequi volli erit , ut Tritali dquas utatur ». E ancora un altro bagno, detto di cc Salvi aria », dal nome di una certa donna, come il Capaccio dice, o dalla dea Silvia, ed in ciò anche Scipione Mazzella. Di questo bagno il Lombardo (5) dice: cc Est et in ipsarum Tripergularum agro , non procul à .fauci-bus Averni lacus , (1) Capacius F-, C. Balnearum, qure Neapoli Puteolis, Baiis, Pithecusis extmit uirtutes. Neapoli, apud Vitalem, 1604, (pag. 48. (2) Mazze’lla Scipione. Opuscolorum de balneis Puteolorum, Baiarum , et Pi- thecusarum. Neapoli, Longo, 1606, cap. Vili, pag. 241, (3) Op. cit., pag. 33. <(4) Op. cit., pag. 47. (5) Op. cit., pag. 56. — 232 — inter suas, et Baiarum partes confines , balnum parvum , quod à no¬ mine mulieris nomen traxit. Haec linda muliebri sexui magis conferì , nam uteros ab omni humore expur gat , ab infirmitatibus sanai . men- strua provocata si desierint , si vero super flnxerint , ad medium reducit, steriles faecundat , et facit conci-pere , si Domino placuerit ». Probabilmente si trattava di aeque radioattive le quali, siccome quelle di Lacco Ameno nell’isola d’Ischia, godevano della proprietà di rendere feconde le sterili. Ma il Mazzella parlando di tale bagno dice (1): « Euntih is per mare Bajas non procul a fan ciba s Averni Incus Sii viari a occurit , quod balneurn Silvia Dea eredita in venisse describitur et ab ea acce pi t nomen ». Poi prosegue con le stesse parole sopra riportate di Lom¬ bardo: a Haec linda miliebri sexui magis con ferì, ecc. U« quinto bagno in Tripergole era il bagno della « fonte del Ve¬ scovo », sempre da quanto ci dice il Lombardo (2): « Balneurn hoc nobile a pud Tripergulas sic dietimi est , quia (ut veteres perhibent) quidam Episcopus illu-d renovavit : aut quia Pruduti ilio potissima m utaiitur: qui quandoque podragrizare solcnt. Artliriticis mi rifi.ee con¬ ferì, podragricis , iunctururum doloribus, et cuilibet podagrae praesto est ». Il trovarsi accentrate in Tripergole, ossia nella zona dove sorse il vulcano, tante sorgenti termominerali altamente terapeutiche in¬ dica la loro natura juvenile e la esistenza di una profonda alta ter- malità, là quale con l’attivarsi del magma doveva estrinsecarsi. Difatti il villaggio di Tripergole con tutti i suoi bagni ed edilìzi e chiese e monumenti antichi fu poi completamente seppellito dall’eru¬ zione di questo magma, che costruì un vulcano proprio dove era il ' illaggio. Delli Falconi scrisse: « Dalla cenere e dalle pietre che ha git - tato s’è fatto un monte in quella valle che gira circa tre miglia , et.... ha coperto la canettaria et lo castello di tre pergole et tutti quelli edifici et la maggior parte dei bagni che erano intorno ». Loffredo Ferrante così ricorda il disastro: « Vicino il Lago A- verno era un monticello (Il Monte del Pericolo), e sopra un Castello , il quale debbe essere opera de Francesi da trecento anni m qua; fra questo monticello, et Averno , e la grotta della Sibilla (tra l’ Averno ed il Lucrino), era quasi la maggior parte dei bagni di Pozzuolo , per causa di quali vi era un borgo (Tripergole) di una strada lunge dal- (1) Mazzeilla Scipione. Opuscularum de balneis Puteolorum, Baiarum et P il li e- curarum. Neapoli, Longo, 1606, Gap. XXVII, pag. '247. (2) Op. cit pag. 65. — 233 — T acque di Averlo , in fino appresso il mare , secondo à quel tempo stava. Perchè la maggior parte dove hoggi è la montagna nuova , in quelli tempi era mare. Et questo borgo à tempo de 9 bagni doveva essere molto habbitato et fornito di tutte le cose, che bisognavano per il vitto de gli uomini. Vi erano molti spedali per li poveri, c he venivano à pigliare bagni. Vi era ancora un Truglio antico (fabbrica antica circolare) non già della grandezza di quello Baia, ma era di bella architettura, et molto ben fatto: I Bagni, il Castello . il Truglio eo’l lago Lucrino stanno hoggi sepolti nel monte nuovo » (1). Si può ritenere che il villaggio era situato lungo la via Domi- ziana, la quale passava tra il Monte Barbaro e l’Àverno; questa via fu tagliata dall’eruzione del Monte Nuovo avvenuta proprio tra il Gauro, l’Averno e il inare. Di essa un ramo residuo a sud-est del Monte Nuovo veniva da Pozzuoli, l’altro ramo residuo, a nord-ovest del Monte Nuovo, andava a Cuma. È da ritenere che Tripergole fosse situala all’incontro di questi due residui della strada, nell’ angolo da essi formato, proprio dove, attualmente trovasi il Monte Nuovo. È evidente che dopo l’eruzione la strada fu rifatta più presso le falde del Monte Barbaro, tra questo monte e il Monte Nuovo, Nulla ci dicono i relatori se ci siano state vittime in tale villaggio e nei dintorni. È da ritenere che con l’intensificarsi delle scosse di terremoto, di poco precedenti l’eruzione, gli abitanti siano tutti fuggiti. II. — Il Lucrino e le sue modificazioni lungo i secoli 1. Notizie preliminari. È un minuscolo lago costiero, situato a circa lKm. a SSE del lavo di Averno, tra questo lago ed il mare; e ancora circa un Km. a SSW dell’asse eruttivo del Monte Nuovo. A -ud è diviso dal mare da una fascia di terra, costituita in parte dal primitivo cordone li¬ torale, ed in parte dal riempimento operato dal Monte Nuovo. Tale fascia di terra è lunga 600 metri circa, larga appena un 100 metri, ed è attraversata da una comoda strada e dalla linea ferroviaria Na° poli-Torregaveta. Nell’epoca romana il lago era molto più vasto, specialmente nella porzione orientale. Ma, per i continui movimenti bradisismici della regione e per l’eruzione del Monte Nuovo, attualmente le sue dimen¬ sioni sono molto ridotte. Del primitivo Lucrino è rimasta -ol tanto là (1) Loffredo F. Op. cit,, caip. XV, pag. 14, L*ua somi¬ glianza con quella di Atene. Essa fu sepolcro di Adriano, morto a Baia nel 138. Vi era ancora la villa di Poinpeo Magno. Col tramontare dell’impero romano il lago fu abbandonato, tanto più che le sue rive cominciavano già a discendere di livello per un notevole abbassamento della costa puteolana, e di conseguenza la su¬ perficie libera della falda freatica si avvicinava al suolo rendendo malsana la zona: « Et aer qui saluherrimus crai, inclemens nimium facius est », dice Capaccio (Op. cit ., pag. 113). Nella famosa carta geografica dell’Impero Romano dei secolo Il d. C., ossia nella così detta Tavola pcu tinge ri aria (fig. 8), sono in¬ dicati il lacus Acerusius (Fusaio); Curnas; il Incus Avernus ; la penisola di Miseno, tra la quale ed il lido di Puteoli si insinua il mare fino a breve distanza dalla sponda meridionale dell’Averno. Quindi il Lu¬ crino non vi è rappresentato, evidentemente per la >ua piccolezza rispetto alla scala della tavola, o perchè nel II secolo d. C. il lago già si abbassava e la diga era sorpassata dalle onde. Sulla sponda orientale del seno marino, che si approfonda verso l’ Averno, quindi (1) Bemich J. Campameli, pag. 175, Breslau, 1891, — 236 — a sud-est di questo lago, è segnata una località sotto il nome inter¬ pretato di I riunii as (? ), che farebbe pensare a qualche stazione ter¬ male dove pei sorse Tripergole; oppure si legge In vinias , come *e cioè stesse tra vigneti (1). Fig. 8. — Parte della tavola peutingeriana interessante la zona in esame. 11 Lu crino non è indicato. Ed in tal senso, in vinias , è letta dal «Miller (2) il quale a pag. (1) La Tavola Peutingeriana è una mappa delle strade 'dell’Impero Romano esi¬ stente nella biblioteca delle carte imperiali di Vienna. Essa era l’itinerario dell’Im¬ peratore Antonino (138-161)), ed è il più pregevole documento di geografia antica a noi pervenuto. È una striscia di pergamena, lunga metri 6,83; larga m. 0,34; e rappresenta, evidentemente su uno spazio troppo angusto, specialmente in larghezza, tutte le grandi strade dell’Impero dai confini della Spagna alle rive del Gange, con le indicazioni delle località e delle distanze tra le località. Il documento probabil¬ mente è copia medioevale di una carta più antica. È detta peutingeriana da Corrado Peutinger (1465-1547), antiquario molto erudito di Augusta, che la rinvenne. (2) MilIler Konrad. Romische Reisewege un cler Tabula Peutingeriana , Da- gerstellt von Stuttgart, MDCGCCXVL — 237 — 338 porta la dicitura in vinicis ubicandola all’altezza di Pozzuoli, men¬ tre sulla tavola peutingeriana è tra l’inverno e Pozzuoli. A pag. 350 in vinias starebbe al disopra di Pozzuoli, a destra dell’anfiteatro, al di sopra di una piscina lungo la strada Domiziana, prima della Sol¬ fatara. Durante il Medio Evo il Lucrino si sommerse; sicché il mare vi penetrò completamente e la sua configurazione subì le vicende del bradisisma. L’abbandono in cui cadde la regione, in ispecie per la insalubrità della zona, non ci dà ragguagli sulle sue condizioni, finché non ne ricaviamo dalle relazioni degli scrittori dell’eruzione. 2. L’origine del nome Lucrino. Alcuni lo derivano da lucrimi per la vendita dei pesci e delle o- striche: prodotti elogiati da Varrone, (Marziaile, Giovenale, Cor¬ nelio Celso, da Orazio, da Petronio. Petronio ■( Carmen de bello civili , in Satirycon . cap. CXIX, v. 34-35) scrisse: ... atque Lucrinis eruta litoribus vendimi eonchylia coenas. E Orazio (Epodi, Carmen II, v. 49): Non me Lucrino ìuverint concliylia. Isidoro, scrittore del VI -VII secolo, in Etymol. Orig., XII, 19,8) scrisse: cc Lucrinus autem dictus quia olirn propter copiam pi&cium vectigalia magna praestabat ». Tra quei Romani che molto lucravano dal mercato dei pesci del Lucrino fu Sergio Orata, che ne realizzò abbondante allevamento. Tra i pesci pregiati vi era il Labrax lupus (la spigola). Pare quindi che il nome di Lucrino sia stato bene adatto per un’ironia scherzosa. Secondo Annecchino il nome di Lucrino proverrebbe dalla voce arcaica lucar c he significa bosco sacro : da cui il latino Incus, ossia bosco in generale. Da lucar venne lucr ; donde poi parve che lucrimi fosse l’origine del nome del lago (1). Difatti nei tempi antichi presso l’Averno vi era un bosco sacro a Proserpina, e poiché all’Averno si (1) Annecchino R. L’origine del nome Lucrino. Napoli, Tipografia Unione, 1933. — Annecchino R. La formazione del Lucrino e l’origine del mito avernale. Bollettino Flegreo, Napoli. 1932. — Parascandoi.a A. Il bacino idrotermale del Lucrino e dell’ Averno. Boll. Soc. Nat* Napoli, 1936. andava attraverso il Lucrino può darsi benissimo una relazione tra il nome arcaico del bosco sacro e il nome poi dato al lago per cui si accedeva il bosco. Anche Lombardo negli Scholia della sua citata Synopsis , a pro¬ posito dei bagni di Tripergole, che era presso Lucrino, scrisse: Prove lutee Baine a est Incus sacer de quo Blond e Livio 3, ab urbe condita lib. 3, vulgo Selva de Hami » (pag. 43) (1). E Circe disse ad Ulisse: « Quando... vedrai una costa bassa ed i boschi di Perse forre (Proserpina) con alti pioppi e salici sterili , allora tu fa fermare la tua nave e avviati aV oscura casa di.Adeyy. ( Odissea , X, 508). Dai coloni greci, i quali ci tennero a trapiantare nelle nostre terre i nomi delle loro regioni, il Lucrino fu chiamato Cocito . in me¬ moria del lago di Cocito nell’Epiro. Poiché l’Avèrno era la porta dell Inferno, le anime degli insepolti vi si aggiravano intorno; le loro lagrime formavano il Cocito, e quindi.... il Lucrino! Più tardi il lago fu detto Palude Ache ru sia , perchè precedeva l’Averno (StrA“ BONE, Geografìa , V). Era ritenuto come un rigurgito, una palude deh U Acheronte, fiume che conduceva all’Averno, porta dell’inferno. « Inferni janua , tenebrosa palus Acherunte refuso » (Viro., Aen., VI, 106-107). ^Queste tradizioni, passate poi nelle espressioni dei poeti, ci di¬ cono che fin dall’antichità il Lucrino doveva comunicare con l’A¬ verno. Più tardi il nome di Palus Acherusia passò al lago presso Clima, all’attuale Fusaio. Nei fiumi infernali che si versavano nella palude Acherusia è facile identificare le sorgenti che si versano nell’Averno e nel Lumino. 3. La configurazione del Lucrino nei tempi piu antichi e durante P epoca romana. Quale sia stata la conformazione della zona del Lucrino in epoca antichissima, quando i primi navigatori si avventurarono dalle nostre parti, possiamo soltanto concet turarla. Annecchino (2) fa osservare come nel libro X dell’Odissea « si intravede , pure nella nebbia della favola e della poesia, la descri- (1) Fa rilevare Annecchino che il bosco Ami secondo le misure fornite da Livio ed un’epigrafe rinvenuta va collocato presso la Selva Gallinaria , anziché, come ^generalmente si ritiene, presso il lago Averno. (2) Annecchino R. Loc. cit., pag. 26. — 239 — zione della originaria conformazione della insenatura marina del Lu¬ crino comunicante con V Averno ». Nella sua origine geologica il Lucrino era molto probabilmente un seno del golfo di Pozzuoli; insenatura forse attribuibile ad un a- vanzo di uno o più crateri flegrei, squarciati nel fianco meridionale dell’azione del mare. Comunque l’azione del moto ondoso si fece pur sentire in questa zona, ed il mare, spingendo la sabbia parallelamente alla costa ed attaccandola ai due estremi tufacei, uno ad occidente alla base delle attuali Stufe di Nerone, ed uno ad oriente, con ogni probabilità rappresentato dallo sperone tufaceo del Monte del Pe¬ ricolo, distese un cordone litorale (com’è avvenuta per il Lago Fu¬ saio ed il lago di Patria). Per conseguenza il seno marino fu sbar¬ rato da una diga e divenne lago. Si ritiene che i coloni greci di Cuma abbiano rafforzata questa diga e vi abbiano tracciata una strada; che fu poi detta Via H erculea dalla leggenda che Ercole, reduce dalla Spagna, la costruì per tra¬ sportare verso oriente i buoi rubati a Gerione. Diodoro (lib. IV) così scrisse: « Hercules , relictis phlegrae campis , ad mare digressus , opera quedam circa Avernum lacum struxit. Quid - (pie quum lacus in mare se expanderet , ducto aggerc , illum; viamque juxta mare hac ratione effecit qiiae Herculea mine vocatur ». Questa diga era continuamente invasa e rovinata dal mare tem¬ pestoso, che spesso rendeva la via impraticabile. Alla domanda se la via Herculea fosse stata opera di costruzione umana è facile ri¬ spondere: l’opinione più probabile è che quella diga abbia avuto un’origine naturale per effetto del moto ondoso; poi l’uomo la raf¬ forzò, la completò. E sempre ne tenne cura per potere utilizzare il lago che ne risultava formato, e il passaggio da Pozzuoli a Baia. Si può ritenere che in quell’epoca greco-romana la lunghezza della Via Herculea sia stata di metri 1500 circa, perchè Stradone scrisse che tale argine era lungo 8 stadi (1 stadio = m. 188,40) cc Lu- crinu-s sinus usque Baias latitudinem pandit; qui exexteriori pelago per aggerem longitudinis stadiorum odo , latitudinis autem unius or- bitae arcetur ». E otto stadii, ossia circa 1500 metri, è la distanza, anche se leggermente arcuata, che passa Tra gli avanzi romani che si vedono alla Punta dell’Epitaffio presso le terme di Nerone ad ovest e alla Punta Caruso ad est (1). Nondimeno non tutti gli studiosi convengono che tali avanzi siano di epoca romana. All’epoca romana il Lucrino era già utilizzato. Q) Beloch J. Campameli, Breslau. 1890, pag. 172 nel capitolo «Der Luciinus». — 240 — Conosciamo notizie che verso la metà del 1° secolo a. C. gli ap¬ paltatori per la pesca nel Lucrino si rivolsero al senato romano af¬ finchè avesse dato ordini jier la riparazione della diga, che spesso veniva rovinata dalle onde marine, con danno dell’industria che si realizzava nel lago. Il senato affidò l’impresa a Giulio Cesare, il vin¬ citore delle Gallie, che tra il 48 e il 44 a. C. riparò l’emissario del Lucrino, e restaurò la diga che separava il lago dal mare. Le difese, le chiusure eseguite da Giulio Cesare furono dette Claustra , e tutta l’opera fu detta Opus Juilium; e l’onda che vi battea contro Julia lincia. Così possiamo intendere i versi di Virgilio (Georg. II. 161- 164) quando esaltò l’opera compiuta scrivendo: An memorerà portus, Lucrinoque addita claustra Atque indignatimi magnis stridoribus aequor. Julia qua ponto longe sonai nuda refuso Tyrrenusque fretis immittitur aestus Avernis? Servio, vissuto tra la fine del IV secolo e i primi anni del V se¬ colo d. C., commentando questi versi di Virgilio, così scrisse: « In Baiano sinu Campanile, contro puteolanam civiiatem lacus snnt duo , Avernus et Lucrinus: qui ohm propter copiam piseium vectigalia magna praestabant . Sed rum maris impetus plerumiiue ir- rurnpens exinde pisces excluderet , et redemptores gravia dammi pa¬ ter en tur . supplicaverunt senatui ; et profectus C. Julius Caesar . ductis brachiis excludit partem maris , quae unteci infesta esse consueverat , reliquitque breve spatium per Avernum , qua et piseium posset copia in trare , et fluctus non esseri t molesti; quod opus Julium dictum est. Sed hic. ambitiose undam Jiiliqm appellavit frementem con tra moles a Julio oppositas y>. Claustra. ossia chiusure, ripari, furono dunque le opere anti¬ stanti al Lucrino, sia per rendere possibile Lingresso durante il mare agitato, sia per impedire che i frangenti rovinassero gl’impianti del- l’ostricultura e della piscicultura : oggi le chiameremmo moli (1). Vien fatto di domandarsi se questo prevaricare delle onde è da connettersi alla fase regressiva della formazione della diga, ovvero ad un inizio, o continuazione di un bradisisma discendente della re¬ gione flegrea; se è così avremmo in queste notizie un primo docu¬ mento del fenomeno bradisismico discendente. (1) È noto che negli argini di questi laghi costieri vi sono, attraverso gli emis¬ sari, delle paratie, per cui i pesci possono entrare nei laghi e pòi non più uscirne, c che si fanno funzionare specialmente durante l’alta marea, quando cioè l’acqua del mare entra nel lago. Se questi artifizi noci sono bene difesi il mare li distrugge. À. Parascandola. // M. Nuovo od il lago Lucrino, TAV. X. ( foto Parascandola ) Fig. 1. — Avanzo di tufo giallo pertinente al Monticello del Pericolo. ( foto Parascandola) Fig. 2. — La terrazza della Starza, il cui limite superiore è segnato col tratto bianco si addossa alla collina occidentale. La collina della Ginestra inizia col canale dello Scalandrone Vecchio, cioè dove termina il segno bianco. Fig. 3. — Il sito dello Stagnum Baiarum segnato con croce, e Lamica linea di costa tratteggiata (da Guniherì — 241 — Più tardi, circa dieci anni dopo, nel 36 a. C. Agrippa, per ordine di Ottaviano, realizzò nell’Averno un porto militare per grandi navi. Il porto fu chiamato Porto Giulio; in esso si penetrava attraverso il Lucrino, e in questo si entrava attraverso un largo emissario, o due, in comunicazione col mare. Il Lucrino fu diviso in due metà; quella orientale fu destinata per porto di piccole navi; la metà occidentale per l’industria della piscicultura. La diga del Lucrino fu rialzata di livello. Probabilmente in essa furono sistemati due ingressi: uno orientale per l’ingresso delle navi, l’altro occidentale per l’ingresso delle barche per il commercio dei pesci. Agrippa utilizzò gli alberi che ricoprivano le pareti in¬ terne dell’Averno e disfece anche la selva Gallinaria, per la costru¬ zione delle navi; costruì sulla costa sud-occidentale dell’Averno un cantiere (il Navale ); con l’ausilio dell’architetto Cocceio aprì grotte tra la spiaggia di Cuma e l’Averno, e tra l’ Averno e la spiaggia del Lucrino per un passaggio rapido delle truppe da una riva all’altra. Così Ottaviano ottenne una flotta potente e nella battaglia navale di Mila (Milazzo) nel 37 a. C. distrusse la flotta di Sesto Pompeo, divenuto padrone della Sicilia e del Mediterraneo. Eseguirono il la¬ voro 20.000 schiavi appositamente liberati. Insomma i lavori compiuti possono riassumersi così: riparazione della diga del Lucrino; apertura in essa di canali che funzionavano da emissari e da passaggi per le navi leggere e pesanti; canali chiu¬ dibili da paratie ( claustra ), affinchè il mare agitato non avesse in¬ vaso il Lucrino e le opere e danneggiate le navi nell’interno; occorse approfondire questi canali per renderli adatti al passaggio delle grosse navi; un canale. con identiche condizioni dovette essere approfondito cd allargato tra il Lucrino e l’Averno (di almeno 700 800 metri) per¬ ii passaggio delle navi pesanti; ^i costruì l’arsenale; si traforarono cripte per il trasporto delle legna e della truppa. E tutto questo in pochi mesi. Pontes lignei passavano sui canali per il transito dei pedoni e dei carri. Se si siano costruiti altri claustri per dividere il Lucrino nelle due metà suddette non lo sappiamo; ma qualche studioso, come il Ia¬ cono (1), l’ha supposto e raffigurato. Di quanto ho narrato riferirò i documenti più importanti: Stradone (2), vissuto dal 64 a. C. al 24 d. C., quando avveni- (]) Iacono L. li porto Giulio. Restituzione topografica. Renò. R, Acc. d’Italia, el. se. morali e storiche, serie VII. voi. II. fase. 12. Róma, 1941 (pag. 8 dell’estratto). (2) Strabone. Rerum Geógr. Lib. V, cap, 4-5. 16 vano tali eventi gerisse: « È V Averno un seno profondissimo , anche presso la riva , con angusto ingresso; e per estensione e per natura acconcio ad essere un porto; ma non se ne valgono, giacche gli sta innanzi il golfo (sinus) Lucrino vasto e pieno di bassifondi. Il golfo Lucrino allargasi fino a Baia; e lo divide dal mare esteriore un ar¬ gine lungo otto stadi , e largo per modo che ci può capire una strada da passarci un carro con carico. Dicono che ve lo costruì Ercole quando condusse via i buoi di Gerione; ma perchè poi nelle tempeste del mare le onde le soverchiavano in modo che il camminarvi a piedi era difficile. Agrippa lo fece alzare, vi introdusse navi leggere, ina¬ datto come è (il lago ) alla stazione (di navi) pesanti; mentre la pro¬ duzione delle ostriche è copiosissima ». Dione Cassio (1), nato circa il 165 d. C. ci dice: « A Clima nella Campania, tra Miseno e Pozzuoli, è un recesso a forma lunata , cinto da colline nude, eccetto qualcuna; e racchiude tre bacini di mare sinuosi. Il primo è fuori e bagna la città (il golfo di Pozzuoli) , il se¬ condo è separato dal primo mediante una stretta lingua di terra (la via H erculea)-, il terzo è nel fondo; questo si chiama l’ Averno, quello di mezzo Lucrino, e quello esteso fuori la tirrena regione da essa trae il nome. Agrippa rese porti adattissimi allargando nel lago che è in mezzo agli altri due passaggi allora stretti ». Anche nelle epoche presso a noi i primi storici delle eoce di Pozzuoli e dintorni ricordavano queste vicende. Loffredo Ferrante, che visse intorno al 1579, nel V Antichità di Pozzuolo e luoghi convicini: (Napoli, 1589), scrisse: « Fra 7 mare et Averno, a 9 tempo di Romani era il Lago La¬ trino, del qual beri spesso si fa mentione da gli Autori. Questo com¬ municava con Averno, et col mare secondo Dione, il quale dice, che fra Miseno, e Pozzuolo erano tre golfi di mare. Vano detto Tirreno, il quale confina co 7 Tirreno. Valtro Lucrino , il terzo Averno _ Et essendo venuto il detto Lago per le continue tempeste in pericolo di essere assorbito, sì per lo diletto, come per lo guadagno de pesci che Romani ne havevano, deliberato di provvederlo, ne diedero pensiero a Giulio Cesare, il quale fece quelli claustri tanto magnifici, e ce¬ lebri. Doppo la qual opera Ottavio Augusto per la guerra maritima contro Sesto Pompeio, volendo Vinverno tenere la sua Armata in es- sercitio dentro un porto serrato, nè Vhavendo à suo modo in Italia, diede cura ad Agrippa di farlo, il quale elesse à tal 9 effetto questo lago Lucrino, et havendo fatto levare dalVuna parte , et dalValtra il terreno, che era fra li claustri di Giulio Cesare, et il detto Lago , con (1) Dione Cassio. Hist. Romana, XLVIII, 50. — 243 — fi avere fatto la bocca del porto più stretta di lubrica , ridusse il Lago in quella forma di pòrto, che Ottavio desiderava » (Ediz. consultata: Napoli, Bulifon, 1655, pag. 13). Piu tardi, nei primi anni del suo impero, Claudio (41-54) ga- rentì l’ingresso del Lucrino con un opus pilarum che andava tra le due lanterne del Porto Giulio, oggi tra la Punta Caruso e la Punta del l’Epitaffio; così si allontanò l’interrimento di sabbia operato dal mare, che batteva invece sull’avamporto. Plinio ( Hist . A kit., XXXVI, 15) ne fece cenno quando scrisse: a Mare Tyrrhcnum a Lucrino molibus reclusum ». Ho voluto abbondare in queste notizie storiche per due ragioni. Primo: affinchè se ne ricavi la conclusione, importante per la nostra discussione, che ai tempi dei Romani il Lucrino era un lago ben in¬ dividuato, ben delimitato, adattato allo stesso tempo per industrie locali e per porto militare nell’occasione della guerra tra Ottaviano e Sesto Pompeo; poi, magari, rimase come porto di piccole navi e come stazione industriale, almeno durante Paltò impero. In secondo luogo, perchè quelle notizie storiche sono necessarie, per discutere la questione: quali erano la configurazione e le dimensioni del Lu“ crino all’epoca romana. Poiché soltanto conoscendo questi elementi morfologici noi pos¬ siamo dedurre le modificazioni indotte al Lucrino e alla zona circo¬ stante dal bradisisma discendente e dall’eruzione del Monte Nuovo. Per intendere bene la questione è indispensabile premettere quelle poche nozioni che abbiamo sulla topografia della regione del Lucrino all’epoca romana e magari anche per le epoche posteriori, nonché quelle conoscenze che a me .è sembrato aver acquistato con continue visite alla regione, e delle quali ho già esposto alcuni ri¬ sultati in qualche mio lavoro precedente (1). La figura 9 è eloquente per sè stessa: si vedono i tre bacini: il golfo di Pozzuoli, il Lucrino, l’Averno, quali si presume fossero all’epoca romana. Il Lucrino separato dal golfo di Pozzuoli mediante la diga della Via Herculea, ma comunicante col mare mediante uno o due emis¬ sari. Questo lago era in comunicazione con l’Averno per mezzo di un largo canale, oggi più lungo e più stretto per l’interramento pro¬ dotto dall’eruzione del Monte Nuovo e dal bradisisma. (1) Parascandola A. Il Monte del Pericolo nei Campi Flegrei. Boll. Soc. Nat. in Napoli, voi. XLVIII, 1936, pp. 67-80. Il Lucrino confinava ad ovest con una collina die oggi chiamiamo Monterillo (su cui si sviluppa il Rione delle Mojete) (sarà poi meglio chiamarlo cratere di Tritoli ); a nord il lago confinava con la collina Fig, 9; LA ZONA D£L LUCRINO ALL ’ EPOCA ROMANA che oggi chiamiamo della Ginestra (probabile avanzo di un duplice cratere flegreo scoppiato prima del V Averno); ad est chiudeva il con¬ fine un’altra collina che poi fu detta Monte del Pericolo (probabile avanzo aneh’esso di qualche altro vulcano preavernico); su questo confine orientale era anche un rilievo, molto basso, che oggi cliia" ini amo la Montagnella (che è una porzione della terrazza della Starza); a sud la Via Herculea. Probabilmente il Monte del Pericolo mandava una lieve propaggine sulla costa, da costituire uno sperone su cui si appoggiava Lestremo orientale della Via Herculea. Questa con ogni — 245 — f probabilità partiva dalia spiaggia die ancora oggi si vede alle stufe di Nerone, e si prolungava o rettilinea o con leggera curva, convessa verso il mare, fino allo sperone costiero del Monte del Pericolo. La fig. 1 della tav. VITI ci mostra il lago Lucrino nel settore NNW con in fondo la collina della Ginestra che scende precipite sul piano che divide il Lucrino dalla collina e che prima della eruzióne del M. Nuovo molto più si accostava al colle. La fig. 2 della stessa tavola lascia vedere la bassa striscia della Herculea con il suo attacco orientale alle falde meridionali del M. Nuovo, quindi spostato più avanti, mentre prima, forse attacca- vasi allo sperone del M. del Pericolo. La fig. 3 della tav. VI ci presenta il Lucrino in tutta la sua esten¬ sione, con il cordone litoraneo della Via Herculea la quale a ponente si attacca alla collina di Tritoli, il cui estremo, la punta delLEpitaf fio, è segnato con lettera D. Il Porto di Claudio poi si estendeva, molto probabilmente tra la sporgenza die oggi chiamiamo Punta dell’Epitaffio (ad occidente) e l’altra che oggi è detta Punta Caruso (ad oriente). In alcune figure antiche questi estremi, specialmente quello ad oriente, si trovano in¬ dicati col nome di lanterne del Porto Giulio. Tra il lago di Averno, tra il Monte del Pericolo e le pendici del Monte Barbaro (edificio meridionale del Gauro) vi era una vailetta, in cui si sviluppava la Via Domiziana che allacciava Pozzuoli con Cuma. In questa valletta, nel Medio Evo sorse il villaggio di Tri- pergole, probabilmente attraversato appunto dalla via Domiziana, al¬ lora ancora esistente. Questo elemento della esistenza della vailetta tra T Averno, il Monte del Pericolo ed il Monte Barbaro è importantissimo; e non è stato tenuto in nessun conto dagli studiosi che si sono occupati della configurazione e delle dimensioni del Lucrino dall’epoca romana fino al tempo dell’eruzione del Monte Nuovo. La notizia ci è fornita da Marco Antonio dellt Falconi, il quale nella sua già citata relazione sull’eruzione del Monte Nuovo, scrisse: (( Il fuoco si fermò in quella vailetta che è tra monte Barbaro et quel monticello che si denominava del Pericolo . per la >: filale vailetta si andava all9 Averno ». Da tale dichiarazione di Delli Falconi si deduce che il Monte del Pericolo dal lato occidentale era a contatto dell’acqua o del Lu¬ crino o del mare (secondo le Condizioni di subsidenza, come vedremo), onde non potendosi accedere a piedi all’Averno a causa delle pareti forse precipiti da quel lato del Monticello del Pericolo, od anche perchè forse malagevole, s’era costretti a percorrere quella che lo scrittore — 246 chiama valletta, e quindi passare ad oriente di tal Monticello. Inoltre tale Monticello per delimitare una valletta doveva pure estendersi in lunghezza fin sotto il lago di Averno, terminando in un piccolo spe¬ rone. co A come si spinge la collina della Ginestra, della quale, forse, il Monticello del Pericolo formava la parte orientale, costituendo anche essa uno sperone. Sicché questi due speroni un tempo formanti una parete di un’unica cerchia craterica, costituivano, forse, l’imboccatura dell’A- verno; erano quindi porzioni della parete nord di un antico cratere, unico o duplice, che si apriva sul Lucrino, sfondalo e dal collasso del cono e dall’azione del mare e dall’atto esplosivo della formazione dell’ Averno. Nè è a dire che si possa confondere il Monticello del Pericolo con la terrazza della Starza, perchè la bassa elevazione della stessa non le avrebbe consentita la denominazione di Monticello; la sua natura litologica non le avrebbe permesso di resistere all’azione del mare. Il modo di formazione di quella terrazza ci poteva dar ragione della sua esistenza e permanenza in tale posto; vi era, sì, un residuo della Starza, ma esso addossavasi al Monticello del Pericolo, dovendo ad esso la sua formazione. Occorrono ancora alcune notizie sul Morite del Pericolo e sulla Monta snella. a ) Il Monte del Pericolo era una collina che si sviluppava in direzione quasi nord-sud, tra il lago Averno ed il Monte Barbaro. Esso fu poi coperto completamente dai prodotti del Monte Nuovo. Difatti questo vulcano, come ho dimostrato nel mio citato la¬ voro (1), mentre nelle falde settentrionali, orientali e meridionali scende in dolce e regolare pendìo, nelle falde occidentali presenta in¬ vece, una sella ben distinta, su cui si sono modellati i prodotti erut¬ tivi (tav. IX, fig. 1). Osservando il Monte Nuovo dalla Via Herculea o dal mare si nota una depressione circolare, perfetta e grande, a sud. L’aspetto è di un tipico sprofondamento, ma il fondo ne è leg¬ germente curvo, e a destra di questo, in basso, verso sud, ed a si¬ nistra, più in alto verso nord, si trovano altre due piccole depressioni, le quali alle precedenti si rapportano, formando un rilievo ad anda¬ mento irregolare, che doveva costituire la cresta di quello che fu il Monticello del Pericolo. Questa depressione circolare e le vicine sono (1) Parascandola A. Il Monte del Pericolo nei Campi Flegrei. Boll. Soc. Nat., voi. XLVIII, pàg. 75. Napoli, 1936. — 247 — perfettamente visibili nel periodo estivo, quando cioè non sono ma¬ scherale dalla vegetazione (Fig. 2 della tav. IX e fig. 2 della tav. I). Tracciando un profilo del Monte Nuovo in direzione SW-NE, si nota evidentemente un rilievo, una sella sulle falde sud-occidentali dell’edifìcio vulcanico (fig. 10). SW „ . NE Fig, 10. Profilo del Mente Nuovo: Scala 1:10.000. Si noti tra quota 75 e quota 80 .il profilo disturbato dal sottostante Monticello del Pericolo. La prominenza della sella è più accentuata a quota 80; quindi di sotto il Monte del Peritolo doveva avere un’altezza di 70-75 metri; il resto dell’altitudine è dovuto all’accumulo dei prodotti scoriacei del Monte Nuovo. Il Monte del Pericolo, con tutta probabilità, era un avanzo di un cratere di tufo giallo; difatti lungo la strada die si >volge alle falde sud-occidentali del Monte Nuovo si vede affiorare una parete di tufo giallo in cui è scavata artificialmente una grotta (Tav. X, fig. 1): tufo che evidentemente appartiene al Monte del Pericolo seppellito dai detriti del Monte Nuovo. La collina, come dicono gli storici medioevali, era coperta di boschetti. Forse ai suoi piedi, sul versante del Lucrino, sulla pic- colla elevazione della terrazza della Starza addossantesi al Monticello del Pericolo, era la villa di Cicerone, dalla quale egli per tal motivo poteva vedere i pesci guizzare nel Lucrino. Nella figura, per quanto rozza, che accompagna la relazione sulla eruzione del Monte Nuovo scritta da Marco Antonio Delli Falconi, sotto è scritto: a Sotto il Monte Nuovo sta il Castello ed altri edifizi di Tripergole; parte del Monticello del Pericolo è rimasta sotto le jalde del medesimo ». b ) La Montagnella trovavasi alle falde sud occidentali del Monte del Pericolo (oggi alle falde sud-occidentali del Monte Nuovo). Doveva essere poco alta (ora è 30 o 36 metri), ma in gran parte è coperta dai prodotti piroclastici del Monte Nuovo. Da alcuni studiosi è ritenuta essere il Monte del Pericolo. Ma io, nel mio citato lavoro, ho dimostrato che fin dall’epoca romana la — 248 — Montagnella era distinta dal Monte del Pericolo. La Montagnella quindi è un brandello della terrazza della Starza colà isolato dal- P azione del mare; mentre il Monte del Pericolo è un avanzo di cra¬ tere di lufo giallo, come ho già detto; questo rimase seppellito dal¬ l’eruzione del Monte Nuovo; non così la Montagnella, che ne rimase sagomata. E quando Belli Falconi nella sua dicitura a stampa sotto la lìgura che accompagna la sua relazione (fig. 2) scrisse: « Sotto il Monte Nuovo sta il Castello ed altri edifìzi di Tri pergole ; il lago Averno sta dietro al predetto Monte et parte del Monticello del Pericolo è ri¬ masto sotto le falde del medesimo », voleva probabilmente intendere che la Montagnella ne era rimasta fuori poiché individuabile nella gobba, considerando egli la Montagnella ed il Monte del Pericolo una sola collina, in quanto Luna addossata all’altro, 11. — Antica riproduzione della collina di Tritoli pervasa da molti spiragli fumarolici, con i Bagni di Tritoli e le Stufe di Nerone. La fig; 2 della tav. IX mostra: in primo piano, a. la Monta- gnella, in secondo piano, b . il Monticello del Pericolo con una fossa; a tutto sovrasta Porlo del M. Nuovo. In base a queste premesse si può affrontare la questione: quali erano le dimensioni e la configurazione del Lucrino all’epoca romana. La questione riguarda molto più la sua lunghezza ed il suo ba¬ cino orientale. — 249 — Per il lato occidentale si ritiene che all’epoca romana il lago, come oggi, continuasse fin sotto quella collina in cui sono le Stufe di Nerone (fig. 11). Nella fig. 1 della tav. XI si nota la collina di Tritoli con la Punta dell’Epitaffio (1) con l’epitaffio in B ancora esistente ai tempi di Filippo Morghen, autore del rame; in AAA è Lanciaménto della grotta di Baia; in C sulla spiaggia alla fine del cordone litorale del Lucrino accanto alla chiesetta di S. Filippo tuttora esistente, sono i bagni di Tritoli , i quali nella fig. 2 della stessa tavola sono più dettagliatamente figurati (2). (1) È detta 'dell’Epitaffio perchè vi era ano di quei tre epitaffi che il Vice Re Pietro d’ Aragona fece apporre, indicanti le acque minerali delle singole regioni e le proprietà terapeutiche, , secondo il rinvenimento che ne fece il medico Seba¬ stiano Bartoli per suo ordine. Tale epitaffio è caduto in mare. Gli antichi erano piu volenterosi, più umani, ed in tema di crenoterapia, quantunque empiricamente, erano più; istruiti di croi! (2) L’eruzione del Monte Nuovo sopraelevando1 2 il piano costrinse a scendere per giungere a quelle acque. Attualmente questi bagni, tanto celebri nelTantichità, sono stati deturpati da certe così dette necessità bèlliche. Difatti in sul finire della conflagrazione sociale nel 1943 si pensò di cavarne un ricovero; per cui portarono al livello stradale del Lucrino il vario colmandolo; aprendo, poi, un cunicolo ad angolo nella collina tufacea di Tritoli a destra, pervasa da caldi vapori, fecero un’uscita di sicurezza, Quod non fecerunt barbari . ! A testimoniare la virtù di queste acque è la leggenda del medico Eustasio di Muterà vissuto intorno al 1285 : Est locus antiqua testudine ductus in alluni. Rupe sub ingenti celle cavata domus. Qu'ie piena est hominis formis ex arte paratis. Ad quid aquae vulcani, quaeque figura notai ». Di tali immagini dice Lombardo che furono o dal tempo consunte o, come di¬ cono altri, dall’invidia dei medici salernitani distrutte, i quali di notte tempo venendo sul lido baiano per mare, distrussero le statue indicanti con la mano la parte del corpo che quelle acque guarivano e le iscrizioni che v’erano, indicanti Fuso. Imbarcatisi poi, furono dal mare sommersi tra il capo della Minerva e la isola di Capri. Anche il Mazzella ed il Mormile raccontano tale avvenimento. A tale proposito il Bartoli nella sua opera: Thermologia Aragonia sive hi- storia naturalis thermarum in occidentali Campaniae ora inter Pusilipum, et Mi- senum scatentium, iam nevi iniuria deperditaruni, et Petri Antonii ab Aragonia studio ac munificehtia restitutarum , ecc. la quale fu pubblicata postuma dal suo alunno in medicina, il medico Michele Blancardo nel 1679 in due volumi in Na¬ poli per la tipografia di Novello De Bonis, a pag. 37 del 1° voi., dice che ciò che narrano tanto il Mazzella quanto il Mormile non è scritto ad arbitrio, ma $er tra- — 250 — Poco dopo i bagni di Tritoli, a sinistra, procedendo verso Baia, si trovano le Stufe di Nerone , o Sudatoi di Tritoli. Ma per il lato orientale non vi è accordo tra gli studiosi. Sap¬ piamo che Strabone aveva riferito che la Via Herculea era lunga otto stadi, ossia un miglio romano, cioè, come si è detto 1500 metri. In base a ciò Iacono (1) ha riportata tale lunghezza anche a quella del lago. Egli suppone che la Via Herculea fosse più indietro di quella attuale e seguisse la forma e il limite meridionale del lago con linea arcuata, con la concavità verso il mare. Anche attualmente la lunghezza del lago è quasi eguale alla lunghezza della diga. Difatti il lago è lungo 550 metri; e ia Via Herculea è poco più di 600 metri. Quindi Iacono dalle condizioni di oggi rimonta alle condizioni antiche e conclude, almeno nella figura la dell’opera sua citata, che, essendo in quell’epoca la Via Herculea lunga 1500 metri, anche il Lucrino doveva essere lungo 1500 metri. A conferma di ciò tanto Iacono che Maiuri (2) si riferiscono anche alla lunghezza del Porto Claudio ossia aWopus pilarum che si esten¬ deva tra le attuali Punta dell’Epitaffio e Punta Caruso, e che aveva la lunghezza poco più di 10 stadi, ossia poco meno di 2000 metri (1884 metri). Queste pile -i notano molto bene a mare limpido. Il segnale trigonometrico con fanalino esistente davanti al Lucrino è sito 'su di una pila; la profondità del mare dal livello superficiale al fondo di imbasamenlo della pila è di rn. 11,47; la pila, che verso terra precède quella su cui è il segnale trigonometrico, è a 5 m. di proforr dità e la profondità del mare accanto a tale pila è di m. 9,68. Insomma il Lucrino sarebbe "lato esteso tra quelle sporgenze dizione, la quale per giunta è confermata- da pubblica fede. Difatti egli dice che ai tempi di Ladislao Re si rinvenne in Pozzuoli nel luogo detto le tré colonne (dove attualmente è il tempio di Sera-pi de, in quel che fu il giardino di Saogro, una tavola marmorea sulla quale era scolpita la seguente iscrizione: « Ser Antonina Stilimela, ser Philippus Gapograffus, ser Hector de Procita forse parente di Gio¬ vanni da Prorida, pure medico), famosissimi medici Salernitani supva parvam na- vim ab ipsa Civitate Salenti PuteoLs tramsfretaverunt, rum ferrei® instrumehtis inscriptiónes balineorum virtutum deleverunt. et rum reverterentur fuerunt rum navi miraculose subm ersi ». Tal documento sarebbe stato confermato da un atto notarile del notaio de Santo, sulla cui fede si dubita da Barigli. (1) Iacono L. Il Porto Giulio. Restituzione topografica. Rend. R. Arie. d’Italia. Classe Se. Morali e Storiche, serie VII, voi. Il, fase. 12, 1941 (pag. B dell’estratto^ (12) Maiuri A. I Campi Flegrei dal . Sepolcro di Virgilio all’antro di Clima. Roifa, Libreria dello Stalo, 1934, pag. 57 e altrove, — 251 — suddette rispetto alle quali era stala costruita la serie delle pile del¬ l'antiporto al lago. AfiCO TEL/CE Fig. 12. — Ricostruzione della zona del Lucrino secondo Jacono. Ma valutare, stabilire la lunghezza del lago delle estremità del¬ l’opus pilarum di Claudio non è argomento sicuro. Si potè benissimo costruire un antiporto più esteso del Lucrino, per difendere non solo l’ ingresso al lago, ina anche buona parte della diga della via Her- culea. Ma si potrebbe osservare che, in generale, i porti di difesa si costruiscono sempre più lunghi della riva che debbono proteggere. Quindi neppure dalla lunghezza del Porto Claudio possiamo argo" inentare la lunghezza del Lucrino all’epoca romana. Nè sono d’accordo con lo schema della ricostruzione che Ia¬ cono fa del Lucrino allorquando fu costruito il Porto Giulio, perchè pone la Montagnella, che secondo questo studioso dovrebbe rappre¬ sentare il Monte del Pericolo, nel mezzo del lago Lucrino, mentre la via Herculea si attaccava alie sue falde meridionali costeggian¬ dola (fig. 12). Posta (‘osi la Montagijella, con le acque clic quasi tutt’inlorno la bagnavano, veniva a mancare tra la Montagnella e Tripergole la pos¬ sibilità di esistenza della valletta citata da Marco Antonio Delli Fal¬ coni, perchè nella ricostruzione del Lucrino fatta da Iacono tale spazio è occupato dalle acque del lago; mentre è detto chiaramente da Belli Falconi che per tale valletta « si andava al lago di Averno e atti Bagni ». Tripergole verrebbe a trovarsi secondo la ricostruzione dello Iacono in riva al Lucrino, la qual cosa non è secondo gli scrittori dell’epoca. Io sono dell’opinione che il Lucrino nel bacino orientale confi¬ nasse con le falde del Monte del Pericolo, mentre la Montagnella formava una lieve sporgenza sulla costa orientale, appoggiata al pendio occidentale del Monte del Pericolo. La questo lato orientale del Lucrino era probabilmente l’ingresso delle navi da guerra nel l’Averno, e in corrispondenza, come proponeva Deecke, sull’estremo occidentale della diga del Lucrino era l’ingresso per le navi da pesca. In base a ciò la dimensione del Lucrino nella direzione della lunghezza doveva essere di un 1200 metri, poco più di 6 stadi. Il che coincide con il dato di StRABONE che la diga era lunga 8 stadi; poiché è evidente clic la diga, che poi era una strada, fosse stata un poco più lunga del lago. Deecke (1) propose un’altra configurazione del Lucrino (fig 13). Nel suo lavoro mette la via Herculea in linea retta tra il faro orientale i l) Deecke W. Ueber die Gestalt des Lucrìner Sees von dem . Ausbruke des M. Nuovo irti Jalires 1538. II J Jahresbericht der Geógcaphis-chen Gesellschaft zu Greìfswald, 1887-88 (con urna tavola). — è53 — di Porto Giulio (Punta Caruso) e le Stufe di Nerone. Ed in ciò segue quasi le dimensioni date da Strabone, che scrisse essere la Via Her- culea lunga 8 stadi (m. 1507), poiché egli assegnò alla diga la lun¬ ghezza di m. 1535. Ma poi non tutti convengono nel ritenere die gli Fig. 13. - Ricostruziome del Lucrino secondo Deecke. avanzi di Punta Caruso siano avanzi di appoggio di strada, invece che avanzi portuali. Adottando il criterio che la via Herculea fosse rettilinea e protesa fra i due estremi suddetti, ne segue che essa era situata più avanti della via attuale; e tale è appunto la opinione del Deecke. Inoltre questo studioso pose la Montagnella attaccata alla sponda settentrionale del Lucrino, e propriamente come una penisoletta prò- — 254 — traditesi nel lago, dividendolo così in due porzioni: una orientale, l’altra occidentale (si vegga la ifig. 13). In tal modo viene ancora eliminata quella tale valletta tra Monte Barbaro, l’ Averno e il Monte del Pericolo che il Deecke ritenne es' spie la Montagnella. Conseguentemente, e logicamente, suppose che gli ingressi al Lucrino, o. che è lo stesso, gli emissari del lago, siano >t a li due: uno all’estremo occidentale della diga per l’ingresso delle barche da pesca, l’altro all’estremo orientale per le navi militari. Questo schema degli emissari sembrerebbe molto probabile. Ma il resto non ci convince, perchè Deecke non conosceva resistenza del Monte del Pericolo e della valletta con tutto quello che si è detto sulla topografia della regione. Il Deecke nel suo lavoro non valuta altre fonti che quello di Del Nero e di Loffredo, ed appena il Toleto. In primo luogo egli chiama Monte • Grillo, e non è esatto, quella porzione occidentale del cratere dell’Averno nella quale è cavata la Grotta della Pace. Non pare, come egli dice, invece, di aver tenuto conto di tutti i dati esistenti per rico¬ struire l’antica topografia della zona e quindi la configurazione del lago precedentemente all’eruzione del M. Nuovo. Nè Porzio, nè delli Falconi sono dal Deecke riportati. Egli insiste nel voler riconoscere come resti della via H erculea sommersa quel 1 i che invece >ono gli avanzi delle opere portuali. Se questi sono interpretati come spettanti alla via Herculea dove sono poi le pilae? Da tutto quanto egli espone nella sua nota si riceve l’impres¬ sione come non abbia chiare idee sulla zona e non dovette nemmeno perlustrarla adeguatamente. Nè della Montagnella ha idee precise sulla sua natura geologica, in ispecie quando la considera come pro¬ paggine dell’Averno, confondendo la costituzione geologica della Mon¬ tagnella con quella delLAverno. Leggendo con molta pazienza il lavoro di Deecke si viene alla conclusione che questo A. non ha sviscerato per nulla la questione; si ha l’impressione che non l’abbia nemmeno chiara lui. Dopo la let¬ tera del suo lavoro vien fatto di pensare al Marchesino quando di¬ chiara: «se sono stato lungo, inordinato et confuso perchè essendo confuso io non ci posso adempire il lucido scrivere ». Conseguenza di tale inesatta valutazione dei dati precedenti e delle osservazioni geologiche è la errata posizione ch’egli dà della Montagnella, come una penisoletta sporgente nel Lucrino. Dove, con tale figurazione, veniva quindi a trovarsi la vailetta tra il M. Barbaro ed il Monticello del Pericolo, la quale conduceva ulle dimensioni e sulla configurazione del Lucrino ai tempi dei Romani; intanto non perdiamo di vista la coir clusione a cui sono pervenuto: che in tale epoca il Lucrino era un lago ben individuato e delimitato, tanto clic fu adattato a bacino di pesca ed a porlo militare. 4. Il Lucrino durante il bradisistna discendente dopo l’epoca romana. Intanto nel II sec. d. G. fi accentuava il bradisisma discendente della zona flegrea, che forse crasi già iniziato fin dall’epoca delle colonie greche. Il Serapeo già cominciava a discendere. Il Lucrino subi la stessa sorte. I Romani lo abbandonarono come porto e come luogo adatto alla piscicultura. Alla fine del secolo V, nel 496, la diga, che già anche con esso discendeva, fu rovinata da un maremoto. Teodorico la restaurò. Così riferisce Gassuidoro (1). Dello stato del Lucrino al 522 come lago ben individuato ne po¬ tremmo avere una conferma, per quanto è ricavato dalla Puteolana liistoria del Capaccio (Gap. XVIII, pag. 86) dalla quale si rileva che metà del lago Lucrino fu donata a San Benedetto in detto anno: « In vita Placidi seribit Gordianus, a Tertullo Romae patricio dimidiam lacus Lucrini partem, et insulam Caprariam (ut ipse loquitur, Ca- preas autem intelligit) in solo Neapolitano, Beato Benedicto dono datas curn eum ad Cassinum invisisset. Sii enim Surius, mense Octo- bri 522 » (2). (1) Cassioooro. Varia, Lib. I, cap. 25. i(l2) Il Gordiano è Runico monaco superstite del massacro, sul lido di Messina, di San Placido e dei mortaci che erano con lui. operato dal pirata Manuca, inviati da San Benedetto nelle terre donate dal patrizio romano Tertullo, padre di San Placido. Il Gordiano avrebbe scritto la vita ed il martirio di San Placido. Ma que¬ ste notizie le conosciamo da Pietro Diacono lo storico eassinese più antico, dal¬ l'opera De viris illùstribus Montis Cassini. Tale storia secondo taluni studiosi sa¬ rebbe una composizione molto fantastica del Diacono. Quindi: donazione del Lu¬ crino, donazione delle terre del messinese, sarebbero secondo gli ultimi critici una pura invenzione. Per quanto ci siano dubbi sul fatto storico,' in merito a ciò che A. Parascandola. Il M. Nuovo ed il lago Lucrino . TAV. XI. Fig. 1. — Collina di Tritoli con la Punta Epitaffio'. — AAA, grotta di Baia; B. Epi¬ taffio; C, Bagni di Tritoli, a sinistra della chiesetta di S. Filippo (dal Mor- ghen). Fig. 2. — Particolare di bagni di Tritoli (dal Morghen). — 25? — Pare elle una ripresa della piscieuì tura al Lucrino si sia avuta nel secolo VI, tra gli anni 555 e 556, quando alcuni pescatori e ecc Ioni greci vennero nel golfo di Pozzuoli e ricostruirono questa città distrutta da Potila nel 545. Allorché nei secoli seguenti la diga del LA ZONA DEL LUCRINO TRA I SECOLI X-XVI Fig. 15. — La diga della Via Hereulea è scomparsa. Il mare invade il Lucrino e F Averno. lago, col continuare il bradisisma discendente, scomparve sotto l’ac¬ qua, il Lucrino anche esso scomparve come lago; si unificò col mare, il quale giunse fin sotto la collina della Ginestra e sotto la Monta- gnella. e si congiunse con l’Averno. riguarda la donazione, tuttavia non si può dubitare del fatto geografico, della esi¬ stenza cioè in quel tempo del Lucrino siccome lago. 17 — 2dS — Intorno ai secoli IX e X, per il bradisisma, la diga rimase del tutto sommersa (fig. 15); essa dovette approfondirsi di almeno sei metri sotto il livello dell’acqua con un abbassamento del litorale di almeno 8 metri. In questi stessi secoli il Serapeo si trovava nel mas¬ simo sprofondamento (1), come dimostrerò in altro lavoro in corso di stampa, contrariamente a quanto altri studiosi hanno asserito, po¬ nendo tale massimo abbassamento tra i secoli XIII e XV. Solo perchè i primi documenti del sollevamento sono del principio del secolo XVI, non nè segue che il massimo abbassamento sia stato nel secolo pre¬ cedente. 5. 11 Lucrino durante il bradisisma ascendente iniziatosi verso il secolo XI. Tra il secolo X ed il secolo XI il bradisisma della regione Fle- grea da discendente divenne ascendente; ma per tali secoli non ab¬ biamo documenti che riguardano il Lucrino. Neppure per i secoli XII e XIII. Per il secolo XIV abbiamo due testimonianze: una di Petrarca. l’altra di Boccaccio. 1) Petrarca venne a Napoli nel 1341, visitò i Campi Flegrei, e narrò le ulfurée si tl) Interessante potrà essere il fare rilevare come fin dai tempi del Boccaccio i pesci dell’ Averne mon Costituissero un efficace commestibile, poiché anche ora tali pesci al fuoco si disfanno in modo tale che poco o nulla rimane. — 260 -- fossero aperte la via, e fossero state di tal eopia da ammazzare tutti gli animali: « Vidi ego ex hoc lacu , Roberto inclito Hierusalem et Siciliae rege vivente, funi grandem piscium copiarti eiectam in mar - gines. ut monstro simile videretur . Et cum omnes essent mortili in- trorsum nigri erant et sulphare fetidi, adeo ut nullum ex illis gu¬ star et animai. Creditum ex eo est , a prudentioribus incolarum , diebus illis in lacu sulphurae venas tanti vigoris. ut infectu aquis pisces oc- cideret ». Queste scaturigini di acque sulfuree delle quali fa parola Boc¬ caccio possiamo intenderle come manifestazioni postvulcaniclie del bacino magmatico dell’Averno, ma precursori dell’attività del Monte Nuovo; ossia possiamo considerare tali manifestazioni come estrinse¬ cazioni del bacino magmatico flegreó pel quale non possiamo par¬ lare, a rigor di termini, generalizzando, di tanti bacini magmatici quanti sono i coni eruttivi. La moria di pesci di cui parla Boccaccio può mettersi in relazione con una accentuata attività endogena con formazioni di fratture, tanto più che noi ci troviamo nella fase a- >eendente, al tempo di Boccaccio, del bradisisma flegreo. Solo faccio rilevare, come già accennai in precedente lavoro (// Monte del Pericolo nei Campi Flegrei Boll, della Soc. dei Naturalisti in Napoli, voi. XLVIII, 1936, pag. 78), che queste manifestazioni en¬ dogene legate al distretto Averno-Luerinò-Monte Nuovo maggiormente rafforzano la mia convinzione di uno spostamento dell’asse eruttivo dell’Averno risorto nel Monte Nuovo. Quindi nel secolo XIV il cordone litorale era del tutto sommerso, e lo specchio del Lucrino era scomparso. Questo farebbe dedurre che la fase di abbassamento del Lucrino era ancora così accentuata da non fare più nemmeno emergere i ruderi delle opere antistanti a tale lago. E così anche nel secolo XV. Per il secolo XVI abbiamo testimonianze dedotte da due docu¬ menti importantissimi, riferiti da De Jorio e Niccolini. In essi si legge che nei primi anni di questo secolo la marina di Pozzuoli già si sollevava di molto. Ecco i documenti: a) Ferdinandus Dei grada rex Aragonum utriusque Siciliae , Rai- mundus de Cardona Siciliae ulterioris Vicere x, si concede alla città di Pozzuoli « quoddam demaniale territorium mare desiccatum circum praefatarn civitatem Puteolorum in continentis ejusdem situatam » (23 maggio 1501). b) nell’anno 1503, il 6 ottobre, li catolici re e Regina avevano conceduto a la Università (di Pozzuoli) uoi tempi non era più quello che i Romani chiamavano con tal nome, perchè il Monte Nuovo l’aveva di¬ strutto. È da notare come il Di Capoa faccia rilevare la presenza d’un eventuale lago baiano e degli stagni baiani. Nè è esatto quando dice che Simon Porzio narra che il Lucrino « venne quasi affatto ripieno . dalle pietre e dalle ceneri che mandò fuori il Monte Nuovo », perchè in Porzio ciò non si legge (1). Per il secolo XVIII raccolse notizie De Criscio (op. eh. pag. 27). (1) L’opera del Di Capoa sulla natura delle Mofete fu stampata nel 1683 a cura del figlio Cesare, ma riguarda le lezioni che il Di Capoa tenne circa venti anni prima. — 272 — 1) Difatti eoli ci fa sapere che a questa palude, essendo in terreno demaniale , appartenne alPUniversità di Pozzuoli , la quale dopo circa 161 anni di altbandono , pensò -nell9 anno 1699 di darla in enfiteusi per ducati trenta annuali a don Antonio Di Donato , con facoltà allo stesso di aprire una foce e dare lo scolo alle acque stagnanti di detta palude nel vicino mare. Il Di Donato non si avvalse della facoltà concessagli di aprire la foce, e in breve nello stagno nacquero due laghetti o stagni (1). Dopo qualche altro tempo, dei due laghetti se ne formò uno solo che rimase senza comunicazione col mare fino all9 anno 1734. AWenfiteuta Di Donato , essendo succeduto don Andrea di Fraia di Pozzuoli , questi, profittando della guerra che allora ardea fra gli Austriaci e gli . Spagna oli, nell9 atto che da questi, già padroni di Poz¬ zuoli . veniva battuto il vicino castello di Baja difeso dai primi, di nottetempo, imperiosamente si j)ermise di aprire un alveo o canale di comunicazione fra il laghetto ed il mare. Non passò molto che il di Fraia piombava in un patrimonio dedotto nel Sacro Consiglio, e dal patrimonio fu venduto il laghetto sotto il nome di a mari cello » (per¬ chè le sue acque erano divenute salse per la comunicazione del mare) al Principe di S. Lorenzo, il quale , con molta cura cercò di miglio¬ rarlo ingrandendolo ed arginandolo di muri. Lo stesso Principe nel 1784 vendè il laghetto « mariccllo » al cirusico D. Giuliano Pollio; il quale non apvena ne ebbe il pos¬ sesso, imitando il di Fraia , arbitrariamente , a breve distanza del primo alveo o canale vi castrasse ed aprì ima seconda foce, e dette al lago il nome di Lucrino, in memoria del distrutto lago omonimo del 1538. Il « mari cello y> o nuovo Tollerino, fu detto dal volgo anche lago di S. Filippo in allusione alla piccola chiesa costruita dai Padri del- l9 oratorio di S, Filippo Neri di Napoli , alla base dei Sudatori di Tritoli, per uso dei religiosi infermi che nella stagione dei rimedi si portavano a detti Sudatori ». Da queste notizie del De Criscio si rileva che nei primi anni del secolo XVIII il Lucrino era una palude alle cui acque si procurava di dare scolo mediante emissari, che vennero aperti o bonificati du¬ rante il secolo. 2} Nel ]768 il P. Paoli nella sua pregevole opera Puteolanae anti- quitates ( Antiquitatum Puteolis, Cumis , Baiis existentium reliquiae riporta una tavola del Lucrino con P Averno che riproduco, ridotta, i ! ) La lig. 1 della tav. XV ci fa vedere questi due laghetti nei quali era di¬ viso il Lucrino. TAV. XIII — 273 — nella fig. 17. Non dà però spiegazione delle varie lettere. Tale figura è riportata dal D’Ancora Gaetano senza nemmeno dare spiegazioni. Il Paoli misurò la distanza intercorrente tra la collina di Tritoli ed Fig. 17. — I laghi Lucrino ed Averno ( dal Paoli). il Monte Nuovo lungo il cordone litorale e trovò la lunghezza di passi 715 (metri 1200 circa). 3) Nel 1787 Carletti Niccolò nella sua opera Della regione ahbni- 18 data nella Campagna Felice (Napoli, 1787) nulla di interessante dice del Monte Nuovo e del Lago Lucrino. Il Carletti era a conoscenza solo della epistola di Simone Porzio e del poemetto di Girolamo Bor¬ gia. In quanto al Lucrino, nella pessima mappa topografica che dà, lo riporta già individuato nelle ridotte condizioni di specchio palustre. 4) Nel 1792, ossia alla fine del secolo, D’Ancora (1) scrisse che ai suoi tempi il Lucrino era ancora una piccola palude ripiena di can¬ neto: « Il lago Lucrino rinomatissimo in tutta l’antichità giace tra il Monte Nuovo e le colline Baiane , e comunica col mare mediante un cortissimo canale ; ma di esso altro non rimane che una piccola palude ripiena di canneto. Il suo restringimento è stato l’effetto dell’ eruzione del Monte Nuovo, il quale nel nascere ne occupò la maggior parte e lo ridusse a quella piccolezza in cui ora si vede ». Come si rileva, il Lucrino poco si era giovato del bradisisma a- scendente realizzatosi dal secolo XI al secolo XVIII; forse perchè, pur sollevandosi anche la sua diga, non vi era regolare emissario; o, pure essendovi, non veniva periodicamente espurgato, onde facilmente si ostruiva. E perciò il lago rimaneva uno stagno malarifero. Inoltre la colmata dovuta ai prodotti del M. Nuovo ne ridusse la profondità la quale già ab initio era ben poca cosa. Probabilmente a tale epoca rimonta la formazione delle così dette vasche di Pollio (tav. VII, ifig. 2). Forse sono pozzetti relitti di uno o due stagni del primitivo lago, oggi aggiustati poi a vasche. Oppure si tratta di laghetti costruiti per peschiere o per raccogliere acqua termale di recente uscita o di an- antica data. Monticelli Teodoro scrisse che in occasione della moria dei pe¬ sci nell’ Averno e nel Lucrino (2) morirono anche quelli delle vasche del signor Pollio. Quindi in quell’epoca già esistevano le vasche; op¬ pure bisogna intendere le vasche che il Pollio aveva nella sua abita¬ zione in Pozzuoli la quale era adiacente al mare che dentro penetrava. 8. Il Lucrino durante l’attuale bradisisma discendente. Con il principio del secolo XIX la zona flegrea riprese un movi¬ mento discendente. (1) D Ancora Gaetano. Guida ragionata per le antichità e per le curiosità di Pozzuoli e dei luoghi circonvicini. Napoli. Zambraia, 1792. pag. 76 (efr. anche la tavola annessa alluperà). (2) pARASCANDOL v A. Il bacino idrotermale del Lucrino e dell’ A verno nei Campi Plegrei . Boll. Soc. Nat. Napoli, voi. XLVIII, 1936, pag. 17-18. Le rovine delle costruzioni romane dell’ interno e dell’ esterno della zona o discendevano, o erano già sotto il mare; così le Pilae . il navale dcll’Averno, il pavimento del Ninfeo di Calypso discendevano al di sotto del livello del lago d’Averno. Il Serapeo iniziò la sua som¬ mersione di circa 2 cm. all’anno. Anche il Lucrino si sommergeva; ma essendo bonificato, con emis¬ sario ben funzionante, non divenne malarifero. Nella bella ed accurata tavola (fig. 16) annessa all’opera del ca¬ nonico Andrea De Iorio, Guida di Pozzuoli e contorni (Napoli, 1817) il Lucrino è ben individuato con la diga che lo delimita. Nel 1873, il proprietario Domenico Poli. io, pronipote del già no¬ minato nel capitolo precedente, Signor dott. Giuliano Pollio, ne mi¬ gliorò le condizioni, e vi impiantò un vivaio di ostriche. Nondimeno la zona del Lucrino, col Serapeo, veniva trascinata sotto le acque dal bradisisma discendente. Nei periodi piovosi, concomitante l’azione di marea, il piano circostante, per il sollevarsi della superficie libera della falda freatica, a causa del moto di subsidenza, diventava pan¬ tanoso, così era anche dell’ Averno. Il PàNvini (1) ci dice: « Appresso il Monte Nuovo, proseguendo il cammino lungo la riva , trovammo un piccolo lago di figura irrego¬ lare che comunicava col vicino mare per mezzo di un brevissimo ca¬ nale coverto. Questo è il piccolo avanzo del famoso lago Lucrino che , a tempo dei Romani, molto più ampio, fu tanto celebrato per la gran quan¬ tità delle squisite ostriche che produceva, e che oggi, sepolto dall’e¬ ruzione del Monte Nuovo, è divenuto sterile di questa produzione ». Consultando prima la carta topografica, quale la si è potuta co¬ struire, del Lucrino ai tempi dei Romani e quindi prima dell’eruzione del Monte Nuovo (che le condizioni non mutarono almeno nei confini del bacino) e poi una carta topografica attuale, si rileva subito la no¬ tevole riduzione che ha subito nelle >ue dimensioni il Lucrino. È proprio il caso di dire: Oh quam mutatus ab ilio! Molto opportunamente parlando del Lucrino bisogna distinguere un Lucrino antico da un Lucrino attuale. Per completare la storia del Lucrino attuale occorre dire che nei tempi vicini a noi fu ripresa l’idea di trasformare in porto commer¬ ciale il Lucrino e l’Averno (2). ilt Panvini. Il forestiere alle antichità e curiosità naturali di Pozzuoli. Cuma . Baia e Miseno. Napoli, 1818, pag. 81-82. 1 2 ) WmiNG A. Il problema portuale di Napoli ed il lago di Averno, Atti I«t. Tnrorag. Napoli, serie VI, voi. Vili. — 2 % — Dall’epoca romana fino al secolo XVIII non si trovano notizie di tentativi per riaprire siffatte comunicazioni dei due bacini col mare. La prima idea di fare ciò a scopo di bonifica e per il vantaggio delle piccole navi, si deve, nell’epoca moderna, all’abate Ferdinando G 4LIANI. In una sua lettera autografata del 2 dicembre 1770 al mi¬ nistro Tanucci parla dell’incarico da lui dato, col consenso dello stesso ministro, all’ingegnere Domenico Spina di studiare ed elaborare il progetto che poi non fu attuato. Ben più importanti furono invece i progetti ideati, ed in parte eseguiti, dal 1885 al 1860 sotto il governo di Ferdinando II e Fran¬ cesco II di Borbone. Ma avvenimenti politici interruppero l’opera, che non lu continuata dal governo italiano. Tra il 1910 e il 1918 fu ripresa l’idea, e varie proposte furono pre¬ sentate, speciamente quelle di un tale Carlo Enrietti. Ma nel con¬ tempo furono fatte presenti ai Ministero tutte le ragioni archeolo¬ giche, geologiche, industriali ed economiche che vi si opponevano (1). Poi venne la guerra del 1914-1918. il periodo post-bellico, e tutto finì. E sempre per completare la storia del Lucrino, anche dal lato geologico, che è quello che più ci interessa, è da ricordare la moria dei pesci avvenuta nel lago il 14 agosto 1922, prodotta, a quanto si potè intravedere, da notevole produzione di. acido solfìdrico sprigio¬ natosi improvvisamente sul fondo del lago da qualche crepaccio in rapporto col versante di sud-est delle propaggini del Monte Nuovo (2). Si domanda: l’attuale diga del Lucrino conserva la stessa posi- sizione topografica di quella dell’epoca romana? Niccolini risponde positivamente. Jacono ritiene che la diga degli antichi, la Via H erculea dei Cu¬ lmini e dei Romani, fosse più interna di quella attuale, e le dà una forma più arcuata (Cfr. fig. 12, pag. 251). Deecke la pose un poto più innanzi di quella attuale (Cfr. la fig. 13 a pag. 253). Per ciò che riguarda l’opinione di Jacono a me pare che la diga antica fosse stata invece più esterna di quella che egli rappresenta il) Cosenza Vincenzo e altri. La deplorata convenzione Enrietti pel porto di Baia- Averno ecc. Pozzuoli , 1921. (2) Signore F. Sul fenomeno della mortalità del pesce nel lago Lucrino veri¬ ficatisi nell’ agosto 1922. Rend. R. Acc. Naz. Limcei, CL. Se. fis. eco., voi. XXXIL serie V, 2° seni. fase. 1°. — Mazzareijli G. La improvvisa grande mortalità fra i pesci e gli altri esseri viventi nel lago Lucrino manifestatosi il 14 agosto 1922. Atti R. Istituto Ine. Napoli, serie VI, voi. LXXV, fase. 1°. nella fig. 1 del suo lavoro; elle debba coincidere con quella attuale presso a poco. E ciò per varie ragioni; in primo luogo nella sua rap¬ presentazione Jacono ci fa vedere la Via Hercuiea attraversante l’at¬ tuale specchio del Lucrino. Se così fosse noi dovremmo aspettarci di vedere sul fondo di tale lago un rilievo con tale andamento stradale; il che non è; in secondo luogo, una via altra versante il piano dell’at¬ tuale Lucrino nelle varie fasi di emergenza doveva pur venir fuori e delimitare la parte inferiore dell’antico Lucrino, per cui l’attuale non dovrebbe estendersi oltre il limite dell’antica via, siccome in¬ vece si osserva nella figura di Jacono. Bisogna tener presente che l’attuale via carrozzabile e la strada ferrata sono elevate sul piano dell’antica superficie spettante allo specchio del Lucrino colmato dall’eruzione del Monte Nuovo; e che fondamentalmente la Via Hercuiea e rimasta la stessa degli antichi, emergendo o sommergendosi come tutte le altre opere della zona. Probabilmente con l’eruzione del Monte Nuovo la diga dei Ro¬ mani, sommersa e poi emersa, ebbe il tracollo (finale e disparve in tutto o in parte; e poi si ricostruì quella attuale, ina non abbiamo documenti al riguardo. Per quello che riguarda l’opinione di DeeckÈ la discussione ri¬ mane assorbita in quella fatta per l’opinione di Jacono. Concludendo: probabilmente la via Hercuiea attuale è la via Hercuiea antica malgrado tutte le demolizioni e immersioni subite. Questa attuale ha posizione intermedia tra quella proposta da Jacono e quella proposta da Deecké. Non vi sarebbero ragioni contrarie per poter ritenere che tutte le costruzioni medioevali e moderne non siano state tutte rifatte sulla diga, che il moto ondoso del mare aveva, lungo i secoli, innalzata e rafforzata sul fondo sabbioso dinanzi alla insenatura della costa che conduceva all’ Averno. Vi è però una notizia che occorre riferire e controllare. Nel 1773 il Braucci scriveva: cc Nel lido di Bauli vi è l’aatica strada Hercuiea fabbricata a mano di gran sassi , la quale va solo coperta da circa otto piedi e mezzo (m. 2,55) di acqua salata » (1). Questa notizia farebbe pensare che ai tempi del Braucci, cioè nella seconda metà del sec. XVIII, la diga del Lucrino fosse sommersa di oltre m. 2-, 50; ciò porterebbe per conseguenza che il lago Lucrino in tale epoca fosse mare ancora completamente apertole che le no¬ li) D’Erasmo G, Di Niccolò Braucci da Coivano ( 1719-1774 ) e della sua opera inedita dal titolo : Istoria naturale della Campania sotterranea. Atti R. Acc, Se. Fis, e Mat,, «, 3a, voi. II, n. 2, pag„ 8. Napoli, 1941, — 278 — lizie precedenti, che in quegli anni il Lucrino era una palude, uno stagno, insomma uno specchio chiuso, fossero errate. Ma il dubbio scompare quando si riflette che il Braucci riferisce che le rovine som¬ merse da lui osservate, erano nella spiaggia di Bacoli, ossia oltre tre Km. dal Lucrino. Evidentemente egli intendeva parlare della sommersa antica strada litoranea Baia-Miseno indicandola col nome di via Herculea. L’aspetto di stagno nel principio del 1800 è visibile nella fìg. 2 della tav. XV. Riassumendo : 1) Il Lucrino ai tempi dell’epoca romana era un lago ben delimitato, utilizzato per la piscicultura e per la ostricultura. Poi diventò avamporto del porto Giulio. Claudio lo difese con un opus pilarum dall’interramento di sabbia. 2) Il Lucrino durante il bradisisma discendente avvenuto dopo l’epoca romana subì la stessa sorte della zona flegrea che si abbas¬ sava. I Romani lo abbandonarono come porto e come lago. Nel 496 la diga, rovinata dal mare, e forse in via d’essere sorpassata, fu re¬ staurata. Coi secoli seguenti il bradisisma discendente continuò fino ai secoli IX e X. La diga dovè scendere di circa 6 metri sotto l’acqua. Il Lucrino finì per comunicare col mare; e quindi anche l’Averno co¬ municava col mare. 3) Durante l’inizio del bradisisma ascendente, cominciato pro¬ babilmente nel secolo XI, vennero fuori le pile del porto Claudio. La diga, se mai, si accostò al pelo dell’acqua, ma non emerse in tal modo che il Lucrino avesse potuto riprendere, più o meno, le pri¬ mitive dimensioni e l’antica configurazione. 4) Avvenuta l’eruzione del Monte Nuovo, il bacino dov’era il Lucrino fu tutto riempito dai materiali piroclastici del vulcano fino a! fondo, specialmente nelle porzioni orientale e media. Del lago non rimase che poca porzione libera verso occidente. 5) Il Lucrino nei secoli dopo Leruzione del Monte Nuovo, du¬ rante il bradisisma ascendente che durò sino al 1800, rimase una pa¬ lude insalubre, quantunque vi si scavassero vari emissari. 6) Attualmente con accurate bonifiche il Lucrino ha ripreso la sua funzione di lago adatto per l’ostricultura, ma è in via di som¬ mersione, assieme a tutta la zona, per il bradisisma discendente ini¬ ziatosi al principio del secolo XIX. Le pile del porto, il navale di Agrippa, i ninfei, il pavimento del 'Serapeo, sono già sotto il livello del mare, ma il lago essendo bonificato, e con emissario ben fun¬ zionante, non risente ancora di tale sommersione. 279 III. — Il Lucrino era un cratere flegreo? Nell’intento di rintracciare quei centri eruttivi dai quali fuori¬ uscirono i prodotti che originarono le masse di tufo giallo sparse qua e là nei Campi Flegrei, delle quali fino ad ora non sono state identificate le bocche che produssero tali materiali, sono riuscito ad individuare nella zona del Lucrino alcuni di tali centri eruttivi, quan* tunque lo stato di progredita degradazione, e la vegetazione, molto ne ostacolassero la individualizzazione. Chiamerei cratere di Tritoli uno di questi centri vulcanici dei Campi Flegrei, quello meglio specificato, e che è al confine occi¬ dentale del Lucrino. Già il Breislak (1) avanzò l’idea che il bacino del Lucrino fosse stato in origine un cratere. Nella sua Topografia fìsica della Campa¬ nia, egli dice (pag. 289): « Contiguo al lago d’ Averno era il lago Lu¬ crino di cui in oggi abbiamo un piccolo residuo nella palude di Mari- cello. Sappiamo dalla storia che Agrippa apri la comunicazione tra il mare e il lago Lucrino e tra questo e il lago d9 Averno, cosicché i navigli potevano entrare in questo secondo lago. Strabone però ci assicura che il sito più comodo, e più frequentato dalle navi era il lago Lucrino , il che dimostra la sua ampiezza e la profondità delle sue acque. Credo però che in origine fosse stato un cratere simile a quello del lago di A ver no. Se però in oggi più non lo ravvisiamo , il suo posto è stato occupato dal Monte Nuovo ». Io ritengo che l’antico Lucrino avrebbe occupato un piano fa- ciente parte di un complesso di crateri di tufo giallo, dei quali, come ho detto, esistono solo i ruderi. Su quell’area, attualmente in parte lacustre e in parte colmata, aprivano la loro bocca tali crateri. Del complesso di essi rimangono: la collina di monte Grillo, la collina della Ginestra, e il Monticello del Pericolo seppellito dal Monte Nuovo. Questi crateri chiamerò preavernici , perchè scoppiarono prima dei ì’A verno, dato che essi sono di tufo giallo, mentre l’ Averno è di tufo grigio. Essi possono considerarsi come un gruppo col Monte Gauro, a cui sono posteriori, ma con esso costituiscono i più antichi crateri di tufo giallo dei Campi Flegrei, ai quali bisogna aggiungere quelli di tufo giallo che furono trapanati dalla esplosione dell’A- (1) Breislak S. Topografia fisica della Campania , Firenze, Brazzini, 1798, pag. 289-290 e pag. 294. — 280 — verno; di questi sarà trattato a parte. Darò qualche celino di eia' scuno di questi avanzi craterici citati. a) Il Monte Grillo (Fig. 15). — Questa collina è ciò che rimane dell’edificio occidentale di un vulcano, che probabilmente compren¬ deva parte del bacino occidentale del Lucrino. La collina attualmente è compresa in quel tratto che s’affaccia >u\ Lucrino, e va dalle Stufe di Nerone allo Scalandrone vecchio, dove si attacca poi la collina della Ginestra. Il tratto anzidetto va dunque sotto la denominazione di Monte Grillo. Questa denominazione è molto generica, perchè troviamo alle spalle dell’ Averno la stessa denominazione in un altro arco crate¬ rico denominato Monte Grillo o Monte Rosso. Sulla spiaggia poi di Miniseola si affaccia la estremità orientale del Monte di GProcida, eh- è chiamata anche Monte Grillo, come le carte riportano. Secondo De Criscio il Monte Grillo, che in questo momento ci riguarda «è una piccola collina della Campania presso Baia. Esso è sito fra il Lago Fusaro, la collina di Tritoli, ed il cratere del lago Averno, separato dai Monti Euboici da una vailetta, detta selva Mar- cone, e dalla collina di Tritoli, da un piccolo cratere d’un vulcano estinto ed innominato dei Campi Flegrei. Su detto Monte osservasi un crepaccio conosciuto col nome di Mofeta, da cui escono gas e va¬ pori, senza nessun sibilo, che immettendosi nell’atmosfera condensasi a forma di bianco fumo. Da questa collina ebbero ed hanno ancora origine tutte le sorgenti d’acqua termominerali del seno di Baia e rii quelle poste alla base del suo versante occidentale presso il lago Fusaro » (Op. cit ., pag. 58). Dunque il nome di Monte Grillo è dato anche al Rione delle Mo¬ ine; e tale Rione l’ho sentito anche io nominato così dai locali. Secondo Annecchino (1) questo nome deriverebbe da Monte- ri Ilo (2), cioè piccolo Monte , in contrapposizione del Monte Gauro, la cui altezza (m. 311) sovrasta di molto quella dei restanti coni che gli sono d’intorno. Questa collina che si suol chiamare del Monte Grillo, alle cui (1) Annecchino R. Sul toponimo di Monterillo. Boll. Fleg., anno VI-VII, 1932-33 , fase. 1°-3'G, pag. 26. ( 2) Nell’ inventario dei beni della Chiesg di Napoli che dovette essere ante¬ riore al XIV secolo già si cita il monte Grillo in Baia ove erano terreni in Terri¬ torio Cumarum in loco , ubi dicitur Mons Grilli; e più oltre specifica dove trovasi detto Monte, cioè: In Baia, Montem Grillimi. -palle occidentali si sviluppa il Rione delle Mofete, elle va dalla punta dell’Epitaffio alla cupa dello Scalandrone vecchio (Lav. X, fig. 2), che ascende (fino alla quota di circa 80 metri, secondo il mio modesto modo di vedere, rappresenta la porzione occidentale di uno dei cra¬ teri preavernici-lucrinici. Salendo dai bagni di Tritoli lungo il sentiero (“he a destra mena -mila terrazza della Starza del Lucrino si giunge alla base della rupe su cui sovrasta la palazzina dell’Amministratore; da tale punto parte in salita un sentiero che mena, attraversando un taglio della roccia tufacea, all’alto della collina. Tale sentiero si chiama Scalandrone e viene distìnto con l’appellativo di nuovo per differenziarlo da quello che più in avanti mena dal piano del Lucrino fin sulla collina alle basi della proprietà Luccio Luigi. Il tufo che costituisce tale roccia è inclinato da NE a SW nella parte inferiore di 26°29'; e nella parte superiore, più verso lo sbocco in alto alla collina, inclina di 21°23/. Tali strati sono beanti sul Lucrino e rappresentano la quaqua- versale esterna di un cratere che ivi apriva la sua bocca. Il tufo non è però fresco; esso è alterato dai vapori che si sviluppano dall’interno; in ispecie gli elementi pumicei, i quali raggiungono la grandezza di una noce, in genere, presentano più evidente questa alterazione. Tali pomici sono bianche, oppure decisamente rosee, e cedono, defor¬ mandosi come materia molle, sotto la pressione' delle dita. Questo tufo presenta vari spacchi dai quali esce vapor d’ acqua con poca anidride carbonica. Ma questo craterino probabilmente non faceva parte di quello del monacello del Pencolo , al quale forse è da riconnettersi lo spe¬ rone della Ginestra. Stando così le cose io ritengo che la denominazione di Monte Grillo non compete alla porzione di collina che va dalla punta del¬ l’Epitaffio allo Scalandrone; e che tale porzione debbasi chiamare collina di Tritoli. Nella fìg. 2 della tav. X dove termina il tratto bianco, finisce il cratere di Tritoli e si inizia lo sperone della collina della Ginestra. Io le dò quindi il nome di cratere di Tritoli , dal nome dei sotto¬ stanti bagni e sudatoio (tav. XI fig. 1, 2). Donde venne il nome di Tritoli? Scipione Mazzella parlando del cc Sudatoio di Frittole » dice: « Gli antichi si servivano molto di queste terme , le quali dal fregarsi il corpo le chiamarono Frittole . ed ora le chiamano volgarmente con voce corrotta Tritolo ( Op . cit., pag. 108). Capaccio nel co De balneis liber » parlando del bagno di Tritoli, — 2 82 — dice: « in Bajano littore Balneac et Sudatotium eodem nomine ap- pellantur Trictolas , a jricando dictas scribit Blondus , atque inde Tri - 0//«s appellatas. Alii sic dictas assernnt a tertiana febre sanando, qnae apud medicos Torcalo^ pupexòs dicitur. Trifoli alii dixerunt, et monti Trifolinum vimini qdscribunt » (pag. 55). Questo cratere di Tritoli è importante non solo perchè è più fa¬ cilmente individuabile tra i crateri preavernici, ma anche perchè si presenta in uno stato di notevole attività fumarolica. La collina che forma questo cratere è tutta pervasa da spiragli del suolo che danno vapor d’acqua con poca anidride carbonica; perciò fu detta anche Rione delle Mojete . In queste fumarole, come nel cratere di Agnano, - si riscontrano le più alte temperature dei Campi Flegrei dopo quelle che si riscon¬ trano alla Solfatara. Da misure eseguite da Signore f i), dy me (2) e da D’Erasmo (3) si è riscontrato che le temperature oscillano intorno ai 100°. Ai piedi della collina di Tritoli, sul versante occidentale vi sono le Stufe di Nerone , altro documento dell’attività di questo centro vul¬ canico (4). Sotto rovine di antiche grandiosè terme romane, formate da quattro stanze in serie e di due gallerie scavate nel tufo. Nell’in¬ terno vi sono fumarole con temperature tra 27°, 48°, e 87° C. adibite dai romani come Sudatovi e perciò furono dette anche Sudatori di Tritoli (il sudatolo). Al cratere di Tritoli, sul versante interno >ulla sponda occiden¬ tale del Lucrino si addossa una terrazza, di formazione sottomarina, ch’è un lembo di quella stessa terrazza, nominata la Starza, la quale (1) Signore F. Contributo allo studio geofisico della Solfatara, del Rione delle Mojete Stufe di Nerone. Annali R. Oss. Ves., voi. I, 1924. (2 Parafandola A. Osservazioni di temperatura nei Campi Flegrei il 17 Lu¬ glio 1929. Boll. Flegreo, anno V. 1930, fase. 1-2. pag. 37. — Io., Osservazioni di temperatura nella zona Rione delle mojete. Fusaro 1 11 agosto 1931. Boll. Flegreo, anno V, 1931. fase. 1-3, pag. 41. — Id.. Osservazioni di temperatura nei Campi Flegrei. Boll. Soc, Nat. Napoli, voi. XLVII. 1935. — Id., Il Rione delle Mofete nei Campi Flegrei. Boll. Soc. Nat. in Napoli, voi. XLVII1. 1936, pag. 81-94. ParascandoIla A. Su di alcune misure di temperatura eseguite nel Rione delle Mofete e nel cratere del Monte Nuovo nei Campi Flegrei. Boll. Soc. Nat. Nat. Napoli, voi XL. 1928, e Boll. Flegreo, anno III. fase. 1-2, 1929, pag. 30. m3) D’Erasmo G. / crateri della pozzolana. Loc. eit. Napoli, 1931, pag. 46-47. (4) Signore F. Contributo allo studio geofisico della Solfatara e del Rione delle Mofete-Stufe di Nerone . Ann. R. Oss. Ves., ser. III, voi. I, 1925, pag. 51. trovasi alle falde del Monte Gauro; ma già De Lorenzo e Simoto Mai 11) notarono estendersi fino ad ovest del Lucrino. Ho rinvenuto negli strati della terrazza della Starza (tav. X, fig. 2 e tav. XIV fig. 1) sul Lucrino le seguenti specie di molluschi: Ostrea edulis L., Murcx , PhiUotonus trunculus L., Cardium tuhercu- lutimi L., Tellina Sp. Oltre a ciò ho rinvenuto anche due ciottoli calcarei marnosi aventi la grandezza di una grossa noce, ed un pezzo di tufo verde della grandezza predetta. b) La collina della Ginestra è uno sperone che si protende fra P Averno ed il Lucrino, fino a poc o innanzi alle falde occidentali del Monte Nuovo (fig. 15 e tav. I, fig. 1; tav. Vili, fig. 1; tav. X, fig. 2). Ha direzione approssimativamente da occidente ad oriente. È alta in media m. 90. Risulta di tufo giallo. Probabilmente è uno sperone che divide due crateri: l’uno me¬ ridionale, poi occupato dalla porzione intermedia del Lucrino an¬ tico; l’altro settentrionale, smantellato poi dall’eruzione che formò l’ Averno. c) Il Monte del Pericolo (Fig. 15). — Della esistenza di questa collina io ho fatto parola quando si è trattato di dare gli estremi per comprendere la questione della configurazione del Lucrino alLepoca romana. Allora accennai che, con tutta probabilità, questa collina era un avanzo di un cratere di tufo giallo, in cui è scavata una grotta: tufo che evidentemente appartiene al Monte del Pericolo, seppellito dai detriti del Monte Nuovo. Ora confermo la mia idea. Questo tufo giallo è costituito da un fìtto impasto di minuto lapillo pumiceo di colore giallognolo od ap¬ pena grigiognolo, i cui elementi vanno dalla grandezza di un pisello a quella di una nocciuola; qui e lì vi sono lapilli lavici neri della grossezza media di una noce, nè mancano i caratteristici inclusi di (ufo verde (Fischia. Verso la parte esterna della grotta il tufo è dis¬ seminato di pomici un po’ più grosse delle precedenti, aventi la forma di piccole bombe. La direzione degli strati è da WNW a ESE; essi rappresentano probabilmente la quaquaversale esterna della parete orientale di un cratere preavernico, quale probabilmente era il Monte del Pericolo. Della ésistenza di questo monte prima della eruzione del Monte Nuovo abbiamo una notizia storica certa; la ricevemmo da Marcan¬ ti De Lorenzo G. e SÌmotÓmai H. t crateri del Monte Gauro nei Campi Fle- grei, Atti R. Acc, Se. fìs. e mat. Napoli, voi. XVI, ser. II. 284 — Tonio cèlli Falconi quando accennò alla valletta tra il Monte Bar¬ baro « et quel mohticello detto del pericolo ». Lo stesso Autore, nella descrizione che è al piede della figura da lui riportata, dice di una parte del Monte del Pericolo rimasta sotto il Monte Nuovo (vedi fig. 2, pag. 158). La parte del Monte del Pericolo che rimase fuori corrisponde a ciò che noi vediamo nella figura 1 della tav. X la quale è il fronte cavato di una parete tufacea che si prolungava in uno speroncino. Forse si trasse profitto della sua presenza, per cavarne tufo; giunti poi all’attuale fronte e non convenendo denudare il mantello piro¬ elàstico sov raimposto. lo scavo continuò in galleria costituendo Fat¬ tuale grotticella. Perchè fu chiamato Monte del Pericolo non è chiaro. Però mi soddisfa molto la spiegazione che Jacono me ne ha dato per lettera, ritenendo che quel monticello con le sue pendici sottomarine o co¬ munque nei suo complesso, costituendo un frangionde, era pericoloso alla navigazione con mare agitato, forse, nel volere imboccare il ca¬ nale dell’A verno, che tale monticello doveva fiancheggiare nel lato orientale. Jacono in una sua lettera del 20 settembre 1942 a me diretta, scrive: 51 s l_3 H ^ po * 13 « ^ > "© r- f- ~ — 288 — rii crateri di lufo giallo preavernici , formatisi prima dell 'Averno, il quale, come è noto, è di tufo grigo; ma anche esso alle sue basi lascia scorgere il tufo giallo di apparati precedenti (1). Queste colline preaverniche chiudono quasi un arco da occidente ad oriente passando per settentrione. Costituiscono una platea vul¬ canica del secondo periodo flegreo, continuatasi intorno a quello che in in seguito il bacino del Lucrino. Qualche edilìzio craterico probabilmente esisteva anche a mez¬ zogiorno; ma essendo a contatto col mare fu da questo, come tanti crateri flegrei, eroso e distrutto. Rimase L insenatura del cratere beante verso il mare; ma una diga di sabbia, accumulata dal moto ondoso, sbarrando l’apertura, trasformò il seno marino in lago: il Lucrino, verso il cui bacino occidentale si apriva il cratere di Tritoli, forse il meglio individuato tra i crateri preavernici e rappresentato dal- l’attuale Monterillo. Credo opportuno riportare quanto Niccolini (2), prevenendo le ricerche attuali, scrisse sulla formazione di questo cordone litorale, non solo, ma anche sulla topografia della zona precedentemente alla formazione del cordone stesso del Lucrino, intuendo tale studioso la formazione dei crateri preavernici, dallo spandersi dell’arco craterico, e dall’insediamento dell’ Averno. « lì morite Gauro . eruttato e rovinato in remotissima età, si ri¬ produsse in tempi parimente ignoti nel così detto Monte Grillo ; dalle cui rovine emerse il colle che . sprofondando pure , formò in principio un piccolo golfo restato visibile nei suoi termini estremi sporgenti in mare , già osservati nel promontorio dell9 Epitaffio e nei dintorni di villa Ruffo. Fra queste due proiezioni le onde sospinte poi dai venti marini, a poco a poco, innalzando le arene, a furia di tomboli , o dune parallele fra loro, formarono quella diga celebrata dagli antichi come opera di Ercole, la quale diede origine al lago Lucrino, separando le sue acque da quelle del mare. E prima ancora di ogni storica me¬ moria, nel centro delle tre enunciate eruzioni sorse il vulcano- dei precedenti più famigerato, poiché fu quello che nel suo immensu¬ rabile fondo accolse le acque del lago di Averno ». Questi crateri furono cesellati dalle forze esogene e furono a- vulsi dalle forze endogene, allorquando nel terzo periodo flegreo, sor¬ gendo l’Averno, venne questo ad insediarsi sulle forme preesistenti, (1) Di questi crateri, come deH’Averno, sarà particolarmente trattato in un la¬ voro in corso. (2) Niccoilinj A. Tavola metrica cronologica delle varie altezze tracciate dalla superficie del mare fra la costa di Amalfi ed il promontorio di Gaeta. Napoli, 1839, pag. 34. TAV. XIV. Fig. 1. — Porzione della terrazza della Starza, addossantesi alla collina di Tritoli. À. Parascandola. Il M. Nuovo ed il lago Lucrino. Fig. 2. — Il Lago Miseno (mar morto) in primo piano; il porto Miseno in -sere indo piano; il cordone litorale di Miliscola con la omonima spiaggia; il promon¬ torio di Miseno. — 589.— LE TRE FASI DEL SOLLEVAMENTO DEL G4URO I /-a fASF I crateri preayernici sono sotto il livello del mare e le onde non intaccano tali poni craterici, mentre battono contro l’isola del M. Gauro scolpendo la ter¬ razza superiore. II III La terrazza è emersa, erosa, i crateri preaverniei sono smantellati; il Lucrino si forma. Fig. 19. 19 le quali, come ho già accennato, fanno ancora emergere i loro spun¬ toni tufacei, dove più dove meno vistosi. Quando il cratere dell’ A- verno esplose, trovò già questa cerchia craterica appartenente agli antichi crateri di tufo giallo, sfondata sul lato che fu poi il confine sud-orientale, ossia l’attuale ingresso aH’Averno (Tav. XV, fig. 1). Questi vulcani preavernici quando si formarono? Sul fianco occidentale della collina di Tritoli, ossia sull’antica cerchia craterica interna del Lucrino, si appoggia la terrazza della Starza. Quindi la detta collina, di Tritoli, e la contigua collina della Ginestra sono anteriori alla formazione della Starza; e perciò questo cratere di Tritoli, e con esso i contigui crateri preavernici, debbono essersi formati per lo meno tra il primo ed il secondo periodo di sollevamento del Gauro. Se nel primo periodo di sollevamento (fig. 19, I) il Gauro, che nella sua altezza complessiva attuale è di 331 metri, emergeva per 131 metri dal mare, e dopo la seconda fase emergeva di 281 metri (fig. 19, II), durante tale intervallo i crateri preavernici, se già for¬ mati, rimanevano ancora sotto il pelo dell’acqua e non soggetti ancora all’azione degradatrice del mare. Solo alla fine della seconda fase 1 crateri preavernici affioravano. Nella terza fase di sollevamento (fig. 19, III), il Gauro si portò all’altezza attuale di 331 .metri, dei quali i primi 77 metri basali nel loro massimo spessore sono occupati dal” l’aceumulo del materiale della Starza. Durante questa terza fase del sollevamento dovettero emergere i crateri preavernici del Lucrino. Però la terrazza delia Starza non si appoggia sulla Ginestra, a nord del Lucrino. Evidentemente l’azione normale del moto ondoso l’ha qui distrutta, come ha distrutto il rilievo di tufo grigio che do¬ veva congiungere i due spuntoni tufacei dei primi crateri preavernici, ossi?