BOLLETTINO DEL R, COMITATO GEOLOGICO D’ITALIA. 1890. Anno XXI. /6órV 1890. — Anno XXI. BOLLETTINO DEL K. COMITATO GEOLOGICO D’ITALIA. Volume Ventunesimo (1° della 3a Serie) N. 1 a 12 ROMA TIPOGRAFIA NAZIONALE 1890. INDICE DELLE MATERIE CONTENUTE NEL BOLLETTINO DEL 1890. (Volume ventunesimo o primo della 3a serie) Introduzione . Pag. MEMORIE ORIGINALI. S. Franchi. — Anomalie della declinazione magnetica in rapporto con grandi masse di serpentine (con una tavola) . . » B. Lotti. — Ulteriori notizie sul giacimento cuprifero di Montecastelli in pro- vincia di Pisa . . . » H. J. Johnston-Lacis. — Osservazioni geologiche lungo il tracciato del grande emissario-fognone di Napoli dalla Pietra sino a Pozzuoli .... » E. Clerici. — La pietra di Subiaco in provincia di Roma e suo confronto col travertino. » Idem. — • Fossili dei terreni quaternari alle falde dei Gìanicolo in Roma. » Fr. Maugini. — Sull’allumogene del Viterbese ....... . » — Sulla tettonica del calcare metallifero nell’ Iglesiente (Sardegna) in ri- scontro ad osservazioni dell’ing. Marchese (con una tavola) . . . » B. Lotti . — Sui dintorni di S. Giminiano in Val d’ Elsa (Toscana) . . » F. Sacco. — Geologia applicata del bacino terziario e quaternario del Pie- monte (con una tavola) » E. Fabrini. — I Machairodus (Meganthereon) del Valdarno superiore (con- tinua) . . » Idem. — Idem {continua zio ne e fine) (con tre tavole) . » G. Ristori. — Le scimmie fossili italiane, studio paleontologico ( continua ) » B. Lotti . Sul giacimento cuprifero di Montatone in Val d’ Elsa (provincia di Firenze) » D. Corazzi. — La breccia ossifera del Monte Rocchetta (Golfo della Spezia)» G. Ristori. Le scimmie fossili italiane, studio paleontologico {continuazione e fi ne) (con due tavole) » R. V. Matteucci. — La regione trachitica di Roccastrada (Maremma To- scana) 1 10 15 18 27 34 36 73 80 85 121 161 178 197 199 225 237 VI E. Cortese. — Le acque sorgive nelle alte vallate dei fiumi Seie, Calore e Sabato Pag. 299 L. Mazzuoli. — Le argille scagliose nella Galleria di Pratolino presso Fi- renze (con una tavola) » 321 F. Sacco. — Il bacino quaternario del Piemonte (con carta geologica) . » 329 H. Rosenbusch. — Sulla interpretazione del terreno primitivo (traduzione del- l’infNv. NÒVarese) » 394 A. Issel. — Della formazione lehrzolitica di. Baldissero nel Canavese . » 433 G. B. Cacciamali. — feopra un affioramento di schisto bituminoso a Santo- padre, in provincia di Caserta » 436 A. Tellini. — Osservazioni geologiche sulle Isole Tremiti e sull’ Isola Pia- nosa nell’Adriatico » 442 ESTRATTI E RIVISTE. C. Schmidt. — Osservazioni sulla geologia delle Alpi svizzere (Dalla mono- grafìa Zur Geologie der Schweizer Alpen. Basel 1889) » 40 T. G. Donnei/ . — Gli scisti cristallini nelle Alpi Lepontine e loro rapporti colle roccie mesozoiche (Dai Prooceedings of thè Geological Society of London, 22 January 1890) » 56 H. J. Johnston-Lavis. — ■ Osservazioni geologiche sulle isole Ventotene e Santo Stefano (gruppo delle Isole Ponza) (Dal GeologicalMagazineì Decem- ber 1889) » 60 Axel Blytt . — Il computo del tempo in geologia (Dalle Geologisha Fòrenin- , gens i Stockolm Fórhandlingar, n. 127. 1890) » 144 NOTIZIE BIBLIOGRAFICHE. Bibliografìa geologica italiana per l’anno 1889 Idem .... Idem .... ( continuazione ) . Idem .... Idem .... ( continuazione ) . Idem .... Idem .... ( continuaz . e fine) . NOTIZIE DIVERSE. Calamine presso Massa Marittima in Toscana Nuove osservazioni geologiche in Napoli e suoi dintorni . . . . Un lago di borace La superfìcie della Calabria . La Hyaena striata nel terziario del Valdarno Origine dei grandi laghi americani . La geologia delle Nuove Ebridi Nuova isola vulcanica nel Pacifico » 203 * 309 » 409 » 515 » 65 » ivi » 68 > 150 » 151 » 153 ». 154 » 156 VII I campi auriferi dell’Africa meridionale . Eruzione di fango nell’Asia Minore . . Scoperta di fosfati nella Florida . I giacimenti di petrolio nell’India II Devoniano in Calabria Cenno necrologico. — Orazio Silvestri TAVOLE ED INCISIONI. Abbozzo di carta dimostrante la posizione delle masse serpentinose tra Viù ed Almese nelle Alpi Graje (Tav. I.) » 14 Sezione attraverso la Solfatara nei Campi Flegrei presso Napoli ...» 21 Sezioni geologiche nell’Iglesiente (Tav. II.) » 78 Carta del bacino terziario del Piemonte con indicazione di geologia applicata (Tav. III.) ► 120 Resti di Machairodus o Meganthereon del Valdarno superiore (Tav. IV, V e VI.) » 176 Scimmie fossili italiane (Tav. VII e Vili.) » 234 Sezione schematica e sezione geologica delle sorgenti di Caposele. » 304 e 307 Sezioni geologiche della galleria di Pratolino presso Firenze (Tav. IX) . . 328 Carta geologica del bacino quaternario del Piemonte (Tav. X.). ...» 392 Sezione geologica presso Santopadre in provincia di Caserta .... » 438 Abbozzo geologico del gruppo delle Isole Tremiti (Tav. XI.) .... » 514 Variazioni subite da una parte del bacino adriatico dal periodo miocenico all’epoca presente (Tav. XII.). » ivi PARTE UFFICIALE. R. Decreto 29 decembre 1889 col quale il prof. G. Capellini è confermato Pre- sidente del R. Comitato geologico per l’anno 1890 ed i signori G. Scara- belli, A. Cossa, A. Scacchi e G. G. Gemmellaro sono confermati membri di detto Comitato per il triennio 1890-92 » 3 R. Decreto 29 decembre 1889 col quale il dott. Giovanni Di Stefano è nomi- nato paleontologo del R. Corpo delle miniere » 4 Lettera con la quale il Presidente del Comitato trasmette al Ministero di Agri- coltura, Industria e Commercio i verbali delle seduta 11, 12 e 13 giugno 1890 5 Verbali delle adunanze 11, 12 e 13 giugno 1890 6 Relazione annuale dell’Ispettore Capo al R. Comitato Geologico sul lavoro della Carta geologica » 15 Pag. 157 . » 158 . » ivi . » 159 . » 541 . » 544 Lettera con la quale il Presidente del Comitato trasmette al Ministero di Agri- coltura, Industria e Commercio i verbali delle sedute 17, 18 e 19 di- cembre 1890 Pag. 51 Verbali delle adunanze 17, 18 e 19 dicembre 1890 » 52 Regolamento interno del R. Comitato geologico » 57 INDICE DEI FASCICOLI. Gennaio e Febbraio (1 e 2) da pag. 1 a pag. 72 Marzo e Aprile (3 e 4) » 73 » 160 Maggio e Giugno (5 e 6) » 161 > 224 Luglio e Agosto (7 e 8) » 225 » 320 Settembre e Ottobre (9 e 10) » 321 » 432 Novembre e Dicembre (11 e 12) » 433 » 547 *L r — Anno 1850 Voi. XXI della Raccolta N. 1 8 2 Voi. I della .‘la Serie H COMITATO GEOLOGICO D’ITALIA. 1890 Bollettino N.° 1 e 2 Gennaio e Febbraio n| M® y4f \ È ROMA TIPOGRAFIA NAZIONALE 1890. H. BOLLETTINO DEL R, COMITATO GEOLOGICO D’ITALIA. 1890. Anno XXI. 1890. — Anno XXL BOLLETTINO DEL li COMITATO GEOLOGICO D’ITALIA. Volume Ventunesimo (1° della 3a Serie) N. 1 a 12 ■♦mk- ROMA TIPOGRAFIA NAZIONALE 1890. ' .n" INDICE DELLE MATERIE CONTENUTE NEL BOLLETTINO DEL 1890. (Volume ventunesimo o primo della 3a serie) Introduzione . . Pag. MEMORIE ORIGINALI. S. Franchi. — Anomalie della declinazione magnetica in rapporto con grandi masse di serpentine (con una tavola) > B . Lotti. — Ulteriori notizie sul giacimento cuprifero di Montecastelli in pro- vincia di Pisa » H. J. Johnston-Lams. — Osservazioni geologiche lungo il tracciato del grande emissario-fognone di Napoli dalla Pietra sino a Pozzuoli . . . . » E. Clerici. — La pietra di Subiaco in provincia di Roma e suo confronto col travertino » Idem. — Fossili dei terreni quaternari alle falde del Gianicolo in Roma. » Fr. Maugini. — Sull’allumogene del Viterbese » — Sulla tettonica del calcare metallifero nell' Iglesiente (Sardegna) in ri- scontro ad osservazioni dell’ing. Marchese (con una tavola) ...» B . Lotti . — Sui dintorni di S. Giminiano in Val d’ Elsa (Toscana) . . » F. Sacco. — Geologia applicata del bacino terziario e quaternario del Pie- monte (con una tavola) » E. F abrini. — I Machairodus (Meganthereon) del Valdarno superiore ( con- tinua) » Idem. — Idem ( continuazione e fine) (con tre tavole) » G. Ristori. — Le scimmie fossili italiane, studio paleontologico {continua) » B. Lotti. — Sul giacimento cuprifero di Montatone in Val d’ Elsa (provincia di Firenze) » D. Carassi. — La breccia ossifera del Monte Rocchetta (Golfo della Spezia)» G. Ristori. — Le scimmie fossili italiane, studio paleontologico (continuasione ejine) (con due tavole) * R. V. Matteucci. — La regione trachitica di Roccastrada (Maremma To- scana) » 1 10 15 18 27 34 36 73 80 85 121 161 178 197 199 225 237 VI E. Cortese . — Le acque sorgive nelle alte vallate dei fiumi Seie, Calore e Sabato 299 L. Mazzuoli . — Le argille scagliose nella Galleria di Pratolino presso Fi- renze (con una tavola) » 3*21 F. Sacco. — Il bacino quaternario del Piemonte (con carta geologica) . » 329 H. Rosenbusch. — Sulla interpretazione del terreno primitivo (traduzione del- rinf^V. NòVarese) » 394 A. Issel. — Della formazione lehrzolitica di. Baldissero nel Canavese . » 433 >:,■ tè ÌQ,i '■* t r • G. B. Cacciamali. — Sopra un affioramento di schisto bituminoso a Santo- padre, in provincia di Caserta » 436 A. Tellini. — Osservazioni geologiche sulle Isole Tremiti e sull’ Isola Pia- nosa nell’Adriatico » 442 ESTRATTI E RIVISTE. C. Schmidt. — Osservazioni sulla geologia delle Alpi svizzere (Dalla mono- grafìa Zur Geologie der Schweizer Alpen. Basel 1889) » 40 T. G. Bonney. — Gli scisti cristallini nelle Alpi Lepontine e loro rapporti colle roccie mesozoiche (Dai Prooceedings of thè Geological Society of London , 22 January 1890) » 56 H. J. Johnsto?i-Lavis. — - Osservazioni geologiche sulle isole Ventoterie e Santo Stefano (gruppo delle Isole Ponza) (Dal GeologicalMagazine, Decem- ber 1889) » 60 Axel Blytt. — - Il computo del tempo in geologia (Dalle Geologiska Fórenin- gens i Stockolm Fòrhandlingar, n. 127. 1890) » 144 NOTIZIE BIBLIOGRAFICHE. Bibliografia geologica italiana per l’anno 1889 Idem . . . Idem . . ( continuazione ) . Idem . Idem . . . ( continuazione ) . Idem . . . Idem . . ( continuaz . e fine) NOTIZIE DIVERSE. Calamine presso Massa Marittima in Toscana Nuove osservazioni geologiche in Napoli e suoi dintorni Un lago di borace La superficie della Calabria La Hyaena striata nel terziario del Valdarno . Origine dei grandi laghi americani La geologia delle Nuove Ebridi Nuova isola vulcanica nel Pacifico * 203 » 309 » 409 » 515 » 65 » ivi » 68 > 150 » 151 » 153 » 154 » 156 I campi auriferi dell’Africa meridionale ..... . . . . . Pag. 157 Eruzione di fango nell’Asia Minore » 158 Scoperta di fosfati nella Florida » ivi I giacimenti di petrolio nell’India » 150 II Devoniano in Calabria » 541 Cenno necrologico. — Orazio Silvestri » 544 TAVOLE ED INCISIONI. Abbozzo di carta dimostrante la posizione delle masse serpentinose tra Viù ed Almese nelle Alpi Graje (Tav. I.) » 14 Sezione attraverso la Solfatara nei Campi Flegrei presso Napoli . » 21 Sezioni geologiche nell’Iglesiente (Tav. II.) » 78 Carta del bacino terziario del Piemonte con indicazione di geologia applicata (Tav. III.) ► 120 Resti di Machairodus o Meganthereon del Valdarno superiore (Tav. IV, V e VI.) » 176 Scimmie fossili italiane (Tav. VII e Vili.) » 234 Sezione schematica e sezione geologica delle sorgenti di Caposele. » 304 e 307 Sezioni geologiche della galleria di Pratolino presso Firenze (Tav. IX) . . 328 Carta geologica del bacino quaternario del Piemonte (Tav. X.). ...» 392 Sezione geologica presso Santopadre in provincia di Caserta .... » 438 Abbozzo geologico del gruppo delle Isole Tremiti (Tav. XI.) .... » 514 Variazioni subite da una parte del bacino adriatico dal periodo miocenico all’epoca presente (Tav. XII.) » ivi PARTE UFFICIALE. II. Decreto 29 decembre 1889 col quale il prof. G. Capellini è confermato Pre- sidente del R. Comitato geologico per l’anno 1890 ed i signori G. Scara- belli, A. Cossa, A. Scacchi e G. G. Gemmellaro sono confermati membri di detto Comitato per il triennio 1890-92 » 3 R. Decreto 29 decembre 1889 col quale il dott. Giovanni Di Stefano è nomi- nato paleontologo del R. Corpo delle miniere » 4 Lettera con la quale il Presidente del Comitato trasmette al Ministero di Agri- coltura, Industria e Commercio i verbali delle sedute 11, 12 e 13 giugno 1890 5 Verbali delle adunanze 11, 12 e 13 giugno 1890 » 6 Relazione annuale dell’Ispettore Capo al R. Comitato Geologico sul lavoro della Carta geologica » 15 Lettera con la quale il Presidente del Comitato trasmette al Ministero di Agri- coltura, Industria e Commercio i verbali delle sedute 17, 18 e 19 di- cembre 1890 Pag. 51 Verbali delle adunanze 17, 18 e 19 dicembre 1890 » 52 Regolamento interno del R. Comitato geologico » 57 INDICE DEI FASCICOLI. Gennaio e Febbraio (1 e 2) da pag. 1 a pag. 72 Marzo e Aprile (3 e 4) » 73 » 160 Maggio e Giugno (5 e 6) » 161 » 224 Luglio e Agosto (7 e 8) » 225 » 320 Settembre e Ottobre (9 e 10) » 321 » 432 Novembre e Dicembre (11 e 12) » 433 » 547 Wf- - AIO 1880 • Voi. XXI della Raccolta N. 1 e 2 Voi. 1 della 3a Serie II. COMITATO GEOLOGICO D’ITALIA. 1890 Bollettino N.° 1 e 2 Gennaio e Febbraio & ROMA TIPOGRAFIA NAZIONALE , D. 1890. ELENCO del personale componente il Comitato e l’Ufficio Geologico R. Comitato Geologico. Capellini Giovanni, prof, di geologia nella R.Università di Bologna, Presici. Cocchi Igino, prof, di geologia, a Firenze. Cossa Alfonso, prof, di chimica nella R. Scuola di applicazione per gli ingegneri in Torino. De Zigno Achille, membro del R. Istituto Veneto, a Padova. Gemmellako Gaetano Giorgio, prof, di geologia, R. Università di Palermo. Omboni Giovanni, prof, di geologia nella R. Università di Padova. Scacchi Arcangelo, prof, di mineralogia nella R. Università di Napoli. Scarabellt Giuseppe, senatore del Regno, a Imola. Silvestri Orazio, prof, di geologia nella R. Università di Catania. Stoppani Antonio, professore di geologia nel R. Istituto tecnico supe- riore di Milano. Struver Giovanni, prof, di mineralogia nella R. Università di Roma. Taramelli Torquato, prof, di geologia nella R. Università di Pavia. Il Direttore del R. Istituto geografico militare in Firenze. Giordano Felice, ispettore-capo del R. Corpo delle Miniere, a Roma. Pellati Niccolò, ispettore nel R. Corpo delle Miniere, a Roma. Personale addetto ai lavori della Carta Geologica. Direzione superiore : Ing. Giordano Felice, Direttore. Ing. Pellati Niccolò. Ufficio Geologico : Ing. Zezi Pietro, Capo d’ufficio e Segretario del Comitato. Ing. Sormani Claudio. Ing. Aichino Giovanni. Sig. Lusvergh Cesare, aiutante. Geologi operatori : , Ing. Baldacci Luigi. Ing. Lotti Bernardino. Ing. Cortese Emilio. Ing. Zagcagna Domenico. Ing. Mattirolo Ettore. Ing. Viola Carlo. Ing. Novarese Vittorio. Ing. Sabatini Venturino. Ing. Franchi Secondo. Ing. Mezzena Elvino. Sig. Fossen Pietro, aiutante. Sig. Cassetti Michele, aiutante. Sig. Moderni Pompeo, aiutante. La sede dell’Ufficio geologico è in Roma nel Museo agrario-geologico, via Santa Susanna, n. 1-A. BOLLETTINO DEL R. COMITATO GEOLOGICO D’ ITALIA. Serie III. Voi. I. Gennaio e Febbraio 1890. N. 1 e 2. SOMMARIO. Introduzione. Memorie originali. — I. Anomalie della declinazione magnetica in rapporto con grandi masse serpentinose ; osservazioni dell’ Ing. S. FRANCHI (con una tavola). — II. Ulteriori notizie sul giacimento cuprifero di Montecastelli in provincia di Pisa ; nota dell’ Ing. B. Lotti. — III. Osservazioni geologiche lungo il tracciato del grande emissario-fognone di Napoli dalla Pietra sino a Pozzuoli, del Dott. H. J. Johnston La vis. — IV. La pietra di Subiaco in provincia di Roma e suo confronto col travertino ; nota dell’ Ing. E. CLERICI. — Y. Fos- sili dei terreni quaternari alle falde del Gianicolo in Roma ; nota dell’ Ing. E. Cl rici. — VI. Sull’allumogene del Viterbese ; nota del Prof. F. Maugini. Estratti e Riviste. — Osservazioni sulla geologia delle Alpi svizzere, del Dott. C. Schmidt. — Gli scisti cristallini nelle Alpi Lepontine e loro rapporti colle roccie mesozoiche del Prof. T. G. Bonney. — Osservazioni geologiche sulle isole Ventotene e Santo Stefano (gruppo delle Isole Ponza), del Dott. H. J. Johnston-Lavis. Notizie diverse. — Calamine presso Massa Marittima in Toscana. — Nuove osser- vazioni geologiche in Napoli e suoi dintorni. — Un lago di borace. Tavole ed incisioni. — Tav. I : Abbozzo di carta dimostrante la posizione delle masse serpentinose tra Viù ed Almese nelle Alpi Graje a pagina 14. — Se- zione attraverso la solfatara nei Campi Flegrei presso Napoli, a pag. 21. Avviso di pubblicazione della Carta geologica d’ Italia. Parte ufficiale. — R. Decreto 29 dicembre 1889 col quale il Prof. G. Capellini è confermato Presidente del R. Comitato geologico per 1’ anno 1890 ed i signori G. Scarabelli, A. Cessa, A. Scacchi e G. G. Gemmellaro, sono confermati mem- bri di detto Comitato per il triennio 1890-92. — R. Decreto 29 dicembre 1889 col quale il Dott. Giovanni Di Stefano è nominato paleontologo del R. Corpo delle Miniere. Diamo un breve cenno sui lavori eseguiti per la Carta geologica d’Italia nel decorso anno 1889. In generale i lavori di rilevamento hanno proseguito secondo il piano prestabilito per le cinque Sezioni nelle quali era diviso il personale operante, cioè : le Alpi Occi- dentali, centro a Torino; il territorio toscano, centro a Pisa; l’Italia centrale, centro a Poma; le provinole meridionali oltre Salerno, centro Salerno e la Calabria con centro a Catanzaro. Nella prima di dette Sezioni fu avanzato il lavoro, già l — 2 — precedentemente bene avviato, nelle Alpi Graje, Cozie e Ma- rittime; si eseguì anche un’ assai importante ricognizione in alcune località di esse Alpi insieme con geologi francesi inca- ricati della Carta geologica di Francia, coi quali eravamo in dissenso circa la classificazione dei terreni antichi: il ri- sultato di tale ricognizione confermò le idee dei nostri ope- ratori. Nello stesso tempo i nostri rilevatori compierono una grande sezione attraverso le Alpi Occidentali da Cumiana (pianura piemontese) a Moutiers in Savoia, nella quale viene quasi riassunta la geologia delle suddette Alpi; tale sezione sarà in seguito pubblicata nel Bollettino. Alla fin d’ anno il lavoro della Sezione di Torino continuava nelle Alpi Marit- time, dove la mitezza del clima permette profìcuo lavoro an- che d’ inverno. In Toscana (Sezione di Pisa), oltre al proseguimento di speciali rilievi e profili nelle Alpi Apuane, venivano prose- guiti i rilevamenti a Sud della Val di Cecina procedendo verso il confine romano e nella regione fra Firenze e Siena. Interessanti osservazioni vennero fatte nella Catena Me- tallifera e in particolar modo nel gruppo di Massa Marittima, dove esistono avanzi di antiche lavorazioni minerarie ora abbandonate : qualche studio fu pure fatto sui giacimenti cinabriferi del Monte Amiata. In complesso 1’ area rilevata nel 1889 da questa Sezione (oramai ridotta al solo Ing. Lotti) fu di oltre 1000 chilometri quadrati. La Sezione che ha per centro Roma estese i suoi rile- vamenti nelle provincie di Avellino, di Benevento, di Foggia, di Chieti e di Teramo, nonché nella regione al Nord del — 3 — Lago di Bolsena verso il confine toscano. Nell’ Appennino abbruzzese fu completato il gruppo della Majella e si rile- varono i monti di Penne, prolungamento della catena del Gran Sasso, già da tempo rilevata nella sua parte centrale. La superfìcie totale rilevata da questa Sezione fu di oltre 5000 chilometri quadrati, molti dei quali però in regioni assai facili, come ad esempio nel Tavoliere di Puglia. Nel Salernitano e in Basilicata il rilevamento sotto la direzione dell’ Ing. Baldacci fu spinto nella zona tirrena sino oltre Lagonegro verso il confine con la Calabria e nell’ in- terno sino oltre Potenza e per buon tratto della regione montuosa sulla destra del Basento. In totale si ebbero circa chilometri quadrati 5500 di nuovo rilevamento. In Calabria il personale operante della squadra di cui era capo Y Ing. Cortese riducevasi per diversi incidenti quasi a questo solo : tuttavia le numerose ricognizioni già fattevi negli anni precedenti hanno permesso di completare il rile- vamento geologico di una estesa zona, comprendente fra le altre quasi tutta la regione della Sila. La superfìcie rilevata nel 1889 si estende per oltre 3700 chilometri quadrati, non restandone che 2700 circa per completare la Calabria. Anche il lavoro della Carta geognostico-idrografìca della vallata del Po ebbe qualche incremento nello scorso anno, per il che possono dirsi oramai completate le pianure del Piemonte, dell’Emilia e di parte della Lombardia : esso do- vrebbe ora proseguirsi verso Est sino a raggiungere restre- mo confine dell’ Isonzo. Accenneremo infine anche a diversi studii di pratica applicazione eseguiti da alcuni dei geologi dell’ Ufficio e in — 4 — particolare a quello relativo alla vecchia quistione delle acque sotterranee nel Tavoliere di Puglia. In quanto a pubblicazioni abbiamo, oltre a quella re- golare del Bollettino bimensile, arrivato oramai al suo 21° anno di vita, quella di una nuova edizione riveduta della Carta geologica generale d’ Italia in scala di 1 per 1 000 000, di- visa in due fogli. Si è poi preparata per la pubblicazione nel prossimo anno la Carta della parte centrale delle Alpi Apuane, nella scala di 1 a 25 000, con annesse tavole di se- zioni, non che la parte centrale della regione marmifera del Carrarese nella grande scala di 1 a 2 000. Circa ai locali dell’ Ufficio geologico, venne completato il laboratorio chimico-petrografìco e quello paleontologico, ambedue forniti degli apparecchi più essenziali. Ebbero pure notevole incremento le collezioni e la bi- blioteca, sia per materiali raccolti nel corso dei rilevamenti, sia per doni ed acquisti diversi. Per ciò che riguarda il personale del Comitato geolo- gico havvi anzitutto da segnalare la grave perdita avvenuta alla fine del gennaio per la morte del Prof. Giuseppe Mene- ghini, da circa 10 anni, presidente del Comitato stesso e uno dei membri di esso più competenti, particolarmente per la pa- leontologia. A sostituirlo nella presidenza venne chiamato con R. Decreto del 21 febbraio 1889 il Prof. Giovanni Capellini, e con altro Decreto 28 stesso mese veniva nominato membro del Comitato il Prof, Giovanni Omboni della R, Università di Padova. Essendosi poi ritirato il paleontologo del Comitato Dofct. Mario Canavarq chiamato a sostituire il Meneghini al- — 5 — 1’ Università di Pisa, venne con R. Decreto del 29 dicem- bre 1889 nominato a suo posto il Dottor Giovanni Di-Stefano già addetto al Museo geologico dell’ Università di Palermo. Nel corso dell’ anno venne poi alquanto modificata l’ orga- nizzazione del personale dei geologi nelle varie Sezioni, in modo da dar loro campo di riunirsi più frequentemente nel- P Ufficio centrale, a vantaggio della miglior direzione ed unità nel servizio. Aggiungiamo ora, come al solito, l’elenco delle tavolette della Carta d’ Italia che trova vansi rilevate geologicamente alla fine del 1889. Tavolette della Carta generale d’ Italia che trovavansi per INTERO RILEVATE GEOLOGICAMENTE ALLA FINE DEL 1889. NE?. — Si indicano con carattere maiuscolo il nome dei fogli, col rotondo ordinario quello delle tavolette alla scala di 1 per 50 000 e con carattere corsivo quello delle tavolette alla scala di 1 per 25 000. Foglio N. 81 Varese {Tradate). » 34 Breno (Lago d’ Iseo). » 42 Ivrea {Ivrea, Strambino , Castellamonte , Vistrorio). » 43 Biella {Gattinara, Carpignano, Roasenda; Arboro, Viilata , S. Germano , Buronzo ; Salussola, Santhià , Borgomasino, Azeglio ; Cossato , Biella). » 44 Novara {Busto Arsizio , Parabiago; Magenta, Abbiategrasso, Cerano ; Novara, Vespolate, Borgo Vercelli, Biandrate; Bellinzago Novarese, Momo, Suno). » 47 Brescia (. Rovato , Iseo). » 54 Oulx (Oulx; Bardonecchia). » 55 Susa {Almese, Giaveno, Coazze, Condove). » 56 Torino {Caluso, Chivasso, Volpiamo, Rivarolo ; Buttigliera , Chieri, Gassino ; Venaria Reale, Torino, Rivoli, Pia- nezza; Barbania, Cirie ). Foglio N. 57 Vercelli ( Vercelli , Balzola, Trino, Ronsecco ; Livorno Pie- montese, Gres centino, Saluggia, Cigliano). » 58 Mortara ( Vigevano , Garlasco , 8. Giorgio Lomellina; 8. N azzar o dei Burgondi, Casei Gerola, Pieve del Cairo , Mede ; Sartirana di Lomellina, Valenza , Occimiano, Ti- cineto ; Robbio, Candia Lomellina, Stroppiana, Palestro). — Completo. » 67 Pinerolo (Cavour, Monviso). » 68 Carmagnola ( Poirino , Pralormo, Carmagnola, Cambiano; Monteu Roero, Bra, Sanfrè, Sommariva Bosco ; Racco- nci, Cavallermaggiore, Villanova Solaro, Villafranca ; Vinovo, Carignano, Vigone, None). — Completo. » 72 Fiorenzuola ( Fiorenzuola , Castellar guato, Carpaneto, 8. Giorgio Piacentino ; Podenzano). » 73 Parma (Parma, Montecchio Emilia, Sala Baganza, S. Pan- crazio Parmense ; Noceto ; Fontanellato, Borgo S. Donnino). » 74 Reggio nell’ Emilia (. Reggio neU Emilia, Cavriago). » 79 Dronero (Sampeyre). x> 80 Cuneo ( Cherasco , Bene Vagienna, Fossano, Marene ;• Villa- nova, Morozzo; Castelletto Stura, Beinette, Tarantasca ; Savigliano, Centallo). » 86 Modena ( Modena , Formigine, Rubiera). » 87 Bologna (Borgo Panigaie ; Monteveglio; Bazzane, Spilam- berto). » 91 Boves (Frabosa Soprana; Ormea; Boves). » 92 Albenga (Garessio). » 95 Spezia ( Vezzano , Lerici, Portovenere, Spezia). » 96 Massa ( Castelnuovo di Garfagnana, Gallicano, Monte Al- tissimo, Vagli di Sotto ; Monte Sagro, Massa, Ameglia ; Sarzana). » 97 San Marcello Pistoiese ( Pracchia , S. Marcello Pistoiese; Boscolungo , Bagni di Lucca, Barga, Fosciandora). » 104 Pisa (Pescaglia, Massarosa , Viareggio, Pietrasanta ; Vec- chiano, Pisa, S. Rossore , Torre del Lago; Forte dei Marmi). — Completo. » 105 Lucca (Pistoia, Serravalle Pistoiese, Buggiano, Marliana ; Lamporecchio, S. Miniato, Fucecchio, Padule di Fucec- chio ; Altop ascio, Vicopisano , Cascina, Monte Serra; Vii - labasilica, Pescia, Lucca , Borgo a Mozzano). — Completo. Foglio N. 106 Firenze (Firenze; Campi Bisenzio, la Romola, Montelupo, Carmignanó). » Ili Livorno ( Guasticce , Salviano , Livorno , Tombolo ; Monte- nero). — Completo. » 112 Volterra ( Castelnnovo , Montatine, Pecctili , Palaia; Vol- terra; Rosignano Marittimo; Pontedera , Lari, Fauglia, Colle Salvetti). — Completo. » 126 Isola d’Elba. — Completo. (L’ Isola d’Elba fu pubblicata alle scale di 1 per 50000 e di 1 per 25 000). » 135 Orbetello (Monte Argentario). » 136 Toscanella (Valentano, Toscanella). » 139 Aquila degli Abruzzi (Aquila degli Abruzzi ; Antrodoco). » 140 Teramo (Gran Sasso d’Italia, Penne). » 141 Civitavecchia (Corneto Tarquinia; Tolfa, S. Marinella, Torre Marangone, Civitavecchia ; Torre di Montalto). — Completo. (Pubblicato alla scala di 1 per 100 000). » 143 Bracciano (Ronciglione ; Campagnano di Poma, Fornello, Santa Maria di Galera , Anguillara ; Bracciano, Castel Giuliano, Santa Severa , Bagni di Stigliano ; Vetralla). — Completo. (Pubblicato alla scala di 1 per ICO 000). » 144 Palomba ra Sabina (Fara in Sabina; Or vinti, Vicovaro, P 247 Badolato (Stilo ; Badolato). — Completo. » 254 Messina (Bagnara Calabra ; S. Lorenzo ; Reggio di Ca- labria; Messina). — Completo. » 255 Gerace (Gerace; Bianco; Ardore). — Completo. » 263 Bova (Bova; Capo dell’ Armi). — Completo. » 264 Staiti. — Completo. Completamente rilevata e 100 000 nei seguenti fogli : N. 243. (Trapani) N. 249. » 251. (Cefalù) » 252. » 254. (Messina) » 256. » 253. (Corleone) » 259. » 261. (Pronte) » 262. o) » 266. (Sciacca) » 267. » 269. (Paternò) » 270. » 272. (Terranova) » 273. » 275. ( Scoglitti) » 276. ISOLA DI SICILIA. — scala di 1 N. 244. (Isole Eolie) » 250. (Bagiiekia) » 253. (Castroreale) » 257. (Castelvetrano) » 260. (Nicosia) » 265. (Mazzara del Vali * 268. (Caltanissetta) » 271. (Girgenti) » 274. (Siracusa) » 277. (Noto). NB. — Nou sono ancora state rilevate le Isole Pelagie (Pantelleria, Lam- pedusa, Linosa e Lampione), dipendenti dilla Sicilia. pubblicata alla , (Palermo) (Naso) (Isole Egadi) (Termini Imer.) (Monte Etna) , (Canicatti) (Catania) (Caltagirone) (Modica) — 10 — MEMORIE ORIGINALI I. Anomalie della declinazione magnetica in rapporto con grandi masse serpentinose ; osservazioni dell’Ing. S. Flanchl (con una tavola). Dalle misure di declinazione magnetica fatte dal Prof. Ciro Chistoni negli anni 1885 e 1886, si rilevano fra altri minori, due salti notevoli nei valori di essa, essendo 12° 47' a Sestri Levante e 13° 55' ad Aren- zano, 12° 40' a Moncalieri e 13° 38' a Lucento ( Annali dell’ Ufficio centrale di Meteorologia italiana , anno 1884, p. 135, e anno 1885, p. 95). Di queste anomalie non si è dato finora una spiegazione; solo il Taramelli emise l’idea che « possano essere in rapporto o colla forte discordanza delle formazioni presso dette località , oppure colla vici- nanza delle serpentine sviluppatissime a ponente di Arenzano e cer- tamente esistenti sotto la coltre dei terreni eocenici e miocenici dei colli di Torino (Atti Acc. dei Lincei, seduta 9 gennaio 1887). Lavorando io nello scorso giugno al rilevamento geologico della regione tra Almese e Viù nelle Alpi Graje, e predisposto ad ammettere che l’abbondanza del ferro magnetico nelle serpentine potesse rendere molto verosimile la seconda ipotesi del Taramelli *, non credetti uscire dalle mie attribuzioni, verificando in quella regione, veramente adatta, 1 Brongniart e Haùy conoscevano resistenza del ferro magnetico nelle ser- pentine, e il Savi ( Nuovo giornale dei letterati. — Anno 1838-39) parla già di serpentine magnetiche e di serpentine polarizzate. Il Gabinetto di mineralogia della R. Scuola d’ applicazione per gli Ingegneri di Tonno, possiede campioni di ser- pentine polari-magnetiche fra cui notevoli son quelle di Borzonasca. Molti campioni di serpentine delle Prealpi torinesi si mostrarono magnetici, così pure alcuni campioni di anfiboliti, specialmente le varietà granatifere. l’influenza delle serpentine sui valori della declinazione magnetica. Nè mi sgomentò la mancanza di uno di quelli strumenti perfezionati che servono ai fisici per tali misure, persuaso che, se le anomalie suddette eransi verificate stando ad una certa distanza dalle masse serpentinose, portandomi a ridosso di esse ed in punti ben scelti, avrei dovuto.avere anomalie ben più forti, e tali da essere avvertite da una bussola ordi- naria. Un squadro graduato con bussola e cannocchiale che trovai nel gabinetto di topografia della R. Scuola di applicazione per gli Ingegneri in Torino, e che il Prof. Iadanza mise gentilmente a mia disposizione, parvemi soddisfare discretamente alle esigenze del problema che volevo risolvere. Le mie poche misure furono eseguite tutte nello scorso giugno in una stretta zona estesa meno di tre primi in longitudine e di nove primi in latitudine, tra S. Ambrogio e Viù (vedi Tav. I). La regione risponde bene allo scopo prefissomi, per le grandi masse serpenti- nose che vi si riscontrano, quali sono quelle della Sagra di S. Michele, quella di Rocca della Sella, di M. Arpon, di M. Sapei e quella enorme del Civrari, di forma lenticolare lunga oltre sette e grossa oltre tre chilometri. Separate da queste da una zona di anfiboliti, calcescisti e micascisti, trovansi ad Est altre serpentine il cui limite è quasi una li- nea retta congiungente Rubiana col Monte Calcante a N.E di Viù. Queste in zona più o meno estese passano poi alle lherzoliti talvolta in parte serpentinizzate dei monti Curto, Arpone, Colombano e Bella- comba. Alcune stazioni furono fatte su punti trigonometrici, e dagli azimut, (calcolati a mezzo delle coordinate geografiche) delle visuali dirette ad altri punti trigonometrici potei facilmente dedurre i valori della declina- zione magnetica. Per due punti scelti a ridosso del Civrari, ove prevedevo dovesse esservi il maggior salto, gli azimut delle visuali furono dedotti risol- vendo il problema di Potenot. Le letture fatte ai due poli dell’ago su un cerchio diviso in gradi colla stima di 10', risultavano talvolta discordanti di 30', causa ad un errore di centramento dell’ ago. Perciò le cifre che sto per dare non saranno approssimate che di 15' per le stazioni su punti trigonometrici e di 30' per le altre. — 12 — Stazione al punto trigonometrico Torre del Colle (Almese). Collimando su S. Mauro — Azimut colcolato . 69’ 07' da N verso E Lettura al polo Sud 101° 05' Declinazione — • 7r — 170° 12' = 9° 48', Collimando su Almese — Azimut calcolato . 54° 04' da N verso E Lettura al polo Sud 116° 15' Declinazione — % — 170° 19' = 9° 41'. Collimando sulla Sagra di S. Michele: Azimut calcolato . 66° 56' da N verso E Lettura al polo Nord 103° 06' Declinazione — n — 170° 02' = 9° 58'. Declinazione (media) a Torre del Colle . . 9° 49' Ovest. Stazione ai piedi del campanile di Almese. Collimando su Torre del Colle : Azimut calcolato 54° 04' da N verso E Lettura al polo Nord 112° 20' Declinazione = re — 166° 24' = 13° 36'. Declinazione ad Almese 13° 36' Ovest. Stazione alla Madonna dell’ Annunziata presso Rubiana (Almese). Collimando su Monte Pela — Azimut calcolato in base a quello della geodetica M. Pelà- Col S. Giovanni 165° 24' da N verso E Lettura al polo Nord 0° 20' Declinazione = tz — 165° 44' = 14° 16'. Declinazione alPAnnunziata 14° 16' Ovest. Stazione al punto trigonometrico Monte Pelà (Viu Sud-Est). Collimando al Campanile di Col S. Giovanni : Azimut calcolato 5° 39' da N verso E Lettura al polo Sud 161° 15' Declinazione = tz — 166° 54' = 13° 06' Collimando al punto A — Azimut calcolato. 148° 56' da N verso E Lettura al polo Nord 17° 55' Declinazione =. tz — 166° 51' = 13° 09'. Declinazione (media) a Monte Pelà ... 13° 07' 30" Ovest. - 13 — Stazione al punto A (long. M. Mario 5° 06' 22", 7 O. — lat. 45° 12' 18", 6). Collimando ai punti trigonometrici M. Pela, M. Musiné (verso Torino) e M. Colombano, il calcolo diede per azimut della geodetica A — M. Colom- bano 95° 11' da N verso E Lettura al polo Sud puntando su M. Colombano 69° 10' Declinazione = - — 164° 21' == 15° 39'. Declinazione al punto A 15° 39' Ovest. Stazione al punto B (long. M. Mario 5° 06' 26f',8 O. — lat. 45° 12' 06"). Collimando ai punti trigonometrici M. Pela, M. Musiné, M. Colombano e M. Calcante e partendo dalle due terne M. Calcante, M. Colombano, M. Pela, e M. Calcante, M. Colombano, M. Musiné, ottenni rispettivamente per azimut della geodetica B — M. Calcante 27° 11' e 27° 25' Letture al polo Sud 132° 32' e 132° 3 2' Declinazione 20° 17' e 20° 03'. Declinazione (media) al punto A 20° 10' Ovest. Stazione ai piedi del campanile di Viù. L’ Istituto geografico non avendo pubblicate finora le coordinate geografiche del punto Viù, dovetti rilevare gli azimut graficamente; quindi per questa stazione l’approssimazione potrebbe anche essere solo di 1 grado. Collimando su M. Calcante — Azimut . . 17° 10' da N verso E Lettura al polo Sud . 152° 02' Declinazione == 7T — 169° 12' = 10°. 48'. Collimando su M. Colombano — Azimut . . 136° 15' da N verso E Lettura al polo Sud 33° 06' Decimazione = * — 169° 21' == 10° 39'. Collimando su Col S. Giovanni e su Punta Com- banera si hanno perla declinazione i valori. 9° 36' e 8° 51' Declinazione (media) a Viù ...... 9° 58' Ovest. Sul campanile di Col S. Giovanni facendo stazione a due finestre opposte ebbi valori tanto disparati che dovetti persuadermi esservi in- fluenze locali dovute alle armature delle campane, e li annullai. Le poche cifre date sono eloquentissime, e parmi ora che l’azione delle grandi masse serpentinose sui valori della cìeclirazione magnetica nelle regioni circostanti possa considerarsi come fatto accertato. — 14 — Dai valori pubblicati dal Chistoni si può presumere che la de- clinazione della regione suddetta, dovrebbe essere poco lontana dai 13° Ovest. L’ attrazione esercitata dalle serpentine a S.SO di S. Am- brogio, hanno per effetto di avvicinare il polo Sud dell’ago al meridiano di Torre del Colle diminuendo la declinazione. Ad Al mese ci allonta- niamo dalla massa suddetta e siamo presso a poco ad ugual distanza da essa e dalla massa di Rocca della Sella [e di M. Arpon, le azioni contrarie permettono all’ago di tenersi in posizione vicina alla normale della regione piemontese. Alla Madonna dell’Annunziata, le masse di M. Arpon, Rocca della Sella e M. Sapei tenderebbero a far aumentare di molto la declinazione, però quest’azione è temperata dalle masse piccole ma vicine che si estendono da Magò a Brunatto etc., si ha quindi un valore di declinazione poco più forte del normale. A M. Pela accade un fatto analogo: le masse del Civrari, di M. Sapei e M. Arpon ad Ovest e la zona diretta Nord-Sud che passa al Col del Lis, esercitano azioni opposte la cui risultante non è molto grande, ed anche qui la declinazione è prossima alla normale. Ma ai punti A e B, e l’uno poco distante, l’altro sul limite delle ser- pentine del Civrari, la sola massa di questo agisce efficacemente sul- l’ago e si hanno due valori straordinariamente differenti, avuto ri- guardo alla piccola loro distanza. A Viù invece la sola massa del Calcante agisce efficacemente sul polo Nord dell’ ago attraendolo verso Est, epperciò si ha un valore molto inferiore al normale. Naturalmente queste misure di declinaziane avrebbero dovuto essere accompagnate da misure di inclinazione e di intensità magnetica per poter giungere a formulare una legge comunque grossolana del fenomeno. Spero che altri, disponendo di maggior tempo e di migliori mezzi, intraprenderà simil lavoro che non mancherà di riuscire interessante. La regione prealpina compresa tra Piossasco e Lanzo, sarebbe un campo adattissimo e relativamente comodo per tali indagini. 3 oli. del. R. Coiti Cieologico. Anno 1890 Tav L ( S . Franchi ) Abbozzo di Carta dimostrante la posizione delle masse serpentino se tra dii e Alm e se (Alpi Orai e ) Serpentini^. hlurzolitl pai‘7,kiìniP7ijr secpmlinizzalr . Mhmmtìjj calcescisti, anfibolia ,■ terreno morenico & aZhwiojialv. Scala di 1 a 100,000 IXr.BRUNOE SALOMONE , ROMA . ' < a) ■ /£? hipy '‘eh . '■ "O ' •r:y ■ .T8$t.-j;;v::cM àm* -ìos? .a®# .ooS vii-V.- x •*.?•'?* — 15 — IL Ulteriori notizie sul giacimento cuprifero di Montecastelli in provincia di Pisa; nota dell’Ing. B. Lotti. Dissi altra volta 1 che questo giacimento trovavasi racchiuso nella serpentina bastitica, proveniente da lherzòlite 2 ed era costituito da un grosso dicco d’eufotide, in cui il minerale di rame, prevalentemente eru- bescite, compariva disseminato in minute particelle, in vene sottili, in lenti e in noduli. Il filone era allora riconosciuto soltanto nel breve tratto del suo affioramento presso la Grotta Mugnaioli, sulla riva destra del torrente Pavone, e solo per criteri scientifici e pratici poteva in- travedersene la continuazione nell’interno della montagna serpentinosa. I lavori d’esplorazione, cui attendono da cinque anni con una co- stanza senza pari e con notevoli sacrifizi, i proprietari della miniera, signori Finzi e Pimpinelli, hanno messo oggi completamente in evidenza il giacimento stesso che, interessantissimo sempre sotto l’aspetto scien- tifico, mostra ora una certa importanza anche dal lato industriale. II filone d’eufotide è stato riconosciuto metallifero sopra una esten- sione di oltre 700 metri; la sua direzione generale venne definitiva- mente stabilita da O.NO ad E. SE con inclinazione a Nord di circa 45°; il suo spessore varia da 10 a 40 metri. Riaprendo la galleria Isabella, ossia la galleria maestra delle an- tiche lavorazioni, fu incontrato il giacimento proprio nel cuore del monte e, seguito poi in direzione per circa 30 metri colla galleria Ro- dolfo, fu ritrovato cogli stessi caratteri che aveva all’affioramento presso la Grotta Mugnaioli ad una distanza di circa 400 metri; sembra però che colla estremità orientale di questa galleria siasi incontrato il limite orientale del filone, alméno a questo livello. La matrice del minerale, che alla Grotta è formata in massima parte da un’eufotide a grossi elementi e poco o punto alterata, nell’in- terno del monte presentasi sotto vari aspetti. Spesso è una roccia com- 1 B. Lotti, Sul giacimi, cuprif. di Montecastelli (Boll, geol., n. 3 e 4, 1885). 5 L. Busatti, Proc. verb. Soc. tose. se. nat., Marzo 1887. pletamente steaiitosa verde chiara, in forme globulari, più o meno dura e scagliosa; il minerale vi si trova allora in masserelie lenticolari compatte e vi prevale la calcopirite. Talora consiste in una pasta pure steatitosa, grigio-chiara, saponacea ed il minerale, di solito erubescite, vi sta racchiuso in globuli. A luoghi la roccia metallifera si scambie- rebbe colla serpentina lherzolitica incassante; è nera o verde cupa, assai dura, a tessitura compatta omogenea, con numerose litoclasi, lungo le quali si osservano spalmature di pirite e di calcopirite. Essa deve riguardarsi come una serpentina alluminifera proveniente dall’alte- razione di eufotide o di una roccia saussuritica affine. Queste varie forme si associano quasi sempre fra loro e fanno passaggio l’una all’al- tra ed all’eufotide per mezzo di una roccia sau^suritico-serpentinosa di media durezza, che è di solito la più ricca in minerale di rame. Una massa di questa roccia fu incontrata colla galleria Rodolfo e fu esplo- rata a due livelli superiori per l’altezza di 10 metri e con varie tra- verse per lo spessore di quindici. Essa è tutta compenetrata di vene d’erubescite e di calcopirite, e presenta qualche noccioletto di calcosina;’ la sua forma è quella d’un’amigdala irregolare racchiusa nel filone steatitoso e disposta obbliquamente alla direzione di questo. Al disopra del terzo livello restano ancora ad esplorarsi altri 200 metri di gia- cimento. Colle ricerche sotterranee alla Grotta Mugnaioìi, a circa 90 metri dall’ingresso della galleria principale, incontraronsi, rinchiuse in una roccia serpentinosa, nera, compatta, senza bastite, due masse d’ eufo- tide in parte ridotta in steatite, con noduli d’erubescite e poca blenda cuprifera; la serpentina è quella alluminifera, ricordata più sopra, e racchiude vene sottilissime e numerose di calcopirite. Queste lenti metallifere trovansi presso il letto del filone d’eufotide, ma anche nel bel mezzo di esso fu incontrata, a poca distanza, una massa filoniforme di pasta steatitosa dello spessore di metri 1,50, con vene di erubescite grosse fino a tre centimetri, che corrono parallelamente all’incassatura. Colla galleria Vittorio, 13 metri sopra il piano della precedente, fu seguita in direzione, per circa 40 metri, un’altra massa filoniforme stea- titosa che mantiensi di preferenza presso il letto del dicco d’eufotide metallifera, e che presenta quà e là traccie d’erubescite. Alla sua estre- mità orientale la roccia convertesi in una serpentina steatitosa verde - 17 — globulare. Poco più in alto, nel bel mezzo del dicco d’eufotide e per entro ad una sua porzione pastosa, fu scavata una galleria lunga 30 metri, che incontrò vene bellissime d’erubescite compatta. Allo spunto della galleria, la steatite pastosa venne sostituita dall' eufotide che, sebbene inalterata, continuò a presentare pur sempre vene d’erubescite. Anche superiormente fu esplorato il dicco per dodici metri con un traverso-banco, e fu trovato costituito da eufotide inalterata o quasi, con erubescite, calcosina e un po’ di blenda di solito accompagnata da vene di pectolite bianca fìbroso-radiata. 1 Vari altri saggi, puramente superficiali, furono eseguiti lungo l’af- fioramento del filone che mostrossi dovunque più o meno mineraliz- zato. Uno dei saggi più notevoli fu quello del Pianetto, ad una distanza orizzontale di oltre 700 metri dall’affioramento della Grotta e circa 200 metri più in alto. Qui, come alla Grotta, il filone inclina verso N.NE ed è formato da serpentina steatitosa globulare, proveniente dall’alte- razione d’eufotide. Il minerale vi si trova in noduli di 3 ad 8 centimetri di diametro ed è prevalentemente calcopirite. Lungo l’affioramento, alla stessa guisa di ciò che fu constatato coi lavori interni, le roccie che costituiscono il filone cuprifero, variano ad ogni passo, predominandovi pur sempre una serpentina steatitosa verde-chiara o verde-cupa, che talvolta può scambiarsi con quella lher- zolitica incassante. Con un’osservazione accurata queste due serpentine possono però sempre distinguersi agevolmente. Scopo attuale dei lavori di Montecastelli è la ricerca di concen- trazioni minerali o almeno d’arricchimenti notevoli del filone; potreb- besi nondimeno trarre già profitto dalla roccia cuprifera riconosciuta, trattandola alla laveria di cui dispone la miniera. 1 D’ACHiARDi, Mineralogia della Toscana; Pisa, 1872. 2 — 18 — III. Osservazioni geologiche lungo il tracciato del grande emis- sario-fognone di Napoli dalla Pietra sino a Pozzuoli, del Pott. H. J. Johnston-Lavis. Poiché questo grande e costoso lavoro per il risanamento di Napoli dovrà in parte attraversare una regione vulcanica ancora attiva, la So- cietà napoletana d’ Ingegneri-costruttori ha voluto prendere ogni pos- sibile precauzione acciocché non abbia a fallire l’impresa per difficoltà tecniche dovute alle roccie attraverso le quali il grande emissario do- vrebbe essere scavato. Egli è perciò che dagli egregi ingegneri di questa Società sono stato richiesto del mio parere, ed in seguito, avendo con- fermato i loro timori, incaricato di recarmi sul luogo a studiare accu- ratamente il terreno, per poi presentare un rapporto dettagliato sulle difficoltà che si potranno incontrare. Tali difficoltà possono classificarsi nel modo seguente: 1. Natura litologica delle roccie da attraversare. 2. Temperatura di dette roccie. 3. Esalazioni di mofete e vapori irritanti o deleterii. 4. Acque termo-minerali. 5 Abbassamento del terreno in relazione col livello del mare. 1. Struttura geologica della regione. — Passata la località detta La Pietra, in direzione di Pozzuoli, presso allo sbocco del traforo della ferrovia cumana, troviamo il tufo giallo compatto molto somigliante a quello di Napoli, Posili i po e Pozzuoli. Questo tufo, aumentando rapida- mente di altezza, viene a formare il promontorio attraversato dal breve traforo della ferrovia e di esso è costituita la base del dirupo e qualche altro masso più vicino ancora a Pozzuoli. Il medesimo tufo riappare all’ingresso di Pozzuoli e compone la collina quasi peninsulare sulla quale è collocata la città antica. Esso è il prodotto di un’eruzione esplosiva molto antica, probabil- mente del vulcano di Campigliene o di altro della stessa epoca. I ma- teriali eruttati, induriti per decomposizione ed alterazione, come suole accadere, subirono erosione tale da essere ridotti a scogli sottomarini in epoca nella quale il mare giungeva alle falde di Monte Barbaro, riducendolo al suo presente stato di rovina. Le onde marine allora mi- nando il piede della montagna, di fronte ed ai lati, si aprivano una via nel cratere di Campiglione pel fianco orientale a quella epoca inoltre il mare giungeva fino sotto ai Camaldoli e copriva tutta la pianura da Fuorigrotta ai Bagnoli. In questo mare si depositarono quei tufi, quelle pozzolane che, con abbondanza di conchiglie marine, oggi costituiscono la così detta Starza di Pozzuoli, terrazza che si estende da Monte Nuovo alla Cava Regia, interrotta dal promontorio anzidetto di Pozzuoli. Altri avanzi di questo stesso fondo marino, disposti a guisa di terrazzo, si ergono dietro il Lago Lucrino presso le Stufe di Nerone e dietro i bagni di Patamia. Un simile terrazzo, ma composto di altri materiali, esiste presso Castellammare nella penisola sorrentina. Sulla superficie irregolarissima del tufo giallo, troviamo un gran numero di ciottoli e grossi massi arrotondati dello stèsso tufo, derivanti dall’azione del mare sulla spiaggia e intorno agli scogli; essi sostitui- scono a Monte Dolce le pozzolane che trovansi più in là della Starza ma sottoposte alle lave ed alle scorie di Monte Olibano. Dopo la deposizione di questi materiali sottomarini si aprì una bocca sopra Monte Olibano e probabilmente in un punto adesso attraversato dalla strada San Gennaro. Da questa bocca uscirono parecchie colate di lava trachitica, una delle quali, per la grande viscosità, si fermò poco lungi dal punto di uscita, ammassandosi per accumulazione nel luogo in cui oggi la vediamo tagliata come una grandissima rupe ir- regolare, per effetti del lavoro delFuomo, nelle diverse cave di pietra sulla strada di Pozzuoli prima della Cava Regia. Prima che colasse questa lava, una grande quantità della roccia fusa Ai dalla violenza dell’esplosione lanciata in forma di scorie e massi scoriacei. Le scorie cadute sulla pozzolana formarono strati molto irre- golari che in certi punti hanno più metri di spessore. Il contatto in- feriore di questi depositi con la pozzolana e col tufo produssero in molti siti quella colorazione rossastra caratteristica, la quale indicherebbe che il tufo, per sollevamento della superficie terrestre, non formava più il fondo del mare, poiché le scorie calde si sarebbero immediatamente — 20 — 1 raffreddate prima di giungere al fondo se fossero cadute nell’acqua e non avrebbero potuto produrre quella colorazione. Lo strato più basso, presso la strada di Pozzuoli, non mostra alte- rati i depositi sottostanti; il che prova che il sollevamento fino ai livelli storici era abbastanza avanzato ma non ancora completo. Parecchie dovettero essere le eruzioni dal centro eruttivo di Monte Olibano, sebbene non sia facile determinarle, poiché fra gli strati di scorie trachitiche (ferruginose) si trovano banchi di tufo di trasporto che sempre richiederebbe un certo tempo per depositarsi. Qualche avanzo del cratere formato durante le maggiori esplo- sioni si vede a destra della srtada andando verso Pozzuoli, di fronte all’ingresso della proprietà Sarno. A sinistra vediamo la trachite in forma di mammelloni, forse traboccata a cratere ricolmo verso il mare dove probabilmente l’orlo era più basso. La massa di trachite che in parte costituisce il declivio interno a mezzogiorno del cretere attuale della Solfatara, è una colata di lava fluita verso settentrione in un’epoca corrispondente alle prime eruzioni del vulcano di M. Olibano; ed i massi e conglomerati che adesso formano il dirupato recinto del cratere sono dovuti a posteriori eruzioni di Monte Olibano e della Solfatara. Fu da questa punta che sono pure uscite le colate di trachite die- tro lo stabilimento balneario di Subveni homini le quali sarebbero dunque più antiche di quella della Cava Regia, Mura ecc. Questa massa di trachite dal ricinto della Solfatara potrebbe pure essere stata injettata a forma di filone, ma pare impossibile che possa essere giunta così dappresso alla superficie senza trabordare. Il cratere attuale della Solfatara fu prodotto da una esplosione probabilmente po- steriore, i cui materiali si accumularono in grossi depositi sopra tutta la formazione anteriore e mutarono considerevlmente la configurazione precedente della superficie. Risultati pratici. — L’emissario, che sarà nella pozzolana color caffè vicino allo stabilimento Patamia si dovrà tagliare prima nel tufo giallo compatto sotto Monte Dolce. L’imboccatura del tunnel della ferrovia vicino alla stazione di Terme mo- strò} durante i lavori, tufo compatto giallo, ciottoli e sabbia, tufo sciolto giallo verdastro, sottoposto in questo ordine ascendente allapozzolana color caffè . (Nordì Sezione attraverso la Solfatara nei Campi Flegrei presso Napoli. (Sud) — 21 — Nel tufo giallo probabilmente potrà proseguire per parecchie cen- tinaia di metri, per poi passare in un deposito di massi dello stesso tufo contenuti in una matrice di pozzolana sabbiosa, quindi entro poz- zolane friabili di varia natura. Per le ragioni geologiche sopra indicate è impossibile determinare con precisione i limiti interni di queste formazioni anche a poca di- stanza dalla strada. Anche alla superficie, la sezione geologica dalla Pietra sino a Pozzuoli è delle più complesse dei Campi Flegrei, regione già tanto complicata. Il canale donde ha sgorgato la trachite di Monte Olibano probabil- mente trovasi sottoposto all’ eminenza dove la lava raggiunge la sua massima altezza, cioè a Cariati (vedi la sezione a pag. 21). Se questo è veramente il caso, e se la colonna di roccia raffred- data non è di grandissime dimensioni, il traforo si farebbe passare alquanto a mezzogiorno; ma se i nostri calcoli non sono giusti o se v’hanno irregolarità, sarà necessario forare la massa trachitica per una lunghezza che non è possibile determinare. Non credo che l’emissario incontrerà le scorie nere trovate nel traforo della ferrovia cumana, poiché passerebbe più addentro nella col- lina dove cotesti strati si trovano a un’ altezza maggiore. Ma anche qui si potrebbe trovare un’ eccezione nel caso che si tagliasse il de- clivio interno dell’ antico cratere di Monte Olibano. E da sperare che non s’incontreranno perchè, colla loro struttura piena di interstizi, dai quali possono uscire facilmente vapori caldi, aumenterebbero le diffi- coltà di esecuzione. 2. Temperatura del terreno da attraversare. — Un’atmosfera che oltrepassa la temperatura normale dell’uomo è una condizione di gran- dissima importanza quando si devono impiegare gli operai. L’equilibrio della temperatura del corpo in questa condizione è mantenuta dalla eva- porazione del sudore, e questa evaporazione è in proporzione diretta con la umidità relativa e la saturazione dell’aria ambiente. L’uomo è capace di sostenere per un tempo relativamente lungo una temperatura eguale a quella dell’acqua bollente in un ambiente privo d’umidità, ma se questo fosse saturo di vapore, l’individuo ne sentirebbe immediatamente grave danno. Dunque non è solamente la temperatura che dobbiamo esaminare, ma ancoia la saturazione delle emanazioni. — 23 — Studiando il terreno da questo punto di vista, troviamo alla Bocca Grande della Solfatara una fuga abbondantissima di gas costituito prin- cipalmente da vapore acqueo ad una temperatura di 156° centigradi (12 dicembre 1889) che, se fosse unicamente vapore acqueo, corrispon- derebbe ad una pressione di cinque atmosfere e mezza. Noi non pos- siamo sapere se il vapore emesso vada diminuendo gradatamente a misura che ci allontaniamo dalla Bocca Grande, nè sappiamo se la temperatura del terreno circostante segua la medesima regola in senso orizzontale. Ma, accettata tale regola empiricamente, possiamo calco- lare quale sarebbe la temperatura nel punto ove l’emissàrio più si avvicinerebbe alla grande fumarola della Solfatara. Nel traforo della ferrovia cumana si trovò una temperatura di 60° centigradi. La distanza di questo traforo dalla Bocca Grande è di metri 860, il che dimostra una diminuzione di 0°, 11163 per metro. Sic- come l’emissario si troverebbe a metri 740 dallo stesso punto di mas- sima temperatura, in esso dovremmo trovare 73°, 40. In una delle mie peregrinazioni ho trovato una fumarola, quasi ad un centinaio di metri a S.E della casa Cariati, dalla quale usciva con lieve soffio una corrente di vapore con forza sufficiente da essere sen- sibile a più di mezzo metro di distanza; ed essendo la temperatura ambiente all’esterno 15° centigr., ho trovato (12 dicembre 1889) 30° centigr. alla imboccatura della fumarola. Questa fumarola si trova ad un livello assai più alto della quota dell’emissario e poco discosta verso Nord dal tracciato. Risultati pratici. — Tutti questi fatti indicherebbero che l’emis- sario dovrà attraversare un terreno caldissimo, con umidità abbondante perchè la quota del traforo si troverà poco al disopra della quota idro- grafica, cioè in vicinanza dell’acqua che tutti i pozzi dimostrano essere acqua termo-minerale spesso caldissima. Dovendo essere il traforo lungo e senza finestre, quasi certamente si dovrà ricorrere alla ventilazione artificiale e non è facile dire se con questo mezzo, trovandosi la foga di vapore a grande pressione, sarà possibile di rendere la temperatura sufficientemente bassa da per- mettere agli operai il lavoro. 3. Esalazioni di mofete, vapori irritanti o deleteri!. — Abbiamo visto che per le fenditure della roccia più compatta o per gl’interstizi delle roccie friabili, come la pozzolana ghiaiosa o la scorie trachitica, po- trebbero incontrarsi esalazioni con una temperatura elevatissima. Ma queste stesse esalazioni potrebbero contenere non solo vapore acqueo ma anche altre sostanze. Alla Solfatara i vapori, secondo le ricerche di Breislak e moltis- simi altri scenziati, contengono oltre la parte acquosa, molto acido solforoso (?), idrogeno solfurato, arsenico, probabilmente idrogono arse- nicato, acido carbonico e traccie di ammoniaca. Questi prodotti si trovano più abbondanti alla bocca grande della Solfatara e man mano che ci allontaniamo dal centro troviamo che la proporzione degli altri componenti diminuisce rimanendo il solo vapore acqueo. Studiando la regione nella quale queste esalazioni scompongono le roccie, troviamo che essa è limitata principalmente da una linea diretta da N.O a S.E; cotesta linea prolungata ad oriente del cratere della Solfatara e della parete esterna dello stesso lato, passerebbe per Monte Dolce dove esiste una fenditura nel tufo giallo, nella quale una volta si poteva penetrare dalla strada per dieci o quindici metri, ma che con dimensioni più strette s’ inoltrava nella montagna. Da questa fenditura uscivano vapori caldi e tutto intorno il tufo era rivestito di cristalli e croste di gesso, per cui sembra che qui pure, se non at- tualmente, almeno poco tempo addietro, il vapore conteneva composti di solfo che, ossidandosi in acido solforico, avevano attaccato i com- posti alcalini e terrosi, rimanendo il gesso per la sua poca solubilità. Tale fenditura è stata recentemente colmata e murata, facendosi il traforo della ferrovia cumana. Risultati pratici. — Oltre alla temperatura, l’esalazione potrebbe non essere di sola acqua, ma contenere abbondanza di gas e vapori di- versi da renderla irritante o irrespirabile, per cui il lavoro sarebbe impossibile senza una potente ventilazione. Oltre queste difficoltà, sappiamo che nella vicinanza della Solfa- tara queste esalazioni rapidamente scompongono ogni sostanza mine- rale o vegetale, e quindi la muratura dell’emissario soffrirebbe come qualsiasi sostanza perchè in condizione di una superficie scoperta dove per l’ossidazione dei composti di solfo si formerebbe l’acido solforico. Questo acido attaccando le roccie tenderebbe a convertire il cunicolo — 25 — in una grotta di allume. Quest’effetto però sarebbe ad un certo punto mitigato dallo scolo continuo di acqua delle fogne, relativamente fredda. 4. Acque termo-minerali. — I pozzi d’acqua che si trovano in questa regione sono tutti situati a grande vicinanza del mare ed of- frono pochi fatti dai quali trarre qualche deduzione. Hanno quasi sempre una temperatura che oltrepassa i 50° centigr., e per la poro- sità del terreno sono capaci di alimentare una forte pompa senza mo- strare diminuzione di livello. Nella Solfatara stessa abbiamo un pozzo di acqua termo-minerale, la quota del quale è molto al di sopra del livello del mare. Ma questo probabilmente dipende dall’ essere chiuso in un bacino craterico reso impermeabile dai depositi di argilla dovuti alla scomposizione delle roccie trachitiche. A Pozzuoli, sappiamo che la quota del livello acquifero s’ innalza abbastanza rapidamente in un terreno in parte identico ed in parte somigliante a quello che l’emissario dovrebbe traversare nella regione in esame, e solamente alla Montagna Spaccata raggiunge una quota di 13 metri. Risultati pratici. — Non è probabile che la quota del drenaggio del terreno possa raggiungere quella dell’ emissario. Però non si troverà molto al disotto del traforo e dove questo dovrà traversare roccie non compatte, aumenterà di molto l’umidità dell’atmosfera. 5. Cambiamento di livello. — L’emissario dovrà attraversare la regione più classica nella geologia per la chiarissima evidenza delle oscillazioni di livello per molti metri durante l’epoca storica; fenomeno questo che ancora continua. Non è qui il luogo di ricordare gli studi di tanti scienziati i cui lavori dimostrano che la costa presso Pozzuoli ed altri luoghi dei golfi di Napoli e Gaeta si abbassa colla rapidità di 7 a 14 millimetri ogni anno. Negli ultimi undici anni di studio in questa regione ho potuto raccogliere tanti fatti in conferma di questo abbassamento, da togliere ogni ombra di dubbio che il cambiamento di livello sia più vicino ai 13 o 14 millimetri che al minimo di 7. Molti fatti nuovi in conferma di questa attività endogena osservati da me negli ultimi anni si tro- vano pubblicati nei Reports della British Association di Londra dal 1884 al 1889. Disgraziatamente, non si sono fatte osservazioni accurate onde conoscere la rapidità di questo abbassamento, le quali sarebbero state di grandissima importanza in molte questioni edilizie. E non solo im- porta conoscere se v’ ha abbassamento e quanto rapido, ma ancora sarebbe del massimo interesse sapere se è uniforme in tutti gli anni, se è uguale per tutta la regione dei Campi Flegrei. Io penso che simile cambiamento di livello sia stato in gran parte la causa deirabbandono di Pesto e località simili, dell’aumento di ma- laria che nel medio-evo si ebbe nelle vicinanze di Ostia e di Roma, e che ha contribuito a diminuire la navigabilità del Tevere. La provincia e la città di Napoli dovrebbero stabilire parecchi mareometri intorno alla costa, verso il Tempio di Serapide e in altri punti opportuni. Risultati pratici. — Se l’abbassamento progredisce con una rapidità uniforme lungo tutto il tracciato dell’emissario, questo gran lavoro potrà servire per molti anni, fin hè il fondo del fognone non si sia abbassato al disotto del mare. Ma se invece questo abbassamento non è uniforme, ma maggiore in un punto qualsiasi del decorso dalla bocca di emis- sione in poi, potrebbe Temissario in conseguenza del diminuito e variato pendìo riescire inoperoso od almeno insufficiente. Conclusione. — In poche parole, troviamo che la massima difficoltà per la esecuzione del lavoro è senza dubbio l’altissima temperatura del terreno aumentata in ragione della lunghezza del traforo, che si dovrà fare senza finestre di ventilazione, poiché la costruzione di aperture nei punti più critici richiederebbe un lavoro difficile ed una spesa quasi eguale al traforo medesimo. Non è possibile dire se con una potente ventilazione si potrebbe combattere l’alta temperatura e l’esalazione di gas e vapori irrespira- bili, perchè non sappiamo con esattezza; 1° la temperatura, 2° la quan- tità del vapore acqueo, 3° la presenza di altri vapori o gas. E vero che la meccanica ci offre mezzi potentissimi di ventilazione, ma bisogna considerare se la enorme spesa convenga oppur no. Se si decidesse di fare qualche finestra io consiglierei di farla con inclinazione abbastanza forte, penetrando nelle collina da un’apertura da praticarsi sotto la trachite. Rivolgendo la nostra attenzione alla quistione del livello, non sa- - 27' rebbe male, se siamo ancora in tempo, di aumentare alquanto il pendìo dell’emissario, senza abbassare la foce di emissione. Non v’ha il tempo di studiare se tutta la regione dei Campi Flegrei si abbassa nella stessa proporzione. Ove 1* abbassamento non fosse regolare, un aumento del pendio di scolo renderebbe l’emissario utile per un tempo maggiore. In fine, considerando tutte le difficoltà, credo si dovrebbe sospen- dere il lavoro in tutti gli altri punti, fintantoché non sia stato forato quel tratto che va dalla Pietra a Subveni homini. IV. La pietra di Subiaco in provincia di Roma e suo confronto col travertino; nota dell’Ing. E. Clerici. Il grande sviluppo raggiunto dalle costruzioni in Roma nell’ultimo decennio e l’approvazione dei progetti per pubblici edifici, hanno fatto dubitare che le cave di materiali, esercitate nei dintorni di Roma, po- tessero dare un prodotto sufficiente al consumo. I materiali locali usati nelle* costruzioni romane sono il travertino, il tufo vulcanico, il peperino, la lava detta sperone, la lava basaltina e la trachite; ma è noto che fra questi il solo travertino è suscettibile di una buona e facile lavorazione, tanto che può essere impiegato in maniere svariatissime, in molte delle quali è affatto impossibile usare gli altri. L’ ing. Pellati1 in uno studio sui travertini, pubblicato alcuni anni or sono, osservò che le cave di Tivoli, poste nelle migliori condizioni di distanza e di trasporto, quanto prima non avrebbero potuto far fronte al consumo. Poco dopo quella pubblicazione fu riattivata la grande cava del Barco, quella che ha fornito il travertino per le costruzioni della antica Roma, e che sia per l’ampiezza della fronte d’attacco, come per l’impiego in essa delle macchine più perfette per l’estrazione di grandi ‘ Pellati N., I travertini della Campagna Romana (Boll, del R. Gomitato Geol., n. 7-8, 1882). — 28 - massi, prometteva una produzione enorme più che sufficiente ai bisogni delle nuove costruzioni. Ma allora sorse una grave questione fra i produttori ed i rappre- sentanti della pubblica amministrazione, 1 2 perchè da questi si tentò di dimostrare che tale travertino non era più di qualità così buona come lo fu per il passato. Gli arbitri, ' scelti a risolvere la controversia, con- clusero che dalla pubblica amministrazione si pretendeva che il tra- vertino fosse privo delle qualità essenziali che appunto lo caratterizzano e che la questione era evidentemente sorta perchè si voleva sostituirgli un’altra pietra più compatta. Malgrado ciò, nell’opinione di molti, il travertino, che ha dato una impronta così caratteristica alla città di Roma e che da secoli ha fatto così buona prova, passò in seconda linea per cedere il posto ad altri materiali, cercati altrove, anche molto lontano, come la pietra d’ Istria, quella di Brescia, ecc., le quali, pur avendo buone qualità, sono ben lungi dall’essere quanto di meglio si possa desiderare. Ora è mio intendimento di richiamare l’attenzione sopra un’ottima pietra, tale da soddisfare i più esigenti, che da qualche tempo viene regolarmente escavata in un’antica cava, quasi abbandonata, nei pressi del Monte Affilano in territorio di Subiaco, e che è nota in commercio col nome di pietra di Subiaco o con quello più comune, ma improprio, di travertino di Subiaco. Questo materiale è, a mio credere, perfettamente sostituibile al travertino di cui ne ha tutti i pregi senza averne del pari i difetti. Un difetto, fra i più frequenti nel travertino, è l’avere nell’ interno dei massi cavità irregolari, talvolta di notevoli dimensioni, non riconoscibili al- l'esterno, le quali ne scemano l’omogeneità e la resistenza, quando non obblighino a scartarli durante la lavorazione. Più spesso queste cavità sono piccole, ma più numerose e ripiene in parte od in totalità 1 Vescovali A., Considerazioni sulle costruzioni dei nuovi ponti sul Te - vere. Roma, 1886. 2 Cammini L. e Favero G. B., Relazione sulla vertenza promossa dal Mu - nicipio di Roma contro V impresa Zschokke e Terrier pei travertini delle cave del Barco in territorio di Tivoli, forniti dalV impresa Basilici e Rolland per il lavoro del ponte Garibaldi. Roma, 1886. — 29 — di materie eterogenee, marnose o polverulenti, costituendo ciò che gli scalpellini chiamano tarle , macchie gessine , macchie cretose ed a cui cercano di rimediare con le stuccature. La pietra di Subiaco è quasi assolutamente priva di bucherellature, assai omogenea e compatta. Non presenta crinature nò venature e, a differenza del travertino e di molte altre pietre, non mostra tendenza a dividersi o a sfaldarsi in alcuna direzione. È di un colore biancastro-latteo, o più esattamente, come si usa dire, è di tinta bianca calda, opaca e smorta. Tal pietra, come dissi, è impropriamente chiamata travertino poiché la sua origine è marina, e geologicamente appartiene all’epoca cretacea probabilmente del turoniano. Infatti contiene nella sua massa numerosi fossili, quasi esclusivamente rudiste, che per l’omogeneità della roccia sono difficilissimi ad estrarsi e perciò ancor più diffìcili a determinarsi. Nella collezione del Museo geologico universitario di Roma tali fossili hanno le denominazioni approssimative e provvisorie seguenti: Caprina Aguilloni D’Orb. » adversa D’Orb. Caprinula Boissyi D’Orb. Hippurites organisans Montf. Radiolites agariciformis D’Orb. » angeiodes Lamk. » foliacea Lamk. » mamillaris Math. » radiosa D’Orb. Ichthyosareolites triangularis Desm. Inoceramus sp. Molti calcari a rudiste, analoghi a quello in parola, non sono di grande utilità pratica perchè i fossili che contengono conservano vuote le false concamerazioni e la cavità interna, o la presentano più o meno completamente riempita di calcare polverulento o di materie argillose che si disgregano poi all’azione degli agenti atmosferici, lasciando in- fine dei vacui irregolari e numerosi. Quello di Subiaco, invece, si mostra a tal riguardo in condizioni eccezionalmente favorevoli. 30 — Per meglio rendersi conto delle qualità di una pietra da costru- zione si ricorre ordinariamente àd alcuni saggi fisici e chimici. Riporto qui appresso i risultati da me ottenuti con la pietra di Subiaco. Al fine di potere istituire confronti coi risultati analoghi for- niti dai travertini, ho seguito gli stessi procedimenti tenuti dal profes- sore Del Torre nel suo studio sui travertini L l.° Composizione chimica : Materie insolubili in acido cloroidrico. . . . 0,018 Silice solubile 0,010 Anidride carbonica 43,546 Anidride solforica 0,026 Allumina e ossido di ferro 0,099 Ossido di calcio 55,948 Ossido di magnesio . . . . • 0,222 Sostanze non dosate e perdite 0,131 Calcare seccato a 100° C . . . . 100,000 La pietra di Subiaco è quindi un calcare dei più puri. Siccome nella composizione chimica di un calcare si ritengono come elementi favo- revoli il carbonato di calcio e la silice solubile, che contribuisce allo indurimento della pietra in opera, e per elementi sfavorevoli le materie insolubili in acido cloridrico, l’anidride solforica e l’allumina, così questa- pietra è migliore del travertino per la minor quantità di materie inso- lubili, di anidride solforica e di allumina; contiene però meno silice solubile, che nei travertini va da 0,283 a 1,435 per cento. L’analisi mo- stra inoltre che il calcare in parola è adattissimo per far calce grassa, cosa che mi fu confermata da opportuno saggio. 2. ° Peso specifico = 2,658. È un poco maggiore di quello del travertino il quale oscilla fra 2,437 e 2,640. 3. ° Peso dell'unità di volume = 2,583. Anch’esso è superiore a quello del travertino che è da 2,323 a 2,563. 4. ° Potere igrometrico = 0,210 per cento. In questa determinazione ho adoperato un parallelepido a base qua- drata di 5 cm. di lato e 10 cm. d’altezza seccato alla stufa a 110° C 1 Del Torre GL, Studio fisico-chimico sopra alcuni travertini (Stazione chimico-agraria sperimentale di Roma, 1883). — 31 — e poi chiuso in un ambiente saturo di umidità che per tutto il tempo dell’esperienza restò alla temperatura di 18°, 8 C. Riguardo al potere igrometrico i travertini offrono valori abbastanza diversi, da 0,090 fino a 4,770; quindi alcuni sono assai poco migliori della pietra di Subiaco, poiché hanno il potere igrometrico fra 0,090 e 0,190; altri che lo hanno da 1,050 a 4,770 sono in condizioni notevol- mente più sfavorevoli. 5. ° Facoltà d’ imbibizione. — La pietra di Subiaco per la sua compattezza ha una facoltà d’ imbibizione limitatissima 1,139 per cento, perciò è in condizioni di gran lunga migliori dei travertini in cui si ha 8,550 fino a 23,510 per cento. 6. ° Gelività. — La disgregazione per effetto del gelo col processo di Brard ha raggiunto il 5,003 per mille; nei travertini tale effetto è minore, da 1,099 a 3,626. 7. ° Disgregazione per effetto del salso. — Questa ricerca si fa generalmente lasciando i campioni immersi per molto tempo nelle so- luzioni saline all’ influenza delle ordinarie variazioni di temperatura. Vari pezzi della pietra di Subiaco tenuti per 10 mesi nella soluzione satura di cloruro di sodio, cloruro di magnesio e solfato di magnesio, non hanno mostrato traccia, benché minima, di alterazione. 8. ° Adesione al gesso ed al cemento. — L’esperimento fu ese- guito con parecchi parallelepipedi, a base quadrata, su una superficie di 16 cm.4, ed ottenni: Adesione al gesso. . . . kg. 4,601 a centimetro quadrato. » cemento. . . » 2,632 » » Queste cifre sono inferiori a quelle fornite dai travertini pel fatto che la bucherellatura di questi favorisce un’aderenza molto maggiore di quella che si ha sopra una superficie liscia. Inoltre, come per il saggio sulla gelività, i miei risultati, per la natura stessa di questi saggi, non possono dirsi assolutamente parago- nabili a quelli ottenuti dal Prof. Del Torre sui travertini, per quanto abbia cercato di pormi nelle medesime condizioni. 9. ° Resistenza allo schiacciamento. — Il saggio fu eseguito dal Prof. Ceradini con la macchina della R. Scuola d’applicazione per gli Ingegneri in Roma. Una prima serie di esperienze dette kg. 510 a cm.2; un’ altra kg. 550 a cm2 in media. La resistenza quindi è mag- — 32 — giore di quella dei migliori travertini, pei quali si hanno le seguenti cifre : Travertini di Tivoli da 228 a 390 kg. a cm.4 » di Fiano Romano ...» 344 a 392 » » » di Orte » 336 a 498 » » » di Magliano in Toscana 454 » » 10.0 Resistenza al taglio sotto la sega. — Benché non possa tra- scrivere un risultato numerico, da informazioni assunte presso la se- gheria fuori la Porta S. Giovanni, ove sono già state tagliate grandi lastre di ogni spessore, sembra che la pietra presenti alla sega resi- stenza eguale o di poco superiore a quella dei comuni travertini; i quali, del resto, a causa della diversa compattezza, hanno resistenza abbastanza variabile da ore 2.50' a ore 5.16' sull’unità di superficie. 11.0 Attitudine alla lavorazione. — Secondo il parere degli scal- . pellini, questa pietra è molto adatta alla lavorazione che risulta più facile di quella del travertino. Si presta benissimo al lavoro d’intaglio e perfino a quello di scultura. Si può lisciare e prende anche un poco il lu- cido. Però nella lucidatura, che riesce smorta, mette in evidenza le sezioni dei fossili con macchie paragonabili a quelle dell’olio e perciò di non bello effetto. Ma dove mostra tutto il pregio artistico è soltanto nei lavori a scalpello e a martellina. In Roma è noto il grande bassorilievo sulla facciata della chiesa di S. Salvatore in Lauro, i capitelli, le logge ed altri ornamenti nel prospetto sul Corso del palazzo Marignoli, il balcone del palazzo Man- zocchi in via Fontanella di Borghese, nonché gradini, soglie, lavandini cornici in molte delle nuove costruzioni. Anche al Cimitero di Campo Verano esistono parecchi monumenti costruiti con questa pietra. In tutti questi usi ha fatto buona prova. Anzi, i lavori che da parecchi anni stanno esposti alle intemperie, come il bassorilievo di S. Salvatore in Lauro, in opera fin dal 1859, mostrano che questa pietra non annerisce e non si copre di verde come spesso fanno il marmo ed il travertino. 12.° Condizioni della cava. — Il fondo in cui è la cava trovasi sul versante S.O del Monte Affilano; confina con la strada Sublacense e dista poco più di 4 km. da Subiaco. Al presente la cava, notevol- mente ampliata, non ha proporzioni straordinarie perchè il prodotto è ancora limitato, non potendo esso far seria concorrenza al travertino — 33 — a causa del prezzo più elevato. Ma all’occorrenza potrebbe avere una fronte d’ attacco assai estesa, tale da permettere una produzione molto considerevole. Il giacimento è costituito da parecchi strati in- clinati di una ventina di gradi verso Est. Gli strati sono regolari, senza cioè contorsioni nè dislocazioni che, come è noto, frammentano la pietra; e quel che è più interessante, tali strati sono di forte spes- sore, alcuni più di 10 m., e ciò dà buona assicurazione della omo- geneità della roccia come del rendimento della cava. Io ho assistito all’estrazione di monoliti di dimensioni non comuni; ma per soddisfare alle ordinazioni, non sono stati trasportati in Roma che monoliti per colonne lunghi m. 7,40 per conto deH’arcb. Carimini, e lunghi m. 4 per gli architravi che fanno parte delle decorazioni della loggia del palazzo Marignoli. In essi monoliti non è stato possibile scorgere alcun di- fetto. Qualora questa pietra fosse adottata su larga scala nelle costru- zioni, si potrebbero impiantare, come già ve ne furono un tempo, delle segherie in Subiaco mosse dalle acque dell’Aniene che si prestano ad una facile presa. Presentemente il trasporto della pietra si fa con carri a buoi dalla cava alla stazione ferroviaria di Mandela, sulla linea Roma-Sulmona, percorrendosi 25 km. di strada di media bontà. Ed infine giunge a Roma dopo altri 54 km. di ferrovia. Quando sarà costruito il tronco di ferrovia Subiaco-Mandela, la pietra sarà molto più agevolmente trasportata, cioè con maggiore ra- pidità ed economia. Allora il prezzo potrà essere diminuito in modo che se anche resterà superiore a quello del travertino, i pregi della pietra compenseranno largamente la differenza del prezzo e sarà certamente preferita. Dal complesso delle cose esposte si deve concludere che la pietra di Subiaco, oltre all’essere buona pietra da calce, è anche ottima pietrpi da taglio assimilabile al travertino che può sostituire assai vantaggio- samente. Roma, Dicembre 1889. 3 Fossili dei terreni quaternari alle falde del Gianicolo in Roma ; nota dell’Ing. E. Clerici. Il Dott. M. Lanzi 1 ha testé annunziato il ritrovamento di un de- posito diatomeifero alle falde del Gianicolo e più precisamente al punto in cui la salita di via del Gianicolo si biforca. Le diatomee vi sono tanto abbondanti che costituiscono un vero tripoli bianco e leggerissimo. I generi prevalentemente rappresentati sono: Epiihemia , Cymatopleura , Cocconeis , Navicula , Gomphonema , Rhoicosphenìa (R. curvata ), Pleurosigrna (P. Spenceri)1 che danno una facies di acque poco profonde, limpide e tranquille. Recatomi sul posto per raccogliervi altri fossili, riconobbi in questo giacimento una località già nota al Brocchi 2 che vi citò YHelix pi- scinalis per concludere che al Gianicolo vi sono oltre alle roccie net- tuniche anche le fluviali. Il tripoli in questione forma alcuni straterelli compresi fra una marna di colore giallognolo chiaro, ricca di molluschi, a cui fa graduale passaggio ed un sabbione calcareo con concrezioni tubulose, ciottoletti, pomici e grani di ai: gite. Il Tevere oltre il Ponte S. Angelo investe normalmente il Monte Gianicolo, che bruscamente lo costringe a fare un gomito quasi ad angolo retto, e continua poi a scorrergli vicinissimo. Per cui, anche per essere le falde del Gianicolo assai ripide da questo lato, i depo- siti quaternari alla destra del Tevere, nell’ interno della città, hanno acquistato uno sviluppo limitatissimo e la località suaccennata è per- tanto l’unica se non la migliore per osservarli. E già noto come il Gianicolo sia costituito, dal basso in alto, dalle argille plioceniche di mare profondo, dalle sabbie gialle, dalle ghiaie sabbiose senza elementi vulcanici ed infine da parecchi strati di ma- 1 Accademia pontificia de’ Nuovi Lincei; Anno XLIT, 1889; sessione VII; pag. 5. 2 Brocchi G. B., Dello stato fìsico del suolo di Roma. Roma, 1820 ; pag. 167. — 35 — teriali vulcanici poco coerenti. Gli addossamenti quaternari sul fianco che guarda il Tevere sono: ghiaie con elementi vulcanici, ad un livello un poco più basso del piano di via della Lungara. Un banco di un materiale tufaceo di colore giallognolo-chiaro friabile, ricco di pomici bianche e di leuciti farinose; non effervescente con gli acidi nè stem- peraci© coll’acqua. Un altro materiale tufaceo grigio, a grana minu- tissima, ricco di leuciti piccolissime e di laminette di mica bruna. È tenace, resistente, permeabilissimo all’acqua e non effervescente con gli acidi. Ambedue questi strati sono visibili sotto le mura della Citta Leonina. Al disopra sta la marna giallognola ricca di molluschi, poi il tri- poli, il sabbione ad elementi vulcanici e concrezioni calcaree ed infine altri banchi di elementi vulcanici substratificati che sarebbe inutile ulteriormente distinguere. I fossili contenuti nella marna e nel tripoli, sono: Carychium minimum Muli. Planorbis umbilicatus Muli. » septemgyratus Ziegl. » crista Lin. ( Nautilus ) var. cristatus Drap. Hippeutis complanaius Lin. (Helix). Limnaea stagnalis Lin. (Helix). » ovata Drap. ( Limnaeus ), Velletia lacustris Lin. (Patella). Bythinia tentaculata Lin. (Helix). Bythinella marginata Mich. (Paludina). Valvata piscinalis Muli. (Nerita). Gyrorbis cristata Muli. (Valvata). Pisidium cfr. pusillum Gmel. (Tellina). Unio sp. (un solo frammento). Sporangi di Chara . Pinnule di Pteris aquilina Lin. La marna, sia per l’aspetto che per i suoi fossili somiglia a quella rinvenuta in Via Nazionale 1 presso a poco alla stessa quota; ma ne ‘ Clerici E., Sulla natura geologica dei terreni incontrati nelle fonda - differisce per la mancanza della Neritina Isselì Cler. (già N. fluvia - tilis var.) e della Hydrobia Meli Cler. (già H. stagnalis) specie ca- ratteristiche le quali si trovano anche nella marna tripolacea alla Sedia del Diavolo. Le altre specie sono in comune anche con le marne * 1 d'altri punti alla sinistra del Tevere nell’interno di Roma. Roma, Novembre 1889. VI. Sull’ allvmogene del Viterbese; nota del Prof. Fr. Maugini. Il territorio di Viterbo, vulcanico per eccellenza, possiede una quan- tità di prodotti minerari, che non sono finora molto conosciuti. Qui abbiamo acque ferruginose acidule, che gareggiano con le migliori del Regno, vi sono acque solfuree, e solforiche, acque alcaline, acque magnesiache, fanghi termali, depositi estesi di solfuro di ferro, che per lo passato si coltivavano per ottenere il solfato. Vi si trova dello solfo, ed in qualche luogo se ne sta tentando l’estrazione, come a Montefiascone. Si trovano delle sabbie silicee che gareggiano per qualità con quelle di S. Oreste, e che analizzate da me, diedero il 92 0[Q di pura silice, con pochissimo ferro e traccie di calce, ma- gnesia ed allumina. Vi esistono depositi di pietra pomice bianca, ed z ioni del palazzo della Banca Nazionale in Roma (Boll, del R. Com. Geol., 1886, n. 9-10). 1 Clerici E., I fossili quaternari del suolo di Roma (Boll, del R. Com. Geol, 1886, n. 3-4). Nella marna giallognola al livello della Via Cavour sotto San Francesco di Paola si contengono i seguenti molluschi allora non citati : Vertigo antiuertigo Drap. (Pupa). Carychium minimum Muli. Planorbis corneus Lin. (Helix). ( » arista Lin. var. nautileus Lin. e var. cristatus Drap . Hippeutis complanatus Lin. (Helix). Velletia lacustris Lin. (Patella). - 37 — in quantità minore la pomice nera in noduli fra il tufo, con traccie di fluoro e di titanio. Traccie di titanio trovai pure nelle piriti sopra citate. Vi sono infine delle eccellenti argille, dei cementi, delle pozzo- lane, dei basalti colonnari, dell’ossidiana, oltre alla roccia detta pepe- rino e che serve per il lastricato nella città. Nelle varie acque che io analizzai, trovai la presenza dell’ acido borico, e nelle alcaline, la presenza del litio; anzi, in un’ acqua che sto ora analizzando, oltre all’abbondanza di sali di sodio trovai spet- troscopicamente abbastanza litio e traccie di potassio. Ciò che a mia conoscenza, e per indagini fatte non fu ancora riconosciuto esistere nel territorio di Viterbo, è l’allumogene, o solfato pu ro d’alluminio. A Tolfa ognuno sa che esiste l’alunite, o solfato doppio di allu- minio e potassio, ma di allumogene non trovo che ne sia fatto cenno. L’ allumogene si trova a Nord di Viterbo presso le rovine di Fe- rento nelle vicinanze dei depositi di piriti, frammezzo ai quali si rin- viene della buonissima argilla. Per conoscere la genesi dell’ allumogene, dirò prima le mie ricerche su queste piriti. Queste piriti sono nerastre, compatte, e molte simili a bombe vul- caniche. Lasciate all’aria si decompongono, e poste in acqua lasciano dell’ acido solforico libero. Questa facilità a sgretolarsi ed efflorare mostra che la costituzione principale di questo minerale è simile a quella della pirite bianca, che è facile a cadere in efflorescenza, forse per la presenza di protosolfuro e sesquisolfuro di ferro. Difatti, spez- zando vari pezzi di calcare dei dintorni, framezzo ad essi trovai della pirite bianca. Se il minerale è tenuto lontano dall’umidità, lo sgretolamento non succede, come io stesso provai; il che mostra che più dell’ossigeno dell’aria, è l’umidità che influisce alla sua decomposizione. Il minerale lasciato all’umidità nel mio laboratorio, si copriva di granelli bianchi della grandezza di una capocchia di spillo, e fra le spaccature di esso, si formavano delle piccole ma bellissime geodi di cristalli bianco-setacei, somiglianti all’amianto, solubili nell’ acqua, e che trovai composti di solfato ferroso ed alluminico, con traccie di sali di sodio e calcio. Tenuti qualche tempo sotto l’essiccatore Frese- — 38 — nius caddero in efflorescenza. Le capocchie che citai avevano la me- desima composizione delle geodi. Nell’analisi qualitativa del minerale naturale, vi rinvenni molto ferro, dell’ allumina, della silice, abbondanza di solfo e traccie di acido solforico, titanico e solfato di magnesio. Nella quantitativa mi curai solo della quantità dello solfo, libero e combinato, per dedurne la genesi dell’allumogene. Da 1 grammo di minerale indecomposto e secco ebbi gr. 0,208 di solfo, del quale gr. 0,205 erano in combinazione e gr. 0,003 erano di solfo libero. Dal minerale sgretolato nel locale umido, privato delle sue efflo- rescenze e dei cristallini amiantiformi, ed asciugato a + 100°, ebbi per un grammo di esso solo gr. 0,002 di solfo libero, in modo che avea per- duto in un gr. 0,001 di solfo (in confronto del minerale indecomposto) il quale si era trasformato in acido solforico, come constatai coll’a- nalisi. Da ciò noi possiamo vedere la quantità di acido solforico che si produce di continuo per la decomposizione del minerale piritoso. Come già dissi, sotto i depositi piritosi trovasi l’argilla, la quale al lungo contatto coll’ acido solforico libero, viene a formare l’allu- mogene, il quale ove incontra degli strati impermeabili, poco profondi, viene ad efflorare alla superfìcie, allo stato di sale bianco, mescolato a poco sesquiossido di ferro, ed ove lo strato è permeabile, vi penetra ed impregna gli strati sottostanti, come potei provarlo esperimen- talmente fino a due metri di profondità. L’ allumogene in questione, è mescolato qualche volta con ses- quiossido di ferro, come dissi, ma sciogliendolo nell’acqua, il sesquiossido si deposita al fondo esistendovi solo in miscuglio, non combinato. L’ allumogene che si trova in massa, è di colore bianco niveo, con punti lucenti; è amorfo, in mammelloni della forma stalagmitica, e si raschia facilmente col coltello. Ha un sapore acido astringente, che perdura a lungo. Il suo peso specifico è tra 1,6 e 2. Fonde nella pro- pria acqua, e gonfia come fa l’allume comune. La sua soluzione rea- gisce acidamente. Assogettato all’analisi, trovai nella media di 6 espe- rienze la composizione seguente: — 39 — Allumina (A1203) . . . Acido solforico SO oh • jj Acqua Oh . . 16 31 . . 52 69 . . 31 00 100 00 per cui la sua formula sarebbe Al4 (SO4) 3 4- 33 H20 con poche traccie di sodio. Trattato con alcool assoluto, nel quale il sale è insolubile, trovai piccole traccie di acido solforico libero. A lato dell’altura ove trovasi 1’ allumogene, scorre un ruscello di acqua minerale ferruginosa, che tiene sciolto del solfato ferroso, il quale ossidandosi lascia nel fondo del ruscello uno strato d’ossido rosso di ferro. Tratto tratto lungo il ruscello sorgono dei piccoli bulicami, 1 che emanano una quantità di acido solfidrico , da sentirne T odore a molta distanza, e da uccidere i piccoli animali, come lepri od altro che si avvicinano a questi bulicami per dissetarsi, e portare gravi disturbi a grossi animali che si abbeverano vicino. Non potei finora portarmi sul luogo, per raccogliere il gaz che sorte da tali aperture, ma esaminata l’acqua qualitativamente, la trovai contenente pochissimo acido solfidrico libero. Trovai invece molto solfato ferroso, misto a poco solfato ferrico, del solfato d’ alluminio, traccie di calce, di magnesia, di silice e di soda, nessuna traccia di potassa, benché abbia replicatamente fattane ricerca collo spettro- scopio. Mi riservo a buona stagione, di ritornare sopra luogo, onde rac- cogliere i gaz dei piccoli bulicami, per farne separatamente 1’ analisi, non che procurarmi molta acqua, onde farne l’analisi quantitativa, giu- dicando che quest’ acqua potrà essere utilizzabile per qualche uso terapeutico. 1 Nome che si da alle sorgenti d’acqua calda che sorgono bollendo dal piano di Viterbo. — 40 - ESTRATTI E RIVISTE Osservazioni sulla geologia delle Alpi svizzere , del Dott. C. ScHMIDT. (Estratto dalla monografia Zur Geologie der Schweizeralpen ; Base!, 1889), 4 Le Alpi, genericamente parlando, rappresentano il tipo spiccato di una catena montuosa che deve la sua origine a dislocazioni della su- perficie terrestre, in seguito a spinta della crosta solida del globo, av- venuta in senso orizzontale. Gli strati costituenti non conservano più l’originaria posizione oriz- zontale, ed anche le roccie eruttive intercalate compartecipano passi- vamente al movimento di formazione del sistema. La direzione com- plessiva degli strati raddrizzati corre parallela all’ andamento longitu- dinale di esso sistema. E più c’interniamo nel corpo della catena, mo- vendo dalla pianura, incontriamo formazioni geologiche sempre più an- tiche. La catena delle Alpi estendesi, in forma di ampia cerchia, dalle coste del Mediterraneo sino ai dintorni di Vienna, attraversa il S.O della Francia, l’Italia settentrionale, la Svizzera, la Baviera meridionale e l’Austria, costituendo un assieme assai complesso. Dopo breve inter- ruzione fa seguito immediato alle Alpi verso Est la catena dei Carpazi di analoga costituzione tettonica. Nei dintorni di Grenoble la catena alpina muta di direzione, piegando da N a N.E, e da tale punto di- ramasi dalle Alpi occidentali la catena del Giura che estendesi presso che parallela all’andamento alpino e che ha fine nei pressi di Baden. Un’altra diramazione della catena principale alpina la troviamo dalla parte Sud-Est della medesima, tra Lubiana e Trieste, dove si dipar- tono le Alpi Dinariche che si spingono sino all’ estremità meridionale della Grecia. Considerando, in particolare, le Alpi svizzere, rilevasi che il ver- sante settentrionale delle medesime è costituito da una serie non inter- — 41 — rotta di ripiegature. Nella parte collinare della Svizzera, tra le Alpi e la catena del Giura, predominano sedimenti miocenici, la così detta molassa, a strati in parte orizzontali, in parte leggermente sollevati : in qualche punto però del contorno delle Alpi anche la molassa partecipò al movimento della catena, essendone gli strati fortemente raddrizzati ed inclinati verso la parte centrale : tali strati formano le creste del Rigi, del Rossberg e dello Speer, rivolte a Nord. Per tale raddrizzamento degli strati della molassa presso il confine delle Alpi, scompare tal- volta orograficamente lo spiccato carattere geologico che distingue l’una dall’altra queste due formazioni. Le Alpi calcaree propriamente dette, sono costituite nella Svizzera da sedimenti delfiepoche eocenica, cretacea e giurassica : subordinata- mente vi si riscontrano degli strati permiani e triasici. Le catene in- terne sono per lo più giurassiche, le esterne appartengono alla Creta: gli strati eocenici si estendono per la maggior parte entro le conca- vità delle piegature cretacee ; strati eocenici e cretacei occupano quelle del Giura, ma ben sovente mancano i secondi, così che Teocene riposa direttamente su strati giurassici. Queste piegature non conti- nuano su tutta quanta l’estensione longitudinale della catena, ma per lo più si suddividono dopo breve percorso in altre ripiegature minori, ovvero scompaiono affatto, lasciando il posto a nuovi sistemi oro- grafici. Ma quello che imprime alle Alpi il loro vero tipo originale è la presenza delle roccie cristalline che in masse unite s’elevano, attra- versando gli strati sedimentari e che formano generalmente le più ele- vate sommità del centro del sistema : perciò sono denominate masse centrali. Le diverse condizioni geo-tettoniche di queste masse e la di- versa maniera con cui gli strati sedimentari sono adagiati su di esse contraddistinguono su tutta la catena occidentale alpina dal Reno al Mediterraneo il suo versante Nord ed Ovest da quello di Sud ed Est. Sul lato convesso della cerchia alpina, per esempio nelle masse del Monte Bianco, delle Alpi Bernesi e del S. Gottardo, i banchi delle roccie cristalline sono fortemente raddrizzati e spesse volte divergono supe- riormente a ventaglio. Le masse centrali figurano sulla Carta come limitate da tante elissi il cui asse maggiore corre parallelo alla dire- zione delle Alpi : talvolta se ne contano parecchie V una accanto al- — 42 — l’altra: d’ordinario laddove scompare una massa, altra ne subentra, in posizione alquanto dislocata. Procedendo da Nord a Sud, si trova che i sedimenti mesozoici giacciono sugli strati cristallini fortemente inclinati verso Sud : da questo lato detti sedimenti terminano comunemente con erti profili per subita alterazione meteorica. Sul lembo settentrionale della massa dell’Aar s’ incontra una serie di valli longitudinali nelle quali chiara- mente si vede la disposizione dei sedimenti sulla massa centrale. Sul lato Nord di queste valli, al disopra delle roccie cristalline che fanno base, elevasi una muraglia di calcare che limita da tal lato la valle nel senso della lunghezza. Sul lato Sud il terreno è formato da banchi di scisti cristallini fortemente raddrizzati e profondamente intagliati dall’erosione. Talvolta, e specialmente sugli elevati spartiacque di queste valli, la formazione calcarea si estende anche verso Sud sotto forma di lingue e ricopre coi suoi strati disposti orizzontalmente le sommità dei monti, la massa dei quali è costituita da scisti cristallini raddrizzati. In altri punti, laddove le Alpi calcaree e le masse centrali non sono separate orograficamente da valli longitudinali, anche l’originaria discordanza tra calcari e scisti cristallini venne posteriormente resa meno evidente : gli uni e gli altri formano un complessivo sistema di piegature coricate ; gli scisti appaiono spinti verso Nord sopra i cal- cari e questi s’ insinuano a Sud a guisa di cunei fra i banchi delle masse centrali. Identiche insinuazioni di roccie sedimentarie occorrono di soventi anche nell’interno di dette masse od ai contatto di due di queste : in tali punti le roccie sedimentarie sono metamorfosate. Dalle suindicate relazioni di giacitura tra scisti cristallini e roccie di sedimento si deduce che in origine i primi dovevano trovarsi rico- perti da un complesso unito di strati sedimentari e conseguentemente che il mare giurassico occupava l’intera regione delle Alpi attuali. Af- fatto diversa dalla precedente è la natura delle masse centrali dalla parte interna della cerchia alpina. Tale diversità s’appalesa già nella natura delle roccie predominanti, osservando come i veri gneiss, che mancano quasi affatto nelle masse del Nord, assumono da questo lato interno una grande estensione, anche alla superfìcie del suolo, cosi che non è più il caso di parlare di singole isolate masse centrali. Gli strati dei gneiss, dei micascisti e dei cloritoscisti sono di rado molto — 43 — raddrizzati : essi formano d’ordinario delle volte depresse, riunite a ca- tene di una regolarità quasi paragonabile alle catene del Giura. Lad- dove agli scisti cristallini sovraincombono dei sedimenti triasici o giu- rassici la concordanza delle due formazioni è perfetta. Le catene del Sempione e del Rheinwaldho rn ne sono buoni esempi. Nella Svizzera la regione interposta tra le due zone predette non è molto larga. L’andamento di questa zona intermedia è indicato dalla linea Coira, Ilanz, Passo di Grama, Scopi, Airolo, Nufenen, Valle del Reno sino a Martigny, Val Ferret sino al Piccolo S. Bernardo. Le roccie che la costituiscono sono dei sedimenti cristallini di epoca difficile a determinare; quelli dei Grigioni furono recentemente indicati per paleozoici dal Gùmbel, quelli del Vallese per triasici dal Lory ; i caratteri paleontologici provano che quelli del Passo di Graina sino a Nufenen sono giurassici. A partire dal Piccolo S. Bernardo' e lungo tutte le Alpi occiden- tali questo zona intermedia si fa più larga ed è costituita da sedimenti del Carbonifero, del Trias, del Giura e dell’Eocene, debolmente ripie- gati ed attraversati da dislocazioni. Mentre che nelle masse centrali nordiche la direzione predominante degli scisti cristallini è parallela a quella della catena montuosa, si osserva invece nelle masse delle Alpi ticinesi e del Rbeinwaldhorn una direzione N.NO, vale a dire quasi normale all’andamento delle Alpi ; tale divergenza è indicata anche dalla forma orografica del sistema, dacché, mentre nel Nord le creste dei monti, le quali rappresentano gli spartiacque, si dirigono da S.O a N.E, nel Canton Ticino e nella parte occidentale dei Grigioni esse corrono quasi nella stessa direzione del meridiano. A Sud delle Alpi svizzere la zona sedimentaria è meno estesa. Dal Lago Maggiore verso Ovest la pianura del Po spingesi direttamente sino alle masse cristalline; soltanto più ad Est le masse sedimentari si fanno maggiori ed in esse prevalgono le roccie del Carbonifero e del Trias su quelle del Cretaceo e del Giura. Il terreno sedimentario, anziché formare come a Nord una serie di piegature parallele, si suddivide piut- tosto in singole zolle, dislocate l’una coll’altra secondo determinati piani. I graniti ed i porfidi che qui sono intercalati alle roccie di sedi- mento formano parte integrante del sistema e sono di epoca triasica. — 44 — Resta ora d’indagare in quali epoche e per queli forze ebbe origine il sistema montuoso alpino. L’epoca in cui avvenne l’ultimo sollevamento di una catena mon- tuosa può venir determinata constatando l’età geologica della più re- cente formazione stata sollevata e quella della più antica rimasta nelle sue condizioni originarie: naturalmente il movimento avrà avuto ter- mine prima che il sedimento rimasto orizzontale siasi formato. Nella Svizzera i soli depositi che conservarono completamente la loro giacitura originaria sono quelli dell’epoche pliocenica e glaciale, mentre che quelli miocenici si veggono in alcuni punti del lembo al- pino settentrionale fortemente raddrizzati. Ne consegue che il solleva- mento delle Alpi svizzere ha durato sino ad epoca recente; il modo poi con cui i vari complessi di strati sollevati si sovrappongono gli uni agli altri indica che il movimento di formazione del sistema odierno ebbe il suo principio soltanto dopo l’epoca pliocenica; inoltre la diversa giacitura dei sedimenti post-carboniferi rispetto agli scisti cristallini sui versanti Nord e Sud dell’ Alpi svizzere permette di concludere che le formazioni paleozoiche della zona Nord furono già affette da un primo sollevamento avanti l’epoca mesozoica, mentre che invece nella zona Sud la genesi del sistema esordì col sollevamento post-eocenico che abbracciò tutte e due queste zone. I primi geologi che studiarono le Alpi svizzere presero a base delle loro deduzioni il fatto che i sedimenti alpini si trovassero simmetrica- mente ordinati attorno ad un asse costituito da roccie cristalline; e sic- come a priori riguardavano i così detti protogini di cui è formata una gran parte delle masse centrali come una modificazione strutturale di graniti, così era per loro naturale il ricercare la causa della forma- zione delle Alpi nella forza sollevante di roccie eruttive d’emersione centrale. Ma a provare tale ipotesi bisognava dimostrare non solo che le roccie cristalline dell’ Alpi centrali erano veramente eruttive, ma altresì la contemporaneità dell’ emersione loro e del sollevamento alpino. Più moderne investigazioni hanno invece dimostrato che la forma- zione delle Alpi deve essere attribuita ad una causa che agendo este- riormente trovò già formati da lungo tempo tanto i terreni sedimentari che gli eruttivi, e questi e quelli sollevò unitamente. Il materiale co- — 45 — stituente le roccie cristalline è molto più antico del sollevamento del sistema alpino. Le Alpi sono formate a catena e non sono simmetricamente ordi- nate, come sembra a prima vista, ma sviluppate su di un solo lato e devono la loro tettonica ad una forza orizzontale che ha agito da Sud verso Nord. Le masse centrali coi loro graniti, gneiss e scisti non rap- presentano nel sistema alpino che piegature fortemente inclinate e mec- canicamente affatto equivalenti alle piegature dei terreni . sedimentari. Così riconosciuta la parte passiva rappresentata dalle roccie cristalline, anche il quesito sulla natura loro perdette la sua importanza per 1* in- telligenza dell’orogenesi alpina. Le più antiche roccie sedimentarie dell’ Alpi svizzere appartengono indubbiamente all’epoca carbonifera, come ne fanno fede i fossili ben conservati che contengono. Gli scisti cristallini, immediatamente sotto- stanti, sono in parte masse scistose ed in parte roccie di un’origine difficile a spiegarsi ; a queste appartengono i veri gneiss delle masse situate più a Sud. La massa principale degli scisti cristallini va con- siderata rappresentare i sedimenti dell’epoche precarbonifera e carbo- nifera metamorfosati. La maggior parte di questi sedimenti antichi fu di natura clastica, arenarie e rispettivamente grovacche edargillo-scisti ; i calcari vi furono scarsamente rappresentati. Nelle Alpi svizzere i sedimenti paleozoici sono meno sviluppati che nelle Alpi orientali e nei Pirenei, i quali ultimi appartengono del pari al sistema alpino. Come dapertutto anche nella regione delle Alpi svizzere avven- nero nelle prime epoche geologiche delle grandi reazioni dell’interno del alobo sulla crosta terrestre, per parte principalmente del magma granitico che si solidificò sotto dei depositi sedimentari o penetrò fra essi ed in tale quantità da costituire una parte rilevante della crosta solida. Tali intrusioni granitiche entro i sedimenti precarboniferi, che in parte anche metamorfosarono per contatto, erano sotto forma di filoni, di strati e di masse ancora maggiori. Nell’epoca carbonifera si formarono nella regione alpina anche prodotti vulcanici, vale a dire i porfidi di Windgàlle e del lago di Lugano. Alla line delPepoca paleozoica non esisteva ancora traccia di un sistema alpino distinto, ma tutta l’Europa media presentava l’aspetto di un altipiano sparso di colline e qua e là anche di mari poco prò- -46- fondi. Soltanto alla fine del Carbonifero principiarono ad estrinsecarsi in modo sensibile le forze orogenetiche nella regione delle Alpi : l’intero sistema concordante dei gneiss antichi e dei sedimenti paleozoici, com- prese anche le roccie eruttive intercalate, venne corrugato da una forza agente tangenzialmente alla superficie del globo. Il carattere opposto che si rileva nella tettonica delle Alpi meridionali e setten- trionali è conseguenza di questo corrugamento che interessò tutta la media Europa. In forza del medesimo si è sollevato un sistema unito di piegature, la catena varisciana, che estendevasi dalla linea del Reno e del Rodano, da Coira e Martigny, sino aH’estremità Nord dell’alto Venn, del Sauer- land e dell’Harz, mentre le masse della zona meridionale alpina con- servarono la prisca giacitura loro. Di questa catena non esistono oggidì che pochi ruderi a testimoniare della medesima, perchè distrutta mano mano dall’opera di denudazione, mercè la quale ebbe principio un nuovo sistema di sedimenti che andò a depositarsi con giacitura sconcordante sulle pieghe denudate del sistema. Già da questo primo corrugamento le relazioni di giacitura tra roccie sedimentarie e roccie massiccie vennero sturbate, ed anzi fu per esso iniziata una metamorfosi sostanziale e strutturale, come lo si desume dall’osservazione di quegli avanzi della catena varisciana che dall’epoca carbonifera in poi rimasero stazionari. Un posteriore potente corrugamento venne a modificare totalmente il nuovo stato di cose. Che lo studio degli avanzi varisciani venga in certo modo a spie- gare l’origine degli scisti cristallini alpini emerge dagli esempi seguenti. Frammezzo alle grovacche ripiegate dei Vosgi meridionali, che sono una parte della sparita catena, si trovano delle roccie schiacciate e rese scistose le quali sostanzialmente e per struttura sono identiche a certi gneiss impuri delle Alpi. Anche frammezzo i sedimenti paleozoici della Brettagna, che pure appartengono alla catena varisciana s’incon- trano delle masse granitiche che sui loro lembi meridionali passano a roccie gneissiche : si può dimostrare che quest’ultime altro non sono che graniti divenuti scistosi meccanicamente in forza dell’avvenuto cor- rugamento alpino, essendo che le squame di mica vi appaiono contorte, stracciate, laminate, frantumati i grani di quarzo, rotti ed arrotondati sugli spigoli i cristalli di feldspato, e tutti questi primitivi elementi sono cementati assieme da prodotti neogenici quali il mica sericitico ed il quarzo. E da ciò risulta come già il primo corrugamento post-carboni- fero abbia potuto trasformare dei graniti normali in protogini e delle grovacche in roccie gneissiche. La seconda fase della formazione sedimentaria alpina principia coll’epoca permiana ed il suo primo prodotto consiste nelle arenarie del Verrucano formatesi col detrito dell’antica catena. In taleepoca l’atti- vità vulcanica era vivissima: nelle Alpi orientali si ha l’espandimento porfirico di Bolzano e nelle Alpi svizzere non mancano roccie d’espan- dimento intercalate nel Verrucano, come per es. i porfidi quarziferi di Bergùn sulla Via Albula eli melafiri dei monti di Glarn. Dopo il Verrucano la regiono alpina all’Ovest del Reno rimase per lungo tempo continente, mentre nell’ Alpi orientali si depositavano potenti sedimenti triasici. Nelle Alpi francesi ed italiane si hanno degli scisti grigi con gessi, depositatisi nelle lagune nell’epoca del Trias. Più tardi la regione svizzera oggidì occupata dalle Alpi venne rico- perta dal mare e vi si depositarono sedimenti giurassici, cretacei ed eocenici. Tale invasione del mare non avvenne però in modo continuato e soltanto alla fine dell’epoca giurassica un mare esteso e profondo occupava tutta la regione : i sedimenti di quest’epoca ricoprirono le rorcie più antiche già sollevate e piegate della zona alpina settentrio- nale e quelle altresì rimaste orizzontali della zona Sud. L’estensione e natura poi dei sedimenti cretacei danno a riconoscere che le parti centrali delle Alpi divennero a poco a poco di bel nuovo continenti, mancandovi affatto i depositi del cretaceo superiore e delPEocene in- feriore: soltanto neirEocan e più recente il mare assunse una maggior estensione e ricevette depositi di arenaria nummulitica e di scisti del Flysch. Sin ora non si è potuto constatare con certezza la presenza di roccie eruttive dell’epoca giurassica o cretacea; nell’eocenica avven- nero eruzioni di roccie diabasiche, che però scarsamente s’ incontrano nella loro condizione originale, mentre all’incontro è assai esteso un prodotto secondario derivato dalle medesime, vale a dire un’arenaria eocenica conosciuta sotto il nome di arenaria di Taveyannaz. Alla fine del periodo eocenico ricominciarono ad agire, come alla — 48 — fine del paleozoico, le forze sollevanti con direzione da Sud a Nord, le quali incontrarono nella zona settentrionale svizzera un sistema già sollevato e piegato e sopracaricato di un complesso di strati sedimen- tari orizzontali di un migliaio di metri di potenza, e nella zona meri- dionale tutto un sistema concordante di formazioni geologiche a comin- ciare dal gneiss arcaico sino al terziario medio. Il processo di sollevamento perdurò a lungo e raggiunse probabilmente il massimo di sua intensità sul finire del periodo miocenico, considerato che anche i conglomerati di quest’ultimo si presentano sul lembo Nord delle Alpi fortemente raddrizzati in molti punti. Quest’ultimo corrugamento è quello che ha individualizzato l’odierno sistema alpino ed al tempo stesso anche la catena del Giura che è un ramo laterale del medesimo. Soltanto la parte meridionale dell’intera massa stata soggetta al corrugamento post-carbonifero venne nuova- mente sollevata a poderosa catena di montagna; all’incontro la regione prealpina settentrionale subì un abbassamento, ma alcuni tratti dell’an- tico sistema rimasero intatti e sono quelli che oggidì costituiscono l’al- tipiano centrale della Francia, i Vosgi e la Selva Nera, circondati da più recenti sedimenti appartenenti al periodo terziario. L’ andamento arcuato del sistema alpino più recente è appunto dovuto alla presenza di dette masse più antiche. Per rendersi conto dei lunghi e complicati processi orogenetici at- traverso i quali è passata la tettonica delle Alpi svizzere per raggiun- gere l’attuale conformazione e per ricostruire in certo qual modo lo stato di cose predominante nei tempi anteriori è duopo rintracciare degli altri sistemi orografici i quali, per quanto basati in modo analogo, rimasero nondimeno arretrati nel loro sviluppo a confronto delle Alpi, così che oggidì rappresentano degli stadi precedenti della formazione alpina. In questi sistemi più antichi s’ incontreranno naturalmente dei sedimenti con giacitura orizzontale, i cui equivalenti saranno nelle Alpi fortemente inclinati. Sotto gli strati orizzontali giurassici di Normandia si vede appa- rire verso Ovest, vale a dire in Brettagna, un antico sistema montuoso sollevato e piegato, i cui sedimenti più recenti appartengono al periodo carbonifero, dei quali però non rimangono più che alcune catene di colline in conseguenza della sofferta denudazione. Dal carbonifero in — 49 — poi questa regione non fu mai ricoperta completamente dal mare. D’altra parte sappiamo altresì che laddove oggidì sorgono le Alpi svizzere, iVosgi e la Selva Nera, si era formata sulla fine del Carbonifero una catena montuosa le cui pieghe vennero distrutte dall’erosione e che questa re- gione rimase per lunga epoca allo stato di continente. Si può dunque asserire che l’attuale Brettagna rappresenta lo stato geotettonico della zona alpina settentrionale quale era ai tempi dal Verrucano sino al Lias. E come odiernamente le acque della Manica e dell’Atlantico corrodono le coste dell’antico continente brettone e sempre più s’inoltrano entro terra, così pure nella regione alpina il mare giurassico si estese anti- camente, e a poco a poco su tutto il continente. I sedimenti mesozoici ricoprirono la catena varisciana, vale a dire tutta 1’ Europa media; ma mentre che i medesimi vennero sollevati e ripiegati nelle Alpi e nel Giura nel periodo terziario assieme alle roccie più antiche sottostanti, e mentre andarono soggetti ad abbassamento nella regione delle col- line svizzere ed in quella piana del Reno superiore, rimasero all’incontro stazionarie in massima parte e sino dalla fine dell’epoca mesozoica la Selva Nera, i Vosgi e l’altipiano centrale francese, e soltanto le forze denudatrici hanno costì modificato da allora in poi il rilievo orografico. Laddove però nelle anzidette regioni i sedimenti mesozoici rimasero incolumi si ha una esatta immagine della tettonica delle Alpi svizzere settentrionali, quale essa era prima dell’ultimo corrugamento: invece la parte meridionale della Selva Nera e dei Vosgi, dove i sedimenti furono soggetti all’erosione, rappresenta come in Brettagna lo stato dell’an- tica Europa al finire dell’èra paleozoica. I Pirenei fanno parte del sistema alpino : 1’ ultimo corrugamento dei medesimi principiò bensì contemporaneamente a quello dell’ Alpi svizzere, ma finì più presto, considerato che gli strati loro più recenti colpiti dal movimento appartengono al periodo eocenico, mentre la mo- lassa miocenica sul lembo settentrionale dei veri Pirenei ha giacitura orizzontale, nè mai venne sollevata. Gli odierni Pirenei rappresentano sotto un certo qual rapporto le condizioni predominanti nelle Alpi sviz- zere prima del corrugamento della molassa. Nell’istituire un paragone tra le Alpi mioceniche svizzere e gli odierni Pirenei, bisogna però considerare che la preistoria di queste due catene non è identica. Le traccie di una formazione geologica 4 prepermiana sono evidenti tanto nei Pirenei che nelle Alpi svizzere settentrionali, ed anzi più evidenti nei primi. La rispettiva giacitura e l’estensione degli strati del Cretaceo inferiore e superiore nei Pirenei danno indizio di potenti dislocazioni stratigrafiche avvenute in questa catena nell’anzidette epoche di formazione, e tali da conseguirne l’ab- bassamento di singoli tratti di catena nel senso di linee di rigetto parallele per la massima parte all’estensione lungitudinale dei Pirenei stessi. Laddove codesti abbassamenti furono abbastanza rilevanti, spe- cialmente sui margini esterni della catena, anche il mare del Cretaceo superiore e dell’Eocene s’impadronì a poco a poco del continente, pene- trando spesse volte sotto forma di fyord entro i tratti di montagna rimasti in posizione. 11 piano inferiore del Cretaceo superiore, vale a dire il Cenomaniano, è costituito là da conglomerati e da materiali sabbiosi che indicano la vicinanza di una spiaggia tormentata dalle onde. Anche nelle Alpi francesi occidentali riscontriamo le traccie di simili avvenimenti. La più spiccata circostanza che distingue la tetto- nica geologica del versante settentrionale dell’ Alpi svizzere da quella dei Pirenei è la presenza in quest’ultima di grandi faglie longitudinali, mentre che nelle prime occorrono quasi esclusivamente delle pieghe che più o meno si sovrappongono. Abbiamo già accennato come nella Svizzera il Flr/sch eocenico siasi direttamente depositato sugli strati in allora orizzontali del Cre- taceo inferiore e del Giurassico. Nell’ epoca in cui nei Pirenei e nel- l’Alpi occidentali francesi, 1* ossatura orografica si è sprofondata e mentre la regione si abbassava per modo da poter essere occupata dal mare, dominava nella Svizzera durante l’intera e lunghissima epoca del Cretaceo superiore e dell’ Eocene inferiore un periodo di quiete continentale. Ciò spiega in parte la rarità degli spostamenti in senso longitudinale nelle Alpi svizzere, dove il sollevamento principale e il ripiegamento posteocenico interessarono un sistema stratigrafìco oriz- zontale e coordinato, mentre che nei Pirenei trovò una parte del sistema orografico già smembrata. Quanto sia stato considerevole lo spostamento cui andarono sog- getti tutti i membri costituenti la catena delle Alpi svizzere la cui tettonica, come abbiam detto, è un prodotto del sollevamento e ripie- gamento posteocenico, risulta dallo studio , delle fasi successive di mo- — 51 — dificazione stratigrafica cui andò soggetto qualche membro, del sistema tra i più antichi e meglio determinati. Si scelga, a mò d’esempio, il porfido della Windgàlle. Questi si era già espanso sulla superficie del suolo sotto forma di colata sin dall’esordio dell’ epoca carbonifera, ed era lambito da acque poco profonde, al fondo delle quali si depositarono dei conglo- merati antracitiferi. A poco a poco, crescendo il livello delle acque, il porfido venne da questa ricoperto e dalle ghiaie depositatesi in fondo alle medesime. Prima dell’ epoca permiana tanto il porfido che i sot- tostanti sedimenti paleozoici colle inclusive masse granitiche vennero sollevati e ripiegati. Il porfido ed i sedimenti sottostanti, che costituivano i membri su- periori di questa catena postcarbonifera, furono per la massima parte distrutti dall’opera di denudazione cui è dovuta la produzione delle arenarie del Verrucano. Soltanto una piccola porzione dell’antica colata, inclusa tra gli strati raddrizzati del Carbonifero e di formazioni an- cora più antiche, rimase incolume. Tali condizioni rimasero stazio- narie finché nell’epoca giurassica il mare cominciò a ricoprire il con- tinente; e mentre esso guadagnava in estensione e profondità, anche il porfido veniva ricoperto dai sedimenti del medesimo. Prima che prin- cipiasse il principale sollevamento e il corrugamento delle Alpi, il porfido si trovava, dall’epoca giurassica sino all’ eocenica, ad una pro- fondità di circa 600 m. sotto il complesso degli strati. In causa del sollevamento posteocenico gli strati profondi furono nuovamente solle- vati, ed i sedimenti mesozoici nelle parti centrali dell’Alpi furono smem- brati e piegati sul margine del sistema orografico. Laddove, verso ►Sud, la massa riunita delle roccie cristalline sporge dal disotto degli strati sedimentari, noi vediamo oggidì il porfido della Windgàlle in stretta connessione con depositi del Carbonifero giacere sopra gli stessi strati giurassici ed eocenici sotto i quali rimase per lungo tempo sepolto. Tanto il porfido che gli strati del Carbonifero sono così tratti fuori dal sistema degli scisti cistallini, nel quale rimasero per tanto tempo inclusi. Questo esempio ci ha dimostrato come una data porzione di un sistema orografico sia stata per due volte coperta da formazioni sedi- mentarie e due volte portata alla superficie dalle forze orogenetiche e data in preda all’azione demolitrice dell’erosione. — 52 - Degna d’attenzione è inoltre la strutturale modificazione delle roccie, che procede di pari passo coi mutamenti subiti dalle masse e che per la massima parte è conseguenza di quest’ultimi. Si può dire che nelle Alpi non trovasi oggigiorno un pezzo di roccia il quale non presenti traccia di subita deformazione meccanica : noi troviamo il calcare della formazione giurassica, massiccio in origine, ora laminato sottilmente ed i suoi fossili rotti e corrosi : porfidi massicci sono convertiti in felsito- scisti, calcari compatti in marmo cristallino con mica, argilloscisti mar- nosi, dolomitici in scisti cloritoidi, e tutto ciò laddove hanno agito in forte grado le forze di compressione. Ed anche nella genesi degli scisti cristallini, potendo avvenire che le roccie sedimentarie divengano cristalline e le eruttive assumano struttura scistosa ed apparente stratificazione, cosi nelbunee nell’altro i prodotti di metamorfismo si sviluppano in egual modo ne’ loro stadi ultimi. Ora, avendo gli antichi ammassi granitici perduta la loro caratteristica geo- gnostica in causa dell’intenso sollevamento e corrugamento orografico, e siccome i loro banchi d’origine secondaria sono disposti parallelamente agli strati primitivi ovvero all’apparente stratificazione scistosa di roccie sedimentarie metamoforsate, così ne viene che talvolta si rimane in dubbio se alcune roccie delle masse centrali appartengono a graniti eruttivi, a gneiss antichi oppure a sedimenti metamorfici. Lo stesso fenomeno avveratosi dopo il primo sollevamento post- carbonifero delle Alpi, vale a dire la formazione di potenti conglome- rati, si ripetè allorquando sulla fine dell’Eocene principiarono a solle- varsi le catene interne delle Alpi stesse. La molassa delle colline sviz- zere è composta dai prodotti dell’abrasione delle acque sul nuovo si- stema di monti. Grandi fiumane li convogliarono al mare che stava a piedi del continente che continuava a sollevarsi lentamente. Non è dif- fìcile rendersi conto degli estesi depositi fluviatili oligocenici e miocenici che si trovano sul margine delle Alpi settentrionali. Il sistema alpino in via di formazione aveva una posizione insulare, in quanto che dalla parte Sud il mare era assai più esteso che l’odierno Mediterraneo, ed un braccio d’esso, il cosidetto mare elvetico, si protendeva, dipartendosi dalla Francia meridionale, lungo il margine Nord delle Alpi. Le acque meteoriche dovettero essere abbondantissime nell’isola montuosa ed estesa in lunghezza e per conseguenza rilevante anche l’azione dell’ero- — 53 — sione : in causa del lento sollevamento delle Alpi ed abbassamento della regione posta innanzi ad esse, i fiumi acquistarono maggior dislivello e maggior forza impulsiva, così che le masse rocciose già rimosse dal- l’erosione poterono essere convogliate alla pianura dove si depositarono. Mentre nelle parti mediane delle colline svizzere la formazione della molassa si compone di arenarie fine e di marne, i conglomerati grossolani, la cosidetta nagelfluh, predominano e si estendono sempre più avvicinan- dosi alle Alpi ed al Giura e costituiscono sul margine alpino la roccia predominante del Miocene : i ciottoli sono in parte calcari, in purte silicati cristallini. La posizione e l’estensione di questi conglomerati accennano a grandi correnti la cui principale direzione era da Sud a Nord o da S.E a N.O. Un esame anche superficiale scopre tra questi ciottoli delle specie di roccie che non appartengono ai tipi predominanti nelle Alpi. A spiegare la presènza di questi ciottoli eterogenei nei con- glomerati svizzeri si fecero varie ipotesi. Escher von der Linth, e più tardi lo Studer, ammisero 1’esistenza di una catena prealpina sul finire dell’epoca eocenica quando le Alpi erano appena debolmente sollevate, la quale catena era composta di granito, porfido, serpentino e di scisti metamorfici, attraversati e ricoperti in parte da diramazioni del sistema calcareo alpino. Da questa catena, paragonabile alle Prealpi che oggidì limitano il margine alpino meridionale da Lugano fino a Ivrea, sareb- bero provenuti i ciottoli eterogenei della molassa. Essa fu in parte demolita dall’erosione e quando avvenne il sollevamento principale delle Alpi essa in parte sprofondò ed in parte rimase ricoperta dalle masse alpine sospinte verso Nord, che le si sovrapposero : per tal modo la molassa e le Alpi, separate dapprima dall’anzidetta catena, vennero a contatto diretto. Per evitare la suindicata ipotesi si tentò più recentemente di pro- vare che nelle Alpi odierne si rinvengono tutte le specie di roccie contenute nella molassa: i ciottoli eterogenei nella medesima derive- rebbero dalla Svizzera occidentale e dalle Alpi orientali, trasportativi da grandi fiumane eoceniche aventi direzione da S.E a N.O, il cui bacino trovavasi nell’ Engadina e nel Tirolo occidentale. Comunque sia, non è possibile di negare la differenza che esiste tra le roccie a silicati nei ciottoli della nagelfluh e quelle delle masse centrali alpine. — 54 — Tutte le roccie a silicati delle Alpi svizzere, per lo meno quelle delle masse settentrionali più sollevate, quali sarebbero quelle del Monte Bianco, delle Aiguilles Rouges, del Finsteraarhorn e del Got- tardo, presentano delle particolarità indiscutibili che dipendono da subita deformazione meccanica e da prodotti neogenici. All’incontro i graniti, i gneiss ed altre roccie affini che si veggono sotto forma di ciot- toli nella ncigelfluh sono prodotti con sviluppo perfettamente normale ed affatto destituiti del carattere alpino. Potendosi ammettere che lo sviluppo della facies petrografia al- pina sia principalmente una conseguenza del sollevamento post-mio- cenico delle Alpi, in allora anche la differenza tra roccie alpine e roccie della nagelfluh eocenica sarebbe in parte spiegabile mediante P ipotesi che quest’ultime sieno state divelte dai loro giacimenti prima ancora del sollevamento suddetto ed incorporate nella molassa, entro la quale non subirono trasformazioni dinamo-metamorfiche sensibili. Tuttavolta avviene in casi speciali che l’anzidetta differenza è talmente grande da non poter essere spiegata con tale semplice ipo- tesi. Ulteriori studi decideranno se a spiegazione del fenomeno debbasi ricorrere o meno all’ ipotesi di Studer di cui è fatto parola più sopra. Abbiamo visto come sul finire dell’èra mesozoica la regione set- tentrionale delle Alpi svizzere presentava una costituzione omogenea; Alpi, Selva Nera e Vosgi costituivano un unico assieme, che venne in- terrotto dippoi dal sollevamento alpino : il tratto di congiunzione si spro- fondò. Senza internarsi maggiormente in questi quesiti complicati, basti osservare che le note scogliere ed i blocchi esotici nel Flysch della catena alpina settentrionale hanno forse correlazione coi ciottoli ete- rogenei della molassa e che probabilmente tutte queste formazioni altro non sono che i ruderi di quel tratto di catena inabbissatosi tra le Alpi e la Selva Nera, e che da questo punto di vista non potrebbe confondersi, riguardo alla sua costituzione stratigrafica ed alla sua tettonica geologica, colla catena eruttiva del margine meridionale al- pino, ma piuttosto con quei tratti dei Vosgi e della Selva Nera che an- cora conservano un indumento di strati sedimentari dell’ epoca meso- zoica. Recentemente il Gumbel, trattando delle Alpi dell’Algovia, cita la presenza qua e là di scisti cristallini antichi, i cui giacimenti si trovano 55 — lungo una linea di spostamento occorrente tra il Trias e l’Eocene, il che, a giudizio del predetto geologo, accennerebbe all’esistenza di una antica catena già esistente sul margine settentrionale delle Alpi : la quale opinione accennerebbe alla ripresa in considerazione della nota ipotesi dello Studer. I terremoti dell’epoca moderna ci provano che il sistema alpino non raggiunse peranco il periodo di quiete assoluta. Le numerose scosse che sistematicamenté si osservano nella Sviz- zera da lunghi anni a questa parte, lasciano intravedere, per la dire- zione secondo la quale si estendono, delle determinate relazioni colla tettonica della regione. Laddove anticamente si manifestarono movi- menti tellurici, esistono anche oggidì delle tensioni che risolvendosi di tratto in tratto, producono dei terremoti. La massima parte dei fe- nomeni sismici della Svizzera derivano dal perdurante processo oro- genetico nella regione delle Alpi e del Giura. Le lente alterazioni di livello che ne conseguono sono per lo più così piccole da sfuggire all’osservazione geodetica limitata a brevi periodi di tempo; giova infrattanto menzionare che da una recente revisione delle misure pra- ticate trentanni addietro del triangolo geodetico Làgern-Rigi-Napf è risultato che la distanza del culmine ultimo appartenente al Giura dagli altri due spettanti alle Prealpi svizzere è diminuita nel predetto decorso di tempo, di circa un metro. L’azione meteorica allenta la coesione, decompone, frantuma le masse rocciose, i torrenti convogliano alla pianura continuamente nuovi cumoli di detrito, e sempre più aumenta la barriera di macerie formatasi nell’epoca miocenica e già cresciuta in proporzioni pel ma- teriale morenico accumulato durante la grande estensione dei ghiac- ciai : i ciottoli fluviatili si cementano e formano la solida roccia della nagelfluh, le ghiaie colmano a poco a poco i laghi delle Prealpi alla guisa stessa che nell’opoca miocenica i torrenti alpini formarono dei delta potenti entro il mare poco profondo della Svizzera centrale e perdura tuttora il periodo di formazione esordito sul finire dell’ Eocene, nè avrà fine se non allorquando la totale livellazione delle Alpi sarà un fatto compiuto ed il mare ricoprirà di bel nuovo e stabilmente la intera regione. Oli scisti cristallini nelle Alpi Lepontine e loro rapporti con le roccie mesozoiche ; osservazioni del Prof. T. G. Bonney. (Dai Pròceedìngs of thè Geological Society of London, 22 gennaio 1890). Nella discussione cui di’ede luogo alla Società geologica di Londra la lettura della nota del Prof. T. G. Bonney: On two traverses of thè cristalline rocks of thè Alps si affermò esistere nelle Alpi Lepon- tine roccie con graniti, staurotide, ecc., le quali contengono fossili me- sozoici e non possono distinguersi dagli scisti cristallini, considerati dall’autore di quella nota come arcaici. Per rispondere a questa ob- biezione, il Prof. Bonney si recò lo scorso mese di luglio ad esaminare i fatti sul terreno: e nella seduta del 22 gennaio scorso espose a quella Società le conclusioni del suo studio, che pienamente confermano le idee da lui precedentemente manifestate. Il contatto fra il marmo bianco grandemente cristallino di Altkirch (presso Andermatt) riferito al giurassico, e lo scisto cristallino nero arcaico è, secondo il Bonney, dovuto ad una piega. Gli scisti dì Val Piova , molto sviluppati presso il lago di Ritom, dividonsi in due gruppi; formato l’uno di micascisti scuri, contenenti qualche volta granati neri, con strati di quarzite, e l’altro di micascisti e calcescisti vari. Fra i due gruppi si ha uno scisto, apparentemente non continuo, con grandi staurotidi. A settentrione si hanno gli scisti a granati ed actinoliti del S. Gottardo, e quindi gneiss; a mezzodì si hanno gneiss. Si ha pure una rauchwacke , la quale, a primo aspetto, appare essere inferiore agli scisti di Plora, e, siccome essa è tria- sica, tali scisti risulterebbero mesozoici. Ma così fatto rapporto è, secondo il Prof. Bonney, solo apparente, qui come in Val Canaria e negli altri punti in cui si manifesta. Gli scisti presentano caratteri di molto maggiore antichità della rauchwacke ; essi sono indubbiamente sedimenti alterati, hanno* spesso subito forte compressione dopo la mineralizzazione; i granati, le staurotidi, ecc., 1 Vedi Abstracts of thè proceedings of thè Geological Society of London , No 529; e Bollettino del R. Comitato Geologico, voi. XX, pag. 52. -57 — sono bene sviluppati e sono minerali autogeni. L’aspetto cristallino delle rauehwaeke non è affatto simile a quello degli scisti, ma è piut- tosto quale suole manifestarsi in roccie della loro età; esse contengono mica ed altri minerali derivati, ed in certi punti racchiudono frammenti di roccie al tutto simili a quelle della serie degli scisti. In Val Canaria scisti identici si presentano sopra e sotto alle rauehwaeke , e si hanno indizi di grandi pressioni prodottesi dopo la mineralizzazione degli scisti; e qui pure le rauehwaeke contengono frammenti degli scisti che si vorrebbero superiori a loro. Nell’Alpe Vitgira, a Scopi ed al Passo di Nufenen, belemniti e fram- menti di crinoidi si presentano in una roccia scura, scistosa, alquanto micacea, spesso zeppa di noduli e prismi di forma mal definita, qual- cosa come granati arrotondati e staurotidi male sviluppate. Tale roccia, nell’Alpe Vitgira, è superiore agli scisti a granati neri, e sul terreno può distinguersi da essi. In un punto essa ha l’aspetto di breccia com- pressa e contiene una roccia simile ad una varietà compressa dei mi- cascisti a granati neri. Gli scisti giurassici, malgrado una grande rassomiglianza superficiale, sono totalmente differenti da quelli a granati neri: così, la loro matrice è fortemente calcarea, mentre gli altri sono essenzialmente formati di silicati. Uria parte della mica di queste roccie giurassiche può essere autogena, ma il più di essa, come pure altri minuti costituenti, è derivata: v’è però un minerale analogo ad una mica, che offre geminazioni con (?) estinzione simultanea, il quale è autogeno. I noduli, dianzi indicati, sono costituiti da matrice della roccia le- gata da un silicato indeterminabile; e sotto il microscopio non hanno somiglianzà di sorta coi granati neri. I prismi sono analoghi ai noduli ma alquanto meglio definiti; non somigliano alla staurotide e possono essere couseranite o un minerale affine al dipiro. Per quanto adunque queste roccie giurassiche presentino un’altera- zione maggiore di quella abituale in roccie mesozoiche, e vi si sia pro- dotto un gruppo interessante di minerali, esse differiscono grandemente dai veri scisti cristallini delle Alpi e non infirmano gli argomenti ad- dotti a sostegno dell’antichità di questi ultimi. Com’ebbe il Prof. Bonney esposte le conclusioni precedenti, il dot- — 58 — tore Geikie lesse una lettera del Prof. Heim scritta dopo lettura della prima nota del Prof. Bonney della quale la presente è complemento e conferma. Premesso che mai nessun geologo svizzero asserì che gli scisti cristallini del massiccio centrale delle Alpi sieno roccie mesozoiche metamorfosate, dice essere in perfetto accordo con gli autori che meglio conoscono tale massiccio (Baltzer, Fellenberg, ecc.) nello stabilire i punti seguenti : 1. Roccie scistose cristalline mesozoiche esistono a Scopi, nella Valserthal (Graubùnden), nell’ Urserenthal, sopra Piora, al Passo di Nufenen, nella Val Canaria, nella Ganterthal, ed in molti altri punti. Tali roccie sono: a) Scisti argillosi, con mica, granati, zoizite, staurotide, rutilo, e con belemniti cristalline e granulari; b) Scisti argillosi con mica, staurotide, granati, ecc., alternanti con scisti a belemniti; e) Scisti plagioclaso-anfìbolici verdi, alternanti con gli scisti a belemniti ; d) Filliti micacee e micascisti calcarei; e) Marmo con mica che ha subito uno sforzo lineare, passante a calcare del Malm con crinoidi. 2. Queste roccie non furono mai denominate da Heim scisti cristal- lini, ma furono sempre considerate come formazioni sedimentarie meta- morfosate, costituenti bacini sinclinali tra i massicci centrali: non hanno l’aspetto dei veri scisti cristallini, benché qualche esemplare non possa distinguersi da essi senza l’esame stratigrafico. Esse si presentano sempre in zone sinclinali (conche), accompagnate da altre roccie se- dimentarie. 3. Nei massicci centrali si hanno roccie che nel modo di presen- tarsi rassomigliano perfettamente ai veri scisti cristallini. Petrografì- camente sono ad essi rilegate da roccie di passaggio: o; quanto meno, la linea di separazione non è facilmente riconoscfbile. Sono filliti, clo- ritoscisti, felsitoscisti, micascisti, specialmente gneiss sericitici. Esse sono certamente paleozoiche per i motivi seguenti: a) In qualche punto vi sono intercalati letti di scisti grafitici e talvolta antracitici (Bristenstock, ecc.); — 59 — b) Vi si trovarono spesso traccie di fossili (tronchi di Calamites a Gultannen nell’ Haslithal, piante carbonifere sul Todi, ecc.); c) All’estremità del massiccio centrale zone distinte di scisti carboniferi si sviluppano spesso dalle zone di questi gneiss sericitici ; e la loro disposizione a sinclinale, rapporto agli gneiss granitici antichi, vi è indicata dall’ inserzione a cuneo di più recenti formazioni sedimen- tarie non alterate; d) Heim ha già dimostrato nel suo gruppo Tòdi-Windgàllen che persino il Verrucano (Permiano), quand’ è compreso fra scisti cristal- lini, assume stretta somiglianza con essi e si mostra come parte del massiccio centrale cristallino. 4. Nella rauehwacke triasica trovansi frammenti di queste roccie, ma non degli scisti granatiferi di Scopi che sono più recenti di esse ed appartengono alle vere zone sinclinali sedimentarie (conche). 5. Nelle Alpi centrali esiste una grande sconcordanza tra il me- sozoico ed il paleozoico, ma non fra questo e l’azoico. Le formazioni paleozoiche mostrano un rapporto interno con gli scisti cristallini, e sono convertiti petrograficamente in detti scisti. I massicci centrali consistono, per forse due terzi, di scisti cristallini più antichi del Cambriano, e rappresentanti forse in parte la crosta primitiva (gneiss granitici, protogino); e per il rimanente, di micascisti, scisti sericitici, anfiboliti ed altre roccie simili derivate per metamor- fismo dinamico da scisti, arenarie e conglomerati paleozoici. Baltzer distingue il nucleo antico e la crosta più giovane (scisti) del massic- cio centrale. Le formazioni precedenti sono seguite qualche volta in concor- danza e qualche altra no, dai depositi mesozoici. In certi punti questi sono divenuti cristallini e scistosi; in questo caso non presentansi mai come un costituente del massiccio centrale, ma sono invece accompa- gnati da altri depositi mesozoici, o sono intercalati come conche en- tro i massicci centrali, e sopratutto fra di essi. Il Dott. Geikie, il quale non accetta le idee del Prof. Bonney in disaccordo con quelle dei geologi svizzeri, ritiene verosimile che gli scisti a granati neri siano parte di una stessa serie con gli scisti a belemniti, potendo questi aver subito meno profonde alterazioni di quelli dai quali ogni traccia di fossili è stata cancellata. 1 — 60 — In riassunto, dalla fatta discussione risulta: 1° Che molto di ciò che si riteneva nelle Alpi come apparte- nente ai veri scisti cristallini , va invece attribuito al paleozoico ; 2° Che le roccie cristalline metamorfiche di età mesozoica sempre si presentano come terreni di sedimento e che tali roccie mai furono denominate scisti cristallini nel senso stratigrafico della parola. Osservazioni geologiche sulle isole Yentotene e Santo Ste- fano ( gruppo delle Isole Ponza), del Doti H. J. John- ston-Lavis. (Da una nota inserita nel Geological Magazine , fase, di dicembre 1889). Ventotene. — I depositi più antichi visibili di quest’isola, scorie, lapilli e ceneri, mostrano essere stati emessi da un cono in uno stato di attività non dissimile da quello del Vesuvio in parecchie delle sue più energiche fasi. Tale cono pare si trovasse ad Ovest dell’estremità meridionale dell’isola, o ad Ovest-Nord-Ovest di questa : poiché in questo punto si hanno i depositi più antichi al livello più elevato. Si avrebbe quindi quivi, una parte dei fianchi di quel cono; anche le valli, se così ponno chiamarsi, irradiano da quel punto. Questi depositi furono seguiti da una grande e continua emissione, non interrotta da espulsione di materiali frammentari, di lave doleritiche, le quali formano la base della prominenza meridionale dell’isola. Pare che esse siano sgorgate da qualche fessura del vecchio cono e siensi accumulate in questo punto, così come si osservò nelle eruzioni vesu- viane degli ultimi dieci anni. Il vulcano pare sia quindi rimasto qualche tempo inattivo, permet- tendo la formazione di un deposito di breccia stratificata : i depositi successivi indicano un alternarsi di eruzioni esplosive con intervalli di riposo. Non può dirsi se tali eruzioni produssero un grande cratere o più crateri nel cono antico, oppure si effettuarono a qualche distanza da esso: non è improbabile che il cono di dolerite ne fosse in parte demolito. — 61 — L’ultima delle indicate eruzioni esplosive pare sia stata seguita da un periodo d’attività, che probabilmeente riparò tutto o in parte l’antico cono. Un dicco si aprì la strada alla superficie e diede origine ad un cono di scoria visibile al Piano degli olivi e tra il Telegrafo e la Terra abbandonata , dal quale sgorgarono una o più correnti di lava. Ricomincia quindi una serie di eruzioni esplosive con grande depo- sizione di pomici e ceneri, senza potere assicurare dove fosse il centro di emissione, non è però improbabile sieno stati emessi da differenti centri. L’ultimo di questi, pare sia stato molto prossimo a Ventotene, certo più vicino a Ventotene che a S. Stefano per quanto indica la dimensione relativa dei depositi corrispondenti nelle due isole. Ecco la serie completa dei terreni dell’isola quale si vede sulle sue coste dirupate : 1) Terreno vegetale 2) Dune di sabbia risultante da augite ed altri minerali e di conchiglie marine frantumate, con molte Helix , e ricche di concrezioni m. 4,00 3) Terra bruna con concrezioni, specialmente alla base, spesso con strati di sabbia trasportata dal vento . . » 7,00 4) Tufo giallo compatto 4 a » 7,00 5) Polvere grigia compatta e scoria pomicea, con strale- relli di scorie pomicee sciolte » 0,90 6) Pomice scoriacea con frammenti di lignite .... » 0,05 7) Lapilli, riuniti in ammassi * » 0,20 8) Polvere bruno-rossastra » 0,25 9) Strato di pomice, decomposta alla parte inferiore . . » 1,00 10) Cenere rossa » 0,40 11) Pomice, resa spesso compatta da infiltrazioni calcaree. » 1,10 12) Polvere pomicea stratificata, rossa in alto .... » 0,65 13) Pomice alquanto decomposta » 0,90 14) Polvere nera finamente stratificata, passante allo strato successivo » 0,60 15) Pomice e lapillo » 1,80 13) Pomice e lapillo più compatti dei precedenti e conte- nenti straterelli di cenere » 0,60 17) Polvere grigia e lapillo ...» 1,60 — 62 — 18) Polvere grigio-cenere fine o grossolana, con pomice alla base : è compatta, pisolitica o concrezionata . . m. 4,80 19) Terra brunastra con scorie e pomici, formante uno strato molto irregolare » 1,20 20) Polvere verdastra finamente stratificata » 1,60 21) Polvere e lapilli, in gran parte fini » 1,00 22) Polvere bruna, finamente stratificata » 1,50 23) Polvere e lapilli fini » 1,00 24) Polvere grigio-brunastra stratificata, più grossolana nelle parti contenente frammenti di pomice .... » 1,60 25) Strato di pomice, con sottili letti di cenere : più minuta nella metà superiore » 1,13 26) Cenere concrezionata ,....» 1,10 27) Lava e scorie, intercalate entro tufi nella parte Sud-Ovest dellfisola : potenza massima » 20,00 28) Terra rossa con pomice e piccoli frammenti di lava . » 0,55 29) Pomice decomposta, finamente stratificata » 0,15 30) Terra rossa fine, con concrezioni » 2,00 31) Strato di pomice con striscie di cenere » 1,80 32) Breccia, cenere e pomice, listate . • » 0,35 33) Pomice, passante a polvere rossa alla sommità . . . » 0,95 34) Breccia terrosa rossa, stratificata con frammenti di scorie » 2,30 35) Lave doleritiche » 36) Lapilli e polvere, stratificati, rossi in alto: forse depo- sitati in seno al mare » 3,00 37) Scoria gialla e bruna più di » 5,00 Livello del mare. I vari depositi di pomice sono principalmente derivati da un magma basico, che aveva probabilmente la stessa composizione della lava doleritica dell’isola. È importante la successione dei differenti prodotti in ogni eruzione esplosiva, indicata dapprima per il Vesuvio; ad una pomice relativa- mente vitrea alla base, tien dietro una pomice micro-cristallina o sco- riacea, e poi un letto di polvere. Nelle masse di scoria del cono distrutto si trovano concrezioni — 63-» irregolari, compatte, amorfe, bianche, spesso pesanti più di 50 gr. e composte di magnesite quasi pura. Concrezioni molto simili furono segnalate in una lava doleritica vescicolare della costa orientale di Vulcano nelle Eolie. Santo Stefano. — La parte principale dell’isola è costituita da una massa di trachite che pare sia venuta a giorno come una cupola composta : la disposizione fluidale è ben visibile e la roccia presenta distinta la struttura pipernoide. Gli strati di pomici, lapilli, polvere e terra che stanno sulla tra- chite, sono indizio d’un numero considerevole di eruzioni esplosive, le quali si produssero nelle vicinanze dell’isola, non trovandosi in essa traccia alcuna di cratere esplosivo. Durante tali eruzioni Pisola era emersa : ciò che è provato dai numerosi terreni vegetali, dalle radici conservate da incrostazioni, da superfìcie erose, ecc. Alcuni massi trovati nei tufi indicano che le esplosioni si estesero sino ai calcari metamorfici sottostanti. Oltre a questi massi di calcare, trovansi pure fra i proietti frammenti di lava analoga alla trachite inferiore, ed alla dolerite di Ventotene: la roccia più interessante è però un leucitofìro non ancora trovato in posto nelle Ponza. Sarebbe questa una aggiunta nuova alle già numerose località italiane nelle quali la leucite figura come elemento importante della costituzione delle roccie. Il dirupo presso il cimitero di quest’isola presenta la seguente sezione : 1) Breccia con terreno vegetale e manufatti moderni . m. 1,50 2) Tufo bruno compatto con pomice alterata dagli agenti atmosferici; rappresenta probabilmente un antico terreno vege- tale » 1,30 3) Tufo bruno, friabile, contenente concrezioni, particolar- mente alla base, dov’è pure alquanto più sabbioso ...... 1,10 4) Due o tre strati di pomice con cenere irregolarmente interstratificata e concrezionata lungo fessure » 2,20 5) Strato di polvere alquanto irregolare, riposante sopra uno strato di pomice » 0,50 6) Strato di pomice 0,65 7) Sabbia e lapilli neri finamente stratificati, più grosso- lani alla parte inferiore » 0,55 — 64 — 8) Pomice e scoria pomicea m. 0,55 9) Pomice oscura finamente stratificata con lapilli (?) . » 0,30 10) Pomice e lapilli sciolti » 0,90 11) Polvere tenuissima, oscura, finamente stratificata, contenente frammenti di pomice e concrezionata » 1,00 12) Polvere leggermente concrezionata, gialla alla som- mità e bruno-rossastra alla base dove diviene finamente strati- ficata. La parte gialla è un antico terreno vegetale e contiene concrezioni formatesi attorno a radici e nelle parti erose della superficie del letto inferiore > 1,78 13) Minuti lapilli con striscie concrezionate > 0,30 14) Pomice , . . . » 0,30 15) Scorie nere, fini > 0,14 16) Polvere grigio-verdastra con liste di lapilli alla base » 0,28 17) Terra gialla irregolarmente e finamente brecciata: probabilmente è un antico terreno concrezionato > 1,00 18) Pomice con macchie ocracee : nei dieci centimetri superiori è meno macchiata e contiene frammenti maggiori con cristalli di piro sseno, e blocchi eruttati » 0,90 19) Terra bruna con concrezioni ; più minuto in alto e pas- sante in basso a . » 2,60 20) Terra più chiara, contenente pomici, talora allineate » 1,20 21) Terra bianca non concrezionata » 0,80 22) Pomice bruna ...... 0,25 23) Strato di pomice con lapilli e pochi massi eruttati . » 2,00 24) Polvere pomicea bianca » 0,15 25) Strato di pomice, entro cui è intercalato un letto di polvere grigio-chiara concrezionata » 1,85 26) Polvere pomicea bianca » 1,50 27) Trachite » Nelle Isole Ponza si hanno indizi numerosi di sollevamenti del suolo : uno, che sarà certo importantissimo se ulteriori osservazioni lo confermeranno, sarebbe indicato dal fatto che, mentre Dolomieu indicava nel 1786 essere l’isola Palmarola divisa in due da un canale nel quale si traghettava in barca, il fondo di quel canale si troverebbe ora a 5 e più metri sul livello del mare. — 65 — NOTIZIE DIVERSE Calamine presso Massa Marittima in Toscana. — Nel corso del rilevamento geologico della regione metallifera del Massetano fu ri- volta speciale attenzione alle antiche miniere da lungo tempo abban- donate e quasi dimenticate. Uno dei risultati più notevoli ottenuti fu la scoperta di giacimenti calaminari apparentemente di grande impor- tanza industriale. Diciamo apparentemente perchè pur troppo le ricerche dovettero limitarsi per ora all’esame degli antichi scarichi, e non fu possibile nella maggior parte dei casi di intravedere le condizioni pre- cise di tali giacimenti. Non pertanto si potè stabilire che le calamine massetane, quasi esclusivamente costituite da carbonato di zinco e di un tenore variabile fra il 30 e il 50 per cento, si trovano in due con- dizioni affatto distinte, in filoni di spaccatura cioè e in masse filoni- formi di contatto. Nel primo caso concorrono, insieme col quarzo e la calcite, a formare la matrice di vene di blenda, galena e calcopirite, che attraversano gli strati caleareo-argillosi eocenici e non lasciano dubbio sulla loro provenienza dall’alterazione del solfuro di zinco. Nel secondo caso la situazione delle antiche escavazioni e la natura e struttura del minerale sembrano addimostrare trattarsi di giacimenti di contatto fra gli strati eocenici e un calcare cavernoso retico, che avrebbe presentato le condizioni propizie pel deposito minerale, sia per entro le sue cavità, sia, e più frequentemente, per sostituzione chimico-molecolare. I giacimenti calaminari di quest’ ultima categoria, oltreché coi solfuri metallici sopra accennati, trovansi in stretto rap- porto con masse ferrifere di notevole importanza. (B. Lotti). Nuove osservazioni geologiche in Napoli e suoi dintorni *. — Scavi in città. — I lavori della galleria di Monte Santo per la funi- colare fecero veder che sopra ad un gran banco di breccia grosso- 1 Dal Report of thè Committee appointed for thè investigation of thè voi - canic phenomena of Vesuoius and its neighbourhood ('London, 1889), del dottor H. J, Johnston-Lavis. 5 lana si ha una serie di pomici e di ceneri con interclusi rami carbo- nizzati e terreno vegetale, identica agli strati della sinclinale del Parco Grifeo (Corso V. E.) e indicante che la breccia e il tufo grigio di Monte Santo occupano la stessa posizione stratigrafìca dei blocchi di piperno e dei resti di una simile breccia trovati lungo il Corso Vittorio Ema- nuele. Il fatto costante della sovrapposizione del tufo giallo di Napoli a strati indubbiamente subaerei, mostra in modo certo che tale tufo è d'origine subaerea: la presenza di qualche conchiglia marina può con- siderarsi dovuta a proietti d'origine accidentale. La sezione messa finora in evidenza dalla galleria è la seguente: Polvere superficiale e strati di pomice (depositi di Astroni ed altri?) m. 15,00 Tufo giallo compatto di Napoli » 50,00 e più Polvere rossa, grigia o nera (antico terreno vegetale)» 0,20 Polvere grigia, fine » 1,50 Pomice grigia e strato di polvere » 0,45 Strato di polvere, grigia alla base, grigia, rossa o nera alla sommità » 0,35 Strato di lapilli del Parco Grifeo, con pomice assai conservata » 0,45 Quattro strati di pomice con letti di polvere grigia, semi-compatta » 1,50 circa Breccia grossolana incoerente, composta di frammenti di oltre mezzo metro cubo di volume, di piperno vitreo (lava), ossidiana sanidinica porfirica (trachite vitrea), tra- chiti, doleriti, lave leucitiche, hauynofìri, basalti, tufi vari, talora con resti organici, ed altre numerose varietà di roccie. Il materiale essenziale è rappresentato da una po- mice fibrosa, d’un grigio d’argento. La parte superiore è composta di m. 2 di sabbia grossolana sanidinica, con minuti frammenti delle roccie inferiori e rappresenta la diminuzione dell’attività eruttiva; essa passa a m. 0,70 di terra sabbiosa verde che rappresenta le ultime proiezioni di ceneri minute e che in certi punti è convertita in ter- reno vegetale. Quest’insieme misura almeno .... » 12,00 — 67 — Tufo grigio pipernoide, affatto simile a quello di No- cera e d’altre località, contenente frammenti di piperno con marialite: i 30 cm. inferiori sono verdi . . . . m. 4,30 Polvere nera » 0,10 Strato di grossi blocchi di pomice, chiara nei due terzi inferiori e verde nel rimanente » 0,80 Pomice bianca, concordante con la precedente ed in- terstratificata con sottili striscie di polvere, alcune color caffè ed altre verdi » 4,00 Strato uniforme di pomice bianca » 0,90 Tufo bruno-cenere con liste di pomice bianca, con- cordante con lo strato precedente » 4,00 Fra gli elementi della breccia grossolana di Monte Santo, importa rilevare F hauynofìro. La roccia indicata come tale è affatto simile, al- l’apparenza, all’hauynofiro del Vulture: e se l’esame microscopico con- fermerà la determinazione, sarà questo il primo caso in cui essa è indicata nei vulcani della Campania. Gallerie nei Campi Flegrei. — La costruzione delle due nuove gallerie ferroviarie presso Baja diede luogo ad interessanti osserva- zioni geologiche. Nella galleria che penetra nella collina presso i Bagni di Nerone, la temperatura aumentò con l’avanzare dei lavori, e divenne da 70° a 80°: in un foro praticato sulla fronte di scavo si misurò persino 93°. Parecchi cuniculi romani furono incontrati sotto angoli ed a livelli differenti : di essi alcuni sono inclinati, grandi solo tanto da permetter il passaggio ad un uomo, e quando giungono al livello acquifero con- tengono acqua termo-minerale: per la loro posizione attuale essi in- dicano un abbassamento della regione dopo i tempi romani. Altri cunicoli sono orizzontali, e talora si dividono alla estremità in rami variamente diretti. Si osservano incrostazioni cristalline e fibrose aventi da 1 a 10 cm. di spessore, costituite essenzialmente di carbonato di potassio, con alquanta soda e traccie di acidi solforico e cloridrico; ed in qualche punto, tanto il suolo che il tetto e le pareti sono tappez- zati di tenui filamenti flessibili lunghi da 3 a 4 cm. In uno di tali cuni- coli si osservò la temperatura di 73° e si credette sentirvi la presenza d’anidride carbonica in proporzioni però non grandi. — 68 — Non potendosi ammettere che tali cunicoli fossero dai Romani sca - vati a così elevate temperature, si è indotti a conchiudere che la tem- peratura aumentò considerevolmente dopo la loro costruzione, pur es- sendo alPepoca di questa già elevata, apparendo appunto aver essi servito ad alimentare i Bagni di Nerone, rinomati per le loro acque termo-minerali. Il materiale di questo primo tunnel è un tufo poroso, alquanto fria- bile, in certi punti giallo ed in altri verde-chiaro: verso Pestremità occiden- tale è stratificato e meno alterato, e risulta composto di strati di pomice bianca compresi entro una polvere oscura. Tutti i grandi frammenti di pomice contenuti nel tufo sono fortemente alterati alla superfìcie, e cangiati in una polvere bianca, probabilmente caolino. La seconda galleria, fra Baja e Fusaro, presentò una temperatura molto inferiore a quella della precedente; essa traversò un tufo di pozzolana quasi sciolta contenente grandi pomici. Qui pure s* incontra- rono cunicoli romani: uno di essi comunicava con un bacino d’acqua a 67° : in fondo a questo si osservò sulle pietre un deposito di V2 mm- od 1 mm. di color nero, fuliginoso (ossido idrato di manganese) sparso di macchie di silice gelatinosa. Una nuova prova di abbassamento generale della regione dopo i tempi romani, è stata fornita da numerosi frammenti di colonne trovati durante lavori di dragaggio nel cantiere Armstrong ad occidente del molo in legno di Pozzuoli, nel punto che la tradizione indica come quello occupato dal Tempio delle Ninfe. Un lago di borace *. — È noto quanto la coltivazione dei giaci- menti americani intrapresi or fanno circa venti anni, abbia diminuito il prezzo del borace. Il signor C. Napier Hake, in una nota letta di re- cente alla Society of Chemical Industry , diede interessanti particolari intorno ad uno di tali giacimenti. Tra la Sierra Nevada ad Ovest, e le Montagne Rocciose ad Est, e tra il 35° di lat. Nord e la Columbia, esiste una successione di de- pressioni d’un carattere speciale: le acque non vi hanno visibile co- municazione col mare, ma si perdono entro le sabbie o nei laghi salati. 1 DalVIron, n. 890, voi. XXXV, 31 gennaio 1890. — Londra. La più importante di cosiffatte depressioni, il Gran Bacino , è da 1200 a 1500 metri di altitudine sul mare, ed ha una superficie di più che 570 km. q.: è circondata da ogni lato da alte montagne ed ha l’aspetto deserto. Nel suo interno sono sparse montagne che s’alzano da 600 a 1500 metri sulla pianura circostante, ed hanno, durante gran parte dell’anno, la cima coperta di neve. Il suolo è quasi ovunque in queste depressioni sterile: è essen- zialmente costituito da roccie vulcaniche. Letti di lava ricca in albite coprono il paese per molte miglia: la pioggia degradandola superfi- cialmente asporta i sali solubili, che formano poi incrostazioni efflore- scenti che misurano talora da 30 a 40 cm. di spessore, od alimentano laghi salsi. Questi depositi salini comprendono : cloruro di sodio, car- bonato di soda, solfato di soda, solfato di allumina, solfato di magnesia, borace, borato di calce, solfato di calce, carbonato di soda e calce. Il lago di borace, particolarmente studiato dal signor Hake, è si- tuato all’estremo N.O della Contea di S. Bernardino, nella valle di Siate Range e Argus Mountains, a 510 metri sul livello del mare: è ovale, e la sua lunghezza e larghezza maggiori sono rispettivamente di 19 e 13 chilometri circa. Per la più gran parte della sua estensione è coperto d’una crosta salina dura, di spessore variabile da pochi centimetri a più decimetri ; essa è a sua volta coperta di una sostanza efflorescente bianca mista a molta sabbia. Sotto la crosta dura si ha un esteso letto di fango nero di spessore finora ignoto, contenente molta pirite e sostanze saline, ed impregnato di acido solfidrico. Questo lago contiene: sai comune, carbonato di soda, bicarbonato di soda, anidro ed idrato, biborato di soda, solfato di soda, solfato di magnesia anidro ed idrato, sali ammoniaci e traccie di bromo e di po- tassa. Nel suo fango si è scoperto un nuovo minerale, la hanksite (dal nome del Prof. Hanks di San Francisco). Il lago può praticamente dividersi in tre sezioni: una a borace, una a bicarbonato di soda e la terza a sai comune. Si ha qui un curioso esempio di produzione naturale di bicarbonato di soda per il processo all’ammoniaca: tutti gli ingredienti necessari a questo processo sono contenuti nelle acque sottostanti. Il deposito di carbonato ha spessore variabile da 15 a 45 cm. ed in qualche punto è quasi chimicamente puro. — 70 — Verso il centro della sezione boracifera uno spazio di circa un chilometro quadrato, quasi sempre coperto d’ acqua, è detto il letto di cristallo , perchè il fango vi è zeppo di cristalli di carbonato di soda, sai comune e borace, riuniti in grossi gruppi: i cristalli di borace vi misurano sino a 155 mm.. Il suolo tutt'intorno è formato d’una crosta dura e secca di circa 30 centimetri, composta di carbonato e solfato di soda con circa 1 % di borace : su di essa si ha un'efflorescenza con- tenente 50 % di sabbia, 16 % di solfato di soda, 12 % di cloruro di sodio, 10 % di carbonato di soda e 12 % di borace. Quest'efflorescenza è la sorgente principale della produzione del borace: ogni tre o quattro anni la si esporta, tale essendo il tempo necessario alla formazione di uno strato di spessore sufficiente (1 pollice). Le analisi fatte dal sig. Hake dimostrano che l’efflorescenza che formasi nei primi sei mesi è la più ricca in borace, e che il rapporto fra il carbonato di soda ed il borace va aumentando regolarmente. Il processo d’estrazione del borace dal materiale greggio è assai semplice, e comprende due operazioni : cioè la dissoluzione e la cri- stallizzazione. La materia prima è trasportata dal lago all’ officina su carri : dopo essere stata macinata è introdotta in un bacino che con- tiene una soluzione salina, preferibilmente acqua madre di seconda cristallizzazione: la soluzione è mantenuta bollente per mezzo di va- pore ad alta pressione mentre vi si getta il materiale, e durante tale operazione si svolge abbondante ammoniaca. I sali sciolgonsi comple- tamente, lasciando sul fondo il residuo insolubile, composto essenzial- mente di sabbia. La soluzione calda, dopo un riposo sufficiente per renderla limpida, è fatta passare nei bacini di cristallizzazione e la- sciata raffreddare durante cinque a nove mesi secondo la stagione. Il prodotto di questa prima cristallizzazione è un miscuglio di borace et- taedrico e prismatico, leggermente impuro e talvolta colorato da so- stanze organiche; ed e venduto in tale stato, oppure raffinato con una seconda cristallizzazione. Le officine possono ridurre più di 1000 ton- nellate per mese. Il lago è stato regolarmente coltivato durante gli ultimi quindici anni ; in questo periodo di tempo ha fornito circa la terza parte della quantità di borace ricavata da tal genere di giacimenti ; ed esso pare praticamente inesauribile. PUBBLICAZIONE BELLA CARTA GEOLOGICA D’ITALIA PER CURA DEL R. UFFICIO GEOLOGICO PARTI PUBBLICATE (al 28 febbraio 1890) Carta geologica della Sicilia nella scala di 1/100 000 : Foglio N. 244 (Isole Eolie) prezzo L. 3 00 » 248 (Trapani) . . . » 3 00 » 249 (Palermo) . . . » 4 00 » 250 (Bagheria). . . » 3 00 » 251 (Cefalù). . . . » 3 00 » 252 (Naso) . . . . » 4 00 » 253 (Castroreale) . . » 4 00 » 254 (Messina) . . . » 4 00 » 256 (Isole Egadi) . . » 3 00 » 257 (Castelvetrano) . » 4 00 » 258 (Corleone) . . . » 5 00 » 259 (Termini Imerese). » 5 00 » 260 (Nicosia) . . . » 5 00 » 261 (Bronte). . . . » 5 00 Foglio N. 262 (Monte Etna) . . L. 5 00 » 265 (Mazzara del Vallo)» 3 00 » 266 (Sciacca) . . . » 4 00 » 267 (Canicattì) . . . » 5 00 » 268 (Caltanissetta) . » 5 00 » 269 (Paterno) . . . » 5 00 » 270 (Catania) . . . » 3 00 » 271 (Girgenti) . . . » 3 00 » 272 (Terranova) . . » 4 00 » 273 (Caltagirone) . . » 5 00 » 274 (Siracusa) . . . » 4 00 » 275 (Scoglitti) . . . » 3 00 » 276 (Modica) . . . » 3 00 » 277 (Noto) . ...» 3 00 Tavola di sez. N. I (annessa ai fogli 249 e 258) L. 4 00 » » N. II (annessa ai fogli 252, 260 e 261) » 4 00 » » N. Ili (annessa ai fogli 253, 254 e 262) » 4 00 » » N. IV (annessa ai fogli 257 e 266) » 4 00 » » N. V (annessa ai fogli 273 e 274) » 4 00 :v.b. — L'intiera Carta della Sicilia, in 28 fogli e 5 tavole di sezioni, con quadro d'unione e copertina, è in vendita al prezzo di lire iOO. Carta geologica della Sicilia nella scala di 1/500 000 (serve anche di foglio di unione della precedente) con sezioni prezzo L. 5 00 Descrizione geologica dell’Isola di Sicilia, con una Carta geologica, tavole in zincotipia ed incisioni, dell’Ing. L. Baldacci prezzo L. 10 00 Carta geologica dell* Isola d' Elba, nella scala di 1/25 000 con sezioni annesse (in due fogli) prezzo L. 10 00 Descrizione geologica dell' Isola d’ Elba, con Carta annessa nella scala di 1/50 000, dell’Ing. B. Lotti prezzo L. 10 00 Relazione sulle miniere di ferro dell'Isola d'Elba, con un atlante di carte e sezioni geologiche, dellTng. A. Fabri . . . prezzo L. 20 00 Carta geologico-mineraria dell’Iglesiente (Sardegna), nella scala di 1/50 000 (in un foglio) prezzo L. 5 00 Descrizione geologico-mineraria dellTglesiente, con un atlante di XXX tavole e una Carta geologica, dell’ Ing. G. Zoppi. . . . prezzo L. 15 00 Carta geologica della Campagna Romana e regioni limitrofe, nella scala di 1/100 000 (sei fogli e una tavola di sezioni) . prezzo L. 25 00 il. — Sono pure in vendita i fogli separati ai prezzi seguenti: Civitavecchia ( L . 4) Bracciano ( L . 5); Palombara (L. 5); Cerveteri (L. 4); Roma ( L . 5); Cori ( L . 4). Carta geologica dell’Italia, in due fogli, nella scala di 1/1 000 000 (seconda edizione riveduta della Carta pubblicata nel 1881). . . prezzo L. 10 00 Per le commissioni rivolgersi al R. Ufficio Geologico (Via S. Susanna, 1) ovvero alla Libreria E. Lòescher, in Roma. Pubblicazioni in vendita presso l’Ufficio Geologico Bollettino del R. Comitato Geologico d’Italia; Voi. I a XX, dal 1870 al — Prezzo di ciascun volume L. Idem di un fascicolo bimensile separato. » N.B. - Il 'prezzo di abbonamento annuo e di L. 8 per l’interno e di Li IO per V estero. Memorie per servire alla descrizione della Carta geologica d’Italia: Voi. I. Firenze, 1872 . » Voi. II. Firenze, 1873-74 » Voi. III. Firenze, 1876-88 '* » I. Cocchi. — Brevi cenni sui principali Istituti e Comitati geologici e sul R. Comitato Geologico d’ Italia. Firenze, 1871. ........ » P. Zezi. — Cenni intorno ai lavori per la Carta geologica in grande scala. Roma, 1875 » F. Giordano. — Esposizione in ordine cronologico delle principali disposi- zioni successivamente emanate relativamente alla Carta geologica d’Italia. Roma, 1879 » F. Giordano. — Sopra un progetto di legge per il compimento della Carta geologica d’ Italia. Roma, 1880. » F. Giordano. — Cenni sull’organizzazione e sui lavori degli Istituti geologici esistenti nei vari paesi. Roma, 1881. » G. Capellini. — Relazione a S. E. il Ministro di Agr. Ind. e Comm. sul Congresso geologico internazionale del 1881. Roma, 1881 .... » C. W. C. Fuchs. — Carta geologica dell’Isola d’ Ischia; scaladi 1/25,000. Firenze, Ì878 .. . j> C. Doelter. — Carta geologica delle isole Ponza, Palmarola e Zannone; scala di 1/20,000. Roma, 1876 . . . ... . ... . . . » C. De Giorgi. — Abbozzo di Carta geologica della Basilicata; scala di 1/400,000. Roma, 1879 » C. De Giorgi. — Carta geologica della provincia di Lecce; scala di 1/400,000. Roma, 1880 > G. Capellini. — Carta geologica dei monti di Livorno, di Castellina Ma- rittima e di parte del Volterrano; scala di 1/100,000. Roma, 1881 . » G. Capellini. — Carta geologica della provincia di Bologna ; scala di 1/100,000. Roma, 1881 » G. Capellini. — Carta geologica dei dintorni del golfo di Spezia e Val di Magra inferiore; 2a edizione; scala di 1/50,000. Roma, 1881 . . » T. Taramelli. — Carta geologica del Friuli, con testo descrittivo ; scala ! di 1/200,000. Udine, 1881 » Bibliographie géologique et paleontologique de l’Italie. Bologne, 1881 . . > Bibliografia geologica e paleontologica della provincia di Roma. Roma, 1886 » Bibliografia geologica italiana per l’anno 1886. Roma, 1887 ...... Idem idem per l’anno 1887. Roma, 1888 ...... Idem Idem per l’anno 1888. Roma, 1889 » 1889 10 — 2 — 35 — 30 — 25 — 1 50 1 — 1 — 1 50 1 50 1 — 2 — 2 — 2 — 2 — 8 — 4 — 8 — 7 — 10 — 2 — 1 50 1 50 1 50 Annunzi di pubblicazioni A. Issel. — Cenni sulla giacitura dello scheletro umano recentemente scoperto nel pliocene di Castenedolo presso Brescia. — Parma, 1889 ; pag. 22 in 8°. Idem. — Di una sepia del pliocene piacentino. — Modena, 1839; pag. 6 in-8°j L. Ricciardi. — Genesi e composizione chimica dei terreni vulcanici ita- liani. — Firenze, 1889; pag. 156 in-8°. G. Capellini. — Sulla scoperta di una caverna ossifera a Monte Cucco. — Roma, 1889; pag. 8 in 8°. S. Ciofalo. — L’oligocene dei dintorni di Termini-Imerese. — Catania, 1889 pag. 14 in 4° con una tavola. G. Trabucco. — Le frane dell’alto Piacentino. - Piacenza, 1889; pag. 16 in-8'\ G. Struever. — Contribuzioni alla mineralogia della Valle Vigezzo (Rendi* conto della R. Accademia dei Lincei, voi. V, fase. 9>). — Roma, 1889 £ pag. 8 in-4°. G. Capellini. - Gli antichi confini del Golfo di Spezia (Ibidem). - Roma, 1889; pag. 5 in-4°. G. Omboni. — Rocce e fossili ; sunto di alcune lezioni di geologia. — Pa- dova, 1889 ; pag. 262 in-8°. G. B. Cacci am a li. — Il fenomeno del Carso a Fontana Liri. — Siena, 1889;] pag. 4 in 4°. M. Malagoli. — Fcraminiferi tratti dal fango eruttato dalle salse di Ni- rano (Atti della Società dei Naturalisti di Modena, Serie III, Voi. Vili, fase. 2°). — Modena, 1889; pag. 10in-8'\ G. Platania. — Stromboli e Vulcano nel settembre del 1889. — Ri- posto, 1889 ; pag. 14 in -8°. E. De Bourg. — Ré vision des Scalidae miocènes et pliocènes de l’ Italie (Ibidem). — Pisa, 1889 ; pag. lt‘6 in- 8° con una tavola. A. De Zigno. — Chelonii scoperti nei terreni cenozoici delle prealpi ve- nete (dalle Memorie del R. Istituto Veneto, voi. XXII r). — Venezia, 1839;; pag. 12 in-4° con due tavole. G. Gioli. — Fossili della oolite inferiore di San Vigilio e di Monte Grappa;" gasteropodi, lamellibranchi ed echinodermi (Memorie della Soc. toscana di Scienze naturali, voi. X). — Pisa, 1889; pag. 16 in-8° con una tavola. Idem. — Briozoi neogenici dell’ Isola di Pianosa nel Mar Tirreno (Ibidem). — Pisa, 1889 ; pag. 16 in-8° con una tavola. L. Busatti. — Sulla lherzolite di Rocca di Sfilano e Rosignano (Ibidem). — Pisa, 1889 ; pag. 12 in-8° con una tavola. F. Sacco. — Carta geologica del bacino terziario del Piemonte, nella scala di 1 a 10Ò 000. — Tonno, 1839 ; un foglio grande. G. Struever. — Sulla brookite di Beura nell’ Ossola (Rendiconti della R. Acc. dei Lincei, voi. VI, fase. 8°). — Roma, 1890. G. Capellini. — Di un Ittiosauro e di altri importanti fossili cretacei nelle argille scagliose dell’ Emilia (Ibidem). — Roma, 1890. A. Scacchi. — Appendice alla prima memoria sulla lava vesuviana del 1631. — Napoli, 1889 ; pag. 26 in-4° con una tavola. Idem. — La regione vulcanica fluorifera della Campania ; seconda edi-? zione accresciuta e riformata. — Firenze, 1890; pag. 50 in-4° con quattro' tavole. A. Portis. — Gli ornitoliti del Valdarno superiore e di alcune altre lo- calità plioceniche di Toscana. — Firenze, 1890; pag. 20 in-4° con una tavola. Idem. — I rettili pliocenici del Valdarno superiore e di alcune altre lo- calità plioceniche di Toscana. — Firenze, 1890; pag. 32 in-4° con due tavole. D’ITALIA. 189 0 Bollettino N.° 3 e 4 Marzo e Aprile ROMA TIPOGRAFIA NAZIONALE 1890. ELENCO del personale componente il Comitato e l’ Ufficio Geologico R. Comitato Geologico. Cocchi Igino, prof, di geologia, a Firenze. Cossa Alfonso, prof, di chimica nella R. Scuola di applicazione per gli ingegneri in Torino. De Zigno- Achille, membro del R. Istituto Veneto, a Padova. Gemmellaro Gaetano Giorgio, prof, di geologia, R. Università di Palermo. Omboni Giovanni, prof, di geologia nella R. Università di Padova. Scacchi Arcangelo, prof, di mineralogia nella R. Università di Napoli. Scarabellt Giuseppe, senatore del Regno, a Imola. Silvestri Orazio, prof, di geologia nella R. Università di Catania. Stoppani Antonio, professore di geologia nel R. Istituto tecnico supe- riore di Milano. . J Strùver Giovanni, prof, di mineralogia nella R. Università di Roma. Taramelli Torquato, prof, di geologia nella R. Università di Pavia. Il Direttore del R. Istituto geografico militare in Firenze. Giordano Felice, ispettore-capo del R. Corpo delle Miniere, a Roma. Pellati Niccolò, ispettore nel R. Corpo delle Miniere, a Roma. Personale addetto ai lavori della Carta Geologica. Direzione superiore : Ing. Giordano Felice, Direttore. Iug. Pellati Niccolò. Ufficio geologico: Ing. Zezi Pietro, Capo d’ufficio e Segretario del Comitato. Ing. Sormani Claudio. Dott. Dì Stefano Giovanni, paleontologo. Ing. Aichino Giovanni. Sig. Lusverch Cesare, aiutante. Geologi operatori: Ing. Baldacci Luigi. Ing. Lotti Bernardino. Ing. Cortese Emilio. Ing. Zàccagna Domenico. Ing. Mattirolo Ettore. t Ing. Viola Carlo. Ing. Novarese Vittorio. 1 O . „ -r «■ lDg. Sabatini Venturino. Ing. Franchi Secondo. Sig. Fossen Pietro, aiutante. Sig. Cassetti Michele, aiutante. Sig. Modèrni Pompeo, aiutante. La sede dell’Ufficio geologico è in Roma nel Museo agrario-geologico, via Santa Susanna, n. 1-A. BOLLETTINO DEL R. COMITATO GEOLOGICO D’ ITALIA. Serie III. Voi. I. Marzo e Aprile 1890. N. 3 e 4. SOMMARIO. Memorie originali. — I. Sulla tettonica del calcare metallifero nell’ Iglesiente (Sardegna), in riscontro ad osservazioni dell’Ing. M. Marchese (con una ta- vola). — II. Sui dintorni di San Gimignano in Val d’Elsa (Toscana); nota del- 1’ Ing. B. Lotti. — III. Geologia applicata del bacino terziario e quaternario del Piemonte ; memoria del Dott. F. SACCO (con una tavola). — IV. I Machai- rodus o Meganthereon del Valdarno superiore ; memoria del Dott. E. Fabrini (con tre tavole). {Continua). Estratti e Riviste. — Il computo del tempo in geologia, del Prof. Axel Blytt. Notizie diverse. — La superfìcie della Calabria. — La Hyaena striata nel ter- ziario del Valdarno. — Origine dei grandi laghi americani. — La geologia delle Nuove Ebridi. — Nuova isola vulcanica nel Pacifico. — I campi auriferi dell’Africa meridionale. — Eruzione di fango nell’Asia Minore. — Scoperta di fosfati nella Florida. — I giacimenti di petrolio nell’India. Tavole ed incisioni. — Tav. II: Sezioni geologiche nell’ Iglesiente a pag. 78. — Tav. Ili : Carta del bacino terziario del Piemonte con indicazioni, di geologia applicata a pag. 120. Avviso di pubblicazione della Carta geologica d’ Italia. MEMORIE ORIGINALI I. Sulla tettonica del Calcare metallifero nell' Iglesiente fSar - degnaj , in riscontro ad osservazioni dell’Ingegnere Mau- rizio Marchese. (Con mna tavola) Nel fascicolo IV, anno 1889, degli Annali della Società degli Inge- gneri e degli Architetti italiani venne inserita una memoria dell’Inge- gnere Maurizio Marchese, Direttore di miniere in Sardegna, intitolata: Osservazioni alla Descrizione geologi co-mine rari a dell’ Iglesiente (Sar- degna), del signor G. Zoppi, ingegnere del R. Corpo delle miniere la quale forma il volume IV delle Memorie descrittive della Carta Geologica d’Italia, pubblicate dal R. Ufficio geologico. In quella memoria, fra le diverse questioni trattate nella suddetta Descrizione geologica , l’autore si limita a prendere in esame la tetto- nica di due importanti formazioni, la scistosa filladica, che contiene fossili siluriani e quella denominata Calcare metallifero , nella quale fìn’ora non si rinvennero fossili; sostenendo, contrariamente all’ipotesi adottata dall’ingegnere Zoppi, che la formazione del Calcare metallifero sia più antica della scistosa filladica. Veramente questa ipotesi esposta nella memoria dell’Ing. Marchese non è nuova, poiché nella enumerazione delle varie spiegazioni date da diversi geologi alla intricata tettonica dei terreni paleozoici del- l’Iglesiente, la medesima si trova discussa assieme ad altre nella De- scrizione geologica. Ed in questa sono pure messi in evidenza i fatti principali sui quali l’ing. Marchese poggia la sua tesi, cioè, la dispo- sizione degli strati nella località di Masua, Monteponi, Malacalzetta, Reigraxius e S. Giovanni; anzi delle prime quattro località si danno le sezioni nel testo e nell’atlante che lo accompagna (vedi le figure 3, 6, 8, del testo e le tavole XV, XVI, XX e XXIX dell’atlante). Dall’esame delle Osservazioni non si può invero rilevare alcun fatto nuovo, nè nuove sezioni che l’autore porti in appoggio della sua tesi e che non fossero già stati citati ed illustrati nella Descrizione dell’ Iglesiente ; invece si trovano soltanto sviluppate, partendo dai me- desimi fatti, le sue deduzioni personali con le quali egli cerca dimo- strare prevalenti le prove a favore della soprapposizione degli scisti silu- riani al Calcare metallifero a quelle che starebbero per l’ipotesi opposta. Oltre a ciò l’autore delle Osservazioni accenna all’esistenza di qual- che inesattezza nella Descrizione geologica e perfino dice essere ipo- tetiche talune sezioni in essa riportate, come quella della Tavola V dell’atlante. Viste simili osservazioni critiche, l’ Ispettore-capo, direttore del servizio geologico, incaricava l’ingegnere Lodovico Mazzetti, capo at- tuale dell’ufficio minerario di Iglesias, di prendere in esame le Osser- vazioni in discorso e di verificare, se, per avventura, sussistessero le inesattezze sopra ricordate e specialmente di rilevare nuove sezioni e raccogliere quei fatti verificatisi dopo la pubblicazione della Descri- zione geologica dell’ Iglesiente, i quali servissero a portare nuova luce sulla diffìcile tettonica di quella regione. L’.ngegnere Mazzetti ha corrisposto all'invitò mandando sei sezioni con una Memoria illustrativa, della quale credesi opportuno riportare qui alcuni cenni. — 75 — Comincia egli a far rilevare alcune inesattezze che si riscontrano nelle Osservazioni alla Descrizione geologico-mineraria dell3 Iglesiente, dalle quali appare che le testate di alcuni banchi calcarei, evidentemente intercalati negli scisti siluriani, sono state credute affioramenti del Cal- care metallifero, che, secondo l’autore delle Osservazioni , sarebbe sotto- posto a quegli scisti. Questi infatti suppone che i 1 calcare di M. Albo « affiori attraverso gli scisti superiori » mentre un semplice sguardo alla se- zione fatta sull’asse della galleria di scolo di Monteponi, e riportata nella Tavola XXIX dell’atlante annesso alla Descrizione geologica , basta a convincere, che i calcari di monte Meu e monte Albo non fanno parte del Calcare metallifero , ma sono lenti intercalate negli scisti siluriani. Del resto i lavori per ricerche minerarie fatte nello stesso monte Albo hanno constatato che quel calcare è intercalato in forma di amigdale negli scisti. Seguita l’ingegnere Mazzetti rilevando che non esistono le sup- poste contraddizioni nella Descrizione geologica. Così nelle Osservazioni si vorrebbe trovare contraddizione tra l’asserzione che a Gonnesa il Calcare metallifero è soprapposto agli scisti, mentre la galleria Henfrey lo trovò sottostante a S. Giovanni, non ostante che a pagina 58 della Descrizione geologica sia chiarito che, « specialmente ad Agruxau, « Monteponi, Palmari, Cabitza, S. Giorgio, S. Giovaneddu e S. Giovanni, « la superficie fra i due terreni è formata da piani verticali ed anzi « qualche volta il calcare pare sottoposto agli scisti. » Ora Gonnesa è 1500 metri distante dalla galleria Henfrey, la quale, giova rammentarlo, non raggiunse ancora il calcare, ma si fermò contro un banco di quar- ziti, esistente nelle vicinanze del contatto di quello con gli scisti. Quanto poi al tratto T-U della sezione della Tavola V dell’atlante, ritenuto inesatto perchè non identico a quello che passa per i lavori della stessa concessione mineraria di Gutturu-Pala, riportata nella Tavola XXVI ed anche per la speciosa ragione che ivi i calcari sono dise- gnati con debole pendenza, mentre nella Descrizione si legge che essi sono quasi sempre raddrizzati sino alla verticale (. Descrizione geolog . pag. 64) l’ingegnere Mazzetti fa le seguenti osservazioni. In primo luogo quelle due sezioni sono distanti circa 1000 metri ed in questo tratto di un chilometro il calcare cambia più volte di direzione ed inclinazione, come lo provano i lavori denominati Carlino , che trovansi tra la linea della sezione T-U e le vecchie coltivazioni di Gutturu-Pala, nei quali si riconobbe che i banchi calcarei corrono E-0 e con pendenza di 35° a 40° verso Sud. In secondo luogo per meglio comprovare quel fatto, della disposi- zione cioè del Calcare metallifero a fondo di battello con sottoposti gli scisti, fatto di importanza capitale per la spiegazione della tetto- nica, si credette bene di rilevare una sezione speciale vicina alla sud- detta e passante per il canale Figu, ove ora, dopo il disboscamento, la stratificazione fu messa a nudo. In questa nuova sezione (V. Tav. II, fìg. la) si credette bene di segnare con tratti continui la stratificazione ove questa è nettamente visibile e con puntini ove è nascosta dai cespugli o dalla terra, e ciò perchè non sia supposta una sezione ipotetica; anzi di una parte della sezione si è fatta una veduta fotografica. La sezione passa pei lavori di Su Maccioni, aperti sul fianco op- posto Sud della collina di Gutturu-Pala, e continua per il canale Figu fino in prossimità della miniera Baueddu. Essa è parallela al tratto T-U della sezione sopra citata, e non solo conferma i fatti di questa, ma prova ancora che il calcare di Gutturu-Pala, che allo sbocco del rio omonimo è concordante con gli scisti, a questi si sovrappone in modo visibile. Così, seguitando Tesarne del Y Osservazioni, in queste è detto come uno degli argomenti principali addotti nella Descrizione geologica per dimostrare che il Calcare metallifero è più recente degli scisti silu- riani, sia quello della soprapposizione del calcare ad Est della Grotta di Domusnovas, mentre T autore delle Osservazioni asserisce che in que- sta località si ripete il rovesciamento, che a Reigraxius, oltre che al terreno cambriano, si sarebbe esteso anche al Calcare metallifero ed allo scisto siluriano (V. atlante, Tav. XVI). E per far vedere come le cose non siano esattamente così, si os- serva come a Reigraxius, ove il Cambriano è rovesciato sul Calcare me- tallifero, esso dista dagli scisti siluriani 700 m. circa, mentre qui tra il Cambriano e gli scisti siluriani troviamo interposto per il percorso di almeno cinque chilometri il calcare, il quale andando da Ovest verso Est, ossia dal Cambriano agli scisti, è inclinato prima verso Est e poi verso Ovest, come si vede nella figura seconda, ossia nella sezione Est-Ovest, passante per la punta S. Michele di Marganai. — 77 — A schiarimento di detta sezione gioverà ricordare la Tav. VI (ve- duta fotografica) annessa alla Descrizione geologica^ la quale mostra come ai piedi di tutta la falda Sud della catena del Marganai, ossia dal Rio Gutturu Xeu sino alla Grotta, si trovino gli ^ scisti siluriani che vanno a riunirsi a quelli segnati nella figura seconda della tavola qui annessa. Riassumendo poi i fatti riscontrati coi lavori sotterranei delle mi- niere che stanno in favore e contro alle due ipotesi ora in esame, l’ingegnere Mazzetti fa rilevare come su di essi non vi è discrepanza neirammetterli (e non vi potrebbe essere trattandosi di sezioni accer- tate con profondi lavori di miniera) dagli autori delle due ipotesi, salvo che l’uno dà la prevalenza ad una serie ^dei medesimi e l’altro alla serie opposta. Così i lavori di Monteponi, S. Giovanni, S. Giovaneddu, Malacal- zetta, ecc., provano che i calcari sottostanno attualmente agli scisti, con l’avvertenza però che i due autori vanno d’accordo nel caso di Malacalzetta, salvo che nella Descrizione geologica si è creduto di dover per quest’ultima località stabilire una formazione a parte per quegli scisti. Invece i lavori di Planudentis, Pira-Roma, Enna Murta, Ne- bida, ecc., dimostrano che il calcare sta sopra agli scisti. Ed a com- plemento delle figure riportate nell’atlante della Descrizione geologica si crede bene di dare le sezioni comprovate da questi lavori. Nella fi- gura terza (vedi la tavola annessa) è rappresentata la sezione passante per i lavori del cantiere Sedda-Gherchi della miniera Pira-Roma, e nella figura sesta si vede la sezione passante per la galleria Modi- gliani della miniera Planudentis. In ambedue le sezioni gli scisti stanno sotto i calcari, che sono concordanti coi medesimi, ed oltre a ciò è da rammentarsi che nelle pareti della galleria Modigliani vennero, nell’anno 1880, trovati dei crinoidi siluriani. La figura quarta fa vedere la disposizione della stratificazione di- mostrata coi lavori di Cuccuru Faris, ed infine la figura quinta dà la sezione della miniera Nebida, ove è da notarsi che il contatto tra lo scisto ed il calcare fu riconosciuto presentare degli scaglioni, i quali dimostrano come il calcare dovette rompersi per permettere la venuta in alto dello scisto. Concludendo, si hanno alcune località ove lo scisto riposa sul calcare ed altre invece ove si presenta il fenomeno opposto. Però è da osservarsi che dove lo scisto sta sopra, non si ha generalmente un piano di coptatto tra due formazioni concordanti, o almeno poco discordanti nella direzione, ma bensì un piano di posa separante due roccie differenti, dove le testate dell’una battono contro le testate del- Paltra, fatto questo che nella Descrizione geologica fu messo in evi- denza per molte località, per esempio, a Monteponi, a S. Giorgio, ecc., mentre invece dove vi è concordanza fra i due terreni ivi quasi sempre si trova lo scisto sotto il calcare. Dopo le suesposte osservazioni l’ingegnere Mazzetti conclude che dai fatti da lui osservati risulta che nell’ Iglesiente, ed anche fuori dei limiti della Carta geologica pubblicata, nove volte su dieci lo scisto presentasi sottostante al Calcare metallifero lungo i veri contatti, cioè quelli passanti fra banchi delle due formazioni aventi circa la stessa direzione, che generalmente è la N-S; mentrechè il calcare sottostà agli scisti, lungo i piani di posa separanti i banchi delle due roccie che vengono a cozzare testata contro testata. Perciò la sovrapposizione più probabile è certamente quella che si riscontra nei veri contatti, i quali non sono dovuti a rotture, e ciò senza punto escludere quanto fu accennato ancora da altri, che cioè il eomplesso di strati generalmente denominati Scisti silurici non sia punto di una soia età, e che lo stesso si verifichi pei calcari che ven- gono complessivamente confusi sotto la generica denominazione di Calcari metalliferi. Facendo astrazione dal fatto che negli Scisti silurici esistono in- tercalate lenti e banchi calcarei abbastanza potenti, come quelle di Monte Albo, e come quelli che si vedono a Villasalto, S. Nicolò Ger- rei, Ballao, ecc., l’esistenza di calcari diversi che vengono a contatto immediato, pare potersi desumere dalla sezione di Marganai, la quale mostra come il vero Calcare metallifero venga ivi a contatto con un secondo calcare, probabilmente cambriano, e costituito da piccoli banchi formati da straterelli fortemente aggregati è contenenti frequenti ar- nioni di piromaca la quale non si riscontra punto nel calcare superiore. A queste osservazioni di fatto nulla ornai si potrebbe aggiungere, ma si può ancora osservare che dopo il Lamarmora, ed a parte il Boll del B .Coir .Ge ol . d’ Italia Anno 1890.T2cvr.II. SEZIONI GEOLOGICHE NELL’ IGLESIENTE (SARDEGNA) Jì'ió’f i. Sezione S-N passante per il Canale Figu e perii Monte di Gntturu-Pala Scala di la 20,000 Fig -a 2 . Sezione 0-E passante perla P,n S .Mieli ole del Monte Marganai Scala di la 100,000 (i) Arenaria cambriane. (2) Calcare* metallifero in. grandi masse- . (3) Scisti silurici; ( l) Calcari in, piccoli- stratcréHi riuniti- in banchi contenenti arnioni di. piromaca. (2) Calcare- in grandi masse- (3) Quarzo (4) Scisti silurici- Riproduzione di ima fotografia della parie AB della Sezione (Figi?) presa in un piano facente un angolo di 4-5° con quello della Sezione Fig™ 3 . Sezione 0-E passante peri lavori del cantiere Sedda Clierchi della Miniera Pira Roma Scala di la 2.000 Figra4-. Sezione 0-E passante per i lavori Cucimi Fari s nella miniera di Pira. Ron; Scala di la 2.0 0 0 (1) Scisti silwicv (2) Calammo (3) Calcare- Fig T 5 . Miniera di Nebida Sezione 0~E Jcala di 1 a 20,000 Pig'r 6 . Sezione O E passante perla Galleria Modigliani della Miniera Planudentis Scala di 1 a 2,000 111 Banchi e lenti, calcarei Intercalali negli scisti. silurici. . i 2 / Scisti silurici (3 ) Calcare, in grosse masse,, metallifero t h) Arenarie c calcari cambriani A Stnb.Ui.Bnmo c Salamonr.Ro — 79 — personale del R. Corpo delle miniere, l'unico geologo che si sia oc- cupato della questione è il dott. G. Bornemann, il quale tanto nel volume pubblicato per il Congresso geologico di Bologna, quanto nella memoria inserita nello Zeitschrift der deutschen geologisehen Gesell- schaft , XXXV B.} 2. H., riportata in sunto nel Bollettino del R. Comi- tato geologico, pag. 9-10 del 1883, come anche in recenti sue lettere^ ha sostenuto la ipotesi abbracciata nella Descrizione geologica , cioè della sovrapposizione di gran parte del calcare agli scisti 1 ; si può quindi concludere che la critica fatta dall’ ingegnere Maurizio Mar- chese alla Descrizione geologica dell ’ Iglesiente dell' ingegnere Zoppi, in quanto questi abbia ammesso di preferenza la superiorità del Cal- care metallifero agli scisti fìlladici siluriani, non è punto giustificata, standovi contro non solo i fatti dell’ ingegnere Zoppi riferiti nella sud- detta Descrizione geologica , pubblicata nel 1888, ma molti altri anche ulteriormente rilevati con esatte sezioni da ingegneri di miniere i . quali inoltre concordano con l'opinione espressa in proposito da altri capaci geologi italiani e forestieri. Annotazione. — La tettonica dei terreni antichi dell’ Iglesiente, benché stata già soggetto di molto studio, presenta per la sua complicazione, difficoltà non ancora interamente risolte. Nuove ricerche vi sarebbero tuttavia opportune, nel are le quali sarebbe il caso di tener conto delle ipotesi manifestate nella De- scrizione geologica deir Iglesiente dell’ ingegnere Zoppi e specialmente dell’ opi- nione testé espressa dal Dott. J. G. Bornemann, il quale ebbe occasione di stu- diare più ricca collezione di fossili. Questi osserva che il terreno finora ritenuto Cambriano in Sardegna, stante la presenza in esso di fossili di quell’epoca, è costituito specialmente di are- narie, e perciò sarebbe di formazione litoranea. I depositi calcarei e scistosi, che nella stessa epoca si sono dovuti formare in maggiori profondità del mare, deb- bono ora trovarsi fra le due grandi formazioni contigue, scistosa e calcarea, la prima delle quali è stata finora attribuita totalmente al Siluriano, e la seconda confusa col Calcare metallifero. In sostanza è probabile che esista nell’ Iglesiente l’intera facies del Cam- briano formata da arenarie, da calcari e da scisti, la ricostituzione della quale deve basarsi essenzialmente sopra determinazioni paleontologiche. Questa nuova opinione del dott. Bornemann non contraddice alla ipotesi della origine atollica del Calcare metallifero , sostenuta nella Descrizione geologica an- zidetta; anzi la completa con l’aggiunta della contemporanea formazione di scisti in mare più profondo. La Direzione. 1 A proposito di tale sovrapposizione, vedasi anche la citazione fatta dal Sui dintorni di San 0 intignano in vai d’ Elsa [Toscana); nota dell’Ing. B. Lotti. Il gruppo montuoso di San Gimignano nella Toscana centrale è degno di nota, specialmente per la sua ossatura di calcare retico che forma Fanello di congiunzione fra i calcari retici della Montagnola Senese e quelli del monte di Jano allineati sulla stessa direzione N.O- S.E. Può notarsi subito che sullo stesso allineamento, verso N.O, tro- vansi il Monte Pisano e le Alpi Apuane, come verso S.E trovasi il gruppo di Cetona, tutti monti costituiti da terreni secondari e paleo- zoici ed appartenenti all’antica Catena metalliferi. Questi di S. Gimi- gnano, oltre ad avere a comune cogli altri ricordati uno scheletro di roccie antiche, presenta come quelli il fenomeno caratteristico della grande trasgressione fra l’Eocene e i terreni secondari; con questo però, che mentre in altri gruppi della Catena metallifera sono manife- ste due trasgressioni, una tra il Lias superiore e il Titoniano e l’altra fra il Neocomiano e il Senoniano o 1’ Eocene, qui, nei monti di cui è parola, come nella Montagnola Senese, a causa di una più profonda denudazione preterziaria le due trasgressioni si confondono in una sola e T Eocene riposa quindi direttamente sul terreno retico. Manifestamente i dintorni di S. Gimignano, come quelli di Jano e della Montagnola, costituivano una terra emersa insulare nel periodo miocenico, ed un gruppo di piccole isole durante il Pliocene. Dalla disposizione del terreno pliocenico in questa regione rilevasi infatti che il calcare retico in quell’epoca presentava delle solcature e delle Dolt. J. G. Bornemann, a pag. 230 di un suo articolo pubblicato nel resoconto del Congresso geologico del 1881 in Bologna, di un lembo di scisti verdastri presso Punta Sa Gloria, sovrapposto al Cambriano ed in contatto col calcare senza fossili. — 81 — depressioni, nelle quali potè penetrare il mare, lasciandovi i suoi de- positi prevalentemente costituiti da calcari a grandi Ostreae e Peeten , calcari ad xàmpbistegina e Nullipore, sabbie tufacee ed argille fossili- fere. Sugli speroni che scendono dal Cornocchio, punto culminante della regione, fra il calcare pliocenico ed il Retico vedonsi ciottoli di roccie permiche (quarziti e conglomerati quarzosi del verrucano), di cui è difficile spiegare la provenienza non trovandosene in posto nei dintorni immediati; forse provennero dai vicini monti di Jano o da quelli della Montagnola, allorquando 1’ orografia della contrada era molto diversa da quella attuale. Le argille plioceniche nei dintorni di S. Gimignano, come del resto anche nelle colline prossime di San Miniato e di Montaione, non si trovano esclusivamente al disotto delle sabbie, ma sono anche ad esse interposte e sovrapposte. Le sommità pianeggianti delle colline sab- biose di S. Gimignano sono infatti quasi sempre ricoperte da uno strato sottile d’argilla che preservò dalla denudazione le masse di sabbia sottostanti. Queste presentano allora profonde solcature a ripide pareti, specialmente laddove riposano sopra le argille inferiori; il qual feno- meno è dovuto al fatto che le argille, presso il contatto dal quale scaturiscono costantemente le acque sotterranee, si rammolliscono e vengono quindi asportate, provocando il franamento delle sabbie so- vraincombenti. Tra Casanuova e Buonriposo, nel punto più elevato della via pro- vinciale di Volterra, sopra il Pliocene marino, v’ è un calcare poroso a conchiglie lacustri. Esso presenta notevoli analogie, per la natura litologica e pei fossili che racchiude, con quello che forma il substrato dei banchi di travertino, pur alternando con esso, nelle vicine località di Colle, Poggibonsi e Santa Lucia. Presso il Molino del Gradasso, in quel di Gambassi, osservasi una marcata discordanza fra i conglomerati tortoniani ed il Pliocene. Questi conglomerati, che al di là del Cornocchio nel versante dell’ Era pren- dono un notevole sviluppo, sono qui rappresentati solo da due piccoli lembi, uno presso il detto molino del Gradasso e l’altro nel Botro dei Casciani. 11 Pliocene ed anche il Tortoniano, ove si trova, sovrappongonsi direttamente alle roccie eoceniche e a quelle più antiche. Il terreno 6 — 82 — eocenico è formato in questi dintorni, come in tutta la regione circo- stante, da arenarie, calcari, scisti argillosi e masse ofiolitiche costi- tuite da diabase, eufotide più o meno alterata e serpentina lherzo- litica. Sotto S. Mariano presso Gambassi, nel Botro Melaio, Feufotide, percorsa da filoni di diabase porfìroide, è iniettata da vene e mosche di calcopirite con blenda grigia a grandi lamine. È degna di nota una grossa vena d’erubescite compatta, dello spessore quasi uniforme di tre centimetri, che seguesi per una diecina di metri lungo il letto del fosso. La matrice è formata dalla stessa eufotide incassante che però, presso la vena, è compenetrata di quarzo secondario di secrezione. L’eufotide è quasi inalterata ed ha acquistato per compressione una struttura marcatamente scistosa con produzione di clorite sul di al- leggio. Nel Botro dell’Inferno, presso il Molino del Gradasso, predomina Feufotide con numerosi e grossi filoni di diabase porfìroide; uno dei quali misura oltre 15 metri di potenza . Risalendo il Rio dei Casciani i filoni crescono di numero fino a far prendere il predominio alla diabase sulla eufotide incassante e si passa così ad una grande massa di sola diabase a struttura sferoidale, che presso il Molino della Casa Nuova presenta delle rifioriture di carbonato di rame. Nella stessa cupola ofìolitica, presso il fosso dell’Acqua Calda, si ha un giacimento cuprifero proprio al contatto fra la diabase e Feufo- tide a filoni diabasici, i quali, essendo anteriori al piegamento posteo- cenico, sono in generale rotti e dislocati. Presso il giacimento vi è una roccia serpentinosa verde-cupa che non sembra provenire da lher- zolite, ma piuttosto da un’ eufotide olivinica. A misura che ci allonta- niamo dal contatto colla massa diabasica, Feufotide presenta vieppiù scarsi filoni fino a divenirne priva ed allora acquista una struttura a grossi elementi. Le salbande dei filoni diabasici presentano spesso delle rifioriture di carbonato di rame. Come fu già accennato, le roccie eoceniche sovrappongonsi diret- tamente, in questi dintorni, ai calcari retici. Sono essi i soliti calcari grigio-cupi, dolomitici, talvolta compatti e stratificati più spesso caver- nosi, brecciformi e massicci. Presso il Cornocchio, tanto nel versante dell’Era che in quello dell’Elsa, vi stanno racchiusi degli ammassi di — 83 — -gesso che in qualche punto, essendo contigui a quelli contenuti nei Miocene superiore, possono venire con questi facilmente confusi; le masse gessose del Retico sono però sempre ricoperte dagli strati eoce- nici. Il gesso presentasi, nelle varie escavazioni aperte, di solito stra- tificato ed ordinariamente venato di grigio; qualche volta ravvolge dei frammenti di calcare retico. La presenza del gesso nei calcari retici, fenomeno assai frequente e degno di nota, fu già segnalata da vari autori, fra i quali Savi e Meneghini *, Cocchi 2, Capellini 3, Zaccagna * i e ultimamente Simo- :nelli 5; io l’ho riscontrato di recente oltreché nella località in parola, in vari punti dei dintorni di Capalbio, nei monti dell’ Uccellina, alla Campigliela e alle Carbonaie presso Massa Marittima, sempre intima- mente associato al calcare retico. Non è ben manifesta l’origine di queste masse gessose; non sap- piamo cioè se debbano ritenersi contemporanee al deposito del calcare, ovvero siano dovute ad azioni metamorfiche posteriori. La frequente as- sociazione del gesso al calcare retico e la sua non rara disposizione in strati, come ad esempio, al Cornocchio e nell’isola di Giannutri, farebbero propendere per la prima ipotesi, ma varie altre considerazioni fanno ritenere più probabile la seconda. Savi e Meneghini, avendo trovato il gesso in terreni di diversa età, e cioè nel Cretaceo superiore ed infe- riore e nel Lias inferiore, lo ritennero metamorfico e dovuto all’azione di vapori solforosi (originariamente solfoidrici) sulle roccie calcaree ; dello stesso parere fu il Cocchi, il quale dice che la conversione del carbonato in solfato nell’alta Val di Magra sembra essersi effettuata per i piani di stratificazione e per le fenditure, e che per conseguenza la gessificazione fu incompleta; il Zaccagna osserva, sui gessi dell’Ap- pennino pontremolese e fìvizzanese, che la loro presenza nel calcare 1 Savi e Meneghini, Considerazioni sulla geologia della Toscana. — Fi- renze, 1851, p. 229. 2 I. Cocchi, Geol. dell'alta Val di Magra. — Milano, 1886. 3 G. Capellini, Carta geol. di parte del Volterrano. — Bologna, 1881. i D. Zaccagna, Affioram. di terr. antichi nell' Appennino Pontremolese e Fimzzanese (Proc. verb. Soc. Tose. Se. nat., IV, p. 62). — Pisa, 1883 . 3 Y. Simonelli, A pp. geol. sull'isola di Giannutri (Boi. Com. geol., n. 1-2, 1889). — 84 — jetico non ha alcuna relazione coll’età del calcare stesso, poiché in ([uei dintorni si hanno gessi anche in roccie liasiche ed eoceniche e- ritiene che abbiano avuto origine dall’azione di acque minerali su cal- cari di età diverse. A mio modo di vedere si verifica pel gesso quello che avviene pei giacimenti ferriferi. È noto che, almeno in Toscana, le masse di mi- nerale di ferro, giacciono di preferenza nel calcare retico e precisa- mente presso il contatto di questo coi sottostanti strati scistosi del Trias e del Permico. Tale è la giacitura del minerale nelle Alpi Apuane, a Rio nelllsola d’Elba, in Valdaspra presso Massa Marittima e nel Monte Argentario, trascurando giacimenti di assai minore importanza. Ad onta però di questa prevalente posizione stratigrafica delle masse ferrifere è ormai fuor di dubbio che esse sono posteriori, e di gran lunga, alle formazioni che le racchiudono; basti il dire che all’Elba in località vicinissime ed anche nella stessa località, le masse ferrifero occupano diversi orizzonti stratigrafici, dal presilurico all’Eocene. Un fatto solo è costante, e non solo nei giacimenti feiriferi della Toscana, ma eziandio in quelli di numerose località straniere, ed è la loro asse- dazione a masse calcaree presso il contatto con roccie scistose. Com- prendesi allora che, mentre da un lato, fra una massa assorbente, come il calcare in genere e quello cavernoso retico in ispecie, ed una relativamente impermeabile, come scisti, ardesie, micascisti, ecc., si presentava la via più facile alle acque sotterranee mineralizzate, dal- l’altro la natura calcarea della roccia si prestava ad uno scambio di elementi, quindi al deposito metallifero. Ora io ritengo che soluzioni minerali, come quello che produssero- masse ferrifere, possano aver dato origine agli ammassi gessosi, sia attaccando direttamente i calcari, sia depositando in essi il solfato di ferro, dalla decomposizione del quale dipoi sarebbe provenuto l’acido sol- forico necessario alla trasformazione del carbonato in solfato di calce- in Valdaspra, presso Massa Marittima, infatti, il gesso contenuto nel calcare retico è tutto cosparso di pirite di ferro ed associato a masse limonitiche. Nei dintorni di S. Gimignano, come nella regione a N.E di Massa Marittima, nella Montagnola Senese ed in una gran parte del territorio d’Orbetello ,ove la formazione più profonda consta di calcare cavernoso — 85 — retico assorbente al massimo grado, le condizioni idrologiche sono oltremodo sfavorevoli. Anche nella stagione invernale è raro imbattersi in un ruscello e sorprende altamente la presenza in queste masse cal- caree di profonde solcature, per entro le quali non scorre mai, o forse ben raramente, un fil d’acqua. A N.O della cupola di calcare retico del Poggio dei Comune, presso Villa Cisterna, esala dal calcare pliocenico sovrapposto una pu- tizza di acido solfidrico che produce sulla roccia qualche efflorescenza di solfo. Questa esalazione, come un’altra presso il Molino del Gradasso sotto Gambassi, sono forse in relazione con quelle prossime di Monte- miccioli 1 e con quella, poco più lontana, dell’Osteria, al piede Ovest della Montagnola. III. (reologia applicata del Bacino terziario e quaternario del Piemonte; memoria del I >ott. Federico Sacco. (Con una tavola) Allorquando di una regione si è compiuto l’esame geologico gene- rale, riesce opportuno di trattare eziandio dei diversi ed importantis- simi rapporti che in tale regione esistono tra la costituzione geologica e l’uomo, la configurazione del terreno, il regime acqueo, ecc. Nelle pagine seguenti cercherò appunto di fare tale esame di geo- logia applicata al bacino terziario del Piemonte, che è tipico affatto dal lato geologico e paleontologico e che presentasi pure assai interessante sotto il punto di vista utilitario. Onde procedere con chiarezza maggiore divisi questo esame ap- plicativo in diversi capitoli riguardanti l’orografia, l’idrografia, l’agri- coltura, l’industria, l’igiene e gli argomenti affini, indicando per ciascun capitolo ciò che di più interessante offre ognuno degli orizzonti geo- logici in cui divisi la serie terziaria piemontese. 1 Di Poggio, Sulle esalazioni solfidriche di Montemiccioli (Proc. verb. Soc. Tose. Se. nat., V, p.254). Capitolo I. Orogra fi a. E ben noto quanto stretto sia il nesso che esiste tra la costituzione geologica di una data regione e Porografia della regione stessa e quindi indirettamente colla distribuzione dei centri abitati ecc.; perciò, trala- sciando considerazioni generali in proposito, possiamo passare senza altro all’esame dei singoli terreni rispetto ai fenomeni orografici a cui essi danno origine. laiguriano. — Siccome il Parisiano tipico, nummulitifero, appare solo come sottile zona nelle Alpi marittime, così %non abbiamo quasi a trat- tarne: indichiamo solo come esso sia costituito per lo più da banchi calcarei abbastanza resistenti che lungo le pareti montuose sporgono quindi spesso a guisa di cornice frammezzo agli argilloschisti fra cui sono inglobati. La formazione liguriana , che dicemmo rappresentare in Piemonte quasi tutto l’Eocene, per essere costituita di terreni molto diversi, pre- senta pure esternamente diversi aspetti orografici; le zone arenacee {macigno) costituiscono nelle Alpi marittime e nell’ Appennino ligure regioni aspre ed a creste elevate, acute, irregolari. Invece gli argillo- schisti formano pendìi dolci, bassi colli (Colle della Maddalena nell’alta Valle della Stura di Cuneo, Colle dei Giovi nell’Appennino, ecc.) e talora anche regioni pianeggianti. Dove compaiono lenti ofiolitiche, là si veri- fica quasi sempre un rilievo ben spiccato, nerastro, aspro, caratterisco.. Dove le formazioni ofiolitiche terziarie si appoggiano a quelle an- tiche, come tra Voltaggio e la riviera ligure, si vede che le prime costi- tuiscono generalmente rilievi molto meno accentuati che non le seconde. Nella stessa regione si vede che talora la serpentina si presenta com- patta e forma creste, talora invece è poco resistente costituendo quindi piccoli colli. Ma ciò che è più interessante, riguardo al bacino terziario studiato, si è la facies delle argille scagliose, giacché queste, per la poca com- pattezza, per la facile sten i prabilità^ per i movimenti in grande scala a cui vanno soggetti, costituiscono regioni affatto caratteristiche, leg- — 87 - germente ondulate o pianeggianti, piuttosto basse riguardo a quelle circostanti costituite di altri terreni, spesso intersecate da burroni di forma mutevole, fangose al sommo in tempo di pioggia, aride, screpo- late, indurite in tempo di siccità; ne risulta quindi un paesaggio deso- lato che fortunatamente nel Piemonte appare solo in piccole zone, per lo più verso il fondo di alcune valli, ma che diventa poi predomi- nante nella regione appenninica di gran parte d’Italia. In conseguenza di tutto ciò facilmente si comprende come su queste zone liguriane non esistano in generale centri d’abitazione e che anzi si cerchi, anche per le abitazioni rurali, di evitare per quanto è possibile le aree costituite di argille scagliose, poiché quivi succedono spesso screpolature, scoscendimenti, ecc. ; da questi spostamenti di terreno talora vengono originate conche più o. meno ampie che si con- vertono in stagni o laghetti. La tettonica per lo più molto tormentata delle formazioni liguriane influisce anche molto sulla orografia, che ne risulta naturalmente assai irregolare. Bartoniano. — La predominanza delle marne grigie friabili, che in Piemonte costituiscono gran parte della formazione bartoniana , fa sì che le regioni collinose dove essa appare si mostrano quasi sempre intersecate in tutti i sensi da ampi e profondi burroni, piuttosto aridi, continuamente in via di trasformazione; solo qua e là dove appaiono lenti calcaree quivi si presentano creste rilevate, ma in generale mai molto spiccate. Naturalmente non sorsero centri d’abitazione su tali regioni bartoniane. Sestiano. — Questo sottile orizzonte geologico non presenta gene- ralmente fenomeni orografici proprii, ma per lo più invece quasi simili a quelli del Tongriano che esamineremo ora. Tongriano. — Per la natura eminentemente conglomeratica ed arenacea che presenta l’orizzonte tongriano , e per la forte inclinazione che hanno i suoi banchi, verificasi che le regioni costituite di questo terreno sono quasi sempre assai rilevate, spesso aspre, per modo da presentarsi con un paesaggio alpestre, talora arido e dirupato, con valloni profondissimi, a pareti turrite, con frequenti salti che formano belle cascate, ecc.; sovente tali placche tongriane costituiscono sull’alto delle colline grandiosi monoliti. — 88 — Nelle regioni montuose la formazione tongriana costituisce quasi sempre, sopra le rovine antiche, regioni pianeggianti, veri altipiani poco ondulati su cui sorsero sovente centri abitati, come Battifollo, Scagnello, Cimaferle, Sassello, ecc. In seguito ad erosioni si verifica spesso che la formazione tongriana si presenta solo più in placche sul Liguriano , come ad esempio veri- ficasi in parte delle colline tortonesi; tali placche spiccano da lungi pei i loro pendìi dirupati che cessano di tratto sul dorso ondulato costi- tuito dalla zona liguriana. Naturalmente le zone marnose del Tongriano originano regioni collinose diverse da quelle sovraindicate come tipiche in generale del- T orizzonte in questione. L’abbondanza di ciottoloni in certi banchi tongriani fa sì che talora la regione tongriana prende un aspetto quasi di terreno morenico, tanto più quando per denudazione i ciottoloni trovansi sparsi sulla superficie del suolo a guisa di erranti. Stampiamo. — Al contrario di ciò che verificasi nell’orizzonte sot- tostante, la formazione stampiana , essenzialmente marnosa, costituisce regioni collinose poco elevate ma caratterizzate in modo spiccatissimo per essere intersecate in tutti i sensi da burroni profondissimi, di for- ma variabilissima per i facili scoscendimenti e per la facile erodibilità delle marne farinose ; nel complesso quindi questo orizzonte rassomi- glia assai dal iato orografico a quello bartoniano . Anche in questo caso non troviamo che rarissimamente centri d’abitazione sopra le marne in questione ed anzi si può constatare che paesi fondati sullo Stampiano minarono completamente (Rocchetta di Spigno ad esempio) appunto per la franosità del terreno. I torrentelli, generalmente asciutti, che intersecano le regioni stampiane sono per lo più di andamento molto tortuoso, per modo da originare talvolta curiose regioni labirintiformi, dando al paesaggio un aspetto di aridità, di franosità, direi, molto caratterisco. Dove le correnti acquee agirono potentemente sulle formazioni stampiane, là vediamo come le regioni collinose basse sono sostituite da ampie valli e da ampie pianure tanto che sovente si delinea anche di lontano a larghi tratti la zona stampiana solo considerando l’oro- grafia della regione. — 89 — Notiamo però che talora colle marne stampicene si alternano banchi, anche abbastanza notevoli, di arenarie, specialmente nella parte supe- riore dell’orizzonte ; quindi ciò altera alquanto la sovraccennata facies tipica del piano geologico in questione e ne deriva che, per fenomeni di erosione e di denudazione, talvolta questi banchi arenacei rimangono ampiamente allo scoperto e costituiscono vasti altipiani leggermente inclinati verso il centro del bacino terziario, come verificasi ad esempio nelle vicinanze di Cengio, di Cosseria, ecc., nell’alta Val Bormida ; in queste regioni talora si verifica che i banchi arenacei spaccandosi e venendo erosi dagli agenti atmosferici costituiscono grandiosi monoliti torreggiane, come vediamo, ad esempio, al Eric della Pongia, al Brio della Marca, ecc., presso Millesimo. Aquitaniano. — Si è visto come molto varia sia la natura litolo- gica di questa formazione, per cui non è possibile indicare in generale i caratteri orografici delle regioni che ne sono costituite ; in complesso però si può dire che siccome colle sabbie e colle marne aquitaniane si alternano frequentemente banchi arenacei assai consitenti, spesso for- temente inclinati, così le regioni collinose che ne risultano sono piut- tosto elevate, ripide, grigio-giallastre, a contorni irregolari, oppure complessivamente quasi piramidali, ciò che contrasta sovente coi vicini colli langhiani rotondeggianti grigiastri ; spesso vediamo le grandi val- late restringersi assai nell’attraversare le zone aquitaniane ; talora in queste specie di forre nelle valli trovansi paeselli, ad esempio quello di Ponti in Val Bormida. Talvolta le colline aquitaniane souo foggiate da un versante ad ampi piani inclinati, colla pendenza nel senso delTinclinazione degli strati, come vediamo ad esempio a Montezemolo, presso Bubbio, presso Ar- quata Scrivia, ecc., ecc. Sovente abbondano molto nelle regioni aqui- taniane i frammenti arenacei sparsi sul dorso delle colline. Siccome sovente V Aquitaniano è costituito alla base da un grosso banco arenaceo, così quivi si forma spesso o una gradinata od una specie di cornicione caratteristico, sporgente lungo i pendii collinosi . anzi questo carattere orografico sovente è di aiuto al geologo per fare una distinzione complessiva degli orizzonti geologici, tanto più quando si tratta di lembi aquitaniani o placche isolate sullo Stampiano , come quelle di Monte Castello in Val Bormida. — 90 — Ma nelle colline Torino-Casale V Aquitaniano essendo specialmente rappresentato da marne poco resistenti, naturalmente l’aspetto del suo paesaggio cangia assai; vi osserviamo cioè colline poco elevate ed a morbidi pendii; è solo nelle colline torinesi che, alle marne aggiun- gendosi potenti banchi arenacei e conglomeratici, il rilievo dei colli aquitaniani diventa nuovamente più accentuato e più aspro. Da quanto si è detto rispetto alla formazione aquitaniana della parte meridionale del bacino piemontese risulta facile il comprendere come moltissimi paesi siano situati su di questo terreno che, per le elevazioni che raggiunge e per i ripidi pendii delle sue colline, si dovette prestare assai bene alla difesa nel periodo medioevale; ne siano esempi Ponzone, Montechiaro d’Acqui, ecc. Langhiano. — Nella parte meridionale del bacino terziario pie- montese la formazione langhiana essendo costituita per massima parte da marne, dà origine a colline biancheggianti, poco elevate, rotondeg- gianti e con pendii spesso assai dolci ; le vallate che 1* intaccano vi si presentano notevolissimamente allargate, come ad esempio osser- vasi nella Val Bormida presso Acqui ; lungo le creste collinose, là dove esse sono attraversate dalla zona langhiana , si nota una depressione abbastanza marcata. Talora anzi si possono utilizzare tali fenomeni orografici per segnare in complesso 1’ andamento della zona langhiana attraverso una data regione. Naturalmente anche in questo orizzonte compaiono più o meno potenti ed estesi banchi di arenarie che alte- rano alquanto la tipica orografìa sovraccennata. Nelle colline Torino-Casale le marne langhiane , per la compressione subita, si indurirono in modo che ora costituiscono sovente creste di colline, tanto più che spesso colle marne calcaree indurite si alternano eziandio banchi arenacei. Sulla zona langhiana del bacino meridionale del Piemonte troviamo diversi importanti e prosperosi centri di abitazione, ciò che è in rap- porto colla facile viabilità e coltura che essa presenta. Invece nelle colline Torino-Casale vediamo sul Langhiano esistere pochi e piuttosto meschini centri d’abitazione che debbono la loro ubicazione specialmente all’idea della difesa che non a quella dell’industria e del commercio. L’esame dell’andamento stratigrafìco dei terreni langhiani ci spiega molti fenomeni orografici che non credo però necessario passare ora — 91 in esame poiché risultano chiaramente dal semplice esame delle carte geologiche. Eìveziano. — La natura eminentemente sabbiosa ed arenacea di questo orizzonte influisce molto sulla orografìa delle vastissime regioni che ne sono costituite ; esse infatti per la resistenza abbastanza notevole della formazione elveziana formano per lo più colline assai elevate (tanto da raggiungere i 900 metri a Mombarcaro) ed a pendìi alquanto scoscesi; anzi là dove le arenarie prendono un grande sopravvento, come ad esempio dalla Val Bormida al tortonese, la regione elveziana acquista spesso una facies di paesaggio alpestre con pendii dirupati, cascatelle, creste ardite, ecc. In conseguenza di questa conformazione orografica notiamo che molti centri d’abitazione si trovano sull’alto, delle colline elveziane per la solita causa della facile difesa di dette posizioni ; ma mutate oggi le condizioni delle cose questi paesi situati sulle cime elveziane non sono generalmente suscettibili di progresso e sono destinate invece per lo più a graduale decadimento. Tra V Eìveziano e il sottostante Langhiano esiste sovente un’irre- golare gradinata causata dalla diversità di natura litologica e quindi dal vario grado di erosione delle due formazioni geologiche ; questo fatto osservasi abbastanza generalmente attraverso le colline dell’alto Monferrato fino ai colli tortonesi. Le valli che intagliano le regioni elveziane sono per lo più strette e profonde ; anzi osservando il percorso delle principali vallate si nota che generalmente, dove esse attraversano la zona elveziana , là esse si restringono rapidamente, per di nuovo allargarsi nella zona torto- niana ; ne sia esempio la valle della Bormida tra Orsara e Strevi. Talora in queste forre delle vallate sorsero paeselli di commercio, ad esempio Serravalle in Val Scrivia. L’esame stratigrafico della formazione elveziana ci spiega molti fenomeni orografici, come gradinate in grande ed in piccola scala, valli con una sponda ripidissima e quella opposta a dolcissimo pendìo, rapide deviazioni di corsi d’acqua, ecc., ecc. Talora per fenomeni di erosione nelle regioni a banchi arenaceo-mar- nosi questi sono ridotti a pilastri quasi isolati; si presenta tipica a questo riguardo la così detta regione diroccata presso Cigliè nelle Langhe. — 92 — Nelle Langhe e nell’alto Monferrato ed in parte sulle colline più ad Est si osserva che colli elveziani presentano burroni molto piu numerosi e più profondi (spesso a pareti quasi verticali) che non nelle colline tortoniane ; tale carattere secondario può quindi servire talora per separare complessivamente una regione dall’altra. Nelle colline monregalesi e torinesi l’abbondanza di ciottoli e ciot- toloni fra le marne e le sabbie fa sì che, per lenta denudazione, spesso le regimi elveziane assumono la facies di terreno glaciale, cioè del così detto paesaggio morenico. Tortoniano. — In quasi tutto il Piemonte la zona tortoniana , co- stituita essenzialmente da banchi marnosi, si presenta- sotto forma di colline basse, biancastre, rotondeggianti, a dolci pendii, attraversate da ampie vallate d’erosione (ad esempio la Val Tanaro presso Alba); là dove l’erosione acquea fu molto potente le formazioni tortoniane furono in parte esportate per modo che ne risultarono ampie regioni pianeggianti coperte da un velo alluvionale. Nella delimitazione grossolana del Tortoniano dall’ Elveziano è ap- punto molto utile 1’ esame orografico, poiché fra i due orizzonti esiste quasi sempre una specie di irregolare gradino causato dalla differenza nella costituzione geologica e quindi nei fenomeni d’erosione. Raramente osservansi potenti banchi arenacei fra le marne torto- niane, ma in questo caso (che verificasi per esempio a Novello nelle Langhe) tali banchi costituiscono spesso altipiani ben spiccati. Il paesaggio delle regioni tortoniane è in generale un po’ monotono ed uniforme. Su questa zona esistono diversi centri d’ abitazione in causa della facile viabilità e della sviluppata agricoltura che vi si trova. Messiniano. — Sovente le regioni messiniane presentano una configurazione orografica ben spiccata frammezzo alle zone vicine ; in- fatti siccome sovente in questo orizzonte geologico sviluppansi ampie formazioni arenacee, sabbiose, conglomeratiche, calcaree e gessifere, cioè formazioni che resistono assai all’erosione, così le colline messi- niane per lo più presentano pendii dirupati e pareti quasi a picco, grandiose e ripetute gradinate, profondi valloni, cime elevate, monoliti torreggianti (Val Scrivia), ecc. Le vallate che attraversano una zona messiniana sovente vi si re- — 93 — stringono molto, come vediamo ad esempio in Val Tanaro ad Est di Alba. Nella sovrapposizione del Messiniano al Tortoniano esiste gene- ralmente una specie di gradino causato appunto dalla diversità mila compattezza e quindi nella erosione dei due orizzonti geologici; ne siano esempio le colline della Morra, di Ricaldone, ecc. Molte colline messìniane sono di una tinta generale rossiccia per decomposizione chimica di certi elementi litologici, che talora vengono a far parte di questo orizzonte. Là dove esistono lenti gessifere, oltre ai ripidi gradini già accen- nati, osservansi spesso fenomeni orografici assai curiosi, dovuti alla dissoluzione del gesso, cioè imbuti a forma di anfiteatro, caverne e condotti sotterranei, monoliti gessosi isolati sull’alto delle colline, ecc., come osservasi specialmente nelle colline della Morra, presso S. Biagio nel Tortonese, ed altrove; ciò è in relazione col grande sviluppo e colla speciale stratigrafia della zona gessifera. Per la solita causa della difesa, ed in parte anche della maggior salubrità, sull’alto delle colline messìniane esistono spesso centri d’abi- tazione, che però ora di rado sviluppansi ulteriormente, tanto più che la ripidità di detti rilievi rende sovente poco facile sia la viabilità di queste regioni, sia l’estendersi regolare degli abitati. Piacenziano. — La formazione p iaeenziana per la sua natura es- senzialmene marnoso-argillosa costituisce basse colline rotondeggianti ma per lo più fondi di vallate, piuttosto ampie per essere valli di erosione ; infatti le correnti acquee, mentre erodono facilmente le sabbie astiane più difficilmente intaccano le argille piacenziane, scorrendovi invece sopra, per modo che poco a poco la valle si allarga senza approfon- darsi molto. Per tal modo ci spieghiamo il rapido allargarsi di certe valli, ad esempio, di Val Tanaro tra Asti e Castello Annone. Per la suddetta orografia delle regioni piacenziane molti ed impor- tanti sono i centri di abitazione, generalmente in via di accrescimento, che trovansi su questa zona, però coll’intermezzo di un velo di loess. Astiano. — La prevalenza delle sabbie nella costituzione della formazione astiana e la loro facile erosione fanno sì che la zona che ne è costituita si presenta generalmente ridotta ora ad una regione collinosa assai complicata, frastagliata in tutti i sensi, labirintiforme, come è appunto la tipica regione dell’Astigiano. 