} lo spuntone del tufo giallo della Ginestra e l'altro analogo ad oriente, ora sotto i materiali del Monte Nuovo. In conclusione, quando si deponeva la terrazza della Starza, la cerchia del cratere del Lucrino doveva essere già beante verso il mare. Ma per essere ridotta questa cerchia più o meno alle attuali condizioni dalla azione del mare, doveva già essere emersa una buona parte; tranne che non si voglia attribuire alla stessa zona, quantunque limitata, disuguale velocità nel sollevamento, còsa del resto possi¬ bile, anche il Gauro doveva essere interessato nello stesso solleva¬ mento. Sappiamo che la terrazza della Starza, mentre raggiunge l’al¬ tezza massima di circa 80 metri presso Pozzuoli, lent^pente degrada verso occidente sui 30 metri. Nella zona, ora occupata dal Lucrino, il materiale della terrazza, seguendo 1’ andamento topografico del fondo è rimasto sommerso. — à9ì — Dopo Demersione dei crateri prea vernici, su di essi cominciò l’a¬ zione distruttrice del mare, che sfondò il fianco meridionale della cerchia craterica. Il mare erose anche la fascia della terrazza della Starza che si estendeva tra il Monte del Pericolo e la collina di Tritoli; ne rimasero un lembo Orientale nella Montagnella e un lembo occidentale addos" sato alla collina di Tritoli sul fianco che dà sul Lucrino. Si formò quindi una profonda insenatura della costa, un seno di mare che costituì poi 1’ antico Lucrino quando il moto ondoso costruì una duna marittima tra gli speroni che oggi chiamiamo Punta dell’Epitaffio ad ovest e Punta della Bambinella ad est, in corrispon¬ denza dell’estremo meridionale del Monte del Pericolo. L’azione del moto ondoso continuò poi contro il setto tufaceo, che doveva pur congiungere il colle della Ginestra con i restanti spuntoni tufacei e- inergenti nella cerchia di Averno, si aprì un’altra breccia setten¬ trionale, nei crateri preavernici; sicché quando nel terzo periodo sub- aereo dei Campi Flegrei s’ insediò il materiale tufaceo bigio, la breccia verso l’insenatura dell’Averno era già aperta, e gli agenti esterni dell’erosione meteorica e marina avulsero questo materiale, ed il mare libero ondeggiò tra il seno del Lucrino e il cratere del- 1 ’Averno. Possiamo quindi concludere che nella zona del Lucrino preesisteva una cerchia di edilìzi craterici litorali a sud-ovest del Gauro; tra i quali il più occidentale possiamo ben chiamare cratere di Tritoli. Quando, come per tanti altri crateri flegrei, il mare demolì in parte questa cerchia, l’acqua la invase, si formò un seno di mare, come attualmente è il porto di Nisida ; quindi col moto ondoso si formò il cordone litorale; il seno marino diventò lago : il Lucrino. IV. — Il Lucrino era distinto dal Lago Baiano? Per gli elementi della discussione è utile tenere presente che l’attuale golfo di Baia è compreso tra la Punta dell’Epitaffio e il Tempio di Venere. Esso ebbe dagli storici differenti nomi: sinus ba ianus. lacus baianus, portus baiami s, stagnimi baianum. probabilmente secondo le condizioni in cui il bacino si trovava ; onde spesso, quando è ricordato dagli scrittori, è specificato sotto un nome e sotto un al¬ tro, e si può cadere in equivoco. Nondimeno storici e studiosi mo¬ derni sono sicuri che un lacus Bai ami s fosse distinto dal lacus Lu¬ crimi* come nome e come realtà geografica. Tacito (1) nettamente distingue un lago Baiano ed un lago Lu- (1) T 4cito, Annales, lib. XIV, eap. 4 e 5. — 292 — crino. Egli dice che Nerone, andato incontro alla madre, la condusse a Bauli, e che tale era il nome di una villa tra il capo Miseno ed il lago Baiano che un seno di mare lambisce: cc ducitque Baulos . lei vii - lae nomen est quac promontorium Misenum inter et haianum lacum flexo mari adluitur ». Più oltre, parlando del naufragio della nave di Agrippina, dice che venne trasportata dai sopraggiunti barcaiuoli al lago Lucrino, e di là nella villa: a Nando , deind.e , occorsa lenun- culorum , Lucrinum in lacum verta , villae suae infertur ». Da queste ultime citate parole di Tacito sembra chiaro che i barcaiuoli attra¬ versarono il Lucrino per il canale navigabile, e condussero Agrippina alla sua villa, la quale doveva forse trovarsi sull’opposta sponda di fronte al cordone litorale. Quindi Tacito ben distingue un lacus Baianus da un lacus Lu- rrinus e mette Bauli tra il promontorio di Miseno e il lago Baiano. Se si volesse dare il nome di lago Baiano a tutto lo specchio d’acqua che va da capo Miseno a punta Epitaffio, ossia a quello spec¬ chio d’acqua che chiamasi anche seno Baiano, non sarebbe chiaro come mai Bauli dovesse essere compresa tra il capo Miseno e il lago Baiano, secondo scrive Tacito. Poiché dunque Bauli, colla sua lieve insenatura, è compresa tra il capo Miseno e il lago Baiano, il Lucrino viene a trovarsi fuori di questo grande arco, mentre ne rimane incluso il lago Baiano. È vero che del lago Baiano non abbiamo altri ragguagli; doveva forse essere m « •« J» £ « « » l'tì ■fca O JW oo ■Il (Marita geologica dèi M. Nuovo = Scala 1:10. ODO. La fascia róssa corrisponde òlla gettata di blocchi lavici e scorie del 6 ottobre 1538. I numeri nèi cerchietti indicano le massime temperature misurate. A. Parascandola. Il M. Nuovo ed il Sezioni geologiche attraverso il eratere del M. Nuovo • Scala 1:10.000. La sezione superiore (N.S.) mostra la dosimetria di costituzione dei versanti, l’ ab¬ bassamento dell’orlo meridionale e l’asporto del materiale cinereo pumieeo, per la gettata di blocchi lavici e scorie, alla di cui base il tufo grigio già si volge in giallo. La sezione inferiore (E.W.) mostra la simmetria di costituzione, col mantello di scorie ugualmente distribuito. Bollettino della Società dei Naturalisti in Napoli PROCES DELLE 5 1 VERBALI ADUNANZE PROCESSI VERBALI DELLE TORNATE ORDINARIE ED ASSEMBLEE GENERALI Assemblea generale dei giorni 27 e 28 Aprile 1945 11 27 Aprile 1945, alle ore 15 in prima convocazione e alle ore 15,30, in se- conda, si è riunita la Società in Assemblea ' Generale, presieduta dal socio Prof. U. Pierantomi e tal’uopo delegato dal Commissario Prof. A. Carrelli. Sono .pre¬ senti i soci: Palombi, Majo, Signore, De Lernia, Camera, Paraseandola, Tarsia, Caroli, Salii, Malquori, Califano, Dohrn, Torelli, D’ Erasmo, De Dominicis, D’A- quino, Montalenti, Ippolito, Plalania, Castaldi, Guadagno, Goggio, Fiore, Gior¬ dani, Bakumin, Della Ragione, Imbò, Ruggiero, Antonucci. Il Presidente apre la seduta alle ore 15,40 e col parere favorevole dei presenti invita il socio Prof. M. Salii a funzionare da Segretario. 11 Presidente informa i soci sulle vicende della Biblioteca, del mobilio e dei locali. I danni subiti dalla Biblioteca, per quanto si riferisce ai libri, non sono perfettamente precisabili, dato che i libri inventariati e lo schedario, compreso Pappo sito mobile, non furono ri¬ trovati. I mobili furono per la maggior parte asportati. Il Presidente comunica inoltre che, durante la permanenza del Governo Al¬ leato, fu dall’Ufficio dell’Edueazione del medesimo presa in esame la situazione della Società e venne formulato un nuovo Statuto in base a principi democratici, tenendo presenti sopratutto i vecchi Statuti dal 1881 al 1914. Per quanto si riferisce ai Soci furono considerati come tali tutti i Soci appartenenti alla Società prima della riforma del 1941 e tutti quelli nominati dopo di questa. 11 Presidente invita il Segretario a dar lettura dei 16 articoli dello Statuto, facendo rilevare l’elasticità di taluni tra di essi, e più particolarmente dell’ art. 15 che ne permette le eventuali modifiche. L’Assemblea è d’accordo nell’iniziare i la¬ vori di questo nuovo periodo della vita sociale in base allo Statuto letto dal Se¬ gretario', salvo ad apportarvi, a suo tempo, quelle modifiche che potranno ritenersi opportune. A norma delFart. 4 il Presidente indice le elezioni delle cariche sociali e cioè: Presidente, Vice Presidente, Segretario e 4 Consiglieri. — Constatato che il numero dei presenti è di 31, numero che non raggiunge i 2/3 dei soci residenti che è di 65, rimanda, a norma dello stesso articolo, le operazioni elettorali al giorno -seguente di sabato 28 Aprile alla stessa ora. Si procede alla designazione dei com¬ ponenti il seggio elettorale nelle persone dei soci Prof. E. Pannain, presidente; B. De Lernia ed A. Antonucci, scrutatori. La seduta è '.olta alle ore 17 ed è ripresa alle ore 15 del 28 Aprile, per le sole operazioni elettorali. Alle ore 15 del detto giorno il presidente dell’ Assemblea — 316 — Prof. U. Pierantoni, assistito dal Segretario Prof, M. Saffi, insedia il seggio e si dà principio alla votazione con l’accordo preciso di tenere l’urna aperta fino alle ore 17. Intervengono e votano i seguenti 29 soci: Antonucci, Torelli, Montalenti, Majo, Andreotti. Palombi, Cosomati, Castaldi, Ruggiero Lolia, Ruggiero Placido, Platania, De Lerma, Ippolito, Parascandola, Guadagno, Cablano, Dohrn, Caroli, D’Erasmo, Della Ragione, Malquori, Giordani, Fiore, Goggio, Tarsia, Imbò, Pan- nain, Pierantoni. Saffi. Alle ore 17 il Presidente del seggio dichiara chiusa la votazione. Si eseguono le operazioni di scrutinio delle quali, dal seggio, viene redatto apposito verbale. Vengono eletti: Presidente : Prof. Umberto Pierantoni voti 28 Vice Presidente: Prof. Geremia D’Erasmo » 28 Segretario ; Prof. Mario Sailfi » 29 Consigliere : Prof. Antonio Parascandola » 27 » Prof. Giuseppe MontalÉnti » 25 » Prof. Baldassare De Lerma » 23 » Prof. Ernesto Pannain » 17 La seduta è tolta alle ore 18. Assemblea generale del 14 Giugno 1945 Presidente: U. Pierantoni. Segretario: M. Salfi Sono presenti i Soci: Antonucci? Augusti, Castaldi, D’Erasmo, Ippolito, An¬ dreotti, Majo Ida, Bakunin, Platania, Torelli, Montalenti, Parascandola, Goggio, Della Ragione, Fiore, Palombi, Pannain. La seduta è aperta in seconda convocazione alle ore 1*6,45 . Il Segretario legge a nome del Socio Imbò un lavoro dal titolo: Il nuovo a- spetto del cono vesuviano dopo il parossismo dell’ aiuto 1944, e ne chiede la pubbli¬ cazione a nome dell’autore. Il socio Ippolito legge un lavoro dal titolo: A pro¬ posito del problema delle migmatiti, e ne chiede la pubblicazione nel Bollettino. La seduta è tolta alle ore 18,45. Tornata ordinaria del 28 Novembre 1945 Presidente: U. Pierantoni Segretario: M. Salpi Sono presenti i soci: Augusti, La Greca, Caroli, Longo Biagio, Scherillo, Pa¬ rascandola, Biondi, Mazzarelli Gustavo, Moncharmont, D’Erasmo, Della Ragione, Califano, Montalenti, Torelli, Ippolito, Bakunin, Pannain. La seduta è aperta alle ore 16. Il Presidente dà la parola al socio La Greca, che svolge la sua comunicazione dal litoio: Il brockitterismo negli Ortotteri; e ne chiede la pubblicazione nel Bol¬ lettino. Seguono, anche per l’inserzione nel Bollettino, le comunicazioni del socio Augusti dal titolo; Ricerche spi colori di alcuni affreschi nella chiesa superiore di S. Francesco in Assisi, e quella del socio Ippolito : Segnalazione di un'argilla in lenimento di Pimonte (penisola sorrentina). La seduta è tolta alle ore 17,30. Assemblea generale del 28 Dicembre 1945 Presidente: U. Pierantoni Segretario: M. Salfi Sono preseiati i soci: Palombi, D’Erasmo, Torelli, Califano, Loaigo Biagio, Pannain, Augusti, Mazzarelli Gustavo, La Greca, De Pernia, Moncharmont, Mon¬ talenti, Antonucci, Co vello, Della Ragione, Fiore, Scherillo. La seduta è aperta alle ore 16. Il soeio Pannain legge una nota sulla Teoria elettronica della valenza. 11 socio Augusti comunica una osservazione sul Fazione dei microrganismi e dei parassiti sui dipinti murali. Il socio Mazzarelli presenta due note: Su i rilievi vulcanici e Sul terremoto del 1836 del Mediterraneo. L’assemblea airunanimità ammette i seguenti (nuovi soci proposti dal Con¬ siglio Direttivo: Prof. Pannain Lea, Prof. Rovesti Guido, Prof. De Rosa Antonio, Prof. Lazzari Antonio, Prof. Reverberi Giuseppe, Prof. Lucchese Elio, Prof. Monroy Alberto. La seduta è tolta alle ore 18. Tornata ordinaria del 30 Gennaio 1946 Presidente: U. Pierantoni Segretario: M. Sailfi Sono presenti i Soci: Scherillo, D’Erasmo, Lazzari, Montalenti, Giordani, Bakunin, Augusti, De Lentia, Della Ragione, Moncharmont, Parascandola, De Rosa, La Greca, Mazzarelli, La seduta è aperta alle ore 17. 11 Presidente comunica che il Consiglio Direttivo ha stabilito di bandire il concorso a due Borse di studio, di L. 1500 ciascuna, una per gli studenti di III ed una per gli studenti di IV anno di Scienze Naturali. Informa altresì che è stato bandito il concorso al premio Della Valle per l’importo di L. 2000. Il Presidente comunica che il Consiglio' Direttivo è venuto nella determina¬ zione di riprendere un'antica tradizione del Circolo degli Aspiranti Naturalisti, e cioè di effettuare escursioni scientifiche, ai fini di esplorare dal punto di vista naturalistico le nostre regioni meridionali. Il socio La Greca fa una comunicazione su « Alcuni casi teratologici negli Ortotteri » e ne chiede la pubblicazione nel Bol¬ lettino. Il socio Montalenti illustra Reperti di nuclei di particolare natura osservati negli I so podi. La seduta è tolta alle ore 18,15, — 318 — Assemblea generale del 27 febbraio 1946 Presidente : U. Pierantoni Segretario : M. Salfi Sono presenti i soci: Caroli, Palombi, Paraseandola, Califano, Torelli, De Lerma, Della Ragione, La Greca, Antonucci, Moncharmont, Giordani, D’Erasmo, Lazzari, Bakunin. Imbò, Palina in Ernesto, Pannain Lea, Reverberi, Monroy, Luc¬ chese. La seduta è aperta alle ore 17. Il Presidente comunica la perdita della socia Lelia Ruggiero e informa che a nome della Società ha inviato al fratello Ing. Placido le più vive condoglianze. Il Prof. Pannain prende la parola per svolgere il seguito delle sue comuni¬ cazioni Sulla teoria elettronici della valenza. 11 Presidente dà la parola ai revisori dei conti, ed il socio La Greca legge le relazioni sui bilanci consuntivi 1943-45. Il Presidente illustra il bilancio preventivo 1946. I detti bilanci sono approvati all’unanimità La seduta è tolta alle ore 18,30. Tornata ordinaria del 27 Marzo 1946 Presidente : U. Pierantoni * Segretario : M. Salfi Sono presenti i soci: Caroli, Moncharmont. Ruggiero, Mazzarelli, De Rosa, Palombi, Paraseandola, Antonucci, Torelli. D’Erasmo, La Greca. La seduta è aperta alle ore 17,30. Il Presidente comunica la decisione presa dal Consiglio Direttivo, su pro¬ posta del Consigliere Montalenti, perchè i soci riferiscano circa i risultati di la¬ vori comparsi nella stampa scientifica. 11 Segretario informa brevemente circa la prima gita a scopo di escursione scientifica fatta dai Soci Moncharmont e La Greca alla grotta di S. Michele presso Olevano nel Tusciano. La seduta è tolta alle ore 18. Tornata ordinaria del 29 Maggio 1946 Presidente : U. Pierantoni Segretario: M. Salfi Sono presenti i soci: Lazzari, Califano, D’Erasmo, Paraseandola, Antonucci, Moncharmont, Scherillo, Della Ragione, De Rosa, Fiore, La Greca, Montalenti. La seduta è aperta alle ore 17,30. I soci La Greca e Lazzari riferiscono sulle escursioni compiute nella grotta di Vico Equense e nella grotta dei Pipistrelli presso Nola, dando notizie preli¬ minari, geologiche e faunistiche. — 319 Il socio Parascandola legge una noia del socio Alfano dal litoio: Sulla inop¬ portunità di modificare la nomenclatura classica tradizionale delle fasi vulcaniche e no chiede la pubblicazione nel Bollettino a nome delFautore. La seduta è tolta alle ore 18. Tornata ordinaria del 26 Giugno 1946 Presidente: ;U. Pierantoni Segretario: M. Salfi Sono presenti i soci: Montalonti, Schernite, Caroli, Parascandola, Torelli, An¬ tonucci, D’Erasmo, Covello, Pannate, Dohrn, Monroy, Reverberi, Patroni, Laz¬ zari, Fiore, De Rosa, Califano, Moncharmont, Della Ragione, La Greca, De Lerma. La seduta è aperta alte ore 17,30, 11 Presidente, dà la parola al socio Montalenti, che riferisce sulle recenti ri¬ cerche sul meccanismo della mitosi in rapporto al problema del cancro. Il socio Lazzari dà notizie Sulla fauna elveziana del Mali Gurdezes in Albania. A nome del socio Parenzan il socio De Lenna riassume una nota dal titolo: Contributo alla conoscenza del fungo parassita : Blastocystìs hominìs. Il Segretario a nome delFautore legge una nota del socio non residente Sorrentino dal titolo: Esame preventivo delle forme assegnate alla famiglia Phylloceratidae Zittel. Il socio Pa¬ rascandola comunica sue Osservazioni sull’attività della Solfatara e su alcune de¬ duzioni che se ne ricavano. La seduta è tolta alte ore 19,30. Tornata ordinaria dei 27 Novembre 1947 Presidente: U. Pierantoni Segretario: M. SalfI Sono presenti i soci: Antonucci, Caroli, Parenzan. Iovene, Torelli. Scheiillo, Ruggiero, De Rosa, Parisi, Mazzareìli, Moncharmont, D’ Erasmo, Della Ragione. Ippolito . La seduta è aperta alle ore 17. Il Presidente dà la parola al socio Parenzan che legge una comunicazione dal Molo: Sarcosporidiosi da nuova specie in rettile. Il socio Iovene comunica: Os¬ servazioni sulle mofete vesuviane apparse in occasione delV ultimo parossismo vul¬ canico. Il socio Ippolito dà notizia dei: Primi risultati di studi geologici eseguiti in Calabria nel 1946. Si passa alla votazione per F ammissione a nuovi soci. Vengono eletti a soci ordinari residenti la doti. Zei Maria, la prof. Orrù Antonietta, il dott. Bacci Guido, tutti all’unanimità. A soci ordinari non residenti risultano eletti il dott. Ruffo Sandro all’unanimità' e i dott. ri Napolitano Aldo e Romano Giuseppe a maggioranza. -r 320 — Tornata ordinaria del 30 Dicembre 1946 Presidente: U. Pierantoni Segretario: M. Salfi Sono presenti i soci: Seherillo, Augusti, Signore, Co vello, Moncharmont, La Greca, Caroli, D’ Erasmo, Lazzari, Palombi. Ruggiero, Antonucci, Mazzarelli, Della Ragione, Parisi. La seduta è aperta alle ore 17. , Il Segretario legge, a nome dell’autrice, una nota della socia Lea Pannain dal titolo: La struttura dell’ atomo e il sistema periodico degli elementi. Il socio La Greca, anche a nome dei soci Lazzari e Moncharmont, dà lettura della Relazione sull’attività del Centro Speleologico durante il 1946. Il socio Seherillo legge urna nota Sui vulcani Sabatini e a nome del socio Parascandola legge una nota: Sullo stato attuale del cratere del Vesuvio. Il socio Mazzarelli presenta una Nota Sul fenomeno dei « sorgimenti d’acqua e delle macchie d’olio » nelle acque dello stretto di Messina, e un’altra nota Sul fenomeno delle « Scale di mare » nelle acque dello stretto di Messitia. Il socio De Rosa presenta una nota: Sulla forma della testa del neonato. Il socio Lazzari espone: Un metodo d’interpretazione geologico- stratigrafica di profili sismici. Vengono eletti a Revisori dei conti i soci Della Ragione Gennaro e Lazzari Antonio, e a revisore supplente Antonucci Achille. La seduta è tolta alle ore 18,30. / d M ì ■ . . • . ~\ • BOLLETTINO DELLA DEI NATURALISTI ITV NAPOLI VOLUME LV1 - 1947 (Pubblicato il 30 giugno 1948) con 1 tavola e 38 figure intercalate N A P O L 8 T A BILI M K N T O TIPOGRAFICO G. G K N O V K S K Pallonetto S. Chiara, 22 - Telai 22-5^ / FEB 2 3 1986 IFEB 2, 71950 BOLLETTINO SELLA SOCIETÀ DEI NATURALISTI W NAPOLI VOLUME LVI - 1947 (Pubblicato il 30 giugno 1948) con 1 tavola e 38 figure intercalate NAPOLI T A B ILIMBNTO TIPOGRAFICO G. Pallonetto S. Chiara, 22 - Telef 22-568 1-948 (xENOVKSK INDICE ATTI MEMORIE, NOTE E COMUNICAZIONI PlatanIa G. — In memoria della Doti. Lelia Ruggiero .... pag. 3 Lazzari A. | — Sopra un singolare tipo di marmitta costiera in provincia Parascandola A. — Notizie vesuviane: Lo stato del Vesuvio nel 18 e 25 marzo' 1947 » 12 Ippolito F. — Sulla Geotecnica . » 17 De Lerma B, — Immagini di secrezione nell’organo frontale mediale di Ctenolepismu Targionii (Grassi et Rov.) . . ... . » 23 La Greca M. — La forma del 'pronoto degli Ortotteri Saltatori e la sua funzione nei movimenti di apertura e chiusura delle tegmine . . » 26 Parascandola A. — Contributo alla geologia del Somma. Segnalazioni di antiche lave . v. . ...» 31 Caroli E. — Sulla presenza di Processa aequimana (Paulson) nel Golfo di Napoli . . . . . . . . . . . . » 34 Parascandola A. - — Notizie vesuviane: Lo stato attuale del Vesuvio' (20 luglio 1947) . . . . . . . . . . . » 37 Pannain L. — Determinazione iodometrica delPalluminio . . . » 42 Parascandola A. — Osservazioni sul cretaceo e terziario nella penisola sorrentina . . . . . . . » 46 De Rosa A. — Sulla craniologia degli Etruschi . » 52 Parascandola A. — Sopra alcune concrezioni che si rinvengono nella Breccia-Museo' della Punta della Lingua (Isola di Procida) . . » 65 Parascandola A. — Osservazioni sull’attività post-vulcanica nella zona occidentale di Napoli . . . . . . . .- . » 70 Parascandola A. — Osservazioni geologiche sui monti di Cava . . » 74 Parascandola A. — Osservazioni geologiche sui calcari di S. Vito e di Fasano in provincia di Brindisi . » 77 Parascandola A. — Sulla presenza dell’acido solforico libero al Vesuvio e nei Campi Flegrei (Solfatara ed Agnano) r • * . . » 81 IV Lazzari A. Antiche cavità di erosione marina in località « La Rinusa » presso Castro iprov. di Lecce) ........ pag. Ippolito F. — Segnalazione di una roccia vulcanica nel sottosuolo cam- . pano a nord del Lago di Patria ...... . . » (Ippolito F. — Recenti dati sull’età della terra . .... » De Rosa Ai — Morfologia delle corone dentarie nei molari umani . » ImbÒ G. — Considerazioni ed osservazioni comprovanti che l’eruzione del 1944 fu terminale . . . . . . . * . . » ImbÒ G. — Considerazioni a proposito delle recenti eruzioni etnee . . » Parascandola A. — Se sia stato esclusivamente terminale l’efflusso lavico nella eruzione vesuviana del marzo 1944 . ...... STUDI SPELEOLOGICI E FAUNISTICI SULL’ITALIA MERIDIONALE 1. Salfi M. — Introduzione ......... pag. 2. Lombardini G. — Acari di alcune grotte della Campania . . . » 3. La Greca M. — Su due specie di Cyrtachantacrinae i Orthopterq) nuove per l’Italia peninsulare, con note ecologiche . . . . » 4. Ruffo S. — Hadzia minuta n. sp. ( Hadziidae ) e Salentinella gradi¬ li ma n. gen. n. sp. i (Gammaridaè), nuovi Antìpodi troglohi dellTta- lia meridionale . . » 5. Ruffo S. — Una nuova specie cavernicola di Balhysciola Jeanm (s. str.) (Col. CatOpidae) dell’Italia meridionale ... » 6 Lazzari A. — Sopra un fenomeno di idrografia sotterranea osservabile nella grotta Zinzulusa presso Castro (Lecce) . . ... » PROCESSI VERBALI DELLE ADUNANZE Processi verbali delle tornate del 1947 . . . pag. 85 93 95 100 110 127 141 165 167 174 178 189 192 199 Bollettino della Società dei Naturalisti in Napoli ATTI (MEMORIE E NOTE) IN MEMORIA DELLA DOTT. LELIA RUGGIERO Commemorazione pronunziata dal Prof. Giovanni Platania (Tornata del 29 gennaio 1947) 11 22 febbraio 1946, dopo lunga e penosa malattia, chiudeva la sua vita terrena la Consocia Sig.na Dott. Lelia Ruggiero, nata a Messina il 6 settembre 1893. Dal padre Benedetto e dalla madre Felicia Ma¬ rino, fu educata nell’atmosfera di una famiglia esemplare di nobile discendenza. Frequentò le scuole elementari dal 1900 al 1905, dopo le quali aveva iniziato i corsi secondari privati presso una scuola di suore, avendo dovuto sospendere la frequenza delle scuole pubbliche per dissesti finanziari in famiglia e perchè fu chiesta in isposa giova¬ nissima nello agosto del 1908. Ma nel fatale terremoto del 28 dicem¬ bre 1908, perdette la madre ed una sorella, e, salvata fra le macerie della casa col padre ed altre due sorelle, fu condotta a Napoli e rico¬ verata all’Istituto S. Eligio. Non erano però finite le persecuzioni della sorte avversa poiché, poco dopo, decedevano per le ferite il padre ed una delle sorelle, Concettina, cosicché Ella rimase assieme alla su¬ perstite Maria affidata dal Patronato Regina Elena e dal fratello Ing. Placido, all’Istituto predetto. Ivi completò gli studi secondari, con¬ seguendo nel giugno 1916 presso l’Istituto S. Orsola Benincasa la li¬ cenza e l’abilitazione Magistrale Superiore. Attratta dalla passione per gli studi superiori ed in ispecie delle scienze naturali, con tenace sforzo di volontà conseguì l’anno succes¬ sivo la licenza fisico-matematica che le permise di accedere alla Uni¬ versità ove il 31 luglio 1921 fu laureata Dottoressa in chimica e, non contenta, volle conseguire il diploma in Farmacia che le fu rilasciato il 1923. Contemporaneamente aveva cominciato a prodigarsi in attività professionali frequentando: dal 1918 al 1922 con mansioni di concetto — 4 il Servizio Idrografico di Napoli, al quale dette poi la sua consulenza chimica saltuaria fino al 1939; dal 1922 al 29, come assistente volon¬ taria retribuita, la Stazione sperimentale di chimica agraria della Fa¬ coltà di Agraria di Portici dove vinse anche il concorso nel 1924 al posto di ruolo che non potè ricoprire avendo dovuto essere preferito altro concorrente ex combattente; per tre mesi il posto di Assistente retribuita alla Stazione Sperimentale di Ceramica, prima autonoma poi passata all’Alessandro Volta, cessandone il servizio con la soppres¬ sione della Stazione, Diede inoltre la direzione tecnica alla Farmacia Vittozzi negli anni 1922 e 23, ed impartì lezioni private di Fisica, Scienze Naturali, e Matematica al S. Eligio negli anni dal 1918 al 22. Il 16 marzo 1928 fu iscritta all’albo dei periti giudiziari-chimici. Il 16 febbraio 1929, avendo vinto il relativo concorso, assunse il posto di Chimica Assistente al Gabinetto di Igiene e Profilassi del Comune di Napoli, passato poi per legge alle dipendenze della Am¬ ministrazione Provinciale ed in esso prestò servizio fino alla morte ricoprendo successivamente il posto di chimica coadiutrice, e dal 1942 la direzione ad interim del Laboratorio stesso. In tale posto si occupò essenzialmente di ricerche di chimica bromatologica per la sorvegliata za delle sostanze alimentari, e della Centrale Municipale del Latte. Fu ammessa socia ordinaria nella Società Naturalisti il 29.2.932 e frequentò assiduamente i lavori seguendoli anche in ispirilo o at¬ traverso le relazioni del fratello, durante la parentesi in cui per una errata disposizione, Ella insieme ad altri soci era stata estromessa dalla vita della Società, nella quale riprese il suo posto quando venne ret¬ tificato l’errore. Pur oberata da enorme lavoro professionale fu angelo tutelare della sua casa presso il fratello di cui predilesse crearsi valido soste¬ gno morale, rinunziando a diverse occasioni di formarsi una famiglia propria, anche per una innata prevenzione contro l’umanità, in cui vedeva più pericoli che gioie. A questo pessimismo avevano certo influito le sventure passate, e specie la terrificante depressione da cui fu presa quando il 5.10.924, per una disgrazia di laboratorio, vide stroncata la esistenza della so¬ rella minore, superstite, Maria dott.ssa in Chimica anche lei, e che con Essa aveva diviso le ansie delle scuole in cui la seguì sempre ad un anno di distanza. Dotata di una salute perfetta che non conobbe mai infermità an¬ che leggera, pur avendo subito tutte le emozioni di bombardamenti e della guerra in Napoli che non lasciò per un solo istante, dopo aver superato felicemente un breve male nelFautunno del 1943, nell’aprile del 1945 dovette mettersi a letto immobilizzata così per 8 mesi da 5 — atroce morbo che la tolse ai vivi alle ore 0.10 del 22 febbraio 1946. Sopportò con serafica rassegnazione e grandissima forza d’animo le sofferenze inaudite di un male indefinito, ribelle a tutte le risorse della scienza e per il quale rimase il dubbio non fosse stata estranea quale causa determinante, qualche infezione contratta nelle numerose analisi di generi provenienti dalle mille fonti esotiche che alimenta rono la guerra. Malgrado il poco tempo disponibile la Dott.ssa Ruggiero, in co¬ munione di spirito col fratello, si appassionò ad alcune iniziative scientifiche ed umanitarie. Dal 1941 per prepararsi ad un Concorso nell’Amministrazione, aveva curata la elaborazione di una memoria in cui utilizzava la lunga esperienza professionale, dal titolo: co 11 latte neWigiene », pubblicazione di cui aveva intrapreso la copiatura a macchina in ufficio nelle ore di libertà concessale dal lavoro. Di tale memoria, che il fratello seguì, e che era densa di dati, tabelle e bi¬ bliografia non fu possibile trovar traccia dopo la sua morte nè in casa nè in Ufficio, dove, alquante sue cose, lasciate all’inizio della malat¬ tia, andarono disperse. Col fratello aveva intrapreso ricerche sull’istiiito curativo degli animali; inoltre mi fu preziosissima collaboratrice per uno studio su¬ gli effetti luminescenti della radioemanazione, eccitati dalla luce di Wood; tali esperimenti, iniziati felicemente furono successivamente continuati da Lei sola, e dettero una grande messe di risultati oltre¬ modo interessanti, che se non fossero stati tutti dispersi, avrebbero notevolmente contribuito alla costruzione di un apparecchio fotome¬ trico per la rapida determinazione del tenore di radon nei miscugli di acqua radioattiva. Amò molto viaggiare e col fratello visitò quasi tutta l’Europa Oc¬ cidentale raccogliendo una lunga documentazione fotografica e fila¬ telica Infine fu nel 1945 socia fondatrice, col fratello, della Fonda¬ zione Cooperativa per l’Assistenza al Bisogno Celato, di cui studiò la parte dell’organizzazione femminile e si propose di esserne Damma se la morte non ne avesse interrotta l’opera iniziata tanto fattivamente. Irresistibilmente attratta dall’ attività scientifica professionale, Ella visse anche intensamente la vita semplice della casa nella quale prodigò, con piena dedizione, le sue migliori energie affettive; nei rapporti sociali si impose alla considerazione ed al rispetto dei col¬ leghi per la sua dottrina, cortesia di modi e per il prestigio della sua vita intemerata. Sopra un singolare tipo di marmitta costiera in provincia di Lecce Nota del socio^Antonio Lazzari (Tornata del 26 febbraio 1947) Quel tratto di costa salentina che va da Otranto a S. Maria di Leuca è costituito, a differenza delle rimanenti porzioni, quasi daper- tutto da calcari compatti, qua e là visibilmente stratificati, ascrivi¬ bili al Cretaceo superiore ed all’Eocene superiore. L’uniformità lito¬ logica di tali sedimenti, che, per quanto di età diversa, si presentano con identico aspetto macroscopico, è in parecchi punti interrotta da depositi di calcari organogeni post-pliocenici, del tipo del carparo , e, presso Badisco (fra S. Cesaria ed Otranto) da un lembo di Oligocene, la cui ricca fauna a Lepidocyclina ed Echinidi è in corso di studio da parte dell’autore di questa nota. Questa fascia calcarea, che cinge ad oriente la penisola salentina, è aspra ed accidentata e mostra alla superficie bene visibili gli effetti tanto dell’azione delle acque superficiali, con la formazione dei carat¬ teristici Karrenfelder, quanto del potere solvente delle acque sotter¬ ranee che vanno al mare ed hanno determinato la formazione di belle ed estese grotte, quale, ad es. la cc Zinzulusa », ed infine anche del¬ ibazione demolitrice delle onde, che hanno portato al formarsi di grotte marine senza l’intervento delle acque sotterranee (Pai umiliar a, Ritunna, Ritunneddha ecc.). Ma l’azione del mare è visibile anche nelle numerose marmitte costiere, che è dato osservare qua e là, delle quali qualcuna, come ad es. quelle di Grotta Romanelli presso Castro, e quelle segnalate da Sacco presso il porto di Tricase (1), si trovano attualmente ad alcuni metri sul livello del mare, indicando con ciò che in tempi non molto remoti un movimento badisismico negativo ha portato in alto quel che prima si trovava presso la superficie delle acque marine. Fra le marmitte costiere di cui è ricco il litorale fra Otranto (1) Sacco F., La Puglia. Boll. Soc. Geol. It., voi, XXX, pag. 596, Roma, 1911. — 7 — e Leuca, una ve ne è che costituisce un esempio del tutto particolare di tale fenomeno, ed è precisamente quella che si osserva nel tratto di costa fra Castro e Tricase, alla distanza di circa 300 m. a Nord della piccola insenatura detta, secondo la toponomastica marinaresca lo¬ cale, (c la Rinusa ». Poiché, mi risulta, in base alla letteratura che ho avuto la possi¬ bilità di consultare, che nessuna segnalazione di marmitte costiere del genere sia stata mai fatta, ritengo utile riportarne una breve de¬ scrizione, sembrandomi di un certo interesse il fenomeno osservato. A chi, uscendo in barca dal porticciuolo di Castro, si spinga al largo per un paio di chilometri, e volga lo sguardo alla costa occiden¬ tale dell’ampia insenatura che ha i suoi estremi al Capo Palascia al Nord ed a quello di S. Maria di Leuca a Sud, appare, a livello del mare, una chiazza il cui fulgente biancore, riverberando la luce del sole, rompe in monotono grigio-azzurrognolo, che assumono i calcari compatti lungo il litorale. Tale diversità di aspetto è dovuta al fatto che in località c( Le Cucule » (1), a poca distanza da « La Rinusa », presso il mare e ad un livello di un paio di metri superiore a questo, in una specie di conca a contorno irregolare, e poco depressa rispetto alle rocce cir¬ costanti, si trova un gran numero di massi e soprattutto grossi ciot¬ toli calcarei, a superficie in tutto od in parte liscia, e generalmente così levigati ed arrotondati, da avere del tutto perduta la caratteristica patina grigio-azzurrognola normalmente assunta dai calcari per azione degli agenti atmosferici e della salsedine- Nel suo complesso, tutto questo apparato costiero va senz’altro riferito ad un singolare tipo di marmitta; e ciò è dimostrato dall’in¬ sieme, anche se si discosta notevolmente dal classico tipo della mar¬ mitta costiera ben noto nella letteratura scientifica. La conca, che è di forma molto irregolare, e che nel suo com¬ plesso ha le dimensioni medie di m. 25 x 20, si può considerare divisa in due parti distinte, per la presenza di una discontinua barriera di roccia in posto. Nell# porzione anteriore, prospiciente al mare e da questo divisa da una sorta di muraglia aperta qua e là, il numero dei ciottoli è scarso, forse perchè l’azione più violenta delle onde ne de¬ termina rapidamente la distruzione; a meno di non volere ammet¬ tere che i ciottoli stessi vengano via via sospinti verso la porzione re¬ trostante della conca, ove se ne trovano in grande abbondanza. Di- (1) Nel dialetto leccese « cucili a » significa boccia da giuoco, ed il nome della località deriva senza dubbio dalla presenza di numerosi massi e grossi ciottoli, a superficie più o meno arrotomdata, sì da avere l’aspetto di grosse bocce. — 8 — fatti, su una superficie di m. 20 x10 circa (vedi fig. 1 del testo) sono caoticamente disposte alcune centinaia di grossi ciottoli unitamente ad una diecina di massi di varie dimensioni; i quali tutti, massi e ciot¬ toli, risultano così tipicamente arrotondati che non si può non am- Fig. 1. — La marmitta costiera presso « La Ritnusa » vista in pianta. (scala 1 : 200). mettere che la loro forma ed il loro colore bianco dipendano esclusi¬ vamente dal mutuo logorìo causato dal movimento ad essi impresso dalle onde (fig. 2 e 3). Le dimensioni dei ciottoli sono molto varie; e mentre alcuni di forma prevalentemente ellissoidale, non hanno che 15-20 ein. di dia- Fig. 3. — Un particolare della marmitta costiera. Si può osservare qualche ciottolo ancora alquanto angoloso. Ma di particolare importanza mi sembrano essere, per bene com¬ prendere l’entità del fenomeno, una quindicina di massi i quali, ad Fig. 2. - — L’aspetto generale della singolare marmitta costiera. In primo piano si vedono i grossi ciottoli; in fondo' si osserva il calcare eocenico. metro maggiore, la più gran parte è di dimensioni quasi doppie, e la form*a che vi predomina è quella più o meno sferoidale. — 10 — onta delle loro notevoli dimensioni, e quindi del loro peso, hanno u- gualmente subito, e probabilmente ancora subiscono, l’azione di ro¬ tolamento e si sono lisciati ed arrotondati, assumendo per lo più una forma ellissoidale, abbastanza regolare. Di alcuni di questi, a scopo illustrativo, ritengo utile riportare le dimensioni ap'prossimativ e : 1. — Di forma ellissoidale, abbastanza regolare, con un peri¬ metro di m. 3,50 misurato in corrispondenza dell’asse maggiore del¬ l’ellissoide, e di m. 3 nel senso trasversale. 2. — Ellissoidale, molto regolare, quasi geometricamente per¬ fetto, con un perimetro massimo di m. 2,70 ed uno minimo di m. 1,80. 3. — Ellissoidale, con qualche pronunziata irregolarità. Peri¬ metro maggiore m. 3, perimetro minore m. 2. 4. — Ellissoidale con perimetro maggiore di m. 2,80 e peri¬ metro minore di m. 2. 5. — Sferoidale, con un perimetro di m. 3. Era il materiale che da lungo tempo, e quindi più intensamente, ha subito l’azione di logoramento, si nota qualche grosso masso, di forma irregolarissima, che, nonostante le cospicue dimensioni, ugual¬ mente è stato, e forse è tuttora, soggetto sdl’azione delle onde. Si tratta, evidentemente, di materiale di più recente distacco dalla roc¬ cia circostante. Potrebbe affacciarsi l’idea che una tale marmitta costiera si sia formata in un tempo ormai lontano, in cui il litorale si trovava ad un livello più basso di quello attuale, e quindi maggiormente doveva ri¬ sentire fazione delle onde; ma a siffatta ipotesi, non inverosimile in quanto un movimento di emersione è certo di recente avvenuto lungo la costa fra Otranto e Leuea, si oppone il colore bianco dei ciot¬ toli, sui quali non riesce quindi a formarsi nuovamente la caratte¬ ristica patina assunta dai calcari presso il mare. A questo proposito ricorderò che in un’anfrattuosità vicina al mare, ma separata da que¬ sto da alcuni scogli, esiste un grosso ciottolo sferoidale, in posizione tale da non venire più smosso dalle onde, che, a cagione della man¬ canza del periodico rotolìo, ha nuovamente assunto la patina scura. È quindi da ritenersi che la marmitta sia ancora in piena funzione; i pescatori del luogo assicurano infatti che, in occasione delle vio¬ lente tempeste da greco-levante, è possibile assistere al caotico ro- tolio dell’imponente ciottolame. A dimostrare la violenza con la quale le onde precipitano sulla costa ed invadono la marmitta, basti pensare che qualche masso, con perimetro fino a m. 1,50, il quale precedentemente doveva trovarsi fra gli altri, com’è provato dalla forma e dall’aspetto, è stato lancialo — 11 — al di sopra del gradino che limita a monte la conca, superando un dislivello di quasi due metri. Quanto alla probabile genesi di questa marmitta costiera, mi sembra si possa senz’altro ammettere che abbia avuto inizio per opera di uno o di pochi massi preesistenti, sui quali avrà cominciato ad e* sercitarsi l’azione delle onde. Abbozzatasi in questo moto la cavità iniziale, non deve essere stato difficile il distacco di altri blocchi di cal¬ care; e ciò sia perchè questo, essendo molto fessurato e superficial¬ mente eroso, avrà notevolmente risentito l’azione diretta delle onde; sia per gli urti che le rocce circostanti avranno subito da parte dei ciottoli già staccatisi in precedenza. Così, a poco a poco, la cavità si sarà andata ampliando, mentre il fondo sul quale poggia il materiale mobile, si sarà man mano abbas¬ sato per la concorde azione del rotolìo dei massi e ciottoli e, sebbene in misura minore, per effetto delle onde riversantisi nella cavità. Ricorderò intfine che nello stesso tratto di costa, alcune decine di metri più verso sud e quindi più vicine alla località cc La Rinusa », esistono, in punti diversi, prossimi al mare, due altre marmitte del genere, ma meno caratteristiche di quella sopra descritta. I ciottoli sono presenti in numero più limitato e di minori dimensioni ed il complesso non assume l’imponente aspetto presentato da « Le cucule ». Napoli, Istituto di Geologia dell’ Università, 1947. \ NOTIZIE VESUVIANE Lo staio del Vesuvio nel 18 e 25 marzo 1947 JNota del socio Antonio Parascandola (Tornata del 26 marzo 1947) NeH’aseensione del Monte da me compiuta nel 18 marzo 1947 quantunque ia fumigazione dei fianchi non fosse così copiosa e vi¬ stosa come mi risultò di rilevare nella mia precedente ascensione del 13 dicembre dello scorso anno, nè come del pari altre volte si è con¬ statato, tuttavia riscontrai alte temperature lungo i piccoli crepacci che s’incontrano nella salita, e che si possono facilmente svelare per la aumentata fumigazione mediante corpi accesi. Pervenuto all’orlo craterico occidentale, per la comune via se¬ guita dalle guide, partendo dall’Atrio del Cavallo presso il colle Um¬ berto, constatai in primo luogo debole odore di acido solfidrico. Guar¬ dando dirimpetto, ad oriente, rilevai che il mantello piroelastieo del¬ l’orlo craterico orientale, ben visibile da Napoli, conservava la po¬ licromia precedentemente da me osservata nella su riferita ascen¬ sione, dovuta in parte al solfo ed in parte ai cloruri di ferro che tuttora si formano. Questa parte di levante della conca craterica scende precipite, e non lascia vedere sensibili variazioni nella sua morfologia, sia a giu-, dicare dalla sua forma, sia dal materiale piroclastico che ai suoi piedi ul golfo di Napoli; mentre gli strati che affacciano sul golfo di Sa¬ lerno venivano sollecitati a gravitare verso il golfo napoletano con tra¬ zione degli stessi, determinazione di fratture, isolamento dei blocchi, affondamento nel mare della gamba opposta deH’anticlinale. E mi vien fatto ancora di pensare che lo scoglio di Re vigliano, rudere di un massiccio calcareo allaceiantesi litologicamente e tetto¬ nicamente alla penisola Sorrentina, essendo la propaggine estrema del banco nord est di tale complesso di pieghe, e poggiante più vi¬ cino alla macula magmatica, abbia subito più delle altre masse il ce¬ dimento, l’affossamento, la fratturazione. E vien fatto ancora di pen¬ sare che le masse calcaree della penisola sorrentina erano ancora più alte e che il culmine loro si sia andato nel complesso abbassando, in conseguenza del cedimento della massa magmatica sottostante. D’altra parte noi nei monti di Cava troviamo i segni di forme di erosione giovanile. Precipiti pareti calcaree e dolomitiche si adergo¬ no, mentre sulla base delle loro pendici si appoggia una poderosa breccia calcarea dolomitica. Io ritengo che, forse per ragione di equilibrio isostatico, mentre la massa della penisola sollevata e corrugata preme sul bacino mag¬ matico vesuviano ed in parte in esso affonda, siccome le masse siali- che nelle femiche, d’altra parte il magma altrove spostandosi e sol¬ lecitato dalle pressioni produce un sollevamento nella restante parte della penisola; tanto più che è in ciò sollecitato dalle soluzioni di continuità delle fratture stesse, attraverso le quali le acque giovanili ed i gas magmatici salgono in superfìcie alimentando, con quelle su¬ perficiali, la ricca emissione di acque della zona stabiana. Istituto di Mineralogia dell’Università di Napoli. Osservazioni geologiche sui calcari di S. Vito e di Fasano in provincia di Brindisi Nota del socio Antonio Parascandola (Tornata del 80 luglio 1947) Nello studio geologico e geologjco-agrario delle Puglie che già da anni vado conducendo, lasciando ad altro lavoro le osservazioni sul terreno agrario, desidero rendere note alcune osservazioni da me fatte nel territorio di Brindisi. In Fasano le masse calcaree sono composte da banchi di 70 cm. circa di spessore. Il calcare di Fasano è in prevalenza di un tono leg¬ germente roseo. Esso è compatto, criptocristallino; però, in seno alla massa, presenta qui e lì piccole associazioni di cristalli di calcite ben visibili ed in talune zone molto numerose. Nella stessa massa del cal¬ care si rinvengono piccoli fori tappezzati da calcite, dei quali, ta¬ luni sono riempiti da terra rossa. Il calcare si presenta in alcune zone finemente listato da esili straterelli di colore rosso, talvolta con anda¬ mento pressocchè parallelo, a filettature dentellate, distanziati da 2 a 3 cm. Altre volte la distanza è ancora inferiore ed altre volte, invece, non v’è regolarità alcuna. In qualche zona di tale calcate la sostanza rossa costituente gli straterelli è così abbondante da permettere la se¬ parazione di lastre dai 2 ai 3 cm. di spessore, le cui opposte superifici lasciano osservare un deposito di terra rossa. Altre volte nella massa sono diffuse delle formazioni dentellate più o meno rotonde, ovoidali, irregolari, di color rosso, delimitanti, evidentemente, il contorno de¬ gli avanzi organizzati. Tale calcare è di bello effetto ornamentale, ed a tale scopo viene usato per pavimentazione interna, lastre per tavolini, colonne, ecc., pre¬ standosi, per la sua compattezza, bene alla pulimentazione. La roccia calcarea è attraversata da vene rosse di ossido di ferro e perforata da fenditure con andamento normale alla superficie dello strato. La parete si presenta rossa per dissoluzione del calcare e presenza dell’ossido di ferro, ed attraversata da fenditure verticali, nelle quali si trova terra rossa. Rompendo la roccia si notano dei canalicoli di 1 a 2 cm. di dia¬ metro riempiti di terra rossa, e, spesso, fori lasciati dalle rudiste; ta¬ luni, del diametro di 5 cm., anche ripieni di terra rossa. Tali canali¬ coli sono del tutto indipendenti, ossia non mostrano relazioni con la su¬ perfìcie superiore della roccia, nè con le soluzioni di continuità fra strato e strato; sono dei veri nidi. I fossili sono qui mal conservati. Questa roccia presenta alcune facies di calcare zonato alabastrino, le quali in quel di Locorotondo sono molto più potenti. Ancora più noto è il bellissimo alabastro orientale di Alberobelfo, che per vari anni alimentò una piccola industria locale, quale materiale ornamentale e decorativo di splendido effetto. La diagenesi, ha, nel calcare di Fasano riempito il vuoto lasciato dalle rudiste, dando luogo a bellissime for¬ mazioni di calcite cristallizzata, richiamante le stalattiti^ ma ben diver¬ sificandosene per la struttura. Taluna di queste formazioni raggiunge la lunghezza di 40 cm. per 6 cm. di raggio. I calcari invece di S. Yito, rispetto a quelli di Fasano, hanno le rudiste meglio conservate. Per quanto la conchiglia sia spesso disfatta, si notano tutti i graduali passaggi del disfacimento, e nel contempo si rileva altresì che alla superficie di contatto dei molluschi col calcare, questo, per la diagenesi, è tutto cristallizzato. Nei fenomeni diagenetici si nota che gli organismi calcarei ven¬ gono disfatti prima che tutto il calcare sia, da incoerente, reso compatto. La zona diagenizzata è a spese del guscio calcareo, che per i vacui stessi che contiene si discioglie con più facilità e ricristallizza model¬ lando l’esterno dell’organismo mediante una corteccia di calcite cristal¬ lizzata, racchiudente ciò che ancora rimane dell’impalcatura calcarea dell’animale, più o meno diagenizzata aneh’essa. In séguito il fenome¬ no della ricristallizzazione è di una diagenizzazione avanzata e si esten¬ de a tutta la roccia od a parte di essa. Formatosi il vacuo della rudista avviene che in un secondo tem¬ po, forse parecchio distante dal primo, continuando i fenomeni dia¬ genetici dissolutori, o in più grande stile intervenendo una dissoluzione più sollecita del calcare, il residuo insolubile del calcare stesso venga a riempire i vuoti delle rudiste senza bisogno che tali fori affiorino per¬ chè il prodotto della dissoluzione li occluda. (Ciò è confermato dalla osservazione, perchè ho rinvenuto fori di rudiste, nell’interno della massa calcarea compatta, senza soluzioni di continuità che lascino supporre un apporto esterno, riempiti di ter¬ ra rossa. Analogamente avviene per le cavità irregolari riempite di terra rossa, abbondantemente sparse nella massa calcarea di Fasano. In que¬ sto caso la diagenesi ha operato la dissoluzione durante la fase di con- — 79 — sòlidamente), disciogliendo il calcare stesso ed accumulando, nelle pic¬ cole carie prodottesi, il deposito insolubile. Questo fatto da ine osser¬ vato io lo ritengo importantissimo, perchè, per quanto mi è noto, è la prima volta che si rinviene in posto, nell’interno della massa calcarea, la terra rossa già deposta nei vacui irregolari che non siano quelli delle rudiste. Più di un secolo fa G. Battista Brocchi nella Gonchiologia fos¬ sile subappenina , Milano, Silvestri, 1843, Voi. I, pag. 176, parlando delle masse calcaree che costituiscono l’ossatura delle Murge Pugliesi, fece già osservare come esse si presentano spesso bucherellate e caver¬ nose; e pur senza essersi spiegato la ragione di tali cavernosità, che so¬ no dovute, cornee noto, alle cavità interne delle conchiglie delle rudiste, ebbe a notare come « quei fori, che si internano profondamente, e che talvolta comunicano insieme, fossero riempiti in ergine di certa terra bolare rossa, di.cui rimane traccia in alcuni, e che si vede quasi sem¬ pre interposta agli strati ». E questo sembra per me sia di notevole valore circa l’agitata que¬ stione della genesi della terra rossa, la quale, qualunque sia il mate¬ riale di provenienza, è da ritenersi generata dalla dissoluzione delle rocce calcaree sotto l’azione degli agenti dissolutori esterni, per quelli che sono i depositi superficiali. Ma essendo tale sostanza congenita con la roccia madre calcarea, può nel processo diagenetico individuarsi qui e lì nella massa calcarea qualche nido di terra rossa. Questa sostanza rossa così annidata nella roccia calcarea, come è stata da me rinvenuta, non è da ritenersi terra rossa prodotta per fe¬ nomeno analogo a quello con cui si genera quella formazione superfi¬ ciale ricoprente i terreni calcari ed alla quale abbiamo dato il nome di terra rossa. Noi, tale sostanza racchiusa nella roccia, la possiamo considerare come terra rossa in giacimento primario, ossia come im¬ purità di sedimentazione marina nel calcare; come la sostanza madre , racchiusa nella roccia generatrice calcarea, di quella che noi chiamere¬ mo terra rossa quando, disciolto il calcare dall’acqua carbonicata, re¬ sterà, detta sostanza, siccome residuo insolubile esposto alle azioni cli¬ materiche e soggetto a queste nella sua evoluzione. Quindi questo pro¬ dotto superficiale potremo chiamarlo terra rossa in giacimento se¬ condario. Evidentemente il punto di partenza per quella che noi chiamia¬ mo cc terra rossa» dobbiamo trovarlo nelle roccie silico-alluminose fer¬ rifere. Per alterazione di queste vengono, per dilavamento, trasporta¬ ti, fra gli altri, nel mare, gli ossidi di ferro, di allumina, di silice col¬ loidale; tali sostanze, disperse in seno all’acqua marina, vanno a cadere sul fondo stesso, si appoggiano ai gruppi di rudiste emergenti dal fon- — So¬ do, penetrano nelle cavità di queste col disfarsi delle parti molli. Così queste sostanze apportate dal dilavamento continentale vanno interstra- tifìcandosi con i depositi organogeni. Analogamente sul fondo del mare si depositano le fini ceneri dei vulcani trasportate dai venti. Intanto la diagenesi interviene disciogliendo, cristallizzando, cementando; i fe¬ nomeni epeirogenetici subentrano; queste pile di strati vengono solle¬ vati e portati in grembo dell’atmosfera, dove l’azione dissolutrice delle acque carboniche, asportanti il calcare, produce quella sostanza resi¬ duale insolubile, la quale, identificata come entità geologica a sè stante, e, subendo gli influssi dell’acclimitazione regionale, dà luogo a quella che noi chiamiamo terra rossa. Istituto di Mineralogia dell’Università di Napoli, Sulla presenza dell5 acido solforico libero al Vesuvio e nei Campi Flegrei (Solfatara ed Agnano) Nota del socio Antonio Parascandola (Tornata del 30 luglio 1947) Anni or sono occupandomi dello studio delle antiche memorie vesuviane ebbi l’occasione di leggere tramite la cortesia del Prof. G. B. Alfano il rarissimo opuscolo del Padre Zupo : Continuazione dei successi del prossimo incendio del Vesuvio con gli effetti della ce¬ nere, e pietre da quello vomitate , e con la dichiarazione espressa delie croci meravigliose apparse in vari luoghi dopo V incendio. In Napoli per Giovan Francesco Paci, 1661. Tale opuscolo, di pag. 20 e con tavola delle croci, fu da ine il¬ lustrato nella nota: Sulle produzioni croci formi osservate in Napoli ed in vari luoghi in occasione dell’ eruzione vesuviana del 1660. (Boll. Soc. Nat. in Napoli Voi. XL, 1928, pp. 129-138). Nel predetto opuscolo ve un capitoletto intitolato: «Delle pietre balzate dal Vesuvio ». Dice Zupo : «Le pietre balzate dal Vesuvio erano la maggior parte di molta grossezza e di peso , e colore somi¬ gliante al ferro. Alcune si vedevano in gran parte coperte di solfo; altre si vedevano a guisa di metalli fusi al fuoco.... Una ne vidi della grossezza di un pugno di colore sulfureo, che stillava un liquore a guisa d’olio di petroleo, benché per altro non appigliava fuoco: anzi la carta bagnata da quell’ olio invece di bruciarsi piuttosto si consumava, di¬ venendo quasi nero carbone, che assaggiata aveva del salso, talché detta pietra con tutto che nel colore ed odore somigliasse al solfo, nondimeno resisteva a quello ». Da questa così limpida esposizione di Padre Zupo ognuno vede come nel liquido stillante liquore a guisa d’olio di petroleo, che car¬ bonizzava la carta sia da identificarsi l’acido solforico libero, il quale per la prima volta sarebbe stato rinvenuto al Vesuvio nei prodotti del l’eruzione del 1660. Lo Zupo elice che la pietra era di colore sulfureo, ma non vi si appigliava il fuoco; evidentemente il colore sulfureo era qui il giallo- verde-arancione, il giallo-canario, dovuto alla formazione del cloruro di ferro, e quindi non a zolfo. Il dire che la pietra cc stillava » indica non solo l’abbondanza deH’H3S04, abbondanza resa apparentemente aumentata dalla deli¬ quescenza di sali contenuti nella pietra, ma che tale H2S04 non era forse da ritenersi, almeno nella maggior parte, nel caso in discorso, come prodotto della ossidazione del solfo. Dietro all’indicazione dello Zupo, è da tempo che io ho rivolto le mie indagini alla ricerca dell’acido solforico libero al Vesuvio. Ma ancora prima che leggesi tale opuscolo dello ZUPO. mi per¬ vennero dal Doti. Ernesto Salvatore dell’Istituto Vulcanologico Fried- laenoer grossi saggi delle incrostazioni delle stufe di S. Germano ad Agnano. Avendo messo tali saggi in uno scatolo di cartone e poggia¬ tolo sopra un campione di' tefrite leucitica del Vesuvio, a grossi fe- noeristalli di leucite, dopo non molto tempo notai che il fondo dello scatolo era carbonizzato ed umido, e tutta le leucite a contatto del minerale s era completamente alterata in una mas>a biancastra. Tali incrostazioni messe >u di una lavagna del pari la alterarono. La cartina al tornasole si arrossa al contatto di tali sostanze, ed ancora fortemente se immersa nella loro soluzione. Evidentemente in Agnano è da notarsi la presenza dell’acido sol¬ forico libero. In merito a tale argomento vado conducendo sistema¬ tiche osservazioni nei sali delle stufe, nell’ acqua dei Pisciar elli e sulle pendici orientali della solfatara. Il Pannain nel 1926 pubblicò una nota dal titolo: « Sulla pre¬ senza dell'acido solforico libero nel minerale della Solfatara di Poz¬ zuoli ». Egli notava la spiccata reazione acida del bianchetto della Sol¬ fatara. Con sistematiche osservazioni constatava la presenza dell 1 al 2,5% di acido solforico libero nella sostanza da lui analizzata. L’A. ritiene che la formazione dell’acido solforico libero sia dovuta alla azione dei gas e dei vapori delie fumarole sullo zolfo libero e precisa¬ mente all’azione del vapor d’acqua sopra riscaldato, come egli ha potuto dimostrare con esperienze appositamente condotte. Con ciò è la prima volta che vien citata la presenza dell’acido solforico libero alla Solfatara. Indotto da tale constatazione del Pannain ho raccolto nelle mie numerose escursioni alla Solfatara, più volte campioni i quali hanno carbonizzato la carta. Avendo lisciviato tale carta con acqua distil¬ lata questa subitamente e fortemente arrossava con la cartina al tor- mi sol e; provocata in tale acqua la reazione deIl’S04, ho avuto ben visibile formazione del BaS04. In materiale in corso di studio di recente raccolto sul fondo della Solfatara di Pozzuoli, costituito da efflorescenze saline bianche aghi¬ formi, solubili, di sapore fortemente acre ed astringente, lio notati notevole quantità di acido solforico libero. La carta nella quale era chiuso il minerale diveniva presto alterata, e trattata con acqua distil¬ lata e, constatata l’assenza, per evaporazione, di impurità eventualmen¬ te sol ute, veniva detta acqua addizionata d’idrossido di sodio appor¬ tando la formazione di cristalli aghiformi di solfato sodico decaidrato. La carta al tornasole a contatto di tali sali subitamente arrossava. L’acqua nella quale era >tata spappolata la carta attaccata dall’acido solforico, trattata con cloruro di bario ha dato notevole precipitato di solfato di bario. Queste osservazioni confermano quindi la presenza dell’acido sol¬ forico libero al Vesuvio, alla Solfatara, ad Agnano. Inoltre poiché alla Solfatara, come ha dimostrato il Pannain, sul materiale da lui analiz¬ zalo, l’acido solforico è generato dall’azione del vapor d’acqua sur¬ riscaldato sul solfo, per analogia dovremmo altrettanto ritenere av¬ venga ad Agnano nel saggio da me osservato, tanto più che presenta qualche inquinamento di solfo. Anche al Vesuvio si sarà analogamente prodotto tale acido; ma io sono propenso a ritenere che nel caso citato del Vesuvio, parte, se non tutto, dell’acido solforico sia di origine interna più che su¬ perficiale. Cioè nella fase solfatarica il vapore agisce già nell’interno del condotto sul solfo che va depositandosi verso la parte terminale di eSso condotto. Da ciò si potrebbe dedurre che nella Solfatara l’acido solforico oltre a generarsi nel modo come ha dimostrato Pannain, può avere anche altra origine; cioè parte dell’acido solforico, e forse parte non lieve, deve formarci nella parie alta del condotto di tale cratere, con¬ tri buendo alla formazione dei vari solfati. E poiché si lui ragione di ritenere che la macula magmatica della Solfatara sia in relazione di dipendenza con la regione ili Agnano ne viene di conseguenza che anche parte dell’acido solforico di Agnano sia della -tessa natura en¬ dogena, cioè più profondo di quello che si genera superficialmente col processo anzidetto sul >o!fo sfuggito in profondo alla ossidazione del vapor d’acqua. Ma d’altra parte tenendo presente che tra i gas magmatici vi è anche la anidride solforosa, e nessuno ci vieta la possibilità di esi¬ stenza dell’S03, potrebbe l’acido solforico in parola generarsi per ^intesi dell’anidride con l’acqua: 3 S02 + 2 H30 = 2 H2S04 + 2 S. — 84 — Salvatore E. (1) non li a riscontrato S02 nei gas delia Solfatara di Pozzuoli. Per il Vesuvio invece dove la presenza dell’S02 è stata comune¬ mente rilevata, l’acido solforico potrebbe generarsi come dall’equa¬ zione detta, oltre la precedente genesi. Ulteriori mie ricerche in merito renderò note appena possibile. Ma la constatazione al Vesuvio fatta dallo Zupo di questa so¬ stanza siccome olio di petroleo mi porta a ritornare suH argomenlo della formazione delle croci apparse nella eruzione del 1660. Ciò perchè mentre le macchie crociformi a fili esilissimi possono inter¬ pretarsi siccome esili cristalli gemini di augite, non è così per le mac¬ chie cruciformi slargate. Lo Zupo riteneva che a formare le croci di cui parla abbia con¬ corso una certa rugiada e che il colore delle macchie che trovavansi sulle vestimenta dipendeva dalla qualità della rugiada; egli dice: « Ho trovato che quelVolio stillante da quella pietra trovata nel fondo del Monte tinge li lini di color arancio ma non si spande in forma di croce. Kirker riteneva che il Vesuvio aveva mandato un vario mescola¬ mento di zolle e di sughi diversi che fermentati con lo spirito acido minerale , con la forza del sole si era assottigliato in vapore , il quale resoluto in umore simile alla rugiada . aveva formato le croci ». Arcangelo Scacchi non era alieno dal pensare che le dolci stille di rugiada rivenute sulle foglie degli alberi costituissero sorta di fe¬ nomeno nel quale probabilmente prendeva parte la medesima sostanza che produceva le macchie in forma di croce. Da tempo sono andato sempre osservando le macchie lasciate dalle sostanze colorate sui pannilini. Alcune sono veramente a guisa di croce esilissime. Evidentemente si tratta di pigmento colorante il quale subito si fissa sull’orditura dei fili, mentre il restante liquido più povero di particelle grosse in sospensione variamente dilaga o assume forme grossolanamente cruciformi. Io ritengo che se cristalli di augite furono quelli dei quali io trattai in tale eruzione caduti, non sono alieno dal pensare che tali cristalli caddero forse umidicci per acido solforico o per cloruri di ferro, e cadendo sugli abiti abbiano condotto, concomitanti le fini particole cineree, alla formazione delle grosse macchie a croce. istituto di Mineralogia dell’ Università di Napoli. (1) Salvatore E. Sui gas della Solfatara di Pozzuoli. Zeitschrift fiir Vulkano- logie. Band VII, 1923-24, pagg. 149*154. Auliche cavità di erosione marina in località “ La Rinusa ,, presso Castro prov. di Lecce Nota del socio Antonio Lazzari (Tornata del 80 luglio 1947) In una mia precedente nota pubblicata in questo Bollettino (I) ho dato recentemente notizia di un singolare tipo di marmitta co¬ stiera, tuttora in funzione, rappresentata da una vasta conca determi¬ natasi nei calcari eocenici della costa fra la Marina di Castro e quella di Trieasc, in prov. di Lecce, alcune centinaia di metri a nord della località detta « La Rinusa )), secondo la toponomastica locale. In tale conca, il cui fondo è ad un paio di metri sul livello del mare, un im- ponénle ciottolame viene messo in movimento per effetto delle onde che vi si riversano durante le tempeste più violente da ESE. In occasione di un recente sopraluogo a delta località, effettuato allo scopo di accertare se le numerose mareggiate, di eccezionale vio lenza, che nello scorso inverno hanno imperversato nel Canale d’O- tranto, avessero apportato mutamenti di un certo rilievo nell’assetto della marmitta suddetta, ho avuto occasione di compiere alcune os¬ servazioni geomorfologiche in corrispondenza del limitato lembo di quaternario marino che si rinviene presso la detta località. Sui cal¬ cari compatti dell’Eocene superiore, si adagia un ridottissimo lembo di calcare organogeno del tipo carparo, della lunghezza, nel senso della costa, di poche centinaia di metri, e che non sembra oltrepas¬ sare la larghezza, di una cinquantina di metri. In corrispondenza di tale piccolo lembo, meno resistente all’azione del mare, è interes¬ sante notare il meccanismo di demolizione che si esplica sotto i nostri occhi ed i cui effetti sono largamente apprezzabili specialmente du¬ rante la stagione invernale. Dapprima il mare, con i suoi movimenti ondosi, determina la formazione di piccole cavità in corrispondenza del battente delle onde, allargandole poi ed insinuandosi all’interno anche per qualche metro. Quando infine, durante le tempeste, enormi (1) Lazzari à„ Sopra un singolare tipo di marmitta costiera in provincia di h-ecce. Questo Boll., voi. LVI, 1947- — 86 — masse di acqua si riversano contro la costa, ^11 a volta dei suddetti ingrottamenli, e nel senso dal basso verso l’alto, vengono ad eser¬ citarsi grandissime pressioni che finiscono, a lungo andare, con lo scalzare il carparo in blocchi, I quali talvolta raggiungono il volume di alcune decine di metri cubi. Ne consegue, perciò, che in questa località non si verifica quanto è osservabile presso la non molto lontana Marina di Triease ove, a livello del battente delle onde, in un altro lembo di carparo, si vede un gran numero di marmitte di ogni dimensione ed in ogni stadio di formazione. Ma se presso « La R inusa » non esistono marmitte al livel¬ lo del mare, numerose sono invece quelle che, per essersi prati- tale in epoca più antica, ed a causa del bradisisma negativo che si è verificato lungo quel tratto di costa pugliese, si osservano ora in cor¬ rispondenza di un terrazzo all’altezza media di 5 in. circa, e che ri¬ tengo opportuno segnalare dandone brevi cenni illustrativi. E ciò so¬ prattutto in quanto mi sembra che, quello delle marmitte costiere, è un problema al quale converrebbe prestare maggiore attenzione di quanto non >ia stato fatto nel passato, almeno in Italia, per le interes¬ santi conseguenze che se ne possono trarre mi lenti movimenti del suolo. Da noi difatti, ad onta che il grande sviluppo delle coste induca a pensare che abbastanza frequenti debbano essere tali apparati co¬ stieri. pure è singolarmente scarso il numero dei casi resi, noti nella letteratura scientifica, i quali, in definitiva, a quanto mi risulta, si limitano a quelli segnalati da Castaidi (1), Checchia-Rlspoli (2), Clerici (3), Crema (4-5), De Lorenzo e Riva (6), Issel (7-8). Meli (9), Melinossi (10), Miragli a (11), Parascandola (12), Pla¬ tani a (13-14), Sabatini (15) e Sacco (16). Tornando al nostro argomento ricorderò che sui calcari eocenici, qua e là visibilmente stratificati, che in questo tratto di costa scen¬ dono abbastanza dolcemente verso il mare, si adagia la formazione del carparo . che in alto è nettamente stratificata e con qualche interca¬ lazione meno resistente, alquanto argillosa, mentre in basso, ove è molto ricco di resti di Pettinidi, si presenta di aspetto uniforme, senza segni di stratificazione, e con caratteristiche tecniche tali da essere vantaggiosamente utilizzato quale materiale da costruzione. La superficie del terrazzo è letteralmente cosparsa di marmitte, in vari gradi ili sviluppo e delle dimensioni più varie, con diametri generalmente compresi fra 20-30 crii, ed un metro. In qualche caso, come sarà dello successivamente, le dimensioni sono grandissime, ol¬ trepassando i 5 metri di diametro. 87 Quasi generalmente le marmitte si trovano irregolarmente sparse; vi sono però alcuni raggruppamenti caratteristici che hanno una loro ragione d’essere in particolarità presentate dal terreno, e special¬ mente nella esistenza di fessurazioni, in corrispondenza delle quali, minore essendo stata la resistenza offerta all’azione dell’acqua e del materiale solido da quella messo in movimento, più agevole, e quindi maggiore, è risultato l’approfondimento della cavità. Fig. 1. — Marmitta scavata nel calcare compatto eocenico. A destra si osserva il contatto con il carparo. Un primo gruppo è quello che si trova all’estremo settentrionale del piccolo lembo quaternario; e presenta un particolare interesse perchè la maggior parte delle cavità ivi riunite si allineano proprio lungo una fessurazione che interessa non solo il sottostante calcare compatto eocenico, ma anche il cut puro. Presso la prima marmitta della serie (fig. 1), vale a dire quella più lontana dal mare, si nota inolio bene il contarlo fra calcare compatto e carparo , il quale ultimo è qui presente in sottile strato di pochi cm. di spessore, oltre il quale la cavità di erosione (come del resto le altre vicine) si affonda nel calcare eocenico per circa 80 cm. nella porzione visibile, essendo il fondo occupato da sabbia e frammenti calcarei non grandi, in note¬ vole quantità, che non mi è stato possibile rimuovere non disponendo dei mezzi adatti. Il cospicuo approfondimento nel calcare compatto, sta a dimostrare che la costa, per un periodo di tempo abbastanza lungo, è rimasta senza subire spostamenti verticali, prima che si ini¬ ziasse il lento moto ascendente. — 88 — Fra le numerose cavità di questo primo gruppo, ve ne sono al¬ cune elle, in pianta, non presentano una forma più o meno circolare, ina risultano in varia misura allungate, perchè dovute, evidentemente alla concomitante azione di due o più vicini nuclei perforatori, le cui rispettive cavità si intersecavano, sovrapponendosi. In certi casi, aven¬ do i rispettivi ciottoli perforatori subito una notevole usura, le cavità risultano riunite in alto e separate in basso, ove sono rimasti integri degli esigui setti di calcare. A questo primo gruppo, un altro ne segue, posto pochi metri più a sud. Le cavita che vi si osservano sono completamente praticate nel Fig. 2. — Un gruppo di marmitte fuse insieme, dovute ablazione di tre diversi nuclei perforatori vicini fra di loro. calcare, forse per l’asportazione completa della copertura di carparo , e risultano dalla fusione di varie marmitte i cui assi si trovano fra loro vicini (fig. 2). Anche qui il fondo è occupato da sabbia grosso¬ lana e da frammenti calcarei a spigoli vivi, il che starebbe ad indi¬ care che non si tratta di materiale che ha partecipato alla estiva¬ zione delle marmitte, ma di materiale estraneo alla loro genesi, e presumibilmente lanciato dalle onde, unitamente a gusci di molluschi viventi, fra cui frequenti Haliotis, Ceri thium, Troclms ecc., che si rin¬ vengono in queste, come in altra cavità vicine. Segue poi un gran numero di marmitte praticate nel carparo . le quali non raggiungono il sottostante calcare compatto perchè la po¬ tenza delia formazione quaternaria va aumentando verso sud; alcune, di cui è osservabile il fondo libero, sono profonde appena 15-20 cm : — 89 — altre invece sono di dimensioni maggiori, fino a raggiungere il dia¬ metro di un metro e la profondità di 70-80 cm. ed anche oltre. In queste (fìg. 3) è possibile osservare, sulle pareti, l’effetto dell’azione erosiva manifestatasi in varia misura a seconda della resistenza offerta dalla roccia, sì che le pareti stesse non sono regolari come nel caso del calcare compatto (cfr. la fìg. 2) ma presentano degli ingrottamenti, degli anelli di maggiore diametro, in corrispondenza delle interca¬ lo g. 3. Una marmitta scavata nel carparo. Si osservano gli ingrottamenti determinatisi in corrispondenza delle intercalazioni meato resistenti. lazioni meno resistenti, determinati non dalla rotazione del ciottolo perforatore, ma dal movimento dell’acqua riversantesi nella cavità e dal materiale detritico fine risultante dalla demolizione della roccia. Ma fra le numerosissime, e così varie per forma e per dimensioni, marmitte de cc La Rinusa », voglio ancora segnalarne alcune altre che presentano caratteristiche del tutto particolari, e si distinguono per l’accentuata profondità, che oltrepassa i 5 m., mentre il diametro non supera il metro. Queste cavità, che distano dal mare di circa 7-8 m.. sono state parzialmente demolite, in basso, da uno di quegli ingrot¬ tamenti determinati nel carparo dai movimenti del mare attuale, ed estendentisi verso l’interno anche per parecchi metri, per la scarsa resistenza offerta da alcuni interstrati un pò argillosi. Tali ingrotta¬ menti sono stati praticati posteriormente al tempo in cui >i sono for¬ mate le marmitte, una delle quali si prosegue ancor più in basso del pavimento della grolticella. 90 — Se unti parte delie cavità descritte sono interessanti per la loro profondità notevole, o perchè risultano dalla fusione di due o più cavità vicine (fig. 4-5 del testo), altre ve ne sono che si distinguono soprattuto per la loro ampiezza assolutamente eccezionale, e che si trovano però ad una minore altezza sul livello del mare (poco più di Fig. 4. 2 m.). Si tratta di tre enormi cavità scodelliformi, il cui diametro maggiore, parallelo alla costa, quasi raggiunge i 6 m., mentre quello minore oltrepassa i 4 metri, con una profondità di 2 m. circa. In que- Fig. 5. si e, l’azione delle onde deve essere stata probabilmente esercitata so¬ prattutto con l’ausilio dello stesso materiale detritieo via via staccatosi dalla roccia nella quale si andavano praticando le cavità; difatti nel loro interno non esistono ciottoli di calcare compatto, cui attribuire 15 origine delle marmitte. Allo stato attuale, due di queste non sono piu soggette ad alcuna — 91 — azione erosiva, nonostante che, quando il mare è molto agitato, le onde vi si riversano dentro colmandole di acqua. Ciò è dimostrato dal fatto che sia le pareti, come pure il fondo, hanno assunto la caratteristica patina scura dovuta alla salsedine. La terza invece, alquanto più vicina al mare, ha il fondo chiaro perchè privo della patina suddetta, ed in parte occupato da minuto detrito sabbioso e da qualche raro piccolo fi ammenlo di calcare compatto, il che indicherebbe una persistente, per quanto ridotta, attività della marmitta. Nel loro insieme, queste cavità di erosione marina situate presso cc La Rinusa », costituiscono un interessantissimo complesso; nel quale, non solo è possibile osservare una grande varietà di forme e di stadi di sviluppo, ma offrono, per la loro elevazione sul livello del mare, un non trascurabile indizio del movimento negativo della costa, avve¬ nuto in epoca non molto antica e del quale si ha una inoppugnabile prova in quanto è stato osservato nella marmitta della non lontana Grotta Romanelli, a settentrione di Castro, marmitta nella quale fu¬ rono rinvenute le testimonianze di una spiaggia marina sollevata, su cui l’uomo primitivo, sùbito dopo l’emersione, aveva acceso i suoi primi focolari, abbandonandovi ossa di Elephas ( mtiquus , Rhinoceros Mei- ckii , Hippopotamus amphibius ecc., intenzionalmente spaccate e re¬ tanti profondi segni dell’azione del fuoco (1). Napoli, Istituto di Geologia . Paleontologia e Geografia Fisica delP Università, 1947, (1) Bianc G. A., Grolla Romanelli. I, Stratigrafia dei depositi e natura e ori¬ gine di essi. Areh. Antrop. Etnol«, L, Firenze, 1920. ■ II, Dati ecologici e paletti q* logici, ibid., LVIII, 1928. BIBLIOGRAFIA 1. Castaldi F., Marmitte dei giganti nei tufi di Posillipo. Gli Abissi. Rivista di Speleologia e Geografia Fisica, voi. I, N. 1, pag. 105-107. Napoli, 1937. 2. Checchia-Rispou G.. Marmitte di erosione marina lungo la costa di Castel¬ lammare del Golfo . Giorn. Se. Nat. Et on . , voi. 30, Palermo. 1913. 3. Clerici E., Sulle marmitte nel tufo al Fosso della Mandriola presso Roma. Boll. Soc, Geol. Ital . , voi. XXXIX, Roma, 1920. 4. Crema C., Amiche caldaie litoranee nell’Istmo di Catanzaro. Boll. R. Soc. Geogr. Ital., ser. Y, voi. VI, Roma, 1917. 5. Id. Fenomeni di erosione sulle coste dell’isola di Pianosa nel Mar Tirreno. Boll. R. Soc. Geogr, Ital., ser. V, voi. IX, Roma, 1920. 6. De Lorenzo G. e Riva C., FI cratere di Vivara nelle isole flegree. Atti R. Are. Se. Fis. Mat. Nat. 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Dato il tipo di sondaggio, a percussione, e data la na¬ tura del materiale scoriaceo e dei frammenti piroclastici sovrastanti, ritengo si tratti di grosse scorie formanti forse un banco di breccia assieme a materiale piroclastico più minuto. Questo rinvenimento trova riscontro in quello segnalato dal Pa- Nichi (1) per il sottosuolo del Volturno, nei pressi di Cancello Ar¬ pone. Quivi infatti, anche per le fondazioni di un ponte, fu incon¬ trata a profondità di 12 m sotto il livello del mare, al di sotto di un banco di tufo trachitico rossastro e di argille e sabbie con resti di con¬ chiglie attuali salmastre o marine (determinate dal D’Erasmo), una lava alcalitrachitiea, la cui analisi mostra una spiccata rassomiglianza con quelle delle trachiti flegree. Fu osservato che questo banco dì trachite, di spessore non rilevato ma superiore ai m 4, si mantiene (1) Panichi U. Ricerche petro grafiche su la regione Auriinca . Mem. Sor. It. delle Scienze; -s, 3. XXII. Roma. 1922 pag. 70-3). I -r-4 94 — pressoché orizzontale per una striscia lunga circa 130 m; il che la¬ scia supporre che si estenda notevolmente. La presenza del materiale scoriaceo da me segnalato, sul quale mi riservo di comunicare altri dati, permette di affacciare Tipo tesi die nel sottosuolo della pianura campana, tra le zone vulcaniche fle- gree e quella di Roccamonfina, esistono altre formazioni vulcaniche coverte dai sedimenti attuali. Sarebbe pertanto utile raccogliere altri eventuali dati in proposito per stabilire la presenza o meno di altre formazioni vulcaniche nel sottosuolo campano e la loro attribuzione all’uno o all’altro dei due centri vulcanici. Recenti dati sull’ età delia terrà Nota del socio Felice Ippolito (Tornata del 26 Novembre 1947)- É nolo che da molli anni lo scienziato inglese A. Holmes si oc¬ cupa della determinazione dell’età della Terra in base allo studio dei minerali radioattivi. Una sua recentissima pubblicazione (1) ci dà oggi gli ultimi risultati cui egli e altri scienziati >ono giunti in questo campo. I metodi radioattivi, come è noto, >ono basati sulla trasforma¬ zione dell’uranio e del torio in elio e piombo e sull’accumulo di que¬ st’ultimo nei minerali e nelle rocce che contengono gli elementi pri¬ mitivi. Se un minerale radioattivo, come ad esempio la pecblenda o l’uraninite, non ha subito modifiche, ad opera di agenti esterni o di altri fattori, la quantità di piombo radiogenico che racchiude in sè è funzione delle quantità di uranio e di torio (o di ambedue) attual¬ mente presenti nel minerale e del tempo passato dalla cristallizza¬ zione di esso. Per fortuna il piombo radiogenico può essere facilmente distinto dal piombo ordinario. Infatti noi conosciamo quattro isotopi del piombo di cui uno Pb206 proviene dalla trasformazione radioattiva del U238, Pb207 da U2'35 e Pb20S da Th232, mentre il quarto isotopo Pb204 pare non provenga da disintegrazione radioattiva. Pertanto, analizzando isotopicamente il piombo separato da un minerale radio¬ attivo, la quantità del Pb204 che contiene, indica la quantità di piombo ordinario presente in origine. Oggi gli attuali (< tassi » di produzione del piombo radiogenico sono conosciuti con un grado notevole di precisione; l’unico punto dubbio era, prima di questo momento, quello di sapere se l’inevitabile rallentamento del fenomeno dovuto all’usura delle sostanze primitive, non avesse fatto diminuire, durante i periodi geologici, questo « tasso ». (1) Holmes A. L’ùge de la terre, Endeavour. VI. 23, 1947. *- 96 — fortunatamente gli aloni pleocroici dei minerali radioattivi hanno permesso di risolvere questo dubbio. Taluni graniti contengono, in¬ fatti, pagliette di mica bruna, che si rivelano al microscopio circon¬ date da aloni pleocroici: alcuni di questi, a forte ingrandimento, rive¬ lano una struttura ad anelli concentrici. Al centro di ciascun alone si trova un cristallo radioattivo estremamente piccolo; l’oscuramento della mica, che lo circonda, è prodotto dagli atomi di elio (parti¬ celle a) che sono eiettate in tutte le direzioni. I raggi di ciascun alone sono in relazione alla quantità emessa di particelle. Misure molto minuziose effettuate da C. Henderson nel 1943 hanno rivelato che gli aloni esistenti nelle rocce precambriche, vecchie di oltre 1000 milioni di anni, sono identici a quelli delle rocce più recenti. Pertanto la quantità di particelle emesse, a parità di di¬ mensioni del cristallo radioattivo, sono identiche; e poiché d’altro canto questa quantità dipende dal « tasso » di disintegrazione del- l’elemento radioattivo in questione, ne consegue che le costanti radio¬ attive non hanno una sensibile variazione dopo 1000 milioni di anni. Si può dunque facilmente calcolare l’età di un minerale a partire- da uno qualunque dei tre rappòrti Pb206/U, Pb207/U, Pb'J08/Th ove questi simboli rappresentano le percentuali di elementi di partenza e di isotopi di piombo radiogenico presenti nei minerali sottoposti allhinalisi. Le equazioni (KeeviìL, 1939) sono: tm = 15,15 x IO9 log10 (l|| 1,158 Pb2 ,6/U) anni t m = 2,37 x IO9 log10 (1 + 159,6 Pb2(,7/U) anni tm = 46,20 x IO9 log10 (1 + 1,116 Pb208/Tli) anni Se un minerale non ha subito modificazioni i valori del tempo così dedotti dovrebbero accordarsi strettamente; in pratica si hanno variazioni per effetto di migrazioni geochimiche, ma per fortuna se anche i tre valori sopra indicati differiscono tra loro, i loro rapporti danno dei criteri che permettono di apprezzare l’età. Secondo i calcoli più recenti, dovuti a Nier, alcune età meglio stabilite sono riunite nella tabella della pag. 98. L’uraninite di Manitoba è il minerale più vecchio che sia -tato fin qui studiato e la sua età è confermata dall analisi di un altra ura- ninite e di due monaziti, provenienti dalla stessa pegmatite, che hanno rispettivamente 1950, 1955 e 1990 milioni di anni. Questa pegmatite rappresenta la fase terminale dell’attività plutonica di una zona oro¬ genetica tipicamente archeana; fase susseguente alla formazione di un’ampia serie di rocce granitiche e di altre plutoniti, certamente più antiche di un complesso sedimentario metamorfosato. Questi sedi¬ menti comprendono, tra l’altro, dei conglomerati ancora riconoscibili, contenenti ciottoli di graniti e di quarziti più antiche, che devono per conseguenza essere più vecchi di 2000 milioni di anni. Poiché la Terra deve essere ancora più vecchia, si può considerare questa cifra di 2000 milioni di anni come un apprezzamento moderato della sua età minima. Per stimare l'età massima della Terra possiamo ammettere che, all’inizio, ella non contenesse l’isotopo di piombo Pb207 e che tutto il Pb207 che attualmente si trova nelle rocce granitiche ordinarie della crosta continentale sia stato proflotto a partire da U23°. Le rocce gra¬ nitiche contengono in generale 20 parti per milione di piombo e 3,5 parti per milione di U2i\ Non >i è ancora determinato esattamente la costituzione isotopica del piombo granitico, ma analisi isotopiche di diversi campioni di piombo estratto dalla galena e da altri minerali di piombo del Terziario >ono state effettuate da Nier e dai suoi col¬ laboratori. Questi minerali rappresentano delle concentrazioni di piombo granitico datate di circa 25 milioni di anni; ciò che è suffi¬ cientemente vicino al presente per i nostri bisogni. Le proporzioni medie di piombo terziario sono: Pb207 Pb208 15,55 38.28 p arti p e r 1 m i I i on e a 4,2 10,4 nelle rocce granitiche attuali. Prendendo il valore Pb20'/U = 4, 2/3, 5 e applicando la corrispon¬ dente formula >i trova che il tempo necessario alla produzione di tutto il Pb207 e 5.400 milioni di anni. L’età della Terra è dunque compresa tra 2.000 e 5.400 milioni di anni. È possibile arrivare ad un valore più preciso. Nier ha determinato le quantità relative degli isotopi di piombo in 25 campioni provenienti da minerali eli piombo appartenenti a differenti età geologiche. I risultati rivelano tra Pb206, Pb20' e Pb_os delle relazioni che >ono esattamente le stesse di quelle che si sareb¬ bero avute se il piombo primitivo presente in origine nella crosta terrestre fo^se stato lentamente trasformato da apporli di piombo radiogenico. Pb204 Pb2,)G 1 18,54 corrispondenti presso a poco in 0,27 5,1 Minerale . | Località . Età geologica Età in milioni di anni Pecblenda 1 Colorado Fine del Terziario 58 99 Boemia Carbonifero Superiore 215 Sauiarskite Connecticut Fine del Devonico 255 Cyrtolite New York Fine dell’ Ordoviciano 350 Pecblenda Congo Pre Cambrico 580 Uraninite Tanganyika » 59C 99 Ontario •>, 760 Broeggerite Norvegia « 860 Cleveite 99 « 1.075 Pecblenda Canada 1 ” 1.330 Uraninite Karelia 1.765 1 Manitoba ” 1.985 Il problema può dunque porsi nei seguenti termini: conoscendo la composizione isotopica del piombo contenuto nelle rocce, quale era nelle varie epoche, tra 1.330 milioni di anni (Pecblenda del Ca¬ nada: Lago degli Orsi) e 25 milioni di anni (campioni terziari), tro¬ vare le quantità relative di Pb*06 e Pb207 nel piombo primitivo della Terra ed il tempo passato dal momento in cui per quello piombo hanno avuto inizio le modifiche di composizione isotopica dovute al¬ l’apporto di piombo radiogenico; questo tempo (t0) è l’età della terra. Utilizzando i simboli seguenti, essendo cioè tm l’età del minerale di piombo Pb204 P b 2 PI# Pb2'8 Piombo minerale 1 a h c Piombo primitivo Piombo radiogenico pro¬ 1 X y z dottosi nell’ intervallo di tempo da t0 a t m a-x b-y c-z si può scrivere b — y numero d’atomi di Pb207 prodotti dii t0 a tm a — x numero d’atomi di Pb206 prodotti da t0 a tm f — 99 __ Dall’espressione a destra è possibile calcolare r (per un appro< priato valore di tm) per ciascun valore di t0 compreso tra 2.000 e 5.000 milioni d’anni. Per ciascun valore di t0 infatti si ha: ar — xr = b — y per un campione d’età tm aV — xr' = b' — y » » » » t' m da cui b — b' -f a'r' — ar x = — - ^ - t — • - r' — r c y =b + xr ar Applicando queste formule per 3 campioni di precisata età (di cui pertanto si sanno i valori di t e t'm e di a, b e a' e b') si pos¬ sono conoscere i corrispondenti valori di x e y. Rappresentando x in funzione di t in un diagramma si deve trovare un punto che dà una soluzione per x e per t0. Trattando nella medesima maniera altri due campioni di piombo di determinata età si può, in maniera analoga, costruire una seconda curva di x in funzione di t nella quale vi sarà un punto che dà una soluzione per x e t0. Nel punto d’intersezione delle due curve si avrà il valore t0 cercato. Analogamente può farsi per y e per l e con molle altre coppie di campioni. È ovvio che con tal metodo si ottengono molte solu¬ zioni, ma l’esperienza ha mostrato, per oltre 200 soluzioni possibili, che i punti d’intersezione si concentrano tra 3.000 e 3.400 milioni di anni; il che è già un risultato abbastanza preciso. Costruendo inoltre altri gruppi di curve si sono ottenute 1.257 soluzioni per t0 x e y: il valore medio di t0 è risultato 3.290 milioni di anni. Ma un dia¬ gramma delle frequenze dei valori t0 rivela un massimo ben marcato a 3.350 milioni di anni che, secondo Holmes, rappresenterebbe una cifra più esatta del valor medio (3.290); pertanto questo autore ri¬ tiene che il valore di 3.350 milioni di anni è quello più probabile, per l’età della Terra. Napoli . Università. Istituto di Geologia Applicata e Arte Mineraria novembre 1947. Morfologia delle corone dentarie nei molari umani Nota del socio Antonio de Roga Tornata del 30 luglio 1947) Lo studio morfologico delle corone dentarie nell’uomo è stato fatto su di una collezione di cranii dell’Istituto di Antropologia. Essi sono lutti dell Italia meridionale, come pure della medesima regione sono le mandibole esaminale per lo studio morfologico delle corone dentarie nel mascellare inferiore. Non tutti i cranii c non tutte le mandibole sono stati utilizzali per un efficace esame, perchè alcuni mancanti di denti ed altri per la presenza di denti troppo usurali o rosi dalla carie. Poiché la mancanza degli incisivi, dei canini e dei premolari è assai frequente tanto nei cranii che nelle mandibole, lo studio morfo¬ logico delle corone dentarie è stato limitato ai soli molari, i quali per la speciale forma della radice più facilmente rimangono in situ. Il materiale che mi è servito per le ricerche risulta dalla tabella che segue : 1. Molare 2, Molare 3. Molale N. desti-. sinist. i Total. destr. 1 Sinist, I _ Total. destr. sinist. Total i Totale | generali Cranii osservati 107 97 91 _ 188 96 89 185 48 45 93 466 Mandibole osservate 100 76 83 159 83 | 91 174 55 55 110 443 909 Metodo di studio il fatto che la collezione da me esaminata è costituita di cranii sprovvisti di mandibola, ini ha obbligato a studiare i due mascellari separatamente. I molari sono stati esaminati in situ , con la superfìcie triturante rivolta in alto e l’arcata dentaria situata in modo da avere l’angolo convergente in avanti. Ho esaminato il dente non solo in rife¬ rimento al numero delle sue cuspidi, ma anche in rapporto alla forma ed al volume della corona, alla sua superficie triturante, alla confor¬ mazione dei solchi limitanti le cuspidi o tubercoli. Nel segnalare le cuspidi di ciascun dente, ho seguito il criterio di considerare anche quei tubercoli un po’ più piccoli, purché avessero raggiunto un certo valore morfologico. Terminologia Prima di passare all’esame morfologico dei molari, fio creduto ne- cessano determinare quale dovesse essere la terminologia da adottare. Io ho seguita la nomenclatura proposta dal Mahè che è la più semplice e facile a ricordarsi e che somiglia molto alla terminologia proposta dagli antichi anatomici. Considerando tanto barcata delia mascella superiore, quanto quella della mandibola come due angoli col vertice -ituato tra i due incisivi mediani, ho chiamato anteriore la superficie del dente rivolta al ver¬ tice dell’angolo . posteriore quella opposta, interna la superficie che guarda la lingua, esterna quella opposta. Questa terminologia permette la facile indicazione delle facce della corona, come pure quella dei tubercoli; combinando i termini sopra indicati, essi sono così denominati : tubercolo antero -interno tub. centrale (mesialè) linguale; protocollo » • » -esterno » » » labiale; paracono » postero-interno » distale linguale; ipocono » » -esterno » » labiale; melarono Questa terminologia può essere estesa anche alla mandibola, indi¬ cando con un numero quei tubercoli che superano i due, sia alla parte interna che a quella esterna. Allora i tubercoli, così denominati, con riferimento alle altre nomenclature adottate, sono: t ubere, aliterò* interno tub. centrale (mesiale) linguale; metaconide » » -esterno )> » » labiale; protoconoide » postero-interno » distale linguale; entoeonoide » )) -esterno » » labiale;* ipoconoide )> » » -secondo » (mesiale) ipoeonulide Denti molari della mascella Caratteri generali. — I tubercoli dei molari superiori sono indi¬ vidualizzati da solchi più o meno profondi, i quali, a loro volta, pos- — 102 — sono dare origine ad altri solchi piò piccoli chiamati: solchi di secondo ordine. Questi solchi, come ho potuto osservare, si trovano ordinaria¬ mente distribuiti in numero di due sulla superfìcie libera di ciascun tubercolo, in modo che questa viene divisa in due parti: una mediana, più voluminosa, e due laterali. I due solchi tendono ad unirsi in basso presso i solchi principali detti: di primo ordine. Quando il numero dei solchi è maggiore, per cui oltre ai solchi di primo e secondo or¬ dine, esistono anche solchi di terzo ordine, allora la superfìcie tritu¬ rante assume un aspetto più o meno finemente pieghettato, che dal Topinard fu chiamato : Chagrinè. Naturalmente ciò può riscontrarsi in quei denti che non sono stati usurati. Rispetto ai ninnerò dei tuber¬ coli esistono due varietà morfologiche, cioè la quadruspide e la tricu¬ spide. Nel tipo quadricuspide i quattro tubercoli sono situati ai quattro angoli del romboedro costituente la corona del dente. Il romboedro può essere più o meno schiacciato, secondo il diametro antero-poste- riore, oppure secondo quello trasverso. I tubercoli sono divisi da tre solchi, due dei quali a forma di V circondano rispettivamente i! tubercolo antero-esterno e quello postero¬ interno; un terzo solco, posto nel centro della superfìcie di mastica¬ zione, va obliquamente dal tubercolo antero-esterno a quello postero- interno ed unisce gli altri due solchi. La disposizione dei solchi in un molare sinistro assume la forma della figura L (schematica). Alcune volte, però, questo terzo solco può mancare ed allora gli altri due tubercoli, cioè il postero-esterno e quello antero-interno, sono uniti da una cresta più o meno pronunziata, descritta per la prima volta dall’OWEN. Spesso si verifica lo schiacciamento nel senso antero-posteriore della corona, specialmente nel terzo molare. Nel quale caso la cresta può esservi o mancare. Nei molari superiori è assai rara la disposizione a croce dei solchi. I tubercoli non hanno quasi mai uguale volume: ordinariamente il più sviluppato è quello an¬ tero-interno. mentre il più piccolo è il postero-interno. Nel tipo tricuspide la corona ha quasi la forma di prisma triangolare, sulla cui superfìcie di masticazione esiste un tubercolo per ogni angolo. L’unico tubercolo che trovasi internamente, od al lato linguale, costituisce l’apice, mentre i due tubercoli esterni o labiali for¬ mano la base del triangolo. I tubercoli sono divisi da due solchi: uno sagittale, schematica }’allro trasversale, che divide i due primi. La disposi¬ zione che i due solchi assumono in molare sinistro, risulta dalla Fig. 2. 