94 Inoltre il colore prevalentemente giallastro e la facile permeabilità delle sabbie astiane ci spiega come il paesaggio astiano sia per lo più di una tinta giallognola in generale e piuttosto arido. La facilità di erosione e di scoscendimento delle incoerenti sabbie astiane ci spiega pure come le colline che ne sono costituite presentino ben so- vente i loro fianchi ripidi, talora a picco, spesso franosi; inoltre ci spiega pure alcuni curiosi mutamenti orografici e l’allargarsi di certi orizzonti visuali, la formazione di guglie isolate singolarissime, ecc.; tali fenomeni osservansi specialmente nelle colline tra Brà e Montà. I profondi burroni franosi dell’ Astiano terminano spesso in duri, cementatissimi banchi arenacei che resistono notevolissimamente alla erosione; nel qual caso costituiscono spesso spiccati rilievi collinosi, come sovente si osserva nella parte settentrionale dell’Astigiano. In questo caso, come di solito, su tali altirilievi. si costituirono, special- mente in epoca medioevale, centri d’ abitazione stretti ed allungati nel senso della cresta collinosa, per lo più dominati da un grandioso castello che serve assai bene a spiegarci il perchè dello sviluppo di tali paesi; ne siano esempio Piano d’Asti, Passerano, Moncalvo, Altavilla, ecc., ecc. Giova poi notare che molti paesi costrutti sopra le sabbie astiane sono inesorabilmente destinati alla distruzione in un avvenire più o meno lontano, a causa della lenta ma continua esportazione naturale di dette sabbie per mezzo degli agenti atmosferici ; trovansi ad esempio in questa posizione precaria i paesi di Moriondo, Montà, Monteu Roero, Montaldo Roero, S. Stefano Roero, Baldissero d’Alba, Sommariva Perno, Pocapaglia, ecc. Fossaniano. — Le regioni fossaniane presentano generalmente quasi la stessa facies orografica di quelle astiane ; solo vi sono gene- ralmente più comuni e più ripidi i burroni, molto mutevoli di forma; le colline si presentano spesso di color rossiccio. Però in molti punti l’orografìa fossaniana si avvicina già a quella villafranchiana , in causa specialmente di potenti banchi marnoso-argillosi che si alternano talora colle sabbie e colle ghiaie. In causa della non grande estensione di questo terreno pochi sono i centri d’abitazióne che vi sono fondati, quasi sempre sull’ alto delle colline; così Mombercelli. Villafranchiano. — Quantunque sia molto varia la natura della — 95 — formazione villa franchiana tuttavia in generale si può dire che, per 11 grande sviluppo dei banchi marnoso-argilloSi, le regioni villafranchiane in seguito alle trasformazioni operate dagli agenti esterni sono ora ridotte a colline basse, rotondeggianti, a fianchi morbidissimi, di colore giallo-verdognolo; è tipica a questo riguardo la regione collinosa tra Villafranca d’Asti e l’altipiano di Villanova. Dove però l’erosione non potè agire tanto intensamente là vediamo che le regioni villafranchiane conservarono ancora in parte l’originaria disposizione pianeggiante, solo che esse sono ora ridotte ad altipiani on- dulati, come vediamo ad esempio presso Cellarengo, nei centro del- l’Astigiano, presso Bergamasco, ecc. Notisi però che il Vtllafraneliiano subalpino è spesso conglo- meratico, resistentissimo, per modo che le erosioni acquee vi costitui- scono talora balze dirupate lungo il corso dei fiumi. In generale le formazioni villafranchiane non danno direttamente ricetto a grandi centri d’abitazione in parte per la natura stessa del terreno, in parte perchè non presentano generalmente nè la comodità dei bassipiani nè i vantaggi, relativi, dei siti molto elevati; tanto più che le vie di comunicazione che corrono sul Villafr anelli ano , sovente sono poco comode perchè spesso fangose o, nei tempi di siccità, dure e poco piane. Sahariano. — Non è il caso di insistere sulla configurazione per lo piu pianeggiante che presentano le formazioni sahariane diluviali; solo è a notarsi che per le potenti erosioni verificatesi dopo questo primo periodo del Quaternario, tali pianure furono quasi tutte ridotte ad altipiani alquanto ondulati, più o meno vasti, più o meno elevati sulle circostanti pianure terrazziane. Il paesaggio di questi altipiani diluviali (barragyie1 brughiere , vaude , ecc.) è piuttosto triste e monotono, di tinta giallo-rossiccia, ed a scarsa vegetazione; anche la viabilità è spesso resa poco comoda dalle argille del loess che cangiansi facilmente in fanghiglia appicci- caticcia. Malgrado ciò i pianori diluviali, per la loro poca elevazione sulle fertili pianure terrazziane , presentano spesso centri di abitazione ab- bastanza importanti, specialmente verso il loro margine; per lo più si verifica in tal caso che la parte antica e meno frequentata di questi — 9 G — paesi si trovi sul ciglione della terrazza diluviale , mentre la parte recente ed animata si stende al piede di detto ciglione. Quanto alla orografìa delle formazioni moreniche , essa è troppo nota perchè ci dobbiamo fermare sopra, tant’è che il nome di paesaggio morenico è ormai entrato nell’uso comune per indicare le regioni collinose od appena ondulate costituite di terreno glaciale; spesso vi si incontrano piccole conche lacustri, causate dall’irregolare formazione del deposito. Per la loro amenità e fertilità, molti centri d’abitazione si stabili- rono poco a poco su queste regioni moreniche. Terrazziano. — Questa formazione è caratterizzata da regioni piane quasi sempre amplissime ; essa costituisce generalmente l’im- basamento diretto dei grandi centri popolati del Piemonte, come d'al- tronde anche altrove. Capitolo II. I ci x* o <ì; x* a, li a - Nello stesso modo che i fenomeni orografici, anche quelli idrogra- fici sono in strettissima relazione colla natura del terreno e quindi, in complesso, cogli orizzonti geologici; di più non solo l’idrografìa super- ficiale ma anche e specialmente, anzi, quella sotterranea è strettamente in rapporto colla natura geologica di una data regione; si nota poi in generale che i veli acquei sotterranei trovansi per lo più nella zona di sovrapposizione di un orizzonte geologico all’altro, a causa sia di leg giere trasgressioni, sia di differenze litologiche che quivi si verificano. Liguriano. — Nelle Alpi marittime e nell’ Appennino settentrionale dove questa formazione geologica è molto sviluppata essa non presenta particolari fenomeni idrografici; vi sono piuttosto scarse le sorgenti acquee. Lo stesso verificasi ad un dipresso nelle zone liguriane dei colli tortonesi e di Torino-Valenza, poiché quivi i banchi, specialmente argillosi, nelle epoche di pioggia si imbevono d’acqua solo superficial- mente formando fanghiglia, ma asciugano poi tosto, per modo che ne risultano regioni piuttosto aride, a terreno screpolato. — 97 — Talora per scorrimenti avviene che si formino nelle regioni ligu- riane piccole conche che cangiansi tosto in stagni o laghetti. Sestiano. — Dal lato idrografico le ristrette formazioni sestiane si comportano ad un dipresso come quelle tongriane. Tongriano. — In generale le regioni in cui sviluppasi il Tongriano si presentano piuttosto aride in causa della sua natura prevalentemente sabbiosa e ciottolosa; però siccome alla sua costituzione sovente prendono anche parte estesi e potenti banchi conglomeratici, molto cementati, alternati con marne o poggiati direttamente sulla roccia in posto, così essi formano talora veli acquei che originano sorgenti anche abbondanti (ad esempio quella di Madonna del Deserto, presso Millesimo). Dove la formazione tongriana costituisce placche sopra al Ligu- rianoì ad esempio nelle colline tortonesi, là si vede che queste placche arenacee agiscono quasi da spugna, assorbendo l’acqua di pioggia che poi gemono poco a poco in basso; se ne originano piccoli veli acquei i quali alimentano diverse sorgenti; questo fenomeno idrografico, sem- plice in sè, influì notevolissimamente sulla distribuzione dei centri d’abitazione, che infatti spesso trovansi situati presso queste sorgenti acquee, tajito più che piuttosto aride si presentano le circostanti regioni liguriane. Stampiauo. — Caratteristiche sono in complesso le zone stampiane per la loro aridità, poiché le marne un po’ sabbiose che le costitui- scono non si imbevono molto d’acqua ed invece per gli agenti acquei si disaggregano facilmente e formano gli aridi burroni già menzionati sopra. Aquitaniano. — Come il Tongriano anche la formazione aquita- niana si presenta piuttosto povera d’acqua; ma tuttavia qua e là fra i suoi banchi arenacei più compatti appaiono sorgenti acquee anche sull’alto delle colline, come, ad esempio, a S. Giulia (presso Cairo), a Ponzone, ecc. Nelle colline Torino-Casale la prevalenza delle marne nella costi- tuzione dell’ Aquitaniano rende ancora più scarse le sorgenti acquee, eccetto che nelle colline torinesi dove esistono pure sviluppate zone are- nacee. Langhiano. — Le marne langhiane sono anch'esse per lo più poco atte ad originare veli acquei, e quindi formano pure generalmente 7 98 — regioni povere d’acqua, eccetto là dove compaiono compatti banchi arenacei. Elveziano. — Come in generale quasi tutte le formazioni terziarie di mare basso, quella elvéziana costituisce regioni amplissime in cui scar- seggiano le sorgenti, a causa della facile permeabilità delle sabbie e delle marne sabbiose che rappresentano in massima parte questo oriz- zonte geologico. Però siccome in certe regioni sviluppansi pure ne\Y Elveziano po- tenti banchi arenacei od anche conglomeratici compattissimi, quivi compaiono copiose e spesso abbondantissime sorgenti acquee, come in diversi punti presso il Santuario di Mondo vi, presso S. Michele Mon- dovì, presso Vicoforte, sulle colline ad Ovest di Alba, nelle vicinanze di Barolo, di Monforte, ecc., così pure fra le potenti arenarie elveziane che sviluppansi dalla Val Bormida alle colline tortonesi. Tortoniano — Le marne un po’ argillose di questo orizzonte geo- logico si imbevono , alquanto di acqua per modo che nel complesso co- stituiscono regioni non tante aride, quantunque non diano quasi mai origine a veli acquei costanti e perciò raramente a sorgenti acquee no- tevoli, eccetto che in quelle pochissime regioni, come a Novello, dove compaiono banchi arenacei. Messìniano. — Questa formazione si presenta assai interessante dal lato idrografico; infatti siccome in generale essa è costituita in parte di marne ed in parte di arenarie, di conglomerati e di banchi calcarei spesso assai compatti, ne deriva che vi si costituiscono spesso parziali veli acquei i quali originano copiose sorgenti o alimentano vaste cisterne. Questo fatto lo possiamo verificare comunissimamente, in special modo nell’alto e basso Monferrato (sorgenti del Borbore, Ricaldone, ecc.). Là poi dove esistono zone gessifere non di rado si verifica che per dissoluzione del gesso si costituiscono piccole correnti acquee sot- terranee, come in alcuni punti delle colline tra la Morra el il Tanaro. Piacenziano. — L’assoluta prevalenza delle marne argillose nella costituzione di questo orizzonte geologico fa sì che esso forma regioni piuttosto umide, ricche sia in sorgenti, sia in acque superficiali. L’impermeabilità di questa formazione è poi molto importante perchè, qualunque sia il terreno che la ricopre, alla sua superficie su- 99 — periore si costituisce quasi sempre un velo acqueo vero, costante, regolare, come osservasi per regioni estesissime in ogni parte del Piemonte. La regolarità di tale falda acquea sotterranea diventa poi grandissima quando la formazione piacenziana per fenomeni di erosione trovasi direttamentè ricoperta da un velo di alluvione terrazziana. In causa di questo costante velo acqueo esistente sul Piacenziano non è improbabile che con fori opportuni in certe conche stratigrafiche se ne possano ricavare sorgenti artesiane. Astiano. — Al contrario di quella piaeenziana la formazione astiana è sommamente permeabile, per .modo che l’acqua di pioggia l’attra- versa senza fermarvisi; è perciò che le regioni astiane sono molto aride e l’uomo che vi abita è costretto a raccogliere l’acqua di pioggia nelle cisterne per uso alimentare. E solo verso la base dell 'Astiano che compaiono strati marnosi che s’inzuppano d’acqua ed originano qualche scarsa sorgente Alla base affatto della formazione astiana esiste il tipico velo acqueo che scorre sul Piacenziano e che si rivela con una serie di sorgenti, come si può tipicamente osservare al fondo di una gran parte delle valli dell’Astigiano. Fossaniano. — Anche questo orizzonte si presenta piuttosto arido, per la facile permeabilità delle sue sabbie e delle sue ghiaie; siccome però vi compaiono pure strati ed ampie lenti marnoso-argillose, cosi non è raro nelle regioni fossaniane di incontrare scarse e temporanee sorgenti acquee, come ad esempio si può osservare nelle colline tra Bra e Ceresole d’Alba. Villafranchiano. — L’abbondanza di strati marnoso-argillosi, che alternansi colle sabbie e colle ghiaie villafrancliiane, fasi che questo terreno si presenta quasi ovunque ricchissimo in veli acquei e quindi in sorgenti, anzi è spesso questo un carattere secondario che serve talora a riconoscere in complesso tale formazione; così, per esempio, lungo certe vallette che attraversano terreni pliocenici superiori, l’ap- parizione del corso d’acqua nell’alveo del torrente segna sovente, in epoca di siccità, l’inizio della zona villafranchiana; così pure le numerose sorgenti che sgorgano frammezzo a banchi conglomeratici servono talora a distinguere in complesso il Villafranchiano da consimili depositi quaternarii; ciò dicasi specialmente pel Villafranchiano subalpino. — 100 — Abbastanza esteso in certe regioni si presenta un velo acqueo verso la base del Villafranchiano (ad esempio presso Rèdabue, Masio, ecc.); ciò ci spiega come su certe colline villafrancliiane esistano pozzi pro- fondi, talora anche oltre 30, 40 e più metri. Sahariano. — In gran parte le formazioni alluvionali del Sahariano sono permeabili, ma siccome per lo più basano su orizzonti permeabili, così sovente troviamo che alla loro base scorre un velo acqueo po- tente e relativamente regolare. Talora poi coi banchi sabbioso-ghiaiosi alternansi pure banchi o lenti di marne oppure di conglomerati cementatissimi, costituendosi in ambi i casi veli acquei più o meno ampi che alimentano pozzi ed ori- ginano anche qualche sorgente acquea. È poi notevole il fatto che per la profonda alterazione chimico - fisica che sovente hanno subito le formazioni diluviali sahariane , e specialmente per una profonda argillifìcazione verificasi che esse diven- tarono generalmente impermeabili, come osservasi comunemente nel cono di deiezione della Stura di Lanzo. Anche il velo superiore di loess è spesso talmente argilloso che diventa quasi impermeabile, costituendosi allora sovente pozzanghere più o meno vaste alla superficie delle regioni sahariane . In generale l’aridità dei terreni diluviali sahariani è un grave ostacolo all’agricoltura di queste ampie regioni pianeggianti. Le formazioni moreniche dei Sahariano sono invece per lo più quasi impermeabili per la loro compattezza e pel materiale marnoso- argilloso che connette gli elementi rocciosi; si comprende quindi l’ab- . bondanza delle piccole conche lacustri delle regioni moreniche ad oro- grafia tanto complicata. Dove esiste un velo più o meno potente di terreno glaciale pog- giante sul Diluvium là si osserva sovente una falda acquea abbastanza abbondante tra le due formazioni. Terrazziana. — Di per sè la formazione terrazziana che è una semplice alluvione sabbioso-ghiaiosa, si presenta piuttosto arida; ma riesce invece assai importante idrograficamente, sia perchè il sottile velo di loess che la ricopre non è completamente permeabile e quindi s’imbeve d’acqua e la conserva per un dato tempo rendendo così umido il terreno vegetale, sia perchè sotto al deposito terrazziano , per lo — 101 — più di soli 2 o 3 metri di spessore, esiste quasi sempre un velo acqueo abbastanza costante ei abbondante che scorre sul Diluvium oppure, assai più comunemente, sui terreni terziarii. Ne consegue che le vastissime pianure terrazziane si presentano piuttosto fertili ed atte allo sviluppo delle popolazioni. Capitolo III. Agricoltura. Non è il caso di indicare particolareggiatamente il nesso strettis- simo esistente fra la costituzione del terreno e l’agricoltura, questa non essendo altro che un’applicazione di quella; solo è a notarsi che, siccome la parte coltivabile è soltanto quella che trovasi alla superficie del terreno, essa si presenta già alterata chimicamente e fisicamente in modo che la sua natura è quasi sempre ben diversa da quella ori- ginaria; ciò ad ogni modo non toglie importanza alla studio geologico applicato all’agricoltura poiché col variare della costituzione degli oriz- zonti geologici varia anche naturalmente la costituzione del terreno superficiale che ne rappresenta il prodotto diretto. Liguriano. — Nelle Alpi marittime e nell’Appennino settentrionale la formazione liguriana si presenta specialmente costituita di arenarie (macigno) e di argilloschisti; nel primo caso la natura rocciosa del terreno si oppone quasi ad ogni sorta di coltivazione; nel secondo caso invece incontriamo estese regioni a dolce pendìo, coperte o da foreste o da amplissime praterie; anzi nelle regioni meno elevate veggonsi eziandio pendìi liguriani coltivati a frumento. Nelle colline tortonesi e di Torino-Valenza gli affioramenti ligu- riani (quantunque l’uomo li utilizzi quasi per ogni sorta di coltura) non si presentano generalmente molto fertili, anzi dove abbondano le argille scagliose là sovente per la natura del terreno e per la sua instabilità la vegetazione è magra, scarsa; talora anzi per aree abba- stanza vaste si vede il suolo screpolato, arido, senza coltura regolare. Sestiano. — La strettezza della zona sestiana in Piemonte non ci porge occasione ad osservazioni speciali dal lato agricolo; in complesso questo terreno presenta fenomeni simili a quelli del Tongriano . 102 — Tongriano. — La natura essenzialmente arenaceo-conglomeratica di questo orizzonte fa sì che iu generale esso si mostra poco atto alla coltura; sovente si presenta piuttosto arido, quasi denudato dr vegetazione, talora invece è coperto di vegetazione forestale; le sue zone marnose e marnoso-sabbiose vengono naturalmente utilizzato specialmente per la coltivazione della vite. Stampiano. — Le marne più o meno sabbiose di questo orizzonte geologico si prestano assai bene alla coltivazione della vite, ma in molte regioni a questa coltura si oppone la instabilità del suolo, fatto a cui già accennammo nel capitolo sull’orografìa. Oltre che la vite anche altre sorta di coltura allignano assai bene sulle marne starvi- piane là dove esse, costituiscono regioni a dolce pendìo. ' Aquit&niano. — Questa formazione, là dove l’orografia od il clima non è contrario, si mostra piuttosto atta alla 'viticoltura; ne sono chiari esempi le estesissime regioni aquitaniane delle Langhe e dell’alto e bassa Monferrato, che contribuiscono per notevole parte alla produzione viti- cola del Piemonte. Molte regioni pianeggianti ed a dolce pendìo, il cui substratum è costituito di terreno aquitaniano , sono molto utilmente coltivate a campi o, più di rado, a prati, a quest’ultima coltura opponendosi la relativa aridità del terreno. Langhiano. — Nella parte meridionale del bacino terziario piemon- tese la estesa zona marnosa langliiana , per la natura sua propria e per le morbide colline a cui dà origine, presentasi favorevolissima allo sviluppo ed alla prosperità della vite ; i pendìi poco rapidi delle collino langliiane e loro relativa regolarità orografica fanno sì che questa zona, terziaria può essere utilizzata quasi completamente per l’agricoltura, ed è quindi preziosissima sotto questo punto di vista. Certi depositi marnosi del Langhiano possono essere utilizzati in certe regioni speciali per correggere zone vicine troppo sabbiose. Ma nelle colline tortonesi, casalesi e torinesi le marne langhiane , per la potente compressione subita e per una certa ricchezza in cal- care, sono ora così compatte che non si prestano in generale molto facilmente al dissodamento, e quindi alla coltura ; di più esse, per la loro durezza relativa costituiscono sovente le parti alte e scoscese delle colline, per cui sovente vegg unsi tuttora ricoperte di vegetazione arborea* Elveziano. — Quantunque di costituzione alquanto simile a quella àe\Y A quìt anicino, la formazione elveziana si presenta molto più atta alla viticoltura, sia perchè coi banchi sabbiosi alternansi più comune- mente estese zone marnose o marnoso-sabbiose, sia perchè le colline elveziane sono generalmente meno elevate di quelle aquitaniane e, nel Piemonte, trovansi in un clima quasi sempre più dolce. È perciò che la grande zona elveziana delle Langhe costituisce, con quella asiiana, la più importante regione viticola del Piemonte; zona importante non solo per la quantità ma anche sovente per la qualità del vino che produce, come, ad esempio, il Barolo, il Nebiolo, ecc. Nelle colline torinesi esistono estese regioni elveziane che, per la loro elevazione e per i ciottoloni che vi si trovano sparsi, sono coperte quasi solo da vegetazione cespugliosa. Naturalmente è pure assai estesa la coltivazione pratense e del frumento là dove le regioni elveziane si presentano a dolce pendìo o pianeggianti. Tortoniano. — La sua natura eminentemente marnosa, talora anzi alquanto argillosa, e quindi la conformazione a colline basse e roton- deggianti, rendono questo orizzonte geologico stupendamente adatto alla coltivazione della vite, più ancora che l’orizzonte langhiano , il quale generalmente si trova in regioni più elevate e di clima meno dolce che non il Tortoniano. Si comprende quindi come la formazione tortoniana segni attra- verso al Piemonte una zona, se non molto ampia, certo fra le più fertili dal lato viticolo. La prevalenza del materiale marnoso dà ai vini una costituzione chimica e quindi un aroma alquanto diverso da quelli che, in condizioni esterne identiche, produconsi nelle zone sabbiose dello Elveziano. Chiunque percorra un po’ attentamente la regione piemontese ri- mane colpito da queste colline rotondeggianti, a forma di cupole rego- lari, ricoperte da un infinito numero di filari di viti, disposti in ordine concentrico regolarissimo. La morbidezza dei pendìi e le ampie vallate che esistono nella zona tortoniana rendono detta zona pure favorevolissima alla coltura dei cereali, nonché alla costituzione di belle praterie. Messiniano. — Per la presenza di banchi duri arenacei e calcarei — 104 — spesso le colline messinìane presentano irregolarità orografiche che ostacolano la coltivazione; inoltre certi elementi ghiaioso-conglome- ratici, che entrano spesso nella costituzione di questa zona, la rendono poco atta ad una coltura regolare, per cui non di rado le regioni messinìane si presentano coperte per ampi tratti soltanto di vegetazione arbustacea. Però la grande abbondanza di marne che s’alternano coi conglo- merati rende sovente assai fertile la zona messiniana per una gran parte del Piemonte, specialmente sul lato settentrionale della conca piemontese. Vedremo più avanti come l’abbondanza di lenti gessose nella for- mazione messiniana debba essere considerata come importante, indiret- tamente, anche dal lato agricolo, poiché il gesso può essere utilizzato quale efficace correttivo per certi terreni. Piacenziano. — Questa formazione deve essere considerata nella serie terziaria come una delle più acquifere e quindi delle più atte alla coltura pratense, tanto più che le marne argillose del Piaeeìiziano costituiscono o colline basse ed a pendìo morbidissimo oppure, più co- munemente, fondi di vallata, per cui tutto concorre alla costituzione di vaste e belle praterie, nonché di zone coltivabili anche a frumento ; di più le colline -piaeenziane si prestano pure alla coltura viticola quando l’elemento argilloso non è troppo abbondante. Astiano. — La natura sabbiosa di questa formazione geologica ed il costituire essa colline non molto elevate e situate per lo più nelle regioni più calde del Piemonte, sono condizioni tali che la rendono molto atta alla viticoltura, che infatti vi si sviluppa amplissimamente e con grande profitto. Famosa sotto questo punto di vista è l’Astigiano in generale e di- verse regioni astiane situate alle falde alpine, come ad esempio nel Biellese, Valdengo, Quaregna, Lessona, ecc. Però sul lato settentrionale, delle colline astiane , come d’altronde in generale anche delle altre colline terziarie sinora menzionate, tro- vasi specialmente sviluppata la vegetazione arborea od arbustacea. Sopra i piccoli pianori astiani si coltivano i cereali pure con profittoi. Fossaniano. — In causa della comparsa di letti ghiaiosi, di banchi argillosi e di una relativa abbonlanza di sali minerali la formazione fos- — 105 — saniana è assai meno atta che non quella astiano, alla coltivazione della vite; quindi sovente essa è ricoperta da boschi o da vegetazione ce- spugliosa, per quanto non vi manchino neppure le solite colture a fru- mento e specialmente a vite ; anzi è prevedibile che col tempo si mi- glioreranno assai dal lato agricolo le ampie regioni fossaniane che si estendono dai colli braidesi verso Nord, per modo che esse divente- ranno pure assai più coltivate e abitate che non lo siano ora; ad esem- pio il gruppo di cascine di S. Lorenzo è destinato forse a cangiarsi in paesello. Villafranchiano. — In questa formazione accentuandosi ancor più fortemente l’abbondanza di banchi argillosi e di banchi ghiaiosi, la col- tura della vite vi è naturalmente ancor meno adatta, quantunque le colline villafranchiane vengano in gran parte utilizzate per tale colti- vazione. Molto ricche sono invece le praterie che esistono sulle regioni villafranchiane a causa della grande umidità che esse presentano per i loro banchi argillosi. Sugli altipiani villafranchiani prosperano abba- stanza bene i cereali. Sahariano. — - Le formazioni sahariane , per costituire amplissime regioni pianeggianti, pare che dovrebbero presentarsi attissime alla coltura dei cereali ed a trasformarsi in vaste praterie ; in realtà però si vede, al contrario, che queste regioni sono piuttosto aride, coperte di vegetazione cespugliosa o boschiva, difficilmente riducibili ad una coltivazione razionale produttiva. Ciò dipende .da due cause princi- pali; anzitutto che le formazioni sahariane sono ora in generale ri- dotte, per erosione, a costituire altipiani molto difficilmente irrigabili e quindi piuttosto aridi ; inoltre spesso i materiali che le costituiscono sono o elementi ciottolosi sovente argillifìcati oppure argille molto ric- che in sali minerali per cui ne sisultano terreni compatti, poco permea- bili, e con elementi chimici in parte contrari a molti dei vegetali più comunemente coltivati; ne siano esempi le vaude del cono di deiezione di Lanzo, le barraggie del biellese, le brughiere , le groane della Lom- bardia, ecc. Talora poi l’ infertilità di queste pianure diluviali è accresciuta dalla presenza di lenti d’ossidi di ferro e di manganese, commisti a terra argillosa impura, lenti che trovansi quasi alla superficie del ter- — 106 — reno ; volgarmente queste speciali formazioni appellansi murs , gherlounr ecc., e vengono a ragione paventate dall’agricoltore. Lungo i pendii delle terrazze diluviali si coltiva abbastanza util- mente la vite. Il loess sahariano, che copre spesso le falde collinose è special* mente favorevole alla coltura dei cereali. Le colline moreniche si prestano spesso assai bene alla viticoltura ed alla frutticoltura ; talora però per l’abbondanza degli elementi roc- ciosi che entrano a far parte del terreno morenico esso si presenta tuttora coperto di vegetazione cespugliosa. I depositi glaciali hanno poi, dal lato agricolo, un’importanza capi- tale entro le regioni alpine poiché quivi essi costituiscono sui terreni rocciosi placche di terreno fertile ed adatto ad un gran numero di col- ture, anche della vite là dove il clima lo permette. Terra-zziano. — Questa formazione per costituire amplissime re- gioni pianeggianti, per il velo di loess che quasi ovunque la ricopre e per la sua relativa umidità, si presta mirabilmente alla coltivazione dei cereali ed alla coltura pratense, per modo che tale formazione fra tutti i terreni sin qui menzionati, è certamente il migliore dal lato agri- colo; fortunatamente esso è anche il più esteso, poiché non costituisca solo la superfìcie dell’ampia pianura padana ed alessandrina, ma penetra entro tutte le regioni collinose e montuose formando sia il fondo delle valli, sia talora anche regioni pianeggianti o poco inclinate lungo i fianchi delle colline. Solo le alluvioni attuali, per non essere generalmente coperte da un velo terroso e per essere ancora poco decomposte superficialmente, in modo che presentano uno scarsissimo velo di humus , sono per lo più pochissimo fertili. Capitolo IV. Industria, Igiene, eco. Quasi tutti i terreni terziari presentano, in scala più o meno vasta, materiali utili aH’uomo, sia per costruzione, sia per ornamento, sia per combustione, sia come medicina, ecc.; inoltre la costituzione di ciascun orizzonte geologico è interessante molto a conoscersi per diversi lavori di ingegneria; di più anche dal lato igienico è sovente importantissima la conoscenza del sottosuolo di una data regione, in causa dei veli acquei, della varia natura del terreno, ecc. E perciò che credo opportuno esa- minare in un capitolo a parte queste applicazioni della geologia all’uomo. Liguriano. — Nelle Alpi marittime i banchi arenaceo- calcarei nummulitiferi del Parisiano sono talora utilizzati come materiale da costruzione; gli esempi migliori di ciò si osservano lungo la riviera ligure presso la Palarea. Quanto al Liguriano vero delle regioni montuose sono specialmente da menzionarsi gli argilloschisti o ardesie utilizzate in diversi punti onde estrarne lastre per coperture di tetti, lavagne per uso scolastico, ecc. Riguardo alle lenti ofiolitiche, talora sviluppatissime, dobbiamo accennare come esse siano importanti sia perchè talora offrono un materiale eccellente per pietrisco e per costruzione, sia perchè talora, quando la roccia serpentinosa si presenta fratturata e rilegata da calcare, essa costituisce un’oficalce che colla pulitura forma una bellissima pietra ornamentale, sia infine perchè non di rado esistono in questa formazione filoni minerali, specialmente di pirite, calcopirite, magne- tite, ecc. Come materiale da costruzione vengono pure usate le arenarie {macigno) ed i calcari impuri che compaiono, spesso già frantumati, nelle zone liguriane. Importantissimi sono poi i calcari più o meno argillosi {calcari alberesi , marmorino a grana fina, bastardella a grana grossolana, ecc.) che accompagnano quasi sempre le formazioni liguriane nelle colline tortonesi, casalesi e torinesi ; infatti tali calcari vengono escavati quasi ovunque su vasta scala, poiché se ne ricava un’ eccellente ma- teriale per calce idraulica e per cementi idraulici; famosa è ad esempio la calce di Casale, poiché nelle vicinanze di questa città esiste appunto una vastissima area d’affioramento liguriano. Certe speciali lenti di calcare breccioso, come ad esempio quelle che osservansi in punti limitati presso Lauriano, danno invece una calce dolce di qualità non molto pregiata. Dal lato dell’ingegneria si deve pure tenere molto conto della forma- zione liguriana , quando si vogliano fare costruzioni sia sotterranee, sia — 108 — superficiali. Nel primo caso è sempre a ricordarsi come gli argilloschisti e le argille scagliose sono di grande ostacolo alla costruzione e manu- tenzione dei tunnel , delle trincee, ecc., perchè facilmente si alterano, si imbevono d’acqua, cangiandosi in fanghiglia colante e presentano quindi pochissima resistenza alle potenti pressioni laterali, pressioni talora disuguali nei diversi punti, per quelle irregolarità stratigrafiche e lito- logiche che per lo più esistono nel Flr/sch ; ne consegue che i rivesti- menti delle gallerie fatte entro questi terreni debbono essere robustis- simi, e che ad ogni modo non sempre possono resistere alle enormi ed irregolari spinte che debbono sopportare. Di ciò sono sgraziatamente tristissimo esempio le gallerie ferroviarie dei Giovi. Anche nelle costruzioni stradali sovente la formazione liguriana presenta gravi difficoltà là dove predominano le argille scagliose, insta- bili, screpolabili, facilmente tramutabili in poltiglia e che quindi costi- tuiscono strade pessime per quanto si cerchi di correggerle con potenti depositi di pietrisco ; ne sono esempi, per citare un caso, quelle delle colline liguriane tra Casale e Val Stura. Per le stesse ragioni anche gli edifìcii fondati sulle argille sca- gliose liguriane spesso hanno a soffrire grandemente essendo soggetti facilmente a screpolarsi ed a spostarsi alquanto pei movimenti del ter- reno sottostante; è perciò che soventi vediamo tali costruzioni presen- tare numerose fenditure o pendere leggermente da un lato, tanto che non di rado esse debbono essere abbandonate perchè divenute troppo pericolose come avvenne recentemente per esempio presso Monteu da Po. Le sorgenti acquee che sgorgono dalla formazione liguriana talora sono alquanto mineralizzate ; ne sia esempio la fontana sulfurea di Voltaggio usata su larga scala come medicinale sia per bevanda, sia per bagni, quantunque a mio parere tale cura, tanto qui come altrove in generale, sia specialmente efficace perchè coadiuvata dal clima, dal- l’ambiente e dal modo di vivere un pò meno antigienico di quello che si ha nelle città. Talora colle formazioni liguriane sono in stretta relazione locali sorgenti di petrolio, come verificasi nel Vogherese, nel Piacentino, nel Parmigiano, ecc. Bartoniano. — Nelle colline Torino - Casale è molto importante la formazione bartoniana come quella che fornisce sia un buon calcare da — 109 — calce (calce dolce), sia specialmente un calcare da costruzione ed orna- mentazione abbastanza pregevole ; ben noto a questo riguardo è il cosi- detto calcare di Gassino, che venne usato per la facciata della Basilica di Superga, per le colonne delTOniversità, dei portici di Piazza S. Carlo, del Palazzo di città, ecc., in Torino; però ora l’uso di questo calcare venne alquanto tralasciato, perchè esso non resiste molto agli agenti atmosferici ma si sfalda facilmente alla superfìcie, la quale di- venta quindi presto irregolare. Calcari simili osservatisi nel Bartoniano subalpino lombardo. Le marne friabili della zona bartonìana si prestano poco alla via- bilità appunto per essere piuttosto soggette a franare, alterando l’oro- grafia della regione e dando poca presa ad opere d’arte. Si comprende quindi come scarseggino gli edilizi sulle colline bartoniane che non offrono sufficiente sicurezza. Rarissime incontransi le sorgenti sulfuree nella zona bartonìana , così presso Verrua Savoia. Sestiano. — È scio a notarsi come fra le sabbie marnose di questa formazione si incontrano talora sottili lenti di lignite compattissima ma in quantità assolutamente troppo scarsa per meritare un lavoro di estrazione; spesso le sabbie inglobanti tali lenti lignitiche si presen- tano giallastre per depositi sulfurei, così presso Cocconato. Tongriano. — Molti ed assai svariati sono i materiali che l’uomo può trarre dalla formazione iongriana. Dove i conglomenti si presentano fortemente cementati essi vengono escavati in monoliti per materiale da costruzione, per dighe, per pietre da macina, ecc,, come, per esempio, a Pietrabissara in Val Scrivia, a Millesimo, ecc.; dove invece gli ele- menti ciottolosi sono incoerenti o quasi, essi vengono utilizzati come materiale da costruzione, come pietrisco, ecc. Anche le sabbie e le arenarie tongriane , specialmente nei colli Torino-Valenza, vengono comunemente usate come materiale incoerente da costruzione, tanto che in certe regioni le aree tongriane sono segnalate complessivamente dall’abbondanza di cave di sabbia. Fra le regioni in cui i banchi arenacei del Tongriano superiore sono largamente escavati, notiamo come più famose le vicinanze di Dego in Val Bormida, a causa della posizione facile per il trasporto; lo stesso verificasi pel Tongriano subalpino lombardo. Alcuni banchi di compattissima e fine arenaria tongriana trovansi — 110 pure in alcuni punti delle colline Torino-Valenza, specialmente nell/anti- clinale Villadeatj-Alfìano dove essi sono escavati per pietrisco e per materiale da costruzione. Certi schisò arenacei biancastri vengono pure utilizzati come lastre per materiale da costruzione, ad esempio nella conca tongriana di Bagnasco, ma detto materiale si sfalda facilmente quando è esposto agli agenti esterni e quindi non ne è consigliabile l’escavazione. In certe regioni si usa fare il lavaggio delle ghiaie tongriane per ricerche aurifere, ma senza grande profitto. In punti speciali molto limitati della zona tongriana appenninica, presso C. Biscaelli (Voltaggio), ecc., esistono banchi o lenti di breccie calcaree, derivate dalla demolizione, a poca distanza, di zone di cal- care triasico ora scomparso; tali lenti vengono utilizzate qua e là per materiale da calce. Ma le formazioni più interessanti nella zona tongriana sono le frequenti lenti di lignite nera, compatta, assai buona per combustione, poiché in generale dà oltre 4000 calorie e contiene meno del 9[00 di ceneri ; ne offrono esempio le famose regioni lignitifere di Nuceto, di Bagnasco, di Cadibona, di Roccaforte e quelle assai meno ricche, di Scagnello, di Mombasiglio, di Ponzone, di Pareto, di Morbello, dei colli tortonesi e casalesi, ecc. È anzi notevole che nelle colline Torino-Valenza (Oddalengo, Al- fiano, ecc.), la comparsa di lenti lignitiche serve spesso come carattere secondario per riconoscere certi affioramenti tongriani frammezzo a terreni più recenti. Colle ligniti spesso incontransi cristallini di pirite e traccie sulfuree di poca importanza. Straordinariamente numerose sono poi le sorgenti minerali nella zona tongriana ; specialmente comuni sono quelle sulfuree, tanto che anch’esse sovente servono come carattere accessorio nella determina- zione del terreno tongrianoì là dove scarseggiano i fossili, come ad esempio nelle colline tortonesi e di Torino-Valenza; sonvi anche sor- genti salso-iodiche, così quelle di S. Lorenzo presso Vignale. Queste sor- genti minerali sono spesso utilizzate come medicinali ciò che si verifica specialmente nelle colline casalesi. Stampiamo. — Questo orizzonte non fornisce molti materiali utili — ili — all’uomo'; talora gli stratelli arenacei, che alternansi colle marne, ven- gono usati localmente come materiale da costruzione; vi si trovano ra- rissimamente (alla base nel passaggio al Tongrianó) lenti calcaree, da cui si ricava calce dolce, come ad esempio presso Marzapiede; la poca consistenza di questo terreno forma sovente gravi difficoltà all’in- gegneria stradale ed anche alla costruzione degli edilizi. Aquitaniano. — Come la formazione tongriana, anche quella aqui- taniana fornisce sovente sabbie, ghiaie e ciottoli, utilizzati sia per costruzione, sia per pietrisco; ciò specialmente si verifica nella parte meridionale del bacino piemontese, poiché nelle colline casalesi predo- minano le marne nella zona aquitaniana. Nelle colline tortonesi e casalesi, essendo la formazione aquitaniana n gran parte marnosa, in alcuni punti essa viene utilizzata per otte- nerne materiali da laterizi, così ad esempio, sotto Camino sulla destra del Po. Sono interessanti certi regolari banchi arenacei dell* Aquitaniano in- feriore perchè costituiscono un'eccellente pietra da costruzione; ne esi- stono diverse cave, per esempio, presso Arquata Scrivia, presso Cor- temiglia, ecc. In certe regioni i banchi basali deli 'Aquitaniano si presentano co- stituiti essenzialmente di calcare utilizzato come pietra da calce; ne è esempio il calcare di Ponzone, di Visone, ecc. Oltre che alla base, in- contransi pure lenti calcaree ad altri livelli della serie aquitaniana , come ne è esempio la bellissima formazione calcarea che esiste presso Acqui, sulla destra della Bormida. Riguardo al calcare è ancora a notarsi come nelle colline torinesi la zona aquitaniana fornisca anche un’eccellente calce idraulica, in causa della grande quantità di ciottoli e ciottoloni di calcare alberése che trovansi frammisti agli altri elementi rocciosi nei conglomerati aqui - taniani ; ha precisamente tale origine il così detto calcare di Superga. Certi durissimi banchi arenacei del V Aquitaniano nella parte meri- dionale del bacino terziario piemontese sono utilizzati come fondo na- turale delle strade di collina per tratti assai lunghi, ciò che produce un effetto assai strano, specialmente per le screpolature dei banchi arenacei, dando alla strada l’aspetto di una via romana a lastroni; ve ne sono bellissimi esempi specialmente presso Garbagna. — 112 Non sono rare le sorgenti minerali, quasi sempre solfuree, come quella presso Ponti in Val Bormida. Presso Visone e presso Acqui sgorgano dal terreno aquitaniano diverse sorgenti solfureo-termali nella valle della Bormida; queste, famose sorgenti credo però tro vinsi solo in rapporto secondario colle formazioni aquitaniane ; ed invece in rapporto assai più interessante coi terreni preterziari sottostanti; sonvi pure sorgenti solfuree in Val Ravanasco, ecc. Le sorgenti solfuree di S. Genesio, nei colli torinesi, sgorgano dal V Aquitaniano, ma forse sono in rapporto diretto con terreni più antichi. Langhiano. — Quantunque in generale scarseggino i materiali arenacei nella zona langhiana tuttavia la compattezza delle marne calcaree è tale, specialmente nelle colline Torino-Casale, che esse ven- gono in molti casi utilizzate come pietrisco e come materiale da co- struzione. Piuttosto rare sono le sorgenti solfuree in questo terreno. È bensì nella zona langhiana che viene a giorno la famosa sor- gente solforosa termale (la bollente ), nonché altre vicine di Acqui, ma credo che questo fenomeno sia legato con fenomeni tettonici riguar- danti terreni preterziari e che la venuta a giorno di tali acque calde nel Langhiano non sia che un fatto accessorio di poca importanza. Elveziano. — In causa della sua natura prevalentemente grossolana questo orizzonte è ampiamente utilizzato per escavarne materiale da costruzione, sia sabbie, sia arenarie, sia ciottoli; quest’ultimo caso però si verifica solo nei colli torinesi e monregalesi. Per regioni molto estese, specialmente nel tortonese e nel casalese, le marne più o meno arenacee dell’ Elveziano sono cosiffattamente ricche in materiale calcareo cementante che esse vengono escavate su vasta scala in parallelepipedi (cantoni) che costituiscono un solido ed elegan- tissimo materiale da costruzione; l’escavazione ne è abbastanza facile in causa dell’acqua di cava che si elimina poi gradatamente a contatto dell’aria atmosferica, per modo che il materiale diventa poco a poco compatto e durissimo. Però, a seconda delle varie regioni e dei vari livelli della serie elvezianaì queste marne calcaree presentano varia resistenza agli agenti atmosferici, poiché talune si conservano a lungo compatte, altre si sfaldano facilmente alla superfìcie, per modo che — 113 — col tempo si sfacelano, con grave danno dell’edifizio che ne è costituito; siccome fra questi agenti demolitori ha una grande importanza l’acqua del terreno, così, sovente si usa di fabbricare la base degli edilìzi con laterizi (che agiscono in parte come isolanti contro l’umidità del suolo) mentre il resto dell’ edifizio vien costituito di cantoni . Esistono intieri paesi, ad esempio Vignale, le cui case sono formate in massima parte di questo materiale, ciò che dà agli edifizi un’archi- tettura severa e caratteristica. Talora il materiale calcareo è talmente abbondante ed a grana fina che fornisce anche lastre di marmo abbastanza pregevole come si osserva nella zona elveziana di Rosignano. Qua e là l’abbondanza del calcare fra le marne elveziane fa sì che esse possonsi utilizzare come materiale da calce, generalmente però di qualità poco pregiata. Nelle colline monregalesi si incontrano, nella parte inferiore della formazione elveziana , banchi marnosi, argillosi, grigio-biancastri che forniscono un materiale assai buono per fabbricazione di maiolica; ciò osservasi ad esempio nel rio Groglio, poco a Nord del Santuario di Vicoforte, ecc. Queste argille figuline biancastre, untuose al tatto perchè assai magnesiache, trovansi in lenti frammezzo a marne sabbiose grigio- azzurrognole con traccie sulfuree (per decomposizione di solfuri di ferro che talora veggonsi ancora allo stato di piccoli cristallini). In alcune regioni, specialmente presso le Alpi, non sono neppur rare le lenti lignitiche frammezzo ai depositi elveziani, ma trattasi quasi sempre di lenti sottili, di poca importanza ed assolutamente im- meritevoli di escavazione; ne troviamo gli esemplari migliori presso il Santuario di Mondovì e S. Michele Mondovì, ma d’altronde se ne incontrano frequentissimamente anche altrove, nelle Langhe, nelle col- line torinesi, ecc. Fra le sabbie e le marne dell ' Elveziano, specialmente dell’ Elve- ziano inferiore, trovansi talora lenticelle solfuree, come in diversi punti dei colli monregalesi, ma esse non possono assolutamente porgere campo ad una escavazione speciale. Fra le sorgenti acquee che sgorgano dalle arenarie elveziane son- vene parecchie mineralizzate, specialmente sulfuree o solfureo- ferru- ginose, come presso Cassinasco in Val Moja sotto C. Albezzano, presso 8 — 114 — Marmorito, presso Castelletto d’Orba, presso Serravalle Sesia, presso Treville di Casale, presso Murisengo (Piemonte), presso il Santuario di Mondovì, ecc., ecc.; in quest’ultima regione però sonvi eziandio polle ferruginose e magnesiache, ciò che d’oltronde si incontra non rara- mente anche altrove. Tali mineralizzazioni sono dovute al fatto che queste acque attraversano marne argilloso-talcose o piritose. Le acque magnesiache del Santuario di Mondovì gemono dalle marne talcose e sono raccolte in un pozzo artificiale. In alcune colline elveziane si usa di fare piccole escavazioni entro i banchi sabbioso-arenacei, ottenendone vasche d’acqua, grotte ad uso di cantina, ecc. In certe regioni poi, là dove fra le sabbie elveziane trovansi grossi accentramenti arenacei vuoti all’ interno, questi sono ta- lora utilizzati come grossolani recipienti ad uso rurale. Tortoniano. — Le marne di questo orizzonte geologico spesso pos- sono venire utilizzate per fabbrica di laterizi, tanto più se già alquanto alterate superficialmente dagli agenti atmosferici. Nel passaggio tra questa zona e quella messiniana si incontrano talora, come presso S. Agata Fossili, alcune lenti calcaree da cui si trae una mediocre calce dolce. Fra le sorgenti che sgorgono dalla formazione tortoniana è note- vole che molte sono salate, come verificasi presso Vignale, presso Agliano in Val di Nizza, presso Barbaresco d’Alba, presso C. Salerà di Castagnole-Lanze, presso Castelnuovo d’Asti, ecc. Queste acque saline possono essere utilizzate per l’estrazione del sale, oppure per cure te- rapeutiche. Alcune sorgenti minerali del Tortoniano sono anche solfuree, così quella famosa solfurea (forse però già in rapporto col terreno messi- niano) di Castelnuovo d’Asti, situata poco a valle della sorgente salina so- vraccennata; altre sorgenti sono solfureo-iodurate, come quelle di Agliano. Per la loro natura marnosa le formazioni tortoniane talora si pre- sentano franose, smottabili, ecc.; quindi è sempre preferibile, quando si può, di evitare di costruirvi grandi opere d’arte, gallerie, ecc.; triste esempio in proposito ne sono le gallerie ferroviarie tra Neive ed Alba continuamente in riparazione. Sovente anche le strade che per- corrono le regioni tortoniane divengono facilmente fangose, infossate, e sono di difficile manutenzione. — 115 — Messiniano. — Fra i terreni terziari questo è certamente uno dei più ricchi in materiali industriali, specialmente per la presenza dei de- positi gessosi. Non è il caso qui di fermarci sopra questa speciale formazione geologica che abbiamo già esaminato minutamente nella parte geologica del lavoro; le lenti gessifere trovansi per lo più verso la base della serie messiniana , quantunque se ne incontrino anche più in alto. Il gesso si presenta o in grossi cristalli costituenti veri banchi, oppure in piccoli cristallini frammischiati abbondantissimamente alla marna; talora poi tali cristalli trovansi solo sparsi irregolarmente ed in piccola quantità. La cottura e la triturazione del gesso, per portarlo allo stato pol- verulento quale mettesi in commercio, si compiono quasi sempre in modo abbastanza primitivo nelle immediate vicinanze delle cave di estrazione. L’escavazione del gesso esiste in quasi tutte le regioni messi- niane del Piemonte; questo materiale si usa quasi solo per costruzione ed imbiancamento; ma. si potrebbe pure utilizzare efficacemente a correggere chimicamente certi terreni per alcune speciali colture. Assieme alle lenti gessifere, specialmente in quelle più estese e potenti, si trovano pure sottilissime lenticelle sulfuree, per lo più diret- tamente frammischiate ai cristalli di gesso; così, per esempio, nelle colline della Morra, di Alice Belcolle, di Castellania, ecc.; ma, ad ogni modo, la quantità di zolfo è sempre così scarsa che non credo affatto consigliabile la sua estrazione. Ben sovente, in modo speciale nella parte meridionale del bacino piemontese, compaiono nel Messiniano vere zone nerastre, carboniose, bituminose; neppure queste credo siano utilizzabili. Invece degne di nota sono le formazioni calcaree che spesso ap- paiono nella zona messiniana sotto forma di lenti od anche di banchi abbastanza estesi; di questo materiale si ebbe già a trattare, con molti particolari, nel corso del lavoro, quindi non è il caso di ritor- narci sopra; si tratta per lo più di un calcare grunuloso, leggiero, im- puro, che viene utilizzato per estrarne calce di qualità però non molto buona. Rare e poco importanti sono le lenticelle lignitiche che qua e là incontransi fra i banchi messiniani. — 116 — Siccome nella serie messiniana esistono spesso banchi di mate- riali grossolani, sabbie, arenarie più o meno compatte e calcaree, ciottoli sparsi, conglomerati, ecc., così sovente vediamo che in questa zona terziaria sonvi cave per diversi materiali da costruzione, per pietrisco, per pietre da macina (come alla Morra), ecc. Talvolta le zone- marnoso-argillose sono anche utilizzate per fabbrica di laterizi. In causa della speciale natura del terreno sovente si osserva che nella zona messiniana le strade si presentano incassate ed a fondo compatto; spesso poi nei banchi arenacei e sabbiosi del Messiniana l’uomo si è scavato piccole grotte per vari usi, sovente solo per rac- cogliere acqua. Frequentissimamente le sorgenti acquee che sgorgono nella zona messiniana si presentano mineralizzate, ciò che si comprende facil- mente da quanto si è detto precedentemente ; per lo più si tratta di sorgenti solfuree od anche di gusto amarognolo per avere attraversato depositi inglobanti solfato di magnesio, di sodio, ecc.; quasi sempre tali acque vengono usate come medicinali. Ma quando invece le acque hanno attra- versato depositi gessosi esse vengono a giorno molto cariche di solfato di calce, cioè molto gessate; in tal caso esse sono dannose alla salute e devono quindi essere proscritte. Fiacenziano. — Le marne argillose di questo orizzonte geologico vengono utilizzate in diversi punti del Piemonte come materiale per laterizi o per maiolica grossolana, tanto più che in certe regioni pia - Genziane la ricchezza in argilla è tale che se ne può ottenere un'ar- gilla figulina abbastanza buona. Le marne piaeenziane possono anche venir utilizzate, dal lato agri- colo, come correttivo per certi terreni. In alcune regioni piaeenziane trovansi traccie di olio minerale, così presso Cherasco ; ma finora non ne venne mai trovato in quan- tità sufficiente da meritarne l’estrazione. Siccome questo terreno, per quanto in generale sia costituito di materiale assai fine, presenta, in alcune speciali regioni, zone arenaceo- calcaree, come a Verrua Savoia ed in parecchi punti dell’Astigiano settentrionale, o zone marnoso-calcaree, come in alcuni punti dei colli casalesi, cosi anche dalla zona piaeenziana si estraggono qua e là materiali grossolani da costruzione, rarissimamente da calce, e persino — 117 — quei cantoni che accennammo estrarsi tanto comunemente dall ’ Elveziano; ma i cantoni piacenziani che, ad esempio, vediamo usati in qualche regione presso Occimiano, resistono molto meno agli agenti atmosferici che non quelli elveziani per cui la loro escavatone è limitatissima. Dal lato igienico bisogna tener conto speciale del velo acqueo che quasi sempre scorre regolare e costante sulla zona piacenziana ; ciò è importantissimo per 1* ubicazione dei fabbricati, dei cimiteri, per i p ozzi, ecc. Fra le molte sorgenti che incontransi nella zona piacenziana al- cune sono solfuree, ad esempio quella presso Montafia, presso Chieri (S. Baiermo), ecc. Rispetto a lavori d’ingegneria bisogna sempre fare attenzione alla natura speciale del terreno piacenziano, piuttosto argilloso, acquifero, trasformabile facilmente in fanghiglia scorrevole ; è quindi consigliabile di evitare il più che possibile di costrurre strade, canali, fabbricati, ecc., lungo pendìi piacenziani^ e di attraversare questi terreni con gallerie; tristissimi esempi in proposito si potrebbero citare di regioni piemon- tesi presso Mondovì, presso Bra, ecc. Soventissimo nei terreni piacenziani incontransi lenti lignitiche, ma in generale esse sono così strette e sottili che non meritano affatto un lavoro di escavazione, tanto più poi che tale lignite non è molto -compatta, nè ricca di potere calorifero. Astiano. — Le sabbie astiane sono largamente usate come mate- riale da costruzione, lo stesso dicasi di quelle lenti arenacee che si .formarono là dove abbonda l’elemento calcareo cementante; talora anzi il calcare organico diventa così abbondante che costituisce quasi da solo ampie lenti utilizzate per costruzione, per pietrisco ed anche per ottenerne calce dolce, come ad esempio, si verifica presso S. Bar- tolomeo d’ Alessandria. Le colline astiane , per la loro grande permeabilità, sono piuttosto -salubri; i loro centri d’abitazione trovansi quindi per lo più lontani -dai veli acquei, che sono sovente il veicolo di malattie infettive. Nei lavori d’ingegneria è opportuno tener conto della poca stabilità che presentano spesso le sabbie astiane. Per lo più le strade nella zona astiana sono alquanto incassate sull’alto della collina ed invece talora rilevate e molto sabbiose al fondo delle valli per modo da rendere talvolta assai faticoso il percorrerle; ne siano esempio Val Casetta, Val Piana, ecc., presso Ferrere d’Asti. È comune in tutto l’Astigiano l’uso di escavare grotte più o meno profonde entro i banchi sabbioso-marnosi, specialmente per uso di can- tina, per ripararvi oggetti rurali, ecc. Fra i terreni astiarli di certe regioni incontrasi solfato di magnesia o epsomite disseminata, così presso Canale ( sai canale ), presso Ci- sterna d’Asti, ecc., però quasi sempre esso trovasi solo allo stato di efflorescenza non solo nolV Astiano ma anche nelle marne piacenziane. Fossaniano. — Oltre a materiali sabbiosi questa formazione geo- logica fornisce pure sovente materiali ghiaiosi e ciottolosi più o meno grossolani, che servono per costruzione e per pietrisco. In alcune poche località, dove la formazione fossaniana fa passag- gio a quella villafr aneli iana , compaiono già lenticelle lignitiche, come, ad esempio presso Castellamonte. E notevole come in certe regioni, specialmente subalpine, nella serie fossaniana trovansi banchi argilloso-sabbiosi che servono per fabbrica sia di laterizi, sia di materiali refrattari di vario genere; ne sono esem- pio le famose regioni di Castellamonte, nonché altre del Canavese, del Biellese, ecc. Villafranchiano. — Questo terreno fornisce materiali da costruzione, come sabbia e ciottoli, di cui alcuni di mole notevolissima; talora questi elementi sono uniti assieme in arenarie e conglomerati cementatissimi (ceppo) utilizzabili anch’essi quale materiale da costruzione, come spe- cialmente osservasi in Lombardia. Fra le argille villafr ancliiane trovai talora traccie di fosfati, come ad esempio presso Fossano, ma sempre soltanto in quantità minima e che non offre quindi speranze di esca- vazioni proficue. Il fatto più interessante che verificasi nella formazione villafr an- chiana è la comparsa, specialmente presso monte, di lenti lignitiche abbastanza notevoli, così presso Mommello, presso Front, lungo il Ticino, ecc., ecc.; però è raramente consigliabile l’intraprendere lavori un po’ costosi per l’estrazione di questo combustibile che non è di qua- lità molto buona nè trovasi in banchi potenti e continui. «% Dal punto di vista dell’ingegneria devesi tenere gran conto della natura argillosa che spesso prevale nella costituzione del Villafran - — 119 diiano lungi dalle Alpi, rendendolo allora un terreno acquifero, fangoso, smottabile, instabile al sommo, per modo che difficilmente vi fanno presa le opere d’arte; ne è esempio, sgraziatamente ben famoso, il tratto di linea ferroviaria Torino-Genova che taglia la formazione villafranchiana tra Villanova e Villafranca d’Asti. Anche le strade nelle regioni vil- lafranehiane sono spesso di difficile manutenzione, fangose, a fondo ir- regolare, ecc. Sahariano. — - Sotto forma di Diluvium questo orizzonte geologico offre abbondantissimi ed usitatissimi materiali da costruzione, come sabbie, ghiaie e ciottoli. Talora questi ciottoli sono cementati in du- rissimi conglomerati, ad esempio nel cono di deiezione della Dora Ri- paria, in quello di Val Maira, di Val Stura di Cuneo in parte, ecc.; in questi casi talora i conglomerati sahariani vengono utilizzati come gros- solani materiali da costruzione, il che però verificasi assai di rado. Nella parte superiore del Diluvium esiste quasi sempre un velo più o meno potente di loess , escavato in tutte le parti del Piemonte quale eccellente materiale per laterizi. Nel loess delle colline si usa sovente di escavare piccole grotte per uso di cantina, per deposito di oggetti rurali, ecc. Le strade che percorrono le regioni ammantate di loess sono per lo più di difficile manutenzione perchè fangose, talora incassate, con fa- cili smottamenti laterali, ecc. Certe lenti arenacee ferrifere o manganesifere ( gherloun ) che osser- vansi talora nella parte superiore del Diluvium. ,, vengono utilizzate in alcune località come colore grossolano, cioè come terra d'ombra. Anche le concentrazioni lentiforme calcareo-arenacee impure, che osservansi talora in lenti alla superficie del Diluvium , e sono note col nome volgare di miirs vengono spesso escavate, oltre che per mi- gliorare il terreno, anche per utilizzarle come materiale da costruzione per fabbricati di campagna, argini di strade, ecc. In certe regioni le sabbie e le ghiaie diluviali sono abbastanza aurifere per meritare ed aver meritato il lavoro di lavaggio, come fecero ad esempio i Romani nella famosa regione della Bessa nel Biellese, riducendola a quella strana configurazione e costituzione che essa ora ci presenta. Riguardo al terreno morenico i materiali più utilmente escavabili — 120 — sono le argille, specialmente per laterizi, ed i ciottoloni erratici; questi infatti, provenendo per lo più dalla parte centrale delle Alpi, sono ge- neralmente costituiti di roccie cristalline che danno un materiale eccel- lente per costruzione ed anche per ornamentazione; da ciò la distru- zione che si va facendo continuamente dei blocchi erratici facienti parte delle morene terminali dei ghiacciai sahariani. Le regioni costituite di Diluvium sahariano sono piuttosto salubri in generale, sia per la loro posizione elevata, sia perchè il velo acqueo 0 assai profondo fornisce un’acqua pura non inquinata da infiltrazioni locali. Terrazziano. — Questa formazione, per quanto generalmente più sottile di quella sahariana , si presenta generalmente assai più atta di quella all’escavazione dei materiali da costruzione e da pietrisco (sabbie, ghiaie e ciottoli), sia per la sua posizione quasi sempre più favorevole a tale scavazione, sia perchè le alluvioni del Terrazziano presentano i loro materiali generalmente assai meno decomposti che non quelle del Sahariano e quindi molto più durevoli. Anche il velo di loess che copre generalmente le alluvioni terraz- zane è utilizzato ovunque su larga scala per fabbrica di laterizi. Riguardo all’epoca di loro formazione appartengono al Terrazziano 1 depositi torbosi che incontransi sovente nelle regioni moreniche, così negli anfiteatri morenici della Dora Riparia, della Dora Baltea, del Lago d’Orta, del Lago Maggiore, ecc. ; anche nei bassipiani si formano talora depositi torbosi ma per lo più molto sottili e poco importanti. A dire il vero anche le conche torbose inframoreniche sono poco estese e di pochi metri di spessore; infatti esse vennero già quasi tutte com- pletamente escavate per modo che fra pochi anni non esisteranno più in Piemonte importanti giacimenti torbosi. Le alluvioni terrazziane ed attuali deposte da certi corsi d’acqua, come il Malone, l’Orco, la Dora Baltea, il Cerro, l’Orba, ecc., sono au- rifere e talora perciò escavate e lavate. Dal laro igienico sovente le regioni terrazziane si presentano meno salubri di quelle sahariane sia per trovarsi per lo più in posizione bassa, sia perchè il velo acqueo che scorre sotto le alluvioni del Ter - razziano è quasi sempre poco profondo ; quindi non è raro che esso venga inquinato dall’esterno per infiltrazioni. Boll del R Coiti. .Ge ol . d' Italia Anno 1890.Tav. HI. (F. Sacco) — 121 — Di questo fatto si deve tener molto conto nell'alimentazione acquea dei centri abitati, nella ubicazione dei cimiteri, ecc. Dalle poche considerazioni generali fatte nelle pagine precedenti risulta chiarissimamente la stretta relazione esistente fra il terreno e l’uomo che vive di esso e su di esso, e quindi l’importanza grande degli studi geologici non solo dal punto di vista scientifico ma anche sotto l’aspetto applicativo. IV. 1 Machairodus (Meganthereon) del Valdarno superiore ; me- moria del Dott. Emilio Eabkini. (Con tre tavole) Il Falconer, nel 1857, segnalando l’importanza dei fossili del Museo granducale, oggi del R. Istituto di Studi superiori in Firenze, mentre ne faceva risaltare l’importanza, si lamentava che nessuno si occu- passe di essi e diceva che, per causa di questa trascuratezza, il progresso dello studio delle faune, esistite nei tempi terziari in Europa, era stato ritardato di un mezzo secolo (H. Falconer, On thè species of Mastodon and Elephant occurring in thè fossil state in Great Britain. Quart. Journ. Geol. Soc. 1857, voi. XIV. Abstract ib., August [1865, p. 292. Nota). Egli intanto dava un nobile esempio, dedicandosi allo studio di quei fossili e pubblicando intorno ad essi degli importanti lavori. Non è nostra intenzione di passare in rassegna tutti gli studi che si fecero dopo la spinta data dal Falconer. Certamente, dal 1857 in quà, molto si è fatto: non ostante il Museo paleontologico di Firenze può tuttora somministrare materiale a studi nuovi e della massima importanza. Tra i mammiferi, uno dei generi più singolari e nello stesso tempo meno conosciuti, di cui il predetto Museo conserva preziosissimi avanzi, è appunto il genere Meganthereon o Maehairodus. Tutti i paleontologi sono stati d’accordo nell’ammettere l’impor- tanza di questi avanzi fossili ; ma nessuno si era fino a qui occupato di essi, tanto che ultimamente (1887) un illustre paleontologo tedesco, E. Ritti, aveva a dire: « Hierzu ist noch zu bemerken, dass die Ma- ckairodus- Reste von Val d’Arno nirgends ausfùrlich besclirieben sind, so dass man also nicht genau weiss welche Machairodus- Formen dort auftreten. Forsyth-Major hat zwar die Fauna des Val d’Arno wiederholt besprochen und in seiner letzten Liste dieser Fauna ausser Machairodus cultridens Cuv., noch Machairodus meganthereon Croiz. et Job, und Machairodus sp. angefuhrt. Genaue Masse oder Abbildungen dieser Reste wàren wohl nòthig, um sie mit den anderen genauer bekannten in Vergleich bringen zu kònnen ( Beitràge zur Kenntniss der fossilen Sàugetliiere von Maraga in Persien : Carnivoren , von E. Ritti. Annalen des Naturhistorischen Hofmuseum, II Band, 1887. Wien, Hòlder, 1887). Fiducioso più della buona volontà, che delle mie forze, mi sono assunto l’arduo compito. Nelle difficoltà, nè poche nè lievi, incontrate in questo studio mi furono dì valido sostegno i professori D’Ancona, Giglioli e segnatamente il prof. C. De-Stefani, dell’ Istituto di Studi superiori e di perfezionamento in Firenze. Ad essi rendo qui pubbliche grazie. Mi corre pure 1’ obbligo di ringraziare qui pubblicamente il Dott. A. Weithofer, il Dott. Forsyth-Major e 1’ Abate Stoppani per i molti pareri datimi nelle questioni controverse. Storia del genere. Ursus Cuvier ( prò parte), 1824. Felis ? Devèze et Bouillet, 1827. Felis Bravard ( prò parte), 1828. Meganthereon Croizet et Jobert, 1828. Machairodus Kaup, 1833. Steneodon Croizet et Jobert (Geoffroy Saint-Hilaire, 1833). Agnotherium Kaup, 1833. Smilodon Lund, 1844. Drepanodon Bronn, 1853-56. Il Cuvier nel 1824 e il Nesti nel 1826 attribuirono alcuni canini cultriformi del Val d’Arno al genere Ursus. Bravard nel 1828 li riferì a felini, essendo venuto a questa conclusione per avere supposto che — 123 — appartenessero allo stesso genere e alla stessa specie di animale, del quale aveva una branca di mandibola che presentava tutti i caratteri dei Felis, forniti dal numero e dalla forma dei molari, così tipici in tutto quel genere. Croizet et Jobert, studiando quella stessa branca di mandibola (destra) vi notarono tali caratteri, come un soverchio prolungamento * verso il basso della porzione mentoniera, un grande diastema o barra, ecc., da rimanere ben distinta da quella di tutte le specie di Felis allora conosciute; quindi proposero un nome generico nuovo. « Si quelques naturalistes pensaient qu’ on cloit le regarder eomme le tgpe d’un gerire nouveau , on pourrait nommer simplement eet animai Meganthe- reon , mot qui deviendrait le nom du genre. » Però essi conservarono nel genere Ursus quei canini appiattiti. Questa decisione, mosso da altre considerazioni, prese nel 1833 il Kaup, che, esaminando un dente canino del Museo di Darmstadt, ne constatò alcuni caratteri, come la forte compressione laterale, lo svi- luppo abnorme della parte smaltata in confronto con la radice, ecc., & ne fece un genere a sè appellandolo Machairodus. Però egli ammise che quel dente appartenesse alla mascella in- feriore sinistra, che fosse cioè rivolto verso l’alto, secondo appunto la disposizione che Kaup gli ha dato nel suo atlante (Tav. 1, fìg. 5). Questa ipotesi errata, che permette al paleontologo tedesco di ravvicinare quel suo genere al Megalosaurus, piuttosto che ai felini come Bravard aveva fatto, dimostra che egli si era formato dell’animale un concetto molto lontano dal vero; d’altra parte, di esemplari (denti) che appartenevano alla stessa specie, egli ne attribuì alcuni (due denti molari) al genere nuovo Agnotherium ed altri a Felis. In seguito Kaup si avvide dell’errore in cui era caduto. Fu soltanto Pomel (1854) che tentò, sebbene l’esempio non giovasse, di rimettere in uso il nome generico di Meganthereon di Croizet e Jobert. Esso dovrebbe preferirsi a tutti gli altri perchè proposto prima e perchè è il più razionale, essendo fondato non sopra un dente isolato e malamente riferito, ma sopra un’intiera branca di mandibola; e non sarebbe certamente una buona ragione per rigettarlo, quella, cui ac- cenna il Goudry, che ormai il nome usato dai più per designare questi animali è quello del Kaup. Nondimeno, mancando dell’autorità neces- — 124 — saria per produrre un rinnovamento nella nomenclatura, seguiterò ad applicare il nome Machaivodus. Tutti gli altri nomi sono più recenti, compreso quello di Drepanodon proposto nel 1826 dal Nesti come specifico e dato poi come nome di genere da Bromi soltanto nel 1853-56 ( Lethaea geognostica ) e accet- tato da Leidy. Il nome di Steneodon è basato soltanto sopra un’affermazione di Geoffroy Saint-Hilaire (Consideration sur des ossements fossilesì la plupart inconnus, trouvés et obseroés dans les bassins de V Auvergne. Revue encyclopedique, voi. LIX, pag. 76, 1883); ma non è corroborata da nessun documento, come già ha fatto osservare E. Ritti (Annalen des K. K. Naturhistorischen Hofmuseum: Carnivoren von Maragha; pag. 322). Quanto ai caratteri anatomici posseduti da questo genere, si può dire che esso è benissimo circoscritto e individualizzato; in maniera che una volta veduto un cranio di uno di questi animali, riesce impos- sibile confonderlo con crani di animali di altri generi. Alcuni di questi caratteri sono così noti che non faremo qui che rammentarli: come la forma singolare del canino superiore, che è una delle più costanti caratteristiche del genere: le due creste antero-laterali della mandi- bola: il diastema variabile in ampiezza, ma pure sempre presente: l’espansione simfisiale inferiore del mento, che è anch’essa molto va- riabile, potendo formare, col margine inferiore della mandibola, alle volte quasi un angolo' di 45° (Lydekker, Palaeontologia Indica. Memoirs of thè Geological Survey^of India, pag. 341-164 e seg. : M. sivalensis ), e come nel Felis meganthereon del Bravard; mentre alle volte questo angolo quasi non esiste, o è molto ottuso, come nella mandibola del M. palaeindicus (Lydekker, op. cit.) e in quella del nostro Machaivodus Nestianus. Degli altri caratteri di questo genere, alcuni non sono stati citati dai paleontologi che di questi animali si occuparono, perchè mancava loro il materiale su cui portare le osservazioni, o perchè questo, pure avendolo, era in tali condizioni da non le permettere. Noi, singolarmente fortunati per la quantità dei fossili che abbiamo sotto gli occhi, e per il loro buono stato di conservazione, possiamo allargare la cerchia di queste osservazioni generali, tanto più che una dettagliata descrizione dei — 125 — Machairoclus del Val d’Arno, era ancora da farsi ed era, come abbiamo veduto, desiderata da molti paleontologi. Pertanto questo genere, oltre ai caratteri accennati, è ben distinto da un considerevole sviluppo dell’ apofìsi mastoidea e dell’apofìsi zigo- matica dello squamoso; in esso la mandibola, al contrario che in tutti i Felìs , ha un processo coronoideo molto piccolo e la fossa sotto- stante, ove s’inserisce il muscolo massetere, non è così ampia come presso i felini; gli incisivi, tanto nella mascella superiore che nella inferiore, hanno un considerevole sviluppo; come pure sviluppatissime sono la cresta sagittale, la lambdoidea, e la cresta dell’occipitale: la fossa glenoidea dell’apofìsi zigomatica è anche essa molto ampia do- vendo prestare articolazione al condilo mandibolare assai largo. I due condili dell’occipitale sono, almeno fino a dove ci fu dato spingere le nostre osservazioni, posti più in alto che nella maggior parte dei felini e sono un poco rivolti verso l’esterno. L’apofìsi paramastoidea del paroccipitale è ridotta a proporzioni così piccole che qualche volta non è dato neppure di riconoscerla. Alcune di queste modificazioni al cranio^tipico dei Felis, oltre che essere importanti anatomicamente, lo sono anche fisiologicamente perchè hanno uno stretto rapporto col genere di vita dell’animale. Così, per esempio, il grande prolungamento in basso delle due apofìsi mastoi- dea e zigomatica del temporale, oltre che difendere il foro esterno del condotto auditivo, che rimaneva come incassato tra quelle due protu- beranze ossee, ha anche un altro significato altamente importante: esse infatti sono in stretto rapporto con lo sviluppo del tutto anormale dei canini superiori, i quali, così come erano, non sarebbero stati di nessuna utilità per l’animale, se esso non avesse potuto aprire straor- dinariamente la bocca; lo che non sarebbe stato possibile se l’artico- lazione della mandibola al cranio non fosse stata portata più in basso dell’ordinario; necessitava, cioè, che la cavità glenoidea e quindi l’apo- fìsi zigomatica fossero portate più in basso che non sia negli animali sforniti di quegli enormi canini superiori. Anche lo sviluppo anormale del processo mastoideo ha la sua spiega- zione. Ad esso, infatti, viene in parte ad inserirsi un muscolo molto robusto lo sterno-cleido-mastoideo, che ha, date certe condizioni, la funzione di flettere la testa; per cui la contrazione di questo muscolo doveva met- tere in grado il canino superiore di penetrare più facilmente nelle carni della preda: giacché a compiere questa operazione, nei Machairodus non aveva la mascella inferiore quella principalissima parte che ha nei Felis, come fra poco vedremo. Una volta che il canino superiore si era bene immerso nelle carni della vittima, un po’ per razione dello sternocleidomastoideo, un po’ per rialzamento della mascella infe- riore, il cui dente canino serviva di contrafforte, di punto d’ appoggio al canino superiore, che gli passava vicinissimo, il nostro animale aveva bisogno di sbranare e dilaniare le carni addentate della vittima: e a questo scopo serviva benissimo il margine posteriore sempre tagliente, e molte volte finamente seghettato, del canino superiore, il quale, avendo la massima larghezza, e quindi la massima robustezza nel senso antero- posteriore, era a tale ufficio adattatissimo. Ma per ottenere questo resultato, essendo la vittima tenuta saldamente ferma a terra coi piedi davanti, occorrevano dei forti muscoli dorsali (trapezio, splenio, gran complesso ecc.) che avessero delle salde inserzioni alla parte poste- riore del cranio, e, contraendosi, permettessero alla testa quella tra- zione, che era necessaria per vincere la resistenza offerta dalle carni della preda rimaste tra i denti del Machairodus ; e tali salde inser- zioni a questi muscoli le vediamo egregiamente fornite dalla cresta lambdoidea e sagittale e dalla cresta dell’occipitale sviluppatissime in questo genere di animali, e piene di frastagliature e di rilievi in modo da aumentare e rendere più intima la inserzione dei predetti muscoli. Anche il limitato sviluppo del processo ascendente della mandibola in confronto con quello raggiunto dei felini, ammette urla spiegazione razionale. Negli animali del genere Machairodus , i canini superiori assumono, come sappiamo, proporzionalmente a quelli inferiori, un assai maggiore sviluppo, e ad essi principalmente era riserbato l’ufficio di addentare e di trafiggere la preda: i canini inferiori, come ha già notato A. Weitbofer (op. cit., pag. 238) non avendo da compiere fun- zioni molto energiche, sono molto ridotti, fino ad essere poco più grossi degli incisivi: essi dovevano servire da punto d’appoggio a quelli di sopra e però non vi era grande necessità che la mandibola venisse con forza sollevata in alto, funzione alla quale sappiamo essere desti- nati principalmente : il muscolo temporale, che s’ inserisce, inferiormente, alla faccia interna del processo coronoideo della mandibola, e il masse- — 127 — tere, che ha la sua inserzione inferiore all’angolo della mascella infe- riore e nella incavatura masseterina: non avendo pertanto questi muscoli molto lavoro da compiere, anche le superfìci d’inserzione dei loro tendini erano limitate. Questo non avviene nei Felis , i cui canini inferiori hanno le stesse o molto approssimativamente le stesse dimensioni dei superiori e tra essi il lavoro è quasi ugualmente distribuito; è diminuito quello del canino superiore ed è cresciuto quello dell’inferiore, che deve quindi essere sollevato insieme, con la mandibola da muscoli potenti, i quali però, debbono avere inserzioni robuste; e noi vediamo, infatti, in tutti i felini il processo coronoideo della mandibola essere sviluppatissimo e superiormente volto indietro per aumentare la superficie d’inserzione del temporale; come pure sono molto pronunciate la fossa masseterina e le scabrosità del margine inferiore angolare della mandibola. Inoltre i canini superiori dei Machairodus essendo appiattiti e fatti a coltello, più facilmente di quelli dei felini, che sono conici, potevano penetrare nei tessuti della preda. Un altro carattere, molto interessante, di questo genere consiste nel grande sviluppo raggiunto dagli incisivi, i quali nei Felis , anche negli animali più grossi del genere, hanno dimensioni ben limitate in confronto coi canini, i quali inoltre sono benissimo caratterizzati da quelle singolari e profonde solcature che non si rinvengono in altri generi e che mancano anche nei canini inferiori dei Machairodus. La formula dentaria dei Machairodus del Val d’Arno è la seguente: .31 2 1 0. i ~ ; c “f : Prem- T i m — . Siccome pero in qualche specie, come nel M. bidentatus delle fosforiti di Quercy vi ha un premolare di meno, cosi la formula generale di questi animali diventa i — ; c — ; 2 1 8 1 Ppern- (— ); mT ' Con queste disposizioni anatomiche si comprende facilmente come questi animali avessero raggiunto l’ideale dell’animale carnivoro per eccellenza. Essi esercitavano nell’Europa e nell’Asia l’ufficio riserbato in America ai Nimravidae ; erano come dei grandi moderatori al so- verchio moltiplicarsi di quei ruminanti e pachidermi, i cui avanzi fossili si sono trovati così abbondanti insieme a quelli dei Machairodus nei depositi del Val d’Arno, di Pikermi, dell’Auvergne, del Forest-bed, di Eppelsheim, di Samos, di Kent’sIIole, dell’India, di Maragha in Per- sia, ecc. Anche morfologicamente i Machairodus hanno avuto molti — 128 — punti di contatto con molti generi della grande famiglia dei Nimramdi e segnatamente coi generi Oplophoneus , Pogonodon, Dinictis , Nim- ravus : per il piccolo sviluppo del processo coronoideo della mandibola e per il numero dei denti ( Oplophoneus ); per il canino superiore schiac- ciato lateralmente (Oplophoneus, Pogonodon , Dinictis ); per il processo simfisiale ascendente della mandibola ( Pogonodon , Dinictis , Nimravus) e per lo sviluppo degli incisivi che è considerevole in tutti e quattro questi generi e segnatamente nel Pogonodon. In quanto alle dimensioni a cui arrivavano i Machairodus si può dire che esse variavano secondo le diverse specie dal Machairodus naeogeus del Brasile, che è la più grossa specie del genere e che doveva avere dimensioni molto maggiori dei nostri leoni, al M. orientalis del Pliocene di Maragha (E. Kittl) e al M. cultridens del Val d’Arno che dovevano essere di corporatura non superiore a quella di una pantera. Machairodus sono stati trovati nelle fosforiti di Quercy (il/. insi- gnis , M. bidentatus, Filhol op. cit.) e nelle caverne di Kent in Inghil- terra (il/, latidens , Owen op. cit.): vanno^ cioè dall’Eocene superiore al Postpliocene, essendosi trovati nel Miocene e nel Pliocene. I Machairodus del Val d’Arno sono tutti pliocenici. MACHAIRODUS (Meganthereon) CULTRIDENS (Cuvier). (Tav. IV, fìg. 1, 2, 3, 4 ; Tav. V, fìg. 1 ,2, 3, 5, 7 ; Tav. VI, fi g’. 1, 2).T 1824 Ursus cultridens . . Cuvier, Recherches sur les ossements fossiles. Paris,. voi. V, p. II, pag. 516-517. 1826 Ursus drepcinodon. . Nesti, Lettera terza a Paolo Savi: Di alcune ossa- fossili non per anco descritte. Pisa, pag. 5,. 6 e seg. 1826 Felis antiqua Id. Lettera terza, pag. 11-12. 1827 Ursus cultridens (?) Devèze de Chabriol et Buillet, Essai géologique et minéralogique sur les environs d’Issoire , dèpartement du Puy-de-Dóme, pag. 74, 75, e 9fi tav. XXVII, fig. 1, 2. 1828 Felis meganthereon . BrAVARD, Monographie de deusc Felis d’ Auvergne , 1828 Ursus cultridens is- Pag- 143 e se£-> tav* m> 10-13. siodorensis Croizet et Jobert, Recherches sur les ossements fossiles du dèpartement du Puy-de-Dòme. Paris, torri. I, pag. 190-195, tav. I, fìg. 1 a, A, B;. tav. VII, fìg. 4, 5, 6; tav. Ili, fig. la. 1 Le tavole saranno date con la fine della memoria nel prossimo fascicolo. — 129 — 1828 Felis meganthereon. Croizet et Jobert, Op. cit-, pag. 201. 1841 Felis meganthereon. Blainville, Ostéographie de cinq classes d' animaux vertébrés, voi. 2°, pag. 129-140; Atlante tav. XVII. 1841 Felis cultridens ... Id. Op. cit., tav. XVII, gen. Felis. 1841 Felis antiqua .... Id. Op. cit., tav. XV, gen. Felis, pag. 140. 1854 Meganthereon ma~ croscelis Pomel, Catalogne des vertébrés fossile s , Paris. 1883 Machairodus eultri- Pa£# ^5 . dens Major, On thè Mammalian fauna of thè Val d'Arno (Quarterly Journal of thè Geoio gical Society of 1884 Machairodus megan- London, voi. XLI, pag. 1-8). thereon LyDEKKER, Indian tertiarg and post-tertiary Verte- brata (Memoirs of thè Geological Survey of In- dia ; Palaeontologia Indica ; Calcutta, pag. 333— 1889 Machairodus eultri- ' 156 e seg.). dens Weithofer, Ueber die terticiren Landsdugethiere Ita- liens (Jahrbuch der k.k. geol. Reichsanstalt 1889, 1890 Machairodus eultri- 39 Band, 1. Heft). dens Major, L ' ossario di Olicola in Vài di Magra (Atti della Società toscana di Scienze naturali, Vol.VIF, pag. 65). 11 Maehairodus cultridens è la più antica specie del genere : essa ha tutta una storia che giova riandare e riassumere per togliere quel- l’equivoco, che ha durato dal 1824 fino ad oggi, e per il quale si sono con lo stesso appellativo designate due specie tra loro molto differenti : questa nostra del Val d’Arno e quella di Eppelsheim. Il primo a far menzione di certi denti canini molto lunghi e com- pressi lateralmente, ritrovati nei terreni mobili di Val d’Arno superiore, è il Cuvier (1824) nel suo magistrale trattato sugli Osseinents fossiles (tom. V, pag. 516-517 - Addition à la pag. 3 79 et à la page 507 dutome IV). Egli credè che appartenessero all ’Ursus etruscus , giada lui preceden- temente studiato, e siccome dei denti, che a lui parevano simili e che esa- minava in disegni, erano pure stati trovati in Germania ad Eppelsheim, fu indotto a cambiare quel nome specifico in questo di Ursus cultridens . Vedremo però che tra gli uni e gli altri vi è molta differenza. Intanto nel 1826 un paleontologo toscano, Filippo Nesti, narrava come egli possedesse fino dal 1812 un dente canino falciforme (quello medesimo già menzionato da Cuvier), che minutamente descrive nella sua terza lettera a Paolo Savi e che tuttora si conserva nel Museo paleontologico dell’Istituto di Studi superiori in Firenze. Il Nesti non 9 — 130 — seppe a quale animale attribuirlo fino a che nel 1823 gli fu portato un cranio quasi completo dell’orso chiamato dal Cuvier etruscus. Nella mascella superiore di questo cranio si veggono, sebbene troncati, i due canini che a lui parvero essere della stessa forma di quello che possedeva intiero ; e per distinguerlo dalle altre specie di orsi, chiamò V animale con questa mascella Ursus drepanodon. Anche questo cranio si conserva tuttora nel Museo di Firenze, e il cattivo stato, in cui si ritrova, dimostra che ha subito nella fossilizzazione delle pressioni molto forti, alle quali devesi se i canini sono in tal guisa appiattiti da simulare, lontanamente, quel canino cultriforme e da trarre in inganno il Nesti, che non volle, per paura che gli andassero in frantumi, disar- ticolare le mascelle allora fortemente aderenti: operazione felicemente compiuta in appresso dall’attuale preparatore signor Enrico Bercigli. Nesti rammenta e descrive nella stessa lettera al Savi un cranio, a cui diè nome di Felis antiqua , senza che accenni ad analogie col Felis antiqua del Cuvier che è veramente un Felis : come pure fa menzione di un dente molare superiore che attribuisce ad una jena. Tanto il cranio che il dente vedremo fra breve che appartengono ad individui del genere Macliairodus. Un anno dopo dalla pubblicazione del Nesti vide la luce in Francia il trattato di Devèze de Chabriol e di Bouillet sopra le ossa fossili della montagna di Boulade. In quest’opera gli autori hanno disegnato (Tav. XXVI) due diversi denti canini visti ciascuno in due posizioni, di prospetto e di profilo. Queste due specie di denti della montagna di Boulade differiscono tra loro, oltre che per le dimensioni, anche perchè in uno si notano delle piccole dentellature fini e leggere nella parte concava, con delle scannellature assai larghe : questo è il più grosso (tav. cit., fig. 3, 4, 5): l’altro è più piccolo senza dentellature, meglio conservato (tav. cit., fig. 1, 2); gli autori lo riferiscono all’ Ursus cul- tridens : era quanto allora si poteva fare. I primi, a cui cadesse in mente una ipotesi diversa da quella espressa da Cuvier e da Nesti riguardo alla paternità di quei denti, furono appunto il Devèze e il Bouillet, che in altra parte dell’opera (pag. 75) si domandano se non potevano piuttosto attribuirsi a un animale pisciforme o a un Felis e pare loro più probabile quest’ultima ipotesi. Essi inoltre, per la prima volta, fanno una distinzione fra le due specie di denti : quelli cioè cogli orli lisci e quelli col margine seghet- tato : i primi sarebbero quelli studiati dal Cuvier e dal Nesti, e attri- buiti dall’uno aH’Z/rsws cultridens , dall’altro all ’Ursus drepanodon. Gli altri dovettero aspettare all’anno dopo per essere definitivamente rico- nosciuti come appartenenti a specie differente. Quegli, che contribuì moltissimo a colmare questa lacuna nella storia dei mammiferi fossili, fu il Bravard nella sua Monographie de deux Felis (pag. 143 e sego). Egli attentamente studiando una branca destra di mandibola in relazione con quelle di altri felini, mentre si avvide che per i caratteri generali, specialmente per quelli forniti dalla forma complessiva della mandibola e dai molari, era da ascriversi a una specie del genere Felis , si distingueva però da tutti i felini conosciuti, fossili e viventi, per caratteri assai marcati: come ad esempio, per la distanza, tra l’ultimo premolare e il canino, maggiore che in tutti gli altri Felis ; per il suo prolungamento in basso e anteriormente, che, unendosi a quello della branca sinistra, doveva dar luogo a un mento singolar- mente allungato. Furono questi caratteri non ancora riscontrati in altre mandibole, che indussero il naturalista francese a creare una specie nuova di Felis col nome di Felis meganthereon, A questa riferì pure una metà inferiore di omero e molto più tardi (1842) altre ossa in un catalogo manoscritto (Blainville, Ostéographie, voi. II, pag. 143). Il più importante si è che ha pure riferito nella sua monografia al F. meganthereon un frammento di mascellare superiore, che mostrando, anteriormente all’ultimo premolare, un alveolo ovale, fece supporre a Bravard avesse ricettato un canino cultriforme come quello descritto da Nesti. Questa ipotesi rivela in Bravard un fine spirito di osservazione: egli stesso ebbe più tardi (1842) la fortuna di trovare un frammento ben completo di cranio che portava un canino a coltello. Siccome però di questi canini ne esistevano di due specie, alcuni più lunghi (cm. 16,5 - 16,4) e altri la metà quasi di questi, egli riserbò il nome di F. meganthereon alla specie che possedeva i più piccoli e lisci, assegnò quello di F. cultridens a quella fornita dei più grossi e seghettati. E per noi di grande interesse a questo punto notare come l’attribuire il nome di Felis cultridens a questi ultimi denti fu un errore, perchè ormai l’appellativo di cultridens era stato in precedenza usato da Cuvier per designare il dente del Val d’Arno, quello descritto dal Nesti, che è liscio sui margini e diverso dai suddetti: per cui, quei canini a cui fu dato il nome di Felis megantliereon dovevano essere attribuiti al F. cultridens , sebbene un poco più piccoli, ciò che probabilmente è effetto dell’età, ma lisci sui margini; e se un nome nuovo doveva crearsi era per i denti più grossi e seghettati sul margine posteriore. Questo errore fu continuato in seguito fino ad oggi da tutti gli autori ed è stato la causa principalissima delTaggrUppamento nella specie cultridens di tipi abba- stanza lontani. Anche Kaup, Description d’ossements fossiles de mam- mi/ères incorimi jusqii à-présent (Darmstadt, 1883, pag. 24-28, fìg. 5, tav. I), usò del nome specifico cultridens per indicare il suo dente di Darmstadt molto grosso e seghettato: egli, anzi, andò più in là affer- mando che tutti i Machairodus hanno i canini seghettati, ed anche* altri autori, come il Lydekker, assai più recenti, seguirono Kaup nel riguardare i canini superiori seghettati caratteristici del genere. Croizet et Jobert pubblicarono un notevole lavoro sulle ossa fossili del dipartimento di Puy-de-Dòme (cit. nella sinonimia) nello stesso anno 1828, ma posteriormente alla Monographie del Bravard, come implici- tamente si rileva da una nota a pagina 216 del loro lavoro. In essa questi autori seguitano a riguardare quei singolari canini trovati isolati come appartenenti ad orsi e creano in questo genere due nuove specie: a una attribuiscono i canini seghettati (Tav. I, fìg. la e Tav. VII, fi- gure 4, 5, 6) e l’appellano Ursus cultridens issiodorensis : all’altra ascrivono i denti di maggiori dimensioni con seghettature dalla parte concava e la chiamano U. cultridens arvernensis (Tav. I, fig. 6, A, B). Essi inoltre descrivono e figurano come appartenente a specie e genere differente quella branca destra di mandibola (pag. 200, Tav, III, fig. la) illustrata dal Bravard nello stesso anno. Constatano l’apparenza tutta particolare che un animale con una mandibola di tal fatta doveva avere, e lo chiamano, come Bravard aveva fatto, Felis meganthereon : però non accettano la giusta supposizione di lui di attribuire i denti canini superiori falciformi all’animale, che possedeva questa mandibola e pro- mettono di dimostrare falsa l’opinione del Bravard con un lavoro, che mai vide la luce ; finché i fatti nel 1842 confermarono pienamente le previsioni dell’autore della Monographie de deux Felis. Oltre alla mandibola riferisono al loro F. meganthereon , un omero ben completo, un frammento di radice, uno di ulna e una vertebra dorsale. — 133 — Anche il Blainville dal 1842 si è occupato assai dì questi animali accettando le conclusioni del Bravard; e la sua classica Ostéographie , sebbene non modifichi la questione, nè rechi molto di nuovo, riesce interessante per l’esattezza con cui racconta gli stadi peri quali essa passò. Nel suo atlante figura (Tav. XVII, gen. Felis ) il dente canino descritto da Nesti e, nella stessa tavola, un frammento di osso che pure trovasi nel Museo paleontologico dell’Istituto e che appartiene alla mascella inferiore; esso porta un intiero canino e tre incisivi tron- cati alla loro emergenza dagli alveoli: in altra tavola (Tav. XVI, geo. Felis ) ha figurato, non bene certamente, il cranio del Felis antiqua del Nesti. Pomel, avendo accettato il nome generico di Croizet e Jobert, crea nel suo catalogo (1854, op. cit.) per le specie del Val d’Arno dei nomi, che non era punto necessario l’inventare. Una volta dimostrato che si doveva chiamare Meganthereon il genere, doveva darsi il nome, di M. cultriclens e non di M. macroseelis , affatto nuovo, all’ ani- male a canini lisci e più piccoli e non a quello a canini grossi e seghettati, come egli ha erroneamente fatto, avendo creduto sinonimi del M. cultridens, il Felis cultriclens del Bravard e l’ Ursus cultridens arvernensis di Croizet et Jobert. Stando alle descrizioni che nei loro lavori danno questi tre autori dei due tipi di denti canini, e ammettendo, come deve ammettersi, che Y Ursus cultridens del Cuvier era basato sopra al canino del Val d’Arno, al Meganthereon cultridens corrisponde il Felis meganthereon Bravard e V Ursus cultridens issiodorensis di Croizet et Jobert. Cade qui in acconcio osservare come il nome da darsi all’animale fornito di questi canini posteriormente seghettati deve essere quello di M. arvernensis proposto da Croizet et Jobert, poiché essi per i primi li hanno descritti '. 1 Avevamo già terminato questo breve cenno storico sulla specie cultridens ed eravamo venuti a quest’ultima conclusione intorno ai denti seghettati sul margine posteriore, quando ci venne alla mani un recente lavoro di A. Weithofer ( Fauna con Piliermi , Wien 1888) nel quale il chiaro A. (pag. 17 in nota) trova anch’egli giusto il nome specifico dato da Croizet e Jobert per i canini superiori larghi, di grandi dimensioni, seghettati sull’orlo concavo e con la radice molto ottusa — 134 Nel cominciare lo studio dei singoli fossili, che riferiamo a questa specie e che si trovano nel Museo paleontologico dellTstìtuto di Studi superiori di Firenze, conviene partire dal dente canino descritto da Nesti perchè è sopra di esso che si fondò la specie cultridens dalCuvier : esso è stato anche rammentato da Croizet et Jobert e figurato dal Blainville. Avendolo descritto il Nesti nella sua più volte citata lettera al Savi, non faremo che completare quanto egli ne dice. Esso (Tav.VI, fìg. 1) misura in lunghezza cm. 15,5, in larghezza massima cm. 2,5, in grossezza massi- ma cm. 1,3. Nella parte radicale, che forma 1/3 dell’in'iera lunghezza del dente, si notano, tanto internamente che all’esterno, delle scabrosità do- vute a tante linee rilevate che vanno a raccogliersi all’apice della radice. Al di sotto della porzione radicale si vede una superficie che non si estende per più di cm. 2,6 e che era ricoperta nell’animale vivente dalle parti molli della gengiva. Al di sotto di questa superficie comincia la vera porzione coronale, che ha una lunghezza di quasi la metà del- l’intiero dente. Le due faccie, l’esterna e l’interna, vanno gradatamente restringendosi, sono liscie e non presentano rimarchevoli caratteri. I due margini, quello convesso e quello concavo, non hanno alcuna traccia di dentellature : quello concavo è così sottile da essere tagliente ; quello convesso è più massiccio, specialmente nella parte più alta della corona. La superficie esterna del dente ha un aspetto più spiccata- mente convesso, quella interna un poco meno (Tav. VI, fig. 2). Con queste dimensioni e conquesti caratteri tale dente viene ad assumere una forma slanciata e svelta. Un frammento di cranio che portasse un canino simile a questo non era peranco stato descritto. Il primo ad esserlo è dunque una por- zione anteriore di cranio trovata a Sammezzano nel Val d’Arno supe- riore e donato al Museo dalla munificenza della signora Marchesa Paolucci. Esso (Tav. V, fig. la) mantiene ancora in posto buona parte del canino del mascellare superiore sinistro, essendosi quello del mascellare superiore destro rotto al livello dell’alveolo per una compressione che tutto il cranio ha subito da quella parte. Esso presenta ancora intatti il felino e il 2° premolare 1 da ambedue i lati. Il canino superiore 1 Seguiamo, nella nomenclatura dei denti, il sistema di contarli daH’indietro in avanti introdotto recentemente da Schlosser e adottato da Dames, Majorr Weithofer, Ritti e quasi universalmente in Germania. — 135 sinistro è sfortunatamente rotto all’apice: pur non ostante misura fuori dell’alveolo in linea retta cm. 6,5 ; di larghezza misura cm. 2,4. In esso si notano due faccie l’esterna e l’interna; due margini: anteriore e posteriore. La faccia interna presenta superiormente una superficie di una diecina di mm; priva di smalto; quel tratto denota la porzione occupata dalle parti molli della gengiva. Questa faccia superiormente convessa, doventa leggermente concava verso la metà del dente: questa convessità è in direzione dall’atto al basso ; dopo quella porzione leg- germente incavata, il dente ritorna ad essere convesso nella parte in- feriore. Considerando tale faccia nella direzione antero-posteriore ci presenta in tutta la sua lunghezza una convessità molto sentita. La faccia interna parimente convessa lo è però in minor grado della faccia opposta. Il margine anteriore convesso, smussato nella porzione superiore e massiccio, va, mano mano che si porta in basso, doventando più acuto, finché nella parte più inferiore non si distingue più, per questo carat- tere, dalla parte inferiore del margine posteriore, il quale si presenta concavo, tagliente e liscio in tutta la sua lunghezza. Questo dente, tanto esaminato complessivamente che nei suoi det- tagli, si ravvicina moltissimo al dente citato da Cuvier e descritto più sopra; esso ha gli stessi caratteri, quasi le stesse dimensioni; per cui appartiene indubitatamente alla stessa specie. Il canino del mascellare destro è rotto, come si è detto, nell’alveolo al livello di esso. La frattura ci fa vedere il foro dentale che è ripieno di pirolusite; la forma di questo foro è un ovoide compresso lateralmente. Gli incisivi, tre per lato, sono tutti più o meno rotti: avevano però uno sviluppo considerevole in confronto con quelli dei veri Felis : erano serrati l’uno contro l’altro e costituivano, dopo il canino descritto, un potente mezzo di offesa. L’incisivo meglio conservato è il 1° del prema- scellare sinistro (il più esterno). Questi denti vanno diminuendo in dimensioni dall’esterno verso la simfisi dei due premascellari come avviene in tutta la famiglia dei Felidae : inoltre in tutti predomina il diametro antero-posteriore su quello trasversale. Nella mascella superiore il 1° premolare o ferino è il dente che — 136 — più di tutti gli altri conserva caratteri costanti nella famiglia dei Fe- ndete ; e nei due generi Machairodus e Felis vi hanno bensì nel ferino variazioni di grandezza, ma le proporzioni tra i vari tubercoli e ! a forma di questi ultimi rimangono quasi sempre le stesse. È largo cm. 3,1 e alto cm. 1,5; il ferino in questo cranio ha tre tubercoli, dei quali il più lungo è il mediano e il più largo quello posteriore ; quello ante- riore è molto ridotto; la faccia esterna di ciascuno di questi tubercoli è liscia e convessa, quella interna è pianeggiante per l’attrito ; il mar- gine inferiore è tagliente. Il 2° premolare in questo fossile ha, di fronte a quello dei felini, dimensioni più limitate ; si può dire che abbia tre tubercoli, sebbene il posteriore possa, per un solco che lo attraversa, dividersi in due : quello mediano è il più pronunciato ; nessuno però è così tagliente come i tubercoli corrispondenti del 2° premolare dei Felis. Tanto internamente che esternamente presenta una superficie convessa, es- sendo quella esterna più evidente; non mostra sul lato interno nessuna superfìcie di consumo; per cui esso non doveva venire in perfetto con- tatto e in contrasto con i denti della mascella inferiore. Fra il 2° pre- molare e il canino corre un piccolo spazio di cm. 2,2. La lunghezza della corona del 2° premolare è di mm. 11 ; quella del 1° è di cm. 3,0. Il molare, soltanto presente nel mascellare superiore destro, è piccolissimo e situato più in alto e più internamente degli altri; ciò dimostra che in questi animali a questo dente era riserbata una molto modesta funzione ed era ben lontano dall’avere quell’ importanza, che ha in altri animali, come nei cani, per esempio. Nel mascellare supe- riore sinistro è rimasto l’alveolo, piccolissimo, di questo molare. Le ossa palatine male si possono descrivere: esse sono incrostate; per cui lo studio anatomico di esse è affatto impossibile, nè gioverebbe provarsi a ripulirle. La fossa nasale, tutta contorta e schiacciata, ben poco conserva della forma primativa : lo stesso setto nasale è andato ad appoggiarsi, aderendovi, al lato sinistro ; per cui, della fossa nasale sinistra, non resta più nulla. Dalle fosse nasali in là, manca tutta la parte posteriore, superiore e laterale del cranio : mancano infatti, tutto l’occipitale, i parietali e i temporali: nulla, quasi, rimane del frontale esistono soltanto e in cattivo stato, a destra, il mascellare superiore e quella porzione dell’arcata zigomatica formata dall’osso malare : delle — 137 — ossa costituenti la cavità orbitale non rimangono che l’osso malare o ingale e una porzione del frontale. Il mascellare superiore destro ha subito una forte compressione in corrispondenza del foro sottorbitale : nella parte anteriore, ove esso ricetta la radice del canino, è convesso ed ha resistito alla pressione. La fossa nasale è molto ampia; e le ossa nasali del lato destro sono talmente depresse che, invece di presentare una superficie esternamente convessa, costituiscono una superfìcie con- cava. Le ossa del lato sinistro sono tutte in generale in migliore stato di quelle del lato destro. 11 foro sottorbitale è assai distinto e la porzione più anteriore dell’osso zigomatico è conservata. Ci si può formare un concetto della deformazione subita dalla parte destra del cranio, riflettendo che il ferino di destra, rispetto a quello di sinistra, è stato sollevato di circa due centimetri, ed è, inoltre, stato portato in avanti quasi di altrettanto. Pure un altro dente canino, trovato isolato nel Val d’Arno superiore a Casa Nuova presso Figline, e acquistato dal noto raccoglitore F. Pieralli, si può legittimamente ascrivere al Machairodus cultridens. Esso pre- senta gli stessi caratteri di quelli che abbiamo descritti: è sottile, di forma snella, poco largo, liscio sui margini : appartiene al mascellare sinistro : ha la curva interna rispetto all’altro, tipico, un poco più sentita; e per questo carattere si avvicina più a quello del cranio regalato dalla Marchesa Paolucci: tanto la curva posteriore che l’anteriore hanno lo stesso andamento del dente descritto dal Cuvier e dal Nesti: è rotto nella parte inferiore e gli mancano circa mm. 35. Anche un altro piccolo frammento di canino superiore e più spe- cialmente della porzione inferiore, rinvenuto pure nel Val d’Arno supe- riore, senza indicazione precisa della località, e che da molto tempo si trova nel Museo dell’Istituto, appartiene evidentemente a questa specie; essendo liscio sui margini, sottile, e presentando gli stessi caratteri delle estremità inferiori coronali di quelli già descritti. Altri frammenti che riferiamo alla stessa specie, per caratteri che andremo ora studiando, sono due mascellari superiori, destro e sinistro (Tav. V, fìg. 2, 3), dello stesso individuo provenienti dal Val d’Arno supe- riore, ritrovati a Sammezzano nel Val d’Arno superiore, acquistati da Paolo degli Innocenti e che, essendo ben conservati, meritano la nostra attenzione. — 138 — Quello destro (tav. cit., fig. 3) conserva la radice del canino e una pic- cola porzione della parte smaltata. Siamo convinti che questi due avanzi fossili debbano riferirsi al Mciehairodus cultridens per le dimensioni e per la forma che il canino doveva avere; per la sua larghezza e per il suo spessore: ed altre prove sono fornite dai due denti premo- lari, che sono impiantati su ciascun mascellare. Questi denti non mo- strano infatti nè asperosità, nè granulazioni sulla corona come si no- tano nel Machairodus crenatìdens. Essi sono affatto lisci come quelli della porzione di cranio già descritta. Inoltre il ferino ha tre lobi principali, molto acuminati, na- turalmente compressi e assai somiglianti a quelli del ferino del fram- mento di cranio: ha tre radici: due anteriori, delle quali una esterna, cuneiforme, più robusta, a convessità anteriore, a cui si riferisce il lobo antero-esterno del dente; l’altra interna un poco più compressa, a cui corrisponde un piccolo lobo interno smussato: la radice posteriore è unica, triangolare e uguale in lunghezza alle altre due : essa porta tutto il tubercolo posteriore e metà del mediano: l’altra metà è so- stenuta dalle altre due radici. La parte del dente che porta traccio molto evidenti di attrito e di consunzione è appunto quella formata dal lobo posteriere e dalla parte posteriore del lobo mediano: lo che ci spiega il grande sviluppo che ha preso la radice posteriore, che sostiene questi tubercoli. Nel mascellare sinistro, al di là del ferino, si vede l’alveolo del piccolo dente primo molare. Il 2° premolare è un poco differente da quello che si trova nel mascellare superiore del cranio donato dalla Marchesa Paolucci. In quest’ultimo fossile il secondo premolare è più piccolo: ha lobi più tondeggianti, meno accentuati, la corona meno larga e meno lunga: le solcature tra lobo e lobo sono in esso meno approfondite. Non ostante queste differenze, crediamo che questi due mascellari su- periori si possano legittimamente attribuire a un indidividuo della specie Machairodus cultridens ; giacché sempre, tra individuo e individuo,, esistono delle piccole differenze anatomiche, le quali diventano maggiori quando entri in campo la diversità di sesso e di età, come ha dimo- strato il Lydekker nel suo trattato (Memoirs of thè Geological Survey of India, Palaeontologia Indica; Calcutta: pag. 133 e seg.). Ci sono del resto tra questi mascellari isolati e il frammento an- - 139 teriore di cranio descritto e figurato (Tav. V, fig. 1) altri punti di con- tatto e di rassomiglianza che non è bene trascurare: così, per esempio, la distanza tra la parte mediana del margine esterno del foro sottor- bitale sinistro e il margine posteriore del colletto del ferino è di centi- metri 4,4 tanto nel frammento isolato, che nel cranio ; come pure la distanza, che passa fra il margine posteriore del lobo posteriore del primo premolare e il margine anteriore del lobo anteriore del secondo premolare, è di centimetri 4,5 tanto nel frammento isolato che nel cranio predetto. Se inoltre confrontiamo il frammento di mascellare destro figurato da Blainville (Tav. XVII, gen .Felis), come il Felis meganthereon del Bravard, col nostro frammento e col mascellare superiore destro del cranio, si vede che tra i tre non vi è identità perfetta; ma tale ne è la rassomiglianza, che ci sentiamo autorizzati a riunirli tutti in una stessa specie: e noi già sappiamo che il Felis meganthereon del Bravard non è che il M. cultridens , e il fossile disegnato da Blainville può fare da ponte di passaggio tra gli altri due come forma intermedia. Uno dei due mascellari superiori, quello sinistro, ha il foro sottor- bitale conservatissimo; esso è molto sviluppato, ovoidale ed ha il diametro maggiore volto in basso; è a un centimetro circa ai di sotto del margine inferiore dell’arcata orbitale. L’arcata zigomatica è sfortunatamente incompleta, non essendo di essa rimasta intatta che la porzione formata dall’apofisi zigomatica del mascellare e da quasi tutto l’osso malare. È assai robusta e abbastanza larga; però la superficie d’inserzione del massetere, che è distintissima nei leoni e nelle tigri, non è qui molto evidente ed è più vicina al margine inferiore del malare di quello che non lo sia nei due felini rammentati: come in questi due animali, il margine orbitale dell’osso iugale ò smussato e massiccio, mentre nelle linci è tagliente. Un altro piccolo frammento anteriore di mandibola sinistra (Tav. V, fig. 5) di località precisa ignota, ma proveniente dal Val d’Arno, è stato riferito da Blainville, che lo ha disegnato (Tav. XVII) al Felis cultridens . Che esso appartenga a una specie del gen. Machairodus , è bene accer- tato dall’allungamento del mento, dalla cresta laterale che in esso si vede; dalla compressione esterna dell’osso e dall’assenza nel canino dei solchi longitudinali presenti nei Felis. A quale specie di Machai- — 140 — rodus si debba attribuire, è questione un poco ardua; sembra certo però che tale avanzo fossile non si possa riferire a nessuna delle due specie nuove del Val d'Arno, perchè i caratteri che nella mandibola di queste si ritrovano, lo vietano: noi lo riferiremo al M. cultridens perchè ci de- nota una piccola specie di Machairodus , perchè il canino inferiore, che è intatto, non ha alcuna traccia di dentellature sui margini, mentre tanto nel Machairodus crenatidens che nel Nestianus i canini infe- riori sono seghettati; inoltre perchè i tre incisivi rotti negli alveoli hanno tali dimensioni, che sono non molto lontane da quelle presen- tate dagli incisivi superiori della mascella superiore del cranio del 71/. cultridens ; vi ha sempre, infatti, grande rassomiglianza tra gli incisivi superiori e gli inferiori in una data specie. Il Nesti nella citata lettera al Savi descrive un cranio di Felis antiqua che il Museo di Firenze tuttora conserva (Tav. IV, fig. 1, 2). In esso si notano i caratteri più salienti e più distintivi dei Machairodus , I processi coronoidei della mandibola (tav. cit., fig. 2) sono, infatti, corti e diritti e terminano senza presentare, nella parte più alta, una superfìcie più larga come avviene nei felini: la fossa, ove prende attacco inferior- mente il massetere, è meno ampia che nei felini; la cavità glenoidea, in- vece, più larga, dovendosi articolare con un condilo molto grosso : i pro- cessi zigomatici del temporale sono molto allungati in basso, mentre nei felini di dimensioni maggiori sono quasi allo stesso piano orizzontale dell’apofisi mastoidea dei condili occipitali, e nei felini più piccoli l’articolazione della mandibola si fa a un livello superiore ai condili occipitali ( Felis jubata, Felis Ir/nx). Le apofìsi mastoidee hanno in questo cranio grande sviluppo: la cresta dell’occipitale è più sviluppata, più robusta, più alta, più scabra che nei felini. Questi criteri sono più che sufficienti per persuaderci a collocare tra i Machairodus il Felis antiqua del Nesti. Noi attribuiamo di preferenza questo cranio al 71/. cultridens. Doveva bensì essere un animale di corporatura più grossa di quello considerato or ora: però i caratteri presentati dal ferino superiore, quasi identico al ferino del cranio del M. cultridens, la forma, la direzione, le proporzioni del processo zigomatico del mascellare superiore, sono tali, da farci ritenere che trattisi della medesima specie. Del resto anche il ferino inferiore è molto vicino a quello della tigre, del leone, ecc., è? — 141 — cioè, felini forme ; e questa stessa somiglianza con i ferini inferiori di questi animali pure la presenta il dente corrispondente della man- dibola disegnata da Croizet et Jobert e da Blainville, sulla quale i primi due fondarono il genere e che Bravard attribuì al Felis megan- thereon specie per noi sinonima di Machairodus cultridens. Inoltre tutti i denti di questo fossile sono sulla faccia esterna completamente lisci e neppure hanno sui margini seghettature di sorta. Potremmo dare di questo fossile una descrizione completa se non lo avesse già fatto il Nesti nella sua terza lettera al Savi: ci limite- remo però a constatare che i confronti stabiliti dal paleontologo to- scano tra i denti del suo animale e quelli della tigre non si deb- bono prendere in senso assoluto: così il ferino superiore, che Nesti afferma essere esattamente identico a quello della tigre, differisce da questo nei suoi dee tubercoli anteriore e posteriore, che hanno assai minore sviluppo che quelli della tigre, nella quale inoltre questo dente ha uno spessore maggiore. Il ferino inferiore ha, con quello della tigre, più somiglianza; e noi abbiamo già dato a questo fatto la sua importanza. Filippo Nesti ha creato la specie Felis antiqua su questo cranio senza fare alcuna allusione all’animale omonimo descritto da Cuvier trovato in terreni pleistocenici e che appartiene a un vero e proprio Felis , e che è ben distinto da questo. Non sarà senza utilità dare alcune misure di questo fossile. Cranio. Diametro interno verticale del foro occipitale cm. 1,0 Diametro trasverso », » ...... 2,4 Dalla metà del margine anteriore frontale dell’orbita, al margine anteriore deH’apofisi mastoidea » 11,5 Dal margine posteriore inferiore del processo zigomatico del temporale, al margine inferiore del foro auditivo esterno » 2,5 Lunghezza massima della corona del ferino » 1,8 Larghezza minima del processo zigomatico del mascellare superiore » 3,1 Mandibola. Altezza della mandibola dal vertice delPapofisi ascendente cm. 5,8 — 142 — Distanza dal vertice del tubercolo posteriore del ferino inferiore, all’apice del processo coronoideo .... cm. 4,1 Distanza fra i vertici dei due tubercoli del ferino inferiore » 1,1 Lunghezza massima del condilo della mandibola ... > 3,7 Dal margine esterno del condilo, al margine anteriore della fossa masseterina » 6,5 Dal vertice dell’apofisi ascendente, alla parte mediana dell’orlo interno del condilo » 4,3 Ancora un altro frammento di cranio (Tav. IV, fìg. 3, 4) ritrovato nel Val d’Arno superiore in una località detta il Tasso è da attribuirsi al genere Machairodus e più specialmente al M. cultridens. Di questo cranio non rimane che la parte posteriore, superiore e inferiore: manca tutta la parte anteriore, ossia la faccia coi suoi mascellari superiori e la mandibola. Per fortuna, però, la parte rimasta è in assai buona condizione e ci permette di fare delle osservazioni interessanti. I criteri che ci inducono a collocare nel genere Machairodus , T animale, a cui apparteneva questo cranio figurato alla Tav. IV, fìg. 4, 3, sono forniti dalle grandi dimensioni dell’apofisi zigomatica dello squa- moso: da uno sviluppo non punto comune nei Felis (al qual genere era stato fin qui ascritto) dell’apofisi mastoidea, sviluppo che non è raggiunto neppure dai più grossi tra i felini, come il Felis areernen- sis, tra quelli fossili, e il leone e la tigre, tra quelli viventi. In alcuni di questi l’apofìsi mastoidea è al medesimo livello della cassa timpa- nica (Felis leo , Felis arvernensis) o a un livello inferiore (Felis jaguar, Felis jubata) o poco al di sopra ( Felis tigris ), qui invece oltrepassa sensibilmente (sei o sette millimetri) la bulla timpani come anche l’ol- trepassa nel Felis antiqua del Nesti. Anche il grandissimo sviluppo, che si nota in questo cranio, della cresta sagittale e della lambdoidea non ha riscontro negli animali del genere Felis. In questo frammento di cranio, come nel cranio del Felis antiqua , queste due creste, unendosi, danno origine a una spina occipitale molto robusta, la quale, non meno che le due creste rammentate, essendo in vari modi frastagliata, e avendo impressioni e protuberanze in gran numero, offriva una forte inserzione ai muscoli del collo e del dorso. La parte condiloidea dell’occipitale è portata più in alto che nella maggior parte dei felini ; inoltre, l’apofìsi paraoccipitale, che è bene sviluppata in tutti i felini ,non è qui rappresentata che rudimentalmente ed è appena visibile. E notevole il modo, con cui è protetto il foro au- ditivo esterno, che rimane come incassato tra l’apofisi mastoidea, poste- riormente, e l’apofìsi zigomatica, anteriormente. Tutti questi caratteri, che siamo andati esaminando, distinguono questo animale dai Felis e lo avvicinano al M. eultridens , col cranio del quale non differisce che pochissimo. Le differenze in parte si deb- bono ascrivere alla diversa età che i due individui mostrano di avere probabilmente avuto all’epoca della loro morte, sembrando quello de- scritto dal Nesti più vecchio di quest’ultimo. Il rapporto che passa tra i resti dei due crani si rileverà anche meglio dalle seguenti misure prese sul cranio ultimamente descritto. Diametro massimo trasversale del foro occipitale . . cm. 2,7 » massimo verticale » » . . » 1,7 Dalla estremità superiore del margine esterno del foro occipitale, al margine inferiore della spina occipitale. » 2,5 Dal margine inferiore della spina occipitale, al margine antero-superiore del condilo » 3,5 Altezza massima della cresta lambdoidea » 2,3 Diametro trasversale massimo (dall’esterno) della cassa craniense » 7,3 Dalla cresta orbitale del frontale, alla cresta occipitale . » 1,2 Distanza tra le parti mediane delle due bulle timpaniche. » 1,7 Lunghezza della cresta sagittale, dalla sua biforcazione anteriore, al punto di incontro, con la cresta lamb- doidea » 6,9 Distanza fra gli orli interni dei fori auditivi esterni . . » 5,8 La specie eultridens del genere Machairodus , ha abbracciato fin qui degli animali molto differenti, come quello di Pikermi, di Eppelsheim e quello del Val d’Arno. Questo aggruppamento di tipi piuttosto lontani in una stessa specie, si spiega riflettendo che della vera specie eul- tridens non si conosceva che il dente canino citato daCuvier; per cui i non si potevano, invero, riferire a questa specie altri avanzi fossili a — 144 — meno che, insieme ad essi, non si fossero trovati questi caratteristici canini, circostanza che non si era ancora avverata . Fatto è che già da qualche tempo il Museo di Firenze possedeva il cranio regalato dalla Marchesa Paolucci, che ha una capitale im- portanza come quello che ci ha permesso di riferire al M. eultridens molti altri avanzi; per cui si può dire che questa specie è ora abba- stanza bene circoscritta e individualizzata; e però ora è reso possibile eliminare da essa quei Machairodus, che, da questo del Val d’Arno, sono* per caratteri anatomici, abbastanza lontani. Nei primi giorni dell’ aprile 1890 il predetto Museo si è arricchito di una notevole quantità di fossili, scoperti da Forsyth-Major a Olivola in Val di Magra. Fra questi è pregevole una porzione anteriore di cranio riferibile a questa specie di Machairodus. (Continua). ESTRATTI E RIVISTE 11 compilo del tempo in geologia) da una nota del Prof. Axel JBlytt. (Estratto dalle Geologiska Foreningens i Stockolm Fórhandlingarì n° 127, Gennaio 1890). Nella serie dei terreni troviamo una continua alternanza di forme litologiche da cui apprendiamo che i rapporti di posizione tra il mare e la terra emersa soggiacquero in ogni tempo a cambiamenti periodici. Questi spostamenti, ora positivi, ora negativi, della linea di spiaggia, ci pongono in grado di suddividere la serie stratigrafìca in sistemi o i sistemi in piani, secondochè gli spostamenti furono più grandi o più piccoli, e secondochè le discontinuità, da essi prodotte nella serie, corrispondono a periodi di tempo più lunghi o più corti. — 145 — Nei diversi piani e nei diversi sistemi geologici troviamo inoltre un’alternativa d’un’altra specie, che manifestasi essenzialmente nell’al- ternanza di sedimenti meccanici e chimici in rapporto colla maggiore o minore energia delle correnti che li depositarono. La serie statigrafica adunque di tutti i tempi geologici si è formata in condizioni periodicamente ricorrenti e noi possiamo distinguere due di tali periodi, uno di maggior durata, che trova la sua espressione nello spostamento della linea di spiaggia ed uno di durata più breve che si rispecchia nella variabile intensità delle correnti. In questi due periodi dovrebbe trovarsi la chiave per la misura del tempo in geologia. In ogni epoca il clima andò soggetto ad oscillazioni periodiche e la durata di tali periodi si misura in migliaia d’anni ; la causa di tali variazioni deve naturalmente trovarsi nelle leggi ordinarie della cli- matologia. Il raffreddamento invernale nelle alte latitudini produce sopra i continenti un’alta pressione atmosferica, che è la causa essenziale di una contemporanea bassa pressione sui meno raffreddati bacini ocea- nici, poiché l’aria corre negli alti strati atmosferici verso le regioni raffreddate per equilibrare la perdita cagionata dalla corrente aerea discendente. I venti alla loro volta, come hanno dimostrato Croll e Zòppritz, sono la causa vera e propria delle correnti marine, le quali seguono sempre la direzione dei venti dominanti, e la loro forza e ve- locità sono dipendenti dalla media velocità alla superficie nell’ultimo grande periodo di tempo. La corrente calda dell’Atlantico settentrionale corre pertanto nella stessa direzione S.O-N.E dei venti predominanti, ai quali è dovuta. La forza media annuale dei venti di S.O cambia periodicamente nel corso dei tempi. Colla precessione degli equinozi si verifica una oscil- lazione nella durata dell’inverno e dell’estate in ciascun emisfero; in un mezzo periodo di circa 10 500 anni l’inverno presso di noi è più corto dell'estate, come ora appunto è il caso, nell'altro mezzo invece è più lungo, e tale differenza cresce col crescere della eccentricità nell’orbita della terra. Colla massima eccentricità essa può giungere fino a più di 20 giorni e il numero dei giorni, eccedenti in ciascun mezzo periodo, può ammontare a circa 220 000. Se adunque notiamo che la lunghezza dell’inverno e dell’estate cambia nel corso di 10 500 anni, 10 — 146 — che inoltre la forza del vento ò molto maggiore nell’inverno che nella estate (circa tre volte secondo il Mohn per la corrente dell’Atlantico settentrionale) e che finalmente la forza delle correnti marine sono in rapporto colla forza media del vento nell’ultimo grande periodo di tempo, dobbiamo riconoscere non essere affatto indifferente pel clima che quelle migliaia di giorni cadano in ciascun mezzo periodo in eccedenza sulla estate o sull’inverno. Più grande pertanto è l’eccentricità dell’orbita, tanto più pronunziato è il periodo climatico determinato dalla precessione degli equinozi. Ma anche la lunghezza dei periodi sinodici di precessione è variabile e quanto più lungo sarà un periodo coll’inverno all’afelio, tanto più forza acquisterà la corrente marina, e tanto più varierà il clima. Qua’ndo gli inverni cadono nell’afelio viene accentuata la differenza tra il clima costiero e quello continentale. La pioggia e quindi il tra- sporto fluviale oscillano secondochè gli inverni coincidono col perielio o coll’afelio. Coll’aumento delle pioggie si depositano sedimenti mecca- nici, come argille e sabbie, dove in tempi asciutti si formano soltanto sedimenti chimici, come calcari ed altri, e tali alternanze di depositi chimici e meccanici esistono in tutte le formazioni geologiche. E probabile pertanto che in tali alternanze, almeno pei terreni più giovani, si possa riconoscere un mezzo per misurare la lunghezza dei tempi geologici. Vi è però, come fu accennato, un’altro periodo che si rispecchia nella serie strr.tigrafìca e che presenta una durata molto maggiore di quello di cui si è parlato. I rapporti fra mare e terra, furono sottoposti in ogni tempo a cam- biamenti periodici. Le formazioni d’acqua dolce e terrestri alternano con formazioni d’acqua salmastra e marina, e tali cambiamenti son dovuti allo spostamento periodico della linea di spiaggia. Tale spostamento, che ha luogo in direzione opposta nelle alte e nelle basse latitudini, non è spiegabile intieramente colla teoria del raf- freddamento e della contrazione della crosta terrestre. Vi è però un’altra dottrina di grand’ importa nza in geologia, ed è quella di Kant sul rallentamento della velocità di rotazione della terra per l’attrito delle maree contro le coste e sul fondo dei mari. Questa forza agisce invariabilmente da milioni d’anni nella stessa direzione, e per 147 — conseguenza la rotazione terrestre si fa sempre più lenta. G. H. Darwin calcolò che alcuni milioni di anni avanti, il giorno sidereo era di molte ore più breve che al presente. Quale effetto dovrà pertanto esercitare sulla terra questa costante diminuzione nella forza centrifuga ? Sappiamo che la terra è schiac- ciata ai poli e che tale schiacciamento è appunto determinato dalla sua rotazione. Se la terra fosse affatto fluida la sua forma dovrebbe in ogni tempo corrispondere alla sua velocità di rotazione, e se questa subisce un continuo, rallentamento la sua depressione ai poli dovrebbe conti- nuamente diminuire. Il mare si adatta subito al cambiamento di forza centrifuga e, fino a che la terra solida non cambia la sua forma, deve esso, allorquando cresce la lunghezza dei giorni, lentamente salire nelle alte latitudini e lentamente discendere nelle basse. Se ora notiamo che in tutti i pianeti ed anche nella terra lo schiacciamento ai poli è in rapporto colla attuale velocità di rotazione e che quindi essa pure deve aver ceduto e deve cedere alle forze, cambiando la sua forma, che il giorno sidèreo fu un tempo assai più corto che al presente, che la terra ha avuto da molti milioni di anni una crosta solida e che abbiamo numerose prove che quest’ultima, nel corso dei tempi, ha cambiato forma, dobbiamo ritenere che il cambiamento di forza centrifuga debba aver determinato degli spostamenti nella parte solida del globo. Mentre adunque il mare cambia subito forma, cambiando la forza centrifuga, la parte solida cederà soltanto allorché le forze disturbanti avranno raggiunto un certo grado. Finché ciò non avvenga il mare soltanto salirà nelle alte latitudini e scenderà nelle basse; quando finalmente la crosta solida cederà, si avrà un sollevamento di essa nelle alte, ed un abbassamento nelle basse latitudini. Le linee di spiaggia subiranno allora un nuovo spostamento in verso opposto al precedente, e, mentre quello era lento e continuo, questo sarà in certo modo subitaneo ed intermittente. I terremoti non sarebbero, secondo l’autore, che fenomeni inerenti al cambiamento di forma della parte solida del globo, e già molti anni avanti Carlo Darwin espresse l’idea che tra gli spostamenti secolari della linea di spiaggia e le piccole dislocazioni cagionate dai terremoti non poteva esistere una essenziale differenza. L’eccentricità dell’orbita terrestre, cambia, come fu detto, periodi- camente, e ciascun periodo ha una durata di 80 a 100 000 anni: con essa cambia pure alquanto la forza della marea e quella perturbante del sole. Allorché l’eccentricità è massima la terra trovasi nel suo perielio oltre un milione di miglia più vicina al sole di quello che allorquando l’eccentricità è minima, e siccome crescendo la forza del flusso viene rallentata la rotazione e per conseguenza aumentata la tensione interna nella crosta solida, così è da ritenersi che la parte solida del globo cambierà la sua forma specialmente allorché l’eccentricità dell’orbita è massima. Siamo quindi in grado di collegare gli spostamenti della linea di spiaggia coi cambiamenti della eccentricità dell’orbita ed allo scopo di dimostrare questa ipotesi vediamo di comparare le serie degli strati coi periodi astronomici. La curva della eccentricità dell’orbita fu calcolata, secondo la nuova formula di Stockwell, da Me. Farland, per più di quattro milioni d’anni, di cui tre per il passato, uno per l’avvenire. Un risultato notevole di questo computo fu che la curva ripetesi con una regolarità straordinaria e precisamente circa tre volte nel periodo di tempo accennato. Ciascuno dei cicli così formati dura presso a poco 1 V’ milioni d’anni e dentro di esso il medio valore della eccentricità subisce 16 oscillazioni. Ogni oscillazione dura da 80 000 a 100 000 anni, e comprende 4 o 5 periodi sinodici di precessione. Il valore medio della eccentricità ò piccolo al principio di un ciclo, sale verso la metà e decresce nuovamente nella sua ultima porzione. Mentre adunque accettiamo in primo luogo, che la precessione degli equinozi determina un periodo climatico, il quale ha la sua espressione nelle alternanze degli strati, ed in secondo luogo che i cambiamenti di forma nella parte solida del globo avvengono principalmente quando l’eccentricità è massima, ci troviamo in grado di comparare le serie stratigrafiche coi periodi astronomici. In altro suo lavoro * 1 il Blytt tentò di costruire delle sezioni geo- logiche coM’aiuto di questa curva, ed ottenne che una di tali sezioni artificiali, con 40 alternanze e 10 oscillazioni, riproduceva strato per strato la serie eocenica ed oligocenica del bacino di Parigi. 1 Axel Blytt, Om céksellagring og dens mulige betydning for tidsregningeit i geologien etc.} (Christiania, Vid. Selsk. Forh., 1883, n. 9) — 149 — È noto che l’èra terziaria è suddivisa in quattro epoche : Eocene, Oligocene, Miocene e Pliocene. Esaminando il numero delle alternanze in ciascuna di esse, si deduce che l’epoca eocenica è della stessa du- rata delle altre tre prese insieme. Il limite fra il Cretaceo e l’Eocene è contrassegnato da una fase negativa (Suess), cioè la linea di spiaggia discese nelle alte latitudini; nell’Eocene salì di nuovo ed il mare eocenico si estese grandemente; tra l’Eocene e l’Oligocene si verificò una nuova fase negativa ; nel- l’Oligocene ed anche più nel Miocene il mare salì di nuovo nelle alte e medie latitudini; tra il Miocene ed il Pliocene la linea di spiaggia discese nuovamente e al principio del Quaternario salì di nuovo. Sembra quindi che l’èra terziaria corrisponda a due dei suaccennati cicli astro- nomici. Il primo comprende l’Eocene, il secondo l’Oligocene, il Miocene e il Pliocene. La corrispondenza tra la serie stratigrafica nelle diverse epoche e la curva delle eccentricità sono talmente sorprendenti, che, a gran fa- tica, può attribuirsi a puro caso. Appunto come un ciclo della curva è formato di 16 piccoli archi, ciascuno dei quali comprendente 4 a 5 pe- riodi di precessione, così l’èra terziaria consta di due cicli geologici, ciascuno dei quali presenta 16 oscillazioni della linea di spiaggia, ossia 16 piani geologici, e ciascun piano comprende 4 a 5 alternanze. Se adunque tutto ciò non è casuale possiamo dire che l’èra ter- ziaria durò circa 3 250 000 anni; l’Eocene tra 1 4/2 milioni e 1800 000 anni ; l’Oligocene, il Miocene e il Pliocene ebbero complessivamente la stessa durata. Dalla fine del terziario sono ormai decorsi 350 000 anni e da 100 a 300 mila anni ci separano dall’ epoca glaciale. Questo tempo sarebbe sufficiente per spiegare i cambiamenti sopravvenuti nelle specie animali e vegetali dal Cretaceo in poi. (B. L.) ♦ NOTIZIE DIVERSE La superfìcie della Calabria. — La superfìcie delle 3 provincie di Calabria, dedotta dalle cifre ufficiali, sarebbe di chilometri quadrati 17 257 (Reggio 3924, Catanzaro 5975, Cosenza 7358). Ho invece calcolato esattamente l’area di quella regione, deducen- dola dalle superfìcie comprese nelle tavolette della Carta dello Stato maggiore al 1/50 000. Queste tavolette hanno, il lato maggiore, della lunghezza di 15' di parallelo e quello minore di 10’ di meridiano. Esse hanno dunque la forma di un trapezio, e la superficie, compresa in quelle complete, varia, diminuendo col crescere della latitudine. La Calabria ò compresa fra i 37° 50’ e i 40° 10 di latitudine. La superficie di una tavoletta completa, va diminuendo, in media, di 0,93 di chilometro quadro. Infatti le tavolette complete, fra i 38° e i 40°, nelle 12 zone alte 10', comprese fra quei paralleli, avrebbero,, salendo dal Sud al Nord, le superficie seguenti: Chil. quad. 405.67 per S. Lorenzo. » 404.75 » Ardore. » 403.83 » Cittanova. » 402.91 » Mileto. » 402.00 » Filadelfia (se fosse completa). » 401.08 » Nicastro ( id. id. ). » 400.15 » Taverna. » 399.22 » Cosenza. » 398.28 » Acri. » 397.33 » Bisignano. » 396.40 » Castrovillari. » 395.47 » Cerchiara. Le tavolette incomplete, furono misurate, riducendo le superficie irregolari rappresentate, in altre regolari, aventi periati delle lunghezze espresse in 1' o 1" di grado. Per le lunghezze dei V e 1" dei gradi, di parallelo^ di meridiano, si — 151 — sono prese le misure date, corrispondentemente ai vari paralleli, da una pubblicazione dell’Istituto geografico militare, sulla formazione della Carta. La superficie totale della Calabria è risultata, in tal modo, di chi- lometri quadrati 15 131,90, quasi identica a quella trovata dal generale Strelbitsky, che è di 15 048 e per oltre 2000 chil. q. minore di quella tratta dai dati ufficiali. Il prof. Marinelli \ che già aveva fatto vedere quanta differenza esisteva fra queste due valutazioni, aveva dunque ragione di allarmarsi di questa diminuzione che subirebbe, nella sua valutazione, la super ficie di alcune regioni italiane. E. Cortese. La Hyaena striata nel terziario del Valdarno 1 2. — Nel Brìtìsh Mu - seum esiste una porzione di mascella sinistra di jena proveniente dal Valdarno, la quale fu dal sig. R. Lydekker, nel catalogo pubblicato nel 188"), classificata come di H. striata, e, poiché non si conosceva la presenza di quella specie entro strati pliocenici, considerata prov- visoriamente come pleistocenica. Più tardi, lo stesso autore, occupan- dosi di nuovo di quel campione, concluse ch’esso poteva appartenere al Pliocene superiore, e nel tempo stesso descriveva altro frammento proveniente dal Red Crag ed appartenente alla medesima specie. In un recente studio sulle jene fossili di Valdarno il dott. K. A. Weithofer, mentre accetta quest’ultima determinazione, afferma d’altro canto che tutti gli esemplari provenienti dal Valdarno a lui noti appar- tengono per il Pleistocene alla H. crocuta (spelaea), e per il Pliocene sono ad essa strettamente legati, considerando così inesatta la deter- minazione del campione del British Museum. A conferma però di quella determinazione, il Lydekker lesse innanzi alla Società geologica di Londra una nota. 1 G. Marinelli, La superficie del Regno d’ Italia secondo i più recenti studi; 3. edizione. Roma 1884. 2 Da una nota di R. Lydekker pubblicata nel Quarterly Journal of thè Geo - logicai Society, X. 181, London 1890. — 152 — L’esemplare in discussione è un frammento della mascella sinistra contenente l’intero quarto premolare, la metà posteriore incompleta del terzo premolare e traccie dell’estremità interna del vero molare. Raf- frontando le dimensioni del quarto premolare di questo esemplare, con quelle dell’esemplare del Red Crag e di due recenti, si vede che le differenze non escono dai limiti delle variazioni individuali, infatti si ha : recente. Red Crag. Valdarno. Lunghezza totale . . . m. 0.031 m. 0.0325 m. 0.0315 Larghezza a traverso il tubercolo interno » 0.019 » 0.018 y> 0.0195 Larghezza del tubercolo interno » 0.009 - 0.008 » 0.0075 » 0.009 Lunghezza del .1° lobo . » 0.009 » 0.010 » 0.010 » 2° » . » 0.011 » 0.015 » 0.011 » 3° » . » 0.011 » 0.011 » 0.0105 Il contorno dei denti nei differenti esemplari è assolutamente lo stesso; in tutti il turbercolo interno è molto grande e non s’estende così innanzi come l’orlo anteriore del primo lobo; e l’orlo superiore della corona della superficie esterna del terzo lobo è caratterizzato dall’acuta inflessione in giù, ciò che rende lo smalto della parte poste- riore di questa superficie molto limitato. La superficie esterna di questo terzo lobo è anche caratterizzata dalla netta scanalatura verticale me- diana. Nell’esemplare del Valdarno il vero molare è rappresentato solo in un minuto frammento, insufficiente per confronti: anche il terzo pre- molare è molto imperfetto, ma ciò che ne rimane concorda col corri- spondente della H. striata. Confrontando l’esemplare del British Museum con quelli figurati nel lavoro del Weithofer, appare a primo aspetto ch’esso non ha nulla che fare con la H. robusta; maggiori analogie, unite però a decise specifiche differenze, si riscontrano con il quarto premolare della H. to- pariensis ; la sua lunghezza è di metri 0.034, il suo tubercolo interno è minore e si estende tanto quanto l’orlo anteriore del primo lobo: l’orlo superiore della superfìcie esterna della corona del terzo lobo; non è deflesso, di guisa che si ha quivi una grande quantità di smalto, e manca la scanalatura verticale indicata per la H. striata. — 153 — Pare adunque accertata la presenza della H . striata nei depositi del Valdarno; e quello del British Museum , ne sarebbe finora il solo esemplare. Origine dei grandi laghi americani.' — Lo studio dell’idrografia dei grandi laghi dell’America del Nord, la scoperta di antichi canali, ora sotterranei, l’esame dei fenomeni glaciali della regione, la consi- derazione dell’ultimo gran sollevamento continentale e V investigazione dei cangiamenti degli antichi livelli del mare, ricordati dalle spiaggie ■sollevate, hanno condotto il prof. J. W. Spencer a proporre una spie- gazione dell’origine dei bacini di quei laghi. La valle originaria dello Erié comunicava con l’estremità occiden- tale del Lago Ontario (il Niagara è fiume moderno) per un canale, ora parzialmente nascosto da depositi di drift. Il Lago Huron, per mezzo della baia Georgiana, era una valle continua con quella del Lago On- tario; ma tra questi due corpi d’acqua, su una distanza d’intorno 95 miglia, essa è ora sepolta sotto centinaia di piedi di drift . La parte settentrionale del bacino del Lago Michigan si versava nel bacino dei- fi Huron, come attualmente; mentre quella meridionale comunicava con fiestremo Sud-Ovest dell’ Huron per un canale attualmente sepolto. Le parti ricoperte di un’antica valle, d’un grande fiume e dei suoi tribu- tari, sono in rapporto con canali sommersi nei laghi Huron ed Onta- rio, e formano il corso dell’antico S. Lorenzo, con un grande tributario dal bacino dell’ Erié ed un altro a traverso la parte meridionale dello stato di Michigan. Questa valle è molto antica e si formò in tempi d’un grande sollevamento continentale, che ebbe il suo massimo non molto prima del Pleistocene. E escluso, dalla disposizione dei corrispondenti depositi, che il fe- nomeno glaciale abbia potuto originare i bacini di cui si tratta. Durante il Pleistocene, e particolarmente alla fine del Tilt , il con- tinente era considerevolmente depresso e formaronsi estese linee di costa, le quali, da un successivo sollevamento furono portate alle * Da una nota di J. \V. Spencer letta alla Società geologica di Londra ( Pro - ceed. Geolog. Society of London, n. 555). — 154 grandi altezze dove ora si osservano ; si deformarono però sollevan- dosi, e la deformazione fu sufficiente per formare delle barriere alla uscita dei laghi. L’origine dei bacini può dunque attribuirsi alle valli d’erosione del- l’antico S. Lorenzo e dei suoi tributari, ostruite, durante il Pleistocene e sopratutto alla fine di esso, da barriere prodotte da movimenti del suolo che spostarono variamente la crosta terrestre : alcune furono ostruite da depositi di drift. La geologia delle Nuove Ebridi \ — Sotto il rispetto geologico l’arcipelago delle Nuove Ebridi può dividersi in tre gruppi, cioè: 1° Le ìsole madreporiche. — La natura ne è facilmente rico- noscibile al loro profilo tabulare, e risultano di piani di corallo più o meno elevati. In taluni punti può seguirsi il movimento di ascensione del suolo effettuatosi per gradi, in guisa darpermettere al mare di lasciar traccie di ciascun periodo. A Port-Vila vedonsi chiaramente tre gradini. Nell’isola Sandwich, al centro dei coralli, si hanno masse di lava, della quale trovansi frammenti nella sabbia della spiaggia. 2° Le isole vulcaniche. — Tali sono Tanna, Ambrym, Vanua- Lava, costituite in tutto o in parte di prodotti vulcanici. Ambrym, in particolar modo, è un cono di scorie, ricoperto da vegetazione ab- bondante. Le solfatare di Vanua-Lava sono molto interessanti. Quest’isola fa parte dell’arcipelago di Banks, a settentrione delle Nuove Ebridi pro- priamente dette, a 60 miglia circa da Spiritu-Santo: non è molto estesa, ed è formata da gneiss a grana fine ricoperto da trachiti e lave. Le trachiti contengono nei loro vacuoli dello solfo; e le acque in esse circolanti se ne caricano e vanno a deporlo a giorno, dando origine a camini conici, tipici dei depositi di Vanua-Lava. Le solfatare comin- ciano a sei o sette chilometri dalla costa settentrionale dell’isola e ad un’altitudine di 420 m. ; quivi il suolo, fìssurato, decomposto e caldo, trema sotto i piedi: d’ogni lato sorgono coni di dimensioni varie, da ciascuno 1 Da una nota di D. Levat, pubblicata nel giornale Le Colon de la Nouvelle Calédonie , 2me année, N. 407, Nouméa 1889. 155 — dei quali si sprigiona acqua ad elevata temperatura e solfo. Questo si deposita innalzando continuamente il cono e lasciando nel suo interna cavità tappezzate di fragili aghi magnifici. Più innanzi i coni di solfo alternano con bacini d’acqua bollente carica di solfo e solfuri, origine di un fiume d’acqua calda. Il maggiore di tali bacini, che ha un diametro di almeno 15 m., lancia in aria una colonna di vapor d’acqua visibile dal mare. La regione in cui si osservano i fenomeni precedenti (coni e ba- cini) misura intorno a 2 chilometri di lunghezza sopra una media lar- ghezza di 300 metri. E questo un deposito, interessante per la stia genesi del pari che per il valore del minerale. Non si può fare assegnamento sulla conti- nuazione dei coni in profondità, che il modo loro di formazione li indica come essenzialmente superficiali; ma per contro il deposito si rinnova, e lo solfo è, per così dire, chimicamente puro. 3° Isole Mallicolo e Spiritu-Santo. — La costa occidentale di queste isole, diruta e montuosa, mostra a primo aspetto non trattarsi di formazione madreporica, mentre invece la costa orientale presenta una serie di promontori orizzontali caratteristici di quella formazione sollevata. A differenza della prima, che è rettilinea, questa costa orien- tale offre numerose insenature, fra le quali s’annovera Porto San- dwich, il più bel porto dell’ arcipelago, vero lago di facile accesso e sicuro. Queste due isole presentano alla base un gneiss a grana fine, grigio, tenero, con intercalati calcari metamorfici molto duri, che ricor- dano la pietra litografica. Seguono numerose varietà di sienite : quella di Spiritu-Santo è a grana fine, grigio-chiara o verde-chiara. In queste sieniti trovansi piriti di ferro e di rame. Sulle sieniii si hanno porfidi di grande potenza, talvolta venati di rosso e di verde e traversati, in particolare modo, a Spiritu-Santo, da numerosi filoni di quarzo, in cui si fecero ricerche d’oro con risultato non ben conosciuto. Al capo Lisburn si ha una grande varietà di roccie variolitiche e vacuolari, le quali risultano d’una pasta nera o colore verde carico, molto dura e coperta di piccole vacuole bianche o di macchie circolari più chiare, talvolta le porosità contengono pirite. 156 — In queste isole si hanno molte altre roccie, come antiboli ti, quarzo concrezionato, ecc., ma assai meno diffuse delle precedenti. Nuova isola vulcanica nel Pacifico h — Nel 1867 il Falcon della marina inglese scopriva un alto fondo a 20° 20' lat. Sud e 175° 20' long. Ovest, cioè trenta miglia ad Ovest dell’isola Namouka del gruppo degli Amici o di Tonga. Nel 1877 un’ altra nave osservò che da quel punto sviluppavasi del fumo. Nel 1885, dopo un’eruzione sotto-marina, che ebbe luogo il 11 ottobre, si formò un’isola lunga 3 chilometri ed elevata di circa 75 metri sul livello del mare. Nel 1886 la sua lunghezza fu giudicata es- sere di 2200 m. e l’elevazione di 50 m. ; dal cratere che ne occupava la parte orientale si svolgevano dense colonne di fumo. Nel 1887 la sua altezza fu stimata essere di 88 metri. Queste determinazioni furono fatte da navi al loro passaggio presso l'isola; a partir dal 1887 essa fu studiata di proposito dal vascello inglese Egeria , comandante Oldham; se ne fece la Carta, e si sonda- rono le acque circostanti. Attualmente l’isola misura 1760 m. di lunghezza per 1440 di lar- ghezza. La parte meridionale è elevata e termina in un dirupo; il punto più alto è a 46 m. sul livello del mare. Una lunga striscia di terreno piano si distende verso settentrione. L’isola pare formata interamente di ceneri e scorie, che conten- gono qualche masso vulcanico, sopratutto ai piedi della collina. Questi materiali incoerenti possono offrire piccola resistenza alle onde solle- vate dai venti di Sud-Ovest, i quali sono quivi quasi costanti; gli sco- scendimenti sono continui, ed il comandante Oldham ritiene che il punto culminante doveva in origine trovarsi da 200 a 300 m. più a mezzodì; l’alto fondo che si estende verso il Sud, rappresenterebbe l’estensione primitiva dell’isola. L’esame di schizzi, presi nel 1887 e nel 1889, mostra che grandi cangiamenti si produssero nella forma dell’isola: il disegno più antico indica parecchie alture che non esistono più nell’altro. 1 Da una nota di W. J. L. Wharton, pubblicata nella Révue scientifìque, Tome 45, n. 12, Paris, 1890. - 157 — La regione piana, che, come si disse, occupa Ja parte settentrio- nale dell’isola, sembra formata in parte da materiali asportati alla meridionale. In essa vedonsi delle piccole elevazioni di 1 a 3 metri, originatesi, secondo il comandante Oldham, durante le tempeste e le maree primaverili, mentre il resto, che trovasi quasi al livello del mare, si depositerebbe in condizioni ordinarie. L’isola guadagna dunque da un lato ciò che perde dall’altro. All’epoca dell’ultima visita, il solo segno di attività vulcanica era un po’ di vapore che si sviluppava da fessure del dirupo meridionale. Inoltre in una laguna, l’acqua aveva una temperatura da 32° a 45° ; in un’altra, sulla spiaggia, la temperatura era di 53c, ed in una terza, sul versante della collina 37c,7. Queste temperature mostrano che la super- fìcie non era completamente raffreddata. Le lagune erano formate da acqua marina infiltratasi a traverso il suolo mobile, e il loro livello seguiva i movimenti della marea. L’ isola non s’è nè sollevata, nè abbassata in questi ultimi 2 o 3 anni. Una valle di 2000 m. di profondità la separa da Namouka e a 73 miglia a Nord-Xord-Est dell’isola esaminata, esiste l’isola Metis, pure vul- canica, comparsa qualche anno avanti quella, ma non ancora studiata. I campi auriferi dell’ Africa meridionale '. — L’ affluenza di popolazione ai nuovi campi auriferi dell’Africa meridionale continua ad essere considerevole. Johannesburg, la città centrale del distretto, sorta da due anni conta già 20000 abitanti. Il valore del terreno, dapprima quasi nullo, è perciò aumentato, sicché i lotti centrali si pagano 1540 lire l’ara, e quelli dei sobborghi 300 circa. La matrice delPoro è il quarzo; di modo che il metallo può otte- nersi solo colla frantumazione. Nella nuova regione, la speculazione è quindi meno incerta e il capitale vi accorre abbondante. Dicesi che il giacimento abbia 160 chilometri di lunghezza ed uno spessore considerevole. Johannesburg è a circa 3200 chilometri dal Capo di Buona Speranza, e promette di divenire il centro di una ab- bondante popolazione inglese, benché sia attualmente fuori del terri- torio inglese. Dall’ American Geologist, voi. V, n. 3, Minneapolis, 1890. Il deposito aurifero consiste di conglomerati; è questo un fatto non comune, che si verifica eziandio nella Nuova Scozia, dove però il gia- cimento è poco esteso. La direzione del giacimento è circa Est-Ovest, e rinclinazione varia da 45° a 80°. Eruzione di fango nell’Asia Minore ’. — Il 2 agosto 1889 a 64 chilo- metri da Erzerum, nell’Asia Minore, ebbe luogo una grande eruzione di fango. Il fianco della montagna si squarciò e dall’apertura sgorgò un tor- rente di fango che travolse il villaggio di Kantzorik con 136 dei suoi abi- tanti. La corrente si estendeva per circa otto chilometri con una lar- ghezza di 300 metri, e si calcolò che il suo volume era da 45 a 54 milioni di metri cubi. Essa seccò ed indurì alla parte superiore, restando però liquida inferiormente. La superfìcie era solcata da profonde fes- sure come quella di un ghiacciaio. Una polvere sottile prodotta dalla caduta di massi, fece spander la voce di una eruzione vulcanica ; ma manca qualsiasi indizio di qualche cosa di simile. In realtà fu uno scoscendimento operatosi su grande scala. La regione è costituita di roccie mesozoiche traversate da granito e da basalto, e la catastrofe fu probabilmente provocata dal rammollimento di qualche strato e dalla pressione esercitata su di esso dagli strati superiori. Scoperta di fosfati nella Florida A — La regione nella quale si è scoperto recentemente un deposito di fosfato apparentemente molto esteso, giace lungo i fiumi Wekiva e Withlacoochee, ed ha 160 chilo- metri di lunghezza e da 19 a 32 di larghezza. Il fosfato si trova a profondità che varia da 30 cent, a 18 metri e si presenta in generale entro tasche che hanno qualche volta 40 ettari di estensione e sono circondate da terreno sterile. Il minerale è tenero, e di rado richiede per essere scavato il fioretto e la mina. Quanto alla sua qualità i dati non concordano: taluni lo dicono molto ricco, da 50 a 90 0[Q di fosfato, in media 75 Ojq. Queste cifre sono naturalmente superiori al vero ; i minerali della Carolina del Sud hanno una ricchezza 1 Dall’ American Geologist, voi. V, n. 3, Minneapolis, 1890. 2 Id. id. id. — 159 — media di 50 Ojq e non è probabile che quello della Florida sia tanto migliore. L’apatite del Canada non superò le cifre più elevate fra quelle teste indicate, ed è di gran lunga il più puro dei minerali fosfatici. Convenientemente lavorato, il nuovo giacimento potrebbe dare utili importanti, il mercato dei fosfati essendo stabile ed estendendosi sempre maggiormente. I giacimenti di petrolio nell’ India.1 — Il petrolio nell’India si Trova nel Burmah superiore ed inferiore, comprese le isole Arakan, in Assam, nel Punjab e nel Beloochistan. Nell’ Arakan si credeva che i giacimenti più produttivi fossero quelli di Ramvi e dell’ isola Baranga orientale, nelle quali due località si ottenne petrolio di qualità superiore ed in alcuni casi abbastanza puro da essere abbruciato in lampade ordinarie allo stato naturale. Sono ben noti i giacimenti del Burmah superiore, situati presso Ye- nangyoung, il cui prodotto fu per lungo tempo un articolo di commercio. Quanto ai depositi di petrolio del Punjab, vi fu diretta l’attenzione specialmente dal punto di vista di fornire il combustibile liquido per uso delle ferrovie, i quali risultati furono già ottenuti colle trivella- zioni a Khatan nel Beloochistan. Nell’ India, come in Russia e nella Galizia, per le dislocazioni degli strati nei quali fu rinvenuto il petrolio, la perforazione incontrò non poche -difficoltà. Le maggiori quantità di petrolio furono quelle ottenute a Khatan, dove ognuno dei cinque pozzi già perforati è capace di fornire un pro- dotto di 50000 barili all’anno, quantità che si ritiene occorrere per la sezione Sand-Pishin della ferrovia Nord- Ovest. Il migliore petrolio di- stillato da illuminazione è quello di Arakan, però l’olio del Yenang- young ha un forte tenore in paraffina, che è un prodotto di molto valore, ed il ricavo in petrolio distillato da quest’ultimo può essere di molto aumentato adottando i nuovi processi proposti dai signori Dewar e Redvvood. 1 Da una memoria letta dal sig. Boverton Redwood in una riunione della Società di chimica industriale a Londra. PUBBLICAZIONE BELLA CARTA GEOLOGICA D’ITALIA PER CURA DEL R. UFFICIO GEOLOGICO PARTI PUBBLICATE (al 30 aprile 1890) Carta geologica della Sicilia nella scala di 1/100 000 : Foglio N. 244 (Isole Eolie) prezzo L. 3 00 Foglio N. 262 (Monte Etna). . L. 5 00 » 248 (Trapani) . . . » 3 00 » 265 (Mazzara del Vallo)» 3 00 » 249 (Palermo) . . . » 4 00 » 266 (Sciacca) . . . » 4 00 » 250 (Bagheria) . . . » 3 00 » 267 (Canicattì) . . . » 5 00 » 251 (Cefalù) .... » 3 00 » 268 (Caltanissetta) . » 5 00 » 252 (Naso) .... » 4 00 » 269 (Paterno) . . . » 5 00 » 253 (Castroreale) . . » 4 00 » 270 (Catania.) . . . » 3 00 » 254 (Messina) . . . » 4 00 » 271 (Girgenti) . . . » 3 00 » 256 (Isole Egadi) . . » 3 00 » 272 (Terranova) . . » 4 00 » 257 (Castelvetrano) . » 4 00 » 273 (Caltagirone) . . » 5 00 » 258 (Corleone) . . . » 5 00 » 274 (Siracusa) . . 275 (Scoglitti) . . . » 4 00 » 259 (Termini Imerese). » 5 00 » . » 3 00 » 260 (Nicosia) . . . » 5 00 » 276 (Modica) . . . » 3 00 » 261 (Bronte). . . . » 5 00 » 277 (Noto) . . . » 3 00 Tavola di sez. N. I (annessa ai fogli 249 e 258) L. 4 00 » » N. II (annessa ai fogli 252, 260 e 261) » 4 00 » » N. Ili (annessa ai fogli 253, 254 e 262) » 4 00 » » N. IV (annessa ai fogli 257 e 266) » 4 00 » » N. V (annessa ai fogli 273 e 274) » 4 00 ìl'.B. — L'intiera Carta della Sicilia, in 28 fogli e 5 tavole di sezioni, con quadro d'unione e copertina, è in vendita al prezzo di lire 400 . Carta geologica della Sicilia nella scala di 1/500 000 (serve anche di foglio di unione della precedente) con sezioni prezzo L. 5 00 Descrizione geologica delFIsola di Sicilia, con una Carta geologica, tavole in zincotlpia ed incisioni, dell’Ing. L. Baldacci prezzo L. 10 00 Carta geologica dell’ Isola d’ Elba, nella scala di 1/25 000 con sezioni annesse (in due fogli) prezzo L. 10 00 Descrizione geologica dell’ Isola d’ Elba, con Carta annessa nella scala di 1/50 000, delFIng. B. Lotti prezzo L. 10 00 Relazione sulle miniere di ferro dell’Isola d’Elba, con un atlante di carte e sezioni geologiche, dell’Ing. A. Fabri . . . prezzo L. 20 00 Carta geologico-mineraria dell’ Iglesiente (Sardegna), nella scala di 1/50 000 (in un foglio) prezzo L. 5 00 Descrizione geologico-mineraria dell’Iglesiente, con un atlante di XXX tavole e una Carta geologica, dell’ Ing. G. Zoppi. . . . prezzo L. 15 00 Carta geologica della Campagna Romana e regioni limitrofe, nella scala di 1/100 000 (sei fogli e una tavola di sezioni) . prezzo L. 25 00 X. B. — Sono pure in vendita i fogli separati ai prezzi seguenti : Civitavecchia ( L . 4) Bracciano ( L . 5); Palombara (L. 5); Cerveteri (L. 4); Roma ( L . 5); Cori ( L . 4). Carta geologica dell’Italia, in due fogli, nella scala di 1/1 000 000 (seconda edizione riveduta della Carta pubblicata nel 1881). . . prezzo L. 10 00 Per le commissioni rivolgersi al R. Ufficio Geologico (Via S. Susanna, 1) ovvero alla Libreria E. Lòescher, in Roma. Pubblicazioni in vendita presso l’Ufficio Geologico Bollettino dei R. Comitato Geologico d’Italia; Voi. I a XX, dal 1$>70 al — Prezzo di ciascun volume . L. Idem di un fascicolo bimensile separato » N.B. - Il prezzo di abbonamento annuo e di L. 8 per V interno e di L. IO per Testerò. Memorie per servire alla descrizione della Carta geologica d’Italia: Voi. I. Firenze, 1872 » Voi. II. Firenze, 1873-74 » Voi. III. Firenze, 1876-88 » I. Cocchi. — Brevi cenni sui principali Istituti e Comitati geologici e sul R. Comitato Geologico d’ Italia. Firenze, 1871. » P. Zezi. — Cenni intorno ai lavori per la Carta geologica in grande scala. Roma, 1875 » F. Giordano. — Esposizione in ordine cronologico delle principali disposi- zioni successivamente emanate relativamente alla Carta geologica d’Italia. Roma, 1879 F. Giordano. — Sopra un progetto di legge per il compimento della Carta geologica d’Italia. Roma, 1880 » F. Giordano. — Cenni sull’organizzazione e sui lavori degli Istituti geologici esistenti nei vari paesi. Roma, 1881 » G. Capellini. — Relazione a S. E. il Ministro di Agr. Ind. e Comm. sul Congresso geologico internazionale* del 1881. Roma, 1881 .... » C. W. C. Fucii s. — Carta geologica dell’Isola d’ Ischia ; scaladi 1/25,000. Firenze, 1873 » C. Doelter. — Carta geologica delle isole Ponza, Palmarola e Zannone; scala di 1/20,000. Roma, 1876 » C. De Giorgi. — Abbozzo di Carta geologica della Basilicata; scala di 1/400,000. Roma, 1879 » C. De Giorgi. — Carta geologica della provincia di Lecce; scala di 1/400,000. Roma, 1880 ’ » G. Capellini. — Carta geologica dei fhonti di Livorno, di Castellina Ma- rittima e di parte del Volterrano ; scala di 1/100,000. Roma, 1881 . » G. Capellini. — Carta geologica della provincia di Bologna ; scala di 1/100,000. Roma, 1881 » i G. Capellini. — Carta geologica dei dintorni del golfo di Spezia e Val di Magra inferiore; 2a edizione; scala di 1/50,000. Roma, 1881 . . » T. Taramelli. — Carta geologica del Friuli, con testo descrittivo ; scala di 1/200,000. Udine, 1881 Bibliographie géologique et paleontologique de l’Italie. Bologne, 1881 . . > Bibliografia geologica e paleontologica della provincia di Roma. Roma, 1886 » Bibliografia geologica italiana per l’anno 1886. Roma, 1887 » Idem idem per l’anno 1887. Roma, 1888 » Idem Idem per l’arno 1888. Roma, 1889 » 1889 10 -- 2 - 35 — 30 — 25 — 1 50 1 — 1 — 1 50 1 50 1 — 2 — 2 — 2 — 2 — 3 — 4 — 3 — 7 — 10 — 2 — ' 1 50 1 50 1 50 Annunzi di pubblicazioni A. Portis. — I rettili pliocenici del Valdarno superiore e di alcune altre località plioceniche di Toscana. — Firenze, 1890; pag. 32 in4° con due tavole. Cl. Montem artini. — Composizione chimica e mineralogica di una roccia serpentinosa di Borzonasca (Atti della R. Acc. delle Scienze di Torino Voi. XXV, Disp. 4a). — Torino, 1890. G. Capellini. — Sul Coccodriiliano gavialoide scoperto nella collina di Cagliari nel 1868 (Rendiconti della R. Acc. dei Lincei, Voi. VI, fase. 5°). — Roma, 1890. Fu. Sansoni. — Giornale di mineralogia cristallografìa e petrografìa; Voi. 1", fase. 1°. — Milano, 1890; pag. 90 in-8° con 5 tavole. F. Sacco. — Catalogo paleontologico del bacino terziario del Piemonte (Bollettino della Società Geologica Italiana, Voi. Vili, fase. 3°). — Roma,. 18.0; pag. 76 in-S°. A. Verri. — Note e scritti sul pliocene umbro-sabino e sul vulcanismo tirreno (Ibidem). — Roma, 1890; pag. 82 in 8°. A. Neviani. — Contribuzioni alla geologia del catanzarese (Ibidem). — Roma, 1S90; pag. 16 in -8°. G. Ristori. — Il bacino pliocenico del Mugello (Ibidem). — Roma, 1890; pag. 36 in- 8°. R. Meli. — Sopra i resti fossili di un grande avvoltoio (Gyps) racchiuso nei peperini laziali (Ibidem). — Roma, 1890; pag. 56 in-8u. G. Struever. — Ematite di Stromboli (dalle Memorie della R. Accademia dei Lincei, S. IV, Voi. 6U). — Roma, 1889; pag. 10 in-4° con una tavola. C. F. Parona. — Sopra alcuni fossili del Biancone veneto (Atti del R. Isti- tuto Veneto, S. 7a, T. I, Disp. 4a). — Venezia, 1890; pag. 25 in- 8°. E. Nicolts e G. B. Negri. - Sulla giacitura e natura petrografia dei basalti veronesi (Ibidem, S. 7a, T. I, Disp. 5il). — Venezia, 1890; pag. 11 in- 8". F. Sacco. — 11 bacino terziario del Piemonte; Parte terza (Atti della So- cietà Italiana di Scienze Naturali, Voi. XXXII, fase. 4°). — - Milano, 1890;- pag. 60 in 8". ». S. Squinabol. — Di un tipo paleocenico di Quercinea ritrovato nel mio- cene inferiore di Santa Giustina e di alcune altre piante rare del medesimo giacimento (Atti della Società Ligustica di Scienze naturali e geografiche, Voi. 1°, n. 1). — Genova, 1890; pag. 5 in- 8° con una tavola. Idem. — Alghe e pseudoalghe italiane (Ibidem). — Genova 1890; pag. 20in-8°. Idem. — Cenni preliminari sopra un cranio ed altre ossa di « Anthraco- therium magnum » Cuv. di Cadibona (Ibidem). — Genova, 1890; pag. 6 in -8°. A. Issel. — Dei noduli a rodiolarie di Cassagna e delle roccie silicee e manganesifere che vi si connettono (Ibidem). — Genova, 1890; pag. 9 in-8°. Idem. — Il calcifiro fossilifero di Rovegno in Val di Trebbia. — Genova, 1890 ; pag. 30 in-8° con due tavole. F. Sacco. — I molluschi dei terreni terziarii del Piemonte e della Liguria; Parte VI. — Torino, 1890; pag. 70 in-4° con due tavole. L. Meschinelli. — La flora dei tufi del Monte Somma (Rendiconto dell’Ac- cademia delle Scienze fìs. e mat. di Napoli, S. 2a, Voi. IV, fase. 4°). — Napoli, 1890; pag. 6 in- 8°. ... B E. Scacchi. — Sulla Hauerite delle solfare di Raddusa in Sicilia (Ibidem) - — Napoli, 1890. fi. COMITATO GEOLOGICO ‘ D’ITALIA. 18 9 0 Bollettino N.° 5 e 6 Maggio e Giugno tìl £ ROMA TIPOGRAFIA NAZIONALE 1890, ELENCO del personale componente il Comitato e l’Ufficio Geologico R. Comitato Geologico. Capellini Giovanni, prof, di geologia nella R.Università di Bologna, Presid. Cocchi Igino, prof, di geologia, a Firenze. Cossa Alfonso, prof, di chimica nella R. Scuola di applicazione per gli ingegneri in Torino. De Zigno Achille, membro del R. Istituto Veneto, a Padova. Gemmellaro Gaetano Giorgio, prof, di geologia, R. Università di Palermo. Omboni Giovanni, prof, di geologia nella R. Università di Padova. Scacchi Arcangelo, prof, di mineralogia nella R. Università di Napoli. Scarabelli Giuseppe, senatore del Regno, a Imola. Silvestri Orazio, prof, di geologia nella R. Università di Catania. Stoppani Antonio, professore di geologia nel R. Istituto tecnico supe- riore di Milano. Struver Giovanni, prof, di mineralogia nella R. Università di Roma. Taramelli Torquato, prof, di geologia nella R. Università di Pavia. Il Direttore del R. Istituto geografico militare in Firenze. Giordano Felice, ispettore-capo del R. Corpo delle Miniere, a Roma. Pellati Niccolò, ispettore nel R. Corpo delle Miniere, a Roma. Personale addetto ai lavori della Carta Geologica. Direzione superiore : Ing. Giordano Felice, Direttore. Ing. Pellati Niccolò. Ufficio geologico: Ing. Zezi Pietro, Capo d’ufficio e Segretario del Comitato. Ing. Sormani Claudio. Dott. Di Stefano Giovanni, paleontologo. Ing. Aichino Giovanni. Sig. Lusvergh Cesare, aiutante. Geologi operatori : Ing. Baldacci Luigi. Ing. Lotti Bernardino. Ing. Cortese Emilio. Ing. Zaccagna Domenico. Ing. Mattirolo Ettore. Ing. Viola Carlo. Ing. Novarese Vittorio. Ing. Sabatini Venturino. Ing. Franchi Secondo. Sig. Fossen Pietro, aiutante. Sig. Cassetti Michele, aiutante. Sig. Moderni Pompeo, aiutante. La sede dell’Ufficio geologico è in Roma nel Museo agrario-geologico , via Santa Susanna, n. 1-A. BOLLETTINO DEL R. COMITATO GEOLOGICO D’ ITALIA. Serie III. Voi. I. Maggio e Giugno 1890. N. 5 e 6. SOMMARIO. Memorie originali. — I. I Machairodus o Meganthereon del Valdarno superiore; memoria del Dott. E. Fabrini (con tre tavole). ( Continuazione e fine). — - IL Le Scimmie fossili italiane; studio paleontologico del Dott. G. Ristori (con due tavole). — III. Sul giacimento cuprifero di Montajone in Val d’Elsa i provincia di Firenze); nota dell’Ing. B. Lotti. — TV. La breccia ossifera del Monte Rocchetta (Golfo di Spezia); nota del Prof. D. Carazzi. Notizie biblioorafiche. — Bibliografìa geologica italiana per l’anno 1889. Avviso di pubblicazione della Carta geologica d’Italia. Tavole ed incisioni. — Tav. IV, V e VI: Resti di Machairodus o Meganthereon del Valdarno superiore ; a pag. 176. Parte ufficiale. — Lettera con la quale il Presidente del Comitato trasmette al Ministro di Agricoltura, Industria e Commercio i verbali delle sedute 11, 12 e 13 giugno 1890. — Verbali delle adunanze 11, 12 e 13 giugno 1890. — Relazione annuale del Direttore al R. Comitato geologico sul lavoro della Carta geologica. MEMORIE ORIGINALI I. 1 Machairodus ( Meganthereon ) del Valdarno superiore; me- moria del Dott. Emilio Fabrini. (Con tre tavole). ( Continuazione e fine ; V. fascicolo n , 3-4). MACHAIRODUS ( Meganthereon ) CREN A TIDENS, nov. sp. (Tav. V, fig. 4, 6 ; Tav. VI, fig. 3, 4, 5). Sinonimia.1 1869 Machairodus sp. . . Ray Lankester, O/i thè occurrence of Machairodus in thè Forest-Bed of Norfolk (The Geol. Ma- gazine, voi. VI, pag. 440, PI. XVI). 1 Parlando del M. cultridens, non abbiamo premesso questa parola alla serie dei nomi e degli Autori citati: ma, come chiaramente apparisce dalla storia che facciamo di detta specie, si sottintende; ivi non abbiamo che citato i nomi attribuiti a quella forma o a forme identiche e però non figura nella sinonimia il M. cultridens del Kaup, del Gervais, di Pikermi, di Mont-Leberon, ecc., tipo molto lontano dal M. cultridens del Val d’Arno, e .che oggi si conosce col nome di M. leoninus Rot. e Wag. ; e neppure poteva figurarci il M. cultridens di-Bra- vard (che è il M. arcernensis Croiz e Job.) per la stessa ragione. 1877 Machairodua megan- thereon (non Bravarci). A. Verri, Alcune linee sulla Val di Chiana e luoghi 1883 Machairodua megan- adiacenti. Pavia, pag. 55 e 99. thereon (no a Bravarci). F. -Major, On thè Mammalian Fauna of thè Val d’ Arno (Quarterly Journal of thè Geological Society of London, voi. XLI, pag. 1-8). 1886 Machairodua sp. . . Backhouse, On a mandible of Machaerodus from thè Forest-bed. With an Appendix by R. Lydekker Esq. B. A; F. G. S. (The Quarterly Journal of thè Geological Society of London, voi. XLII, 1889 Machairodua creila- Pag* 309-312, tav. X). tidens Weithofer, Ueb. tert. Landf. It. (Jahrbuch der k. k. geol. Reichsanstalt, 39 Band, I. Heft). Di lunghezza uguale al canino superiore del M. eultridens , ma di larghezza e di caratteri ben differenti, sono due canini superiori si- nistri ritrovati, uno, quello meglio conservato, nei fondi Restoni presso Figline nel 1862; l’altro nel 1879 a Monte Carlo presso S. Giovanni: ambedue nel Val d’Arno superiore. Dei due descriveremo minutamente quello più perfetto; essendo l’altro, identico a questo, rotto a metà, quasi, della corona. Esso (Tav. VI, fìg. 3) misura in lunghezza mm. 145, sopra una larghezza massima di centimetri 3,5 alla distanza di centimetri 7 dall’estremità radicale; è leggermente troncato al vertice della corona, ma è facile arguire dalle altre dimensioni qual sia la lunghezza della parte mancante; forse due millimetri e mezzo, circa. Lo spessore è, nella parte più grossa, di mm. 16. Da questi dati si capisce qual differenza passi tra questo dente e quello del M. eultridens : mentre quest’ultimo è più sottile, più stretto in tutta la sua lunghezza, e quindi più esile e più slanciato; l’altro è più largo nel senso longitudinale, più massiccio, più robusto. Aggiungi, che quello del M. eultridens è liscio nei margini: questo ha invece, tanto sull’orlo, concavo, che sul convesso, delle dentellature o seghettature caratteristiche, che dovevano contribuire potentemente a rendere l’azione del dente più efficace e l’animale più terribile. E facile, infatti, comprendere come quelle del margine poste- riore, che è già tagliente di per sè, dovevano aiutare l’azione del re- cidere, una volta che il dente fosse penetrato nelle carni della vit- tima, e l’animale cercasse di dilaniarne le carni; e quelle del margine anteriore, che veniva a contatto col margine posteriore, anche esso denticolato, del canino inferiore corrispondente, facilitavano il penetrare - 163 — di esso dente nelle carni della preda. In complesso, questo canino su- periore ci rivela un animale assai più terribile e feroce del M. cultridens. Sebbene non si possa in questo esemplare, con tutta precisione, sta- bilire dove cominci la parte coronale e dove quella radicale, non ci dob- biamo allontanare molto dal vero affermando che il limite tra le due porzioni doveva essere verso la metà, a circa 5 centimetri dall’estre- mità radicale, come si può arguire osservando la faccia interna che è meno sciupata. Dairestremità superiore della radice, più ottusa che nella specie cultridens , questo canino cresce gradatamente per tutto il 1° terzo su- periore, raggiungendo il massimo dello spessore prima di aver raggiunto il massimo della larghezza. Nei y- che seguono, il dente va sensibilmente restringendosi. In esso si possono descrivere due faccie, l’esterna e l’interna; due mar- gini, l’anteriore e il posteriore; due estremità, la superiore e la inferiore. La faccia interna convessa per tutta la porzione radicale, s’incava al cominciare della corona di modo, che., pur rimanendo un poco con- vessa nella direzione trasversale, diventa concava in quella longitudi- nale (V. sezione, fig. 4, Tav. VI). La corona di questa faccia, sempre diminuendo in larghezza, va acquistando, mano a mano che discende, una maggiore convessità nel senso trasversale fino alla punta. Nella radice si notano delle sol- cature e dei rilievi che la percorrono longitudinalmente e che sono più manifeste all’apice, ove tutte si raccolgono. La faccia esterna uon presenta come l’interna, al limite tra la ra- dice e la corona, la concavità longitudinale: essa è tulta uniforme- mente convessa, rimanendo la linea di massima curvatura, specialmente nella corona, più vicina al margine anteriore che al posteriore; mentre nella faccia interna, questa direzione di convessità maggiore è rappre- sentata dalla linea mediana di quella superficie. Si notano anche in questa faccia delle scabrosità dovute a incavature e a rilievi lineari; ciò si osserva soltanto nella radice. Nel margine anteriore, convesso per tutta la sua lunghezza, si no- tano, nella porzione superiore, delle scabrosità; nella porzione radi- cale è smussato; mentre lungo tutta la corona diventa tagliente e mostra delle denticolature molto evidenti. La curva presentata da - 164 — questo margine è minore di quella dell'orlo posteriore ed è anche mi- nore di quella anteriore del canino del M. eultridens. Il margine posteriore è concavo ed è in tutte le sue parti più ta- gliente del margine convesso; i denticoli sono più acuti sul margine posteriore che su l’altro, e cominciano un poco più in alto; la differenza,., che passa tra queste due curve e i loro raggi, è maggiore di quella che corre tra i due raggi delle due curve marginali del canino del M. eultridens . Dell’apice superiore abbiamo già detto qualcosa; è smussato, pro- babilmente un poco rotto; è più ottuso che nel M. eultridens. L'apice inferiore è leggermente troncato; doveva essere molto aguzzo.. L’altro dente, che abbiamo già rammentato, appartiene alla stessa specie; esso è più logorato sull’orlo anteriore, talché non rimano più traccia di dentellature; ma la direzione e le modalità di questo stesso logoramento dimostrano che prima le dentellature vi erano; del resto, tutti i caratteri, 1’ aspetto, le dimensioni medesime, meno leg- gerissime modificazioni, esistenti sempre tra individuo e individuo, ri- mangono identiche. Queste diversità consistono nell’essere quest’ultimo meno ottuso nella sommità radicale e nel presentare, sulla faccia in- terna, due solchi longitudinali appena visibili, separati da un rilievo; ciò che non si nota sulla faccia interna del dente già descritto. Infe- riormente è troncato quasi per tre centimetri; esso appartiene, come pure l’altro, al mascellare superiore sinistro. Degli altri frammenti di canini superiori che si trovano nel Museo di paleontologia di Firenze, alcuni si possono senza dubbio attribuire a questa specie, come quello trovato a Chiusi in un ipogèo, e quindi, proba- bilmente, proveniente dai terreni pliocenici marini della Vai di Chiana, lungo mm. 61, nel quale la dentellatura su i due margini è distintissima. Due altri frammenti di canini superiori, ritrovati nel Val d’Arno,, ancora dobbiamo rammentare. Uno appartiene alla parte mediana di un canino superiore destro, ed è lungo m. 0,074; l’altro, acquistato dai colono Brilli nel 1886, è una radice completa. I caratteri morfologici, che essi presentano, permettono di riunirli nella stessa specie fondata sopra i due canini più completi rammentati e descritti. Dallo studio, che abbiamo fatto di questi canini superiori, risulta, che essi non appartengono a nessuna delle specie fino ad ora cono- sciute. Di queste, fra le meglio note, due soltanto hanno dentellature sui due margini, il M. latidens di Owen e il leoninus di Roth e Wa- gner. 1 II canino del M. latidens di Owen ha differenze spiccate in confronto con questi del Val d’Arno: più largo, molto più compresso lateralmente, ha una corona che, in proporzione della radice, ò molto più corta; le dentellature dei suoi margini sono molto più profonde e benissimo distinte, e rammentano i denti di una sega (Boyd Dawkins and A. Sanford, The British Pleistocene Mammalia , part I, London, 1866, pag. 184-192). Del M. leoninus , o meglio, aphanista di Kaup, si conosce solo che la porzione mediana del canino superiore destro trovata a Pikermi e figurata da Suess (E. Suess, Ueher die grossen Raubtliiere der ósterreichischen Tertiàrablagerungen ; Sitzungsber. der Akademie der Wissenschaften: Voi. 43, pag. 220, Taf. I, fìg. la’ lb>lc>). Questo fram- mento mostra sui margini delle dentellature assai diverse da quelle del -M. latidens ; esse si possono identificare a quelle che si riscontrano nei canini del Machairodus erenatidens di Toscana. Ciò che ci impe* disce di unire questi ultimi denti a quello descritto da Roth e Wagner, è che il dente di Pikermi è tanto rassomigliante per forma e dimen- sioni a quello di Eppelsheim (Suess, pag. 220) che attualmente l’uno e Taltro sono riuniti nella stessa specie; ora, nessun paleontologo può confondere il dente di Eppelsheim con quelli che abbiamo descritti: nel primo, le proporzioni tra la larghezza e la lunghezza, l’andamento delle curve, le dimensioni son ben differenti da quelle presentate dal canino ■superiore del M. erenatidens. Due branche di mandibole pure esistono nel Museo paleontologico, le quali è probabile abbiano appartenuto ad animali di questa specie; per ora mancano i criteri per ritenere ciò come positivo. Furono am- bedue trovate allTnfernuzzo, presso Terranuova, nel Val d’Arno supe- riore, dal colono Pacciani. Hanno ambedue tra loro molta rassomiglianza, specialmente nei denti, e appartengono certamente alla stessa specie: una è la branca destra (Tav. V, fig 4); l’altra è la branca sinistra 1 Questa specie, come già dissi, fu impropriamente chiamata M. cultridens da Kaup, Suess, Gaudry e da altri. Probabilmente a questa specie va riunito anche il Machairodus di Mont-Leberon e di Aubignas. - 166 — (Tav. VI, fìg. 5). Delle due la più conservata è la branca destra; porta, il ferino troncato posteriormente, due premolari intatti, il canino tron- cato nella corona e l’incisivo più esterno. In corrispondenza della rot- tura del ferino anche 1* osso mandibolare è troncato, per cui la parte rimasta si estende dalla metà del lobo posteriore del ferino, al primo incisivo. Le rotture e le compressioni subite nell’atto delia fossilizza- zione hanno così modificato questa branca mandibolare, che dei veri e propri caratteri specifici male si possono trarre da essa. Il diastema è molto largo e incurvato. Più utili, perchè meno incerte, sono le os- servazioni che possiamo fare sui denti. Notiamo intanto che i denti di questa mandibola sono tutti più grandi di quelli della specie cultridens. Il ferino del mascellare superiore, mantenendo sempre quella forma tipica, costante, in tutta la famiglia dei Felidae , viene qui ad acquistare dimensioni ragguardevoli, avendo il suo colletto la lunghezza di m. 0,032,. mentre il colletto del ferino corrispondente del leone è in media circa m. 0,023, e quello della tigre è qualche millimetro ancora più corto, come risulta da misurazioni prese su crani del Museo Zoologico di Firenze. Il ferino inferiore del M. cultridens è m. 0,023. I lobi del ferino, o primo molare, nella mandibola che studiamo, sono due, ed hanno subito notevoli modificazioni per l’attrito: la faccia esterna è leggermente convessa e presenta delle rugosità, delle granulazioni caratteristiche: i tubercoli hanno forma lanceolata, e la corona, tanto in questo che in tutti gli altri denti appartenenti ad animali di questa specie, è im- piantata quasi verticalmente sulla radice, mentre nel M. cultridens è obliqua. La faccia interna mostra una infossatura molto pronunciata in corrispondenza alla linea di unicne dei due tubercoli, contribuendo a formarla il tubercolo anteriore colla metà posteriore, e il tubercolo posteriore con la sua metà anteriore: l’altra metà del 1° tubercolo è convessa; la porzione posteriore del tubercolo posteriore manca. Il 1° premolare ha tre tubercoli: il posteriore, il mediano e l’anteriore. Il tubercolo anteriore è più basso del mediano e del posteriore; il me- diano, più alto di tutti, è più obliquo dall’avanti all’indietro. Quello po- steriore ha sulla radice la stessa direzione, mentre quello anteriore ha> una direzione più verticale. Questo 1° premolare si allontana dai pre- molari della tigre e del leone per i rapporti, che hanno tra loro i di- versi tubercoli dentari in questi due animali. Infatti i lobi laterali hanno minore sviluppo che in questa specie di Machairodus. La massima lun- ghezza del dente in corrispondenza del colletto è di m. 0,022; la mas- sima altezza in corrispondenza del tubercolo mediano è di m. 0,015. Il 2° premolare ha il lobo mediano molto sviluppato, in confronto con gli altri due, che lo sono pochissimo: la corona ha una direzione leg- germente obliqua aU’iridietro: su i due margini del tubercolo mediano si notano delle seghettature : è lungo m. 0,012 e alto m. 0,010. Del canino è rimasta la radice molto lunga e massiccia e pochi millimetri della corona che offre traccie di seghettature. L’ unico inci- sivo rimasto, il più esterno di tutti, ha una radice lunga circa m. 0,040; la corona, troncata in cima, è convessa sulla faccia anteriore e con- cava sulla posteriore; essa porta sui lati due creste ben pronunciate. L’osso mandibolare dell’altra branca è molto più deformato di quello che abbiamo ora descritto; ma i caratteri forniti dal 1° mo- lare, dal 1° premolare e dall’incisivo esterno, i soli dei quali possiamo stabilire il confronto con quelli dell’ altra branca, sono tali, da farci credere non solo si tratti della stessa specie, ma da dispensarci anche dalla loro descrizione. Il ferino e il primo premolare mostrano, anche in questo fossile, quella asperosità o sagrinatura che già abbiamo notato nei denti dell’altra mandibola, e che troviamo costante nei mo- lari e premolari più specialmente, e nei canini inferiori di tutta la specie. Questo carattere non lo si osserva nei denti delle altre due specie di Machairodus del Val d’Arno, che sono affatto lisci. Il canino è presente quasi intero da ambo i lati e quello destro mostra, sulle due creste laterali, delle dentellature ben marcate. Gli incisivi, tre per lato, si trovano in buono stato di conservazione ed hanno quelle dimensioni considerevoli, che costituiscono uno dei caratteri più salienti del genere Machairodus. Le corone di questi incisivi presentano una forma che si avvicina alla conica; però quelli più interni sono più compressi la- teralmente. In ciascuno si notano due faccie, l’anteriore e la posteriore, separate da due creste, che sono più distinte negli incisivi più esterni. La faccia esterna o anteriore è convessa tanto longitudinalmente che trasversalmente; quella interna invece è concava nella prima direzione, mentre è convessa nella seconda. L’incisivo più interno sinistro, che è più conservato dell’incisivo interno destro, mostra la sua faccia anteriore pianeggiante, e rasso- miglia non lontanamente agli incisivi dei cani. La branca mandibolare è talmente deformata, che a nessun pratico risultato si giungerebbe descrivendola. Si comprende però che in con- fronto colle branche mandibolari di certi felini viventi, come leone, tigre, ecc., era più sottile e quindi più gracile: è piuttosto alta; e mi- sura in lunghezza, dal principio della corona del canino, all’incavatura sigmoidea (tra il condilo e il processo coronoide) m. 0,15. A questa stessa specie appartiene un canino inferiore destro, ri- trovato insieme a uno dei due canini superiori mentre eseguivasi sotto la direzione del Prof. I. Cocchi uno scavo per conto del R. Museo di storia naturale e del march. Carlo Strozzi nei fondi Restoni, nei din- torni di Figline (1862): in esso le dentellature non si veggono che per piccolo tratto sul tallone sinistro e queste vietano di poterlo ri- guardare, come era stato fatto, quale un incisivo; perchè nessun incisivo, che si sappia, ha in questo genere simili denticoli; inoltre come incisivo sarebbe troppo grosso. Le due linee rilevate o creste sono scomparse, essendo stato lo smalto in quei punti asportato: è complessivamente lungo m. 0,054 ed è un poco rotto alla estremità coronale : le sue di- mensioni sono presso che uguali a quello della branca mandibolare ultimamente descritta. Attribuiamo a questa nuova specie di Machairodus alcuni denti isolati che si conservano nel Museo paleontologico di Firenze e sono: due inci- sivi superiori appartenenti forse allo stesso individuo e ritrovati all’Infer- nuzzo nel Val d’Arno superiore, nello stesso anno 1874 e nello stesso luogo ove si rinvennero le due branche di mandibola già descritte: due secondi premolari scoperti pure allTnfernuzzo nel 1874, uno supe- riore e uno inferiore. Tutti questi denti presentano lo stesso grado di fossilizzazione e sono tutti sagrinati sulla corona: può darsi abbiano appartenuto allo stesso individuo. Ancora tre ferini rimangono, riferibili alla stessa , specie : due sono incompleti (ritrovati nel Val d’Arno, località precisa ignota) ed appar- tengono all’antica collezione del Museo: uno è un ferino superiore sinistro, l’altro un ferino inferiore destro: quello superiore è stato rife- rito dal Nesti . (lettera terza al Savi) a unajena; sono ambedue rugosi sulla faccia esterna. Il terzo è un ferino superiore destro ottimamente conservato (Tav. V, fìg. 6), del quale occorre dare qualche cosa di più - 169 — ohe una semplice citazione. Ha tre tubercoli: l’anteriore più piccolo; il mediano più allungato; il posteriore più largo. Anche su questo dente si notano le rugosità, che ormai si possono ritenere come un carattere specifico, e che sono evidentissime nel tubercolo posteriore. Le radici sono tre, delle quali la posteriore larghissima, è molto robusta e semi- elittica: sopra di essa è impiantata la corona del tubercolo posteriore e metà di quella del tubercolo mediano. La faccia interna mostra una larga superfìcie di consumo. Le sue principali dimensioni sono : Lunghezza della corona cm. 4,5 Altezza del lobo mediano » 1,8 Altezza del dente in corrispondenza della radice posteriore » 3,7 Altezza della radice posteriore » 2,5 Altezza della radice anteriore esterna » 2,9 Spessore del dente in corrispondenza del tubercolo po- steriore » 1,3 Da tali misure è facile arguire che questo dente ha dimensioni molto maggiori di quelle del M. cultridens e dei felini viventi. Devesi alle cure del Prof. C. D’Ancona se si trova nel Museo dell’Istituto superiore un modello di cranio di Machairodus dell’originale facente parte della ricca collezione paleontologica del compianto mar- chese Carlo Strozzi. In questo modello di cranio, assai completo, sfortu- natamente i margini anteriore e posteriore dei canini superiori non si sono potuti ben riprodurre, ed hanno perduto il loro spigolo tagliente e, conseguentemente, le dentellature caratteristiche. Però sul margine convesso si vede qualcosa che le rammenta. Del resto, la forma di questi canini superiori è quella che già ab- biamo notato in quei due, su cui abbiamo fondato questa specie. Cer- tamente i canini di questo modello non si possono confondere con quelli del M. cultridens'. un poco più si avvicinano a quelli posseduti da un altra nuova specie pure del Val d’Arno, che fra poco studie- remo; ma in questa la dentizione che si nota su la mandibola è ben diversa da quella offertaci dalla mandibola del modello. Inoltre anche gli altri denti di quest’ultimo, e specialmente gli incisivi e i premolari, rassomigliano molto a quelli già attribuiti alla specie di cui ci siamo ora occupati. Qualche differenza pure vi ha: così la mandibola dei 170 — modello, a partire dalla incavatura sigmoidea al colletto del canino, mi- sura 14 V2 centim., mentre nella branca mandibolare già studiata (Tav. V? fig. 4) gli stessi punti distano di centim. 15. Anche il ferino inferiore è, nel modello, un poco più piccolo, come è anche più piccolo il 1° premolare. Ma sono, come si vede, leggere differenze, cui non si può annet- tere grande importanza. Ecco alcune delle principali dimensioni di questo modello in gesso: Altezza della mandibola in corrispondenza del processo coronoideo ero. 6,8 Altezza della mandibola in corrispondenza del diastema . » 3,5 Lunghezza del diastema » 4,0 Id. del mento » 4,9 Id. del canino superiore (faccia esterna) . ...» 7,2 Larghezza del ferino superiore » 3,7 Id. del ferino inferiore » 3,1 Id. minima del processo zigomatico del mascel- lare superiore ...» 3,3 E molto desiderabile che qualche paleontologo possa avere la buona ventura, che non abbiamo avuto noi, di esaminare accurata- mente l’originale di questo' modello in gesso, che potrebbe forse get- tare nuova luce sullo studio dei Maehairodus. Non possiamo, a questo punto, esimerci dall’esprimere il nostro parere sopra quella branca mandibolare ritrovata nel Forest-bed sulle coste orientali dell’Inghilterra. Backhouse, in uno studio sopra di essa, pubblicato nel 1886, voi. 42, pag. 309-312 del Quarterly Journal della Società geologica di Londra, affaccia l’ipotesi che essa possa appar- tenere al Maehairodus cultridens del Val d’Arno. Dopo lo studio, che abbiamo fatto sui fossili di quella specie, possiamo affermare che essa non può essere attribuita al M. cultridens : l’altezza di quella mandi- bola, la forma dei due denti molare e premolare, che essa porta, la grossezza degli incisivi, la lunghezza del diastema e la soverchia de- pressione della mandibola in corrispondenza di questo, sono caratteri più che sufficienti per provare quanto abbiamo detto. Il canino superiore in queU’animale del crag doveva essere assai più largo di quello del M. cultridens , giudicandolo dal diastema molto ampio. Le fattezze di — 171 — quella branca mandibolare e le proporzioni tra le sue diverse parti ci inducono ad attribuirla, con dubbio, alla specie M. crenatidens. La mancanza che in essa si riscontra del 2° premolare non è un fatto a cui debba darsi soverchia importanza; perchè noi abbiamo visto un cranio di leone nel Museo Zoologico di Firenze, in cui la- branca man- dibolare destra ha un premolare di meno, e manca precisamente il 2°, nè alcuna traccia di questa scomparizione si riscontra nella branca: e abbiamo pure visto un cranio di Canis familiaris nello stesso Museo, nel quale dalle due parti nel mascellare superiore manca il 2° premolare e gli alveoli sono perfettamente richiusi. — Così alla lista, già nume- rosa, data da Boyd-Dankins, degli avanzi fossili di mammiferi comuni al Val d’Arno superiore e al crog d’Inghilterra e che comprende Elephas meridionalis, Equus Stenonis , eec., possiamo aggiungere il Machairodus crenatidens. In questa opinione tanto più ci conferma l’esame del canino, seghettato da ambedue le parti, figurato dal Ray Lankester. Un dente molare riferibile, a quanto ne assicura il Prof. C. De Stefani, che lo ha veduto, a questa nuova specie, si trova nel Museo della R. Università di Bologna. Io ne ho potuto esaminare soltanto il modello che il Prof. Capellini ebbe la gentilezza di far fare e spedirmi, e divido l’opinione del Prof. De Stefani. Esso è quel dente di cui parla il maggiore A. Verri nel suo opuscolo sopra la Val di Chiana e luoghi adiacenti (Pavia 1877, pagine 55 e 99). Abbiamo già detto qualcosa intorno ai rapporti anatomici che questa specie di Machairodus del Val d’Arno ha col M. cultridens , col M. la - tidens , col M. leoninus e con qualche altra specie europea. Se voles- simo ora istituire un paragone tra essa e qualcuna delle specie asiatiche, si troverebbe che il M. sivalensis di Lydekker (Memoirs of thè geo- logical Survey of India, pag. 157-334, 164*341, Tav. XLIV) ha con questo nostro Machairodus delle rassomiglianze, principalmente fornite dai denti della mascella inferiore ; come dal ferino, dal premolare 1° e dal premolare 2°, identico al premolare 2° superiore trovato isolato all’ In- fernuzzo nel 1874. Quelli della mascella superiore nella specie di Si- walik sono più. piccoli. In quanto poi alle fattezze, per quanto è lecito dedurre dai fossili che possediamo, dovevano essere quelle di una tigre: doveva questa — 172 — specie superare in corporatura il M. cultridens , del quale era più terribile per la maggiore robustezza dei suoi canini superiori, seghet- tati e taglienti in modo, da essere una potentissima arma di offesa. Abbiamo dato a questa specie il nome di M. erenatidens per ri- cordare una delle sue principali e più costanti caratteristiche. MACHAIRODUS ( Meganthereon ) NESTIANUS, n. sp. (Tav. VI, fig. 6, 7, 8). Sinonimia. 1883 Machairodus sp . . F.-Major, Oh thè Mammalian Fauna of thè Val d’Arno (Quarterly Journal of thè Geological Society of London, voi. XLI, pag. 1-8). 1887 Machairodus cultri- dens (non Guvier). . . C. De Stefani, Le ligniti del Bacino di Castelnuooo di Garfagnana (Bollettino del R. Comitato geologico, 2a serie, voi. Vili, pag. 228). 1889 Meganthereon Nestii. C. De Stefani, Il lago pliocenico e le ligniti di Barga (Bollettino del R. Comitato geologico, 2& serie, voi. X, pag. 339). 1889 Machairodus Nestia- nus Weithofer, Ueb. tert. Landf. It. (Jalirbuch der k. k. geol. Reichsanstalt, 39 Band, 1 Heft). 1890 Machairodus sp. . . F. -Major, Oss. di Oliuola, ecc. (Atti della Società To- scana di Scienze Naturali, proc. verb., Voi, VII, pag. 65). Un cranio molto diverso da quelli finora studiati è questo che andiamo descrivendo (Tav. VI, fig. 6, 7). Fu rinvenuto a Sammezzano, nel Val d’Arno superiore, e regalato al Museo dalla marchesa Paolucci, che con i suoi doni si è resa così benemerita degli studi. Esso non è completo, mancando tutta la por- zione posteriore, compresi i parietali e i temporali lateralmente, ed è stato non solo molto danneggiato nell’atto della fossilizzazione, ma anche da avarie susseguenti alla sua scoperta. Le ossa componenti la parte destra della faccia sono meno danneggiate. Da esse e dalla di- stanza, che passa tra il ferino e il 1° incisivo, si comprende che questo Machairodus doveva avere un viso molto allungato in avanti. In questa porzione anteriore di cranio abbiamo dal lato destro il 1° molare pic- colo, conico, situato dietro e più internamente del ferino, che è pre- sente da ambo le parti; quest’ultimo dente è massiccio m. 0,012, lungo — 173 — quasi 4 centimetri; essendo molto consumato per l’attrito, non presenta quella acutezza nei tubercoli che abbiamo già riscontrata nel M. cul- tridens. La corona al suo massimo punto di altezza (tubercolo mediano del ferino sinistro) misura mm. 12; il tubercolo anteriore è assai meno sviluppato degli altri due. In complesso, la forma di questo primo pre- molare superiore rimane sempre quella tipica dei Felidae. Manca nel mascellare superiore da ambe le parti il 2° premolare. Il canino, sol- tanto presente dal lato destro, è assai bene conservato; della larghezza di m. 0,035 al principio della corona, si porta, sempre più assottiglian- dosi e restringendosi in basso, prima volto in avanti e poi indietro, descrivendo cosi una curva assai regolare. La sua lunghezza dall’al- veolo è di m. 0,092, e sarebbe due o tre mm. di più, se la punta fosse intatta. Si possono in questo dente distinguere due faccie e due mar- gini: la faccia esterna è convessa e presenta il suo massimo di con- vessità, in alto, per circa due centimetri, molto approssimativamente nel mezzo della faccia; più in basso, per circa centim. 5,5, la linea di massima convessità è ravvicinata al margine anteriore; più in basso ancora, essa torna nel mezzo della faccia. La faccia interna per poco differisce dall’esterna (V. sezione, fig. 8, Tav. VI). Presentanti senso lon- gitudinale, a circa due centimetri e mezzo dal livello delle ossa palatine, depresse, una concavità che si estende per circa 4 centim.: molto proba- bilmente era questa la porzione del dente che veniva in contatto con le parti molli della mascella inferiore. Il margine anteriore a differenza di quello del M. cultridens è, proporzionalmente alle altre dimensioni, meno massiccio, non ha dentellature e porta traccie bene evidenti, per circa quattro centimetri, dello strisciamento del canino inferiore; nella parte terminale questo margine diventa tagliente. Il margine posteriore porta per tutta la sua lunghezza delle seghettature, che, esaminate attentamente, appariscono un poco più approfondite di quelle già ri- scontrate nel M. crenatidens , e sono anche diverse da queste ultime nel senso che, viste col debito ingrandimento, appariscono più fìtte e più taglienti. Queste dentellature si estendono per tutto il margine po- steriore: così che vengono ad avere un’estensione per qualche mm. su- periore a quella notata nella specie M. crenatidens. Abbiamo dunque un criterio molto ovvio per distinguere e riconoscere i canini superiori di queste tre specie di Machairodus del Val d’Arno; perchè mentre i denti nel Machairodus cultridens non presentano dentellature sopra nessuno dei loro margini, quest’ ultima specie le ha soltanto sul margine concavo e il M. crenatidens ha canini con dentellature su ambedue. Questi canini superiori, oltre che differire per tale struttura, che per- mette di riconoscerli a tutta prima, hanno ancora altri caratteri diffe- renziali; così il canino superiore del M. cultridens è stretto, svelto, gra- cile ; quello invece del M. crenatidens è più robusto, più largo a curve più accentuate, più schiacciato nella corona ; quello di quest’ultima specie, per le dimensioni e per l’andamento dei suoi margini, sta tra i due; per le curve degli orli si avvicina al M. cultridens , per la lar- ghezza della sua corona e della sua radice, al M . crenatidens ; è più robusto di quello e meno di questo. Del resto questi e altri caratteri differenziali si rilevano benissimo comparando le singole descrizioni di questi denti, le misure, le figure e le sezioni che di ciascuno ab- biamo dato. 1 Gli incisivi sono tutti presenti e sviluppatissimi; sono conici e tra loro non molto ravvicinati. Essendo assai danneggiati, a mala pena si arriva su qualcuno di essi a distinguere la superficie interna com- presa tra le due creste laterali, delle quali su qualche incisivo è ri- masta appena una traccia. Poco si può dire delle ossa costituenti questa porzione di cranio. Esse sono in tal guisa contorte, depresse, rotte e ricementate, che la descrizione non fornirebbe nessun criterio scientifico. Passando all’esame della mascella inferiore (Tav. VI, fìg. 7), tro- viamo che anch’essa ha. molto sofferto nell’atto della fossilizzazione; tanto che della parte posteriore, per quello che concerne i condili e i processi ascendenti, non rimane più traccia in ambedue le branche. In questa mandibola l’espansione simfìsiale discendente non fa, come nel M. cultridens , col margine inferiore mandibolare un angolo così marcato di quasi 45°: per questo carattere si avvicina alla mandibola del Machairod.us crenatidens. Il dente ferino è molto massiccio: ha due 1 I caratteri che distinguono il M. aruernensis Cr. e Job. o M. cultridens di Bravard, Pomel e di altri li abbiamo accennati a principio. tubercoli ben distinti e separati da una larga incavatura mediana : è più robusto di quello del M. cultridens e di quello della nostra prima nuova specie; ma è di essi meno tagliente e non è bene conservato. Il 1° pre- molare ha gli stessi caratteri : forma conica, maggiore spessore, mi- nore acutezza nei tubercoli del premolare corrispondente nelle altre due specie del Val d’Arno. Il 2° premolare, che dista dal primo di mm. 14, ha due tubercoli ; quello anteriore è molto sviluppato, alto, sottile e den- tellato. Procedendo in avanti si ha un diastema lungo 34 mm., e ascen- dente verso lavanti per le compressioni subite nella fossilizzazione. I due canini hanno dentellature laterali presenti solo nella cresta po- steriore ; quella anteriore è mancante : questi canini sono assai robusti, conici e molto grossi: gli incisivi, tutti presènti, ma più o meno dete- riorati, hanno tutti forma conica e un considerevole sviluppo nello spes- sore più che nella lunghezza. Questo fossile, oltre a presentare i caratteri, che siamo andati enu- merando e descrivendo, ne ha uno che merita tutta la nostra attenzione, e sul quale, non avendolo che menzionato, occorre ritornare. Tra il primo e il secondo premolare corre un intervallo di 14 milli- metri in ambedue le branche mandibolari : questo intervallo non è pre- sentato da alcun’altra specie di Machairodus finora conosciuta. Essendo escluso che si tratti di una rottura delle due branche mandibolari tra il primo ed il secondo premolare, di un allontanamento per qualche causa meccanica dei pezzi e di una successiva cementazione, perchè questa sostanza eterogenea cementante manca, come abbiamo provato scal- fendo in quello spazio la mandibola, non sono possibili che due ipotesi: o in quell’intervallo, tra dente e dente, vi era prima un premolare, che poi, essendo caduto, ha lasciato libero quello spazio e l’alveolo si è rimarginato : oppure, quello spazio vi è sempre stato e un dente ivi non è mai esistito. Abbiamo già citato esempi, che dimostrano pos- sibile la prima ipotesi; come è anche possibile la seconda, perchè in altri generi, degli animali che abbiano una certa distanza tra un pre- molare e un altro, ne abbiamo parecchi : negli orsi, per es., il caso non è raro ( U . arvernensis); come non è raro in molti generi della fami- glia dei nimravidi (Pogonodon, Dinietis). Che si tratti di una dentizione di latte si deve escludere, perchè l’individuo è adulto. Tanto nell’un caso, che nell’altro, si ha un animale abbastanza anormale : perchè, ammettendo la prima ipotesi, si avrebbe un Machai- rodus con una formula dentale, in cui comparirebbero due premolari di più nella mandibola, ciò che non si riscontra in nessuna specie del genere : ammettendo la seconda, si sarebbe sempre davanti a un ani- male singolare, perchè, per ora, non si conosce Machairodus che abbia tra i due premolari inferiori l’enorme distanza di quasi un centimetro e mezzo. Trattandosi di una differenza cosi rimarchevole e così spiccata, qualora gli ulteriori studi confermassero queste vedute, sarebbe, il caso, secondo il nostro parere, di creare nel genere Machairodus una nuova sezione nella quale collocare questo singolare animale e appellarla Homotherium, In attesa che questi studi si facciano, noi la riguar- deremo, per ora, semplicemente come una specie nuova di Machairodus; cui, in omaggio a queirinsigne e modesto naturalista, che fu Filippo Nesti, daremo nome di Machairodus Nestianus. A questa specie riferiamo due frammenti di canini superiori, tro- vati al Ponte di Castiglione in provincia di Massa, e regalati al Museo di Firenze dal Prof. C. De-Stefani : essi infatti sono denticolati sul mar- gine posteriore soltanto, sono larghi e non vi ha, tra la faccia esterna e Tinterna, quella differenza alla base della corona, che abbiamo notato nelle due prime specie. Il signor Major ha trovato resti molto probabil- mente appartenenti a questa specie, ad Olivola in Val di Magra. Nella prima parte della Memoria, pubblicata nel fase. 3 e 4, sono incorsi i seguenti errori: a pag. 132, linea 21, invece di seghettati, leggasi non seghettati ; linea 36, invece di radice, leggasi radio. SPIEGAZIONE DELLE TAVOLE (Tav. IV). 1. Machairodus cultridens , lato sinistro ( Felis antiqua di Nesti). 2. Mandibola del cranio predetto (branca destra). 3. M. cultridens. Frammento di cranio ritrovato al Tasso presso Terranuova, Val d’Arno superiore (lato destro). 4. M, cultridens. Frammento di cranio ritrovato al Tasso presso Terranuova (lato posteriore). Boll, del R.Com.Geol.d” Italia Anno 1890 Tav. IV ( E.Fahirini) MA'CHAIRODUS DEL VALDARNO SUPERIORE Boll. del R.Com. Geol. d Italia Armo 1890 Tav.V ( E. Fabbrini ) MACHAIRODUS DEL VALD ARNO SUPERIORE COCCHI DIS E LIT Bolide! R.Com. Geol. d'Italia MACHAIRODUS DEL VALDARNO SUPERIORE Anno 1890 Tav.VI (E.Fabbrini) Tav. V. 1. M. cultridens. Cranio trovato a Sammezzano, Val d’Arno supe- riore ffaccia sinistra). 2. M. cultridens. Mascellare superiore sinistro ritrovato a Sam- mezzano, Val d’Arno superiore. 3. M, cultridens. Mascellare superiore destro ritrovato a Sammez- zano, Val d’Arno superiore. 4. M. crenatidens. Branca mandibolare destra (faccia esterna), In- fernuzzo, presso Terranuova. 5. M. cultridens. Frammento anteriore di mandibola (branca sini- stra), Val d’Arno superiore. 6. M. crenatidens. Ferino superiore destro (faccia esterna), Infer- nuzzo. 7. M. cultridens. Sezione del canino superiore del cranio vicino. Tav. VI. 1. M. cultridens. Dente canino superiore destro, presso Figline Val d’Arno superiore. 2. Sezione di esso. 3. M, crenatidens. Canino superiore sinistro (faccia esterna), presso Figline. 4. Sezione di esso. 5. M. crenatidens. Branca mandibolare sinistra (faccia esterna) Infernuzzo. 6. M. Nestianus. Cranio trovato a Sammezzano, Val d’Arno su- periore. 7. Mandibola di detto cranio. 8. Sezione del canino superiore del cranio predetto. 12 Le Scimmie fossili italiane : studio paleontologico del Dottor G. Ristori. (Con due tavole). Proponendomi di studiare le scimmie fossili italiane, so di non accingermi ad uno studio paleontologico affatto originale ; ma piuttosto ad un lavoro critico, nel quale andrò riepilogando quanto è stato scritto sull’argomento, e, servendomi più specialmente del materiale fossile ; ultimamente scoperto, cercherò di portare il contributo delle mie os- servazioni a risolvere alcune controversie ultimamente insorte, ed anche a rettificare qualche inesattezza, in cui mi è parso che siano caduti alcuni, fra quelli che ebbero, prima di me, ad occuparsi di questo studio. Spetta al Prof. Carlo De-Stefani l’avermi consigliato a riprendere questi studi, e l’aver posto a mia disposizione il prezioso materiale fossile, che è nel Museo di Firenze, mentre ancora mi trovavo nel- l’Istituto paleontologico di Monaco (Baviera). Quivi mi fu dato stu- diare con massima cura quei resti fossili , servendomi per confronto, del ricchissimo materiale vivente, favoritomi in parte dall’illustre Prof. Carlo Zittel, ma più specialmente dal Prof. 0. Hertwig, il quale, con quella eccezionale cortesia che lo distingue, pose a mia disposi- zione quanto esisteva nel suo ricco Museo di anatomia comparata. A rendere poi più completo questo studio paleontologico contri- buirono, il Prof. Pietro Marchi *, che mi permise di esaminare alcuni resti fossili di scimmia, trovati a Casteani ed a Montebamboli, i quali si conservano nel Museo dell’Istituto tecnico di Firenze, il Dott. Fe- derigo Castelli che, per gentile intercessione del Prof. Cesare D’An- cona, pose a mia disposizione alcuni molari di scimmia, provenienti dalle ligniti del Casino (Siena), e finalmente il Dott. Forsyth-Major, 1 Sono dispiacente di presentare solo lo schema di due interessanti esemplari esistenti nel Museo del R. Istituto tecnico di Firenze, non avendomi, il direttore dell’Istituto predetto, resa possibile la completa e comoda esecuzione di quei disegni. — 179 — il quale generosamente mi dava facoltà di studiare alcuni molari tro- vati in una lignite pliocenica del Mugello (provincia di Firenze) nonché altri frammenti del Casino, resti che appartengono tutti al Museo di Pisa, e che egli molto tempo fa aveva esaminati e messi a parte col- Fintenzione di farne oggetto di studio. A tutti questi scienziati debbo pubbliche ed infinite grazie per la loro generosità ed eccezionale benevolenza. OREOPITHECUS BAMBOLI! Gerv. (Tav. VII, fìg. 1 a 9, e Tav. Vili, fìg. 1 )'. P. Gervais, (Revue scientifique , première année, n° 25, 16a decade, 1871) . — Igino Cocchi, ( Nazione di Firenze del 27 febbraio 1872). — Forsyth-Major, Note sur des singes fossiles, trouvés en Italie , prè- cédée d'un apergu sur les quadrumanes fossiles en generai (Extr. des Actes de la Soc. ital. des Sciences nat., tom. XV, 1872). — P. Gervais, (Comptes rendus de l’Acad. des Sciences, tom. LXXIV, 1872) . — I. Cocchi, Su dì due scimmie fossili italiane (Boll, del R. Comitato geol., anno III, marzo -aprile 1872, pag. 55, Tav. la, fìg. 1-2). — P. Gervais, Zoologie et paléont. gén. , II, pag. 10, PI. V, fìg. 1-2, serie 10a, 1876. — Gaudry, Enchainements du monde animai, I, pag. 232, fìg. 306. — Forsyth-Major, Scimmie fossili italiane (Proc. verb. Soc. toscana di scien. nat., pag. LXXI1, 9 marzo 1879). • — Dante Pantanelli, Monografia degli strati pontici del Miocene superiore (Mem. R. Acc. di scienze, lettere ed arti di Modena, ser. II, tom. IV, 1886). — Forsyth-Major, Beitràge zur Geschiclite der fossilen Pferde insbe- sondere Italiens (Abhandlungen der schweizerischen palàontologischen Gesellschaft, voi. VII, pag. 41, nota 2a, 1880) — William Henry Flower, Catalogue of thè Specimens illustrating thè Osteology and Dentition of veri, animals recent and extinct, contained in thè Museum of thè R. College of Surgeons of Engl., Part. II, Mamma Ha , London, pag. 18, 1884. — Max Schlosser, Die Affen , Lemuren , Chiropteren , Insectivoren} ecc. des europàischen Tertiàrs (Beitràge zur Palàontologie 1 Le tavole saranno date, insieme col resto della memoria, nel prossimo fascicolo. — 180 — Oesterreich-Ungarns, VI Band, pag. 16). — Max Schlosser, Referat ueber die Monograf. der Affen , Lemuren , ecc . von M. S. (Archi v. fur Anthro- pologie, Organ der deutschen Gesell. fiir Anthrop. ecc., 1888). — - Ant.J Weithófer, Alcune osservazioni sulla fauna delle ligniti di Casteani ;s» e di Montebamboli (Boll, del R. Com. Geol. d’Italia, voi. XIX, n. 11-12). — Max Schlosser, Ueber die Beziehungen der ausgestorbenen Sàuge- tliierfaunen und ihr Verhàltniss zur Sàugethier fauna der Gegenwart I (Sonderabdruck aus dem biologischen Centralblatt, Bd. Vili, n. 19, pag. 614, dezember 1888). — A. Weithofer, Ueber die tertiàren Landsàu- > gethiere Italiens (Jahrb. der k. k. geol. Reichsanstalt, Band, 39, 1 Heft, pag. 57, 1889). Nelle miniere di lignite di Montebamboli, Casteani e Montemassi 1 furono scoperti resti di scimmie, i quali, per quanto mi consta, deb- bono tutti quanti riferirsi all’ Oreopithecus Bambolii, genere e specie fatta dal Gervais sulla mandibola appartenente ad un giovine indivi- duo comunicatagli dal Prof. Igino Cocchi. Dopo l’accurato studio fattone dall’illustre paleontologo francese, per molto tempo nessuno tornò sul- l’argomento altro che incidentalmente, e tutti accettarono le conclusioni sue, ritenendo la scimmia di Montebamboli come antropomorfa. A questo proposito, anche il Forsyth-Major, nel suo lavoro sui Cavalli fossili 2, trova 1’ opportunità di osservare che in questa scimmia è notevole carattere antropomorfo il ridotto sviluppo dei canini. In questi ultimi tempi però lo Schlosser ha parlato di questa scimmia, affermando recisamente che non si trattava punto di un an- tropomorfo, ma sibbene di una scimmia inferiore non lontana dai Cy - nocephalus. Perchè il lettore si faccia giusta idea dei caratteri ana- tomici, su cui il precitato autore si fonda per venire a conclusioni diame- tralmente opposte a quelle del Gervais e del Major, non sarà superfluo che io qui traduca dal tedesco letteralmente quanto lo Schlosser 3 1 A Montemassi fu trovata solo una porzione di mandibola con due mo- lari ben conservati. Questa è pure da riferirsi all’ 0. Bambolii, e si conserva nel Museo dell’Istituto tecnico di Firenze. 