1 ' 103 — Il tubercolo interno è più voluminoso, mentre il più piccolo è quello postero-esterno. Il tipo quadricuspidale è più frequente del tricu¬ spide, e si può dire che nel primo molare è costante il primo tipo. In¬ fatti, in tutti i cranii da ine esaminati, il primo molare, tanto a destra che a sinistra, è quadricuspide. Invece, nel secondo mo¬ lare ho trovato spesso il tipo tricuspide, nel quale ru¬ nico tubercolo interno si presenta assai sviluppato e con r apice molto arrotondato, quasi come se risultasse dalla fusione dei due tubercoli interni. Il diametro antero-po- stériore in questo tipo di dente è accorciato e lo diviene ancora di più nel terzo molare, in cui il tipo tricuspide è molto più frequente che nei precedenti. Da ciò che si è detto innanzi, risulta dunque che solamente in casi rarissimi si può riscontrare nel primo molare il tipo tricuspide, mentre nel secondo e nel terzo molare più facilmente questo tipo si può pre¬ sentare. Fig. 2 schematica Tubercolo del Carabelli. — Nel primo molare superiore sporge talora dal lato interno della corona un altro tubercolo, il quale, quando si presenta mollo sviluppato, può avere l’aspetto di una quinta cu¬ spide. Il volume di questo speciale tubercolo può variare di grandezza oscillando da un piccolo e semplice abbozzo sulla superficie interna della corona, fino a raggiungere la superficie di masticazione. Questo tubercolo fu scoperto dall’anatomista Carabelli e da lui chiamato tuber- culum anomalum , ma attualmente è conosciuto sotto il nome di tubercolo del Carabelli. Sul significato di tale tubercolo le opinioni non sono concordi, perchè alcuni lo considerano come un tubercolo anomalo, mentre altri, che formano la maggioranza, non vedono in esso nulla di anomalo, ragione per cui lo danno chiamato tuber¬ colo accessorio del Carabelli. Per questi ultimi esso è troppo fre¬ quente perchè lo si possa considerare come un tubercolo anomalo, mentre per i primi non è tanto frequente per ascriverlo alla cate¬ goria dei tubercoli normali. Però è stato osservato che il tubercolo di Carabelli, considerato in tutti i suoi gradi di sviluppo, è molto più frequentemente presente che assente. Per lungo tempo il tubercolo del Carabelli è stato valutato per una minuscola anomalia senza significato patologico ma da alcuni è stato attribuito ad esso un significato clinico, un valore semeiotico della più alta importanza. La presenza del tubercolo del Carabelli, in assenza di tutti gli altri sintomi, sarebbe un segno certo della sifilide ereditaria. Si comprende quindi quale valore diagnostico avrebbe in tal caso la presenza di quel tubercolo di sì facile accer- lamento. Questa ipotesi poggia sul fatto che il tubercolo del Cara- — 104 — belli è spesso associato ad altre anomalie dentarie che sono la testi¬ monianza incontestabile della sifilide ereditaria; ed il più spesso delle volte esso costituisce 1 unico sintomo e la unica anomalia ri¬ scontrabile nei soggetto. Qui sorge una legittima domanda: È possibile fare in alcuni casi una diagnosi sulla semplice presenza di un tubercolo soprannu¬ merario? Il principale argomento che viene dato in sostegno di questa ipotesi è che la reazione del Wassermann sarebbe costante¬ mente positiva in quei soggetti elle presentano il tubercolo del Cara- belli. Ma questo fatto die ha tutta l’apparenza di causalità, costi¬ tuisce, invece, una concordanza puramente accidentale. Infatti, su 32 soldati aventi tutti il tubercolo del Carabelli molto sviluppato, solamente 12 presentarono positiva la reazione del Wassermann. A prescindere da questo fatto, che già da solo è ^ufficiente per dimo¬ strare l’infondatezza dell’ipotesi, bastano alcuni dati storici per de¬ bellarla del tutto. È notorio che la sifilide esisteva in Europa allo stalo sporadico e sotto una forma molto benigna sino al punto da passare quasi inosservata, fino alla grande recrudescenza epidemica avvenuta verso la fine del secolo XV, in cui gli equipaggi di Cristo- foro Colombo dall’America importarono la malattia. Se la ipotesi accennata fosse vera la percentuale del tubercolo del Carabelli dovrebbe elevarsi continuamente a partire dai secolo XV. poiché da quest’epoca la sifilide prende vera forma epidemica e nel tempo stesso diviene più severa nei suoi effetti. Dai dati stati¬ stici raccolti da Janselme risulta che il tubercolo del Carabelli ha su per giù la stessa frequenza sia prima del secolo XIII che dopo il secolo XV. D’altra parte, se la America è stata la culla primitiva della sifilide, il tubercolo del Carabelli dovrebbe essere comunis¬ simo nel periodo anteriore alla scoperta del Nuovo Mondo. Ebbene, lo stesso Janselme, nel Perù, nel Messico e nell’America Centrale, lui trovate in piccola percentuale il tubercolo del Carabelli. Janselme ha voluto puie studiare i precursori dell'uomo per ricercare l’ori¬ gine del tubercolo, ed in seguilo a minuziose ricerche ha potuto sabilire che quest'anomalia sarebbe l’ultimo avanzo di un sistema di cuspidi avventìzie bene sviluppate nei Lemuri ed in certe specie di Scimmie. Queste cuspidi avventizie provengono dal cingulum , il quale nel gibbone emette alcune volte una cuspide, che, per sede, forma e volume rassomiglia al tubercolo del Carabelli. L’esame morfologico dei molari osservati risulta dal primo pro¬ spetto analitico annesso al presente favolo. Confrontando le statistiche di diversi autori che si sono occupati dello studio dei tubercoli dei molari superiori, trovo che la per¬ centuale dei casi di primi molari a quattro tubercoli è confermata 105 dai risultati delle mie osservazioni. Il Topinard trovò una percen¬ tuale di 99,3;% ed avrebbe avuta quella del 100% se avesse conside¬ rati come molari a quattro tubercoli anche quelli che egli giudica avere 3 V2 tubercoli. Il Ròse trovò pochissimi casi a tre tubercoli , mentre il Pier- santi su 1650 molari studiati, trovò 20 primi molari del tipo tricu¬ spide. Il De Terra, nelle sue statistiche, non osservò casi a tre tuber¬ coli nei primi molari superiori. Se nel primo molare la percentuale dei casi a tre tubercoli è quasi zero, nel secondo molare essa oscilla fra il 30 ed il 45!%; mentre nel terzo molare questa percentuale rag¬ giunge quasi il 78%. Nei 466 molari da me esaminati la distribuzione del tipo qua- druspide e tricuspide nei molari superiori risulta dalla tabella seguente : f Sopra 466 molari superiori esaminati Numero «lei molari esaminati Tipo quadricusp ide Ti po tricuspide destra F . ;F sinistra destra sinistra Totale destra sinistra Totale 1. , M dare | 97 91 97 91 188 0 0 0 . 2 . Molare J 96 o\ co 65 68 133 31 ! 21 1 52 1 3 . Molare ; : ! 48 45 16 i ' ! 16 32 32 29 ; 61 — 106 — Dalle cifre riportate nella precedente tabella, si hanno le se¬ guenti percentuali per il tipo quatrieuspide e tricuspide: Numero de» molari esaminati l ipo qua- dricusp. Tipo tri¬ cuspide Percentuale dei tipo quadrieuspide Percentuale tricupis del tipo inide Percentuale generale [ del tipo destra sinistra J destra *3 *3> *0 | sinistra destra sinistra destra j sinistra quadri cu¬ spide tricuspide 1. Molare 97 91 97 91 0 0 100% 100% o o / U io 0 X . 100 % 0% 2. M< alare 1 i 96 89 65 68 31 21 67,70% 76,40% 32,30 % 23,60% 71,88% j 28,22% 3. M< alare • 48 45 16 16 32 29 33,33% 33,33% 64,45% 64,45% 32,25% 67,75% 1 Nel terzo molare superiore ho riscontrati tubercoli soprannu¬ merari per cui il numero delle cuspidi si eleva a cinque. In quattro cranii ho osservato questo fatto: nel cranio segnato col n. 74 i due denti della saggezza presentano cinque tubercoli, mentre nei cranii n. 66 e n. 102 ciò si verificò soltanto nel terzo molare sinistro e nel cranio n. 416 in quello destro. Tubercolo del Cara belli. — Questo tubercolo l’ho notato in 13 casi su 107 cranii, cioè nella misura del 12,14%!. Il VRAM lo ri¬ scontrò in ragione deU’11% ed il Piersanti ottenne la percentuale del 12,14%o negli Europei moderni. Nella seguente tabella il tuber¬ colo del Carabelli nei tre molari è così distribuito: CASI OSSERVATI TOTALE destra sinistra Mj 13 10 23 M, 1 1 2 m3 0 2 2 Risulta evidente che il tubercolo del Carabelli è assai frequente nel primo molare ed è molto raro nel secondo c nel terzo. Nel primo molate destro e sinistro vi è quasi sempre corrispon¬ denza nel numero delle cuspidi ed e raro il caso in cui esso non . vi sia. Lo stesso avviene anche per il tubercolo del Carabelli: in uu — 107 — sol caso ho potuto notare la mancanza di simmetria, cioè nel cranio n. 180 nel quale il primo molare destro porta il tubercolo del Cara- belli, mentre il sinistro ne è sprovvisto. Nel secondo molare la simmetria è meno perfetta : in 10 casi ho potuto osservare che, mentre uno dei due molari aveva quattro cuspidi, l’altro ne portava tre. Nel dente della saggezza la tendenza alla simmetria prevale e solo in quattro casi non l’ho riscontrata. In lutti i 466 molari non ho mai notato il presentarsi dei solchi a croce; invece ho potuto spesso verificare la presenza dell’aspetto ehagriné, specie nel terzo molare. Studiando il numero dei tubercoli in ogni semiarcata alveolare, ho voluto vedere quali fossero i tipi di combinazione e quali fos¬ sero quelli che si presentassero con maggior frequenza. I tipi di combinazione ottenuti sono i seguenti: 4, 4, 4; 4, 4, 3; 4, 3, 3; 4. 3, 4; 4, 4, 5. In ogni tipo di combinazione la prima cifra indica il numero dei tubercoli dei primi molari, la seconda quello del secondo molare c la terza il numero dei tubercoli del terzo. I risultati ottenuti si rilevano dallo specchietto seguente: COMBINAZIONI CASI OSSERVATI M\ M2 m3 . destra sinistra Totale Percentuale 4 4 4 li 10 21 29,1;% 4 4 3 18 14 32 44,3 H 4 3 3 11 8 19 26,6% 72 Oltre i tipi di combinazione già indicati, ho avuto i seguenti aggruppamenti che si possono considerare come eccezionali : COMBINAZIONI CASI OSSERVATI TOTALE Mx M2 m3 a destra a sinistra 4 3 4 0 1 1 4 4 5 2 3 5 Mancanza del terzo molare. — La mancanza del terzo molare o dente della saggezza è piuttosto frequente. Il Darwin fu il primo ad affermare che tale mancanza si verifica molto più frequentemente nei popoli più progrediti. In Italia il Mantega?za, il Vram, il Livi ed altri si sono diffusamente occupati dei!" argomento e tutti sono stati concordi nel confermare ciò che felicemente intuì il Darwin, cioè la tendenza a scomparire del terzo molare nei popoli più civili. È chiamato dente della saggezza appunto perchè è l'ultimo a spuntare: ordinariamente tra il 23° ed il 30° anno, alcune volte più tardi ancora o non spunta addirittura. Il numero dei casi dì mancanza del terzo molare risulta dal se¬ guente quadro : crani esaminati CASI OSSERVATI destra percent. sinis. percent. Totale percent 107 14 13!%. il 10%; 25 23% In IO cranii ho riscontrata la mancanza dei terzo molare da ambo i lati, in 4 crani a destra ed in uno a sinistra. La mancanza del lerzo molare mi ha dato due tipi dì combina¬ zioni, cioè 4,4 e 4,3, i quali sono così distribuiti: combinazioni: casi osservati M, a destra a sinistra Totale Percent. 4 • 4 3 7 15 62,5!% 4 3 5 4 9 Totale 24 37,5'% Anomalie particola ri Nel cranio N. 31 ho già detto di avere osservato il tubercolo del Carabelli nel primo, secondo e terzo molare sinistro e nel primo e secondo molare destro. Tale tubercolo decresce di volume dal primo al terzo molare a sinistra, mentre nel secondo molare destro, oltre il tubercolo del Carabelli, ho riscontrati altri tre piccoli tubercoli situati lungo il margine posteriore della superficie di masticazione. I detti tre tubercoli stanno in luogo del tubercolo postero-interno: quindi il dente presenta sulla superficie triturante 7 eminenze di cui 3 molto sviluppate '(cuspidi) e 4 più piccole, di cui la prima, procedendo dall’avanti alLindietro, è il tubercolo del Carabelli c te altre tre stanno in luogo della quarta cuspide. In frequenti casi ho potuto osservare il poco sviluppo dei denti della saggezza o la loro inclusione nell'osso. Nel cranio n. 15 ho riscontrata un’anomalia di numero rap- — 109 — presentata dalla mancanza di due premolari, uno a destra ed uno a ministra, mentre nel cranio n. 25 ho trovata un’altra anomalia dello stesso genere, cioè la mancanza dei due incisivi laterali. Nei crani n. 59 e 588 ho trovato un’anomalia di direzione nel terzo molare, in cui si è avuta la la'tOr over sione esterna del dente. Sintesi dej fatti osservati Riassumendo i risultati delle mie ricerche, si vede: 1°) Che nei molari superiori si ha il tipo di dente a quattro tubercoli. 2°) Che tale tipo è costante nel primo molare. 3°) Che nel secondo e terzo molare vi è tendenza alla ridu¬ zione progressiva del numero delle cuspidi, come pure del volume di esse procedendo dal primo al terzo molare. 4°) Che mentre la percentuale del tipo a quattro tubercoli nel primo molare è del 100%. nel secondo del 71,88% e nel terzo del 32,25%, la percentuale del tipo a tre tubercoli è nel primo molare dello- Q%, nel secondo del 28,22%, nel terzo del 69,75% . 5°) Che nel primo molare vi è la tendenza all’aumento dei numero dei tubercoli per la Formazione del tubercolo del Carabelli, il quale così compensa la tendenza alla diminuzione numerica e di volume dei tubercoli del terzo molare. 6°) Che possono svilupparsi dei tubercoli anomali e distribuirsi -ui margini liberi del dente o incunearsi fra quelli normali. 7°) Che i denti della semiarcata destra, quando non vi è sim¬ metria, hanno tubercoli più sviluppati e più numerosi della semi- arcata sinistra. Molari della mandibola Per lo studio morfologico dei molari inferiori mi sono servito di 100 mandibole con 443 denti, così d ivisi : M, m2 M, TOTALE destra sinistra destra sinistra destra sinistra 76 83 83 91 55 55 443 Caratteri generali. — Mentre nei molari superiori il tipo di dente è a quattro tubercoli i. nei molari inferiori , invece, è a cinque tubercoli. Inoltre, i tubercoli sono ancora meglio individualizzati dai Ilo solchi di divisione. Però, come si verifica ilei molari superiori, anche qui vi può essere una variazione numerica dei tubercoli, per cui se ne possono avere più o meno di 5. Le varietà morfologiche più co¬ muni sono: la pentacuspide e la quadrieuspide. Varietà pentacuspide. — Situando la mandibola in modo che la sinfisi mentoniera sia rivolta anteriormente ed esaminando la su¬ perficie triturante di un primo molare, si osserva che le cinque cu¬ spidi, varie per la loro grandezza, sono individualizzate da due solchi principali di primo ordine. Uno di questi solchi decorre lungo il piano sagittale del dente, si biforca posteriormente, circondando così i tubercoli in due serie: esterna ed interna. L’altro solco de¬ corre trasversalmente, è quasi perpendicolare al primo, divide i tu¬ bercoli in anteriori e posteriore. I due solchi assumono, in un molare sinistro, la figura N. 3. Ordinariamente due cuspidi si trovano al lato linguale od interno e tre a quello labiale od esterno. Secondo la nomenclatura stabilita, si chiamano rispettivamente: antero-interno e postero-interno; an- tero-esterno, postero-esterno e postero- esterno secondo. I tubercoli antero-interno e postero-interno sono quasi sempre più piccoli; quello però che è il più piccolo di tutti è il tubercolo postero-esterno secondo. È rarissimo il caso in cui si abbiano tre tubercoli situati internamente e due esternamente. Il diametro sagittale di questi denti pentacuspidi varia da 10 a 12 rum, quello trasverso è più breve e varia da 9 a 12. Dai -olehi di primo ordine si elevano verso l’apice delle cu¬ spidi, solchi di secondo ordine in numero di due, i quali dividono la superficie della cuspide in tre creste: una centrale più sviluppata e due laterali. Quando si osserva la presenza di solchi di terzo ordine, la super¬ ficie triturante diventa frastagliata ed allora si dice che ha l’aspetto chagriné. Fig. 3 schematica Varietà quadricuspide, — È caratterizzata dalla presenza di quattro tubercoli divisi da due solchi, sagittale e trasverso, i quali si incontrano perpendicolarmente nel centro della superficie tritu¬ rante, per cui si può dire che in questa varietà di dente si ha 1 in¬ contro dei solchi a croce. La figura che assumono è la seguente: — Ili La corona presenta realmente la forma cubica. Men¬ ile nel primo molare è frequente il tipo pentaeuspide, ° ° nel secondo e nel terzo molare è assai frequente quello _ quadricuspide, nel quale si è notata la scomparsa del tubercolo postero-esterno secondo. Anche qui i due tu- q q beccoli interni sono più piccoli di quelli esterni. Il tipo . , . Fig. 4 tricuspide e assai raro. , 1 . # schematica I tubercoli superiori a cinque bisogna considerarli tome anomali: essi possono presentarsi o nel mezzo del dente o alla superficie tra un tubercolo e l’altro.- Il terzo molare può presentarsi sotto differenti forme che possono variare dalla atrofia al polimor¬ fismo. Alcune volte questo dente si presenta senza che le cuspidi siano individualizzate e ridotto di volume. In tal caso ricorda la for¬ ma della rosa prima di sbocciare. Più frequente è la mancanza del «erzo molare rispetto al mascellare superiore appunto, perchè la bran¬ ca ascendente della mandibola non lascia spazio sufficiente per lo sviluppo del dente, il quale spesse volte resta incluso nell’osso. L’esame morfologico dei molari della mandibola si desume dal secondo prospetto analitico annesso al presente lavoro. Nel terzo molare esiste una grande variabilità nel numero dei tubercoli; in questo dente vi possono essere cinque, quattro e tre tubercoli. Il VRAM ha trovato che il quadricuspide è rappresentato dal 54,5% ed il pentaeuspide dal 13,6%. La tendenza alla riduzione dei tubercoli che si osserva nel terzo molare della mascella si ha anche in quello della mandibola, per cui il tipo tricuspide è rarissimo nel primo molare, raro nel secondo, meno raro nel terzo. La distribuzione dei vari tipi nei 443 molari da me esaminati risulta dalla seguente tabella : Numero dei molari esaminati destra 1. Molare 76 83 2. Molare 83 3. Molare 55 55 Tipo pentaeuspide Tipo quadricuspide II destra sinistra | totale ! destra 70 72 91 13 13 12 17 142 26 29 69 40 sinistra totale Tir >o tricuspide destra sinistra totale 11 76 38 17 0 145 1 0 0 2 3 78 ; 2 1 Di qui ho ricavato ìe seguenti percentuali: Numero dei molari esamina ti Percentuale del tipo pentacuspide Percentuale del ! tipo quadricuspidei Percentuale del tipo tricuspide Percentuale generale del tipo destra sinistra destra sinistra destra j sinistra j 1 destra sinistra penta¬ cuspide quadri- cuspide tricnsp. 1. M «lare ' I 76 83 93,3°/0 85,7% _ c o r- 14,3% 0% 8%' 88,1% 14,7% 0% O M olare . 83 : 91 AM% 1 14,1% 83,5% 83,8% 1,1% 2,lo/o 14,7% 83,6% b7% 3. Molare 55 55 1 21% ; 30,3% 72,7% 67,8% 3,6% 1,7% 25,2 % 72,1% ' 2,7% In un sol caso ho oss e r vaio sei tubercoli nel primo e nel se- conilo molare di de: -tra e di sinistra, cioè nella mandibola I S‘. 50. Anche nello studio dei molari della mandibola ho voluto vedere ionie si comportassero i tipi di combinazione in ogni semiarcata al¬ veolare e quale fossero i tipi più comuni. Ho ottenuto i tipi se¬ guenti: 5, 5, 5; 5, 4, 5; 5, 4, 4; 4, 4, 4. I tipi 5, 5, 4 e 5, 4, 3 non li ho avuti che una volta a destra ed una a sinistra del primo e due a destra e una a sinistra del secondo, quindi essi sono da consi¬ derarsi come eccezionali. In ogni tipo la prima cifra indica il numero dei tubercoli del primo molare, la seconda quella del secondo molare e la terza il numero dei tubercoli del terzo. I risultati sono : Mx m2 Ma destra sinistra Totale Percentuale 5 5 5 4 2 6 7,7% - 5 4 5 5 11 16 20.3% 5 4 4 26 22 48 60,7% • . 4 4 •4 4 5 9 11,3% Totale 79 Mancanza del terzo molare. — Come per i molari superiori, ho voluto cercare anche per quelli inferiori il modo di comportarsi della mancanza del terzo molare. Il numero dei casi di mancanza del terzo molare risulta dal seguente quadro: — 113 — Mandibole Esaminate casi osservati destra percenti sin. percent. Totale pere. 100 20 20% 18 18% 38 38% In 15 mandibole ho riscontrato la mancanza del terzo molare da ambo i lati, in 5 a destra e in 3 mandibole solamente a sinistra. I tipi di combinazione da me ottenuti per la mancanza del terzo mo¬ lare sono: 5,5; 5,4; 4,4; essi sono così distribuiti: COMBINAZIONI CASI OSSERVATI M, m2 a destra a sinistra Totale Percent. 5 5 4 8 12 32,4% 5 4 11 10 21 56,8% 4 4 1 3 4 10,8% Totale 37 Ho riscontrate pure le combinazioni seguenti, che sono da rite¬ nersi eccezionali : COMBINAZIONI CASI OSSERVATI Mi M2 5 3. 1 6 6 2 Anomalie particolari Nella mandibola N. 50 i primi ed i secondi molari presentano un tubercolo soprannumerario in corrispondenza del margine po¬ steriore di ciascun dente, cioè tra il tubercolo postero-interno e quello postero-esterno. Tale tubercolo è più sviluppato nei primi molari, mentre è appena abbozzato nei secondi. Nella mandibola segnata col N. 57 ho trovato un’anomalia che è unica in tutte le 100 mandibole da me studiate; nel secondo mo¬ lare sinistro si osservano cinque cuspidi, le quali non sono disposte com’è di regola nel tipo pentacuspide, cioè tre cuspidi all’esterno e due all’interno, ma invece hanno una disposizione inversa, ossia due sono situate esternamente e tre internamente. Nella mandibola N. 68 i terzi molari non sono in continuazione della medesima linea oriz- 8 — 114 — zontale degli altri due molari, ma sono invece piantati nella mandi¬ bola in modo da formare ciascuno con la superficie triturante un angolo con quella del secondo molare. Nella mandibola N. 72 si ha lo stesso fatto nel terzo molare sinistro. • • • . p *y ■ • . • Sintesi dei fatti osservati Riassumendo i risultati delle mie osservazioni, si vede: 1°) die nel primo molare inferiore prevale il tipo di dente pentacuspide, il quale è rappresentato dalT88,l|%; 2 °) che il numero delle cuspidi tende a ridursi nei molari suc¬ cessivi, ma in una misura inferiore a quella che già è stata osser¬ vata nei molari superiori; 3°) che nel secondo molare inferiore si ha la riduzione a quattro del numero dei tubercoli e che il tipo quadricuspide è rappresentato in questo dente dall’82 ,4}% ; 4°) Che’ nel terzo molare si ha una maggiore variabilità: il tipo pentacuspide trovasi in una ragione del 25,2J%; il quadricuspide è rappresentato dal 72,1% ed il tricuspide dal 2,7%; 5°) che non sempre vi è corrispondenza nel numero dei tuber¬ coli dei denti tanto nella semiarcata di destra che in quella di si¬ nistra e che vi ha, in generale, un numero maggiore di tubercoli nei molari di destra. CONCLUSIONI ■i ; • • - l . - / v! • / Le ricerche da me fatte sui denti molari dell’uomo, tenendo conto dei fatti osservati, mi hanno portato alle conclusioni seguenti: 1°) Che il numero dei tubercoli, tanto nei molari superiori che in quelli inferiori, tende alla riduzione, procedendo dal primo al terzo molare; 2°) che tale riduzione si presenta in maggior misura nei denti del mascellare superiore che in quelli della mandibola; 3°) che dei vari tipi di denti molari (pentacuspide, quadricu¬ spide, tricuspide) appartengono alla mandibola prevalentemente quelli aventi un maggior numero di tubercoli rispetto al mascellare superiore. Tale fatto è dovuto alla maggiore funzionalità che possiede la mandibola nel meccanismo della masticazione; — 115 — 4°) che non esiste sempre corrispondenza tra il mimero ed il volume dei tubercoli, tra la semiarcata destra e la sinistra; 5°) che nel primo molare superiore ed iri quello inferiore esiste una maggiore costanza nel numero dei tubercoli e che tale costanza rapidamente diminuisce nel secondo e nel terzo molare; 6°) che il tubercolo del Carabelli costituisce una nuova utiliz¬ zazione di un’antica disposizione, essendo destinato a compensare nel primo molare superiore la riduzione numerica e di volume dei tubercoli che si riscontra nel secondo e nel terzo molare superiore; 7°) Che il terzo molare può ridursi nel volume o sparire del lutto e che questo fatto va considerato come un arresto di sviluppo dovuto, forse, alla sua scarsa funzionalità; &°) che i primi molari superiori ed inferiori presentano un maggior numero di tubercoli rispetto ai molari successivi, come pure maggiore è il volume di essi, perchè ai primi molari è affidato il massimo lavoro nella triturazione degli alimenti. Considerazioni ed osservazioni comprovanti che 1’ eruzione del 1944 fu terminale Nota del socio Giuseppe Imbò (Tornata del 26 Novembre 1947) Con grande piacere ho visto risorgere la collezione di «Notizie vesuviane », curata oggi dal Prof. Parascandola la quale, con la espo¬ sizione di osservazioni delll’A. eseguite per lo più in occasione di escur¬ sioni al cratere, avrebbe lo scopo di dare il personale contributo nella redazione dellla cronistoria sull’attività del nostro vulcano. Solo il 31 ottobre u. s. mi sono state inviate in gradito omaggio le tre note finora pubblicate e farei un torto alla Società di cui mi onoro far parte ed allo stesso autore, mio caro amico sin dall’in¬ fanzia, se io, per correttezza scientifica, per il dovere impostomi dalla mia carica, non cercassi di evitare che, sotto la parvenza di indiscu¬ tibili conclusioni si diffondessero e si perpetuassero interpretazioni dei fenomeni in netto disaccordo con dirette osservazioni. Mi è molto rincresciuto di non aver partecipato alle sedute nelle quali il Para- SCANDOLA ha presentato le note perchè, in seguito a discussione pub¬ blica forse l’Autore Sarebbe stato indotto a modificarne il testo. Senza pronunziarmi sulPutilità o meno di alcune osservazioni, i miei rilievi in questa breve nota si limitano invero a mettere in evi¬ denza l’insussistenza dei motivi che hanno condotto il Parascandola all’affermazione categorica di una fratturazione (diretta a N 12° E) del Gran Cono Vesuviano in occasione dell’eruzione del 1944 con l’aggiunta financo dell’ubicazione, sicura e precisa , della bocca effu¬ siva. « Essa si apre , dice difatti l’Autore, a m. 210 di distanza dalPorlo craterico vecchio ed a circa quota di 1031 m. ». A mio parere la deduzione del Parascandola deve forse ritenersi una inevitabile conseguenza di una tacita ammissione che un periodo eruttivo vesuviano, analogamente a quanto si era verificato in ante- — 11? — cedenza, a partire dal 1700, dovesse concludersi con un’eruzione la¬ terale. Per una tale considerazione, il parossismo del marzo 1944, ri¬ tenuto dall’Autore in un primo tempo terminale, avrebbe probabil¬ mente rappresentato, sempre secondo l’Autore, un episodio del pe¬ riodo eruttivo e non già il parossismo di chiusura. Non a ragione, per diversità o per una non completa identità di comportamento, lo an¬ novera infatti il Parascandola nel gruppo di eruzioni terminali ve¬ suviane : dell’aprile 1649, del maggio-giugno 1698, del marzo 1759, del maggio 1806, del giugno 1929; per nessuna delle quali si può in¬ vero affermare categoricamente che sia eruzione di chiusura di perio¬ do eruttivo (1). Ma l’opinione del Parascandoìla sarebbe piuttosto rive¬ lata dal fatto che egli denomina la fase subentrata aH’cstruzione del condotto: fase di quiescenza e non periodo di riposo. Stando alla condizione comunemente richiesta perchè il particolare intervallo di quiete, a durata variabile, successivo ad un parossismo generalmente intenso, possa costituire un periodo di riposo (condizione invero de* (1) Nella tornata del 30 die. 947, in risposta alla mia nota il Parascandola fa osservare che le due eruzioni terminali del 1694 (e non 1649, come per errore ti¬ pografico fu indicato inolia nota del Parascandola e da me riportato' perchè per caso fortuito anche nel 1649 si verificò altra eruzione terminale — solo esplosiva o- esplosiva ed effusiva? — ) e del 1698 rappresentano due parossismi di chiusura di periodi eruttivi.* La mia considerazione si riferisce invero' alle osservazioni del Mercalli che, nelle ricerche sulla distinzione in periodi dei fenomeni eruttivi del Vesuvio, trascura, per lacune ed incertezze delle descrizioni, le manifestazioni eruttive del secolo decimosettimo. Evidentemente il Mercalli rimase perplesso, -come rimango anche io perplesso, se considerare o no P eruzione del 1698 come eruzione finale del periodo che sarebbe incominciato il 31 luglio 1696. Mancano in effetti gli elementi per stabilire se la condizione, ad esempio, dell ostruzione del condotto eruttivo, determinante la totale assenza di manifestazioni eruttive centrali, si sia verificata o no. Nè le parole del Sorrentino « non si vide scintilla di fuoco, nonché ombra di fumo » riferentisi alla particolare fase in cui trovavasi il vulcano precedèntemente alla ripresa di attività del luglio 1696, possono lasciare inequivocabilmente concludere che il condotto eruttivo si sia effettivamente ostruito in seguito allocuzione dell’aprile 1694. D’altro canto per questa però si rimane anche dubbiosi sul carattere: non si potrebbe con sicurezza stabilire (ed alcune contraddizioni nelle descrizioni giustificano l’incertezza) se l’eruzione 1694 fu ef¬ fettivamente o almeno solamente terminale (G. B. Alfano e J. Friedlaender - La storia del Vesuvio). In ogni modo anche se le due eruzioni 1694 e 1698 fossero state terminali e finali di periodo, nonostante che anche l’ Alfano ((Vesuvio - En¬ ciclopédia Treccani) si esprima col forse, nessuna contraddizione si avrebbe con le mie deduzioni; tutt’al più il «tipo 1944 » si sarebbe presentato non solo col parossismo del 1944 (che resterebbe sempre il primo, a partire dal 1701, come è stato indicato nel testo) ma anche con gli altri due parossismi: del 1694 e del 1698, — 118 — terminata dall'ostruzione del condotto per collassi, franamenti, a sua volta favorita da disattivazione magmatica in conseguenza della più o meno notevole degassazione verificatasi nel corso del parossismo) nessun dubbio sarebbe dovuto sórgere nel ritenere die l’eruzione del marzo 1944 costituisse effettivamente la fase di chiusura del periodo eruttivo incominciato nel luglio 1913. In seguito la certezza, avuta dall’Autore attraverso i nuovi feno¬ meni presentati dal vulcano, che dall’aprile 1944 è incominciato ef¬ fettivamente un vero periodo di riposo, ha dovuto accentuare il de¬ nunciato stato di perplessità che ha indotto il Parascandola ad ap¬ pigliarsi ai primi elementi che potessero convalidare la sua tesi. Argomenti addotti dall’autore a favore della tesi della frattura¬ zione sono: 1°) l’osservazione di una guida. Scrive il Parascandola che « la guida Scognamiglio fin dall’inizio (quale giorno?, quale ora?) di quell’eruzione... al disotto della colata lavica traboccante dall’orlo e fermatasi vide aprirsi i fianchi del Gran Cono siccome è il movimento di una talpa la quale si faccia la strada smottando il terreno e sus- seguentemente vide sboccare una testa lavica che rapida discese per il breve pendìo... »; 2°) l’esalazione di cloro e più forte di acido cloridrico a partire da una distanza di circa 210 metri dall’orlo antico secondo la indi¬ cata generatrice N 12° E. Procedendo a valle, osserva l’Autore, cc per vasto tratto sino al piano quasi dell’Atrio del Cavallo si stendeva un vasto campo granulinico, con zolfo e materiale di disgregazione, di colore giallo aranciato, nonché sicura era anche la formazione di molisite »; 3°) l’assenza « di una estravasione lavica labbro labbro l’orlo », in cor rispondenza della direzione seguita dalla corrente lavica che raggiunse la base del monte ed invase l’abitato. Procedo intanto ad una discussione separata sugli accennati ar¬ gomenti. 1°) In quanto al primo argomento ritengo opportuno far osser¬ vare innanzitutto che non è scientificamente corretto tener conto della sola osservazione a favore, trascurandone invece un’altra contrastante col suo modo di vedere, a parte il diverso peso da assegnare alle due indicate osservazioni. Era difatti noto all' Autore, non solo a mezzo dei comunicati alla stampa e di pubblicazioni ufficiali ma an¬ che e specialmente in seguito a svariate conversazioni sull’argomento tra noi scambiate, che la mia suindicata convinzione derivasse non da opinione ma da diverse osservazioni scrupolose e rischiose. Ebbi difatti l’opportunità di accertarmi che le numerose lingue laviche — 119 — scorrenti lungo le pareti esterne del Gran Cono, comprese evidente¬ mente le due correnti principali: la meridionale e la settentrionale, avevano origine da trabocchi all’esterno di lave fluenti sulla piatta¬ forma craterica, a loro volta alimentate da continuo e tumultuoso sgorgo lavico dal margine orientale del diruto conetto. Le - osserva¬ zioni dirette furono eseguite in occasione: dell’escursione al cratere che effettuai la stessa sera del 18 marzo (l’eruzione era bruscamente cominciata alle 16h 30m) in compagnia del Carab. Manzo; dell’escur¬ sione all’Atrio del Cavallo ed all’estremità della strada Matrone me¬ ridionale, eseguita nel pomeriggio del 19; di altra escursione al cra¬ tere. effettuata, sempre in compagnia del Carab. Manzo, nel pome¬ riggio del 20. Durante quest’ ultima escursione riuscimmo a penetrare nell’interno del cratere, cercando di raggiungere la base del conetto, ina; dovemmo arrestarci ad un centinaio di metri per evitare che fos¬ simo colpiti dalle scorie lanciate durante le continue e nutrite esplo¬ sioni. Potemmo però rilevare che nessun crollo, neanche limitato, della piattaforma craterica era avvenuto fino a quel momento, come è stato invece ammesso dal Pàrascandola (1). Nonostante che queste osservazioni siano già sufficienti per fare escludere una fratturazione del Gran Cono (che si sarebbe verificata, secondo l’affermazione del Parascandola, alFinizio dell’eruzione) almeno fino ad interessare le pareti esterne, l’assenza di tali squamature può essere dedotta anche in base ad altre considerazioni. A tale riguardo è opporturio rilevare che lo schema riassuntivo dell’attività eruttiva riportato dal Para- SCANDOLA, almeno nei riguardi dei fenomeni preiniziali ed iniziali del parossismo, non corrisponde a quello reale. Anche questa affermazione mi è consentita dalle osservazioni dirette effettuate nei giorni 14 e 16 marzo in occasione di due escursioni nell’interno del cratere. Mentre nella prima una fitta nebbia m’impedì una distinta globale visionò delle trasformazioni verificatesi a partire dalle prime ore del giorno pre¬ cedente, derivanti da demolizione e sprofondamento, rispetto alla piat¬ taforma craterica, prevalentemente della parte orientale del conetto, con conseguente ostruzione del condotto eruttivo e quindi cessazione di manifestazioni eruttive terminali; nella seconda invece furono pos¬ sibili osservazioni d’insieme e di dettaglio. Attraversò un crepaccio parzialmente ostruito, situato nell’interno della voragine al piede della parete occidentale del conetto, rimasta pressoché integra, su un gradino angusto (separato mediante resti frananti del conetto dalla parte orientale molto estesa ed a fondo tutto sconvolto e fessurato, la cui profondità media rispetto alla platèa lavica risultava di circa venti (1) Vedi pag. 5 della nota indicata col n. 5 in bibliografia, — 120 metri) ebbi agio di osservare, da una distanza di solo qualche metro lanci bassissimi e scarsissimi di scorie piuttosto minute, contemporanei a rigurgiti lavici sino all’ affioramento e seguiti da nuovo abbassa¬ mento, testimonianti un moto lento di salita e discesa della colonna magmatica a ritmo non ben definito. La debole attività esplosiva con tendenza ad una intensificazione era incominciala nel pomeriggio dello stesso giorno 14. Secondo il quadro del Parascandola nel giorno 14 o tutt’al più il 15 si sarebbe avuto fìnaneo qualche efflu>so intracraterico, mentre il 16 (e non il 18 come difatti avvenne) avrebbe avuto inizio l’impo¬ nente attività effusiva. Non per fare un appunto al Parascandola ho voluto segnalare le citate inesattezze, limitatamente, ripeto, alle prime fasi eruttive; ma solamente per provare la scarsa attendibilità (o un’incompleta cernita e critica) delle notizie e informazioni per¬ venutegli. A mio parere invero lo sconvolgimento del fianco del Gran Cono, qualora si voglia ritenere effettuata l’osservazione della guida, po¬ trebbe essere tutt’al più interpretato come una più che abituale rot¬ tura della Volta di una galleria di drenaggio lavico, in seguito a bru¬ sco aumento di portata con trabocco alTesterno e conseguente origine di una nuova corrente die si sarebbe spinta rapidamente verso Ha base del Gran Cono, sovrapponendosi alle precedenti. Innanzitutto questa interpretazione risulterebbe una fedele tra¬ duzione delle dichiarazioni dello Scognamiglio che, da me apposita¬ mente interpellato, nel fissare, dopo esitazioni ed incertezze, la data del fenomeno al 19 sera (17h circa) ha asserito trattarsi di moti tra le lave già sgorgate con copiosa immediata irruzione di nuova tumul¬ tuosa corrente. D’altro canto, sempre neirammissione che possa accettarsi l’osser¬ vazione dello Scognamiglio, è consentito di dedurre che la colata copio¬ sissima e velocissima la quale raggiunse l’imboccatura delll’atrio del Cavallo (come fu notato dall’Osservatorio) verso le 6h del 20, sovrap¬ ponendosi nel rapido moto alla corrente settentrionale, precedente- mente sgorgata ed ancora fluente ma a superficie già quasi irrigidita c depressa, potrebbe corrispondere a quella sgorgata verso il tramonto del giorno precedente od anche a qualche altra affiorata qualche ora dopo. Nella nota preliminare sull’eruzione faccio difatti osservare che la corrente, che in effetti investì e parzialmente sommerse i centri di Massa e S. Sebastiano nella giornata del 21 era sgorgata nella notte, o meglio nelle prime ore della notte, sul 20, data la posizione del fronte all’alba di detto giorno (a circa Km 2,5 dall’origine, di cui circa Km 1,5 in zona pianeggiante). — 121 La presenza di una pseudobocca, pur non necessaria, darebbe inoltre una più evidente giustificazione delle osservazioni delle di¬ mensioni e velocità della corrente settentrionale e conseguentemente di portata da me eseguite nel pomeriggio del 20 lungo il fianco del Gran Cono a monte del Colle Margherita e quindi ad una quota di poco inferiore a quella supposta per il crepaccio da cui sarebbe sgor. gata la lava. I valori delle dimensioni ‘(circa 5-6 metri di larghezza e presso a poco 1 metro di potenza) e specialmente della velocità di 30-40 k in./ ora e quindi della portata di circa 200.000 m3/ora sareb¬ bero probabilmente alquanto elevati in relazione alla distanza di circa 600 metri della bocca terminale, con un percorso totalmente allo scoperto. Ed ancora l’ammessa pseudobocca non contrasterebbe con la con¬ temporanea presenza dei copiosi effluissi lavici intracraterici riboccanti con numerose lingue all'esterno, continuamente a N e a S e discon¬ tinuamente secondo varie direzioni ogni qualvolta venivano raggiunti e superati gli orli delle ancora emergenti pareti crateriche o di osta¬ coli lavici (delle quali lingue, l'ultima, spintasi rapidamente lungo il fianco occidentale sino alla base del Gran Cono, fu da me osservata verso le 14h del 21), mentre, se si fosse trattato di vera bocca, l’attività effusiva terminale, che presentò un andamento costante, tutt’al più tendente ad un aumento, pur potendo coesistere con quella laterale, avrebbe subito se non una cessazione, almeno una riduzione, all’atto della iniezione magmatica od anche successivamente. Una ulteriore prova che tutte le correnti indistintamente prove¬ nivano da unica bocca, quella terminale, è infine data dalla brusca e contemporanea scomparsa della vivace attività effusiva (intra- craterica ed esterna) con l’inizio della seconda fase (fase delle fontane laviche) a circa 17h 15m del 21. La cessazione di attività potrebbe per¬ tanto essere spiegata nel primo tempo per l'immediata interruzione delle vie di alimentazione in conseguenza prevalentemente degli scon¬ volgimenti subiti dal terrazzo craterico nonché per la rapida e potente copertura di esso da parte di scorie e di brandelli lavici e nel secondo tempo per l’abbassamento della colonna magmatica, successivo alla prima fontana; mentre se la corrente fosse stata alimentata da frattura interessante il fianco settentrionale sino a relativa profondità del con¬ dotto, essa certamente non avrebbe subito il brusco arresto. Dalle manifestazioni e considerazioni esposte risulta pertanto evi¬ dente da un canto la insussistenza di uno sgorgo laterale, non osser¬ vato nè compatibile con le vicende eruttive successive alla ipotetica fratturazione, specie se fissata, come dice l’Autore, all’inizio dell'eru¬ zione; dall’altro canto la formazione di una pseudobocca sul fianco — 122 — esterno, pur non rappresentando una condizione necessaria per il pre¬ sentarsi dei fenomeni osservati, contribuisce ad una più esauriente spiegazione di essi. "2°) Neanche il secondo argomento addotto può costituire una prova della presenza di una fenditura, neppure considerando che il versante interessato risulta presso a poco coincidente con quello se¬ guito dalla fratturazione del Gran Cono in occasioné dell’eruzione del 1891-1893. Lo stesso Parascandola difatti osserva che in prossimità dell’orlo (forse nord-occidentale) avvertì nelle due escursioni de) marzo 1947 ben distinto l’odore del cloro ed anche fortemente quello di acido cloridrico. La sua origine e quindi l’infondatezza delle dedu¬ zioni dell’Autore, è messa in evidenza dallo stesso Parascandola che « raccolto il materiale giallo esso emanava fortemente HC1 ». Se in¬ fatti si fosse ricoperto il raccolto materiale da altro materiale non esalante a sua volta acido cloridrico, la precedente esalazione al certo, venuta a scomparire all’istante, sarebbe potuto eventualmente riap¬ parire a distanza di tempo. Questa condizione è appunto quella veri¬ ficatasi lungo il versante settentrionale seguito dalla corrente, la quale venne ricoperta, a partire dalla quota di circa 900 metri e proce¬ dendo verso l’alto, da una potente colte di prodotti emessi durante le fasi esplosive successive con spessori crescenti fino ad uno spessore di oltre 50 metri, raggiunto in corrispondenza dell’orlo attuale set¬ tentrionale. È quindi ovvio che le esalazioni in superficie di acido cloridrico proveniente dalla colata avrebbero dovuto subire da un canto una rapida scomparsa nella zona scoperta e d’altro canto una eventuale apparizione prima alle più basse quote e successivamente a quote più elevate in conseguenza del crescente spessore del sovrap¬ posto materiale. Tale deduzione intuitiva corrisponde perfettamente alle esèguite osservazioni. Lungo il radiante più volte indicato nei primi tempi successivi all’eruzione apparvero infatti fumarole con esalazioni di HC1 quasi alla base della zona ricoperta (verso quota 900 circa) e pre¬ cisamente in corrispondenza del margine occidentale di una valanga (tra le numerose determinatesi quasi in tutte le direzioni nel corso della 3a ed all’inizio della 4a fase dell’eruzione) sovrapposta alla cor¬ rente làvica. Nel seguente quadro indico, oltre ad osservazioni speciali, anche per le singole serie di misure, la più alta temperatura da me determi¬ nata nel gruppo di fumarole apparse per prime: — 123 — 15 maggio 1944 720° l Le pareti dei crepacci fumarolici at- | traverso' i quali si osserva una viva in- 13 giugno 1944 650°< » candescenza, sono tappezzati di •cristalli, ' tra cui sicuramente si osservano quelli 22 agosto 1944 500° ' ». di silvite e di alite. 28 dicembre 1944 260° 19 giugno 1945 60° È evidente la rapida diminuzione termica, mentre le manifesta- .zioni si estendevano e si intensificavano sempre più procedendo verso l’alto, come difatti dimostra anche la temperatura di 220° trovata dal Parascandola in occasione delle due escursioni del 18 e del 25 marzo 1947 e ad una quota di oltre 1000 metri, sempre lungo il radiante indicato, là dove nei primi tempi non notavasi alcuna traccia di fe¬ nomeni fumarolici. L’arresto delle esalazioni cloridriche attualmente ad una tale quota potrebbe essere provvisorio, in quanto col tempo potrebbero esten¬ dersi anche a quote più elevate, scomparendo sempre più quelle in¬ feriori, od anche definitivo in relazione sia alla presenza della pseudo- bocca, in quanto che le colate sgorganti da queste si presentavano evi¬ dentemente meno degassate di quelle riversantisi direttamente dal¬ l’orlo, sia ad una diffusione delle esalazioni attraverso gli interstizi del materiale sovraineombente con conseguenti eventuali reazioni, in modo da non raggiungere affatto la superficie o da esservi impercet¬ tibili. La presenza del cloro o dell’acido cloridrico nelle esalazioni non dovrebbe pertanto essere ritenuta, in senso esclusivo, come rivelatrice di una diretta provenienza magmatica. 3°) Considerazioni precedenti lasciano cadere inoltre anche l’ul¬ timo argomento addotto e cioè della mancata osservazione di colata lavica riversantesi dall’orlo settentrionale. Nell impossibilità di una osservazione diretta in corrispondenza dell’orlo per la sovrapposizione, già indicata, del materiale esploso, ritengo che le osservazioni del Parascandola si riferiscono ad un esame delle stratificazioni laviche osservabili distintamente sulla parete interna settentrionale del cra¬ tere e non gli sarà dovuto sfuggire l’osservazione dell’ultimo potente strato lavico corrispondente appunto alla fase effusiva del marzo 1944. In conclusione l’eruzione del marzo 1944 rappresenta la fase di chiusura del periodo eruttivo 1913-1944, la quale ha dato luogo a ma¬ nifestazioni esclusivamente terminali, mentre in tutti i precedenti pa¬ rossismi di chiusura di periodo, a partire dal 1700, l’edificio vulcanico ha subito sempre trapanazioni o fratturazioni radiali, diametrali o — 124 — pluridirezionali con conseguenti efflussi sgorganti lungo le pendici del¬ l’edificio vulcanico o alla base. Viene così giustificata pienamente l’introduzione nella nomencla¬ tura vesuviana, accanto ai due tipi indicati dal Mercalli « tipo 1760 )> (cioè periodo die >i chiude con eruzione eccentrica) e « tipo 1906 )) (cioè periodo che si chiude con una eruzione laterale) di una nuova categoria di eruzioni di clausura da me indicata come « tipo 1944 » corrispondente perciò ad un’eruzione di chiusura di periodo a mani¬ festazioni effusivo- esplosive esclusivamente terminali (1). Colgo l’occasione per dare assicurazioni alla Società che 1 Osser¬ vatorio Vesuviano segue attentamente le vicende attuali del vulcano sia attraverso le analisi dei diagrammi ottenuti dagli strumenti in fun¬ zione, sia attraverso frequenti osservazioni dirette. Le principali indagini in corso ed inerenti al dinamismo si fon¬ dano: sulle osservazioni sismiche e macrosismiche; sulla frequenza ed entità delle frane; sulle osservazioni nelle variazioni della inclina¬ zione del suolo relative all’Osservatorio ma estensibili all’edificio vul- i 1 ) Controrisposta alla nota del Parascandola presentata alla Società nella tor¬ nata del 30 dicembre 1947. Non trovando nella recente nota del Parascandola nuove decisive osservazioni o considerazioni, atte a convalidare la sua tesi, mi sentirei dispensato dal dare ul¬ teriori precisazioni; e pertanto allo stato attuale ritengo chiusa per mio conto la discussione sull’ argomento'; A solo scopo di chiarimento mi sembra però opportuno di mettere in evidenza i seguenti importanti rilievi, 1) Le mie osservazioni (e non opinioni); suir inesistenza della supposta bocca laterale (se mai, come dissi, subterminale); sull’ancora integrità della platea lavica, si riferiscono, al pomeriggio (17h) del 20 e cioè sono, posteriori di circa 24h a quelle presunte della guida. 2) Le deduzioni del Parascandola, mentre da un canto debbono quindi ri¬ tenersi inaccettabili, almeno nei riguardi dei riferimenti alle osservazioni della guida; d altro canto contrastano con le vicende eruttive e con considerazioni mor¬ fologiche e dinamiche già esposte o< di facili intuizioni. 3) Particolari fenomeni possono permettere la formulazione di ipotesi sem¬ pre che queste non siano in disaccordo, con osservazioni dirette. 4) La introduzione di un « tipo 1944 » deve intendersi come un completa¬ mento della classificazione del Mercalli, col significato preciso che un periodo eruttivo, vesuviano può chiudersi non solo con parossismi eccentrici o laterali, ma anche con parossismi terminali t( tipo non considerato dal Mercalli), come per il periodo 1913-1944, oppure con modalità eruttive ancora diverse da quelle finora presentatesi. — 125 — Gallico; sulle osservazioni di eventuale attività tettonica intracrateriea ; sulle osservazioni termiche di fumarole primarie. L’assenza attuale di una vera agitazione sismica ha determinato anche una riduzione nel distacco di frane, almeno per le frane deter¬ minate da moti, non solo di quelli registrati ma anche dei moti de¬ bolissimi e locali non percepiti dagli apparecchi dell’Osservatorio, ma che sarebbero appunto rivelati da addensamenti nelle manifestazioni di franamenti, non giustificati diversamente. Anche le variazioni nella deviazione apparente della verticale presentano un andamento annuo caratteristico ed identico in ciascun anno del triennio successivo al 1944 e rivelante con evidenza, se confrontato con gli andamenti degli anni precedenti, un’assenza di azione da parte del vulcano. Come pure le osservazioni, finora eseguite, invero a distanza, non hanno mo¬ strato alcuna deformazione nella conformazione del fondo craterico in diretta dipendenza delle vicende magmatiche. Nei riguardi delle ricerche sulle fumarole, quelle relative alle fumarole esterne non mostrano, almeno in modo distinto, i caratteri inerenti alle fumarole primarie, anzi si hanno elementi, direi sicuri, per provare che nella maggior parte, se non nella totalità, le fumarole esterne sono di origine secondaria e quindi per nulla capaci con le loro manifestazioni di rivelare le variazioni nell’attività magmatica. Di probabile origine primaria sono attualmente due fumarole, spesso intensamente attive, situate presso a poco sul fondo craterico (fu¬ marole del fondo) ma migranti in genere lungo il margine setten¬ trionale di materiali di frane distaccatesi dalla parete occidentale. Risulta pertanto evidente l’importanza di un esame del relativo an¬ damento termico che potrebbe persino permettere di seguire il moto magmatico nel condotto. Ho perciò tentato in quest’anno finora quattro volte (1° aprile, 3 giugno, 28 giugno, 8 ottobre) la discesa, ma non mi è stato consentito di raggiungere il fondo, che nella escursione del 28 giugno, dopo aver superato un dislivello di circa 100 metri, risultò distante appena una cinquantina di metri. Mi auguro però di poter al più presto dare inizio alla così importante serie di misure, delle quali potrà eventualmente essere data notizia nel resoconto detta¬ gliato della copiosa messe di osservazioni del periodo di riposo, com¬ provante che l’attuale fase è seguita, almeno dal punto di vista fisico, nel modo più rigoroso e completo in tutti gli osservabili fenomeni. — 126 — BIBLIOGRAFIA 1) Imbo G. 11 parossismo vesuviano del marzo 1944. Rend. R. Acc. delle Se. Fis. e Mat. della Soc. Reale di Napoli, Serie 4a, Voi. XXII, 194245. 2) li). Azione dell’attività eruttiva ed in particolare del parossismo del marzo 1944 sulle variazioni di forma del cono vesuviano. Boll. Soc. Naturalisti in Napoli. Voi. LV, 1944-46. 3) Parascandola Antonio. L’eruzione vesuviana del marzo 1944. Rend. R. Acc. Se. Fis. e Mat. della Soc. Reale di Napoli. Serie 4% Voi. XXII. 1942-45. 4) li). Notizie vesuviane . . L’attuale fase solfatarica del Vesuvio. Boll. Soc. Natur. in Napoli, Voi. LV, 1944-46. 5) li). Notizie vesuviane. - Lo stato attuale del Vesuvio nel 18 e 25 marzo 1947. Boll. Soc. Nat. in Napoli. Voi. LVI. 1947. 6) Io. Notizie vesuviane . . Lo stato attuale del Vesuvio [20 luglio 1947). Boll. Soc. Nat. in Napoli, Voi. LVI. 1947. Considerazioni a proposito delle recenti eruzioni etnee Nota del socio Giuseppe Imbò (Tornata del 26 Novembre 1947) Tutte le ricerche geofìsiche riguardanti direttamente o indiret¬ tamente il dinamismo vulcanico hanno per scopo, almeno fondamen¬ tale, anche se spesso soltanto sottinteso, la deduzione delle genesi per giungere poi attraverso i rilievi eseguiti in altri, il più possibile nume¬ rosi, casi analoghi alla formulazione di leggi generali. Per questo ge¬ nere d'indagini risulta però indispensabile la conoscenza di tutti i fenomeni e specie dei sismo-tettonici che possono ritenersi comunque collegati con le manifestazioni eruttive. Sotto questo punto di vista potrebbe apparire inutile uno studio delle ultime vicende eruttive etnee e specie del recente parossismo del febbraio-marzo, in modo particolare per l 'incompletezza delle no¬ tizie in evidente conseguenza del versante, nonché della quota del teatro eruttivo ed ancora della stagione in cui si è verificato il feno¬ meno. Di gran lunga più grave risulta però la mancanza in prossi¬ mità delle zone interessate dall’eruzione di una stazione sismica fun¬ zionante, la quale, in base all’interpretazione dei moti registrati, a- vrebbe permesso sicuramente di stabilire la successione dei fenomeni ed eventualmente di dedurre tra l’altro la natura e la profondità dei moti: tutti elementi indispensabili appunto per indagini sui mec¬ canismi eruttivi. Se ' però non è stato possibile eseguire uno studio conclusivo nel senso anzidetto sul fenomeno, che verrà con sicurezza maggiormente e più completamente illustrato da relazioni ufficiali, non ritengo, d’altro canto, privo d’interesse, sempre allo scopo ini¬ zialmente espresso, che siano messe in evidenza alcune particolari ca¬ ratteristiche rivelate non tanto dal solo ultimo parossismo, ma invero dalle più recenti manifestazioni eruttive che ad un esame superficiale 128 — potrebbero lasciar pensare .persino ad un allontanamento al presente dal classico quadro fenomenologico eruttivo etneo. -!• ■!' Si rende pertanto opportuno esporre, se pure succintamente, le vicende eruttive etnee degli ultimi anni (1), le quali, a partire dalla fine dell’eruzione del novembre 1928, possono essere distinte in due periodi, di cui il primo chiusosi con l’eruzione laterale del 1942, ed il secondo invece con quella del 1947. Nel corso del primo periodo intermittentemente si sono avuti in¬ dizi o manifestazioni, a volta effimere ed a volta persistenti, di affio¬ ramenti ((fugaci bagliori) od anche di apparizioni magmatiche in pre¬ valenza isolatamente ma qualche volta anche contemporaneamente al Cratere Centrale (voragine - conetto intracraterico) (C. C.) o al Cra¬ tere subterminale di NE (C. NE). Per ostruzione dei condotti qualche volta è risultata assente qualsiasi tipo di attività, se si eccettua evi¬ dentemente quella fumarolica. Per lo più le indicazioni sull’attività si sono avute attraverso emissioni continue di fumi, le cui copiosità, almeno apparente, e forma devono ritenersi dipendenti oltre che da fattori vulcanici, anche, e forse specialmente, meteorologici. Spesso sono state osservate anche cadute di ceneri, o frequentemente di polveri derivanti dai continui franamenti interessanti il setto divisorio: cratere centrale-cratere di NE, che si è gradualmente abbassato ed assottigliato in modo da pre¬ sentarsi ripido verso l’interno del cratere e sempre più profondamente solcato all’esterno ossia verso il cratere di NE. Nei primi anni dell’intervallo affioramenti od apparizioni mag¬ matiche più degne di nota sono state rivelate: dall'esplosione a materiale autogeno antico (C. C.) del 2 agosto 1929 '(4h .40“); dagli intermittenti debolissimi bagliori al C. C. tra la fine di luglio 1931 ed i primi mesi del 1932 (con lievi intensificazioni vefso (1) Le notizie, invero incomplete sono state desunte da osservazioni dirette pei primi anni ed in seguito: dai periodici Bollettini dell'Istituto Vulcanologico del- l’Università di Catania, da informazioni da parte del Prof. Stella; nonché, nei riguardi dell’ultima eruzione, oltre che da pubblicazioni indicate nella bibliogra¬ fìa, in fine della nota, anche da cortesi è verbali comuni razioni del Prof. Ponte, del Prof. Stella e del dott. Silvestri ai quali vanno i miei riconoscenti e sentiti ringraziamenti. In gehere non ho creduto opportuno riportare le attinte notizie relative all'attività sismica in quanto che, per la saltuarietà e spesso anche per una non completa esattezza, avrebbero potuto indurre ad errate conclusioni. Boll. Soc. Nat., voi. LVI, 1947. ImbÒ G., Consid. etc. recenti eruzioni etnee. Fig. 1. — Versante settentrionale delFEtnea, Sul campo di neve si distinguono nettamente: la colata del 5 marzo, a destra una minuscola lingua lavica della mattina del 24 febbraio, mentre a sinistra il tratto ‘superiore della colata principale di M. Cacciatore (24 febbraio, sera). L’apparato terminale è calmo. Fot. J. F riedlaender (dall’ aereo) - LO marzo 1947. Fig. 2. — Conetti esplosivi lungo i margini della fenditura nella zona di M. Pizzillo, parzialmente visibi¬ le a destra . Fot. G. Silvestri - 25 aprile 1947. Fig. 3. — Solchi sulla neve nella zona prossima a M. Pizzillo, sconvolta dal sistema di fenditura. Fot. G. Silvestri - 25 aprile 1947. — 129 — la metà di marzo) accompagnati e preceduti da periodo sismico al¬ quanto accentuato, interessante la solita base orientale; dalla breve e debole fase esplosiva al cratere di NE con lanci di minuscole scorie del 5-7 gennaio 1934; da saltuarie ed effimere attività esplosive al C. C. negli anni 1935- 1936 con proiezioni di ceneri e forse anche di materiale scuro pro¬ babilmente coevo (1935: 20 febbraio, 7 luglio; 1936: 30 giugno, 1° luglio). Tali fenomeni preludiarono l’inizio di un periodo eruttivo ana¬ logo a quelli vesuviani, non abituali ma neppure rari per l’Etna. Questi periodi sono caratterizzati invero da quasi permanente af¬ fioramento magmatico con intensità nell’attività (esplosiva a mate¬ riale coevo incandescente ed effusiva) alternantesi tra recrudescenze, assumenti spesso financo caratteri parossismali, e depressioni a volta talmente accentuate da ridursi l’attività a tenui esalazioni. Se si eccettua un primo tempo (sett. 1936-ag. 1937) in cui perdura il carattere effimero delle saltuarie, sebbene più frequenti, manife¬ stazioni eruttive, in seguito i fenomeni assumono invece un carat¬ tere di persistenza e possono riunirsi in intervalli separati da pause eruttive. Tra questi spiccano: l’intervallo agosto 1937-dic. 1938 con attività esplosiva all’inizio al C. C. e successivamente al C. NE e, a partire dal settembre 1938. contemporaneamente in ambedue i crateri ; l’intervallo aprile 1939-marzo 1940 con attività dapprima esplo¬ siva al C. NE ed in seguito esplosivo effusiva al C. C., culminante con la violenta esplosione del 10 marzo a 16h, che chiuse l’intervallo; l’intervallo agosto 1940-gennaio 1941 con attività dapprima esplo¬ sivo-effusiva al C. C. ed a partire dal 10 ottobre 1940 solo esplosiva ad intensità piuttosto mediocre, contemporaneamente in entrambi i crateri (C. C. e C. NE). ❖❖❖ Verso la fine di gennaio 1941 l’attività si ridusse in ambedue i crateri ad emissione di sole fumate che, a partire dal luglio, e sola¬ mente al C. C., sin presso a poco alla (fine di giugno 1942, mostrarono intermittentemente, e piuttosto a brevi intervalli, intensificazioni ri¬ velanti una attività esplosiva, sul cui tipo si è sicuri però solamente per la breve fase esplosiva a materiale incandescente della seconda quindicina di maggio 1942. Sono appunto questi fenomeni esplosivi che possono rappresentare la prima fase dell’ eruzione laterale del 30 giugno-5 luglio 1942, ossia la fase delle manifestazioni terminali 9 — 130 — indicatrici dell’ avvenuto sollevamento magmatico nel condotto (vedi figura). A parte questa modesta attività l’eruzione non è stata annun¬ ciata da alcun fenomeno premonitore, almeno noto. A 9h 20m del 30 giugno furono nettamente osservate alte proie¬ zioni di materiale incandescente nell’alto versante sud-occidentale e presso a poco dopo un’ora ebbe inizio lo sgorgo lavico alla base (ad una quota di circa 2600 metri) di una fenditura, già testimoniata dalla bocca esplosiva. La colata in sottile lingua, si diresse verso M. Fontanelle e si arrestò in serata dopo un percorso all’incirca di 3 Km. Appena cessata la fase effusiva laterale incominciarono ad osservarsi al cratere centrale frequenti, copiosi ed alti lanci di materiale incande¬ scente. Tale attività terminale con alternative nell’intensità si chiuse con una fase, violenta a fontane laviche perdurante dalle 8h circa al pomeriggio del 5 luglio, la quale fase segnò anche la fine dell’eruzione. ❖❖❖ In seguito sia al C. C., il cui condotto eruttivo, in conseguenza della fase esplosiva del l°-5 luglio, era rimasto ostruito, che al C. NE, il quale nessun accenno di attività aveva mostrato anche nel corso del¬ l’eruzione, si ebbe una completa tranquillità. Solo dal successivo ago¬ sto incominciarono ad osservarsi al cratere subterminale di NE emis¬ sioni di fumo tenuissimo e dal settembre intermittentemente, a lunghi intervalli, le fumate cumuliformi trascinarono probabilmente minuto materiale scuro. Sembra che tale attività, con una lenta ripresa di esili e non continue esalazioni al C. C., specie dopo la riapertura del condotto (in seguito allo sprofondamento dell’ottobre 1945 nel settore nord- orientale della terrazza craterica con conseguente formazione di pozzo a pareti verticali, presentante un diametro di circa 15 m.), sia perdu¬ rata presso a poco sino al 29 gennaio del 1947, nel quale giorno per la prima volta, dopo la pausa di oltre quattro anni, si ebbe al cra¬ tere di NE sicuro indizio del l’affioramento magmatico. Le esplosioni, con piuttosto alti e quasi continui lanci di scorie e brandelli lavici, cessarono il giorno successivo; ma il fenomeno si ripetette con maggiore intensità (assumendo un carattere di fontana lavica) il 6 febbraio tra le 2h e le 3h ed ancora con accresciuta vio¬ lenza il 10 febbraio all’incirca tra le 19h e le 22h 30m, durante il quale l’altezza raggiunta dalla colonna lavica, rispetto all’orlo crate¬ rico (C. NE), fu stimata di circa 500-600 metri. Mentre le precedenti attività esplosive erano state Seguite da calma, all’ultima, che determinò l’ostruzione del condotto eruttivo alimentante la bocca di NE, subentrò immediatamente un’attività e- — 131 — A solo scopo indicativo vi sono approssimativamente tracciate: la colata sud-occi¬ dentale del 1879 (tratteggiata), quella del 1942 (in nero), parzialmente le colate relative all’eruzione del 1947 (in nero), - nonché particolari sistemi eruttivi del versante settentrionale interessanti per poter efficacemente giustificare alcune con¬ siderazioni messe in evidenza nel testo. — 132 — splosiva a materiale incandescente al C. C. (pozzo), la quale, piut¬ tosto modesta all'inizio, culminò con una violenta crisi tra le 18h 30m e le 19h 30m del 16. r L’attività esplosiva, terminale, intermittente, a materiale incan¬ descente, incominciata verso la fine di gennaio, deve considerarsi pre¬ monitoria delTeruzione che, dopo un intervallo di calma, successivo alla crisi del 16 febbraio, può ritenersi in effetti incominciata con la ripresa di attività esplosiva a materiale incandescente da nuove bocche subterminali apertesi la sera del 21 sul fianco esterno nord-orientale del cono subterminale di NE. L’apertura di tali boccile costituisce evidentemente la prima manifestazione superficiale della frattura¬ zione interessante probabilmente fino a relativa profondità, secondo antiche direttrici, il versante settentrionale dell’edificio vulcanico. I continui lanci di scorie e brandelli lavici proseguirono anche il 22 e forse durante questa stessa giornata si ebbe lo sbocco dalle me¬ desime bocche di due brevi lingue laviche. In seguito ad abbassamento del magma nel condotto, probabil¬ mente per progressivo sviluppo a valle della fenditura, il 23 cessa¬ rono le manifestazioni esplosivo-effusive e l’attività si ridusse a sole esalazioni al C. C. Nella mattinata del 24 da Randazzo furono osservate diverse fu¬ mate verso quota 2300 ed ancora la già avvenuta formazione nella medesima zona di piccoli conetti esplosivi che furono attivi sino alla sera con lanci di scorie incandescenti. Questa seconda fase fu carat¬ terizzata anche da attività effusiva limitatamente però ad un esiguo trabocco lavico che, come fu successivamente constatato, era sgorgato dalla base di un antico e piccolo cono eruttivo perforato dalla fendi¬ tura e situato nelle prossimità ed a settentrione di M. Pizzillo. Tale fase dovette cessare con rulteriore progresso a valle della fenditura, rivelato quasi immediatamente (22h) da nuovo e copioso efflusso lavico alla base orientale di M. Cacciatore (m. 2200 circa) ed ancora da intensa attività esplosiva con lanci continui e poderosi di scorie alle stesse bocche. La colata, dopo un primo breve percorso in relativamente ripido pendìo, procedette successivamente a valle attraversando zone a pendìo per lo più dolce, ed avendo per direttrice il vallone di S. Spirito, con velocità frontale prevalente presso a poco intorno ai 50 metri per ora. II Dott. Silvestri, nei soli primissimi giorni dell’eruzione, osservò numerose fiammelle vaganti sulla colata, che, in accordo con la me¬ desima constatazione eseguita all’ inizio dell’ eruzione dell’ Etna del — 133 — 1928, potrebbero essere attribuite, come fu detto anche allora, al bru¬ ciare di idrocarburi, ottenuti probabilmente per distillazione di ma¬ terie organiche portate ad elevata temperatura. Dopo una rapida riduzione nell’alimentazione, l’efflusso cessò il 3 marzo. Le lingue più avanzate avevano raggiunto una quota di 850- 900 metri. La -superficie coperta dalla colata ammonta, secondo una stima del Cumin, a circa 170 ettari, di modo che, se si attribuisce uno spes¬ sore medio, forse esagerato di 15 metri (valore ritenuto medio per le colate dell’Etna), l’ordine di grandezza del volume totale delle lave sgorgate da :M. Cacciatore è di circa 25,5 milioni di m8 e di conse¬ guenza, tenuto conto della durata di circa sette giorni, la portata media al minuto risulterebbe di circa .2500' m!« Un confronto coi va¬ lori ottenuti per la colata della Naca dell’eruzione del 1928 mostra che la dedotta portata risulta, forse solo di poco, inferiore al valor medio per l’intera durata della relativa fase eruttiva (4-20 novembre), mentre è presso a poco la metà della portata dei primi sette giorni (4-11 novembre) corrispondenti all’intervallo di massima attività e- ruttiva. Nel corso dell’eruzione trabocchi lavici si verificarono diretta- mente dal labbro occidentale della fenditura il 26 febbraio e forse il 2-3 marzo verso quota 2300. Il primo trabocco, costituito da due sot¬ tili rigagnoli della lunghezza di circa 1 (Km., potrebbe essere stato provocato da una probabile ostruzione (limitata ed effimera) della fen¬ ditura, alimentante la bocca effusiva, mentre il secondo, consistente in un modestissimo sgorgo lavico tra i due detti rigagnoli, risulterebbe contemporaneo alla progressiva ma rapida diminuzione della portata lavica. Dopo due giorni dalla scomparsa di attività eruttiva laterale, nelle prime ore del 5 marzo una piuttosto vivace ripresa di attività esplosivo-effusiva si manifestò sempre nella zona pianeggiante situata alla base di M. Pizzillo e lungo la medesima fenditura (vedi Tav, Fig. 1). Questa fase fu seguita mediante osservazioni dirette dallo scri¬ vente che (con l’ impareggiabile, solerte ed affettuosa compagnia del Prof. Stella, direttóre dell’Istituto di Mineralogia delLUniversità di Messina, del Doti. Silvestri, direttore dell’agenzia di Randazzo del Banco di Sicilia, ai quali vanno i nostri riconoscenti ringraziamenti, nonché dello studente Sig. Romolo Pezza, che con encomiabile entu¬ siasmo volle accompagnarlo da Napoli) precisamente in quella gior¬ nata effettuò una visita al teatro eruttivo. Alle 5h circa già aveva avuto inizio il nuovo trabocco lavico, la — 134 — cui presenza ed estensione, presso a poco di 500 metri, era possibile nettamente dedurla dalla persistenza di intensi bagliori sui fumi in veloce corrente a NE. La rapida successione dei cumuli esplosivi ri¬ velava la quasi continuità delle esplosioni alle nuove bocche, dislo¬ cate, almeno le principali, ai margini della fenditura, in corrispon¬ denza delle quali per le continue proiezioni di scorie e di brandelli lavici si determinò la costruzione di nuovi conetti (vedi Tav. Fig. 2). Il continuo aumento dell’intensità eruttiva nel corso della gior¬ nata si rivelò per un sempre più marcato aumento: sia debba! tezza massima dei lanci sia della portata lavica. Come è stato già detto, all’alba le proiezioni non furono osser¬ vate direttamente, di sera però presso a poco dalla medesima loca¬ lità, nelle campagne prossime a Randazzo, l’altezza raggiunta dai proiettili fu stimata di circa 500 metri, mentre durante la nostra per¬ manenza presso il nuovo fronte lavico e ad una distanza dalle bocche esplosive, inferiore a Km. 0,5, l’altezza massima si aggirò intorno ai 200 m. Nei riguardi della portata si osserva che, mentre verso le 12 fu direttamente dedotto un valore, da ritenersi però solo come ordine di grandezza, di 9000 m3 orari (1), dal volume stimato della colata risulterebbe invece un valore all’incirca quadruplo. È precisamente questo disaccordo che, non eliminabile neanche da una riduzione nel¬ l’assunto spessore, sta a dimostrare l’aumento nella portata, rivelato a sua volta anche da aumento nella velocità frontale: difatti mentre nelle prime dodici ore il tratto percorso dalla corrente non dovette -uperare il Km., in seguito all’incirca per altre dodici ore esso risultò quasi il doppio. La variazione nella velocità fu concomitante, a quanto sembra, ad una variazione nella struttura della superficie della corrente: a massi, lastroni nelle prime ore, indi a superficie tipicamente unita, in modo da apparire in serata uniformemente incandescente, variazione già osservata in occasione dell’eruzione del 1928 e che potrebbe evi¬ dentemente essere messa in relazione con l’incipiente irrigidimento su¬ perficiale delle masse ignee prima delbemersione. D’altro canto il brusco inizio dell’intensificazione nell’attività fu direttamente osservato da noi verso le 15h. Esso ci si rivelò oltre che da incremento deciso nell’ attività esplosiva, anche da franamenti par¬ ziali dei già costruiti conetti e conseguente sollevamento di cumuli ci¬ di Secondo il Cumin la superficie coperta dalla corrente del 5 marzo risul¬ terebbe di circa 21 ettari, in modo che, attribuendo ad esso uno spessore medio di 4 metri, si ottiene un volume di 840000 m3. — 135 — nerei, rivelanti la tendenza ad uno sviluppo ulteriore del sistema di fenditure con allargamenti, prolungamenti e diramazioni (vedi Tav. Fig. 3). Nelle prime ore della nuova fase si era già manifestata una tale tendenza: una bocca effusiva, da cui noi distavamo solamente un trenta metri, era dislocata difatti alla base di una diramazione trasver¬ sale della fenditura principale, come è stato possibile rilevare sia dal mancato allineamento dei conetti attivi col M. Cacciatore, sia anche in base alla considerazione clic tale bocca, pur essendo la più bassa, ri¬ sultava la meno attiva: l’esigua corrente die da essa sgorgava si univa a breve distanza ad altre due lingue molto più copiose provenienti da altre due bocche, la cui ubicazione non fu possibile determinare, ma entrambe (o almeno una di esse, quella più elevata) dovevano es¬ sere situate lungo il labbro occidentale della fenditura principale. La corrente, costeggiando presso a poco il margine occidentale del rilievo determinato dalla lava dei Damusi, diretta all’incirca a N, nelle prime ore del mattino successivo si arrestò, dopo un percorso inferiore ai 3 Km., a circa 1 Km. dal M. S. Maria. La cessazione del¬ l’attività effusiva, nonché dell’attività esplosiva alle bocche del 5, fu evidentemente una conseguenza di un nuovo abbassamento magmatico nella fenditura per riattivazione della bocca di M. Cacciatore. Il nuovo efflusso dette origine ad una nuova corrente che, sovrapponendosi alla precedente, si spinse a non oltre 1-2 chilometri dalla bocca. Nei giorni successivi l’attività, già relativamente esigua all’inizio, è andata gradualmente riducendosi, sino alla scomparsa di manife¬ stazioni eruttive laterali verso il 10 marzo, nel quale giorno le lave si irrigidivano a solo qualche metro dalla bocca. L’apparato eruttivo terminale (crateri: centrale e di NE) che nel corso dell’eruzione limitò la sua attività, a quanto sembra, a sole fumate più o meno scarse, probabilmente provenienti dalle bocche subterminali apertesi all’inizio dell’eruzione, al cessare di questa ha presentato fenomeni esplosivi con proiezioni di ceneri cadute fino a Catania, senza però poter precisare l’effettiva provenienza'. Con questa fase esplosiva terminale del 10-11 marzo l’eruzione deve ritenersi finita; nè mi consta che nei giorni o mesi successivi si siano avuti fenomeni sismici o sismo- eruttivi che possano essere rite¬ nuti comunque collegati con l’eruzione. *** L’esame obiettivo e comparativo dei descritti fenomeni eruttivi nonché di quelli salienti o caratteristici di precedenti parossismi per- — 136 — mette la formulazione di alcune deduzioni che possono risultare utili per ricerche sui meccanismi eruttivi etnei. Molto utile intanto per l'interpretazione dei fenomeni eruttivi laterali risulta la ricerca di un eventuale, ma non sempre evidente, legame con fenomeni precedenti per lo più interessanti medesime fenditure radiali o diametrali. Se¬ guendo quest’ordine di idee risulterebbe innanzi tulio immediato il riscontro di una analogia tra l’insieme delle due eruzioni del 1942 e 1947 con l’eruzione del 1879 (vedi Fig.). In questa difatti si mani¬ festarono contemporaneamente due distinti teatri eruttivi che, oltre a corrispondere con sorprendente coincidenza a quelli delle due ultime eruzioni etnee, presentarono nei due distinti episodi per lo più ca¬ ratteri comuni ad identico comportamento. Ad esempio, l’eruzione del 1942 è stata effimera come effimera fu l’attività sud-sud-occiden- tale nell’eruzione del 1879. L’eruzione del 1947 mostra invece carattere di analogia con l’e¬ pisodio settentrionale deUl’eruzione del 1879. Dopo la fase esplosiva ter¬ minale verificatasi in ambedue i casi (1879 e 1947) ed in accordo con la quasi totalità delle eruzioni etnee, almeno di quelle di cui si conosce la successione ordinata dei fenomeni, si rende palese la fratturazione del cono a cominciare dalle zone più elevate del molile, generalmente in senso radiale. Ed il graduale progresso a valle del sistema di fendi¬ ture è stalo possibile seguire sia nel 1879 (il De Svussuhe osserva in¬ fatti che un primo efflusso lavico >i ebbe da una bocca situata lungo la fenditura ad una quota di oltre 2700 m. ed intorno alla quale, per '0\ l'apposizione per lo più di scorie proiettate, si elevò un piccolo cono — Bocca Saussure, 2770 m. — ) sia per l’eruzione del 1947, nono¬ stante che per quest’ultima le condizioni meteorologiche siano state per lo più poco propizie non solo per la visibilità a distanza, ma anche per i continui sopraluoghi. Per l’eruzione del 1947, come si è già visto, si sono potute infatti stabilire le seguenti tappe indicate da attività effusivo-esplosiva a quote continuamente decrescenti e separate da pause eruttive: la — sera del 21 febbraio: bocche subterminali dislocate in prossimità del ciglio del cratere di NE; 2a — mattinata del 24 a circa quota 2300 m.; 3a — serata della stessa giornata (22h) a circa quota 2200 m. (M. Cacciatore). Durante l’ultima fase ed in concomitanza di riduzioni o di tem¬ poranea cessazione di attività effusiva alla bocca di M. Cacciatore si sono verificati anche rigurgiti lavici con nuovi efflussi presso a poco sempre alla quota corrispondente alla seconda tappa (2300 m.): il 26 febbraio, il 2-3 marzo, il 5 marzo, per Eultimo dei quali, il più co- — 137 — pioso, si è osservata almeno una lingua lavica sgorgante da una bocca situata all’estremità di una diramazione trasversale della fenditura principale. Nello sviluppo del sistema di fenditure, sia per l’eruzione 1879 die per l’eruzione 1947, risalta, dopo un' percorso secondo il mede¬ simo radiante N 10° E, un brusco ed accentuato ripiegarne uro, di circa 40°, ad E, rispettivamente all’incirca a quota 2550 m. per la prima ed a quota 2450 m. (Due Pizzi) per la seconda : i due sistemi risultano in seguito non più coincidenti, ma seguono due assi paral¬ leli, distanziati di circa 500 in. Invero il descritto andamento delle fenditure e cioè di un andamento a due tratti ad assi superficiali al¬ l’incirca rettilinei: di cui uno superiore radiale e l’altro inferiore al¬ quanto trasversale con vertice presso a poco alla quota di 2400-2500 metri, deve essere considerato una caratteristica delle eruzioni del versante settentrionale. Esso difatti, oltre a dedursi da descrizioni, spesso non sufficientemente idonee allo scopo per l’idea preconcetta negli autori che le fratturazioni debbano svolgersi secondo piani ra¬ diali, rispetto all’asse eruttivo, può essere provato: 1°) dal contrasto tra addensamento nel detto versante di svariati sistemi eruttivi nella parte elevata e quasi assenza per quote inferiori a quelle sopraindicate di 2400-2500 metri; mentre continua l’adden¬ samento procedendo a valle in direzione NNE, la quale direzione vice¬ versa nella zona alta del vulcano presenta solo isolati sistemi; 2°) dall’allineamento dei sistemi del versante NNE etneo secondo la direzione N 50° E-S 50° W, estendentesi verso l’alto precisamente fino alla quota di 2400-2500 metri. A conferma ancora delle indicate direzioni si osserva che nell’eruzione del 1809, la quale mostra net¬ tamente un sistema di fenditure a due tratti secondo l’accennato an¬ damento, il sistema eruttivo inferiore (a quota di circa 1400 m.) è costituito da bocche disposte per circa 1 Km. secondo un allinea¬ mento che presenta appunto la direzione N 50° E - S 50° W. Analogo comportamento si osserva per i sistemi di bocche del 1911, a loro volta presso a poco allineate con le bocche del 1923 nonché con l’asse del¬ l’altro allineamento seguito dal sistema eruttivo dei Monti Umberto e Margherita relativo all’eruzione del 1879. Un siffatto comportamento troverebbe pertanto la sua spiegazione nel già ammesso irrobustimento del versante settentrionale etneo per la presenza di un particolare rilievo nascosto in seguito alla sovrap¬ posizione di materiale eruttato e che, mentre costituirebbe un ba¬ luardo di protezione per prolungamenti di fratturazioni radiali che dovrebbero interessarlo, potrebbe provocare in linea di massima un — 138 — ripiegamento appunto secondo superimi la cui traccia seguirebbe ap¬ prossimativamente la direzione della linea di cresta. Una conferma, veramente in piccolo, della suesposta interpreta¬ zione potrebbe aversi in numerosi casi, osservati al Vesuvio nel corso del periodo eruttivo chiusosi con l’eruzione del marzo 1944, di sen¬ sibili ripiegamenti nella fratturazione del conetlo, a causa di evidente irrobustimento secondo la primitiva direzione. Tra questi ricordo il caso verificatosi all’inizio dell’intervallo eruttivo 9 gennaio-8 agosto 1939. A llh del 9 gennaio il conetto intracraterico si fratturò difatti secondo il piano diametrale W-E. Per la presenza ad E dei resti del conetto 1936, recingente a guisa di Somma il conetto allora attivo, la frattura, dopo un primo tratto seguente il radiante E, si bipartì e seguì le due direzioni (SE e NE) parallele agli assi della valletta in¬ terposta. Un’ulteriore analogia tra l’eruzione del 1879 con le eruzioni del 1942 e 1947 si ha ancora nel et carattere di straordinaria tranquil¬ lità », come ebbe a dire il Silvestri, in riferimento all’assenza dei parossismi sismici che di solito precedono immediatamente ed accom¬ pagnano le varie fasi, e specialmente quelle iniziali, di un parossismo eruttivo. Mentre invero nel 1879 non mancarono terremoti per lo più debolmente avvertiti nei centri abitati dei due versanti interessati, per le eruzioni del 1942 e del 1947 non si ha notizia di alcun fenomeno degno di rilievo, se si eccettua, relativamente alTultima, un paio di dubbie scosse avvertite a Trecastagni verso la metà di febbraio. ÌÈ però possibile asserire senza alcun dubbio che non saranno mancati sismi e moti microsismìci, percettibili almeno nelle immediate vici¬ nanze dei successivi teatri eruttivi. Mentre in occasione dell’eruzione del 1942 i sismografi di Ca¬ tania registrarono moti microsismici in concomitanza dei fenomeni esplosivi al C. C. ; nei riguardi della recente eruzione però pare che siano mancate simili registrazioni. Una tale assenza potrebbe es¬ sere immediatamente giustificata da un canto con la già accennata mancanza di apparecchi sismici in funzione fino a distanze convenienti o capaci di dare una benché minima registrazione; d’altro canto con l’impossibilità di sicure testimonianze, a causa: dell’ubicazione dei teatri eruttivi, della stagione, nonché delle condizioni meteorologiche. Qualunque però potrebbero essere state le osservazioni dirette od anche le registrazioni strumentali, pur permettenti evidentemente in¬ teressanti deduzioni, non avrebbero al certo consentito di modificare il rilievo, anch’esso importante, di un’esiguità dell’ attività sismica connessa con l’eruzione del 1947. Ad un tale comportamento eruttivo fu già data invero una spiegazione, ammettendo ed esaurientemente — 139 -r dimostrando con esempi che « un singolo parossismo eruttivo non può essere studiato indipendentemente da fenomeni verificatisi preceden¬ temente, sia durante intervalli intereruttivi sia nel corso di attività sismo-eruttive caratteristiche di altri parossismi, ponendosi così in rilievo l’esistenza, più o meno marcata, di legami genetici tra suc¬ cessivi parossismi ». Nei riguardi dell’eruzione del 1879 il Silvestri affermò che: «l’Etna preparò l’eruzione attuale (1879) fin dal 1874 ». Quesl’ul- limà difatti effimera e con fratturazione radiale presso a poco coinci¬ dente, almeno nel tratto superiore, con quella successiva del 1879, fu seguita da parossismo sismico violento che potrebbe essere consi¬ derato se non l’unico e completo « periodo sismico preeruttivo » per le eruzioni che in seguito interessarono quel versante, almeno però come facente parte dei periodi sismici effettivamente inerenti ad esse. La possibilità che manifestazioni eruttive si presentino a distanza di tempo dalla determinazione di una frattura, viene messo in evi¬ denza anche dal caso precedentemente illustrato, verificatosi al Ve¬ suvio il 9 gennaio 1939. E difatti, mentre gli efflussi alla base occi¬ dentale e a quella sud-orientale si verificarono all’inizio dell inter¬ vallo, lo sgorgo lavico alla base della fenditura nord-orientale, pur contemporanea, almeno grosso modo, alle precedenti, si ebbe sola¬ mente il 6 febbraio all’atto probabilmente del suo compimento. Le analogie e le considerazioni avanti eseguite mostrano suffi¬ cientemente uno sviluppo del sistema di fenditure per le due eruzioni 1942 e 1947 secondo direzioni per le quali è consentita l’ammis¬ sione di una preventiva preparazione, che d’altronde potrebbe e do¬ vrebbe provarsi appunto in base all’assenza o all’esiguità dei paros¬ sismi sismici accompagnanti la fratturazione dell’edificio vulcanico. In conclusione le eruzioni del 1942 e 1947, pur presentanti carat¬ teristiche eruttive particolari che le distinguono da quelle precedenti, come ad esempio la fase delle fontane laviche terminali (invero fase finale per la prima e iniziale per la seconda) lasciano rilevare nella successione dei fenomeni il quadro tipico riscontrabile nelle eruzioni etnee e che si può sintetizzare nel modo seguente: sollevamento mag¬ matico nel condotto, apparizione dei fenomeni eruttivi laterali a quota generalmente decrescente, eventuali rigurgiti derivanti da ostru¬ zioni delle fenditure alimentanti le bocche effusive, eventuale attività esplosiva terminale a chiusura dell’eruzione. Le deviazioni dal quadro più completo, nel quale sarebbero pre- — 140 — visti appunto i fenomeni sismici, nonché attività esplosive laterali piut¬ tosto intense, troverebbero esauriente spiegazione con le particolari condizioni tettoniche della regione interessata dall’eruzione, nonché con le condizioni fisico-chimiche magmatiche. BIBLIOGRAFIA Cumin Gustavo. Dati e considerazioni sulla recente eruzione. Vie Economiche, Anno II, N. 30. De Saussure. Nota sulla recente eruzione dell’Etna. Boll, del Ville., Ita!., Anno VI, p. 135. Imhò. G. Sistemi eruttivi etnei. Bull. Volo. 1928, pag. 89. li). Osservazioni e ricerche in relazione all’ eruzione etnea 2-20 nov. 1928. Bull. Volo. 1928, pag. 120. Io. Notizie vulcanologiche. - Vesuvio. Boll, della Sor. Sism. Italiana. Voi. XXXV (1939). Ponte G. Sulla recente eruzione dell’Etnea. Scienza e tecnica, Voi. 8°, fase. 1-2, pag. 51. Io. L’eruzione etnea del febbraio 1947 e le vicende dell’Istituto Vulcanologico dell’Università di Catania. L’Universo, anno XXVII. pag. 659. Silvestri Orazio. Sulla doppia eruzione e i terremoti dell’ Etna nel 1879 , 2a edi¬ zione, Catania Tip. L. Calatola), 1879. Io. Notizie sull’eruzione dell9 Etna del 29 agosto 1874. Boll, del Vulcanismo Ita¬ liano, Anno I, Voi. I, pag. 105. Se sia stato esclusivamente terminale V efflusso lavico nella eruzione vesuviana del marzo 1944 Nota del socio Antonio Parascandola (Tornata del 80 Dicembre 1947) E se ne offesi te gran pentimento Ne sentii poscia e penitenza al core E vengo ai tuoi richiami ed ogni emenda Son pronto a far che grato a te mi renda. Tasso, Gerusalemme lib.. C. IV. Come mi sono mantenuto obbiettivo nelle private discussioni e nella pubblica, altrettanto farò in questa nota, desideroso solo di ap¬ portare chiarimenti alla esplicazione delTultima conflagrazione vesu viana e con l’intendimento di reciprocamente illuminarci, noi stu¬ diosi, in queste che sono le oscure manifestazioni del metabolismo tellurico, e che ancora attendono una soluzione fin quando tutte le scienze che studiano la Terra non si decideranno a lavorare di con¬ serto per darsi una volta tanto adeguata ragione di tali ignee estrin¬ secazioni. Sono dolente di dover ribattere il mio carissimo amico Imbò, amico fin dall’infanzia, e nati nella stessa isola, nelle sue « Conside¬ razioni ed osservazioni comprovanti che la eruzione vesuviana del 1944 fu terminale », nota presentata nell’adunanza di questa Società nel 26 novembre, ed oggetto già in quella seduta di viva, ma serena discussione; sono costretto però a farlo poiché egli in queste sue con¬ siderazioni non vibra in concordanza di fase con me. Egli ritiene giusto quanto dice, ed io ritengo giuste le mie de¬ duzioni. Tutte queste discussioni si sarebbero potute evitare se avessimo da tempo tra noi collaborato. Come già a voce, il 2 novembre scorso ho detto a lai rammaricantesi con me di ciò che ho scritto, sono — i 42 — ancora dolente di non aver dato peso alle mie osservazioni in relazione alle sue; d] non avergli prima cioè comunicalo le mie conclusioni; ma ciò dipese dalle difficoltà di comunicare fra noi per le particolari contingenze dell momento. D’altra parte è dal dicembre dello scorso anno che io leggo in Società le Notizie vesuviane , quindi potevamo scambiare delle idee; solo da poco prima che io inviassi ad ImbÒ copia dei miei lavori io ne avevo ricevuto gli estratti, non mi riuscì quindi tenerlo al cor¬ rente. Nella mia nota: Notizie vesuviane. Lo stato attuale del Vesuvio (20 luglio 1947) Boll. Soc. Nat. in Napoli Voi. LVI, 1947 dico: Con¬ tinuando le osservazioni perche si possa alla meglio seguire l9 attuale periodo di riposo del nostro vulcano prima che esso si risvegli ecc.; Questa parola cc alla meglio » a scanso d’equivoci, non era diretta ad ImbÒ; è stata una locuzione la quale va riferita esclusivamente alle mie osservazioni, perchè io, quelli che leggono, potessimo, stando sempre sull filo delle cose da me osservate, e come guida mia stessa, nel miglior modo possibile, senza eccessive pretese, seguire il Vesuvio in questo periodo di riposo, tanto più che queste escursioni, e tutto quel che segue, almeno per ora, è tutto effettuato aere proprio. Sgombrato il terreno da questo primo ostacolo, passo alle varie discussioni : ImbÒ ritiene che era mia convinzione « che un periodo erut¬ tivo vesuviano, a partire dal 1700. dovesse concludersi con una eru¬ zione laterale ossia sempre, ogni volta , con un’eruzione laterale. Rispondo: in primo luogo fu dal maggio 1737 che il Vesuvio chiuse il suo ciclo eruttivo con efflusso laterale rapido, riposando poi per sette anni e sei mesi. Precedentemente il Vesuvio dal 1652 fino al 1707 aveva chiuso i suoi periodi eruttivi o con parossismi stromboliani o con efflussi lavici estracraterici terminafli seguiti da riposo solfatariano. Il Vesuvio poi dal 1737 cambiò il suo meccanismo di eruzione di chiusura o con efflussi lavici laterali rapidi, o con efflussi lavici eccentrici, o con qualche parossismo stromboliano o liawajano, se così vogliamo classificare quello dell 1779, seguito poi da riposo solfa¬ tariano. Niente di strano quindi che si poteva sospettare, ma non ritenere impossibile diversamente, che |! Vesuvio confacientemente all’altezza, alle in parte irrobustite pareti, continuasse ancora il suo meccanismo di fine periodo, assunto col 1737; e perciò non mi si può attribuire una convinzione errata. — 143 — Inoltre secondo Imbò io avrei ritenuto H’eruzione del 1944 sic* come un episodio del periodo eruttivo cominciato nel 1913, e non come parossismo di chiusura del periodo. Non è esatto quanto dice. Le cose stanno così: che io sulle prime, durante lo svolgimento del parossismo eruttivo, e sul finire di esso, per quello che era a noi visibile ed intuibile, fossi stato in forse sul pronunciarmi o meno se l’eruzione del 1944 fosse stata di chiusura o meno, non ne faccio un mistero. Poi dopo aver rilevato che il Vesuvio presentava caratteri che facevano desumere un riposo post-eruttivo mi son pronunciato nel 2 maggio 1944: « questa de] 1944 è stata senza dubbio par ossimale e pére che abbia chiuso il periodo eruttivo vesuviano iniziatosi nel 1913 » (1). Non senza ragione ho usato questa parola prudenziale « pare », mentre poi in seguito ho decisamente parlato di chiusura di periodo. E questa misura prudenziale mi si dovrebbe attribuire ad un merito e non ad un demerito; per cui se il prudenziale fosse stato un errore, il che non è, è da ricordare che « Humanum est errare » et « si licet magma componere parvis » _ cc sapienti s est errorem smini confiteri ». Nella mia nota « L’eruzione vesuviana del marzo 1944 » dico : Eruzioni di questo tipo (cioè terminali) il Vesuvio avena dato nel- Vaprile 1649, nel maggio-giugno 1698, nel marzo 1759, nel maggio 1806, nel giugno 1929. In primo luogo io scrissi « eruzioni di questo tipo » cioè termi¬ nali: io ho escluso la questione, o meno, se queste eruzioni fossero state di fine di periodo. Anzi per errore di stampa fu scritto, come per fedeltà ho trascritto sopra, ed Imbò ha ripetuto, 1649 per 1694. Quindi io mi riferivo al tipo di eruzione e non alla eruzione in rapporto alla chiusura del periodo. Si può dubitare che quellle eru¬ zioni siano state terminali? No. Ma che non intendevo in quelle riferirmi a chiusure di periodo risulta evidente che io salto l’eruzione del 1906 che fu chiusura di periodo, ma senza trabocco terminale, ma solo laterale, cito invece il 1694 (per errore 1649) ed il 1698, che furono terminali, e per giunta di chiusura di periodo (2). (1) Parascandola A. V eruzione Vesuviana del Marzo 1944. I prodotti piro¬ clastici. Rend. R. A-cc. Se. fis. e mat. della Società Reale di Napoli, serie 4, vo¬ lume XIII. 1942-1945. (2) Imbò nel suo lavoro Considerazioni ed osservazioni comprovanti che Ve - — 144 — Nell’ eruzione dell!’ aprile 1694, la lava traboccata dal cratere raggiunse S. Giorgio a Cremano ed il Vesuvio poi stette quieto, ossia riposò per 27 mesi. Nel 1698 la lava traboccata dal cratere corse verso Torre del Greco e si fermò a 2 Km. dal mare, riposò poi il Vesuvio per 37 mesi razione del 1944 fu terminale , presentato in questa Società nella tornata del 20 no¬ vembre 1947 appone una nota a pag. 117 per giustificare questa data del 1649 e la osservazione che io in inerito faccio nel lavoro presentato nella tornata del 30 di¬ cembre 1947, ossia in questo lavoro che il lettore ha per mano. Egli fa rilevare che ci fu realmente nel 1649 una eruzione terminale. Io però faccio notare ohe questa eruzione non fu di fine periodo; essa dovette costituire un parossisma stromboliano intermedio, come si potrebbe rilevare dal Viola. In merito si può leggere anche in Alfano. Il Vesuvio e le sue eruzioni; tale opera di prossima pubblicazione di pagine circa 600 ho avuto io il piacere di consul¬ tare e studiare per cui ne ringrazio vivamente Fautore. Di utile consultazione sono poi anche: Tutini Camillo, Prodigiosi portenti del Monte Vesuvio. MS. Bibl. Brancac- c iati a, Napoli. Pubblicato da Riccio Lligi in Arch. Stor. Prov. Nap., II, 1877, p. 161-175. — Viola Silvestro. H istoria del Monte Vesuvio di Silvestro Viola Na- poletano nella quale diffusamente si tratta di tutto ciò che è occorso di essa dal principio del mondo sino all’anno 1636 et 1639, con occasione dell’ultima erutta¬ zione di fuoco fatta dal detto monte al 16 di dicembre 1631 et 28 novembre 1649 - Manoscritto Sala Sismica della Biblioteca di Storia Patria in Napoli , — Riccio Luigi, Un altro documento inedito dell’ eruzione del Vesuvio del 1649. In e Lo spettatore del Vesuvio e dei Campi Flegrei N.S. », Napoli, 1887. — Petrus Calvisius, Opus Ghronologicum. Frank, a.m. 1650, p. 1028. — Marcello Bonito- T erra tremante , Napoli, 1691. p. 780. — Anon.. Relazione dei portentosi effetti ca¬ gionati dalla meravigliosa eruzione fatta dal Monte Vesuvio detto Somma, di pie¬ tre infocate e di fiumi di acceso bitume, commistione di minerali dì tutte le sorti : principiata la notte seguente del dì 12 d’aprile 1694 e continuata per molti giorni. In Napoli 1694. Appresso Domenico Antonio' Parrino e Camillo Cavallo. — Della Torre Giovanni Maria, Storia e fenomeni del Vesuvio. In Napoli 1754. Presso Giuseppe Raimondi. — Della Torre (Duca), Breve descrizione dei principali in¬ cendi del Monte Vesuvio e di molte vedute di essi, ora per la prima volta rica¬ vate dagli storici contemporanei ed assistenti nel Gabinetto del Duca della Torre. Napoli 1795. Presso Domenico Sangiacomo. Ma se a me Imbò fa notare che vi sia stato un equivoco io questa convinzione, io mi permetto fargli notare che anche egli è in equivoco circa la natura delle eruzioni del 1694 e del 1698, poiché queste furono non solo terminali, e su ciò non si discute, ma anche di chiusura di periodo. L’Imbò si appella al Mercalli che iniziò col secolo XVIII Felenco dei periodi vesuviani e che fu perplesso per tali eruzioni. Ma il Mercalli per tanto si riferisce a periodi vesuviani a partire dal 1700 in quanto egli forse non si era molto occupato dei periodi precedenti. Ma — 145 — Quindi queste due furono, in effetti, eruzioni di chiusura di pe¬ riodo, contrariamente a quanto asserisce ImbÒ ; e furono per giunta terminali. Perciò non sarebbe la prima volta che il Vesuvio avrebbe chiuso un suo periodo eruttivo con eruzione terminale. Onde questa del 1944 r Alfano (1) che ha scritto molto tempo dopo, ed ha avuto Fagio di studiare nei singoli descrittori delle varie eruzioni le modalità di queste, ha potuto rifare mi¬ nutamente la storia di questi periodi anche nel tempo precedente al 1700. Nella sua voluminosa opera. Il Vesuvio e le sue eruzioni di prossima pubbli- dazione, sono esaminati attentamente i periodi Vesuviani fin dal 1631, e anche i precedènti. Quindi non credo che possa esservi dubbio sulla fase di riposo sus¬ seguita sia al ,1694, sia al 1698, e che queste due eruzioni siano di chiusura di periodo, come si rileva dal citato manoscritto. Ho avuto la pazienza di rileggere il Sorrentino ed altri autori, e mi sono più volte domandato come mai non debba interpretarsi come riposo il tempo inter¬ corrente tra il parossisma di chiusura del 1694 e la riapertura del condotto del 31 luglio 1696. In questo riposo del Vesuvio di due anni e tre mesi il non vedere a scintilla di fuoco nonché ombra di fumo » mi sembrano condizioni abbastanza sufficienti per ritenere il Vesuvio in fase di riposo. Voglio credere che il Sor¬ rentino si sia riferito con queste parole non solo ad una descrizione di ciò che vedeva dalla sua nativa Torre, ma anche per visione diretta sul cratere. Ed allora che dovremmo dire noi se stando all osservazione lontana osserviamo che il Monte caccia, ben più che sovente, ben più che ombra di fumo; dovremmo noi in tal caso' dedurre che il condotto, del Vesuvio non si sia ostruito? Se noi fossimo dei semplici storici del secolo XVII, ossia se la vulcanologia stesse circa nelle stesse condizioni di allora, i nostri lontani lettori dovrebbero pur dire, se le nostre osservazioni si limitassero solo alla lontananza, che il Vesuvio mostrava segni di attività rilevantesi con fumigazioni. Per contro la totale assenza di vapori già nel volgo, quando non si vede fumigare il Vesuvio, dà Fimpressione, la quale poi è un fatto reale, che il Vesuvio riposa. Nella stessa nota egli dice: tutt’al più il tipo 1944 si sarebbe presentato non solo col parossisma del 1944 (che resterebbe sempre il primo a partire dal 1701 come é stato indicato nel testo) ma anche con gli altri due parossismi del 1694 e del 1698. Faccio io rilevare: se questo del 1944 è il primo a partire dal 1701. non può costituire una originalità di eruzione in ordine di tempo, e quindi un tipo nuovo da includere nei parossismi di chiusura di periodi vesuviani; esso verrebbe ad es¬ sere il terzo caso verificatosi; e di conseguenza non sono gli efflussi terminali di fine periodo del 1694 e del 1698 quelli che debbono essere subordinati al 1944; invece questa eruzione fu del tipo 1694 e 1698; ossia, passi il paragone, come si hanno i cicli e i ricorsi storici si hanno i cicli e i ricorsi vesuviani! Perciò resta sempre il fatto che due chiusure di periodo si sono verificate con (1) Alfano G. B., Il Vesuvio e le sue eruzioni, op. cit. in corso di stampa. 