2 F.-Mayor, Beit. zur Geschichte der foss. Pferde, op. cit., pag. 41, nota 2a. 3 Max Schlosser, Die Affen, Lemuren, Chir.,ecc. des europ. Tertiars, ecc.,, pag. 16). — 181 — ilice in proposito: « Di questa scimmia (è lo Schlosser che parla) si conoscono solamente due mascelle inferiori, appartenenti ad un gio- vane individuo, le quali sono ancora fra loro riunite *. In queste tro- vansi ancora in parte i denti di latte, ed il terzo molare di ciascuna trovasi ancora nascosto nella mascella. Da ciò ne consegue che non possiamo dare gran peso all’apparente brevità della mascella, perchè tutte le scimmie, nella giovinezza, sono essenzialmente differenti da quelle che hanno raggiunto il loro completo sviluppo. Questo poi vale più specialmente per il genere Cynocpehalus , col quale si accordano tanto distintamente i denti dell’ Oreopithecus. Oltre a ciò deve aggiun- gersi che, relativamente a questo medesimo genere, abbiamo notevo- lissime differenze riguardo alla lunghezza della mandibola fra i maschi e le femmine. Egli è perciò, non senza dubbio, discutibile, se questa relativa brevità della mandibola fosse propria anche dell 'Oreopithecus adulto ; anzi, io penso che esistesse molto probabilmente in questo la identica relazione, propria del vivente Cynocephalus ì le cui mascelle sono le più lunghe fra tutte quelle delle altre scimmie conosciute. Per la grandezza, V Oreopithecus sta fra il Dryopithecus ed il Pliopiihecus ; ma ne è al primo alquanto più vicino. I molari 1 2 presentano una sorprendente rassomiglianza con quelli del Cyn'ocephalus e più precisamente con quelli del Theropithecus 3 4 ( Cynocephalus ) gelada 4 Scalter, ( Gelada Ruppellii Gray). Come in questi vi sono gobbe arrotondate, aggruppate a due a due, e nell’orlo esterno ed interno dei denti vi si scorge anche una gobba secondaria, la quale è forse un rudimento delle smerlature degli orli medesimi. La lunghezza di questi molari è molto maggiore della larghezza. Il 1 L’autore si riferisce certamente alla nota mascella studiata dal Gervais, .giacché egli non conosceva altri resti fossili di questa scimmia. 2 Si intende quelli della mandibola, giacché l’autore non conosceva ancora quelli della mascella superiore. 3 H. Flower, Catalogue of thè Specimens, ecc., pag. 39. 4 L’ autore mantenne questa sua opinione anche dopo avere esaminato i resti fossili più abbondanti e completi/che io stesso gli mostrai a Monaco; in- fatti la ripete tale e quale nel suo ultimo lavoro: Ueber die Beziehungen der ausgestorbenen Sàugethierfaunen , ecc.; op. cit., pag. 614. terzo lobo dei terzi molari è alquanto più sviluppato che nel Cynoce - phalus , e si presenta distintamente bipartito. Come abbia il Gervais potuto parlare di una somiglianza col Gorilla, non si può giustamente apprezzare. Noi abbiamo qui, senza alcun dubbio, che fare piuttosto con un Cynoeephalus. Nell’ Oreopitechus fa speciale impressione lo sviluppo dei terzi molari, i quali in nessuna delle forme viventi si presentano così svi- luppati. Egli è quindi molto probabile che il genere Oreopithecus, di cui ho tenuto parola, siasi estinto senza lasciare nessuna posterità. Fin qui lo Schlosser. In questo evidente disaccordo fra paleontologi di tanto valore era solamente possibile intervenire, valendosi, come ho potuto fare io, di un materiale di tanto accresciuto e tanto più completo. Infatti, avendo a mia disposizione non solo la giovane mandibola studiata dal Gervais, ma molti altri resti più o meno completi di mandibole e mascelle su- periori di individui appartenenti a sesso diverso e di diversa età *, ho avuto modo di fare importanti confronti ed osservazioni, le quali credo che varranno a mettere la cosa nei veri termini. Mi si permetta adun- que di esporre colla maggior chiarezza le osservazioni che potei fare. Comincio dalla mandibola studiata dal Gervais. La mandibola studiata dal Gervais appartiene ad un individuo giovanissimo; in questa i denti, per la massima parte, non sono mu- tati, ed i molari sono ancora quelli di latte; anzi il terzo molare tro- vavasi ancora nascosto nell’alveolo e fu messo allo scoperto dal Ger- vais medesimo. Che si tratti di un individuo molto giovane si rende ancor più manifesto paragonando questa mandibola alle altre posterior- mente scoperte, le quali, per la massima parte, appartengono ad indi- vidui giunti a completo sviluppo. Infatti in queste i molari si presentano più spianati, i loro tubercoli meno acuminati e lo sviluppo del quinto tubercolo nei molari veri è maggiore e tale da ravvicinare molto questi denti ai corrispondenti di un Crjnc ce phalus ì Q più specialmente 1 La maggior parte di questi resti fossili furono trovati nelle ligniti di Ca- steani (Maremma toscana), le quali sono sincrone a quelle di Montebamboli e contengono numerosi resti di altri vertebrati. F.-Major, Scimmie fossili italiane (Proc. verb. Soc. tos. di c nat., pag. LXXII, 9 marzo 1879). a quelli del Cynopitheeus (Cynoeephalus) niger Geoff., del C. maimon Lm. e non, come lo Schlosser vorrebbe, a quelli del Theropithecus (Cynoeephalus) gelada, con cui si accordano assai i molari della gio- vane mandibola. Un’eccezione costante però si riscontra nei terzi mo- lari, i quali sono sempre più sviluppati dei corrispondenti dei Cynoee- phalus, il che fece pure impressione allo Schlosser. Del resto, a proposito dell eccezionale sviluppo dei terzi molari, deve notarsi che questo è carattere di inferiorità, il quale tenderebbe a ravvicinare la nostra scimmia fossile alle inferiori e ad allontanarla dall’antropomorfe e più specialmente dal Gorilla, in cui il terzo molare è eguale o poco più piccolo del secondo. Il Gervais 1 notò pure le ragguardevoli di- mensioni raggiunte da questo terzo molare nella scimmia di Monte- bamboli, però, invece di ritenere queste come un carattere di inferio- rità, vi trovò ragione di ravvicinarla agli antropomorfi. In questa conclusione dobbiamo giustamente riconoscere poca opportunità e poca esattezza; tanto più che la differenza di sviluppo del terzo molare in rapporto col secondo si fa progressivamente minore, risalendo dalle scimmie inferiori alle superiori e da queste all’uomo, in cui abbiamo, eccezionalmente in alcuni individui delle razze più basse, il terzo mo- lare inferiore eguale o poco maggiore del secondo, mentre nelle razze superiori esso è sempre più piccolo. Un carattere veramente di antropomorfo, il quale si mantiene co- stante nella giovane mandibola, come in quelle di individui adulti, lo troverei invece in tutti i molari, in cui i tubercoli prendono una dispo- sizione obliqua e convergente verso le branche ascendenti. Simile disposizione apparisce evidentemente in tutte le scimmie superiori che, contrariamente a quanto afferma il Gervais, si riconoscono anche per questo solo carattere dalle inferiori, le quali hanno sempre detti tubercoli disposti secondo una linea retta o leggermente obliqua, ma convergente invece verso la sinfisi. Per ciò che riguarda l’ultimo mo- lare, questo presenta il tubercolo posteriore più grosso degli altri, ed ha presso di sè un tubercoletto accessorio assai sporgente, come è dato vedere specialmente negl’individui adulti (Tav. VII, fig. 1 e 6 Gervais, Zool. et Paléont. gén. Deuxième sér., pag. 13. — 184 — Tav. Vili, fìg. 1), tanto che in questa disposizione caratteristica dei! terzi molari inferiori la nostra scimmia poco si allontanerebbe da ùn Cynòceplialus. In quanto ai premolari, nulla avrei da aggiungere e da togliere a quanto ha osservato il Gervais; però debbo fare qualche osservazione sui canini. La giovane mandibola di Montebamboli pre- senta il canino sinistro (Tav. VII, fìg. 8 e 8a ) non completamente svilup- pato; purnondimeno esso apparisce assai robusto, e tale da farci intuire che essa appartenga ad un individuo maschio: infatti i canini, negli altri resti da me esaminati, i quali appartengono tutti ad individui adulti, hanno raggiunto uno sviluppo minore. Io sarei quindi per ritenere, come il Major, questo come un vero carattere di antropomorfo, per quanto il canino della mandibola studiata dal Gervais si presenti rela- tivamente assai sviluppato, di forma acuminata e tale da rammentare il dente corrispondente di un giovane Cynocephalus o di un giovane Ma- cacus. Del resto su tale questione torneremo quando sarà giunto il momento di esaminare i canini della mascella superiore. Intorno agl’ incisivi della mandibola non si possono fare osserva- zioni molto attendibili, giacché fra tutti i resti fossili che ho avuti fra ' mano nessuno presenta questi denti ben conservati, se non si voglia eccettuare la mandibola studiata dal Gervais in cui abbiamo il solo in- 1 cisivo laterale sinistro quasi completamente divelto dall’alveolo. Questo presenta una corona foggiata a scalpello, assai larga, provvista di striature lungitudinali simili a quelle che costantemente si riscontrano negl’ incisivi di molti altri mammiferi e più specialmente in quelli dei giovani Sus , delle giovani scimmie ed anche dell’uomo. Per la forma della mandibola e per lo sviluppo delle branche della! medesima debbo recisamente affermare, dietro molti confronti ed os- servazioni, che corre sempre grande differenza fra i giovani e i vecchi individui. Questo che ora si riscontra, ponendo a confronto la mandibola studiata dal Gervais, con le altre appartenenti ad individui adulti, fu intuito esattamente dallo Schlosser, il quale citava come esempio, fra le scimmie viventi, i Cynocephalus. Il carattere di questo genere vivente si riscontra tale e quale anche nell’ Oreopithecus : infatti la brevità delle branche mandibolari propria dei giovani individui non si mantiene negl’individui giunti a completo sviluppo, poiché in questi si hanno branche assai lunghe e tali da non la cedere alle corrispondenti dei — 185 — vivente Cynoeephalus. A questo proposito non sarà male dare delle cifre. La mandibola deformata rappresentata dalla fìg. 6 (Tav. VII) ed ap- partenente ad un individuo di età assai avanzata che si conserva nel Museo di Firenze, presenta la branca sinistra quasi completa, solo man- cante del condilo; questa misura in lunghezza, al suo centro, centi- metri 9, millimetri 6 e 3 decimi, e la serie dentaria occupa uno spazio di centimetri 6, millimetri 1 e 4 decimi. In un’ altra mandibola, prove- niente pure da Casteani e posseduta dal Museo dell’Istituto tecnico di Firenze (Tav. VII, fìg. 9) trovo che la serie dentaria occupa uno spazio di centimetri 6, millimetri 3 e 2 decimi, per cui può assolutamente te- nersi per certo che lo sviluppo in lunghezza delle branche mandibolari, abbia nell’ Or eopithecus adulto raggiunta una proporzione assai vicina a quella che si riscontra nei Cynoeephalus. Ad onta di ciò a me non sembra che la lunghezza delle branche mandibolari sia un carattere talmente importante da sorpassare tutti gli altri e da farci assoluta- mente ritenere, come fa lo Schlosser, che la scimmia di Montebamboli non abbia caratteri di antropomorfo e non rammenti neppure alla lontana il Gorilla: infatti io ho osservato che gli antropomorfi in ge- nere ed il Gorilla in specie non hanno poi le branche della mandibola tanto poco sviluppate in lunghezza da poter dire che le dimensioni, raggiunte da queste nell’ Oreopithecus, valgano per sè sole a separarlo assolutamente e nettamente dalle scimmie antropomorfe. Ed in questo concetto credo che debba confermarci il fatto che, se con l’età si mo- dificano le branche mandibolari, non così succede del mento, il quale anche negl’individui giunti a completo sviluppo rimane, come nei gio- vani, subrotondo e poco sfuggente all’ indietro. Questo carattere non è in generale proprio delle scimmie inferiori ed in queste ha solo qualche riscontro nei giovani del Cynoeephalus ursinus e nelle fem- mine pure giovani del T. gelada. A proposito delle scimmie in- feriori, conviene notare che in esse il mento è sempre molto sfug- gente all’ indietro e che la sua subrotondità sta in diretto rapporto colle depressioni mandibolari più o meno accentuate, le quali, alla lor volta, stanno in ragione diretta collo sviluppo dei canini, che è sempre ridotto nei giovani e ancor più ridotto nelle femmine. Da ciò con- segue che tanto la subrotondità del mento quanto il suo presentarsi poco declive e poco sfuggente alF indietro, potrebbero giustamente te- - 186 — nersi in conto di carattere antropomorfo di una certa importanza. Con- viene però tener bene in mente che questi caratteri hanno un valore in quanto, nel nostro caso, li troviamo riuniti; perchè separati edJ indipendenti 1 uno dall altro si possono riscontrare anche in alcunel scimmie inferiori, infatti il Cynocephalus ursìnus femmina pre-ii senta un mento relativamente poco sfuggente, ed i giovani individui ti m generale hanno sempre un mento alquanto subrotondo. D’altra parte sta il fatto che il Gorilla stesso adulto e specialmente il maschio non presenta il mento molto subrotondo, mentre in esso si l mantiene costantemente poco sfuggente all’ indietro. Fra i resti fossili di questa scimmia, trovati a Montebamboli ed Is a Casteani, abbiamo anche porzioni di mascelle superiori intiere unite (l ad ossa faciali e del cranio più o meno deformatele finalmente qual- j che dente isolato. La parte più abbondante e più completa di questo U prezioso materiale fossile, non anche studiato, appartiene al Museo i di Firenze, e 1 altra minore, ma pur sempre importante è dell’ Istituto ; tecnico di Firenze. A me spetta dunque di completare lo studio di questo fossile, aggiungendo la descrizione e i disegni di questi nuovi resti e le osservazioni che un accurato studio mi ha suggerite. La mascella superiore del V Oreopitheeus Bambolii , al pari della L mandibola, denota un animale di media grandezza, in cui le ossa faciali I non raggiungevano un grande sviluppo. Questo può facilmente intuirsi i non solo dalle dimensioni delle ossa palatine, ben conservate nell’ esem- | piare figurato nella Tav. VII, fig. 4, ma anche dall’ esame diretto di un i- altro resto assai interessante, in cui abbiamo conservate quasi tutte le ossa faciali ed anche alcune del cranio (Tav. VII, fig. 2). Riguardo però a quest ossa nulla possiamo dire intorno alla loro forma e rispet- tiva posizione, giacché esse sono talmente compresse e deformate, per subita pressione, da non potersi non solo separatamente studiare ma neanche delimitarne e definirne la forma ed i rapporti. L’esemplare, che ci presenta conservate le ossa palatine e le- mascellari, mostra completa la serie dentaria. In questa i canini i sono ben piccoli e di tal forma da farci accorti che essa apparteneva ad un individuo femmina: infatti, in altre porzioni di mascella supe- riore, questi canini raggiungono uno sviluppo assai maggiore e si pre- sentano molto più robusti, come si vede nella Tav. VII, fig. 2 e 2a, ove 1 — 187 — l’esemplare figurato apparteneva ad un maschio. La forma della mascella prima ricordata (Tav. Vili, fig. 4.) per quanto mostri di avere nella fossilizzazione sofferta una distorsione ed una leggera com- pressione laterale, è, comparativamente a quella degli antropomorfi, più stretta, e l’arcata dentaria disegna una curva non tanto aperta, e forse più chiusa ed a raggio minore di quello che non avrebbe fatto arguire l’arcata della giovane mandibola studiata dal Gervais. Del resto, la sinfisi di questa mascella superiore si mostra relativamente più subrotonda di quello che non sia nei Cynocephalus^ e specialmente negli adulti. Questo fatto, messo a contributo con l’altro che la subro- tondità del mento è sempre maggiore nei giovani individui, toglie, a mio avviso, un poco di valore all’opinione del Gervais, il quale rite- neva quel carattere esclusivo degli antropomorfi. D’altra parte, la co- stanza di questo medesimo carattere, il quale si mantiene anche negli individui adulti, allontana, più di quello che non pensi lo Schlosser, la scimmia di Montebamboli dai Cynocephalus. Infatti, passando alle mi- sure dirette ed ai rapporti, abbiamo nella mascella fossile: lunghezza fra i due incisivi anteriori, alla linea determinata dall’estremità poste- riori dei due ultimi molari, cent. 5 e mill. 5,3. Larghezza fra i due ul- timi molari, cent. 3, mill. 5,0. Invece nel Cynocephalus maimon fem- mina (giacche la nostra mascella superiore fossile appartiene ad una femmina) abbiamo lunghezza cent. 7 e mill. 4,2 ; larghezza cent. 4 e mill. 0,8; quindi il rapporto sarà il seguente: Mascella superiore fossile di Oreopithecus Bambolii 63.3 : 100. » » vivente di Cynocephalus maimon 54.9: 100. Di poco differente è il rapporto che si trova per lo stesso Thero- pithecus gelada, a cui lo Schlosser tenta ravvicinare 1’ Oreopithecus. Però se la scimmia di Montebamboli si discosta, per questo rapporto, dai Cynocephalus , per il medesimo si allontana anche dal Gorilla, in cui abbiamo la proporzione di 84.2: 100, che è assai vicina a quella che si trova nel Chimpanzé. Passiamo ora all’esame dei denti della mascella superiore. Gli in- cisivi non hanno neppure in questa grande importanza, inquantochè essi sono mal conservati e rotti. Solamente essi possono studiarsi in due resti fossili, cioè nella mascella completa appartenente ad una - 188 - femmina adulta, Tav. VII, fig. 4, ed in un frammento di mascella su- periore conservato nel Museo dell’Istituto tecnico di Firenze, che figura a Tav. VII, fig. 3. Nel primo di questi resti, che è il più completo, ab- biamo i due incisivi anteriori, i quali presentano la loro corona molto consumata; nondimeno si vede bene che essi erano larghi in corona e robusti, più grandi dei due laterali, i quali sono stretti in corona, di forma quasi piramidale e provvisti presso il colletto di un tallone si- , mile a quello dei successivi canini. Il rapporto di sviluppo degli inci- t sivi anteriori surricordati è evidentemente maggiore che nelle scimmie inferiori in generale e nei Ct/nocephalus in particolare. Nel secondo i resto più incompleto sono pure visibili i due incisivi anteriori, i quali sono divelti dall’alveolo ; uno solo si mostra integro, dell’altro non si scorge che la radice b Appartengono questi ad un individuo assai gio- vane, giacché la corona, quantunque larga e foggiata a scalpello, pre- t senta le scanalature e seghettature del bordo proprie degli individui i giovani, e che simili vedemmo nell’unico incisivo mandibolare che ab- biamo di questa scimmia nel pezzo fossile illustrato dal Gervais. Questa particolarità degli incisivi dei giovani individui non è solo propria delle scimmie viventi e fossili, ma è comune anche a molti altri mammiferi, fra i quali è degno di speciale menzione il Sus edr anche l’Uomo, in cui abbiamo nella dentizione di latte tutti gli inci- sivi, tanto della mascella, come della mandibola, scanalati e seghet- tati, proprio come quelli delle giovani scimmie. Allo speciale carattere dei due incisivi laterali i quali si presen- tano alquanto conici e molto piccoli, devesi aggiungere un’altra par- ticolarità presentata dalla mascella superiore, e probabilmente anche dalla mandibola. Questa consiste nell’assoluta mancanza dello spazio vuoto che esiste sempre nelle scimmie inferiori fra l’ incisivo laterale ed il canino, per cui in questo la scimmia nostra si accosta agli an- tropomorfi, ove appunto quello spazio vuoto manca od è molto ridotto. Questo carattere poi è, nel nostro caso, tanto più costante e certo, inquantochè esso apparisce evidente nella mascella rappresentata dalla 1 Un altro incisivo superiore isolato, figurato a Tav. VII, fig. 7, presenta in sommo grado questo carattere. 189 — fìg. 4 (Tav. VII), la quale, come si disse, appartiene ad un individuo femmina, e le femmine delle scimmie inferiori hanno questo spazio vuoto maggiore dei maschi, nei quali viene a ridursi per lo sviluppo del canino. I canini superiori piccoli nella femmina acquistano assai notevole sviluppo nel maschio, del resto anche in questo non raggiungono mai grandi dimensioni, sono molto larghi alla base e foggiati a corto e robusto cono. Il tallone di cui sono muniti presso il colletto con- tribuisce a rendere la base più larga. Questi canini mostrano un ru- dimento di strie longitudinali, le quali dovevano apparire molto più evidenti nei giovani, come può giustamente intuirsi dal canino inferiore che è stato messo allo scoperto nella mandibola studiata dal Gervais e che io senza fare di nuovo tutto il disegno, ho figurato a Tav. VII, fìg. 8 e Sa.Nella porzione di mascella superiore, figurata a Tav. VII, fig. 3, appartenente ad un giovane individuo, e di cui già descrivemmo gli incisivi, abbiamo pure conservata una porzione di canino superiore il quale viene completato nella sua forma dall’impronta lasciata dalla sua parte inferiore. Esaminando la forma di questo canino essa apparisce un poco differente da quella che poi esso dente sembra avere assunto negl’individui giunti a completo sviluppo, infatti è relativamente più lungo, più acuminato, e il diametro, alla base, è molto ridotto. I premolari sono anche quelli della mascella superiore, costituiti da due rilievi piramidali, uno esterno ed uno interno, l’esterno è il più rilevato; presso il colletto sono muniti di un tallone più sviluppato nel maschio, quasi rudimentale nella femmina. Il secondo premolare 1 è assai di frequente trilobo; inquantochè in corrispondenza dell’infossatura mediana che divide i due rilievi piramidali, sorge un terzo tubercoletto centrale meno sviluppato dei due estremi. Questo tubercoletto però non è sempre presente: infatti la mascella rappresentata dalla fig. 4, Tav. VII, apparisce per questa particolarità dissimetrica, giacché ha il destro trilobo, il sinistro bilobo. Nella mascella unita ad ossa faciali e craniensi (Tav. VII, fìg. 2), abbiamo il secondo premolare sinistro trilobo, E stato qui sempre adottato il metodo di contare i premolari dall’indietra ll’avanti ed i molari veri dall’avanti all’indietro. - 190 — il destro è rotto. L’infossatura che divide i due rilievi piramidali anche nei primi premolari che sono per lo più bilobi è, relativamente a quella delle scimmie inferiori compresi i Cr/nocephalus, poco profonda. La respettiva posizione dei detti rilievi è alquanto obliqua, ed essi deter- minano una linea parallela a quella dei tubercoli dei molari veri, cioè con tendenza all’indietro. Questa disposizione è perfettamente contraria a quella delle scimmie inferiori, è simile invece a quella degli antro- pomorfi. Del resto anche la forma generale dei premolari rammenta nel VOreopiiheeus le scimmie superiori, in cui questi denti quantunque differenti dai veri molari, pure vi si avvicinano di più, e questo suc- cede, oltre che negli antropomorfi ancor più distintamente nell’ uomo. Veniamo finalmente ai veri molari. Il primo è come sempre il più piccolo ed ha la sua corona sormontata da quattro tubercoli disposti obliquamente verso l’interno come sempre accade nelle scimmie antro- pomorfe. Questi tubercoli pure di forma conica, si riuniscono per mezzo dell’espansione delle loro basi al centro del dente, ove sorge un pic- colo rilievo che io stimerei rudimento di un quinto tubercolo centrale, il quale va facendosi nei successivi molari più evidente, ed acquista poi la forma ed il carattere di vero tubercolo nei maschi (Tav. VII, fig. 2), rimane invece rudimentale e poco caratterizzato nella femmina e nei giovani (vedi Tav. VII, fig. 4). Alla base dei tubercoli di questo primo molare vi è pure il tallone che vedemmo meglio sviluppato nei premolari. Il secondo molare ripete nei tubercoli la disposizione e la forma del primo, è più grande ed ha il quinto tubercoletto centrale più evidente, più distinto di forma, e foggiato in modo alla base, da riu- nire diagonalmente tre dei tubercoli della porzione pianeggiante della corona, lasciando quasi libero Testerno anteriore. Al centro si mostra alquanto rilevato, per cui è ben giusto l’averlo considerato come un quinto tubercolo, molto più che la stessa cosa si ripete anche nell’ul- timo molare. Nel secondo molare abbiamo il tallone più marcato. L’ultimo o terzo molare è di poco più grande del secondo, ed in 'ciò abbiamo un nuovo carattere di inferiorità, inquantochè questa partico- larità si riscontra in un grado maggiore in tutte le scimmie inferiori, mentre gli antropomorfi hanno questi due molari 2° e 3° eguali, anzi qualchè volta il terzo è un poco più piccolo come a me fu dato ri- scontrare in alcuni crani di Gorilla, che trovansi nel Museo di Antro- — 191 — pologia ed Etnologia, ed in quello di Zoologia dell’Istituto di studi superiori in Firenze. Che sia lo sviluppo dell’ultimo molare, maggiore di quello del secondo, carattere di inferiorità, lo prova il fatto che neiruomo il terzo molare superiore è sempre molto più piccolo del secondo, eguale o poco più grande nel Gorilla, più piccolo nel Chimpanzè; più grande nei Cercopitheeus ed ancor maggiore nei Macacus e nei ■ Cynocephalus . Questa progressione evidente, nella mascella superiore, a suo tempo la riscontrammo evidentissima nella mandibola. L’ultimo molare adunque ha una corona più larga, il suo diametro trasversale è di poco minore dell’anteroposteriore, i tubercoli sono sempre cinque, quattro marginali più ottusi, il centrale più rilevato ed evidente del cor- rispondente del secondo molare. Nel maschio poi si scorge, in corri- spondenza del margine posteriore della corona un rilievo tubercolare bipartito, il quale accenna all’esistenza di un tubercolo posteriore im- pari. Detta particolarità è evidentemente rudimentale nella femmina, per cui, in questa, la differenza in grandezza fra il secondo e terzo molare, è minore, (Tav. VII, fig. 4). Anche il tallone nel maschio è più visibile, specialmente dal lato interno. A rendere veramente completo lo studio di questa scimmia fossile (che fino ad ora è limitato ai denti, ed a porzioni più o meno complete di mascelle superiori, di mandibole, ed a qualche resto deformato dalla fossilizzazione di ossa faciali e del cranio), purtroppo ci manca la conoscenza delle restanti parti dello scheletro, le quali non poco con- tribuirebbero a darci un’idea più completa dei caratteri scheletrici del- l’animale, ed a facilitare anche la sua classazione, su cui appunto sono ultimamente insorte controversie. Del resto dal complesso dei caratteri, che mercè numerosi e ripetuti confronti colle specie viventi più affini, potemmo mettere in evidenza, resulta che YOreopithecus per una parte si accosta alle scimmie inferiori e più specialmente ai Cercopitheeus , ed in parte ram- menta anche i Cynocephalus, per l’altra e in particolar modo per la dentizione della mascella superiore ricorda assai da vicino gli antro- pomorfi. Facendo un diretto confronto resulta che i caratteri di antro- pomorfo sono forse in maggior numero di quelli che tenderebbero a ravvicinare YOreopithecus alle scimmie inferiori; ma l’importanza dei secondi mi sembra superiore a quella dei primi. Questo apparirà anche 192 — più etidente dallo specchio seguente, ove ho riassunti i più importanti caratteri di scimmia inferiore da una parte, quelli di antropomorfo dal- l’altra : Caratteri di scimmia inferiore. 1° Lunghezza notevole delle bran- che della mandibola specialmente negli adulti. 2° Lunghezza della serie dentaria nella mascella superiore. 3° Subròtondità del mento che si fa minore negli individui giunti a com- pleto sviluppo. 4° Maggiore sviluppo dei terzi mo- lari della mandibola di fronte ai se- condi. 5° Idem per la mascella superiore ; quantunque la proporzionalità ne sia di gran lunga minore. 6° Forma caratteristica dei terzi mo- lari della mandibola e della mascella superiore. 7° Canino superiore assai lungo, più acuminato nei giovani maschi. Caratteri di antropomorfo. 1° Mento poco sfuggente e subro- tondo anche negli individui adulti. 2° Subrotondità della sinfisi della mascella superiore. 3. Maggiore brevità della mascella e della mandibola di fronte ai Cerco- pithecus ed ai Cytiocephalus. 4° Disposizione diagonale con ten- denza all’ indietro dei tubercoli dei pre- molari e dei molari superiori ed infe- riori. 5° Ridotto sviluppo dei canini. 6° Forma dei canini superiori tozza e corta negli adulti. 7° Forma dei premolari che ram- menta un poco quella dei molari veri. 8° Assenza dello spazio vuoto fra gli incisivi superiori laterali ed i canini successivi. 9° Infossature delle branche della mandibola, poco estese e poco pro- fonde. Dal confronto diretto di questi caratteri e dalla considerazione della loro relativa importanza mi sembra giusto, seguendo in parte la opinione dello Schlosser, porre Y Oreopithecus fra le scimmie inferiori, però subito dopo le antropomorfe, o meglio alla coda di queste, poiché, se da una parte non può disconoscersi d’avere in questa scimmia fossile caratteri di inferiorità, specialmente nella dentizione mandibolare, non può del pari negarsi che in essa si trovino tanto nei denti supe- riori come nelle poche ossa ad essi contigue che abbiamo conservate, - 193 - numerosi ed importanti caratteri, che rammentano molto da vicino le scimmie superiori. In ordine a questi fatti e conclusioni egli è, a mio avviso, più ragionevole e giusto considerare V Oreopithecus progenitore degli an- tropomorfi; piuttostochè, come pretende lo Schlosser { dei Cynocephalus e tassativamente del genere Theropithecus (Cynocephalus) ; poiché se ritenessimo, in questo caso, giusta Topinione del precitato autore, con- verrebbe implicitamente ammettere che sia avvenuto nell’ Oreopitliecus un regresso organico ed involutivo insostenibile, e poco consonante colle odierno teorie suirevoluzione. Località. — Ligniti di Montebamboli, Casteani, Montemassi (Gros- seto). — Miocene medio. SEMNOPITHECUS cfr. MONSPESSULANUS 1 2 Gervais. (Tav. Vili, fìg. 2 a 16). P. Gervais, Zoologie et pai. frangaises , pag. 10, PI. I, fìg. 7-12. — C. G. Giebel, Odontographie , pag. 4, taf. I, fig. 6 a , b ; fìg. 13, a, è, e. — P. Gervais, Zoologie et pai. générales , pag. 148, 1867-69. — Forsyth- Mayor, Note sur des singes foss. trouvés en Italie (Extr. des Actes de la Soc. it. des Se. nat., tom. XV, 1872). — Igino Cocchi, Su di due scimmie fossili italiane (Boll. R. Comitato geologico, anno III, voi. 3°, pag. 71, nota 1. Aprile 1872). — Forsyth-Major, Considerazioni sulla fauna dei mammiferi pliocenici e post-pliocenici della Toscana (Atti Soc. toscana di Se. nat., voi. I, fase. 3°, pag. 224, 229, 238. 1876). — Dante Pantanelli, Monografia degli strati pontici del Mioc. sup. 1 Max Sclosser, Ueber die Beziehungen der ausgestorbenen Sdugethier- faunen urti ihr Verhdltniss zur Scingethier fauna der Gegenwart (Sond. aus dem biol. Cenlralblatt, Bd. Vili, dezember 1888, pag. 614). 2 Secondo il Gervais (Zool et Pai. gén ., pag. 18) il suo Macacus priscus figurato e descritto da lui stesso (Zool» et Pai. frane., pag. 11) sarebbe sinonimo del Semnopithecus monspessulanus. Questa sinonimia però riconosciuta dal Ger- vais medesimo per i resti fossili dell’una e dell’altra scimmia ritrovati a Mont- pellier, è decisamente impugnata dal Gaudry e dal Depéret che ne riferisce l’opi- nione e la sostiene con delle buone ragioni (Depéret, Les animauw pliocènes du Roussillon (Mem. de la Societé géol. de France, Tome 1, fas. I, Metri. 3a, pag. 17). 13 194 — (Mem. R. Accad. Se., Lett. e Arti di Modena, T. IV, sez. II). — Max Schlosser, Die Affen , Lemuren , Chiropteren, ecc. des europàisehen Tertiàrs , ecc., pag. 17, 1887. Il materiale fossile riferibile a questa specie consiste in alcuni denti isolati, la maggior parte molari, tutti quanti raccolti al Casino presso Siena; alcuni di questi sono della collezione privata del Dott. Fe- derigo Castelli di Livorno, altri appartengono al Museo paleontolo- gico e geologico di Pisa. Questi denti furono già esaminati molto tempo fa dal Forsyth-Major e da lui riferiti al Semnopithecus monspes- sulanus Gervais. Egli però fin d’allora dubitò che non potesse trat- tarsi invece di un Mesopitlieeus , perchè, tanto i resti fossili trovati a Montpellier, come quelli del Casino, presentavano, secondo lui ed anche secondo Gervais, dentizione identica a quella del Mesopitlieeus di Pikermi. 11 Gervais però nella sua paleontologia generale, a pagina 10, nota già come carattere differenziale fra il suo Semnopithecus ed il Mesopitlieeus di Wagner, il maggiore sviluppo del primo molare, per noi secondo premolare. A questa differenza facilmente constatabile, rispetto ai denti trovati al Casino (Tav. Vili, fìg. 3 e 4) altre se ne possono ora aggiungere, come per esempio, la forma deirultimo mo- lare della mandibola, il quale ha i suoi tubercoli più ravvicinati nel senso della lunghezza ed il quinto è più largo e più sviluppato e nella forma rammenta più i corrispondenti dei Maeaeus , quantunque non si presenti nè decisamente trilobo nè decisamente bilobo, ma semplicemente striato dairalto al basso. Anche il primo premolare (Tav. Vili, fig. 5, 6, 9, 40) è un poco differente, giacché presenta la sua corona un poco più larga ed i tubercoli sono più centrati ed hanno i loro lati meno in- clinati. In quanto agli altri molari (Tav. Vili, fig. 7, 8) anche essi sono nella forma e nella disposizione dei tubercoli alquanto diffe- renti da quelli del Mesopitlieeus , e si ravvicinano un poco più a quelli dei Maeaeus. A queste differenze risultanti dal diretto confronto dei due fossili dobbiamo aggiungere un’altra osservazione che ci risulta dai paragone dei resti fossili di Pikermi, del Casino e di Montpellier, con parecchie specie di Semnopithecus viventi. In questo confronto mi sono convinto che i caratteri anatomici dei denti per la scimmia del Casino si accordano molto più coi Semnopithecus viventi, di quello che non facciano i denti corrispondenti del fossile di Pikermi, Lo sviluppo note- vole del secondo premolare, la forma e particolarità delPultimo tuber- colo del terzo molare ricordano molto più il Semnopithccus che il Mesopitheeus , per cui io credo giùsto riferire la scimmia del Casino al primo di questi due generi. Per ciò che riguarda l’identità specifica del nostro fossile, con quello di Montpellier, non può con assoluta certezza dimostrarsi, poiché i resti fossili fino ad ora scoperti al Casino sono troppo scarsi e troppo incompleti per darci il diritto di pronunziarci con recisa affermazione. Figuro nelle annesse tavole 9 denti isolati, che rappresentano tutto quello che al Casino è stato trovato di questa scimmia, e richiamo l’attenzione del lettore, specialmente sugli ultimi molari inferiori e su un frammento di canino (Tav. Vili, fig. 2) appartenente al Museo di Pisa, in cui si scorge la base munita di un tallone, carattere questo che contribuisce a distaccare sempre più il nostro Semnopithecus dal Mesopitheeus di Pikermi, che ha il canino inferiore perfettamente co- nico. Le fig. 11, 12, 13, 14, 15 e 16, (Tav. Vili) rappresentano tre ultimi molari inferiori; le fig. 11, 12, 15 e 16, quelli della collezione privata del dott. Castelli, le fig. 13 e 14, quello del Museo di Pisa. Quelli sono un poco diversi per le dimensioni, però quando si esaminino attenta- mente, facendo astrazione dalle modificazioni subite nella logorazione, si potrà di leggeri accorgersi che appartengono alla medesima specie, giacché sono identici in ogni altra loro particolorità di struttura. A proposito però della logorazione da essi sofferta debbo notare, che anch’ io fui da prima sorpreso dalla speciale figura che presentavano sulla parte pianeggiante della corona le pieghe dello smalto, e sola- mente mi convinsi che si trattava, proprio di un Semnopithecus , quando avendo consumato artificialmente un dente omologo di una specie vi- vente di questo genere, lo smalto misi disegnò sulla corona con pieghe simili e similmente disposte. Ora non mi resta che aggiungere la descrizione dettagliata dei terzi molari inferiori. Dei due terzi molari della collezione Castelli, uno è lungo in corona millimetri 9.3, l’altro millimetri 9.2, quello del Museo di Pisa millimetri 9.1. Tutti quanti appartengono ad individui adulti, giacché sono molto logorati, specialmente i primi due. Le loro faccie sono basse, causa la logorazione, ma sono relativamente più alte di quelle dei denti omologhi del Mesopitheeus , più basse invece di quelle 196 — degli Inuus , dei Maeacus e dei Cynoeephalus. Dalla parte anteriore le faccie dello smalto sono rotonde, slargate, e quella anteriore che tocca il dente molare successivo (secondo) presenta un’ impronta pro- dotta da che, uscendo questo terzo molare ultimo dall’ alveolo ha sfre- gato fortemente contro il secondo che come sempre lo precede nella comparsa. Lateralmente ed anteriormente le faccie sono liscie, nelle loro parti posteriore e laterale posteriore interna, sono solcate dall’alto al basso, per cui in corrispondenza del quinto tubercolo simulano sul bordo coronale una plurilobazione o meglio una seghettatura a denti ottusi. Il quinto tubercolo, quantunque profondamente logorato, aveva uno sviluppo relativamente maggiore a quello omologo del Meso- pithecus di Pikermi; in ogni modo è di questo più largo alla base. I tubèrcoli pari della corona sono disposti un poco obliquamente al- Tindietro, però meno che nel Mesopithecus , ove questo carattere è più accentuato. Il tubercolo, impari dei terzi molari (quinto), è esternamente arrotondato e, ad onta delle sue solcature, può considerarsi integro. Tutti gli altri molari (Tav. Vili, fig. 7, 8) non presentano particolarità degne di nota in confronto ai correspettivi dei Semnopithecus viventi, solamente i tubercoli sono nel senso longitudinale molto ravvicinati ed il setto triangolare, che li divide, ha l’angolo inferiore acutissimo. Del canino, di cui figuro a Tav, Vili, fig. 2 l’unico frammento trovato al Casino, ho già tenuto parola. Concludo quindi che il Semnopithecus monspessulanus , specie ba- sata su denti isolati, deve attualmente accettarsi, e tanto i resti fos- sili trovati a Montpellier, quanto quelli del Casino, debbono per ora ad essa riferirsi, poiché non abbiamo nel poco materiale di studio, fino ad oggi raccolto, differenze tali da autorizzarci a tener separati questi resti fossili, quantunque raccolti in due diverse località del di cui sin- cronismo si parlò da alcuni con poca opportunità. Questo però non esclude che ulteriori scoperte, fatte nell’una e nell’ altra località, pos- sano indurci a modificare questa conclusione, che nelle attuali condi- zioni è la più giusta e probabile. Località. — Casino (Siena) nelle ligniti. — Miocene superiore; per- altri Pliocene inferiore. (Contìnua). Sul giacimento cuprifero di Montatone in Val d’Msa (prov. di Firenze ); nota dell’ Ing. B. Lotti. Il giacimento cuprifero di Montaione fa parte dei numerosi giaci- menti metalliferi associati alle roccie ofiolitiche terziarie della Toscana, della Liguria e dell’Emilia. Tali roccie eruttive sono assai sviluppate in questa regione ed affiorano in masse isolate, ordinariamente di non grandi dimensioni, in mezzo agli strati eocenici, costituiti da calcari, scisti argillosi, fta- niti e diaspri rossi. A Montaione e nei dintorni della miniera non com- pariscono che la diabase e l’eufotide, ma a poca distanza verso N.O, nel Poggio Pistoiese, e verso S.E, presso Gambassi, associasi alle dette roccie anche la serpentina proveniente da lherzolite. Il paese di Montaione è fabbricato sopra una massa di diabase, conformata in sferoidi per alterazione e riposante, nel lato orientale, sulla eufotide. Quest’ultima roccia ricomparisce a meno d’un chilometro di distanza più a Nord presso S. Biagio ed è in essa appunto che apresi la miniera di cui è parola. Il terreno pliocenico, che ricopre gran parte di queste roccie, impedisce di vedere se questa seconda massa congiungesi sot- terraneamente con quella di Montaione, ma credo che non se ne possa dubitare affatto, se notasi che in vari punti intermedi, essendo stata asportata coi lavori agricoli la sottile coperta di terreno pliocenico, fu messa a nudo la sottostante roccia eruttiva. Il giacimento cuprifero, di cui è parola, alla stessa guisa di tutti gli altri giacimenti di tal natura, sta racchiuso dentro la eufotide o nelle roccie derivate da essa per alterazione e decomposizione. Ma due specie d’eufotide sono qui a distinguersi ; una a labradorite, molto feldspatica, inalterata, durissima, la quale sembra priva affatto di mi- nerale di rame, ed una a saussurite, con diallaggio prevalente, più o meno alterata, talora convertita in roccia steatitosa o serpentinosa e quasi costantemente metallifera. L’eufotide labradoritica è sviluppata di preferenza ad Est del Rio dell’Aia; estendesi però anche ad Ovest 198- nel campo della miniera, ove forma un cappello sulla eufotide saussu- ritica che non comparisce alla superficie ma fu riconosciuta soltanto coi lavori sotterranei. La separazione fra le due roccie è nettissima e segue presso a poco una direzione N-S ; stando però all’andamento superficiale delie formazioni, essa dovrebbe gradatamente volgere ad Ovest. È appunto lungo questo contatto che furono concentrati i lavori minerari sì an- tichi che moderni, colla differenza però che mentre cogli antichi fu esplorata in special modo la parte profonda del giacimento, cogli at- tuali si è tentato piuttosto di estendere le ricerche orizzontalmente. La più profonda alterazione della eufotide metallifera ha avuta luogo presso l’accennato contatto, ove si osservano ripetutamente delle zone steatitose, limitate da superficie di scorrimento, e dove si è sem- pre trovato il minerale di rame concentrato in piccole masse globulari. Presso questo contatto fu scavata e scavasi anche attualmente una massa metallifera lenticolare, formata da un complesso di vene e di segregazioni informi di quarzo compatto, con aggruppamenti di una sostanza verde cloritosa e di calcopirite. Questa massa cuprifera è, almeno per ora, la più ricca della miniera e trovasi incassata fra due pareti di eufotide sterile. Manifestamente tale formazione di quarzo, clorite e calcopirite è dovuta ad un’ estrema alterazione della eufotide saussuritica. Tutto il campo ad Ovest della zona di contatto è pur sempre cu- prifero ed è formato da una innumerevole varietà di roccie, tutte pro- venienti dall’alterazione d’eufotide ed aventi per tipi estremi una bella eufotide saussuritica a grossi elementi ed un’argilla steatitosa grigia o verde chiara. L’eufotide è costituita da cristalli di diallaggio, lunghi fino a 10 centimetri, ravvolti in una massa di saussurite serpentinosa di solito verde-cupa, nella quale si osservano vene sottilissime ed ag- gruppamenti di magnetite, non che particelle diffuse di pirite, la quale inoltre, e più frequentemente, comparisce tra le lamine del diallaggio. Un grado più avanzato d’alterazione di questa eufotide dà luogo ad una roccia serpentinosa, verde-cupa, scagliosa, racchiudente qua e là piccole masse globulari di eufotide saussuritica, manifestamente residui della roccia primitiva. Progredendo l’alterazione, producesi una roccia steatitoso-cloritosa, 199 - incoerente, con frammenti di quarzo e residui della roccia primitiva, e finalmente una pasta steatitosa, saponacea, che è la matrice più co- mune e caratteristica dei giacimenti cupriferi in roccie ofìolitiche. Tanto nella eufotide saussuritica, quanto in quella serpentirxosa si osservano vene di secrezione di pura steatite con sfaldatura concoidale. Esse sono talvolta cuneiformi, a pareti piane, levigate che rappresen- tano evidentemente delle rotture con scorrimento. Gli antichi lavori ebbero sviluppo, come fu accennato, specialmente in una ristretta colonna verticale, forse in obbedienza al pregiudizio antico che i depositi metalliferi si facessero più ricchi in profondità. Si arrivò così fino ad un 8° piano, ove s’incontrarono gli strati eocenici sottostanti. Coi nuovi lavori si sono riaperti i quattro piani superiori e si è cercato giustamente di esplorare il giacimento nella sua esten- sione orizzontale e specialmente verso Sud, poiché a Nord coi lavori antichi si era già incontrato il limite fra la roccia eruttiva e gli strati eocenici sottostanti. Una galleria di ricerca verso Ovest ha dimostrato la estensione della roccia cuprifera da questo lato per oltre cento metri; proseguendola si raggiungerà la diabase o, in mancanza di questa, direttamente gli strati eocenici. Con tale traversa s’incontrarono vari filoncelli di calcopirite. Abbenchè il campo metallifero si presenti molto esteso da questo lato, pure il minerale di rame apparisce concentrato di preferenza in una zona longitudinale relativamente ristretta, presso il contatto fra l’eufotide labradoritica e quella saussuritica. Rammentiamo che in altri giacimenti analoghi la zona mineraliz- zata fu trovata di solito presso il contatto fra la diabase e l’eufotide. IV. La breccia ossifera del Monte Rocchetta (Golfo di Spezia ); nota del Prof. Davide Cara zzi. I grandi lavori eseguiti dal Genio militare per la difesa del Golfo di Spezia hanno già dato occasione a ritrovamenti di fossili, come quello importante della caverna di Santa Teresa, scavata nel calcare cavernoso — 200 — triasico e contenente una breccia ossifera, nella quale il prof. Capel- lini 1 riconobbe ed illustrò avanzi di ippopotamo e di parecchi cervidi. Tre anni dopo, cioè nel 1881, dall’altra parte del Golfo, all’isola Pal- maria verso il lato Sud-Est, si aprirono delle cave per fornire i massi occorrenti alla costruzione della diga subacquea e per altri lavori mi- litari. In una di queste cave, in vicinanza del Capo dell’isola, a dieci metri sopra il livello del mare, una mina mise allo scoperto una spa- ziosa cavità tutta riempita da breccia ossifera, contenente ossa di grosse dimensioni, le quali furono dai cavatori buttate in mare, ad ec- cezione di qualche pezzo tenuto per curiosità. Fu così che potetti avere l’estremità articolare inferiore di un grosso omero destro di bove, con- servata nel Museo civico di Spezia. E questa, ch’io mi sappia, la sola menzione che sia stata fatta del giacimento. Dato uno sviluppo perimetrico molto maggiore di quello progettato dapprincipio alla linea di fortificazione del Golfo, venne intrapresa, or sono tre anni, la costruzione di un forte sul M. Rocchetta, il più alto (415 metri) della catena che cinge ad oriente il Golfo di Spezia. Com- preso fra la serie triasica di Ameglia e gli schisti basici e titonici di Serra, il monte è tutto formato di un calcare dolomitico appartenente, come quello surricordato della Palmaria, alle assise del retico. La cima del monte venne spianata per dar posto alla costruzione e così rimasero allo scoperto gli strati quasi verticali colla inclinazione ad Ovest. Facendo questo lavoro si trovò una fessura corrispondente al- l’asse della catena, cioè con direzione da Nord-Ovest a Sud-Est. Verso Sud-Est lo scavo fu portato più in basso per avere un fosso di cinta e così in questo punto la fessura venne in luce fino alla quota di m. 396, corrispondente al fondo del fossato. Fu appunto in questa località che la fessura fu trovata tutta riempita dalla breccia ossifera che forma l’argomento di questa nota. La breccia ha l’aspetto rossastro comune a tanti giacimenti post- pliocenici ed in essa le ossa sono molto abbondanti. L’altezza dello strato fossilifero è minima verso la parete esterna (Sud-Est) del fosso, dove ha 70 centimetri per un metro circa di larghezza; alla parete op- 1 Capellini, Breccia ossifera della caverna di Santa Teresa. Bologna, 1879. posta, cioè verso il centro del monte aumenta parecchio. Infatti un cunicolo scavato obliquamente in basso ha fatto ritrovare qualche osso fino a due metri sotto il livello del fondo del fosso, dove la fessura è larga un metro e tre quarti. Si capisce che la breccia ossifera deve continuarsi attraverso il fondo del fossato, ma quando io visitai la loca- lità, al principio di aprile ultimo scorso, non era possibile veder niente perchè il fosso era stato spianato e battuto. Devo alla gentilezza del capitano del Genio signor Casalegno, di- rettore dei lavori del forte e alle gentili raccomandazioni del colon- nello del Genio signor Spegazzini di aver potuto non solo rilevare i dati surriportati, ma anche proseguire alcun poco lo scavo sulla parete esterna del fossato. Ai primi colpi di picca ebbi un pezzo di mandibola con due molari in posto e più tardi nel terriccio trovai altri due molari ed un incisivo medio, che vanno riferiti al genere Cervus , confermandomi così la de- terminazione che aveva fatta di parecchie ossa raccolte durante lo scavo del fossato dall’assistente del Genio e spedite alla Direzione di Spezia, dove io le vidi e dove si trovano ancora. Proseguendo lo scavo insieme ad ossa di cervo ne raccolsi parecchie di lepre. Ma nè le ossa da me trovate, nè quelle depositate al Genio militare, nè altre poche raccolte al principio dello scavo 1 forniscono altre specie all’infuori del cervo e della lepre. E molto probabile che il Cervus sia Velaphus e negli avanzi da me raccolti si hanno ossa appartenenti almeno a due individui. Il Lepus non differisce per niente dalla solita specie e le ossa appartengono a individui adulti, uno dei quali di rilevanti dimensioni. Il giorno 24 maggio mi recai di nuovo al forte, insieme al signor Podenzana, preparatore del Museo di Spezia, e alla presenza del capi- tano del Genio signor Nocentini e dell’assistente signor Monti, i quali misero gentilmente a mia disposizione degli operai, feci per tutta la giornata scavare la breccia ossifera. I primi scavi ebbero lo scopo di precisare le dimensioni della 1 II signor Iacopo Mantegazza ebbe quelle ossa e le donò al R. Museo di paleontologia di Firenze. — 202 — breccia ossifera e potei constatare che sotto il fondo del fosso non si trovavano più ossa oltre mezzo metro di profondità, e che al lato Sud-Est le più alte e ormai rade erano a m. 1,20 dal fondo ; così si ha uno spessore totale di m. 1,70. Verso il lato opposto del fosso, cioè dentro il cunicolo, le ossa si fanno sempre più scarse e la fessura finisce coll’essere occupata solo da incrostazioni calcaree. La ricerca delle ossa la feci specialmente a livello del fosso, sul- l’angolo colla parete S.E ; cioè dove avevo cominciato con buon esito lo scavo nella prima gita. E il lavoro non fu infruttuoso; oltre a qualche altro ossicino di lepre e molti pezzi di cervo, ritrovai parecchie ossa di un cervide più piccolo e quattro specie di gasteropodi. Il cervide piccolo lo riferisco dubitativamente a un capriolo. Tutte le ossa da me raccolte si trovano nella collezione regionale del Museo civico di Spezia. Eccone l’elenco sommario: Cervus (elaphus ?). — Pezzi vistosi di mandibola è di mascellare, parecchi denti, clavicole tre ; parecchie vertebre, fra cui un epistrofeo, un’altra cervicale e poi lombari e dorsali. Pezzi grossi di femore, pa- recchi di radio. Tibie, calcaneum, metatarsali, falangi basali e distali, astragali; di tutte queste ossa parecchi esemplari. Cervide piccolo (C. capreolus ?). — Porzione di mandibola. Scapola, omero e radio destro. Pezzi di radi sinistri. Pezzo d’ulna e di meta- carpale. Varie porzioni di femore e di tibia, un calcaneum, dei meta- tarsali, quattro falangi. Due pezzi di pube. Lepus timidus. — Parecchi pezzi di femore, uno destro quasi intiero. Pezzi di tibia; due metatarsali; pezzi di omero; un metacarpale; un pezzo di radio. Tre pezzi di bacino, ecc. Gasteropodi polmonati. — Un pezzo di Ciclostoma ; una Zonites (cellarius ?) ; parecchie Zonites Leopoldianus ; alcune Helix nemo - ralis. Dal Museo civico di Spezia, 27 maggio 1890. Nota. — Il prof. Capellini, al quale ho comunicato questa nota, mi avverte che le ossa trovate dal Genio militare alla Rocchetta e depositate alla Direzione di Spezia sono state messe a sua disposizione dal Ministero della guerra- Fino dal 1861 al prof. Capellini, che già da parecchi anni si occupava della geologia dei din- torni del suo Golfo di Spezia, una deliberazione ministeriale concedeva di avere per esame e per studio tutti i materiali scientifici che si sarebbero scoperti nei lavori per il nuovo arsenale. NOTIZIE BIBLIOGRAFICHE BIBLIOGRAFIA GEOLOGICA ITALIANA PER L’ANNO 1889 R. Ufficio Geologico. — - Carta geologica d’Italia nella scala di 1/1000 000. — Roma, 1889. Questa Carta è una seconda edizione migliorata, di quella pubblicata nel 1881 alla scala di 1/1111111 in occasione del Congresso geologico internazionale di Bologna. Alla compilazione di essa hanno servito di base i rilevamenti geologici eseguiti in grande scala dagli ingegneri del R. Corpo delle miniere, non che i lavori editi od inediti di varii geologi italiani e stranieri, per quelle regioni non ancora rilevate da detti ingegneri. La base topografica è la Carta in 6 fogli pubblicata nel 1886 dal R. Istituto geografico militare ed aggiornata per le ferrovie, con l’aggiunta di varie indica- zioni interessanti la geologia. Essa è stata pubblicata in due fogli in cromolito- grafia dallo stabilimento Virano in Roma. Amighetti A. — Osservazioni geologiche sul terreno glaciale dei din- torni di Lovere . (Atti Soc. it. Se. nat., Voi. XXXI, 3-4). — Milano. L’autore di questa nota passa in rivista le traccie numeróse e caratteristiche lasciate nei dintorni di Lovere dal ghiacciaio di Valcamonica. Terrazzi morenici ben netti e regolari si hanno presso Volpino, Branico, Ceratello e Bossico. I terrazzi di Branico sono d’origine fluvio-glaciale: i ciottoli e le ghiaie che li costituiscono hanno carattere torrenziale mentre l’origine loro primitiva è glaciale. Il ghiacciaio avendo sbarrato la valle Supina, il torrente di questa si riversò a destra trascinando nelle vicinanze di Branico e terrazzando- veli i ciottoli morenici! Presso Bossico i terrazzi, belli e grandiosi, sono in numero di quattro. Il ghiacciaio, insinuatosi nella valle Borlezza, la risalì sino ad incontrar 204 — l’altro della Val Seriana, il quale occupava l’altipiano di elusone. Per provarlo, l’autore enumera parecchi fatti: dal colle di Bossico procedendo verso il M. Tor- rione ed indi sino a Songavazzo egli ha trovato ciottoli e massi glaciali che in quest’ultima località si confondono con le morene dell’altipiano di Elusone. Il Colle di Bossico è 640 metri più eievaio di quest’ultimo, e poiché il ghiacciaio lo ha sorpassato, nulla si oppone ad ammettere che questo abbia rimontata la Val Borlezza fino a elusone che non dista più di 4 chilometri da quel colle, ed anzi si sia spinto più oltre. Amighetti A. — Nuove ricerche sui terreni glaciali dei dintorni del lago d} Iseo. — - Lovere, 1889. In questo lavoro l’autore descrive assai diffusamente i terreni glaciali così bene caratteristici nei dintorni del lago d’Iseo, aggiungendo considerazioni gene- rali su tali formazioni, in guisa da fornire una guida a chi volesse accingersi al loro studio dettagliato. Antonelli G. — Contributo alla flora fossile del suolo di Roma. (Boll. Soc. geol., VII, 3). — Roma. Presso la tenuta « Le due case » sulla via Flaminia a circa 9 chilometri dalla Porta del Popolo, trovasi un esteso e potente giacimento di tufo litoide giallo: la sua fauna, già descritta dal prof. Meli, risulta di molluschi terrestri e d’acqua dolce ; i suoi resti vegetali sono abbondanti e ben conservati e consistono specialmente di foglie, rami e tronchi, oltre a frutta. Le foglie presentansi in vario modo: piane, accartocciate, contorte, riunite in gruppi. I tronchi sono ab- bondanti e talora di dimensioni notevoli: in generale sono calcarizzati: non di rado però s’ è conservato il tessuto fibroso, e le fibre si possono piegare e tor- cere alquanto. Il modo di presentarsi di questi resti vegetali, è, per Fautore, indizio evidente che il tufo si formò per trasporto delle acque alluvionali quaternarie; gli elementi del tufo proverrebbero dai vulcani di Bracciano. Questa flora è molto ricca di dicotiledoni: due sole specie di monocotiledoni trovaronsi sino ad ora, e nessuna acotiledone. Premesse queste considerazioni generali, l’autore descrive le specie da lui finora determinate. In una prima appendice alla memoria, l’autore passa in rassegna alcune piante da lui studiate nel travertino dei Monti Parioli; ed in una seconda enu- mera le piante finora trovate fossili nella Campagna romana. Da questa enume- — 205 — razione, l’autore conclude che: 1° durante il quaternario la flora dei dintorni di Roma era rappresentata da buon numero di piante terrestri e d’acqua dolce: delle prime poche erbacee, la maggior parte legnose ; 2° essa comprendeva presso a poco le stesse piante che vivono oggi ancora nella Campagna romana o altrove in Italia; 3° il clima dovea essere poco diverso dall’attuale. Artini E. — Sulla natrolite di Bombiana nel Bolognese . (Rend. Acc. Lincei, 1° sem., Voi. V, 1). — Roma. Questa natrolite si trova entro a fessure del Gabbro rosso , insieme ad anal- cime in cristalli spesso assai netti, e calcite per lo più compatta. Nella presente nota l’autore registra i risultati dello studio cristallografico da lui fatto della natrolite, la quale si presenta raramente in cristalli terminati, offrendosi invece d’ordinario in numerosi prismi, torbidi e striati, più o meno intrecciati, spesso grossissimi. Artini E. — Contribuzioni alla mineralogia dei vulcani Cimini. (Atti Acc. Lincei, Voi. VI). — Roma. L’autore brevemente descrive degli aggregati minerali trovati dal prof. Mer- calli nella regione dei Cimini attorno al lago di Vico, generalmente entro un tufo giallo, e qualche volta isolati. Egli vi ha riconosciuto i minerali seguenti: 1. Pleonasto; entro piccole geodi dei massi pirossenici, frequentemente con anortite, mai con magnetite. — 2. Magnetite; frequentissima, in quasi tutti i massi prevalentemente feldispatici, mai in quelli d’altra natura. — 3. Limonile ; rara, in sottili veli. — 4. Pirosseno ; oltremodo comune, ma raramente in cristalli ben definiti. Si ha l’augite nera, la fassaite, l’augite verde, e certi cristalli che l’autore crede potersi ritenere di schefferite. — 5. Orneblenda. — 6. Forsterite. — 7. Melanite; assai rara. — 8. Humboldite; che forma per intero un piccolissimo proietto — 9. Merosseno. — 10. Noseanite. — 11. Anortite. — 12. Sanidino. — 13. Titanite. — 14. Calcite. — 15. Apatite; dubbia. L’autore ritiene esistere grande analogia fra questi aggregati e quelli dei Sabatini studiati dal prof. Struever. Badanelli D. — I diamanti di Pistoia. (Riv. it. di Se. nat., Anno IX, n. 4-5). — Siena. Si denominano diamanti di Pistoia certi limpidi cristallini di quarzo, ana- loghi a quelli delle geodi del marmo carrarese, nei quali il prisma è d’ordinario — 206 — breve e grosso, e terminato dalle due piramidi: talora il prisma manca affatto, e si ha una bipiramide esagona. Tali cristalli di quarzo abbondano nell’Appen- nino pistoiese in filoni di quarzo attraversanti il macigno. L’autore accenna in questa nota a diverse altre varietà di quarzo che ac- compagnano quei cristalli limpidi; quarzo affumicato, a tramoggia, ecc. Badanelli D. — La lignite del Termine , nel Comune di Chianni (Pisa). (Riv. it. di Se. nat., Anno IX, n. 21). — Siena. Sulla sinistra del torrente Sterza, affluente dell’Era, a pochi chilometri da Chianni, si trova un deposito di lignite entro un conglomerato miocenico che cor- risponde, secondo il Savi, al deposito di Montebamboli. Il prof. Badanelli che studiò di recente quel giacimento, ritiene la lignite assai abbondante e di buona qualità, non inferiore alle migliori d’Italia. Si è in questo strato di lignite che nel 1847 si trovò un nuovo minerale bianco, jalino, a frattura vitrea; varietà di cera fossile che il Savi chiamò bran- cliite, dal nome del chimico che l’analizzò. Nella stessa località si osservano abbondanti legni silicizzati, attorno ad una polla d’acqua alla quale pare dovuta la loro silicizzazione. Bassani F. — Sopra una nuova specie di Ephippus scoperta nell’ Eo- cene medio di Val Sordina presso Lonigo (Veronese). (Boll. Soc. geol., VII, 3). — Roma. Questo fossile fu scoperto nella parte superiore dell’Eocene medio di Val Sordina, fra la fauna marina di Roncà e gli strati di Priabona, associato ad Ecliinantus bufo, Schizaster bericus, Sismondia mcentina: ecc. Appartiene alla famiglia degli Squamipennidae e si associa per molte particolarità al genere Ephippus, mostrandosi affine all’ E. longipennis A g. di Monte Bolca. Questa nuova specie è dedicata dall’autore al sig. E. Nicolis. Alla nota è aggiunta una tavola in cui il fossile è figurato. Bassani F. — Ricerche sui pesci fossili di Chiàvon. (Atti Acc. Se. Napoli, S. II, Voi. Ili, 6). — Napoli. Nei rendiconti della Reale Accademia delle scienze fìsiche e matematiche di Napoli f autore pubblicò lo scorso anno un sunto di questa memoria: e di esso si disse nella Bibliografia del 1888. La memoria ora pubblicata è accompagnata -da 18 tavole; ed oltre alla descrizione particolareggiata delle forme, comprende — 207 — una estesa discussione del valore paleontologico e stratigralìco della ittiofauna esaminata. Bassani F. — Contributo alla paleontologia della Sardegna. Ittio- liti miocenici. (Sunto dell’autore). (Rend. Acc. Se. Napoli, S. II, Voi. Ili, 11). — Napoli. Presentando la memoria sotto questo titolo da stamparsi negli Atti dell’Ac- ■cademia, il prof. Bassani dice che in essa sono illustrati gli ittioliti raccolti nelle colline di Cagliari e nei dintorni di Sassari dal prof. Lovisato. Sono parecchie centinaia di esemplari, e costituiscono ventitré specie, essenzialmente elveziane ed appartenenti ai generi Carcharodon , Chrysophrys , Clupea, Galeocerdo, Hemipristis , Lamna , Myliobates, Notìdanus, Odontaspis , Otodus, Oscyrhina , Sphyrna, Squatina, Thynnus (?) e Thyrsites. Diciotto specie sono nuove per la Sardegna; ed una, la Thyrsites Lomsatoi è nuova per la scienza. Bombicci L. — Sulla lucentezza e striatura liscia delle superficie nelle salbande dei filoni metalliferi e nelle roccie scagliose. (Mem. Acc. Istituto Boi., S. IV, T. 9). — Bologna. Il prof. L. Bombicci ha disposto nel Museo dell’Università di Bologna una collezione di 25 esemplari intesa ad illustrare il fenomeno della striatura delle salbande dei filoni metalliferi, e quelle singolari superficie specchianti, che non di rado si presentano nei depositi di origine filoniana. Nella presente nota egli dà il catalogo di quei venticinque campioni, mettendone in evidenza i caratteri che valgono ad appoggiare la spiegazione ch’egli propone della origine di quelle striature e lucentezza. Queste si considerano d’ordinario dovute ad attrito verifi- catosi fra le diverse parti della roccia per forti e ripetuti spostamenti di essa: mentre egli è convinto ch’esse si produssero nel maggior numero dei casi per l 'azione lubrificante , lucidante e polimentatrice di filtrazioni di acque mine- radi , o di poltiglie acquose, termali circolanti nelle fratture e screpolature delle ganghe e delle roccie incassanti. E, poiché a cosiffatto modo di origine fanno eccezione le argille scagliose, l’autore è condotto ad accennare il proprio avviso su questo controverso argomento, già da lui sviluppato in altri lavori. Gli esemplari descritti appartengono a varie località italiane e ad alcune estere. Quattro di essi sono figurati in una tavola: è anche disegnato nel testo uno spaccato teorico fra il Monte Alturzoli ed il Monte Canida, passando per Firenzuola. — 208 — Bombicci L. — Sul giacimento e sul tipo, litologico della roccia oligo- clasite di Monte Cavaloro (Bolognese). (Mem. Acc. Istituto Boi., S. IV, T. 9). — Bologna. È questo Tesarne critico di una nota dell’ing. Viola intorno alla fisiografìa delToligoclasite. Il prof. Bombicci comincia dallo esporre l’opinione sua intorno la dibattuta questione delle argille scagliose; combatte in seguito l’idea che il masso di oligoclasite, di cui si tratta, sia erratico; dice che «la genesi delToligoclasite nelle masse ofìolitiche, ossia nel vasto magma delle materie siliceo-magnesiane,. idratate, a basi intimamente commiste, o combinate poligenicamente, di elementi peridotici, pirossenici, feldispatici e ferrei, è identica alla genesi delle analoghe ed analogamente nucleari, eufotide, euritotalcite, iperite labradorica,iperiteplagioclasica ricca di albite, otiti e serpentine porfiriche con oligoclasio e plagioclasio e dial- lagio ed altre, del gruppo delle roccie magnesiane. Il meccanismo di formazione è per tutte queste specie identicamente lo stesso: la convergenza verso un centro, per azioni cristallogeniche centralizzatrici, di particelle diverse dei silicati ricor- dati poc’anzi, e la formazione di nuclei colossali, cui fa da crosta, da involucro proporzionatamente esteso, il residuo incristallizzabile, o meno disposto alla strut- tura cristallina. » Conclude il prof. Bombicci che l’oligoclasite è una individualità litologica. Combattuta l’estensione data dall ing. Viola al nome Gabbro, l’autore si domanda se Toligoclasite può rapportarsi, come quegli fece, alla norite: e conclude che se è conveniente riunire le due roccie in un sol genere, è duopo non confonderle in una specie sola, per la differenza del feldispato, della propor- zione di silice (42-50 °/0 per la norite, 66 % Per Toligoclasite) e dei loro rapporti colle masse incassanti. Bombicci L. — Sui franamenti nel territorio bolognese e specialmente su quello delle Pioppe di Saivaro. (Mem. letta alla Soc. agr. di Bologna). — Bologna, 1889. Prima di venire a parlare del meccanismo delle frane nel territorio bolognese il prof. Bombicci brevemente espone il modo di formazione, quale egli l’intende, di quelle montagne; ed accenna quindi pure alle argille scagliose. La frana delle Pioppe di Saivaro (vallata del Reno) che è l’ultima prodottasi, si originò per lo scorrimento di un grosso deposito di detrito proveniente dalle marne grigio-sab- biose mioceniche del Saivaro, mescolato ad argille scagliose sottostanti, sopra un piano di queste argille. 209 — Bonney T. G. — - Notes on twò Traverses of thè Cristalline Rocks of thè Alps. (Quart. Journal of thè Geol. Society, Voi. XLV, n. 177). — London. Le conclusioni di questa memoria furono pubblicate in riassunto nei Procee- dings of thè Geological Society of London dello scorso anno: e di esse già si rese conto nella precedente bibliografia. Qui diremo dunque solo che nella pre- sente memoria sono ordinatamente descritte e discusse le fatte osservazioni, con corredo di sezioni e spaccati: ed in appendice sono dati i risultati dell’analisi microscopica di alcune delle roccie. Bonney T. G. — Osservazioni geologiche nelle Alpi. {Sunto). (Boll. Com. geol., 1-2). — Roma. È il sunto di una nota pubblicata nei Proceedings of thè Geological Society of London, n. 529, sotto il titolo di « notes ori two traverses of thè crystalline rocks of thè Alps, » e comprendente le conclusioni della memoria precedente. Bozzi L. — Sulle fllliti cretacee di Vernasso nel Friuli. (Atti Soc. it. Se. nat., Voi. XXXI, 3-4). — Milano. Le specie descritte e figurate in questa nota sono le seguenti: Sequoja rigida Heer, S. ambigua Heei\ S. concinna Heer, Cyparissidium gracile Heer, e Arundo Groenlandia Heer ; oltre a due non determinate. Esse si rinvennero in un calcare bituminoso, ceruleo, indicato nella Carta del prof. Taramelli come eocenico. Il prof. Tommasi però vi trovò fossili del cre- tacico. E lo studio delle fìlliti condusse l’autore ad analoghe conclusioni. Il de- posito di Vernasso apparterrebbe, secondo lui, ad un piano cretaceo non inferiore al Cenomaniano. Busatti L. — Sulla iherzolite di Rocca di Sillano (Monte Castelli) e Rosignano (Monti Livornesi). (Atti Soc. toscana, Mem., Voi. X). — Pisa. L’autore espone in questa nota i caratteri macroscopici , microscopici e chimici della Iherzolite delle roccie serpentinose terziarie di Rocca di Sillano (Monte Castelli) e Rosignano (Monti Livornesi). I minerali predominanti nella roccia della prima località sono il peridoto (olivina) e l’enstatite : costanti, ma non abbondanti, sono 14 — 210 il diallagio e la picotite; prodotti secondari sono: il serpentino, la bastite, la ma- gnetite e la limonite. Nella lherzolite di Rosignano, i componenti secondari, specie il serpentino, sono costantemente più abbondanti, e si ha di più la silice. Dall’esame dell’autore risulta che la trasformazione della lherzolite in ser- pentino proviene in primo luogo dalla metamorfosi del peridoto, secondariamente da quella dell’enstatite ed in ultimo e più raramente da quella del diallagio : nei tre casi è sempre nettamente visibile il modo di serpentinizzazione, sia perchè l’alterazione non è completa, sia perchè il nuovo prodotto ha caratteri che in- dicano da quale degli elementi primitivi della roccia proviene. Busatti L. — Sulla sabbia silicea di Tripalle presso Fauglia in pro- vincia di Pisa ( Comunicazione preventiva), (Atti Soc. toscana, Proc. verb., Voi. VI). — Pisa. Questa sabbia si presenta in lenti racchiuse in una sabbia gialla impura. Essa è bianca: è formata in gran parte di grani di quarzo ialino e grasso; ai quali si aggiungono grani di quarzo roseo ed affumicato, di feldispato alterato e pagliuzze di mica. L’autore ha pure trovato: magnetite, limonite pisolitica, spi- nello, zircone, granato, epidoto, tormalina, titanite, zoizite, afrosiderite. Di questi minerali e del giacimento della sabbia, l’autore intende occuparsi di proposito in altro lavoro. Cacciamali G. B. — In valle del Liri : osservazioni orografiche e geo - gnostiche, e indicazioni turistiche. (Boll. Club alp. it., Voi. XXII, n. 55). — Torino. In questo lavoro il prof. Cacciamali brevemente espone le condizioni orogra- fiche e geologiche della Valle del Liri. Tien dietro un elenco di scritti pubblicati nel presente secolo intorno alla geologia, paleontologia, botanica e zoologia di quella regione. Cacciamali G. B. — Petroli e bitumi di Valle Latina. (Riv. it. di Se. nat., Anno IX, n. 6-7 e 10-12). — Siena. Il prof. Cacciamali, premesse alcune nozioni topografiche e geologiche della regione di cui si occupa e che è compresa nei circondari di Frosinone e di Sora, enumera i vari giacimenti di bitume e di petrolio, dando di essi notizie desunte da osservazioni sue o da pubblicazioni anteriori. Nei depositi di Bauco e di Monte S. Giovanni Campano, ad oriente di Frosinone, da lui visitati, il bitume impregna — 211 — tanto il calcare (del quale l’autore non potè determinare l’età), quanto l’argilla, le arenarie e le puddinghe plioceniche: in alcuni campioni l’autore trovò qualche cristallo di solfo. Nel comune di Colle S. Magno (Sora) il bitume impregna e cementa una mi- nuta breccia calcarea incoerente, detta localmente arena, ed un calcare terroso detto stucco : queste due roccie provengono dal disfacimento del calcare compatto ippuritico. Nell’ultima parte della nota, l’autore discorre dell’origine del petrolio ; e, ac- cennate le differenti ipotesi proposte, si arresta a quella, per la quale, la materia organica animale, accumulatasi sul fondo dei mari, fornì il materiale, ed il vulca- nismo contribuì probabilme % ROMA TIPOGRAFIA NAZIONALE 1890. del personale componente il Comitato e l’Ufficio Geologico R. Comitato Geologico. Capellini Giovanni, prof, di geologia nella ^.Università di Bologna, Presid. Cocchi Igino, prof, di geologia, a Firenze. Cossa Alfonso, prof, di chimica nella R. Scuola di applicazione per gli ingegneri in Torino. De Zigno Achille, membro del R. Istituto Veneto, a Padova. Gemmellaro Gaetano Giorgio, prof, di geologia, R. Università di Palermo. Omboni Giovanni, prof, di geologia nella R. Università di Padova. Scacchi Arcangelo, prof, di mineralogia nella R. Università di Napoli. Scarabelli Giuseppe, senatore del Regno, a Imola. Stoppani Antonio, professore di geologia nel R. Istituto tecnico supe- riore di Milano. Struver Giovanni, prof, di mineralogia nella R. Università di Roma. Taramelli Torquato, prof, di geologia nella R. Università di Pavia. Il Direttore del R. Istituto geografico militare in Firenze. Giordano Felice, ispettore-capo del R. Corpo delle Miniere, a Roma. Pellati Niccolò, ispettore nel R. Corpo delle Miniere, a Roma. Personale addetto ai lavori della Carta Geologica. Direzione superiore : Ing. Giordano Felice, Direttore. Ing. Pellati Niccolò. Ufficio geologico : Ing. Zezi Pietro, Capo d’ufficio e Segretario del Comitato. Ing. Sormani Claudio. Dott. Di Stefano Giovanni, paleontologo. Ing. Aichino Giovanni. Sig. Lusvergh Cesare, aiutante. Geologi operatori : Ing. Baldacci Luigi. Ing. Lotti Bernardino. Ing. Cortese Emilio. Ing. Zaccagna Domenico. Ing. Mattirolo Ettore. Ing. Viola Carlo. Ing. Novarese Vittorio. Ing. Sabatini Venturino. Ing. Franchi Secondo. Sig. Fossen Pietro, aiutante. Sig. Cassetti Michele, aiutante. Sig. Moderni Pompeo, aiutante. : . La sede dell’Ufficio geologico è in Roma nel Museo agrario-geologico, via Santa Susanna, n. 1-A. 1 BOLLETTINO DEL R. COMITATO GEOLOGICO D’ ITALIA. SeriTlìrVouT LuglìoTrAgostri890. IL 7 e 8. SOMMARIO. Memorie originali. — I. Le Scimmie fossili italiane; studio paleontologico del Dott. G. Ristori (Continuazione e f ne, v. fascicolo n. 5-6). — IL La regione tra- chitica di Roccastrada (Maremma toscana); studio del Dott. R. V. MATTEUCCI. — III. Le acque sorgive nelle alte vallate dei fiumi Seie, Calore e Sabato; nota dell’Ing. E. CORTESE. Notizie tibliografiche. — Bibliografìa geologica italiana per l’anno 1889. ( Continua- zione, n. fascicolo n. 5-6). Avviso di pubblicazione della Carta geologica d’Italia. Tavole ed incisioni. — Tav. VII e Vili: Scimmie fossili italiane, a pag. 234. — Se- zione schematica a pag. 304 e sezione geologica delle sorgenti di Caposele a pag. 307. MEMORIE ORIGINALI r. Le Scimmie fossili italiane; studio paleontologico del Dottor G. Ristori. (Con due tavole). ( Continuazione e fine ; V. fascicolo n. 5-6). INUUS FL OR EN TINUS (Cocchi). s ♦ (Tav. Vili, fig. 17 a 36). C. S. Forsyth-Major, Note sur des singes fossiles trouvés en Italie précédée d’un apergu sur les quadrumanes foss. en gènéral (Extr. des Actes de la Sòciété ital. des Se. nat., tom. XV, 1872). Sinonimia : Aulaxinuus ftorentinus. — Cocchi, Su di due scim- mie fossili italiane (Boll, del R. Comitato geol., n. 3-4, marzo-aprile, 1872, pag. 68). — Forsyth-Ma.jor, Mammiferi fossili della Toscana (Atti Soc. tose, di Se. nat., voi. I, fase. 1°, pag. 31. 1875). — Max Schlosser, Die Affen, Lemuren, Chiropteren , Inseetivoren , ecc des europàischen Tert. (Beitràge zar palàontologie Oesterreich-Ungarns, VI-Band, pag. 17. 1887). — Idem, Referat ueber die Monogr. der Affen , 226 — Lemuren , ecc. (Archiv fiir Anthropológie, Organ der deutschen Gesell. fiir Anthrop., ecc., pag. 292. 1888). Macacus florentinus. — Stoppani, Corso di geologia , pag. 673, voi. II, 1873. — Forsyth-Major, Mammiferi fossili della Toscana (Atti Soc. tose, di Se. nat., voi. I, fase. 1°, pag. 39. 1875). — Idem, On thè Mammalian Fauna of thè Val d’ Arno (From thè Quarterly Journal of thè Geological Society, pag. 2, Elenco II, III, IV. 1885). Macacus ausònius (F.-Major). — Forsyth-Major, Mammiferi fos- sili della Toscana (Atti Soc. tose, di Se. nat., voi. I. fase. 1°, pag. 39. 1875). — Idem, On thè Mammalian Fauna of thè Val d’Arno (From thè Quarterly Journal of thè Geological Society, pag. 2, Elenco II, III, IV. 1885). I resti fossili di questa scimmia consistono in una mandibola quasi completa, appartenente ad un maschio, in altra mancarne di metà della branca destra appartenente ad una femmina, in porzione di una branca mandibolare sinistra *, ove sono conservati tutti i molari veri ed il primo premolare, e finalmente in alcuni denti isolati, cioè; tre mo- lari inferiori, due premolari pure inferiori, un secondo incisivo della mandibola, ed un molare superiore, il secondo. La maggior parte di questo materiale fu raccolto in tempi diversi nel Val d’Arno superiore e ’ più esattamente nelle seguenti località, Torre, Tasso, le Ville, le quali poco distano le une dalle altre, e sono tutte nella comunità di Terranova Bracciolini, dove appunto sono stati scavati i più importanti i e numerosi resti di mammiferi fossili, che in questi ultimi tempi hanno contribuito ad arricchire ancora di più la rara e bella collezione di mammiferi pliocenici del Museo paleontologico di Firenze. Un altro resto fossile, che devesi pur riferire a quella medesima specie, consta di una porzione di mascellare superiore con i tre mo- lari veri, la quale si conserva nel Museo civico di Milano, e che io ho dovuto, mio malgrado, studiare su un modello di gesso. Questo porta T indicazione, Val d’Arno inferiore; il Cocchi ed il F.-Major dubitano del- l’esattezza di simile provenienza, anzi il Cocchi dice di avere ricono- 1 Questo resto fossile fu presentato dal Forsyth-Major all’adunanza della Soc. Tose, di Se. nat. del 9 marzo 1879. -Vedi proc. verb., pag. LXXII. sciuto nella roccia arenacea aderente al fossile V arenaria finissima , argillosa , verdastra e leggermente cementata , che egli crede propria dei depositi lacustri del Val d’Arno superiore. A parte, che simile roccia con identità di carattere si trova pure nel Val d’Arno inferiore, credo affatto superfluo fare delle obiezioni alla conclusione del Cocchi, tanto più che la cosa non ha nessuna importanza geologicamente e paleontologicamente parlando; perchè il sincronismo delle formazioni lacustri del Val d’Arno su- periore, con quelle marine dell’inferiore è ormai evidentemente dimostrato. A tutti questi resti fossili devesi aggiungere due molari inferiori 2° e 3° ed un frammento di canino trovati nelle ligniti plioceniche di Barbe- rino di Mugello e donati dal Sig. Bechi al Museo di Pisa, e final- mente alcuni denti trovati nelle argille plioceniche d’Orciano presentati dal LaAvley 1 alla Soc. toscana di scienze naturali, e riconosciuti dal F.-Major come appartenenti al Macacus (Inuus) fior e ntinus. Nello studio accurato che ho fatto sui resti fossili di questa scimmia, posi massima cura nel provvedermi un materiale di confronto, che mi dette modo di vedere quali fossero i caratteri veramente importanti che separano i nostri fossili dalle scimmie viventi affini. L’ abbondante materiale di confronto, che ebbi appunto nell’Istituto paleontologico di Monaco Baviera, mi rese ovvio riconoscere che il nostro fossile non poteva separarsi dal genere Inuus. La somiglianza con quel genere è tale da farci meravigliare, come il Cocchi, studiando la mandibola quasi completa, trovata alle Forre, vi abbia potuto riscontrare differenze tali da giustificare l’avervi fondato il nuovo genere Aulaxinuus. Io dubito che il distinto paleontologo sia venuto in quella determinazione per due fatti: primo, per avere forse paragonata la mandibola fossile colla corrispondente di un giovane Inuus vivente; secondo, per aver data importanza a certi caratteri, i quali o dipendevano dal sesso, od erano affatto individuali, o al più semplicemente specifici: infatti egli caratterizza così il suo nuovo genere: Canini lunghi , acuti , solcati longitudinalmente sul lato interno , e rinforzati da una larga base di - retta alV indietro e nascosta in parie dietro il premolare anteriore , 1 Lawley, Scimmie fossili di Or ciano, Pisa (Soc. tos. Scienze naturali, proc. verb., 9 marzo 1879, pag. LXXVII). — 228 — dai primi premolari grossi e forti , più lunghi anteriormente che po- steriormente, con la base dello smalto seghettata , con un tubercolo posteriore denticolato , dall* ultimo molare munito di un tubercolo po- steriore bilobo , dalla mascella forte e con profonde depressioni laterali. Vediamo ora quale sia veramente il valore di questi caratteri, e co- minciamo dai canini. I canini lunghi ed acuti non possono essere nel caso nostro carattere di grande importanza, inquantochè, paragonando la mandibola fossile con altra di un Tnuus adulto, non si scorge dif- ferenza apprezzabile neiracutezza e lunghezza dei medesimi. Lo stesso deve dirsi per il solco longitudinale interno, il quale è comune tanto agl’ Inuus come ai Macacus , e per l’espansione basilare, perchè questa si riscontra proprio identica ed identicamente posta in tutti gli individui maschi giunti a completo sviluppo, ed apparisce evidente anche nei giovani, pure che si abbia cura di sfilzare il dente dall’alveolo, ove nella prima età si trova nascosta, mentre poi uscitane fuori si dispone proprio come si vede nella mandibola fossile. In quanto ai secondi pre- molari (primi per il Cocchi) 1 debbo far notare prima di tutto, che il loro sviluppo, la lunghezza anteriore e le seghettature della base sono pro- prietà esclusive del sesso e dell’età; poiché tutte queste particolarità dipendono e stanno quindi in diretto rapporto collo sviluppo del canino superiore: infatti, quando si esamini una mandibola di Inuus adulto e si paragoni con quelle di individui sempre più vecchi, troviamo progressi- vamente più accentuati tali caratteri, e non è punto difficile, come è accaduto anche a me, incontrarsi in mandibole di media età, in cui si ripetano le identiche caratteristiche di quella fossile. L’acutezza della parte anteriore della corona di questo premolare e le seghettature della base dello smalto non trovandosi nei giovani nè nelle femmine (vedi Tav. Vili, fìg. 35 e 36), ed accentuandosi in ragione dell’ età, a me sembra giusto pensare che questi, invece di essere caratteri specifici o gene- rici, siano piutffisto conseguenza diretta dello sfregamento del canino superiore, il quale, strisciando appunto, durante la masticazione, lungo la parete laterale esterna di detto premolare, e quindi consumandola al- I primi premolari per noi sono i secondi; giacché questi denti vengono qui contati dall’indietro alPavanti e non inversamente, come prima si usava. — 229 — quanto irregolarmente ne acutizza anteriormente la corona o meglio il tubercolo anteriore, sul quale appunto non urta, e nello stesso tempo, consumando col suo movimento dall’ alto al basso e vice- versa parte dell’osso mandibolare in corrispondenza della porzione esterna dell’alveolo, scalza tutta quanta la faccia laterale esterna del dente, fino al punto dove comincia la radice, e mette così allo scoperto le seghettature proprie della base dello smalto contribuendo a renderle più evidenti. Del resto tutto ciò apparisce evidente, per poco che si esamini l’omologo premolare destro della medesima mandibola fossile, il quale, essendo completamante scalzato, mostra le caratteristiche della base dello smalto, le quali si presentano non solo identiche a quelle dei denti omologhi dell ’ Inuus vivente, ma anche di altri generi vicini. Delle caratteristiche del secondo premolare non resta dunque che il tubercolo posteriore denticulato, di cui nulla di simile mi è stato pos- sibile trovare nelle specie viventi affini, con cui ho avuto cura di pa- ragonare il fossile. Altra, a dire del Cocchi, importantissima differenza e caratte- ristica generica sarebbe quella del terzo molare inferiore, ove il tuber- colo posteriore è bilobo. Quest’ osservazione, su cui principalmente si basa il noto poleontologo, fu quella appunto che mi fece, fin da prin- cipio, credere che esso non abbia paragonata la mandibola fossile con la corrispondente di un Inuus adulto, ma invece con quella di un gio- vane, ovvero di un Maeacus ; poiché per le numerose mandibole ap- partenenti a questi due generi, che io ho avute fra mano, mi è stato facile constatare che i veri Alacacus hanno sempre il tubercolo poste- riore dell’ultimo molare inferiore trilobo; al contrario questo è bilobo in quelli che furono staccati da quel primo genere per costituire il ge- nere Inuus , nel quale solamente i giovani e più precisamente le gio- vani femmine hanno una rudimentale trilobazione che va progressiva- mente scomparendo coll’età forse per effetto dell’ attrito sofferto nella masticazione. A distinguere la nostra scimmia fossile da un Inuus resterebbero ora la robustezza della mandibola e le sue profonde depressioni late- rali. Questi caratteri sono di per sé caratteri relativi, individuali ed in- costanti. La robustezza della mandibola non può essere invero un carattere assoluto, giacché sta in relazione diretta colla robustezza individuale ed anche coll’età, e di ciò facilmente possiamo persuaderci osservando, come ho fatto io, un certo numero di mandibole apparte- j nenti a diversi individui della medesima specie. In quanto alle profonde depressioni letterali, queste possono al più avere un valore specifico ; inquantochè stanno in rapporto collo sviluppo dei canini superiori ed inferiori e sono esse tanto più forti quanto più robusti e lunghi sono quei denti. Infatti nella mandibola fossile, figurata a Tav. Vili, fig. 35 e 36, ' quelle depressioni sono appena accennate appunto perchè appartiene ad un individuo femmina, e nelle femmine i canini sono sempre note- volmente ridotti. A questo s’aggiunga che le depressioni laterali delle branche mandibolari non sono solamente ridotte nelle femmine, ma anche nei giovani ed in generale in tutte quelle .scimmie che hanno canini poco sviluppati, come per esempio negli antropomorfi. Da tutto ciò ne consegue che il nostro fossile non può assoluta- ! mente staccarsi dal genere Inuus; giacché con questo presenta non solo le maggiori analogie, ma bensì una sorprendente rassomiglianza, ! per cui mi permetto di dubitare dell’ esistenza vera del nuovo genere Aulctxinuus che il Cocchi fondava su caratteri che abbiamo dovuto ri- , conoscere insufficienti, incostanti e d’importanza molto discutibile per essere base di un genere nuovo. L y Inuus ecaudatus Geoff., a cui la nostra specie fossile molto si ravvicina, abita la regione più settentrionale dell’Africa e gli scogli di Gibilterra Per le grandi rassomiglianze che la scimmia fossile qui esaminata presenta con la suindicata specie vivente, può ritenersi benissimo come la sua progenitrice. Non mi sembra però che debba trattarsi della medesima specie, ma sibbene di specie affine che po- trebbe per ora distinguersi per le seguenti caratteristiche: 1° pre- senza, nella specie fossile, di un tubercolo posteriore denticolato nel secondo premolare inferiore; 2° mento un poco più dilatato? 3° espan- : sione ossea pianeggiante, all’interno della mandibola e in corrispon- denza della sinfisi della medesima, più breve; 4° riduzione nello svi- luppo del primo premolare; 5° robustezza notevole del canino inferiore. Dietro ciò io lasciai a questa scimmia fossile il nome specifico impo- 1 Si crede da alcuni che VInuus ecaudatus non sia a Gibilterra endemico — 231 — stogli dal Cocchi, ma, nel medesimo tempo, per le ragioni già esposte, la riunii al genere Inuus. Dietro le osservazioni fatte dal Major 1 sulla porzione di mascella superiore conservata nel Museo di Milano, in cui si vedono in posto i tre ultimi molari, e dietro i paragoni che ho potuto fare servendomi di un modello della medesima che potei avere, e di un molare superiore trovato presso Terranova e rappresentato dalla fig. 17, 18 e 19, Tav. Vili, debbo concludere che anche questi resti appartengono con molta pro- babilità, anzi colla quasi certezza, alla medesima specie degli altri fin qui esaminati; giacché anche questi resti della mascella superiore, al pari di quelli della mandibola, presentano sempre relazioni notevoli di somiglianza colla specie affine vivente Inuus ecaudatus. Per ciò che riguarda i molari inferiori trovati in Mugello nelle ligniti di Barberino, i quali furono posti amia disposizione dal mio illustre e vene- rato maestro Prof. Meneghini, debbo far noto che anche questi presentano un’identità perfetta eoi corrispondenti degli altri resti fossili trovati in Val d’Arno. Nessun carattere differenziale di qualche importanza si scorge nel secondo molare inferiore rappresentato dalle fìg. 31 e 32, Tav. Vili; solamente il terzo, rappresentato dalle fig. 33 e 34, Tav. Vili, ha i tuber- coli assai consumati, specialmente Tultimo posteriore e nell’interspazio fra i due tubercoli anteriori, presenta sulla faccia esterna due solcature. Simili solchi e similmente posti si veggono anche nella porzione sini- stra di mandibola che fu raccolta alle Ville, presso Terranova Brac- ciolini, (Tav. Vili, fìg. 30), della cui identità colle altre dei Val d’Arno non può dubitarsi. Del resto residui di un simile carattere trovansi anche nella mandibola appartenente ad un individuo femmina molto vecchio, che figuro a Tav. Vili, fìg. 35 e 36 e ne abbiamo pure riscontro negli in- dividui giovani del vivente Inuus ecaudatus , ma difficilmente possono vedersi ne molto vecchi, perchè in questi ultimi sono o completamente scomparsi o ridotti ai minimi termini, causa il logorìo sofferto dai denti nella prolungata masticazione. Sopra questo carattere che si mostra più evidente e che si ripete anche in corrispondenza del lobo interno del tubercolo ultimo, di un 1 Forsyth- Major, Note sur des sing. fo§§ La silice gelatinosa ott^nut5», arro- ventata e pesata, trattata per 2 volte con acido cloridrico e acido fluoridrico, scomparve sotto forma di fluoruro silicico, ma lasciò un residuo che serbai per aggiungerlo al precipitato dei sesquiossidi di ferro e allumìnio. Separata la silice, nel liquido filtrato precipitai il ferro e l’allumina come sesquiossidi mediante cloruro ammonico e ammoniaca. Questo precipitato calcinai 285 — Il resultato dell’analisi eseguita su un esemplare di trachite di Sassoforte fu: SiO2 . À1203 FeO . X . Ti0*o 71.14 11.14 2.73 1.05 0.00 MnO tr CaO. MgO SO5 . Cì , P208. Na20 K20 . Li20 CO2 . H20 . 3.17 1.62 1.78 tr tr 1.40 4.13 tr tr 1.77 99.83 Pere ita per calcinazione 2,04 °/0. insieme al residuo del trattamento con acido cloridrico e acido fluoridrico della silice; fus^ il tutto con bisolfato potassico, dopo raffreddamento sciolsi in poca acqua tiepida, filtrai, e ciò che restò indisciolto sotto forma di fiocclii. bianchi venne pesato. Il filtrato della fusione saturai con gas solfidrico e così ottenni dei fiocchi brunicci che separai e pesai insieme a quelli bianchi precitati. Come il Williams indico nell’analisi con una X la somma di questi due pre- cipitati, i piali, pure secondo lui, rappresenterebbero una mescolanza di ossidi di terre r ire, fra cui forse la zirconia. Il flit ato bollii per un’ora circa in corrente di anidride carbonica, ma non ottenni la benché minima traccia di acido titanico. In questo liquido precipito di nuovo ferto e allumina con cloruro ammonico e ammoniaca; raccolti in un filtro furono cabinati e insieme pesati. Fusi di nuovo Con bisolfato potassico e sciolti nell’acqua tiepida, fu precipitato il ferro con potassa, Ridisciolto in acido clori- drico e n precipitato con cloruro ammonico e ammoniaca per eliminare tutto l’idrato potassico, fu raccolto e pesato. Avendo preventivamente tenuto conto del peso complessivo dei sesquiossidi di ferro e di allumina, questa fu determinata per differenza. Al calor bianco la polvere della roccia si rapprende in una massa compatta e tenace, e da bianca grigiastra, che era, diviene grigio- cupo verdiccia. Ciò deve certamente dipendere dall’ossido ferroso che vi è contenuto, e non è improbabile che questo mutamento di colore Nel liquido primitivo fu precipitata la calce con ossalato ommocico e filtrata dopo 16 ore. L’ossalato calcico fu arroventato per eliminare i sali alcalini e quindi pesato come calce. Il magnesio fu separato come fosfato ammonico magnesiaco e pesato come pirofosfato di magnesia. Tracce di manganese furono avvertite su piccola quantità di roccia disag- gregata facendola bollire insieme a biossido di piombo con acido nitrico concen- trato. In questo modo ebbi una colorazione sensibile rosso porpora. Per la determinazione degli alcali trattai gr. 1,286 di polvere finissima della roccia per due volte con acido solforico e acido fluoridrico. L’acido solforico fu totalmente svaporato e si riprese con acido cloridrico. Il ferro e l’allumina furono precipitati con cloruro ammonico e ammoniaca; il calcio con ossalato ammonico, ridisciolto in acido cloridrico e riprecipitato per avere tutti gli alcali nel filtrato. Questi due filtrati furono riuniti, svaporati, e la parte solida calcinata per scacciare i sali ammoniacali. 11 residuo ripreso con acqua, trattato con acetato di piombo per eliminare l’acido solforico ; separato il solfato di, piombo, trattato con acido solfìdrico per eliminare il piombo come solfuro di piombo. Al liquido si aggiunse acido cloridrico e si portò a siccità. Il residuo sciolto in acqua fu svaporato in capsula di platino con ossido di mer- curio. Si scaldò fintantoché l’ossido mercurico e il cloruro mercurico fossero stati completamente eliminati. Così il magnesio restò insolubile allo stato di ma- gnesia, e i cloruri alcalini si sciolsero nell’acqua. Evaporato il liquido contenente il miscuglio dei cloruri alcalini, questi furono pesati complessivamente. Ridisciolti in acqua, precipitai il potassio allo stato di cloroplatinato e il sodio ebbi per differenza. Nel cloruro di sodio mi accertai della presenza di litina mediante lo esame spettroscopico. Ho avvertito tracce di acido solforico bollendo gr. 0,539 di roccia finamente polverizzata con acqua regia per mezz’ora circa; portai quasi a siccità e ag- giunsi acido cloridrico. Dopo un paio d’ore filtrai e nei liquido filtrato ebbi pre- cipitato incalcolabile di solfato di bario con cloruro di bario. Il cloro e l’acido fosforico furono determinati in uno stesso saggio di pol- vere col metodo che addita il Williams b Se ne fece bollire per mezz’ora una 1 Williams J. F., N. Jahrbuch f. Minerai. Geolog. und Paleontologie, V. B.-Band, li Heft. — Stuttgart, 1887. provenga dalla cordierite. Anche lo Scacchi 1 dice che la pinite di Roccatederigbi, al rosso, muta colore e diviene verde-nericcia. Petrografia. — Le trachiti alla superficie si presentano più cel- lulose mentre nelle profondità sono alquanto più compatte; cosicché talvolta sono tenaci e tal’altra fragili e friabilissime. Delle qualità più compatte e tenaci e che di più resistono alle intemperie se ne fa una attiva eseavazione e vengono utilizzate con profitto nelle costruzioni. Anzi, oltreché nella muratura ordinaria e nella lastricatura delle vie, se ne fanno gradini, mensole, rivestimenti, balconi, soglie, fregi ed altro. Essendo quasi refrattaria, si utilizza pure per i piani di forni, ecc. Se ne estrae dappertutto, ma le migliori qualità sono quelle di Rigualdo (al margine settentrionale del distretto dei Grottoni), di Torniella (al Monte) e di Sassoforte. Non tutte si alterano ugualmente alle intemperie; alcune sono quantità pesata con acido nitrico diluito. Il filtrato lo lasciai depositare in una boccia di 100 cm.c. per 16 ore. Tolsi con una pipetta, senza agitare, 50 cm. c. di liquido in cui con nitrato d’argento mi furono svelate tracce di cloro. I rimanenti 50 cm. c. furono portati a siccità in capsula di porcellana. Il residuo fu scaldato per mezz’ora a lt0° per trasformare 1 acido silicico in silice insolubile, ripreso con acido nitrico e poi trattato con molibdato ammonico. Così il liquido si colori leggermente in giallo. L’anidride carbonica fu trovata bollendo una certa quantità di polvere con acido cloridrico in un palloncino, che, per mezzo di un tubo a doppia squadra, era unito ad un altro palloncino contenente acqua di barite. Così ho avuto un intorbidamento abbastanza sensibile di carbonato barbico. *• L’acqua fu determinata direttamente esponendo ad alta temperatura in un fornello a gas un tubo di vetro infusibile contenente un dato peso di polvere preventivamente essiccata nel vuoto. L’acqua fu condensata in un tubo a cloruro di calce. La perdita al fuoco fu valutata arroventando gr. 1,0372 di polvere finissima della roccia al soffiatore a gas. La differenza fra la perdita alla calcinazione e l’acqua contenuta nella roccia è abbastanza rilevante (0,27 °/0), ed è dovuta senza dubbio all’acido carbonico che la roccia stessa contiene. 1 Eugenio Scacchi, Cordierite alterata di Roccatederighi (Atti della Reale Accademia dei Lincei, 1886, voi. II, fascicolo 6°). — 288 — facilissimamente decomponibili, altre resistono abbastanza. Quella di Poggio Carbonaie nel distretto dei Grottoni e quella della parte meri- dionale del distretto di Sassoforte, ad esempio, si convertono con somma facilità in una sabbia in cui si ritrovano molti degli elementi costi- tuenti la roccia, e che si adopera come materiale da costruzione im- pastandola con calce. In questo stato è trasportata e depositata da cor- renti acquee in luoghi favorevoli come bassure o avvallamenti. Il colore della roccia è abitualmente il grigio più o meno intenso, a seconda che vi predominano elementi chiari o incolori, oppure quelli scuri, e qua e là vi si osservano chiazze o liste più oscure provenienti da sovrabbondanza di mica nera. Anzi uno stesso esemplare talvolta è in parte cinereo scuro e in parte cinereo chiaro, e questa seconda gradazione di colore è dovuta alla parziale caolinizzazione dei feldi- spati, la quale bene spesso impartisce alla roccia un aspetto quasi terroso. Però ve ne sono molte varietà rossastre, e questa colorazione è dovuta alla diffusione degli ossidi di ferro provenienti dall’alterazione dei materiali ferriferi per tutta la massa rocciosa. Le tante varietà di tracbite che si incontrano, percorrendo i di- versi distretti., si possono ridurre a tre tipi principali e ben distinti dall’aspetto e dall’esame macroscopico : 1° Trachite grigia-acciaio, più o meno oscura, compatta, finamente granulosa ; 2° Trachite rossiccia con diversissime gradazioni dal roseo al rosso bruno, ad elementi granulosi di maggior dimensione ; 3° Trachite cinerea o rossiccia, talvolta compatta, tal’ altra cel- lulosa, a grandi elementi porfiricamente disposti. Sempre aspra al tatto: i granuli cristallini hanno variabile dimensione, dai microscopici costituenti specialmente la massa fondamentale si passa a quelli di 3 e 4 e anche 6 mm. e più di diametro. Il peso specifico di queste trachiti varia sensibilmente. Determi- minato col metodo della bilancia idrostatica su sei esemplari di loca- lità diverse, cuoprendoli con un velo trascurabile di gomma-lacca, ebbi i pesi specifici seguenti : Sassoforte (sommità) 2,474 » (falde) . ... . . . ... 2,486 - 289 — Roccastrada (Civitellaccia) 2,490 Grottoni (Poggio Carbonaie). . . ... . . 2,502 » (Rigualdo) 2;512 Torniella (Monte) 2,534 Contrariamente a quanto dice il Lotti 1 ho trovato nella trachite di Sassoforte, in un luogo detto Le Piane, un incluso (volgarmente detto anima di sasso ) di forma elissoidea a tre assi, di cui il maggiore è di 3 cm. Questo incluso è di color violetto-grigio e non mostra aver sofferto alterazione di sorta dal contatto della trachite. Facendo un’ispezione accurata su questa roccia anche ad occhio nudo sono facilmente discernibili alcuni cristalli, mentre alcuni altri sono di così piccole dimensioni che le danno in parte un’ apparenza compatta, e tutti sono disseminati in una pasta comune. Talmentechè si può dire che la sua struttura sia eterocristallina e la costituzione criptofanerocristallina anziché porfiroide. Deve principalmente questi caratteri a cristalli maggiori incolori trasparenti o biancastri, o vio- lacei, o bruni, a foglietti esagonali neri con lucentezza madreperlaceo- metallica, di dimensioni abbastanza rilevanti, che risaltano sull’impasto cinereo che ne forma il fondo, ed a tavolette rettangolari brune assai più piccole di quelle esagonali e non sempre discernibili macroscopi- camente. Le sezioni sottili di queste roccie confermano quanto abbiamo detto sui loro caratteri strutturali. La conformazione dei singoli loro elementi e la loro reciproca disposizione chiaramente dimostrano che la conso- lidazione si è effettuata in due distinti stadii; al primo dei quali, o alla prima generazione appartengono i cristalli maggiori vitrei e bianchi, i cristalli esagonali e quelli tabulari, alla seconda è da assegnarsi la parte criptocristallina costituita da piccoli elementi cristallini, che nella pasta conservano una data direzione ed imprimono a questa una strut- tura fluidale. Al microscopio una lamina sottile appare per la massima parte trasparente e incolora, se togliamo cioè il magma che si presenta più spesso pellucido, ed i cristalli di minerali opachi o quasi. B. Lotti, II Monte Amiata (Boll. Com. Geol. 1878, p. 375). 19 — 290 — Descritti così sommariamente i caratteri speciali della trachite presa in complesso, passo ad un succinto esame della sua massa fon- damentale e dei minerali che la costituiscono. Massa fondamentale. — La massa fondamentale è costruita da un minutissimo miscuglio di particelle incolore o leggermente cerulee o giallastre che cedono all’insieme un colore cinereo chiaro o turchi- niccio o rosso-bruno, e un aspetto di nebulosa a chiazze sfumate e più 0 meno pellucide. A nicols incrociati dà colori d’interferenza che non si estinguono mai, qualunque sia la sua posizione rispetto alle sezioni principali dei nicols. In alcune questa struttura felsitica ha il predominio sui cristalli in essa contenuti, e costituisce perciò la parte integrante della roccia; in altre è così scarsa che è appena sufficiente a tenere uniti 1 diversi granuli cristallini, i quali allora sembrano talvolta tenuti stretti da sistemi di contrasto piutostochè da un cemento comune. La massa fondamentale presenta sempre una struttura Affidale, ma questa è tanto più manifesta quanto più grandi sono gli individui cristal- lini in essa inviluppati. Sferule elissoidali, massicciuole oblunghe, a- ghetti microscopici sono orientati nella pasta di fondo di preferenza in maniera tale che i loro assi maggiori si trovano fra loro paralleli. E questo il principal carattere per cui viene riconosciuta la struttura Affi- dale del magma. Nella massa fondamentale amorfo-cristallina stanno disseminati : quarzo, sanidino, plagioclasio, cordierite, biotite , come componenti normali e ipersteno, apatite, almandino, magnetite, pirite e limonite, come componenti secondari. Cristalli da riferirsi all'augite e all’anA- bolo non li rinvenni nelle sezioni sottili fatte su queste trachiti. Quarzo. — Il quarzo è molto abbondante in queste trachiti, ma ciò che non mi fu dato osservare, si è la diversa colorazione di esso, giacché si mostra sempre incoloro e limpido o tutt’al più leggermente . biancastro e quasi lattiginoso. Le varietà giallognole, brune e violacee che il D’Achiardi * dice si trovino nella trachite di Sassoforte, Sasso- 1 A. D’ACHIARDI, Mineralogia della Toscana. Pisa, 1872. - 291 - fortino, Roccastrada e Roccatederighi, nè ie ametiste che il Giuli 1 ram- menta, io non ve le ho mai rinvenute, ma ritengo siano state confuse con la cordierite. Il quarzo è di due generazioni, alla prima appartenendo quei cri- stalli più grandi disposti porfiricamente, ed alla seconda i piccoli fram- menti talora microscopici dispersi nella massa fondamentale. Quello di prima consolidazione, come si riconosce al semplice esame macrosco- pico, è in grossi granuli perfino di 6 mm. di diametro. Talvolta ha contorni rettilinei formanti irregolari poligoni esagonali, ma più spesso con numero assai maggiore di lati. Il valore degli angoli che questi formano, misurati al microscopio su diversi cristalli, oscillano fra un minimo di 124u41 ed un massimo di 1 43°47*. Questa differenza enorme col valore dell’angolo del prisma esagono è dovuta evidentemente in parte alla obliquità delle sezioni sull’asse del prisma, e in parte alla corrosione che i cristalli soffersero e per la quale simulano dei con- torni poligonali, i cui lati non corrispondono alle faccie del prisma. I segni di corrosione del resto sono anche più manifesti quando essa sia molto inoltrata, giacché allora i cristalli non presentano più sezioni poligona'i ma tondeggianti, spesso smangiate, con insenature e anfrat- tuosi, e intrusioni in esse del magma. Talora degli accumulamenti di massa fondamentale opaca occupano appunto quelle porzioni dei cristalli che furono riassorbite dal magma stesso. A luce ordinaria il quarzo è incoloro e mostra delle screpolature dovute senza dubbio ad azioni meccaniche esercitatesi posteriormente al suo assettamento nella massa rocciosa. In generale è in cristalli uniformi tutti di un pezzo, ma a nicols incrociati, spesso si risolvono in un mosaico di piccoli frammenti poligonali, o subrotondi che essendo diversamente orientati si colorano diversamente gli uni dagli altri. Co- lori d’interferenza vivacissimi. Ho pure veduto un cristallo rotto in tre parti che si trovano al- quanto discoste, e questo fatto è interessante perchè dimostra essersi frantumato per cause dinamiche ed essere di prima generazione, in- quantochè i tre frammenti sono anche screpolati e i loro margini sono 8 Giuli, Statistica mineralogica della Toscana. 