10 — 146 — noti sarebbe un nuovo tipo di eruzione di chiusura, stando scilo all’ef¬ flusso lavico terminale, perchè già ha avuto precedenti. Difalti Imbò riferendosi ad una eruzione lavica esclusivamente terminale dice: « questo fatto presenta una caratteristica tipica del parossismo del marzo 1944, in quanto solo per la prima t olta nel corso efflusso lavico terminale e quindi quella del 1944 per tanto non potrebbe costi¬ tuire un nuovo tipo. Per comodità degli studiosi desumo dalla storia del Vesuvio di Alfano un qua¬ dro delle eruzioni di chiusura a partire da quella del 1652. Il Vesuvio dal 1631 ad oggi ha presentato due forme di eruzioni di chiusura dei suoi periodi eruttivi in due tempi successivi, in due gruppi successivi di periodi. Un primo tempo, un primo gruppo di periodi, va dal 1631 al 1707, un se¬ condo dal 1707 al 1906. Il primo igruppo risulta di 6 periodi, i quali furono chiusi da eruzioni costi¬ tuite da parossismi stromboliani . o da efflussi lavici estracraterìci terminali, seguiti da riposo solfatariano. Tali furono le eruzioni: 1652 — parossismo stromboliano 1660 — » » 1682 — » » 1694 — efflusso terminale 1698 — » » 1707 — parossismo stromboliano Poi ripòso per 1 anno e 9 mesi » » » 3 anni » 5 » » ». » 3 » » 1 » » » » 2 » » 2 ». » » » 3 » » 1 » » » » 4 » » 5 » Poi il Vesuvio cambiò il meccanismo delle eruzioni di chiusura, perchè queste furono costituite da efflussi lavici laterali rapidi, o da efflussi lavici eccentrici , o raramente da parossismo stromboliano ; e poi riposo solfatariano. Tali eruzioni furono: 1737 — efflusso laterale rapido - - Poi riposo per 7 anni e 6 mesi 1760 » eccentrico » » » 4 » » .2 » 1767 — » laterale rapido » » » 2 » » 3 » 1779 - pai ossi sino stromboliano » » » 4 1794 — efflusso eccentrico » » » 4 » » 6 » 1822 — » laterale rapido » » » •4 » 1834 — » » » » » » 2 » » 4 » 1839 — » » » » »! » i2ì, » » 8 » 1850 — » » » » » » 4 » » 9 » 1855 -- » » ; » » -» » 1 » . » 2 » 1861 — » eccentrico » » » » 2 » » 1 » 1868 - » laterale » » » » 1 » » 10 » 1872 - » » » » » » 3 » » 7 » 1906 — » » » » » » 7 » »• 2 ». 147 — del parossismo di chiusura di un periodo eruttivo non si hanno spacchi laterali ma solo efflussi terminali e cioè sgorganti direttamente dalla bocca principale. Ai due tipi di parossismo coi quali si sogliono gene¬ ralmente chiudere i periodi eruttivi ed indicati dal Mercalli : tipo 1872, tipo 1760, vi è quindi da aggiungere un terzo tipo, 1944 ». Quindi in questo secondo gruppo di periodi eruttivi successivi non vi sono state mai eruzioni di chiusura di tipo terminale e str acraterico , seguite poi da ri¬ poso' solfatariano. Potrebbe benissimo avvenire che il Vesuvio ritorni al tipo delle eruzioni di chiusura dal 1631 al 1707; in quegli anni ad eruzioni di tale tipo seguirono sem¬ pre riposi solfatariani che indicarono la chiusura del periodo eruttivo. Quale sarebbe stata la ragione che gli efflussi del Vesuvio del primo tempo, del primo gruppo di periodi dal 1631 al 1707 non furono mai laterali? Probabilmente l’altezza del vulcano. Dopo l’eruzione del 1631, il Vesuvio era alto metri 1030. Quale fosse poi l’altezza del Vesuvio prima dell’eruzione del 1737 non ci è stato detto dagli storici. Però sappiamo che dopo tale eruzione il Vesuvio fu decapitato, e che la sua altezza era metri 1160. Nell’ipotesi, già troppo larga, che il Vesuvio nel 1737 fosse stato decapitato di metri 50 ne segue che prima di questa eruzione era alto 1110 m. Quindi dal 1632 al 1737 aveva lentamente guadagnato 80 metri di altezza, ra¬ gione sufficiente affinchè la pressione del magma sulle pareti interne del condotto vulcanico fosse lentamente e notevolmente aumentata. Onde se prima le pareti del vulcano resistettero alla pressione del magma, e questo poteva piu facilmente e stravasare dagli orli non molto alti del cratere, raggiunta invece il vulcano una maggiore altezza con conseguente aumento della pressione del magma, le eruzioni di chiusura più che avvenire per il cratere termi¬ nale, cominciarono a realizzarsi con altro meccanismo, ossia con squarcio' laterale o eccentrico dell’ edificio vulcanico, ad altezze più o meno elevate sul livello del mare. Quindi dal 1737 al 1906 su 14 eruzioni di chiusura ce ne sono state 10 con ef¬ flusso lavico laterale, 3 con efflusso eccentrico ed 1 stromb oliano. Perciò niente di strano se io avessi pensato che il Vesuvio abbia potuto tenere nella eruzione 1944, lo stesso meccanismo del secondo gruppo delle precedenti eru¬ zioni. La frequenza delle eruzioni ad efflusso lavico laterale poteva lasciarmi so¬ spettare una eruzione similare tenendo la norma del passato ch’è lume al presente, tranne che non subentri una evoluzione, e quindi cambiando umore e contingenza si abbia un nuovo tipo di estrinsecazione; ma questo tipo nuovo non si divina, ma si constata. Resterebbe corretta quindi la convinzione di iImbò, che non soltanto 1* eruzione del 1944 sia stata terminale e di chiusura di periodo a partire dal 1631, ma che invece lo furono anche le eruzioni del 1694 e del 1698. Perciò della eruzione 1944 non si può fare un tipo a se, perchè (preceduta da altre nella storia del Vesuvio. — 148 — Ma come abbiamo detto, l’eruzione del 1944, così concepita, non può costituire un nuovo tipo essendo stata preceduta da quella del 1694 e del 1698. Riguardo poi a questa mia incertezza se l’eruzione vesuviana del 1944 sia stata di chiusura di periodo, oppure no, faccio ancora os¬ servare che, senza dar torto ad alcuno, chiunque poteva benissimo, a manifestazioni violente ultimate, aver dubbi sulla chiusura o meno di un periodo eruttivo; l’attività magmatica poteva pur riprendere subito. Che ne possiamo noi sapere degli umori di un vulcano? Quando eruttò il Monte Nuovo nel 1538, il giorno 2 ottobre salì il Toleto al monte e vide in fondo al cratere le pietre che ribollivano come in un grande caldaio; il giovedì 3 ottobre, riprese violenta l’attività. Il venerdì 4 ottobre il monte era quieto e vi salì il Mar- chesino ; la domenica 6 ottobre ili monte esplose con forte dinamismo seppellendo sotto ila congerie dei blocchi lavici gli sfortunati avven¬ turatesi sulle pendici (1). In questa alternativa il monte poteva ancora seguitare, ma chi poteva assicurarlo? Già la guida ScOGNAMiGUo mi diceva che, salito uno dei primi sul cratere quando fu possibile dopo la conflagrazione, affacciatosi sull’orlo, vide sul fondo, allora più profondo, come una fossa circo¬ lare dalla quale veniva su qualche cosa come d*un fango che bollisse, o, penso jo, come della sabbia fine o cenere che saltellasse o fosse semoventesi; evidentemente forse cenere e sabbia sommossa dai va¬ pori ancora svolgentisi. Nell’eruzione del 1779 nella quale pure vi fu, in breve tempo, più volte intervallato il ritmo parossismico con la quiete, sappiamo che fino ai primi di ottobre il Vesuvio dava segni non lievi della in¬ terna commozione tanto da far sospettare che esso non avesse avuto ancora intenzione di smetterla. Quindi se al 1779 con quello sfogo che ebbe, il Vesuvio si sentiva ancora ingorgato che dopo due mesi al 1° ottobre, faceva sospettare una ripresa dell’incendio, come mai poi al 1944 potevamo pochi giorni dopo l’eruzione dir con sicurezza della chiusura del periodo eruttivo? Ma senza andare tanto oltre, mi riferisco alla eruzione dell’aprile del 1906. In uno di quei giorni durante il parossismo, mentre questh (1) Toleto Pietro Giacomo, Ragionamento del terremoto del Nuovo Monte, delFaprimento di terra in Pozza olo nell’ anno 1538 e della significazione di esso. Stampato in Napoli per Giovanni Sulzbach Alemanno a 22 gennaio 1539. con grazia e privilegio. — Parascandola A., Il Monte Nuovo ed il lago Lucrino. Boll. Soc. Nat. in Napoli, Voi. LV, 1944-46. — 149 — pareva volgere alla fine, 1’ Alfano, che andava in cerca di Mercalli, si incontrò con questi che ritornava dal Vesuvio ritirandosi alla sua abitazione in Via Sapienza. Intanto s’udiva lontano il tonare del Vesuvio. Mercalli invitò a salire 1“ Alfano, gli lece prendere da un cu¬ mulo di fascicoli la pubblicazione dal titolo: Intorno alla successione dei fenomeni eruttivi al Vesuvio (Atti V Congresso geografico Ita¬ liano. Napoli, 1905). Gli indicò il vuoto nella colonna delle date spettanti alle chiusure di periodi eruttivi, e gli disse di segnare la data 1906 nella casella corrispondente al ciclo eruttivo iniziatosi nel 1875. Ho visto tale pubblicazione appunto con tale segno. Tuttavia lo stesso Mercalli quando più tardi scrisse la sua me¬ moria a La grande eruzione vesuviana cominciata il 4 aprile 1906 », presentata all’Acc. Pontificia dei Lincei il 20 maggio 1906, e poi ritirata e ripresentata il 20 luglio 1906 con modificazioni ed aggiunte, disse a pag. 5:cc L’ultimo di questi periodi vesuviani è cominciato nel dicembre 1875, e tutto fa credere che la presente eruzione sia la catastrofe con cui esso si chiuderà definitivamente ». Quindi il Mer- CALLI dal complesso dei fenomeni osservati usa la prudenziale: tutto fa credere. Difatti, più oltre, a pag. 17, parlando di alcune insignifi¬ canti eruzioni di lave nei giorni seguenti al 9, e di proiezioni dal cra¬ tere di cenere e lapillo, scrisse: cc questo decremento generale e quasi regolare, nonostante le effimere recrudescenze del 13, 15 e 21 aprile, continua ancora al presente (19 maggio), e mi fa presumere che il Vesuvio non tarderà molto a porsi per un tempo più o meno lungo in quiete perfetta, ossia in fase di solfatara, determinata specialmente dalla ostruzione in seguito all’abbassamento della colonna lavica e al conseguente collasso del condotto centrale ». Come rilevasi, il Mer- calli ripetutamente scrisse nella citata memoria: quiete. Quindi ancora qui il Mercalli attese lo svolgimento dei feno¬ meni che dal loro complesso gli avrebbero fatto presumere la chiu¬ sura del periodo; e non usa il categorico: è. IMBÒ mi dice che dal complesso dei fattori esaminati « nessun dubbio sarebbe dovuto sorgere nel ritenere che l’eruzione del marzo 1944 costituisse effettivamente la fase di chiusura del periodo eruttivo incominciato nel luglio 1913 ». Ma io faccio notare che questo nessun dubbio lo affermiamo quando abbiamo rilevato il riposo post-erut¬ tivo, e non prima. Inoltre nella mia pubblicazione a L’eruzione ve¬ suviana del marzo 1944- — I prodotti piroclastici (Rend. Acc. Se. Fis. e Mat., adunanza del 2 maggio 1944) io non mi pronunciavo se non con la riserva , ai fatti fino allora osservati, cioè pare che il Ve¬ suvio abbia chiuso il periodo eruttivo iniziatosi nei 1913. Le ulteriori osservazioni avrebbero potuto confermarlo, ImbÒ che scriveva: lì parossismo vesuviano del marzo 1944, nel medesimo periodico (adunanza 5 die. 1944), cioè dopo del mio la¬ voro, e nove mesi dopo l’eruzione, ha potuto asserire più categori¬ camente la chiusura. ImbÒ mi dice inoltre: che io abbia denominato fase di quiescenza , cioè di quiete, la fase in cui è subentrato il Vesuvio dopo il paros¬ sismo del 1944, invece di chiamarla fase di riposo. Ciò per me è un pò questione di lana caprina; perchè? Mercalli nella sua memoria citata « La grande eruzione vesuviana dell’aprile 1906 » a pag. 5, dice: «diverse eruzioni formano periodi e cicli eruttivi ben definiti, perchè preceduti e seguiti da perfetta quiete ». Più oltre, a pag. 17 : «mi fa presumere che il Vesuvio non tar¬ derà molto a porsi per un tempo più o meno lungo in perfetta quiete». Ma Ho stesso ImbÒ: « Stando alla condizione comunemente ri¬ chiesta perchè il particolare intervallo di quiete , a durata variabile, possa costituire un periodo di riposo ». Dunque ImbÒ ammette che la tranquillità del vulcano, la sua quiete, è quella assenza di estrin¬ secazione di dinamismo per un certo intervalllo. Ma mentre usa la parola quiete , poco dopo usa la parola riposo. Senza dubbio è que¬ stione d’intendersi. Il Vesuvio non riposa mai, riposerà quando sarà irrigidito il suo magma in profondità. Il Vesuvio è sempre gestante; egli riposa sì, sta quieto sì, rispetto a noi che lo vediamo fermo, o tranquillamente eruttante, solo per il fatto, come dice Tata Dome¬ nico, che riprendendo ad eruttare non ci danneggi (1). Lo stesso Mercalli talvolta usa la parola riposo in senso diverso; difatti a pag. 92 della sua opera I Vulcani della Terra dove parla dei « Riposi del Vesuvio » dice: Il Vesuvio durante i prolungati pe¬ riodi di attività moderata presenta brevi riposi , di pochi giorni o al più di pochi mesi, durante i quali al cratere cessano totalmente le proiezioni di cenere e di scorie e continua soltanto l’emissione delle sostanze gassose » eee. Come si vede, ili Mercalli, che pure fa legge in terminologia vulcanologica, usa ad libitum la predetta parola; solo che è logico che tutto vada opportunamente inteso. Inoltre non diciamo noi di quiescenza la fase ischiana? Ripo- 1) Tata Domenico. Descrizione del grande incendio del Vesuvio successo nel giorno 8 del mese di Agosto del corrente anno 1779. Napoli, 1779: « Dal giorno 11 di Agosto .fino al 1° di Ottobre il Vesuvio non ha mai cessato di farsi, di quando in quando, sentire con 1 suoi muggiti, eruttando senza intermissione alcuna, gran¬ dissimo fumo, alle volte più denso ed alle volte memo; quandi si rileva, che tut¬ tora debba contenere materia soperchia, da espellere: e perciò bisogna, che ci aspettiamo di vedere, tra poco una nuova scena: piacere per altro che io non desidero ». — 151 — sano i Flegrei? Chi riposa ci dà quelle sorprese come all’epoca del Monte Nuovo? Però già dal mio lavoro si desume che concludo per la fase di riposo, solo che la ho chiamata: una fase di quiescenza; debbo notare che io non ho detto: in fase di quiescenza , o, nella fase di quiescenza. Ila quale per essere così chiamata dobbiamo aspettare secoli (stando al Mercalli. I Vulcani attivi della Terra. Milano 1907). Imbò dice che io nel denominare la fase di quiescenza, non ho inteso che si trattava di fase di riposo, giacche la quiescenza è tra due intervalli eruttivi; almeno così si rileva leggendo ciò che egli scrive. Quindi anche egli non avrebbe voluto usare la parola di quiete, e quindi di quiescenza, nei comuni limiti. Tutto ciò va inteso cura grano salis, perchè ognuno vede quale anarchia può sorgere dall’uso di questa parola, e come essa si presti bene a sofisticare. Tutto sta intendere che cosa uno ha voluto significare. Tale questione non mi sembra opportuna. Ma il nocciolo della questione su cui verte principalmente questo scritto è se il Vesuvio abbia chiuso il suo ciclo eruttivo- con solo efflusso lavico terminale, oppure anche con rottura del fianco del Gran Cono. Rifaccio in breve la storia. Pervenuto sul cratere del Vesuvio appena mi fu possibile acce¬ dervi dopo la eruzione con la guida Scognamiglio Vincenzo e con i miei alunni, la guida mi disse che il Vesuvio di lato, di fronte alla Punta del Nasone circa, si era fratturato. Le lave sopra erano ferme. Egli mi fece la relazione così precisa riportata da me (1). Al di sotto della colata lavica traboccante dall’olio e fermatasi, vide aprire |1 fianco del Gran Cono siccome è il movimento di una talpa la quale si faccia strada smottando il terreno e susseguentemente vide sboccare una testa lavica che rapida discese per il breve pendio ecc. Allora io feci alla guida la stessa domanda che Imbò ha fatto a me nella seduta ultima; domandai di vedere nel cratere dove era il dicco intruso. La guida mi disse che essendo uno sbocco laterale e a nord, evidentemente non potevamo cercare fratture lungo le pareti del cratere, ma mi fece ben intendere che la frattura interessava la compagine del Monte più oltre; sicché mi condusse lungo il crinale del cratere, lungo cioè il nuovo orlo e mi indicò rallineamento sul quale era avvenuto lo sbocco. (1) Parascandola A., Notizie Vesuviane. Lo stato del Vesuvio nel 18 e 25 marzo 1947, (Boll, della Sqc. dei Natur: in Napoli, Voi. LVI, 1947), — 152 — In primo luogo io mi convinsi della esattezza di ciò che diceva circa il non vedere il dicco intruso, giacche trattandosi di uno sbocco laterale il magma poteva dipartirsi da profondità varia della colonna magmatica e su inclinazione varia con detta colonna. Nè potevo ve¬ dere lungo le pareti crateriche qualche dicco verticale o quasi, il quale sarebbe stato conseguenza di una colonna lavica saliente lungo l’asse craterico attuale; ma le pareti dell’attuale cratere mostrano le lave stratificate, pressocehè orizzontalmente come tanti espandi¬ menti gli uni sugli altri e non mostrano filoni verticali o presso a poco. Ma più di tutto col notevole attuale spostamento della voragine craterica questa viene ad essere molto lontana rispetto alila generatrice settentrionale del Gran Cono; per cui pare che sarebbe stata opera vana ricercare sulla parete settentrionale dell’attuale voragine cra¬ terica il dicco lavico del discusso efflusso (laterale. A complemento di ciò faccio rilevare che quando dopo l’eruzione del 1906, 1’ Alfano ascese al cratere assieme col prof. Mercalli, questi non gli mostrò affatto il dicco dal crepaccio lateralle realizza¬ tosi, in quella eruzione, sulla generatrice sud del Gran Cono; nè 1’ Alfano di sua iniziativa lo vide. Eppure si trattava di un cratere enormemente largo, sulla cui parete, come si presume, si sarebbe potuto vedere ili dicco dell’eruzione. Comunque, disceso quella volta dal Vesuvio, mi affrettai a co¬ municare al mio amico Imbò ciò che la guida mi aveva riferito. Egli mi rispose invece di non credergli. Tuttavia avendomi egli così detto, in sulle prime io mi quietai pensando che avesse delle sue ragioni ; sicché pubblicai Ha mia nota ritenendo che il Vesuvio avesse dato solo trabocco terminale. Ma dopo un certo tempo, ripensando alla narrazione fattami dalla guida, incominciai a domandarmi come mai questa mi avesse parlato con tanta sicurezza del verificarsi d’una spaccatura, indica¬ tami la ubicazione, mostratomi l’allineamento, e per giunta dettomi che alilo alleviarsi del materiale sovraincombente piroclastico avrei potuto constatare quanto asseriva. Mi cominciò a subentrare il dubbio che se la guida avesse visto, qualche cosa di vero ci sarebbe stato nelle sue parole; che egli d’uri fenomeno avrebbe ben dovuto essere stato 10 spettatore. Senza quindi indurla in sospetto, ritornai con detta guida sul- Targomento e rilevai che con la stessa feddltà, come prima, mi narrò 11 fenomeno del quale era stato spettatore. Egli per giunta mi disse che mi avrebbe condotto sul posto, come difatti fece; ed io condussi le osservazioni che sapete (1). (1) Parascandola A., Notizie vesuviane. i,o stato dei Vesuvio il 18 e 25 marzo — 153 — Tuttavia a ripresa di tempo, con garbo, per non far nascere so¬ spetto, io riportavo la guida sullo stesso argomento; egli ripeteva sempre con la stessa precisione; in una di queste volte, e precisamente il 13 dicembre del 1946, io scrissi sotto dettatura nel mio taccuino di campagna ciò che egli aveva visto, e mai vi era contraddizione. Egli ripete tutt’ora ui femori delle tre prime paia di zampe. L’epiginio mostra, anche per trasparenza, il carattere specifico di questo LTropodide e cioè una pelliccia che si modella sull’epiginio e ne riveste il suo lato interno, ove sta attaccata per una ristretta area circolare centrale. La fig. 3 mostra a sinistra lo scudo genitale, visto dal lato interno, ed a destra la pelliccia artificialmente staccata e rh baltata lateralmente. Le funzioni di quest’organo sono finora ignote. Maschio (fig. 4). Dimensioni: g (930x790). Il secondo paio di zampe è armato di sperone lungo, conico, robusto sia sul femore che sulla tibia. Il foro genitale rotondo trovasi all’altezza del 4° paio, in¬ vece che del terzo, come avviene in tutte le specie italiane. Nella specie olandese. T. r achei Oudemans (1) l’apertura genitale è nella (1) A. C. Oudemans. Acarolo gisches aus Màiilwurf mesterà . Archiv. fiir Na- liiFgeschichte, 1914, 9 Heft. 98, 171 — posizione medesima della specie qui descritta, ma per il rimanente le due specie Sono ben distinte luna dall’altra. È stata trovata dal dott. Marcello La Greca cui ben volentieri la dedico. Fig. 2. — T rachyuropoda Lagrecai n. sp., $>’ . Fiig. 3. — T rachyuropoda Lagrecai n. sp. 9 «, scudo genitale; 6, rivestimento interno dello scudo genitale. Parasitidae Epicrius geometricus Koch Grotta degli Sportiglioni (Avella), 13 luglio 1946. È citato dal Trentino; anche qui si hanno dimensioni maggiori degli esemplari trentini : \± (566 x 366). GamaseUus (Di) falciger (G. et R. Can.) Berl. Grotta di S. Michele Arcangelo (Olevano sul Tusciano) 3 marzo 1946. Citato da Bastano. Olierò. Macrochele s penidlliger Berl. Grotta degli Sportiglioni (Avella) 13 luglio 1946. Fu trovato sottoterra nel Fiorentino. Prostigmata Tarsonemoidea Tarsonemidae Diversipes exhanulatus Michael Grotta degli Sportiglioni (Avella), 13 luglio 1946. Dimensioni: (245x215). È citato anche dal Trentino, ma di dimensioni un po’ minori. 173 — Pigine phorus cultratus Berl. Grotta di S. Michele Arcangelo '(Olevano sul T lisciano), 3 marzo 1946, Grotta degli Spor ligi ioni (Avella), 13 luglio 1946. Citato dal Ve¬ neto su Talpa, Grotta di S 1946. Trombidioidea Trombidiidae Microtr ombidium sp. (larva) L Michele Arcangelo (Olevano sul Tusciano), 3 marzo Cheyletidae Cheletoides sp. Grotta di S. Michele Arcangelo (Olevano sul Tusciano), 3 marzo 1946. Un solo esemplare giovane. B ■' ■ ■ j • % ■ •' . * ' •• ’ ' STUDI SPELEOLOGICI E FAUNISTICI SULL’ITALIA MERIDIONALE SUPPLEMENTO AL BOLLETTINO DELLA SOCIETÀ DEI NATURALISTI IN NAPOLI N. 3 Ottobre 1947 MARCELLO LA GRECA Su due specie di Cyrtachantacrinae (Orthoptera) nuòve per 1’ Italia peninsulare, con note ecologiche Nelle mie escursioni entomologiche di questi ultimi anni, ho avu¬ to la fortuna di rinvenire due specie di Ortotteri che non erano mai state trovate nella penisola italiana. Il rinvenimento di queste due spe¬ cie è particolarmente interessante trattandosi di elementi della fauna africana che hanno anche una vasta diffusione in altre località del Ba* cino del Mediterraneo, Sicilia compresa. 1. Tropìdopola cylindrica cylindrica (Marsch.) Sulle sponde occidentali del lago Fusaio (Napoli), il 30 agosto 1946 rinvenivo due individui immaturi di questa specie e nell’anno successivo, in tre esplorazioni compiute nel mese di ottobre nella ste>- sa zona, riuscivo a catturare numerosi èsemplari adulti di entrambi i sessi e a compiere alcune osservazioni sulla loro biologia. Le nostre conoscenze attuali sulla ecologia e biologia delle specie di questo ge¬ nere sono oltremodo scarse e frammentarie e contengono molte la¬ cune: esse sono state raccolte ed esposte da Uvarov (1) nella sua re¬ visione di questo genere. La stazione di Tropìdopola cflindrica cylindrica da me rinvenu¬ ta, è strettamente localizzata in un biotopo ben definito, rappresen¬ tato da una zona acquitrinosa a nord dell’abitato di Torregaveta, com¬ presa fra le dune costiere die corrono lungo il Tirreno e il lago. In questa zona, non molto estesa, sono disseminati una gran quantità di piccoli pantani, che in parte si prosciugano alla fine dell’estate, seni¬ li) Uvarov B. P. — Genus Tropìdopola St. (Acrid.). i Eos, II, 1926). pie però ricoperti da una fitta vegetazione di Scirpus holoschaenus ; fra è attorno ad ogni pantano si sviluppa rigogliosa e intricata una vegetazione i cui costituenti principali sono Inula viscosa e Arando phragmites in cui vivono in gran numero Conocephalus conocepha- lus (L.), Conocephalus ( Xiphidion ) fuscus (F.) e Trigonidium cicin- deloides Rame., forme nettamente legate ai luoghi umidi e agli ac¬ quitrini. La Tropidopola cylindrica si trova generalmente localiz¬ zata soltanto sugli Scirpus e di rado è dato ritrovarla sulle altre piante ove può capitare per caso; ciò non dipende tanto dal fatto che essa ricerchi le parti più umide della zona in cui vive, quanto dal fatto che il suo habitat normale è costituito dalle Ciperacee: infatti essa è tanto frequente nei pantani ancora ricchi di acqua, quanto in quelli completamente prosciugati dove però, nel fango anche quasi secco, vegetino ancora bene gli Scirpus. In ogni acquitrino della superficie di 20-30 mq. si trovano in media una decina di T. c. cylindrica che vivono aggrappate e aderenti agli steli di Scirpus , disposte vertical¬ mente con il capo rivolto in alto. L'animale è così perfettamente adattato a questo genere di vita che credo che ben di rado scenda al suolo: infatti non mi è mai occorso di trovare qualche individuo mi suolo o nell’atto di abbandonare il suo sostegno vegetale. Essi vice¬ versa si spostano in su e in giù abbastanza agilmente lungo lo stelo di Scirpus salendo o rinculando verso il basso, sempre con la testa rivolta in alto, oppure girano attorno allo stelo. Tutti questi movimenti vengono effettuati con le due sole prime paia di zampe, mentre quelle posteriori, ripiegate lungo i fianchi del¬ l’animale, aderenti al corpo e disposte parallelamente all’ asse del corpo stesso non toccano mai il supporto. In tale modo, l’animale, data anche la forma cilindrica allungata del suo corpo e la sua colo¬ razione fondamentalmente bruna, assume un aspetto molto simile alle erbe fra le quali vive: condizione questa (omotipia) che si verifica di frequente fra gli Ortotteri che vivono sulle erbe delle steppe. Di tanto in tanto, specialmente se disturbato, qualche individuo spiccando un salto, prende il volo, per andare a cadere su un altro stelo di Scirpus, al quale si aggrappa disponendosi rapidamente, ver¬ ticalmente con la testa in alto: il volo è silenzioso, breve, basso e molto teso e non si verifica molto di frequente. Dalla forma delle tibie posteriori che sono alquanto depresse, Uvarov (1926) aveva arguito che le Tropidopola fossero specie buone nuotatrici; non ho però mai visto alcun individuo in acqua e quelli che vi ho posto io stesso, per osservarne il comportamento, vi si dispongono leggermente inclinati su un fianco; ciò dipende probabilmente dalla forma concava degli sterniti toracici, per cui una o l’altra delle carene laterali ventrali che limitano la concavità sternale, fungono da chiglia. Ad ogni modo l’animale non reagiva immediatamente, restando in tale posizione immobile nell’acqua più o meno a lungo e quando si decideva a nuo¬ tare, adoperando le zampe posteriori, rimaneva sempre inclinato su un fianco. Questa specie m nutre degli steli di Sci r pus che erode * uperfi- cialmente, non lutto attorno, ina sempre dallo stesso lato. Particolarmente attiva è la Tropidopola cilindrica nei movi¬ menti di pulizia a cui si dedica per lungo tempo: fra di essi i più frequenti sono quelli interessanti le antenne e gli occhi. I primi ven¬ gono effettuati piegando il capo in modo da premere una delle an¬ tenne, presso la sua base, fra lo stelo ed i due pul villi tarsali pros¬ simali del l'° articolo dei tarsi anteriori: poi l’antenna viene sfilata di sotto al tarso sollevando lentamente il capo e l'operazione viene ripetuta varie volte. Sempre con i tarsi delle zampe anteriori ven¬ gono compiuti i movimenti di pulizia degli occhi la cui superfice è accuratamente lisciata dai pul vii li prossimali del 1° articolo tarsale, dall’alto in basso, senza trascurare i margini degli occhi stessi. Un altro movimento di pulizia che ha luogo fra il 1° e 2° paio di tarsi, oppure fra il 2° e 3°, viene effettuato dallanimale premendo con i pul vii li di una zampa sul tarso di quella posteriore dello stesso lato, e viceversa, alternativamente più volte di seguito, facendo scorrere il tarso che sta sotto, fra quello premente superiormente e la superficie d'appoggio. Talvolta l’animale stende una delle zampe posteriori e la dispone in maniera da strofinare il tarso corrispondente mila base delle elitre oppure, ancora, flettendo le zampe anteriori e stendendo quelle del secondo paio, inclina la parte anteriore del corpo verso 10 stelo mentre la posteriore se ne allontana: in tale posizione di¬ stende entrambe le zampe posteriori e con i tarsi di una di esse, liscia la superficie interna e dorsale del femore e della tibia dell’altra. L’aria di distribuzione di Tropidopola cylindrica cylindirica com¬ prende soltanto regioni del Mediterraneo occidentale e precisamente la Tunisia, l’Algeria, la Spagna Meridionale e Orientale, le Baleari, la Sardegna e la Sicilia a cui va aggiunto il lago Fusaio presso Napoli. 2. Eyprepocnemis plorans plorans Charp. (1) Di questa specie ho rinvenuto un unico esemplare, una femmina. 11 10 ottobre 1942, sul promontorio del M.te Argentario (Toscana), (1) Il nome Eyprepocnemis deve essere usato invece di Euprepocnemis i(Uva- rov, Proc. Linn. Soc. London, pag. 29. 1943). — 17? — in un terreno incolto c sabbioso, presso la costa orientale della zona fra Porto Ercole e il Tombolo della Feniglia. Trovandomi allóra colà per servizio militare non ho avuto il tempo di effettuare ricerche più accurate e gli avvenimenti successivi mi hanno purtroppo impedito di tornare sul posto per compiere un’indagine completa e catturare altri esemplari. La femmina da me trovata raggiunge notevoli dimensioni che non trovano alcun riscontro in altri esemplari dì altre località del Ba¬ cino del Mediterraneo, da me osservati: Lunghezza del corpo, mm. 50; lunghezza del pronoto mm. 8.8; lunghezza delle elitre min. 40; lunghezza dei femori posteriori mm. 28. Questa specie, oltre che per l’Africa Settentrionale, Asia Minore e Rodi, è conosciuta per la Spagna, Meridionale, le Baleari, la Coix sica, la Sicilia e l’isola Vulcano (Salfi, Guarino). L’assenza di questa specie nel tratto compreso fra Sicilia e isole viciniori da una parte e il M.te Argentario dall’altra, e cioè nell’Italia Meridionale e Cen¬ trale fino a tutto il Lazio (isole della Campania comprese) potrebbe far supporre l’esistenza di una soluzione di continuità nell’area di diffusione di questa specie; viceversa la stazione del M.te Argentario si collega con quelle della Corsica, Baleari e Spagna orientale, rap¬ presentando l’estremo più orientale oggi ancora esistente, dell’area occupata nel Terziario della Tirrenide, Istituto di Anatomia Comparata delVUniversità di Napoli . STUDI SPELEOLOGICI E FAUNISTICI SULL’ ITALIA MERIDIONALE SUPPLEMENTO AL BOLLETTINO DELLA SOCIETÀ DEI NATURALISTI IN NAPOLI N. 4 Dicembre 1947 SANDRO RUFFO HADZIA MINUTA n. sp. ( Hadziidae ) e SALENTINELLA GRACILL1MA n. gen. n. sp. (Gammaridae) nuovi Antìpodi troglobi dell’ Italia meridionale (1) Lo studio di un centinaio di Antìpodi troglobi della Penisola Sa- Jentina, di cui qui riferisco i risultati di notevole interesse, accresce le scarse conoscenze che si hanno sulla fauna sotterranea di questa regione e pone in primo piano la singolare importanza dello studio zoogeografìco di essa. Il materiale mi venne comunicato dal socio prof. E. Caroli, che qui ringrazio, al quale era stato affidato dal prof. H. STAMMER e dal doti. A. Lazzari che lo raccolsero. Fam. HADZIIDAE Hadzia minuta n. sp. Descrizione. 9 ovigera (nel marsupio tre grosse uova). Lun¬ ghezza 3,5 min. Cieca. Antenne del primo paio assai più lunghe di quelle del secondo paio, superiori alla metà del corpo ma inferiori alla sua lunghezza totale. Primo articolo del peduncolo del primo paio subeguale al secondo, questo circa due volte il terzo, flagello di 20 articoli assai allungati, specialmente nella porzione distale del flagello stesso; flagello accessorio rudimentale, biarticolato, lungo poco più della metà del primo articolo del flagello principale (fig. la, 1); secondo articolo del flagello accessorio assai minuto ed esile, subconico, portante una lunga setola. Quinto articolo del peduncolo (1) Il presente scritto rappresenta il XVI contributo ai miei « Studi sui Cro¬ stacei Antìpodi ». — 174 del secondo paio di antenne lungo circa 3/4 del quarto, flagello di 6 articoli. Pezzi dell’apparato boccale senza particolari caratteristiche e ben corrispondenti alla descrizione fatta da Karaman (1) per le al¬ tre due specie note del genere; palpo mandibolare con terzo articolo assai allungato, secondo articolo sprovvisto di setole. Gnatopodi del primo paio (fig. la, 2) come in Hadzia fragilis Kar. Gnatopodi del se¬ condo paio (fig. la, 3); articolo carpale lungo circa quanto il propode, questo subpiriforme allungato, con orlo palmare indefinito e provvisto di alcune setole e di 3-4 spine tra le quali si adagia il dattilo, mode¬ ratamente robusto, più corto della metà del propode. Pereiopodi del terzo e quarto paio subeguali ,con articolo basale robusto, allargan- tesi gradatamente nella porzione distale, articoli seguenti moderata- mente allungati ed esili, dattilo gracile con unghia minuta, fornito presso rinserzione di questa di una sola corta setolina. Pereiopodi del quinto-settimo paio (fig. la, 4 e 5) con articoli basali piuttosto larghi, orlo posteriore decisamente convesso, fornito di una decina di intaccature evidenti in cui si inseriscono esili setoline. Articolo merale decisamente più corto del propode. Nei pereiopodi del quinto paio (neH’unico esemplare esaminato i pereiopodi del sesto e settimo paio erano spezzati all’articolo merale) l’articolo carpale è più corto dell’articolo merale, il propode lungo circa quanto quest’ultimo, dat¬ tilo esile, allungato, con unghia assai corta, orlo interno munito di una sola esile setolina presso V inserzione delUunghia. Lamelle incu¬ batrici strette ed allungate come nelle altre due specie del genere. Piastre epimerali senza caratteristiche particolari. Uropodi del primo paio con il peduncolo fornito inferiormente di due robuste spine, ramo esterno leggermente più corto dell’interno, ambedue forniti di¬ stalmente di gruppi di spine allungate e robuste. Uropodi del terzo paio (fig. la, 7) allungati, con rami robusti e appiattiti, ramo in¬ terno notevolmente più corto dell’esterno, secondo articolo di que¬ st’ultimo esile ed allungato, lungo molto più di un terzo del primo articolo; orli dei rami forniti di esili spine e di alcune setole pen¬ nate. Telson (fig. la, 6) con lobi completamente divisi e distanziati, subovali, ad apice ampiamente arrotondato, forniti sull’orlo interno distale di 3 esili spine. Osservazioni. Erano note fino ad oggi due sole specie del gen. Hadzia Kar., ambedue proprie della Penisola Balcanica: H. fragilis (1) Karaman S. Beitrag zur Kennmis der Susswasser-Amphipoden. Prirodosl. Razprave, Kn. 1, 1932, pp, 179-232, 25 figg. Karaman S. Die Unterirdischen Amphìpoden Siidserbiens. Srpska Kr. Akad. Kn. CXXXV, 1943, pp. 163-313, 215 fig^ ino — Fig. I. Hodzia minuta n. isp. 9 10 v* — 1 - Terzo articolo del primo paio di an¬ tenne con flagello accessorio. 2 * Gnalopode del primo paio. 3 - Gnatopode del secondo paio. 4 - Pereiopode del quinto paio. 5 ■ Pereiopode del settimo paio. 6 - Telson. 7 - Uropode del terzo paio. — 181 — Kar. (Grotta Vjeterniea-Erzegovina), H. Gjorgjevici Kar. (pozzi e sor¬ genti presso Skoplje-Serbia meridionale). La nuova specie italiana presenta caratteri delì’una e dell’altra. Ad H. fragilis si avvicina per il flagello accessorio del primo paio di antenne biarticolato, per il dattilo dei pereiopodi fornito sull’orlo interno di una sola setola; ad H. Gjorgjevici invece per la forma e la spinulazione del palpo mandibolare, per i pereiopodi più corti, meno slanciati. Da ambedue le specie citate Hadzia minuta inibì si differenzia, però, facilmente per i seguenti caratteri: — ■ ; statura assai minore; — antenne del primo paio più corte del corpo; — pereiopodi più corti, meno esili, con articoli basali più allar¬ gati; — forma e proporzione degli uropodi del terzo paio; — lobi del telson più ovali, con apice arrotondato, non appuntito. Tali differenze risultano chiaramente dalle figure riportate. Materiale esaminato. L’ A b i s s o (ramo secondario) (1), fine settembre 1947. 1 9 ovigera. Lazzari legit. Fam. GAMMARIDAE Salentinella geli, novum Corpo non carenato. Occhi assenti. Antenne cortissime: primo paio con flagello accessorio rudimentale, uniarticolato. Lobi laterali del capo triangolari, arrotondati. Apparato boccale: labbro superiore ad orlo anteriore arrotondato, non inciso (fig. la, 1); labbro inferiore sprovvisto di lobi interni (fig. Ila, 2); mandibola con processo molare ben sviluppato, orlo tranciante munito di 5 denti, « lacinia mobilis » tridentata, palpo allungato, secondo articolo lungo circa tre volte il terzo che è uguale al primo (fig. Ila, 3). Primo paio di mascelle con lobo interno poco sviluppato, subcilindrico, munito di due setole di¬ stali, lobo esterno munito di nove spine robuste, quadridentate; palpo robusto, più lungo dei lobi, fornito distalmente di quattro corte e tozze spine e di una setola (fig. Ila, 4); secondo paio di mascelle con lobo interno più corto e stretto dell’esterno, muniti ambedue di setole di¬ stali (fig. Ila, 5); maxillipedi con palpo gracile e allungato ad arti¬ ci) Vedi nota 1, pag. 9. Fig. IL Salentinella gracillima n. gen. n. sp. — 1 ■ Labbro superiore. <2 - Labbro inferiore. 3 - Matndibola. 4 - Mascella del primo paio. 5 - Maseella del secondo paio. 6 - Maxillipedi. 7 - Piastre epimerali. 8 - Telson. eoli subeguali, lobo esterno moderatamente espanso, raggiungente in lunghezza la metà del secondo articolo del palpo (fig. Ila, 6). Gna¬ topodi non subclieliformi, il secondo paio più gracile ed allungato del primo. Lobi branchiali assai piccoli; branchie sternali assenti. Uro* podi del terzo paio non allungati, con rami sviluppati. Telson pro¬ fondamente diviso, a lobi non divaricati. Segmenti dell’urosoma non coalescenti. Saleri tiri ella gracili ima n. sp. Descrizione. Lunghezza 1,6 min (1). Corpo non carenato, mode¬ ratamente compresso. Capo più corto del 1° segmento del mesosoma. Primo e secondo paio di antenne molto corti (fig. Illa, 2 e 3) sub¬ eguali, non più lunghi del capo più il primo e secondo segmento del mesosoma; secondo articolo del peduncolo del primo paio lungo circa 2/3 del primo, terzo un po’ maggiore della metà del secondo, fla¬ gello di quattro articoli, più corto del peduncolo, flagello accessorio rudimentale, uniarticolato, più corto del primo articolo del flagello principale. Secondo paio di antenne: quarto articolo del peduncolo un po’ più lungo del quinto, flagello di quattro articoli, più corto del peduncolo, primo articolo del flagello lungo quanto i due seguenti; spinulazione delle antenne scarsa, come in figura. Occhi non visibili. Rostro cefalico indistinto; lobi laterali del capo subtriangolari, arro¬ tondati, salienti (fig.. Illa, 1). Apparato boccale con le caratteristiche del genere. Primo paio di gnatopodi (fig. IV, 1): piastra eoxale pic¬ cola, come le due seguenti, subrettangolare, più alta che larga, a lati arrotondati, con una minuta setola sull’angolo infero-posteriore pian¬ tata in una piccola intaccatura; articolo basale assai robusto, rigonfio, assottigliantesi basalmente, articolo carpale robusto, lungo quanto il propode subpiriforme, il quale presenta l’orlo palmare notevolmente inclinato e definito da un gruppo di gracili spine; dattilo piuttosto esile, munito di una spinula sull’orlo esterno e di finissime setole su quello interno. Gnatopodi del secondo paio (fig. IVa, 2) notevolmente più allungati e gracili di quelli del primo paio: articolo basale al¬ lungato, non rigonfio, articolo carpale più lungo del propode che è simile a quello del primo paio: spinulazione dei gnatopodi scarsa con la disposizione risultante dalle figure. Pereiopodi del terzo e quarto paio subeguali (fig. Illa, 4 e 5), molto esili ed allungati: pro¬ porzioni e spinulazione (scarsissima) degli articoli come in figura; (1) Salentinella graciltima assieme a Ingolfiella acherontis e alle Bogidiella, rappresenta nno dei più piccoli Antìpodi conosciuti per le acque sotterranee. ! — 184 — - I Fig. HI. Salentinella gracillima n. gen. n. sp. — 1 • Profilo del capo. 2, 3 - An¬ tenne del primo e secondo paio. 4, 5, 6, 7, 8 - Pereiopodi del secondo-settimo paio. 9, 10, 11 - Uropodi del primoHerzo paio. 185 — dattilo assai esile ed allungato, con unghia lunga circa quanto la parte prossimale; la quarta piastra coxale è assai più ampia della terza, subtrapezoidale, con l’orlo inferiore fornito di due setoline. Pereio¬ podi del quinto paio (fig. Illa, 6): piastra coxale ampia subrettan¬ golare, ad angoli arrotondati; articolo basale ampio, con orli laterali convessi, forniti di minute spinule piantate in intaccature, articoli Fig. IV. Salentinella gracillima n. gen. m. sp. — 1 - Gnatopode del primo paio. 2 - Gnatopode del secondo paio. seguenti gracili e poco spinosi; il propode è terminalo da due setole pennate più lunghe dell’articolo stesso, dattilo esile senza spina un¬ gueale. Pereiopodi del sesto paio simili a quelli del quinto (fig. Ma 7): articolo basale più ampio, con angolo posteriore lobato, propode non terminato da setole pennate. Pereiopodi del settimo paio (fig. Illa, 8): articolo basale assai ampio e lungo quasi quanto gli altri articoli presi insieme; angolo postero-inferiore vistosamente lobato, articolo mera le piuttosto allargato. Le scarse spine dei pereiopodi sono disposte come risulta dalle figure. Piastre epimerali del primo¬ terzo paio con angolo infero-posteriore acuto molto poco pronuncia¬ to, orlo inferiore sprovvisto di setole e spine (fig. Ila, 7). Pleopodi gracili, corti, con rami subeguali di pochi articoli. Articoli dell'uro' soma non rigonfi, portanti dorsalmente, il primo e il secondo, due minute setoline, il terzo due piccole spine. Uropodi del primo e se¬ condo paio (fig. Illa, 9 e 10) con il ramo interno lungo circa quanto il peduncolo, ramo esterno circa 2/3 dell’interno; spinulazione ri¬ sultante dalle figure. Uropodi del terzo paio molto corti (fig. Illa, 11); peduncolo cortissimo e tozzo, non più lungo di un terzo del ramo in¬ terno, più robusto e tozzo, biarticolato, con il secondo articolo sub¬ conico e del tutto rudimentale; ramo esterno lungo circa 3/4 dell’in- terno, laminare; spinulazione scarsa risultante dalla figura. Telson (fig. Ila, 8) subovale, diviso per i 3/4 della sua lunghezza, lobi non divaricati, con una profonda intaccatura distale da cui si eleva una breve e gracile setola; orli laterali forniti di una setolina subdistale. Non ho notato negli esemplari esaminati differenze sessuali se¬ condarie, come non ho osservato individui sicuramente maturi sessual¬ mente. Materiale esaminato. 1) B u c o dei Diavoli, in una grande pozza, nella parte terminale 25 IX 1937. 1 esemplare. H. J. Stammer legit. 2) L’Abisso (1) (lu Bbissu nel dialetto locale). 24-IX-1937. Sugli orli di una pozza e in una grande pozza in un imbuto fra¬ noso, 105 esemplari. H. J. Stammer legit. Osservazioni. Secondo quanto mi consta i generi di Antìpodi co¬ nosciuti fino ad ora per la fauna ipogea europea sono i seguenti: Subordo Ingolfiellidea Fam. In golfi elli da e Gen. Ingolfiella Hansen Subordo Gamma ri dea Fani. BogidieUidae Gen. Bogidiclla Hertzog F am . Hadzii due Geli. H ad zi a Karaman Fam. Gammaridae Gen. Gammarus F. Gen. Typhlo gammarus Schàf. » Eriopisa iStebb. (2) » Niphargus Sehiodte » Niphargopds Cbevreux » Ni phar gelili s Schei 1. » Pseudoni phar gas Clievr. » Crangonyx Bate » M e tacrangonyx Cbevreux » Micr oni phar gu s Sehell. » Syrmrella Wrzesn. (1) Le due cavità si aprono presso Castromarina e sono poste lungo il tratto di costa della penisola Salentina tra H Capo d'Otranto e il Capo di Leuca. (!2i) Il gen. Eriopìsa non è noto ancora delle acque sotterranee europee, ma è però rappresentato in quelle nordafricane. Allo stato attuale degli studi, assai dubbi sono i rapporti filogene¬ tici fra questi generi e le loro affinità con le forme epigee d’acqua dolce o marine, per cui non appare opportuno azzardare delle ipotesi, seni- pre incerte finché non siano basate su una massa maggiore di dati. Sembra comunque sicuro die alcuni dei generi menzionati siano da considerare più antichi colonizzatori delle acque sotterranee europee (come lo dimostra la loro discontinua e spesso vasta area di distribu¬ zione attuale), altri, invece, più recenti. Fra i primi si possono anno¬ verare, ad esempio, i generi Ingoi fiella , Hcidzia , Bogidiella che rap¬ presentano, indubbiamente, secondo l’espressione di Jeannel (1) dei veri ce fossili viventi ». Il genere SalentineUa , che va probabilmente posto tra essi, si presenta singolarmente isolato tra tutti quelli già noti e sopra men¬ zionati per cui è problematico stabilirne le affinità. Sembra fuori dubbio la sua appartenenza alla famiglia Gammaridae. per le carat¬ teristiche, facilmente rilevabili dalle figure riportate, dei pezzi del¬ l’apparato boccale, dei gnatopodi, degli uropodi e del telson. Esso si allontana notevolmente, però, dai generi del gruppo Crangonyx: Crangonyx , Metacrangonyx, Microniphargus , Synurella , soprattutto per la forma del telson, profondamente diviso in SalentineUa , e per gli uropodi del terzo paio che, nei generi sopra ricordati, presentano il ramo interno rudimentale o del tutto assente. Scarse sono pure le affinità con i generi del gruppo Niphargus : Niphargus , Niphargopsis , Niphargellus , in cui i gnatopodi del primo e secondo paio possiedono il propode notevolmente allargato, subquadrato; altre differenze no¬ tevoli risiedono nell’apparato boccale (labbro inferiore senza lobi in¬ terni), negli uropodi del terzo paio (ramo interno notevolmente svi¬ luppato), nella lunghezza delle antenne. Trovo invece che il genere SalentineUa presenta qualche punto di contatto con il genere Gara- marus che, ampiamente distribuito nelle acque superficiali, sia dolci che salate, della regione olartica, possiede scarsi rappresentanti (tutti troglosseni o troglofili e nessun troglobio) nelLe acque sotterranee. Le affinità risiedono principalmente nei pezzi dell’apparato boccale, nella forma dei gnatopodi, degli uropodi e del telson. Non è comunque possibile azzardarsi maggiormente nel giudizio sulle affinità del nuovo genere che va pertanto considerato notevolmente isolato tra gli Antì¬ podi cavernicoli fino ad oggi conosciuti e che rappresenta probabil¬ mente un antico colonizzatore delle acque sotterranee della nostra pe¬ ti) Cfr. Jeannel R. Les fossiles vivams des cavernes , Gallimard ed.. 1943, 321 pp., 120 figg. — 188 nisola, anche se il suo adattamento alla vita oscuricòla non è molto pronunciato. Cade qui opportuna la considerazione che la penisola Salentina rappresenta nella fauna cavernicola italiana una provincia zoogeogra¬ fica di estremo interesse, caratterizzata da endemismi singolarissimi quali i generi Italodytes , Spelaeomysis, Stygiomysis e la specie Ty- phlocharis salentina Car. Jeannel, nell’opera citata, interpreta il fatto con la considerazione che durante tutte le trasgressioni marine del Terziario è persistita un’isola in corrispondenza alla Lucania e alla Calabria, per cui sarebbe stata possibile da una parte un’antica colonizzazione di queste terre per opera di forme marine e dall’al¬ tra la conservazione delle stesse fino ai nostri giorni nelle acque sot¬ terranee. L’ipotesi, che si deve riconoscere per lo meno seducente, può essere ancora convalidata dalla scoperta di Salentinella . Un al¬ tro elemento di evidente notevole interesse è il gen. Hadzia i cui unici rappresentanti noti fino ad ora erano conosciuti delle acque sotterra¬ nee balcaniche. Esso avvalora l ipotesi di antichi scambi faunistici av¬ venuti tra le opposte sponde adriatiche o, quanto meno, di una con¬ temporaneità di emersione delle due regioni che permise da una parte e dall’altra l’insediarsi nelle acque dolci delle stesse forme d’o- ligine marina (1). È sperabile ora che una più intensa e più minuta esplorazione di quelle regioni porti a nuovi ritrovamenti atti a meglio chiarire questo attraentissimo problema della zoogeografìa italiana. Museo Civico di Storia Naturale di Verona. (1) Queste considerazioni, qui appena accennate, saranno svolte, assieme ad altre, più ampiamente e con più vasta messe di dati in un mio prossimo lavoro. STUDI SPELEOLOGICI E FAUNISTICI SULL’ITALIA MERIDIONALE SUPPLEMENTO AL BOLLETTINO DELLA SOCIETÀ DEI NATURALISTI IN NAPOLI N. 5 Dicembre 1947 SANDRO RUFFO Una nuova specie cavernicola di BÀTHYSCIOLA Jeann. (s. str.) (Col. Catopidae ) dell’ Italia meridionale Durante le recenti ricerche sulla fauna cavernicola dell’ Italia meridionale effettuate dal Centro Speleologico della Società dei Natu¬ ralisti di Napoli, furono raccolti anche alcuni esemplari di una Bathysciolu , inviatimi in studio dall’amico dott. Marcello La Greca dell’Istituto di Anatomia comparata dell’Università di Napoli e ap¬ partenenti ad una entità nuova per la scienza. Bathysciola (s. str.) partenii n. sp. Descrizione, cf Lunghezza 1,5 min. Cieca. Forma generale del corpo depressa, elitre alla base larghe quanto il pronoto, gradata- mente rastremantesi poi verso l’apice (fìg. 1). Colore bruno rossastro brillante. Antenne più corte del pronoto, ad articoli moderatamente allungati, terzo articolo non più lungo di due volte la sua massima larghezza, quarto, quinto, sesto subeguali al terzo, ma di esso legger¬ mente più larghi, settimo più robusto e largo, ottavo minuto, più largo che lungo, nono e decimo circa tanto larghi quanto lunghi, undicesimo subpiriforme, lungo circa una volta e mezza la sua mas¬ sima larghezza (fìg. 2). Pronoto a punteggiatura piuttosto densa ma superficiale, per cui esso risulta più brillante delle elitre la cui pun¬ teggiatura è più densa e profonda. Stria suturale delle elitre diver¬ gente nel terzo apicale, poi bruscamente avvicinatesi alla sutura verso l’apice. Tarsi anteriori allargati, primo articolo distintamente più largo dell’apice della tibia (fig. 3). Carena mesosternale note¬ volmente elevata, formante anteriormente un angolo retto, inferior¬ mente distintamente denticolata (fig. 4). Organo copulatole (fig. 5) molto lungo (mm. 0,8), stili allargati all’estremità, formanti una — 190 — specie di paletta, distalmente tronca, non acuminato-arrotondata e portante, sulla faccia interna, tre lunghe setole (fig. 6). Apice del- l’edeago lungo, acuminato, molto incurvato. 9 Caratteri del maschio, ma tarsi anteriori non allargati. Bathysciola (s. str.) partenti n. sp. - 1. Profilo del maschio. - 2. Antenna. ■ 3. Tibia e tarso della zampa anteriore del maschio. • 4. Profilo della carena me- costernale. - 5. Organo copulatole maschile. • 6, Paletta terminale di uno stilo dello stesso. La presente specie è stata raccolta in 10 esemplari dal clott. Mar- celloJLa Greca, nella Grotta Sportigliene di Avella (Cam¬ pania) il 13-VH-1946, su ammassi di guano, in zona perfettamente oscura. Olotipo, allotipo e cotipi nella mia collezione. Osservazioni. La nuova specie, per le sue caratteristiche facil¬ mente rilevabili dalla descrizione datane e dalle illustrazioni ripor¬ tate, va posta nella sezione IV del gen. Bathysciola (1) e precisamente accanto a un gruppo di specie la cui distribuzione si estende nella Italia meridionale, in Sicilia e in Sardegna ( fortesculpta Jeann., Raveli Dod., Deste fami Rag.). Da B. fortesculpta (Sardegna, inuscicola) è facilmente distingui¬ bile per il terzo articolo delle antenne più corto, per i tai"si anteriori del maschio più dilatati e per la punteggiatura delle elitre più super¬ ficiale e regolare. Da B. Destefanii (Sicilia, muscicola) si differenzia per la carena mesosternale più elevata e per la diversa punteggiatura del pronoto. Molto affine invece è la mia nuova specie a B. Raveli conosciuta solamente della Grotta di S. Michele nell’Isola di Capri e di cui potei esaminare i tipi conservati nella collezione Dodero. Ad essa si avvicina per la forma delle antenne e per le proporzioni dei singoli articoli, per il profilo della carena mesosternale e per la forma del- l’edeago, ma se ne differenzia agevolmente per i seguenti caratteri: — profilo delle elitre in addietro più attenuate; — - punteggiatura del pronoto e delle elitre più densa; — - apice dell’edeago meno assottigliato ed acuto, non incurvato ad uncino; — • stili con paletta terminale assai meno espansa e distalmente tronca, non sorpassanti l’apice delLedeago. Museo Civico di Storia Naturale di Verona. (1) Cfr. Jeannel R. Monographie des Bathyscìinae. Arch. Zool. Exp. et Gén. T. 63, 1924, 436 pp.", 498 figg. STUDI SPELEOLOGICI E FAUNISTICI SULL'ITALIA MERIDIONALE SUPPLEMENTO AL BOLLETTINO DELLA SOCIETÀ DEI NATURALISTI IN NAPOLI N. 6 Dicembre 1947 ANTONIO LAZZARI Sopra un fenomeno di idrografia sotteranea osservabile nella grotta Zinzulusa presso Castro (Lecce) L’ossatura della Penisola iSalentìna, prevalentemente costituita da calcari del Cretacico superiore, è rappresentata da tre serie oro¬ grafiche, che convergono verso il Capo di Leuca, frammezzo alle quali le- sinclinali, poco profonde, appaiono quasi dappertutto col¬ mate da sedimenti neogenici, generalmente nella facies organogena dei tufi calcarei e dei c a r p a r i del Pliocene e, in via del tutto su¬ bordinata, da lembi di pietra leccese che le ricerche geo¬ logiche e paleontologiche hanno ascritto al piano Langhiano del Mio¬ cene inferiore. Là dove sono presenti questi sedimenti di riempimento, il pae¬ saggio è pianeggiante ed abbastanza ricco di terreno vegetale; mentre, in corrispondenza delle dorsali mesozoiche si osserva, nei suoi vari aspetti — in realtà non troppo appariscenti — quell’insieme di feno¬ meni morfologici che stanno a dimostrare il carsismo della zona. Le numerose vore (inghiottitoi che si aprono in molte località della zona); la falda acquifera sotterranea, a livello di poco supe¬ riore a quello del mare, riscontrata ovunque siano stati perforati pozzi di adeguata profondità; il gran numero di sorgenti sottomarine lungo buona parte della costa, attraverso le quali le acque sotterranee fi scaricano al mare; l’esistenza di alcuni bene individuabili bacini ehi ufi; la mancanza di una idrografia superficiale, sia pure di pic¬ cola entità, ecc., sono tutte prove evidenti che le piogge che cadono sulla Penisola Salentina, solo in piccola parte scorrono in superficie verso il mare, mentre in ben maggior misura vengono assorbite dal molo, data la sua notevolissima permeabilità in grande. Tali acque, con il loro incessante lavorìo, modificano le condizioni del sottosuolo, soprattutto ampliando quel sistema di cavità sotterranee delle quali — Ì93 — noi conosciamo solo quanto compete ad alcune grotte litoranee, ma di cui possiamo intuire lo sviluppo tenendo presente il numero e la distribuzione delle v ore (1), e quant’altro ci fornisce sicuri in¬ dizi del movimento delle acque sotterranee, e quindi della intensa attività erosiva e corrosiva die vi hanno dovuto estrinsecare nel corso dei lunghi periodi di continentalità attraversati da quella zona. Va difatti ricordato che, secondo i risultati dell’indagine geo¬ logica e paleontologica, in questo estremo lembo orientale della pe¬ nisola italiana, si osservano cospicue lacune stratigrafiche che, salvo quanto si osserva in una fascia costiera orientale ove è presente l’Eo¬ cene superiore ed un lembo di Oligocene, si estendono fra il Cre¬ tacico superiore ed il Langhiano, e talvolta addirittura fino al Plio¬ cene. È quindi logico supporre che, abbozzatesi dopo il Cretacico le prime linee delia struttura della Penisola Salentina, dai mari poste¬ riori a tale periodo dovettero sempre emergere delle allungate isole di calcari compatti (2); nei quali, sin da quel tempo, cominciò a manifestarsi il lavorìo sotterraneo delle acque percolanti dalla super¬ ficie, fino ad andare a costituire un enorme complesso di cavità che, per il ritrovamento delle stesse specie cavernicole in vari bacini sotterranei, da Castro a Bari, possiamo senz’altro ritenere fra di loro intercomunicanti. È però da rilevare che, in genere, le manifestazioni superficiali del fenomeno carsico sono poco appariscenti; e le stesse v o r e. pur così numerose, sono quasi sempre nascoste dalla vegetazione o dalle caotiche rocce superficiali, e della loro esistenza ci si rende generalmente conto solo per la scomparsa delie acque durante le piogge, salvo il caso in cui quegli inghiottitoi si sono praticati nei tufi calcarei, i quali, essendo più facile preda dell’azione erosiva delle acque, sono stati più vastamente demoliti dando luogo ad ampie cavità verticali (3) (1) Non è stato ancora provveduto alla redazione di un catasto delle vore sparse un pò dappertutto nella Penisola Salentina. di alcune delle quali ho da tempo iniziato lo studio sistematico. Mi basta per il momento, segnalare, fra le tante, quelle di Andrano, VitiglianO', Castro, Ugento, Taurisano, Acquarica del Capo, Presicce, Tuturano, Arigliano, Supersano, Calatone, Galatina, Martano, Muro, Veglie, Cellino, S. Donaci, Barbarano. Quelle dell’ultima località citata, che sono le più famose fra tutte, sono state parzialmente illustrate da Dainelli. (2) A tale proposito, ed in genere per la palegeografia della Puglia, vedasi: D’Erasmo G., Il mare pliocenico nella Puglia. Meni. geol. e geogr. di Giotto Dai* nelli, , voi . IV; Firenze, 1934. (3) Tale è il caso, ad es., delle vore di Barbarano. 194 — Più chiari segni del carsismo si possono invece osservare visi- landò quel tratto di costa che va da Otranto a Leuca, costituito da calcari compatti (cretacici ed eocenici) che precipitano al mare con imponenti falesie alte anche parecchie decine di metri, o vi scendono abbastanza gradatamente mostrando i chiari segni di due distinti livelli di terrazze, poste rispettivamente a m. 35 ed a m. 75 sul livello del mare. Lungo quel litorale innumerevoli sono le sorgenti sottoma¬ rine (I), di cui talune assai copiose, mentre abbastanza frequenti sono le grotte, fra le quali alcune dovute all’azione demolitrice delle onde, mentre altre, che più si spingono all’interno, mostrano chia¬ ramente che ben diversa fu la loro origine. Particolarmente ricco di cavità naturali è il tratto compreso fra la Marina di Castro e quella di S. Cesaria; ivi le grotte di origine marina (la Chiavica, la Palummara, la Ritunna, ecc.) si alternano alle altre, fra le quali più note la Zinzulusa e Grotta Romanelli, per il loro interesse scientifico, e le grotte di S. Cesaria (la Fetida, la Gattulla, ecc.) per le sorgenti termominerali, senza contare il gruppo delle Striare, alle quali ritengo sia da attribuire un inte¬ resse speleologico ben maggiore di quanto possa apparire a prima vista, essendo — * a mio parere — i loro angusti ingressi quasi del tutto ostruiti da una breccia ossifera (del tipo di quella ben nota di Grotta Romanelli), nella quale P. E. STASI, benemerito della spe¬ leologia e paletnologia salentina, rinvenne resti di grossi mammiferi, parzialmente combusti. Tralasciando quest’ultimo gruppo, di cui ancora nulla si co¬ nosce. ricorderò che le altre sono già note nella letteratura scienti¬ fica; e se quelle di S. Cesaria sono state oggetto di studi vari solo in relazione alle loro acque sulfuree o ferruginose, Grotta Roma¬ nelli e la Zinzulusa vantano un copioso materiale illustrativo, del suo famoso deposito paleolitico la prima, e specialmente della sua fauna carvernicola acquatica^ la seconda. Di questa grotta appunto voglio rendere noto un interessante fenomeno di idrografìa sotterranea da me osservato nella sua completezza in una delle numerosissime visite effettuatevi, permanendovi talvolta per dei periodi di 24 ore ininterrotte, e parzialmente in parecchie altre di tali visite. Tre sono i bacini idrici che si presentano nella ZinzUlUsa : la Conca, il Trabocchetto ed il C o cì t o, secondo i nomi (1) Delle quali sulla Carta Geologica d’Italia in scala 1:100.000 (fogli 215, Otranto, 214, Gallipoli e 223, Tricase) ne è indicata soltanto luna, ohe non è certo la più copiosa. ■/ attribuiti sin dalla prima visita effettuata nel 1922 con intendimenti scientifici. I primi due si trovano nella porzione più anteriore della grotta, e sono assai vicini fra di loro, sì che è stato possibile accertare che risultano separati da una cortina calcarea che scende a qualche metro sotto il pelo liquido; il Cocito rappresenta invece il termine ultimo della cavità, a circa 100 m. dall’ingresso, di fronte al quale è risul¬ tato vano ogni tentativo di superarne l’apparente confine. Anche qui è una cortina calcarea che, scendendo al di sotto del pelo dell’acqua, segna la fine della grotta; ma in un tentativo da me effettuato a nuoto alcuni anni addietro, mi è sembrato di po¬ terne dedurre che al di là del termine apparente, altre cavità si aprono, e presumibilmente molto vicino, di imprevedibile ampiezza ed importanza. A convalidare una tale supposizione, contribuiscono i fenomeni che ho potuto osservare in varie occasioni e di cui fornisco qui qualche notizia. Anzitutto è da tener .presente che il pelo liquido dei tre bacini suddetti è al livello del mare, o appena appena superiore, ed in di¬ retta, per quanto angusta, comunicazione con quello; sì da seguirne i movimenti di marea, e da risentirne, molto attenuatamele, il moto ondoso. Misurazioni accurate, eseguite a più riprese, tanto sul. mare, presso l’ingresso della grotta, quanto nei vari bacini interni, mi hanno dimostrato appunto questa diretta comunicazione, della quale, del resto, si poteva già intuire la esistenza in considerazione della ricca Sorgente sottomarina che fuoriesce pochi metri discosto dalla verti¬ cale dell’ingresso alla grotta, che si apre a circa 12 m. sul livello marino (1). Ma questo non è il solo movimento che è dato osservare in quelle acque sotterranee. È noto che spesso, i bacini idrici di tipo carsico risultano gover¬ nati da un sistema di sifoni, e quindi si caricano e si svuotano pe¬ riodicamente secondo leggi non bene determinabili, essendo assai arduo conoscere i fattori che ne regolano il regime (quantità delle acque, volume dei bacini, dimensioni dei canali di afflusso e di de¬ flusso, ecc.). Un regime, verosimilmente in dipendenza da un sistema di sifoni, si manifesta appunto nel piccolo laghetto terminale della ZiNzulusa (Cocito), come ebbi appunto occasione di osservare per la prima (1) Una riprova di tale comuni razione mi pare sia data dalla diversa salinità riscontrata per l’acqua dei tre bacini. Volta nella notte fra il 25 ed il 26 agosto 1926, fra le ore 2,53 e le 3,15. In tale periodo di tempo, pareva che dell’acqua, dal termine ultimo del Cocìto. facendo ingorgo attraverso un angusto passaggio dal quale sembrava ne venisse scacciata l’aria, si riversasse nel la¬ ghetto il cui livello aumentava di circa 20 cm., in un tempo varia¬ bile fra 12 e 20 secondi, per poi ritornare al livello primitivo in un tempo approssimativamente uguale. Nella prima fase, di immissione, il fenomeno cominciava lieve e gradatamente si rafforzava, e ad uno scorrere uguale succedevano dei fiotti di chiusura come per ingorgo di aria. Pareva al suono che il fenomeno cominciasse lontano e man mano si andasse avvicinando. In alcune vicende era più spento, in altre più vivo; in qualcuna i fiotti si udivano prossimi all’ultima parte visibile del Cocìto. Nella fase successiva, di scarico, la diminuzione di livello avve¬ niva con uno scorrere regolare dell’acqua, della quale si udiva come un lieve fruscio. Fra le ore 14,48 e 15,21 del 26 agosto, il fenomeno ebbe a ripe¬ tersi con le stesse modalità, ma con più brevi periodi di carico del laghetto e più lunghi intervalli di scarico; inoltre il flusso sembrava molto attenuato. È interessante notare come l’intervallo di tempo compreso fra le due manifestazioni dello stesso fenomeno è di 12 ore circa (ore 2.53-14,48, per l’inizio; ore 3,15-15,21 per la fine); e quindi ver¬ rebbe fatto di supporre che il suo verificarsi sia da mettere in rela¬ zione — - sia pure indirettamente — con il regime della marea, nel senso che il fenomeno di ripetuto sifonamento si determina solo al¬ lorquando il livello di qualche bacino interno, a noi ancora scono¬ sciuto, si trova in determinati rapporti con il livello del mare. Fenomeni analoghi, ma meno regolari e durevoli di quello de¬ scritto, ho potuto osservare in altre occasioni, durante brevi visite alla grotta; nè in tali casi ho potuto constatare il ripetersi a distanza di 12 ore. Comunque, certo è che al di là del Cocìto altre cavità debbono esistere, ed anche molto estese, non solo nel senso orizzon¬ tale (come sembra dimostrarlo il ritrovamento delle stesse specie cavernicole acquatiche in diverse grotte di questo litorale (ABISSU, ad 1 Km. ad occidente di Castro, la Zinzulusa, Grotta dei Diavoli presso Badisco a pochi Km. da Otranto) ed in pozzi presso Bari, ma anche nel senso verticale, sì da raggiungere, o quasi la superficie del suolo. In tal senso parlerebbe difatti la perfetta trasmissione, da me osservata, dei rumori prodotti dal violento battere di attrezzi agri- — 197 — coli sulle roccie della superficie esterna. Tali rumori pervengono difatti al Cocìto in forma sonora, e vengono percepiti come prove¬ nienti dall’est remo limite del laghetto. Ciò non sarebbe possibile, a mio avviso, se i suoni non si potessero trasmettere attraverso un sistema di cavità che si spingono molto in allo, per una quarantina di metri almeno, tale essendo all’incirca l’altezza del suolo esterno rispetto al Cocìto. E che cavità del genere possano effettivamente esistere nel sottosuolo della zona, è dimostrato dall’ampio vano della Zinzulusa denominato Duomo, la cui alta volta si spinge a circa 35 m. dal pavimento. Ivi le acque, che un tempo passavano per l’attuale grotta a noi nota (portatesi poi più in basso per il sol- levamento della costa), dovettero trovare un complesso di roccia di assai minore resistenza che altrove, sì da determinare la formazione di quell’ampia cavità; il che è lecito supporre possa essersi verificale anche in qualche altro punto. Napoli, Istillilo di Geologia, Geografia Fisica e Paleontologia dell’ Università. f Bollettino della Società dei Naturalisti in Napoli PROCESSI VERBALI DELLE ADUNANZE PROCESSI VERBALI DELLE TORNATE ORDINARIE ED ASSEMBLEE GENERALI Tornata ordinaria del 29 Gennaio 1947 Presidente : G. D’Erasmo Segretario : M. Salfi Sono presenti i' soci: Platania, Ruggiero, Zei, Orrù, Lazzari, Scherillo, La Greca, Montalenti, Ippolito, Parisi, De Rosa, Parascandola, Monchannont, Co- vello, Napoletano, Della Ragione, Palombi. La seduta è aperta alle ore 17. Il Presidente dà la parola al socio Platania per la lettura della Commemora¬ zione della socia Lelia Ruggiero. M socio Platania, data l’età avanzata, chiede che la lettura sia fatta da suo figlio. Il Presidente ringrazia il socio Platania, che annuncia poi di aver scoperto nell’isola d’Iscihia una Sorgente, alla quale dà il nome di Sorgente Lelia in omaggio alla memoria dell’estinta. Il socio Ruggiero ringrazia la Presidenza e i soci tutti, e specialmente il socio Platania, e svolge una comunicazione dal titolo: Considerazioni sulla opportunità di ricerche sistematiche su l’istinto terapeutico nell’ uomo e negli animali, che il¬ lustra le ragioni che lo hanno spinto a mettere a disposizione della Società la somma di lire 10000. — per premiare il miglior lavoro sull’argomento predetto a sèguito dì concorso che potrà essere bandito dalla Società. Il socio Lazzari svolge una comunicazione Sulle ceneri del Vesuvio cadute in Albania in occasione dell’eruzione del Marzo 1944 e dà notizie sulla grotta di Mastantuono in tenimento di Olevano sul Tusciano. Il socio De Rosa comunica alcune sue ricerche sulla Forma della testa del neonato. Il socio Della Ragione, revisore dei conti, legge la relazione sul Bilancio con¬ suntivo 1946, che è approvato alla unanimità. Il Presidente illustra il Bilancio pre¬ sentivo 1947, che è anche approvato all’unanimità. La seduta è tolta alle ore 18,30. Tornata ordinaria del 26 Febbraio 1947 Presidente : U. Pierantoni Segretario : M. Salfi Sono presenti i soci: Palombi, De Lerrna, La Greca, Majo Ida, . Ippolito. Lazzari, Moncharmont, Zei, Antonucci, D’Erasmo, Scherillo, Parascandola, Bacci, De Rosa, Ruggiero, Orrù, Parisi, — 202 — La seduta è aperta alle ore 17. Il socio Ippolito legge una nota dal titolo : A proposito della nomenclatura vulcanologica , alla quale segue una breve ed animata discussione. Il socio Lazzari svolge una comunicazione Sopra un singolare tipo di Mar¬ mitta costiera in provincia di Lecce. Il socio De Rosa svolge una relazione sulla stampa scientifica, occupandosi del fattore Ph nel sangue delFuomo. La seduta è tolta alle ore 18.30. Tornata ordinaria del 26 Marzo 1947 Presidente : U. Pjerajntoni Segretario : M. Salpi Sono’ presenti i soci: Palombi, Napoletano, Parascandola, Antonucci, La Greca, Pannain, D’Erasmo. Covello, Ippolito. Zei, Monchaonont, Parisi, Lucchese, Sche¬ rillo, De Rosa. La seduta è aperta alle ore 17.30. Il socio Parascandola svolge una comunicazione Notizie vesuviane. Lo stato del Vesuvio nel 18-25 Marzo 1947. Il socio Ippolito legge una nota Sulla geotecnica. La seduta è tolta alle ore 18.20. Tornata ordinaria del 30 Aprile 1947 Presidente : U. Pierà* toni . Segretario : M. Salfi Sono presenti i soci: Napoletano, Ruggiero, La Greca, Goggio, De L ernia, Pannain, Palombi, D’Erasmo, Lazzari, Zei, Parisi, Ippolito, De Rosa, Scherillo, Covello, Orrù. La seduta è aperta alle ore 17.30. Il socio La Greca svolge una comunicazione sopra La forma del pronoto degli ortotteri saltatori e la sua funzione nei movimenti di apertura e chiusura del tegmine: II socio De Lernia legge due comunicazioni: la prima Sul pigmento delle farfalle della famiglia delle Pieridi; la seconda dal titolo: Immagini di secrezione nell’ òrgano frontale mediale di Ctenolepìsma Targionii (Grassi et Rov.). Il socio De Rosa dà informazioni circa le tombe recentemente scoperte nella zona di Paestum. La seduta è tolta alle ore 18,15. Tornata ordinaria del 28 Maggio 1947 Presidente: G. D’Érasmo Segretario: M. Salfi Sono presenti i soci: La Greca, De Rosa, Parisi, Scherillo, Parascandola, Laz¬ zari, Zei? Napolitano. Mancharmont, Della Ragione. — 203 — La seduta è aperta alle ore 18, II socio' Parascandola legge una comunicazione dal titolo: Contributo alla geologia del Somma. Segnalazioni di antiche lave. Il socio De Rosa comunica i risultati di suoi studi sugli avanzi umani della necropoli di Pesto. Il socio Lazzari svolge due comunicazioni: la prima sopra I foraminiferi delle argille azzurre di Lucerà (Foggia); la seconda su I foraminiferi delle argille gioì. laWre di Lucugnano (Lecce). La seduta è tolta alle ore 19, Tornata ordinaria del 25 Giugno 1947 Presidente : U. Pierantoni Segretario : M. Salpi Sono presenti i soci: Schedilo, Antonucci, Imbò, La Greca. Parascandola, Ca¬ roli, Bacci, De Lerma, Covello, Napolitano, Zei, Lazzari, Della Ragione. La seduta è aperta alle ore 17.30. Il Presidente dà notizia della morte del socio ing. Placido Ruggiero, pronun¬ ciando parole di cordoglio per la sua -scomparsa e ricordandone la passione per gli studi naturalistici e la instancabile attività nel campo professionale. Il Presidente comunica che il Ministero ha approvato lo Statuto della Società ed informa che i premi Cavolini-De Mellis per l’anno 1946-47 sono stati assegnati alla Sig.na De Bonis Matilde del 3° anno e al sig. Sarà Michele del 4° anno di scienze naturali. Il socio Parascandola propone che si tenga ancora un’altra seduta alla fine di Luglio e l’ Assemblea approva. La seduta è tolta alle ore 19. Tornata ordinaria del 50 Luglio 1947 Presidente : LJ. Pierantoni Segretario : M. Salfi Sono presenti i soci: Caroli, Napolitano, Orni, Schedilo, D’Erasmo, Parascan- dola. Parisi, De Rosa, Lazzari, Pannain, La Greca. La seduta è aperta alle ore 18.30. Il Presidente informa che il Consiglio Nazionale delle Ricerche ha concesso un assegno straordinario di lire 50.000. — da devolvere a favore delle ricerche speleologiche della nostra Società. Dà quindi notizia sul Congresso Internazionale di Geologia, che avrà 1 uogO' a Londra nell’agosto del 1948. Il Presidente dà la parola ai soci per lo svolgimento delle seguenti comuni¬ cazioni scientifiche : Caroli E., Sulla presenza di Processa aequimana ( Paulson ) nel Golfo di Napoli ; Pannain Lea. Determinazione iodometrica dell’alluminio; Lazzari A., Amiche cavità di erosione marina in località « La Rifiusa » presso Ca¬ stro ( Prov . di Lecce); Parascandola A. Stilla presenza dell’acido solforico libero al Vesuvio e nei Campi Flegrei ; — Osservazioni geologiche sui calcari di S. Vito e di Fasano ìli Provincia di Brindisi ; — Notizie vesuviane. Lo stato attuale del Vesuvio 1 20 luglio 1947); — Osservazioni geologiche sui monti di Cava; — Osservazioni sul Cretaceo e Terziario nella penisola sorrentina; I giacimenti di Manganese nella provincia di Prosinone : — Note geologiche sulla Campania; — Sulla geologia dell’isola di Procida; — - Sopra alcune concrezioni che si rinvengono nella breccia museo della Punta della Lingua (isola di Procida '); — Osservazioni sull’attività postvulcanica nella zona occidentale di Napoli. Dii Rosa A., Sulla craniologia degli Etruschi ; — Morfologia delle corone dentarie nei molari umani; — - Le deformazioni artificiali del cranio; j — Un cranio deformato della Necropoli di Alfedena; — Sulla craniologia dei moderni abruzzesi ; — Sul calcolo della capacità cranica. II Segretario comunica che sono’ pervenuti due lavori per materiali cavernicoli da parte di due specialisti e ne propone la stampa in una serie che verrà inti¬ tolata: Studi speleologici e faunistici sull’Italia meridionale. I detti lavori sono : Ruffo Sandro. Hadzia minuta n. sp. (Hadziidae) e Saleminella gracilUma n, gen. et n . sp.. nuovi Anfipodi troglobi dell’ Italia meridionale. Lombardini Giocondo, Acari di alcune grotte della Campania. La proposta è approvata airunanimità. La seduta è tolta alle ore 20. Tornata ordinaria del 26 Novembre 1947 Presidente ; G. D‘ Erasmo Segretario : IVL Salfi Sono presenti i soci: Scherillo, Pannain, La Greca, Parascandola, Imbò, Moncharmont Ugo, Zei Moncharmont Maria, Lazzari, Caroli, Palombi. Antonucci, Montalenti, Ippolito, Parisi, Della Ragione, De Rosa. La seduta è aperta alle ore 17.30. L’Assemblea approva la proposta del Consiglio Direttivo circa i componenti la Commissione per l’aggiudicazióne dei due premi Della Valle, che risulta così costituita: Proff. Caroli, Goggio, Montalenti, Pierantoni e Salii. Vengono nominali revisori dei conti i soci Covello e Moncharmont e il socio Della Ragione quale revisore supplente, Il socio Iinbò svolge due comunicazioni : una dal titolo Considerazioni ed osservazioni comprovanti che V eruzione vesuviana del 1944 fu terminale ; l’altra 1 guardante Considerazioni a proposito delle recenti eruzioni Etnee. Il socio Ippolito svolge due comunicazioni: a) Recenti dati sull’ età della terra ; b) Segnalazione di una roccia vulcanica nel sottosuolo Campano a nord del Lago di Patria. La seduta è tolta alle ore 19.30. Tornata ordinaria del 30 Dicembre 1947 Presidente : G. D’ Erasmo Segretario-. M. Salpi Sono presenti i soci: De Lentia, Pannuin. Scherillo, Mazzarelli. Napolitano. Punzo, Moncharmont, La Girerà, Parisi. La seduta è aperta alle ore 17,30. Il socio Mazzarelli presenta due note: una Sul fenomeno dei sorgimenti d’ac¬ qua , o delle macchie d’olio delie acque dello Stretto di Messina ; l’altra Sul feno. meno delle « scale di mare » nelle acque dello Stretto di Messina. Esse vengono accolte per la stampa nel Bollettino con le limitazioni vigenti. Il Segretario, a nome del socio iParaseandola, presenta una nota dello stesso, dal titolo: Fu esclusivamente terminale l’eruzione del Vesuvio del Marzo 1944?. in risposta alla nota, sullo stesso argomento, presentata c^al socio Intbò nella seduta del 26 Novembre 1947. Il socio Lazzari legge una nota: Sopra un fenomeno di idrografia sotterranea osservabile nella Grotta Zinzulusa presso Castro, che viene accettata, su proposta del Segretario, nel Supplemento al Bollettino, di cui si è iniziata la stampa. Vengono' ammessi ad unanimità, dopo votazione, a soci ordinari non residenti, il Prof. Luigi Miragli a, il Dott. Luigi Lacquaniti e il Dott. Michele Sarà. La seduta è tolta alle ore 19. BOLLETTINO DELLA SOCIETÀ 00 NATURALISTI I3V KAIPOI*! VOLUME LVII - 1948 (Pubblicato il 9 aprile 1949) con 5 tavole e 16 figure intercalate N A P 0 L I Stabilimento Tipografico G. Genovese Pallpnetto S. Chiara, 22 - Telef. 22-568 1949 BOLLETTINO DELLA INKAPOLI VOLUME LVII - 1948 (Pubblicato il 9 aprile 1949) con 5 tavole e 16 figure intercalate NAPOLI Stabilimento Tipografico G-. Genovese Pallonetto S. Chiara, 22 - Telef, 22-568 1949 0 b ■ H 5 S: 6 7# INDICE ATTI MEMORIE E NOTE Pannain L. — Dimostrazione della equivalenza dei sei atomi d’idrogeno del benzene ............ pag. Ippolito iF. — Una nota inedita di Leopoldo Pilla ...... Sarà M.. — Sull’associazione di Tethya aurantium (Pallas) Gray con Oscil¬ latoria spoìigeliae l(Scliulze) . . » Miraglia L. — Sorgente pulsante del Sammaro (Massiccio del Cervati) . » Parenzan P. — Esperienza per la diagnosi biologica di gravidanza con urina di donna ........... » Ippolito F. — Commemorazione di Leopoldo Pilla (1805-1848) . . » Mirigliano G. — Un giacimento ad Orbitoline presso il M. Cocuzzo (Sa¬ lerno) ............. » Covello M. e Capone A. — Idrolisi di nuovi derivati acilici degli acidi 3- e 5-iodosalicilici ............. Covello M. — Iodosalicilati di mercurio e di bismuto . . . . » Lazzari A. — Segnalazione della caduta in Albania delle ceneri del Ve¬ suvio dell’eruzione del marzo 1944 ........ Mirigilìano G. — Pliocene tra Licusati, S. Iconio e Porto degl’Infreschi (Salerno) ............... Covello M. — Ricerche farmacologiche sul canforato di esametil-l-3-dia- mino-propanolo-2 ............ Moncharmont U. — Descrizione di un arto posteriore soprannumerario in una Rana esculenta rinvenuta in natura . . . . . . . » Imbò G. — Osservazioni condotte al Vesuvio nell anno corrente (1948) . » Ippolito F. — Studi sulla costituzione geologica del sottosuolo di Napoli » Miraglia L., — Il Carsismo di Monte Cervati . » Mazzarelli G. — Ricerche sul colore del mare eseguite tra la Sicilia e la Libia e lungo le coste della Puglia e della Calabria . o U 7 13 17 20 24 36 41 49 56 60 72 78 92 95 99 » 115 Parascandola A. — Notizie vesuviane. Lo Stato del Vesuvio dal 9 Novem¬ bre 1947 al 15 Febbraio 1948 ......... pag. 120 Pannain E, — Sulla teoria elettronica della valenza. Nota IV ...» 1:2-5 Pannain L. — Valori termici dei legami tra gli atomi di carbonio . . » 131 STUDI SPELEOLOGICI E FAUNISTICI SULL’ITALIA MERIDIONALE 7. La Greca M. — Primo contributo alla conoscenza degli Ortotteri del Matese .... - . pag. 143 8. Moncharmont U. — Sulla presenza di Ephydatia fluviatili s L. ( Spoii - gilliclae ) nel Lago-stagno craterico di Astroni (Napoli) ...» 157 9. De Lerma B, — Opilionidi cavernicoli della Campania .... » 160 10. La Greca M. — , Note sulFOrtotterofauna dell’Italia Meridionale . . » 165 PROCESSI VERBALI DELLE ADUNANZE Processi verbali delle tornate del 1948 ........ pag. 175 STATUTO, REGOLAMENTO ED ELENCO DEI SOCI Statuto della Società dei Naturalisti ........ pag. 183 Regolamento » » » ......... 188 Elenco dei Soci al 31 Dicembre 1948 ......... 194 Bollettino della Società dei Naturalisti in Napoli ATTI (MEMORIE E NOTE) Dimostrazione della equivalenza dei sei atomi d’ idrogeno del benzene Comunicazione della socia Lea Pannain (Tornata del 28 gennaio 1948) Le dimostrazioni dell’equivalenza dei sei atomi d’idrogeno del benzene date dal Noelting, dal Ladenburg e da altri presentano una deficienza di fronte alla dimostrazione dell’HENRY della equivalenza delle quattro valenze dell’atomo di carbonio, ossia dell’equivalenza dei quattro atomi d’idrogeno del metano, perchè la dimostrazione dell’HENRY si fonda sulla preparazione, partendo dal metano, di 4 nitrometani e di 4 acetonitrili identici , nei quali, essendo occupate precedentemente una, due e tre posizioni, quelle dei gruppi sosti¬ tuenti N02 e CN nei quattro composti successivamente ottenuti de¬ vono essere differenti. D’altra parte, dimostrata sperimentalmente la equivalenza di 4 dei 6 atomi di idrogeno del benzene, secondo Noelting o secondo Ladenburg, per dimostrare che anche gli altri due atomi d’idrogeno sono equivalenti ai primi quattro, entrambi gli AA. partono da un composto ortosostituito ; il Noelting dall’o-toluidina e il Ladenburg dall’acido o-ossibenzoico o acido salicilico. In tal modo si viene a riconoscere la formula esagonale attribuita al benzene per giustificare che da esso si può avere: un sol prodotto monosostituito; tre prodotti bisostituiti, tre tri- e tre tetrasostituiti; uno penta- ed uno esasostituito; riconoscendo implicitamente la equivalenza dei 6 atomi d’idrogeno del benzene, cioè dei 6 metini =CH — , collocati nei 6 vertici di un esagono regolare. Ritengo che la dimostrazione da me adottata e che qui riporto sia più semplice e più rigorosa. FEB 2 3 1950 - 4 - Indicando con 1, 2, 3, 4, 5 e 6 i sei atomi d’idrogeno del benzene, sostituendone uno col metile, con la sintesi di Fitting e Tgllens o di Friedel e Kraft, si ottiene il toluene , che chiameremo 1-metil- benzene, indicando cqii 1 la posizione di questo primo atomo d’idro¬ geno sostituito. Nitrando il toluene, si ottengono 3 nitrotolueni differenti, uno liquido, p.e. 218°, e gli altri due solidi, p.f. 16° e 54°, nei quali il gruppo nitro occuperà 3 posizioni differenti, che indicheremo con 2, 3 e 4. Da questi, per riduzione si ottengono 3 differenti toluidine, coi gruppi — NH2 nelle 3 posizioni 2, 3 e 4, dalle quali, per ossidazione si elimina il gruppo CH3 e rimangono 3 amminobenzeni coi 3 gruppi — NH2 nelle posizioni 2, 3 e 4, identici che s’identificano con l’a¬ nilina. Risulta così dimostrato che le posizioni 2, 3 e 4 sono equivalenti. Da quest’anilina, diazotando, bromurando e mediando si ha un metilbenzene, che, per la sua sintesi, deve avere il gruppo CH3 in una delle posizioni 2, 3 o 4, che è identico aH’l-metilbenzene di par¬ tenza, per cui le posizioni 2. 