1842-43. — 292 — rispettivamente paralleli e sono separati dalla massa fondamentale, la quale è a struttura manifestamente fluidale. Non è raro il trovare delle inclusioni nei granuli di quarzo, talune solide, vetrose, di forma irre- golare, altre prismatiche trasparenti, pure solide forse di apatite, altre di un liquido contenuto in certe microscopiche cavità a contorno re- golare che quasi si potrebbero chiamare cristalli negativi. Raramente le inclusioni liquide contengono libella gasosa, ma non si può dire che queste manchino affatto. Se il contenuto in silice è alquanto più basso di quello delle or- dinarie trachiti quarzìfere, le quali ne contengono il 73 °;0 almeno, pure confrontando i resultati analitici del Williams sulle trachiti dei Monte Amiata con quello da me ottenuto, si trova una forte differenza di si- lice. L’abbondanza del quarzo osservata anche nelle sezioni sottili di queste trachiti ci rende perfettamente ragione del loro alto tenore in silice che l’analisi chimica ci svela. Sanidino. — L’ortose si trova abbondante e, al pari del quarzo, di due generazioni. Quello di seconda va a costituire in piccolissimi fram- menti la massa fondamentale, mentre quello di prima si presenta in cristalli sviluppati disseminati porfiricamente nella roccia con profili bene determinati di rettangoli e di esagoni allungati, in cui non si scorge la benché minima traccia di alterazione, se non vuoisi tener conto di alcune nebulosità che potrebbero invero attribuirsi ad un prin- cipio di caolinizzazione. Essi sono trasparentissimi e vitrei e li considero perciò come sa- uidino. A luce ordinaria sono incolori o tutt’al più leggermente bianco' giallastri. Essi sono fragilissimi, raramente traslucidi e mai opachi. Ciò che toglie loro la perfetta trasparenza e la presenza degli innume- revoli piani di sfaldatura e alcune volte la impurità. La lu entezza ne è vitrea e talora madreperlacea. Bene spesso sono screpolati ma mai vi ho potuto osservare nep- pure un indizio lontano di principio di fusione. Le linee di sfaldatura sono basali» Oltre a parecchie inclusioni in- decifrabili il sanidino mostra talvolta cristalli negativi che ripetono la stessa forma degli includenti. Nella sezione sottile di un esemplare delle Tombarelle presso Roc- castrada ho trovato un cristallo molto sviluppato di sanidimo, geminato 293 — secondo la legge diKarlsbad; tre individui accumulati secondo l’asse C mostrano a nicols incrociati colorazioni bleu e gialla alternantisi vicen- devolmente. Questo geminato è inoltre compenetrato da un quarto in- dividuo in posizione perpendicolare rispetto ai primi, e i suoi piani di sfaldatura sono evidentemente perpendicolari a quelli degli altri. Plagioclasio. — Un plagioclasio in generale bianco si distingue facilissima lente dall’ ortose per la sua caratteristica sfaldatura e per le strie che si rendono evidentissime, osservandolo in sezioni sottili al microscopio. Non vi è molto sparso, ma in compenso vi costituisce delle accu- mulazioni. Si presenta in individui che non hanno forme definitive se si eccettua quella più comune di rettangoli allungati; la forma irrego- lare o arrotondata è del resto la più abituale; non oltrepassano i 3 mm. in dimensione. Nelle lamine sottili, specie a nicols incrociati, si rende manifesta a geminazione polisintetica, secondo la legge dell’ albite, comune ai plagioclasii; talvolta due o più individui polisintetici si tro- vano in altra combinazione, la cui legge non è chiara. Contengono numerose inclusioni solide, fra cui meritano speciale menzione certi piccoli cristalli di forma rettangolare allungata, i quali sono tutti disposti col loro asse maggiore nella direzione dei piani di geminazione dei cristalli includenti. È intorno a questo plagioclasio di prima generazione che si nota specialmente la massa fondamentale assumere la struttura fluidale molto più decisa che altrove. Cordierite. — I cristalli di cordierite variano assai in dimensione ordinariamente da 1 a 5 millimetri, ma ne ho trovati due molto più sviluppati di millimetri 13X10 e di millimetri 19x11* U loro colore è diverso a seconda dell’incidenza di luce. Osservati per riflessione i migliori cristalli sono ordinariamente violetti, mentre per trasparenza si mostrano a seconda dell’incidenza della luce di color giallo-roseo, ovvero bruno, talora così intenso che sembrano di quarzo affumicato. Non sempre però per riflessione appariscono violetti, chè anzi nella gran maggioranza sono bianco-cerulei o grigi. Alcuni sono perfetta- mente diafani ed altri translucidi; quelli però molto alterati sono opachi, e anche la translucidità dipende dall’ incipiente alterazione, al- trimenti sarebbero trasparenti come del resto lo sono i loro frana- 294 — menti in cui non è possibile osservare traccia alcuna di alterazione. Non mi è stato dato però di trovarne degli assolutamente nitidi, in- quantochè le molteplici fessure che li intersecano in mille guise fanno loro assumere tutta l’apparenza di una massa vetrosa fratturata per pressione o per raffreddamento istantaneo. Lo Scacchi 1 ha studiato alcuni cristalli di pinite di Roccatede- righi, della quale dà i valori angolari, costruisce la forma cristallina, e dà il rapporto assiale: a: b: c: = 0,58007: 1: 0,55888. Di essa dà i risultati analitici seguenti: SiO5 49,65 ALO3 27,41 Fe203 8,89 CaO ..... 3,95 MgO 1,23 IRÒ 8,38 99,51 La sua frattura è concoide o vetrosa, ed è appunto in queste frat- turé oltreché alla superficie che si osserva Y alterazione più o meno inoltrata che si mostra in generale per trasparenza anche ma- croscopicamente con una colorazione gialla più o meno intensa. La loro lucentezza è vitrea specie nelle fratture, mentre alla superficie è resinosa. La loro disposizione nella roccia è irregolarmente porfirica e la loro proporzione è alquanto variabile da esemplare ad esemplare. Le lamine sottili osservate per trasparenza a luce ordinaria non pre- sentano pleocroismo, ma solo superficie di frattura con variabili incli- nazioni e intersecanti^ senza alcuna legge. A luce p larizzata i con- torni dei cristalli e le loro fratture, ossia i limiti dell’ alterazione, si mostrano con colori più intensi e sempre diversi da quelli della parte interna e inalterata; mentre a luce ordinaria sono colorati in violetto 1 E UGEK1C SCACCEI, op. cit. chiaro. Durezza alquanto superiore a quella del quarzo; peso specifico determinato su un piccolo frammento 2,64. Il colore, la translucidità, la lucentezza, la durezza e finalmente la quasi infusibilità, il peso specifico e la presenza di magnesio, ferro e alluminio confermano trattarsi di cordierite. In un cristallo violaceo voluminoso di un esemplare di Sassoforte, che poteva ritenersi a prima vista per quarzo ametistino, ho riconosciuto il ferro e il magnesio col metodo di microchimica proposto da Behrens. 1 Tre milligrammi del cristallo ho finamente polverizzati, li ho attaccati a caldo con 10 cen- tigrammi di acido fioridrico fumante. Portati a siccità i fluoruri, li ho ripresi con acido solforico diluito ed ho riscaldato fino all’apparizione dei vapori bianchi di quest’ acido. Ho aggiunto eccesso di acqua ed ho evaporato fino a ridurre il liquido a circa 30 centigrammi. Trattando una goccia di questa soluzione con una di soluzione di fosfato sodico am- monico su un vetrino portaoggetti, ebbi cristalli dimetrici di fosfato ammonico magnesiaco. La stessa soluzione trattata con ferrocianuro potassico mi diede la colorazione propria dei composti ferrici. La reazione proposta da M. Behrens col cloruro di cesio mi ha svelato l’allumina, ma in quantità proporzionatamente minore di quella del ferro. Cosicché de- duco che la cordierite sia prevalentemente ferrifera. Biotite. — Quasi tutte le trachiti di questa formazione sono ricche di biotite. Se in qualche luogo ne sono scarse o ne difettano ciò non deve, a parer mio, attribuirsi alla sua mancanza in origine ma ad una sua alterazione così inoltrata che non se ne osserva più neppure la benché mnima traccia. E che vi fosse antecedentemente lo starebbe a provare il fatto che le trachiti le quali ne sono prive, sono d’altra parte più o meno intensamente colorate In giallastro o in rossigno; e indubbiamente da ossidi ferrosi e ferrici provenienti dal disfacimento della biotite che contiene quantità rilevanti di tali ossidi. Spesso, specie a Sassoforte, prima di giungere a Sassofortino, si incontra una trachite in cui si notano accumulazioni di biolite che impartiscono alla roccia un aspetto listato a zone parallele, per le Natuvrkunde . —Amsterdam, 2a serie, t. XVII, 1881. quali affetta anche una struttura scistosa. Le zone così appaiono di colore alternante bigio-chiaro e bigio-scuro e dipendono appunto da maggiore o minore abbondanza di mica bruna con disposizione parai, lela delle sue squamine. La biotite per lo più in lamine esagonali, ha splendore metallico madreperlaceo, di color bruno intensissimo tantoché anche nelle sezioni sottili è quasi affatto opaca. In queste naturalmente non si può osser- vare pleocroismo, ma in alcuni punti, dove quelle lamelle sono un poco corrose, si vedono pellucidi con dicroismo debole, ma evidente. Si pre- senta con finissima geminazione in cui gli individui sono gli uni agli altri sovrapposti. Se le sezioni non sono parallele a questi piani di geminazione, ma ad esso perpendicolari o almeno oblique, non si scorge più la forma esagona, ma quella di prismetti allungati con strie rav- vicinate e parallele al loro asse maggiore. In queste sezioni è reso molto evidente il pleocroismo e si vedono infatti colorazioni che variano dal giallo intenso al bruno-nero. Se le sezioni sono così fatte che la biotite si presenti in prismi allungati, allora in questi sovente si osserva anche una distorsione avvenuta per cause dinamiche. Gli angoli delle lamine esagonali; misurati al microscopio, non si trovarono mai di 120°, ma di valore maggiore o minore; però queste differenze si compensano, tantoché debbo attribuirle esclusivamente all’obliquità di tali sezioni sul pinacoide di base. Anche la biotite appartiene a due generazioni, distinte dalla di- mensione dei suoi cristalli. Apatite. — Fra i componenti accessori che ci restano da pren- dere in considerazione si trova l’apatite. Considero come apatite certi piccoli cristalli prismatici molto allungati contenuti come inclusione nel quarzo e più raramente nel sanidino. Sono lucenti, trasparenti e incolori. L’analisi chimica svelò tracce di acido fosforico e questo senza dubbio non può provenire che da questo minerale. Ipersteno. — - Per quanto mi risulta dalle osservazioni fatte non si trova che un solo pìrosseno in queste trachiti, e questo è l’ipersteno già citato dal Rosenbu-ch! come accessorio in alcune lipariti italiane. 1 H. RoSENBUSCH, Mikroskopische Physiographie der massigen Gesteine. Stuttgart, 1887, Esso si presenta in piccolissimi cristalli prismatici bruni, talvolta dis- seminati nella massa fondamentale, ma più spesso come inclusione nei feldispati. In un cristallo di plagioclasio anzi ve ne sono moltissimi e tutti disposti col loro asse maggiore parallelo ai piani di geminazione del cristallo includente. Sono pleocrotici in modo apprezzabile e il loro colore varia dal rosso-bruno ad un verde olivastro così intenso che par nero. Almandino. — Un cristallo non molto bene conservato, ma che sembra un rombododecaedro, di color r< sso ciliegia, con lucentezza vitrea alquanto resinosa ho trovato impiantato nella trachite di Sas- soforte. Al cannello fonde in un vetro nero i cui piccoli frammenti sono attiratoli dalla calamita; col borace dà perla gialla leggermente ver- dastra a caldo e incolora a freddo. Una parte del cristallo è alterata in mica biotite molto oscura, ossia con Fe1 205 e FeO, sostituiti alla Al205 e alla MgO. Nella sezione sottile di un altro esemplare di Sassoforte ho osser- vato pure un cristallo di almandino, che si presenta senza forma de- terminata, per quanto vi si scorga il profilo di un poligono ottagono, con lucentezza decisamente vitrea specie nelle sue molteplici e irre- golari fratture, e con zone d’accrescimento evidenti. Perfettamente trasparente e di color rosa acceso. A luce polariz- zata non presenta dicroismo e a nicols incrociati non dà colori ai in- terferenza e perfetta la estinzione. Magnetite , Pirite , Limonite. — Si trovano nelle trachiti alcuni piccolissimi cristalli ottaedrici che si presentano al microscopio come laminette quadrate, perfettamente opachi e che per questi caratteri ri- tengo per magnetite. La loro piccolezza e la loro scarsità non mi per- misero assicurarmi che realmente si trattasse di magnetite, ma per esclusione e pel fatto che pure il Rath li ha osservati nelle trachiti quarzifere dì Canapiglia *, sono indotto a crederli determinati. A far quasi parte della massa fondamentale in alcuni esemplari 1 G-. vom Rath, Quarzfùhrender Trachyt von Catv piglia Marittima. Ber- lin, 1867. ? — 298 — di trachite esistono masse irregolari di limonite ora sparse qua e là, ora ravvolgenti i cristalli di quarzo e dei feldispati di prima consol dazione. La limonite è cellulare e per la massima parte proviene dal a biotite della quale anzi talora conserva tuttavia la forma. Altra volta può provenire dalla pirite ; anzi nelle celie si osservano talora cristalli che ripetono la forma cubica, opachi e forse pseudomorfiei della pirite. Qualunque sia la sua provenienza, è tuttavia fuor di dubbio che ha la parte principale sulla colorazione rossa della roccia Rachitica. Ricerche più accurate potranno molto probabilmente as smurarci della presenza deH’amfìbolo, dell’augite, e anche del zircone. Fra le trachiti di Toscana, per quanto mi risulta dai lavori che vi sono stati fatti, quelle di questa formazione sono le più acide, men- tre il Williams 1 2 trovò nelle trachiti del Monte Amiata un massimo di 65,69 % in silice e v. Rath il 70,64 % in quella di Campigl a. Dalla nostra analisi risulta che sotto tal riguardo quella di Sassofo Te si av- vicina più alla trachite del campigliese che a quella amiatina, supe- randole però entrambe per acidità. È da notarsi come in questa re- gione così ristretta di Toscana si trovino tante varietà di trachite che, oltre a differire nella qualità degli elementi, sono assai diverse per la proporzione di essi. Le nostre furono attribuite dal Rosenbtsch* al gruppo delle 1 ipariti e, più specialmente al tipo delle nevaciti; egli dice 3 che queste trachiti quarzifere sono rare in Europa e di esse non si trova ancora nella letteratura una descrizione fondata su materiale sufficiente. Queste debbono realmente rientrare nel tipo delle nevaditi inquantochè si distinguono dalle altre 1 ipariti per una molto avanzata cristallizzazione intratellurica. I cristalli di prima consolidazione di quarzo, sanidino, plagioclasio, biotite e cordierite sono abbondantis- simi, e i loro riassorbimenti periferici conducono anche qui, da una struttura fortemente idiomorfa, a granuli arrotondati, come già notò il Richthofen. 1 Op. cit. 2 C. Stefani, Appunti sopra rocce vulcaniche della Toscana studiate dal Rosenbtuoh (Boll. Geol. 1888, p. 221). 3 H. HoSENBUSCH, Mikroskopische Physiographie der massigen Gesteine. Band, II. Stuttgart, 1887; p. 539 e seg. — 299 — La massa fondamentale, conformemente a quanto dice il Rosen- busch, è costantemente subordinata, e ritengo si debbano ammettere per le nevaditi di questa formazione rntte le suddivisi mi stabilite dal- l'insigne petrografo in hyalonevadite, felsonevadite e nevadite tipica, basate essenzialmente sulla struttura della massa fondamentale rispet- tivamente, puramente o prevalentemente vetrosa, prevalentemente mi- crofelsitica, e più o meno olocristallino-porfirica. Queste trachiti non possonsi in alcun modo paragonare a quelle del Monte Amiata non contenendo queste quarzo; piuttosto forte ana- logia hanno con quelle dell’ Agro Sabatino e Cerite descritte dal Buc- ca 1 e con quelle di Canapiglia. Quanto all’età di quesie trachiti già dissi parlando dei loro carat teri genetici e cronologici. Debbo però aggiungere come ultima con- siderazione che, essendo anche superiore ai terreni lignitiferi post-plio- cenici, si deve ritenere per molto recente la formazione trachitica di Roccastrada. III. Le acque sorgive nelle alte vallate dei fiumi Sete, Calore e Sabato ; nota doli’ Ing. E. Cortese. 11 Ministero di agricoltura, industria e commercio si è continua- mente occupato dei problemi idraulici più importanti, e specialmente di quello di fornire acque di irrigazione o potabili a varie regioni della penisola. Degli studi relativi a questo problema furon talvolta incaricati gli ingegneri addetti ai lavori per la Carta geologica d’Italia. L’autore di questa breve nota si è dovuto principalmente occu- pare della questione di fornitura di acque per le Puglie. Fra i varii 1 L, Bt/OCA, Contribuzione allo studio petrografìco deir Agro Sabatino e Ce- rite {Proiy. di Roma ) (Boll. Corri. Geo!. 1886, pàg. 211 e seg). — 300 — studii, ha avuto occasione di fare diverse osservazioni sulle sorgenti ! che alimentano i fiumi Seie e Calore, ed ha creduto bene di riunire qui i risultati di dette osservazioni, e le conclusioni cui è gii nto. Ma ciò forse non sarà che la prima parte di un lavoro consimi e e più esteso, che si farà per altre regioni acquifere ed analoghe a quella di cui è quistione' nella presente nota, interessanti per la copia di acque sorgive che vi si incontra. Neiritalia meridionale si hanno vaste estensioni di terreni calcarei, generalmente dell’epoca cretacica, che formano montagne e picchi, i quali benché assai elevati, non fanno parte della linea di displuvio dell’Appennino. Una di queste masse, assai importante per ampiezza, è quella che è compresa fra Salerno, Avellino e Campagna. Non è veramente trian- golare, e siccome si riattacca alla massa della penisola amai ìtana, e, più o meno, ai monti di Muro Lucano e agli Alburni, sembrerebbe un errore limitarla come è fatto sopra. Però, per chi guarda la Carta geologica generale dell’Italia, la massa di cui qui si parla è sufficien- temente individuata, denominando quei tre importanti centri di popo- lazione, che la comprendono fra loro. Riteniamo utile descrivere particolarmente questa regione, per la importanza delle sorgenti e dei corsi d’acqua che ne sgorgano. Ricordiamo che il calcare in generale è da considerarsi come acquivoro e acquigeno (se queste due parole possono usarsi ) ma non acquifero. Cioè, in generale i calcari assorbono facilmente l’ acqua piovana, la restituiscono facilmente, generando belle sorgenti, al con- tatto di strati impermeabili, ma non presentano numerose sorgenti, sparse quà e là per le montagne che costituiscono. Si può, diciamo, morire di sete, sopra una montagna calcare, sapendo che al suo piede, dove è posata sopra o circuita da strati impermeabili, esiste certa- mente della abbondante acqua sorgiva. Nella regione di cui trattiamo qui, invece, benché costituita uni- camente da malcari, questo fatto generale non si verifica; le sorgenti sono numerose e abbondanti, e a tutte le altezze se ne trovano, mentre poi in alcuni luoghi se ne hanno di copiosissime; a primo aspetto dunque si resta sorpresi di questa eccezionalità di regime acquifero. Per spiegare tale eccezionalità bisogna percorrere minutamente — 301 — la regione, e noi che Pabbiamo percorsa, cercheremo di riuscirvi, rior- dinando tutte le osservazioni fatte. Il fatto essenziale da osservare è il seguente: Che tutta la re- gione sì trova nelle migliori condizioni possibili per inzupparsi di acqua. Queste condizioni speciali sono quattro, e qui, in seguito, sono enunciate e spiegate: 1° 1 calcari sono molto acquivori. I calcari sono di due specie, quelli superiori, ippuritici, che talora coronano appena le alte vette, e quelli inferiori, dolomitici, frammen- tari. Se i primi sono acquivori , come lo sono tutti i calcari, i secondi lo sono a tal punto che solo si potrebbero assomigliare ad una spugna o ad un filtro. Non è rado vedere delle correnti di acque piovane, tor- rentizie, in breve percorso dimagrare e sparire entro questa arena bianca formata di frammenti angolosi di calcare più o meno ma- gnesiaco. Se i corsi d’acqua superficiali vi si mantengono talvolta, ciò è perchè correndo sempre nello stesso letto hanno deposto un cemento calcare, per precipitazione del bicarbonato sciolto, per cui corrono quasi sopra un letto di calcestruzzo, da essi costituito. 2° I monti sono assai elevati. In questa regione abbiamo cime che si estollono a 1810 m. (Cervialto), 1790 m. (Polveracchio), 1657 m. (Monte Accellica), ecc., e quindi delle vaste estensioni che per la loro altitudine sono, durante alcuni mesi dell’anno, coperte di nevi. Per quanto un meteorologo distinto obbiettasse che la neve si ri- duce ad un volume, proporzionatamente piccolo, di acqua, pure si può osservale che: la neve caduta sulle regioni elevate, rappresenta, per lo meno, un’altezza d’acqua eguale a quella caduta, nel periodo stesso, sulle parti più basse. La neve, agendo anche sulle roccie per gelività, le decompone sulla parte superficiale, e vi genera una specie di turf , spesso mu- scoso, sempre permeabilissimo, e le acque di fusione che circolano sotto allo strato di neve, sono tutte bevute da questo turf, e trasmesse alla roccia sottostante, se questa è permeabile. Dunque per le regioni elevate abbiamo che quasi tutta 1’ acqua. di fusione della neve penetra nella roccia; per evaporazione non si perde niente, e quindi è grande la proporzione fra l’acqua infiltrata e quella caduta» 3° Le regioni sono boscose. La regione di cui ci occupiamo è anche pittoresca per i bellissimi boschi di castagni, di faggi e di ontani, che la ricoprono. Queste alte vegetazioni hanno per effetto di preparare un terriccio assai tenue e profondo, e quindi le acque piovane sono in gran parte, o imbevute direttamente dal suolo, o trattenute dalle foglie e dalle radici, e quindi, impedite di scorrere rapidamente sulla superficie, hanno maggior op- portunità di penetrare in quello. 4° L'esistenza di piani elevati, completamente o quasi comple- tamente racchiusi fra le montagne. Questi piani sono assai numerosi, a differenti livelli, e costitui- scono forse quanto vi ha di più pittoresco e di più interessante in queste regioni. Tutti sono fondi di antichi laghi; alcuni sono rimasti completamente chiusi, per altri, le acque essendosi aperto un valico fra le roccie, il piano viene ad avere una uscita. Il fondo di questi piani è generalmente formato di depositi lacu- stri, che, provenendo dalle montagne circostanti formate di calcari, sono permeabili. 1 In quelli chiusi, le acque si radunano, spariscono nel materazzo di depositi lacustri, e di là penetrano nelle roccie del fondo, che ge- neralmente sono i calcari dolomitici. Nei piani che hanno una gola di emissione, gran parte dell’acqua che cade dal cielo o che scende dalle pendici, è trattenuta egual- mente dai depositi alluvionali; poca scorre in un rivo che traversa il piano. Per questa disposizione topografica ne viene che la proporzione- fra l’acqua piovana caduta e quella filtrante è fortissima. Per tutto il T Bisogna notare che questi calcari non lasciano nella loro disgregazione quel prodotto argilloso speciale detto terra rossa, che si trova generalmente al piede delle montagne calcari, o nel fondo di consimili cavità e che, per la sua natura litologica, agirebbe in un modo assolutamente opposto. bacino imbrifere di un lago chiuso, non si hanno altre perdite che quelle per evaporazione. * Sorgenti . — Alle quattro condizioni speciali, sopra descritte, si deve se i calcari di quella regione sono realmente inzuppati di acqua, perchè la regione essendo abbondantemente favorita dalle acque me- teoriche, una grande quantità di esse penetra nel suolo. È questa acqua che si manifesta poi, dando origine a copiose e numerose sorgenti. Di queste abbiamo tre categorie : la Sorgenti di montagna; 2a Sorgenti di valle ; 3a Sorgenti di falda o per sfioramento. Sorgenti eli montagna. — Dove le parti più elevate non sono a cime aguzze, ma foggiate a sistema o cerchia di punte frastagliate, la 1 I principali laghi chiusi sono: Piano c el Dragone » di Bolifano di del ci ci 670 m. sul mare. Superfìcie del fondo 12 chil. q. » dell’Acina col piano Acernese Chiavalle a Laghetto a Campolasperto a Yerteglia a a 790 1065 749 1297 1197 1042 1163 1 1/4 1/4 1/3 1 5 ù I bacini imbriferi corrispondenti hanno l’estensione rispettivamente di 80, 12, 3, 4, 2, 6, 20 chilometri quadri. I principali laghi con gole eli emissario sono: II piano di Favaie, che si continua con quelli di Serino, cominciando a 800 m. sul mare, e passando a 500 m. alla gola a due chilometri e mezzo a monte del paese di Serino ; più in basso la valle del Sabato si torna ad allargare in un nuovo piano, lungo circa 9 chilometri, fino presso Atripalcla. Il piano di Montella che va dai 600 m. sul mare ai 465 m. sotto Cassano. Il piano delle Acque Negre a 1100 ni. sul mare, in media. 11 piano di Acerno, bell’ esempio di antico lago chiuso, va dai 750 ai 680 m. sul mare, ed ha un’ estensione eli 1 chil. quadro. I piani di Migliati e del Gmdo, fra i monti Cervialto e Polveracchio , il primo a 1240 m., il secondo a 1050 m. sul mare, estesi un quarto di chilometro quadro. II piano eli Sazzano a 1250 m., quello dell’ Assegnamento a 1000 m., di mezzo chilometro quadro ciascuno; ed altri molti di minore importanza. — 304 «. quantità d’acqua assorbita è molta, e tutta non può seguitare a fil- trare fino in basso, per cui una parte si fa strada lateralmente ed esce sotto forma di sorgiva. Queste sorgenti sono numerose, ma non sempre abbondanti. Escono generalmente là dove il profilo della montagna cambia come è qui segnato (V. Fig. I) perchè la parte più a!ta, che riceve maggior vo- lume di acque meteoriche, deve esser inzup ata d’acqua, anche alla parte esterna, e una parte di queste acque, prima di seguitare a fil- trare nella più ampia massa montagnosa sottostante, trova più agevole l’uscita all’esterno. Fig. I. Sorgente Fra queste sorgive ve n’ha di importanti; e tali sono, ad esem- pio, le tre che escono sulla falda N.E del Monte Accellica, e che riu- nite in un corso detto Raio di Ferrera, costituiscono il Calore, por- tandovi un tributo di oltre 1500 litri al 1", costante tutto l’anno. Analogamente le sorgenti delle Acque Negre sgorgano sopra un piano che una volta era chiuso, e dove si ha un deposito lacustre; ma ora il piano è aperto da una parte, porzione del deposito alluviale fu asportata, e quelle sorgenti possono chiamarsi sorgenti di mon- tagna. Sono quattro, e fra tutte portano meno di 200 litri, nel periodo di massima portata. Queste sorgenti di montagna sono generalmente assai fresche, risen- tono forse un poco della temperatura esterna, subendo variazioni,. nella loro temperatura, non per le varie ore del giorno, ma nelle varie sta- gioni. Oscillano intorno ai 9° di temperatura. x4.ssimilabili a queste sorgenti di montagna sono quelle che sgor- gano sotto ai depositi alluvionali, dei fondi di antichi laghi, ora aperti. Ne citeremo una fra le altre, quella sotto Acerno, che dà origine al r — 305 - torrente del vallone Ausino, perchè per l’ampiezza del deposito da cui proviene, è abbondante e fresca. Le altre in generale sono scarse, e risentono dalla stagione, sia nel volume, sia nella temperatura. Sorgenti di calle . — Queste sono alimentate dalle acque ^he, dopo aver inzuppato le montagne, si raccolgono nelle breccie e ciottoleti che coprono il fondo delle larghe valli e dei piani con emissario; si me- scolano colle acque del corso dell’emissario stesso che percolano in quei depositi detritici, e poi, a un dato punto, per circostanze locali speciali, escono tutte unite, formando un grosso corpo d’acqua, perfino zampillante. Le più importanti sono: la sorgente Serino, prossima al fiume Sa- bato, e la Polentina e il Bagno, prossime al Calore. La sorgente di Serino sbocca a 385 metri sul mare, ha la tempe- ratura di 10° e una portata di 3500 litri. È alimentata dalle acque pe- netrate nei piani di Favaie, di Serino, Verteglia, Campolasperto e, forse in parte, da quelle del Dragone. La sorgente Polentina sorge sotto Cassano Irpino a 465 m. sul mare. Ha la temperatura di 9° e 1/3. E costituita veramente da tre polle zampillanti per un 15 o 20 centimetri fuori dei due bacini costruiti intorno a due di esse e alla terza. Le due prime daranno circa 1300 litri, la terza, circa 400 al 1". Escono fra delle arenarie eoceniche, grossolane, che si addossano alle falde calcari, e pendono ad Est, per andare a mettersi sotto alle argille delfiEocene medio. La sorgente Bagno, che esce a 700 metri più a monte, ma a quota quasi uguale (467), sgorga da sotto a un masso calcare, isolato, in forma di tante piccole vene d’acqua. La temperatura è di 9° e 2/3. La portata, secondo De Vincentiis, è di 2000 litri; realmente pare assai minore, ossia di 1000 a 1200 litri. Queste due sorgenti sono alimentate, oltreché dalle acque del piano di Montella, anche da quelle imbevute dal piano dell’Acina, del Laghetto, di Bolifano, di Chiavalle, e di gran parte di quelle del Dra- gone. Queste sorgenti, si dissero di valle perchè escono presso a fiumi già correnti e costituiti, come il Sabato e il Calore. 20 — 306 — La costanza della loro temperatura fa vedere che vengono da li- velli acquiferi interni e profondi. L’abbondanza e la forza con cui escono dimostrano che hanno un battente rilevante, ossia che i ser- batoi interni che le originano sono alti, estesi e ben forniti. Sorgenti di falda o per sfioramento. — Queste sorgenti, che potreb- bero chiamarsi anche di troppo pieno, si mostrano là dove un terreno poco permeabile, addossato al calcare, recinge le falde delle montagne, per una lunga tratta. Le roccie calcari sono imbevute di acqua, fino a quel contatto, e non potendo riceverne più, tutta quella che filtra traverso le parti emer- genti da quella cintura impermeabile, arrivata a quel livello, sgorga all’esterno, concentrata in uno o più punti, secondo la disposizione degli strati calcarei, guidata anche probabilmente da qualche meato o caverna principale. Di questo genere sono quelle della falda destra della valle del Seie, e precisamente, per citare le principali: L’Acqua delle Rose sopra Oliveto Citra a 420 m. sul mare. Le sorgenti di Senerchia a 550 m. La sorgente di Caposele , la più cospicua, a 420 m. Descriveremo quest’ ultima come la più importante. Essa sgorga da una scarpata di detriti di calcare, posata a mezza falda. Si dice sieno 36 bocche, e, da alcune misurazioni, si vorrebbe farne salire la portata fino a 7 m.3 al 1". Realmente pare che la portata delle sorgenti di proprietà comu- nale, le quali si riuniscono in forma di ferro di cavallo, sopra al paese, sia di 2500 litri, e quella di altre sorgenti di proprietà privata, che sgorgano dall’altra parte della cappella ivi esistente, sia di 2000 a 2200 litri. L’acqua ha la temperatura di 9° e 1/4. Lo schizzo qui unito rappresenta una sezione geologica della loca- lità con la pianta delle sorgenti (V. Fig. II). — 307 - Fig. II. (Nord) La sorgente di Caposele . Caposele (sorgente) Fiume Seie (Sud) Pietra di Cola c) Calcare cretaceo, e) Argille e calcari eocenici. m) Arenarie mioceniche. a) Detriti calcari ( talus ). Pianta. Nella ubicazione e disposizione di queste sorgenti, ha una certa influenza l’andamento delle stratificazioni. A parte le piegature, in senso Est-Ovest, si può dire che tutta la formazione cretacica della regione ha una pendenza costante dal Sud al Nord; talché, ad esem- pio, a Salerno si avrebbero le zone più antiche, e verso Avellino, le più recenti, del Cretaceo. Questa è la ragione per cui, sul versante meri- dionale di quelle montagne, le sorgenti sono scarse di numero e di portata, e i corsi d’acqua poveri, mentre sull’ altra falda le sorgenti sono numerose, abbondanti, talune veramente mira- bili, e i corsi d'acqua abbondanti. A Salerno scarseggia l’acqua; sopra Giffoni e Montecorvino le acque sono scarse, e nemmeno molto buone; i soli fiumi Tusciano e Tensa portano un volume ragguardevole di acqua, perchè alimentati, il primo dalle acque del piano di Acerno, e il secondo dalle acque della — 308 — regione La Cerreta, dove l’Eocene, rinchiuso fra una grande piega del Cretaceo, obbliga colla sua impermeabilità a venire a giorno le acque che inzuppano i calcari dolomitici che, per di più, qui pendono a Sud-Est, cioè più favorevolmente per una concentrazione delle acque filtranti, in quella direzione. Dalla parte Nord invece abbiamo il Sabato e il Calore, ricchi di acqua per se stessi, e le grandi sorgenti di Serino, e di Cassano, oltre a tutte le minori (Raio di Ferrerò, Acque Negre, Acque della Loggia, ecc.). Nel Polveracchio, i calcari pendono a E.S.E ; egualmente ad Est pendono nel Cervialto, e a N.E pendono nei suoi contrafforti, verso Caposele; e per questa disposizione stratigrafica sono così importanti le sorgenti di sfioramento della falda destra di Val di Seie. Nelle stesse regioni meridionali si hanno altre masse analoghe di alte montagne di calcari cretacei, e se non sono distinte come questa da così numerose e copiose sorgenti, pure ne producono di assai co- spicue. Citeremo il gruppo del Matese, che alimenta le note sorgenti di Piedimonte d’Alife e quelle di Boiano, origine del Biferno; il gruppo della Meta che ne alimenta molte altre; quello di Monte Volturino, da cui sgorga la sorgente di Marsico, che dà origine al fiume Agri; il gruppo del Monte Cervati, da cui escono le acque abbondanti che vanno ad impe- lagarsi nel Vallo di Diano, ecc. La descrizione del regime idrografico interno, per queste regioni, potrà formare oggetto di altre note, analoghe e di seguito alla pre- sente. 309 — NOTIZIE BIBLIOGRAFICHE BIBLIOGRAFIA GEOLOGICA ITALIANA PER L’ANNO 1889 ( Continuazione ; V. fascicolo n . 5-6). Finkelstein H. -- Die Gruppe des Monte Frerone. (Zeitsch. d. Deut. und Oester. Alpenvereins, Bd. XX). — Wien. È il racconto d’indole alpinistica, di escursioni fatte dall’autore a scopo geologico nel gruppo del Monte Frerone, al sud dell’Adameilo. Oltre a varie indicazioni sparse in tutto lo scritto, egli traccia nelle prime pagine un rapido schizzo geologico del gruppo. II nucleo di questo è formato da una massa erut- tiva di tonalite, composta di quarzo, feldispato triclino, orneblenda e mica nera, attraversato da dicchi di tonalite più scura e di un’altra roccia porfìrica non denominata, che attraversa pure le roccie sedimentarie che circon iano la massa eruttiva. Queste cominciano con scisti neri e grauwacke verdi accompagnate da porfido quarzifero rosso, attribuite dall’autore al Rothlicgende : seguono arenarie variegate del Buntsandstein , calcari e marne del Servino, e da ultimo dolomiti cavernose: talvolta sotto queste appaiono calcari grigio-cupi a straterelli, secondo l’autore appartenenti al Muschelhalk : si fa ancora menzione di un lembo di Calcare d’Esino presso Breno. Presso il contatto dei sedimenti colla tonalite l’autore ha osservato fenomeni di intenso metamorfismo, e formazione di molti minerali di contatto. Egli opina che la massa tonalitioa sia stata ricoperta da un mantello sedimentario calcare, e scoperta posteriormente dall’erosione. Precedono questo schizzo, cenni intorno alle traccie di antichi ghiacciai (morene, roccie arrotondate) ed alle Rare (pianori terminali superiori delle vallate). Foresti L. — Del genere Pyxis Meneghini e di una varietà di Pyxis pyxidata (Br.) (Boll. Soc. geo!.. Vili, 2). — Roma. In questa nota è data la diagnosi del genere Pyxis Meneghini e di una nuova — 310 varietà di Pyccis pyccidata , dall’autore dedicata al dottor Cavara. Questa varietà è pure figurata in una tavola. Fornasini C. — Di alcune textularie plioceniche del Senese. (Boll. Soc. geol., Vili, 3). — Roma. In una tavola annessa a questa nota sono figurate tre textularie ( T, . Soldanii Fornasini, T. cordata Meneghini, T. Meneghina Fornasini). Le notizie riguardanti queste tre specie sono precedute dalla lista delle textularie plioceniche del Senese illustrate o citate da Soldani, Defrance, D’Orbigny e Silvestri. Fornasini C. — Foraminiferi miocenici di S. Rufillo presso Bologna. — Bologna 1889. È una tavola nella quale sono figurate 25 forme di foraminiferi miocenici provenienti da S. Rufillo, presso Bologna. Fornasini C. — Minute forme di Rizopodi reticolari nella marna plio- cenica del Ponticello di Savena , presso Bologna. — Bologna 1889. L’autore figura in una tavola 33 forme di Rizopodi reticolari della marna pliocenica del Ponticello di Savena (Bologna). Franco P. — 1 massi rigettati dal monte di Somma , detti lava a breccia. — Napoli, 1889. Diconsi lave a breccia certe roccie laviche del Vesuvio, le quali involgono frammenti di calcite. Quella della quale il prof. Franco ha fatto lo studio micro- scopico e che forma oggetto della presente nota, è dall’autore definita quale una sanidinite pirossenica con inclusi calcarei e con parecchi minerali soprag- gèneratì. I frammenti calcarei inclusi hanno in generale la superficie terrosa per cal- cinazione subita : altra volta sono coperti di calcare cristallino, ed altra volta ancora da calcare spatico. La roccia è bruna, a grano finissimo, porfiroide per cristalli di sanidina: ad occhio nudo vi si riconoscono cristalli d’augite ed orneblenda e lamine di biotite. Presenta cristalliti e microliti, le quali non hanno disposizione fluidale, ma piuttosto tendenza alla disposizione raggiata, senza però costituire microsferuliti. — 311 — Sulla natura delle cristalliti null’altro può dirsi se non che sono forse feldispati : le microliti, abbondantissime, sono di sanidino, oligoclasio, augite, magnetite. Oltre ai minerali già indicali si ha granato, idrocrase ed epidoto ; e l’autore si ferma in partioolar modo su questa ultima specie, siccome quella che non è compresa nel catalogo dei minerali vesuviani del prof. Scacchi; ed indica i carat teri che lo inducono a riferirvi certi cristalli microscopici della roccia esaminata. Franco P. — Quale fu la causa che demolì la parte meridionale del cratere del Somma. (Atti Soc. it. Se. nat., Voi. XXXII, 1). — Mi- lano. Ritornando sopra un argomento già da lui studiato in precedente memoria, l’autore intende dimostrare di avere a ragione indicato la denudazione per opera della pioggia come causa sufficiente a produrre la demolizione della parte meri- dionale del cratere del Somma, eliminando la spiegazione che del fatto avea dato il dott. Johnston-Lavis ricorrendo ad un’eruzione prodottasi con asse differente del primitivo. Freda G. — Sulle masse trachitiche rinvenute nei recenti trafori delle colline di Napoli. (Rend. Acc. Se. Napoli, S. II, Voi. Ili, 2). — Napoli. Il prof. Freda espone in questa nota i risultati dello studio chimico e mine- ralogico da lui fatto delle trachiti incontrate nelle colline di Napoli durante i la- vori per la ferrovia cumana e per il collettore fluviale. La galleria aperta fra la contrada di Montesanto e quella delle Quattro Stagioni tagliò due grandi masse trachitiche ; la prima di queste verso Monte- santo è traversata per 380 metri; l’altra per 110 metri: nella prima lo strato su- perficiale, spugnoso e quasi friabile, contiene 5,10 % di sodalite mentre il resto della massa, a grana molto fina e dotato di molta tenacità, ne contiene 11,46 %: nella seconda massa tale proporzione sarebbe del 12, 15 °/0. La stessa galleria incontrò pure massi sparsi di una roccia a struttura mi- crocristallina sì minuta da parere quasi compatta, tenace e dura e di colore ne- rastro ; e che per aspetto e composizione chimica è al tutto analoga alla fonolite di Monte Nuovo. Nei lavori per il ramo occidentale del collettore pluviale si traversò per quasi 30 metri una massa trachitica, la quale presenta due varietà : una cinerea, quasi terrosa, con abbondanti punti rossicci segnanti il posto di cristalli di so- dalite distrutti, forma macchie e zone irregolari e più o meno estese nell’altra — 312 varietà, che è grigia e dotata di notevole tenacità. In questa seconda varietà si trova 11,05 % di solidate, mentre nell’altra ne resta solo 2,32 0/°. Per ciascuna delle trachiti descritte, l’autore dà i risultati dell’analisi chi- mica da lui eseguita. Frèda G. — Sulla costituzione chimica delle sublimazioni saline vesu- viane. (Gazz. chim. it., Anno XIX, 1). — Palermo. L’autore espone in questa nota i risultati delle analisi da lui eseguite sopra sublimazioni saline del Vesuvio, occupandosi successivamente delle differenti sorta di incrostazioni da queste formate. Quelle che hanno composizione piu complessa sono le stalattiti saline del cratere del 1884 : le quali, oltre al contenere i cloruri di sodio e di potassio con asso'uto predominio (33,06 % e 58,67 % rispettivamente), contengono solfato di calcio, cloruro di calcio, cloruro di magnesio cloruro di litio (0,07 %)> eco. Le altre sublimazioni risultano dei cloruri di sodio e di potassio; e, come già aveva posto in luce il prof. A. Scacchi che fu primo a studiare tal sorta di prodotti, il cloruro di potassio è spesso più abbondante di quello di sodio Preda G. — - Sulla composizione di alcune recenti lave vesuviane. (Gazz. chim. it., Anno XIX, 1). — Palermo. Le lave, delle quali il prof. G. Freda fece l’analisi chimica, sono quelle sgor- gate nel 1884, 1886 e 1887. Queste lave presentano in qualche punto della loro superficie una velatura metallica, che all’aspetto parve all’autore somigliasse a quella che il Silvestri osservò sulla lava dell'Etna del 1865 e che determinò come azoturo di ferro. Non fu possibile all’autore isolare tale sostanza; però, da saggi istituiti, ritiene potersi considerare probabile si tratti infatti dello stesso composto. Funaro A. — Sulla composizione chimica di alcune roccie calcaree della Montagnola Senese. (Gazz. chim. it., Anno XIX, 1). — Pa- lermo. In questa nota l’autore registra i risultati dell’esame chimico da lui fatto di varie roccie della Montagnola Senese, alcune delle quali possono considerarsi prodotto della decomposizione delle altre. Le roccie studiate sono: 1° Uno scisto triassico coticolare, calcareo- argilloso talcoso, grigio cupo, che si trova presso Pietra Lata, ed una roccia polverulenta o poco coerente, prodotto della sua decomposizione coll’aggiunta di detriti dei vicini calcari ; 2° Il calcare retico cavernoso, e le tene bianche che stanno fra esso egli scisti precedenti e provengono in parte da. quello ed in parte da quest i ; 3° Il calcare dolomitico retico, e la polvere contenuta entro cavità di esso, e ri- sultante dalla sua decomposizione in [strati profondi. Gatta L. — A proposito del terremoto ligure del 1887. (Boll. Soc. geogr. it., S. III., Voi II, 2). — Roma. E un’analisi assai diffusa del lavoro del Prof. Issel sul terremoto ligure del 1887 pubblicato nel 1888 come supplemento al Bollettino del Comitato geologico. Gemmellaro G. G. — La fauna dei calcari con Fusulina della valle del fiume Sosio nella provincia di Palermo. (Fase. II). — Pa- lermo, 1889. Il prof. Gemmellaro ha pubblicato il 2° fascicolo della sua monografia della fauna elei calcari con Fusulina della valle del fiume Sosio, in provincia di Palermo: esso è dedicato alla Nautiloidea ed ai Gastropodi, ed è accompagnato da nove tavole di fossili. Ghisotti P. — Cenno sui pozzi tubulari forati nella provincia cremo- nese per la ricerca di acque potabili. (Ann. Soc. Ing , e Ai eh. it., Anno IV, 5). — Roma. In questa nota sono indicate le condizioni litologiche del terreno attraversato da qualcuno dei numerosi pozzi forati negli ultimi anni nella provincia cremonese per la ricerca d’acqua potabile. Gioli P. — Fossili dell'oolite inferiore di S. Vigilio e di Monte Grappa ; Gasteropodi, Lamellibr anelli ed Echinodermi. (Atti Soc. toscana, Mem., Voi. X). — Pisa. Le specie registrate in questa memoria sono : Gasteropodi: Alaria confr. crassicostata Hudleston, A. dubìa Hudleston, Onustus supraliasinus Yacek, Turritella? sp. h d., Dischohelise confr. Euomphalus tuberculosus Thor., Straparollus tuberculosus D’Orb., Neritopsis Benacensis , Vacek, Turbo confr. orlon D’Orb., Pleurotomaria subdecorata Miinster, Ditre- maria depressa n. sp. Lamellibranchi : Lyonsia sp. ind., Pholadomya corrugata KocheDunker, Goniornya Vaccini nov. sp., Corbis ( Corbicella ) Vigilii Vacek, Arca ( Isoarca ) Plutonis Dumortier, Mytiluè sp. ind., Pecten confr. cingulatus Phillips, Pecten sp. ind., Hinnites velatus Goldf. sp., Lima semicircularis Goldf., Lima Vigilii n. sp. Echinodermi: Hemipedina confr. H. /Marconissae Mgh. e H. Etheridgii Wrigt., Pentacrinus sp. ind. Il più gran numero di queste specie sono descritte e figurate. Salvo poche, provenienti dall’oolite inf. di Monte Grappa, esse sono di quello del Capo S. Vi- gilio sul lago di Garda. Gioli G. — Briozoi neogenici dell'isola di Pianosa nel Mar Tirreno. (Atti Soc. toscana, Mem., Voi. X). — Pisa. I briozoi riferiti ed in parte anche figurati nella presente memoria, furono raccolti dal dott Simonelli nel Pliocene e nel Miocene dell’isola di Pianosa : sono trentacinque specie che appartengono a 14 generi, dei quali quattro della divi- sione dei Cyclostomata e dieci di quella dei Cheilo stornata. Fra di esse Idoninea multipunctata (Miocene), /. cristata (Pliocene), Lepralia incrassata (Pliocene), ed Eschara. Planariae (Miocene), sono nuove. Giordani G. — L'epoca glaciale nella Val Grande in Valsesia. (Boll. Club alp. it., Voi. XXII, n. 55). — Torino. In questa notizia sono passate in rapida rassegna le traccie lasciate in Valle Grande (Valsesia) dal ghiacciaio che quivi scendeva dal Monte Rosa. Hinde G. J. — On Archaeocyathus, Billings , and other Genera , allied to or associated with it from thè Cambrian strata of North Ame- rica, Spain, Sardinia and Scotland. (Quart. Journal of thè Geol. Society, Voi. XLV, n. 177). — London. (Sunto in Proceed. Geol. Soc., n. 530). — London. E un’interessante monografia d’un gruppo di fossili, intorno al quale i pa- leontologi non sono ancora d’accòrdo. Del materiale studiato dall’autore uria parie proviene dalla Sardegna, e formò già oggetto d’esame del prof. Meneghini e del dott. Bornemann. L’autore espone successivamente la storia del genere Archaeocyathus e dei suoi alleati, la loro natura minerale, la struttura delle differenti forme e le loro — 315 — a ffinità. E conchiude che la famiglia Archaeocy athinae proposta dal Dott. Bor- nemann comprende i generi Archoeocyaihus Bill., Ethmophyllunn Meek, Cosci- nocyathus Bornem., Anthomorpha Bornem., Protopharetra Bornem., e.Spiro- cyathus gen. n. I fossili di questa famiglia hanno lo scheletro calcareo, fina- mente granulare. La famiglia si rapporta agli Zoantharia sclerodermata ; essa è ristretta, allo stato attuale delle nostre conoscenze, alle zone fossilifere inferiori del Cambriano caratterizzate delle trilobiti del genere Olenellus, Hall. Alcune specie dal Billiugs riferite od avvicinate al suo genere Archaeocy athus, ne sono dall’autore staccate, e considerate come spongiari, e provengono forse da un livello superiore. La memoria è accompagnata da una tavola. Ingria R. — Sul regime delle acque sotterranee con applicazioni ai terreni di Sicilia. (Annuario Soc. Licenziati Scuola min. di Calta- nissetta, Anni III e IV, 1887-88). — Caltanissetta. In questo discorso, letto alla Società dei Licenziati della scuola mineraria di Caltanissetta, il sig. Raffaele Ingria espone i pi incupii generali del regime delle acque sotterranee, e ne fa speciale applicazione alla Sicilia, registrando buon nu- mero di osservazioni interessanti intorno a quelle solfare. Issel A. — Dei fossili recentemente raccolti nella caverna delle Fate (. Finalese ). (Annali Museo civico di St. Nat. di Genova, S. II, Voi. 9). — Genova. La Caverna delle Fate si apre a 280 metri sul livello del mare entro un calcare grossolano elveziano. Di essa si occupò di proposito e a più riprese il Prof. Issel che primo la studiò : nella presente nota, sommariamente accennati i principali risultati dei suoi precedenti lavori, egli esamina il frutto delle ricerche recentemente intraprese dal P. Annerano nella stessa caverna. Il P. Amerano indica, fra gli altri, il genere Machairodus, benché con dubbio. Apparterrebbe a tal genere un dente, che il Prof. Issel descrive e figura nella presente notizia, e che egli, appoggiandosi pure all’avviso del sig. R. Lvdekker, e del prof. Gaudry , considera invece appartenere ad uno Squalodon. Il Lydekker indica, come specie probabile cui ascrivere tale resto, il S. quaternarium; ma, mancando descrizioni e figure di questa specie, e non avendo che un dente, l’au- tore non tenta determinare la specie. — 316 — Issel A. — Cenni sulla giacitura dello scheletro umano recentemente scoperto nel Pliocene di Castenedolo ( Provincia di Brescia). (Bull. Paleotn. It., S. II, T. V, 7-8). — Parma. Nel 1860 entro un banco di madrepore del Pliocene di Castenedolo (Provincia di Brescia) si trovarono frammenti di uno scheletro d’uomo: nel 1880 altri resti umani vennero a giorno in punto poco discosto da quello del primo ritrova- mento e fra il banco di madrepore ed uno strato di argilla conchiglifera sopra- stante. 11 Curioni e lo Stoppani, esaminati gli avanzi del 1860, ritennero trattarsi di individuo sepolto in tempo relat vamente recente. Il prof. Ragazzoni invece, scopritore, volle dimostrare che le ossa erano contemporanee del giacimento che le racchiudeva, e quindi, plioceniche: con lui convenne pure il prof Sergi. Essendosi nel gennaio del 1889 trovato nella stessa località un altro sche- letro umano entro un banco d’ostriche, i prof. Issel e Sergi ebbero incarico di recarsi a determinarne l’età. Nella presente nota il prof. Issel, premesso un cenno dello stato del problema, rende conto della sua visita. Nell’immediata prossimità del punto in cui fu scoperto lo scheletro si ha la serie seguente di terreni, a cominciare dal basso: argilla sabbiosa verdastra; banco d’ostriche con cemento argilloso verdastro; banco di coralli ( Cladocora ), con testacei e sabbia giallastra, marna sabbiosa variegata, sabbia argillosa con avanzi di conglomerato; sabbia argillosa ros^astra-verdastra; terra argillosa e si- licea rossa {ferretto)-, alluvione recente, terra vegetale. Gli strati sono quasi orizzontali. Fra il banco di coralli e quello d’ ostriche Fautore raccolse dieci specie fossili di cui dà l’elenco; esse provano doversi il giacimento ascrivere al Pliocene superiore. Il ferretto è quaternario e dovuto, secondo l’autore, all’azione meccanica e chimica dell’aria atmosferica sopra il materiale arenaceo che ricopre i banchi fossiliferi anzidetti. Ove lo scheletro fu trovato, mancano tutti i termini superiori al banco di ostriche, e non si ha che una tenue alluvione: lo stato di conservazione dello scheletro, le condizioni del banco d’ostriche in corrispondenza di esso, ed altre considerazioni, fanno escludere in modo assoluto ai prof. Issel e Sergi trattarsi d’un cadavere contemporaneo al giacimento che lo contiene: esso non è plioce- nico, forse dovrebbe ascriversi all’èra neolitica. Issel A. — Di una sepia del Pliocene piacentino. (Boll. Soc. Mal. it., Voi. XIV). — Modena. Nella collezione Perrando, di recente acquistata dal Museo di geologia e mi- — 317 — neralogia dell’Università di Genova, il prof. Issel trovò due conchiglie interne di sepia assai ben conservate, ch’egli riconobbe appartenere alla specie S. Isseli dal Bellarii stabilita sopra un esemplare del Pliocene di Savona. E, poiché questo esemplare era molto mal conservato e quindi improprio ad esatta specificazione, l’autore stabilisce la diagnosi della specie, completando e correggendo qu* Ila del Bellardi, servendosi del nuovo materiale. Questo proviene da un’argilla sabbiosa, giallastra del Pliocene inferiore (Piacentino) di Lugagnano d’Arda nel Piacentino. Le due conchiglie sono pure rappresentate nella nota in esame. Januario R. — La solfatara di Pozzuoli. (Annuario meteor. it., Ann o IV. — Torino. Questa nota contiene alcune notizie sulla solfatara di Pozzuoli. L’autore vi ha trovato, nel 1886, dell’acido borico. L’acqua di un pozzo posto a 252 m. dalla grande fumarola aveva, a detta di Breislak che la studiò verso la fine dei se- colo scorso, una temperatura di 44c, 4; nel 1868 69 tale temperatura era, per mi- sure del prof. S. De Luca, di 52°; l’autore trovò nel 1886 una media di 65° 5, e nei due successivi anni la media salì sin quasi a 67&. Jervis G. — I tesori sotterranei dell'Italia . Parte 4a, Geologia econo- mica dell’ Italia. — Torino, 1889. Questo lavoro comprende l’enumerazione dei materiali naturali utili di tutta Italia, raggruppati secondo i bacini idrografici, e con numerosi dati industriali, geologici e storici. Esso è il complemento dell’opera sui tesori sotterranei d’Italia. Johnston-Lavis H. J. — L'état actuel du Vésuve. (Bull. Soo. belge de Géol., Pai. et Hydr., Mém., Tome III). — Bruxelles. passa in rivista i cambiamenti subiti dal cratere del principio del gennaio 1889; l’esposizione è sussidiata Johnston-Lavis H. J. — Le ultime trasformazioni del Vesuvio. (Boll. Com. geol., 3-4). — Roma. È un riassunto del lavoro precedente. In questa nota l’autore Vesuvio dal giugno 1886 al da figure schematiche. Johnston-Lavis H. J On a remarkable sodalite trachyte latdy discovered in Naples. (Geol. Magazine, Decade III, voi. VI, n. 2). — London. Questa trachite è traversata dalla galleria della ferrovia cumana. Fessure di raffreddamento la dividono in blocchi assai grandi. Il più importante suo ele- mento, il sanidino, è in cristalli molto sottili, tabulari che al microscopio mo- stransi molto fratturati, con caratteri di forte compressione interna. Secondo in importanza è l’anfibolo, il quale presenta due principali varietà, appartenenti a due differenti generazioni; entrambi presentano notevoli cangia- menti molecolari e sono unite a pirosseno. La massa risulta in particolar modo di microliti di sanidino; ai quali si uniscono altri di antibolo, e grani di magnetite, oltre ad un minerale non deter- minato. Il carattere particolare di questa trachite è dato da vescicule e fessure tap- pezzate di numerosi minerali; sodalite, antibolo nero, forse un pirosseno modificato, un minerale composto essenzialmente di ferro e titanio (ematite fibrosa con titanio, rutilo ricco in ferro, breislakite titanifera?), un altro che è forse microsommite, ed infine calcite. Alcuni di quei vani sono coperti di cristalli di sanidino, sopra i quali alcuni dei minerali precedenti sono impiantati. L’ordine di cristallizzazione nelle cavità parrebbe questo: sanidino, antibolo, pirosseno, rutilo (?), sodalite, microsommite (?), calcite. L’analisi della roccia, riportata in questa nota, dà oltre a 0,65 % di bios- sido di titanio. Un sunto della presente nota fu pubblicato nel Bollettino del R Comitato Geologico , N. 3-4. Johnston-Lavis H. J. — Il pozzo artesiano di Ponticelli. (Rend. Acc. Se. Napoli, S. II, voi. Ili, 6). — Napoli. Presso Ponticelli, fra Napoli ed il Vesuvio, fu forato un pozzo artesiano sino alla profondità di 178 metri circa. Nella presente nota il dott. Johnston-Lavis esamina le differenti formazioni in esso attraversate e ricerca la loro origine. Un breve sunto ne fu pubblicato nel Bollettino del R. Comitato Geologico, N. 9-10. Johnston-Lavis H. J. — Su una roccia contenente leucite , trovata sul- VEtna. (Boll. Soc. it. microscopisti, V. I, 1-2). —Acireale. Di una nota del dott. Johnston-Lavis sull’attuale argomento, si è reso conto nella bibliografia del 1888. Nel presente lavoro è aggiunto qualche particolare: ad esso deve andare unita una tavola, non però ancora pubblicata. Johnston-Lavis H. J. — Report of thè Commettee appointed far thè in- vestigation of thè volcanie phenomena of Vesuvius and its neigh- bourhood. — London, 1889. Questo rapporto, oltre alla cronaca dei fenomeni presentati dalVesuvio dal giu- gno 1888 al luglio 1889, contiene interessanti osservazioni alle quali diedero luogo i la- vori per le due gallerie ferroviarie presso Baja, e per quella di Montesanto in Napoli. La galleria, che penetra nella collina presso i Bagni di Nerone, traversò in tutto il suo percorso un tufo poroso alquanto friabile, giallo o verde chiaro; verso l’estremità occidentale il tufo è meglio stratificato e meno alterato, ed è composto di letti di pomice bianca entro una polvere bruna. La pomice, contenuta in queste differenti varietà di tufo, è sempre molto alterata alla superficie, formata d’una sostanza bianca polverulenta Entro questa galleria la temperatura si man- tenne molto elevata, da 70° a 80° : s’incontrarono cunicoli romani, e poiché non sarebbero potuto scavarsi in tali condizioni di temperatura, l’autore ammette che questa dovette considerevolmente elevarsi dopo la loro costruzione: egli deduce anche dal loro modo di presentarsi, che la regione dovette subire un’oscillazione di livello simile a quella sofferta dal tempio di Serapide. L’altra galleria, da Baja al Fusaro, traversò un tufo piuttosto sciolto di poz- zolana con grandi pomici: la sua temperatura si mantenne più moderata: ed essa pure incontrò cunicoli romani. Nella breccia grossolana, incontrata dalla galleria delia funicolare a Monte- santo, l’autore osservò un blocco che gli pare (sebbene non ne abbia ancora fatto l’esame microscopico) di hauynofiro, al tutto simile a quello del Monte Vulture. Sarebbe la prima volta che tale roccia si troverebbe nei vulcani della Campania. {Continua). ERRATA-CORRIGE elei fascicolo JN. 5-6. pag. 162, nella nota — Gervais teggì Gaudry » 187, linea 2a . . — (Tav. Vili, fìg. 4) » (Tav. VII, fig. 4) » 202, linea 16;1 . . — clavicole » scapole Il giorno 17 Agosto 1890 moriva in Catania il Comm. ORAZIO SILVESTRI, professore di mineralogia e geologia in quella Uni- versità e membro del R. Comitato Geologico- PUBBLICAZIONE DELLA CARTA GEOLOGICA D’ITALIA PER CURA DEL R. UFFICIO GEOLOGICO PARTI PUBBLICATE (al 31 Agosto 1890) Carta geologica della Sicilia nella scala di 1/100 000 : Foglio N. 244 (Isole Eolie) prezzo L. 3 00 » 248 (Trapani) . . . » 3 00 » 249 (Palermo) . . . » 4 00 » 250 (Bagheria) . . . » 3 00 » 251 (Cefalù) .... » 3 00 w 252 (Naso) .... » 4 00 » 253 (Castroreale) . » 4 00 » 254 (Messina) . . . » 4 00 » 256 (Isole Egadi) . . » 3 00 » 257 (Castelvetrano) . » 4 00 » 258 (Corleone) . . . » 5 00 » 259 (Termini Imerese). » 5 00 » 260 (Nicosia) . . . » 5 00 » 261 (Bronte). . . . » 5 00 Foglio N. 262 (Monte Etna) . . L. 5 00 » 265 (Mazzara del Vallo)» 3 00 » 266 (Sciacca) . . . » 4 00 » 267 (Canicattì) . . . » 5 00 » 268 (Caltanissetta) . » 5 00 » 269 (Paterno) . . . » 5 00 » 270 (Catania) . . . » 3 00 » 271 (Girgenti) . . . » 3 00 » 272 (Terranova) . • . » 4 00 » 273 (Caltagirone) . . » 5 00 » 274 (Siracusa) . . . » 4 00 » 275 (Scoglitti) . . . » 3 00 » 276 (Modica) . . . » 3 00 » 277 (Noto) . . . . » 3 00 Tavola di sez. N. I (annessa ai fogli 249 e 258) L. » » N. II (annessa ai fogli 252, 260 e 261) » » » N. Ili (annessa ai fogli 253, 254 e 262) » » » N. IV (annessa ai fogli 257 e 266) » » » N. V (annessa ai fogli 273 e 274) » 4 00 4 00 4 00 4 00 4 00 ]V*B. — L'intiera Carta della Sicilia , in 2% fogli e 5 tavole di sezioni , con quadro d'unione e copertina, è in vendita al prezzo di lire 100. Carta geologica della Sicilia nella scala di 1/500 000 (serve anche di foglio di unione della precedente) con sezioni prezzo L. 5 00 Descrizione geologica dellTsola di Sicilia, con una Carta geologica, tavole in zincotipia ed incisioni, dell’Ing. L. Baldacci prezzo L. 10 00 Carta geologica dell* Isola d’ Elba, nella scala di 1/25 000 con sezioni annesse (in due fogli) prezzo L. 10 00 Descrizione geologica dell’ Isola d’ Elba, con Carta annessa nella scala di 1/50 000, delFIng. B. Lotti prezzo L. 10 00 Relazione sulle miniere di ferro dell’Isola d’Elba, con un atlante di carte e sezioni geologiche, dellTng. A. Fabri . . . prezzo L. 20 00 Carta geologico-mmeraria dell’ Iglesiente (Sardegna), nella scala di 1/50 000 (in un foglio) prezzo L. 5 00 Descrizione geologico-mineraria dell’Iglesiente, con un atlante di XXX tavole e una Carta geologica, dell’ Ing. GL Zoppi. . . . prezzo L. 15 00 Carta geologica della Campagna Romana e regioni limitrofe, nella scala di 1/100 000 sei fogli e una tavola di sezioni) . prezzo L. 25 00 UT. B. — Sono pure in vendita i fogli separati ai prezzi seguenti : Civitavecchia (L. 4) Bracciano ( L . 5); Palombara ( L . 5); Cerveteri (L. 4); Roma ( L . 5); Cori (L. 4). Carta geologica dell'Italia, in due fogli, nella scala di 1/1 000 000 (seconda edizione riveduta della Carta pubblicata nel 1881). . . prezzo L. 10 00 Per le commissioni rivolgersi al R. Ufficio Geologico (Via S. Susanna, ovvero alla Libreria E. Loescher, in Roma. 1) Pubblicazioni in vendita presso l’Ufficio Geologico Bollettino del R. Comitato Geologico d’Italia; Yol. I a XX, dal 1870 al 1889 — Prezzo di ciascun volume L. 10 — Idem di un fascicolo bimensile separato » 2 — N.B. - fi prezzo di abbonamento annuo è di L. 8 per l'interno e di L. io per l’estero. Memorie per servire alla descrizione della Carta geologica d’Italia: Yol. I. Firenze, 1872 » 35 — Yol. II. Firenze, 1873-74 » 30 — s. Yol. III. Firenze,* 1876-88. » 25 — I. Cocchi. — Brevi cenni sui principali Istituti e Comitati geologici e sul R. Comitato Geologico d’ Italia. Firenze, 1871. . . » 1 50 P. Zezi. — Cenni intorno ai lavori per la Carta geologica in grande scala. Roma, 1875 » 1 — F. Giordano. — Esposizione in ordine cronologico delle principali disposi- zioni successivamente emanate relativamente alla Carta geologica d’Italia. Roma, 1879 » 1 — F. Giordano. — Sopra un progetto di legge per il compimento della Carta geologica d’Italia. Roma, 1880. » 1 50 F. Giordano. — Cenni sull’organizzazione e sui lavori degli Istituti geologici esistenti nei vari paesi. Roma, 1881 » 1 50 G. Capellini. — Relazione a S. E. il Ministro di Agr. Ind. e Comm. sul Congresso geologico internazionale del 1881. Roma, 1881 .... » 1 — C. W. C. Fuchs. — Carta geologica dell’Isola d’ Ischia; scala di 1/25,000. Firenze, 1378 » 2 — C. Doelter. — Carta geologica delle isole Ponza, Palmarola e Zannone; scala di 1/20,000. Roma, 1876 ....... » 2 — C. De Giorgi. — Abbozzo di Carta geologica della Basilicata; scala di 1/400,030. Roma, 1879 » 2 — C. De Giorgi. — - Carta geologica della provincia di Lecce; scala di 1/400,000. Roma, 1880 . » 2 — - - G. Capellini. — Carta geologica dei monti di Livorno, di Castellina Ma- rittima e di parte del Volterrano; scala di 1/100,000. Roma, 1881 . » 3 — G. Capellini. — Carta geologica della provincia di Bologna ; scala di 1/100,000. Roma, 1881 . . . » 4 — G. Capellini. — Carta geologica dei dintorni del golfo di Spezia e Val di Magra inferiore; 2a edizione; scala di 1/50,000. Roma, 1881 ... » 3 — T. Taramelli. — Carta geologica del Friuli, con testo descrittivo ; scala di 1/200,000. Udine, 1881 » 7 — Bibliographie géologique et paleontologique de l’Italie. Bologne, 1881 . . » 10 — Bibliografia geologica e paleontologica della provincia di Roma. Roma, 1886 » 2 — Bibliograla geologica italiana per l’anno 1886. Roma, 1887 ...... 1 50 Idem idem per l’anno 1887. Roma, 1888 » 1 Idem idem per l’anno 1888. Roma, 1889 » 1 s s Annunzi di pubblicazioni c. c. Traverso. — Note sulla geologia e sui giacimenti argentiferi del Sa: rabus (Sardegna). Torino, 1890; pag. 58 in-8" con 17 tavole ed una Carta geologico mineraria. Negri e E. Nicolis. — Note preliminari analitiche e geologiche sulla fonte termo-minerale solfureo-salina diSermione. — Verona, 1890; pag. 22 in-8 C. J. Eorsyth Major. — L’ ossario di Olivola in Val di Magra (Proce verbali Soc. to-ic. Se. najt., Voi. VII, 2 marzo 1890). — Pisa 18X); pag 20 in- L. Perreau. — Origine e coltivazione dell’acido borico in Toscana (Estra dagli annali della Soc. deUi Ingegneri, e degli Architetti italiani, Anno fase. III). — Roma, 1890; pag. 16 in-8° con tre tavole. Fornasini. — Contributo alla conoscenza della microfauna terzia italiana: lagenidi pliocenici del Catanzarese. — Bologna 1890; pag. 1 in-4° con una tavola. Capellini. — Ichthyosaurus campylodon e tronchi di cicadee ne argille scagliose dell’ Emilia. — Bologna, 1890 ; pag. 24 in-4° con du» tavole. F. Sacco. — Sopra una mandibola di « Balaenoptera » dell’ (Atti della R. Accademia delle Scienze di Torino, Voi. XXV, disp. 12*> — Torino, 1890 ; pag. 8 in-S° con una tavola. Idem. — I molluschi dei terreni terziarii del Piemonte e della Liguria ; Parte VII: Harpidae e Cassididae. — Torino, 1890; pag. 88 in-4° con due tavole. Piolti. — I minerali del gneiss di Borgone (Val di Susa) (Atti della R. Accademia delle Scienze di Torino, Voi. XXV, disp. 12a). — Torino*;) G. G 1890; pag. 16 in 8°. C. G S. Ricciardi. — Ricerche sulle sabbie delle coste adriatiche e sulle cause dell’ interrimento del Porto di Bari (Atti della Soc. Ital. di Se. Nat., Vcl. XXXIII, fase. P ). - Milano, 1890 ; pag. 22 in-8". F. Parona. I fossili del lias inferiore di Saltrio in Lombardia (Ib dem). — Milano, lw90; pag. 84 in-8° con tre tavole. Struever. — Contribuzioni allo studio dei graniti della bassa Vai- sesia (dalle Memorie della R. Accademia dei Lincei, S. 4a, Voi. VI). Roma, 1890; pag. 80 in-4° con una tavola. Della Campana. — Cenni paleontologici sul pliocene antico di Borzoli (Atti della Soc. Ligustica, Voi. 1°, n. 2). — Genova, 1890; pag. 38 in 8° con una tavola. Squinabol. — Alghe e pseudoalghe fossili italiane (Ibidem). — Genova, 1890; pag. 34 in-8° con otto tavole. L. dell’Erba. — Studio petrografìco e considerazioni geologiche sulla sanidinite sodalito-pirossenica di Sant'Elmo (Rendiconto delTAccademia delle Scienze fisiche e matematiche, S. 2“, Voi. IV, fase. 6°). — Napoli, 1890; pag. 12 in-4°. G. Mazzetti. — Osservazioni intorno al carattere cretaceo del terreno delle argille scagliose del Modenese e Reggiano (Atti della Società Naturalisti di Modena, S. Ili, Voi. IX, fase. 1°). — Modena, 1890; pag. 18 iu -8°. L. Bruno. — La frana sopra Baio e Quassolo in Provincia di Torino. — Ivrea, 1890; pag. 24 in-16°. G. Trabucco. — Cronologia dei terreni della Provincia di Piacenza. — Piacenza, 1890; pag. 52 in-8° con due tavole. Idem. — Collezione delle roccie della Provincia di Piacenza. — Piacenza, 1890; pag. 14 in-8°. * Idem. — Bacini petroliferi della Provincia di Piacenza. — Piacenza, 18)0; pag. 14 in-16°. R. COMITATO GEOLOGICO D’ITALIA. 1890 Bollettino 3ST.° 9 e 10 Settembre e Ottobre ROMA TIPOGRAFIA NAZIONALE a Hzp. 1890. ELENCO del personale componente il Comitato e l’Ufficio Geologico R. Comitato Geologico. Capellini Giovanni, prof, di geologia nella R.Università di Bologna, Presici. Cocchi Igino, prof, di geologia, a Firenze. Cossa Alfonso, prof, di chimica nella R. Scuola di applicazione per gli ingegneri in Torino. De Zigno Achille, membro del R. Istituto Veneto, a Padova. Gemmellaro Gaetano Giorgio, prof, di geologia, R. Università di Palermo. Omboni Giovanni, prof, di geologia nella R. Università di Padova. Scacchi Arcangelo, prof, di mineralogia nella R. Università di Napoli. Scarabelli Giuseppe, senatore del Regno, a Imola. Stoppani Antonio, professore di geologia nel R. Istituto tecnico supe- riore di Milano. Struver Giovanni, prof, di mineralogia nella R. Università di Roma. Taramelli Torquato, prof, di geologia nella R. Università di Pavia. Il Direttore del R. Istituto geografico militare in Firenze. Giordano Felice, ispettore-capo del R. Corpo delle Miniere, a Roma. Pellati Niccolò, ispettore nel R. Corpo delle Miniere, a Roma. Personale addetto ai lavori della Carta Geologica. Ing. Ing. Ing. Ing. Dott Ing. Sig. Direzione superiore : Giordano Felice, Direttore. Pellati Niccolò. Ufficio geologico: Zezi Pietro, Capo d’ufficio e Segretario del Comitato. Sormani Claudio. . Di Stefano Giovanni, paleontologo. Aichino Giovanni. Lusvergh Cesare, aiutante. Ing. Ing. Ing. Ing. Ing. Ing. Ing. Ing. Ing. Sig. Sig. Sig. Geologi operatori : Baldacci Luigi. Lotti Bernardino. Cortese Emilio. Zaccagna Domenico. Mattirolo Ettore. Viola Carlo." Novarese Vittorio. Sabatini Venturino. Franchi Secondo. Fossen Pietro, aiutante. Cassetti Michele, aiutante. Moderni Pompeo, aiutante. La sede deirUfficio geologico è in Roma nel Museo agrario-geologico, via Santa Susanna, n. 1-A. ;V-‘ - •' .-W- BOLLETTINO DEL R. COMITATO GEOLOGICO D’ ITALIA. Serie III. Voi. I. Settembre e Ottobre 1890. N. 9 e 10. SOMMARIO. Memorie originali. — I. Le .argille scagliose nella Galleria di Pratolino presso Firenze, dell’ Ing. L. MAZZUOLI (con una tavola). — II. Il bacino quaternario del Piemonte, del Dott. F. Sacco (con una carta geologica). — III. Sulla interpretazione del terreno primitivo, del Prof. H. ROSENBUSCH (traduzione dell’ Ing. Y. Novarese). Notizie bibliografiche. — Bibliografìa geologica italiana per l’anno 1889. {Continue i- zione, p. fascicolo n. 7-8). Avviso di pubblicazione della Carta geologica d’Italia. Tavole ed incisioni. — Tav. IX : Sezioni geologiche della Galleria di Pratolino presso Firenze, a pag. 328. — Tav. X : Carta geologica de! bacino quaternario del Piemonte, a pag. 392. MEMORIE ORIGINALI I. Le argille scagliose nella Galleria di Pratolino presso Fi- renze; nota dell’ Ing. L. Mazzuoli. (Con una tavola). Molti furono i geologi italiani che si occuparono delle argille sca- gliose, e molte furono le ipotesi proposte per spiegare la loro origine. Però nessuna di queste venne fino ad ora comunemente ammessa, e ciò forse devesi al numero troppo esiguo dei fatti accertati, i quali fu- rono spesso il risultato di osservazioni compiute su masse argillose franate e sconvolte. Sembra quindi che non debba riescire privo d’in- teresse, per chi si è occupato di quest’argomento, l’avere contezza di alcuni fatti nuovi, specialmente se questi siensi presentati in condizioni non facili a ripetersi. Tale è il motivo che mi ha indotto a pubblicare questo breve scritto, col quale mi propongo di render noto quanto di più saliente potè osservarsi nelle argille scagliose incontrate colla gal- leria di Pratolino, posta all’estremità meridionale della ferrovia Firenze- Faenza, che dovei più volte visitare durante la sua costruzione, per incarico avuto dall’Ispettorato del Corpo Reale delle Miniere. — 322 — La linea ferroviaria Firenze-Faenza, non ancora compiuta, e di cui andò recentemente in attività la prima tratta Firenze-Borgo S, Lorenzo, partendo da Firenze comincia col risalire la valle del Mugnone, passa quindi in quella del Terzolle, da dove colla galleria detta di Pratolino attraversa quel contrafforte montuoso che separa la valle dell’ Arno da quella della Sieve. La galleria di Pratolino è quasi rettilinea ed ha una lunghezza di 3502 metri. L’ altitudine del piano di formazione è di 277 “46 alTimbocco Firenze e di 329 “29 all’imbocco Faenza; e sic- come la galleria ha una sola pendenza, così questa risulta di 14,80 per mille. Ora prima di esporre i fatti riconosciuti colla perforazione della galleria, fa d’uopo dare un breve cenno delle condizioni litologiche e stratigrafìche dell’esterno del monte. Il contrafforte di cui ci occupiamo apparisce costituito in entrambi i suoi versanti da una serie alternante di calcari alberesi e di quella specie di scisti cui si dà in Toscana il nome di galestri. A queste roccie, che fanno parte della formazione dell’ eocene inferiore, si as- socia talvolta qualche banco di arenaria a grana assai fina. Il cal- care ha un colore grigio traente al ceruleo ; la sua frattura è concoi- dale. Lo scisto ha un colore grigio-scuro ; è tenace e compatto; mo- strasi quindi assai diverso dall’argilloscisto eocenico della Liguria. Gli strati calcari hanno ordinariamente uno spessore assai superiore a quelli scistosi, la cui potenza abitualmente oscilla fra 0“ ,15 e 0“ ,25, mentre quella dell’alberese è non di rado superiore ad 1 metra. L’andamento generale stratigrafìco è assai regolare; nell’insieme il monte si presenta costituito da una pila di strati, i quali continuando ad innalzarsi vanno a formare verso ovest la massa di Monte Morello. Però questa regolarità scompare nella regione corrispondente alla vai- letta del Lazzo, sovrastante all’imbocco Firenze della galleria. Ivi le stratificazioni appariscono rotte e spostate, senza che nulla aU’intorno possa dare ragione di quelle rotture e di quegli spostamenti. Le pressioni del sollevamento diedero origine a diverse pieghe, che, nel tratto corrispondente alla galleria, sono rappresentate da una anticlinale e da due sinclinali. La direzione degli strati è alquanto variabile; essa è N.30°.O. presso all’imbocco Faenza, quindi piegando gradatamente verso ovest — 323 — finisce per divenire 0-E. Sai versante opposto continua a progredire verso sud, e nella regione prossima all’ imbocco Firenze il suo anda- mento medio è da S.O a N.E. L’inclinazione poi varia di senso e di valore secondo la posizione delia parte di strato osservato. In questa succinta descrizione del monte di Pratolino non feci menzione delle argille scagliose, perchè, malgrado le più accurate ri- cerche, non mi riesci di trovare qualsiasi affioramento di questa roccia. Tali ricerche, eseguite sui due versanti del monte, furono condotte con speciale diligenza lungo la valletta del Lazzo, dove, secondo 1’ anda- mento stratigrafìco, l’affioramento delle argille sembrava più probabile; ma i risultati furono sempre negativi. Quindi se alla costruzione della galleria si fosse fatto precedere uno studio geologico del terreno, questo studio avrebbe probabilmente portato a previsioni che sarebbero poi state smentite dai fatti. Forse ad un occhio sagace ed acuto non sa- rebbero sfuggite le irregolarità stratigrafìche che si verificano nella valle del Lazzo; ed accolto un sospetto non sarebbe stato difficile il chiarirlo con assaggi e scandagli convenientemente diretti. Ora veniamo alla galleria. All’ imbocco Firenze i lavori di scavo cominciarono nel gennaio del 1884. Dapprincipio si attraversò una serie alternante di scisti e di galestri analoghi a quelli che si vedono alla superficie; ma alla di- stanza di circa 250 metri dall’imbocco la roccia inaspettatamente cambiò. Non è qui il caso di dire quale grave danno abbia risentito 1’ erario per non essersi subito riconosciuta l’importanza dell’ avvenuto cam- biamento, ed ammessa la necessità di adottare un tipo di rivestimento atto a resistere alle enormi pressioni dovute al nuovo terreno ; mi li- miterò quindi a trattare dei caratteri presentati dalla roccia improvvi- samente incontrata, i quali corrispondono esattamente a quelli che di- stinguono la vera argilla scagliosa. Questo nome di argille scagliose fu, come è noto, proposto dal Bianconi *, il quale ne diede una descri- zione così bella che non si potrebbe desiderare migliore; parmi quindi 1 G. Bianconi, Storia naturale dei terreni ardenti, dei vulcani fangosi €cc., ecc. Bologna, 1840. — 324 — opportuno di riportarla qui, tanto più che non è oggi facile 1’ avere sotto mano la pregievole' opera che la contiene. Parlando dei colori delle dette argille 1’ autore così si esprime : « Il nero è talvolta deciso e lucente, deciso pure e lucente è un bel rosso di mattoni ed un bel verde cupo : havvi il bruno, il piombato, il bronzino metalloide, ecc. Il passaggio dalPuno all’altro è qualche volta per gradi, più spesso però immediato e netto : e ciò tanto sui piccoli saggi, quanto sulle grandi masse. » Quindi l’ autore soggiunge : « Ma è la struttura e tessitura di que- ste argille che merita la più grande attenzione. Una superficie leviga- tissima, dolce, untuosa ai tatto, lucente, ceroide e metalloide si pre- senta andando a seconda delle scaglie di cui è costantemente composta questa sorta di argille. Questo carattere si manifesta assai bene nella frattura trasversale tanto nei piccoli saggi che nelle grandi masse ; sì gli uni che le altre sono eminentemente scagliose, ed è questo carat- tere talmente proprio di queste argille che credemmo doverle chiamare provvisoriamente argille scagliose. Appariscono infatti come un ag- gregato di tante squame o lenti di varie dimensioni, che si legano o s’innestano vicendevolmente, ora adagiandosi piane e distese l’una sull’altra, ora abbracciandosi mutuamente curve e ravvolte. Disgiun- gonsi facilmente sfogliandosi e come scivolando l’una sull’altra, avendo ciascuna lenticella la sua superficie liscia e lucente come la massa. La loro frattura però è terrosa. L’ unione delle piccole scaglie produce scaglie di maggiori dimensioni, e queste riunendosi danno essere a pezzi angolosi, schiacciati e cuneiformi, ed infine dalla unione di questi na- scono grandi masse poliedriche. Tali riunioni sono poi talmente ben composte e legate, che in qualsiasi taglio si faccia con idoneo stru- mento, non resta mai il più piccolo vano, anzi neppure Findizio delle commettiture. » L’autore prosegue a dare altri caratteri sì fisici che chimici delle argille ; ma qui li ometto per non prolungare di troppo la citazione. Mi occorre però ripetere che le argille scagliose della galleria di Pra- tolino sono perfettamente conformi a quelle, cui si riferisce l’efficacis- sima citata descrizione. Le argille scagliose furono, come dissi, incontrate a circa 250 metri dall’imbocco Firenze1 e la galleria rimase in questa roccia fino alla — 325 — distanza di 1520 metri dall’imbocco medesimo; quindi la parte dell’escavo compresa nelle argille fu di 1270 metri. Ma non convien credere che in questa lunghezza di 1270 metri non si siano escavate che argille scagliose, giacché di tratto in tratto s’incontrarono frammenti di calcare alberese e di galestro ravvolti nelle' argille, isolati, indipendenti gli uni dagli altri. Quei massi avevano ordinariamente dimensioni assai grandi, e talvolta nello stesso masso vedevasi il calcare alberese con un sottile straterello di galestro rimasto aderente al calcare. Durante l’attraversamento delle argille le filtrazioni furono quasi nulle, invece nel passaggio dalla zona argillosa ai terreni regolarmente stratificati si manifestò una copiosa sorgente di acqua dolce, la quale fu causa di qualche difficoltà per il progresso dei lavori. Ho detto che nelle argille le filtrazioni furono quasi nulle; non devesi però omettere di rendere noto che di tratto in tratto s’incontra- rono alcune piccole sorgenti d’ acqua salmastra. Fa pure d’uopo no- tare che in tutta la zona delle argille si ebbero di tempo in tempo accumulazioni di gas infiammabile nella parte alta degli scavi. Quelle accumulazioni venivano artificialmente incendiate e dopo le piccole esplosioni che ne conseguivano, mancava per un tempo più o meno lungo qualunque segno che indicasse la presenza di nuovo gas. Da ciò si deve dedurre che quel gas non era originato da vere scaturigini, ma veniva emesso dalla stessa massa argillosa, la quale ne deve essere im- pregnata così come ordinariamente lo sono i giacimenti di carbon fossile. Varcata la zona delle argille la galleria rimase sempre nella for- mazione dei calcari alberesi e dei galestri ed i lavori proseguirono regolarmente fino all’incontro dell’avanzata aperta dall’imbocco Faenza, il quale incontro avvenne nel luglio del 1888, alla distanza di 2330 metri dall’imbocco Firenze. Anche il tratto di galleria costruito a partire dall’ imbocco Faenza fu tutto nei calcari e nei galestri e potè essere eseguito senza dover lottare contro alcuna seria difficoltà. Le figure 1 e 2 della unita tavola mostrano la pianta ed il profilo della galleria ; in quelle figure ho cercato di rendere palesi fra i fatti citati quelli suscettibili di grafica rappresentazione. Vediamo ora quali deduzioni si possono trarre dalle osservazioni eseguite durante la costruzione della galleria di Pratolino. Prima di tutto conviene ricordare che manca qualunque affiora- — 326 — mento di argilla scagliosa ; quindi il limite di questa, superiormente alla galleria, deve trovarsi fra la superficie del suolo e la galleria stessa. Lateralmente i confini della massa argillosa furono esattamente riconosciuti, e si deve ritenere come assai probabile che gli strati calcari, su cui si appoggia Pargilla a 250 e a 1520 metri dall’imbocco Firenze, le servano pure di base nella porzione sottostante alla gal- leria, dove essi si ripiegano in forma di una sinclinale ad ampia cur- vatura. Cosi il limite della massa argillosa in un piano verticale passante per l’asse della galleria sarebbe approssimativamente dato dalla linea punteggiata della fig. 2, e la massa stessa ci si presenterebbe in questa sezione come una specie di lente a contorni irregolari. Vediamo ora quando questa lente debbasi essere formata. La massa di argilla scagliosa si trova, come si è detto, frapposta a roccie rego- larmente stratificate, cioè a calcari ed a scisti galestrini appartenenti all’eocene inferiore; quindi quella massa deve considerarsi come inter- stratificata, e per conseguenza deve essersi formata in fondo al mare in cui avveniva il deposito di quei sedimenti riconosciuti per eocenici. Devo però soggiungere come dal fatto deH’eocenicità delle argille sca- gliose di Pratolino non si possa dedurre che tutte le altre argille sca- gliose dell’Appennino siensi necessariamente formate nella stessa epoca geologica. Sarebbe come l’affermare che tutte le serpentine devono essere eoceniche perchè quelle dell’Appennino furono per tali riconosciute. Ritenuto dunque che le argille scagliose di Pratolino abbiano la forma di una lente interstratificata fra i calcari e gli scisti galestrini delFeocene inferiore, occorre prendere in esame il fatto dei numerosi blocchi di queste ultime roccie, che a guisa di trovanti stanno irrego- larmente disseminati in tutta la massa argillosa. Qui occorre ricordare che questo fatto non è speciale alle argille scagliose di Pratolino, ma ripetesi spesso dove si hanno roccie relativamente resistenti appog- giate sopra masse argillose dotate di una certa plasticità. In Liguria si osservano esempi intessanti di queste compenetrazioni rocciose nella valle del Penna, e ne feci menzione in un mio precedente lavoro. 1 1 L. Mazzuoli, Nota sulle formazioni ojìolitiche della valle del Penna nel V Appennino ligure (Boll. Com. Geol., n. 11-12, 1884), — 'Ó2 7 — Quanto alla loro causa è (lessa facile ad essere riconosciuta. Infatti quando una pila di strati,, come quella che costituisce il monte di Pra- tolino, viene sollevata per l’azione di pressioni regolari e costanti, le stratificazioni si ripiegano secondo linee curve tra loro parallele. Ma se in una regione di quella pila sta interclusa una massa argillosa, dotata di una resistenza alle pressioni molto minore di quella offerta ad esempio dai calcari e dai galestri, in tal caso gli strati appoggiati su quella massa devono rompersi, e i frammenti, rimasti quasi liberi nei loro movimenti, penetreranno nelle argille e vi vagheranno dentro, fino a che sia cessato qualunque movimento. D’ altro canto la massa argillosa, costretta a comprimersi, penetrerà in tutte le intercapedini rimaste negli strati circostanti, per le rotture che vi si produssero. E tutto questo pare siasi largamente verificato nei calcari, nei galestri, e nelle argille scagliose della galleria di Pratolino. Per ultimo non sembra fuori di proposito qualche considerazione sulla probabile genesi di queste argille. Certo non è mia intenzione di proporre ipotesi nuove, nè di esaminare la questione sotto un punto di vista generale. Mi basterà prendere in esame le principali fra le di- verse ipotesi poste innanzi da coloro che si occuparono di quest’argo- mento e vedere quale fra quelle sembri più facilmente applicabile alla galleria di Pratolino. Comincerò dall’ipotesi più semplice, secondo cui l’argilla scagliosa deve ritenersi come una roccia « prettamente sedimentaria ». Questa ipotesi fu già accennata dall’abate Mazzetti nella seduta tenuta in Fa- briano dalla Società geologica italiana il 5 settembre 1883 1 e venne da lui confermata in un suo recente lavoro 2. Essa è basata sul fatto che le argille scagliose si trovano sempre interstratificate. Ma è ormai fuori di dubbio che fra le roccie prodotte dalla sedimentazione ordi- naria si trovano talvolta comprese lenti più o meno vaste di altre roccie dovute a fenomeni endogeni. D’altro canto non saprei intendere 1 Y. il Boll, della Soc. geologica italiana. Voi. II, 1883, pag. 190. 2 G. Mazzetti, Osservazioni intorno al carattere cretaceo del terreno delle argille scagliose del Modenese e del Reggiano (Atti Soc. Nat. di Modena. Se- rie III, Voi. IX, 1890). — 328 come sopra una minima parte^del fondo di un mare, che accoglie per un lunghissimo periodo di tempo e sopra una vasta estensione depo- siti atti a dare una pila di più centinaia di metri di altezza, costituita da una serie alternante di calcari e di scisti galestini, possa la stessa sedimentazione ordinaria produrre una roccia come l’argilla scagliosa, affatto diversa dalle precedenti. In una seduta tenuta nel novembre del 1878 dalla Società toscana di scienze naturali 1 fu ampiamente discussa un’altra ipotesi, che cioè le argille scagliose debbansi considerare formate per regolare sedi- mento, nei mari, a profondità, avvertendo che 1’ origine dei particolari caratteri che presentano deve ricercarsi nelle azioni posteriori mec- caniche e chimiche alle quali furono soggette. Quest’ipotesi formò nuo- vamente argomento di discussione nella seduta tenuta in Fabriano dalla Società geologica italiana nel giorno 4 settembre 1883 2. Ma dato pure che quest’ipotesi non urtasse contro la stessa difficoltà accennata per la precedente, come si potrebbe ammettere che nel caso attuale le azioni meccaniche si fossero esercitate sopra una piccolissima porzione della massa rocciosa che costituisce l’intero monte ? E siccome si af- ferma che le citate azioni più specialmente si esercitarono sopra roccie analoghe agli scisti galestrini, come si potrebbe conciliare con questa teoria il fatto che non solo gli straterelli di galestro che circondano le argille rimasero inalterati, ma che fra i frammenti isolati esistenti nell’ interno della lente argillosa se ne hanno pure di quelli formati dallo stesso galestro? Una terza ipotesi considera le argille scagliose come prodotte da vulcani di fango sottomarini. Quest’ipotesi è stata sostenuta dal Mantovani, dallo Stoppani, dal Ferretti, dal Fuchs e da altri. Adottandola per le argille di Pratolino essa ci spiega facilmente il cambiamento brusco di roccia, la forma lenticolare della massa argillosa, le sorgenti d’acqua salmastra, il gas idrogeno carburato diffuso nelle argille, tutti infine i fenomeni che fu- rono già descritti. Ma quand’ anche non si volesse riconoscere nelle 1 V. Boll. R. Com. Geol., Voi. IX, anno 1878, pag 536 e segg. 2 Y. Boll. Soc. geol. italiana, Voi. II, 1883, pag. 93 e segg. Eoli, del R.Com.Geol.dltalia Anno 1890 Tav. IX. i L/Mazzuoli ì GALLERIA DI PRATO LI NO (LINEA FIRENZE-FAENZA) Sezione ovizzoni'ale e plaiùmetria — 329 — argille scagliose sottostanti alla vailetta del Lazzo il prodotto di un vulcano di fango, sembra tuttavia che non si possa non ammettere la necessità che, durante la formazione dei calcari e dei galestri, sia im- provvisamente intervenuto, sopra una ristretta zona del fondo di quel mare, un qualche fenomeno dovuto ad una causa endogena, il quale abbia turbato le condizioni ordinarie della sedimentazione dando ori. gine a quella lente argillosa che fu attraversata colla galleria di Pra- tolino. IL 11 bacino quaternario del Piemonte; studio del Dott. Fe- derico Sacco. (Con una Carta geologica). Se tipico è il bacino del Piemonte per il regolare sviluppo di tutta la serie terziaria e pei numerosi e ben conservati fossili che si ri- scontrano in tali terreni, non vi è meno interessante la formazione quaternaria; questa infatti vi si presenta in diversi modi e con diversi terreni, talora anche fossiliferi, per modo che eziandio sotto questo punto di vista si può dire che il Piemonte costituisca un bacino qua- ternario affatto tipico come regione, non più marina, come quella ter- ziaria, ma continentale. Non vi è forse formazione geologica che, come il Quaternario, presenti tanto profonde differenze d’interpretazione e di suddivisione a seconda dei diversi luoghi in cui si esamina e dei diversi autori che la studiano. Infatti nella sua delimitazione dal Terziario esistono incertezze grandissime, e, a mio parere, si inglobano ' spesso nel Quaternario inferiore molti depositi continentali , i quali , malgrado che per cause speciali presentino facies e talora persino faune simili a quelle del Quaternario, tuttavia debbono ancora cronologicamente attribuirsi al Pliocene. — 330 — 1 Quanto alle suddivisioni delle formazioni quaternarie, notevolissime sono pure le differenze tra i geologi; giacché alcuni, come il Tardy, vorrebbero costituire quasi d’ogni strato un periodo o sottoperiodo geologico, mentre altri inclinerebbero a considerare tutto il Quater- nario come una semplice appendice del Terziario. Se a ciò si aggiunge che le formazioni quaternarie ora studiabili sono solo per piccola parte marine, ed invece in massima parte con- tinentali, svariatissime di forme, di spessore, di aspetto, a stratifica- zione spesso irregolarissima, di origine ora fluviale, ora lacustre, ora glaciale, ora mista, ecc., si comprende come lo studio del Quaternario, malgrado sia questa la formazione più recente e che si va tuttora de- ponendo sotto i nostri occhi per modo che parrebbe essere di facile interpretazione, è invece forse uno dei più difficili, o, meglio, uno di quelli che furono resi più difficili e complicati dai geologi. Quantunque i miei studi sul Quaternario siansi limitati sinora al- l’Alta Italia e specialmente al Piemonte, con solo poche escursioni di paragone in Svizzera, in Francia ed in Inghilterra, tuttavia mi risultò abbastanza chiaro il concetto che la formazione quaternaria è gene- ralmente divisibile in due grandi periodi principali : il primo corrispon- dente all’epoca diluvio-glaciale ed a cui venne dal Mayer dato il nome di Sahariano ; il secondo che dalla fine dell’epoca glaciale giunge sino al giorno d’oggi e pel quale proposi alcuni anni fa il nome di Terraz- ziano , poiché è specialmente in questo periodo che si formò la mas- sima parte delle tipiche terrazze, sia lungo i littorali, sia nell’interno dei continenti. La relativa scarsità di resti paleoetnologici nelle regioni da me studiate non mi permette sicuri paralellismi tra i periodi proposti dai paleoetnologi e quelli sovraccennati, basati su fenomeni geologici. In linea generale però si può dire che il Sahariano corrisponde in parte alla prima metà circa del periodo paleolitico. Premessi questi pochi cenni generali passiamo all’esame del Qua- ternario del Piemonte; avverto però come avendo già trattato con monografìe speciali le regioni più importanti a questo riguardo, basterà ora esaminare queste formazioni quaternarie sotto un punto di vista alquanto generale. — 331 — Sahariano. Questo periodo geologico, separato dal Terziario per grandiosi ed abbastanza generali fenomeni orogenici, si inizia, secondo il mio modo di vedere, collo straordinario sviluppo dei ghiacciai e si chiude col loro rapido ritirarsi verso le loro sedi attuali; corrisponde cioè al cosidetto periodo diluvio-glaciale e naturalmente, come tutti gli oriz- zonti geologici, presenta limiti spesso incerti, sia al suo principio, sia al suo termine. Infatti già durante la seconda metà dell’ epoca pliocenica, cioè durante V Astiano, cominciarono a verificarsi le copiose precipitazioni atmosferiche che iniziarono il grandioso sviluppo dei ghiacciai e delle correnti acquee e che quindi causarono la formazione di potenti depositi fluvio-lacustri ( villafranehiani ). D’altra parte il ritiro dei ghiacciai non si presentò sempre in egual modo dovunque, nè si verificò di tratto ma con oscillazioni di regresso e di progresso, ecc., quindi anche assai incerta riesce talora la delimitazione della fine del Sahariano. A seconda del modo di formazione, cioè per opera delle correnti acquee o per opera dei ghiacciai si possono distinguere i terreni sa- hariani in Diluvium e Morene ; anche in questo caso si nota esservi formazioni di passaggio tra un terreno e l’altro. Studi anteriori. — Fu essenzialmente il Gastaldi il geologo che si occupò del Quaternario piemontese; fu anzi egli il primo a studiare pro- fondamente i terreni glaciali, specialmente quelli deiranfìteatro morenico di Rivoli, ed a dissipare le molte idee preconcette che esistevano in proposito; ne trattarono poi più o meno ampiamente il Martins, il De Mortillet, TOmboni, il Sismonda, il Pareto (che lo appellò Areneano ) il Baretti, lo Stoppani, il Bruno Luigi ed io stesso. Il Gastaldi aveva già riconosciuto a grandi tratti l’individualità del Diluvium sahariano che egli comprendeva talora col titolo assai giusto di antichi coni di deiezione. Non esisteva però finora uno studio generale e minuto nello stesso tempo e diversissime erano le opinioni sulle divisioni, delimitazioni ed interpretazioni dei depositi diluvio-glaciali del Piemonte. Così il Si- smonda non ammetteva il terreno morenico, lo Stoppani riteneva che 332 — gran parte dell’anfiteatro morenico d’ Ivrea si fosse depositato in mare; il pliocene superiore fluvio-lacustre ( Villafranehiano ) era quasi da tutti i geologi confuso col Quaternario ; le formazioni sahariane mal distinte da quelle terrazziane , ecc. Generalità. — Le formazioni sahariane essendo di varia origine, fluviale, glaciale, di scolo, ecc., se ne indicheranno i caratteri generali sul principio dei sottocapitoli Diluvium e Morenico. Caratteri paleontologici. — Poco è a dire sui fossili del Sahariano del Piemonte, poiché la natura dei suoi depositi è generalmente contraria alla conservazione dei resti organici. Indichiamo solo come nei banchi terroso-marnosi, specialmente del loesSj si raccolgano qua e là nume- rosi molluschi terrestri e d’acqua dolce (specialmente Hyalinia , Bu- liminus , Pupa , Limnoea , Clausilia , Vertigo , Fruticicula , Eulota , Xerophila , Succinea, Pisidium , ecc.), appartenenti a specie in parte tuttora viventi presso il punto in cui trovansi fossili, in parte emigrate ed in parte anche estinte. Si raccolsero pure scarsi resti di Cervus megaceros , di Elephas primigenius e talora accumuli di Ursus spceleus. Distribuzione geografica. — Essa varia molto a seconda che trattasi di Diluvium o di terreno morenico ; lasciando in disparte la regione mon- tuosa vediamo come nelle pianure il Diluvium trovisi ora ridotto a lembi più o meno ampi e di forma svariata lungo le falde alpine e collinose, là dove potè in qualche modo rimanere protetto dalle erosioni poste- riori, poiché nella parte media della pianura esso fu in massima parte spazzato via, almeno superficialmente, dalle correnti acquee del periodo terrazziano. Però la formazione diluviale, mascherata dalie alluvioni più recenti, deve essere generalmente molto sviluppata sotto la pianura padana, tant’ è che la vediamo apparire nelle incisioni più profonde della Stura di Cuneo, della Maira, della Dora Baltea, del Ticino, ecc. In alcuni pochi casi rimasero sulla pianura alcuni altipiani diluviali isolati, quasi capisaldi residui dell’antico sviluppo del Diluvium , così quelli di Banale tra il Pesio e l’àntico corso del Gesso; quello di Salmour tra l’antico corso del Gesso e la Stura; quello di Fossano tra la Stura e la Mellea; quello di Montando fra l’antico corso della Dora Baltea ed il Po; quello di Candelo fra il Cervo e l’Elvo; quello di Novara fra il Ticino e la Sesia, ecc. Quanto al terreno morenico il suo sviluppo e la sua distribuzione sono in diretto rapporto colla ubicazione e coll’ampiezza del bacino di raccoglimento e della vallata da cui deriva. Vediamo quindi come le grandi vallate del Ticino, d’Aosta e di Susa ci presentino rispettiva- mente i grandiosi anfiteatri morenici del Lago Maggiore, d’ Ivrea e di Rivoli, ampiamente avanzantisi e sviluppatisi sulla pianura. Invece le vallate minori ci presentano solo lingue moreniche terminali più o meno vicine allo sbocco della valle montana. Tettonica. — Poco è a dirsi a questo riguardo. Le formazioni di- luviali, a stratificazione più o meno regolare, pendono in generale dol- cissimamente da monte a valle. I depositi morenici presentano pure spesso una stratificazione o pseudostratificazione irregolare, oppure speciali contorcimenti, ripiegamenti ed accentramenti nelle lenti marnoso-argillose; ma in generale essi mostrano la tipica struttura caotica. Potenza. — Variabilissima è la potenza delle formazioni sahariane a seconda della loro natura e della loro ubicazione. Il Diluvium presso le falde alpine ha uno spessore oscillante in media tra i 10 ed i 40 metri, ma che può talora giungere sino a 70 od 80 metri. Verso il centro della pianura talora il Diluvium va assottiglian- dosi in modo da terminare quasi ad unghia, come ad esempio osservasi nel ti[ ico cono di deiezione di Lanzo; talvolta invece pare si conservi potente od anche si ispessisca maggiormente, ma la mancanza di pro- fondi scandagli rende incerta tale questione. Quanto al terreno morenico, esso costituisce sovente solo un sot- tile velo a lembi irregolari sui terreni più antichi; però in certe regioni, dove trovasi specialmente accumulato, esso può raggiungere una grande potenza; ciò vediamo ad esempio nella morena laterale destra (Trana- Villarbasse) dell’anfiteatro morenico di Rivoli, e, meglio ancora, nella famosa morena laterale sinistra (La Serra) dell’anfiteatro d’ Ivrea la quale presenta uno spessore reale di oltre 300 metri, ed uno spessore apparente di oltre 400 metri. Altimetria. — Riguardo ai terreni quaternari non ha grande im- portanza l’esame altimetrico, trattandosi di terreni d’origine continen- tale ; d’altronde le formazioni moreniche si trovano nella regione mon- tana, quasi a tutte le elevazioni, anche le più notevoli. Quanto al Diluvium anch’esso mostrasi talora a grandi altezze entro la regione alpina ; presso le falde delle Alpi trovasi tra i 600 ed i 400 metri circa di elevazione e naturalmente si abbassa poco a poco verso la pianura. Rapporti coi terreni sotto e soprastanti. — L’esame dei rapporti che esistono fra il Sahariano ed i terreni sottostanti è certamente molto diffìcile ed è perciò quello su cui sono più varie e disparate le opinioni dei geologi. Siccome di ciò ebbi ad occuparmi più volte, sia nei capitoli Villafrancliiano e Fossaniano, nello studio del « Bacino terziario del Piemonte », sia in diversi altri lavori, mi limiterò ad ac- cennare ora come, secondo il mio parere (derivato da numerosi studi e confronti) siano da riferirsi al Pliocene superiore molte formazioni fluvio-lacustri che generalmente sono considerate invece come qua- ternarie, così le formazioni villafranchìane in generale (vere alluvioni plioceniche) e più specialmente quelle entro-alpine o subalpine di Lanzo, del Malone, del Ticino, ecc. ; così pure le formazioni fossaniane del Canavese, del Biellese, ecc. È poi specialmente nell’alta valle padana e nella Lombardia che appaiono quelle formazioni conglomeratiche che, col nome di Ceppo , vengono generalmente considerate come quaternarie. Orbene, anche in questo caso numerosi confronti e considerazioni di vario genere m’indussero ad inglobare una parte del Ceppo nel Pliocene superiore fluvio-lacustre o villafranehiano ; ho detto parte, poiché in verità il nome di Ceppo corrispondendo in generale a conglomerato, natural- mente devesi ammettere anche come assai esteso e frequente il Ceppo sahariano ; anzi è molto interessante osservare come sovente esista un passaggio abbastanza regolare tra il Ceppo villafranehiano ed il Ceppo ed il Diluvium sahariano, vediamo cioè talvolta come il Ceppo villafranehiano (per lo più fortemente cementato, con interstrati grigio- giallastri, sabbioso-argillosi, più o meno acquiferi) spesso poggiante direttamente sulle argille azzurre del Piacenziano , presenti superior- mente banchi ciottoloso-sabbiosi, meno cementati, in parte già riferi- bili al Sahariano inferiore, e passanti poi gradatamente o rapida- mente agli strati terroso-sabbioso-ciottolosi giallo-rossastri {Ferretto) del tipico Diluvium sahariano. Tale passaggio è talora tanto rego- lare che riesce incertissima e talvolta arbitraria la delimitazione del Pliocene dal Quaternario e quindi facile l’esagerazione in un senso o — 335 — nell’altro. Tali graduali passaggi si verificano non solo nel caso delle formazioni ceppoidi od in altro modo continentali, ma anche talora fra le formazioni littoraneo-maremmane del Fossaniano ed i depositi saha- riani. Sovente però si osserva che il Diluvium sahariano, il quale spesso si adagia su terreni di ogni età, si presenta pure sovrapposto alquanto discordantemente ai depositi pliocenici che furono nella parte super- ficiale erosi più o meno potentemente dalle correnti diluviali; in tali casi naturalmente riesce facile la distinzione dei due terreni. Questi rapporti di discordanza esistono pure fra il Pliocene ed il terreno mo- renico che è generalmente distinto dal primo per mezzo di erosioni abbastanza notevoli e quindi per sovrapposizione irregolare. Noto qui come io ritenga senz’altro quali terreni prettamente mo- renici diversi depositi a facies e struttura glaciale che racchiudono fossili pliocenici rimaneggiati od infranti, così i depositi di Candia, Caluso, Mazzè, ecc. Quanto ai rapporti del Sahariano coi terreni sovrastanti essi sono di facile indicazione, giacché le formazioni sahariane o terminano re- golarmente la serie dei depositi quaternari costituendo colla loro parte superiore (per lo più rappresentata da loess) il terreno superfi- ciale, oppure si presentano direttamente ricoperti, per erosione, dalle alluvioni terrazziane , naturalmente con discordanza o meglio con hyatus , tanto più notevole quanto più forte e lunga fu l’azione erosiva. Quando però la formazione diluviale non termina superficialmente con un netto ed unico piano, ma presenta uno o più piani terrazzati che per la loro posizione e natura paiono ancora essersi formati sulla fine del Sahariano , risulta assai difficile il distinguere le formazioni di questo periodo da quelle del susseguente Terrazziano. Località fossilifere. — Si è già detto sopra come il Sahariano si presenti generalmente scarsissimo di fossili in causa della natura essenzialmente torrenziale o caotica delle formazioni che lo rappre- sentano. Notiamo tuttavia resistenza di alcune caverne ossifere, fra cui specialmente importante quella di Bossea in Val Corsaglia e quella del Bandito in Val Gesso. Abbastanza ricco in fossili è il loess in generale lungo i pendii meno ripidi delle colline e specialmente di quelle di Torino: rari vi — 336 — sono i resti di Vertebrati, ma frequentissimi quelli di molluschi ter- restri, più raramente d’acqua dolce. Diluvium. Con questo appellativo si comprendono i depositi alluvionali, fluviali e torrenziali, formatisi nell’epoca sahariana , i quali sono rappresentati essenzialmente da banchi ghiaiosi e ciottolosi alternati e variamente commisti con terreni sabbiosi e terrosi; il colore di questi depositi è per lo più il giallognolo, ora grigiastro, ora rossastro , a seconda degli elementi che li costituiscono e del grado di alterazione chimica a cui andarono soggetti. Anzi a questo proposito è a notarsi che in molti casi, in causa della superficialità del deposito, tale alterazione fu così pro- fonda che i ciottoli in parte si argillifìcarono o furono ridotti in materiale incoerente. Gli elementi ciottolosi del Diluvium sono per lo più poco cemen- tati fra di loro, tuttavia nella sua serie si incontrano talora veri banchi conglomeratici resistentissimi, i quali talvolta simulano i banchi villa franehiani ed anzi non è sempre facile il distinguere gli uni dagli altri. E importante a notarsi come nella parte superiore, superficiale, del Diluvium esista quasi sempre un deposito piuttosto sottile, cioè dello spessore di due o tre metri in media, di marna terrosa, giallastra o rossiccia, cioè di loess , il quale rappresenta il deposito fangoso for- mato dalle ampie e vaganti correnti acquee del Sahariano quando, sul finire di questo periodo, esse cominciavano lentamente a ritirarsi lungo una linea speciale. Si comprende quindi facilmente come in questa fase dette correnti acquee, invece di fluitare e depositare banchi e lenti di ciottoli, ghiaie, ecc., cioè il tipico Diluviumì nella parte assiale del loro corso, dove erano più potenti, esse incominciassero ad erodere il piano su cui scorrevano, incidendovi poco a poco un alveo; invece nella parte laterale del loro ampio corso le acque, limacciose ed a movimento lento, dovettero naturalmente deporre la fanghiglia che tenevano in sospensione; è così che si originò in generale il loess nella pianura padana; altrove ebbi già ad esaminare i diversi altri metodi, meno generali, con cui si formarono vari depositi di loess quaternario del Piemonte ed è quindi inutile di accennarli qui nuovamente. 