3 e 4 sono identiche alla 1. Anche le rimanenti posizioni 5 e 6 sono equivalenti alle 1, 2, 3 e 4, perdio, nitrando il toluene, si hanno solo 3 nitrotolueni, men¬ tre, essendo liberi 5 atomi di idrogeno del benzene se ne dovrebbero ottenere 5. L’averne ottenuti 3 dimostra che solo 3 posizioni sono differenti tra loro rispetto al gruppo CH3; le altre due devono essere equivalenti alle altre due o ad una stessa delle 3 occupate dai gruppi N02, e, poiché queste tre sono equivalenti tra di loro e alla 1, anche le altre due saranno ad esse equivalenti; cioè tutte e sei le posizioni degli atomi d'idrogeno del benzene sono equivalenti. La conferma sperimentale, rigorosa della equivalenza delle altre due posizioni, indicate con 5 e 6, si ha nitrando le tre toluidine: due di esse danno ciascuna 4 prodotti distinti e altre due la terza. Poiché abbiamo indicate con 1 e 2 le posizioni occupate dai grup¬ pi sostituiti nella prima toluidina, con 1 e 3 quelle occupate nella seconda, gli otto nitroderivati che da esse si ottengono devono avere il gruppo nitro in una delle posizioni libere e saranno quindi: o — - 1) CH, 1 nh2 2. no2 3 4 5 6 2) CHS 1 nh2 2 3 no2 4 5 6 3) ch3 1 nh2 2 3 4 .no2 5 6 4) ch3 1 nh2 2 3 4 5 no2 6 5) ch3 1 no2 2 nh2 3 4 5 6 6) ch3 1 2 nh2 3 no2 4 5 6 7) ch3 1 2 nh2 3 4 no2 5 6 8) ch3 l 2 nh2 3 4 5 no2 6 Da ciascuno di questi composti, diazotando, bromurando e med¬ iando e poi eliminando i gruppi CH3 per ossidazione, si hanno otto nitrobenzeni, nei quali, per la loro genesi, i gruppi N02 devono oc¬ cupare le posizioni 2, 3, 4, 5 e 6. Questi nitrobenzeni risultano tutti identici tra di loro, perciò queste 5 posizioni sono equivalenti; ma già è stato dimostrato che le posizioni 2, 3 e 4 sono equivalenti alla 1, quindi rimane dimostrato sperimentalmente che i sei atomi d’i¬ drogeno del benzene e per esso i 6 metini sono equivalenti. Dimostrata l’equiva]enza delle posizioni 5 e 6 con le altre quat¬ tro, si deduce che la terza toluidina, nella quale il metile occupa la posizione 1 e il gruppo amminico la posizione 4, dà solamente due nitrotoluidine, che sono differenti dalle otto ottenute dalle 1-2 e 1-3. * Difatti, nitrando la 1 metil, 4 amminotoluidina, quando il gruppo nitro va ad occupare le posizioni 2 e 3 si hanno due composti dif¬ ferenti : 1 2 3 4 5 6 1) CH3 N02 — NH2 — — 2) CH3 — N02 NH2 — — Ma quando il gruppo nitro va in posizione 5, essendo la posi¬ zione 5 equivalente alla 3, ed essendo le posizioni 3 e 5 contigue alla 4, la 3 nitrotoluidina e la 5 nitrotoluidina devono essere iden¬ tiche; così pure devono essere identiche la 2 e la 6 nitrotoluidina. Quanto precede è in pieno accordo con la formula esagonale at¬ tribuita al benzene, avente sei metini, ciascuno in uno dei sei ver¬ tici dell’esagono regolare; non però coi tre doppii legami alternati, secondo il KÉkulÈ, ma con un legame benzenico tra ciascuna coppia di atomi di carbonio contigui. Tale legame benzenico secondo E. Pannain (1), in base alla teo¬ ria elettronica della valenza, è costituito da tre elettroni, due di un atomo e uno dell’altro. (1) Questo Bollettino, voi. LV, pagg. 31, 38 e 58. Una nota inedita di Leopoldo Pilla del socio Felice Ippolito (Tornata del 28 gennaio 1948; Nel -1945, presso un libraio antiquario di Napoli, ebbi occasione di acquistare una ventina di volumi di cc Miscellanea di Geologia e Mineralogia » di ignota provenienza, ma che, per le dediche che qua e là costellano gli opuscoli della raccolta, sembra siano appartenuti alla biblioteca di Michele Tenore. In uno di questi volumi, ove sono inserite varie note e memorie di Leopoldo Pilla, è tra l’altro rile¬ gato un fascicoletto di quattro fogli manoscritti intitolati « Sulla pre¬ sente condizione in Napoli della mineralogia e geologia ». Sotto que¬ sto titolo, con altra calligrafìa, è scritto « scrittura inedita di Leo¬ poldo Pilla ». Il testo è il seguente : « La mineralogia e la geologia al pari delle altre Scienze Natu¬ rali in felice condizione nel nostro paese rattrovansi. Dove parecchi vi ha che attendono con zelo a siffatti studii; e vi si trovano collezioni mineralogiche sì bene classificate che possono ampiamente soddisfare alla curiosità universale. Di che fanno fede le notizie che qui arre¬ chiamo. « Dopo la molte del Prof. Tondi sono rimasti in Napoli a de¬ cani della scienza mineralogica i professori De Ruggiero e Monticelli. Il primo de’ quali bene addottrinato nelle scienze fisiche e matema¬ tiche cominciò con auspicii assai lieti le sue ricerche mineralogiche. Fece egli conoscere una nuova forma di analcime dell’isola de’ Ci¬ clopi (1) e scovrì questa medesima sostanza nelle lave degli Astroni vicino Pozzuoli. Ed inoltre la mineralogia Vesuviana va a lui debi¬ trice di buona parte de’ suoi ultimi progressi. Senonchè è da lamen¬ tare che le cure di un suo luminoso uffìzio lo abbiano distratto da questi studii, ai quali se con animo intero e spedito avesse atteso cer¬ tamente assai prò avrebbe arrecato alla scienza. (1) Memoria sopra una nuova forma di analcime . Giornale Enciclopedico di Napoli anno 1° tom. 1°, (( Il Professor Monticelli è ben conosciuto per le sue classiche ri¬ cerche. intorno ai fenomeni e prodotti del Vesuvio. Sopra il quale soggetto molte memorie ha pubblicato. cc Di tal fatta sono le notizie sopra Teruzioni del 1813 e 1817 (1). Ma innanzi a tutte sono da porre la Storia dei fenomeni del Vesuvio negli anni 1821 e 1822, ed il Prodromo della Mineralogia Vesuviana: lavori che egli pubblicò in compagnia del Professor Covelli, nome caro in Italia e da tutti con dolore ricordato e rimpianto. Queste opere essendo conosciute universalmente, sarebbe superfluo qui di¬ scorrerne il merito. cc Sonovi ancora al presente in Napoli altri professori di scienze naturali, i quali quantunque non attendessero di proposito alla geo¬ logia, nuli adimeno hanno assai concorso a dilucidare la struttura fi¬ sica del suolo napoletano. Fra questi è da citare innanzi il Professor Tenore, uno de’ jirimi ornamenti della Botanica Italiana. Nelle re¬ lazioni de’ suoi viaggi fatti in molte parti del Regno il geologo attigne notizie importantissime sopra la costituzione fisica di questa parte della penisola e sopra le misure delle principali altezze che vi si no¬ tano (2). Ed uno schizzo generale della geologia napoletana si trova nella sua opera Cenno sulla geografia fisica e botanica del Regno di Napoli , la quale è ancora accompagnata da una carta geologica di questo paese. Sono ancora da citare le sue peregrinazioni ne’ con¬ torni di Napoli, come quelle che hanno avuto per soggetto non pure le ricerche botaniche ma eziandio le geologiche (3); ed altresì le osservazioni del medesimo fatte in compagnia del Professor Gussone in un viaggio al monte Vulture ed in altri luoghi di Basilicata. Le quali sono inedite ancora e verranno alla luce nei Voi. degli atti del¬ l’Accademia delle Scienze. Infine non è da tacere che questo illustre naturalista ha sempre, e con molto accorgimento, associato allo studio della botanica quello della geologia. « L’arcidiacono Cagnazzi, che molte memorie ha pubblicato di fisico argomento, e con moltissima lode, fece il primo conoscere la (1) Descrizione dell’ eruzione del Vesuvio avvenuta nei giorni 25 e 26 dicem¬ bre 1813. (Giornale Enciclopedico anno 9, toni, 2°). Rapporto sull’eruzione del Vesuvio del dì 22 a 26 dicembre 1817. '(Idem anno 12, toni 1°). (2) Viaggio in alcuni luoghi della Basilicata e della Calabria Citeriore. Na¬ poli, 1827. Relazione del viaggio fatto in Abruzzo ed in alcune parti dello Stato Pontificio. Napoli, 1880. Relazione del viaggio fatto in alcuìii luoghi di Abruzzo Citeriore. Napoli, 1832. (3) Ragguaglio di alcune peregrinazioni effettuate in diversi luoghi della Pro¬ vincia di Napoli e di Terra del Lavoro. (Nel Giornale il Progresso fase. Vili, IX, X, XI). — 9 — struttura geologica delle Murge che sono picciola giogaia di monti- celli la quale discorre in mezzo alla vasta pianura della Daunia con direzione e posizione molto curiosa (1) e questa sua memoria è stata molto commendata dal Brocchi. « Dopo questi valorosi professori sono da nominare alcuni gio¬ vani allievi della scuola di Tondi, i quali hanno interamente lor animo volto allo studio della mineralogia e geologia. Essi sono Arcangelo Scacchi e Leopoldo Pilla. Il primo intende a pubblicare una Carta geologia della Campania per commissione avutane dall’Accademia delle Scienze, ed è da sperare che essa vegga quanto prima la luce. Ha eziandio impreso insieme col giovane e valente chimico Raffaele Piria, la compilazione di un’opera periodica riguardante solamente le Scienze naturali (2) alla quale tutti i buoni augurano felice suc¬ cesso. Nel primo quaderno che si è pubblicato ci ha due memorie dello Scacchi di mineralogico argomento. Una riguarda la voltaite nuova specie di minerale da lui trovata nella Solfatara di Pozzuoli (3); l’altra una descrizione de’ fossili che si trovano in Ischia e nelle vici¬ nanze di Pozzuoli, e degli strati dove sono racchiusi (4). L’ultima di queste due memorie è assai commendevole. cc II secondo ha tolto a segno principale de’ suoi studi quello de’ Vulcani, per la opportunità che offre a ciò il paese delle Sicilie. Ha pubblicato insieme coll’egregio chimico Cassola un Giornale di osservazioni sul Vesuvio (5) opera che durò un solo anno, e che poi è stata continuata solo dal Pilla, il quale ha inserito le sue osserva¬ zioni nel Giornale napolitano il Progresso (6). Ha chiarita la strut¬ tura geologica della Campania, specialmente per rispetto alla ori¬ gine e giacitura de’ tufi di questa regione: e le sue osservazioni fanno seguito a quelle di Breislak, di Tenore e di Pilla padre del mede¬ simo (7). (1) Conghietture su di un antico sbocco dell’Adriatico per la Daunia fino al seno Farentino. Napoli 1807 (Inserite ancora nelle Memorie della Società Italiana delle Scienze; tomo XIII). (2) Antologia di Scienze Naturali. (3) Della Voltaite, novella specie di minerale trovata nella Solfatara di Poz - zuoli. (4) Notizie geologiche sulle conchiglie che si trovali fossili nell’isola d’Ischia e lungo la spiaggia tra Pozzuoli e Monte Nuovo. (5) Lo spettatore del Vesuvio e dei Campi Flegrei. (6) Bollettino geologico del Vesuvio. (7) Osservazioni geognostiche sulla parte settentrionale ed orientale della Campania, con una carta geologica. — 10 — '« Ha pubblicato una descrizione del Vulcano di Stromboli (1), e del Vulcano estinto di Roccamonfina nella Campania (2). E varie notizie ha fatto conoscere sopra la geologia del paese di Napoli, che ha visitato quasi per intero. Tali sono quelle sull’eleandrace del¬ l’Abruzzo e sulla struttura fisica del monte Gargano: ha ancora dato alla luce un catalogo delle rocce di Calabria. Si ha similmente da lui una specie d’itinerario geologico da Napoli a Vienna, dove si possono principalmente vedere le relazioni tra la giacitura de’ tufi della Cam¬ pania e de’ Vulcani dei Lazio (3). Ha cominciata la pubblicazione di un Trattato di Geologia, di cui è venuto fuori la la parte che contiene la descrizione mineralogica delle rocce: dove le lave sono descritte a parte e con metodo che si diparte dall’ordinario. Infine in una me¬ moria che inviò al Congresso scientifico di Pisa, e che accompagnò con carte, ha date alcune notizie generali sopra la struttura geolo¬ gica del suolo napolitano. Della quale memoria un estratto trovasi in¬ serito negli Atti della Prima Riunione degli Scienziati Italiani. « Nelle provincie poi del Regno non mancano persone che at¬ tendono a questi studii. Il Dottor Nicola Pilla dimorante in Venafro in Terra di Lavoro, ha benemeritato della scienza de’ Vulcani per aver il primo fatto conoscere l’estinto cratere di Roccamonfina nella Campania, il quale or va divenendo luogo di grandissima importanza geologica pel nostro paese (4). Ed ha poi in varie sue memorie illu¬ strata la fisica struttura della famosa regione della Campania (5). cc In Calabria sono da nominare con lode il Professore Carlo Ta¬ rantino, dimorante in Catanzaro, ed il Sig. Pietro Greco in Reggio. Il primo è stato allievo del Tondi, ed ha studiata la geologica costitu¬ zione di varii luoghi della Calabria, e ne ha raccolto i prodotti. Il secondo si è adoperato con grandissimo zelo ad aiutare di lumi e di facilitazioni di ogni sorta i naturalisti che hanno visitato T Aspro¬ monte che si è il giogo più rilevante degli Appennini Calabri, e con (1) Osservazioni fisiche sopra il Vulcano di Stromboli. (Nel giornale « Il Lu¬ cifero » anno 1° num. 8, 14, 23, 27). '(12) Notizie geologiche sopra il Vulcano estinto di Roccamonfina (idem, anno 1°, n. 36, 37, ed anno 2°, n. 46). (3) Osservazioni geognostiche che possonsi fare lungo la strada da Napoli a Vienna. Napoli, 1823. (4) Saggio litologico sui Vulcani estinti di Roccamonfina, di Sessa e Fiano. Napoli, 1795. (5) Primo viaggio geologico per la Campania («nel Giornale Enciclopedico di Napoli, anno 8°, tomo 2°). Secondo viaggio geologico per la Campania (Idem, tomo 4°). Geologia Vulcanica della Campania. Napoli, 1823. essi maisempre si è accompagnato, e sua mercè ora in Reggio v’è una raccolta de’ principali minerali di quella Provincia. Nelle Puglie si può mentovare il Dottor Leonardo Cera il quale assai fatiche ha du¬ rato per far conoscere le specie di marmi che si trovano nel Gargano, e la loro giacitura. « Per rispetto poi alle collezioni mineralogiche che sono in Na¬ poli, l’elenco che qui si produce dà a dividere che in quanto a ciò nulla rimane a desiderare. Quella dell’Università si va di giorno in giorno arricchendo per le nobili cure del Ministro dell’Interno Cav. Santangelo. E già ora accoglie la collezione che apparteneva al de¬ funto professor Tondi, collezione di grandissimo pregio, e forse la prima in Italia per riguardo all’insegnamento. Vi sono state ancora tradotte le collezioni che per commissione del prelodato Ministro il Pilla ha recate di Calabria, dal Gargano, dal Vulture, dalle isole di Lipari, di Ponza e dai Vulcani della Campania. Fra le particolari sono da citare in primo luogo quelle del Cav. Ruggiero e del Cav. Monticelli. La prima delle quali ricchissima di minerali esotici e del Vesuvio lascia solo desiderare che sia debitamente allogata, a che non mancherà certamente di provvedere il dotto a cui appartiene. L’altra è celebratissima come la più ricca e la più copiosa raccolta di prodotti del Vesuvio che (fin ad ora sia stata messa insieme: e si ode con universale compiacimento che il governo intende di acqui¬ starla per fregiarne il Museo dell’Università. Ed a parte della colle¬ zione Vesuviana ne possiede ancora una ricchissima di minerali eso¬ tici che ha ricevuto d’ogni parte in cambio di quelli del Vesuvio che ha mandati. cc II Pilla nelle sue peregrinazioni in tutt’i Vulcani delle due Si¬ cilie ha messo insieme una raccolta di minerali vulcanici che è forse tra le più pregevoli collezioni di tal genere che sono in Europa; nella quale una serie compiuta di prodotti vulcanici si trova, cominciando da quelli de’ Vulcani più antichi e terminando ai più moderni. E manca solo che sia debitamente ordinato, a che attenderà come prima gli sia possibile. « Il Professor Cassola, il quale allo studio della chimica associa assai degnamente quello della mineralogia, ha arricchito le sue belle raccolte di macchine chimico-fìsiche eziandio di copiosa e ricca col¬ lezione di minerali tra’ quali di pregio grandissimo sono quelli delle Provincie Russe che ha seco menato dal suo viaggio a Pietroburgo. « Infine lo Scacchi ancora va a mano a mano mettendo insieme una scelta collezione di minerali esotici ed indigeni, a che pone quelle cure che ha sempre mostrate ne’ suoi studi naturali », 12 — Tale nota, che sembra tronca nella sua ultima parte, non com¬ pare citata nella bibliografia che degli scritti del Pilla diede il Bas- SANi (1), in occasione del centenario della di lui nascita. Essa, probabilmente, rappresenta una raccolta di appunti, re¬ datta — per quanto può dedursi dall testo — intorno al 1835, che ser¬ virono in seguito all’ autore per la definitiva stesura del Discorso Accademico intorno ai principali progressi della Geologia ed allo stato presente di questa scienza , recitato nella sala dell’Accademia Pontaniana il 21 aprile 1839 (2). Poiché è noto che il Pilla lasciò un gran numero di manoscritti inediti — dei quali gran parte è andata perduta nell’incendio che i tedeschi appiccarono nel 1943 alla storica biblioteca della Società Reale di Napoli — non fa alcuna meraviglia che anche queste brevi note non abbiano mai veduto la luce. Ho voluto pertanto pubblicarle non solo per l’interesse loro in¬ trinseco, quanto per tributare un omaggio alla luminosa figura di Leopoldo Pilla, nel centenario del suo sacrificio sul campo di Curta- tone, alla testa dei suoi studenti in armi per la libertà. Napoli, Istituto di Geologia Applicata e di Arte Mineraria dell’ Università, 28 gennaio 1948 . (1) Bassani F., In memoria di Leopoldo Pilla . RencL R. Acc. Se. Fis. e Mat., e. 3a, XI. Napoli, 1905. ((2) Opuscolo di pp. 35, ini 8°. Napoli, Tip. Flautino, 1840, Sull’associazione di Tethya aurantium (Fallas) Cray con Oscillatoria spongeliae (Schulze) Nota del socio Michele Sarà (Tornata del 25 febbraio 1948) Espongo in questa nota preliminare alcuni risultati delle mie ri- cerche sull’argomento, riservandomi di tornarvi in seguito più diffu¬ samente. Cotte (1) osservava in Spongelia palle scens come gli amebociti della spugna fagocitassero gli elementi di una. Cianoficea vivente in simbiosi con essa, il Phormidium (?) Spongeliae (Schulze) Gomont. Più tardi veniva ritrovato il Phormidium da Eichenauer (2) in esemplari di Tethya maza della località atlantica di S. Thomè e nono¬ stante che l’autore studiasse il processo di gemmazione e l’accumulo di riserve della spugna non notava alcuna particolarità nel compor¬ tamento endozoieo dell’alga. In Tethya aurantium, una caratteristica Silicospongia abbastanza frequente nel Golfo di Napoli e di cui Tethya maza — secondo le moderne vedute unificatrici di Vosmaer (3) — non rappresenta che una varietà geografica, ho potuto osservare fenomeni di fagocitosi altrettanto cospicui che in Spongelia. Essi sono particolarmente inte¬ ressanti in quanto incidono, sia pure in modo indiretto, sulla forma¬ zione delle gemme attraverso cui — come è noto — questa spugna si riproduce. Ho creduto opportuno riportare l’alga al genere Oscillatoria Vau- cher in quanto manca, secondo le osservazioni concordi di più autori (1) Cotte J. Contribution à V elude de la Nutrition ckez les Spongiaires. Bull. Scient. de la Franco et de la Belgique, Tome XXVIII, 1903. (2) Eichenauer E. Die feineren Bauverhdltnisse bei den Knospen&ntwicklung der Donatien. Zool. Anz. Leipzig, (45), pp. 360-373, 1915. i(3) Vosmaer G. C. J. The Sponges of thè Bay of Naples. Porifera Incalcarea. G. S. Vosmaer, Roell and M. Burton. 3 Voli., 878 pp., The Hague, 1933-35. — 14 e le mie, della guaina che Gomont (4) aveva creduto di ravvisate e per cui appunto l’aveva spostata al genere Phormidium; essa è nuova per il golfo di Napoli e piuttosto rara a ritrovarsi in Tethya. Le immagini della fagocitosi, ottenute con diversi metodi di co¬ lorazione di cui il più adatto si è rivelalo l’ematossilina ferrica di Heidenhain - fucsina acida, permettono di ricostruirne, almeno in parte, il processo e di delucidarne alcuni aspetti particolari; esse mostrano essenzialmente le trasformazioni subite dagli elementi del¬ l’alga e dalle cellule fagocitanti della spugna. Queste, a cui si dà genericamente il termine di amebociti, appartengono senza dubbio al gran ceppo di cellule vaganti nel mesenchima, le quali assolvono anche normalmente una parte importante nella funzione nutritiva e che si è soliti denominare archeociti; ne rappresentano anzi un gruppo particolare, quello dei macrofagi. I tricomi dell’alga possono talora degenerare in blocco; molto più frequentemente però si frammentano nei singoli elementi; e tale fenomeno, di cui ignoro le cause, ne facilita la fagocitosi da parte degli amebociti. Si osservano così archeociti, più o meno deformati, avviluppare estremità di tricomi o, più spesso, singole cellule del¬ l’alga ancora intatte. Poi gli elementi ingeriti vanno incontro a dege¬ nerazione e sfacelo, mentre gli amebociti vaganti si trasformano in trofociti sempre più carichi di grossi granuli. Questo momento del processo presenta la più grande varietà di aspetto, tanto per la forma e la dimensione degli inclusi quanto per le proprietà istochimiche che si rivelano alla colorazione. Le granulazioni, di forma più o meno irregolare, sono appunto costituite dalla frammentazione sempre più minuta dell’elemento fagocitato e mostrano costantemente un’accen¬ tuata basofilia: alcune di esse con aspetto di sferule si possono consi¬ derare analoghe a quelle osservate da Cotte in Spougelìa e da lui attribuite alla concentrazione dei pigmenti dell’alga, fìcoeritrina e clorofilla nel citoplasma del fagocita. Gli archeociti di Tethya subiscono in tal modo una serie di trasfor¬ mazioni citoplasmatiche e nucleari che appaiono dovute solo a con¬ dizioni fisiologiche, connesse al metabolismo cellulare, e non a diffe¬ renziamento istologico come potrebbe far pensare l’occorrenza nella spugna del processo di gemmazione. Essi assumono gradualmente facies di fagociti prima, di trofociti poi, e di granulociti infine; ma queste — secondo la terminologia di Minchin (5) e la maggioranza (4) Gomont M. Monographie des Oscillariées. Deuxi'eme partie : Lyngbyiées. Ann. Se. oiat. Bot„, Sor. 7, Tome XVI, 1893. (5) Minchin E. A. SpongesAPhylum Porifera : in E. Rày Lankester. A treatise on Zoology . Part IL London, 1900. degli autori — non sono clic forme diverse di un unico tipo cellulare. Il termine di granuloeiti si adatta bene alla fase finale del processo, quando, perduta ogni proprietà di movimento, le cellule cariche di grossi inclusi si trovano per lo più riunite in caratteristici ammassi, i primordi della gemma. L’ammasso situato nella regione superficiale del eortex è costi¬ tuito di cellule strettamente addossate, tutte simili fra loro, in cui le variazioni individuali sono chiaramente dovute soltanto alla varietà di dimensioni e forma degli inclusi, mentre il differenziamento cellu¬ lare avviene solo più tardi nella gemma formata. Particolarmente interessante appare il comportamento del nucleo: esso, più o meno visibile, si trova durante tutto il processo di fago¬ citosi quasi sempre addossato all’elemento dell’alga ingerito. Subisce inoltre, al contempo, delle modificazioni, e cioè una graduale contra¬ zione, un addensamento di cromatina tutt’intorno alla membrana nucleare, la scomparsa dell’aspetto normale reticolo-granulare e l’ac¬ quisto da parte del nucleo di dimensioni cospicue, talora solo di poco inferiori a quelle dell’intero nucleo. I due fenomeni descritti dimostrano l’attiva partecipazione del nucleo ai diversi momenti della fagocitosi; il secondo poi prelude ad uno speciale comportamento del nucleo dei granuloeiti degli ammassi che lascia supporre in modo ab¬ bastanza fondato l’occorrenza nella prima fase della gemmazione — l’accumulo di riserve — di particolari casi di amitosi. Nei nuclei dei granuloeiti di particolari ammassi si osserva infatti un allungamento secondo un asse, uno strozzamento della membrana nucleare in corrispondenza della regione equatoriale, e contempora¬ neamente uno sdoppiamento del nucleolo, che ha assunto dimensioni così cospicue da rappresentare gran parte del nucleo. Tale sdoppia¬ mento, che è talora una divisione in tre parti, può essere più o meno accentuato, ma i nucleoli non mi sono mai apparsi completamente di¬ visi nello stesso nucleo come è stato disegnato per le amitosi degli archeociti delle gemmule di Spongilla [MÙeler (6), Wierzejskj (7)]. Se non si può affermare con sicurezza Toccorrenza del processo di amitosi, mancando le immagini della scissione completa dei nuclei e di quella dei citoplasmi, si può osservare però — in via generica — che tale processo sarebbe anche giustificato dalla profonda altera¬ zione del metabolismo dei granuloeiti e dalla necessità di rapide divi¬ sioni per l’aumento di volume dovuto alTaceumulo di riserve. (6) Muller K. Gemmula Studien und allgemeine biologische UnterSuchungen an Ficulina ficus Linné. Wissensch. Meeres. unt. 2 1 16 Band), ICiel, 1914. (7) Wierzejski A. Beobachtungen iiber die Entwickl-ung der Gemmulae der Spongilliden und der Schwammes aus den Gemmulis. Bull. Int. Acad. Scient. Cra- covie, N. 3, Bd. IV-Y, 1915. L’alga si riproduce attivamente, nella regione superficiale del eortex della spugna, tanto per ormogoni come per divisione cellulare: ciò indica l’intensità del suo adattamento alla vita endozoiea. Rimane ancora da stabilire se essa penetra in Tethya o in Spongelia ogni volta di nuovo dall’esterno o se si può trasmettere per via parentale come le Zooclorelle in Spongilla . Feldmann (8) osservava in aprile delle modificazioni particolari nei tricomi dell’alga tali da allontanarla, a suo avviso, da ogni altro genere di Hormogonales ma non da fissarne la sua vera posizione si¬ stematica. Ho potuto osservare anch’io in esemplare dragato in marzo (non invece in esemplari della stessa Tethya autunnali ed invernali) delle modificazioni, alquanto diverse da quelle di Feldmann, che por¬ tano ad un accentuato eteromorfismo degli elementi dei tricomi. Al¬ cune di queste formazioni appaiono strettamente connesse ai fenomeni di riproduzione, onde appunto la loro occorrenza stagionale, e sono non rare a ritrovarsi nelle Oscillatoriacee. L'accumulo di riserve per la gemma è quindi dipendente in tal caso dalla presenza dell’alga e dalla sua successiva fagocitosi da parte degli amebociti della spugna. Ma in Tethya priva di Oscillatoria si formano, sia pure con modalità alquanto differenti, le riserve e vi sono i caratteristici ammassi, primordi della gemma: ciò dimostra che la presenza dell’alga non è necessaria alla spugna nemmeno per quel processo di gemmazione, alla cui fase iniziale pure partecipa. L’associazione di Spongelia con Phormidium è stata comunemente definita come simbiosi; in questo caso il termine di simbiosi non è completamente giustificato non trattandosi proprio di una associazione « costante » fra le due specie reciprocamente utili; una definizione più precisa richiede comunque l’uso di culture razionali che mostrino l’intensità di adattamento dell’alga alla vita endozoiea e soprattutto se l’alga sia necessitata a vivere e a riprodursi nel tessuto di alcune specie di spugne e se l’infezione avvenga dall’esterno o per via pa¬ rentale. In conclusione si può dire: l’alga, autotrofa, trova nella spugna ottime condizioni ambientali per accrescersi e riprodursi normal¬ mente; la spugna, eterotrofa, sia essa Spongelia o Tethya, per mezzo dei suoi areheociti si nutre degli elementi dell’alga. In Spongelia il fenomeno rimane fine a sè stesso; in Tethya influenza, mediante la trasformazione degli areheociti in granulociti, la formazione della gemma. Napoli , Istituto di Anatomia Comparata dell’ Uni ver sita e Stazione Zoologica, Dicembre 1947. (8) Feldmann J. Sur quelques Cyanopkycées vivantes daits les lissues des Epon • ges des Banyuls. Arch. Zool. Exp. gon., Voi. LXXV, 1933. r 66 Sorgente pulsante del Sammaro 99 (Massiccio dei Cervati) Nota del socio Luigi Miraglia (Tornata del 25 febbraio 1948) Molte volte, nelle notti passate all’addiaccio, sotto i giganteschi venerabili faggi che ammantano il massiccio dei Cervati, uno dei più belli, vari ed interessanti di tutto P Appennino, su cui da molti anni mi reco ogni estate a passare un mese in comunione con la natura, avevo udita, intorno ai fuochi degli amici pastori, la leggenda del dragone che presso Sacco vive in una grotta, in cui nasce un fiume il cui deflusso sarebbe interrotto periodicamente dai movimenti della coda del mostro. Mi era sorto il dubbio che si trattasse di una sorgente intermit¬ tente, nonostante che, nel cercare la bibliografia sul l'argomento, avessi trovato che l’ing. Eugenio Perrone, ispettore capo del servizio idrau¬ lico, nella « Carta Idrografica d’Italia », Voi. cc Sele-Tusciano-Picen- tino-Irno e torrenti della Penisola Sorrentina » a pag. 89 parlando della sorgente del Sammaro si sia espresso testualmente così: cc ....è creduta intermittente con pause di qualche minuto ogni ora, cosa cer¬ tamente immaginaria ». Anche nella pubblicazione ufficiale del Min. dei Lav. Pubbl., Servizio Idrografico (« Le sorgenti italiane, elenco e descrizione », N. 14, voi. VII. Campania. Sez. Idrografica di Na¬ poli - Ist. Poligrafico dello Stato, anno 1942) le sorgenti del Sammaro sono elencate, ma non è fatto alcun cenno alla intermittenza della principale di esse. Recatomi sul posto, osservai che il Monte Motola, che fa parte del massiccio di calcare cretacico del Cervati, manda verso il paese di Roscigno un contrafforte il quale è inclinato dolcemente verso tra¬ montana; mentre strapiomba nel versante meridionale con un’altis¬ sima parete rocciosa incombente sull’abitato di Sacco (1). (1) Si consulti la carta topografica alla scala di 1 : 100.000 dell’Istituto Geografico Militare di Firenze n. 198; Campagna, nella quale si trovano tutti i corsi d’acqua e le località descritte nel presente articolo. 2 — 18 A meno di un chilometro da Sacco, sulla destra di una mulattiera che scende da questo paese per risalire a Roscigno, la parete del monte Moiola è incisa da un canon scavato dalle acque del fiume Sammaro. Questo sbocca nel Ripiti, che a sua volta è tributario del Fasanella, affluente del Calore, il quale, poco a valle del bosco di Persano, sfocia sulla riva sinistra del Seie. Il Sammaro, proprio nel punto dove esce dal suo canon, forma una cascata, dopo la quale scorre ancora per breve tratto, prima di confluire col Ripiti in contrada « Lago ». Per accedere in questo canon, che altrimenti sarebbe inaccessibile, è stata scavata nella parete cal¬ carea della riva sinistra una galleria lunga circa m. 4, usciti dalla quale bisogna camminare per uno strettissimo sentiero costituito dalla testata di uno strato sporgente, sotto cui, in basso a sinistra, spumeg- giano le acque del fiume. Dopo un percorso di circa 30 m. su questo pericoloso sentiero, che è prudente, per non scivolare, compiere a piedi nudi, si giunge ad un punto dove le rive non sono più a picco, le acque si quietano, e la forra, che nel primo tratto è larga circa 3 in., diviene un poco meno stretta, pur rimanendo una profonda trincea naturale scavata fra due pareti di calcare compatto. Dopo aver camminato ancora per circa 30 passi dal punto in cui il burrone si allarga, risalendo il corso d’acqua lungo la riva sinistra, si giunge di fronte alla sorgente principale del Sammaro. Questa, che scaturisce sulla riva destra nell’alveo, sotto un’incavatura della pa¬ rete rocciosa a forma di nicchia, è tanto copiosa che, all’atto stesso in cui sgorga, da sola, forma un fiume. Di estate, durante la siccità, il canon a monte della sorgente, se¬ condo quanto mi ha detto un vecchio contadino abitante presso la con¬ fluenza del Sammaro nel Ripiti, rimane completamente asciutto. Quando io feci le mie osservazioni, pur in estate, a monte della sor¬ gente scorreva un sottile rigagnolo melmoso per una pioggia caduta un giorno prima. Queste acque fangose venivano respinte sulla riva sinistra da quelle molto più abbondanti e limpide sogorganti dalla sorgente. Le due correnti fluivano parallelamente per un tratto, senza mescolarsi. La sorgente in questione è da ritenersi dunque l’origine della breve porzione perenne del Sammaro lunga poco più di 1 Km. Mi trattenni circa mezza giornata a guardare come nascono le acque del Sammaro, ammaliato dal loro mormorio, in questa gola di selvaggia bellezza, dal fondo della quale intravedevo solo dei pic¬ coli lembi di cielo fra gli squarci della volta costituita dal fogliame degi alberi abbarbicati sugli orli tra loro vicinissimi delle due alte pareti. v — 19 — Nel deflusso di queste acque non avvengono interruzioni come nelle tipiche sorgenti intermittenti. Pochi metri a valle della scaturigine, ho osservato, piantando a varie distanze dalle rive dei picchetti, che essi venivano prima rag¬ giunti dalle acque, poi sommersi, indi riemergevano rimanendo infine nuovamente all’asciutto. Le invasioni e le ritirate delle acque nell’alveo si ripetono ad in¬ tervalli di circa 15 minuti. Ogni tanto avviene uno straripamento mag¬ giore degli altri. Queste alternative sono tanto evidenti che i nativi, osservando le sommità degli scogli che scompaiono e riappaiono al centro del fiume, dicono che esso cc rnanticea », ossia che si allarga e si restringe come un mantice. L’ing. Eugenio Perrone, nelle scritto citato innanzi, scambia la valle del Ripiti con quella del Sammaro; inoltre denomina cc antro » la strettissima valle del secondo corso d’acqua, mentre essa è invece un vero canon, è ingenera così confusione nel lettore. Il traforo per accedere al sopra elevato canon del Sammaro, sbar¬ rato inoltre dalla cascata, fu fatto in occasione di lavori, ora abban¬ donati, tendenti a sfruttare l’energia idrica del salto. Questo traforo non esisteva al tempo in cui l’ing. fece le sue osservazioni. Difatti della forra del Sammaro, il precitato autore dice che « appena pic¬ colo tratto se ne scorge al di là dell’imbocco ». Egli dunque non po¬ tette giungere alla sorgente del Sammaro, della quale, ciò non per¬ tanto, oltre che a negar l’intermittenza, dice che sgorga su di uno scalino alto 3 m., mentre invece nasce sull’alveo. Se l’ing. Perrone, idraulico di chiarissima fama, fosse stato sul posto, non gli sarebbero sfuggiti i fenomeni di intermittenza che si osservano nella sorgente. Questi sono da attribuirsi certamente al¬ l’azione carsica che ha traforato i calcari del massiccio del Cervati come una spugna. Il deflusso continuo della sorgente del Sammaro proviene da un condotto principale di tipo normale; mentre i perio¬ dici straripamenti potrebbero essere messi in relazione con uno o più sifoni che si scaricano nel suddetto condotto principale. Qualunque sia la spiegazione che si voglia dare al fenomeno, la sorgente del Sammaro presenta indubbiamente delle periodiche varia¬ zioni di portata, per cui, se a rigor di termini non si voglia classifi¬ carla per intermittente perchè il deflusso non subisce interruzioni, si potrebbe appropriatamente denominarla cc Sorgente pulsante ». Esperienze per la diagnosi biologica di gravidanza con urina di donna Nota del socio Pietro Parenzan (Tornata del 31 marzo 1948) L'importanza della diagnosi biologica precoce della gravidanza è ben nota, e non ritengo perciò necessario trattenermi sull’argomento . Le ricerche sperimentali risalgono alle proposte del Binz (1926), e da quell’epoca per un decennio vari studiosi si dedicarono alla ri¬ cerca di un metodo che desse risultati sufficientemente attendibili nel tempo più breve possibile e con manipolazioni non difficoltose, in modo da rendere possibile e conveniente l’uso del metodo nella pra¬ tica corrente. Si susseguirono varie proposte, e fra esse ricorderò la reazione di Siddal {sulla proposta del Binz, 1926), che richiedeva 25 cc. di sangue di donna per utilizzarne il siero [dopo 6 giorni di iniezioni di siero sottocutanee in topine impuberi, uccisione e pe¬ sata; estraz. utero e ovaie, e pesata; divis. del peso totale per quello degli organi (in mmgr): se la cifra risultante è 400 o meno la donna è incinta, se lo supera, la reaz. è negativa; risultati precisi in pro- porz. del 76[%‘] ; le prove di Fels, quelle di Mazer e Hoffman. la rea¬ zione di Hirsch-Hoffmann e quelle di Mandelstamm e Klapun che richiedono la ricerca istologica; la prova di Laffont e Chiapponi (1930) su ratte adulte non castrate (provocazione di una fase estrale prolungata), la reazione di Kelly (1933) su topoline bianche e rat- tine immature, la reazione di Markee (complicato trapianto di un frammento di endometrio nella camera anteriore deH’occhio di coni¬ glia), le varie esperienze sulla reazione dei melanofori in Rana, la reazione di Sommer (1934) basata sulla reazione dell’aeetonitrile in topi, la reazione di Florini (1933) su cavie impuberi per provocare l’aumento dei corpi di Kurloff Foà-Carbone inclusi nei leucociti mononucleari, la reazione di Dondoli (1933) basata sull’allargamento dell’areola dei capezzoli in coniglia impubere in seguito a iniezioni sottocutanee di urina di donna gravida, la reazione di Masciotta e Martinez in cavie maschi e femmine basata sull’aumento del 30-50% del tasso colesterinieo nel sangue, la reazione di Ehrhardt e KÙHN (1933-34) sul Rhodeus amarus , pesciolino dulcacquicolo dell’Europa centrale, nella cui femmina, aggiungendo urina di donna gravida al- — 21 — l’acqua dell’acquarietto, si sviluppa ventralmente un organo a tubi¬ cino (ovopositore), ecc.. Le esperienze di Pàpoff e dei suoi collabo¬ ratori sulle cisti del protozoo flagellato Euglena yiridis dimostrarono che l’u. di donna gravida determina in esse particolari modificazioni. I due metodi di uso corrente sono quelli di Ashheim-Zondek su to¬ poline bianche e di Friedmann su coniglie. Queste due reazioni, di facile esecuzione, sono basate sulla comparsa, in seguito ad opportune iniezioni di u. di donna gravida, di corpi emorragici ben evidenti nelle ovaie, oltre ad alcune alterazioni del sistema sessuale in gene¬ rale. La più utile in uso è la reazione di Friedmann, che dà il re¬ perto in 48 ore (è però la meno economic a). Più recentemente (Edward R. Elkan, Brit. Med. Journ ., f. 17- 12-1938, p. 1253) è stato riferito sulFimpiego di un rospo dell’ Africa meridionale e tropicale, lo Xenopus laeyis (caratterizzalo dalla pre¬ senza di unghiette alle dita posteriori), nelle cui femmine di media età, tenute isolate, l’iniezione di u. di donna gravida provoca l’aborto ovulare, cioè l’emissione di piccole uova immature, come granellini di pepe. La reazione è data entro cinque o al massimo 12 ore. Si deve tenere l’animale alla temperatura di 26°C. Si considera reaz. positiva remissione di 5-6 uova o più; negativa se le uova sono in numero minore. Il periodo migliore per la reazione sarebbe 2-3 settimane dopo la prima mancanza mestruale (nel 1° mese). Nel Kenya ebbi 1’oceasione di fare qualche prova sugli Xenopus che tenevo in alle¬ vamento; ina registrai qualche incertezza. Notizie dettagliate su que¬ sto metodo si possono trovare in « British Medicai Journal », fase. 17- 12, 1938. È recentissima la notizia di nuove esperienze delFargenlino Gal¬ li Mainini, il quale ha trovato un metodo che per la sua praticità, facilità tecnica, rapidità e precisione, è da preferire agli altri metodi in uso. La tecnica descritta è la seguente: dieci co. di urina vengono iniettati nel sacco dorsale linfatico del Rospo maschio, dopo accer¬ tata l’assenza di spermatozoidi nell’urina prelevata dalla cloaca. In caso di positiv ità, già dopo 45 minuti gli spermatozoidi. mobili, fanno la loro comparsa in gran numero nell’urina del rospo, e permangono per circa 24 ore. La reazione riesce utile già nei primissimi tempi della gravidanza, spesso addirittura ancora prima della mancata me¬ struazione. Questo metodo rappresenta quindi un vero e notevole pro¬ gresso nella diagnosi precoce della gravidanza. Io ho voluto compiere delle esperienze per accertare se la rea¬ zione si manifesta anche nella specie nostrale Bufo yiridis (Rospo smeraldino), quale è, in caso affermativo, il limite minimo quantita¬ tivo dell’urina da iniettare, e quale l’attendibilità dei reperti. Senza dilungarmi neiresposizione delle varie esperienze e ripor- — 22 — tare le tabelle particolari dei risultati conseguiti, ciò che mi farebbe oltrepassare i limiti di spaziò assegnati alla stampa della presente comunicazione, riferisco per sommi capi i risultati pratici ottenuti. 1) Il metodo escogitato dal Galli Mainini di Buenos Aires è applicabile con successo anche sul nostrale Rospo smeraldino ( Bufo vi ridi s). 2) Il B.v. è molto sensibile all’azione delle sostanze gonado¬ trope contenute nell’urina di donna gravida, e per ottenere la rea¬ zione positiva è sufficente iniettare 0,5 cc. di urina nel sacco dorsale linfatico dell’animale. 3) Nei casi positivi gli spermatozoidi compariscono nell’urina del rospo già dopo mezz’ora in media, e dopo 24 ore sono ancora presenti per un periodo variabile fino alla 80a ora o più. 4) Gli stessi effetti si ottengono iniettando burina nei muscoli della coscia. 5) Iniettando 4 cc. di urina la reazione è validissima; non è ne¬ cessario iniettarne, 10. 6) Dopo una prova negativa bisogna lasciar trascorrere due gior¬ ni prima di riutilizzare lo stesso animale. Per una terza prova la¬ sciar trascorrere un periodo di riposo più lungo. È opportuno fare la prova sempre su 3-4 animali, per evitare er¬ rori dovuti ad eventuali stati patologici od anomalìe particolari degli anfibi con conseguente alterazione fisiologica del sistema sessuale. In conclusione, usando il Bufo viridis per il metodo che possia¬ mo chiamare abbreviatamente « Reazione Bufo G.M. », propongo il seguente procedimento: 1) Impiego di 4 animali (per misura precauzionale). 2) Controllo preliminare dell’urina (assicurarsi dell’assenza de¬ gli spermatozoidi). 3) Urina di donna raccolta in qualunque ora del giorno, filtra¬ ta, non sterilizzarla a caldo. 4) Una sola iniezione di 4 cc. di urina in due animali, nel sacco 1. dors. 5) Una sola iniezione di 1 cc. di urina in due animali nel sacco 1. dors. 6) Riposo dei rospi in recipienti separati, al riparo dalla luce viva e possibilmente a temperatura non bassa in inverno. 7) Esame dell’urina dei rospi (prelevamento con pipetta per capillarità) dopo 1-2 ore. 8) Per ogni esame usare vetrini ben puliti, non gli stessi dopo un esame positivo (a meno di sottoporli ad accurato lavaggio). 9) Per ogni esame usare pipette ben pulite, non le stesse dopo un esame positivo (a meno di sottoporle ad accurato lavaggio). — 23 — Con tali accorgimenti ho avuto risultati precisi al 100% senza nessun caso d’incertezza. In media riscontrai che gli spermatozoidi comparsi nelLu-rina di Bufo viridis in seguito ad iniezione d’urina di donna gravida, perman¬ gono in piena vitalità anche per due giorni. Nel terzo giorno comin¬ ciano a perdere la loro vitalità, e ad agglutinarsi a gruppetti di fino 100 e più elementi. Nel quarto giorno tutti gli spermatozoidi si pre¬ sentano immobili ed in parte maggiore agglutinati. Avendo constatato che un animale può venir riutilizzato per più prove successive, sarà prudente attendere 5 o più giorni prima di una seconda prova nei casi di risultato positivo. Nei casi negativi è suffi- cente lasciar riposare Laminale, come già dissi, per alcuni giorni; però è consigliabile la rotazione, con più animali, onde dar loro mag¬ gior riposo. Del resto, dato il piccolo costo degli animali, si potrebbe anche far uso di soggetti sempre nuovi. La resistenza del Bufo viridis è notevole. In tutti gli esperimenti compiuti ne morì solo uno, circa 18 ore dopo subita uiriniezione di 4 cc. di urina putrida, abbandonàta per 7 giorni, senza aggiunta di antisettici e non filtrata; il rospo era notevolmente esausto perchè subì tre prove diverse in otto giorni, e per uno scatto inatteso delLa- nimale l’ago penetrò profondamente ledendo organi interni, con con¬ seguente iniezione di urina infetta. Un notevole vantaggio è dato dal fatto che, trattandosi di un ani¬ male eterotermico. è meno sensibile alle infezioni che non i mammi¬ feri (Coniglia e Topolino), e si può iniettare quindi anche burina vecchia, in pessime condizioni, inviata al laboratorio da località lon¬ tane, senza necessità di particolari trattamenti disintossicanti (che anzi devono essere evitati). L’attendibilità dei risultati è uguale (e fors’anche maggiore) a quella del metodo di Friedmann. Istituto Biologia Applicata Prof. P. P arengari. Napoli, via C. Rossaroll 95. 29 febbraio 1948. LEOPOLDO PILLA (1805-1848) Commemorazione letta dal socio Felice Ippolito (Tornata del 26 maggio 1948) Si compie in questi giorni un secolo dalla gloriosa giornata di Curtatone nella quale la splendida resistenza dei battaglioni volon¬ tari toscani sbarrando il passo, per una intera giornata, ad una divi¬ sione dell’armata austriaca, permise all’esercito piemontese di co¬ gliere, sui campi di Goito, la « prima italica vittoria ». Alla testa della F compagnia del battaglione universitario, orrendamente sfracellato da una scheggia di mitraglia, che gli troncò l’avambraccio sinistro e gli squarciò il ventre, cadeva il capitano Leopoldo Pilla, professore di Geologia nell’Università di Pisa. Soccorso da alcuni compagni d’ar¬ mi, mentre veniva trasportato verso l’argine dell’Osone, due sole frasi riuscì a stento a profferire prima di spirare: « troppo presto » e cc Viva l’Italia ». « Troppo presto »: era nato infatti Leopoldo Pilla solo quaran¬ tatre anni prima, il 20 ottobre 1805, a Venafro, da Nicola, medico e naturalista, e da Anna Marchi. Ma appena quattordicenne, per com¬ piere i suoi studi, venne a Napoli ove fu allievo di Matteo Tondi, di Teodoro Monticelli e di Michele Tenore e fu tra i più fedeli di¬ scepoli di quella scuola privata di Basilio Puoti, del quale serbò sem¬ pre grata memoria. A Napoli iniziò, dal giorno in cui ascese per la prima volta il cratere del Vesuvio, il 21 febbraio 1830, la sua attività di acuto indagatore dei misteri della natura e quivi visse dal 1819 al 1842, allorché « dalla bella Partenope alla dotta Pisa venne, per otti¬ ma scelta di sagacissimo Principe, a professar Geologia » (1). Ond’è che il Consiglio Direttivo di questa Società, erede di quella Accademia degli Aspiranti Naturalisti, che lo ebbe Suo socio, inter¬ prete dell’unanime sentimento di tutti, ha voluto ricordarlo nel cen¬ tenario della Sua gloriosa morte. Cercherò pertanto di rievocare bre¬ vemente la vita di Leopoldo Pilla e di illustrare, attraverso l’analisi (4) Parole di Lorenzo Pareto al V Congresso degli Scienziati Italiani, temuto in Lucca nel 1843. 25 — dei molti suoi scritti (1), il contributo notevole, per precisione di os¬ servazione e genialità di sintesi, da lui apportato alle conoscenze geo¬ logiche del nostro Mezzogiorno ed al progresso della Geologia. Dal padre Nicola, autore di pregevoli lavori di geologia e litolo¬ gia, tra i quali basterà ricordare la cc Geologia vulcanica della Cam¬ pania » ed il cc Saggio litologico dei vulcani estinti di Roccamonfina, di Sessa e di Teano », ove riconobbe per primo la natura vulcanica di quei monti, ereditò Leopoldo Pilla l’amore grande per le scienze na¬ turali e la dirittura del carattere; dalla scuola del Tondi, di cui sem¬ pre si professò allievo, trasse lo spirito acuto d’osservazione e la se¬ rietà del metodo; dall’insegnamento del Puoti, l’eleganza del dire e la precisione della lingua,- onde i suoi scritti vennero celebrati per lo a stile chiaro, puro, elegante, senza colpe e senza affettatura » (2). Dopo l’addottoramento in medicina, conseguilo nel 1825, Leopoldo Pilla si dedicò completamente agli studi di orittognosia , come allora usava dire, e di geognosia , e nel 1830, dopo alcuni anni di raccogli¬ mento, iniziò la sua sorprendente produzione scientifica: tra questi primi lavori ricorderemo la « Narrazione di una gita al Vesuvio fatta nel dì 26 gennaio 1832 », il « Cenno storico sui progressi della orit- tognosia e della geognosia in Italia » e finalmente la pubblicazione pe¬ riodica cc Lo spettatore del Vesuvio e de’ Campi Flegrei », divenuto poi il cc Bollettino geologico del Vesuvio e de’ Campi Flegrei », nel quale la precisione dell’osservazione è congiunta ad una solida prepa¬ razione di fisica e di chimica. Ed infatti, riconoscendo l’importanza che queste due scienze rivestono per lo studio dei fenomeni vulca¬ nici, il Pilla fu il primo a dimostrare l’opportunità di istituire una commissione permanente, composta da un geologo, da un chimico e da un fisico, che, provveduta di lutto il necessario, si dedicasse allo studio del vulcano ed alla pubblicazione dei fatti osservati ed auspicò che ad opera di questa commissione fosse scritta una cc storia fisica » del Vulcano, importante non solo per la geologia, ma altresì per la chimica e la fisica; cc opera che il mondo dotto attende da noi perchè per la nostra posizione siamo i soli a poterla intraprendere e menare a compimento ». Germi questi che daranno ben presto i loro frutti al¬ lorché, tredici anni dopo, in occasione del VII Congresso degli Scien¬ ziati Italiani, in Napoli, verrà solennemente inaugurato l’osservatorio Vesuviano ove, ad opera di tutta una schiera di studiosi italiani, dal (1) Per la bibliografia rimandiamo a quella completa che diede il Bassani (Bassani F.. In memoria di L. Pilla. Rend. Ace. Se. Fi», e Mat.: Sede 3, XI, Napoli 1905; pag. 477). (2) Il Lucifero; anno III, pag. 145, «. 18 del 10 giugno 1840. — 26 — Palmieri al Mercalli, si affermerà il primato italiano, dal Pilla au¬ spicato, negli studi di vulcanologia. Nel 1832 Leopoldo Pilla fu in¬ vialo dal Governo a Vienna, quale membro di una commissione medica per lo studio del colera: durante il viaggio raccolse una serie di os¬ servazioni geognostiche che, pubblicate nel 1834, gli valsero il gene¬ rale plauso del mondo scientifico europeo. Nello stesso anno pubblicò le « Osservazioni geognostiche sulla parte settentrionale e meridionale della Campania », opera già matura, nella quale sono per la prima volta impostati alcuni problemi fondamentali per la geologia della nostra regione. Non sai in questo scritto, che si legge ancora oggi con profitto, se ammirare di più la precisione delle osservazioni strati- grafiche e litologiche sui calcari dei monti di Pietraroia, del Labur¬ no. del Tifata e del M. Grande di Caiazzo, attribuiti tutti, secondo Copiinone corrente dell epoca, al Giura, o l’intuizione deHimpor- tanza stratigrafica e della funzione morfologica della arenaria terzia- zia, « immediatamente soprapposta al calcare degli Appennini o per dir meglio adagiata ai suoi fianchi » e che « forma una serie di col¬ linette effondile, a pendii dolcissimi, che ora sono adagiate alle falde dei Monti Appennini, ora ostruiscono le valli circoscritte da questi, ora ne occupano lutto il bacino ». In questo lavoro, che sopravanza di gran lunga le precedenti opere sullo stesso argomento del Breislak e di Nicola Pilla, troviamo per la prima volta rilevata l’esistenza delle marne, che si accompagnano alla arenaria, e sovratutto dei conglo¬ merati poligenici del flysh , nei quali la presenza dei ciottoli di graniti e di gneiss attirò subito l'attenzione del nostro geologo, che impostò chiaramente il problema della provenienza di tali materiali cristallini. La descrizione petrografica della arenaria, messa opportunamente in analogia con le « molasse » delle zone « prealpine » dell’Ungheria e della Svizzera può ancora, a più di un secolo di distanza, essere presa a modello per l’ordine e la chiarezza della esposizione, quale non frequentemente si trova nei petrografi d’oggi. Per quanto con¬ cerne il problema dei tufi vulcanici che non solo formano tutta la pia¬ nura campana, ma che si insinuano in tutte le valli degli Appennini e si rinvengono fin oltre Benevento, poggianti sopra i calcari e sopra i ce terreni sabbionosi » terziari, talvolta con notevole potenza, le dedu¬ zioni del Pilla non furono invece felici, in quanto Egli erroneamente ritenne che mentre il tufo giallo napoletano provenisse dai vulcani flegrei, il tufo grigio campano, di maggiore estensione, provenisse dal vulcano di Boccamonfìna. La gloria di risolvere questo problema spettò invece, parecchi anni di poi. ad un più giovane amico e com¬ pagno di studi del Pilla, ad Arcangelo Scacchi. Il decennio dal ’30 al ’40 fu dal Pilla principalmente rivolto allo studio dei fenomeni vulcanici. AlTA^cademia Cioenia di Catania, il — 27 — - 18 settembre 1835, lesse una relazione « Parallelo tra i tre vulcani ar¬ denti dell’Italia » nella quale esamina minutamente i caratteri del- l’attiyità vulcanica del Vesuvio, dell’Etna e della Stromboli; spiega perchè i vulcani di gran mole, come l’Etna, diano sempre luogo ad efflussi lavici laterali e perchè all’incontro i piccoli vulcani, come lo Stromboli, non possono dare che efflussi centrali; afferma in modo reciso la funzione prevalente che hanno i gas, quali fattori dei fe¬ nomeni magmatici, idea allora nuovissima e che ancor oggi, da qual¬ che vecchio vulcanologo, sembra negletta. Acute indagini egli rivol¬ ge anche al problema delle « fiamme », da lui osservate alla bocca del Vesuvio e alla forma di quel vulcano. Dominava infatti allora la famosa teoria dei crateri di sollevamento alla quale il PILLA si oppone col mostrare come la struttura del Somma e quella del Vesuvio siano simili ed affermando che se anche il cono vesuviano fosse inciso da profondi canaloni, come quello più antico del Somma, si vedrebbero anche lì, come in questo, « migliaia di letti di lave e di conglomerati vo'lcaniei di natura diversa, i quali discorrono con andamento vario e con inclinazione anche differente, trasversati in forma bizzarra da centinaia di filoni o, come si dicono dighe, nelle quali la varietà me¬ desima si osserva ». Su questo concetto egli tornerà successiavmente nel trattato di Geologia, pubblicato in parte postumo, nel quale, come vedremo, la gran parte dei capitoli che trattano dei fenomeni vulca¬ nici sono il frutto, giunto a maturazione, delle sue osservazioni gio¬ vanili. Non è possibile, per la brevità dei tempo, esaminare parti tamente tutti i numerosissimi scritti del Pilla, pubblicati tra il ’30 ed il ’40; citerò ancora brevemente la cc Relazione dei tremuoti che afflissero la città di S. Germano e il monastero di Monte Cassino nella primavera del corrente anno 1837 », ove, esaminati gli effetti de! terremoto, si riconosce obbiettivamente la difficoltà di intenderne le cause, ma si adombra la possibilità che esso non abbia origine vulcanica; le lettere sulla geologia della Calabria; la nota « Sulla questione del Serapeo » ove in contrapposizione a quanto affermato dal Tenore, si riconosce che i fenomeni bradisismici del famoso tempio di Pozzuoli non sono fenomeni localizzati, ma devono essere studiati in connessione con tutti gli analoghi fenomeni del litorale tirreno. Su questo argomento egli ritornerà più ampiamente nel trattato, anticipando di oltre mezzo secolo la conclusione che ai fenomeni bradisismici devesi probabil¬ mente ascrivere l’impaludamento di vaste plaghe del versante tirre¬ nico, così concludendo: « da fatti citati si deduce che le variazioni del livello del mare in Italia sono fenomeni estesi, e non derivino già, secondo che alcuni hanno affermato, da cause locali, come da azioni vulcaniche, da depressione di suolo o da altre cagioni simili, perocché 28 — oltre a quelle che si osservano in molti luoghi delle coste italiane, si veggono poi in ogni spazio di suolo, nei luoghi vulcanici (Pozzuoli), nei terreni di elevazione (Ravenna) e nelle rocce solide e compatte (rupi di Gaeta, Capo Argentaro). La causa produttrice di questi fenomeni è la medesima che quella. che genera i tremuo-i e l’eruzione de’ vulcani, senonchè vario è il suo modo di operare in queste tre cir¬ costanze diverse ». Non mancarono al Pilla durante questi anni, mentre rapidamente la sua fama andava affermandosi in Italia e fuori, come ne fan fede le numerose lettere da Lui scambiate in questo periodo con i migliori scienziati europei, quali I’Humbolt, il Von Buch, il De Beaumont, I’Arago, il SlSMONDA, il Savi, incarichi ufficiali. Per la Società Sebezia eseguì ricerche intorno ai carbon fossile della Provincia di Teramo; per incarico del Ministro Segretario di Stato per gli affari interni re¬ dasse una serie di rapporti « sulla struttura geologica » e « sulla gia¬ citura dei marmi e alabastri del Gargano »; lavoro fondamentale per la geologia di quella penisola, i cui risultati, a prescindere dall’attri¬ buzione di età, sono restati praticamente immutati fino all’epoca dei rilevamenti compiuti da Checchia-Rispoli dopo il 1920. La descri¬ zione topografica della legione è così precisa che, pur essendo mutati molti nomi di località, può seguirsi agevolmente sulla carta il tragitto compiuto dal Pilla, che fu il primo, tra l’altro, non solo a mettere in luce la grande varietà ed i jvregi dei marmi del Gargano, ma a ri¬ conoscere l’importanza petrografiea e geologica delLaffioramento di calcare scuro e di rocce ignee basiche della Punta delle Pietre Nere. Frattanto, nel 1835, moriva Matteo Tondi, di cui il Pilla pub¬ blicò un’accorata necrologia, e restava vacante la cattedra di Mine¬ ralogia nell’Lniversità di Napoli, di cui Egli sarebbe stato il degno titolare. Ma non valsero balta stima in cui era tenuto dai maggiori geologi del tempo e le più vive ed insistenti raccomandazioni di questi per dargli questa stabile e decorosa posizione, che « vecchi barbasso¬ ri », probabilmente invidiosi della fama e della prodigiosa attività del giovane scienziato, ostacolarono tanto disegno. Il Pilla allora, per provvedere alle sue scarse risorse finanziarie e più ancor mosso dal de¬ siderio di non far tacere, in una città particolarmente adatta per gli studi geologici e vulcanologici, la voce deH’msegnamenlo in queste materie, aprì nel giugno 1838 un insegnamento libero di geologia, nella sua abitazione di Strada Fuori Porta S. Gennaro ai Vergini, n. 10, del quale diede annunzio con un breve « Prospetto », ove esalta la Scienza, cui ha dedicato la vita, con parole che ancor oggi non si leg¬ gono senza viva commozione. Nè trascura di illustrare, con dovizia di esempi, 1’ importanza 29 — pratica che ha la Geologia, scienza nella quale si trovano riunite in eminente grado cc l’utile ed il diletto ». Infatti la Geologia cc si vuol tenere l’ausiliaria efficacissima della scienza degli ingegneri, tanto che possiamo dire essere giunti ad un tempo che questa scienza non sa¬ prebbe andare più da quella disgiunta; perciocché a parte dei lumi che ringegnere può attingere dalla geologia intorno alle varie qua¬ lità di pietra da costruttura, ai marmi per abbellire, alle pozzolane, alle terre idrauliche, ed a tante altre svariate materie naturali, delle quali deve continuamente far uso, chi non vede che i lavori di geo¬ desia, di topografia, di idrografia hanno per necessità bisogno della fiaccola della geologia per poter essere compiuti e perfetti? E mi lac¬ cio dell’assoluto bisogno che hanno di essere versati negli studi geo¬ logici coloro tra gli ingegneri i quali intendono a quella utilissima arte del foramento dei pozzi artesiani, che è tanto manifestò tal bi¬ sogno che ognuno per sé stesso il vede, e non ha mestieri di parole per esser dimostrato. Infine oso dire che a questi giorni le conoscenze geologiche, chi ben le stima, sono tenute egualmente o poco meno necessarie che le matematiche a quell’ordine di persone che applica all’arte di regolare le grandi opere pubbliche come strade, canali, ponti, arginamenti di fiumi e cose simili ». NelLanno successivo e precisamente il 21 aprile 1839, nella sala dell’Accademia Pontaniana, Leopoldo Pilla pronunziava il celebra¬ to « Discorso accademico intorno ai principali progressi della Geolo¬ gia ed allo stato presente di questa scienza » nel quale egli fa, come si suol dire, il punto dei progressi della geologia negli ultimi anni e riafferma l’importanza che questa, ultima venuta tra le scienze natu¬ rali, ha acquistato nei primi anni del secolo. Accennato all’annosa polemica tra nettunisti e plutonisti ricorda come « di questa lite non rimane più che la memoria, e le cose si sono composte a tal segno che si è dato a Nettuno quello che era di Nettuno ed a Plutone quello che gli si apparteneva » e riconosce esplicitamente l’origine ignea del gra¬ nito e le relazioni intercorrenti tra le plutoniti e le vulcaniti. Mira¬ bile è l’equilibrio che il PILLA dimostra nell’assegnare a ciascuna branca delle scienze geologiche il posto che ad essa compete. La vi¬ sione unilaterale, che tanto ha nuociuto, e tuttora nuoce nel campo della geologia, a causa della quale il paleontologo non vuole che par¬ lare di fossili e il tettonista non vede che faglie e falde di ricoprimen¬ to, non era nella visione superiore, direi moderna di Leopoldo Pilla. il quale mentre riconosce la funzione predominante che ha la Paleon¬ tologia nello stabilire la successione stratigrafica, concede pienamente ai fenomeni eruttivi ed a quelli metamorfici la loro importanza (1) (1) Neiranno precedente, infatti, in una lettera ad E. De Beaumont indicava 30 — ecl intuisce nel contempo lo sviluppo che avranno in futuro gli studi di chimica geologica, « campo novello di sapere dove chi si caccerà con animo pronto e ben preparato sarà certo di cogliere lietissime palme ». Riassunti i principali progressi della geologia e riconosciuto il contributo apportato ai progressi di questa scienza dagli scienziati ita¬ liani, dal Sis monda al Savi, dal Brocchi al Gemellaro, egli prorompe in queste parole « quando il giovane geologo avrà piena la mente di queste grandi contemplazioni di natura, si vedrà trasportato in una regione beatissima che è più vicina al soglio dell’Eterno. Ed egli al¬ tresì di questa Terra che tiene in pugno dimenticherà tutto il male e le ingiustizie e vivrà una vita che non si conosce dal volgo fortunato ». Non v’è chi non senta in queste parole beco di tutta l’amarezza che il Pilla dovè provare, non vedendo riconosciuti i propri meriti dal governo borbonico. Infatti, incalzato anche dal bisogno materiale, si rivolge ad Elie De Beaumont perchè gli trovi una degna occupa¬ zione in Francia e questi, che pur vivamente desiderava di averlo vi¬ cino, gli scrive come sia difficile trovare a Parigi un posto rimune¬ rativo e come purtroppo parecchi stranieri colà rifugiati ne facevano la triste esperienza (25 settembre 1839). Ma scoraggiarsi non è delle anime forti e Pilla riapre nell’anno seguente per la terza volta, il corso libero di Geologia con una cc Prolusione » nella quale, fatto cenno dei principali argomenti svolti negli anni precedenti e di quelli che intende svolgere nel futuro, mostra come il suo insegnamento dia buoni frutti perchè gli allievi accorrono in numero sempre cre¬ scente e tra essi sono anche rappresentanti del sesso gentile: « E non vò qui tacermi di cosa che certamente onora assai la presente condi¬ zione intellettuale del nostro paese chè non pure il numero de’ miei cortesi uditori è cresciuto quest’anno, ma il nuovo mio corso sarà ancora onorato da persone del sesso gentile, le quali sono decoro ed ornamento del sesso cui appartengono. È ciò «è certo un bel passo nella civiltà nostra; ed è nuovo esempio fra noi. Il quale, mi giova sperar¬ lo, sarà in appresso imitato da altre gentili che hanno abito di cor¬ tesia ed amore di scienza ». Trascorse così ancora un altro anno in dura aspettativa e final¬ mente nell’agosto 1841 Leopoldo Pilla fu proposto da Mons. Maz¬ zetti, Presidente per la P. I., all’ufficio di professore interino della cattedra di Mineralogia, tuttavia vacante. Assunto tale ufficio provvide subito, il 4 settembre seguente, a far nominare suo « coadiutore per la dimostrazione degli oggetti » il più giovane collega ed amico Ar¬ cangelo Scacchi. Ma la nomina definitiva del Pilla era sempre av- nei marmi di La troni co (Basilicata) i prodotti detrazione metamorfica esercitatasi su calcari marini. — 31 — versata, come deduciamo da una sua lettera inedita (1) del 6 settembre dello stesso anno a Paolo Savi, nella quale lamentando di non poter intervenire alla III Riunione degli Scienziati Italiani in Firenze, così si esprime: cc dopo essere stata lungamente vacante la cattedra di Mi¬ neralogia della nostra Università, alla fine si pensa di provvederla. In questa occasione è stato ricordato il mio nome; sono stato ancora proposto, ma voi ben conoscete come vanno affari di tale natura: non mancano ostacoli, gelosie, nimicizie ed è mestieri abbatterli; affron¬ tarli. Sarebbe perciò imprudenza per me lasciar Napoli in questa po¬ sizione di cosa, mi conviene rinunziare al disegno di venire a Firen¬ ze; verranno invece i piccoli lavori ch’io aveva preparati e gli man¬ derò a voi, affinchè gli prendiate in tutela e gli presentiate in mio nome all’Adunanza. Non posso a miglior tutore affidargli. Vi raccomando principalmente lo spaccato geologico, che è frutto di molta fatiga, quantunque a Napoli non fosse stato trovato meritevole di alcuna con siderazione da barbassori vecchi ignoranti e potenti. Nemo propheta in patria sUa. Attendo di essere vendicato da voi e dagli altri miei rispettabili colleghi con imparziale giudizio ». Senonchè intercessioni potenti erano venute in soccorso del Pilla. Due tra i più celebri scienziati di Europa 2 Humbolt e Abaco, visto fallire le loro pressioni presso il governo borbonico, cui probabil¬ mente il Pilla era inviso per aver già fama di liberale, si rivolsero al Granduca di Toscana, che si atteggiava in quell’epoca a protettore delle Scienze e delle Arti. Lo stesso PAOLO Savi, direttore del Museo di Storia Naturale dell’Università di Pisa, che insegnava contempora¬ neamente Zoologia e Geologia, propose al Granduca di scindere l’in¬ segnamento e di affidare la Geologia al giovane scienziato napoletano. E così nel gennaio 1842 Leopoldo Pilla fu nominato professore di Geologia nella I. R. Università di Pisa. Non fu senza dolore che egli dovè distaccarsi dalla tc deliziosa Campania » e dal Vesuvio, campo dei suoi studi prediletti, ma è pur certo che il vedere così degnamente riconosciuti i suoi meriti gli fu cagione di gioia. Nel pieno della gratitudine, il 5 febbraio 1842, così scrive a Paolo Savi : « la nave è giunta in porto a gonfie vele, ed es¬ sendo Voi stato il nocchiero guidatore a Voi si deve la prima mercè. Vi ringrazio dunque quanto so e posso della vostra mediazione e coo¬ perazione per farmi nominare Vostro collega nella carica come era innanzi nella scienza: e adempio a questo dovere per adesso per iscritto, riserbandomi di dire il resto allorché avrò il piacere di ab- 1 1) Questa lettera, come le altre che citerò più innanzi, mi sono state corte- semente inviate itn visione dalla Biblioteca dell’Università di Pisa. Ringrazio per¬ tanto qui il Rettore ed il Bibliotecario di quella Università. 32 — bracciarvi. Io verrò lieto in Toscana, nella vostra terra, la quale mi ha sempre eccitata simpatia, e deve eccitarla a tutti coloro i quali vivono vita intellettuale e contemplativa. Verrò a studiare il vostro paese nella vostra carissima compagnia, e mi saranno guida i lavori da voi pubblicati, i quali meritamente sono stati applauditi dall’uni¬ versale. Voi forse non mi sdegnerete a compagno, e uniti assieme po¬ tremo recare alia nostra scienza quel vantaggio che gli economisti di¬ cono risultare dalla unione del lavoro. E però fin da questo momento vi prego di essere il mio amico di confidenza, il mio consigliere, il mio duca nella nuova terra che vado ad abitare, dove il comune suono del si non mi farà credere di essere fuori della mia patria; e veramente questo suono ci rende tutti abitatori di un medesimo paese ». Sistemati poi gli affari a Napoli, ove rinsegnamento interinale della Mineralogia venne affidato «allo Scacchi, Leopoldo Pilla partì per la Toscana e raggiunse Pisa sul finire del giugno 1842. Nello stesso anno il Granduca lo incaricò di recarsi a Padova alla IVa riu¬ nione degli scienziati italiani, ma mentre con amici e colleglli muo¬ veva a quella volta fu fermato sui confini dello Stato Veneto dalla polizia austriaca e dovè tornare indietro. « Avete certamente avuto notizia — scrive al Savi (1) — della mia respinta dai confini austriaci, in proposito della quale molte cocenti dovrei dire e che pur vi dirò a voce. Ora soltanto vi fò sapere che mosso da disdegno per tale si¬ nistra avventura lasciai subito Ferrara e per rifarmi del dispiacere sofferto mossi per la Romagna, visitando Imola, Fidenza, Ravenna e Forlì. Onde ripassando T Appennino sono giunto stamani a Firenze. Qui ho trovato un mondo di novità, tra le quali il contrordine per la mia ammissione a Padova e mi è stato consigliato o per dir meglio ingiunto di recarmi subito a quella città innanzi la fine del congres¬ so ». Anche questa seconda volta -però il viaggio non andò regolar¬ mente e Pilla, brutalmente perquisito dalla sbirraglia austriaca, esclama « Oh felice paese, oh Toscana benedetta! ». Il 15 novembre 1842 Leopoldo Pilla apre solennemente il suo corso a Pisa con un cc Discorso proemiale », mirabile per la limpi¬ dezza della esposizione nel quale riconoscendo tra l’altro il valore sintetico della Geologia, paragona questa sciènza ad un « gran fiume al quale mettono tributari tutti gli altri rami della storia naturale ». Ed inizia poi la sua nuova vita: come i corsi universitari e gli esami glielo permettono, è in peregrinazione per la Toscana, solo talvolta, ma più di frequente in compagnia del collega Savi o di allievi. Fe¬ ti) Lettera inedita del 23 settembre 1842. — 33 — tonda è l’attività scientifica del Pilla in questo periodo, quasi che egli presago della prossima morte, voglia dare alla Scienza lutto quan¬ to possa. Citeremo, tra l’altro, oltre le numerose note restate ine¬ dite, le « Osservazioni sopra i gabbri dell \Ap pennino di Firenze », il « Breve cenno sopra le ricchezze minerali della Toscana », varie relazioni sul terremoto che desolò la Toscana il 14 agosto 1846, le « Osservazioni sull’età della pietra di Casciana » e finalmente le va¬ rie lettere al padre « Sopra la temperie del pozzo di Montemassi in Toscana » e sulle varie gite compiute, all’isola d’Elba ed a Volterra, nelle quali, accanto alla analisi dei fatti naturali, v’è il traboccante affetto per questa sua nuova patria d’adozione e la suggestione dei luoghi ove peregrinò il Divino Poeta. Di uno dei problemi piu difficili, e tuttora in discussione, della geologia della Toscana il Pilla fu il primo a vedere l’importanza e la difficoltà: voglio riferirmi al problema del macigno. Questa arenaria, così simile ai « terreni sabbionosi terziari », dei quali egli aveva già intravisto l’importanza nella Campania, ha infatti una composizione litologica e specialmente una posizione stratigrafica singolare, che non sfuggì all’occhio acuto del nostro geologo. A questo problema egli dedicò varie note e pubblicazioni nelle quali rivendicava l’indipen¬ denza di questa formazione da quelle della Creta, vi associava il cal¬ care alberese con gli scisti ed i calcari nummulitici e comprendeva il tutto in un nuovo piano, cui proponeva il dare il nome di Etrurio. La morte del Pilla, che aveva in animo di dare ancora notevole con¬ tributo di osservazioni alla sua proposta, fece abbandonare questa denominazione, sostenuta anche dal De Beaumont, dal Leymerie e dal Murchison, ma resta ài nostro tutto il merito della intuizione geniale della posizione anomala del macigno e dei terreni ad esso connessi, la cui interpretazione ancor oggi è uno degli enigmi della geologia della Toscana. Presente fu anche il Pilla ai vari congressi degli scienziati ita¬ liani, ove, col pretesto di discussioni scientifiche si incontravano gli uomini più colti dell’Italia del tempo, riaffermando il primato della nostra Patria nel campo delle Scienze e la sua unità morale. Al Con¬ gresso di Padova, nel 1842, presentò ed illustrò uno « Spaccato del- l’Appennino Napolitano ». Al Congresso di Lucca, nel 1843, ove fu segretario per la sezione di Geologia, comunicò nuove osservazioni petrografiche sui terreni delle Alpi Apuane e del M. Pisano e pre¬ cisò il suo pensiero sull’origine dei fenomeni vulcanici. Al Congresso di Milano, nel 1844, lesse il suo cc Saggio comparativo dei terreni che compongono il suolo d’Italia », ove è in germe un programma per la costruzione di una carta geologica d’Italia, che solo 1 Italia unita in¬ traprese venti anni dopo per merito di Quintino Sella. Ai Congresso di Napoli, nel 1845, ripresentò due importanti lavori, « Osservazioni generali sulla struttura geologica della Sicilia citeriore » e « Sulle lave e rocce piroidi affini », già presentati all'Accademia Pontaniana, re¬ stati inediti e purtroppo andati dispersi neirincendio che i tedeschi appiccarono alla Biblioteca delle Accademie di Napoli, nel settem¬ bre 1943. Precipitavano intanto gli eventi; da tutta l’Italia partivano e si intrecciavano le voci ed i richiami dei grandi spiriti, amanti della li¬ bertà, e Leopoldo Pilla è fra questi. Ma non trascura intanto la Scien¬ za e l’insegnamento; nel 1847 intraprende la pubblicazione di quel « Trattato di Geologia diretto specialmente a fare un confronto tra la struttura fisica del Settentrione e del Mezzogiorno di Europa », primo nobilissimo tentativo di dare all’Italia un trattato italiano, emanci¬ pando le nostre scuole dalla servitù dei trattati stranieri. Non è pos¬ sibile qui analizzare i due grossi volumi, ove l’originalità delle os¬ servazioni personali è accoppiata ad una profonda e vasta conoscenza della letteratura di oltralpe. Accennerò solo di sfuggita alla tratta¬ zione ampia e particolareggiata, affatto nuova per l’epoca, delle rocce laviche; alla discussione delle varie teorie sull’origine dei fenomeni vulcanici, in cui Fautore propone una propria felice sintesi dell’ipotesi chimica di Davy e Gay Lussac e dell’ipotesi dinamica di Humbolt e Cordier; alla esposizione chiara ed efficace, ancora oggi utilmente con¬ sultata, della fisiografia e della geodinamica e finalmente alla descri¬ zione delle condizioni dell’Italia nelle varie età, per la quale PILLA è giustamente considerato uno dei precursori dell’indirizzo paleogeo¬ grafico, che si va sempre più affermando oggidì. Ma gli avvenimenti del 1848 travolgono ormai gli studi: il 12 febbraio di quell’anno, i meridionali presenti in Pisa, sono intorno al giovane scienziato per festeggiare i lieti avvenimenti di Napoli. c( Quali saranno le conseguenze della grande rigenerazione delle Due Sicilie? Quale sarà l’avvenire d’Italia? » su questi argomenti parla, nel fervore dell’entusiasmo, Leopoldo Pilla. Pochi giorni dipoi, alla notizia della giornata di Milano, la gio¬ ventù universitaria di Toscana è in armi: Pilla è tra i suoi discepoli, nelle esercitazioni tattiche e nella campagna, ed è ad essi di esempio fino alla morte. Enorme fu in tutta Italia e nel mondo scientifico europeo il cor¬ doglio per la morte di Leopoldo Pilla. Gli allievi in particolare per¬ sero in Lui il maestro amorevole, che, non pago dell insegnamento teorico dettato dalla cattedra, era loro guida nelle escursioni sul ter¬ reno perchè, come tutta l’opera scientifica di Lui dimostra, lo studio * . • — 35 — - veramente efficace della Geologia non è quello che si fa nelle pagine dei libri, ma sul terreno, prendendo contatto diretto con documenti che la Natura stessa ci offre per la ricostruzione della storia della Terra. La Scienza italiana perse uno dei suoi migliori atleti, perchè — come disse il Bassani — le opere di Leopoldo Pilla rimarranno esemplari per « l’originalità delle vedute, per l’ordine e la chiarezza della esposizione e per la copia dei fatti accuratamente descritti e sa¬ pientemente interpretati e discussi ». Ma un insegnamento morale anche più alto diede Leopoldo Pilla. Egli mostrò che al di sopra di tutti gli affetti, è la fede negli ideali che distingue l’uomo di cultura; all’ideale della libertà, alla libertà che è religione , Leopoldo Pilla, uomo di Scienza, sacrificò la pro¬ pria vita; possa la Scienza italiana, possano le Università italiane es¬ sere oggi degne di sì alto esempio. Un giacimento ad Orbitoline presso il M. Coeuzzo (Salerno) Nota del socio Giuseppe Mirigliano (Tornata del 26 maggio 1948) Attendendo al rilevamento geologico del settore compreso fra il corso del Bussento, Sanza, Casalbuono e Sapri, mi sono imbattuto, durante una escursione al M. Coeuzzo, in un giacimento ad Orbitoline, affiorante alla quota di 950-1000 m. s. 1. m. sulla sponda sinistra della mulattiera che, per la contrada Pedali di Casalelto Spartano, va a raggiungere il passo di M. Salice. Non entro qui, deliberatamente, in dettagli di ordine strettamente geo-morfologico e tettonico sulla montagna a cui tale giacimento si riferisce, perchè ciò presupporrebbe una trattazione adeguata anche sui sedimenti più antichi e più recenti con cui tale entità morfologica è in intima relazione. Mi limito, pertanto, a dare qualche semplice ragguaglio sul giacimento predetto nel quale le Orbitoline, abbon¬ dantissime e di relativamente facile isolamento, possono soccorrere per un primo orientamento nella datazione dei calcari incassanti, in cui il grosso della macrofauna è formato da fossili (prevalentemente Camacee e Rudiste) fortemente spatizzati e deformati, che difficilmente si prestano alla determinazione specifica e, talvolta, anche generica. Il M. Coeuzzo, almeno nella parte emergente dai sedimenti più recenti, risulta formato da calcari grigi, più o meno chiari, volgenti al cinereo o al perlaceo, compatti, a stratificazione quasi sempre ma¬ nifesta, che passano localmente o s’intercalano con strati di calcare dolomitico passante talvolta a dolomia sacearoide di colore grigio più o meno scuro, se inalterata, o tendente al bruno giallastro, se inqui¬ nata da idrossidi di ferro prevalente. Tutti questi sedimenti caleareo- dolomitici giacciono in concordanza e danno all’occhio la sensazione di un insieme formatosi durante uno o più cicli sedimentari, almeno in apparenza, non interrotti da fasi di denudazione molto intensa. Nella parte basale, studiabile non molto al di sotto della quota di 700 m., questi calcari non mi hanno fornito ancora dei fossili deter¬ minabili. Soltanto tra le quote di 950 e 1000 m., nella località predetta, il calcare s’inquina per l’intercalazione di lembi marnosi di color — 37 — grigio verdastro, di esigua potenza e di breve estensione orizzontale. Sono queste marne zeppe di Orbitoline le quali, tuttavia, invadono all¬ eile il calcare incassante. Al di sopra di questo livello ad Orbitoline il calcare continua ad essere compatto e lascia scorgere abbondanti sezioni di Camacee e Rudiste, specificamente indeterminabili. In nes¬ sun caso, neppure col metodo della semicalcinazione, mi è riuscito, fino ad oggi, di ottenere esemplari studiabili, nè ho avuto la fortuna di condurre in seno ai predetti fossili sezioni orientate di apprezza¬ bile importanza. !È prudente, pertanto, concentrare, per il momento, la nostra attenzione sulle Orbitoline, in attesa che più fortunati ritrovamenti ci consentano di datare in maniera piu dettagliata di come non facciamo Oggi, i sedimenti che c’interessano. Dalle marne, piu che dai calcari incassanti, con paziente lavoro sono riuscito a isolare numerosissimi esemplari di Orbitoline (alcune delle quali mi hanno fornito anche discrete sezioni sottili), apparte¬ nenti alle seguenti specie che trascrivo, indicando a margine la fre¬ quenza con cui esse si presentano: Orbitolina concava (Larnarck) (frequentissima) » Paronai Prever (poco frequente) )> bulgarica Deshayes (poco frequente) )> Boehmi Prever (poco frequente) » anomala Prever (qualche individuo) » polymorpha Prever (qualche individuo) A carico delle specie sopra elencate occorre fare, intanto, qual¬ che rilievo non privo d’interesse. Fra gl’individui dell’ O . concava (Larnarck) sono presenti forme più o meno depresse e forme manife¬ stanti, ad intervalli, delle interruzioni nell’accrescimento, evocando, in modo mirabile, le immagini fornite dal Silvestri (1) a comple¬ mento del suo studio critico sul materiale proveniente dalla « Glenrose jormation » dell’Albiano inferiore della regione centrale del Texas. È noto che per le meno depresse di tali forme del Texas il Roe- mer nel 1852 istituì la specie Orbitulites texana , mentre per le forme più depresse della stessa provenienza, la Carsey istituì la specie Or - bitohna Whitncy. II Silvestri che nel 1932 ebbe modo di fare la re¬ visione di tali forme, attribuì le une e le altre alla Orbitolina con¬ ti) Silvestri A. Revisione di Orbitoline nordamericane, eie. '(con 2 tavolo'. Mem. Pontif. Acc. delle Scienze. Nuovi Lincei, S. II, voi. XVI, pag. 371 e segg, Roma, 1932, — 38 cava (Lamarck) e propose per alcune di esse, a titolo provvisorio, la istituzione della var. texana (Roemer), prevedendo elle l’eventuale rinvenimento di forme corrispondenti nella fauna europea avrebbe resa inutile una ulteriore adozione di tale varietà, che verrebbe, per¬ tanto, ad avere un Valore puramente geografico (I). Nell’ambito specifico della O. Paronai Prev. non mi è riuscito di discernere qualche individuo che ricordasse la O. ovolum Prev. La O. bulgarica Desìi, è rappresentata da individui la cui statura si man¬ tiene notevolmente più bassa di quelli tipici dell’Albiano e del Ceno- maniano. Altrettanto accade per gl’individui della O. Boriimi Prev. i quali si presentano anche un pò più conici degli esemplari tipici dell’Aptiano. Fra i pochi esemplari riferibili alla O. anomala Prev. e alla O. polymorpha Prev. non sono riuscito ad isolare varietà di sorta che mi lasciassero convinto. Volendo approfondire, dal punto di vista cronologico, la faunula del M. Cocuzzo, per quel tanto — s’intende — che lo consenta la esiguità del rannero delle specie in esso studiate, è appena il caso di ricordare che non si può fare molto affidamento sulle specie del ge¬ nere Grbitolma , per nessuna delle quali ancora oggi si può precisare il campo di esistenza delle forme micio e macrosferica. Mentre che per alcune di esse specie non si conosce ancora la struttura interna, a causa della frequente spatizzazione sotto cui gli esemplari si pre¬ sentano. Lacune, tutte queste, che porteranno inevitabilmente, pre¬ sto o tardi, ad un rimaneggiamento sistematico che avrà la sua riper¬ cussione nelle attribuzioni di ordine cronologico fin qui devolute alle singole specie. Pur tuttavia, non possiamo non constatare nella faunula di M. Cocuzzo le affinità che essa presenta, almeno nei riguardi dei Fora- miniferi, con quella dei Monti d’Ocre (Aquila), ove si escludano la varietà della O. Paronai Prev. e l’unico esemplare di O. discoide a Gras, presenti nei Monti d’Ocre (2). Non possiamo, d’altra parte, disconoscere le affinità, anche strin¬ genti, che essa presenta con la fauna dell’Albiano del Texas, descritta da Roemer, specialmente a causa dell’abbondanza delle forme rife¬ ribili alla sua Orbitulites texanus nonché alle forme riferibili alla Or- bitolina Whitney Carsey che, come si è detto, Silvestri sostiene che debbano essere raggruppate nell’ ambito specifico della Orhitolina (1) Silvestri A. Loc. cit.. pag. 374. (2) Parona C. F-, io col-lab; con Prever P. L. e Crema C. La fauna coralli- gena dei Monti d’Ocre , eie. Meni, descr. d. Carta geol. d’Italia, Voi. V, p. I. Roma, 1909. concava (Lamarck) e, a titolo provvisorio, nella varietà texana (Roemer). Affinità, del pari incontestabili, la fauna che ci interessa presenta con quella fornita dalle , marne ad Orbitoline del Capo d’Orlando, li¬ tologicamente e faunisticamente identiche a quelle del M. Cocuzzo. Tali affinità risulteranno ancora più convincenti, quando il confronto verrà istituito — come io appunto ho fatto — su parecchie migliaia di esemplari da me isolati da campioni di marna prelevati sulla se¬ zione stradale dello Scrajo e quando s’introducano nelle determina¬ zioni delle Orbitoline, dovute al Prever, le opportune rettifiche. Il Prever (1), infatti, attribuisce la specie più comune del giacimento, che è una forma a base decisamente concava, alla Orbito lina conoi¬ dea Gras che, come è noto, ha l’abito a cono retto regolarissimo con base fortemente convessa, per citare soltanto i caratteri esterni (2). Lo stesso Prever (3) non segnala la O. Earonai che, per quanto poco frequente, è rappresentata nel giacimento. Ma non bisogna dimenti¬ care che il Prever non esita a riconoscere la stretta affinità esistente tra le Orbitoline di Capo d’Orlando e quelle albiane del Texas, e con¬ clude che « si tratta di una fauna del Sopracretaceo basso, probabi¬ lissimamente del Cenomaniano inferiore » (4). È del pari noto che allo stesso riferimento cronologico giunsero, attraverso lo studio del¬ l’ittiofauna proveniente dallo stesso giacimento, i professori Bassani e D’Erasmo, mentre il Parona, basandosi sullo studio dei Molluschi, attribuì la serie di Castellammare al Cenomaniano superiore piutto¬ sto che all’inferiore (5). Pertanto, se il confronto che io sono tentato a fare tra le marne del M. Cocuzzo e quelle del Capo d’Orlando è sostenibile, la data¬ zione di quest’ultimo giacimento, dovuta a Prever, Bassani e D’E¬ rasmo, riceve una conferma per altra via, mentre i calcari e le marne del M. Cocuzzo, identici a quelli di Capo d’Orlando per i caratteri litologici e per la microfauna, cominciano ad essere sin da adesso in¬ quadrati nel tempo, prima che altri auspicabili fortunati rinveni- (1) Bassani F. e D’Erasmo G. La ittiofauna del calcare cretacico di Capo d Orlando, etc. Meni. Soc. It. d, Scienze (detta dei XL), S. 3, T. XVII, pag. 22. Roma, 1912. (2) Si veda, fra l’ altro, Silvestri A. Di alcune Orbitoline della Grecia. Meni. Pontif. Acc. d. Scienze. Nuovi Lincei, S. IL voi. XIV, pag. 233 e segg. e tav. I, fig. 1. 2 e 3. Roma, 1930. i(3) Bassani F. e D’Erasmo G. Loc. cit pagg. 22-23. (4) Bassani F. e D’Erasmo G. Loc. cit., pag. 23. (5) Bassani F. e D’Erasmo G. Loc. cit., pag. 21. — 40 — menti di fossili caratteristici sicuramente determinabili aprano la via alla datazione rigorosa della serie locale. Concludendo: l’assenza al M. Cocuzze della O. ouolum, Prever e, quello che più conta, l’assenza delle tipiche Rudiste del Turoniano che mi sono troppo familiari per sfuggirmi al M. Cocuzzo e che a varie riprese ed in gran copia ho raccolto, invece, sui monti che si specchiano sul lago di Laceno, sopra Bagnoli Irpino, ci segna il li¬ mite superiore (Turoniano) al di là del quale non possiamo spingerci con i nostri riferimenti cronologici. Per contro, la stretta affinità delle Orbitoline di M. Cocuzzo con quelle dell’Albiano del Texas e con quelle di Capo d’Qrlando ci indica il limite inferiore in cui un rife¬ rimento cronologico è ancora possibile. Meno probante appare, in¬ vece, un accostamento col Cenomaniano superiore, se dobbiamo te¬ ner conto delle affinità meno appariscenti che esistono fra le Orbito¬ line dei Monti d’Ocre e quelle di M. Cocuzzo. Sta di fatto, però, che le forme aberranti della O. concava (Lamarck), che io sono propenso a considerare come fenomeni di senescenza della specie, nonché la presenza della O. Paronai Prev. rappresentata, è vero, da scarsi in¬ dividui, alcuni dei quali hanno già Vabitijs caratteristico della spe¬ cie, sono dei documenti che non possono — io credo — essere sotto- valutati e potrebbero anche contribuire a farci di poco ringiovanire tanto le marne a Orbitoline e a Molluschi di Capo d’Orlando quanto le marne a Orbitoline di M. Cocuzzo, senza infirmare il riferimento cronologico del livello a Pesci, che presso il Capo d’Orlando si man¬ tiene nettamente inferiore alle marne predette. In ogni caso, anche se l’attribuzione delle marne predette ai li¬ velli più alti del Cenomaniano inferiore o ad un livello ancora più alto non potrà ritenersi del tutto giustificata, mi pare che, dopo le cose esposte, non vi siano ragioni per dubitare, per lo menò, sulla età cenomaniana del giacimento di Capo d’Orlando e di quello di M. Cocuzzo. Così come mi sembra logico prevedere sjn da ora l’opportu¬ nità della soppressione della varietà texana (Roemer), istituita dal Silvestri a carico della O. concava. (Lamarck) nelle circostanze che ho esposto, e ciò a causa della diffusione geografica che la specie in osarne comincia a rivelare. Idrolisi di nuovi derivali acilici degli acidi 3- e 5-iodosalicilici Nota del socio Mario Covello (in coll, col Dott. Antonio Capone) (Tornata del 30 giugno 1948) Le prerogative farmacologiche dei derivati iodosalicilici rispetto ai salicilici semplici, già largamente illustrate in precedenti lavori (I), hanno ispirato l’espletamento delle ricerche di cui è oggetto la presente nota; ricerche che costituiscono, d’altra parte, l’allargamento delle co¬ noscenze sull’argomento relativo ai medicamenti iodosalicilici. La velocità di saponificazione di una serie di 3-iodosaioli in con¬ fronto di quella del salolo ordinario, fu presa in considerazione da uno di noi (2), onde metterla in relazione con l’azione antisettica eserci¬ tata da tali farmaci nell’intestino. Analogamente ora, questo fattore fondamentale dell’azione farmacologica di derivati acilici paragonabili all’acido acetilsalicilico, ottenuti partendo dagli acidi 3- e 5-iodosali- cilici,, viene preso in esame ai fini dell’azione farmacodinamica. Per quanto riguarda i derivati acilici dell’acido salicilico semplice, tra i quali tanto successo ha avuto in terapia 1’ acetilderivato, oggi è ammesso da tutti i farmacologi (3) che tale azione sia dovuta alla molecola integra e non ai suoi prodotti d’idrolisi. Infatti nel caso del¬ l’aspirina si verifica precisamente che persone le quali mostrano una spiccata intolleranza (idiosincrasia) per il salicilato di sodio, soppor¬ tano bene l’acido acetilsalicilico. Questa considerazione rende evidente senz’altro l’importanza che assume la conoscenza dell’andamento dell’idrolisi in composti del ge¬ nere. Nel caso specifico degli acid] iodosalicilici, si trattava poi di stabilire anche quale influenza avesse sul fenomeno idrolitico la pre¬ senza delJ’iodo nella molecola dell’acido salicilico in rapporto alla posizione da esso occupata. (1) M. Covello, Ann. chini, appi., 31, 235 (1941). » e A. Capone. Ibid. 38, 123 (1948). (2) M. Covello, Ann. chini, appi.. 31, 254 (1941). ((3) P. Mascherpa, Trattato di Farmacologia e Far iliaco gno sia, pag. 181, Mi¬ lano, Hoepli, 1944. — 42 La parte sperimentale è stata pertanto svolta procedendo: «) alla preparazione di una serie di acilderivati degli acidi 3- e 5-iodosalicilici; b ) alla determinazione delTandamento della scissione idrolitica dei vari prodotti preparati, all’ebollizione, in funzione del tempo. PARTE SPERIMENTALE CON LA COLLABORAZIONE DEL DOTT. GIUSEPPE ROMANO 1) — Preparazione dei derivati acculici. Gli acetilderivati sono siati ottenuti operando Tacetil azione degli acidi 3- e 5-iodosalicilici con l’anidride acetica, secondo il metodo di Liebermann (4), raccogliendo il prodotto ottenuto in acqua (10-12 volte il suo volume) e separandolo per filtrazione. Il prodotto greggio ottenuto è stato purificato per cristallizzazione ripetuta dall’alcool a 95°. Acido aceti 1-3 -io do salicilico . Si presenta sotto forma di aglietti bianchi di sapore terroso e dal¬ l'odore fenico. Poco solubile in acqua (1:6700 a 15°, 5). Solubile in alcool, in etere ed in cloroformio. Cristallizza dall’alcool in prismi allungati, talvolta a forme arborescenti. Fonde a 158°-159°. All’analisi lui dato il seguente risultato: per la formula C6H3J / O.CO.CH;, \COOH trov.% : J 39,88 cale. % : 41,47 Acido ace til -5 -io do salicilico. Si presenta sotto forma di agili bianchi inodori, di sapore leg¬ germente terroso. Poco solubile in acqua (1:10.000 a 15°, 5). Solubile in alcool, in etere ed in cloroformio. Cristalliza dall'alcool in prismi allungati riuniti a fasci. Fonde a 160°-161°. All'analisi ha dato il seguente risultato: trov.% : J 39,35 O CO CH per la formula CfiH3J \^qq^ 3 cale. % : 41,47 (4) Ber,, 11, (2) 1619 (1878). 2) — Preparazione dei derivati caproni Ilei, stearilid. ben zollici e je- nilacetilico . Questi derivati degli acidi 3- e 5-iodosalicilici sono stati ottenuti per azione del cloruro acido sugli acidi stessi in mezzo alcalino, se¬ condo il metodo di acilazione in soluzione acquosa alcalina dovuto a Lossen (5) e generalizzato da Schòtten e Baumann (6). Agli acidi 3- e 5-iodosalicilici in sospensione acquosa sono stati aggiunti, a goccia a goccia, il cloruro acido e la soda caustica al 10%, alternativamente, fino a scomparsa della reazione data dall’acido sa¬ licilico con cloruro ferrico e fino a reazione alcalina del mezzo, a temperatura ambiente. Si formano masse semisolide, pastose, talvolta oleose, che dopo alcune ore si trasformano in prodotti solidi, cristallini. I composti ottenuti si separano per filtrazione e si lavano con acqua addizionata del 0,5% di carbonato sodico, così da solubilizzare l’acido 3- o 5-iodosalicilico che, eventualmente, è rimasto incluso nella massa senza reagire. I prodotti ottenuti si sciolgono in etere e la soluzione si distilla nel vuoto, in modo da eliminare l’eccesso del cloruro acido, come consiglia Skraup (7). Il residuo si riprende con alcool a 95°, e la so¬ luzione, abbandonata a sè, lascia separare lentamente i prodotti sotto forma cristallina. Acidi capronil-3- e -5-iodosalicilici . Si presentano come sostanze cristalline bianche, di odore etereo, di sapore amaro salino, fresco. Praticamente insolubile in acqua a freddo il capronil-3-; pochissimo solubile il capronjl-5- (1:50.000 a 15°). Solubili entrambi in alcool ed in etere. Cristallizzano dall’al¬ cool in prismi allungati, terminanti a punta. Il primo fonde a 195°- 196°, il secondo a 191°, 5-192°, 5. Analizzati hanno dato i seguenti risultati: acido capronil-3-iodosalieilico trov.% : J 34,10 acido capromi -5-iodosalicilico trov.% : 34,41 XO.CO.C-H,, per la formula C6H3J ( CQ0H calc.% : : 35,04 (5) Ann., 161, 348 (1872); 175, 274, 319 (1875); 265, 148 <1891). (6) Bei,, 17, 2445 (1884); 19, 3218 (18843).' <7) Monatdi., 10, 395 (1889). — 44 Acidi stearil-3 - ? -5 -io salicilici. Per l’ottenimento di questi derivati si è dovuto preparare anzi¬ tutto il cloruro dell’acido stearico, mescolando quantità equivalenti di acido stearico e pentacloruro di fosforo, riscaldando a b.in. per breve tempo e distillando nel vuoto Possici oruro di fosforo (8). Ottenuto il cloruro di stearile, si è effettuata l’acilazione degli acidi 3- e 5-iodo- salicilici, secondo il metodo di Schòtten e Baumann, sopra ricordato. Gli acidi stearil-3- e -5-iodosalicilici, dopo trattamento con al¬ cool ed etere, si presentano sotto forma di polveri bianche, con leg¬ gero odore di acido stearico, untuose al tatto, di sapore acidulo. Pra¬ ticamente insolubile il derivato 3-, pochissimo solubile quello 5- (1:30.000 a 15°). Poco solubili entrambi a freddo in alcool ed in etere, facilmente a caldo. Osservati al microscopio presentano la forma di minutissimi aghetti. L’analisi ha dato i seguenti risultati; acido stearil-3-iodosalicilico trov.% : J 23,08 acido stearil-5-iodosalicilico trov.% : 23,31 per la formula C()H,J ^ cailc>,.% : 23,92 Punto di fusione del 3-iodosalicilato di stearile : 67°-68°. Punto di fusione del 5-iodosalicilato di stearile : 65°-66°. Acidi berizoil-3- e - 5-iodosalicilici . Si presentano sotto forma di grossi aghi bianchi, dall’odore di etere benzoico, di sapore acidulo-salino, leggermente stiptico. Poco solubili in acqua (1:700 il derivato 3 ; 1:125 il derivato 5- a 14°, 5). Solubili entrambi in alcool ed in etere. L’analisi ha dato i seguenti risultati: acido benzoil-3-iodosalicilico acido benzoli -5-iodosalicilico trov.% trov.% : J 33,18 : 33,56 ir , r w . /O.CO.CA per la formula C6H3J \CqqH calle. % : 34,47 Punto di fusione del 3-iodosalicilato Punto di fusione del 5-iodosalicilato di benzoile di benzoile : 118°- 119°. : 117°-118°. (8) Krafft, Burger, Ber., 17, 1378-79 (1884). — 45 — Acido jc n i luce ti 1-3 -io do salici Ileo . Si presenta in lunghi aghi setacei bianchi, di odore aromatico, insapori. Osservati al microscopio appaiono come cristalli sottili, al¬ lungati, riuniti in folti ciuffi. Insolubile in acqua a freddo, solubile in alcool ed in etere. Fonde a 131®- 132°. All’analisi ha dato il seguente risultato: trov.% : J 32,40 1 f 1 p n i /O.CO.CH2C6h| . o/ per la formula CGHJ \qqqjj calc.% : 33,56 Idrolisi. La determinazione della velocità d’idrolisi è stata eseguita se¬ condo la tecnica praticata da A. Lespagnol e M.lle Bar (9) per lo studio degli omologhi superiori dell’acido acetilsalicilico. A tale, scopo di ciascun composto è stata preparata una soluzione acquosa N/100. Campioni di 100 ce. di questa sono stati tenuti in ebollizione in matraccio munito di refrigerante a riflusso per un pe¬ riodo di tempo variabile da un minimo di 1 h ad un massimo di 4 h, dopo di che è stata determinata l’acidità libera mediante soluzione N/10 dì NaOH in presenza di fenolftaleina. Tenuto conto dell’acidità iniziale, uguale per tutti i prodotti presi in esame, si è calcolato il valore di quella resasi libera in seguito all’idrolisi e da questa è stata dedotta la percentuale di sostanza idrolizzata. Nella tabella I, sono riferiti i valori sperimentalmente dedotti e l’andamento del fenomeno è reso evidente dai grafici da essi ricavati ffig. 1 e 2). Le condizioni di esperimento sono state unificate il più possi¬ bile, in modo da poter rendere paragonabili i valori ottenuti. (9) Bull. Soc. chim.. V, 1360 (1938). 46 — 'Y~; V-:; , i Tabella 1. 1 ACIDI i I> K O Tj I s T dopo i /, li dopo 1 h dopo 2 h dopo 3 h 1 dopo 4 li _ graf. n. , ! NaOH cc. idr. 0/ / 0 NaOH cc. idr. % NaOH cc. idr. % NaOH cc. j idr. 0/ /o NaOH cc. _ idr. | 0/ 0 Acetilsalicico _ 17,35 73,5 18,76 87,6 j 19,55 95,5 19,81 98,1 20,00 100.0 1 e 2 Acetil-3-iodosal. 18,52 85,2 19,40 94,0 19,62 96,2 19,82 98,2 20,00 100,0 1 Acetil-5-iodosal. 18,70 87,0 19,60 96,0 1 19,82 98,2 19,87 98,7 20,00400,0 l i Gapronil-3-iodosol. J 1,671 16,7 12,75 27,5 14,42 44,2 15,57] 55,7 16,16 61,6 1 Capronil-5-iodosol. 11,85 18,5 13,17 31,7 15,00 50,0 16,10 61,0 16,45 64,5 ì ! Benzoil-3-iodosal. 14,50 45,0 15,45 54,5 16,35 63,5 16,75 67,5 47,00 70,0 2 Benzoil-5-iodosal. 13,25 32,5 14,62 46,2 15,85 58,5 16,26 62,6 16,50 65,0 1 ! 2 Fenilacetil-3-iodo salicilico 12,10 21,0 13,40 34,0 15,50 55,0 45,80 i 58,0 16,10 61,0 1 I 2 100 tj O ■> 'N •Sì '2 § 5 * '•"* *"* k i > *V, *v» S Jj <2 derivati 1-3, 1-5, 1,6 — » derivati 1-3, 1-4, 1-6 Il derivato ottenibile da tutti e tre gli isomeri, come appare chiaro dallo schema, è solo l’l-6. Nelle varie preparazioni effettuate, si è sempre ottenuto il me¬ desimo prodotto, con identica composizione e caratteri il che porta alla conclusione che: o il mercurio si fissi costantemente in posizione 1-6 oppure che si tratti di miscugli dei vari isomeri di composizione (10) Lebeàu et Coùrtois : Pharmacie Chiunque. Masson, Paris, 1947. ''*■ 51 ■ pressoccbè costante. La prima ipotesi è certamente la più verosimile principalmente per l’uniformità dei prodotti ottenuti. I sali di bismuto sono stati ottenuti a partire dall’acido 5-iodo- salicilico. Sono stati preparati: un sale basico, al quale in accordo con i risultati dell’analisi ed in analogia al corrispondente salicilato basico va assegnata la seguente costituzione : OH cGB,y \ cooK COO/Bi C6H3J, / \ OH COO . Bi / CfiH3J CJLJ \ OH OH / \ COO . Bi OH / CfiH3J \ C0°Nbì eoo/ / CcH:ìJ \ OH ed un sale neutro rispondente alla composizione c6h3jx C6H3J- Bi . 4 H20 CeH3y # — 52 — Parte sperimentale Preparazione degli lodo salicilati di mercurio. Sono stati preparati dapprima i tre acidi iodosalicilici isomeri, il 3- ed il 5-iodosalicilico secondo Coveìxo (1. c.) ed il 4-iodosalicilico secondo Brenans e Pkost (11). Da questi si sono preparati i corrispondenti sali di mer¬ curio con i due procedimenti che descriviamo: a ) in un matraccio della capacità di 300 cc., munito di refrige¬ rante a ricadere, vengono sospesi in 100 cc. di acqua distillata, gram¬ mi 6,62 di acido iodosalicilico e grammi 5 di ossido giallo di mercu¬ rio di recente preparato. Il liquido viene tenuto in moderata ebolli¬ zione fino a che sia scomparso il colore giallo dell’ossido di mercurio e si sia ottenuto un prodotto bianco di aspetto omogeneo, per il che occorrono circa tre ore. Il prodotto formatosi è raccolto sul filtro alla pompa, lavato con acqua bollente indi con alcool a 50° e seccato nel vuoto su cloruro di calcio; b ) una soluzione di grammi 5 di ossido di mercurio di recente preparato in 100 cc. di acido acetico al 20%, viene precipitata con altra soluzione ottenuta sciogliendo in 100 cc. di acqua distillata gram¬ mi 7 di iodosalieilato di sodio. Il precipitato bianco polverulento, ottenuto, si raccoglie alla pompa, si lava e si secca come in a). I prodotti ottenuti secondo le due tecniche descritte a partire dai tre acidi iodosalicilici isomeri, non mostrano caratteri differen¬ ziali rilevabili con i comuni mezzi analitici a nostra disposizione. Si tratta sempre di una sostanza di aspetto omogeneo, di colore bianco, quasi insapora, il cui contenuto percentuale di mercurio e di iodo oscilla entro i limiti dell’errore sperimentale, come si può rilevare dai risultati riferiti più oltre. II comportamento si può così riassumere: solubile nei soluti al¬ calini dai quali riprecipita per acidificazione; dibattuta a lungo con acqua, dà un liquido che filtrato, si colora in azzurro per aggiunta di cloruro ferrico. Si differenzia dal corrispondente salicilato per il com¬ portamento al riscaldamento in tubicino. In queste condizioni si de¬ compone svolgendo vapori bruni che si depositano sulle pareti fredde sotto forma di un sublimato rosso di HgJ2. (11) Comptes Rendus, 178, 1010, 19)24* — 53 — f All’analisi j tre prodotti preparati hanno dato i risultati seguenti: Hg°/o o o 3-iodosalicilato di mercurio 42,86 27,10 4-iodosalicilato di mercurio : 42,91 26,98 5-iodosalicilato di mercurio : 42,85 27,21 CO-< 0 cale, per C6H2J— OH 43,36 27,44 \ Hg— Nei suddetti composti il mercurio è stato determinato secondo Fe- nimore e Wagner (12), l’iodo, secondo Rupp e Lemke (13). Preparazione del 5-iodosalicilato basico di bismuto. In un ma¬ traccio della capacità di 300 cc., munito di refrigerante ascendente, vengono sospesi, in 200 cc. di acqua distillata, 16 grammi di acido 5-iodosalicilico e grammi 9,40 di ossido di bismuto. Il liquido viene tenuto in regolare ebollizione, fino a che un campione del prodotto solido, esaminato al microscopio, non lasci più distinguere i cristal¬ lini di acido iodosalicilico dalle piccole masse di ossido di bismuto, ma si mostri formato da piccoli granuli omogenei. Perchè la rea¬ zione sìa completa, occorrono circa otto ore di ebollizione. La sostanza ottenuta si raccoglie su di un filtro alla pompa, si lava con acqua distillata indi con poco alcool di 50° e si essicca in es¬ siccatore a vuoto su CaCl2. trov.%: Bi 33,10; J 30,22; H20 0,78 per (C7H4JO3)6Bi403.H2O, calc.%: Bi 33,72; J 30,72; H20 0,72 Il 5-iodosalicilato basico di bismuto è costituito da una polvere bianca di aspetto amorfo, quasi insapora, insolubile a freddo in acqua, in alcool e negli altri comuni solventi. Bollito a lungo con acqua, si dissocia perdendo acido iodosalicilico, che passa in soluzione ed arric¬ chendosi di Bi203. Riscaldato in un tubo da saggio a secco, si decom¬ pone annerendo e sviluppando vapori di colore bruno che si deposi¬ tano sulle pareti fredde sotto forma di un sublimato di aspetto grigio¬ metallico costituito da ioduro di bismuto, mentre si manifesta netta¬ mente l’odore fenolieo. Preparazione del 5-iodosalicilato neutro di bismuto. È stato otte¬ nuto per doppio scambio in soluzione acquosa ed in presenza di man- nite, fra 5-iodosalicilato di sodio e nitrato neutro di bismuto. A tale (12) Journ. Chem. Am. Soc., 53, 2468, 1931. i( 13) Zeit. analyt. chem., 97, 180, 1934. I — 54 — scopo grammi 8,57 di 5-iodosalicilato di sodio, sono stati sciolti in 100 ce. di acqua contenente gr. 8 di mannite. Questa soluzione è stata addizionata di grammi 4,85 di nitrato neutro di bismuto sciolti in una soluzione acquosa di grammi 8 di mannite in 50 cc. di acqua distillata. Si è ottenuto un precipitato bianco di aspetto amorfo che è stato rac¬ colto alla pompa, lavato con soluzione satura di acido iodosalicilico ed essiccato nel vuoto. All’analisi ha dato i risultati seguenti: trov. % 1I20 : 7,28; Bi: 19,10; J: 34,96 per (C7H4J03)3Bi.4H20 cale. % H20: 6,66; Bi: 19,53; J: 35,58 Il bismuto è stato determinato secondo le indicazioni di God- FRIN (1. c.). lì 5-iodosalicilato neutro di bismuto è formato da minuti cristalli die al microscopio appaiono trasparenti. In acqua lentamente s’idro¬ lizza trasformandosi in un sale basico di natura non ben definita. Ri¬ scaldato a secco dapprima elimina l’acqua di cristallizzazione, poi si decompone lentamente mettendo in libertà il fenolo rilevabile dall’o¬ dore e formando sulle pareti del tubo un sublimato di BiJ3. Non si scioglie nei solventi ordinari. Esperienze farmacologiche. Allo scopo di provare la tolleranza in vivo dei prodotti preparati e l’andamento dell’eliminazione attraverso l’emuntorio renale, sono stati allestite le seguenti sospensioni oleose, ad uso parenterale, secondo la tecnica appropriata (14): 1) 5-iodosalicilato di mercurio: gr. 0,10 in 2 cc. di olio di man¬ dorle neutro; 2) 5-iodosalicilato basico di bismuto: gr. 0,10 in 2 cc. di olio neutro di mandorle; 3) 5-iodosalicilato neutro di bismuto: gr. 0,10 in 2 cc. di olio neutro di mandorle. La tolleranza in vivo è stata sperimentata sui cani iniettando il contenuto di tre fiale a distanza di due giorni, nei glutei. Si è potuto rilevare che tutti i preparati iniettati venivano gradualmente assorbiti senza che gli animali mostrassero alcunché di anormale. Le modiche tumefazioni prodotte all’atto dell’iniezione lentamente scomparivano senza dar luogo ad alterazioni di qualsiasi sorta. Lo studio della eliminazione attraverso le urine, è stato eseguito sull’uomo in soggetto luetico adulto, limitatamente al preparato n. 3. Sono state praticate quattro iniezioni intramuscolari nella regione glu¬ tea a quattro giorni di distanza l’una dall’altra per sedici giorni con¬ secutivi. Venivano analizzate le urine delle ventiquattro ore determi - (14) U. Cazzani, Ipodermoterapia. Stucchi, Milano, 1939. — 55 — nandovj il bismuto totale secondo la tecnica raccomandata da PàGET, Langeron e Devriend (15). Le conclusioni che si possono ricavare dalle osservazioni e deter¬ minazioni eseguite, sono pertanto le seguenti: 1) il bismuto, compare nelle urine già dopo le prime ventiquat¬ tro ore; 2) il massimo di eliminazione si ha al terzo giorno dopo cia¬ scuna iniezione; in valore assoluto il quantitativo maggiore eliminato si è osservato il quindicesimo giorno; 3) su 400 milligrammi di medicamento introdotti, corrispondenti a 134 milligrammi di bismuto, ne sono stati dosati complessivamente nelle urine, durante venti giorni a partire dalla prima iniezione, mil¬ ligrammi 58, il che corrisponde al 43,2% del bismuto iniettato. I risultati di cui sopra sono in accordo con quelli riscontrati da altri sperimentatori (16) particolarmente per quanto riguarda la riten¬ zione del bismuto da parte degli organi. Ulteriori ricerche di carattere clinico sono in corso ed i risultati saranno comunicati in altra sede. Istituto di Chimica Farmacologica e Tossicologica, Napoli, maggio' 1948. (15) Journ. de Pharm. et de Chim., 15, 600, 1932. (16) Pourzegnes, Ann. Inst. Pasteur, 53, 535, 1934. Segnalazione della caduta in Albania delle ceneri del Vesuvio deli’ eruzione del marzo 1944 Nota del socio Antonio Lazzari (Tornata del 28 gennaio 1947) L’eruzione vesuviana del marzo 1944 rappresenta l’ultima fase del periodo eruttivo che ebbe inizio il 5 luglio 1913, seguito ad un periodo di riposo di circa 7 anni. Il comportamento del vulcano negli ultimi tempi era stato un sicuro sintomo dell’imminenza del parossismo di chiusura; imminenza che, nei mesi precedenti il marzo 1944, si era andata confermando, come riferisce Imbò (1), per la comparsa di diversi segni premonitori, fra cui una graduale diminu¬ zione dell’attività, conseguenza di un abbassamento del magma nel condotto eruttivo. Rinviando al citato lavoro per quanto riguarda l’estrinsecazione delle varie fasi (effusiva terminale, delle fontane laviche, delle esplo¬ lioni miste, ecc.), basterà qui ricordare che nel primo tempo della « Fase delle esplosioni miste », iniziatasi nelle ore pomeridiane del 22 marzo, si verificò la fuoruscita di una grande massa di ceneri scure elevantisi, in forme diverse, fino alla notevole altezza di circa 7000 m. mi livello del mare. Violenti lanci di ceneri, con scorie e lapilli, si erano avuti anche nella fase precedente, o «delle fontane laviche»; e si sa che il materiale più (finemente suddiviso fu spinto, dalle cor¬ renti atmosferiche, fino alla distanza di 200 Km. in direzione ESE secondo Imbò (1. e.), e fino a Bari ed al Capo di Leuca, a distanza quindi di Km. 350 secondo Parascandola (2). Ma la caduta delle ceneri vesuviane in occasione di tale eruzione si verificò fino a distanza ancora maggiore; difatti, nella notte fra il 22 ed il 23 marzo 1944, ad ora imprecisata, sul Cantiere petrolifero dell’AIPA, presso il Devoli in Albania, si depose un sottilissimo velo (1) Imbò G., Il parossismo vesuviano del marzo 1944. Reind. Acc. Se. Fis. Mat.' Nat., ser. IV, voi. XIII, anni LXXXII-LXXXIV, Napoli, 1945. (2) Parascandola A., L’Eruzione vesuviana del marzo 1944. 1°. 1 prodotti pi¬ roettici. ibidem, di cenere abbastanza fine, di colore piuttosto scuro, di cui raccolsi un campione, ritenendo che potesse essere di un certo interesse ese¬ guirne lo studio. Tenendo presente che tali ceneri sono da mettersi sicuramente in relazione con l’eruzione del Vesuvio che avveniva in quei giorni, l’analisi microscopica del campione raccolto può illumi¬ narci sulla natura di quei prodotti piroclastici che, raggiunta una no¬ tevole altezza, furono convogliati dalle correnti atmosferiche e spinti fino in Albania (quindi ad oltre 500 Km. di distanza), nonché sul processo di decantazione avvenuto durante il percorso, se sarà possi¬ bile studiare anche campioni di ceneri eventualmente raccolte in al¬ tre località situate lungo il tragitto. La cenere si presenta di colore piuttosto scuro, grigio-marrone; è ruvida al tatto e mostra di essere costituita da elementi non eccessi¬ vamente fini. Esaminata al microscopio, a luce naturale, mostra una assoluta prevalenza (almeno il 90%) di franimeli tini della più varia forma, dì grandezza compresa fra 18 e 170 [x, con prevalenza degli elementi di 40-50 jx. L’esame microscopico ha portato al riconoscimento dei sotto in¬ dicati costituenti: 1. Vetro vulcanico. — Di colore marrone scuro, molto ricco di pigmento opaco, con indice di rifrazione che varia entro larghi li¬ miti, fra 1.54 e 1.68 circa. Questo costituente della cenere rappre¬ senta almeno T85-90 \% della massa totale. I frammenti vetrosi sono a contorno molto irregolare, con abbondanti soffiature determinate dalla violenza dell’ alto esplosivo, in seguito al quale, a condotto pressocchè vuoto, venne espulso il materiale piroclastico della 3a fase dell’eruzione secondo Imbò (1. c.). 2. Augite. — Agevolmente riconoscibile per la facile sfaldatura, a superfici di frattura irregolari; per il colore verde-oliva scuro, per la birifrangenza elevata e per l’indice di rifrazione, sui solidi di sfaldatura, che vale circa 1.69. L’osservazione conoscopica dei solidi di sfaldatura permette una stima dell’angolo degli assi ottici, che ri¬ sulta positivo e grande, certamente superiore a 60°. Si pensa, perciò, che il minerale contenga una certa percentuale delia molecola egi- rinaugitica. 3. Flogopite. — Questo minerale è presente in rarissime ed esi¬ gue piccole lamelle. L’indice di rifrazione sulla sfaldatura vale circa 1.55; l’angolo degli assi ottici è negativo e molto piccolo. Le carat¬ teristiche ottiche suddette e la perfetta sfaldatura micacea fanno rien¬ trare questo minerale nel gruppo delle biotiti; il basso valore deh J l’indice di rifrazione medio sulla sfaldatura la fa determinare quale flogopite . 4. Biotite. — - Presenta caratteristiche molto simili a quelle del minerale precedente; ma il valore più alto dell’indice di rifrazione ed il colore marrone-rossastro scuro permettono di farlo determinare quale biotite. 5. Leucite. — È presente in frammenti a frattura scheggiosa, limpidi ed incolori, che presentano talvolta piccoli inclusi opachi. Questi frammenti sono di solito isotropi e solo raramente presentano una debole anisotropia, come talvolta è dato riscontrare nella leu¬ cite, specialmente nei grossi cristalli. L’indice di rifrazione vale circa 1.51. 6. Oligoclasio (?). — Si notano, talvolta, piccoli frammenti di un minerale trasparente, anisotropo, con facile sfaldatura, che presenta sensibile zonatura ed ha un indice medio, sui solidi di sfaldatura, poco inferiore ad 1,54. L’osservazione conoscopica permette di valu¬ tare che il minerale presenta un angolo degli assi ottici positivo e molto grande (intorno ad 80°). Può trattarsi quindi di un oligoclasio; in tal caso, come è noto, le lamelle di geminazione secondo la legge dell’Albite non sono distinguibili; e ciò spiegherebbe l’assenza di la¬ melle di geminazione nel mio materiale. La piccolezza e la scarsità dei frammenti non mi ha permesso più precise determinazioni. 7. Sanidino (?). — Anche questo minerale, presente in frammenti molto minuti, non mi ha consentito sicure determinazioni. Si tratta di un minerale incolore, trasparente, anisotropo, piuttosto torbido per minutissime inclusioni. L’indice di rifrazione medio è intorno ad 1.52; il segno ottico negativo e la facile sfaldatura, mi fanno ascri¬ vere questo minerale al gruppo dell’ortoclasio; data la natura del materiale studiato e la sua sicura provenienza, penso che con ogni probabilità esso si possa determinare quale sanidino. I minerali determinati sono quelli che si ritrovano normalmente nei prodotti ultimi dell’attività vesuviana. L’unico minerale secon¬ dario presente è la Flogopite , per il quale, nel caso attuale, si può pensare a due diverse origini: o può essere il prodotto di un’azione metamorfica del magma del bacino sulle rocce carbonatiche del tetto, o è il prodotto della azione dei gas e vapori che, abbandonando il magma in via di raffreddamento, filtravano attraverso le rocce che in parte ostruivano il condotto. Per quanto ambedue le eventualità siano possibili, pure si propende più per la formazione per azione dei gas che abbandonavano il magma, perchè si pensa che, se la flo- gopite presente fosse un prodotto di metamorfismo di contatto sulle rocce carbonatiche del tetto, insieme con tale minerale se ne sareb¬ bero dovuti riscontrare pure altri (forsterite, spinelli, ecc.) di ana¬ loga origine metamorfica e che sempre accompagnano la fiogopitc nel metamorfismo di contatto di rocce carbonatiche. Napoli, Istituto di Geologia dell’Università, 1947. Pliocene fira Licusati, S, Iconio e Porlo degl9 Infreschi (Salerno) Nota del socio Giuseppe Mirigliano (Tornata del 30 giugno 1948) La mancanza di sedimenti pliocenici sul Golfo di Policastro, messa in evidenza dal rilevamento geologico ufficiale (Foglio 209 della Carta al 100.000 del 1908 e Foglio ri° 4 della Carta al 1.000.000 del 1931), poteva sembrare fino ad oggi un fatto assodato, avvalorato com’era anche dal lavoro comprensivo del GlGNOUx (1) e da quello più particolareggiato e più recente del Minucci (2). È stato il rile¬ vamento minuzioso del territorio compreso nei Fogli 209 e 210 della Carta al 100.000 predetta, a cui attendo da un pezzo, a fornirmi gli elementi necessari per colmare una tale lacuna che sembrava, già a priori, insostenibile a chi avesse sottocchio la distribuzione e le caratteristiche dei sedimenti pliocenici della Campania, della Basi¬ licata e della Calabria. E se ne parlo qui in forma schematica, prima che vengano superate le odierne limitazioni sulla stampa, ciò è do¬ vuto al fatto che io ritengo che il frutto delle mie ricerche possa ser¬ vire ad una migliore conoscenza dell’argomento e possa renderci pos¬ sibile un raccordo, che mi pare istruttivo, tra il Pliocene dei dintorni di Salerno e quello della Basilicata e della Calabria settentrionale. I sedimenti di cui mi accingo a parlare rappresentano al giorno di oggi dei lembi isolati sfuggiti in varia misura alla denudazione, ma in passato essi dovevano far parte di un mantello sedimentario unico i cui limiti andavano, almeno per quello che ci è dato supporre fino adesso, dalla latitudine della Tempa di S. Iconio al Porto degli Infreschi, passando per Camerota e Licusati (Salerno). Di ciò è fa¬ cile rendersi conto studiando la distribuzione dei prodotti della de- (1) Gignoux M. — Les formations marines pliocènes et quaternaires de V Ita¬ lie du Sud et de la Sìcile. Ann. de l’Univ. de Lyon, nouv. ser., fase. 36. Lyon- Paris, 1913. (2) Minucci E. — Il mare pliocenico nella Campania. Meni. geol. e geogr. di Giotto Dainelli, voi. Ili, Firenze, 1933. 61 — indizione post-pliocenica di tale coltre sedimentaria i quali si rin¬ vengono sparsi un pò dappertutto nel settore considerato e di cui rap¬ presentano, quasi sempre, insieme con l’apporto dei sedimenti plei¬ stocenici, il substrato del suolo coltivabile. Il più significativo dei pre¬ detti giacimenti autoctoni è quello che si stende dalla Cala Bianca alla sponda sud-occidentale del Porto degl’Infreschi. Qui la roccia di sponda è rappresentata, non da calcare titonico ad Ellipsactine, come vorrebbe la Carta geologica al 100.000, (1) ma da calcare ba¬ sico compatto, di color grigio cenere o biancastro o perlaceo, più o meno dolomitico, ad Alghe Solenoporacee prevalenti, che con le loro superfici di erosione forse suggerirono ai rivelatori l’idea delle Ellipsactinie. Queste Alghe impartiscono alla roccia quell’aspetto bernoccoluto, quasi grossolanamente oolitico, che ricordava, spe¬ cialmente ai geologi del secolo scorso, l’immagine delle cosidette Evinospongia dello Stoppani. Su questa formazione la trasgressione del mare pliocenico è segnata da un conglomerato di base i cui ele¬ menti, formati quasi esclusivamente dal calcare basico locale, sono tenuti insieme da cemento calcareo o, più raramente, marnoso. Fra questi ciottoli alcuni presentano la scultura alveolare o i solchi (ver¬ mieoi ature) che sono assai frequenti — come è noto — fra il mate¬ riale di spiaggia. A ridosso di questo conglomerato riposa un complesso potente di argilla plastica grigio bluastra, se inalterata e di profondità, o vol¬ gente al giallastro, se maggiormente esposta agli agenti atmosferici. Di questa argilla, sfruttala localmente da una modesta fabbrica di laterizi, non si conosce la potenza massima perchè le più profonde perforazioni praticate a scopo estrattivo o per la ricerca di acqua potabile non superarono forse, fino ad oggi, i 10 metri. Abbastanza pura in profondità, salvo gl’immancabili cristallini di calcite che tal¬ volta tappezzano le pareti delle fenditure della roccia, quest’argilla diventa più sabbiosa verso l’alto ed include frequentemente dei cro¬ stoni irregolari di sabbia più o meno tenacemente cementati da car¬ bonato di calcio. Tanto sulla Cala Bianca quanto sulla sponda occi dentale del Porto deglTnfreschi la formazione argillosa di cui ci oc¬ cupiamo si rivela abbondantemente fossilifera: ma è nella zona in¬ colta della località Vitacchito che i fossili sono straordinariamente co- Cl) In verità, la Carta geologica al 1:1.000.000 del 1931 rande giustizia di que¬ sto presunto calcare ad Ellipsactinie ma introduce, assieme alla persistente lacuna dei sedimenti pliocenici che stiamo per esaminare, un nuovo errore rappresentato dalla conservazione del Cretacico che assolutamente non esiste nel territorio. — 62 — piosi e, quasi sempre, abbastanza ben conservati. Qui, tra le forme macroscopiche, si raccolgono: Ostrea edulis L. y> » » var. lamellosa Br. » Forskali Chemn. » ( Pycnodonta ) cochlear Poli. » stentina Payr. Ano mia ephippium L. Spondyhis gaederopus L. Plicatula mytilina Phil. Lima squamosa Lmk. » in fiata Chemn. Pecten jacobaeus L. F lab ellip eden Alessii Phil. Chlamys ( Peplum ) clavatus Poli » » » var. ìnflexn Poli » septemradiatus Muli. » (Flexo pecten) flexuosus Poli » ( Aequipecten ) opercularis L. » scabrellus Lmk . » varius L. » multistrìatus Poli » glaber L. Pinna sp. f Pectunculus ( Glycimeris ) pilosus. L. » violacescens » bimaculatus Arca \(Navicula ) Noae L. » ( Barbatia ) barbata L. » -cfr. pulchella Nucula placentiìia Lmk. » sulcata Broun. Leda fragilis Chemn. C ardita antiquata Lmk. Cardium echìnatum L. » papillosum Poli » ( Cerastoderma ) luberculatum L. » » edule L. » ( Laevicardium ) oblongum Chemn. » » norvegicum SpgL Chama gryphoides L. » gryphina Lmk. » piacentina Defr. Venus ( Clausinella ) fasciata Da Costa — 63 — Veiius {Ventricolo) multilamella Lmk. » » casino L. » verrucosa L. » libellus R.E.P. Gouldia minima Mtg. Mactra ( Spisula ) subtruncata Da Costa » » » var. triangola Reti. Tellina pulchella Lmk. » donacina L. » distorta Poli DentaUum novemcostatum Lmk. » sp. Coiius Mercati Br. Scalarla communis Lmk. Fusus rostratus ((Olivi) » cfr. cinctus Bell. Eutkria cornea L. var. plioelongata Sacco Trivio europaea Mtg. Cassis sp. Cassidaria echinopkora L. Nassa ( Amycla ) semistriata Br. » (Hinia) musiva Br. » ( Niotha ) clathrata Borri. Murex trunculus L. y) absonus Jan. » cfr. spinicosta Bromi. » brandaris L. var. a fi. M. torularius Lmk. Aporrhais pespelecani L. » sp, Ceritium crenatum Br. Bittium reticulatum Da Costa Tritonium cfr. affine Br. Bela buccini formis Bell. Turritella tornata Br. » ( Haustator ) vermicularis Br. » » triplicata Br. » tricarinata Br, Fasciolaria sp. Clathurella cfr* histrix Jan. Crepidula unguiformis Lmk. Colyptraea sinensis L, Gadinia sp* Xenophora agglutinans Lmk. Natica millepunctata L. » ( Polynices ) catena Da Costa. Aàtralium rugosum L. 64 — / Turbo ( Leptothyra ) peloritanus Cantra )) » mamilla Amdr. Cnlliostoma zizyphinus L. » exasperatus Penn. Clanculus corallinus (Gml.) Gibbuln magus L. » ( Forskalia ) janulum Gml. Solariella sp. Alvania cimex L. Fissur ella graeca L. » italica L. Emarginala Uxardi Payr. Patella cerulaea L. Cladocora cespitosa Gualt. Flabellum cfr. avicula Mieli. Distichopora sp. Retepora cellulosa L. C risia Haueri Rss. Le pr alia sp. * Vermetus '■( Serpulorbis) arenar ius L. » subcancellatus Biv. Serpula cfr. spirulaea Link. Assieme a questi fossili sono presenti anche numerosi ciottoli calcarei rivestiti in parte da Celle por a conglomerata Goldf. ed altri tappezzati da Alghe Corallinacee ( Lithotammon sp., Lithophyllum sp.) ed altri perforati dai Litodomi. (Per quanto riguarda i Molluschi occorre notare che vi sono frequenti forme ( Ostrea , Pectunculus. Venus , Cardita, etc.) con entrambe le valve ancora accostate in po¬ sizione fisiologica e riempite dalla ganga del giacimento, così come non mancano delle valve di vari Chlamys recanti sulle superfici l’at¬ tacco di Cladocora cespitosa Gualt. Fra i Gasteropodi, Astralium rugosum L. e Natica millepunctata L. non soltanto hanno lasciato frequentemente il loro opercolo isolato ma talvolta lo hanno conser¬ vato addirittura inglobato nel materiale di riempimento, all’imboc¬ catura della conchiglia. Occorre notare, in ultimo, che quasi tutte le specie rinvenute nel giacimento sono rappresentate da esemplari in vari stadi di sviluppo e non presentano il minimo indizio di ri¬ maneggiamento. Sottoposta a levigazione, l’argilla del giacimento lascia uno sche¬ letro formato da abbondantissime scheggioiine di calcare a cui si associa una piccolissima percentuale di frustoli di materia carboniosa e qualche piccolo grumo di sostanza ferrifera, nonché rare spicole aghiformi di Spugne silicee ( Monactinelìida ), riferibili in gran parte x — 6S — a forme del geo. Cliona Grani., da scarsi radioli, quasi sempre fram¬ mentari, di Echinidi, da frammenti di colonie di Briozoi (fra cui Crisia Haueri Rss., Diastopora sp., Retepora cellulosa L., Lepralia sp., da frequenti conciligliene di Ostracodi appartenenti in gran parte al gen. Cytheridea Bosq. e al gen. Bairdia M’Coy. e da copiosi gusci di Foraminiferi sicuramente determinabili, anche se frequentemente spatizzati o riempiti in parte o del tutto da pirite o, addirittura, Tu¬ befatti perchè riempiti interamente da prodotti ferriferi derivanti, almeno in parte, dall’alterazione di quest’ultima. Per quanto riguarda i Foraminiferi, ifinora ho isolato le seguenti specie: (1). Haplophragmium cartariense (D’Orb.) — f Trochammina infiala (Mtg.) — rr Cyclammina cancellata Brady — . f » pusilla Brady — r Spirillina limbata Brady — rr Sigmoilina celata (Costa) » — rr Spiroloculina planulata Lmk. — r » limbata D*0>rb. — rr » excavata D’Orb . — r » grata Terquem — rr » elegans Silv. A. — r » tenuis (Czjzek) — r Lagena laevis (Montagu) — rr » striata D’Orb. — rr Cristellaria gibba D’Orb. — r » rotulata Lmk. — mf » orbicularis (D’Orb.) — f Polymorphina praelonga Egger — rr » gibba D’Orb. — r » problema D’Orb. — r » cylindroides (Roemer) — r Bolivina textilarioides Reuss — rr » dilatata Reuss — r » punctata D’Orb. — rr VirguUna squamosa D’Orb. — rr Bulimina pyrula D’Orb. — r » ovata D’Orb. — r » elegans D’Orb. var. exilis Brady — rr Pleurostomella alternans Schwag. — rr (1) f — frequente; mf = molto frequente; r — raro; rr rarissimo, — 66 — Cassidulina laevigata D’Orb. — f » calabra (Sequenza) — - r Globigerina bulloides D’Orb. — f » rubra D’Orb. — £ » triloba Rss. — f » gomitulus Seg. — r Orbulina universa D’Orb. — r Sphaeroidina bulloides D’Orb. — r Biloculina bulloides D’Orb. — f Triloculina circularis Born. — r Miliolina laevigata (D’Orb.) — rr » auberiana (D’Orb.) — r » bronniana (D’Orb.) var. tenuecoHata Silv. A. — rr » trigonula f(Lmk.) — r » linneana (D’Orb.) — a* Quinqueloculina seminulum (Linn.) — f » oblonga (Mtg.) — r » venusta Karrer — r » pulckella D’Orb. — r » bicomis (Wialk et Jac.) — r Planispirina celata (Costa) — rr Textularia gibbosa D’Orb. — f » sagittula Defr. — f » concava i( Karrer) — r » abbreviata D’Orb. — rr » agglutinans D’Orb. — r » conica D’Orb. — ,rr Gaudryina pupoides D’Orb. — rr Pullenia quinqueloba Rss. — f Cymbalopora poeyi (D’Orb.) — rr Discorbina turbo (D’Orb.) — r » globularis (D’Orb.) — f » araucana (D’Orb.) — r » orbicularis (Terq.) — f Planorbulina mediterranensis D’Orb. — rr Truncatulina lobatula (Walk. et Jacob) — f » ungeriana )( D’Orb.) — mf » haidingeri (D’Orb.) — f » dutemplei (D’Orb.) — f Anomalina grosserugosa (Giimbel) — f Pulvinulina elegans (D’Orb-.) — f » calabra (Costa) — f » umbonata Rss. — r Rotalia Beccarii (Linn.) — mf *- 67 — Nonionina umbilicatula (Mtg.) — f » boueana D’Orb. — f » depressula (Walt, et Jacob) — r Poly stornella crispa (Limai.) — f » macella (Fichi, et Moli) — r Considerato da vicino, il complesso delle forme organiche ci per¬ mette di fare delle considerazioni di notevole interesse. Innanzi tutto la cenobiosi parla in favore di un habitat di mare temperato poco pro¬ fondo e ad acque piuttosto tranquille, conciliabile, del resto, col seno costiero in cui il giacimento ebbe a formarsi. Questa induzione è av¬ valorata, oltre che dalla presenza di Cladocora cespitosa e di Disti - chopora sp., dall’assenza, per niente inattesa, delle forme setten¬ trionali indicatrici di ambiente freddo. D’altro canto, la fisionomia complessiva della fauna e la percentuale delle specie estinte, nonché le affinità presentate da tutto il complesso delle forme organiche coi fossilli rinvenuti nei giacimenti fin qui noti, messe in rapporto con le osservazioni di ordine stratigrafico cui abbiamo accennato, mi pare che ci debbano indurre ad attribuire i sedimenti che c’interessano al Pliocene antico e, precisamente, al Piacenziano. Verso l’alto le argille della Cala Bianca cominciano a contenere dei cristalli o frammenti di cristalli di augite, di anfibolo e, subordina¬ tamente, di plagioclasi vari. Finche, a circa 2 o 3 metri dalla super¬ ficie includono uno strato di materiale vulcanico, visibilmente alte¬ rato, potente circa 20-25 cm., formato di interclusi basici costituiti in predominanza da pirosseni e da anfiboli a cui si associano vari pla¬ gioclasi, qualche frammento di cristallo di olivina e di magnetite. In¬ sieme con questi materiali esistono anche frequenti ciottoli calcarei i quali presentano una crosta di alterazione superficiale grigio-bruna scura o nerastra, di aspetto limonitico. Il tutto, fortemente cementato da carbonato di calcio, si comporta come una crosta abbastanza te¬ nace. Questo strato di prodotti estranei alla sedimentazione normale organogena è stato interessato da tutte le perforazioni locali per ri¬ cerca di acqua potabile, tanto alla Cala Bianca quanto sul Porto de» gl’Infreschi. Al di sopra di questo strato si hanno ancora m. 1,50 a m. 2 delle solite argille fossilifere che passano quasi insensibilmente ad una formazione molassiea friabile a grana fina, di colore giallastro, iàe diventa più o meno rossastro sulle superfici più esposte all’a¬ zione degli agenti atmosferici. Queste molasse, potenti da 7 a 10 me¬ li i. fin qui non mi hanno fornito fossili; ma esse rivelano un nesso così indissolubile con le argille piacenziane sottostanti ed hanno una facies così affine a quella degli analoghi sedimenti dell’Avellinese, che io non esito ad attribuirle, almeno provvisoriamente, all’Astiano* — 68 — Studiando più da vicino queste molasse, si nota che in seno ad esse s’intercalano degli straterelli o dei crostoni irregolari, anch’essi are¬ nacei, di solito a cemento calcareo, che sporgono, per la loro maggiore consistenza, sulle superfici di erosione del giacimento. Verso l’alto anche queste molasse vanno gradatamente arricchendosi di cristalli interi o frammentari di augite, di olivina e di vari feldspati, finché alternano o cedono il posto ad un complesso conglomeratico fatto di ciottoli ellissoidali e di piastrelle formati a spese delle rocce più va¬ rie, come calcare liasico, selce di vario colore, arenaria silicea, ga¬ lestro, porfido quarzifero, argilloscisto, etc. Su questo .conglomerato poligenico, di potenza variabile da luogo a luogo, si adagia una for¬ mazione tufacea discretamente tenace, leggera e ruvida al tatto. In questo tufo, la cui potenza va da 1 a 2 metri, spiccano di tanto in tanto dei fenocristalli di sanidino e delle piccole pomici biancastre completamente vetrose. Questi sedimenti piroclastici il cui particola¬ reggiato esame dal punto di vista petrografie© e chimico non mi sa¬ rebbe possibile qui, rivestono, a mio modo di vedere, il più alto in¬ teresse e ci aiuteranno, spero fra non molto, a comprendere meglio la storia del vulcanismo tirrenico di cui, fra l’altro, i centri eruttivi dei Campi e delle Isole Flegree e quello del Somma-Vesuvio sono una di¬ retta filiazione. Essi ci dicono intanto, prima che venga precisata la pertinenza di essi a questo piuttosto che a quell ’altro centro erut¬ tivo, che tra la fine del Piacenziano e durante tutto l’ Astiano si svolse la prima fase delle conflagrazioni vulcaniche che diffusero i loro pro¬ dotti in questo incantevole lembo della Campania. Quest’ultima for¬ mazione tufacea a pomici e sanidino spetta, assai probabilmente, al Pleistocene ed è sormontata da uno strato di materiale piroclastico incoerente, di esiguo spessore, commisto in superficie col terreno vegetale. Si tratta anche qui di pirosseni ed anfìboli interi o fram¬ mentari, commisti con piccolissime pomici di colore biancastro e con rari cristalli di olivina e frequenti plagioclasi, più o meno caolinizzati, e con masserelle di sostanza ferruginosa. Un giacimento assai più esteso di sedimenti pliocenici si rin¬ viene fra Lentiscosa, Camerota e Licusati. Anche qui si ha la stessa successione dei materiali. A Lentiscosa il conglomerato di base è rap¬ presentato dalla breccia fortemente cementata da carbonato di cal¬ cio che riposa sul calcare liasico locale ed è in parte visibile a Nord del paese e nelle adiacenze della Torre di Teano. Però da questa latitu¬ dine (fino a quella ancora più meridionale della Torre dì Poggio i sedimenti pliocenici sono stati rimaneggiati dalla denudazione post¬ pliocenica. Le argille piacenziane fossilifere, identiche a quelle della Cala Banca, formano le colline a Sud del paese e furono sfruttate fino a qualche anno addietro da una piccola fabbrica locale di laterizi, nella località Fontana. Qui nella sezione stradale si può studiare agevolmente la successione verticale dei materiali. Le argille piacen- ziane incominciano ad inquinarsi di sabbia silicea e sfumano in una formazione molassica friabile di color giallastro, più o meno carico, la quale verso l’alto diventa rossastra ed include deg’i strati o zonule di conglomerato poligenico, identico a quello della Cala Bianca e degl’Infreschi. Queste molasse, più o meno ricche di ciottoli ellis¬ soidali e di piastrelle, formano per intero la collina Cerzulla su cui sorge la Chiesa di S. Rosalia. Proseguendo verso il Comune di Ca- merota, i sedimenti pliocenici incominciano ad essere avvertiti ad Ovest dell’abitato, ma è soltanto nel versante Nord e Nord-Ovest di questo che possono essere seguiti tutti i termini della serie. La brec¬ cia di trasgressione è formata a spese dei calcari del Lias superiore su cui si adagia ed è qua e là discernibile nella contrada S. Vito. Su di essa si adagiano le argille plastiche fossilifere in seno alle quali esistono, specialmente nella contrada Prato, numerose cave attive che alimentano l’industria figulina locale. Queste argille passano anche qui verso l’alto a molasse tenere più o meno giallastre, fatte di ele¬ menti silicei prevalenti, che intercludono più o meno frequentemente degli strati arenacei abbastanza tenacemente cementati, ma di piccolo spessore, che si avvertono specialmente ad Ovest dell’abitato e nella collina S. Vito e che sporgono a guisa di croste sulle superfici esposte alla denudazione. Il tutto è identico per caratteristiche strutturali e petrografiche alle formazioni coeve dell’ Avellinese, per cui un cam¬ pione prelevato in quest’ultimo territorio potrebbe essere facilmente scambiato con un campione prelevato a Camerota. Nella contrada Massa tale melassa s’inquina più o meno fortemente di un pigmento carbonioso, (finché sulle sponde del vallone ivi esistente essa lascia scorgere frequenti ma non estese intercalazioni di straterelli di lignite più o meno terrosa, bruno-nerastra, potenti da qualche centimetro a qualche decimetro. Quivi, al contatto fra le argille piacenziane e le molasse sovrastanti, scaturisce una piccola sorgente di acqua po¬ tabile che imbeve fortemente la molassa e si perde nel fondo del vallone. In questa località si fece in passato un tentativo di sfrutta¬ mento industriale della lignite, ma tale tentativo non ebbe seguito a causa della scarsezza, della mediocre qualità e della eccessiva umi¬ dità del prodotto. A ridosso delle molasse astiane si adagiano dei con¬ glomerati poligenici, coi caratteri più volte esposti, e che si esten¬ dono specialmente sul versante Nord-Est della collina di S. Vito, dove sono sfruttati attivamente, e giungono, con varie interruzioni, fino al Camposanto di Camerota. 70 — Procedendo verso Licusati (1), bisogna cercare il conglomerato della trasgressione pliocenica tra la S. S. Annunziata e S. Antonio. In que¬ ste ultime località esso è in parte mascherato dal detrito di falda, più o meno cementato, che si sta formando dal Pleistocene all’Attuale. Le argille piacenziane fossilifere del territorio di Licusati sono studia¬ bili, attraverso le modeste perforazioni praticate per ricerca di acqua, fino alla profondità di circa 8 metri. Esse hanno i caratteri esteriori consueti ma contengono (Contr. Pantano) una minore quantità di sche¬ letro sabbioso rispetto alle altre fin qui esaminate. Ciò mi è risultato dalla levigazione ed è stato confermato per altra via da uno dei vasai di Camerota che provò a modellarle. Queste argille piacenziane si estendono nelle contrade Fornaci, Boccafiera e Pantano e sono la propaggine settentrionale di quelle che abbiamo visto affiorare nella contrada Prato di Camerota. Verso l’alto esse intercludono degli strati arenacei o molassici i quali anche qui risultano talvolta inquinati da frustoli o straterelli di lignite terrosa bruno-nerastra, di entità tra¬ scurabile. La facies di molasse tenere giallastre astiane è avvertibile specialmente lungo il decorso del valloncello che mette capo alla località S. Sofia, dove una sezione mette allo scoperto un tipico te¬ stimone di questa roccia. Verso Ovest i sedimenti pliocenici affiorano sulla sommità del contrafforte di S. Iconio che sorge alla base e ad occidente della mon¬ tagna omonima. A S. Iconio sul conglomerato di base, riposante sulla roccia di sponda calcareo-dolomitica o selcifera appartenente al Lias (non al Cretaceo medio, come vorrebbe il rilevamento ufficiale), si adagiano le argille plastiche fossilifere piacenziane, manifestanti i caratteri più volte esposti, e sfruttate localmente da una modestissima e non sempre attiva fabbrica di embrici e di vasi destinati alla rac¬ colta della resina della vicina pineta. Anche qui, come al Porto degli Infreschi, a circa 3 metri di profondità le perforazioni per ricerca di acqua incontrano un crostone tenace di circa 20-25 cm. di potenza, formato prevalentemente da materiale vulcanico assai alterato. Del sovrastante mantello molassico-conglomeratico dell’ Astiano la denuda¬ zione ha lasciato qui una esile coltre di ciottoli ellissoidali e di piastrel¬ le che presentano le stesse caratteristiche della formazione coeva stu¬ diata negli altri territori. A S. Iconio, come del resto in alcune altre zone incolte del versante esaminato, anche un fattore floristico, che, per quanto non abbia peso, mi piace ricordare, si aggiunge alle affi¬ ci) Mi e grato inviare da queste pagine i più! sentiti ringraziamenti al Dott. Angelo Ragucci di Licusati per rinteresso che pose nelle mie ricerche e per le cortesie che mi profuse durante il rilevamento geologico del territorio. — 71 — nità faunistiche esistenti tra queste argille piacenziane e quelle coeve della Calabria meridionale, e consiste nella grande diffusione allo stato spontaneo della pianta della liquirizia ( Glycyrrhiza glabra L.). Da quanto lio esposto emergono vari elementi che, per quanto incompleti, contribuiscono, a mio modo di vedere, a rendere meno incerta la ricostruzione paleogeografica del territorio esaminato. Po¬ tremmo dire, quindi, che il mare piacenziano lambisse con le sue rive: da un lato le falde dei monti S. Iconio e S. Antonio e dall’altro, per il Porto degli Infreschi, il Rione Savarese, il Rione Pollareto, battesse sui contrafforti di La Vaccuta, di T. Pistillo e T. Carusello e, per la depressione di Licusati, raggiungesse il limite settentrionale della sponda della T. Linnarino, passando sotto S. Elia e la S. S. Annunziata e delimitando tutta la sponda orientale della dorsale che culmina con M. Croce del Calvario. Abbiamo buoni argomenti, offertici dalla fauna e dalla flora fossile per ritenere che questo mare non andasse molto al di là dei 450-500 metri al di sopra del livello attuale. In questo seno di mare, verso la fine del Piacenziano i sedimenti organogeni accoglievano anche i prodotti dell’esordiente vulcanismo tirrenico che doveva diventare, poi, più persistente e manifesto durante tutto l’Astiano, come lo attestano i materiali esistenti in seno alle forma¬ zioni molassiche di questa età. Mentre ciò accadeva, nella depressione Camerota-Licusati si andavano depositando, insieme ai prodotti ter¬ rigeni, degli scarsi avanzi fluitati di vegetali che dovevano dare più tardi i limitatissimi affioramenti locali di lignite. Completamente e- mersi, tutti questi sedimenti soggiacquero alla denudazione che dura fino al giorno d’oggi e, mentre in alcuni punti subivano un’altera¬ zione più o meno spinta, in altri venivano erosi e convogliati dagli agenti atmosferici nelle zone depresse per mescolarsi coi prodotti più recenti e dare con questi il principale contributo ài suolo vegetale ed impartire al territorio quell’impronta paesistica sotto cui oggi lo vediamo. T Ricerche farmacologiche sul canforato di esametil-l-3-diamino-propanolo-2 Nota del socio Mario Covello (Tornata del 30 giugno 1948) In una nota da me pubblicata in questo bollettino (1) vari anni or sono, davo conto della preparazione di alcuni sali di eventuale im¬ piego farmaceutico ottenuti a partire da una base ammonica quater¬ naria biacida, l’idrossìdo di esametil-l“3-diamino-propanolo-2 : OH CH2 . N (CH3)3 I CH . OH I CH2 . N (CH3)3 I OH riservandomi di completare le mie ricerche chimiche con indagini farmacologiche. Mercè la collaborazione del Prof. Vittorio Susanna dell’Istituto di Materia Medica di questa Università, mi è stato ora possibile condurre a termine una prima serie di esperienze su uno di quei sali allora preparati e studiati solo dal punto di vista chi¬ mico: il canforato di esametil-U3-diamino”propanolo-2. I risultati delle esperienze sono stati così incoraggianti da ravvisare l’opportu¬ nità di renderli noti con la presente comunicazione. Il canforato di esametil l-3-diamino-propanolo-2, è stato ottenuto a partire dal biioduro corrispondente. Si è liberata dapprima la base per azione dell’ossido d’argento umido, quindi la stessa è stata salifi¬ cata con la quantità strettamente necessaria di acido canforico. Una determinazione d’azoto secondo Kjeldhal, praticata sul pro¬ dotto ottenuto e la determinazione della temperatura di decomposi- (1) Boll. Soc, Nat., XLV, 217, 1933. zione (200°) mi hanno confermato la identità di esso ai fini dell’im¬ piego farmacologico. ESPERIENZE FARMACOLOGICHE (con la collaborazione di Vittorio Susanna) Le ricerche farmacologiche di G. Bufalini (1) sui sali di tetra- me til aminoli io e quelle di P. Piccinini e di Torchio (1. c.) sul for- miato di tetrametilammonio (Forgenina) ci hanno consigliato ad ese¬ guire ricerche farmacologiche intese a stabilire se anche questo nuovo composto possedesse azione cardiocinetica affine alle droghe digita¬ liche ed agli analettici e potesse considerarsi un tonico del cuore e dei vasi privo di azione comulativa. Sono state pertanto prese in esame: 1) l’azione generale sulle rane; 2) l’azione tossica nelle rane, nel coniglio e nel cane; 3) l’azione cumulativa, nel cane; 4) l’azione cardiocinetica sul cuore di rana sospeso all’ENGEL- MANn e sul cuore isolato di gatto, secondo il metodo di Langendorff con l’apparecchio di Herlitzka; 5) la pressione sanguigna nel cane; 6) l’azione sul respiro nel cane. Azione generale. 1° Esp. Rana gr. 30. ore 9,50 iniezione nel sacco dorsale linfatico di 1 cc. della so¬ luzione all’l|%, gr. 0,00033/grammo rana; » 10,15 non si osserva alcun fenomeno degno di nota; » 11,13 si ripete nel sacco linfatico dorsale un’altra iniezio¬ ne di 2 cc., gr. 0,00066; » 11,40 la rana si mostra vivace; » 11,45 s’iniettano ancora 2 cc. di soluzione; » 11,50 non si osserva alcun fenomeno degno di nota; » 12,12 si iniettano ancora 2 cc. di soluzione. Durante tutto il pomeriggio la rana si mostra vivace come al principio dell’esperimento e così pure l’indomani. 2° Esp. Rana gr. 25. ore 9,20 iniezione nel sacco dorsale linfatico di 2 cc.; » 9,40 nessun fenomeno degno di nota; » 10,10 iniezione di 3 cc., gr. 0,00099/gr. rana; » 10,30 nessun fenomeno; » 12,00 iniezione di 5 cc., gr. 0,00165/gr. rana. ^ _ _ _ (!) Archivio di iFarm. iSperim, e Scienze Affini, ,p. 565, 1908 — 74 — Non si osserva alcun fenomeno degno di nota durante il corso della giornata. Identici risultati si hanno in altre due rane, rispetti¬ vamente di gr. 35 e gr. 28, nelle quali sono stati iniettati nel corso degli esperimenti 10 cgr. di prodotto. I risultati di queste esperienze dimostrano che la sostanza a dosi progressive da 1 a 10 cgr. nelle rane non ha provocato alcun feno¬ meno tossico contrariamente agli altri sali di tetrametilammonio che per dosi di 1-2 mgr. nelle rane, producono azione curarica consistente in completa immobilità con perdita della eccitabilità delle termina¬ zioni nervose intramuscolari, mentre persiste la contrattilità dei mu¬ scoli ed in seguito, dopo parecchie ore, sopraggiunge la morte per paralisi generale (Brown e Fraser, 1. e.). Azione tossica. Essendosi dimostrate di nessuna tossicità nelle rane le dosi spinte fino a 10 cgr., si è passato allo studio dell’azione tossica nel coniglio e nel cane, impiegando una soluzione di canforato di esametil-13- diamino-propanolo 2 al 10%o. Coniglio di kg. 1,400 : riceve per via endovenosa, con velocità costante di 1 cc. ogni mezzo minutò, ce. 46 della soluzione al 10%o. cioè gr. 0,46 in toto, corrispondenti a gr. 0,33 per kg. di peso. L’ani¬ male non presenta alcun fenomeno durante il tempo in cui viene praticata l’iniezione endovenosa, nè dopo l’iniezione, durante il corso della giornata. Suturata la ferita operatoria, tolto l’animale dal ta¬ volo di contenzione e messo in libertà, lo stesso non presenta alcun fenomeno degno di rilievo per più giorni consecutivi all’iniezione en¬ dovenosa. Cane di kg. 3,300: si iniettano nella giugulare esterna 200 cc. della soluzione al 10%o, cioè 2 gr. corrispondenti a gr. 0,61 per kg. di peso. Come nel coniglio non si osserva alcun fenomeno tossico im¬ mediato nè a distanza. Azione cumulativa. II canforato di esametil-l-3-diamino-propanolo-2, non presenta azione cumulativa, non sommandosi le prime dosi con le seguenti. In un cane del peso di kg. 5,200 furono somministrati per 10 giorni consecutivi per os, a mezzo sonda, 10 cc. prò die della solu¬ zione al 10%o. Nelle urine deH’animale, analizzate giorno per gior¬ no. fu ritrovata quasi totalmente la quantità di sostanza sommini¬ strata. Il farmaco dunque, dopo essere stato assorbito e trasportato nel sangue viene principalmente abbandonato dal réne. — 75 — Azione sul cuore di rana sospeso alla Hengelmann. La lettura del tracciato ottenuto con questo esperimento, fa os¬ servare che il preparato sul cuore in sito di rane, smidollate o no, produce per dosi di 3 gocce, istillate direttamente sul cuore e per iniezione di 1/2 cc. nel sacco linfatico dorsale, dopo poco, rallenta¬ mento dei battiti cardiaci da 60 a 36, aumento dell’energia sistolica e consecutivo prolungamento delle diastole, come fu già osservato da Piccinini con la Forgenina e con il cloruro di tetrametilammonio. Queste modificazioni dell’attività cardiaca si rendono più mani¬ feste su cuori deboli nella loro attività che su cuori normali e durano per molte ore2 come si è avuto modo di constatare con l’esperienza sul cuore isolato di gatto nel quale l’azione del preparato è manifesta ancora dopo 17 ore dall’inizio dell’esperienza. Inoltre, è di notevole importanza che l’azione si manifesti ugual¬ mente se la rana fu in precedenza atropinizzata o se il cuore fu atro- pinizzato dopo l’iniezione del farmaco. Questo esperimento esclude ogni azione del vago e ne consegue che viene rinforzata direttamente la forza contrattile del miocardio. Le ricerche sul cuore isolato di gatto, secondo il metodo di Lan- gendorff, con l’apparecchio di Herlitzka, hanno confermato i risul¬ tati ottenuti sul cuore di rana. La lettura della grafica ottenuta permette infatti di concludere che l’attività cardiaca che era debole e presentava delle aritmie, per azione del preparato, si regolarizza, si rinforza e diventa più fre¬ quente da (69 a 79 pulsazioni al m') ma per breve tempo, poi il cuore si esaurisce. Per azione del preparato preso in esame, le proprietà della fibra cardiaca vengono dunque favorevolmente così influenzate: inotropa, batmotropa, dromotropa, tonotropa e cronotropa positive sul cuore di gatto; sul cuore di rana invece risultano positive le prime quattro proprietà. Azione sulla pressione sanguigna. Dalle ricerche di Jodlbau’r (1) e Formanék (2) risulta che il clo¬ ruro di tetrametilammonio determina aumento della pressione arte¬ riosa per eccitazione dell’apparato vasocostrittore periferico, dello splancnico e cioè del centro vasomotore bulbare. Secondo ulteriori ricerche di Formanék, l’eccitamento dell’ap¬ parato vasocostrittore coi sali di ammonio sarebbe prevalentemente (il) Archiv. interri. iPharm. et Thér., VII, 1900. (2) Archiv. intern, iPharni. et Thér., IX, 1901. — 76 — centrale, con le ammine con uno o due metili sarebbe al tempo stesso centrale e periferico, mentre con la trimetilammina e con il tretra* metilammonio sarebbe del tutto periferico. Così pure l’azione sul vago dei sali ammoniacali sarebbe eviden¬ temente centrale, ma con i derivati metilici, con l’aumento del nu¬ mero dei metili diverrebbe sempre più periferico. Questo è in ac¬ cordo con l’azione del cloruro di tetrametilammonio. Sempre secondo le ricerche di Formanék, l’aumento del numero dei CH3 farebbe diminuire l’azione cardiaca vasocostrittiva e sul cen¬ tro del vago ed il tetrametilammonio eserciterebbe un’azione esclu¬ sivamente periferica. Senza addentrarci in una disamina della sede d’azione del can¬ forato di esametil-l-3-diamino-propanolo“2, ne abbiamo studiato sem¬ plicemente l’azione sulla pressione nel cane sveglio ed in condizioni normali con un chimografo tipo Ludwig con la cannula nella caro¬ tide sinistra. Dalla grafica ottenuta si rileva che in seguito alla iniezione nella giugulare esterna di 10 cgr. si produce immediatamente un modico innalzamento della pressione sanguigna, da 122 a 154 mm. di Hg, con un aumento della frequenza delle pulsazioni cardiache da 60 a 153 al m' e degli atti respiratori da 22 a *27. Quest’azione, a nostro avviso, è dovuta ad un tempo alla base biacida quaternaria ed all’acido canforico, che di per se eccitano il respiro e fanno aumentare la pressione del sangue. Azione sul respiro. Come animali da esperimento sono stati usati cani di piccolo peso. Mediante cannula di vetro ad Y, introdotta in trachea e messa in comunicazione con un tamburo ricevitore di Marey, si raccoglie¬ vano le grafiche sopra un cilindro rotante coperto di carta affumicata. L’osservazione del tracciato ottenuto fa vedere che in seguito alla iniezione in circolo di gr. 0.10 di sostanza, la frequenza degli atti re¬ spiratori aumenta da 15 a 28 e l’ampiezza da mm. 33 a mm. 34 e suc¬ cessivamente per la dose di gr. 0,20, la frequenza da 28 a 70 e l’am¬ piezza da 34 a 45 mm. Conclusioni Dalle esperienze esposte si possono trarre le seguenti conclusioni: 1) ii canforato di esametil-l-3-diamino propanolo-2, iniettato nel sacco dorsale linfatico delle rane a dosi progressive da 1 a 10 cgr., si è dimostrato privo di azione generale. 2) Nelle rane per dosi spinte fino a 10 cgr. per iniezioni nel ' — 77 — sacco dorsale^ linfatico, nel coniglio alla dose di gr. 0,33 per kg. di peso e nel cane alla dose di gr. 0,61 per kgr. di peso, si è dimostrato privo di azione tossica. 3) Sul cuore di rana modifica le proprietà inotropa, batmotro- pa, dromotropa, tonotropa positivamente e cronotropa negativamen¬ te; sul cuore di gatto ha influenza su tutte le proprietà della fibra muscolare cardiaca. 4) Aumenta la pressione sanguigna e l’eccitabilità del centro respiratorio. Napoli. Istituto di Chimica Farmaceutica e Tossicologica della Università , 1947. Descrizione di un arto posteriore soprannumerario in una Rana esculenta rinvenuta in natura Nota del socio Ugo Moncharmont (Tornata del 30 giugno 1948) Nel fondo del cratere di Astroni — Campi Flegrei (Napoli) — il 9 maggio 1948 lio rinvenuto in località detta cc Cofani-elio piccolo », nell’acquitrino a fondo torboso del prosciugato Lago di Mezzo, un giovane esemplare di Rana esculenta var. Lessonae Camerano, di sesso maschile. Esso presentava, sulla faccia ventrale della coscia della zampa sinistra, un moncone di arto posteriore soprannumerario. Questo arto aveva la muscolatura bene sviluppata soltanto nella co¬ scia, mentre la gamba ed il piede erano rappresentati soltanto dai segmenti ossei relativi, ricoperti dalla pelle e bene articolati fra loro. Dall’aspetto generale l’animale appariva normale, dorsalmente era di colore verde dominante con macchiettature sparse, ventralmente bianco. L’ arto soprannumerario non procurava verosimilmente grande disturbo nè nel salto nè nel nuoto e, mentre non era capace di movimenti propri indipendenti, era dotato di sensibilità agli sti¬ moli meccanici cutanei pari a quella degli arti normali. Questo ul¬ timo fatto è in relazione alla mancanza di nervi motori propri del¬ l’arto soprannumerario, mentre la sensibilità è attribuibile a quella generale cutanea del corpo. A completamento della fig. 1 A è utile dare le dimensioni del¬ l’esemplare in esame: Lunghezza totale dall’apice boccale all’ultima falange del 4° dito min. 82. Lunghezza dall’apice boccale alla spina iliaca anteriore mm. 35. Lunghezza della zampa posteriore sinistra distesa, dalla spina iliaca anteriore all’ultima falange del 4° dito mm. 53. Lunghezza della coscia dalla plicatura cutanea coxo-ad- dominale alla strozzatura articolare del ginocchio mm. 17. Lunghezza del moncone (sola coscia) mm. 11. Le altre dimensioni relative all’arto soprannumerario sono ri¬ levabili dalla fig. 1 B. L’animale, che ho tenuto in cattività per circa un mese, non ha presentato modificazioni di rilievo in questo periodo. Esaminati tutti gli altri organi del corpo, questi non presentavano anomalìe nè iper¬ trofie. Ho ritenuto interessante la descrizione delle varie formazioni costituenti l’organo suprannumerario, senza limitarmi a quella della forma esteriore e della osteologia, come in generale è stato fatto, spe¬ cie dagli AA. più antichi. La raccolta di queste descrizioni, in particolare di casi occorsi in natura, quando in numero sufficiente, potrà giovare a dare luce Fig. 1. sul significato e sul modo di procedere dei fenomeni della rigene¬ razione e della morfogenesi. Casi di arti soprannumerari rinvenuti in natura e descritti nella letteratura non sono molto frequenti tra gli Anuri; essi di solito si riferiscono al gen. Rana. Ricercando tra le descrizioni esistenti, ho trovato appena due casi paragonabili a quello da me descritto. Essi sono: 1) un esemplare di Pelohates fuscus con arti doppi posteriori soprannumerari ventrali ottenuti sperimentalmente da Tornier (1905) caso n. 6, fig. 32 a pag. 106, e riportato da Przibram (1921). L’arto soprannumerario dell’esemplare da me descritto si presenta molto si¬ mile a quello del lato sinistro dell’esemplare descritto da Tornier, soltanto che in quest’ultimo la coscia è relativamente più lunga e sopratutto manca la bilateralità. — ffó — 2) Un esemplare di Rana esculenta var. ridihunda Pallas cf de¬ scritto da A. Bonnet e M. Rey (1935). Gli AA. lo descrivono molto brevemente e ne danno soltanto una fotografia e una ròngtengrafia. Risulta come differenza che non vi sono modificazioni nell’ambito dell’ileo e che l’arto supplementare si articola sull’ileo, anterior¬ mente al femore destro. L’arto comporta anch’esso due segmenti, un femore ridotto, di 18 mm. e una tibia di 12 mm. bene articolati fra di loro. Ball’esame della muscolatura gli AA. ritengono che l’ani¬ male potesse muovere questo membro, ma non dicono se fosse pre¬ sente o meno l’innervazione motrice. Evidentemente gli AA. sa¬ ranno venuti in possesso dell’esemplare già morto e quindi non hanno potuto osservare se l’arto soprannumerario fosse atto al movimento. Anche nel caso da me studiato, mentre la muscolatura appariva es¬ sere atta al movimento, la mancanza di innervazione non ne consen¬ tiva nessun movimento proprio. Per lo studio l’animale è stato trattato con una soluzione sa¬ tura di acido picrico in alcool a 70°, che dà un’ottima dissociazione dei muscoli e dei connettivi, mentre vasi sanguigni e nervi risaltano bene sui tessuti circostanti. Nella descrizione. dell’esemplare in esame mi atterrò alla ter¬ minologia anatomica e all’ordine di esposizione della cc Anatomie des Frosches » del Gaupp (1896), descrivendo per intero l’arto sopran¬ numerario e tutte le anomalie che in conseguenza si sono verificate nell’arto normale. Lo scheletro (fi'g. 2A e B) Nel bacino sono presenti due ilei normali, sinistro e destro, che si articolano con le loro estremità alle apofisi trasverse della verte¬ bra sacrale; vi è inoltre un’altra formazione ossea, corrispondente ad un ileo soprannumerario, che si impianta sulla superficie ossea esistente tra la base dell’ileo sinistro e la spina pelvica anteriore, lasciando una specie di larga fenditura tra le due porzioni degli ilei. La zona basale ha un’estensione molto maggiore del normale, perchè al disotto di essa v’è lo spazio anche per la cavità acetabo- lare dell’ arto soprannumerario. L’ileo soprannumerario, avente uno spessore circa metà di quello normale, presenta una sezione simile al margine ventrale rotondeggiante di un ileo normale, e manca quindi dell’ala ossea dorsale. Esso termina liberamente assottigliandosi, senza prendere altri rapporti con l’ileo sinistro. Sulla faccia mediale del¬ l’ileo soprannumerario si innestano alcune fibre del m. coccygeo- ilìacus normale; su quella laterale il m. iliacus externus soprannume- — 81 — . rario. Esso è completamente ossificato, e la sua base forma il mar¬ gine superiore dell’acetabolo soprannumerario. L’ileo normale con¬ serva i suoi normali rapporti con la cavità deH’acetabolo normale. L ''ischio si presenta nella sua posizione normale, ma forma buona parte della superficie inferiore della cavità deìl’aeetabolo, non solo dell’arto normale sinistro, ma anche di quello soprannumerario. Si presenta quindi, dal lato sinistro, come una formazione doppia, ciò che è convalidato dalla presenza di una piccola apofisi diretta cau¬ dalmente e lateralmente, che segna il limite, in quel tratto, tra le due formazioni ischiatiche. La faccia destra dell’osso si presenta nor¬ male. La cartilagine rimanente ( cartilago rcmanens pelvis ) è anche du¬ plice e completa le cavità acelabolari. Medialmenlc all’acetabolo so¬ prannumerario vi è una cartilagine sita caudalmente alla spina pel¬ vica anteriore, mentre nello spazio tra i due acetaboli, il soprannu¬ merario ed il normale sinistro, sporge un’apofisi cartilaginea su cui si innestano il m. ileo-fibularis , Vileo-jemoralis dell’arto soprannume¬ rario e il m. sartorius dell’arto normale. Questa apofisi deve essere considerata come una spina pelvica anteriore soprannumeraria. Per effetto della presenza di due acetaboli sulla metà destra del bacino, 6 il setto sinfisario è leggermente spostato verso sinistra, anziché tro¬ varsi nel piano sagittale dell’animale. Il femore soprannumerario è, rispetto a quello normale, più piccolo e più sottile, ma serba tutte le proporzioni e le sue partico¬ larità inalterate. La tibia-fibula si presenta come un osso unico e non vi è traccia di duplicità come nel caso normale; sia la lunghezza che il suo calibro sono circa la metà di quelle del femore. La tibia-fibula si articola prossimalmente al femore con una regolare articolazione che porta un’ampia capsula cartilaginea per l’inserzione dei muscoli della coscia; distalmente una piccola epifisi cartilaginea rappresenta l’articolazione con il piede che è rudimentale, essendo formato dalla piccola appendice rappresentata in fig. 1 B. Lungo la tibia-fibula e nella zampa non vi è traccia di una muscolatura. Tutte le artico¬ lazioni del femore con il bacino e con la tibia-fibula sono normali. Muscolatura dell’arto soprannumerario M. triceps femoris — (fig. 4, 5) — Il capo àntico (= m. crii- ralis ), si origina con due suddivisioni, l’una, più ventrale, nel tendine distale del capo medio (m. tensor fascine latae ) dello stesso tricipite fe¬ morale, l’altra sul tendine di origine del rn. adductor longus ; dell’arto normale. Lungo il suo percorso ricopre il tendine prossimale del m. ileo-fibularìs. Distalmente si innesta sulla capsula del ginocchio, con inserzione dorsale su questa, mentre alcune altre sue fibre si attac¬ cano sul terzo distale del femore. È un muscolo sensibilmente ridotto e rappresenta verosimilmente l’insieme del m. crnralis e del ni, giu- taeus magnus (capo póstico). Il capo medio (= m. tensor fascine latae ) si origina sull’ileo soprannumerario e, con il suo tendine di¬ stale, si continua con quello prossimale del rn. crnralis + m. glutaeus magnus . M. sartoria s — (fig. 3) — Si presenta normalmente e si origina con dei sottili tendini lungo il margine antero-ventrale della cartila¬ gine sinfisaria, caudalmente alla spina pelvica anteriore normale; decorre come una fascia di larghezza costante e si inserisce distal¬ mente sulla calotta tendinea dell’articolazione femore-tibio-tarsale. M. adductor longus — 1 (fig- 3, 4) — Si origina lungo la cresta pelvica anteriore (margine cefalico del disco sinfisario), al disotto del tendine del rn . sartorius. Termina nella superficie dorsale della capsula tendinea del ginocchio, dopo di aver messo in comune nel suo ultimo terzo delle fibre con V adductor magnus. Al disotto, e per quasi l’intera lunghezza deWadductor longus. decorre l’arteria ischia¬ tica, provvista di pigmento. M. adductor magmi s — (fig. 3, 4) — Capo ventrale — Si origina dal margine ventrale della sinfisi pubica, e nel suo ultimo terzo di¬ stale innesta parte delle sue fibre su di un tendine comune con Vad- ductor longus e termina sulla epifisi distale del femore. Capo dorsale — Questo capo, anziché originarsi insieme con il M. PEC T. Fig. 3. capo ventrale sulla superficie ischiatica, si attacca per tutta la metà prossimale della sua lunghezza sul capo ventrale del m. adductor rnagnus dell’arto normale sinistro, inserendosi distalmente lungo la faccia mediale del femore dell’arto soprannumerario. Capo accessorio — Si origina sul tendine del capo ventrale del in. semitendineus e, insieme a questo, si attacca sul margine ven¬ trale della sinfisi. Distalmente abbraccia e si inserisce sul terzo di¬ stale del femore. — 84 M. gracilis major — vedi m. semi tendine us. M. gracilis minor — (fig. 3) — È rappresentato da una sottile fascia muscolare sita sulla faccia mediale dell’arto soprannumerario. Questo muscolo si origina sul margine caudale del disco simfisario M. TENS. F.LATAE mediante una fascia tendinea. A circa metà del suo percorso invia fibre (lie si inseriscono sulla superfìcie ventrale del m. gracilis major dell’arto normale; distalmente esso si inserisce sulla , capsula del gi¬ nocchio. M. ileo-fibularis — (fig. 4) — Si origina insieme con il sartorius dell’arto normale al disotto della spina pelvica anterior soprannu¬ meraria, decorre lateralmente al femore e si inserisce sulla faccia la¬ terale della capsula tendinea del ginocchio. M. semimembranosus — Mancherebbe: e ciò forse per i stretti rapporti esistenti tra le facce ventrale e dorsale, rispettivamente del- M.CRUR. ARTO NORM. ART ISCHIATICA M. PECT. CAPO VENTR ADD. MAGN OBTURAT. EST. CAPO ACCESS . ADD. MAGN. M. SART M. ADD LONG. M CRUR.+ GLUT. ARTO SOPR. CAPO VENTR. SEMITEND CAPO DORSALE SEMITEND. CAPO VENTR. ADD. MAGN. E ADD. LONG. M.SART. CAPO COM.AL CAPO VENTR. ADD. MAGN. ARTO NORM + CAPO DORS. ADD. MAGN. ARTO SOPR- CAPO VENTR. SEMITEND. ARTO NORM. GRACILE MAJOR ARTO NORM. M. ADD. LONG. m.crur. ARTO NORM. SARTOR. ARTO NORM. Fi*. 5. l’arto soprannumerario e normale. A meno che non si voglia consi¬ derare come m. semimembranosus quel muscolo che si innesta da un capo sulla estremità distale della faccia dorsale del femore sopran¬ numerario per raggiungere con una curva parabolica il quarto distale del femore dell’arto normale. M. semitendineus — (fig.. 3, 5, 6 e 7) — Il capo ventrale è nor¬ male, e il suo tendine prende rapporti con il capo accessorio dell’arf- ductor magmi s . Il capo dorsale, anziché originarsi con un tendine allungato dalla superficie esterna dell’ischio, si unisce con il capo ventrale del ni. semitendineus dell’arto normale, ed insieme si ori¬ ginano con un capo comune innestato sull’ischio. Su ciascuno d£r due capi del ni. semitendineus , lungo ciascuna delle due facce interne, si innesta un ventre muscolare anomalo. Que¬ sti due capi soprannumerari si uniscono inedialmente in un sottile tendine comune, allungato e che si innesta sul margine caudale del¬ l’ischio, tra l’inserzione del m. gracilis major dell’arto normale e il M. CRUR. C. VENT „ Fig. 6. capo comune suddetto (capo ventrale del m. semitendineus dell’arto normale -fi capo dorsale del semitendineus dell’arto soprannumera¬ rio). Questi due capi soprannumerari che insieme hanno l’aspetto di un unico ventre muscolare bifido distalmente, è di incerta inter¬ pretazione. Può trattarsi infatti sia del m. gracilis major che ha as¬ sunto un’inserzione anomala sul semitendineus , sia di una duplica¬ zione invertita del m. semitendineus stesso. A favore della prima in¬ terpretazione sta che la mancanza di un ni. gracilis major sarebbe cosa strana considerando che tutti gli altri muscoli importanti dell’arto sono presenti, nonché i rapporti di posizione con questi; a favore della se¬ conda stanno la forma e la simmetria speculare in senso antero-po- steriore di questo muscolo con il ni . semitendineus su cui si innesta. Non essendovi innervazione in questi muscoli, ed agendo essi en¬ trambi come flessori, non è stato possibile decidere per l’una o per l’altra interpretazione, tuttavia la prima è, a mio parere, più pro¬ babile, anche se la forma del muscolo non corrisponda a quella di un gracili s major normale. M. iliacus internus — (fig. 4) — 1 Si origina tra la base dell’ileo e la spina pelvica anteriore, decorre sul margine cefalico e ventrale della spina pelvica anteriore soprannumeraria e va ad inserirsi sulla faccia laterale del femore, decorrendo per quasi tutta la lunghezza di quest’osso, al disotto del rn . cruralis -f m. glutaeus magrius. M. PECT. CAPO ACCESS. ADD. MAQn CAPO VENTR. SEMIf VsJ- MAJOR ? Fig. 7, M. iliacus externus — - Ridotto, ma ha normali origine ed inser¬ zione suini eo soprannumerario. M. ileo-jemoralis ( — m. glutaeus parviis ) — (fig. 7) — Si origina dalla base d’inserzione della /spina pelvica anteriore soprannumera¬ ria e si inserisce lungo il primo terzo del femore. Si dispone dorsal¬ mente al ni. iliacus internus. È incrociato dall’arteria ischiatica che vi lascia un ramo. M. pectineus — (fig. 3, 4, 5) — Si origina dorsalmente al m. sur- torius sulla spina pelvica anteriore, e si inserisce lungo la metà pros¬ simale del femore, di cui ricopre la testa articolare. M. obturator externus — (fig. 5, 7) — Si origina dal margijie ventrale del disco sinfisario, dorsalmente all’origine del capo ven¬ erale del m. adductor magmi s 9 e si inserisce sul primo terzo del fe¬ more, medi al mente al pectineus. I muscoli pyriformis, obturator in- — 88 — tennis, gemellus e quadratus jemoris non sono distinguibili, perchè, anche se presenti, essi non hanno individualità propria e si confon¬ dono con il pectinèus dell’arto normale, che si inserisce sulla faccia dorsale del primo terzo del femore soprannumerario. Muscolatura anomala dell’arto normale Vengono descritti soltanto quei muscoli che si discostano dalla normale anatomia. M. sartorius — (fìg. 4) — Possiede un tendine d’origine comune con il m. ileo-fibularis dell’arto soprannumerario che si innesta dor¬ salmente alla spina pelvica anteriore soprannumeraria. Per il ri¬ manente decorre normalmente e al suo estremo distale, prima di in¬ serirsi sulla capsula del ginocchio, riceve il tendine di un muscolo sottile, che si origina dalla superficie ventrale del femore soprannu¬ merario. Quest’ultimo muscolo può essere considerato piu probabil¬ mente come il m. semimembranosus dell’arto soprannumerario, o anche come una biforcazione del sartorio dell’arto normale. M. adductor longus — (fig. 4) — Ha origine sul tendine del m. sartorius anziché sulla spina pelvica anteriore. Per il rimanente si si comporta normalmente. M. adductor magnus — (fig. 4) — Capo ventrale — Si origina in maniera anomala lungo tutto il capo dorsale dell 'adductor magnus dell’arto soprannumerario e si inserisce normalmente sull’arto nor¬ male. Il capo accessorio, senza unirsi al tendine del capo ventrale del semitendineus, si origina direttamente dalla porzione caudale la¬ terale dell’ischio. Il capo dorsale si comporta normalmente. M. semitendineus — (fig. 5, 6) — - Il capo ventrale si innesta per mezzo di una formazione tendinea al capo dorsale del semitendineus dell’arto soprannumeràrio; il capo dorsale è normale. M. pectineus — Si presenta piuttosto ridotto ma con le inser¬ zioni normali. M. obturator externus . — È ridotto e le sue fibre si innestano sulla superficie ventrale del primo terzo del femore dell’arto sopran¬ numerario. Innervazione L’innervazione dell’arto soprannumerario è molto scarsa, mentre è normale nell’arto normale, dove però presenta qualche irregola¬ rità di percorso, relativa alle anomalie muscolari, come si vede per esempio nella fig. 6. — 89 — Il capo dorsale del m. adductor magmi s dell’arto soprannumera¬ rio riceve un ramo nervoso dal ramo profondo anteriore del nervo ischiatico, e ciò è in relazione con la fusione con il capo ventrale del m. adductor magnu s dell’arto normale. Non ho rinvenuto altre par¬ ticolarità, ed in complesso si può affermare che manca un innerva¬ zione propria dell’arto soprannumerario, benché 1 abbia ricercata partendo dal plesso lombare. Vasi sanguigni L’arteria ischiatica dell’arto soprannumerario si origina dall’arte¬ ria ischiatica sinistra, formando un angolo retto con questo vaso: essa si dirige dapprima lateralmente, poi si immèrge ventralmente accavallando la radice delibala dell’ileo normale e di quello sopran¬ numerario, e, superata l’articolazione acetabolare soprannumeraria, decorre profondamente lungo il femore seguendo una linea dorso-la¬ terale, per terminale nella capsula tendinea del ginocchio. Esso si presenta pigmentata su tutto il suo percorso. L’arteria ischiatica soprannumeraria (fig. 7), subito al disotto della testa del femore dà due rami: uno che abbraccia dorsalmente il collo del femore e si ripartisce in rami nel m. ileo-femoralis , e un ramo ventrale che abbraccia ventralmente il collo del femore e si distribuisce al ni. pectineus e al m. obturator externus (corrispon¬ dente all’arteria glutea con la circumflexa femoris medialis prima). Successivamente, circa a metà della lunghezza del femore, si diparte un vaso corrispondente all ''arteria profunda femoris posterior, che, decorrendo lungo il m. ileo-femoralis, si ramifica irrorando i grandi muscoli dorsali e mediali. Non ho potuto seguire le ultime ramifica¬ zioni di questo vaso. L’arteria ischiatica dà ancora un ramo, l’arte¬ ria profunda femoris anterior che si biforca e termina nel m. giu- teus + cruralis e corrisponde all’arteria circumflexa femoris lateralis. Infine l’ultimo ramo laterale è l’arteria cutanea genu lateralis su- perior che si dirige al tegumento dell’arto soprannumerario. L’arte¬ ria ischiatica accenna appena alla continuazione in un’arteria poplitea che manca. La vena femorale, appena sorpassato l’ileo, riceve un ramo so¬ prannumerario proveniente dal ni . cruralis + glutaeus ; subito al di¬ sopra dell’inizio del ventre del ni . cruralis (estremità prossimale) del¬ l’arto normale, la vena iliaca transversa riceve un altro ramo mediale soprannumerario che proviene dall’arto soprannumerario e decorre lungo la faccia dorsale del femore, parallelamente all’arteria ischia¬ tica soprannumeraria. Non si rinvengono altri vasi sanguigni. — 90 — Gli spazi linfatici sottocutanei Il setto addominale, quello inguinale superficiale ed il setto fe¬ morale inferiore si presentano normali, poiché l’arto soprannumera¬ rio si impianta lateralmente al setto femorale inferiore rimanendo compreso tutto nella cavità del sacco linfatico femorale superiore. Il setto femorale inferiore costeggia anche l’arto soprannumerario. Sul moncone è presente il setto anulare gena sviluppato solo anterior¬ mente all’articolazione, e questo setto non si continua con un setto femorale superiore nè con uno popliteo. All’estremità della tibia-(fi- bula vi è un accenno del septum anulare calcaneum. La pelle, per la presenza dei suddetti spazi linfatici, è distaccabile facilmente su tutta la superficie dell’arto. Essa si presenta fortemente pigmentata in nero soltanto sull’estremità del monconcino rappresentante il piede. Conclusione Non è naturalmente possibile stabilire se il fattore determinante l’anomalia descritta sia da attribuire ad un’azione traumatica avve¬ nuta durante la vita larvale, o ad altra causa. Evidentemente se anche vi sia stata una qualche lesione traumatica, questa non lia lasciato dopo la metamorfosi altra traccia apparente, e ciò è comprensibile specialmente per la zona degli arti posteriori, in cui le trasformazioni sono tanto notevoli. Nel caso che ci occupa, le formazioni più complete e meglio sviluppate sono lo scheletro, le articolazioni e i muscoli. Seguono poi i vasi, ed infine i nervi, quasi del tutto mancanti. Un analogo comportamento si rinviene in casi di polimelia descritti da De Fal- vard (1931) e da Canella (1937). Nell’arto in esame non vi è traccia di formazione doppia. È di qualche interesse l’accennata questione del m. gracili s major dell’ar¬ to soprannumerario. Napoli , Isl. di Anat. comparata della Università, giugno 1948. — 91 — BIBLIOGRAFIA Bonnet A. e Rey M, — Sur quelques monstruosités presentées par la grenouUle. Bull. Soc. Zool. Franco, 60, pag. 338-341, con radiografia e fotografia. Canella M. — - Contributo allo studio degli arti doppi speculari ( Due casi di poli- melia toracica in Rana esculenta). Scritti biologici, voi. XII, pp. 78, 1937, con ricca bibliografia. De Falvard G. — Un cas d’hyperrégénération chez Rana esculenta. Bull. biol. France et Belg., T. 65, pag. 267-90, 1931. Gaupp E. — Anatomie des Frosches. Braunschweig, 1898-1904. Przibram H. — Bruchdreifachbildung. Arch. f. Entwick., Bd. 48, 1921. Tornier G. — An Knoblauskróten experimentell entstandene iiberzahlige Hinter- gliedmassen. Arch. f. Entwick. Bd. 20, pag, 76, 1905. Osservazioni condotte al Vesuvio nell5 anno corrente (1948) Nota del socio Giuseppe Imbò (Tornata del 30 novembre 1948) I giornali cittadini hanno fatto gran clamore nei riguardi dei franamenti del 18-19 settembre u. s. ; per evitare inesatte od addirit¬ tura false interpretazioni del fenomeno ed anche per mantenere la promessa fatta alla Società il passato anno, ritengo opportuno dare qui succintamente e solamente le notizie che ritengo utili o indispen¬ sabili per seguire, durante l’attuale fase, cosiddetta di riposo, le. ma¬ nifestazioni di vitalità, reali o apparenti, del vulcano: le prime diret¬ tamente o indirettamente collegate con l’attività magmatica, le se¬ conde per lo più derivanti da passata attività eruttiva. Nella precedente comunicazione ho indicato le osservazioni che si vanno compiendo all'Osservatorio per seguire gli eventuali moti magmatici, relativamente profondi. Con i medesimi criteri esse sono state continuate nell’anno che volge alla fine. Come per gli anni successivi al 1944, anche per il 1948 la variazio¬ ne nell’angolo d’inclinazione del suolo presenta un andamento che può dirsi normale, corrispondente ad una traiettoria ellittica svolgentesi (secondo i criteri già altrove indicati) in senso antiorario ed il cui asse maggiore ha direzione presso a poco NW-SE. Inoltre nulla può desumersi dai dati termici di fumarole, non es¬ sendo stato ancora possibile raggiungere le fumarole del fondo cra¬ terico. Si reputa però opportuno di segnalare le variazioni apparenti nell’attività di queste fumarole, che, nel corso dell’anno, sono risul¬ tate a volta molto pronunziate. Si ricorda la depressione osservata a partire dal maggio intramezzata da solo qualche effimera intensifica¬ zione. Tenuto conto specialmente dell’origine delle fumarole, proba¬ bilmente primaria, come già è stato detto, non è evidentemente pos¬ sibile esprimere giudizi basati solamente su osservazioni a distanza. Nei riguardi delle altre fumarole, i valori osservati delle temperature, ad intervalli all’incirca di un mese, saranno esposti e discussi dal Dott. lovene in altra circostanza. i — 93 — Il migliorato servizio sismico, con rimpianto in gennaio di una coppia di Wiechert, rispettivamente di 200 Kg. per le componenti oriz¬ zontali e di 90 Kg. per la componente verticale, ottenuti dallo Istituto Nazionale di Geofisica per interessamento diretto del Prof. A. Lo Surdo, cui vanno i vivi ringraziamenti e la promessa di un’attiva col¬ laborazione, ha consentito di avere le registrazioni di moti che diver¬ samente sarebbero passati inosservati. Oltre a due registrazioni già in¬ vero date il 18 dicembre 1947 a 8]l dagli apparecchi allora in funzione all’Osservatorio, nel 1948 si sono avute fino al presente le seguenti registrazioni di origine vesuviana: la) 22 marzo, 21hc. ; 2a) 16 aprile, 17h 6m; 3a) 19 aprile2 2h 3m; 4!a) 19 aprile, 4h 7m; 5a) 24 maggio, 7h 15m; 6a) 25 luglio, 21*» 10m; 7a) 21 agosto, 15*» 23“ ; 8a) 7 ottobre, llh 49m. Ad eccezione di solo due (la la e l’8a), avvertite rispettivamente la prima a Funicolare inferiore e la seconda nella zona dell’Osserva ■ torio, le altre risultano solamente registrate. Per la maggior parte di esse, in base agl’ intervalli Q-P e secondo la tabella dei tempi di percorso recentemente elaborata, si deducono distanze epicentrali del- P ordine di grandezza presso a poco eguale (in media) alla distanza dell’Osservatorio dall’asse craterico. Si ritiene che per lo più le indi¬ cate registrazioni siano dovute a moti provocati da assettamenti epi- superfìciali. Qualche registrazione però (1% 3a, 4a), per il carattere piuttosto anomalo, sembra attribuibile ad una persistente (invero per solo alcune decine di secondi) agitazione od anche a successivi im¬ pulsi sismici; in entrambi i casi come causa prima potrebbe essere invocata l’agitazione magmatica. Ad agitazione magmatica sono stati, forse ingiustamente, attri¬ buiti i quasi continui franamenti dall’orlo nord-nord orientale cra¬ terico del 18-19 settembre con pronunziata intensificazione nel pome¬ riggio del 19. Tra le 18h e le 21h di tale giornata i sismografi Wiechert hanno registrato un’agitazione debolissima, a carattere intermittente, la quale, più che causa, deve ritenersi un effetto dei franamenti stessi. La causa remota deve piuttosto ritenersi il disgregamento operato da attività fumaroliea sviluppatesi alla superficie della colata lavica del 1944; ed in conseguenza parte della potente copertura detritica della colata stessa, in corrispondenza dell’indieato orlo craterico, è rima¬ sta priva di sostegno. Si sono pertanto ripetuti a brevissimi intervalli distacchi di materiale più o meno copioso che, precipitando nella vora¬ gine, ha da un canto resa più imponente la conoide orientale del fondo craterico e d’altro canto ha dato origine al sollevamento di nuvoloni di polvere, i quali, specie durante l’intervallo di maggiore intensità, hanno simulato la ripresa di attività. La concomitanza tra agitazione sismica e massimo nelle manifestazioni dei franamenti lascia escludere — 94 — la dipendenza da agitazione interna (d’assettamento o magmatica), in quanto che, se questa fosse stata presente, avrebbe dovuto provocare le condizioni d’instabilità e quindi rappresentare una fase iniziale e non già una fase accompagnante solamente i più vistosi e frequenti franamenti. Un dubbio sull’origine, e cioè se provocati, almeno inizialmente, da agitazione interna o casuali, può aversi per i franamenti dell’orlo oc¬ cidentale del 24 maggio, in quanto la prima frana, a quel che sembra, fu provocata da scossa registrata (la 5a). Analogamente, come effetto dell’attività sismica dell’aprile, si ebbe, a quel che sembra, il crollo di un masso lavico, di almeno 60 m3, già apparentemente, e da tempo, quasi totalmente distaccato dalla parete occidentale craterica, in pros¬ simità dell’orlo. Da quanto è stato detto emerge l’evidente conclusione che finora nessun elemento, osservato o rilevato, possa inequivocabilmente essere considerato indizio di un’eventuale progressiva riattivazione od anche di un più o meno graduale innalzamento magmatico nel condotto. Studi sulla costituzione geologica del sottosuolo di Napoli del socio Felice Ippolito (Tornata del 29 dicembre 1948) È nota l’importanza pratica che rivestono tutti gli studi di carat¬ tere geologico e petrografico interessanti il sottosuolo di una grande città, specialmente per quanto concerne le opere di fondazione di edifici di gran mole, la costruzione di gallerie o la ricerca e la cap¬ tazione di acque sotterranee All’uopo in numerose città di Oltralpe sono istituiti speciali laboratori che raccolgono tutte le notizie ed i dati riguardanti il sottosuolo cittadino in un vero e proprio archi¬ vio (1), aperto al pubblico e organizzato in modo da permettere la rapida consultazione. Anche nella nostra città l’interesse per lo studio del sottosuolo cittadino, specialmente in occasione della costruzione delle gallerie, che attraversano la collina del Yomero, quella di Fosillipo ed il M. Echia, è stato vivissimo, come ne fan fede i lavori pubblicati in me¬ rito, per lo passato, da eminenti cultori di geologia applicata, fra i quali basterà ricordare il nostro compianto consocio Michele Gua¬ dagno. Data l’importanza pratica di questi problemi l’Istituto di Geo¬ logia Applicata della Facoltà di Ingegneria di Napoli, che ho Tonore di dirigere, ha sempre seguito con vigile interesse tutti i lavori che sono stati compiuti, o sono in corso, nel sottosuolo della nostra città in specie e dei Campi Flegrei tutti in genere, secondo una tradizione instaurata da Luigi Dell’Erba, cui dobbiamo tra l’altro la migliore monografia geologica di carattere applicativo sul tufo giallo, e con¬ tinuata dal mio predecessore Francesco Penta. Recentemente all’Istituto sono stati inviati taluni campioni pro¬ di Per quello di Zurigo, ad esempio, organizzato presso 1 Institul ji'tr Erd- bauforschung dell E.T.H. vedi Croce A. in Ricerca Scientifica e Ricostruz.; s. XVI, u. 5-6, 1946. venienti da sondaggi eseguiti per ricerca d’acqua nella zona indu¬ striale, per incarico della C.I.S.A. Viscosa, dalla ditta Bonariva, e per incarico della Compagnia Napoletana del Gas, dalla impresa Ing. N. Rivelli. Senza entrare nel merito delle singole descrizioni, che saranno oggetto di una nota da parte di uno dei miei collabo¬ ratori, posso per ora dare notizia che i terreni incontrati sono rappre¬ sentati. fin oltre i 100 ni raggiunti con le trivellazioni, da materiali vulcanici lapidei o sciolti, questi ultimi sovente rimaneggiati. Gli strati sabbiosi sono spesso alternati con strati granulometricamente più fini, del tipo limoso. Le analisi granulometriche, sempre molto istruttive ai fini geotecnici, sono state eseguite in stretta collabora¬ zione con il Centro Geotecnico della Fondazione Politecnica del Mez¬ zogiorno, che particolarmente si interessa, anche per conto del Prov¬ veditorato alle Opere Pubbliche, allo studio delle rocce sciolte del sottosuolo cittadino. Altre interessanti notizie, sulla natura e sulle caratteristiche tec¬ niche del sottosuolo cittadino, ho raccolto, assieme all’Ing. A. Croce, in occasione di uno studio per le fondazioni di un gruppo di case po¬ polari costruite in località Stadera a Poggioreale. Qui si è potuto ac¬ certare che al disotto del piano di campagna sono presenti formazioni costituite da materiali vulcanici sciolti, profondamente rimaneggiati per l’azione delle acque selvagge e ridepositati su aree ad altimetria variabile. Accade così che, anche ove si presentano materiali di caratj teristiche piuttosto uniformi, questi impegnano spessori sensibilmente differenti anche a pochi metri di distanza. Il che naturalmente è della massima importanza per quanto concerne la fondazione di edifici di notevoli dimensioni, perchè sovente accade che uno stesso edificio poggi su di un piano di posa di compressibilità molto variabile nel¬ l’ambito del suo stesso perimetro. Accanto a questi elementi di carattere geotecnico concernenti i terreni sciolti della zona orientale di Napoli è di grande interesse la ricostruzione della morfologia del tetto e del letto del tulo giallo; morfologia che è molto accidentata in quanto, come è noto, i ma¬ teriali oggi lapidificati come tufo giallo vennero a deporsi su di una superficie a ltimetr rèamente molto varia ed il tufo stesso, dopo la sua deposizione, fu esposto per lungo tempo, prima che venisse coverto dai materiali piroclastici più recenti, all’azione delle acque meteori¬ che e degli atmosferili in genere e, in alcune zone lungo il litorale, anche a quella del mare. Sull’importanza che presenta, per la rico¬ struzione della oscura tettonica di dettaglio delle formazioni vulca¬ niche costituenti il sottosuolo di Napoli, la base del tufo giallo, fi¬ nora riconosciuta solo in pochi punti — a Coroglio, alle Fontanelle, alla base di M. Echia ed al Parco Grifeo — diede già un cenno il — 97 — Penta (1); ora un fortunato evento è venuto ad arricchire Je nostre cognizioni su tali problemi: l’Acquedotto di Napoli ha infatti iniziato la costruzione di una galleria, a circa quota 90 s. 1. m., per l’alimen¬ tazione idrica della zona occidentale della città con acqua del cosi- detto « basso servizio », che dalla zona di Capodimonte, nei pressi del « Tondo », raggiunge la zona di Posillipo Alto, sul versante di Soccavo, nei pressi di Torre S. Domenico. Questa galleria, lunga ol¬ tre 5 Km, si sviluppa in parte, per quanto finora è dato vedere, al di sotto della formazione del tufo giallo napoletano e permetterà per¬ tanto di raccogliere elementi preziosi per la ricostruzione della com¬ plessa vulcano-tettonica della zona e della successione dei parossismi eruttivi. Il mio Istituto segue minuziosamente, da oltre un anno, lo svi¬ luppò dei lavori e va raccogliendo notizie e materiali. Degne di speciale attenzione si sono rivelate talune aree di tufo giallo, particolarmente ricche di zone di forma e dimensioni varie, da qualche decimetro (fino a qualche metro ed oltre, di una varietà di tufo compatto di colore verde-grigiastro. Sovente queste zone assu¬ mono dimensioni molto notevoli, tali da potersi già parlare di una speciale facies grigio-verdastra del tufo, ed in esse si riscontrano in¬ clusioni, anche di forma bizzarra, di tufo giallo. Questo tufo ver¬ dastro, tranne che per il colore, è perfettamente identico, per com¬ pattezza, numero e tipo di pomici incluse, grana, etc., al tufo giallo, col quale è assolutamente indistinguibile, anche per il colore, dopo trattamento per alcune ore (48h o anche 24h) con acqua ossigenata. Si tratta pertanto di zone del tufo, che non hanno subito ossidazione, e non di inclusioni di altre roccie, sia pure tufacee, di composizione alquanto diversa, come ad esempio di tufo verde cc tipo Epomeo » (2). Nelle aree ove si rinvengono le zone verdastre, e precisamente nel vallone Ricciardi alla Cupa del Lacco o in località S. Stefano al Vomero, il tufo presenta caratteristiche di compattezza e tenacità molto superiori alla media dei tufi gialli. In proposito, per incarico avuto dall’Acquedotto, nelTIlstituto sono state eseguite alcune prove mecca¬ niche e determinazioni, su cui riferirà prossimamente il mio assi¬ stente Ing. P. Nicotera. Altra zona che presenta particolare interesse è quella delle «cave della Catena » nella zona delle Fontanelle. Qui la galleria è al letto 1) Vedi Boll. Soc. Nat. in Napoli, voi. L, 1938, pag. 119. 