337 — Considerati nell’assieme i banchi di Diluvium si presentano quasi orizzontali o leggerissimamente inclinati da monte a valle; ma esami- nati nei particolari mostrano una stratificazione irregolarissima, spesso deltoide, o meglio di carattere torrenziale, il che è in stretto e natu- rale rapporto col tumultuoso loro modo di origine. Variabilissimo è lo spessore del Diluvium ; talora esso presenta la massima potenza, che può anche essere di quasi 100 metri, presso le falde delle Alpi, assottigliandosi poi sia verso il centro della pianura, sia entro le stesse regioni alpine; ciò pel motivo semplicissimo che il deposito di questo terreno è dovuto al fatto che le grandi correnti acquee sboccanti dalle valli alpine arrivando alla pianura ed allargan- dovi non poterono più trascinare i materiali grossolani che avevano trasportato fin là e quindi li depositarono in gran parte subito presso le falde alpine. Però nella parte assiale della grande conca padana il Diluvium deve anche essere assai potente, ma ad elementi più fini che non quelli dei veri coni dì deiezione alpini, in causa degli abbondanti materiali sabbioso-argillosi che venivano trasportati e depositati dalla grande fiumana sahariana della valle del Po. Non è molto importante l’elevazione che raggiunge il Diluvium poiché, a mio parere, essa non deve essere molto diversa da quella originaria, essendo la sua deposizione posteriore al grande sollevamento alpino che portò i terreni pliocenici ad oltre 500 metri d’altezza. Tut- tavia siccome il fenomeno del terrazzamento, oltre che ad una magra generale, succeduta al grande periodo di piena del periodo sahariano , « è pure probabilmente dovuto in qualche parte a fenomeni di solleva- mento, assai meno intensi ma in continuazione di quello che chiuse il terziario, così parte dei depositi di Diluvium trovansi probabilmente ora un po’ più in alto, rispetto al livello marino, che non al loro momento di origine; ma in Piemonte per mancanza di depositi marini sahariani tale fatto è difficile a constatare con sicurezza. Nelle vallate alpine dove i ghiacciai si svilupparono tanto da sboc- care bella pianura è raro trovare ancora depositi di Diluvium ; invece in quelle che presentarono solo un mediocre sviluppo glaciale troviamo il Diluvium avanzarsi molto entro la regione alpina sino all’incontro delle formazioni moreniche. Questo fatto è importante come quello che ci prova che il Diluvium , se soggiace al terreno morenico là dove i 22 — 338 — due terreni si incontrano, in generale invece è contemporaneo alle formazioni glaciali del Sahariano , anzi in vastissime regioni ne è l'unico rappresentante. Ciò d’altronde è naturale poiché questi due terreni non sono altro che il risultato di uno stesso fenomeno, cioè la grande precipitazione atmosferica verificatasi nel periodo sahariano e che, secondo le regioni e le circostanze, si esplicò qua in masse glaciali, là in grandiose correnti acquee, quelle depositanti torrenti morenici, queste invece Di- luvium. Si comprende eziandio facilmente come durante la discesa dei ghiacciai nelle vallate alpine essi venissero preceduti da depositi allu- vionali e quindi là dove alla fine essi sostarono costruendo anfiteatri o semplici cordoni morenici, là per lo più il terreno glaciale posa sopra al Diluvium che termina quivi in sottile, ciò che solo in parte è dovuto a fenomeni di erosione per mezzo dell’agente glaciale. Nel Piemonte si potrebbero suddividere grossolanamente i depositi di Diluvium in alpini, collinosi e della pianura; di molto più importanti sono questi ultimi che esamineremo quindi più accuratamente senza però entrare in troppi dettagli che farebbero perdere l’idea d’assieme del terreno in questione. Nella Lombardia il Diluvium si presenta ad un dipresso colla stessa facies , disposizione e forma che in Piemonte; cioè sotto ai depositi glaciali, verso la loro periferia, ma specialmente dall’esterno, direi, dei terreni morenici si estendono verso valle le formazioni diluviali saha - riane a guisa di conoidi schiacciate ed inclinate verso il centro della pianura padana. Naturalmente fra la formazione morenica e quella dilu- viale evvi una zona costituita di terreni d’origine mista, zona che rende quindi molto oscillante ed arbitraria la delimitazione dei due terreni. In generale la formazione ciottolosa è coperta da un velo di loess ; il tutto poi è per lo più fortemente alterato e decomposto, almeno alla superficie, quindi prende un aspetto speciale giallo-rossiccio; questo Diluvium così decomposto ricevette in Lombardia il nome di Ferretto, In seguito alle ampie e profonde erosioni fatte dalle correnti acquee durante il periodo terrazziano , le formazioni del Diluvium vennero in gran parte abrase, incise variamente, tagliuzzate e ridotte ora a formare altipiani ondulati, più o meno terrazzati lateralmente, che ven- gono volgarmente appellati vaude, brughiere, groane o barraggie. Il dislivello tra la parte superiore di questi altipiani ed il basso-piano dell’attuale corso dei fiumi è assai forte presso monte ed invece va gradatamente diminuendo verso il centro della pianura padana, tanto che in alcuni casi i due piani vengono quasi a confondersi fra di loro a venti, trenta e più chilometri dalle falde alpine. Tra il torrente Olona ed il Ticino la formazione diluviale tipica è assai potente ma non molto sviluppata in estensione, almeno apparen- temente, perchè a Sud di Somma Lombarda-Gallarate-Cassano essa venne quasi completamente abrasa nella parte superiore dalle correnti acquee dal Terrazziano ; ne rimasero ancora taluni lembi residui come presso Gallarate, Samarate, ecc. Verso Nord si vede il Diluvium insinuarsi sotto il terreno more- nico, assottigliarsi gradatamente fino a scomparire affatto; come di solito vedesi, specialmente al termine meridionale della espansione glaciale, che esiste gradualissima transizione fra il Diluvium ed il morenico in generale per mezzo di loess impuro commisto a ciottolini ed inglobante talora grossi ciottoloni che ci segnalano Tazione glaciale. Nell’alveo dell’(Mona, a valle di Solbiate alTincirca, e nell’alveo del 'l icino a valle di Golasecca, le ripide sponde mostrano sovente a nudo il Diluvium inferiore ciottoloso-sabbioso, grigio -giallastro, talora subeeppoide (mentre il tipico Diluvium medio-superiore è terroso-ros- sastro, a facies di Ferretto ) e che anzi passa spesso inferiormente al vero Villafranchiano , sotto forma di Ceppo oppure di banchi conglo- meratici ed argilloso-lignitiei come nel Ticino. Ad Ovest del Ticino vediamo il Diluvium che, mentre si innesta a monte coi terreni morenici ad un dipresso lungo una linea irregolar- mente ondulata Borgomanero-Pombia, si sviluppa poi ampiamente a Sud costituendo altipiani, incisi variamente dai torrentelli originari del Terdobbio e dell’Agogna, e che, gradatamente abbassandosi, vanno poi a confondersi quasi colla sottostante pianura terrazziana ; però residui di questo Diluvium osservansi ancora qua e là nella pianura stessa dove costituiscono altipiani per lo più allungati, da Nord a Sud; fra essi tipico specialmente è quello di Novara-Vespolate; però rispetto a questo altipiano noto che gli strati suoi superiori debbonsi già rife- rire al principio del periodo terrazziano , come lo indicano con tutta — 340 — chiarezza le differenze altimetriche esistenti più a monte fra i diversi piani terrazzati. Tra la valle Agogna e la valle Sesia il Diluvium è ancora con- servato in gran parte verso monte, costituendo, come di solito, altipiani ondulati, profondamente incisi dai torrentelli, formati da banchi sab- bioso-ghiaiosi e ciottolosi, giallastri o rossicci per decomposizione, e ricoperti da un velo di Icess pure giallo-rossastro talora assai potente; presso monte questo Diluvium si appoggia direttamente sulle roccie antiche le quali però sono per lo più talmente decomposte alla super- fìcie che il terriccio che ne risulta si connette e si confonde col loess sahariano. In Valsesia si può osservare stupendamente bene il fenomeno già accennato sopra, cioè l’inoltrarsi del Diluoium nelle vallate al- pine sino all’ incontro dei terreni glaciali ; infatti vediamo come il terreno diluviale, che costituisce allo sbocco della Valsesia gli alti- piani di Romagnano, Ghemme, ecc., si trovi ancora molto addentro nella regione alpina sin oltre Borgosesia; è vero che in queste regioni entroalpine trattasi solo più di piccoli lembi di Diluvium , come ad esempio quelli di Fenera, di Valbusaga, ecc., ma ciò si spiega colla potente abrasione avvenuta durante il periodo terrazziano entro a questa valle* dove le correnti acquee dovevano essere impetuose ed erosive al sommo, tant’è che alcuni di detti residui di Diluvium entroalpini trovansi ad un livello di 100 metri superiore all’attuale fondo della valle. A monte di Borgosesia vediamo nettamente nelle colline di Pia- nezza e Cortiglia che sui depositi ciottoloso-terrosi del tipico Diluvium si sovrappone il terreno morenico caratteristico, terreno che incon- triamo poi più o meno sviluppato sui fianchi di tutto il resto di Vai- sesia. Ad occidente della Sesia i terreni diluviali tipici vennero in gran parte erosi, almeno superficialmente, per modo che gli altipiani di Roasenda, Buronzo, ecc., non rappresentano più il tipico Diluvium ma già i più antichi depositi del Terrazziano . Però numerosi, irregolaris- simi, più o meno vasti residui di Diluvium sahariano troviamo in tutto il biellese sin presso le falde alpine dove esso si appoggia o sui ter- reni pliocenici o direttamente sulle roccie antiche, o entro le stesse regioni alpine come, ad esempio, in Val Cervo, non essendovisi svilup- — 341 — pati molto i terreni glaciali; si può spesso Constatare in queste regioni come il Diluvium ciottoloso passi gradatamente presso le falde alpine a depositi diluvio-brecciosi pure in parte sahariani, cioè costituiti di elementi rocciosi, che, per essere stati poco rotolati, conservarono gli spigoli abbastanza angolosi. Troviamo inoltre il Diluvium nella pianura biellese dove esso co- stituisce altipiani ondulati o affatto isolati, come la baraggia Candelo- Villanova (che è appunto rivestita superiormente da depositi„ciottoloso- diluviali, spesso profondamente decomposti col solito velo di Icess ter- roso-argilloso giallo-rossiccio), oppure collegati colla stupenda morena laterale sinistra di Valle d’Aosta, cioè colla Serra; anche in questo caso si può chiarissimamente osservare che i terreni diluviali, costituenti gli altipiani della Bessa, presentano graduale passaggio ai depositi glaciali, a cui però soggiacciono nel loro punto d’incontro; ciò è specialmente visibile nelle colline di Donato-Mongrando ed in Valle Olobbia.- Questi vari altipiani del biellese sono molto istruttivi come quelli che ci segnano con sicurezza l’antico corso delle correnti acquee sulla pianura durante l’epoca quaternaria, corso che fu molto diverso da quello attuale. Entro il grandioso anfiteatro morenico di Ivrea non esistono affio- ramenti di Diluvium, il quale d'altronde credo vi manchi veramente ; però nella parte periferica di questo anfiteatro, sotto ai depositi morenici, devono esistere terreni diluviali, continuazione e termine, verso monte, del Diluvium della circostante pianura; infatti già nei profondi tagli di San Martino Canavese e altrove osservasi che alla base dei de- positi morenici tipici appaiono banchi ciottolosi che indicano già un passaggio al Diluvium. Questo fatto poi è evidente nella forra di Mazzè, dove vedesi nettissimamente il tipico terréno morenico potente, con fossili pliocenici rimaneggiati (d’onde l’opinione che si trattasse di veri depositi pliocenici), sovrapporsi, con passaggio abbastanza graduale, al Diluvium stratificato ; questo poi si va assottigliando rapidamente verso l’interno dell’anfiteatro, mentre invece esso diventa sempre più potente verso Sud per modo da costituire in massima parte il terreno ciottoloso basale della pianura padana. In causa dell’erosione e della susseguente deposizione alluvionale compiuta dalle correnti acquee scorrenti sulla pianura padana durante il periodo terrazziano , parte del Diluvium della regione padana in esame è stata esportata o coperta dai depositi terrazziani. Però nella pianura vercellese, come nel biellese, esistono ancora alcuni altipiani diluviali, quasi capisaldi dell’antica pianura padana sahariana ; ne sono esempi principali l’altipiano, allungato da Ovest ad Est, di Montarolo presso Trino, e quelli di Torrazza di Verolengo. Si tratta qui di lembi di Diluvium superiore passante al Terrazziano inferiore rispettati dalle correnti acquee terrazziane , ed infatti la loro forma segna nettamente la direzione dei corsi d’acqua che li isolarono. Dopo indicati i lembi diluviali sahariani del vercellese è opportuno accennare come anche presso le falde delle colline Casale-Valenza esi- stano residui dell’antica pianura sahariana ; solo che tali residui in- vece di essere costituiti da banchi ciottolosi, come il Diluvium subal- pino, sono rappresentati essenzialmente da depositi terrosi o loessy giallo-rossastri, con straterelli ghiaiosi sparsivi irregolarmente. Ciò di- pende dal fatto che questi terreni sahariani , d’altronde poco potenti, furono deposti in gran parte dalle acque scendenti dal rilievo collinoso Casale-Valenza, ed in parte dalla fiumana padana specialmente nei suoi periodi di piena, ma già in condizioni tali da non poter più traspor- tare e quindi depositare elementi ciottolosi grossolani, almeno in regola generate. Un ampio velo di loess sahariano , ridotto ora per l’erosione delle acque a tanti lembi isolati irregolarissimi, si estende sui depositi pia- cenziani della conca pliocenica di Occimiano-Frassinello nella parte inferiore di Val Rotaldo; tali depositi trovansi ora a 20, 30, 40 e più metri sull’ attuale fondo della valle, quantunque le correnti acquee eroditrici non abbiano mai potuto essere molto voluminose nè potenti. Depositi simili sviluppansi ampiamente e regolarmente verso Est costituendo l’altipiano di Mirabello-Lazzarone-Valenza-Bassignana-Ri- varone, altipiano che termina a Sud contro le falde collinose, a Nord è limitato sia dal rialzo collinoso di Pomaro, sia dal corso attuale del Po, mentre ad Est è troncato dall’attuale corso del Tanaro; questo altipiano di loess sahariano si eleva di 10 a 30 metri sulla circostante pianura terrazziana. Tale zona sahariana è interessante costituendo l’unico lembo di questo terreno alle falde settentrionali delle colline Torino-Valenza; la sua conservazione è dovuta alla conca che quivi 343 — formano dette colline per modo che non vi potè influire direttamente come agente di erosione la grande fiumana del Po. Notiamo però come sul dorso delle colline Torino-Valenza osservinsi non di rado depositi di loess sahariano , proveniente dalle alterazioni e dal trasporto a breve distanza dei terreni terziari stessi di dette colline; dell’ origine, del modo di presentarsi, ecc. del loess dei colli torinesi ebbi già ad occu- parmi ampiamente altrove con una monografìa speciale, per cui non è più il caso che di farne cenno. Ancora sviluppatissimo e quasi intatto è il Diluvium nella parte Sud-Ovest esterna dell’anfiteatro d’Ivrea, costituendo esso tra l'Orco, il Po e la Dora Baltea l’ampio altipiano, dentellato verso Sud, di Agliè-Mon- tanaro-Caluso ; tale fatto si spiega facilmente, giacché in questa vasta regione dopo la fine del periodo sahariano le poderose correnti acquee sboccanti dalla valle d’Aosta non poterono espandersi liberamente sulla pianura diluviale e quindi eroderla superficialmente, come si verificò altrove in generale, ma dovettero invece arrestarsi nel loro corso im- petuoso entro l’ampio cerchio morenico che divenne quindi un bacino lacustre. Naturalmente le acque che escivano poi da questo bacino non avevano più una grande forza di espansione e di erosione ; inoltre esse o sboccarono specialmente dalla parte Sud-Sud-Est della conca lacustre, per modo che la pianura sahariana di Sud-Ovest rimase in parte intatta, solo isolata ad Ovest dalle acque dell’Orco ed a Sud da quelle del Po; qui, come in generale, i depositi ghiaioso-ciottolosi sono ri- coperti da un velo di loess. Ad Ovest della Valle d’Aosta presso le falde alpine esistono ancora numerosi ma poco potenti residui di Diluvium con facies , posi- zione, ecc., quasi identiche a quelle delle prealpi biellesi; anche qui i depositi diluviali si appoggiano o sulla roccia antica oppure sui ter- reni pliocenici superiori maremmani, come presso Castellamonte, presso Rivara, ecc. Allo sbocco di Val d’Orco veggonsi nettamente i terreni diluviali venir coperti dai depositi morenici che poi da soli rappresen- tano il Sahariano più addentro nella vallata alpina. Ad occidente dell’Orco il Diluvium sahariano si sviluppa amplis- simamente a costituire il tipico cono di deiezione della Stura di Lanzo, che per la sua unità ed importanza fu già oggetto d’ una monografia speciale. In complesso però vi si verificano gli stessi fatti che abbiamo — 344 — finora esaminati, solo che la formazione diluviale è meglio conservata nella sua disposizione complessiva originaria. Infatti contro le falde alpine vediamo il Diluvium ciottoloso, ad ele- menti un po’ grossolani, passanti anche a depositi brecciosi, spesso profondamente decomposti e frammischiati a terriccio giallastro, pog- giarsi direttamente sulle roccie antiche e talora addentrarsi anche molto nella regione alpina, come in Val Verna ed in Val Coassolo, costituendo i bellissimi e fertili pianori di Forno di Rivara, di Corio e di Neviglie; in queste due ultime regioni la formazione diluviale verso monte viene poi ricoperta e tosto sostituita dal terreno morenico, come abbiamo già osservato altrove. Questi piani di Diluvium trovansi ad un' elevazione talvolta di oltre 100 metri sulla pianura terrazziana vi- cina, ciò che ci dà un’idea della potentissima erosione esercitata quivi dalle correnti acquee dopo il periodo sahariano . Man mano che ci allontaniamo dalle regioni alpine l’altipiano di- luviale si va gradatamente abbassando, finché presso Volpiano e la Venaria esso presenta solo più un dislivello di una decina di metri rispetto alla sottostante pianura terrazziana . Il primitivo cono di deiezione della Stura nom è completo poi- ché venne profondamente e largamente sbrecciato ed eroso nella parte media, per circa 1{3 del suo sviluppo originario; tale erosione venne fatta dalle acque stesse della Stura durante il periodo ter - razziano ; anzi siccome questo fenomeno del terrazzamento si compiè a gradi e di questi diversi gradi fu in certe regioni lasciata traccia per nu- merose terrazze a vario livello, così quivi non è sempre facile distinguere con sicurezza i depositi che si debbono ancora attribuire al Sahariano da quelli che sono già inglobagli nel Terrazziano ; ciò si verifica spe- cialmente presso le falde alpine. L’altipiano di sinistra della conoide in esame, conosciuta col nome di Campo di Cirié, di S. Maurizio e di Lombardore, è subtriangolare, eroso e limitato a Sud dalle acque della Stura, ad Est da quelle dell’Orco ed a Nord da quelle del Malone; la base è costituita di terreno villafran- chianOj passante verso Nord al Fossaniano ; il Diluvium è potentis- simo presso monte e va gradatamente assottigliandosi verso valle. Di questo fatto credo si debba tenere assai conto per non esagerare nella potenza che si deve attribuire al Diluvium sahariano nella parte media — 345 — della valle padana. I ciottoli di questo deposito sono talora assai vo- luminosi, spesso decomposti, argillificati e quindi facilmente riducibili in poltiglia; alla superfìcie del Diluvium esiste sempre un velo di loess giallo-rossastro più o meno argilloso. La formazione diluviale in esame si avanza entro la regione al- pina sino all’ incontro dei terreni glaciali, sia in Val Malorie che in Valle del Tesso ed in Valle Stura; questo passaggio si compie in modo che riesce per lo più assai difficile il delimitare nettamente un terreno dall’altro, poiché tra Puno e P altro esiste una formazione diluvio-gla- ciale di origine mista. .L’altipiano di destra della ‘conoide della Stura è pure subtriango- lare come quella, di sinistra, solo un po’ meno alto, ma di costituzione assai simile; s’appoggia ad Ovest alle falde alpine, è limitato ad Est dalla Stura ed a Sud dalla Ceronda; quest’ultimo torrente incide pro- fondamente ed ampiamente detto altipiano da Fiano a S. Gillio ; alla base di questa formazione diluviale compaiono qua e là, specialmente in Val Ceronda, i terreni villafranchiani. Presso le falde alpine si può osservare il passaggio gradualissimo fra il tipico Diluvium ciottoloso ed i depositi diluvio-brecciosi o diluvio- franosi dei pendìi montuosi, tanto che spesso rimane incerto se certi depositi debbonsi ancora porre nel Diluvium sahariano o già in un orizzonte più recente. Lungo la valle Casternone-Ceronda verificasi P innesto del cono di deiezione della Stura con quello della Dora Riparia e di Val Caster- none; ma in causa del grande sviluppo dell’apparato glaciale di Val Susa, si può quivi osservare che il terreno morenico di questa vallata si sovrappone, innestandovisi, al Diluvium della Stura di Lanzo ; però le formazioni più interessanti per osservare questa transizione furono appunto abrase dalle acque della Ceronda. Allo sbocco della valle di Susa manca completamente il Diluvium per il solito motivo che esso è sostituito dalla formazione morenica quivi sviluppatissima; probabilmente sul principio del periodo sahariano le acque della fiumana della Dora sboccando dalla valle alpina depo- sitarono quivi un po’ di alluvione, ma tosto sopraggiunse la massa glaciale per modo che tale formazione cessò di depositarsi ed anzi fu probabilmente alquanto abrasa dalla corrente glaciale. Però ad Est di Avigliana sotto i terreni morenici sonvi già alcuni indizi di depositi ciottolosi stratificati passanti al Diluvium ; questo terreno poi appare nettamente, ancora entro Y ambito dell’ anfiteatro morenico, lungo la Dora con potenti banchi conglomeratici. Nella profonda forra di Alpignano-Pianezza per i profondi ed ampi tagli naturali si può vedere nettissimamente in mille punti il passaggio graduatissimo fra il Diluvium ed il terreno morenico, per modo che si è quasi sempre incerti riguardo alla linea di separazione da segnarsi fra questi due depositi. In questa forra i banchi inferiori conglomera- tici hanno tutto l’aspetto del Ceppo lombardo, tanto da lasciar nascere il dubbio che quivi appaia un po’ di Villafranchiano. Nella parte esterna della cerchia morenica si vede sviluppatissimo, a Sud della Dora, il terreno diluvio-glaciale rappresentato da loess , da sabbie e da irregolari strati ciottolosi; la linea abbastanza netta di sepa- razione tra morenico e Diluvium , linea che osservasi a Nord della Dora fra Pianezza e Druent, credo sia dovuta al fatto che verso la fine del periodo sahariano le acque che uscivano, o direttamente dal ghiacciaio ricompiente ancora 1’ anfiteatro morenico, oppure, in seguito, dal lago occupante tale anfiteatro, trovandosi libere dagli impedimenti delle col- line moreniche ad Est di Pianezza si allargarono tosto sulla pianura diluviale e, pel naturai pendìo, dirigendosi specialmente verso N.E , erosero leggermente le falde delle colline moreniche più esterne di Pia- nezza-Druent. Ad Est del grandioso anfiteatro morenico di Val Susa, detto anche di Rivoli, troviamo ampiamente sviluppato e quasi intatto il Diluvium sino a Torino, essendo esso solo inciso, profondamente ma poco ampia- mente, dalle acque della Doria Riparia tra Pianezza e Torino : ne de- rivano quindi due altipiani diluviali, uno più grande, subquadrangolare, compreso fra le colline moreniche, la Dora, il Po ed il Sangone, ed uno più piccolo subtriangolare, compreso tra la regione morenica, la Ceronda, la Stura, il Po e la Dora. Questo Diluvium è costituito di banchi conglomeratici ad elementi spesso molto cementati tra loro ed in generale assai meno decomposti che nel Diluvium del cono di deiezione di Lanzo. Sotto a questi conglomerati diluviali esiste un velo acqueo regolare importantissimo che alimenta i pozzi di Torino e si rivela con numerose e copiosissime sorgenti in tutte le incisioni un po’ — 347 — profonde; tale zona acquea è probabile scorra direttamente sui terreni villafranehiani che abbiamo già visto costituire altrove sovente veli acquei potenti. Sopra ai banchi sabbiosi, ghiaiosi e ciottolosi si stende quasi sem- pre un velo di loess giallastro, però in generale poco potente. La conservazione di questi amplissimi altipiani è dovuta alla di- fesa naturale che essi ebbero contro le correnti acquee sboccanti dalle vallate alpine, in causa sia specialmente delle barriere opposte a tali cor- renti dai cordoni morenici, sia del pendìo piuttosto rapido (da Ovest ad Est) di questa regione, motivo per cui le acque incisero profondamente il loro alveo senza espandersi e senza erodere molto lateralmente. Rispetto alla valle del Sangone devesi notare che il Diluvium , il quale si collega verso monte, nel modo altre volte indicato, coi terreni morenici, verso valle si presenta molto sviluppato e potente, costituendo l'altipiano di Giaveno; a dire il vero qui, come in altre regioni dilu- viali presso monte, il Diluvium si presenta non perfettamente pianeg- giante ma alquanto terrazzato, quantunque, a mio parere, tali terrazze siansi formate ancora nel periodo sahariano . Trattandosi di formazioni diluviali entro monte e poco lontane dai terreni glaciali, i loro elementi ciottolosi sono talora enormemente svi- luppati e, come di solito, esse passano talora anche a depositi brec- ciosi presso le falde alpine. È notevole poi come per l’enorme espandimento della massa gla- ciale di Val Susa, la valle del Sangone ne rimase sbarrata ed il suo Diluvium venne così coperto dai depositi morenici della valle di Susa; tant’ è che in diversi punti, sia presso il. Sangone, sia verso i laghi di Avigliana, veggonsi affiorare i banchi di Diluvium stratificato, tipico, sotto ai terreni glaciali. Siccome nel periodo sahariano , specialmente nel suo principio, la fiumana del Sangone volgeva verso Avigliana, andandosi così ad unire con quella della Dora, come ci indicano certi depositi diluviali, così non è molto notevole il suo Diluvium ad Est di Trana, ed anzi esso è quasi completamente mascherato dai depositi terrazziani e non è ben discernibile da quelli della Dora e della Chiusella fra cui rimase, direi, soffocato. A Sud del Sangone in quasi tutta l’ alta valle padana, special- mente occidentale, le correnti acquee dopo il periodo sahariano conti- nuarono ancora per lungo tempo ad espandersi largamente sulla pia- nura, riducendosi negli attuali loro alvei solo in epoca abbastanza recente; ne consegue che i terre in diluviani sahariani furono su- perficialmente erosi alquanto, e poi coperti da depositi alluvionali terrazziani ; quindi il Diluvium tipico spesso manca affatto (almeno apparentemente, poiché invece esso è assai potente sotto pochi metri di Terrazziano ) oppure esso è ridotto a lembi, per lo più poco estesi, presso le falde delle Alpi, cioè là dove le correnti acquee, sboccanti impetuosamente dalle vallate alpine, incisero profondamente il Diluvium allo sbocco delle vallate, rispettandone estese zone intermedie prima di espandersi ampiamente più a valle. Lungo le falde alpine, là dove non esistono ampie valli, trovansi depositi ciottoloso-brecciosi e terrosi, in gran parte di epoca saha- riana, più o meno coperti da depositi simili, però più recenti, ma che ad ogni modo hanno ben poco l’apparenza del tipico Diluvium ; ne è esempio quella specie di cornice rilevata che fascia il rilievo serpen- tinoso di S. Giorgio e sulla quale è fondato Piossasco Piazza; esiste quivi una specie di velo di losss rossastro, grossolano, impuro, inqui- nato di materiali ciottoloso-franosi, provenienti dai pendii vicini. Invece allo sbocco della vallata Chisola e delle vallette sue af- fluenti troviamo vari altipiani diluviali, per lo più fortemente inclinati verso valle, ma che anch’essi presso le falde alpine passano ad accu- muli brecciosi; così il piano inclinato di Campetto-Cappella, di C. For- tunato, di Cumiana, di Paschero, di Tavernette, di Frossasco, di Roletto, ecc. In tutte queste regioni i depositi diluviali sono in parte alterati, quindi giallo-rossastri, spesso cogli elementi ciottolosi ancora parzial- mente a spigoli poco smussati, ed il tutto è quasi sempre coperto dal solito Icess alquanto grossolano. Oltre a questi depositi, complessivamente assai grossolani, osser- vansi pure talora, specialmente tra i torrenti Arculero e Noce, banchi sabbioso-terrosi giallastri o bleuastri che ricordano certe zone fossa- niane subalpine di Castellamonte e di Rivara : sinora non vi raccolsi alcun fossile. Fenomeni consimili osservansi in Val Chisone; allo sbocco di questa vallata alpina non si vede quasi più traccia di Diluvium , perchè esso — 349 — fu superficialmente abraso e coperto poi dal Terrazziano ; invece ne troviamo diversi residui, però diluvio-brecciosi, talora pseudo-glaciali, entro la valle alpina sui suoi due fianchi, ad altezze anche di 50, 60 e persino 70 metri (ma anche assai meno) sul fondo della vallata; ne sono esempi le alte terrazze di Gay, Fossati, Ronco, Gondini, ecc. Ta- lora il losss diventa assai potente come a Nord di Abbadia Alpina. In questa valle, come altrove, cessano i depositi diluviali là dove appaiono le formazioni glaciali, ciò che con gradualissimo passaggio verificasi presso Villar Perosa. A Sud del Chisone esiste un altipiano subtriangolare ed abbastanza vasto di Diluvium su cui stanno : S. Secondo Pinerolo, le borgate Airali, Moreri, ecc.; è quivi sviluppatissimo il loess giallastro o rossastro, come si può vedere in moltissimi tagli naturali ed artificiali. Nel periodo sahariano e forse anche terrazziano le acque sboc- canti da Val Chisone dovevano gettarsi a Nord-Est in parte, espanden- dosi così a danno, direi, della corrente acquea assai più piccola della Chisola; ciò si può dedurre dall’esame litologico delle alluvioni, essendo la costituzione geologica della valle alpina del Chisone assai diversa da quella di Val Chisola. In Val Pellice vediamo che su ambi i lati del torrente esistono residui diluviali abbastanza estesi e potenti che si spingono ad Est sino a ravvolgere lo spuntone di scisto cristallino su cui posa il ca- stello di Bricherasio. La potenza visibile di questo Diluvium è talora di oltre 50 metri, ma talvolta essa è apparentemente esagerata dalla presenza di rialzi rocciosi antichi che ne sono ravvolti senza che appaiano, o solo rara- mente, nelle sezioni, come verificasi appunto tra S.Giovanni e Bricherasio. È notevole in queste colline sahariane , specialmente nella parte più alta, ad esempio presso le C. Gross e Saret, come fra i ciottoli ed il loess grossolano siano pure sparsi numerosi ciottoloni e fram- menti angolosi di facies morenica. Entro la valle alpina del Pellice si vede svilupparsi per lungo tratto il Diluvium , formando esso gli altipiani laterali di S. Giovanni, Rua, Luserna, Lusernetta, ecc ; quivi sempre notansi diversi ordini di terrazze che collegano gradatamente il Diluvium più alto e più antico col Terrazziano , senza che sia sempre facile delimitare uno dall’altro. — 350 — Finalmente poco a monte di Torre Pellice questo Diluvium si in- nesta coi depositi morenici e non si sviluppa più. verso Ovest. A mezzogiorno del Pellice, mentre come di solito osserviamo la pianura padana senza alcun residuo diluviale superficiale, perchè tutto il suo Diluvium , che deve essere quivi abbastanza potente, è coperto dal Terrazziano , invece contro le falde alpine le alluvioni sahariane furono rispettate dalle correnti acquee della seconda metà dell’epoca quaternaria e quindi si sono conservate ancora in parte. (Tali lembi diluviali formano così una più o meno ampia fascia al piede delle Alpi Marittime settentrionali, innestandosi verso monte coi depositi breccioso-franosi (che d’altronde talora costituiscono quasi completamente questi lembi sahariani subalpini), ed invece essendo li- mitati ad Est da una linea più o meno ondulata che segna la massima espansione laterale delle correnti acquee del periodo terrazziano ; tale espansione deve esser stata abbastanza grande, poiché, dove la re- gione alpina si spinge un po’ più del solito verso la pianura, là le falde rocciose rimasero generalmente spoglie di formazioni diluviali, abrase dalle sovraccennate correnti acquee terrazziane. Fra tali altipiani diluviali, per lo più a forte pendìo verso la pianura, notiamo come più importante quello allungato di Bibiana- Bagnolo, quello (in forma di conoide terminante ad unghia verso Est) di Bagnolo-Ripoira-S. Pietro d’ Assurti allo sbocco di Valle Infernotto, quello pure foggiato a piccola conoide fortemente inclinata, di S. An- tonio, quello più allungato di Madonna dell’Oca- Envie, ecc. Non è molto lontana neppure nella storia 1’ epoca in cui il Po nei periodi di piena sboccando dalla valle alpina talora volgeva a Nord, allargandosi sopra il bassopiano che si estende ad Est del pianoro diluviale di Envie; si comprende quindi facilmente come durante il periodo terrazziano abbiano potuto rimanere isolati verso valle i sud- detti lembi di Diluvium per le erosioni esercitate dalle ampie fiumane scorrenti sulla pianura padana. Tali lembi diluviali non si presentano per lo più ben tipici, ma ad elementi in gran parte brecciosi per il poco trasporto subito; talora anzi detti elementi sono in parte molto voluminosi per modo da ricor- dare quelli dei depositi morenici, come vedesi ad esempio nella conca diluviale di Barge. 351 — In vai di Po, appunto per l’ampiezza della fiumana che l’occupava, furono in gran parte abrasi i terreni diluviali; ne rimasero solo alcuni lembi, ad elementi un po’ brecciosi, specialmente sulla sponda destra della vallata, formando così gli altipiani irregolari di Rifreddo, di Mar- tiniano , di Serro, ecc. Essi sono soltanto interessanti perchò ci in- dicano come il piano sahariano di Val di Po si trovasse originaria- mente elevato di 60 ad 80 metri sull’attuale fondo della valle. Nel lembo sahariano di Croesio gli elementi ciottolosi sono am- piamente commisti con grossi elementi brecciosi che preludiano già al terreno glaciale, il quale appare poi nettamente poco a monte, presso Paesana. Nella pianura, allo sbocco di Val Po, i terreni diluviali vennero completamente spazzati via, almeno superficialmente, dalle acque di questo fiume, per modo che non ne rimane traccia alio scoperto e solo alle falde settentrionali dello sprone roccioso di Saluzzo troviamo un piano inclinato formante una specie di fascia attorno a dette colline; si tratta di un deposito poco potente costituito in massima parte dello sfacelo dei micaschisti gneissici facilmente alterabili. A Sud di Saluzzo mancano per lungo tratto residui diluviali un po’ importanti, perchè le fiumane sboccanti dalle vallate alpine pel na- turale pendìo a Nord tosto si volgevano in tale direzione, anche du- rante il periodo terrazziano , rasentando le falde delle Alpi e quindi esportando, superficialmente almeno, i terreni diluviali prima deposti; restano però qua e là alle falde alpine depositi poco potenti, brecciosi franosi, sfacelo dei pendìi rocciosi vicini e di cui l’età è un po’ mista, direi, essendosi già cominciati a formare durante il Sahariano, ma avendo pure continuato a formarsi in seguito. Così pure entro la valle alpina di Varaita esistono solo scarsi e mai tipici lembi di Diluvium , il quale a Brossasco viene poi compieta- mente sostituito dalle formazioni glaciali ; tale scarsità deriva dalla strettezza della valle per cui i depositi diluviali furono facilmente spaz- zati via durante il periodo terrazziano. Passando alla Valle Maira dobbiamo ancora constatare come nella pianura che si estende al suo sbocco manchino apparentemente (perchè coperti dalle alluvioni terrazziane ), i depositi diluviali sahariani. E bensì vero che da Busca a Dronero esiste sulla sinistra della Maira — 352 — un alto terrazzo, passante per S. Alessio e S. Mauro, il quale potrebbe far supporre che l’altipiano a Nord di esso sia ancora un residuo di Diluvium , ma l’esame complessivo delle varie formazioni quaternarie e delle varie terrazze di queste regioni mi fa credere piuttosto che sul principio del periodo terrazziano la fiumana della Maira si espandesse ancora sin contro le falde alpine Dronero-Busca e che solo in seguito incidesse la terrazza sopraindicata. Ma se quivi il Diluvium è mascherato superficialmente dal Ter- razziano, esso appare però nettamente nei profondi tagli dell’alveo in cui scorre ora incassata la Maira. Queste profonde ed ampie sezioni nel Diluvium che osservansi lungo la Maira, a cominciare già da Busca sino a S. Damiano, sono importantissime come quelle che mettono a nudo completamente la co- stituzione intima del Diluvium e ci permettono di studiarlo minutamente. La conservazione di questa zona diluviale, formante per lunghis- simo tratto il fondo della valle alpina, è dovuta in gran parte alla no- tevole cementazione che presentano i suoi elementi i quali formano spesso un vero conglomerato cementatissimo, paragonabile per esempio a quello che osservasi nella forra di Alpignano allo sbocco di Val Susa ed a quello della forra di Rocca Sparvera in Val Stura di Cuneo, cioè al Ceppo della Lombardia. I banchi conglomeratici sono piuttosto potenti, abba- stanza regolari nel complesso quantunque di costituzione irregolarissima nei particolari. Lo spessore della formazione diluviale deve essere piuttosto grande nella pianura, dove però non possiamo valutarlo; invece diventa gra- datamente minore entro la valle alpina, cioè solo di 10 a 12 metri ed anche meno; vediamo infatti tratto tratto che sotto al Diluvium, an- che in mezzo della valle, spunta la roccia antica, così presso Dronero, presso S. Ponzo, ecc. Oltre a questo Diluvium tipico che, coperto dalle alluvioni del Ter- razziano antico, compare solo nei tagli presso la Maira, esistono an- cora lembi diluviali abbastanza conservati, anche superficialmente, allo sbocco di alcune vallate laterali: ne è esempio il piccolo altipiano di C. Pajano-Copetti che rappresenta in gran parte il cono di deiezione di Val Moschiera, inciso dal torrente Moschiere rispettato in parte dalle ac |ue della Maira per trovarsi in una specie di conca rocciosa. — 353 — A Monte di Cartignano vediamo che sopra ai lembi più o meno estesi di conglomerato diluviale esistono qua e là ciottoloni spesso angolosi che preludiano al terreno morenico; questo appare solo presso S. Damiano, e quivi cessa lo sviluppo del Diluvium tipico. A Sud della Maira lungo le falde delle Alpi non troviamo note- voli residui diluviali, sempre per la stessa causa della grande espan- sione delle correnti acquee sboccanti dalle vallate alpine; lo stesso di- casi per la Valle Grana che offre solo piccoli e rari lembi diluvio-brec- ciosi non importanti. Da Grana procedendo verso mezzogiorno, presso Bernezzo, allo sbocco di Valle del Cugino, osservansi stretti altipiani diluviali residui, che rappresentano il piccolo cono di deiezione di detta valle, ma che non presentano la tipica costituzione ciottolosa. Qualche cosa di simile esiste pure presso le falde alpine tra S. Rocco di Bernezzo e la Stura di Cuneo; infatti osservasi quivi una specie di ampio altipiano su cui siede Ruata Cotone, Cervasca e Vi- gnolo, altipiano limitato ad Est da un terrazzo assai netto, Ruata Ri- vetta-C. Spazzaforno, e che credo possa ancora considerarsi come un residuo di Diluvium rispettato dalle correnti acquee terrazzicene per la sua posizione speciale contro le falde alpine. Interessantissimo ci si presenta il Diluvium di Val Stura, quan- tunque esso sia stato superficialmente abraso quasi ovunque. Infatti nella profonda incisione eseguita dalla Stura nella pianura padana pos- siamo studiare molto bene in tutti i suoi dettagli la formazione dilu- viale sahariana che deve essere assai potente presso monte, poiché le incisioni di oltre 50 metri che osservansi nel circondario di Cuneo sono lungi ancora da metterne a giorno la base, per cui credo non esa- gerato il supporre che la sua potenza possa essere in alcuni punti anche di quasi 100 metri. Però verso valle il Diluvium diminuisce gradatamente di spessore, finché presso Montanara compaiono nella sua parte inferiore i terreni pliocenici villafranchiani che in breve sostituiscono completamente il Diluvium nella costituzione dell’alveo della Stura; questo terreno quindi viene per lungo tratto a mancare perchè eroso dalle correnti acquee terrazzianeì ma ricompare poi ancora più verso valle a costi- tuire gli altipiani di Fossano e di Trinità-Salmour. 23 — 354 — Da ciò risulta chiaro il fatto, già osservato altrove, che in com- plesso il Diluvium va talora diminuendo di spessore da monte a valle. Addentrandoci nella valle della Stura continuiamo a vedere lungo le pareti dell’ alveo le formazioni diluviali potenti, per lo più conglo- meratiche, ad elementi talora molto grossolani; di tratto in tratto com- paiono alla fase le roccie antiche. Alla superfìcie il Diluvium fu alquanto eroso dalle acque terraz- ziane ed è coperto da Terrazziano antico; però a cominciare dalla Be- guda verso valle, vediamo che sul. Diluvium trovansi sparsi depositi ad elementi assai grossi ed un po’ angolosi con facies morenica. Ma il primo vero e tipico lembo morenico che si incontra risalendo la Val Stura è quello che costituisce il rilievo di Pian di Gajola; quivi ven- gono pure a cessare le formazioni diluviali quantunque ancora presso Pianetto e Tetti Maigri su ambo i lati della vallata, osservinsi banchi brecciosi conglomeratici compatti, che paiono indicarci un’ origine di- luvio-glaciale. Nelle vallate alpine del Gesso e della Vermenagna, per la stret- tezza della valle e l’impeto delle correnti acquee, pochi, stretti e non tipici sono i lembi diluviali che tuttora esistono, specialmente allo sbocco di vallette secondarie. Nell’alveo del Gesso, lungo il suo percorso sulla pianura, osservasi il Diluvium potente, ma in gran parte però mascherato da depositi terrazziani di varie età. Ad Est del Gesso osserviamo un notevolissimo cangiamento nel modo di presentarsi del Diluviumì o, meglio, dei suoi attuali residui; cioè mentre in generale dalla Dora Riparia al Gesso questo terreno si poteva quasi solo osservare nelle incisioni dei torrenti, perchè abraso ] superficialmente, invece nella parte orientale dell’alta valle padana il Diluvium si è tuttora in gran parte conservato sino alla sua parte superficiale, solo presentasi variamente e più o meno profondamente ! inciso e ridotto a lembi di varia forma e lunghezza. Questo fenomeno è dovuto essenzialmente al fatto che nella re- gione che passeremo ora ad esaminare le correnti acquee, durante il pe- riodo terrazziano , invece di allargarsi su tutta la pianura padana, co- minciarono tosto a restringersi lungo certi assi speciali, quivi profonda- mente scavando ed incidendo il loro alveo, rispettando così vaste regioni — 355 — diluviali che per tale lavorio di erosione e di terrazzamento si tramuta- rono poco a poco in quelli altipiani a cui accenneremo ora breve- mente. Allo sbocco della valle del T. Colla, la formazione diluviale è ancora in gran parte conservata e costituisce l’altipiano, a dire il vero ben poco sollevato sulla pianura terrazziana, di Boves-S. Mauro-S. Magno-Rivoira, ecc.; il gradino piuttosto basso che limita questo Di- luvium verso Nord ci indica come quivi esista una ben piccola diffe- renza di età tra questo terreno sahariano ed il vicino terrazziano ; anzi tale divisione parrebbe a priori alquanto arbitraria se non ve- nisse convalidata da quanto osservasi più ad Est, dove i due terreni si distinguono sempre più spiccatamente. Tra il rio Beai ed il Pesio vediamo infatti che l’altipiano diluviale è abbastanza ben conservato tra Peveragno, Beinette e Boves, men- tre ad Ovest esso si eleva appena di pochi metri sulla prossima pia- nura terrazziana; verso Est invece, ad esempio presso S. Maria Rocca, se ne distingue con un dislivello di oltre 20 metri individualizzandosi così perfettamente. In questa regione diluviale è notevole la copiosis- sima sorgente che origina il lago di Beinette; essa è forse dovuta ad un velo acqueo scorrente sui terreni villa franchi ani superiori e che è deviato dal suo corso naturale e spinto a giorno dall’incontro dei coni di deiezione stati deposti specialmente dalle fiumane sboccanti dalle vallate di Stura, Gesso e Vermenagna; è infatti specialmente lunga questa linea di sovrapposizione del Diluvium al Villafranchiano che troviamo molto numerose ed abbondanti le sorgenti presso Margarita, tra questo paese e Montanera, in Val Stura sotto il Murazzo, ecc. Nella stretta valle alpina del Pesio non incontriamo notevoli lembi diluviali, ma solo depositi diluvio-brecciosi pseudo-morenici, come allo sbocco di Val Grosso, ecc.; lembi simili, ma ad elementi assai meno grossolani, incontriamo pure più a valle presso il Piano, Pevera- gnina, ecc. Continuando l’esame dei terreni diluviali ad Est del Pesio troviamo il bellissimo altipiano di Pianfei-Blangetti, il quale, però, quantunque sia assai rilevato sulla pianura terrazziana , non rappresenta ancora il tipico Diluvium , ma bensì un deposito formatosi nel periodo di pas- saggio tra il Sahariano ed il Terrazziano. Infatti presso le falde alpine - 356 — a Sud di borgata Viglioni vediamo vari lembi diluviali situati molto più in alto che il piano di Pianfei, ma specialmente poi verso Est tro- viamo sviluppatissimo il tipico Diluvium che costituisce l’elevato alti- piano di Roracco-S. Grato-Villanuova Mondovi; questo Diluvium è assai potente, si solleva presso monte sin oltre i 600 metri, è costituito di depositi terroso-ciottolosi ad elementi spesso grossissimi, sovente af- fatto decomposti; il tutto è coperto da un velo assai notevole di loess impuro giallastro o rossiccio il quale anzi presso monte è talora l’unico rappresentante del Sahariano , come già osservammo altrove in simili casi. Questa importante formazione diluviale è dovuta aìl’azione riunita delle acque del Pesio e di quelle dell’Ellero. Ad Est dell’interessante altipiano diluviale ora esaminato vediamo estendersi ad un livello minore un vastissimo piano più volte terraz- zato, cioè quello di Branzola--S. Luigi-Merlo-Avagnina, ecc. Malgrado la sua posizione inferiore a quella del Diluvium di Roracco e mal- grado i terrazzamenti che lo suddividono in diversi piani, credo che questa formazione si possa ancora inglobare nel Diluvium , il quale sa- rebbe in questo caso stato depositato verso la fine del periodo sahariano , formando così passaggio al Terrazziano , di cui vediamo le tipiche allu- vioni nella vasta pianura estendentisi a Nord e Nord-Est. Se risaliamo la valle del Tanaro a monte di Carrù, vediamo che, dal lato destro, sul dorso delle colline terrazziane sono ancora con- servati diversi lembi di Diluvium ciottoloso-terroso, giallastro che sono spinti in certi punti sin oltre i 600 metri di elevazione come al Brio Bicocca; in queste formazioni diluviali ebbero certamente anche qualche parte le acque di Val Corsaglia. Tra Lesegno e Ceva, sempre sulla sinistra di Val Tanaro, esiste un’ ampia ma sottile zona di Diluvium formante un piano fortemente inclinato verso Nord e ad un dipresso della stessa natura che quella dei lembi sovraccennati. Entro la valle alpina del Tanaro la fiumana che lo percorse du- rante il periodo terrazziano ne espoHò quasi completamente ogni de- posito di Diluvium ; si trovano solo qua e là, come di solito allo sbocco di vaste vailette laterali, alcuni depositi alluvio-brecciosi, però non sempre di età ben precisabile, forse in parte sahariani . — 357 — Ritornando ora all’esame dell’alta valle padana, dopo aver pas- sato in rivista i deposti diluviali delle numerose vallate alpine che vi convergono, dobbiamo accennare come sulla destra del Tanaro, alle falde occidentali delle Langhe, esistano presso Dogliani piccoli e sot- tilissimi lembi di terreni ciottolosi, sabbiosi e terrosi giallastri che rappresentano il Diluvium , e che per quanto poco importanti in se, servono però ad indicarci l’elevazione e lo sviluppo ad Est della grande fiumana del Tanaro durante il periodo sahariano. Ma ad Ovest del Tanaro esistono regioni vastissime in cui il Di- luvium è ampiamente e tipicamente rappresentato; tali regioni, per le continue erosioni verificatesi durante il periodo terrazzianoì furono ri- dotte a vasti altipiani, come ebbi già ad esaminare minutamente al- trove. In generale quivi osserviamo che il Diluvium ha solo una po- tenza di circa 10 o 15 metri: è costituito essenzialmente di ciottoli di varie dimensioni, taluni persino di quasi un metro di diametro, com- misti con terriccio grossolano e giallastro, più o meno decomposti a seconda dei luoghi e delle loro superficialità; al disopra di ciò si e- stende il solito Icess giallo-rossiccio, talora potente due o tre metri: su di esso non è raro incontrare lenti più o meno estese di spe- ciali concrezioni ocracee, costituite in gran parte di ossido di Manga- nese con ossido di ferro ed elementi terrosi eterogenei. Tali curiose formazioni, probabilmente depostesi sul fondo di acque stagnanti molto mineralizzate, verso la fine del periodo sahariano , ricevettero volgar- mente il nome di Mùrs o Gherloun: talora esse sono ridotte a grumuli staccati sparsi nel Icess ; si trovano già sviluppate sui tipici altipiani diluviali di Roracco-Villanuova Mondovì e si incontrano poi comunis- simamente in quasi tutte le regioni diluviali della parte destra dell’alta valle padana. Dette formazioni ci indicano come verso la fine del periodo sahariano , quando le correnti acquee cominciarono a raccogliersi lungo assi speciali, rimanessero sul piano ondulato diluviale numerose conche lacustri che poco a poco andarono essiccando, spesso natural- mente con dei ritorni, direi, in causa delle fiumane traboccanti (in epoca di piena) dagli alvei che si andavano allora appena abbozzando. L’altipiano diluviale situato più a Sud è quello detto del Banale; esso è subtriangolare ; suddivisibile per l’età di formazione in due parti; quella occidentale, più piccola, subtriangolare compresa tra i paeselli di Succhi, Magliano ed Isola, è la più antica e rappresenta il tipico Diluvium ; quella orientale, assai più grande, subquadrangolare, è la più recente poiché il suo Diluvium fu deposto sulla fine del periodo saha- riano, mentre già le correnti acquee avevano cominciato ad erodere ed a terrazzare, donde il gradino che divide le due sovraccennate porzioni dell’altipiano Banale. A Nord dell’ampia vallata escavata dalle acque del Gesso quando, invece di unirsi colla Stura sotto Cuneo, andavano a congiungersi col Tanaro presso Bene-Vagienna, esiste un amplissimo altipiano dilu- viale, pure subtriangolare e suddivisibile in una parte occidentale (Tri- nità-Burey-Salmour) più antica ed in una orientale (Burey-Podio-E- remo di Cherasco-Salmour) più recente, con un gradino divisorio di- sposto a piano inclinato ed ondulato. Sulla sinistra dell’incassata valle della Stura di Cuneo si sviluppa un’ estesissima zona diluviale, allungata da Sud a Nord, cioè da Fos- sano al Motturone; anche questo lungo e stretto altipiano si può di- stinguere in un altipiano meridionale più antico, detto di Famolasco, che si estende sino alla borgata Cappellassa all’incirca, ed in uno set- tentrionale più basso e quindi più recente che si allunga sino al Mot- turone; però questo secondo piano diluviale più recente non è più at- tribuibile solo alle acque del Tanaro come era il caso per i due primi altipiani sovraccennati, ma bensì anche a quelle di Grana (Mellea). Questo altipiano di Fossano venne isolato ad Ovest specialmente dalle erosioni delle correnti acquee del T. Mellea; infatti anche oggi tal- volta questo torrente nelle piene, tende a portarsi verso Fossano come fece in tempi non molto lontani, lasciando come residuo la regione ghiaiosa, detta Coda del drago. Esaminando ora la valle padana più verso Nord, notiamo un fatto assai interessante, che cioè, mentre durante il periodo sahariano le grandiose fiumane che, raccolte quasi in una sola, percorrevano detta valle, si spingevano molto verso Est cioè sin quasi ai limiti occidentali dell’attuale regione astense, invece durannte il periodo terrazziano esse si ritirarono molto più ad Ovest. Ne derivò naturalmente che queste correnti acquee abrasero superficialmente e ricoprirono con al- luvioni i terreni diluviali della massima parte dell’ alta valle padana, ma rispettarono invece quelli della parte orientale di detta valle, ter- — 359 — razzandoli lungojina linea ondulata passante per Bra-Sommariva Bosco- Troffarello. Questa linea è ora segnata da una terrazza la quale è dapprima accentuatissima, cioè di quasi 100 metri a Sud; invece essa va sempre più indebolendosi, direi, verso Nord, per modo che non è sempre facile il segnarla nettamente tanto più che essa viene ad essere resa assai irregolare dalle incisioni fatte dai torrentelli tributari di destra. In questa vastissima zona diluviale Bra-Valfenera-Buttigliera d’Asti- Troffarello si può ancora sovente distinguere un Diluvium antico che forma gli altipiani più elevati, ed uno meno antico che si trova sui lati delle valli di erosione a livelli un po’ più bassi che il Diluvium tipico; anzi là dove sonvi più ordini di terrazze riesce talora incerta la se- parazione del Diluvium sahariano dal Terrazziano . Il Diluvium di questa importantissima zona non è in generale molto potente, ed anzi è solo nella parte sua occidentale che alla sua costituzione prendono parte banchi ciottolosi, coperti da loess grosso- solano, mentre invece nella porzione orientale la formazione diluviale è rappresentata quasi unicamente da un terriccio giallo-rossastro, più o meno argilloso, cioè da loess , con cui si alternano spesso lenti ghiaiose assai estese, e che inoltre ingloba non raramente zone di grumuli dei sovraccennato gherloun. Lungo la frastagliatissima linea divisoria esistente tra la valle padana e l’alta regione astigiana il velo sahariano è ridotto spesso per erosione a lembi isolati irregolarissimi; si può osservare in mille punti la costituzione del suo loess , spesso con grumuli manganesiferi, calcarei, ecc., e che talvolta parrebbe quasi formare un passaggio gra- duale al Villa francliiano. Verso Cambiano i depositi diluviali sono costituiti superficialmente, invece che da loess, da banchi sabbiosi o sabbiosi-terrosi i quali fanno passaggio al vero loess , essi rappresentano il deposito formato dalle correnti acquee là dove, dopo aver percorso l’alta valle padana, tro- varono un ostacolo al loro libero corso nel rilievo dei colli torinesi, essendo perciò obbligati a rallentare il loro movimento e quindi a deporre grandi accumuli di sabbia, ciò che fu anche coadiuvato dal lavacro delle colline, in gran parte sabbiose ; è per il suddetto motivo che anche nella pianura di Carignano il sottosuolo è in parte costi- tuito da potenti banchi sabbiosi. Notiamo ancora come il Diluvium sahariano non si arresti alle falde dei colli torinesi ma vi si inoltri molto sotto forma specialmente di loess , che in massima parte però è dovuto all’abrasione delle stesse colline terziarie, come ebbi già ampiamente a dimostrare in altro la- voro. Simile modo di origine hanno pure i numerosi ma sottili ed ir- regolari veli di loess che s’incontrano in molte regioni sul dorso delie colline Torino-Valenza, dell’Astigiano, delle Langhe, dell’alto Monfer- rato, ecc., ma su cui non credo dovermi fermare, non avendo essi in generale una grande importanza ed essendo dovuti specialmente a fenomeni locali. Passando ora all’esame della grande pianura alessandrina, ve- diamo come in essa si ripeta ad un dipresso quanto osservammo per l’alta valle padana, solo in scala minore non esistendo all’ intorno una regione alpina. Siccome durante il periodo sahariano le acque dell’alta valle pa- dana non si gettavano ad Est nell’Astigiano, come in parte ora fanno, ma tutte proseguivano verso Nord passando fra le Alpi Cozie ed i colli torinesi, così in quel periodo l’Astigiana, regione originariamente pianeggiante, leggermente ondulata, non fu percorsa che dalle piccole correnti acquee scendenti dal lato settentrionale delle Langhe e dal lato meridionale del rilievo Casalborgone- Valenza; quindi dalla parte astense le formazioni diluviali della conca alessandrina non ricevettero un grande contributo. Considerando come le acque dell’alta valle padana durante il pe- riodo sahariano si spinsero verso Est sino alla pianura di Poirino e come l’immissione (avvenuta alla fine del periodo sahariano) del Tanaro nell’Astigiana è dovuta all’erosione di una semplice e sottile barriera sabbiosa tra la Morra e Bra, riesce interessante e curioso il pensare che se nel periodo sahariano una parte delle acque del- l’alta valle padana, soprafatto il lieve ostacolo che le tratteneva ad Est, si fossero gettate nella regione astese, completamente mutata da quella attuale ne sarebbe rimasta la configurazione oro-idrografica di questa amplissima regione e conseguentemente anche di diverse altre del Piemonte. A costituire il Diluvium della pianura alessandrina contribuirono specialmente le acque della Stura, dell’Orba, deila Scrivia e dei loro — 361 — rispettivi confluenti; di tale Diluvium sono tuttora conservati integral- mente porzioni assai vaste, specialmente presso le falde appenniniche, mentre che verso valle la formazione diluviale è, come di solito, in gran parte erosa superficialmente e ricoperta dalle alluvioni terraz- zicene. Nella parte Nord-Ovest della pianura alessandrina osservasi come la formazione diluviale, mentre con diverse terrazze si collega rego- larmente col Terrazziano di detta pianura, verso settentrione invece si appoggia regolarmente sul Villafranchiano, pur terminando a frastagli ed a lembi irregolari in causa delle erosioni acquee. Questo deposito diluviale, che spingesi talora, con veli di loess, molto avanti nella regione collinosa, è poco potente, in gran parte terroso-ghiaioso e deve spe- cialmente la sua origine alle correnti acquee che sboccavano con impeto dagli Appennini liguri, ed allargavansi tosto su tutta la conca alessandrina. Esso venne poi in massima parte eroso dalle acque del Tanaro durante il periodo terrazziano ; i lembi più o meno ampi ra- masti tuttora sulla sinistra del Tanaro trovansi ora a 30, 40 e più metri di elevazione sull’attuale corso di questo fiume. Tra il Tanaro ed il Belbo esistono diversi lembi di Diluvium ciottoloso e terroso che verso Ovest si estende molto a guisa di velo di semplice loess argilloso, gialliccio, che copre per larghi tratti il Vil- lafranchiano superiore, dal quale anzi non è sempre facile distinguerlo. Questo Diluvium è probabilmente dovuto in parte alle correnti acquee che, allargate e divaganti, rappresentavano il Belbo durante il periodo sahariano. Da Oviglio a Cassine possiamo osservare numerosi altri lembi, per lo più allungati da Est ad Ovest od isolati, di Diluvium poco po* tente, rappresentato in gran parte da loess argilloso verso Est ed in- vece grossolano e con lenti ghiaiose verso Ovest. Nelle colline di Cassine questi residui diluviali trovansi già solle- vati di 60 a 70 metri sul fondo dell’attuale vallata, il che ci dimostra come in queste regioni sia andata rapidamente crescendo, da valle a monte, l’azione erosiva esercitatasi durante il periodo delle terrazze. Se poi ci inoltriamo ancora di più nella valle della Bormida tro- viamo a diversi livelli sul dorso delle colline che stendonsi alla sua destra, ed anche molto lungi dalla vallata attuale, numerosi ma sot- — 362 tilissimi lembi di tipico Diluvium ciottoloso (ad elementi anche volu- minosissimi), spinti sin oltre i 380 metri di elevazione, come presso Castel Rochero, cioè ad un livello superiore di oltre 200 metri a quello dell’attuale fondo di Val Tanaro. Ciò ci indica chiaramente, anzitutto come nel solo periodo terrazziano le acque della Bormida incisero nei terreni terziari un alveo profondo oltre 200 metri, il che è certa- mente assai notevole, dimostra inoltre che durante il Sahariauo le Langhe presentavano una configurazione ben diversa da quella attuale; probabilmente esse costituivano già una regione molto ondulata, ma di certo infinitamente meno collinosa, meno incisa e meno frastagliata, che non al giorno d’oggi, poiché tali modificazioni si verificarono specialmente durante il periodo terrazziano. Quanto poi al non incontrarsi più a monte, sia qui in Val Bormida, sia nelle altre vicine vallate appenniniche, residui diluviali un po’ no- tevoli, ciò dipende semplicemente dal fatto che a monte le acque ero- devano soltanto senza poter depositare in causa dell’impeto della loro discesa. Tra la Bormida e l’Orba si sviluppano amplissime zone diluviali, potenti a valle, assottigliantesi a monte ; come di solito in generale i banchi ciottolosi, spesso a grossi elementi più o meno decomposti ma quasi sempre giallastri, sono coperti da Icess ; tali zone formano come di solito altipiani di forme irregolari, inclinati a Nord, finché essi vanno quasi a confondersi colla pianura terrazziana da cui sono appena distinti per un gradino di pochi metri; invece a Sud tali altipiani si innalzano notevolmente tanto che talora trovansi ad oltre 100 metri di elevazione sull’attuale fondo della Bormida e dell’Orba. Spesso nelle regioni più a monte i lembi di Diluvium sono ridotti a qualche ciottolone sparso sul dorso delle colline, residuo di un deposito originariamente più esteso e potente. Tra l’Orba e la Scrivia , esistono ancora estesi altipiani diluviali foggiati sullo stesso stampo di quelli preaccennati, irregolari, allungati da Sud a Nord, abbassantisi gradualmente (rispetto ai bassipiani cir- costanti) verso Nord, mentre verso monte si sollevano persino di 100 metri sull’attuale livello della Scrivia. Queste zone di Diluvium ap- pongiansi a Sud trasgressivamente su diversi orizzonti terziari ed a Nord invece adagiansi regolarmente sul Vili afranchi ano, da cui anzi 363 — w non sono sempre facilmente distinguibili a causa della natura in gran parte ciottolosa di ambedue i depositi. Sulla destra della Scrivia, cioè alle falde occidentali dei colli tor- tonesi ritroviamo ancora numerosi lembi diluviali, per lo più ridotti a placche poco estese, poco potenti, talora rappresentate solo da loess verso Est; questi depositi di Diluvium i che presso Cassano Spinola sono notevolmente sollevati sul bassopiano della Scrivia, si vanno gradatamente abbassando verso Nord tanto che presso Tortona ven- gono quasi a confondersi colle alluvioni terrazziane. Abbiamo così esaminato succintamente i diversi lembi diluviali che sono tuttora conservati attorno alla vasta pianura padana e che antica- mente, cioè sulla fine del Sahariano , erano tutti assieme collegati a costituire una specie di conca sola, a superficie alquanto più rilevata che non l’attuale; siccome però l’erosione terrazziana non dovette essere molto forte nella parte interna della pianura alessandrina, così è na- turale il dedurre che in questa vasta regione, sotto alle alluvioni ter- razziane si estenda una zona più o meno potente di Diluvium che ricopre regolarmente le formazioni villafranehiane. I lembi diluviali di Valenza-Ri varone servono molto bene a colle- gare il Diluvium della pianura alessandrina con quella della pianura padana. Ritornando alla grande vallata padana, se ne esaminiamo la parte meridionale possiamo osservare come in generale allo sbocco delle valli appenniniche esistano formazioni diluviali più o meno estese, costituenti altipiani più o meno elevati sulla vicina pianura terrazziana ; se di ciò vi è appena accenno al termine di Val Curone, sviluppatis- simo invece si mostra il Diluvium allo sbocco di Val Staffora dove esso si presenta a diversi livelli pei ripetuti terrazzamenti che servono di passaggio tra il Diluvium sahariano e le alluvioni terrazziane . Fenomeni simili si ripetono lungo le falde appenniniche verso Est, ma non è più qui il caso di passarli in esame. Se si considera la formazione diluviale sahariana in rapporto colla idrografia sotterranea si nota tosto come esista tra esse un nesso assai stretto che dipende dalla natura e dalla posizione del Diluvium ; infatti essendo questo un deposito per lo più superficiale ed in gran parte ghiaioso-ciottoloso, quindi talora permeabile, sovente le acque di pioggia lo attraversano facilmente; e siccome sotto al Diluvium esiste per lo più la formazione villafranchiana con banchi marnoso- argillosi, così in generale alla sua base si costituisce una falda acquea, regolare, potente, molto importante, come già accennammo trattando del Villa franchiano. Ne consegue che le regioni diluviali, specialmente quelle ridotte ad altipiani, sono per lo più alquanto aride, poiché l’acqua di pioggia penetra facilmente nel suolo e viceversa scarseggiano le correnti ac- quee superficiali. Però là dove il loess è un po’ argilloso ed i banchi ciottolosi alquanto decomposti ed argillifìcati, là si verifica invece che l’acqua di pioggia non può quasi penetrare nel terreno ed anzi forma allora sovente pozzanghere più o meno vaste secondo l’ orografia della regione; in molti casi poi si osserva che nella pianura si torma un velo acqueo più o meno regolare tra il Diluvium compatto e lo Alluvium più incoerente, e ciò ci spiega diversi fenomeni generali di idrografia sotterranea, così numerose sorgenti acquee, pozzi poco profondi, ecc. Dove il Diluvium è molto potente si vede come talora nella serie diluviale, frammezzo ai banchi ciottolosi, ghiaiosi e sabbiósi sianvi pure banchi marnosi, talora argillosi, i quali dànno origine a veli acquei per lo più però poco estesi e poco importanti. Ad ogni modo nelle sezioni naturali ed artificiali che tagliano la serie alluviale, mentre è piuttosto raro che esistano sorgenti acquee fra gli strati di questa formazione, esse compaiono invece abbondantissime alla sua base tanto che questo fatto serve poi talora come carattere secon- dario per delimitare il Sahariano dal sottostante Villafranchiano. Riguardo all’ubertosa pianura lombarda è ben noto come essa debba in gran parte la sua fertilità al sistema d’ irrigazione continua fondato essenzialmente sulle sorgenti artificiali perenni o fontanili; esse derivano da una importantissima falda acquea che si estende dal Novarese sino al Friuli e che, mentre è poco profonda lungi dalle Alpi, diventa invece più profonda verso la regione alpina. Orbene, questo fenomeno tanto importante per l’agricoltura della valle padana, credo sia in stretta relazione colla natura, posizione e sviluppo della formazione diluviale. Fenomeni simili riscontransi pure in diverse regioni del modenese e della pianura piemontese, sia a monte che a valle di Torino, ecc. Quanto all’orografìa si deve solo notare come il Diluvium costi- tuisca generalmente soltanto regioni pianeggianti che spesso, per le erosioni verificatesi nel periodo terrazziamo, sono ora ridotte ad alti- piani più o meno ampi e variamente elevati sulla circostante pia- nura. Però questi altipiani presentano sempre una pendenza assai sen- sibile verso il centro della pianura padana, costituendo così, quando le erosioni non furono troppo ampie e profonde, bellissime conoidi ven- tagliformi. Se alle falde degli Appennini e tra le due Dorè in Piemonte questi coni di deiezione furono talmente erosi e sventrati da essere ridotti ora a lembi irregolari, costituenti gli altipiani suddetti, invece nell’alto Piemonte verso Ovest, dove le erosioni acquee furono meno profonde, troviamo ancora talvolta conservate le conoidi foggiate a ven- taglio con pendenza assai forte presso monte, come possiamo verifi- care assai bene dando un semplice sguardo alle Carte topografiche a linee curve, per cui credo inutile discendere ora a particolari in pro- posito. Noto solo come in generale la pendenza delle conoidi saha- riane sia più forte che quella delle conoidi terrazziane, eccetto che trattisi di piccole conoidi locali allo sbocco di vallette alpine. Stretto ed importantissimo è il nesso esistente fra il Diluvium e l’agricoltura, costituendo esso in gran parte il terreno superficiale e quindi originando in massima parte Yhumus, specialmente col suo velo di loess. Da quanto si è già detto riguardo all* idrografìa delle regioni diluviali è facile arguire come esse sovente si presentino un po’ aride, e quindi non riducibili a coltivazione pratense, ma piuttosto atte alla coltivazione del frumento e del grano turco; siccome però queste re- gioni costituiscono spesso altipiani , così sui loro margini a dolce pendìo prosperano abbastanza bene le viti. Ma dove il loess è molto argilloso, quindi impermeabile, e molto ricco in sostanze minerali, quivi per fenomeni fisici e chimici risultano regioni ben poco favorevoli al- l'agricoltura; pur troppo famose a questo riguardo sono le brughiere lombarde e le vaude o barraggie piemontesi; aggiungasi poi ancora che ben sovente nella parte superficiale del loess sahariano si incon- trano lenti estese di quelle concrezioni manganesifere e ferrifere ap- — 366 — peliate miìrs o gherloun , le quali costituiscono di per sè un vero fla- gello, direi, per ogni sorta di coltivazione. Dai depositi di Diluvium si estraggono talora sabbie e ciottoli per costruzione e per pietrisco, quantunque il loro stato di alterazione renda tali materiali generalmente poco durevoli ; invece molto più im- portante è l’uso che si fa del Icess per fabbrica di laterizi. In certe regioni le marne argillose del Diluvium si utilizzano come colore grossolano, cioè come terra d’ombra; in altre regioni, come nel biellese, le sabbie del Diluvium presentano talora numerose pagliette d’oro e quindi vengono rimaneggiate per ricerche aurifere. Terreno morenico. Nel Piemonte una parte assai notevole delle formazioni depostesi durante il periodo sahariano entro la regione delle Alpi od allo sbocco delle vallate alpine è dovuto direttamente all’agente glaciale e costi- tuisce il cosidetto terreno morenico o terreno glaciale. Questo deposito è assai meno importante che non il Diluvium , almeno rispetto alla valle padana, scopo precipuo di questo lavoro; quindi mi limiterò su tale riguardo ad osservazioni generali sopra le formazioni moreniche termi- nali che sono le più interessanti come quelle che ci indicano il maggior sviluppo dei ghiacciai d’ogni vallata alpina e spesso inoltre vengono a formare parte della regione padana innestandosi col Diluvium. Sono già ben noti ad ogni geologo la struttura, la facies spe- ciale, ecc., delle formazioni moreniche, senza che sia qui più il caso di accennarle; vedremo come il loro sviluppo sia in stretto rapporto colla posizione e coll’importanza della vallata alpina da cui derivano. Esse in generale non presentano regolare stratificazione, ma piuttosto una disposizione irregolare, caotica; non di rado però assumono una pseudo- stratificazione, che può anche accentuarsi maggiormente in certe re- gioni speciali dove gli elementi glaciali, prima di depositarsi, subirono una specie di cernita e quindi ricevettero una parziale disposizione a strati. La potenza del terreno morenico è variabilissima da luogo a luogo; per lo più appare assai maggiore di quello che sia realmente, perchè questo terreno spesso ammanta come semplice velo terreni antichi e diluviali ; talvolta però osservansi accumuli morenici di centinaia di — 367 — metri di spessore, come ad esempio è il caso per la cosidetta Serra d’Ivrea, morena laterale sinistra del ghiacciaio di valle d’Aosta. Non ha grande importanza l’altimetria del terreno morenico, ec- cetto che per conoscere la potenza e 1* espansione che raggiunse la massa glaciale in ogni valle alpina; sovente si riconosce in tal modo che nelle grandi vallate il pelo del ghiacciaio si elevò di 400 a 500 metri sul fondo roccioso della valle stessa. Negli elementi rocciosi del terreno morenico hanno una grande prevalenza quelli più resistenti, cioè granito, quarzite e serpentina, con grandi diversità al riguardo in rapporto colla costituzione litologica della valle alpina da cui il ghiacciaio è disceso. Già trattando del Diluvium si sono accennati i rapporti che esistono tra esso ed il terreno more- nico; cioè che questa formazione si sovrappone a quella diluviale, alla quale fa generalmente graduale passaggio, eccetto là ove per speciali condizioni la massa glaciale avanzantesi sul Diluvium poco prima deposto e quindi incoerente, lo erose alquanto nella parte superficiale. Ben noti sono gli straordinari sviluppi delle formazioni glaciali nelle Alpi e nelle prealpi della Lombardia, dove esse anzi si avanzano molto nella pianura padana costituendo una serie di collinette cordo- niformi, caratteristiche; quelle che si allargano allo sbocco dell’ampia valle del Ticino costituiscono il grande e complicato anfiteatro more- nico detto del Lago Maggiore. Questo sviluppatissimo anfiteatro glaciale non si presenta tanto tipico e regolare come quelli di Ivrea e di Rivoli, sia perchè assai largo è lo sbocco della vallata in modo che il ghiacciaio si potè espandere molto ed irregolarmente, sia perchè in tale espansione terminale detto ghiacciaio incontrò numerosi ostacoli in spuntoni o colline preesistenti di terreni secondari, eocenici, oligocenici ed anche miocenici, per modo che ne fu impedito il regolare sviluppo, e ne troviamo quindi spesso i depositi sparsi in diverse posizioni; sia infine perchè le erosioni quivi verificatesi nel periodo terrazziano furono molto potenti, vaste ed ir- regolari per modo che le formazioni glaciali ne rimasero assai smem- brate ed irregolarmente incise. Però se si considera nel suo complesso 1* anfiteatro morenico in questione se ne può ricostrurre 1’ assieme unitario e tipico ad amplis- simo arco suddiviso in tanti archi o cordoni minori. Vediamo infatti — 368 — la bella morena laterale destra che fiancheggiando (interrotta qua e là) il Mottarone si sviluppa regolare da Corgiago a Ghevio, Invorio, Gattico e Borgoticino, sino a congiungersi colle colline moreniche esterne di Besnate, Sumirago, ecc., ed interne di Golasecca, Vergiate, Casale, ecc., costituendo così il complesso apparato frontale dell’ anfiteatro. Segui- tando la curva vediamo come le colline moreniche frontali vadano poi a congiungersi colla grande ed elevata morena laterale sinistra di Gavirate-Varese, la quale si espande anche alquanto verso Arcisate. Oltre a queste formazioni più importanti del gran cerchio more- nico in esame notiamo esistere numerose ed ampie morene d’ostacolo (di cui è tipo quella di Angera), parecchi bassi cordoni morenici di ritiro (come ad esempio quelli tra Borgoticino ed il Lago Maggiore, quelli di Ranco-Ispra, ecc.), morene insinuate (come attorno al Mottarone), roccie levigate, striate, solcate, stupendi erratici, specialmente nelle morene laterali e d’ostacolo, ecc. Pure molto interessante e tipico, per quanto piccolo, è 1’ anfiteatro morenico del lago d’Orta ; esso è rego- lare, con diverse gradinate o meglio cordoni concentrici abbastanza ben conservati anche nella porzione terminale che chiude, superficial- mente almeno, il lago d’Orta, colle belle morene laterali di S. Maurizio- Pogno a destra e di Miasino-Ameno-Gozzano a sinistra. Il tutto è posato o sulle roccie antiche o sul pliocene ed innestasi a Sud col Diluvium, come osservasi bene specialmente nei dintorni di Gargallo; anche in questo anfiteatro glaciale esistono morene insinuate, ampie zone di roccie striate e levigate, ecc. In Valsesia i ghiacciai non si svilupparono tanto da raggiungere il termine della vallata, ma si fermarono presso Borgosesia, costruendo la bellissima morena di Cartiglia; questo deposito morenico si ap- poggia sopra il Diluvium sostituendolo in breve completamente verso monte. Nelle prealpi biellesi non troviamo residui morenici un po’ note- voli, se si eccettui il lembo pseudo-glaciale del Santuario d’Oropa. E invece ben noto come grandioso, immenso, sia stato lo sviluppo delle masse glaciali della valle d’Aosta per cui esse non solo raggiun- sero lo sbocco della vallata alpina ma si spinsero inoltre notevolissi- mamente sulla pianura padana costruendo così l’amplissimo anfiteatro morenico di Ivrea, che è forse il più grandioso degli anfiteatri glaciali — 369 — d’Europa; di esso ebbi già ad occuparmi in un lavoro speciale per cui mi limito ora ad accennarne i fenomeni principali. Considerando nel suo assieme l’anfiteatro morenico dTvrea vi si possono distinguere tre parti principali, cioè: la tipica, stupenda morena laterale sinistra (la Serra), che si eleva talora di oltre 400 metri sui piano interno dell’anfiteatro ; la morena laterale destra Lessolo-Caluso, che però sotto certi aspetti si potrebbe anche considerare in parte come morena frontale; infine l’irregolare morena frontale Caluso-Cavaglià, che si inoltra notevolmente entro il piano interno dell’anfiteatro, sino a Tina ed Albiano, per mezzo di morene medio-frontali od incidenti. Cia- scuna di queste parti è poi suddivisibile a sua volta in tanti cordoni morenici irregolarmente concentrici formanti vailette o bacini stretti ma allungatissimi ; già trattando del Diluvium si è osservato che in alcuni punti, come in Valle Olobbia e nella forra di Mazzè, si veda questa formazione fluviale passante gradualmente nella parte superiore al ter- reno morenico; uguali transizioni, quasi insensibili, esistono nella parte esterna delFanfiteatro, per cui ne rimane assai incerta la delimitazione in molti casi. E noto ai geologi come in diverse località dell’anfiteatro glaciale di Valle d’Aosta si rinvengano numerosi fossili pliocenici, del Piaceri - ziano superiore, commisti a depositi di facies morenica, per cui si de- dusse in generale che esistevano in queste regioni veri terreni plio- cenici in posto alquanto alterati per l’ intervento di fenomeni glaciali ; già trattando del pliocene ebbi ad osservare che per diversi motivi credo invece che tali depositi siano semplicemente morenici, sahariani , e che i fossili pliocenici inclusivi derivino da un’ erosione superficiale e da un conseguente rimaneggiamento dal Piacenziano superiore; questo fenomeno, semplice in sè, deve essere tenuto in conto perchè con esso si spiegano facilmente diversi fatti che, sia in Italia, sia altrove, per le diverse interpretazioni che ricevettero dai diversi geologi diedero origine a gravi polemiche. Nella valle dell’Orco la massa glaciale assai potente giunse sino allo sbocco della vallata alpina, quivi deponendo le sue morene termi- nali, poco potenti, direttamente sulle roccie antiche oppure anche, in certi punti, sopra a lembi diluviali poco prima deposti. Nella parte alta di Val Malone presso borgata Picat incontransi 24 — 370 — qua e là accumuli ciottoloso-breeciosi, talora a grossi elementi, che i paiono doversi riferire in parte all’agente glaciale. Lo stesso dicasi per la valle del Tesso, a monte di Castiglione, dove però la formazione glaciale si presenta veramente tipica, sebbene non molto sviluppata, e passante gradatamente a quella diluviale, che è profondamente de- composta appunto nelle vicinanze di borgata Castiglione. In valle di Lanzo, quantunque i ghiacciai siano stati molto potenti durante il periodo sahariano , tuttavia essi non raggiunsero lo sbocco della vallata ma si arrestarono contro una stretta rocciosa, la forra di S. Ignazio, pochi chilometri a monte di Lanzo; anche in questa regione ; si possono vedere nel piano Castagna formazioni diluvio-glaciali che pas- ; sano gradatamente al morenico verso monte ed al Diluvium verso valle. Giungiamo così alla valle di Susa la quale presentò un tale svi- luppo di ghiacciai nel periodo sahariano , che essi, sboccando dalla valle alpina, si espansero sulla pianura a formare il grandioso anfiteatro mo- renico di Rivoli che già fu oggetto di una monografìa speciale, per cui basterà ricordarne i caratteri essenziali. In causa dello sprone roccioso Avigliana-Monconi che divise in due la massa glaciale discendente da Val di Susa, l’apparato morenico che ne risultò presenta numerose irregolarità ed anzi potrebbesi distinguere in due anfiteatri diversi : uno piccolo, laterale destro, A vigliana-Trana, ed uno grandissimo Avigliana-Rivoli ; se invece vuoisi considerare tutta questa formazione glaciale come costituente un anfiteatro unico, i cor- doni morenici di S. Ambrogio-Giaveno-Trana ne costituirebbero la morena laterale destra, quelli di Trana-Reano-Rivoli il grandioso apparato fron- tale, e quelli di Almese-Casellette-Druent, la morena laterale sinistra, molto allargata e quindi poco rilevata. Già trattando del Diluvium si fece notare la netta sottoposizione che in molte località questo terreno presenta rispetto alla formazione glaciale a cui spesso forma graduale passaggio ; si osservò pure come passaggi simili osservinsi nella parte esterna dell’anfiteatro, special- mente a Sud della Dora e presso Giaveno. In causa delle erosioni fatte dalle acque del Sangone nel periodo terrazziano una parte della formazione morenica ad Est di Trana venne esportata, e ciò che ne rimase venne ricoperto dalle alluvioni terraz - ziane , come appunto verificossi presso Sangano e Bruino. Oltre alle formazioni moreniche esterne principali sono pure note- voli i pseudo-cordoni interni sia nel grande sia nel piccolo anfiteatro; specialmente importanti quelli di Trana e di Avigliana per aver dato origine a conche lacustri e torbose. Nella valle del Sangone incontransi lembi di formazioni glaciali solo a monte di Coazze, nei dintorni di Forno, ma esse non sono molto tipiche. Risalendo la valle del Chisone veggonsi comparire i depositi mo- renici subito a monte di Villar Perosa costituendo essi le colline di Ciappelle presso Dubbione (dove si spingono sino ai 700 metri di ele- vazione formando anche una vera morena insinuata), di Pinasca, ecc. Stupenda è la morena di sbarramento di Perosa. A Villar Perosa si può osservare la solita zona di terreno fluvio- glaciale; inoltre in queste regioni presso Villar Perosa, presso i Saret e più a monte sotto borgata Bernardi si veggono comparire, in alcuni tagli naturali, speciali banchi marnoso-argillosi giallastri o bleuastri, i quali a primo tratto ricordano i depositi piacenziani o certi terreni vil- lafranchiani entroalpini (Leffe, Lanzo, ecc.); io credo però che si tratti qui soltanto di un deposito sahariano collegato probabilmente colla for- mazione delle morene di fondo o con fenomeni lacustro-glaciali, perchè questi depositi sono in parte straterellati e talora leggermente inclinati a Nord. Nella Valle Pellice la massa glaciale si spinse sin quasi a Torre Pellice; incomincia infatti ad osservarsi qualche erratico gneissico-gra- nitico presso S. Margherita, specialmente ai Coppini; troviamo poi poco più a monte il terreno morenico ben sviluppato, quantunque in parte rimaneggiato superiormente dalle acque terrazziane e talora diffìcil- mente distinguibile dai depositi franosi formatisi pure in periodo ter- razziano. La valle alpina del Po malgrado la sua importanza non diede ricetto, durante il Sahariano , ad una massa glaciale tanto sviluppata da giungere sino alla pianura; infatti devesi rimontare la vallata per molti chilometri senza trovare nette traccie glaciali, finché presso Croesio incominciansi ad osservare depositi a grossi elementi angolosi che però non sono ancora veramente glaciali ; ma già prima di giun- gere a Paesana il piano ondulato di borgata Allemagna ed i ciottoloni - 372 — che vi si veggono sparsi ci indicano esistere quivi un deposito more- nico, forse però già alquanto rimaneggiato dalle acque terrazziane. Subito a monte di Paesana il terreno glaciale si presenta assolu- tamente tipico, ondulato, potente, a ciottoli talora di oltre 2 metri di diametro, insomma colla sua facies caratteristica; solo che le poten- tissime erosioni terrazziane ne esportarono una parte grandissima, la- sciando soltanto come residuo la terrazza o altipiano ondulato di Pae- sana-Ghisola, sulla sinistra della valle. In causa della ristrettezza della Valle Varaita si è già notato non esistervi importanti residui sahariani diluviali; lo stesso deve dirsi per i depositi glaciali; probabilmente il ghiacciaio di questa valle giunse sin presso a Brossasco, poiché quivi osservansi numerosi ciottoloni ad elementi angolosi (ciò che pure notasi lungo i pendìi di Gabella), quan- tunque veri depositi morenici non si possano indicare sin quasi a Sam- peyre. La Val Maira che ci presenta un Diluvium tanto tipico, ebbe il suo ghiacciaio che si spinse sino a S. Damiano; è quivi infatti che vediamo come alle formazioni diluviali si sovrappongano e si innestino con graduale passaggio i depositi a grossi elementi irregolari che rap- presentano il terreno morenico; anche a valle di S. Damiano osser- vansi numerosi ciottoloni sparsi qua e là alla superficie del terreno;, ma essi, se originariamente glaciali, furono già probabilmente trasportati e rimaneggiati dalle acque terrazziane e quindi non servono per darci precisi ragguagli sulla formazione glaciale. Anche la Val Grana, per quanto piccola, ebbe il suo ghiacciaia assai potente e sviluppato; infatti già presso il cimitero di Monterosso trovansi erranti del diametro di cinque metri; vedesi poi la forma- zione morenica, quantunque non perfettamente tipica, ma un po'' di- luvio-brecciosa, sotto il borgo di Levata di S. Pietro, dove le forma- zioni glaciali si confondono con quelle diluviali della valletta laterale di destra. Sviluppatissimo fu il ghiacciaio che durante il periodo sahariano occupò la valle della Stura di Cuneo; esso infatti nel periodo di mas- simo sviluppo si spinse sino alla pianura padana terminando però quivi in lingua per modo che i suoi depositi frontali sono poco elevati ; inoltre tali depositi furono in parte rimaneggiati dalle correnti acquee sul - 373 — principio del periodo terrazziano per modo che ora ne rimangono solo più traccie, non sempre ben chiare, tra la Beguda ed il Ponte del- ibila. Ma subito a monte di Gaiola, sopra alle formazioni del Diluvium vediamo una bellissima collinetta costituita di tipico deposito glaciale ad enormi ciottoloni; essa ci rappresenta veramente il residuo più com- pleto, per quanto piccolo, della morena frontale del ghiacciaio di Valle Stura, corrispondendo in età al vero periodo degli anfiteatri morenici ; più a monte i depositi morenici sono assai comuni e sviluppati su ambi i lati della valle alpina. Tra Mojola e Demonte il terreno glaciale abbastanza ben conser- vato sulla sinistra della valle si presenta cementato, un po’ breccioso, ricordando alquanto il Diluvium ; ma se ne distingue per presentare enormi ciottoloni spesso a spigoli ben conservati. Risalendo la valle del Gesso si trovano depositi alluvio-brecciosi, pseudo-morenici, allo sbocco di Val Madonna della Bruna; pare però che il ghiacciaio siasi soffermato a monte della forra rocciosa di C.ma dei Gros : ne troviamo sicure traccie presso Andonno, dove i ciotto- loni diluvio-glaciali sono commisti a voluminosi frammenti rocciosi, specialmente granitici, di tipo morenico ; tali depositi ritroviamo poi anche sulla destra della valle a monte di borgata Colombara , e quindi in lembi più o meno ampi in tutto il resto della vallata; ta- lora il terreno morenico è mascherato da alluvioni o frane terrazziane. Nella Valle Vermenagna, siccome stretta e percorsa durante il pe- riodo terrazziano da fiumane impetuose, mancano quasi completamente i depositi sahariani nella parte bassa della vallata alpina; ritroviamo scarsi ed incerti residui glaciali presso Vernante e Tetti Blangèr ; è solo a Limone che la formazione morenica assume una faeies più caratteri- stica. Così pure in Val Pesio non trovansi netti residui morenici che molto in alto ; solo presso S. Bartolomeo esistono accumuli che potreb- bero in parte avere origine glaciale; da S. Anna all’altipiano di Tetto nuovo veggonsi sparsi irregolarmente fra le sabbie argillose gialle nume- rosi ciottoloni con apparenza morenica, se pure essi non rappresentano il Diluvium di Val Grosso. Lo stesso dicasi per la valle dell’Ellero e della Corsaglia che soltanto molto a monte presentano scarsi residui glaciali. Nella valle del Tanaro, per la sua ampiezza ecl importanza, potè costituirsi un vero ghiacciaio abbastanza sviluppato, il quale discese sin oltre Garessio; infatti se i depositi diluvio-brecciosi che veggonsi presso Mursecco e Piangrande credo siano piuttosto coni di deie- zione delle vallate laterali, al cui sbocco si trovano, che non for- mazioni glaciali ; invece sul rilievo di talcoscisto e cloritoscisto che esiste presso borgata Garberini osservansi numerosi ciottolonì, special- mente anagenitici, lisciati, del diametro talora di quasi 3 metri, sparsi irregolarmente e che hanno completamente la facies di ciottoli more- nici. Credo quindi si debba ritenere che il ghiacciaio di Val Tanaro, dopo sorpassata la forra rocciosa di Garessio, si allargò sulla pianura di borgata Ponte deponendo così la sua morena frontale contro lo sprone roccioso dei Garbarini; ma le potenti correnti acquee del periodo ter - razziano esportarono in gran parte questi depositi, rimanendone solo più pochi residui in certi seni rocciosi. Nella restante parte orientale della catena montuosa che circonda il Piemonte a mezzogiorno non notansi depositi morenici degni di particolare menzione, specialmente perchè alcuni accumuli brecciosi, che parrebbero doversi attribuire alT azione glaciale, sono probabil- mente prodotti da correnti acquee o da altri fenomeni. Passiamo ora ad alcune osservazioni d’indole applicata che si possono fare sul terreno morenico: sotto il rispetto delhidrografia dobbiamo notare come in generale questa formazione, per essere in parte marnoso-ar- gillosa, per quanto impastata con elementi ciottolosi grossolani, si mostri piuttosto impermeabile, tanto più quando trattasi di morena di fondo che è più argillosa e più compatta; ne deriva quindi che le conche moreniche quasi sempre si trasformano in conche lacustri e poscia in torbiere; assai rare sono le sorgenti acquee nel terreno glaciale, ma nello stesso tempo questo terreno conserva una certa umidità; in- vece le sorgenti divengono quasi sempre frequenti ed abbondanti alla base dei depositi morenici, specialmenta là dove sotto al terreno gla- ciale appare il Diluvium. Caratteristica è Forografia dei terreni morenici in causa del co- stituire essi quasi sempre regioni più o meno fortemente ondulate, collinose, un po’ labirintiche nei particolari ma disposte secondo una legge generale abbastanza regolare, quando osservate nel complesso; — 375 sovente anzi è la stessa orografia, il paesaggio, ciò che serve a distin- guere a primo tratto una regione morenica da una regione diluviale od alluviale. Per la sua configurazione collinosa e per la sua natura litologica il terreno glaciale è generalmente molto atto alla coltivazione della vite e degli alberi da frutta, specialmente in certe regioni speciali; è poi notevole come entro le vallate alpine, ed in generale nelle regioni rocciose, i lembi glaciali si distinguano quasi sempre da lungi per la rigogliosa vegetazione a cui danno ricetto, mentre nelle vicinanze fanno contrasto le aride regioni ove la roccia è quasi allo scoperto, perciò le formazioni glaciali costituiscono un elemento importantissimo per l’agricoltura e quindi per la prosperità delle vallate alpine. Nella costruzione di strade, trincee, gallerie, ecc., entro i terreni morenici devesi tener conto specialmente della natura spesso argillosa, quindi facilmente fangosa e per conseguenza instabile, che talora essi presentano; in modo speciale ciò è a considerarsi quando tali opere debbonsi eseguire lungo i pendìi della vallata là dove le morene for- mano soltanto placche sulla roccia in posto; si comprende come tali depositi possano facilmente scorrere sulla superficie rocciosa tanto più che questa fu già quasi sempre levigata dall’agente glaciale’prima della deposizione della morena. Dei materiali costituenti i terreni glaciali si utilizzano sovente gli erranti perchè in generale sono formati da roccie cristalline poco al- terate e quindi atte per costruzione ed anche per pietra ornamentale; anzi sgraziatamente tale lato utilitario che presentano gli erranti fa sì che a poco a poco essi vadano scomparendo, e sarebbe quindi il caso che in un modo qualsiasi venissero protetti alcuni di questi tipici re- sidui di un fenomeno geologico così grandioso qual è stato lo sviluppo glaciale del periodo sahariano. Inoltre certe sabbie e certe argille gla- ciali vengono pure utilizzate sia come materiale da costruzione, sia come materiale da laterizi; i ciottoli talora servono per pietrisco. Terrazziano. Esaminando le formazioni diluviali si è già notato come in pa- recchie regioni, specialmente presso le falde alpine il fenomeno del — 376 — terrazzamento siasi talora iniziato già sulla fine del periodo sahariano ; ma tale fenomeno grandioso, generale, caratteristico, si verificò su ampia scala soltanto durante il periodo seguente che credetti quindi opportuno appellare terrazziano. Orbene dalla natura stessa del fenomeno del terrazzamento è fa- cile arguire: anzitutto come non sia facile il distinguere le formazioni ter - razziane più antiche da quelle sahariane più recenti, quando si verificò regolarmente la successione del fenomeno di terrazzamento ; ed inoltre come i depositi terrazziani si possano suddividere in molte età diverse a seconda del numero delle terrazze, ed infine come, variando moltis- simo da regione a regione tale numero, non si possa partire da un criterio unico generale per suddividere queste formazioni terrazziane in sottopiani diversi. È perciò che io credo di dover trattare in generale dei deposit terrazziani come costituenti una formazione unica, salvo ad accennarne le suddivisioni principali là dove esse si presentano un po’ importanti. Generalmente queste formazioni alluviali vennero finora trascurate dai geologi che le considerarono di poca importanza; solo vennero esami- nati accuratamente alcuni depositi torbosi perchè utilizzabili, o perchè fossiliferi. In complesso le formazioni terrazziane sono alluvioni ciottolose, ghiaiose e sabbiose, alquanto stratificate, non' molto potenti dello spes- sore soltanto di 2 o 3 metri, talora però assai maggiore, con spessore abbastanza costante per estensioni assai grandi, talora con interstrati marnosi ; quasi sempre esse sono poi coperte da un velo di loess che è generalmente più sottile, meno argilloso, meno compatto, più gial- lastro e meno alterato di quello ricoprente il Diluvium. I depositi terrazziani sono in generale meno profondamente de- composti di quelli sahariani perchè più recenti e quindi da meno tempo esposti agli agenti esterni; però rarissimamente incontransi fra di essi quei banchi conglomeratici che talora veggonsi far parte del Diluvium sahariano di certe regioni, specialmente subalpine ed entroalpine. II colore di questi terreni è per lo più il giallastro -terroso ; più rara è la tinta rossiccia tanto comune invece nei depositi diluviali. Se la fauna e la flora terrazziana sono molto simili a]quelle attuali, ed è quindi inutile di trattarne qui, solo è ad indicarsi come i resti — 377 — fossili, consistenti specialmente in molluschi terrestri e lacustri, incon- trinsi quasi solo nel loess e negli strati argillosi dei depositi torbiferi, come ad esempio presso Trana. La distribuzione geografica dei terreni terrazziani è in strettis- simo rapporto colla idrografia superficiale, trattandosi di formazioni deposte unicamente dalle correnti acquee nei loro vari periodi di rac- coglimento lungo una zona sempre più stretta. Nella Lombardia le formazioni terrazziane sono amplissimamente rappresentate, poiché, eccettuati i depositi glaciali e diluviali che esi- stono presso le falde alpine, esse occupano l’intiera pianura lombarda; presso monte questi depositi possonsi distinguere, a secondo dei livelli che occupano, in varie età ; invece verso il centro della pianura esse costituiscono quasi un solo piano. Tuttavia vi si può fare talora una distinzione fondandoci sulla natura loro; infatti presso le falde alpine e per molti chilometri verso valle il Terrazziano è di natura ghiaioso - ciottolosa, grossolana ; invece verso il centro del piano lombardo tale alluvione diventa naturalmente sempre più fine, più minuta, cioè sab- bioso-argillosa con straterelli ghiaiosi, ecc. ; non credo tuttavia che solo su questo criterio si possa fondare una distinzione scientifica del Terrazziano lombardo. A Sud del Lago Maggiore molto ampia è la zona terrazziana tra i depositi diluviali e morenici rispettati dall’erosione del Ticino; tale zona si va rapidamente allargando verso il bassopiano, collegandosi con quelle della vicina vallata ed estendendosi poi per quasi tutta la pianura. Fra mezzo alle formazioni glaciali del grande anfiteatro morenico del Lago Maggiore sono molto sviluppati i depositi terrazziani antichi e recenti sia attorno ai laghetti, sia nelle valli esistenti tra i cordoni morenici, sia lungo il Ticino; talora essi trovansi a diversi livelli indican- doci i diversi periodi di erosione od anche i diversi periodi di regresso del ghiacciaio, corrispondendo ciò a varie altezze e larghezze dei laghi intermorenici; un bell’esempio di ciò osservasi tra Borgoticino ed il Lago Maggiore per la presenza di quattro piani gradinati, cioè quello degli Asseri (m. 250 circa), quello di C. dei Preti (m. 230 circa), quello di Cartiera Conelli (m. 205 circa), e quello littoraneo (m. 197 circa). A Sud dell’anfiteatro del Lago Maggiore esistono bellissimi residui — 378 — di Terrazziano antico, collegantisi insensibilmente col Diluvium saha- riano a cui altri potrebbe forse attribuirli, così il lungo e stretto al- tipiano di Gallarate-Cardano-Ferno-Lonate Pozzolo, sulla sinistra del Ticino, e sulla destra un altipiano ancor più importante cioè quello di Pombia-Oleggio-Bellinzago-Godemonte-Abbadia di Dulzago-Fornaci- Suno-Cressa, ecc. Questo amplissimo altipiano terrazziano è poi anche importante, poiché, per quanto esso sia stato sbrecciato dalle acque del T.Terdoppio, ad esso si collega Faltipiano allungato di Novara-Vespolate. Tutti questi altipiani sono costituiti di formazioni diluviali sahariane , coperte da depositi terrazzianiì e quindi non possonsi indicare quali altipiani sahariani come parrebbe a primo tratto ; per convincerci di ciò basta risalire la pianura verso monte ed osservare come tra 1* al- tipiano di Pombia (a cui corrisponde perfettamente quello di Novara) ed il vicino altipiano di tipico Diluvium sahariano di Divignano-Motto- Tensa siavi una differenza altimetrica di quasi 50 metri per l’erosione verificatasi all’iniziarsi del Terrazziano. Notisi come questo piano di Pombia trovisi elevato di circa 100 metri sull’attuale livello del Lago Maggiore, ciò che ci prova i grandi mutamenti idrografici compiutisi gradatamente in queste regioni. Altipiani amplissimi appartenenti al Terrazziano medio sono quelli di Busto Arsizio, Cuggiono, ecc., a sinistra del Ticino, e di Cameri, Galliate, Trecate, ecc., sulla sua destra. Da questi altipiani vastissimi si passa poi più o meno gradatamente, per mezzo di varie gradinate, sino alle alluvioni attuali ; la valle del Ticino presenta esempi bellissimi di tali gradinate successive, specialmente fra lo sbocco del Lago Mag- giore e Marano-Vizzola. A Sud dell’ anfiteatro morenico del lago d’Orta sono poco svilup- pate le formazioni terrazziane antiche; le troviamo però negli altipiani dell’Oratorio di Auressa, di C. Ghiacciaia-C. Geola e specialmente nel- l’ampio altipiano di Suno-Castelletto, che va a congiungersi con quello sopracitato del Ticino. È poi interessante osservare il grande sviluppo delle formazioni terrazziane dei dintorni di Gozzano, indipendentemente cioè da quelle depositate dalle correnti acquee dell’Agogna, giacché ciò ci prova come non solo durante tutto il periodo sahariano ma anche durante la prima metà del periodo terrazziano le acque del lago d’Orta, elevate circa — 379 — 60 metri più che non oggi, in parte fluissero a Sud attraverso le col- line moreniche di Buccione. In Valsesia osserviamo fenomeni consimili; cioè entro la valle alpina le formazioni terrazzicene, di forma irregolarissima, sono abba- stanza estese e costituiscono altipiani troncati, verso l’asse della valle, da un terrazzo assai spiccato; quivi si possono distinguere vari ordini di terrazzi per cui si passa gradatamente dalle formazioni terrazziane, abbastanza antiche, all’alluvione recente, senza che sia sempre facile il distinguere l’una formazione dall’altra poiché si succedettero sovente senza salti. Appena fuori della valle alpina veggonsi le zone terrazziane allar- garsi estesissimamente; una stupenda zona di Terrazziano molto antico, cioè depostosi sull’ inizio affatto del periodo in esame, si estende tra la Sesia ed il Cervo, dalle falde alpine sin quasi ad Albano Vercellese, costituendo l’amplissimo altipiano di Roasenda; si potrebbe forse supporre che si tratti qui ancora di Diluvium, ma i rapporti che detta zona pre- senta sia coi depositi pliocenici subalpini, sia coi tipici altipiani dilu- viali di Romagnano ad Est e di Cossato e Villanuova ad Ovest, mi fa piuttosto inclinare a porre già questo terreno nel Terrazziano antico. Per la difficoltà di comparazione di questi terreni fra regioni lontane non sarebbe però impossibile che altrove, per esempio nelPalto Pie- monte, siano state da me inglobate nel Diluvium recenti formazioni depostesi contemporaneamente a quelle qui poste nel Terrazziano antico. Oltre a questa grande zona terrazziana antica di Roasenda osser- vansi lungo la Sesia numerose altre zone terrazziane più recenti che, per mezzo di diverse terrazze, vanno poi infine a confondersi coll’ A l- luvium ; nel complesso queste formazioni si possono considerare come appartenenti alla seconda fase del periodo terrazziano e costituiscono una zona amplissima che si allarga a ventaglio da monte a valle in- dicandoci come sia siato graduale il restringersi delle correnti acquee dal principio alla fine del periodo terrazziano . Nel Biellese possiamo constatare fenomeni molto simili a quelli sopra accennati riguardo alla divisione delle formazioni terrazziane, cioè possiamo pure distinguerle in antiche e recenti. Quelle antiche ( Ter- razziano I) si spingono sino alle falde alpine, essendo talora separate dall’attual basso piano delle valli per mezzo di un terrazzo spiccatis- — 380 — timo, come è quello di Biella-Candelo; invece verso valle l’altipiano di questo Terrazziano antico si va sempre più abbassando sin quasi a confondersi colle alluvioni recenti ; questo ci prova sempre più quanto siano diffìcili e spesso arbitrarie in certe regioni quelle distinzioni che altrove sono facili e ben nette. Un fatto importantissimo che ci indicano le formazioni dei Terraz - ziano del biellese è che sin verso la metà di questo periodo geologico la fiumana del Cervo, sboccando dalla valle alpina, si univa a quella dell’Elvo, gettandosi direttamente a Sud e rispettando così 1’ altipiano diluviale di Candelo-Villanuova ; è solo nella seconda metà del periodo Terrazziano che le -acque del Cervo deviarono ad Est scavandosi pro- fondamente il loro alveo attuale tra le colline plioceniche di Cerreto e l’altipiano di Candelo; nel periodo di transizione tra i due così diversi regimi idrografici sovraccennati, una parte delle acque del Cervo in- cise la vallata Candelo-Benna, ecc., deponendovi un5 alluvione ter - razziana formante passaggio tra quella antica e quella recente. Le alluvioni terrazziane del secondo periodo sono relativamente meno sviluppate che non quelle del primo, con cui però quasi si con- fondono verso il centro della pianura padana; anch’esse, come di solito, passano gradatamente alle alluvioni attuali per mezzo di ripetute e sempre più basse terrazze. Rispetto ai terreni terrazziani depositati dalle acque sboccanti dalla valle d’ Aosta esse ci presentano fenomeni speciali in rapporto coiranfìteatro morenico d’Ivrea; infatti detto grandioso anfiteatro can- giossi nel periodo terrazziano in amplissimo bacino lacustre, quindi i depositi, in gran parte melmosi, allora formatisi in esso assunsero un aspetto alquanto diverso dal solito e servirono in gran parte a riem- piere il fondo di questa conca lacustre; ma in certe speciali regioni presso le falde moreniche si dovettero naturalmente depositare, sulle sponde di questo gran lago, alluvioni littoranee spesso a struttura deltoide, per lo più ghiaioso-ciottolose, ma talora anche sabbioso-argillose ; è in tal modo che io credo debbansi interpretare certi depositi che trovansi sopra i i terreni morenici tra Strambino, Caluso e Moncrivello. Il piccolo sviluppo apparente delle formazioni terrazziane antiche entro l’ambito dell’anfiteatro glaciale è dovuto in parte a maschera- mento per opera delle alluvioni posteriori ed in parte ad erosione per opera delle correnti acquee. Le acque che uscivano dall’ ampio lago d’ Ivrea sul principio del periodo terrazziano^ non essendo ancora stata incisa la forra di Mazzè, sboccavano da varie parti ampiamente, in particolar modo durante i periodi di piena; perciò i bassi colli di Cavaglià e di Mazzè dovettero in diversi punti servire di canale scolatore alle acque lacustri straboc- canti; queste