2) Vedi in proposito Rittmann A. e Salvatore' E., Contributo allo studio dei tufi verdi della regione flegrea. Riv. Vulcanologica; B. XI, Berlino, 1928. Nonché D’Erasmo G., Studio geologico dei pozzi profondi della Campania. Boll. Soc. Na¬ turalisti; XLTII. Napoli, 1931. 7 — % — del tufo giallo in una formazione nella quale sono stali raccolti cam¬ pioni affatto analoghi a quelli della « breccia museo » della collina dei Camaldoli. Questi campioni (1) sono ora oggetto, accanto agli airi raccolti, di uno studio petrografieo e chimico, senza del quale, come è noto, è impossibile dire alcunché di conclusivo sulla natura di materiali piroclastici, quali quelli in oggetto, e sui loro rapporti genetici con il tufo giallo soprastante e con le altre formazioni fìegree. Dei risultati di questi studi e dei rilevamenti mi riservo di dare prossimamente più ampie notizie alla Società. Napoli. Università , dicembre 1948. Istituto di Geologia Applicata e di -Irte Mineraria. i li Ad una osservazione, per ora soltanto macroscopica, si rivela che tra l’al¬ tro sono presenti: ossidiana lucente con fenocristalli di sanidino; scorie vetrose verdastre, con lunghi fenocristalli di sanidino; frammenti lavici scurissimi coni patti probabilmente kulaite); piccoli frammenti di una roccia biancastra friabile i probabilmente sedimenti chemio e termometamorfici ; frammenti tufacei, con la¬ pilli lapidei e pumieei: blocchi di una lava alquanto vacuolare con fenocristalli di feldspato e augite; scorie nere vetrose, molto soffiale, senza fenocristalli, ma alquanto devetrificate: etc. 11 Carsismo di Monte Cervatì Nota del socio Luigi Miraglia (Tornata del 29 dicembre 1948) Premessa Il vasto massiccio cretacico del Cercati, che s’innalza a Sud-Ovest del Vallo di Diano, in provincia di Salerno, è senza dubbio, col coevo, vicino altopiano degli Alburni, uno dei più carsici d’Italia. L’orografia dell’ Appennino lucano clic comincia, come è noto, dalla Sella di Gonza (solco Sele-Ofanto) è molto complicata. Difatti le montagne più alte, quali appunto il Cervati, l’Alburno, il M. Sa¬ cro o Gelbison, il Centaurino, il Bulgaria si ergono isolati fra loro, lontani dalla catena principale e dallo spartiacque. Tra questi monti il nodo oro idrografico più considerevole è il Cervati. Difatti da esso hanno origine tre fiumi importanti: il Bussento, il Mingardo ed il Ca¬ lore. Il Bussento sfocia nel golfo di Policastro, poco a Nord del paese omonimo. Il Mingardo sbocca presso Capo Palinuro. Entrambi i sud¬ detti fiumi sono sorpassati, con ampi viadotti, dalla strada ferrata Napoli-Reggio. Il Calore è affluente di sinistra del Seie. Il massiccio del Cervati, che è modellato in modo evidente non solo dal carsismo ma anche dal glacialesimo, lo conosco non in se¬ guito ad una fugace escursione ma per esserci stato attendato com¬ plessivamente circa sei mesi. Bibliografia — Mentre qualche pubblicazione esiste sui fenomeni carsici dell’ Alburno su quelli del Cervati la bibliografia è nulla. Una certa attinenza con l’argomento ha la mia nota « Sorgente pulsante del Sammaro » pubblicata nello stesso numero di questo bollettino. Per l’idrografìa superficiale del Cervati si consultino i seguenti volumi della « Carta Idrografica d’Italia ». Per il Calore il volume: XXIII, Roma, 1896; Per il Bussento ed il Mingardo il volume: XXXII, Roma, 1906* . « Le sorgenti italiane, elenco e descrizione » (N. 14, voi. VII — Campania Sez. Idrografica di Napoli — * Ist. Poi. dello Stato — - anno 1942) è un elenco in cui si traila della portata d’acqua ed lui poco in- l eresse geologico. Dato che il glaciale ed il Carso coesistono spesso nelle stesse zone del Cervati5 mascherandosi vicendevolmente, si trovano accenni di fenomeni carsici nelle seguenti pubblicazioni riguardanti il glaeiale- simo, e che costituiscono la bibliografia completa su tale argomento. Esse sono: ln R. Biasutti, « Tracce glaciali sul Monte Cervati ». Rend. R. Acc. Se. fi>. e inai., S 3% voi. XXIII. Napoli, 1916; 2a L. D’ERRICO e L> Miraglia, « Anfiteatro morenico delle Grot ielle (Monte Cervati)». Rend. Acc. Se. fis. e mat., S 4a, voi. XV. Napoli, 1947; 3a L. iMiragIlia, « Il Glaciale di Monte Cervati ». Atti Accad. Poli¬ tali iana, Nuova Serie, voi. I. Najioli, 1948 (con 4 Tav. e una carta delle conche glaciali e delle morene). Una cosa costosissima ed inutile sarebbe stato l’allegare alla pre¬ sente memoria una grande carta con la riproduzione della « Carta Topografica d’Italia » dell’Ist. Geogr. Milit. di Firenze, necessaria¬ mente non ridotta per rintracciarvi le molte piccole località citate, situate per giunta lontane fra di loro su di una vastissima superficie. Rimando quindi il lettore ai fogli della predetta carta n° 198-1 L ; n 1 99-111 ; n° 209-1: iT 210 IV, avvisandolo che la presente nota di¬ viene poco intelligibile, senza tener spiegati innanzi i menzionati fo¬ gli, ai quali continuamente e molto minuziosamente mi riferisco. L’enumerazione e la descrizione di tutte le doline ed inghiottitoi del Cervati è impossibile, tante esse sono; ma se fosse possibile sa¬ rebbe un lavoro poco interessante. Con questa memoria tento di fare un poco di luce sulle relazioni interferenti fra il carsismo, la tetto¬ nica ed il giada lesimo del Cervati studiando principalmente le più grandi conche per intuire, per quali probabili vie sotterranee ed in quali fiumi vadano a finire le acque che in esse si raccolgono. Camminando sul Cervati, oppure facendone una sezione sulla carta topografica, compresa fra l’abitato di Campora e la chiesa della Madonna della Neve sita sulla vetta del Cervati, si nota che esso è formato come da una scala -di ciclopi, costituita da cinque altopiani che salgono da Ponente a Levante nell’ordine che segue: Laura (Cem- mola), Monte Cavallo, Medicale, Mercori, Cervati prop. detto. Fra un altipiano e l’altro esistono quattro fratture che da Ponente a Le valile sono: Valle Sottana, Valle Soprana, Lagosliello. Festola-Val- 1 ivona. La sezione Campora • Madonna della Neve taglia la zona più in¬ teressarne del Cercali dal lato tettonico, glaciale, carsico ed idrografico. — 101 — Riguardo alla tettonica v’è da rilevare che le principali valli e conche sono orientate da Nord-ovest a Sud-est. Di esse sono modellate da antichi ghiacciai : Val di Festola, non denominata sulla carta, e la conca di Vallivona. Entrambi scendono in direzioni opposte dal valico di quota 1598 attraverso cui passa la già menzionata sezione Cainpora-Madonna della Neve. Val Festola in¬ clina verso Nord-ovest, Vallivona verso Sud-est. Me re ori con i suoi dossi « moulonnés » dimostra di essere stata occupata da un ghiac¬ ciaio. Lagostiello è una perfetta conca ad IL Essa comunica a Nord- ovest con la conca di Cervatei lo ed a Sud-est con quella di Campo- luongo, che contengono entrambi evidentissimi anfiteatri morenici. Tutte queste conche, tranne la Val Festole, sono chi più chi meno, modellate dal carsismo che, come vedremo è posteriore al gia¬ ci al esimo. Per l’idrografia è molto interessante notare che le conche sopra menzionate, dalla sezione Camp ora -Madonna della Neve sono divise in due gruppi di cui quello settentrionale manda le sue acque al Ca¬ lore e quello meridionale al Bussento ed al Mingardo. Appartengono al primo gruppo: la Valle Festole e le conche di Mercori, Lagostiello, Lago di Cervatei lo, Valle Soprana e Valle Sot¬ tana; mentre del secondo gruppo fanno parte Vallivona, che manda le sue acque al Bussento, e Campoluongo che è il serbatoio del Min¬ gardo. Descriverò innanzi tutto i fenomeni carsici del Cerva ti prop. detto e poi quelli dei due gruppi di conche qui sopra menzionati, trattando prima quello meridionale e poi quello settentrionale. Inoltre parlerò prima delle zone più alte situale ad Est e poi di quelle man mano più basse degradanti verso Ovest. § 1. Cervati propriamente detto. L’altopiano che forma la vetta del Cervati, e, che strapiomba a tramontana con un’orrida parete sul bosco dei Temponi, è occupato da una squallida pietraia. L’unica nota di vita in tanta desolazione è data da un grande stormo di gracchiami cornacchie che nidificano fra le rupi. Nell’altopiano in questione, fra le varie doline dette «fuos- si » dai pastori, se ne notano due per la loro grandezza: una più lunga, perfettamente ellittica, detta « fuosso della genziana », e l’al¬ tra, più larga ed irregolare, posta sotto la chiesa. Entrambi sono orientate su di una linea di frattura, diretta da Nord-ovest a Sud-est, e costituiscono nell’altopiano terminale del Cervati -un avvallamento centrale, il cui modellamento dovuto ad un ghiacciaio postpliocenico I — 102 — è mascherato quasi completamente dalla successiva azione carsica (vedi Premessa, op. citata n° 3). Per il Biasutti, che ha studiato solo l’altopiano terminale del Cervati, (vedi Premessa, op. cit. n. I) il carsismo precedette il gla- cialesimo e le doline dovettero contenere « laghetti senza emissario superficiale, ai quali affluivano i ruscelli dei minuscoli ghiacciai sca¬ glionati ai loro bordi elevati». Se il predetto, chiarissimo geografo fosse salito, anzicchè da Sanza, da Piaggine, attraversando le valli glaciali e le morene, si sarebbe formato il concetto di un glacialesimo del Cervati ben più grandioso. Per conseguenza il carsismo gli sa¬ rebbe apparso posteriore al glaciale. I « circhi » e le « soglie » glaciali del Biasutti sono per me ri¬ spettivamente delle doline e gli orli di esse. Sono di accordo col pre¬ detto A. che le soglie glaciali, per me gli orli delle doline, si trovino ad una stessa quota. Difatti le doline, come ho detto poco innanzi, si sono generate successivamente sul fondo del solco scavato dal ghiac¬ ciaio postpliocenico occultandolo in modo tale da lasciare poche tracce glaciali che per la prima volta furono viste dal prof. K. Biasutti. Su questo argomento vi sono altre notizie nei miei due lavori citati (vedi Premessa, n. 2 e 3). Le acque che si raccolgono in queste doline, dopo un corso sot¬ terraneo, escono alla luce tutto all’intorno alle pendici del Cervati prop. detto. A questo fa seguito verso Nord-ovest uno schienale detto Serra Cervati al cui termine si trova la sorgente del fiume Calore cap¬ tata da un acquedotto. Sul predetto schienale si apre l’inghiottitoio della « Grava della neve » così detto perchè contiene nevi persistenti. Esso è notevole anche per il fatto che non si apre nel fondo di una dolina, come generalmente avviene, ma alla sommità della dorsale di Serra Cervati sul versante meridionale. La voragine si sprofonda in direzione Sud, con una inclinazione di circa 30° verso la sottostante Vallivona. Da tempi antichissimi, da tutti i paesi situati alle basi del mas¬ siccio del Cervati, in estate, per l’apposita mulattiera, salgono caro¬ vane di muli a rifornirsi di neve. Se si scende, per mezzo di una primitiva lunghissima scala di legno, sulla neve si sente un vento, spirante ora in un senso ora nell’altro, attraverso l’intercapedine esi¬ stente fra le pareti dell’inghiottitoio e la centrale massa nivea. È mia convinzione, per ragioni che esporrò innanzi, che le nevi perenni della « Grava della neve » alimentino le fonti di Vallivona. — 103 — § 2. Conca di Valiivona. Vallivona, come vuol significare il suo nome, è la più ridente di tutte le valli del Cervati — Essa appare come una coppa ellittica tutta circondata da fittissimi boschi di faggi — Sul fondo valle, che è spo¬ glio di alberi, vi sono bellissimi prati e fresche sorgenti. Vallivona è una festa di colori e di profumi specialmente nel mese di Agosto, al tempo della fioritura della lavanda, che vive asso¬ ciala in cespugli i quali risaltano sul verde chiaro dei prati come delle macchie pavonazze, sorvolate in permanenza da sciami di far¬ falle ed altri insetti variopinti. La valle in questione, nel suo stato attuale, è a rigor di termini una conca ellittica il cui asse maggiore è lungo m. 3750. Essa è li mitata a Nord da Raia Lupara (quota 1789) dalla sella o « Croce di Vallivona » (quota 1595) e dalle pendici del Cervati prop. detto; ad Ovest dalla Falalella ossia dalle pendici orientali del Monte Mez¬ zana e poi dalla Serra dei Cerevini; ad Est da uno sperone degra¬ dante dalla vetta del Cervati, chiamato « Serra degli Sprovieri» ( — sparvieri) da quei di Sanza. Mentre il rilevamento della carta è molto esatto, la toponomastica della regione è completamente sbagliata. Difatti sulla cresta del con¬ trafforte degli Sprovieri è posta invece la Vallivona con la denomina¬ zione di R. Vallivona. A Sud della conca s’erge isolato, il caratte¬ ristico, conico, « Coclde Lammardi », quota 1452, il quale è un ottimo punto di riferimento perchè è tutto verde, essendo ammantato da bo¬ sco, tranne la cima, che è una nuda cupola bianca rocciosa. Anche questo monte è segnato con la denominazione affatto arbitraria di « Monti di Vallivona ». A Sud-est la conca di Vallivona è sbarrata come da un largo bastione, che corrisponde sulla carta al posto occupato dalla parola Formatuo. Questo bastione è costituito in massima parte dall’altura rocciosa e disalberata della Serretei la nonché da un’altra altura minore chiamata Vauzi dei Capuozzoli e dalle pendici di Nord- est di Codde Lammardi. La Serretei la è la quola 1277 della carta. I Vauzi, ossia i balzi, dei Capuozzoli sono rappresentati nella carta da isoipe degradanti dall’ orlo di una parete molto alta che stra¬ piomba sulla boscosissima Valle Infierno. Tra la Serra degli Sprovieri c la Serretella esiste un avvalla¬ mento chiamato Valle Ceraso. Fra la Serretella e le pendici Nord-est di Codde Lammardi, e, precisamente dove sulla carta sono le lettere m ed a della parola Formatuo, v’è un solco, detto dai Sanzesi « Fuosso di Gianni ». il cui fondo è coltivato a segala e patate. — . 104 Questo Fosso di Gianni rappresenta l’antico letto del fiume, che dopo aver percorsa Vallivona, precipitava dalle balze dei Capuoz- zoli nella Valle Inferno. Attualmente, per Fazione carsica, il detto fiume che, come vedremo è da considerarsi Fallo corso del Bussento, dopo essersi scavata una via sotterranea attraverso la Serretei la, riesce a giorno al sommo di Valle Inferno, in località detta « Varco Lapete » (ossia abete). La voragine dell’Affonnaturo, ossia il punto dove il fiume >i in- grotta, è segnato esattamente sulla carta da appositi trattini precisa- mente in alto a sinistra della lettera, m della parola Formatilo. La denominazione Affonnaturo, che molto efficacemente e sinte¬ ticamente significa « il luogo dove si sprofondano le acque è stato storpiato dal rilevatore, che evidentemente non conosceva il dialetto locale, nella parola priva di senso di Formatuo. L’alto corso del Bussento in Vallivona è diretto prima da Nord a Sud, poi, poco prima di entrare nelle viscere della terra, come può rilevarsi anche dalla carta, piega bruscamente ad angolo retto vol¬ gendosi verso Est. Qualche centinaio di metri prima del gomito sud¬ detto la valle diviene una forra e l’alveo presenta un primo salto di circa m. 4. Nel tratto, lungo circa m. 250, in cui piega a Levante la valle si tramuta in un cc canon » profondissimo, e, tanto stretto in al¬ cuni punti, da poter, aprendo le braccia, toccarne le opposte pareti. Qui il paesaggio è tanto orridamente bello e selvaggio da sembrare irreale. Un caos di vegetali abbarbicati ovunque, in lotta fra loro per arrivare primi alla luce che è su in alto in alto, fra le opposte vici¬ nissime labbra della fenditura fa sì che in essa regni una luce crepu scolare anche con sole sfolgorante. In questo ed in altri simili umidissimi luoghi dello stesso Cervati e dell’Alburno si sono ridotti a vivere i tassi ed alcuni rari abeti che prima pare ammantassero questi monti invece dei faggi. Nell’ultimo tratto del corso d’acqua l’alveo ha un dislivello di oltre m. 50, presen¬ tando tre cascate, sotto ognuna delle quali si notano bellissime mar¬ mitte fluviali perfettamente cilindriche e levigate. Il primo salto è di circa m. 2, il secondo m. 10, il terzo m. 40. Fra una cascata e l’al¬ tra si vengono così a determinare tre piani. Al primo si accede con poca difficoltà. Al secondo, che per intenderci chiamerò « piano del laghetto )), per la presenza di uno specchio d’acqua, esistente anche durante la siccità, sono pervenuto con l’aiuto di una fune. Al terzo non si può scendere senza la speciale attrezzatura da speleologo. Questo ultimo piano, che è il più lungo, e, che si può vedere so¬ lamente scendendo al « piano del laghetto », finisce con un’ampia grotta perforata dal fiume ai piedi di una parete verticale alta oltre 100 m , Stando sul « piano del laghetto », le pareti della riva destra del¬ l'alto Bussento, le quali appartengono a Codde Lammardi, appaiono letteralmente crivellate, come una spugna, da fori di ogni dimensione. Fra di essi, ad una ventina di metri eli altezza sull’alveo; v’è una grotta, tanto ampia, che alla sua imboccatura ha allignato un acero bianco alto circa cinque metri. Questa cc grotta dell’acero », molto ve¬ rosimilmente, dovette essere percorsa dall’alto Bussento, prima che esso scavasse l’attuale antro piu a Levante, nelle viscere della Serre - tella. Nel punto più aito di Valle Inferno, al Varco Lapete, accennato innanzi, alla base Sud-est dei Balzi dei Capuozzoli, in un antro for¬ mato dalle testate di due grossi strati calcarei immersi a Nord-ovest, scaturisce, anche nelle massime siccite, tale quantità d’acqua da for¬ mare subito un vero fiume, le cui acque spumeggianti smuovono grossi materiali, producendo un rumore che si avverte anche da molto lon¬ tano. Quasi allo sbocco di Valle Inferno, presso la rotabile Rofrano- Sanza,' v’è un’altra sorgente utilizzata per l’acquedotto di quest’ul¬ timo paese. Tali sono le sorgenti visibili del Bussento. L’alto corso di questo fiume, compreso nella conca carsica di Vallivona, in estate si secca completamente, rimanendone solo poche pozze nel « canon » che precede l’Affonnaturo. Dall’alto in basso si succedono lungo l’asse maggiore di Vallivona le seguenti sei sorgenti: le due sorgenti dell’cc Auscio », le Fontanelle, la sorgente del «Pantano», e due piccole polle innominate, scatu centi nelle rocce, sulla riva sinistra, dove la valle si restringe dive¬ nendo una forra. Le sorgenti dette dai pastori sanzesi dell’cc Auscio » ( = bossolo) si trovano s.u di uno sperone che discende da Raia Lu¬ para (quota 1789) e corrisponde sulla carta al punto dove si trova la lettera a della parola Faiatella. Queste sorgenti, site a poca distanza l’una dall’altra, di cui la più alta è fornita di un abbeveratoio in ce¬ mento. si trovano presso a poco alla stessa altitudine di un colle quasi conico, coperto da fitto bosco, sorgente nel centro della valle e che è distinto sulla carta con la quota 1435. Da esse, site ai piedi di Serra Cervati, in corrispondenza colla « Grava della Neve », sgorga un’acqua freddissima, il cui deflusso non diminuisce neppure nelle più forti siccite. La sorgente delle Fontanelle diminuisce fortemente in estate. Quella della zona del « Pantano » si secca come pure le due polle site più in basso. È moUo interessante notare che i pastori allorquando si secca la sorgente della zona del Pantano, scavano dei pozzi, più o meno profondi, secondo le annate e trovano sempre acqua nel sottosuolo. Questo fatto dimostra, che al disotto dei terreni del fiiseh comiocenico ricco di arenarie e di ocre rosse, che riempiono la parte mediana e bassa di Vallivona, fluiscono nei sottoposti cab — 106 — cari acque provenienti dalla Grava della neve e dalle doline della cima del Cervati, come innanzi ho accennato. A varco Lapete queste acque sotterranee, quando non piove, sgorgano limpide, mentre du¬ rante le forti piogge autunnali sono intorbidate dalle acque super¬ ficiali che attraversano argille colorate e boschi portando anche gli strobili caratteristici degli ontani e le cupole dei faggi. Queste osser¬ vazioni indicano chiaramente che il corso dell’alto Bussento, prima dell’Affonnaturo, è in comunicazione sotterranea con Varco Lapente. Per spiegare però la grande copia del deflusso della sorgente di Varco Lapete, anche quando il corso dell’Alto Bussento in Vallivòna è secco, bisogna ammettere che nella sudetta sorgente shocchino anche le acque provenienti da altri condotti sotterranei. Concludendo, Vallivòna era in origine una valle tettonica. Nel glaciale essa fu occupata, solo nella parte più alta, da un ghiacciaio, che come ho pubblicato (vedi Premessa, op. citata n° 3), depositò una morena di fondo nella depressione dell’Abbottaturo, depressione compresa fra il sudetto sperone, quota 1435 e le pendici della Serra Sprovieri. Dall’antico sbocco di questa valle, il Fosso di Gianni, usciva il Bussento precipitando per le balze dei Capuozzoli. Successivamente il fiume scavò la « Grotta dell’ Acero » nel Codde Lammardi, infine attualmente il fiume ha cambiato corso una terza volta, sprofondandosi ulteriormente, e perforando l’antro dell’Affonnaturo nella Sèrre-teli, a. Con questi modellamenti dovuti alla forte azione carsica agente presso il suo termine a Sud est la valle si trasformò nell’attuale conca. § 3. Conca di Campoluongo. La conca di Campoluongo, posta a circa 1200 m. s. 1. d. m., di¬ retta da Nord ovest a Sud-est, è un’ellissi di cui l’asse maggiore è lungo circa in. 2500. Essa è limitata a Nord dalle ripide pendici di Mercori, a Sud dalla Costa di Sant’Elena e dal Rotunno, ad Ovest dalle falde di M. Rajalunga; ad est è sbarrata dalle Grottelle (quota 1201) che la dividono dal sottostante profondo Vallone dei Maglianisi (vedi Premessa op. cit. n° 2, munita di schizzi, carte e fotografie). La Valle di Campoluongo, dopo la sua formazione dovuta ad una frattura, fu ampliata e foggiata a «c V » da un corso d’acqua; indi fu modellata ad cc U » da due ghiacciai confluenti che scendevano dal¬ l’Altopiano di Mercori e la percorrevano trasversalmente. Di essi uno depositò la morena del Tempone (quota 1208) l’altro quattro cordoni i cui materiali si cementarono in un conglomerato e sovrapponendosi eressero la diga delle Grottelle che chiuse la valle trasformandola in — 107 — una conca. Essa fu occupata allora probabilmente da un lago di sbar¬ ramento morenico. Il punto più depresso della conca è un avvalla¬ mento falcato die si trova intorno alle falde del Tampone, al lato di Ponente. In questa depressione si notano i fori di parecchi inghiottitoi i quali non sono sufficienti a smaltire tutte le acque che vi si raccol¬ gono in modo che spesso vi si forma un lago. Dei veri torrenti, a giu¬ dicare dagli alvei larghi e profondi incisi nel terriccio alluvionale e glaciale occupante il fondo valle, provenienti dal Raja lunga e del Cozzo delle Nocelle, vanno a scaricarsi nella dolina del lago del Tem- pone. Moltissime altre doline ed inghiottitoi si trovano in Campoluon- go, specialmente nella regione dell’Occhio. Tutte queste voragini inghiottiscono l’acqua per poi rigurgitarla in numerosissime sorgenti scaturenti ai piedi della ripida Costa di Sant’Elena, nella Valle di Pruno. Questa ampia coltivata e popolata valle, che scende da Nord-ovest a Sud-est, verso il paese di Rofrano, è formata sul lato sinistro dai calcari mesozoici del Fervati, e, su quello destro dai materiali del flisch eo iniocenico della catena del Monte Sacro. Dato che tutte le sorgenti della parte più alta della valle di Pruno scaturiseono dal lato sinistro, ossia dalla parete di Sant’Elena e nessuna dal lato destro e si riuniscono formando il cc Fiume di Pruno » si può ritenere che il bacino collettore di questo corso d’acqua sia la conca di Campoluongo che lo rifornisce mediante i suoi inghiottitoi. Il Fiu¬ me di Pruno presso Rofrano prende il nome di Faraone per poi cam¬ biarlo nuovamente in quello di Mingardo. § 4. Conca di Mercori. La conca di Mercori, che occupa la sommità dell’altopiano com¬ preso fra la Valle Festola e Lagostiello, è diretta da Nord a Sud, ed ed lia la forma di un’ellissi, di cui l’asse maggiore misura circa 3 Km. Il fondo della conca è un piano inclinato pendente nel primo tratto a Nord, nell’ultimo tratto a Nord-ovest. Nel Postpliocene da questo grande bacino collettore scendevano tutt’all’ intorno le pigre lingue dei ghiacciai (vedi Premessa op. cit. n° 3). Attualmente la conca, il cui punto più depresso è di m. 1400 sul 1. d. m., contiene uno dei più belli e fìtti boschi di faggio deH’Appennino. Fra i faggi si notano molti dossi arrotondati dall’azione del ghiaccio. Prima e durante i! Glaciale Mercori era una valle che si continuava nella conca del Lago di Cervatello. Successivamente l’azione carsica scavò nel suo fondo molte doline ed inghiottitoi. La più grande e profonda di esse si trova a Nord-ovest, proprio 108 - all’antico sbocco della valle, che così, dopo essere stata scavata pre¬ valentemente dal ghiaccio, è in via di ridursi ad una conca. Questa trasformazione è all’inizio. Le pendici occidentali dell’altopiano di Mereori sono denominate Cozzo delle Nocelle. Questa è la regione dove più abbondano le do¬ line tanto da divenire in alcune zone addirittura contigue. Le doline del Cozzo delle Nocelle sono molto profonde, imbutiformi e presen¬ tano per lo più al centro un inghiottitolo che scende verticalmente nel sottosuolo. Si notano pure in questa località molti lunghi allinea¬ menti di doline disposte su linee di frattura orientale da Nord-est a Sud-ovest. Ho notato che nella Conca di Mereori le doline e gli inghiottitoi aumentano progressivamente scendendo verso Nord-ovest. Questo fatto messo in relazione con la pendenza della conca che è a Nord-oVest, e con le linee di frattura che nel Cervati sono prevalentemente di¬ rette da Sud-est a Nordmvest, autorizza a ritenere che la maggior parte delle acque che si raccolgono in Mereori fluisca per vie sotterranee verso il fiume Calore. § 5. Conca di Lagostiello. La conca di Lagostiello (non denominata sulla carta topografica) percorsa dalla mulattiera che porta dal paese di Valle dell’Angelo a Campoluongo, s’interpone fra le pendici occidentali dell’altopiano di Mereori, ossia dalla R .ne Cozzo delle Nocelle, e l’altopiano del Me¬ dicale. Essa ha la forma presso a poco di un angolo retto il cui ver¬ tice è costituito dalla quota 1299 del Medicale. Il primo tratto diretto da Nord a Sud, discende dalla sella o cc Croce di Campolongo » (sita a destra della lettera a della parola Rajalunga) fino ai piedi della sumenzionata quota 1299. Questo tratto non è modellato dal ghiaccio. Il secondo tratto è pianeggiante sul principio e poi sale lievemente fino alla quota 1155, che si trova tra la Serra del Cigliatole e l’Ago- stiello. Questa porzione, clic i locali chiamano valle di Lagostiello è una conca glaciale mirabilmente foggiata da U. I nativi distinguono Lagostiello Soprano da Lagostiello Sottano. Le due zone menzionate sono divise da una strozzatura della conca. Il piano di Lagostiello Soprano termina in un inghiottitoio (chiamato perciò « Grava di Lagostiello ») che si trova nel punto più basso del- ravvallamento, sulle pendici di una morena. Qui scompaiono le acque di tutta la conca, come indicano chiaramente i letti convergenti di parecchi torrenti scavati pronfondamente nei materiali morenici. Probabilmente le acque di Lagostiello, dopo un corso sotterraneo, riappaiono alla luce alla sorgente del Festolaro nella Valle Soprana (li Laurino. Immediatamente dopo la grava di Lagostiello si sale un dosso allungato, lungo circa un chilometro. Esso è la morena di fondo dell’antico ghiacciaio che scorreva nella conca (vedi la mia più volle citata pubblicaz.). Dove sulla caria topografica è segnala la quota 1100 la conca si allarga nuovamente formando il piano di Lagostiello Soprano, Da questo piano, a Nord-est, fra le opposte pendici della Serra del Ci¬ gliatole e di uno sperone degradante da quota 1353 (Tempa Ra China), si apre un varco per cui si accede nella conca del Lago di Gervatello. § 6. Conca del Lago di Cervatei lo. La conca del Lago di Cervatei lo, che non è denominata sulla caria, ha una lunghezza di chilometri tre e mezzo ed è diretta da Sud-est a Nord-ovest verso cui anche pende. È limitata a Sud e Sud-est dal Cre- tazzo (quota 1421). Il suo lato destro è costituito da un lungo con¬ trafforte a schiena di mulo detto Rota; quello sinistro prima da uno sperone degradante da Tempa Ra China (quota 1451) e poi dalla Serra del Cigliatole. A Nord-ovest la conca è chiusa dalla Costa del¬ l’Angelo, ai piedi della quale, per metà dell’anno, esiste il Lago di Cervatello. L’inghiotitoio del (( Fosso », che funziona da sfioratore na¬ turale, impedisce che lo specchio d’acqua si espanda maggiormente. Anche la parte più alta di questa conca, ai piedi del Cretazzo, pre¬ senta un anfiteatro morenico (vedi Premessa op cit. ri° 3). Per le stesse ragioni accennate per Mercori alla fine del § 4 ritengo che le acque di queéta conca vadano per vie sotterranee a finire nel vicino F. Calore. § 7. Medicale. L’altopiano del Medicale >i trova in mezzo tra la Conca di Lago¬ stiello e Valle Soprana. Piano della Fontana. Esso non presenta come Mercori un grande avvallamento alla sua sommità. Da questa si sollevano varie quote tra cui le più alte sono M. Rajalunga e M. Calavello a Sud e Tempa Mulitani a Nord. Anche sul Medicale esistono numerose doline ed inghiottitoi le cui acque con ogni probabilità vanno a finire al Calore. § 8. Valle Soprana-Vesalo, Monte Cavallo, Valle Sottana. Subito dopo la Cappella di Sanl’Elena, a Sud del paese di Lau rino, s’entra nella Valle Soprana, percorsa per un primo tratto dal F. Calore e poi da un suo affluente di sinistra, il torrente Festolaro, In questo primo tratto la valle è diretta da Nord-ovest a Sud-est; dal Festolaro piega decisamente a Sud terminando a Vesalo. Percorrendo questa valle, frapposta tra gli altipiani del Medicale e di Monte Ca¬ vallo, appare chiaramente, come la massa del Cercati durante il suo corrugamento e sollevamento, sia stata spezzata dalle forze oro¬ genetiche in tanti blocchi, che spostandosi lungo le facce di frattura, generarono gigantesche scalinate. Qui alle convessità di uno dei bloc¬ chi, corrispondono le concavità dell’altro e viceversa. Difatti lo Scanno del Tesoro di M. Cavallo si insinua nella falcatura del Festolaro facente parte dei Medicale, mentre il cuneo della Costa del Ferro, apparte¬ nente al Medicale penetra nella rientranza esistente fra il Cai avello e lo Scanno del Tesoro. Al termine meridionale di Valle Soprana, fra le pendici dei due monti Calavello, (l’uno appartenente al Medicale, l’altro al M. Ca¬ vallo) di Tempa della Lenza e di Lungovuecolo, si viene a determinare la conca di Vesalo. Il fondo di questa è un piano inclinato pendente leggermente a Nord. Vi si raccolgono le acque che scendono dalla « Croce di Pruno » ma principalmente quelle che scorrono sulle pen¬ dici argillose di Tempa di Lenza, che è un contrafforte delFeomiocenica catena del Monte Sacro di Novi. Dato che l’avvallamento di cui si tratta ha il fondo in gran parte argilloso, esso non -può essere classi¬ ficato come conca carsica. Un torrente, dopo aver inciso un letto largo e profondo nei ter¬ reni alluvionali del falsopiano erboso di Vesalo, scende diretto a Nord, e, fra le opposte pendici dei due monti Calavello. corre in una forra ingombra di massi, sotto l’oscura volta del fogliame di faggi secolari. Questo torrente, dopo un corso di circa m. 300, forma una cascata di m. 4, sotto la quale v’è una larga, profonda e cilindrica marmitta di giganti a cui segue una soglia levigata da cui le acque s*inabbissano nell’inghiottitóio chiamato la cc Grava di Vesalo ». La enorme bocca di questa voragine, presso a poco al centro, è attraversata da un ponte naturale, al quale fanno bellissimo ornamento alcuni faggi giganteschi abbarbicati fra le rocce calcaree che ne costituiscono l’arco. L’essere la Grava di Vesalo, che come vedremo manda le sue acque al Calore, situata immediatamente a Sud della sezione Camp ora- Madonna della Neve non smentisce l’asserto contenuto nella premessa e che cioè a Sud di detta sezione l’acqua finisce al Mingardo. Difatti l’inghiottitoio in questione si apre nei calcari di M. Cavallo che si trova quasi tutto a Nord della più volte menzionata linea. Il M. Cavallo e la Cemola costituiscono un unico piano inclinato pendente ad Ovest. Questo piano presenta un’angusta e profonda frat¬ tura, chiamata Valle Sottana che finisce sulla forra del F, Calore, poco a Nord del paese di Laurino, nella località della di San Giovanni. Per correndo Valle Sottana si vedono gli strati corrispondersi c conti¬ nuarsi tanto a destra che a sinistra della litoclasi. Le acque che si raccolgono nelle doline del blocco calcareo M. Cavallo Cemola alimentano molte sorgenti nell’alveo del Calore. Tra di esse la più importante, sita a Sud di Laurino, sotto il ponte di Sanl’E- lena, su cui incombe la parete di M. Cavallo, può ritenersi l’attuale sorgente del Calore. Difatti dopo che la sorgente del F. Calore, situata sulle pendici settentrionali del Cercati prop. detto, è stata captata; questo fiume in estate si secca a monte del ponte di Sant’Elena; rima¬ nendone solo alcune pozze che hanno tramutati i due salubri paesi di Piaggine e Valle dell’Angelo in due focolari endemici di malaria. Oltre alle suddette sorgenti perenni nell’alveo, il Calore presenta una sorgente occasionale che si manifesta a San Giovanni, località ri¬ cordata innanzi, durante le grandi piogge. Quivi sulla riva sinistra, da una fenditura ostruita da massi, aperta nei calcari di M. Cavallo, erompe tale quantità d’acqua che interferendo contro la corrente del fiume forma onde come di risacca, il cui spumeggiare si vede anche da Laurino. Gli abitatori di questo paese ritengono che le acque ri¬ gurgitanti durante le piogge a San Giovanni provengano dalla cc Grava di Vesalo ». Io condivido tale opinione. Difatti l’enorme massa d’acqua erompente a San Giovanni, che appare per giunta in coincidenza con le forti piogge, deve essere in relazione con un grande bacino di rac¬ colta e con un inghiottitoio di gran lume quali sono in realtà, come si è detto innanzi, la conca e la Grava di Vesalo. Ma l’argomento più convincente a favore di questa lesi è dato dal fatto che se congiun¬ giamo con una linea immaginaria Vesalo con San Giovanni, questa linea coincide con la litoclasi di Valle Sottana, Il piano di questa litoclasi non si arresta, come è logic o, sul fondo di Valle Sottana; ma taglia, sino a notevole profondità, gli strati cal¬ carei sottostanti. È cosa notissima che i corsi d’acqua sotterranei nelle zone carsiche scavano le loro grotte nei punii dove i calcari presentano minore resistenza, i quali sono rappresentati dalle preesistenti frat¬ ture. Concludendo, con ogni verosimiglianza, sotto Valle Sottana deve esistere una grotta, in cui fluiscono le acque del torrente che si spro¬ fonda nella voragine di Vesalo. Conclusione. Con la presente memoria viene pubblicato per la prima volta il Carsismo del Monte Fervati che si manifesta con grande varietà di forme: inghiottitoi e doline innumerevoli, numerose polje, grotte, corsi d’acqua sotterranei e sorgenti pulsanti. La stessa causa, e cioè I essere il Massiccio elei Cercati formato da una scalinata di cinque altopiani, ha reso possibile lo stabilirsi di numerosi antichi bacini collettori glaciali e di non meno numerose polje. Tanto i primi quanto le seconde non si potevano formare su monti cupoliformi, piramidali, a schiomi, a sega o comunque molto corru¬ gati e con ripide pendici. Delle due forze che hanno modellato il Cercati : Glacialesimo e Carsismo, la prima ha svolta la sua azione precedentemente. Difatti nel Cervati nel pospliocene scivolavano ben otto ghiacciai (v. Premessa op. cit. n° 3) e da ciò, logicamente se ne deduce che l’enorme quantità di materiali morenici da essi prodotta e spinta innanzi alle loro fronti avrebbe sommersa ogni traccia di un precedente o coevo carsismo. Que¬ sta, per quanto logica, è una ipotesi. La dimostrazione, direi tangibile tanto è evidente, che il carsismo nel Cervati è più recente del Glaciale è data dalla « Grava di Lagostiello » (vedi par. § 5) che è scavata nella stessa morena di fondo. L’inghiottitoio, presso a poco cilindrico, perfora verticalmente le pendici della morena, che pendono a Sud-est, dove queste cominciano ad elevarsi dal fondo valle. La circonferenza della bocca della voragine è nello stesso piano inclinato delle pendici della morena ed è tangente al piano del fondo ralle; o in altre parole questa circonferenza non è tutta alla stessa altezza, essendo questa maggiore a Nord-ovest. Supponendo l’inghiottitoio come un cilindro geometrico con la base superiore obliqua, mezzo cilindro è scavato nella morena e l’altro mezzo nel terreno del fondovalle. Guardando verso il basso da ogni punto dell’orlo di questo ampio pozzo naturale si vede che le sue pareti sono indubbiamente moreniche essendo formate da massi e ciottoli di ogni dimensione caoticamente disposti e frammisti a limo ferrettizzato. Si esclude perciò che il terreno in cui la voragine è scavata sia stato trasportato dalle acque. Esso fu deposto ove attual¬ mente si trova. Sempre guardando nell’interno deH’inghiottitoio si vede che il terreno glaciale ha una potenza di alcuni metri e poggia sui cal¬ cari. Non deve stupire se il morenico nel fondo della conca di Lago¬ stiello abbia una certa potenza se si ricorda che essa fu occupata, quasi fino alla sommità, da un ghiacciaio, che la modellò perfettamente ad U, e se si riflette, che per la sua conformazione, il materiale non po¬ tette essere disperso. Altri inghiottitoi di Campoluongo, sebbene meno èvidenteinentes ci narrano la stessa storia di quello di Lagostiello e che cioè le voragini debbono essere necessariamente più recenti dei terreni in cui esse furono perforate, come è ovvio. Sono quindi auto¬ rizzato a concludere, senza però voler fare generalizzazioni, che al Cer¬ vati il carsismo è posteriore al glacialesimo. Questo fatto è molto im portante per il problema della genesi delle polje del Cervati come subito dirò. 113 Dopo uno studio comparativo di lutte le cavità scavate nei calcari del Cervati si è indotti a dividerle in due gruppi: quelle la cui genesi è da attribuirsi esclusivamente all’azione fisico-chimica dell’acqua, ossia al carsismo, e quelle che oltre da questa azione sono state ge¬ nerate anche da altre cause quali l’orogenesi ed il glacial esimo. Le prime sono gli inghiottitoi (« Grave ») e le doline (« fuossi ») piccole o grandi che siano. Le seconde corrispondono a quelle che ho chiamate nelle pagine precedenti semplicemente conche e che per di¬ stinguile da quelle non carsiche si dovrebbro chiamare cc conche car¬ siche », denominazione alla quale, per concisione, è preferibile il ter¬ mine slavo di Polja. La Polja del Cervati si può definire: Una grande cavità, chiusa da ogni lato, in zona calcarea, a deflusso sotterraneo, originata oltre che dal carsismo anche dalle forze orogenetiche e dal glacialesimo Le polje di tipo Cervati si differenziano da quelle dell’Alto piano del Carso; difatti in queste ultime in primo luogo manca l’azione gla¬ ciale, in secondo luogo l’orogenesi fu « attenuata », come si esprime te¬ stualmente G. Rovereto nelle « Forme della Terra » Voi. II pag. 870. Escludo che le polje del Cervati siano state originate da fusione di doline contigue per sparizione dei setti divisori. Per le polje di altre zone il Prof. Rovereto ha pure esclusa tale origine polemizzando con molti autori slavi (v. op. cit. Voi. II, pag. 871). Senza superflue sottoclassificazioni (riguardanti la forma, la pem dcnza del fondo e se questo è solcato o non da un corso d’acqua che poi s’ingrotta) le conche che ho descritte innanzi sono da classificarsi quasi tutte come polje rientrando nei limiti della soprascritta definir zione. Non è polja la conca di Vesa lo, perchè non tutta racchiusa in zona calcarea; e neirallineamento delle doline dell’altopiano terminale del Cervati, assistiamo alla formazione di una unica grande dolina (Uvala in slavo). Ho notato che tutte le polje del Cervati sono delle ellissi allun¬ gate, il cui asse maggiore è diretto da Nord-ovest a Sud-est, come del resto sono orientate anche le valli normali e le principali linee di frattura. Sulla vetta del Cervati le principali doline sono anche esse orientate su di una frattura diretta da Nord-ovest a Sud-est. La stessa direzione ha anche la grotta che il Russento scava attraverso la Ser- retella penetrando nell’Affonnaturo per risorgere a Varco Lapete. A questo generale orientamento non fa eccezione neppure la grotta che, con ogni probabilità, esiste sotto Valle Sottana ed è percorsa dal torrente che sprofonda nella Grava di Vesalo uscendo a San Giovanni. Nel caos di doline che perforano le pendici del Cozzo delie Nocelle esistono molti allineamenti disposti su fratture secondarie dirette per- 8 — 114 — pendicolarmente a quelle fin qui elencate. Queste mie osservazioni di¬ mostrano che sul Cercati, forse più die altrove, non solo le Polje ma anche le doline e le grotte sono in rapporto di dipendenza con Toro- genesi. Questo rapporto negato dal Biasutti è ammesso dal Rovereto (vedi op. cit. pag. 872 Voi. II). Concludendo, nel Cercati prima le forze orogenetiche incisero valli più o meno profonde, che percorse successivamente da ghiacciai furono modificate in vario modo, con maggiore o minore intensità, ed infine caddero sotto il dominio del carsismo, che le trasformò in polje. Vallivona e Campoluongo furono plasmate più dalle forze oroge¬ netiche che dai ghiacciai; viceversa successe per Mercuri, Lagostiello e Cervatei lo. Vallivona è quella che ha subito al minimo l’azione glaciale ed al massimo quella carsica. Campoluongo ha come si è visto una notevolissima storia, difatti essa fu ridotta a conca dallo sbarramento morenico delle Grottelle ed attualmente viene approfondita al centro dal carsismo. Riguardo alla pendenza Campoluongo e Lagostiello hanno un fondo pianeggiante al cui centro stanno le doline e gli inghiottitoi che invece a Mercori, Vallivona e Cervatei lo, il cui fondo è un piano inclinato, si trovano al termine inferiore della conca. Ciò è ancora una prova che il carsismo è in relazione con la pendenza degli strati e quindi con la tettonica. Fisicamente questo fatto si spiega facilmente pensando che l’energia cinetica delTacqua aumenta progressivamente scendendo su un piano inclinato alla fine del quale si generano formidabili moti vorticosi capaci da soli di trapanare qualsiasi perforazione che per giunta viene ampliata dall’azione distruttiva dell’enorme quantità del materiale trasportato. Ricerche sui colore del mare eseguite tra la Sicilia e la Libia e lungo le coste della Puglia e della Calabria Nota del socio Gustavo Mazzarelli (Tornata del 29 dicembre t9> 19 » 34 37 00 16 04 00 > 300 9 P 3. » 19 j) 33 55 00 13 42 00 > 300 17 IP 4 » 23 » 32 39 59 14 16 40 10 15 35 IIP 5 » 23 » 32 39 30 14 19 20 19 16 30 IP 6 » 23 )) 32 43 00 14 17 40 59 17 20 IIP L » ' 24. )> 32 45 00 14 16 35 70 LI 10 IIP 8 » 24 » 32 42 35 14 18 20 60 13 20 IP 9 IX - 2 . » 32 28 30 15 14 12 59 15 30 Jò 10 » 3 » 32 30 20 14 34 20 9 11 00 IV" 11 » 3 » 32 34 00 14 35 00 40 15 20 IP 12 » 4 » 32 52 30 14 19 30 190 17 00 IV« 13 » 4 » 32 55 20 14 16 00 197 16 00 IV° 14 » 5 » 32 53 00 13 46 00 60 8 30 IIP 15 » 5 » 33 04 30 13 45 30 170 12 30 IIP 16 » 9 » 33 03 00 12 18 42 62 9 45 III 17 » 9 » 32 55 00 12 12 50 22 11 30 IIP 18 » 9 » 32 57 00 12 16 00 40 14 00 IIP 19 » 9 » 33 01 00 12 12 00 35 14 15 IIP 20 » , 10 » 33 15 00 11 49 35 30 9 00 III 21 » 10 » 33 15 00 11 52 OO 29 13 00 IP 22 » 11 » 33 29 30 12 01 00 30 9 00 IIP 23 » 11 » 33 29 30 12 01 00 30 13 30 11° 24 » 13 » 33 09 00 12 46 20 133 12 00 IIP 26:.- ; • »- 21 » . 33.04 30 13 03 00 113 12 00 IP 26 ■'0> . 21 » 30 07 30 12 58 00 129 14 20 IIP 27 )) 22 » 32 55 30 12 50 30 72 10 35 IV° . 28 )) 22 » 32 09 40 12 52 25 131 15 45 IV 29 )) 23 » 33 11 00 12 56 30 143 15 30 III __ 117 _ N. Dal. Lai. N Lóng. E Gr. Pro fondita Ora Crede della d* ord, ' in metri acala For-el 30 IX-25-1925 32 57 48 13 10 00 40 9 00 ir ' 31 X » 3 » 32 57 48 13 10 00 40 14 30 ivo 32 » 4 » 35 28 00 12 39 20 53 15 00 IV0 33 VII-28 1926 39 45 30 18 00 40 90 10 30 iir 34 » 28 » 39 52 00 17 52 30 176 14 00 nto 35 » 28 » . 39 57 00 17 56 48 119 15 50 ir 36 VIII-29 )> 40 20 00 17 10 00 415 15 30 iip 37 » 29 » 40 20 00 17 18 30 115 17 30 ir 38 » 30 » 40 04 24 16 46 06 70 9 50 iip 39 )) 30 » 51 48 16 16 43 30 30 14 10 iip 40 IX -2 » 39 35 00 16 53 48 101 9 50 ip 41 » 3 » 39 26 48 17 08 36 100 7 00 Iip 42 » 14 » 39 29 00 17 05 30 78 15 00 ip 43 » 15 » 39 10 36 17 15 12 195 13 40 iip 44 » 12 » 37 53 00 17 04 24 100 9 00 iip 45 )) 16 » 38 00 18 15 32 18 1206 12 ÓO ip 46 » 16 » 38 06 12 15 34 30 460 14 00 ; P 47 » 16 » 38 14 42 15 37 00 110 16 00 IP 48 » 18 » 38 20 30 15 46 30 > 200 12 00 IP 49 » 18 » 38 15 30 15 41 00 > 200 13 00 IP 50 » 18 » 38 14 42 15 36 46 120 16 00 IP 51 VH-151927 36 39 00 14 29 00 89 9 00 IIP 52 21 » 36 13 30 15 12 00 132 9 15 IP 53 » 23 » 36 38 12 14 29 24 102 8 35 IIP 54 » 23 » 36 35 45 14 50 12 7 7;. 14 00 IIP 55 VI1I-12-I928 33 09 00 12 32 45 62 10 55 4P 56 IX- 16 5) 32 23 20 23 15 40 43 10 15 IIP 57 )) 16 » 32 33 50 23 06 40 10 19 00 IIP 58 » 23 » 32 12 50 23 50 30 101 11 io IP 59 )) 23 » 32 20 20 23 27 30 100 15 35 IIP 60 )) 23 » 32 18 20 23 20 20 45 16 50 IP 61 )) 24 » 32 22 30 23 23 20 100 7 35 IIP 62 )) 27 ,)) 32 11 05 23 53 25 67 14 45 -, ÌV" 63 » 28 » 32 20 40 23 10 50 17 11 30 IIP 64 )) 29 » 32 46 20 22 47 00 50 9 00 4P Ho ritenuto opportuno. affinchè si possa megj io seguire la di* stribuzione de] colore dèi mare, indicare le località ove eseguii le osservazioni, coinè risulta dall’elenco seguente, lenendo presente che esse corrispondono ai numeri d’ordine dell’elenco precedente. . - - * =1 j A miglia 22.5' Tàr SSWf di C. Passero. ' 2) A metà percórso tra la stazione precedente e Tripoli. 3) A 60 miglia à NNE di Tripoli. 1-5) Tri rada a Homs. 6-7-8) Al' largo di Homs: 9) A N al largo di Misurata. 10-11)* In rada à Siiteli. 12) A 19 miglia a NNE di Homs. 13) A 6 miglia a NNW 'delia precedente. 14) A 6 miglia a N della costa a metà strada tra Tripoli e Homs: 15) A 15 miglia a N della precedente. 16) A 12 miglia à NE di Zuara. 17-1819) Al largo di Zuara. 20-21) À N al largo di Sidi Said. 22-23) A 26 miglia circa a NNE di Sidi Said. 24) A 30 miglia a NNE di Zuaga. 25) A 12 miglia a NW di Tripoli. . 26) A 17 miglia a NW di Tripoli. 27) A 18 miglia a W di Tripoli. 28) A circa 3 miglia a NE della stazione 24. 29) A 21 miglia a NW di Tripoli. 30-31) A circa 4 miglia a NNW di Tripoli. 32) Pressò l’imboccatura del porto dell’isola di Lampedusa. 33) WSWj di Capo S. Maria di Leuea. 34-35) SW di Gallipoli. 36-37) SSW di Capo S. Vito (Taranto). 38) NE di Capo Spulico (Calabria). 39) E di Trebisacce (Calabria). 40) ESE di Capo Trionto (Calabria). 41) NNE di Punta Stilo (Calabria). 42) NW di Punta Alice (Calabria). 43) Al largo della foce del fiume Neto (Calabria). 44) S di Capo Sparavento. 45) Al largo di Pellaro (Nel centro dello Stretto di Messina), 46) Nel mezzo dello Stretto di Messina al largo di Reggio Ca¬ labria. 47) Nel mezzo ideilo Stretto di Messina sulla congiungente Gan¬ zi r ri -Punta Pezzo. 48) A 6 miglia a NE dell’ingresso settentrionale dello Stretto di Messina di fronte a Palmi. ! 49) Al largo di Scilla. 50) Nello Stretto di Messina tra' S. Àgata e Punta Pezzo. 51) Canale di Malta. 52) NE di Malta. 53) S di Pozza! lo (eosta meridionale della Sicilia). 54) S di Capo Passero. 55) Al largo di Zuaga (Tripolitania). 56) ENE isola di Bomba (Golfo di Bomba in Cirenaica). 57) Ancoraggio di Ras et Tin (Cirenaica). 58) Paraggi di Tobruch. 59) 10 miglia a NE di Ras Mengar (Cirenaica). 60) 6 miglia a N di Ras Mengar. 61) 8 miglia ad E dell’isola di Bomba. 62) Paraggi di Tobruch. 63) A SE dell’isola di Bomba di fronte alla baia di Menelao. 64) Paraggi di Derna. Neila presente nota mi limito alle sole osservazioni, mentre in un’altra che segue verranno discussi i risultati. NOTIZIE VESUVIANE Lo stato del Vesuvio dal 9 Novembre 1947 al 15 Febbraio 1948 JNota del socio Antonio Paragcandola Tornata del 25 febbraio 1948) Nel giorno 9 Novembre 1947 già da Napoli "si osservava, fin dal primo mattino, una vistosa colonna bianca di vapori che si sollevava dall’angolo N-W dell’orlo craterico, sempre dal solito posto dove co¬ munemente si nota la fumigazione in genere accentuata, che come una verga di fumo affacciamosi ora esile, ora nutrita, si mostra ai napole¬ tani che malinconicamente osservano il Gran Cono privato del fumoso pennacchio. Ascendendo al cratere per la via che parte dalla stazione inferiore della funicolare niente di notevole si osservava lungo tale settore. Il cratere era fortemente fumigante lungo le interne pendici dell’orlo piroclastico orientale per tutto il fronte che da N-W va a S; i vapori erano particolarmente localizzati nel settore di N-E di tale fascia piro- clastica. L’angolo nord era fortemente fumigante ed il vapore svolgevasi dagli spacchi lavici copioso e rapido, con energica sfuggita. La precipite parete lavica sottostante alla sopradetta coltre piroclastica non presen¬ tava però sfuggita di vapori. Il fondo del cratere manifestava estrinse¬ cazione di vapori solo nel solito angolo N-W, ov’è la fumarola Mer- CAlLLl; la rimanente parte del fondo craterico non dava manifestazioni di vapori. Sia la fumarola di fondo, sia quella degli spacchi delle lave sottostanti al mantello piroclastico nuovo del 1944, associandosi contri¬ buivano a rendere più vistoso e copioso lo svolgimento dei vapori. Evi¬ dentemente le abbondanti piogge dei precedenti giorni maggiormente contribuivano a tale vistosa manifestazione. Lo svolgimento dei va¬ pori era copioso anche lungo la parete craterica occidentale. Rinvenni formazione dello zolfo ben cristallizzato sull’orlo craterico occidentale. Quivi non si avvertiva presenza di HC1; di tanto in tanto si percepiva P amicandola A. — Notizie Vesuviane. TAV. 1 Pakascandola A. — Notizie Vesuviane, TAV. II ( Foto Par arcandola, 22-XI-1947) Parascandola A Notizie Vesuviane . TAV. Ili {Foto Porascandola f 8-II-1948) ' TAV. IV Parascandola A. — Notizie Vesuviane. 3 ( Foto Parascandola, 8 11-1948 ) 4 — 121 — l’odore dell’H2S. La temperatura dei crepacci era abbastanza elevata; superava in più punti 360°. Per tutto il tempo dell’osservazione su questo versante del cratere non potetti avvertire esalazioni di HC1 Nel l’ascensione del ]8 Novembre 1947 la giornata, in principio con cielo sereno e con lieve venticello del nord, si guastò poi; e verso le 12.30 già il Gran Cono era invaso da nubi e nebbia. La fumarola Mercalli si notava decisamente fumare; del pari fumigava la parete cratèrica occidentale. Sui fianchi del Gran Cono, nel settore corrispon¬ dente alla fumarola Mercalli, nella parte prossima all’orlo crateri¬ co, per cento metri circa di distanza dall’orlo stesso, si notava fumi¬ gazione più accentuata. Le batterie dell’orlo vecchio craterico, rivolte a Nord, presentavano accentuato copioso sviluppo di vapori in rela¬ zione con la umidità atmosferica ed alle abbondanti . precedenti pre¬ cipitazioni. Sul fianco nord del Gran Cono, nei pressi della da me dimostrata frattura del Gran Cono, notai che persisteva insistente attiva manife¬ stazione fumarolica, e la zona stessa che fu interessata nella frattura manteneva sempre gli identici caratteri chimici e mineralogici che nelle precedenti escursioni avevo osservato. La pioggia sopravvenuta ci im¬ pedì di continuare le osservazioni. Nell’ascensione del 22 Novembre notai che la colonna dei vapori dell’orlo craterico di N-W si sollevava con vistosità, ma affiorava appena. Le batterie dell’orlo craterico vecchio fortemente fumigavano. Avendo condotto le osservazioni sul fianco Nord del Gran Cono, sul campo granulinico in corrispondenza della frattura che io dimostrai avvenuta nel l’eruzione del 1944, ho notato la temperatura massima di 236°. Ritornai al Vesuvio l’8 Febbraio 1948. La parete occidentale del cratere era fortemente fumigante e si avvertiva lieve presenza dell’HCl. Ànclie la parete craterica orientale nel settore N-E a partire dal ter¬ mine superiore della conoide di franamento, adagiantesi sul fondo, si notava fumigare ad una altezza di circa 50 metri dall’orlo superiore della conoide. La nota fumarola (fig. 1 e 2 della tav. IV) dell’orlo craterico verso il N-NE svolgeva copiosamente e sotto energica tensione il va¬ pore fuoriuscente dagli spacchi lavici, che si elevava su diritto come un robusto fumaiolo. La fumarola Mercalli fumigava copiosamente con spessi vapori rapidamente svolgentisi a dense volute, come tanti globi, con una tinta lievemente azzurrognola. I suoi vapori (fig. 2 e 3 della tav. IV) si elevavano dal fondo e salivano su lungo le pareti siccome una densa colonna, la quale, prima di disperdersi, quasi raggiungeva l’orlo cra¬ terico fondendosi alle estrinsecazioni gassose che da esso pur copiose — 122 — si sprigionavano. La temperatura massima elle mi fu possibile riscon¬ trare suH’orlo craterico occidentale fu di 400°. Nell’aseensione al Vesuvio effettuata il giorno dopo, cioè il lunedì 9 Febbraio 1948, giunto al cratere, non potetti osservare il fondo pel¬ le cattive condizioni atmosferiche; il Gran Cono ed il cratere erano avvolti in fitta nebbia. Sicché dovetti limitarmi alle sole osservazioni sul materiale piroclastico. Nell’ascensione che ripetetti nel giorno seguente, cioè il martedì 10, un improvviso e violento perturbamento atmosferico troncò le os¬ servazioni che stavo conducendo nell’Atrio del Cavallo e mi impedì quindi di pervenire al cratere. Ben più fortunato fui nell’aseensione al cratere che effettuai pochi giorni dopo, e cioè la domenica 15 Febbraio. Le batterie delle pareti occidentali fumigavano più copiosamente della precedente domenica, e lo stesso accadeva sulla parete orientale del settore di N-E a partire dall’apice della vasta conoide adagiata contro la parete orientale. Tale parete interessata dalla fumarola ri¬ saltava per l’umidità che vi i condensava. Anche l’orlo craterico di N-NÉ era fortemente interessato nel copioso violento sfogo di vapore. La temperatura massima segnata sull’orlo occidentale fu pure, come la volta precedente, di 400®. Sull’orlo del cratere di tanto in tanto folate di vento portavano acido cloridrico. Sia l’8 Febbraio che il 15, in corrispondenza di tale crepaccio a 400° raccolsi copiose sublimazioni bianche, le quali esaminate sono ri¬ sultate costituite da cloruro sodico. Discesi pel Gran Cono sul versante settentrionale in corrispondenza della frattura di cui ho parlato in pre¬ cedenti lavori; e notai che la temperatura alle ore 17,20 era di 255°. Ivi raccolsi sublimazioni in corso di studio. Le fratture trasversali del Gran Cono presso l’orlo occidentale, che già in altre mie note ho vitate, vanno sempre più allargandosi ed estendendosi, rispetto allo stato in cui le avevo osservate nelle mie precedenti ascensioni. L’attuale morfologia del Gran Cono in seguito alla conflagrazione del 1944 è evidentemente ben diversa da quella che assunse dopo la eruzione del 1906. In quella eruzione, a tipo predominantemente di efflusso lavico laterale, la copia del materiale piroclastico ammantò il Gran Cono, sul quale le acque solcarono i radianti centrifughi a i ;en- taglio semiaperto, come li chiamò Lacroix. Nella conflagrazione ve¬ suviana del 1944 le lave riversatesi dall’ orlo e 4l materiale delle fontane laviche cadente lungo le pendici Ilari determinato una etero¬ geneità nella compagine strutturale del Gran Cono, per cui non pos¬ siamo osservare, pure a distanza di 4 anni dell’eruzione, i caratteri¬ stici solchi simmetrici che sul Gran Como si notavano nel 1906. I — 123 — Il parallelo Ira i due aspetti del Gran Cono dopo la eruzione dei 1906 e dopo la eruzione del 1944 è reso evidente dalle annesse figure, ehe mostrano con chiarezza l’andamento irregolare dei solchi di ero¬ sione. Del resto, i solchi centripeti regolari sono evidenti nella quaqua- versale interna del poderoso mantello piroelastico ammantante la re¬ siduale piattaforma craterica nel settore orientale dove la regolarità è ancora assai netta. Rendo noto, a titolo di semplice notizia, riservandomi di trattare a parte dei minerali di questa eruzione, -che tra le produzioni minerà' logiche della conflagrazione del 1944 è da citarsi la Haiiyna. Tale minerale ben noto al M. Somma, fu nel Vesuvio da A. Scac¬ chi (1) rilevato nelle lave del 1631, ma in un proietto in esse incluso. In altre lave, per quanto è a mia conoscenza non è stato rilevato. Zam¬ boni Ni (2) la rinvenne in un proietto della eruzione del 1906. Il suo attuale ritrovamento è stato effettuato nella lava di S. Sebastiano. Sto conducendo osservazioni per determinare l’esistenza eventuale di tale minerale in altre zone della massa lavica. Sovente si ritrovano nelle fratture delle lave macchie tra il ros- signo e il giallo ruggine. Talune di queste hanno sezione rombica. Ho potuto constatare che in qualche punto talune di queste macchie non costituivano un prodotto superficiale di alterazione, ma interessavano una massa verde oliva, a frattura concoide, la quale è risultata olivina. Tale minerale era però avviato alla alterazione in hiddingsite. La po¬ chezza del materiale fino ad ora rinvenuto non ini consente di poterne fare uno studio accurato, ma conduco indagini per ricavarne quantità sufficienti. L’abbondanza di Silvestri tc. da me notata nel materiale della eruzione del 1944, come in altre nelle quali si è formata, pare debba attribuirsi, oltre che ad alta temperatura, alla grande fluidità che con la sfuggita tumultuosa dei vapori finemente aumenta, con le soluzioni di continuità, anche finissime, la superficie della lava, per cui il con¬ tatto dell’aria con la parte vetrosa facilmente conduce alla formazione della silvestrite. Ciò invece nelle lave a corda non si verifica. La silvestrite è stata da me rinvenuta abbondante nei proietti ca¬ duti sul fianco occidentale e settentrionale del Gran Cono. . Napoli, Istituto di mineralogia della Università, febbraio 1948. (1) Scacchi Arcangelo. Memorie Soc. it. delle Se. detta dei XL), IV, N. 8, pag, 30, 1833, (2) Zambonini Ferruccio. Mineralogia Vesuviana. 2a ediz. (a cura di E. Quer- cigh), pag. 338 e 401. Suppl. al voi. XX, s. 2a, Atti R. Acc. se. fts. e mat. Na¬ poli, 1935. 124 — SPIEGAZIONE DELLE TAVOLE Tav. I Il Gran Cono del Vesuvio dopo la eruzione del 1906 ammantato dalla copia delle ceneri nelle quali le acque han prodotto i caratteristici simmetrici solchi di erosione a ventaglio. Tav. fi Configurazione del Gran Cono osservato dall’Atrio del Cavallo il 22 novem¬ bre 1948. È evidente dal confronto con la figura della tav. 1 la mancanza di solchi a ventaglio. In questa figura i solchi, che non sono profondi, hanno un andamento irregolare, alquanto tortuoso, quale vien consentito dalla irregolare distribuzione dei blocchi lavici e dal loro volume. Si nota Torio vecchio del Gran Cono, con la imposizione del mantello piroclastico e la glabra tura di N.W. Tav. Ili Veduta del cratere del Vesuvio nell’ aspetto delle precipiti pareti orientali, le quali mostrano, al di sopra della parete lavica, il mantello piroclasico i {ab), che nella porzione riguardante la quaquaversale interna è interessato da solchi cen- tripeti ben profondi e regolari, coperti dalle chiazze policrome dei minerali for¬ matisi per alterazione. Tale andamento regolare dei solchi richiama l’analogo della Tav. I. Tav. IV Fig. 1. La densa colonna di vapori sfuggente dagli spacchi lavici delTorlo cra¬ terico presso la slabratura di NW. Fig. 2. — Particolare della fig. 1, mostrante, fra l’altro, le numerose fenditure attraversanti le lave. Fig. 3. — Le fumarole del fondo craterico lungo la conoide defluente da N.W. Fig. 4. — La fumarola Mercalli in particolare. SULLA TEORIA ELETTRONICA DELLA VALENZA Nota IV del socio Ernesto Pannain ■ Tornata del 29 dieembrp 1948) Il legame benzenieo I risultali dell’applicazione della tc teoria elettronica » ai legami Ira gli atomi, che comunicai nelle tornate del 28 dicembre ’45, 27 febbraio e 27 novembre ’46 (1), hanno portato tra -l’altro alla cono¬ scenza del legame benzenieo . Nella discussione promossa dal prof. Giordani, confutai tutte le sue obiezioni, dimostrando che la teoria dei quanti e il teorema del Bauli non possono inficiare in alcun modo le conclusioni alle quali pervenni, tutte in perfetto accordo con i fatti sperimentali. Pregai il prof. Giordani di farmi in iscritto ogni altra osservazione al riguardo, cui avrei risposto per iscritto, ma egli non ne ha mossa alcuna, per cui devo ritenere che le mie delucidazioni siano state ben esaurienti. Nel fare omaggio a lui ed a altri cattedratici della mia pubblicazione, pregai di sottoporne a critica il contenuto, ritenendo che una serena discussione su argomenti scientifici contribuisca al loro chiarimento. Nessuna critica mi è stata mossa; solo il prof. Guido Bargellini ba espresso il parere, comunicatomi privatamente, che gli argomenti da me trattati avessero carattere didattico. Gli feci notare che col legame benzenieo ho risolto l’annoso c dibattuto problema della for¬ mula di costituzione del benzene , che ha interessato scienziati, come il Kekukè, il Ladenburg. I’Armostrong. il Bayer, il Claus, il Thiele ed altri, e, recentemente; il Bonino, che per primo ha applicato la teoria elettronica all’esagono benzenieo, col suo legame tricentrico. L’argomento non è quindi di natura didattica, ma puramente scientifico : la soluzione da me data è in perfetto accordo con la teo¬ ria e con l’esperienza e dimostra l’equivalenza dei sei legami tra gli atomi di carbonio del nucleo benzenieo. (1) Questo Bollettino, voi. LV. HC^^CE CH H3C-ÓH-CH3 +4H Montana A X poetisene ::: -ò: Hg© o o gH C C® . o o *0*. . • t ■ » , 0* me m c ? o O * • •0» i Tav. Il 1 :o; .0* • triozomira di bensene Ho, H H~0: 8 oCo®C o C ° • C* o * • « ® © Co.QZH ? «SC » j c!H « * •o © ©o *> 4 c8:o: H2C C*H forma benzmica o * ,0850 • © o « H2C « J C»h forma ohiooaica 8 0<«-t 3H.QH -0 ac. rosolie© incolore >7* sale sodico colorato /C\° _ _ ,30QKa ^ _ ^00® a G\/° (Di/» <5 c-<2>-oa /-Q’( HO 0 / HaO 0 HaO 0 in i v_y ii fenolf taleina incoi. Carbinolo labile sale colorato — 129 — scuiio ai proprio atomo di carbonio. Di questi, due io mettono in co¬ mune con l’atomo col quale ciascuno era rimasto unito col legame ben- zenico, che diventa legame doppio, con due doppietti elettronici, e nell’esagono si formano due legami doppi in posizione para; degli altri due atomi di carbonio, che sono in posizione para l’uno rispetto all’altro, uno lo mette in comune con l’atomo di ossigeno che ha per¬ duto l’atomo l’idrogeno nella eliminazione di una molecola d’acqua con l’ossidrile carhinolico, e l’altro con l’atomo di carbonio carbi- nolico, formandosi così due legami doppii, exstranucleari in posizio¬ ne para. Quando, per esempio. V acido rosolico viene trattato con idrossi- do di sodio, due ossidrili fenolici si salificano, c i corrispondenti esav goni, l e 2, conservano la struttura benzenica, coi legami benzeniei tra gli atomi di carbonio; ma il terzo elimina una molecola d’acqua con l’ossidrile carbinolico e il nucleo 3 assume la struttura e'hinonica, con la formazione di due legami doppii in posizione para, mentre i due atomi di carbonio tra essi compresi si uniscono con doppii legami l’uno con l’atomo di ossigeno e l’altro con l’atomo di carbonio car¬ binolico, come nello schema 8, tav. II. Identico è il meccanismo col quale dalla fenolftaleina incolora — I — si passa al sale colorato — IH — attraverso il carbinolo instabile — II — , con eliminazione di una molecola d’acqua tra uno dei due os¬ sidrili fenolici e l’ossidrile carbinolico, mentre l’altro si salifica, come nello schema 9, tav. II. Nelle formule strutturali, relative all’acido rosolico e alla feno ftaleina, è stata rispettata la consuetudine di disegnare l’esagono sem¬ plice coi soli sei lati, quando non vi si fanno comparire gli atomi di carbonio. Va sottinteso però che tra un atomo di carbonio e V altro vi è un legame bcnzenico con tre elettroni, due di un atomo di car¬ bonio e uno delV altro, come in passato si sottintendevano i tre doppi legami alternati, secondo la formula del KÉkulÈ. La sintesi del benzene dall’acetilene sì spiega esaurientemente col mio legame benzenico e con la teoria dell’ottetto di Lewis e Lang* 9 MUIR: per azione del calore si apre il legame triplo di ciascuna mo¬ lecola di acetilene e tra i due atomi di carbonio rimane un legame covalente; ciascun atomo di carbonio riprende i suoi due elettroni, con uno dei quali si unisce covalentemente ad uno di un’altra mole¬ cola e con l’altro coordina uno dei due contigui, rimanendo coordinalo dall’altro. L’ottetto di ciascun atomo di carbonio è completato dal¬ l’elettrone dell’atomo d’idrogeno. Riassùnto Il legame benzenico è costituito da tre > elettroni tra i due atomi di carbonio delV esagono , due di un atomo e uno dell'altro , che for¬ mano un legame covalente e V altro di coordinazione. - Nell’ esagono benzenico ciascun atomo di carbonio è unito con le¬ game covalente i ad un atomo d' idrogeno e ai due atomi di carbonio tra i quali è compreso, ne coordina uno ed e coordinato dall'altro. Si ha la perfetta equivalenza dei sei legami tra i sei atomi di carbonio del nucleo e si spiega : a) l'assenza delle reazioni del doppio legame ; b) la formazione di un solo prodotto ortobi sostituito; c) il comportamento del nucleo benzenico alla idrogenazione , v all'addizione di tre molecole d'ozono : d) la sintesi pirogenica dei benzene dall’acetilene ; c) la formazione dei gruppo e ro'tioforo , chinonico. AlV esagono del KÉkùLÈ con tre doppi legami alternati va so¬ stituito un esagono con la testa di una freccia sopra ciascuno dei sei lati, che sta a rappresentare il legame benzenico, insieme di un legame covalente e un altro di coordinazione . Valori termici dei legami tra gli atomi di carbonio Nota del socio Lea Pannalo (Tornata del 29 dicembre 1948) I •a Valori termici dei legami tra gli atomi di carbonio negl’ idrocarburi aciclici Introduzione. Il calcolo dei valori termici dei legami tra un atomo di carbonio è uno d’idrogeno e tra due atomi di carbonio in un idrocarburo si fonda su due principii : 1) — L’equivalenza dell? quattro valenze dell9 atomo di c«r- bonio; 2) — La legge di Hess. Per l’equivalenza delle quattro valenze dell’atomo di carbonio, il valore termico del legame tra un atomo di carbonio e uno d’idro¬ geno dev’essere lo stesso per ciascuno degli atomi d’idrogeno che vi sono combinati. Per la legge di Hess, il calore di formazione — Qf (Cn H^m)— dell’idrocarburo Cn è uguale alla somma dei calori di combu¬ stione dei suoi n atomi di carbonio e dei 2m atomi d’idrogeno, dimi¬ nuita dal suo calore di combustione — Qc (C„ //2m ) — Difatti il calore di combustione di n atomi di carbonio, che for¬ mano n molecole di C02 e di 2m atomi d’idrogeno, che formano m molecole d’acqua, è lo stesso tanto se si bruciano direttamente, quanto se, dapprima si combinano tra di loro, formando 1’ idrocarburo Cn poi si brucia questo; talché, indicando con (CO^ieQf (Hfi) rispettivamente i calori di formazione dell’anidride carbonica e del¬ l’acqua, sarà: Qs (CnH2m) + Qc - nQf (CO,) + mQr (H%0) — 132 — da cui Q/ (CJLJ == iiQf (CO,) + mQf (ILO) - Qe (CJliìH) Ma i calori di formazione dell’anidride carbonica c dell’acqua, sono rispetti v 'ameni e : Qf (CO,) = 97 Cai e Qf (11,0) = 68,4 Cai. quindi, con la formula Q/(CO*) = il. 97 + m. 08,4 Qe (CJIìn) (1) si può calcolare il calore di formazione di un idrocarburo, quando è noto il suo calore di combustione. Valore termico del legame TRA UN ATOMO DI CARBONIO E UNO D? IDROGENO. Con la (1) 'si calcola il calore di formazione del metano, noto il mio calore di combustione, Qc (C7/4) = 211,9 CaJ. : Qy (C//4) = 97 + 2.68,4 — 211,9 = 21,9 Cai. Tale calore di formazione del metano è la somma dei valori ter¬ mici del legame tra ciascuno dei 4 atomi d’idrogeno con l’atomo di carbonio; ma, per l’equivalenza delle 4 valenze dell’atomo di car¬ bonio, questi quattro valori >ono uguali, talché il valore termico — Vt(C — del legame tra un atomo d’idrogeno e uno di carbonio é la quarta parte del calore di combustione del metano V, (G — H) — . 21,9 = + 5,475 Cai. (2) 4 Questo valore termico del legame tra un atomo d’idrogeno e uno di carbonio è sempre lo stesso . per un qualunque atomo d’idrogeno , legato ad un atomo di carbonio di un qualunque idrocarburo aciclico o ciclico, saturo o non saturo 9 perchè tutte le paraffine ed isoparaffine si possono ottenere dal melano don la sintesi del Wurtz; le olefìne si si possono ottenere dai monoalogenoderivati delle corrispondenti pa¬ raffine trattandoli con la potassa alcolica; gli acetileni analogamente — 133 dalle bialogeiioparaffine, aventi i due atomi di alogeno legati a due atomi di carbonio contigui; i cielani per azione del sodio metallico sopra le bialogeiioparaffine aventi i due atomi di alogeno legati agli atomi di earbonio terminali; il benzene si può ottenere dall’acetilene con la sintesi pirogenica del Berthelot; dal benzene si possono otte¬ nere i suoi omologhi con le sintesi di Pitting e Tot, gens e di FriedEL e Kraft, nonché tutti i composti polinucleari, écc. Valore termico del legame semplice TRA DUE ATOMI DI CARBONIO. Per la (1) il calore di formazione dell ciano, il cui calore di com¬ bustione è 370,4 Cai., è dato da: Qr (C2H6) = 2.97 + 3.68,4 — 370,4 = 28,8 Cai. Esso è però la somma del valore termico — V,(C- C) del legame semplice tra due atomi di carbonio e dei valori termici dei legami tra i 6 atomi d’idrogeno, 3 con Puno e 3 con Pallio dei 2 atomi di carbonio dell’etano: Vt (C—C) + 6 . Vt (C — II) = 28,8 Cai. e, per la (2) Vt (C— C)= 28,8 — 6.5,475 = 28,8 — 32,85 = —4,05 Cai. (3) Ho così ottenuto il valore termico del legame semplice tra due atomi di carbonio. Con esso e col valore del legame termico tra Patomo di carbonio e l’atomo d’idrogeno (2) si può calcolare direttamente il calore di for¬ mazione di una qualunque paraffina — CnH2n f2 — nella quale il numero dei legami semplici tra gli atomi di carbonio è n — 1 e il nu¬ mero dei legami tra gli atomi di carbonio e d'idrogeno è ’2n +2. con la formula; Qr (i CnH2n = (n - 1) Vt ( C - C) + (2 n + 2) V (C - II) = (2 n + 2) 5,475 - (n - 1) 4,05 Applicandola al propano, si ha: Qf (C3Hs) = 8.5,475 — 2.4,05 = 35,7 Cai. (4) — 134 — Ma il calore di combustione del propano è 529 Cai., quindi per¬ la (1) si ha: Qf (C*HB) — 3.97 + 4.68,4 — 529 = 35,6 Cai. Questi due valori del calore di formazione del propano, ottenuti per vie diverse, son ben concordanti, differendo solo per 0,1 Cai., cioè per meno del 0,3j%. Calcolando il calore di formazione del butano con la (4) e con la (1), essendo noto il suo calore di combustione, 687,2 Cai., si ha: Q/ (CJh o) = 10.5,475 — 3.4,05 = 42,6 Cai. Qf = 4.97 + 5.68,4 - 687,2 = 42,8 Cai. Anche questi valori del calore di formazione del butano, calcolati per vie diverse sono ben concordanti, differendo per 0,2 Cai., cioè per meno del 0,4)% . Tale concordanza conferma l’esattezza dei valori termici che ho ottenuti per tali legami: Fi (C — H) = +5,475 Cai. (2) Vt (0 - G) = -4,050 Cai. (3) Vajlore termico del legame etilenico Noto che tra i calori di combustione di un idrocarburo saturo e della corrispondente olelina vi è una differenza costante, come risulta dai valori qui appresso riportati: Qe (C2H6) —370,4 Cai. Qc (C3/T8)-529,2 Cai. Qc (C4i710)=6 87,2 Cai. Qc (CH2=CH2) =333,4 » ^Qe(C,H6)= 492,7 » Qc )=650,6 Cai. Differenze 37 Cai. 36,5 Cai. 36,6 Cai. Tale differenza in media è di 36,7 Cai. ed è dovuta in parte al doppio legame tra i due atomi di carbonio e in parte ai due atomi di idrogeno che l’oleJfina ha in meno della corrispondente paraffina. Ai due atomi d’idrogeno in meno corrisponde la diminuzione di 2.5,475 = 10,950 Cai., onde la differenza 36,7 — 10,950 = 25,75 Cai. do¬ vrebbe corrispondere al doppio legame, valore che risulta un poco superiore al valore termico del legame doppio calcolato, come qui ap- presso, in base al calore di combustione deJl’olefina e ai valori ter¬ mici del legame semplice Ira due atomi di carbonio e del legame tra un atomo di carbonio e uno d’idrogeno. Per il calcolo del valore termico del legame etilenico — V t (C=C) — seguo lo stesso procedimento col quale ho calcolato dall etano il va¬ lore termico del legame semplice, partendo in questo caso dal calore di combustione dell’etilene, che è 333,4 Cai. Ne calcolo il calore di formazione con la (1) ed ottengo: Qf ( CII2 == CII2) = 2.97 + 2.68,4 - 333,4 = -2,6 Cab Ma Qf (CH2 = CH2) — Vt (C = C) + 4 Vt (C - II) Da cui Vt(C = C) = Qf (CII2 = CH2) - 4 Vt ( G - II) = - 2,6 - 4.5,475 = -24,5 Cab Il valore termico del legame etilenico è quindi: Vt ( C = C) = —24,5 Cab (5) Conoscendo i valori termici del legame semplice (3) del legame doppio (5) e del legame tra un atomo di carbonio e uno d’idrogeno (2), si può calcolare il calore di formazione di una qualunque olefina — CnH2n — con la formula: Qf ( ChH2u ) = 2n Vi ( C - H) + (n - 2) Vt5 ( C - C) + . Vt (C ovvero : Qf ( CnII2n ) - 2 n . 5,475 - (n - 2) . 4,05 - 24,5 Applicando questa formula al propilene, si ha: Qf (C3H6) = 6.5,475 — 4,050 — 24,5 = 32,850 — 28,550 = 4,3 Cab Il calore di formazione del propilene, calcolato con la (1), essendo il suo calore di combustione di 492,4 Cab, risulta: Qf (C3IIe) = 3,97 + 3.68,4 — 492,4 ■= 496,2 — 492,4 = 3,8 Cai. Valori che differiscono solo per 0,5 Cai. 136 — Valore termico del legame acetilenico O LEGAME TRIPLO TRA DUE ATOMI DI CARBONIO. Con la (1) calcolo il calore di formazione dell'acetilene, noto il suo calore di combustione Qc ( CIf~CfI ) =310 Cai., ed ottengo: 0 Qf ( CH.à= CH) = 2.97 + 68,4 — 310 = 262,4 — 310 = —47,6 Cai. . Ma Qf (CH ~ CH) = Vt ( C s= C) + 2 VL (C - H) onde : Vt (C ~ C) = Qf (CH = CH) - 2 Vt (C - II) ossia : Vt (C== C) = -47,6 — 2.5,475 = —58,550 Cai. (7) In un idrocarburo acetilenico con n atomi di carbonio vi è un le¬ game triplo, n — 2 legami semplici e 2n — 2 legami tra un atomo di carbonio e uno d’idrogeno, quindi se ne può calcolare il calore di for¬ mazione con la formula: Qf (CnH2n_2) = Vt (C ~ C) + (n - 2) Vt (C — C) + + (2n - 2) Vt (C - H) (8) Applicando questa formula aH’allilene, CH3 — C=CH’ si ha: Qf (C2H<) = —58,550 — 4,050 + 4.5,475 = —62,6 + 21,9 = -40,7 Cai. Per la (1), essendo il calore di combustione deH’all itene Qc(C3HJ= 467,6 Cab, si ha: Qf (C3H4) = 3.97 + 2.68,4 — 476,6 == 427,8 — 467,7 = —39,8 Cai. La concordanza fra i due valori del calore di formazione del pro¬ pilene e del Tal lilene ottenuti per vie diverse, conferma l’esattezza dei valori termici del legame semplice, del legame doppio e del legame triplo tra gli atomi di carbonio e quello tra un atomo di carbonio e uno d’idrogeno da me calcolati. T -7 T..- -^ •. -■ .‘■-r ■ " -■ ;/•;•■ . 4 " ■ ;• '■" J 137 -, II Valore termico dei legami tra gli atomi di carbouio negl’ idrocarburi ciclici Valore termico dei LEGAMI SEMPLICE E DOPPIO NEL CICLO ESAGONALE. Il calore di formazione del cicloesano, — CfiHl2--:' calcolato per mezzo del suo calore di combustione in base alla formula (1), è: Qf (CH2)g = 6.97 + 6.68,4 — 933,2 = 992,4 - 933,2 — 59,2 Cai. Calcolato in base ai valori termici del legame tra l’atomo di car¬ bonio e quello d'idrogeno e del legame semplice tra due atomi di car¬ bonio di un idrocarburo aciclico, risulta: Qf (CH2)g = 12.5,475 - 6.4,05 = 65,7 — 24,3 = 41,4 Cai. La forte discordanza tra questi due valori, che differiscono per 17,8 Cab, non può dipendere dal valore termico, Vt(C — b/), del le¬ game tra un atomo di carbonio e uno d’idrogeno, che, come già fu di¬ mostrato nella parte I di questa nota, dev’essere lo stesso per qualun¬ que idrocarburo; ma deve dipendere dal valore termico dei legami tra gli atomi di carbonio del ciclo esagonale, il cui valore, Vt(C — C)6si ricava dalla formula: Qr (GH2)g 6 Vt (C - Oe + 12 Vt (C - II) dove sono noti il primo e l’ultimo termine, quindi si ha: V, (C — C) „ = 4- (59,2 - 12.5,475) = -- (-6,5) = -1,083 Cai. (9) 6 6 Ho così ottenuto il valore termico del legame Semplice tra due atomi di carbonio nel cicloesano. che è ben diverso da quello tra — 138 — due atomi di carbonio di una catena aperta, semplice o ramificata, V, (€— C)= — 4,05 Cai. Per il calcolo del valore termico del legame doppio nel nucleo esagonale — Vt(C=C]'ò — parto dal tetraidrobenzene, C6H10, il cui ca¬ lore di combustione è di 892 Cab, e ne calcolo il calore di formazione con la (1) ed ottengo: Qr {Celli 0) = 6.97 + 5.68,4 — 892 = 924 — 892 == 32 Cab Poiché nel tetraidrobenzene tra gli atomi di carbonio vi sono 5 legami semplici e uno doppio e tra gli atomi di carbonio e quelli d’idrogeno vi sono 10 legami, si ha: Qf (CeflTio), - 5 Vt ( C - C)G + Vt(C= C)e + 10 Vt (C - H) da cui : "Vt (C = C)e - Qf (C6H10)g 5 Vt(C- C)e - 10 Vt (C - H)e Sostituendo nel secondo membro! valori noti, si ha: Vt (C= C)6 = 32 — 5.1,083 — 10.5,475 = 37,415 — 54,750 = —17,335 Cab il valore termico del legame doppio tra due atomi di carbonio nel nu¬ cleo esagonale è: Vt {C = C)e = —17,335 Cab (10) che differisce da quello etilenico per oltre 7 Cab - Il valore termico del legame doppio nel nucleo esagonale si può ottenere anche partendo dal diidrobenzene, il cui calore di combustione è Q^C^Hg) =848 Cab, onde per la (1) si ha: Qf {C\H8) = 6.97 + 4.68,4 — 848 = 7,6 Cab Ma nel diidrobenzene tra i 6 atomi di carbonio vi sono 2 legami doppii e 4 legami semplici, quindi si ha: Qf {C6Hs) = 2 Vt (C — C)6 + 4Vt(C- Ck + 8 Vt(C-Il) da cui: 2 Vt (C = C)6 = Qf (Celi,) - 4 Vt (C - G)B - SVt (C - II) — 139 — Sostituendo nel secondo membro i valori noti, si ha: V, (C = C) = 4- (7,6 + 4,332 — 43,850) = —15,934 Questo valore differisce dall’altro per 1,4 Cai.; la causa va ricer¬ cata nei valori dei calori di combustione deU’esaidrobenzenc, del te- traidrobenzene e del diidrobenzene che, forse, non sono precisi, perchè la differenza tra i primi due (933,2 — 892 = 41,2) non è uguale a quella tra i due ultimi (833,2 — 848 = 44). mentre tali differenze corrispondono entrambe a un legame doppio e a 2 atomi d’idrogeno. Valore termico DEL LEGAME SEMPLICE NEL CICLOPENTANO Dal calore di combustione del pentametilene o ciclopentano, che è Qc (CH2)5 — 784,6 Cab, calcolo il suo calore di formazione con la (1): Q/(CH2)5 — 5.97 + 5.68,4 — 784,6 = 42,6 Cai. Ma Qf \CH2)s = 5 Vt (C - + 10.5,475 cioè : 42,6 = 5 Vt (C — C)5 + 10.5,475 da cui ricavo il valore termico del legame semplice tra due atomi di carbonio nel ciclopentano : Vt ( C — C)5 = 4- (42,6 — 54,75) = —2,43 Cai. (11) 5 valore ben differente da quelli dei legami semplici tra due atomi di car¬ bonio delle paraffine e del cicloesano. — 140 — Valore termico del legame semplice nel t rim eli lene. Analogamente dal calore di combustione del trinietilene o ciclo- propano, Q, . (C7/2)3 =499 Cai., calcolo il suo calore di formazione con la (1): Qf ( GH2 ), = 3.97 + 3.68,4 — 499,4 = 496,2 — 499,4 — —3,2 Cai. Per cui il valore termico del legarne semplice tra due atomi di carbonio nel trimetilene è dato dal calcolo seguente: 3 Vt ( C - C)2 = -3,2 — 6.5,475 = —36,050 da cui : Vt (C - C)3 - -12 Cai. (12) Valore (die è a neh’ esso diverso da quello delle paraffine e degli altri eiclani. Riassunto In base alla equivalenza delle 4 valenze dell’atomo di carbonio e alla legge di Hess, conoscendo i calori di combustione degl’idrocar¬ buri. ho calcolato i valori termici : a) del legame tra un atomo di carbonio e uno d’idrogeno in un qualunque idrocarburo : Vt (C— H) = + 5,475 Cai. (2) b) del legame semplice tra 2 atomi di carbonio di un idrocar¬ buro aciclico : Vt (C- C) = - 4,050 Cai. (3) e) del legame etilenico : V t (C = C) = — 24,5 Cai. (5) d) del legame acetilenico : Vt (C^ C) — — 47,1 Cai. (7) — 141 — e) del legame semplice e del legame doppio ira due atomi dì carbonio nel ciclo esagonale : Vt (C — C)6 = — 1 ,083 Cai. (0) V, (C = Ofi = - 17,335 Cai. (10) f) del legame semplice tra due atomi di carbonio nei cicli del pentamilene e del trimetilene : Vt (C- C)5 = -2,43 Cai. (11) Vt(C-C) 3 = — 12 Cai. (12) £ I STUDI SPELEOLOGICI E FAUNISTICI SULL'ITALIA MERIDIONALE SUPPLEMENTO AL BOLLETTINO DELLA SOCIETÀ DEI NATURALISTI IN NAPOLI N. 7 Marzo 1948 MARCELLO LA GRECA Primo contributo alla cono§cenza degli Ortotteri del Matese I monti del Matese costituiscono nell’Appennino meridionale uh massiccio ben definito, pressoché isolato, posto al confine fra il Mo¬ lise e la Campania. Per la presenza di vaste conche pianeggianti (i cosidetti cc campi ») al disopra dei 1000 in. di quota e per i suoi ri¬ lievi principali che vanno dai 1500 ai 2050 m. , coperti da boschi, da pascoli o affatto nudi, il Matese costituisce per F entomologo una delle più interessanti zone montane dell’Italia Meridionale, di cui la fauna è così scarsamente nota. Poiché questa regione dal punto di vista entomologico, pratica- mente non è stata mai studiata, ad eccezione di una rapida esplora¬ zione fattavi da O. G. Costa nel 1835 e da A. Costa nel 1845 (1), ho intrapreso sul luogo, dal 19 al 22 agosto 1947, una breve escursione preliminare allo scopo di rendermi sommariamente conto della na¬ tura e della distribuzione della sua fauna ortotterologica; ciò tanto più che la relazione di A. COSTA sui risultati della sua esplorazione, pur dimostrando quali interessanti sorprese possa riservare un accu¬ rato studio degli Insetti della regione, così si esprime nei riguardi de¬ gli Ortotteri: « Di Ortotteri nulla ci hanno offerto quelle contrade, che chiamato avesse la nostra attenzione ». Dato il breve tempo a mia disposizione ho limitato Fesplorazione ad una ristretta zona fra i 1000 e 2050 m. di quota, comprendente al¬ cuni « campi » e alcune fra le cime più elevate. Del tratto esplorato, come risulta dall’annessa cartina, fanno parte: le sponde occidentali del lago del Matese, Campo delle Secine, Campo Braca, Masseria (1) A. Costa. Osservazioni intorno la entomologia del Matese (Ann. Acc. Aspir. Natur. Ili, 1846). A. Costa. Specie nuove o rare d Insetti delle Montagne del Matese. Ibicl. 2ft Ser., I, 1847). — 144 — Vallecupa, Campo Rotondo (tutte località sui 1000 1100 m. di quota), fle pendici che dal lago Matese portano a Masseria del Giudice (m. 1100-1400), l’Esule (m. 1300-1500), Colle del Monaco (in. 1500-1710) e M.te Miletto (m. 1500-2050). Tutta la zona esplorata, compresa fra i 1000 e 1300 m. di quota, era abbastanza uniforme come fauna ortotterologica, comprendendo sopratutto: Forfìcula (tur iridar in. Gryllus campestri^ 9 Omocestus ven- & Tettigon/à cànte/js + Poec/ìimsn Superèus _ tratis . Chorthippus par alleili s , Ch. molli ^ Ch. brunncus , Euchorthip- pus declivus , Oedipodà coerulescens, O. germanica. Particolarmente poveri di fauna sono risultati in quel periodo, Campo Braca, Valle¬ cupa e Campo Rotondo che per essere molto frequentati da numerosi armenti non presentavano che scarsissima vegetazione : Campo Braca era completamente privo di Ortotteri, in Vallecupa ho rinvenuto sol¬ tanto V Omocestus petraeus ed in Campo Rotondo pochi Omocestus ventrali s, Chorthippus brunncus, Ch. mollis e Oedipoda germanica ; Campo delle Sècine, essendo in massima parte coltivato, era discreta¬ mente popolato, oltre che dalle specie più sopra indicate come forme comuni verso i 1000 m., anche da Pseudochelidura orsinii (rara), Tes- sellana tessellata. Omocestus haemorrhoidalis nonché Tetrix subii - lata e T. depressa, nei pressi di un piccolo ruscello. Di tutte queste - Ì4S - specie, fra i i 000 e 1300 in. le più diffuse erano: Chortippus parai- Iclus; nei tratti prativi, Euchorthippus decliuus nei luoghi più asciutti con vegetazione secca o quasi, ed O&dipoda coerulescens e germanica nelle zone aride e rocciose. Una popolazione ortotterologica così costituita si spinge anche fin verso i 1400 in., ove la natura del terreno e della vegetazione lo con¬ sentano. Al disopra di questa quota scompaiono V EuchorthippUs de¬ cliva s e le Oedipoda , che più in basso erano viceversa diffusissime, e si fa più frequente VOmocestas haemorrhoidalis ; continuano a trovarsi del pari Omocestus venir àlis (che si arresta però verso i 1500 m.), Chorthippus parallelus (che scompare anch’esso verso i 1600 in.), Ch. mollis , Ch. brunneus, Gryllus campestri $ (trovato fino a 1600 m.), F or ficaia aaricalaria e Pseadochelidura orsinii , In una valle sospesa, a m. 1300 di quota, sotto Masseria del Giudice, in una prateria di felci e Cynancham vincetoxicum ho rinvenuto una stazione di Chorthippus dorsatas. Continuando a salire, a questi elementi se ne aggiungono ora dei nuovi: dapprima ricche popolazioni di Poecilimon mperbu& e di Tettigonia cantans che vivono insieme su cespugli di Unica, tutt’at- torno alla base di Colle del Monaco, fra 1400-1500 m. in umide val¬ lette ben riparate dal vento; poi al disopra dei 1500 m., sia a Colle del Monaco che a Monte Miletto, dove la vegetazione diviene piut¬ tosto rada su pendìi fortemente sassosi, si fa il primo incontro con al¬ cune forme prettamente montane: Chorthippus albicornis, specie nuo¬ va per la scienza che ho trovato fino ai 1800 in . , Stenohothrus apen- ninus e Cophopodisma costai che giungono fino ai 2000 m. La prima di queste specie è quella che più si fa notare per il candore delle sue antenne, posata sulle rocce al sole, ove fa sentire continuamente il suo canto; ma non appena qualche nube oscura il sole, immediatamente tutti gli individui si ricoverano, per riprendere subito il loro canto stridente al ritorno del sole. Tutte queste specie, come tutti gli Ortotteri in genere, sono molto disturbate dal vento che in questa regione, a quell’altezza, soffia con¬ tinuamente abbastanza impetuoso: pertanto sia al M.te Miletto che al Colle del Monaco, ì più popolati sono i pendìi orientali, perchè più riparati dai venti predominanti. Condizioni particolarmente favorevoli trovano gli Ortotteri in una ristretta depressione fra i 1550-1600 m. di quota sulle pendici orien¬ tali di Colle del Monaco, caratterizzata da una rigogliosa vegetazione di Carlina acaulis , in cui oltre a numerosi Chorthippus mollis , Ch. albicornis e Cophopodisma costai , ritrovai un esemplare di Stenobo* thras lineatus e numerosi esemplari di Platycleis grisea grisea. In complesso, nella ristretta zona del Matese da me esplorala, si può riconoscere fra i 1000 e 2000 m. l’esistenza di tre zone earatteriz- 10 — 146 /ale rispettivamente da Oc di pochi ed Euchorihippus (fino a 1300 in. circa), da Tetti gonio. cantari s (fra 1300 < 1500 in. circa) e da Chorthip • pus albicornis , Stennbothrus a [tannimi s e Cophnpodisma costai (dai 1500 ai 2000 in,). Forficulidae 1. Psendochelidiira orsinii (Gène) — Campo Sèeine (in. 1000), 2 cfcf; Colle del Monaco (in. 1550), 2 cfcf. Sotto ai sassi; gli esemplari di Campo Sècine assieme a Fot fìttila aiiriciilaria . Tutti gli esemplari presentano le pinze tipicamente con¬ formate, contrariamente a quanto riscontrato da Ebner (1) sul Gran Sasso, in cui gli individui catturati più in basso presentavano pinze solo debolmente incurvate. 2. F or ficu la auricularìa L. — Piana del lago Matese (m. 1000). 2 cf cf , 6 9 9 ; Campo Sècine (in. 1000), 2 cfcf, 2 9 9 ; Masseria del Giudice (m. 1300), 2 cf cf, 4 9 9 ; Colle del Monaco (m. 1500), 1 cf, 5 9 9; Masseria del Giudice (in. 1300), 2 cfcf, 4 9 9; Colle del .Monaco (m. 1500), 1 cf, 5 9 9 ; M.te Miletto (m. 1700-2000), 4 9 9. Molto comune dovunque. Tettigoniidae 3. Poecìlimon superbii s (Fiscli.) — Colle del Monaco (m. 1400- 1500), 10 cf cf ,. 5 9 9^. Molto numeroso su Urtica sp., dove si trattiene sulla pagina su¬ periore delle foglie disposto secondo la nervatura principale. Non ne ho rinvenuto nemmeno un esemplare a quota più bassa, anche cer¬ cando in habitat analogo. I maschi presentano una notevole variabi¬ lità della forma dell’apice della lamina sottogenitale, tanto che su 10 individui catturati nella stessa zona si possono notare per lo meno 3 tipi differenti di lamina sottogenitale, come appare evidente dalla fig. 2d : lamina con apice intero, lamina con apice più o meno inciso, lamina con apice più o meno trilobato. Anche in P. ornatus, come appare dalla figura data da Ramme (2) nella sua revisione di questo (3) Ebner R. Zar KetmtnUs der Ortliopt eren fauna der Abruzzen. (Dent. Ent. Zeit. 1915). (2). Ramme W. Revision der Pii liner opt..GattWCg Poe-cilimom Piseli. (Mitt Zoo!. Mas. Berlin, 19, 1933), E — 147 — genere, possono riscontrarsi tutti e tre questi tipi e probabilmente si tratterà di un fenomeno che interessa tutte le specie del genere. Il fa¬ stigio del vertice è, nei vari esemplari, più o meno distintamente solcato. Femori e tibie posteriori, sopratutto nelle femmine, sono notevolmente più brevi delle dimensioni date da Ramme e degli in¬ dividui dei dintorni di Napoli, come risulta dalla seguente tabella; anche le zampe anteriori e medie, negli esemplari del Matese sono proporzionatamente più corte: Malese: lungh. corpo lungh. fem. post. lungh. tibie post cf 14-19,5 13,5-15 14,5-16,5 9 15,5-18 13,5-14,5 14,5-16 N a p o 1 i: cf 17-18,5 15,6-17 18,5-20 9 19-21 18-19,5 21-21,5 Può darsi che nelle stazioni montane si possa trovare in preva¬ lenza una forma con zampe più brevi mentre in pianura esista una forma con zampe lunghe: soltanto altri reperti potranno dire se si tratta di due varietà distinte. È però da tenere presente che ho rile¬ vato, sopratutto negli esemplari di Napoli, come non esista correla¬ zione fra le dimensioni del corpo e quelle delle zampe, potendosi avere esemplari piccoli con zampe più lunghe di altri individui più grandi; inoltre* fra femore e tibia non esiste un rapporto costante, poiché la tibia può superare solo di poco, oppure notevolmente la lunghezza dei femori. 4. Tettigonia cantans Fuessty — Colle del Monaco (m. 1500), 7 cfcT, 2 9 $. Gli esemplari, catturati su cespugli di Unica ..ove vivevano nume¬ rosissimi assieme alla specie precedente, non differiscono in nulla da quelli dell’Italia Settentrionale. Tale specie, nell’Italia Meridionale è stata indicata per la Sila Grande da A, COSTA e per Defensa Matera e Cagliari da Targioni-Tozzetti : queste ultime indicazioni sono state però messe in dubbio da Capra (1) e anche il reperto del Costa (2) è (1) Capra F. Specie nuove o poco note di Tettigonia e Decticus d’Italia . (Boll. Soc* Ent. Ital. 68, 1936). - . : . (2) Costa A. Relazióne di un viaggio nelle Calabrie per ricerche zoologiche, (Atti R, Acc. Se. Fis. Nat. Napoli, 9, 1881). ,, , A — 148 — ' necessàrio sia confermato potendosi trattare invece della T. aitarla. La stazione del Matese rappresenta quindi per ora l’estremo più meri¬ dionale, conosciuto con sicurezza, dell’area di diffusione di questa specie in Italia. 5. Platycleis grisea grisca (Fabr.) — Colle del Monaco (in. 1500), 7 cf cL 2 9 9 , 2 iuv. Uno dei maschi presenta le termine oltrepassanti di indilo l’apice dei femori posteriori, in un altro viceversa l’apice dei femori poste¬ riori supera di molto l’apice delle legmine. 6. Tessellana tessellata (Charp.) — Campo delle Sèeine (m. 1000), I 2 9 9.. Questa specie si trova in tutta l’Italia compresa la Sicilia. 7. Stero pleura s cavami a e (Targ.-Tozz.) — Masseria del Giudice (m. 1300), 1 cT, 1 9- Gryludae 8. Gryllus campo stria L. — Campo Sèeine (m. 1000), 8 iuv.; Mas¬ seria del Giudice (m. 1200-1300), 3 iuv.; M.te Miletto (m. 1600), 1 iuv. Tetrigidae 9. Tetrìx subulata L. — Campo Sèeine (m. 1000), 2 cfd% 1 9- 10. Tetrix depressa Bris. — Campo Sèeine (m. 1000), 2 cf cf, 1 9. Acrididae 11. Stenohothrus lineatus (Panz.) — Colle del Monaco (m. 1550), 19. Nell’Italia meridionale questa specie è presente fino alla Sila. 12. Stenohothrus apenninus Ebner — Colle del Monaco (ni. 1600- 1700), 1 cf, 6 9 9 ; M.te Miletto (m. 1700-2000), 7 cTcT, 59 9- Questa specie descritta da Ebner (1) per gli Abruzzi (Terminillo, Gran Sasso, La Meta) è stata ritrovata da Ramme (1) presso Scatola (1) Ebner R. Op. cit. (2) Ramme W. Beitràge sur Kenntnis der pafoearktischen Ortho pie reti fauna. (Miti, Zool. Mus. 17. 1931). (Emilia) e presso il lago Scaffaiolo (m. 1700-2000) nell’ Appennino etrusco. Ritengo opportuno descrivere più minutamente alcune caratteri¬ stiche di questo interessante Stenobotrino e darne alcune figure. Fronte piana e solo appena incavata sotto l’ocello mediano, sopra- tutto nei maschi. Foveole temporali grandi, ben definite, ma debol¬ mente impresse. Le tegmine delle femmine non raggiungono 11 mar¬ gine posteriore del secondo tergite addominale che eccezionalmente; in un paio di esemplari esse giungono appena al quarto basale di questo urite; dove sono più sviluppate, le tegmine vengono a contatto con i loro margini interni5 senza però accavallarsi; negli esemplari dove sono più brevi, esse sono sublaterali e lasciano scoperto un tratto me¬ diano più o meno largo del metanoto e del primo urotergite. Nei ma¬ schi le tegmine sono ovali e giungono fino al margine posteriore del 6°-7° urotergite o anche fino alla base della lamina sopranale. Nelle femmine l’area mediastina è alquanto più larga della discoidale, leg¬ germente dilatata al centro per la convessità del margine anteriore della tegmina. Area scapolare molto più stretta della precedente. La nervatura mediastina è fortemente sviluppata come la subeostale e la radiale, mantenendosi alquanto discosta da esse che invece decorrono quasi a contatto; tutte e tre formano un fascio di nervature diritte e parallele: per conseguenza l’area scapolare è più larga di quella ester- nomediana che è sottilissima. La nervatura mediana è appena accen¬ nata, spesso indistinta e decorre aderente alla radiale. Le due cubi¬ tali sono distinte e lievemente divergenti. L’area discoidale è per lo più affumicata. Anche nei maschi l’area mediastina è larga e grada¬ tamente ristretta alla base e all’apice per l’andamento convesso del margine anteriore della tegmina; nervature subcostale e radiale lie¬ vemente divergenti per tre quarti della loro lunghezza, poi rapida¬ mente convergenti per un brevissimo tratto, dopo di che decorrono subparallelamente o appena divergenti fino all’apice: in tal modo l’area esternomediana dei maschi viene ad essere più larga di quella mediastina. Settore radiale spesso rappresentato da un breve ramo apicale della radiale. L’area discoidale giunge fino ai due terzi della tegmina. Le due nervature cubitali sono distinte e leggermente diver¬ genti. L’addome della femmina è compresso e carenato dorsalmente per circa i due terzi basali della sua lunghezza, la carena è alquanto convessa nei primi due urotergiti: ciò vale a dare un aspetto gibboso alla base dell’addome della femmina. Talvolta nelle femmine e più spesso nei maschi, la lamina sopranale presenta dalla base fino a circa metà lunghezza un’area rettangolare longitudinale, nera, liscia, e lu¬ cente. — ISO — 13. Omoccsius haemorrhoidalis (Charp.) — Campo Sècine (m. 1000), 2 cfcf ; Masseria del Giudice (in. 1300), 2 9 $ ; Colle del Mo¬ naco (ni. 1550), 1 9 ; M.te Miletto (in. 1700), 1 d*. Questa specie, benché non comune, è diffusa un pò dovunque fino ai 1700 m. 14. Omocestus ventraUs (Zett.) — pressi del lago Malese (m. 1000-1100), 1 d% 3 9 9 ; Campo Sècine (m. 1000), 1 9 ; Campo Ro¬ tondo (in. 1100), 1 9 ; Masseria del Giudice (m. 1300), 2 9 d ; Colle del Monaco (m. 1500), 1 d*. Abbastanza comune fino ai 1500 ni. 15. Omocestus petraeus (Bris) — Vallecupa (m. 1100), 1- cf, 3 9 9 ; Masseria del Giudice (m. 1200), 1 9. Specie localizzata in aree ristrette e abbastanza rara. 16. Ghorthippus albirconis ri. sp. d* ' (tipo). Piceo io, bruno-nerastro. Antenne lunghe e robuste, superanti largamente il proriqfò e visibilmente dilatate all’apice; là loro superficie dorsale (se considerate distese in avanti) è di un bel colo]- bianco latteo ad eccezione del margine esterno che, come la su¬ perficie ventrale, è bruna. Bocca (labbro, palpi, apice delle mascelle e del labbro, inferiore) color bianco avorio. Costa frontale incavata. Foveole temporali nette, per quanto non profondamente impresse. Margine posteriore del pronoto largamente ottuso e arrotondato; ca¬ rena mediana tagliata dal solco trasversale a metà lunghezza; carene laterali costrette angolosamente a metà della prozona e divergenti in avanti e in dietro. Le tegmine, che lasciano scoperta tutta o parte della lamina sopranale, sono lievemente e uriiformemente affumicate; in qualche esemplare si notano due o tre piccole macchiette più scure nell’area discoidale; una macchia bianca anteapicale; lobo basale del margine anteriore solo appena accennato a circa un terzo dalla base della tegmina; la vena inediastiria termina poco oltre la metà del màr¬ gine posteriore; area scapolare leggermente dilatata verso l’apice; settore radiale rappresentato da un’unica brève nervatura; il campò discoidale giunge^ quasi fino a tre quarti dèlia tegmina; dietro l’ul¬ nare posteriore la tegmina è distintamente giallastra. Ali più brevi della tegmina, lievemente affumicate all’apice, con le nervature prin¬ cipali nere è robuste. Zampe anteriori fortemente pelose inferiormente: sterniti toracici mediocremente pelosi. I femori posteriori, che sono più o menò neri esternamente e internamente, sopratutto verso l’apice, presentano alla loro superficie interna, un rigonfiamento longitudinale a tetto nella metà apicale, dovuto all’andamento convesso della cresta V-- r ’ "■■r* :-V 151 stridulatriee ih questo tratto: in tal modo i femori posteriori, visti dorsalmente, appaiono più grossi nel trailo distale elle in quello pròs- Fig. 2. — a, capo e pronoto di C. albicornis <3* ; b, S. apenninus Ebtier 9 ’■> c, apice dell addonie di C. albicornis (f ; d, apice di lamine sottogenitali- di. P. superbus (Tiscli.) <3*,. simale. Tibie posteriori rosse ad eccezione della base, dell’apice delle spine e di una macchia apicale interna che sono neri. Addome con pelosità molto rada, giallo ventralmente, dorsalmente nero per: i primi 4-5 tergiti e poi rosso giallastro. ^Cerei fortemente compressi nella metà apicale sopratutto dal lato ventrale. Lamina sottogenitale co¬ nica, tronca, compressa dorsalmente. Lamina sopranale con due sot¬ tili rilievi trasversali a metà lunghezza, uno per lato, glabri e line- mente punteggiati, e con un solco longitudinale mediano scuro o nero, giungente dalla base della lamina fino ai rilievi trasversali. Anche I ultimo urotergite presenta al margine posteriore, da ogni lato, a C Fig. 3. — Ch. albicornis. «, tegmina del ; b, tegmina della 9 5 c> femore sini¬ stro del maschio visto dorsalmente. metà lunghezza fra i cerei e il suo punto mediano una piccola gib¬ bosità finemente punteggiata. Lunghezza corpo, mm. 15-16,5; lunghezza prenoto, nini. 2, 9*3, 3; lunghezza tegmine, inni. 8, 5-9, 5; lunghezza femori posteriori, nini. 8,5-10. 9 (allotipo). Robusta, bruna. Capo e pronoto della stessa lar¬ ghezza, Antenne brevi, non raggiungenti il margine posteriore del pronoto, non o indistintamente dilatate all’apice, di colore unifor¬ me. Costa frontale scavata sotto l’ocello impari. Foveole temporali a contorno arrotondato; vertice più largo che lungo. Bocca chiara. Teg¬ mine brevi giungenti fino al margine posteriore del 4°-5° tergile ad¬ dominale o poco oltre; nervature simili a quelle del maschio e per lo più nerastre: la mediaslina termina al margine anteriore della te,g- mina [>oeo prima dell’apice, decorrendo per quasi tutta la sua lun¬ ghezza parallelamente alla subcostale; il campo mediastino va quin¬ di moderatamente restringendosi verso l’apice, mentre quello scapo¬ lare si mantiene, per la maggior parte della sua lunghezza, di lar¬ ghezza (‘ostante; area esternomediana, subesternomediana e interni - ilare molto strette, specialmente le due prime; campo discoidale ab¬ bastanza largo con qualche macchia affumicata più o meno scura. Ali un poco più brevi delle tegmine con nervature principali nerastre e lievemente affumicate presso il margine costale. Femori posteriori in¬ ternamente con due grandi macchie nere che generalmente si fon¬ dono in una sola; esternamente neri o variegati di bruno nero; la cresta longitudinale mediana della faccia interna è solo debolmente convessa presso l’apice. Base della tibia, nera. Addome con due lar¬ ghe fasce laterali nere che dorsalmente si fondono insieme dal 1° al 3° 4° tergile. Il resto dell’addome è giallo, tendente al rosso o al bruno, presso l’apice, dorsalmente. Cerci non compressi. La lamina sopranale presenta dalla base fin verso la metà un netto solco media¬ no longitudinale, nero, lucente e appena accennata una cresta tra¬ sversale, per lato. Valve dell’ovopositore, giallastre, con gli spigoli bruni presso l’apice. Lunghezza corpo, inni. 19,5-22,5; lunghezza pronoto, inni. 3,6-4; lunghezza tegmine, inni. 9-10,3; lunghezza femori posteriori, inni. 10,5-11,4. Colle del Monaco (ni. 1550-1700), 9 cfcf, 15 $ $; M.te Miletto (m. 1700), 1 cf, 1 9. Questa specie è molto vicina a Ch. monticola Ebner dell’Abruzzo per la venazione delle tegmine e per la dilatazione apicale delle an¬ tenne del màschio. I maschi della mia specie differiscono da quelli di questa per il color bianco della bocca e delle antenne, per avere i cerei nettamente compressi nella metà apicale e per la forma della lamina sopranale e sottogenitale che in C. montinola sono chiaramente più ap [mutile posteriormente; inoltre in C. monticola la lamina sopranale presenta una costrizione preapieale che manca nella mia specie. La femmina di C. monticola è tuttora ignota. Mi è grato ringraziare il Br. TL Ebner che, riesaminando il tipo e i paratipi della sua specie, mi ha fornito le indicazioni necessarie a distinguere la sua specie dalla mia. 17. Chorthippus uagans (Evers.) — Piedimonte d’Alife (m. 200), 1 cf, 2 9 9 ; Masseria del Giudice (M. 1200), 1 9- Gli individui di Piedimonte d’Alife furono catturati presso le 154 sorgenti del Tonino assieme a Gomphoccri ppus rujus e Aiolo pus atre, pcns, Le femmine presentano speroni apicali delle tibie posteriori di notevoli dimensioni. 18. Chorthippus brunneus (Tliunb.) ( — bicolor Charp.) — Campo Sècine (m. 1000) 2 d d, 1$ ; Masseria del Giudiee (m. 1200), 2 d dr 1 9 ; Colle del Monaco (m. 1500), 2 $ 9 ; M.te Milelto (m. 1700). 1 9. 19. Chorthippus mollis (Charp.) — Campo Sècine (m. 1000), 3 d d , 2 9 9 ; Campo Rotondo (m. 1100), 3 d d , 1 9 ; Masseria dei Giudice (m. 1200-1300), 1 d, 3 9 9; Colle del Monaco (in. 1500). 2 dd,.6 9 9; M.te Miletto (m.. 1800), 1 d% 2.9-9* 20. Chorthippus dorsatus. (Zett.) — Masseria del Giudiee (in. 1300), 4 dd, 6 9 9. Esemplari di piccole dimensioni, bruni con i lati del torace e su¬ perficie esterna dei femori posteriori verdastri. Nei maschi le tcg- mine raggiungono appena l’estremità posteriore dell’addome o la base della lamina sopranale; nelle femmine sono sempre più brevi del¬ l’addome del quale lasciano scoperti gli ultimi segmenti. Una fem¬ mina presenta una fascia giallastra opaca nel campo scapolare. Fe¬ mori posteriori presentanti internamente una macchia longitudinale nerastra, lanceolata, più o meno distinta. Tutti gli esemplari furono catturati in una prateria di Gynan- clium vincetoxicum ove vivevano assieme a Ch. paraUelus . Questa specie nell’Italia centro meridionale è piuttosto rara: è stata citata da Giglio-Toss e da Ebner per gli Abruzzi, da Zanon e Castellani per il Lazio, e l’ho trovata inoltre a Camposauro (m. 1200) in provincia di Benevento; nella collezione Salfi esistono inol¬ tre esemplari di S. Pietro Avellana presso Castel di Sangro (Abruzzi) e del Gargano. Gli esemplari del Gargano sono molto piccoli e pre¬ sentano anch’essi una notevole abbreviazione delle tegmine che nei maschi lasciano più o meno scoperta la lamina sopranale e nelle fem¬ mine da un quarto a un terzo dell’addome, similmente a quanto ho descritto per gli individui del Matese. Gli esemplari di S. Pietro Avel¬ lana, viceversa, presentano una grande variabilità nella lunghezza delle tegmine che nelle femmine coprono da due terzi dell’addome fino a superare di poco il suo apice, presentando tutti gli stadi inter¬ medi. Nella seguente tabella riporto le dimensioni del corpo e delie — 155 — tegmine degli individui in questione, nonché quello di alcuni esem¬ plari di piccole dimensioni di località del N. Italia: Dronero Rovereto S. Piet. Avel. Matese Gargano Lutigli. eorp. d 12-13 13 14-15 14 15 12-13 Lutigli. legni. d 9,5 9 8,5 8, 5-9, 5 7-8 Cadore Veronese S. Piel. Avel. Matese Gargano Lutigli . corp. 9 18 18 19,5-21 19-21,5 17-19,5 Lutigli. tegm. 9 10 10 9,5-14 10,5-12 9 Poiché tali dati per avere un significato non debbono essere con¬ siderati in valore assoluto, ma relativamente alla lunghezza del corpo, aggiungerò che tutti gli individui le cui dimensioni sono riportate nella tabella hanno le elitre più brevi del corpo ad eccezione dei ma¬ schi di Dronero e Rovereto e della femmina di S. Pietro Avellana con tegmine di 14 mm. di lunghezza. Recentemente è stato descritto da Jannone (1) un Ch. garganicits, molto vicino a dorsatus che ne differisce fra l’altro principalmente per il nanismo e la brevità delle tegmine. Avendo potuto esaminare il tipo e paratipi di questa specie, li ho riconosciuti identici con i sud¬ detti esemplari del Gargano della collezione Salfi, mentre quelli di S. Pietro Avellana rappresentano termini di passaggio fra questa for¬ ma e quelle più settentrionali di dorsatus. Poiché le altre differenze indicate.; dal Jannone fra la sua specie e Ch. dorsatus rientrano nel* l’ambito della variabilità di . quest ’-ultima specie, ritengo che Ch. gar- ganicus Jannone (1936) possa costituire soltanto una razza geografica italiana, più meridionale, di Ch. dorsatus (2). Si può quindi per ora concludere che questa specie, in Italia, manifesta una tendenza al na¬ nismo e all’accorciamento delle tegmine, nella parte meridionale della sua area di diffusione, fino a raggiungere il massimo di tali caratteri nel Gargano. 21. Chorthi ppus parallelus (Zett.) — Matese (m. 1000), 3 cfcf , 5 $ 9 ; Campo Sècine (m. 1000), 2 d d*, 1 9 ; Masseria del Giudice (m. 1300), 3 dd, 1 9 ; Colle del Monaco (m. 1500), 5 d*d% 5 9 9. Molto comune fino ai 1500 m. Le femmine, a tutte le quote pre¬ fi) Jannone G. Contributi alla conoscenza dell’ Ortottero fauna italica. I. (Boll. Zool. 8, 1937). '(2) Il dott. F. Capra mi comunica di essere della stessa opinione al riguardo. — 156 — sentano una grande variabilità nello sviluppo delle tegrnine, le quali talvolta superano di poco i 9 min. di lunghezza. Secondo Farei? (2) buon carattere distintivo Ira le femmine di Ch. montami s e quelle di Ch. par alleili s è che le tegrnine di queste ultime non superano i 7,5 min. di lunghezza come avviene invece per le femmine della prima specie. Tale carattere non ha quindi gran valore per le popolazioni di Ch. parallclus dell’Italia meridionale. 22. Gotti phocerippus rufus (L.) — Piedimontc d’Alife (m. 200). 200), 1 cT, 2 9 ?. 23. Aiolo pus sire peri s (Latr.) — Piedimonte d’Alife (ni. 200), 2 Rcf, 1 9* Catturati assieme alla specie precedente presso le sorgenti del Torà no. 24. Oedipoda coerulesc.ens (L.) — Comune in tutto il Matese fino a m. 1300. Ho catturato pure due femmine appartenenti all’ab. marginala Karny. 25. Oedipoda germanica Latr. — Anche questa specie è molto comune in tutto il Matese fino a 1300 ni. In alcuni esemplari l’apice delle ali invece di essere jalino è for¬ temente affumicato o annerito per estensione della fascia nera arcuata. 26. Cophodopdisma costai (Targ.-Tozz.) — Colle del Monaco (m. 1550 1700), 5 d*cf , 6 9 9 ; M.te Miletto (m. 1700*2000), 9 cf cf, 6 9 9 . Questa interessante specie è nota per tutti i monti dell’Abruzzo al di sopra dei 1700 m. Istituto di Anatomia Comparala dell’ Università di Napoli. (2) Faber A. Ghorthippus longicornis Latr. und Chorthippus montanus Charp. Zoo!. All! 55. 81, 1929). STUDI SPRÌ.ROI.00101 E FAUNISTICI SIILI.’ ITALIA MERIDIONALE SUPPLEMENTO AL BOLLETTINO DELLA SOCIETÀ DEI NATURALISTI IN NAPOLI N. 8 Marzo 1948 UGO MONCHAKMONT Sulla presenza di Ephydatia fluviatili» !.. ( Spongillidae ) nel l ago-stagno craterico di Astroni (Napoli) U giorno 14 di agosto del 1948 ho rinvenuto, nel Lago-stagno cra¬ terico di Astroni (Napoli), altitudine 10 in. s/m, alcuni esemplari di Ephydatia fluviatilis L. ( Spongillidae ) viventi su culmi morti di Typlia latifolia L., e poiché si tratta di una specie mai segnalata per l’Italia meridionale, ritengo utile darne notizia. La spugna, rinvenuta in pa¬ recchi esemplari, è generalmente fusiforme, della lunghezza dai 100 ai 150 min. e del diametro da 20 ai 30 inni., di colorito grigio sporco, bruno scuro nelle parti emerse. Alcuni esemplari affioravano quasi, altri erano emersi, a causa dell’abbassamento estivo del livello del lago dovuto al prosciugamento. Le particolarità strutturali della spu¬ gna sono conformi alle descrizioni date dagli AA. L’interno era colmo di gemmule. La prima segnalazione dell .E. fluviatilis per l’Italia iu fatta da Lanfossi (1825) clic la rinvenne nei Bacini Mantovani, successivamente Balsamo Crivelli nel 1864 la rinvenne nelle acque di (Pavia, poi il Paglia nel Mincio presso Mantova nel 1879. Da un lavoro del Garbini (1894) risulta che essa è diffusa in Italia soltanto nel Veronese, Man- invano, nel Lago di Garda e a Pavia. In Europa centrale e settentrio¬ nale essa si rinviene in Francia, Belgio, Inghilterra e Scozia, Svizzera, Germania, Danimarca, Svezia, Polonia, Finlandia e Russia. Ho ricer¬ cato nelle Faune riguardanti l’Italia meridionale di O. G. Costa e del Delle Chiaje, ma l’E. fluviatilis non vi è riportata nè come tale nè sotto altra denominazione; tuttavia essa avrebbe potuto non sfug¬ gire, date le sue dimensioni piuttosto notevoli. Sussiste quindi qual¬ che incertezza, se cioè la specie non fosse presente in Italia, o che soltanto essa non fu mai notata prima di allora. Benché quest ultima alternativa sia di gran lunga più probabile, è da tener sempre conto che l’insediamento, almeno nel Lago di Astroni, è comunque recente, per la data stessa di formazione del vulcano che, secondo G. De Lo¬ renzo e C. Riva, rimonta alla 'line del quaternario, forse appena ad alcuni millenni prima dell’era volgare. Vi è da esaminare il problema della provenienza della spugna, perchè, sempre che il presente rinvenimento non sia seguito da altri, questa nuova stazione è notevolmente isolata. L’identità di molte spe¬ cie componenti la limnofauna dei nostri laghi con quelli del bacino scandinavo-finlandese, dove la E. fluviatilis è diffusa e frequente, ha fatto pensare che questa specie sia venuta a noi per trasporto passivo per mezzo di Palmipedi migranti, provenienti dal Nord dell’Europa (es Podice ps, Colymbus , Arias , Fulix , Mergus. Mer gelili s, etc.J, op¬ pure, per il lago di Garda, direttamente dal gruppo dei laghi sviz¬ zeri (Garbini). In particolare, per VE. fluviatilis che possiede gem- mule che liberandosi vanno al fondo, si può ammettere che effettiva¬ mente l’unico mezzo di dispersione sia stato appunto quello degli Uc¬ celli acquatici. Pur non potendosi stabilire il centro di dispersione della specie in esame, in favore della suesposta ipotesi stanno i se¬ guenti fatti: l) il potere di indigenazione di questa specie deve es¬ sere notevole, come si può desumere dalla sua vasta area di distribu¬ zione geografica in climi molto diversi: si rinviene infatti nelle ac¬ que interne di tutta l’Oloartide, dell’Africa e dell’Indomalesia (il luo¬ go di rinvenimento che ci occupa è compreso nella suddetta area di distribuzione geografica); 2) la recente data di formazione del Lago- staano craterico di Astroni e l’isolamento della stazione fanno esclu- © dere qualsiasi ipotesi paleogeografica. BIBLIOGRAFIA 1825 — LanfOsSi — Saggio di una stoiia dei contorni di Mantova: Giorn. fis. e •chini, di Brugnatelli. voi. 310, ;pag. 385. 1888 — Còsta 0. G, — Fauna del Regno di Napoli - Zoofiti. Napoli. 1-841 -- Delle Chiaje S. — Descrizione e notomia degli animali invertebrati dèlia Sicilia citeriore. Tomo V, Napoli. 1864 Balsamo Crivelli — Notizie naturali e chimico ‘■agronomiche sulla prò - vincia di Pavia , pag. 115, Pavia. 1879 — Paglia E. Saggio di studi naturali sul territorio mantovano. Mantova, pag* 446. 1881 Pavesi P. Di una spugna d’acqua dolce nuova per V Dàlia.. Reind. Ist. Lomb. Se. e Lett., voi. 14, pag. (236 . 1891 — Weltner W. — Die Susswasserschwànuìie, in Pier- und Pflanzemvelt con Ó. Zacharias. Leipzig, voL I, pag. 21L — 159 — 1894 — Garrini A. - Primi materiati per una monografia limnologica del Lago di Garda. Bull. Sor. Entomol, IlaL, Anno 26, Firenze. 1894 — li). Contributo allo studio delle Spongille Italiane. A co ad. Agricol. Arti e Commercio di Verona, voi. LXXX, s. III. 1895 — Weltner W. — Spongillidensiudien HI. - Katalog und Verbreitung der bekannten Siissuasserschicamme. Ardi. I. Naturgesch., 61, Ahi. 1, pag. 114-144. 1902 — Df. Lorenzo G. e Riva C. — Il cratere di Astroni nei Campi Flegrei. Atti R. Ace. Se. fis. e mal.. Serie II, voi. XI, pag. 1-87, con 7 tav. 1922 — Schllze F. E. Biologie der fiere Deiuschlands 1, 2 Spongiariu. Berlin. 1935 Arndt W. Die Tienv^lt der Nord, und Ostsee vom G. Grimpe Leipzig., voi. XXVII. Porifera. STUDI SPELEOLOGICI e FAUNISTICI SULL’ITALIA MERIDIONALE SUPPLEMENTO AL BOLLETTINO DELLA SOCIETÀ DEI NATURALISTI IN NAPOLI N* 9 Novembre 1948 B. DE LERMA Opilionidi cavernicoli della Campania Le specie di opilionidi di cui alla presente nota sono siate rac¬ colte dal prof. M. La Greca, in grotte dell’Italia Meridionale. Il loro studio rientra in un programma di ricerche sulla fauna cavernicola dell’Italia meridionale promosse dalla Società dei Naturalisti di Na¬ poli, per iniziativa del prof. M. Salfi. Si tratta di una specie nuova e di una insufficientemente nota, già segnalata per la Svizzera e per una località del Tirolo, di cui si dà nella presente nota una descrizione più particolareggiata, intesa a chiarire il valore diagnostico di taluni caratteri di essa soggetti a va* riabilità. Trogulus salfìi n. sp. Grotta di S. Michele Arcangelo (Olevano sul Tusciano, Salerno): 10 novembre 1947, 1 es.; 25 agosto 1948, 1 es. Dimensioni: I un gli. 10 mm; zampe I, II, III, IV risp. 9.3, 14.5, 10, 15.5 mm. Capotorace delimitato dallo scutum da sottile sutura; sui lati ter¬ minante con margini lievemente rilevati a forma dì carene. Scutum provvisto di carena mediana-longitudinale, estesa per tutta la sua lunghezza. Cappuccio con perimetro ovale, provvisto di accen¬ tuato ed ampio solco interoculare. Palpi sottili, con peli semplici. Femori del 1° paio muniti dì cresta dorsale longitudinale di tu¬ bercoli subcilindrici, con apici ottusamente conici terminanti con breve, robusta setola, i più lunghi dei quali pari alla metà circa del diametro dorso-ventrale dell’articolo, come in fig. Ih. Femori II, III, IV sub¬ cilindrici, provvisti di lievissima cresta di tubercoli sul margine dor¬ sale. Astragali I, III, IV con apofìsi evidente. Il primo articolo dei tarsi I, III. IV supera (osservato di lato) di — 161 — un quarto circa della sua lunghezza il margine apicale dell’apofisi dell’astragalo. Calcagno II ripiegato ad angolo rispetto al prolunga¬ mento dell astragalo, lungo 1/5 del primo articolo del tarso relativo. Calcagno e tarso II insieme, subeguali in lunghezza all’astragalo. Rap¬ porto tra primo e secondo articolo del tarso II come 1:1.25 (fig. la). Fig. 1. — Trogulus sàlfii n. ep. - a, calcagno e tarso della zampa II; b, zampa I, x 16. Colorazione del corpo uniformemente bruna. Zampe brune, con tarsi più scuri e con astragali testacei. Palpi testacei, con ultimo ar¬ ticolo bruno. Cheliceri scuri. La nuova specie è vicina a T. nepaeformis (Scopoli), da cui diffe¬ risce essenzialmente per il rapporto tra primo e secondo articolo del tarso II, in quest’ultima specie come 1:1.6. Differisce inoltre, la nostra specie, da T. tingiformis Koch, oltre che per il diverso valore del rap¬ porto tra gli stessi articoli, anche per le dimensioni dell’astragalo II ti — 162 — che in T. tingiformis è ben più lungo del calcagno piu il tarso; mentre differisce, ancora, da T. lusitanicus Giltay, a cui per contro si avvi¬ cina per il valore del rapporto tra i due articoli del tarso II, per il carattere della cresta dorsale sui femori del primo paio, mancante nella specie descritta da Giltay. Dedico la nuova specie al prof. Mario Salii. lschyropsalis carli De Lessert Grotta di Campo Rotondo (Matese), 20 agosto 1947. Esemplari adulti: un maschio e due femmine; pillili s : un maschio e quattro femmine. Dimensioni: lungh. del maschio 5.2 mm., della femmina 6.2 min : nei due sessi: I art. del chelicero 3.5 mm, II art. del chelicero 4.3 min ; zampe I, II, III, IV risp. di 14, 21, 13, 17 mm. Tuber oculorum due volte più largo che lungo, sensibilmente u- guale in lunghezza alla sua distanza dal margine anteriore del ea- potoraee. Sul secondo tergite del capotorace due evidenti tubercoli ci¬ lindro-conici, avvicinati sulla linea mediana; talora, ai lati dei detti tubercoli, uno o due ulteriori piccolissimi tubercoli conici poco evi¬ denti. Scutum addominale finemente granuloso, con serie di 10 a 15 pic¬ coli tubercoli conici lungo i margini posteriori dei tergiti. Primo ar¬ ticolo dei cheliceri subcilindrico, alquanto ristretto alla base, ivi prov¬ visto sul lato interno di grosso tubercolo ottuso, sul lato esterno di pro¬ cesso spiniforme; sensibilmente incurvato in basso nel tratto distale. Sul margine superiore (osservato di lato) è provvisto di tubercoli ci¬ lindro-conici — in numero di tre a cinque — con apici lievemente in¬ curvati in avanti, di cui tre (in fig. 2 indicati con le lettere a, costantemente presenti negli adulti del pari che nelle forme giovani, più grandi dei rimanenti. Sul margine inferiore e sui lati, munito di tubercoli variabili per numero, forma e dimensioni. Dito fisso della chela con 8 o 9, dito mobile con 6 a 8 denti ine¬ guali: bassi ed ottusi, talora poco distinti i più interni; evidenti, in forma di lamine taglienti subtriangolari, i 4 o 5 ultimi. Tra il pe¬ nultimo e l’ultimo dente, una 'fila di piccoli dentini disposti a pettine, in numero variabile da 20 a 34. Carattere sessuale secondario: nel maschio, estremo apicale del I art. del chelicero provvisto di apofìsi pilifera, lievemente ripiegata verso l’interno. Colorazione: cefalotorace, scutum , cheliceri e palpi neri; zampe — 163 — scure, con femori più chiari alla base; i tre tergiti successivi allo scu- tum e gli sterniti addominali dal secondo al quinto, trasversalmente colorati in bruno lungo il margine anteriore; primo sternite bruno, meno che lungo il margine posteriore, testaceo; margini posteriori dei tergiti e degli sterniti e regioni laterali dell’addome testacei. Fig. 2. — Ischyropsalis carli De Lessert. - a, ehelicero di femmina visto di lato; d, I art. del ehelicero del maschio; b e c, margine dorsale del I art. del cheli- cero di due pullus in diverso stadio di sviluppo, x 19. Dalla descrizione dei nostri esemplari risultano talune note diffe¬ renziali rispetto alla diagnosi di De Lessert che riguardano essenzial¬ mente: 1) il numero dei tubercoli sul margine dorsale dell’art. I del ehelicero; 2) il numero dei denti degli articoli della chela; 3) il nu¬ mero e l’aspetto dei tubercoli sul II tergite del capotorace. È da rilevare che proprio al numero dei tubercoli sul margine dorsale del primo articolo del ehelicero si dà di solito valore nel rag- — 164 — gruppamento dicotomico delle specie del genere Ischyropsalis (cfr. Roewer, p. 681). Nel caso della specie in studio De Lessert assegna, inoltre, valore specifico al carattere del numero dei denti della chela (9 sul dito fisso, 6 sul mobile) in base al quale, oltre che a qualche altro carattere, egli ha stabilito la diagnosi differenziale rispetto a I. luteipes Simon. Lo studio dei miei esemplari in vari stadi di sviluppo, indurrebbe piuttosto ad attenuare l’importanza che si dovrebbe attribuire al nu¬ mero delle formazioni in discussione, quale si rileva nell’adulto, per le seguenti ragioni: a) tre soltanto sembrano essere i tubercoli dorsali del I art. del chelicero costantemente presenti (essi sono già evidenti negli stadi giovanili: in fig. 2 sono stati contrassegnati con le lettere a, P, y); b) il numero dei denti sui diti della chela non è costante, ma variabile, sia pure entro limiti piuttosto ristretti: 8 o 9 sul dito fìsso, da 6 a 8 sul mobile. In individui in stadi progressivi di sviluppo si osserva, infatti, che ai tre tubercoli fondamentali a,.p, y si vanno aggiungendo ulteriori tubercoli, variabili per numero e dimensioni; di solito uno, tra a e P, uno o due (di questi ultimi, uno appena accennato neirunico dei miei esemplari adulti che ne era provvisto) tra p e y. In complesso, dunque, da tre a cinque (forse anche sei) il numero dei tubercoli presenti sul margine dorsale del I art. del chelicero negli esemplari adulti esa¬ minati. Quanto ai tubercoli sul II tergite del capotorace è da rilevare che due soltanto, avvicinati sulla linea mediana e sensibilmente più grossi di altri laterali, sono costanti, sia negli adulti che nelle forme giovani. Da rilevare infine la presenza del carattere sessuale secondario del maschio consistente nell’apofisi distale del primo articolo del cheli- cero, carattere che noli è segnalato per I. carli nè da De Lessert, la cui descrizione si riferisce alla sola femmina adulta, nè da Roewer che lo segnala però per i maschi di talune specie del genere Ischyrop- salis (/. manicata L. Koch, /. dentipalpis Canestrini, I. luteipeis Si¬ mon, I. pyrenaea Simon, 1. helvetica Roewer, /. dacica Roewer, /. plicata Roewer, /. lusitanica Roewer). Per le considerazioni svolte, credo di dover attribuire gli esem¬ plari esaminati alla specie Ischyropsalis curii De Lessert la cui dia¬ gnosi, nuova per il maschio, va precisata secondo la descrizione di cui sopra. BIBLIOGRAFIA De Lessert, R. — Arachniden Graubundens . Rev. Suisse Zool., 13, 658, 1905. Giltay, A. — Noie sut une espèce nouvelle de Trogulus du Portugal. Bull. Mu- sée Roy. Hist. nat. Belg., t. VII, n. 27, 1931. Roewer, C. F. — Die Weherknechte der Erde. Jena, 1923. STUDI SPELEOLOGICI E FAUNISTICI SULL’ITALIA MERIDIONALE SUPPLEMENTO AL BOLLETTINO DELLA SOCIETÀ DEI NATURALISTI IN NAPOLI N> 10 Dicembre 1948 MARCELLO LA GRECA Note sull9 Ortotterofauna dell’ Italia meridionale Le escursioni periodiche che vado effettuando nell’Italia Meri¬ dionale, mi hanno permesso di compiere nuove osservazioni etolo¬ giche e faunistiche sulla Ortotterofauna di questa regione. In questa breve nota dò notizia di una nuova specie del gen. Metapla$tes e di altre specie rare o poco note. Metaplastes ippolitoi n. sp. (fig. 1-4). cf. Capo col vertice giallo-bruno, attraversato da una stretta li¬ nea chiara longitudinale mediana; guance e fronte verde-chiaro, sfu¬ mante nel giallo-avorio del clipeo, labbro e mandibole. Dietro agli occhi una fascia gialla longitudinale limitata medialrnente da una linea bruno-nera. Fastigio del vertice prolungato in un tubercolo spor¬ gente in avanti a tronco di cono. Pronoto col disco giallo-bruno che presenta una fascia longitu¬ dinale chiara per lato e una linea longitudinale mediana anch’essa chiara, tutte poste sul prolungamento delle corrispondenti linee chiare del capo; esternamente ad ogni fascia laterale decorre una fascia bruno-nera, come pure lungo il margine posteriore del pronoto. Pro¬ zona subpiana, metazona sollevata in alto posteriormente. Lobi de¬ flessi verdi, col margine posteriore intero. Tegmine brevi, in gran parte scoperte, raggiungenti il margine posteriore del primo urotergite con la regione costale gialla e per¬ corse longitudinalmente da una fascia nera. Zampe lunghe con i femori verdi, mutici; tibie bruno verdastre, tutte con 4 spine apicali, una all’estremo di ciascun margine; oltre a queste spine, le tibie anteriori ne presentano altre 5 a ciascuno dei margini superiori e 4 agli inferiori, le intermedie 7-8 ai margini su¬ periori e 4 agli inferiori, le posteriori numerose ai margini superiori — 366 — e un paio agli inferiori; tutte le spine presentano l’apice bruno o nero. Lamina sopranale semicircolare con due prominenze digitiformi presso la base. Lamina sottogenitale limitata lateralmente da due cer¬ cini, ampia, concava e ristretta distalmente; apice con 2 lunghe e acute spine sul prolungamento dei cercini laterali e una forte carena longitudinale ventrale, pretendentesi oltre l’apice fra le due spine; questa carena, apicalmente, è sottile, alta, fortemente compressa e Metaplasles ippoliloi q* : 1, capo, pronoto e tegmine visti dorsalmente; 2, pronolo vieto lateralmente; 3, apice dell’addome visto ventralmente con la carena della la¬ mina soltogenitale disposta orizzontalmente; 4, cerco visto dorso-lateralmente. — Metaplastes pulchripennis <3* : 5, apice dell’addome visto come nella fig. 3; 6, cerco visto dorso-lateralmente; 1; capo visto dorsalmente. rivestita di minuscoli tubercoli acuti. Cerci fortemente pelosi e con¬ torti; presentano una larga base e si dirigono posteriormente in basso restringendosi; poco dopo la metà si incurvano in dentro e poi in alto per terminare con un apice rigonfio fornito di una spina nera e glabra, terminale; la metà distale di ciascun cerco presenta una ab¬ bastanza notevole gibbosità dal lato interno. Lunghezza del corpo mm. 17; lunghezza pronoto mm. 4,4; al¬ tezza lobi deflessi mm. 2,1; lunghezza femori posteriori mm. 15,5; lun¬ ghezza tibie posteriori mm. 18,5. La specie è descritta su di un unico esemplare catturato sul Monte Cozzo della Vitalba (Longobucco, Sila) a m. 1200 circa, nel lu¬ glio. 1948, — 167 — Questa specie, differisce da Metaplastes pulchripennis (Costa), alla quale è molto vicina, per la lamina sottogenitale, la forma dei cerei e il fastigio del vertice (v. fig. 5-7). La lamina sottogenitale nella spe¬ cie descritta da Costa ha i margini laterali notevolmente più ispes¬ siti e arrotondati ed il suo apice non è fornito delle due lunghe spine laterali; queste rappresentano in M. ippolitoi, un cospicuo sviluppo delle due spinule apicali dei cercini laterali della lamina sottogeni¬ tale, appena accennate e saldate al prolungamento apicale della ca¬ rena longitudinale ventrale in M. pulchripennis. I cerei in quest’ultima specie sono meno fortemente contorti poiché la metà posteriore è meno fortemente ripiegata verso l’alto; inoltre la gibbosità preapi* cale del lato interno in M. pulchripennis è solo appena accennata. Il fastigio del vertice in quest’ultima specie è più tozzo e lievemente sol¬ cato dorsalmente. Sono lieto di dedicare questa specie al Prof. Felice Ippolito, grazie alla cui ospitalità ho potuto effettuare recentemente un’escur¬ sione in Calabria, che mi ha permesso di compiere interessanti osser¬ vazioni sugli Ortotteri di quella regione. Metaplastes pulchripennis (Costa). Di questa specie nota per la Calabria, la Sardegna e la Liguria (Voltaggio), oltre che per la Spagna e la Bulgaria, esistono nella collezione Salfi 2 cfcT dell’isola d’Ischia, 1 c? del Circeo (Lazio), 1 cf di Vallombrosa (Toscana) e 1 $ di Polsi (Aspomonte); il sig. P. Zancheri mi comunica di aver catturato questa specie pure in Ro¬ magna: in Italia questa specie è quindi largamente diffusa. Dall’esame dei 4 0*0* ho potuto rilevare come il protorace presenti una grande variabilità di forma, sia pure in esemplari della stessa località: in¬ fatti, il margine posteriore dei lobi deflessi varia da distintamente a indistintamente sinuoso e il rapporto fra altezza dei lobi deflessi e lunghezza del pronoto è anch’esso variabile entro i limiti abba¬ stanza sensibili. I cercini che limitano lateralmente la lamina sotto¬ genitale del maschio, terminano apicalmente con due minuscole spi¬ nette nere saldate coi margini laterali del prolungamento apicale della carena longitudinale ventrale. Tettigonia hispanica silana Capra (fig. 8-10). (= Tettigonia silana Capra 1936). Ho avuto la fortuna di rinvenire recentemente alcuni maschi e una femmina della Tettigonia silana descritta anni or sono dal dott. — 168 — Capra (1) sulla femmina. Per motivi che esporrò in seguito, in base all’esame del maschio, non ritengo sia possibile mantenere separate le due specie e considero la T. silana una sottospecie della hispanica. dC Verde, ad eccezione di una larga e irregolare fascia longitu¬ dinale dorsale bruno-rossastra, che dal sommo del vertice, attraverso l’occipite, giunge fino alla prozona. Fastigio del vertice un po più stretto del 1° articolo delle antenne, più lungo che largo, arrotondato, dorsalmente a lati paralleli, anteriormente a lati convergenti in basso. Pronòto con prozona liscia e metazona finemente rugosa ; mar gine posteriore subarrotondato; carena mediana rossastra ben distinta nella metazona. Zampe anteriori e medie verdi, robuste; femori delle tre paia di zampe forniti di sp inule nere su entrambi i margini inferiori; spine delle tibie posteriori con apice bruno-nero; quelle delle tibie ante¬ riori e medie con apice e una linea laterale bruno-neri. Tegmine superanti i cerei di circa un terzo della loro lunghezza e di poco l’apice dei femori, con la base larga, ristrette sensibilmente oltre la metà e terminanti con una stretta punta arrotondata; margine anteriore convesso. Nervature subcostale e radiale decorrenti paralle¬ lamente e molto ravvicinate fra loro, flessuose al centro e terminanti un poco al disopra dell’apice; nervatura mediana sorgente dalla ra¬ diale a circa metà del decorso di questa e terminante con tre brevi rami di cui i più distali all’apice della tegmina. Tegmine verdi ad eccezione della regione compresa fra la cubitale e il margine poste¬ riore (regione dorsale nell’insetto ad ali chiuse) che è bruno-scura con una larga macchia bianca dietro il tamburo. Addome verde, con una linea bianca lungo la membrana pleurale; questa linea si prolunga ai due lati della lamina sottogenitale fino agli stili. Decimo urotergite solcato longitudinalmente, col margine posteriore inciso a triangolo in modo da formare due lobi triango¬ lari acuti che ricoprono i denti dei cerei. Cerci superanti di poco l’apice degli stili, conici, con l’apice sottile e cilindrico e indistinta¬ mente incurvato in dentro; presentano sul margine interno, a un terzo circa dalla base, un breve e robusto dente triangolare, appiattito. Lamina sottogenitale con l’apice inciso a triangolo e con due creste laterali, partenti dagli stili, dirette anteriormente e terminanti a circa metà della lamina stessa; dette creste sono prolungate fino al margine anteriore della lamina e più marcate negli esemplari secchi. Lunghezza del corpo mm. 28-30, lunghezza pronoto min. 7,1-8, (1) Capra, F. Specie nuove o poco note di Tettigonia e Decticus d’ Italia, Boll, Soc. Ern. Ital., LXVIII, n. 9-10, 1936, — 169 — lunghezza tegmine mm. 30-31,5, lunghezza femori posteriori min. 23,5 25. M.te Pietra Sambrase (Reggio Calabria), 11-13 settembre 1948. Grazie alla cortesia del dott. A. Morales, che mi ha inviato al¬ cuni esemplari di Tettigonia hispanica della Spagna, ho potuto con¬ frontare gli individui dei due sessi da me catturati in Calabria con quelli spagnoli. La femmina della Calabria differisce da quella di T hispanica , come già rilevato da Capra, per le elitre superanti di un sesto della loro lunghezza Fapice dei femori, per il seno omerale un poco più profondo, per il pronoto col margine posteriore lieve- Tettigonia silana : 8, decimo urotergite e cerei; 9, cerco visto dorsalmente; 10, lamina sottogenitale vista ventralmente. mente più arcuato e per il campo anale giungente soltanto a metà della tegmina; viceversa la forma del fastigio del vertice e la conves¬ sità del margine anteriore della tegmina è uguale negli esemplari spagnoli e in quello calabrese. Ancor più diffìcile è la distinzione fra i maschi: il margine posteriore del pronoto è, anche in questo caso, appena più arcuato negli individui calabresi; il seno omerale in due degli esemplari della Calabria è un pò più profondo, in un altro uguale a quello dei maschi di T. hispanica. La tegmine di un maschio della Calabria superano di 1/7 della loro lunghezza l’apice dei fe¬ mori posteriori, in un altro lo superano di pochissimo e nel terzo non lo superano affatto: in T. hispanica le tegmine raggiungono o superano di pochissimo l’apice dei femori. Il campo anale delle teg¬ mine nei tre esemplari calabresi raggiunge la metà della tegmina, negli esemplari spagnoli la supera appena o di poco: questo carattere è del resto una semplice conseguenza della differente lunghezza delle tegmine nella forma calabrese e in quella iberica .Nessuna differenza nei cerei, 10° urotergite e lamina sottogenitale. \ ■ — 170 — Le differenze qui riportate sono in realtà molto lievi e non tutte egualmente rilevabili nei vari esemplari presi singolarmente: più che di differenze individuali ben definite, credo sarebbe esatto parlare di differenze fra popolazioni, quelle calabresi manifestanti la tendenza a presentare un seno omerale piu profondo, un pronoto col margine più arcuato, tegmine un poco più lunghe e, per conseguenza, un campo anale non superante la metà delle tegmine stesse. Per questi motivi credo che sia preferibile considerare la T. si- lana Capra, come una sottospecie calabrese della T. hispanica Boi. Quest’ultima specie è stata indicata anche per la Sardegna e sarebbe interessante poter stabilire a quale sottospecie appartengono gli indi¬ vidui di quella regione. Questa specie descritta da Capra su due femmine della Sila, è probabilmente diffusa in tutta la Calabria, poiché, oltre alle località indicate da Capra e da me, debbono senza dubbio riferirsi ad essa i rinvenimenti di Tettigonia cuntans , indicati da Costa per la Sila Grande (2). Ho ritrovato questa specie in Calabria, verso la metà di settembre, nelle faggete di M.te Pietra Sambrase (m. 1000-1100) lungo la strada che da Stilo (Reggio Calabria) conduce a Serra S. Bruno. La specie abbastanza diffusa in quella località, non era peraltro troppo comune, poiché se ne poteva sentire il canto stridente solo di tanto in tanto, sui faggi dei luoghi più umidi dove qualche ruscello attraversava il bosco. Gli individui vivono nel folto della chioma degli alberi e la loro presenza é rivelata soltanto dal canto; per quanto abbia passato sul posto molte ore, per due giorni diversi, non ho mai rilevato la presenza di più di uno o due individui su uno stesso faggio e inoltre dalla direzione di provenienza del suono ho potuto rendermi conto come la maggior parte di essi, anche a distanzia di 48 ore, non si era spostata dal punto in cui si trovava. I pochi esemplari da me catturati (3 cf 1 $ ), li ho trovati in due campiceli! di pa¬ tate in mezzo alla faggeta e su un cespuglio di felci e ortiche sulle sponde di un ruscello nel bosco stesso; mi é riuscito invece impossi¬ bile catturare uno solo dei più numerosi individui viventi sui faggi; questa difficoltà può in parte spiegare la apparente rarità della specie. Omocestus uuarovi Zanon. Questa piccola e graziosa specie, descritta da Zanon (3) nel 1926 per il litorale di Ostia (Roma), è stata successivamente ritrovata nelle (l2) Costa A. Relazione di un viaggio nelle Calabrie per ricerche zoologiche. Atti Et, Acc. Se. Fis. Nat. Napoli, 9, 1881. (3) Zanon V. Contributo alla conoscenza degli Ortotteri dei dintorni di Roma, . Meni, Pont. Acc. Se, Nuovi Lincei, Voi, IX, 1926 Puglie (Manfredonia, Spongano e Castellana) e attribuita ad una nuo¬ va sottospecie da J annone (4). Ho avuto la fortuna di rinvenire PO. uvarovi , abbastanza comune, per quanto localizzato in area ristretta, anche nel Napoletano sulle sponde occidentali del lago Fusaio e precisamente in terreno sabbioso al confine fra la macchia mediterranea che ricopre il litorale marino e il fitto e ampio canneto ( Arando phragmites ) che si estende sulle sponde del lago. Quivi, la specie è abbastanza numerosa, assieme a Chorthippus mollis, Acrotylus patruelis e Pezotettix giornai , dal mese di maggio a quello di ottobre. Dociostaurus genei Ocsk. Si conosce finora ben poco sulla distribuzione di questa specie nell’Italia Meridionale, specie che è diffusa in tutto il bacino del Me¬ diterraneo; avendo avuto l’occasione di rinvenirla qualche volta nelle mie escursioni, ritengo utile darne notizia. Per quanto mi con¬ sta, la specie non è stata citata nell' Italia Meridionale che per la Sicilia (senza l’esatta precisazione della località di rinvenimento), e per il Lazio (Circeo) e la Calabria (valle del Crati) da Salfi (5). In Campania ho rinvenuto una stazione di questa specie presso Avella (Avellino) in un prato sulla sponda sinistra del fiume Fontanelle: in questa località, fino alla metà di giugno ho trovato solo larve e ninfe, viceversa verso la metà di agosto vi erano solo gli adulti. Molto più comune e diffusa è la specie in Calabria, ove giunge sui prati della Sila fino a oltre i 1000 metri di quota: l’ho rinvenuta in varie loca¬ lità della zona di Longobuceo (Cosenza, versante jonico) e di Piazzano (Reggio Calabria, versante jonico), nel mese di settembre. Nella col¬ lezione Salfi esistono pure esemplari di Ponte a Mare (Napoletano). F or fìcula silana Costa. Ho rinvenuto 2 cTcf e 4 99 di questa specie sul M.te Partenio (Avellino) in località Campo di Mercogliano a m. 1300, il 14 agosto 1938. Tutti gli esemplari sono di color bruno-piceo; zampe, margini la¬ terali del pronoto e antenne più o meno chiari. Gli articoli delle an- (4) Jannone G. Contributo alla conoscenza dell’ Ortolterof auna italica . Boll. Zool., Vili, n. 1-2, 1937. (5) Salfi M. Osservazioni sulla ecologia di alcune specie di Locustidae e Pha- sgonuridae. Boll. Se. Nat. Napoli, XXXVI, 1924. Id. Orthoptera. Ist, Naz. Biol. del Consiglio Naz, Ricerche, 1942, — 172 — tenne, in numero di 13-14, presentano la stessa forma ed i medesimi rapporti di proporzione che in F. auricularia. Ali non assenti, ma fortemente abbreviate e della lunghezza delle elitre in entrambi i sessi. Sia Costa (6) che Brunner (7) (che aveva descritto questa stessa specie sotto il nome di F. targioniì) parlano di un’assenza completa delle ali; non è improbabile che tale affermazione debba essere at¬ tribuita al semplice fatto che le ali, non spuntando oltre il margine posteriore delle elitre, siano sfuggite ad entrambi gli osservatori. La piega del 3° uroterglte è grande, ben rilevata e di color bruno-nero, di modo che spicca fortemente sull’addome più chiaro. I due maschi appartengono alla forma macrolabia presentando cerei lunghissimi, poco ricurvi e superanti in lunghezza i 2/3 del corpo, come appare dalle seguenti dimensioni: lunghezza del corpo mm. 9 e 11; lunghezza dei cerei mm. 6,5 e 8,5. La specie era nota finora soltanto per la Sila (Costa, Brunner) e per Potenza (Ma cc agno) ; questo nuovo reperto induce a supporre che F. silana si trovi in tutta l’Italia Meridionale, nelle zone montane. Istituto di Zoologia dell’ Università di Napoli. (6) Costa A. Op. cit. (7) Brunner V Wattenwyl C. Prodromus der Uuropàischen Orthopteren. Leipzig, 1882. r Bollettino della Società dei Naturalisti in Napoli PROCESSI VERBALI DELLE ADUNANZE PROCESSI VERBALI DELLE TORNATE ORDINARIE ED ASSEMBLEE GENERALI Tornata ordinaria del 28 Gennaio 1948 Presidente : G. D’Erasmo Segretario : M. Salpi Sono presenti i soci: Pannain Ernesto, Pannain Lea, Scherillo, Moncharmont Ugo, Moncharmont Maria, Augusti, De Rosa, Punzo, Sarà, La Greca, Ippolito, Co vello, Lazzari, Della Ragione, De Lerma. La seduta è aperta alle ore 17,30. Presiede in assenza del Presidente il Vice-Presidente D’Erasmo. La socia Lea Pannain legge una nota dal titolo: Dimostrazione della equiva¬ lenza dei sei atomi d’idrogeno del Benzene, e ne chiede rinserzione nel Bollet¬ tino. La nota viene accolta per la stampa con le limitazioni vigenti. La seduta è tolta alle ore 18,30. Tornata ordinaria del 25 Febbraio 1948 Presidente : U. Pierantoni Segretario : M. Salfi Sono presenti i soci: Pannain, Palombi, Lazzari, La Greca, Scherillo, Orrù, Sarà, Moncharmont Maria, Moncharmont Ugo, D’Erasmo, Parascandola, Ippo¬ lito, Imbò, De Rosa, Covello, Montalenti, Parisi, della Ragione. La seduta è aperta alle ore 17,30. Il Presidente comunica che la Fondazione Politecnica del Mezzogiorno d’Italia ha concesso un assegno di lire 100.000 per le ricerche speleologiche, e interpre¬ tando i sentimenti dell’ Assemblea rivolge un particolare ringraziamento al socio Ippolito per l’interessamento dimostrato a tale riguardo. Informa altresì che il Ministero ha promesso un assegno di L. 200.000 e che a tale proposito è stata già avanzata regolare domanda. Il socio Moncharmont, anche a nome del socio Covello, revisori dei conti, legge la relazione sul Bilancio consuntivo 1947 e l’Assemblea approva all’unani¬ mità il Bilancio. Il Presidente legge il Bilancio preventivo 1948, che è anche approvato alla unanimità. Il socio Sarà comunica un spo lavoro dal titolo: Sull’associazione di Tethya aurantium i [P alias ) Gray con Oscillatoria spongeliae ( Schulze ) e ne chiede la pub¬ blicazione nel Bollettino. Il lavoro è accolto con le limitazioni vigenti. — 176 — Il Segretario, a nome del socio Miraglia, legge una nota di questi dal titolo: Su un fenomeno di pulsazione osservato nella Sorgente del Sammaro. Il lavoro viene accolto pel Bollettino con le limitazioni vigenti. Il socio De Rosa legge un suo lavoro: Sulla morfologia delle corone dentarie , nei molari umani, e ne chiede la pubblicazione. Il lavoro è accolto con le limi¬ tazioni vigenti. La seduta è tolta alle ore 19. Tornata ordinaria del 31 Marzo 1948 Presidente : U. Pierantoni Segretario : M. Salfi Sono presenti i soci: D, Erasmo, Parenzan, Covello, Sarà, Parisi, Lazzari, Antonucci, Moncharmont Maria, Moncharmont Ugo. Della Ragione. La seduta è aperta alle ore 17,30. Il Presidente informa che il Ministero della Pubblica Istruzione ha concesso un assegno straordinario di lire 50.000. Il socio Parenzan fa una comunicazione dal titolo: L’importanza del rospo smeraldino (Bufo viridis Lam .) come animale di Laboratorio. Esperienza per la diagnosi biologica di gravidanza coti urina di donna, e ne chiede la pubblicazione nel Bollettino. Il socio Lazzari rileva che la comunicazione sopradetta si riferisce ad argomenti che non potrebbero, a norma di Statuto, essere accolti per il Bol¬ lettino della Società. Lo scopo della Società è relativo al progresso delle Scienze naturali e il lavoro del socio Parenzan troverebbe meglio posto in un periodico medico, particolarmente di ostetricia. Il socio La Greca legge un lavoro dal titolo: Primo contributo alla conoscenza degli Ortotteri del Matese. Il lavoro viene accolto per il supplemento al Bol- leitino. La seduta è folta alle ore 18,30. Assemblea generale del 27 Aprile 1948 Presidente : B. De Lerma Segretario : M. Salfi Sono presenti i soci: La Greca, Caroli, Augusti, Signore, Orrù, Moncharmo ìt Ugo, Mirigliano, Montalenti, Antonucci. La seduta è aperta alle ore 17. In assenza del Presidente Pierantoni e del Vice Presidente D Erasmo, 1 As¬ semblea invita alla Presidenza il socio De Lerma. Questi, constatato che, ai fini della presente seduta relativa alLelezione delle cariche sociali, non si raggiunge nei presenti il numero legale (due terzi dei soci) a norma delFart. 10 dello Statuto rinvia la seduta a domani, 28 Aprile, in seconda convocazione, come da invito regolarmente diramato ai soci. La seduta è tolta alle ore 17,30. Assemblea generale del 28 Aprile 1948 Presidente: G. D’Erasmo Segretario : M. SalfI In assenza del Presidente presiede il Vice Presidente. Sono presenti i soci: La Greca, Caroli, Parisi, Signore, Sarà, Mirigliapo, Pa- renzan, Augusti, Orrù, Alfano, Parascandola, De Lerma, Patroni, Moneharmont Ugo, Moneharmont Maria, Antonucci, Montalenti, De Rosa, Imbò, Lucchese, Lacquaniti, Jovene, Goiggio. La seduta è aperta alle ore 17. Il socio Alfano ricorda la figura di Macedonio Melloni che combattè nelle bar¬ ricate del 1848 in Napoli e fu perciò esiliato. Propone che la Società si renda parte diligente perchè vengano riesumati i suoi resti dalla tomba di S. Giorgio a Cremano e decorosamente ricomposti nell’Osservatorio Vesuviano. Il Presidente propone la nomina di un Comitato composto dei soci Imbò, Alfano, Parascandola per studiare la questione e riferire alla Società. Così resta stabilito. Il socio Parenzan comunica che ai primi di Giugno egli compirà col Coman¬ dante Vassena nel Sommergibile C 3 la prima crociera abissale a Capri. Il socio Parascandola comunica due note: 1) Notizie vesuviane : Lo stato del Vesuvio dal 3 Marzo al 24 Aprile 1948; 2) Contributo alla Geologia del Somma , Segnalazioni di antiche lave. Le note sono accolte pel Bollettino con le limitazioni vigenti. Si procede all’elezione delle cariche sociali, in seconda convocazione, e si nominano i componenti il seggio nelle persone dei soci Prof. Carlo Patroni, pre¬ sidente, Antonio De Rosa e Michele Sarà scrutatori. Alle ore 17,30 il Presidente del seggio dà principio alla votazione. Chiusa la votazione, si iniziano le operazioni di scrutinio, delle quali, dal seggio, viene redatto apposito verbale, da cui si rileva che vengono eletti: Presidente Prof. Umberto Pierantoni Vice Presidente Segretario Consigliere » » » La seduta è tolta alle ore 20. » Geremia D’Erasmo » Mario Salfi » Antonio Scherillo » Antonio Lazzari » Marcello La Greca » Felice Ippolito Tornata ordinaria del 26 Maggio 1948 x Presidente : U. Pierantoni Segretario : M. Salfi Sono presenti i soci La Greca, Ippolito, Della Ragione, Parisi, Majo Ida, Torelli, Scherillo, Sarà, Dacci, Lazzari, D’Erasmo, Moneharmont Ugo, Monehar¬ mont Maria, Parascandola, Mirigliano, De Lerma, Orrù, Mazzarelli. — 178 — Intervengono inoltre, in buon numero, soci della Sezione Napoletana della Unione Italiana Naturalisti. La seduta è aperta alle ore 17,30. Il Presidente dà la parola al socio Ippolito, che legge la Commemorazione di Leopoldo Pilla . Dopo detta lettura la seduta è sospesa per 10 minuti, e viene ripresa con i soli soci della Società dei Naturalisti. Il socio Mirigliano legge una nota dal titolo: Un giacimento ad Orbitoline presso il Monte Cocuzza (Salerno). La nota è accolta pel Bollettino con le limita¬ zioni vigenti. Il socio De Lerma comunica: Opilionidi cavernicoli della Campania. La nota è accolta per il supplemento al Bollettino. La seduta è tolta alle ore 19. Tornata ordinaria del 30 Giugno 1948 Presidente : G. D’ Erasmo Segretario : M. Salfi In assenza del Presidente presiede il Vice Presidente. Sono presenti i soci: Parisi, La Greca, Mazzarelli, Palombi, Mirigliano, Mon- charmonl Ugo, Moncharmont Maria, Augusti, Scherillo, De Lerma, Parascandola, Majo Ester, Della Ragione. La seduta è aperta alle ore (17,45. Il Presidente comunica che il Ministero ha concesso un ulteriore sussidio di L. 50000,00. Il Presidente comunica che il Consiglio Direttivo ha stabilito, a norma del- Eart. 7 dello Statuto, di proporre all’Assemblea la radiazione dei soci morosi. L’Assemblea approva aH’unanimità la proposta, limitandola ai soci morosi da non meno di due anni. Seguono le seguenti comunicazioni, che vengono accolte pel Bollettino con le limitazioni vigenti. Covello Mario. Idrolisi di nuovi derivati aciclici degli acidi 3 e 5-iodosalicilici ; Covello Mario. lodo salicilati di mercurio e di bismuto; Covello Mario. Ricerche farmacologiche sul canforato di e&ametil-l-3dia- mino-propanolo-2 ; Mirigliano Giuseppe. Pliocene tra Licusati, S. Iconio e Porto degli Infreschi; Moncharmont Ugo. Morfologia di un arto posteriore sopranumerario di Rana esculenta rinvenuta in natura ; Parascandola Antonio. Sullo stato del Vesuvio al 29 Giugno 1948. La seduta è tolta alle ore 19,45. Tornata ordinaria del 30 Novembre 1948 Presidente : F. Signore Segretario : M. Salfi In assenza del Presidente e del Vice-Presidente presiede il socio anziano Prof. Francesco Signore. — 179 — Sono presenti i soci: Lazzari, Sarà, Mirigliano, De Rosa, Parascandola, Na¬ poletano, La Greca, Moncharmont Ugo, Antonucci, Mazzarelli, De Lerma, Punzo. La seduta è aperta alle ore 17. Il Segretario legge, a nome del socio Imbò, impedito ad intervenire, una nota di questi dal titolo: Osservazioni condotte al Vesuvio nell’anno 1948. La nota viene accolta pel (Bollettino con le limitazioni vigenti. Il socio Parascandola ragguaglia l’Assemblea sullo stato del Vesuvio, come lo ha visto giorni or sono. Il socio Moncharmont legge una breve comunicazione Sulla presenza di Ephy- datia fluviatilis nel lago di Astroni . La nota viene accolta per la inserzione nel Sup¬ plemento del Bollettino. La seduta è tolta alle ore 18. Tornata del 29 Dicembre 1948 Presidente: G. D’Erasmo Segretario : M. Saéfi Sono presenti i soci: Ippolito, Mazzarelli, Miraglia, Sarà, Moncharmont Ugo, Moncharmont Maria, Scherillo, Lazzari, Pannain Ernesto, Signore, Della Ragione, La Greca, Punzo, De Lerma, Caroli, Imbò. La seduta è aperta alle ore 17. Il socio D’Erasmo, anche a nome dei consoci prof. A. Scherillo e dott. M. Moncharmont Zei, fa una comunicazione preliminare Sui recenti scavi nelle collme a nord di Napoli . Si tratta di una grande arteria sotterranea che la Soc. per l’Ac¬ quedotto di Napoli ha cominciato a scavare, da pochi mesi, nella zona collinosa a settentrione dell’abitato che va dal Bosco di Capodimonte — attraverso i valloni delle Fontanelle, dei Gerolomini, delle Due Porte, di Montedonzelli, ecc. — fino a S. Stefano al Vomero vecchio. La galleria, che mantenendosi ad una quota di circa 90 m. sul livello del mare, avrà uno sviluppo complessivo di 9 km., con¬ sentirà di alimentare la zona occidentale di Napoli con acqua del basso servizio. Essa è stata iniziata già in diversi punti (propr. del Balzo a S. Gennaro dei Po¬ veri, S. Maria della Catena, propr, Ricciardi e Santo Stefano) e rivela fin da ora notevole interesse scientifico, non solo perchè è la maggiore e la più settentrionale di tutte le perforazioni 6Ìno ad oggi effettuate nella zona urbana di Napoli, ma anche perchè mostra — nella successione dei terreni attraversati '( tufi grigi in¬ coerenti e semicoerenti, tufi gialli, tufi verdastri che ingialliscono per ossidazione, tufi grigi inferiori, brecce -museo, ecc.) — alcuni prodotti finora non riscontrati nella zona e rapporti di successione ignorati. La tettonica dei terreni vulcanici di Napoli, che già ha dato luogo a varie ipotesi e diverse interpretazioni, appare, alla luce dei nuovi dati, più complessa di quanto si sospettasse e perciò di più ardua interpretazione. I tre soci seguiranno i lavori di escavazione e continueranno a raccogliere dati e materiali, 6ui quali si propongono di riferire più ampiamente alla Società in altra adunanza. II socio Felice Ippolito comunica che l’Associazione per lo Sviluppo Indù- — 180 — striale del Mezzogiorno, volendo riprendere gli studi e le ricerche per l’utilizza¬ zione delle forze endogene nei campi Flegrei, già iniziati tempo addietro dalla S.A.F.E.N., e di cui il socio Penta diede a suo tempo notizie alla Società, ha co¬ stituito un'apposita commissione costituita dai professori Fabiani, Ippolito, Mad¬ dalena, Penta e Rittmann. Tale Commissione, dopo essersi più volte riunita, ha deciso di far eseguire un rilievo geologico e vulcano-tettonico di dettaglio della zona dei Campi Flegrei: rilievo che, diretto particolarmente dal Prof. Rittmann, verrà eseguito nel corso del 1949 dal personale degli istituti di Giacimenti Mine¬ rari delPUniversità di Roma e di Geologia Applicata deirUniversità di Napoli. Il socio Ernesto Pannain legge una sua nota dal titolo : II legame benzenico e una nota della socia Lea Pannain dal titolo: Valori termici dei legami tra gli atomi di carbonio negli idrocarburi. Le due note vengono accolte pel Bollettino con le limitazioni vigenti. Il socio Ippolito comunica una nota dal titolo: Studi sulla costituzione geolo¬ gica del sottosuolo di Napoli. La nota è accolta pel Bollettino con le limitazioni vigenti. Il socio Mazzarelli legge un suo lavoro dal titolo : Ricerche sul colore del mare eseguite tra la Sicilia e la Libia. Il lavoro è accolto per il Bollettino con le limitazioni vigenti. Seguono le comunicazioni appresso elencate, che vengono accolte per il Sup¬ plemento al Bollettino, con le solite limitazioni: La Greea. Note sull’ Ortotterofauna dell’Italia meridionale. Lazzari. Il bacino chiuso e V inghiottitoio di Campo Rotondo nel massiccio del Matese. Lazzari. Le grotte dei Briganti e di San Michele Arcangelo nella Valle del T asciano {Salerno). Miraglia. Fenomeni carsici nel massiccio del Cervati. Bollettino della Società dei Naturalisti in Napoli STATUTO, REGOLAMENTO ED ELENCO DEI SOCI REPUBBLICA ITALIANA IL CAPO PROVVISORIO DELLO STATO Veduto lo Statuto della Società dei Naturalisti, con sede in Napoli approvato con regio decreto 1° maggio 1941 ri° 547; Veduto il decreto legislativo luogotenenziale 9 novembre 1944 n. S81, con il quale vennero abrogate le disposizioni del regio decreto legge 26 settembre 1936, numero 1803 concernente la nomina dei presidenti e dei vice presidenti delle Accademie, degli Istituti e delle Associazioni di scienze, lettere e arti; Veduto il decreto legislativo luogotenenziale 18 gennaio 1945, n. 85, con il quale venne abrogata la disposizione dell’art. 3 del regio decreto-legge 21 settembre 1933, n, 1333, che aveva sancito l’obbligo del giuramento accademico per i presi¬ denti e per i membri delle Accademie, degli Istituti e delle Associazioni di scienze, lettere ed arti; Veduto lo schema di nuovo statuto proposto dalla suddetta Società dei Na¬ turalisti; Veduto l’esito della votazione syolta dall’ Assemblea generale della Società soprariferita per l approvazione dello schema di statuto sopracennato ; Udito il parere del Consiglio di Stato; Sulla proposta del Ministro della pubblica istruzione DECRETA Art. 1 È abrogato lo statuto della Società dei Naturalisti con sede in Napoli, ap¬ provato con regio decreto 1° maggio, n° 547. Art. 2 È approvato il nuovo statuto della Società anzidetta, annessa al presente de¬ creto e firmato dal Ministro proponente. Il presente decreto, munito del sigillo dello Stato, sarà inserito nella Raccolta ufficiale delle leggi e dei decreti della Repubblica Italiana. È fatto obbligo a chiunque spetti osservarlo e di farlo osservare. Dato a Roma lì 21 Maggio 1947. F.to De Nicola €. F.to Con ella — 184 — STATUTO DELLA SOCIETÀ DEI NATURALISTI CON SEDE IN NAPOLI Art. 1 La Società dei Naturalieti, con sede in Napoli, ha per iscoipo lo studio e la diffusione delle scienze naturali. Art. 2 ; ' - .. - . :* . ■ ■ ■ • Per conseguire i suoi scopi la Società promuove pubblicazioni, conferenze, riunioni periodiche; organizza escursioni; conferisce premi di incoraggiamento a studiosi e studenti. Art. 3 La Società è costituita da soci ordinari residenti in numero di 70; di soci ordinari non residenti in numero di 50, e di soci benemeriti, in numero indeter¬ minato. Art. 4 Possono essere nominati soci ordinari residenti tutti i cultori delle scienze naturali residenti in Napoli. Possono essere nominati soci ordinari non residenti, i cultori delle scienze naturali non residenti in Napoli. Possono essere nominati soci benemeriti coloro i quali, avendo contribuito con donazioni o sussidi alla vita economica della Società, o avendone favorito le attività culturali, abbiano benemeritato della Società. Art. 5 Le nomine dei nuovi soci sono fatte d’assemblea generale, in base a pro¬ poste da almeno due soci al Consiglio direttivo e da questo preventivamente esa¬ minate èd istruite. — 185 — Art. 6 Tutti i soci hanno diritto di intervenire alle adunanze della Società e di ri¬ cevere le pubblicazioni sociali. Art. 7 I soci ordinari residenti hanno l’obbligo di intervenire alle adunanze della Società. I soci ordinari che, per motivi di salute o per tarda età, non siano più in condizioni di partecipare alle adunanze, possono dalla assemblea generale essere trasferiti in una speciale categoria di soci in soprannumero conservando gli onori e la prerogativa del grado. Art. 8 I soci ordinari residenti, che, per motivi diversi da quelli contemplati dal precedente articolo, non partecipino alle adunanze per quattro sedute consecutive e non giustifichino la loro assenza, possono dall’assemblea generale essere dichia¬ rati dimissionari. II loro seggio viene considerato vacante. Art. 9 La Società è retta ed amministrata da un Consiglio direttivo composto di un presidente, un vice presidente, un segretario e quattro consiglieri scelti tutti tra i soci residenti in Napoli ed eletti dall’assemblea generale dei soci. I membri del Consiglio direttivo durano in carica un triennio e possono es¬ sere rieletti. Le nomine del presidente e del vice presidente sono comunicate immediata¬ mente al Ministero della pubblica istruzione. Art. 10 Le adunanze per le elezioni sia dei nuovi soci sia del Consiglio direttivo sono valide quando siano presenti almeno i due terzi dei soci ordinari residenti. Nelle votazioni dovrà riportarsi la maggioranza. Ove nella prima convocazione manchi il numero o nessuno dei candidati rac¬ colga la maggioranza, si procede ad altra votazione in giorno successivo. In seconda convocazione l’adunanza è valida qualunque sia il numero dei presenti. Nelle elezioni del Consiglio direttivo, qualora anche in seconda convocazione non si raggiunga la maggioranza, i due candidati che per ciascun posto abbiano ricevuto il maggior numero di voti saranno sottoposti ad un nuovo scrutinio, e sarà eletto colui che avrà ottenuto la maggioranza dei voti. In caso di parità di voti, sarà eletto il più anziano di nomina a socio. — 186 — Art. 11 è -Il presidente rappresenta legalmente la Società; ne presiede i lavori; convoca e dirige le adunanze del Consiglio direttivo e deH’assemblea generale e ne fa eseguire le deliberazioni; ordina le riscossioni e i pagamenti; firma gli atti uf¬ ficiali. In caso di assenza o impedimento è supplito dal vice presidente. Art. 12 Il Consiglio direttivo sovrintende alla vita e alla ordinaria amministrazione della Società e ne cura le pubblicazioni e le manifestazioni. Compila annualmente il bilancio preventivo e rivede il consuntivo, presen¬ tandolo alla assemblea per l’approvazione. i Art. 13 Il Segretario controfirma gli atti sociali; compila i verbali; tiene la corrispon¬ denza; ha cura della biblioteca e delle pubblicazioni. In caso di assenza o di impedimento, il Segretario è sostituito dal consigliere meno anziano di età. Art. 14 La Società tiene adunanze ordinarie annue di carattere amministrativo o scien¬ tifico nell’ epoca e con le norme che saranno stabilite dal regolamento interno. Ad iniziativa del Consiglio direttivo e dietro domanda di un terzo almeno dei soci ordinari potranno essere tenute adunanze straordinarie. In prima convocazione l’adunanza non è valida se non vi partecipi almeno la metà più uno dei soci ordinari. In seconda convocazione, che potrà aver luogo nello stesso giorno della prima, l’adunanza è valida qualunque sia il numero degli intervenuti. Le deliberazioni sono adottate a maggioranza di voti. Le votazioni si fanno per alzata e seduta. Nelle adunanze in cui trattasi di eleggere i soci o il Consiglio direttivo potrà adottarsi lo scrutino segreto. Art. 15 L'anno sociale e l’anno finanziario decorrono dal 1° gennaio al 31 dicembre. Per ciascun anno finanziario l’assemblea generale nomina tre revisori dei conti, dei quali due effettivi e uno supplente. I revisori dei conti riferiscono per iscritto all’assemblea sull’andamento del- l’ amministrazione. Art. 16 I beni della Società debbono essere descritti in speciali inventari. Sull’impiego delle somme provenienti dall’alienazione di beni, da lasciti, da y donazioni e di quelle che per qualsivoglia titolo siano ad incremento del patrimo¬ nio, delibera l’assemblea generale. Art. 17 Non oltre il mese di gennaio di ogni anno il presidente trasmette al Ministero della pubblica istruzione una relazione sull’attività svolta dalla Società nell’anno precedente. Art. 18 Le proposte di riforma al presente statuto dovranno essere richieste da al¬ meno un quarto dei soci ordinari. Esse, dopo essere state discusse e approvate dall’assemblea generale presenti almeno i due terzi dei soci ordinari iscritti, saranno comunicate al Ministero della pubblica istruzione per i provvedimenti di competenza. Art, 19 Il Consiglio direttivo predisporrà uno schema di regolamento per il funziona¬ mento interno, che, approvato dall5 assemblea generale, sarà sottoposto alla ratifica del Ministero della pubblica istruzione. Visto: Il Ministro per la pubblica istruzione F.to Gonellà — 188 — REGOLAMENTO DELLA SOCIETÀ DEI NATURALISTI IN NAPOLI Art. 1 L’emblema della Società dei Naturalisti è rappresentato dalla figura di una me daglia con Fincisione del simbolo del fiume « Sebeto » cui fa sfondo il panorama del Golfo di Napoli col classico pino e col Vesuvio fumante. In basso, in una cornice rettangolare, è il motto « investigando invenies », Una dicitura marginale, circolare reca la scritta « Società dei Naturalisti in Napoli. 1881 ». Del Consiglio Direttivo Art. 2 Il Presidente della Società firma i verbali delle adunanze della Società e delle sedute del Consiglio Direttivo, i diplomi di nomina dei Soci, la corrispondenza della Società, i mandati di pagamento, e gli altri atti ufficiali. Art. 3 Il Segretario redige i verbali delle tornate sociali e delle sedute del Consiglio Direttivo, controfirma i medesimi ed ancora i diplomi sociali, i mandati di pa¬ gamento, cura il servizio di segreteria e della biblioteca e la stampa del Bollettino. In caso di impedimento viene sostituito dal Consigliere meno anziano di età a norma dell’art. 13 dello Statuto. Art. 4 Le adunanze del Consiglio Direttivo non sono valide se non intervengono al¬ meno 4 dei suoi componenti, A parità di voti prevale il volo del Presidente, — 189 — Dei Soci Art. 5 Sono soci residenti quei soci che hanno stabile dimora nella città di Napoli o in località comprese nella Provincia. I soci passano dall’una all’altra categoria ove mutino di residenza rimanendo eventualmente in soprannumero. Art. 6 Ciascun socio riceve gratuitamente: 1) il diploma di nomina firmato dal Presidente e dal Segretario della So¬ cietà ; 2) una copia di ogni fascicolo del Bollettino e delle eventuali pubblicazioni ufficiali della Società. Art. 7 Ai soci ordinari che partecipano all’attività sociale potrà essere concessa, in base a deliberazioni motivate, un’indennità sotto forma di medaglia di presenza ovvero sotto forma di premio di operosità con le modalità che verranno previa¬ mente stabilite dal 'Consiglio Direttivo. Qualora le esigenze di bilancio lo richie¬ dano, il Consiglio Direttivo potrà proporre un contributo annuo da parte dei soci, determinando l’entità che dovrà essere approvata dall’Assemblea e proporre la de¬ cadenza dei soci eventualmente morosi. Art. 8 Tutti i soci intervenuti alle tornate della Società firmano un apposito registro per attestare la loro presenza alle adunanze. Art. 9 Nell’ultimo bimestre di ciascun anno si procederà alla eventuale elezione di nuovi soci a norma dolLart. 5 dello Statuto e con votazione a scrutinio segreto. Attività scientifica Art. 10 La Società pubblica annualmente un Bollettino che consta di un unico volume diviso in due parti. 1) Nella prima parte vengono inserite: a) Le memorie e le note dei soci. h ) Le conferenze per esteso o in riassunto tenute dai soci o da studiosi — 190 estranei alla Società che vengano all’uopo invitati dal Presidente dopo delibera¬ zione del Consiglio Direttivo. 2) Nella seconda parte vengono pubblicati: a) I risultati e le relazioni dei concorsi e dell’attribuzione dei premi con¬ feriti. b ) I verbali delle tornate sociali. c) L’elenco dei soci. d ) Le cariche sociali del triennio. e) Le eventuali modificazioni dello Statuto -è del Regolamento. /) Qualsiasi altra notizia di cui il Consiglio Direttivo riconoscerà utile la pubblicazione. Gli argomenti di cui al comma 2) potranno con deliberazione del Consiglio Direttivo costituire una pubblicazione a parte sotto forma di annuario. Art. 11 I lavori da pubblicarsi nel Bollettino dovranno essere letti nelle tornate. Sui lavori letti potrà essere fatta discussione. Quindi i lavori restano sette giorni in segreteria a disposizione dei soci che volessero ponderatamente esaminarli. Tra¬ scorsi i sette giorni se non è pervenuta alla Segreteria nessuna osservazione da parte di alcun socio, il lavoro è passato alla stampa. Essendovi discussione, questa verrà fatta nella prossima tornata, informandone l’autore perchè possa intervenire: un sunto della discussione sarà pubblicata nel Bollettino in seguito al lavoro, tenendosene poi conto nel processo verbale. I lavori già pubblicati in tutto o in parte in altre riviste e quelli a carattere compilativo non possono di norma essere stampati. I soci non residenti possono incaricare sia il Segretario sia altro socio di dar lettura del proprio lavoro. Art. 12 Gli autori dovranno al momento della presentazione dei loro lavori consegnare al Segretario il manoscritto, in duplice copia dattilografata. Riguardo alle eventuali illustrazioni spetta al Consiglio Direttivo decidere se debbano essere inserite nel testo o in tavole fuori testo e quale sia la maniera più adatta per la loro riproduzione. II Consiglio Direttivo si riserva il diritto di richiedere all’autore di limitare, in base alla disponibilità del bilancio, il numero delle illustrazioni e di contri¬ buire alla spesa. Art. 18 Il Consiglio Direttivo può, in rapporto alla potenzialità del bilancio, limitare il numero complessivo delle pagine di stampa a disposizione di ciascun autore. Art. 14 Il Consiglio Direttivo può di volta in volta in base alle disponibilità di bi¬ lancio promuovere pubblicazioni straordinarie quali memorie il cui numero di pagine di stampa ecceda la media ad esse consentita per l’inserzione nel Bollet¬ tino, che saranno considerate supplementi annuali al Bollettino stesso, od anche farsi iniziatore di serie monografiche di volumi a carattere sintetico originale la cui stampa e diffusione potrà essere affidata a Case Editrici di riconosciuta serietà. Gli autori saranno scelti dal Consiglio Direttivo ed invitati a collaborare dal Pre¬ sidente. Potranno essere scelte anche persone estranee alla Società di riconosciuta competenza per ciascun argomento da trattarsi. Ad essi potrà venire assegnato un congruo compenso. Art. 15 Gli autori delle memorie, delle note, delle conferenze inserite nel Bollettino ne riceveranno gratuitamente quel numero di estratti che sarà stabilito annualmente dal Consiglio Direttivo. Coloro che desiderano un maggior numero di copie le riceveranno al prezzo che verrà stabilito in base al costo corrente della stampa. Per le pubblicazioni straordinarie il Consiglio Direttivo stabilirà il numero di copie da concedere gratuitamente agli autori. Art. 16 La revisione delle bozze di stampa per quanto riguarda le note, le memorie e le conferenze deve essere fatta dal rispettivo autore il quale dovrà restituire le prove corrette entro il termine di giorni ,15 dall’invio. Trascorso tale termine la stampa sarà eseguita a cura del Segretario secondo il manoscritto originale pre¬ sentato. Art. 17 Le escursioni verranno organizzate dal Consiglio Direttivo che ne fisserà le modalità affidandone la direzione ad uno o più soci di particolare competenza. Delle adunanze Art. 18 La Società terrà le sue adunanze nella sede sociale nella quale saranno tenute anche le eventuali conferenze. Alle sedute di carattere esclusivamente scientifico e alle conferenze potranno assistere persone estranee alla Società dietro invito del Presidente. Le adunanze si terranno in base al calendario delle medesime che verrà sta¬ bilito dal Consiglio Direttivo all’inizio di ciascun anno ed inviato ai soci. — 192 — Art, 19 La diramazione degli inviti ai soci per partecipare alle adunanze è fatta dal Segretario. Nell’avviso di convocazione sarà possibilmente riportato l’ordine del giorno fissato dal Consiglio Direttivo. I soci che intendano leggere memorie o note devono tempestivamente avvi¬ sarne per iscritto il Segretario indicandone il titolo per la relativa iscrizione al¬ l’ordine del giorno. Art. 20 In ciascuna adunanza si darà anzitutto lettura del verbale della seduta pre¬ cedente e si procederà all’approvazione di esso.. È consentita, ove ne sorga la ne¬ cessità, la compilazione, la lettura e l’approvazione del verbale seduta stante. In tal caso si procederà a tale adempimento in fine di seduta. Seguiranno : 1) Le comunicazioni del Presidente. 2) Le comunicazioni delle opere pervenute in dono e dei nuovi cambi di pub¬ blicazioni accettate dal Consiglio Direttivo. 3) La presentazione ed il commento che i soci credono opportuno di fare di opere, memorie e note scientifiche recenti italiane o straniere. 4) La lettura delle memorie e delle note e la loro eventuale discussione. Del Bilancio Art. 21 Entro i primi due mesi dell’anno sociale la Società terrà una adunanza di ca¬ rattere amministrativo in cui il Presidente sottoporrà all’Assemblea dei Soci per l’approvazione il Bilancio consuntivo dell’anno precedente sul quale riferiranno per iscriito i Revisori dei conti. Questi saranno nominati dall’Assemblea nell’ultimo bimestre di ciascun anno. Successivamente l’assemblea discuterà il bilancio preventivo per l’anno in corso. Art. 22 Per la compilazione dei bilanci e per ogni altra pratica di natura amministra¬ tiva il Consiglio Direttivo potrà ove lo creda opportuno ricorrere all’ausilio di per¬ sona competente, scelta fra i soci od anche fra estranei alla società, alla quale potrà anche essere corrisposta una retribuzione proporzionata all’opera prestata. Art. 23 Dei Premi Nel Bilancio preventivo verrà dal Consiglio Direttivo determinato l’eventuale ammontare ed il numero dei premi che saranno posti a concorso entro 1 anno a norma dell’art. 2 dello Statuto. 193 — Art. 24 ì premi e le borse di studio verranno assegnati in base ai regolamenti già Esi¬ stenti per ciascuna fondazione. Il Consiglio Direttivo nei limiti del bilancio potrà ove lo creda bandire altri premi d’incoraggiamento. Segreteria. Biblioteca e Cassa Art. 25 Il Consiglio Direttivo nominerà persona estranea alla Società per coadiuvare il Segretario nel lavoro materiale e per la vigilanza della Biblioteca nelle ore in cui questa resterà aperta ai soci e ne stabilirà la retribuzione. Aft. 26 Il prestito dei libri è limitato esclusivamente ai sòci. Ove nel termine di tre mesi il socio non restituisca i volumi presi in prestito, gliene sarà addebitato il valore. Art. 27 Presso la Segreteria della Società debbono essere depositati : 1) Lo Statuto ed il Regolamento. 2) Il registro dei verbali delle sedute del Consiglio Direttivo. 3Ì II registro dei verbali delle tornate della Società. 4) Il registro della corrispondenza in entrata ed uscita. 5) Il registro dei mandati di pagamento. 6) Il giornale di cassa. 7) Il registro dei titoli patrimoniali della Società. 8) L’inventario della biblioteca e della mobilia. 9) Il registro di presenza dei soci alle tornate. 10) Lo schedario dei soci. Art. 28 Il servizio di cassa sarà affidato ad un Istituto di credito della Città designato dal Consiglio Direttivo. 13 ELENCO DEI SOCI AL 33 DICEMBRE 1948 SOCI ORDINARI RESIDENTI 1. Alfano Giambattista, Prof, di Scienze Naturali e Direttore deirOsservatorio sismico del Seminario Arcivescovile. Napoli. 2. Andreotti Amedeo, Ingegnere. Napoli. 3. Antonucci Achille, Prof, di Scienze nei Licei. Napoli. 4. Augusti Seeim, Prof, di Scienze nei Licei. Napoli. 5. Bacci Guido, Dott. in Scienze Naturali, Assistente nella Stazione Zoologica. Napoli. 6. Biondi Gennaro, Prof, di Scienze nei Licei. Napoli. 7. Califano Luigi, Prof. Ord. di Microbiologia. Università Napoli. 8. Carnera Luigi, Direttore dell’Osservatorio Astronomico di Capodimonte. Napoli. 9. Caroli Ernesto, Lib. Doc. di Zoologia. Stazione Zoologica. Napoli. 10. Carrelli Antonio, Prof. Ord. di Fisica. Università Napoli. 11. Celentano Vincenzo, Prof, di Scienze nei Licei. Napoli. 12. Covello Mario, Prof, di Chimica farmaceutica. Università Napoli. 13. Cutolo Costantino, Ingegnere. Napoli. 14. D’Erasmo Geremia, Prof. Ord. di Geologia. Università Napoli. 15. De Ferma Baldassarre, Prof, incar. di Biologia generale. Università Napoli. 16. De Lorenzo Giuseppe, Prof. Emerito di Geologia. Università Napoli. 17. De'll\ Ragione Gennaro, Prof, di Scienze nei Licei. Napoli. 18. De Rosa Antonio, Dott. in Medicina, Assistente volontario nell’Istituto di An¬ tropologia. Università Napoli. 19. Dohrn Rinaldo, Direttore della Stazione Zoologica. Napoli. 20. Giordani Francesco, Prof. Ord. di Chimica. Università Napoli. 21. Goggio Empedocle, Prof, di Scienze nel Collegio Militare e incaricato di Zoo¬ logia veterinaria nell’Università Napoli. 22. Imbò Giuseppe, Prof. Ord. di Fisica terrestre e Direttore deirOsservatorio Ve¬ suviano, Università Napoli. 29. Ippolito Felice, Prof, incaricato di Geologia applicata. Università Napoli. 24. Lacquaniti Luigi, Assistente di Geografia nell’Istituto Universitario Orientale. Napoli. 35. La Greca Marcello, Lib. Doc. di Zoologia. Università Napoli. 26. Lazzari Antonio, Dott. in Scienze Naturali, Geologo del C. N. R. Napoli. — 195 — 27. Lóngo Biagio, Prof. Emerito di Botanica. Università NapolL 28. Lucchese Elio, Lib. Doc. di Entomologia Agraria. Portici. 29. Majo Ester, Lib. Doc. di Geografia fisica Università. Napoli. 30. Majo Ida, Dott. in Scienze Naturali. 31. Malquori Giovanni, Prof. Ord. di Chimica industriale. Università Napoli, 32. Mazzarelli Gustavo, Lib. Doc. di Geografia Fisica. Università Napoli. 33. Mìrigliano Giuseppe, Lib. Doc. di Paleontologia. Università Napoli. 34. Moncharmont Ugo, Dott. in Scienze Naturali, Assistente nell’Istituto di Ana¬ tomia Comparata. Università Napoli. 35. Moncharmont-Zei Maria, Dott. in Scienze, Assistente nell’Istituto di Geolo¬ gia. Università Napoli. 36. Montalenti Giuseppe, Prof. Ord. di Genetica. Università Napoli. 37. Monroy Alberto, Capo reparto Stazione Zoologica Napoli. 38. Napoletano Aldo, Meteorologo delUAreonautica. 39. Orrù Antonietta, Prof. Ord. di Fisiologia generale. Università Napoli. 40. Palombi Arturo, Prof, incar. di Zoologia igen., ed Agraria. Università Napoli. 41. Pannain Ernesto, Lib. Doc. di Chimica. Università Napoli. 42. Pannain Lea, Prof, di Scienze nei Licei. Napoli. 43. Parascandola Antonio, Prof, incar. di Petrografia. Università Napoli. 44. Parenzan Pietro, Lib, Doc. di Idrobiologia. Università Napoli. 45. Parisi Rosa, Prof, incar. di Fisiologia vegetale. Università Napoli. 46. Patroni Carilo, Prof, di Scienze nei Licei. Napoli. 47. Pierantoni Umberto, Accademico Pontificio, Prof. Ord. Università Napoli. 48. Platania Giovanni, Lib. Doc. di Fisica terrestre. Università Napoli., 49. Quagliarcelo Gaetano, Prof. Ord. di Chimica Biologica. Università Napoli, 50 Salfi Mario, Prof. Ord. di Zoologia Università Napoli. 51. Salvi Pasquale, Dott. in Medicina e Chirurgia. Napoli. 52. Sarà Michele, Dott., in Scienze Naturali. 53. Scherillo Antonio, Prof. Ord. di Mineralogia. Università Napoli. 54. Signore Francesco, Lib. Doc. di Vulcanologia. Università Napoli. 55. Silvestri Filippo, Accademico Pontificio, Prof. Emerito Università Napoli. 56. Tarsia in Curia Isabella, Prof, di Scienze nei Licei. 57. Torelli Beatrice, Lib., Doc. di Zoologia. Università Napoli. 58. Trotter Alessandro, Prof. Ord. di Patologia Vegetale. (Università Ist. Agrario 59. V iggiani Gioacchino, Lib. Doc. in Ecologia Agraria. Università Napoli. SOCI ORDINARI NON RESIDENTI 1. Bonanno Giuseppe, Prof, di Scienze Naturali. Brindisi. 2. Bruno Alessandro. Ispe’.tore Centrale al Ministero della Pubblica Istruzione. Roma. 3. Candi rà Giuseppe, Lib. Doc. di Entomologia Agraria, Direttore dell’Osserva¬ torio Fitopatologico. Bolzano. 4. Cerreti Attilio, Direttore dell’Istituto Talassografico. Taranto. 5. Costantino Giorgio. Direttore delPOsservatorio Regionale di Fitopatologia per la Calabria. Catanzaro. 6. D’Ancona Umberto, Prof. Ord. di Zoologia. Università Padova. 7. Fe'nizia Gennaro, Prof, di Scienze Naturali. Vescovo di Cava dei Tirreni e Sarno. 8. Giordani Mario, Prof. Ord. di Chimica. Università Roma. 9. Jovene Francesco, Prof, di Scienze Naturali. Ischia. 10. Jucci Carlo, Prof. Ord. di Zoologia. Università Pavia, IL Longo Luigi, Chimico dell’Istituto di Patologia del Libro. Roma. 12. iMiraglia Luigi, Prof, di Scienze Naturali nei Licei. Piombino. 13. Pasquini Pasquale, Prof. Ord. di Anatomia Comparata. Università Bologna. 14. Penta Francesco, Prof, di Giacimenti Minerari. Università Roma. 15. Ranzi Silvio, Prof. Ord, di Zoologia. Università Milano. 16. Reverberi Giuseppe, Prof, di Zoologia. Università Palermo. 17. Rodio Gaetano. Prof. Ord. di Botanica. Università Catania. 18. Ruffo Sandro, Dott. in Scienze, Assistente presso il Museo Civico di Storia Naturale Verona, 19. Sorrentino Stefano. Prof, di Scienze Naturali. Garbagnate Milano. 20. Zavattari Edoardo. Prof. Ord. di Zoologia. Università Roma. Prof. Umberto Pierantoni (Università, Napoli) Redattore responsabile ai termini di legge S 160 4 / I