quindi si espandevano sulla sottostante pianura diluviale di Santhià-Cigliano, ricoprendola con un sottile velo di alluvione, piut- tosto fine, terrazziana , ed anche erodendo alquanto superficialmente il Diluvium , come ci dimostra chiaramente la terrazza di S. Quirico-C. Chiappine. In questo modo il Terrazziano antico di Valle d’Aosta si collega con quello contemporaneo del Cervo e dell’Elvo, quantunque sia di natura e di potenza assai diversa in causa del modo di origine alquanto di-verso. Quanto alle formazioni ierrazziane più recenti che collegansi gra dualmente colle alluvioni attuali esse si presentano sviluppatissime entro 1’ anfiteatro morenico d’ Ivrea, dove sono rappresentate essenzialmente da depositi anche abbastanza potenti, marnoso-argillosi, cioè da fan- ghiglia stata deposta sul fondo del lago che andava man mano abbas- sandosi e restringendosi, sino a ridursi alle attuali piccole conche di Candia e di Viverone. Viceversa fuori della cerchia morenica le for- mazioni terrazzicene del secondo periodo sono piuttosto ghiaioso-ciot- tolose e poco sviluppate perchè la Dora Baltea, incisa poco a poco la forra di Mazzè, intaccò pure profondamente la regione pianeggiante che si estendeva a Sud, senza divagare molto lateralmente. Anche rispetto ai depositi terrazziani dell’Orco si può fare la suddetta divisione in due categorie rispetto all’età di loro formazione, quantunque tale divisione risulti spesso assai incerta; infatti la bella terrazza che dalle vicinanze di Cuorgnè si estende per Rivarolo, Re- ietto, ecc., sin molto verso Sud, limita assai bene il Terrazziano an- tico della destra dell’Orco; sulla sinistra ne troviamo pure la delimi- tazione abbastanza chiara tra Montanaro e Caluso; ma se poi cerchiamo di segnare i confini di questa zona verso S. Benigno e verso Ovest, cadiamo in delimitazioni un po’ troppo arbitrarie, appunto per il pas- saggio, spesso insensibile, esistente fra le varie formazioni terrazziane sino alle alluvioni attuali. Le alluvioni terrazziane depostesi durante il secondo periodo sono piuttosto ampie, divisibili in parecchie zone subparallele, corrispon- denti a diverse linee di terrazzamento, più o meno continue. Prima però di lasciare il Terrazziano antico dell’ Orco è opportuno d’aggiungere come sul suo lato sinistro esso si colleghi presso Chivasso con quello della Dora Baltea; tale terreno è limitato a Sud da una terrazza abbastanza netta costrutta dalle acque del Po, terrazza che da Chivasso passa per Castelrosso e Verolengo, prolungandosi sino a Calciavacca; dopo un’ampia interruzione, causata dalla erosione della Dora Baltea, la terrazza divisoria tra Terrazziano antico a monte e Ter- razziano recente a valle, riappare presso Cerrone ; quindi con andamento irregolarmente ondulato e con frequenti interruzioni, causate da corsi d’acqua secondari, esso si sviluppa verso Est per S. Grisante, Ramez- zena, Robella, Rive, Stroppiana, ecc., sino a raggiungere la terrazza detta della Sesia. La terrazza ora accennata è importante come quella che ci delimita nettamente V ampiezza del Po durante la seconda metà del periodo terrazziano. Anche rispetto alle alluvioni state deposte dalla Stura di Lanzo nel periodo terrazziano sulla pianura padana si potrebbero fare diverse distinzioni di età, prendendo per base le varie terrazze che osservansi sia a destra sia a sinistra del corso della Stura; ma siccome esse sono spesso interrotte e vanno scomparendo verso valle, così non credo opportuno di scendere qui alEesame loro; basterà accennare in gene- rale alla forma triangolare che presenta nel complesso la zona terraz- xiana, ciò che ci indica un graduale e continuo restringersi delle cor- renti acquee durante il periodo terrazziano ; verso valle le alluvioni terrazziane della Stura si uniscono insensibilmente con quelle del Po e delle correnti acquee vicine, fra cui specialmente interessante è quella della Ceronda; in queste regioni, come altrove, tra il Terrazziano antico (che in alcuni lavori appellai pseudo-diluvium) e le alluvioni recenti vi è quasi sempre una serie di depositi intermedi segnati da diverse terrazze, più o meno numerose secondo le località. Nell’interno dell’anfiteatro morenico di Val Susa osservansi, ri- guardo al Terrazziano , fenomeni alquanto simili a quelli già indicati per l’anfiteatro d’ Ivrea; cioè i depositi terrazziani hanno una facies essenzialmente lacustre; quelli antichi sono in massima parte ricoperti dai più recenti, ed è quasi solo con tagli artificiali che si possono — 383 — mettere a giorno lembi di Terrazziano antico spesso a struttura deltoide, come ad esempio ebbi ad osservare in una profonda frana presso il lago piccolo di Avigliana. Ma l’ampia regione pianeggiante dell’ in- terno dell’anfiteatro di Rivoli è riferibile al Terrazziano del secondo periodo, formante per lo più graduale passaggio alle alluvioni at- tuali. Fuori di quest’anfiteatro, verso Est, il Terrazziano si presenta a numerosi livelli, formando una serie completa dai depositi più antichi a quelli più recenti ; ma essi sono ben poco sviluppati in ampiezza, perchè la Dora Riparia incise profondamente il suo alveo senza diva- gare molto, nè a destra, nè a sinistra, escavando solo in limiti assai stretti ; ciò dipende dalla forte pendenza della regione su cui ebbe a correre la Dora, ma specialmente dal fatto (comune con quanto si osservò per la Dora Baltea) che per la strettezza della forra di Alpi- gnano-Pianezza la corrente acquea, obbligata a restringersi, acquistò una maggiore velocità e quindi una grande forza erosiva. E solo presso le colline torinesi che il Terrazziano della Dora Riparia si unisce con quello del Po. Debbo ancora notare, riguardo ai terreni quaternari di Val Susa come la linea di terrazze abbastanza regolari che separa il terreno morenico da quello diluviale, a Nord della Dora, credo sia spiegabile supponendo che verso la fine del periodo sahariano , se pure non già all’aurora del Terrazziano , la fiumana di Val Susa, sboccando dal ba- cino lacustre presso Pianezza per un po’ di tempo si allargò verso Nord- Est, cioè verso la Veneria, forse erodendo leggerissimamente il Diluvium; molto minore è stata l’espansione della fiumana sulla destra della Dora, tant’ è che vennero conservate le colline sabbiose di Grugliasco. Cioè si dovette verificare qui qualche cosa di simile a quanto abbiamo visto essere avvenuto nella parte esterna dell’ anfiteatro d’ Ivrea. Entro la valle alpina del Sangone, ad Ovest di Trana, osservansi, i soliti graduali passaggi tra il Diluvium ed il Terrazziano antico, fra questo e quello recente, sino a giungere alle alluvioni che si vanno deponendo al giorno d'oggi. Ma a Sud delle formazioni glaciali e diluviali della Dora Riparia noi possiamo constatare che quasi tutta l’alta valle padana, sin contro le Alpi Marittime orientali, è coperta solo da alluvioni terrazzianet — 384 — poiché durante il periodo terrazziano quivi le correnti acquee sboc- canti dalla cerchia alpina erano ancora molto espanse e si collega- vano fra loro in modo che le formazioni diluviali sahariane vennero quasi completamente erose alla superfìcie e ricoperte da depositi ter - razziani. Anzi questo fenomeno di allargamento delle correnti acquee sull’alta valle padana non si verificò solo durante il principio del pe- riodo terrazziano , ma continuò ancora sin quasi alla fine, tant’ è che grandi allagamenti ed espansioni delle acque di questa regione si verificarono ancora nel periodo storico; d’altronde di ciò è poi anche prova manifesta la poca profondità che hanno in generale gli alvei attuali dei corsi d’acqua che solcano l’alta valle padana dal lato occidentale. Quindi mentre in complesso parrebbe doversi specialmente in- globare nel Terrazziano antico le alluvioni che coprono gran parte dell’alta valle padana, con un esame minuto delle cose si trova so- vente che le alluvioni quivi depostesi nella prima metà del periodo terrazziano furono in seguito erose o coperte da altre alluvioni durante la seconda metà di tale periodo; in ogni caso vi è quasi sempre pas- saggio graduatissimo tra le alluvioni terrazziane e quelle recenti. Non credo sia il caso di esaminare ora singolarmente le varie re- gioni corrispondenti ad ogni vallata alpina, tanto più che quasi subito fuori della regione montuosa tutte queste alluvioni di origine diversa si confondono assieme nella pianura, poiché originariamente le correnti acquee si collegavano assieme quasi appena sboccate dalla rispettiva valle alpina; noto soltanto come l’esame della natura dei ciottoli costituenti queste alluvioni terrazziane serva talora per guidarci a conoscere i cangiamenti che avvennero nell’ andamento delle correnti acquee dal periodo terrazziano al giorno d’oggi. Fra le terrazze notiamo come più interessanti: sulla sinistra del Chisone quella di Riaglietto-Pinerolo-Riva-Baudi, ecc.; sulla sua destra quella di C. Bima-Osasco, ecc. Riguardo al Pellice possonsi notare diverse terrazze specialmente entro la valle alpina tra Torre Pellice e Bricherasio, anzi non è sempre facile distinguervi il Terrazziano an- tico dal Diluvium stato deposto sulla fine del Sahariano. Nella pianura tra Cavour e Saluzzo è solo da poco tempo che le acque si raccolsero negli attuali loro alvei; sono ben note al riguardo v — 385 — le opere di prosciugamento e di risanamento eseguite dall’uomo in queste regioni. Molto sviluppata e più volte terrazzata è la formazione ierrazziana nella valle del Po sin quasi a Paesana. A Sud di Saluzzo vediamo che la pianura padana invece di pre- sentare una pendenza regolare dalle Alpi verso il centro della pianura stessa, inclina invece assai nettamente nel suo assieme verso Nord o Nord-Nord-Est il che dipende dalla direzione che quivi ebbero le cor- renti acquee, non solo durante il Sahariano , ma anche durante il Ter - razziano ; tant’ è che per questa speciale direzione le acque erosero quivi quasi completamente le formazioni diluviali subalpine. Questo fatto possiamo verificarlo non solo per il Terrazziano subalpino della Varaita, ma anche, in minor grado^ in quello della Maira, che presenta la parte sinistra della sua conoide pendente a Nord-Ovest. Ancora riguardo alla Maira è a notarsi la bellissima terrazza che trovasi sulla sua sinistra da Dronero passando per S. Mauro, Busca, S. Bernardo, ecc. Questa terrazza delimita a Nord una regione di Terrazziano antico. Notiamo ancora rispetto alle acque della Maira come esse du- rante l’epoca terrazziana si incidessero un alveo molto profondo per modo che qui si ripetono in parte i fenomeni già osservati per le due Dorè e che vedremo ripetersi per la Stura e per altri corsi d’acqua più a Sud. La Stura di Cuneo presenta fenomeni veramente tipici, rispetto al terrazzamento, in quasi tutto il suo percorso; sulla pianura è svi- luppatissimo il Terrazziano antico, ricoprente direttamente il Dilu- vium sahariano; nel profondissimo alveo del fiume osservasi sovente una bellissima serie di terrazze che formano un passaggio quasi in- sensibile dal Terrazziano antico alle alluvioni recenti; tipiche affatto per questi studi sono le vicinanze di Fossano specialmente la sponda destra della Stura. Fenomeni consimili osservansi pure nella valle del Gesso specialmente nel breve suo percorso sulla pianura. Ciò che è molto notevole, riguardo alla fiumana del Gesso, è che originariamente essa, sboccando dalla valle alpina, si doveva gettare a Nord-Est, come lo prova chiarissimamente l’inclinazione che in tal senso presenta il suo cono di deiezione ; la suddetta direzione si conservò d’altronde ancora durante la prima metà del periodo terrazziano e ne 25 — 386 — risultò l’ampio alveo, ora quasi asciutto, dividente Y altipiano del Ba- nale da quello di Piambosco. Il Pesio presenta un grande sviluppo di Terrazziano antico che va ad unirsi e confondersi a Nord con quello del Gesso; si è già no- tato altrove come le alluvioni coprenti l’altipiano di Pianfei potrebbero forse riferirsi a depositi formatisi sulla fine del Sahariano ; ma la questione in fondo non ha grande importanza. Riguardo all’ Ellero si incontrano gli stessi dubbi nell' esame del- l’altipiano di S. Luigi-Merlo-Avagnina, ma quivi le diverse terrazze che osservansi fanno comprendere meglio il passaggio dal Diluvium saha- riano alle alluvioni del Terrazziano antico ; queste alluvioni poi si allar- gano estesissimamente verso Nord in modo da costituire i grandi pianori di Breolungi, di Riofreddo, ecc., sino a confondersi con quelli antichi del Tanaro. In Val Tanaro le alluvioni terrazziane antiche sono relativamente molto sviluppate in generale entro monte ; lungo il percorso attraverso alle colline terziarie si trovano però numerosi altipiani terrazziamo spesso isolati, irregolarissimi, su ambi i lati del fiume, indicandocene così l’antica ampiezza. Ma a Nord di Bastia il Terrazziano antico del Tanaro si allarga estesissimamente; sulla destra esso presenta numerosi residui presso San Bartolomeo, Clavesana, Farigliano, Dogliani, Bergero, ecc., sulla sini- stra poi costituisce amplissimi altipiani, come quello di Carrù, di Piozzo, di Lequio, di Narzole, di Cherasco, ecc. Questi altipiani terrazziamo ora profondamente solcati da numerosi torrentelli, sono importantissimi, sia per loro ampiezza che ci indica l’enorme larghezza che avevano quivi le fiumane durante la prima metà del periodo terrazziano , sia per la loro notevole «elevazione (talora di quasi cento metri) sopra l’attuale fondo di Val Tanaro, sia infine per la loro distribuzione che ci indica nettamente i rapporti originari (tanto diversi da quelli attuali) delle grandi correnti acquee che coprirono per lungo tempo sovente questa regione del Piemonte. Fra i fenomeni più notevoli di questa categoria possiamo men- zionare l’antica riunione del Gesso direttamente col Tanaro presso Bene Vagienna; ma specialmente l’antico corso del Tanaro da Cherasco a Bra e quindi per Caramagna, ecc., riunendosi esso poscia tosto colle — 387 - fiumane della parte occidentale della valle padana ; è a questo per- corso delle acque del Tanaro durante la prima metà del periodo ter - razziano che devesi la terrazza Bra-Sommariva Bosco-Torniello, ecc. Anche gli scarsi corsi d’acqua discendenti dalle collinette di Ce- resole, Pralormo, Poirino, ecc., terrazzarono alquanto le loro vallette d’erosione; in questi casi, più ancora che altrove, riesce quasi sempre molto difficile il distinguere il Diluvium dal Terrazziamo e questo dalle alluvioni recenti. Quanto ai depositi formatisi dalla parte orientale dell’ alta valle padana durante la seconda metà del periodo terrazziano , essi non sono molto importanti perchè poco estesi relativamente e limitati al- l’attuale alveo della corrente acquea che li ha deposti, terrazzando contemporaneamente le sue sponde nel periodo di erosione. Passando ora all’esame del Terrazziano nella regione astese ri- sulta già chiaro da quanto si è esposto sopra come nella impor- tantissima valle del Tanaro attraversò a tale regione non debbano esistere alluvioni del Terrazziano ; probabilmente cioè prima esisteva una vallata corrispondente all’attuale amplissima valle del Tanaro, ma le sue antiche alluvioni terrazziane vennero completamente erose, esportate dall’ irrompente fiumana del Tanaro. E invece assai interessante osservare come alluvioni del Terraz- ziano antico si trovino lungo la valle del Borbore sulla sua sinistra sino a monte di S. Damiano d’Asti, il che ci dimostra l’antichità di questa valle d’erosione, l’antica ampiezza del corso d’acqua (il Borbore) e lo spostamento abbastanza spiccato che esso presentò verso Est, lasciando così quasi intatte a sinistra le antiche alluvioni terrazziane. Residui simili incontransi pure presso Baldichieri, cioè al termine delle vallette di Monale e di Triversa, il che ne attesta anche la relativa antichità. Ad ogni modo la forma, disposizione ed elevazione delle alluvioni terrazziane antiche dell’ Astigiano ci dimostrano come questa regione già sin dal periodo Sahariano dovesse essere soggetta a fenomeni generali di erosione, i quali prepararono le ampie vallate terrazziane , ristrettesi e complicatesi in seguito durante il periodo ter- razziano. Queste alluvioni terrazziane antiche, che si elevano generalmente solo di 20 a 30 metri sull’attuale fondo delle vallate, sono per lo più assai sottili e costituite essenzialmente di Icess giallastro con strate- relli sabbiosi e ghiaiosi giallo-rossicci, ad elementi poco voluminosi, che derivano in massima parte dall’abrasione dei depositi fossaniani e villafranchiani. In molti casi si può osservare assai bene il passaggio dal Ter- razziano antico alle alluvioni recenti per mezzo di diverse terrazze ; ne è tipico esempio la stessa collina su cui siede Asti, collina la quale si presenta ripetutamente terrazzata da Nord a Sud, dal Villafranchiano di Madonna Viatosto all’alluvione recentissima della sponda del Tanaro. In causa dell’ irruzione, direi, della grande fiumana del Tanaro nel centro dell’Astigiana i sottili depositi di Terrazziano antico vennero quasi completamente abrasi tra Asti e Castello Annone, giacché quivi le acque del Tanaro si dovettero per lungo tempo gettare impetuosa- mente verso Nord costruendo così l’amplissimo bassopiano che s’estende per diversi chilometri ad Est di Asti. Ma a valle della forra di Castello Annone ritroviamo sviluppatis- sime le alluvioni terrazziane antiche che costituiscono altipiani molto vasti sulla sinistra del Tanaro; il più ampio ed antico è quello che, iniziandosi con diversi lembi (C. S. Giorgio, C. Boschetto, ecc.), forma poi l'esteso pianoro di Felizzano, Quargnento, Montalto, ecc., la cui delimitazione a Sud è data da una terrazza molto frastagliata che passa per Felizzano, Solerò, C. Conzana, ecc. La parte superficiale della grande pianura alessandrina è quasi del tutto costituita da alluvioni ciottolose, sabbiose e terrose state deposte verso la metà del periodo terrazzicene), specialmente allora che la fiumana del Tanaro aveva abbandonato l’antico corso dell’alta valle padana per gettarsi attraverso la regione astese; evidentemente a questa deposizione terrazziana contribuirono, colle acque del Tanaro, quelle del Belbo, della Bormida, dell’Orba e della Scrivia. La valle del Belbo era già ben costituita fin dal principio del periodo terrazziano , giacché troviamo sulla sinistra dell'attuale vallata, sin presso Nizza, alluvioni state deposte durante la prima metà di questo periodo In Val Bormida le alluvioni terrazziane antiche si possono osser- vare ben distinte sin presso Bistagno, poiché più a monte se ne trovano ancora traccie, ma meno estese e meno caratteristiche; esse trovansi elevate talora di oltre 30 a 40 metri sull’attuale fondo della valle. Allo sbocco delle vallate appenniniche che fronteggiano la pianura alessandrina si possono sempre distinguere assai bene le alluvioni del Terrazziano antico da quello del Terrazzicene recente, essendovi nette e ben spiccate terrazze tra le une e le altre; cosi abbiamo i bellissimi altipiani antichi di Castelnuovo Bormida alto, di Capriata d Orba, di Franeavilla Bisio, di Novi Ligure, ecc. Ma verso valle tali terrazze vanno abbassandosi sin quasi a scomparire, per modo che allora la sovraccennata distinzione rimane più difficile a farsi e spesso anzi è troppo arbitraria per insistervi oltre. Le formazioni terrazziane che esistono allo sbocco delle vallate appenniniche sono assai più potenti ed a più grossi elementi che non quelle dell Astigiana, ciò che è facile a comprendersi; quasi ovunque esse sono ghiaioso-ciottolose, coperte del solito velo di loess. Dall’esame delle varie formazioni terrazziane della regione ales- sandrina, largamente intesa, risulta come durante la massima parte del periodo terrazziane le correnti acquee sboccanti dall’ Astigiana e dagli Appennini liguri si allargassero su tutta la pianura d’Alessandria, restringendosi alquanto fra Tortona e Montecastello per unirsi cosi, a guisa di ampio velo acqueo, colla grande fiumana del Po; è solo verso la fine del Terrazziane che queste correnti acquee si raccolsero poco a poco nel loro letto attuale, il quale infatti è ampio e poco profon- damente inciso, tanto che è in esso tuttora assai variante il corso stesso delle acque. Rispetto al Iato settentrionale delle colline Torino-Valenza è ben difficile distinguere diverse età fra i depositi terrazziani, poiché le scarse correnti acquee non ebbero generalmente la forza di produrre quegli importanti terrazzamenti che sono la guida più sicura per la delimitazione delle formazioni alluviali del periodo in esame. Anche esaminando lo sbocco delle vallate appenniniche ad Est di Tortona si vede che, mentre presso le colline sonvi ancora residui di Terrazzeano antico, invece verso valle la pianura è coperta essenzial- mente da alluvioni state deposte durante la seconda metà del periodo terrazziano. Quindi da quanto si espose sopra dobbiamo dedurre come la mas- sima parte, quella centrale, della pianura padana sia ricoperta da un velo più o meno potente di deposito alleviale, formatosi durante il pe- — 390 — riodo terrazziano , sia durante la sua prima metà, sia anche, per re- gioni estesissime, durante la sua seconda metà. Grandissima è Y importanza delle formazioni terrazziane in causa del loro grande sviluppo sulla pianura, sede principale deiruomo. Trat- tandosi di depositi essenzialmente ghiaioso-ciottolosi, non ancora molto decomposti, essi sono per lo più facilmente permeabili; ma general- mente l’acqua che ha filtrato attraverso ad essi, giunta alla sua base, trova depositi più compatti, sia quaternari che più antichi, e quindi forma quivi un velo acqueo abbastanza regolare e costante; tale falda acquea è poi regolarissima là dove le alluvioni terrazziane ricoprono direttamente le marne più o meno argillose del Piacenziano o del Vil- lafranehiano , fatto comunissimo nella parte orientale dell’ alta valle' padana, come pure altrove. Questo velo acqueo viene utilizzato sia per uso domestico sia talora anche per agricoltura; esso dà origine a nu- merose sorgenti là dove esistono tagli naturali alquanto profondi. Notisi però come l’acqua scorrente sotto le alluvioni terrazziane sia spesso meno pura che quella che scorre sotto i terreni diluviali, perchè questi in generale sono più potenti e meno permeabili, per cui la falda acquea sotterranea rimane più pura. Le regioni coperte da depositi terrazziani presentano un aspetto oro-idrografico abbastanza uniforme; formano cioè piani molto regolari, assai più regolari che non quelli costituiti da Sahariano , sia perchè anche originariamente i depositi sahariani vennero fluitati un po’ ir- règolarmente, sia perchè in seguito essi subirono erosioni molto più prolungate che non quelli terrazziani. Come dice lo stesso loro nome i terreni terrazziani ricoprono per lo più pianori terrazzati, spesso scaglionati l’uno presso l’altro e più o meno elevati sull’attuale fondo delle vallate. Questa disposizione a ter- razze, di cui ebbi già a trattare in un lavoro speciale, è opportunissima sia allo sviluppo dei centri di abitazione, sia all’agricoltura. Rispetto all’ agricoltura l’ importanza delle formazioni terrazziane è massima appunto per l’ampiezza delle pianure che ne sono ricoperte e per il velo di loess superficiale che forma la base dell’ humus, cioè del terreno vegetale; nelle valli alpine le alluvioni terrazziane co- stituiscono la più importante e talora anche 1’ unica parte produttiva dal lato agricolo ; è certo ad ogni modo che lo scaglionamento delle — 391 — terrazze sia nelle vallate alpine, sia nelle valli di erosione che incidono la pianura padana, è sommamente favorevole alla coltivazione special- mente del frumento e del granturco : ubertosissime poi sviluppansi le praterie sulle alluvioni terrazzicene là dove non scarseggia l’acqua. Delle alluvioni terrazzìane si utilizzano sovente i ciottoli, le ghiaie e le sabbie specialmente per costruzioni, raramente per pietrisco ; il loess viene sovente usato come materiale per fabbrica di laterizi. Prima di lasciare il Terrazziano dobbiamo ancora accennare come sia specialmente durante questo periodo che le conche lacustri poco profonde, originate dalla disposizione concentrica dei cordoni morenici, si tramutarono poco a poco in torbiere, le quali sono quindi più o meno direttamente collegate coi fenomeni glaciali; gli è infatti fra le irre- golari regioni moreniche del Lago Maggiore e delle due Dorè che tro- viamo comunissimi i depositi torbosi, più o meno ampi e profondi a seconda dei bacini in cui si formarono. Mi limito qui ad accennare all’ importanza industriale di questi depositi, ed anche alla loro impor- tanza scientifica nel senso che essi sovente racchiudono, assieme ad una ricca flora e ad una ricca fauna, specialmente malacologica, ben conservati resti dell’ uomo preistorico dell’ epoca delle abitazioni la- custri, epoca che credo corrisponda aH’incirca alla seconda metà del periodo terrazziano. Quanto al lato industriale di queste torbiere dobbiamo però notare come ormai esse colle escavazioni di pochi anni, siano quasi comple- tamente esauste in causa della loro poco potenza (raramente di oltre 5 o 6 metri), per cui fra breve non esisteranno più in Piemonte depo- siti torbosi un po’ importanti. Alluvioni recenti. Secondo il mio modo di vedere scindendo l’epoca quaternaria in due periodi, Sahariano e Terrazziano , questo secondo giungerebbe sino al giorno d’ oggi, poiché esiste sovente una serie non interrotta di ter- razze dagli altipiani diluviali al piano attuale di deposizione delle cor- renti acquee; nè ha per me valore di carattere distintivo il criterio storico, poiché dobbiamo assolutamente ammettere che già in un periodo veramente storico dell’umanità si formassero terrazze ampie, importanti, ed ora abbastanza rilevate sul fondo attuale delle rispettive valli d’erosione. — 392 — Quindi rispetto alle alluvioni che si vanno deponendo ora nell’al- veo dei fiumi altro non abbiamo a dire in generale se non che esse costituiscono una continuazione regolarissima delle alluvioni terrazziane , cioè sono costituite di ciottoli, ghiaie e sabbie più o meno terrose ; di rado però queste formazioni poterono già essere coperte dal velo di Icess che si depone per lo più nelle epoche di piene straboc- canti, ma non troppo impetuose ; è per questo motivo, oltre che per le grandi varianti a cui vanno soggette le regioni alluviali lungo i corsi dei fiumi, che queste alluvioni recenti sono generalmente poco atte alla coltivazione, tanto più che tali depositi non ebbero ancora a su- bire a lungo le azioni atmosferiche e quindi ad alterarsi superficial- mente per modo da originare un terreno atto a convertirsi in humus. Non credo quindi che sia qui il caso di passare ad una descri- zione dettagliata dei vari apparati alluvionali recenti delle correnti acquee che solcano la pianura padana, tanto più poi che le Carte to- pografiche ne danno un’ idea sufficientemente esatta riguardo alla di- stribuzione, mentre la costituzione varia da luogo a luogo anche in regioni vicinissime. È ben noto come da queste alluvioni attuali l’uomo tragga comu- nissimamente i materiali sabbiosi e ciottolosi per costruzione e per pietrisco; certe sabbie alluviali sono aurifere (come quelle dell’Orco, della Dora, del Cervo, ecc.) e quindi vengono escavate per questa pro- prietà, d’altronde ben poco profittevole. Per il solito motivo della facile permeabilità, in rapporto colla na- tura loro, le alluvioni recenti costituiscono per lo più regioni aride, ma esse presentano un velo acqueo a poca profondità, almeno in generale. Ancora al giorno d’oggi si vanno qua e là formando, in certe regioni acquitrinose, sottili ed impuri depositi torbosi, ma generalmente non meritevoli di essere utilizzati. Così pure presso certe sorgenti calca- rifere è comune il riscontrare depositi di calcare concrezionato, spesso di forme elegantissime, talora utilizzate come pietre ornamentali. IPaJ eoetnologia. I resti paleoetnologici del Piemonte vennero specialmente studiati ed illustrati dal Gastaldi, per cui basterà qui accennarli. Tali resti ap- ARTA GEOLOGICA D OTT. FEDERIC O SACCO' Scolti di l a li 00000 Quaternaria Terziario Preterziario / J; L Vnii,9i»j| l/s ■KSS3 O1 ~F:y&r k~1^^¥ì f • i partengono unicamente al periodo neolitico, che corrisponde in gran parte al Terrazziano; Ja mancanza di residui paleolitici in Piemonte è attribuibile in massima parte al clima quivi meno temperato che altrove, ed alle copiosissime precipitazioni atmosferiche che, sia per se stesse, sia per il grandioso sviluppo glaciale e le enormi correnti acquee che ne derivarono, resero quasi inabitabile la regione piemontese durante tutto il periodo sahariano. Per motivi consimili ci possiamo spiegare come non siansi trovati resti paleoetnologici nelle caverne ossifere piemontesi, mentre essi abbon- dano così straordinariamente nelle numerose caverne della vicina Liguria. I resti paleoetnologici del Piemonte consistono specialmente in ascie di pietra levigata ed in cuspidi selciose di freccia che trovansi sparse qua e là alla superfìcie del terreno, specialmente nelle Langhe, nell’Appennino settentrionale ed in qualche vallata alpina; recente- mente si rinvennero pure due bellissime cuspidi di selce nelle colline Torino-Casale, cioè tra Cinzano e Bersano e presso Ozzano. Ma la maggior ricchezza paleoetnologica è presentata da depositi torbosi, antichi laghetti che in parte furono occupati da abitazioni lacustri, specialmente durante 1* epoca del bronzo ; tuttavia diversi resti, ad esempio cuspidi di freccia trovate recentemente nelle torbiere di Trana, fanno credere che alcune regioni lacustri fossero già abi- tate nella seconda metà del periodo neolitico, quando i ghiacciai bat- tevano rapidamente in ritirata. Anzi si può dire che i resti trovati nelle abitazioni lacustri mostrano graduale passaggio dal periodo neo- litico a quello del bronzo, e da questo al periodo storico. I più notevoli o più comuni resti paleoetnologici delle torbiere sono : oggetti di pesca, canotti, ruote di carro, oggetti di ornamento, sto- viglie grossolane (di cui si trovarono pure frammenti sui colli torinesi presso Sciolze), punte di freccia, ecc. Le regioni più caratteristiche al riguardo sono Tanfiteatro more- nico della Dora Baltea e quello del Lago Maggiore. La vera pianura padana, ora così riccamente popolata, fu Tultima regione ad essere abitata dal’uomo, in causa delle espanse correnti acquee che, più o meno vaganti, la ricoprirono in massima parte du- rante gran parte del periodo terrazziano. 394 — III. Sulla interpretazione del terreno primitivo; 1 nota del Prof. H. Rosenbusch (traduzione dell’Ing. Y. Novarese). La discussione sulla natura e l’origine degli scisti cristallini lasciata per lungo tempo in sospeso e ridestata specialmente dalle fortunate ricerche di H. Reusch sulla costa occidentale della Norvegia meridio- nale, ha ricevuto un notevole impulso dai lavori di un certo numero dei più chiari geologi, quali v. Gumbel, Joh. Lehman, Lossen, Michel- Lévy, Tornebohm, Sauer, Teall ed altri, ed era parte del programma dei lavori dell’ultimo Congresso geologico internazionale a Londra. Mentre colà si facevano le discussioni, di cui per quanto mi è noto, non è ancora stata pubblicata una relazione ufficiale, io, guidato da egregi colleghi, percorrevo alcune regioni della Scandinavia in cui de- sideravo cercare la conferma di opinioni che col lungo studio degli scisti cristallini mi sono venuto formando, e che da alcuni anni soglio esporre nelle lezioni ai miei allievi. Mi propongo ora di abbozzare qui rapidamente tali mie vedute senza però dare lo sviluppo storico di ciascuna di esse, nè risalire alle ori- gini di ogni singolo concetto e tanto meno trattare delle diverse opi- nioni prò e contro, perchè suppongo che i miei lettori conoscano al pari di me o meglio ancora quanto si scrisse intorno all’argomento. Intendo piuttosto illustrare, quasi aforisticamente, alcuni criteri generali da cui si potrà vedere quale indirizzo dovranno, secondo me, prendere le ri- cerche, per riuscire a penetrare la natura di quella parte degli scisti cristallini che chiamiamo terreno primitivo, terreno fondamentale ( Grund - gebirge ), formazione azoica, arcaica o ancora impropriamente forma- zione degli scisti cristallini. * ZurAuffassung des Grundgebirges von H. Rosenbusch (Neues Jahrbuck fùr Mineralogie etc., 1889. Band II, pag. 81-97). La traduzione letterale della pa- rola Grundgebirge sarebbe terreno fondamentale, ma si è preferita la dizione terreno primitivo, meno generica nell’uso italiano, e perciò meglio rispondente al concetto che l’autore chiarisce nel corso del suo scritto. Il Traduttore. I Sotto il nome di terreno primitivo o fondamentale comprendo quelle masse di rocoie la cui potenza si sottrae ad ogni sicuro apprezzamento, che formano la base o fondamento delle formazioni indubbiamente or- ganofore. Esse stanno in un certo contrasto speciale colle formazioni sedimentarie propriamente dette da una parte, e con quelle eruttive dall’altra, con tutto che colle prime a causa della loro struttura paral- lela stratiforme, e colle seconde per la natura ed il carattere autogeno dei minerali componenti, presentino certe analogie che tuttavia sem- brano nei due casi, maggiori che non siano in realtà. E già tutt’altro che facile in molti casi concreti dividere gli scisti cristallini del terreno primitivo dai veri sedimenti e dalle roccie eruttive, ma è più difficile ancora il dare i loro caratteri generali, essenziali e distintivi rispetto ai due gruppi di roccie ora nominati. Si suole insistere nella mancanza di fossili come distinzione ri- spetto alle roccie sedimentarie, carattere che da solo non prova nulla perchè conosciamo masse estesissime di arenarie e conglomerati privi di resti fossili, senza che perciò venga in mente a nessuno di asse- gnarle al terreno primitivo quand’anche fossero trovate al disotto del gruppo paleozoico. La mancanza di fossili è, secondo il concetto dei più, un segno distin- tivo solo quando va unita col così detto carattere cristallino delle roccie del terreno primitivo. E, ammesso per un momento che in questo non si conoscessero fossili, tale carattere non esprimerebbe che un semplice fatto sperimentale che può venire distrutto ad ogni istante da un caso fortuito. La mancanza di fossili è quindi soltanto un attributo casuale , non essenziale del terreno primitivo: non è necessario al concetto di questo, nè ha per esso l’importanza che può per esempio avere per il concetto di cristallo l’equivalenza delle direzioni parallele. Chi potrebbe però dopo le belle scoperte di H. Reusch nella pe- nisola di Bergen negare che si possono trovare resti fossili nel mica- scisto, nel calcare saccaroide, e persino nello gneiss detto fondamen- tale? La cosa, per quanto improbabile, non è impossibile, e possiamo anzi domandare se veramente non si conoscono resti fossili nel ter- reno primitivo. Non voglio qui risollevare la questione della natura del- YEozoon canadense , per quanto sia convinto che non ne è stato scritto ancora l’ultimo capitolo, ma importerebbe anzitutto stabilire quali prove si esigano per non dubitare delle traccie di vita organica. Le Cate- nularie (Kettenkor alien), del calcare saccaroide siluriano di Ivuven presso Osòren non mostrano più traccia alcuna di struttura organica, certo non di più e forse molto meno ancora Eozoon canadense , e tuttavia nessuno di coloro che le videro contrasta la loro origine organica, perchè fortunatamente nello stesso sistema di strati rima- sero conservati e i graptoliti nel micascisto fìlladico presso la casa fo- restale di Ulven, ed i trilobiti nel micascisto felspatico di Vagtdal. Ed è certo giustificato il ritenere come altrettante prove dell’esi- stenza della vita organica nella terra al tempo in cui si formavano le masse del terreno primitivo, ovvero sia quelle altre roccie che le hanno originate, gli strati o lenti di calcare più o meno cristallino e la gra- fite o grafitoide che in molte delle roccie di esso si trovano. Si apprezzerà tutto il valore di questa osservazione ove si consi- deri la progredita differenziazione di funzioni e l’altro grado di sviluppo che manifestano le più antiche fra le faune fossili che ci furono con- servate. Ed è con ragione stato detto spesso che la vita non poteva essere incominciata sul globo coi trilobiti. Anche quando non si tro- vassero mai avanzi organici certi nel terreno primitivo, non si potrebbe tuttavia sostenere che non vi furono mai, ma soltanto che non ve ne rimane traccia. La formazione di Osòren rimarrebbe sempre vero silu- riano con -facies cristallino metamorfico, quand’anche non vi si fossero mai trovati petrefatti, e non si avesse, come ora si ha, la certa scienza di tal fatto. Se la denominazione di arcaico data al terreno primitivo, non vo- lesse significare che la sua alta antichità rispetto alle formazioni se- dimentarie proprie, essa sarebbe certamente irreprensibile: pare tuttavia che coloro che tale denominazione usano di preferenza vi annettano l’opinione che il terreno primitivo sia stato originato da sedimenta- zione diretta in un modo uguale od analogo di un terreno stratificato normale. Però, siccome tanto i mari attuali, quanto quelli in senso geo- logico storici, non preistorici, non hanno certamente formato nè po- tevano formare sedimenti cristallini di silicati, così si ascrivono ai mari arcaici forze e proprietà analoghe a quelle dell’acqua soprari- scaldata delle esperienze di Daubrèe. La formazione arcaica consiste- rebbe quindi non di sedimenti meccanici, ma di precipitati chimici, a guisa del salgemma, l’anidrite ed il gesso : ora le esperienze istituite sotto ogni possibile condizione hanno dimostrato che molti dei minerali più diffusi nell’arcaico (antibolo, epidoto, clorito, sillimanite, ecc.), non possono in tal modo aver origine. Però quand’anche si riuscisse a provare il contrario e con ciò la possibilità della formazione degli an- zidetti minerali, non si spiegherebbe però in nessun modo la struttura delle roccie primitive. Uno sguardo nell’orditura dei componenti di queste roccie basta a persuadere che per essi non si tratta di una successione secondo il grado di solubilità: non è necessario il micro- scopio per riconoscere che l’infinito alternarsi di mica e di quarzo con feldispalo non può spiegarsi col cristallizzarsi da una soluzione. E quindi sicuro che l’essenza del terreno primitivo non sta nell’essere un se- dimento di un mare primitivo di costituzione speciale e dotato di inso- lite proprietà. Si designa anche spesso il terreno primitivo col nome di formazione degli scisti cristallini ritenendo per sue caratteristiche la natura auto- gena dei suoi componenti e l’esistenza di una certa struttura parallela che viene chiamata senz’ altro scistosità, ancorché non sia con ciò da tutti concesso che tale struttura sia la conseguenza di una pres- sione perpendicolare alla sua direzione. La struttura parallela permet- terebbe essenzialmente la distinzione delle roccie eruttive. E però un fatto certo che anche nelle masse eruttive, e non soltanto in quelle effusive, ma nelle roccie profonde si osserva una struttura parallela, che è talvolta primaria, e da assegnarsi allora allo svariato gruppo dei fenomeni periferici (Grenzphànomene) e talvolta secondaria prodotta da pressioni orogeniche in roccie che originariamente non avevano tale struttura e che si osserva ora di preferenza alla periferia, ora in più o meno frequenti zone di schiacciamento. L’abito esterno di tali roccie profonde d’aspetto scistoso è in entrambi i casi assolutamente quello degli scisti cristallini del terreno primitivo. Dipende da ciò la difficoltà spesso lamentata della distinzione fra granito e gneiss, diorite e gneiss, anfìbolico, ecc. È però specialmente da notarsi che noi con certezza conosciamo scisti cristallini che non appartengono al terreno primitivo ma indubbiamente a formazioni fos- silifere, come le regioni poc’anzi menzionate della penisola di Bergen in Norvegia. E si deve insistere sulla circostanza che anche le più — 398 — accurate analisi petrografiche di tali scisti cristallini del siluriano non hanno dato nessun mezzo per distinguerli da quelli geneticamente equi- valenti del vero terreno primitivo. Si può andare anche più oltre e so- stenere risolutamente che tali caratteri distintivi non si troveranno mai nella natura della roccia per perfezionarsi che facciano i metodi petrografici. La differenza fra tali scisti cristallini più giovani e quelli del terreno primitivo è solamente stratigrafìca e di età, e tale da po- tersi stabilire soltanto sui luoghi e non sotto il microscopio. Nello sviluppo storico di tutte le scienze è una regola generale, che nelle nostre cognizioni si compie un progresso ogni qualvolta rico- nosciamo in un tutto fino allora apparentemente semplice un complesso le cui singole parti si possono separare ed esaminare ad una ad una. Partendo da questa considerazione potrebbe forse riuscirci di di- stinguere fra gli attributi che siamo soliti di ritenere proprii del ter- reno primitivo quali la sua posizione geologica profonda, la sua costi- tuzione cristallina e la sua struttura parallela, apparentemente sem- plici ma complessi in realtà, dei caratteri più strettamente circoscritti propri in realtà dei veri scisti cristallini edinispecie di quelli del ter- reno primitivo, e che varrebbero a distinguerli essenzialmente e ne- cessariamente dai sedimenti normali e dalle roccie eruttive. Tutte le formazioni sedimentarie normali e tutte le masse eruttive per quanto imponenti siano le loro dimensioni, hanno una estensione orizzontale relativamente piccola, perchè le formazioni sedimentarie non avvolgono in corteccie concentriche il corpo della terra, ma piut- tosto vi stanno intorno al modo dei petali di un boccinolo di rosa. Solamente le masse del terreno primitivo formano secondo Y idea che ce ne formiamo, ed anche in realtà, un involucro continuo intorno al nucleo del pianeta. Dovunque l’erosione, le fratture e i rigetti, oppure mezzi artificiali hanno permesso di osservare le parti più profonde della terra si sono incontrati questi scisti cristallini; tutto ciò che le masse eruttive di ogni epoca geologica hanno portato come inclusione a giorno, non ci ha fatto conoscere nulla che alla superficie conosciuto non fosse, e che ci permettesse di conchiudere Desistenza di altre masse solide più profonde degli scisti del terreno primitivo nell’interno della terra. E nessuna proposizione della geologia generale è così universal- — 399 — mente accettata quanto quella, che in ogni luogo, penetrando a sufficiente profondità nella crosta solida della terra, s’ incontrerebbero gli scisti cristallini e sotto questi non s’ incontrerebbe altro di solido. Chiame- remo per brevità ubiquità questa esistenza generale degli scisti cri- stallini nella parte più profonda della crosta solida della terra: tale proprietà non spetta a nessun altra formazione geologica, ed è perciò un attributo esclusivo del terreno primitivo. Da quanto si può giudicare tale attributo è reale ; ma è esso pure necessario? E ovvio che tale ubiquità non può essere propria ad alcun sedimento normale e neppure ad alcuna roccia eruttiva. Non cono- sciamo che una formazione geologica a cui tale ubiquità spetterebbe necessariamente; ed è la prima crosta .di raffreddamento della terra. Fu già un tempo, e forse è appena trascorso, in cui, per molti e valenti geologi, questa crosta di raffreddamento della terra era cosa più mitologica che della geologia, sebbene piuttosto che la sua esi- stenza, si negasse che essa ci fosse nota; però non mancavano, e tut- todì non mancano, coloro che tutt’ al più ammettono che tale crosta è stata, ma non che esista attualmente, dicendo che oramai essa è scom- parsa, distrutta, senza però poter dare di ciò ragione plausibile: dove sono i suoi detriti e sopra che cosa sarebbero stati deposti? Un sedimento presuppone 1’ esistenza di una superfìcie su cui esso si deponga, ed ogni più antica roccia eruttiva una crosta che essa ha attraversato. Non possiamo quindi esimerci dall’ ammettere una crosta di raffreddamento non solo, ma ancora che essa esista tuttora perchè essa è un postulato. È molto meno sicuro l’affermare che essa ci sia nota. Taluni se la sono immaginata costituita, in parte almeno, a modo della crosta scoriacea delle colate laviche attuali, ciò che è molto improbabile poiché nel tempo della sua forma- zione le condizioni fìsiche della superficie della terra dovevano essere simili a quelle in cui si formano le roccie profonde. Supponiamo di non avere conoscenza di tale crosta di raffreddamento e cerchiamo di ricostruirla. Sarà da tutti concesso che tale crosta di raffreddamento non può essere essenzialmente diversa per sostanza e struttura dalle roccie eruttive più antiche e più diffuse Ciò che sgorgò dapprima in grandi masse attraverso a tale crosta non poteva essere materialmente molto diverso da essa e doveva consolidarsi in analoghe condizioni : 400 — perciò dobbiamo ammettere in essa un carattere prossimo al granitico. Allo stesso risultato si giunge considerando che questa crosta molto probabilmente dovette contenere le combinazioni dei metalli di minor peso specifico e maggiore ossidabilità. Ed è infine da aspettarsi che essa sia uguale in ogni punto della terra. Tutte queste condizioni coin- cidono appunto e certo non casualmente con quelle di certe parti più profonde della formazione dello gneiss, come viene concordemente ri- ferito da molti punti della terra. Esse giustificano in ogni caso la pro- posizione che se è vero che mai è stata veduta da occhio umano la prima crosta di consolidamento della terra , essa è da cercarsi nelle parti più profonde del terreno detto primitivo. La composizione mineralogica degli scisti cristallini, anche di quelli del terreno primitivo è simile a quella delle masse eruttive ed in ispecie alle roccie profonde per avere con essa comuni un gran numero di minerali specialmente silicati. Molti, ma non tutti. I silicati di allumina, astrazione fatta dal topazio, non sono fra i costituenti normali delle roccie eruttive a cui sono straniere la paragonite e la margarite, e fra i cui componenti primari mancano la clorite, il talco, Y epidoto, la zoisite, gli antiboli rombici, sostanze tutte che hanno parte princi- pale negli scisti cristallini. E si potrebbe addurre un maggior numero di esempi. Ma non è soltanto la composizione in generale che diffe- risce, ma pure fra scisti cristallini e roccie eruttive è differente il modo di associazione dei minerali comuni ai due gruppi. Per non addurre che un solo esempio, ma molto concludente, basterà accennare alla combinazione di miche incolori cogli antiboli, frequente negli scisti cri- stallini e che è addirittura inconcepibile nelle masse eruttive in cui non fu mai osservata. Si possono avere opinioni diverse sul modo di formulare le leggi di associazione dei minerali nelle roccie, ma non sul punto che tali leggi non sieno perle roccie eruttive diverse che per gli scisti cristallini. Se mai ritroviamo i minerali delle prime ilei se- condi gli è perchè gli scisti originariamente non erano tali e l’attuale composizione mineralogica è in parte retaggio di un’ epoca prece- dente. Dalla differenza delle leggi di associazione fra i due gruppi dob- biamo ancora trarre la conseguenza che lo sviluppo cristallino dei minerali componenti, si è compiuto sotto l’influsso di fattori diversi: — 401 essi non possono essersi formati in condizioni identiche. Ora le roccie eruttive sono costituite dalla cristallizzazione continua o periodica di una miscela di silicati disciolti gli uni negli altri in istato di fusione. Tale non può quindi essere stato il processo che ha dato origine agli scisti cristallini. Tuttavia il ritrovare, sebbene in vario modo modifi- cate, le stesse associazioni negli scisti cristallini del terreno primitivo e nelle roccie eruttive, ci insegna che una parte dei primi può e deve essere stata originata da queste ultime. L’intreccio reciproco dei componenti minerali del terreno primitivo che produce al nostro occhio l’impressione della scistosità, o in altre parole la loro struttura parallela, presenta tale varietà di particolari che non è possibile descriverla negli stretti limiti dell’attuale scritto e non potremo che accennare ai tratti generali che risultano dalla con- siderazione della pluralità dei casi, in contrasto alla struttura delle roccie eruttive. Malgrado la variabilità delle forme di struttura delle roccie eruttive rimane costante una condizione: i componenti di queste specie litologiche presentano uno sviluppo cristallografico e una re- ciproca limitazione tali, che noi sempre possiamo riconoscere sicura- mente e senza dubbi, la successione delle segregazioni : per ogni com- ponente v’hanno uno o più periodi di formazione. Da ciò deriva imme- diatamente come corollario che durante la cristallizzazione di ogni componente v’era un resto fluido, in cui si sono compiute le cristal- lizzazioni ulteriori. Le leggi, secondo cui le successive formazioni mi- nerali si ordinavano e si limitavano reciprocamente, sono chimiche ed esclusivamente chimiche, astrazione fatta dai fenomeni fluidali che hanno carattere accessorio. Si potrebbero quindi le forme strutturali di tutte le roccie eruttive raccogliere sotto il nome di forme struttu- rali chimiche e ancor meglio stechiologiche. La loro ragione ultima sta nella composizione stechiometrica del magma cristallizzantesi e nelle sue condizioni di temperatura e di pressione. Affatto diverso è lo stato delle cose negli scisti cristallini. Malgrado la varietà caleido- scopica delle condizioni di ogni caso speciale vi ha una circostanza che ritorna sempre, e che si manifesta in molteplici modi; cioè che non si può riconoscere una successione determinata nella formazione dei minerali. Ogni componente è rispetto agli altri delimitato per modo che ora pare che la sua forma determini quella di ciascun altro, ora ne sia invece determinata. 26 — 402 — La legge che risulta dal reciproco intreccio non è chimica ma è quasi assolutamente meccanica. E l’importanza di questo fatto non è menomata dalla comparsa in qualche scisto del terreno primitivo di forme proprie di róccie eruttive, quali la granofirica o altra forma porfìrica; queste sono, come la costituzione mineralogica, cose di una epoca precedente alla roccia, in cui essa era una roccia eruttiva nor- male e non uno scisto. Anche le strutture dette porfiroidiche, e le strutture occhiolate non contraddicono la proposizione stabilita: esse sono in parte resti di uno stato anteriore e in parte appartengono a quella categoria che io in altra occasione ho designato di strutture me e- e ani co-porjir ielle. Tutte queste forme strutturali meccaniche mostrano chiaramente nelle reciproche limitazioni ed inclusioni dei componenti, ed anche per lo più nei loro caratteri fìsici che gli elementi della roccia sono stati compressi e serrati gli uni contro gli altri in istato solido, ancorché nei singoli casi non si conoscano finora per la maggior parte dei mi- nerali, le leggi secondo cui si sono compiute le loro deformazioni e spostamenti, e l’influsso che in ciò esercitarono le superfìcie di sci- volamento e torsione. V’ ha però un grande gruppo di strutture negli scisti così del ter- reno primitivo come degli altri terreni superiori in cui mancano segni di processo meccanico, o non furono almeno finora trovati: intendo alludere a certi gneiss, calcari saccaroidi, eclogiti, anfìboliti, ece., la cui struttura ricorda in molti tratti quella delle roccie metamorfiche per contatto, e per cui si mostra manifesto che il passaggio allo stato cristallino si dev’ essere compiuto quando la roccia era in istato di aggregazione solida o pressoché tale, ma non di certo in istato fluido, ciò che risulta immediatamente dal fatto che la forma di ogni ele- mento si foggia a seconda di quella di ogni e qualunque altro. Una successione evidente nella formaz:one dei singoli componenti manca qui quasi del tutto, òd è limitata ai componenti più scarsi e piuttosto accessori. In questo gruppo compaiono spesso strutture por- fìroidiche, e queste appunto meglio provano l’esattezza dell’interpreta- zione ora data di tali tipi di struttura che si originarono in uno stato di aggregazione solido o pressoché solido. È in esse precisamente molto frequente il caso che gli elementi porfirici in apparenza più — 403 — antichi, includano gli altri. Ed allora questi ultimi sono quasi sempre ordinati , non secondo le leggi di cristallizzazione dell’ includente, ma secondo le leggi meccaniche di una stratificazione anteriore , per cui si prolungano in piani paralleli indipendenti dalla posizione e l’orien- tazione dell’includente. Basterà il ricordare le ottreliti delle filladi e dei micascisti, le al- biti di molte fìlladi felspatiche, i granati di molti micascisti e scisti analoghi, delle eclogiti e degli gneiss, le stauroliti dei micascisti e degli gneiss. E si potrebbero addurre altri esempi, come gli epidoti, le zoisiti, le tormaline degli scisti cristallini. Possiamo quindi stabilire la proposizione che le forme strutturali degli scisti cristallini sono es- senzialmente meccaniche e non chimiche , dando alle parole mecca- niche e chimiche il significato e l’estensione risultante dalla discus- sione ora fatta. Da tal discussione è pure contemporaneamente risul- tato che in una parte tanto degli scisti cristallini in genere , quanto di quelli del terreno primitivo inìspecie , noi dobbiamo vedere roccie che erano in origine sedimenti veri. L’esposta interpretazione è confermata ed ampliata ove ancora si consideri la natura del materiale costituente le roccie del terreno primi- tivo. In questo predominano gli gneiss. Adopero tal parola nel senso solito finora come concetto collettivo. J Uno studio minuto e sufficientemente esteso delle roccie gneissiche ci dimostra che una parte di esse è costituita da specie litologiche che hanno la composizione delle roccie eruttive profonde, astrazione fatta di alcuni componenti accessori. V’ hanno senza dubbio gneiss, che per il materiale che li costituisce sono molto prossimi ai diversi graniti, sieniti, dioriti, eufotidi (gabbri) e noriti, da cui solo si distin- guono per la struttura. Solo per le sieniti eleolitiche e per le teraliti, roccie invero piut- tosto rare, mancano nello stato attuale delle nostre cognizioni, i paral- leli fra gli scisti del terreno primitivo. Per molti di tali gneiss, il geo- logo che è famigliare colle strutture microscopiche e colla loro inter- pretazione può provare che sono graniti, sieniti, ecc., alterati al me- taformismo dinamico. Tali gneiss si potrebbero chiamare graniti gneissici, sieniti e dioriti gneissiche, $cc. Con queste però incontriamo fra gli gneiss altre numerose varietà per le quali non si può dalla struttura indurre una derivazione dalle roccie eruttive profonde, ed in cui tanto la struttura quanto la combi- nazione di minerali accennano piuttosto a conglomerati, a roccie del tipo grauwacke e ad argilloscisti quale materiale originario. Questi gneiss potrebbero chiamarsi conglomerati gneissici, grauwacke gneissiche, scisti gneissici. Tale interpretazione delle roccie gneissiche non si fonda per nulla esclusivamente sopra caratteri microscopici, ma è corredata pure per quanto desiderare si possa da argomenti geologici e stratigrafici; quali per esempio dall’apparire di fenomeni periferici di contatto endomorfi ed esomorfi nel primo gruppo, da passaggi incontrastabili a conglo- merati, grauwacke e scisti argillosi, ed assoluta mancanza di fenomeni di contatto nel secondo gruppo: ciò è stato provato dai lavori di nu- merosi geologi e petrografì di ogni paese, talvolta anche inconsciamente. Ai veri gneiss sono strettamente vincolati le granuliti (leptiniti) certe hàlleflinte e i porfiroidi (Canada e Svizzera). E molto importante che le roccie degli ultimi due gruppi non possono per costituzione e struttura essere altrimenti interpretate che come roccie effusive del gruppo dei porfidi metamorfosate dinamicamente. Le relazioni dei micascisti colle filladi e gli scisti argillosi, e delle quarziti colle arenarie sono universalmente note. In molti punti sono ancora dubbi certi scisti talcosi e cloritici, mentre altri rappresen- tanti di tali roccie per i loro rapporti geologici, la loro costituzione mi- neralogica e la loro struttura, si palesano strettamente collegati con certi membri della famiglia delle peridotiti e delle diabasi. Di fronte agli gneiss ed alle roccie gneissiche, quelle d’altra na- tura fra esse intercalate rappresentano una parte poco importante, e si possono molto naturalmente raccogliere in quattro serie distinte che chiameremo la serie calcare , la serie magnesiaca , la serie ferrifera e la serie delle anfibolia e serpentine. Nella serie calcare io raccolgo tutte quelle lenti incluse negli scisti cristallini, la cui composizione oscilla fra due estremi, un carbo- nato, il calcare saccaroide, da una parte, ed una miscela di silicati, l’eclogite, dall’altra, collegate dal comune carattere di aver per base predominante la calce. Questa categoria comprende le granatiti, le vesu- vianiti, wollas tornititi ( Wollasionitfels ), le scapolititi, epidotiti, zoisititi, certe anfiboliti e pirosseniti e l’eclogite. E noto da un pezzo che tali lenti stanno volentieri nello stesso orizzonte oppure in stretta relazione fra loro e collegate da passaggi graduali. Non si deve nemmeno dimenticare che quei medesimi silicati, che in questo gruppo formano roccie, compaiono anche spessissimo in cristalli isolati nei calcari cristallini (calcefiri), e da ultimo che nelle zone di contatto granitiche s’incontra la stessa serie dal calcare saccaroide fino ai silicati di calce diasproidi ( Kalksilicathornfeise ). E sia notato di passaggio che in queste ultime roccie si è persino trovato talvolta il silicato di allumina proprio dell’eclogite. E nello stesso modo che nessuno dubita che nei contatti del granito il calcare cristallino, i calcefiri, e la serie svariata dei silicati calcari diasproidi non rap- presentino che diversi gradi di metamorfosi di calcare e di marne, così sarà anche lecito di far derivare questa multiforme serie di roccie del terreno primitivo dagli stessi materiali originari, calcari e marne. E ciò sarà tanto più giustificato in quanto chè tutte queste roccie, anche 1 eclogite e l’anfìbolite, compaiono come masse subordinate nel calcare saccaroide di scisti cristallini e semicristallini più giovani di quelli primitivi. Per tutte queste roccie è caretteristica la mancanza in generale dell’ abito scistoso, avendo esse piuttosto una struttura com- patta. E così dev’essere se le considerazioni ora sviluppate intorno alla natura del terreno primitivo sono esatte, perchè in esse la pressione meccanica si è trasformata in lavoro chimico. Da rilevarsi è ancora che questa serie calcare si presenta relati- vamente di rado in strati continui sopra grandi estensioni come nel Canadà, e molto più spesso invece in masse lenticolari di minore im- portanza relativa. Questo indicherebbe che le masse calcari originarie che oggi in- contriamo metamorfosate nel terreno primitivo, non si deposero in strati ma in scogli a modo di atolls , seppure non si possono considerare tali lenti calcari come parti rigonfiate comprese fra le strozzature di uno strato in origine continuo. Ad ulteriori ricerche geologiche spetta il compito di stabilire, se, come sarebbe da aspettarsi, la frequenza delle roccie della serie calcare nel terreno primitivo vada diminuendo con una certa regolarità in profondità. — 406 — Anche i membri della serie magnesiaca, più rari e poco studiati, oscillano per la natura loro fra restremo di un carbonato, la dolomite, e l’altro di una miscela di silicati, quali certi diviniti ed eulisiti. I mem- bri intermedi sono i dolomitofiri con cristalli di silicati, le enstatititi, il duelo, certi scisti talcosi e cloritici, e parecchie roccie anfiboliche. Che una parte delle diviniti sia da assegnarsi alle roccie profonde alterate per metamorfismo dinamico è già stato prima accennato. Ad altre, specialmente alle roccie oliviniche con breunerite e ma- gnesite trovate da Svenonius nel Norrland, si finirà probabilmente per assegnare questa stessa origine. Però purtroppo per una interpreta- zione più chiara di questa serie magnesiaca ci mancano, finora almeno, i paralleli nelle aureole di contatto granitiche. E tanto più importante è la presenza di alcune roccie anologhe, specialmente la Sagvandite e Listwanite e simili negli scisti cristallini moderni. Della serie ferrifera non si conoscono finora che frammenti rap- presentati da parecchie pirosseniti e da giacimenti ferriferi dei terreni pri- mitivi. Questi ultimi si distinguono^per la presenza accessoria di cocco- lite, granato, vesuviana e minerali congeneri, da quelle altre masse ferrifere dei terreni primitivi che sono proprie delle roccie profonde del tipo dell’eufotide, le quali sono invece caratterizzate dalla presenza dell’olivina e del plagioclasio. E naturale che vi sieno nei terreni pri- mitivi minerali di ferro che sono stati originati in tutt’altro modo, o per secrezione o simili processi chimici, da altre roccie così eruttive come sedimentarie. L’itabirite di certi sedimenti di facies fìlladico, cor- risponde forse ai giacimenti ferriferi del terreno primitivo. Si sono più sopra comprese nella categoria delle roccie anfiboliche e serpentinose un gran numero di inclusioni dei terreni cristallini che formano un insieme molto eterogeneo, parecchie parti del quale sa- ranno da una ulteriore e miglior conoscenza assegnate alle categorie precedenti. Ne rimarrà però sempre una notevole porzione, in cui si potranno riconoscere con sicurezza le metamorfosi di eufotidi, di dia- basi, ed altre roccie effusive analoghe. Queste ultime sono spesso ac- compagnate da agglomerati, il cui carattere [tufaceo si può difficil- mente negare, anche nell’aituale stato di metamorfosi. Se ci rivolgiamo a considerare il rapido schizzo precedente che non ha certo esaurito tutto il materiale che offre il terreno primitivo. — 407 — ma in cui non si dev’essere tralasciato nulla di essenziale, vediamo negli scisti cristallini del terreno primitivo masse che possiamo in parte con tutta sicurezza e in parte con maggiore o minore probabi- lità ritenere derivate da scisti argillosi, grauwache conglomerati, roccie a carbonati, roccie profonde, roccie effusive ed i loro tufi. Se perciò per un momento supponiamo che al terreno primitivo sia tolta la sua struttura scistosa e se si ricostruisse dall’attuale facies metamorfico, la sua natura originale, avremo, astrazione fatta dalla crosta di con- solidamento primordiale, l’ immagine di una serie normale di forma- zioni geologiche. L’unica differenza rilevante nel paragone colle for- mazioni indubbiamente fossilifere consisterà soltanto nella maggior rarità delle roccie calcari sia sostanzialmente inalterate, che silicatiz- zate, ciò che si spiega d’altronde colla circostanza che la possibilità e la misura della formazione di roccie di carbonati nella superficie della terra è legata alla vita organica sulla medesima, e deve perciò diventare tanto più rara quanto più innanzi si procede nei periodi più antichi della storia terrestre. Lo studio petrografico del terreno primitivo ce lo rivela come un gruppo di formazioni, i cui membri si seguono regolarmente dal cam- brico più profondo in giù; rocchio si perde in una profondità illimitata, il cui fondamento estremo è la crosta di raffreddamento della terra. Se mai alla petrografia riuscirà di provare l’esattezza di ogni parte del modo di interpretazione ora svolto, sarà scomparso lo iato che esìste fra il più profondo sedimento fossilifero ed il terreno primordiale e stabilita la continuità della storia del pianeta. E una conseguenza immediata dei concetti svolti, che il terreno primitivo di diverse località della terra ha e deve avere età molto differenti. Il punto della scala delle formazioni fino a cui si è svilup- pato il facies del terreno primitivo, dipende unicamente dalla misura delle forze orogenetiche che si sonò sviluppate in una determinata località della terra, dal peso gravante sulle formazioni che si sono ripiegate, dall’epoca in cui cominciarono i processi orogenici e dalla durata loro. E parimenti sembra probabile che quando in un determinato punto della terra una certa formazione ha assunto il facies di terreno j primitivo, nessuna formazione più profonda può avere conservato il I suo carattere normale: naturalmente astrazione fatta da circostanze locali e rovesciamenti. — 408 — Oggetto della fisiografia microscopica degli scisti cristallini è il completare i sovraesposti concetti, raccogliere i fatti sovra cui si fon- dano e cercare i mezzi di riconoscerli. Chi vuol penetrare ed orien- tarsi in una regione sconosciuta deve adoperare una bussola: chi studia i terreni primitivi se la procura con Tesarne delle roccie di formazione in- dubbiamente fossilifera con facies cristallino. Da queste apprende che il materiale minerale preesistente alla metamorfosi cristallina è de- formato dalla pressione orogenetica, e vede, paragonando la roccia normale e Talterata, quali nuovi minerali si generarono. Ciò che du- rante e mediante la pressione si è originato, non viene da essa de- formato, poiché nessuna forza distrugge ciò che crea fìntanto che durano e si mantengono le condizioni di esistenza del prodotto. Pro- cessi orogenici ripetuti possono arrecare naturalmente complicazioni e modificazioni quando si verificilino sopra roccie già metamorfosate. — 409 — NOTIZIE BIBLIOGRAFICHE BIBLIOGRAFIA GEOLOGICA ITALIANA PER V ANNO 1889 (Continuazione ; V. fascicolo n. 7-8). Johnston-Lavis H. J. — Notes on thè Ponza islands. (Geol. Magazine, Decade III, Voi. VI, n. 12). — London. In questa nota l’autore dà la serie dei terreni di Ventotene e Santo Stefano e da essa cerca investigare la storia di queste isole vulcaniche. Keller F. — Contributo allo studio delle roccie magnetiche dei dintorni di Roma. (Rend. Acc. Lincei, 1° sem., Voi. V, 7). — Roma. In questa nota l’autore, riassumendo le numerose osservazioni fatte per buon tratto di paese sulla sinistra del Tevere nei dintorni di Roma, stabilisce il diffe- rente grado di magnetismo delle roccie in rapporto alla loro natura. Premesse alcune considerazioni sulla nomenclatura delle roccie vulcaniche esa- minate, egli dà una tabella dalla quale risulta che il magnetismo si manifesta in ordine decrescente nelle roccie seguenti: lava basaltina, pozzolana, tufo litoide, lava sperone, lapillo, tufo terroso, peperino, sassomorto (varietà di peperino). Klein C. — Analisi petrograjìca di una serie di roccie dei dintorni del lago di Bolsena. (Boll. Com. geol., 1-2). — Roma. È la traduzione di un lavoro pubblicato nel Neues Jahrb. f. Min. Geol. und Palaeontologie del 1888, del quale già si rese conto nella Bibliografia di detto anno. — 41G — Kònig F. — Sorgente minerale della Madonna del Pilone (Torino) a Villa Gandolfi . (L’ idrol. e la clirnatol. medica, anno XI, n. 5). — Firenze. Sono i risultati dell’analisi che l’autore ha fatto di quell’acqua alcalina, ma- gnesiaca e ferruginosa. Kramberger-Gorjanovic. — TJeber Fr. Bassani’s Ricerche sui pesci fossili di Chiavon . (Verhand. der K. K. geol. Reichs., n. 4). — Wien. L’autore piglia occasione dal lavoro del Bassani, dove le località di Podsused Radoboj e Dolje, sono citate rispetto alle loro ittioliti che si riferiscono allo Schlier, per dimostrare che i pesci fossili di tali località provengono da strati indubbiamente sarmatici, cioè più recenti che non sia lo Schlier . Lanzi M. — Le diatomee fossili della via Aurelia. (Atti Acc. Pont. N. Lincei, Anno XLII, Sess. III). — Roma. Il materiale studiato dall’autore fu raccolto dall’ing. E. Clerici in una collina posta a 100 m. circa al di là del decimo miglio a lato della via Aurelia. Il de- posito diatomifero comprende due strati formati d’una marna biancastra composta di sabbia silicea sottile, di calcare amorfo in copia, spicule di spongiari e cara- paci di diatomee. Lo strato inferiore ha specie di diatomee di acqua marina e salata ( Epithe - mia musculus Ktz., Campylodiscus bicostatus W. Sm., Nitzschia ( Tryblionélla ) circumsuta Grun., N. ( Trybl .) levidensis Gran., Synedra tabulala Ktz., Achnanthes brevipes A g., Chaetoceros Wighamii Brigtw.), altre che vivono promiscuamente nelle acque salate e dolci ( Melosira nummuloides Ag., Surirella striatula Turp., S. biseriata De Breb., Campylodiscus echineis Ehrn., Epithemia Westermannii Ktz., E. zebra Ktz., E. Argus Ktz., E. turgida Ktz., E. sorex Ktz., E. gibba Ktz., Nitzschia (Tryblionélla) punctata Gran., N. Brebissonii W. Sm., N. hungarica Gran., N. dubia W. Sm., Synedra affinis Ktz., Navicula sculpta Ehrn) ; ed infine altre, in minor numero, proprie delle acque dolci. Nello strato superiore mancano le specie marine; e quelle di acque salma- stre, o adattantisi tanto a queste che alle dolci, sono in minor numero che quelle di acque dolci. Il deposito indica che una palude marina cambiossi in ristagno d’acqua dap- — 411 — prima salmastra e poi dolce ed è questa la prima volta che trovansi presso Roma diatomee d’ acqua salmastra. L’ autore dà l’elenco delle specie da lui determinate. Lanzi M. — Giacimento di diatomee fossili ai lati della eia del Già - nicolo {Roma) scoperto dal dott. G. Terrigi. (Atti Acc. Pont. N. Lincei, Anno XLII, Sess. VII). — Roma ; e (Riv. Se. ind., Anno XXI, 14-15). — Firenze. È il sunto di una comunicazione fatta dal dott. Lanzi alla Pontificia Acc. dei N. Lincei, nel presentare una nota delle diatomee fossili trovate dal dottor G. Terrigi ai lati della via del Gianicolo nel punto in cui si parte il viale di ac- cesso alla già Villa Gabrielli. Il deposito è formato di straterelli più o meno sottili, che hanno tutto l’a- spetto d’una farina fossile e sono ricchissimi di diatomee d’acqua dolce. Abbon- dano le Epithemia ; in taluni strati sono frequenti le Cymatopleura, le Cocconeis e le Navicula ; in altre la Rhoicosphenia curvata, i Gomphonema , il Pleuro- sigma Spencerii . La natura del deposito dimostra che quivi fu una laguna di acqua dolce poco profonda, limpida, tranquilla, di lunga durata ; ed è questa la prima volta che si segnala 1’esistenza d’una farina fossile dentro il recinto di Roma. Lobley J. L. — Mount Vesuviusì a descriptive , historieal and geoio - gical account of thè volcano and its surroundings. — London, 1889. Questo volume del prof. Lobley comprende la descrizione del Vesuvio, pre- ceduta da brevi cenni intorno ai Campi Flegrei. Vi tien dietro la storia del Ve- suvio, la sua geologia, l’elenco delle roccie e dei minerali vesuviani, un sommario della sua fauna, e infine alcune considerazioni generali intorno al vulcanismo. Lotti B. — Les trans gressions secondaires dans la chaine métallifère de la Toscane. (Bull. Soc. belge de Géol., Pai. et Hydr., Pr. v., Tome III). — ■ Bruxelles. Nelle formazioni secondarie della catena metallifera si hanno due importanti trasgressioni, delle quali il Lotti s’occupa nella presente nota, registrando le osservazioni da lui e da altri già precedentemente fatte note, e quelle sue più recenti. Quelle trasgressioni sono fra il Senoniano ed il Neocomiano e fra il Titonico — 412 — ed il Lias superiore; esse non possono spiegarsi per mezzo di faglie che dovreb- bero essere troppo numerose, poco estese, assolutamente indipendenti tra di loro e non sono in nessun modo indicate. Si hanno qui dunque due vere lacune, le quali assumono grande importanza dal fatto che corrispondono perfettamente con quelle riconosciute in molte contrade e coordinate e messe in evidenza dal Suess (Antlitz der Erde). Lotti B. — La genèse des gisements euprifères des dépòts ophiolitiques tertiaires de V Italie, (Bull. Soc. belge dé Géol., Pai. et Hydr., Mèm., Tome III). — Bruxelles. Premesse alquante notizie intorno alle roccie ofìolit che terziarie d’Italia, al loro modo di presentarsi ed alle prove della loro natura eruttiva, l’autore si oc- cupa dei minerali cupriferi in esse contenuti. Non v’è massa ofiolitica la quale non presenti almeno traccie di minerali cupriferi: questi trovansi principalmente nella eufotide, raramente nella diabase, mai nella serpentina. I minerali sono calcopirite, erubescite e calcosina: sono accompagnati da pirite e da rara blenda. Essi sono disseminati nella roccia in minute particelle, oppure in vene entro le sue fratture, od infine si presentano in masse sferoidali entro un’argilla steatitosa, risultato della decomposizione dell’eu- fotide. Questo prodotto dì decomposizione che costituisce la ganga dei minerali cupriferi, trovasi, oltre che nelle parti mineralizzate, eziandio quasi ovunque sia una fenditura nella eufotide e nella diabase: la decomposizione pare così dovuta all’azione chimica e meccanica di un’acqua circolante nella roccia. Quanto al dire se il minerale metallico sia contemporanco della roccia che lo contiene o vi sia pervenuto posteriormente, il Lotti ritiene più probabile la prima ipotesi: e per provarlo cita più ragioni, quali sarebbero lo stato di disse- minazione del minerale, la sua presenza in tutte le roccie ofìolitiche terziarie ita- liane, e la sua assenza nelle roccie sedimentarie circostanti. Egli domandasi ancora se il minerale si sia trovato in origine disseminato nella massa e si sia concentrato in seguito nelle zone di decomposizione: o non piuttosto esso abbia preesistito in accumulazioni in queste zone: e, pur ritenendo più probabile questa seconda ipotesi, egli osserva che la struttura concrezionare dei noduli cupriferi mostra chiaramente che, in ogni caso, dovette prodursi una successiva concentrazione. Luzzato G. — Analisi della Natrolite del Monte Baldo. (Rivista di Min. e Cristallogr. it., Voi. IV, fase. 4-6). — Padova. I risultati dell’analisi eseguita dal Luzzato sono i seguenti: — 413 — 9,57 47,16 26,76 0,28 16,18 99. 95 e corrispondono alla formula Na2 Al2 Si3 O10 + 2 H20. Lydekker R. — On thè occurrence of thè striped Hyaena in thè ter- tiary of thè Val d' Arno. (Sunto in Proceed. Geol. Soc., n. 545). — London. È il sunto di una memoria letta alla Società geologica di Londra. L’autore, che già nel 1855 aveva determinato un mascellare proveniente dal Valdarno come appartenente ad una Hyaena striata , conferma tale sua determinazione. Malagoli M. — Foraminiferi tratti dal fango eruttato dalle salse di Nirano. (Atti Soc. Nat. Modena, S. Ili, Voi. Vili, 2). — Modena. L’autore sottopose ad esame il fango dei coni principali della salsa di Nirano e del laghetto che trovasi presso il maggiore di quei coni. Esso è composto in gran parte di argilla ed in piccola quantità di finissima arena. Quest’ ultima è formata di grani di quarzo e di feldispato, di pagliuzze di mica,, di grani picco- lissimi verdastri e di foraminiferi: non presenta traccia di organismi silicei. L’e- lenco dei foraminiferi trascritto nella presente nota insieme alle osservazioni precedenti ed all’esame delle marne plioceniche delle colline circostanti, prova che il fango delle salse non è altro che marna pliocenica. Malagoli M. — Foraminiferi pliocenici di Cà di Roggio nello Scan - dianese ( Reggio Emilia). (Boll. Soc. geol. VII, 3.). — Roma. Le numerose specie registrate in questa nota sono state raccolte nelle marne grigie plioceniche presso Cà di Roggio: per ciascuna di esse sono indicati i vari orizzonti in cui trovossi altrove, e,, se del caso, la regione in cui vive tuttora» Alcune specie sono rappresentate in una tavola ( Bolwina punctata, d’ Orb., B. dilatata Reuss e B. aenariensis Costa). Dal loro insieme 1’ autore conclude che: mentre la presenza di taluni generi ( Miliolina , Textularia , Lagena, Nodo - saria, ecc.) indicherebbe strati littorali, quella di altri ( Globigerina , Orbulina, H20 . Sio2 . A1203 CaO Na20 — 414 — Sphaeroidina e Pulainulina) porta a ritenere trattarsi d’una successione di strati formati in un seno di mare alquanto profondo; questo mare dovette essere altresì temperato. Marchese M. — Osservazioni alla Descrizione geologico-mineraria delV Iglesiente {Sardegna). (Ann. Soc. Ing. Arch. it., Anno IV, 5). — Roma. L’ing. Maurizio Marchese crede che il calcare metallifero dell’ Iglesiente sia inferiore agli scisti siluriani: ed avendo l’ing. Zoppi, nella Descrizione geologico- mineraria di quella regione, ammesso invece il rapporto inverso, egli vuole con la presente nota appoggiare la propria convinzione. I fatti da lui esaminati e di- scussi furono già citati nel lavoro del Zoppi; varia solo il modo d’interpre- tarli, il che non può recar meraviglia trattandosi di strati sempre fortemente inclinati. L’ing. Marchese respinge pure 1’ ipotesi dell’ origine atollica del calcare metallifero proposta dall’ing Zoppi.. Mariani E. — Foraminiferi del calcare cretaceo del Costone di Ga- varno in Val Seriana, (Boll. Soc. geol., VII, 3). — Roma. Il Costone di Gavarno nella Valle Seriana è formato di calcare grigiastro compatto alternante con calcari rossastri, contenente grossi noduli di selce nera e frequenti vene di calcite: e deve, secondo l’autore di questa nota, indubbiamente riferirai al cretacico medio. La fauna a foraminiferi di questa località, descritta e figurata dal prof. Mariani, benché non ricca in ispecie, ne contiene alcune di veramente caratteristiche, ed il calcare che la racchiude si formò in mare poco profondo e temperato. Mazzetti G. — Sopra un affioramento cretaceo di argille scagliose in S. Martino di Salto , frazione del Comune di Montese. (Atti Soc. Nat. Modena, S. Ili, Voi. Vili, 2). — Modena. In una gita della Società Geologica italiana l’abate Mazzetti osservò poco lontano da Mercatino (Romagna) nella località detta Cà di Panico un affiora- mento di argille scagliose cretacee per l’aspetto e per i fossili identico ad altro da lui studiato già da tempo nel comune di Montese, in una località detta Terra rossa nella frazione S. Martino del Salto, e ch’egli non aveva potuto prima d’al- fora determinare con certezza come cretaceo, per la scarsità di fossili. Benché — 415 assai lontano l’uno dall’altro, i due affioramenti sono affatto identici. In quello di Terra rossa, oltre a resti che paiono cuproliti e ad ammoniti, l’autore trovò un dente di Ptycodus , certamente cretacico, ed un piccolo Taonurus, che il prof. Ca- pellini ritiene della stessa epoca. L’affioramento di S. Martino del Salto è importante in quanto è il primo indicato nel territorio di Montese, nel quale però già era. conosciuto il Cretaceo, ma per fossili erratici. Mazzetti G. — Sopra la presenza dell' Inoeeramo in Montese. (Atti Soc. Nat. Modena, S. Ili, Voi. Vili, 2). — Modena. L’autore annunzia aver trovato dei resti d’ inoeeramo a Salto (Montese) in una località in cui già nell’autunno del 1887 aveva scoperto uno di tali fossili. Tali inocerami sarebbero i soli trovati colà in posto. Mazzetti G. — Intorno ad aleuni eeliinidi dei dintorni di Schio. (Mem. Acc. Pont. N. Lincei, Voi. V ; sunto nel Resoconto delle sessioni, Anno XLII, Sess. III). — Roma. Gli echinidi raccolti dal dott. Teliini presso Schio in una località denomi- nata Poleo e in una formazione che si ritiene bartomana, appartengono all’or- dine degli irregolari e comprendono nove individui della famiglia degli Spatan- goidei e due forme non determinabili specificamente ed appartenenti alla famiglia dei Brissoidei. Il genere Eupatagus ha assoluto predominio sugli altri. Sei specie sono nuove, e cioè: Spatangus Pantanelli , Hypsospatangus pentagonalis, Eupatagus Tellini, E. elatus, E. bicarinatusy E. cor. Una tavola unita alla memoria contiene il disegno di queste specie. Meli R. — Scoperta : di resti di Castor fìber Lin ., Ursus spelaeus Blum. e Canis lupus Lin. nelle ghiaie quaternarie della vallata del Tevere presso Ponte Molle. (Boll. Soc. geol. Vili, 1). — Roma. - Con riserva di ritornare sull’ argomento, il prof. Meli annunzia di aver trovato nella indicata località un mascellare inferiore destro di Castor fìber Lin. ed un .canino di Ursus spelaeus Blum : negli stessi depositi trovossi pure un mascel- lare inferiore destro di Canis lupus Lin. Queste tre specie sono assai rare nel Quaternario dei dintorni di Roma. — 416 — MercalliG. — Osservazioni petrografieo-geologiche sui Vulcani Cimini, (Rend. Ist. lomb., S. II, Voi. XXII, 3). — Milano. L’autore riassume in questa nota preliminare i principa'i risultati ottenuti nell’esame elei materiale da lui raccolto in alcune gite nei dintorni di Viterbo. Nel monte di Soriano egli distingue una trachite andesitica quarzifera, una tra- chite andesitico-felsitica ed una trachite olivinica. La prima, che potrebbe classificarsi come dacite felsitica, è volgarmente detta peperino e per l’aspetto talvolta ter- roso e per i molti inclusi è considerata da alcuni geologi piuttosto un tufo trachi- tico che una vera trachite in massa : forma banchi estesissimi alla base delle roccie dei Cimini. Fra le roccie del cratere di Vico, 1’ autore distingue quelle d’aspetto trachi- tico e quelle leucitiche. Le prime comprendono : trachite sanidinica, sanidinite hauy- nica, trachite augitica, trachite andesitico-olivinica, e trachite passante a tefrite leucitica. Le roccie della seconda categoria, cui quest’ultima forma passaggio, furono dal Verri dette leucitofìri : l’autore vi distingue : sanidinite leucitica, leu- citofiri a grosse leuciti, tefriti leucitiche, tefrite leucitica passante a leucitite, te- frite leucitica con olivina, fonolite leucitica. L’autore descrive in seguito un tufo degno di nota per il gran numero di inclusi che contiene, e che egli chiama tufo-conglomerato a pomici nere ; ad esso sono associati conglomerati di massi, ed aggregati cristallini. In questi ultimi, ad un minerale dominante (in generale sanidino o un pirosseno, più raramente biotite, olivina, ecc.), sono associati altri molti : magnetite, titanite, antibolo nero, biotite, noseana, melanite, ecc. Di tutte le roccie indicate, l’autore indica il giacimento ed i caratteri prin- cipali. . i Mercalli G. — Le eruzioni dell* Isola Vulcano . (Rassegna nazionale, gennaio). — Firenze. In questa nota (che ha la data del 15 dicembre 1888), l’autore descrive dapprima brevemente la configurazione dell’Isola Vulcano, la quale è un antico gran cra- tere squarciato verso Nord e Nord-Est, che racchiude due coni vulcanici più recenti, la Fossa di Vulcano cioè e Vulcanello. Espone quindi i caratteri dell’e- ruzione cominciata nell’agosto del 1888, mettendo sopratutto in rilievo che frale materie emesse dal Vulcano mancano assolutamente i veri lapilli e le vere scorie, non avendosi che massi più o meno grandi di lave antiche di varia natura, incan- descenti od anche parzialmente fusi insieme a moltissime arene e ceneri. — 417 — La terza parte del lavoro è consacrata all’enumerazione delle eruzioni di Vulcàno di cui si hanno notizie più o meno complete e certe : pare che nei tempi anteriori all’èra volgare l’attività fosse maggiore ; seguirono periodi di calma, in- terrotti da eruzioni talora assai violenti. Dal 1786 al 1872 si ebbe una calma relativa; nel 1873 un’eruzione di mediocre importanza durò dal 7 settembre al 20 ottobre: altre si produssero nel luglio 1876, settembre 1877, agosto e settembre 1878, e gennaio 1879 ; quest’ultima molto forte. Dal 1880 al 1885 non si ebbero vere eruzioni, ma solo rombi e fumo più denso : nel gennaio 1886 si ebbero violenti esplosioni con ceneri e massi infuocati, le quali durarono fino a marzo. Dall’a- prile 1886 al luglio 1887 si svilupparono fumi e s’ intesero forti boati. Seguì un anno circa di riposo al quale tenne dietro 1’ eruzione del 1888, che può con probabilità considerarsi come una ripresa di quella del 1886,* e quindi come una fase del periodo cominciato nel 1873 e proseguitosi con crescente energia. Le eruzioni di Vulcano, come quelle di Stromboli, non furono mai accompa- gnate da violenti terremoti, il che, secondo l’autore, può ascriversi a due ragioni ; il funzionare cioè quei due vulcani come vere valvole di sicurezza col loro con- tinuo sviluppo di vapori, e il trovarsi le loro bocche poco elevate sul livello del mare. Meschinelli L. — Studio sulla flora fossile del Monte Piano. (Atti Soc. Veneto-Trentina di Se. nat., Voi. X, 2). — Padova. Il materiale illustrato con la presente nota fu raccolto da Ludovico Pasini e trovasi ora nel Museo civico di Vicenza. Alla descrizione delle specie, l’autore fa precedere alcune brevi notizie intorno al loro giacimento, e fa tener dietro un quadro nel quale esse sono messe a riscontro colle principali flore terziarie di Europa. Le filliti si trovano entro argille sabbiose poste poco sotto la cima di Monte Piano : esse per le condizioni stratigrafiche sono certamente oligoceniche, e pro- babilmente sono sincrone della fauna di Monteviale. Le specie descritte sono: | Ceratozamites meentinus n. sp. (n. gen.), Myrica kakeaefolia(Ung.) Sap Alnus nostratum ? Ung., Salioc tenera Alex. Braun., Populites Gasparinii Mass., Ju- glans acuminata Al. Br., J. radobojana ? Ung., J. UngeriHeer, Pianera Ungeri Ettingsh., Ulmus Braunii Heer, Ficus tiliaefolia (AL Br.) Heer, Glemllea iner - mis Sap., Persea princeps Heer, Cinnamomum lanceolatum Ung., Apeibopsis Deloesi (Gaud) Heer, Sapindus falcifolius Al. Br., S. undulatus Al. Br.,S. Pythii j Ung., Celastrus elaenus Ung., Rhamnhus Brutiorum Mass., Terminalia Ponèii Mass., T. mioccenica ? Ung., Eucalyp'us oceanica ? Ung., Eugenia ? Apollinis ? | Ung., Diospyros bracliy sepalo, Al. Br., Styraos stylosum Heer. 25 Fra queste 26 specie, 19 sono nuove per il Vicentino e una costituisce un genere nuovo : quest’ultima è figurata in una tavola. Meschinelli L. — Studio sugli avanzi preistorici della Valle di Fon- tega. (Atti Soc. Veneto-Trentina, Se. nat., Voi. XI, 2). — Padova. La Valle di Fontega trovasi a pochi chilometri a mezzogiorno di Vicenza; il suo fondo è coperto da un giacimento di torba, che, lavorato da pochi anni, ha offerto numerosi avanzi animali, oltre a stoviglie ed oggetti in pietra e in legno. Questo materiale studiato dal prof. Meschinelli, vien fatto conoscere con la presente nota, alla quale sono annesse tre tavole. Le specie animali da lui determinate sono : Canis Spal- letta ?, Ursus arctos, Equus caballus, Bos primigenius , Bos brachiceros , Bos validus , Bos elatior, Cervus elaplius, Sus scrofa palustris Riit., Sus scrofa domesticus Rùt., Arias boschas L.} Pelecanus onocrotalus, Emys lutarla . Meschinelli L. — Avanzi preistorici della Valle di Fontega in pro- vincia di Vicenza. (Bull. Paletn. it., S. II, T. V, 9-11). — Parma. È un riassunto del lavoro precedente. Moderni P. — La trachite e il tufo di Rispampani presso Toscanella. (Boll. Com. geol., 1-2). — Roma. Poco sotto il castello di Rispampani l’autore osservò un piccolo lembo di trachite grigio-azzurrognola abbondantemente disseminata di piccoli cristalli di feldispato vitreo, e in molti punti alterata da emanazioni solfidriche : blocchi erra- tici di un’ altra roccia trachitica color nero piceo con grossi cristalli di feldispato caolinizzato, compatta, durissima a frattura quasi scheggiosa, osservati in vici- nanza della precedente massa, provengono verosimilmente da dicchi entro essa che le condizioni della superficie non consentirono di osservare. Lungo l’affioramento trachitico si hanno diverse emanazioni d’acido solfidrico. Cosi fatta trachite riposa su calcari marnosi e scisti argillosi turchini dell’Eo- cene medio ed è ricoperta da materiali vulcanici dei Vulsinii. , L’autore si occupa in seguito del tufo, detto localmente nenfro, il quale sta sulla trachite. Riporta l’analisi microscopica del dott. Bucca, il quale, come in precedenza il Klein, lo pone fra i tufi trachitici. I giacimenti di nenfro , non molto numerosi nè potenti, sono tutti all’estremo meridionale del distretto vulsinio. Accompagna il testo una sezione geologica ed una tavola, desunta da una fotografia, intesa a^mostrare l’aspetto del giacimento di nenfro. — 419 — Moro G. Su l origine del lido di Venezia e della sua acqua dolce . (Ateneo Veneto, S. XIII, Voi. I, 3-4). — Venezia. È noto che il prof. G. Moro emise altra volta l’idea che esistette un mare quaternario ad un livello superiore all’attuale, di circa 10 metri. Ora egli dà nuovo sviluppo a tale idea, citando i fatti sopra i quali l’appoggia, e spiegando con essa l’origine del Lido di Venezia e di tutti gli altri cordoni littorali. Per l’autore, la formazione dei cordoni littorali è dovuta non all’azione delle onde, ma a quella dei grandi fiumi quaternari, che, incomparabilmente più abbon- danti d’acque degli attuali s’avvanzavano nel mare fino a che, vinta la loro forza, deponevano i materiali che tenevano sospesi formando un cordone lungo la costa, il quale emerse quando le acque marine discesero al loro livello attuale. Così for- mossi il Lido di Venezia per opera del Po; e così formaronsi dagli altri grandi fiumi gli altri cordoni di cui il Lido è ii tipo caratteristico. Quanto alle acque dolci, che si trovano al Lido, esse derivano dal mare ! e per concludere ciò 1’ autore si basa sulle osservazioni fatte sopra una sorgente della spiaggia di Ostia, che, vicinissima al mare, fornisce acqua dolce, e si ve- rificò seguire i movimenti della marea. Moro G. — La grotta del Circeo e il tempio di Serapide in PozzuolL (Ateneo Veneto, S. XIII, Voi. II, 1-2-3). — Venezia. Ai piedi del Monte Circeo, dalla parte che prospetta l’isola di Ponza, si apre verso mare ed a 7 m. circa dal suo livello la Grotta delle Capre; a 3 m. dal suo pavimento le pareti hanno un incavo il quale offre all’autore una prova dell’esistenza del suo mare quaternario, segnando il limite cui esso giunse : inferiormente ad esso le pareti portano traccie evidenti dell’opera dei litofagi. Dalle condizioni locali, l’autore cerca dedurre la durata di quel mare ed il tempo trascorso dal suo 1 abbassamento: stabilisce pure che questo fa rapido e d’intorno a 10 metri. Traccie di litofagi ed altri indizi che confermano le deduzioni precedenti ha trovate, nei dintorni della grotta stessa, a Terracina, presso Orbetello ed altrove, in Italia e fuori. Viene infine 1 autore a parlare del tempio di Serapide, il quale rimonterebbe, a suo giudizio, ai tempi che precedettero quel gran mare quaternario. I Negri G. B. — Sugli strati di tufo basaltico dei dintorni di Teoio negli Euganei . (Riv. di Min. e Cristallogr. it., Voi. IV, 1-2). — Padova. All’incontro della nuova via che conduce a Teoio con la vecchia, ai piedi — 420 — del monte Oliveto, alternano in concordanza con strati eocenici calcareo-marnosi e marnosi, quattro strati di tufo basaltico di potenza variabile fra 1 dm. ed lm. L’autore fece lo studio macroscopico e microscopico della roccia dei due strati estremi, e trovò che il superiore consta di tufo compatto a grana fina, di color grigio-nero con rare macchie rosso-brune, formato di pirosseno, raramente segre- gato in mediocri cristalli, talvolta sotto forma di frammenti di dimensioni fìno- microlitiche, in massima parte cloritizzato ; e rari cristalli di felspato. Il tufo dello strato inferiore ha composizione identica al precedente, solo gli elementi sono maggiori. In ambedue si hanno foraminiferi, eli dimensioni però molto maggiori nell’inferiore che nell’altro. Negri G. B, — Studio cristallografico della Cerussite di Auronzo. (Riv. di Min. e Cristallogr. it., Voi. IV, 4-6). — Padova ; e (Atti Ist. veneto, S, VI, T. VII, 6). — Venezia. La cerussite di Auronzo si trova in frequenti geodi entro una galena limoni- tifera e zincifera. L’autore ha studiato 19 cristalli, e su 3 di essi ha fatto nume- rose misure ; in questa memoria registra i risultati delle osservazioni e misure fatte. Neviani A. — Contribuzione alla geologia del Catanzarese. Il terziario sul versante jonico da Stalletti al fiume Stilaro. (Boll. Soc. geol., Vili, 1). — - Roma. In questa nota il prof. Neviani passa in rivista le formazioni terziarie di quella regione che sul versante jonico si estende da Stalletti al fiume Stilaro, quasi per intero compresa nella provincia di Catanzaro. La più gran parte del lavoro è co- stituita da elenchi di fossili, desunti, oltre che dalle personali osservazioni del- l’autore, dalle opere di Seguenza e di De-Stefani. L’ autore stesso così riassume le formazioni esaminate : Alluvione (Attuale). Arenarie grossolane in dune e pianure littorali (Posterziario recente). Arenarie e piccoli conglomerati sulle colline littorali (Post-Pliocene). Sabbie e 'calcari con Amphistegina Hauerina D’Orbigny, negli altipiani (Siciliano). Sabbie in lembi non continui sulle formazioni argillose e marnose plioceniche specialmente presso Monasterace (Astiano, formazione littoranea). Argille turchine da Stalletti a Soverato, di S. Vito, Cenadi, ecc. (Astiano, formazione di mare non molto profondo). — 421 — Marne calcareo-argillose, zonate, a foraminiferi ed entomostracei : Zancleano secondo Seguenza (Astiano, deposito di mare molto profondo). Calcare marnoso giallastro senza fossili, da Stalletti a Soverato (Mes- sinianoj. Tripoli intercalato col precedente. Arenarie micacee, grigie, con Clipeastri, Balani, eco., presso Serenato (Eive- ziano). Arenarie fossilifere presso Guardatile ; Langhiano, secondo Seguenza (Elve- ziano). Conglomerato gneissico e granitico : strati continui da Stalletti allo Stilano (Aquitaniano o Langhiano). Arenarie variegate del Monte Palatino, prive di fossili (forse Tongriano). Calcari breceiati di Monte Pelliciano e S. Giovanni (Eocene). In una tavola sono date tre sezioni: una da Soverato alla regione II campo; una seconda presso al mare e parallela alla precedente; la terza dalla marina al paese di Badolato. Pseviani A. Avanzi di un Tursiops/ossz’fe, rinvenuti presso Caraffa in prov. di Catanzaro. (Riv. it. di Se. nat., Anno IX, n. 1-2). — Siena. L’autore annunzia il rinvenimento di resti di Tursiops entro le argille astiane del fondo di Serratonda presso Caraffa, e dà i particolari e le dimensioni delle vertebre meglio conservate, cioè di due cervicali, otto dorso-lombari e cinque caudali: risulterebbe per il delfino una lunghezza di almeno 4,m50. La natura dei resti trovati non consente determinazione specifica. A circa lOOm. dal giacimento precedente, trovaronsi quattro piccole vertebre caudali di Eudelphinus sp. simili a quelle precedentemente trovate presso Borgia. Niccoli E. — La frana di Casola-Valsenio ( circondario di Faenza). (Boll. Com. geol., 3-4). — Roma. Casola e posto sulla sinistra del Senio che è quivi piuttosto incassato. Dirim- petto al paese, sulla sponda opposta del fiume, si manifestò il 21 gennaio dello scorso anno una frana, di non grande estensione ma che produsse effetti funesti, e menta un esame per la natura del terreno che vi fu soggetto. Nella presente nota l’ing. Niccoli espone le condizioni locali e tutte le circostanze della frana, per poi passare alla disamina delle sue cause. — 422 — Nel punto in esame si ha una marna del Miocene medio la quale riposa sopra una molassa. Gli strati, leggermente inclinati (8°) pendono verso il fiume. La frana si sviluppò nella marna ; già alla metà del 1888 s’era prodotta nel suolo una spaccatura : nel giorno indicato del gennaio 1889 la frana rovinò d’un tratto. Il terreno non era rammollito, sì bene invece si formarono parecchi piani di scorrimento: cosifatto modo di comportarsi non è quello che parrebbe più consono alla natura del terreno ; e per renderne ragione, l’autore suppone che si abbia avuto un velo d’acqua la quale interponendosi agli strati di marna abbia prodotto il movimento, facilitato dalla fronte libera verso il fiume. Niccoli E. — Escursione delV8 settembre da Sogliano a Pennabilli. (Boll. Soc. geol. it., VII, 3). — Rema. In questa relazione sono registrate le osservazioni fatte dalla Società Geo- logica in quella escursione, in specie sul nummulitico di Montegelli e Barbotto e sulla miniera solfifera di Perticara e suoi dintorni. Nicolis E. — Cenni storici , guida e catalogo ragionato del Museo del- l’Accademia d’ Agricoltura, Arti e Commercio di Verona. (Atti Ac - cad. d’Agr., Arti e Comm. di Verona, S. Ili, Voi. LXV). — Verona. È per noi interessante in questo lavoro il capitolo intitolato : notizie storiche e bibliografiche sulle petrific azioni del Veronese e specialmente sui celebri pesci fossili di Monte Bolca, ed il successivo, nel quale su quest’ultimo argomento è data una bibliografìa che va dal 1572 al 1887. Nicolis E. — Contribuzione alla conoscenza degli strati acquosi del sottuolo della bassa pianura del Veronese e dintorni . — Ve- rona, 1889. Rende conto delle formazioni traversate da perforazioni per ricerca d’acqua e dai lavori del nuovo ponte sull’Adige a Porto Legnago. Oppenheim P. — Die Land-und Susswasserschnecken der Vicentiner Eocànbildungen ; eine palàontologisch-zoogeographische Studie. (K. Akademie der Wissensohaften in Wien, Sitzung der mathem.-na- turw. Classe, n. XIX). — Wien. È un riassunto fatto dall’autore stesso di una memoria intorno ai gastero — 423 — podi terrestri e di acqua dolce dell’Eocene vicentino. Vi si descrivono 49 specie, di cui 29 sono nuove, appartenenti ai gruppi delle Helicidi, Basomatophore, Me- lanidi e Cyclostomide, e si stabiliscono alcuni nuovi sottogeneri, che sono anelli di congiunzione fra forme esotiche dell’ attualità. Negli strati da cui provengono i fossili l’autore distingue due piani: uno in- feriore caratterizzato dall ' Heliaj damnata Al.Brogn, e Cylotus laevigatus Sandbrg. a cui appartengono il tufo principale nummulitico di Ronca ed il tufo lignifico di Val di Mazzini, presso Pugnello, ed uno superiore, caratterizzato dall* Helias amblytropis Sandbrg. e Cyclotopsis vicentina Oppenheim, che comprende i tufi dei Fochesatti, S. Marcello presso Arsignano Capitello, Santa Caterina, ed i strati superiori di Ronca, oltre ai calcari di acqua dolce di Lovari di Tressino, Lenga di Bolca, Noti Lulli e Mussolon. Dalla totale diversità fra la fauna delle conchiglie terrestri vicentine e quella contemporanea parigina, l’autore deduce l’ esistenza di un sollevamento iniziale, ancoraché debole, delle Alpi. Seguono poi interessanti considerazioni zoogeogra- fìche intorno alla analogia delle faune fossili con quelle delle faune attuali di paesi diversi, e deduzioni intorno alla differente distribuzione delle masse conti- nentali in altri periodi geologici. » ) Paglia E. — Il Villafranchiano nei dintorni del lago di Garda. — (Rend. Ist. lomb., S. II, Voi. XXII, 2). — Milano. Per i rapporti stratigrafici e per la composizione l’autore riferisce Villa- franch'ano dei conglomerati e delle puddinghe assai estese nei dintorni dv. ’ lago di Garda, in punti eh’ egli partitamente indica in questa memoria. Appartie ' a quel piano il conglomerato che nella penisola di Sermione sopporta la morer . ; ai due lati del fiume Chiese, ed in modo speciale sul sinistro, tale formazione ha grande sviluppo, continuando per 30 chilometri da Bedizzole a Gargnano, con una larghezza di 8 Cm. presso il primo di questi paesi. È villafranchiano un lembo di puddinga sulla sinistra dell’Adige al monte di S. Ambrogio: ad oriente del lago, in mezzo alle morene da Volta e da Valeggio sino a Caprino, la for- mazione non apparisce in nessun punto. Pantanelli D. — Tufi sementinosi eocenici nell1 Emilia. (Boll. Com. geol., 5-6). — Roma. L’autore comincia coll’ indicare parecchie località in cui egli osservò conglo- merati serpentinosi eocenici nell’Emilia, e sono : fra Quattro Castella e Bergon- zano (Reggio), nella salita da Ciano Val d’Enza a Rossena, e intorno alle — 424 — serpentine dialagiche di Varana ; i conglomerati sono separati dal serpentino * da strati argillosi. Ricorda quindi che Taramelli, Lotti, De Stefani, Issel e Maz- zuoli hanno osservato lo stesso fatto altrove; gli autori non sono però d’ac- cordo intorno alla posizione dei conglomerati rispetto alle serpentine, ritenendo taluni quelli superiori, altri superiori ed intercalati a queste: il prof. Pantanelli li ha osservati invece inferiori, ma non si diffonde su questo punto, senza impor- tanza per l’argomento della nota attuale che è di indicarne l’origine. Ritenuto che le serpentine sono prodotto di eruzioni sottomarine effettuatesi a profondità non necessariamente molto grandi, l’ autore ammette che i conglo- merati ed arenarie serpentinose che le accompagnano sieno il prodotto di una fase esplosiva dell’eruzione: sicché tali roccie sarebbero veri tufi serpentino si. Pantanelli D. — Sopra i resti di un sauriano trovati nelle argille scagliose di Gombola nel Modenese. (Comunicazione). (Boll. Soc. geol , Vili, 1). — Roma. In una frana delle argille scagliose di Gombola (Lama di Mocogno, sinistra del torrente Rossenna) si trovò nel gennaio 1889 un frammento di sauriano, comprendente parte dei mascellari, delle ossa nasali, e vari denti. Il Pantanelli lo descrive in questa nota e lo ritiene un Gavialide certamente differente da quelli sin ora noti del terziario ; ma il frammento non consente una esatta determina-' zione, sicché l’ autore si limita a denominarlo Gavialis mutinensis , senza indi- care il sottogenere. Le condizioni in cui è stato trovato non escludono che appartenga a terreni più recenti dell’Eocene; ma sembra però doversi riferire a questo. Sarebbe il primo vertebrato trovato nelle argille scagliose dell’Appennino settentrionale, al- cuni denti di Ptychodus trovati in simili terreni essendo, secondo l’autore, proba- bilmente cretacei. Pantanelli D. — Pleurotomidi del Miocene superiore di Montegibio. (Boll. Soc. Mal. it., Voi. XIV). — Pisa. Questa nota è continuazione di quella pubblicata lo scorso anno sotto il ti- tolo di (( Descrizione di conchiglie mioceniche nuove o poco note. » È scritta in base al catalogo manoscritto del Museo di Modena, fatto nel 1881 dal profes- sore Doderlein; e comprende l’enumerazione di 111 specie, alcune delle quali nuove, con l’esame critico delle particolarità delle più importanti fra di esse. Di queste specie, 79 sono citate dal Beffardi per il Piemonte e la Liguria. — 425 Parona C. F. — Studio monografico della fauna raibliana di Lom- bardia. — Pavia, 1889. La fauna raibliana lombarda era sino ad ora assai poco nota: Ilauer ne aveva descritto sette specie, lo Stoppani avea dato l’elenco dei fossili di Corno e Dossena, e Deecke avea fatto nel suo lavoro sulla formazione raibliana delle prealpi lombarde, considerazioni paleontogiche forzatamente limitate dalla scar- sità di dati di cui disponeva. Le località che fornirono al Parona il materiale della presente importante monografìa sono parecchie, ma le più ricche sono le cave per cemento di Acquate (Val Galdone presso Lecco) e la valletta del Rogno (presso Gorno in Val Seriana). La fauna raibliana lombarda risulta con- tare 46 generi con 103 specie, per la massima parte molluschi della classe dei pelecipodi, pochi gasteropodi, rari cefalopodi e brachiopodi e ancora più rari echinodermi, corallari e spongiari. Nell’insieme la fauna del giacimento di Acquate è sensibilmente diversa da quella delle altre località, ma esse sono provate con- temporanee dalla comunanza delle specie più caratteristiche. Le condizioni stratigrafìche analoghe e la comunanza delle specie più carat- teristiche inducono l’autore a ritenere che la fauna raibliana del Friuli sia con- temporanea e simile a quella che forma oggetto del presente lavoro. Questa pre- senta stretti rapporti con quella degli strati di S. Cassiano, che perde così il suo carattere di fauna isolata fra le altre del Trias, ed è stabilita la successione, ed in parte la derivazione della prima dalla seconda. Resta così confermato quanto ammetteva il Deecke, la equivalenza cioè della parte superiore degli strati di S. Cassiano con la base degli strati raibliani di Lombardia. Il Parona alle considerazioni paleontologiche , così qui brevemente indi- cate nei loro tratti principali, fa precedere l’esame stratigrafico del raibliano lombardo, fatto quasi esclusivamente sulla scorta dei lavori del prof. Tarameli! e del dottor Deecke. La parte restante della monografìa, di gran lunga la più estesa, è dedicata alla descrizione delle specie, che sono pure rappresentate in 13 tavole. Parona C. F. — Note paleontologiche sul Lias inferiore nelle Prealpi lombarde. (Rend. Ist. lomb., S. II, Voi. XXII, 8). — Milano. Mentre attende ad una monografìa della fauna di Saltrio, 1’ autore indica in questa memoria i risultati principali del suo studio, aggiungendovi notizie sui ca- ratteri paleontologici del Lias inferiore di altre patti delle provincie di Bergamo e di Como. — 426 — In questa memoria è registrato l’elenco delle specie determinate dall’ autore nella formazione di Saltrio : la quale risulta corrispondere certamente ad uno dei i piani più alti del Lias inferiore. Dall’esame del Lias inferiore di Lombardia egli conclude che: in Lombardia sopra gli strati ad Amcula contorta sono sconosciuti i rappresentanti della zona ad Aegoceras planorbis od a Psilonoti. Alla zona ad Aegoceras angulatum e ad Arietites Bucklandi corrispondono i calcari neri selciosi ad arietiti di Carenno in Val d’ Erve e probabilmente il calcare bianco-gialliccio ad arietiti del Monte di Grone in Val Cavallina, i calcari neri ad arietiti di Givate e Galbiate, di Careno, Canate e Moltrasio nella provincia di Como. Vi corrispondono anche i calcari neri selciosi a brachiopodi della vetta del Monte Generoso, i calcari grigi a Rhynchonellina di Vall’Adrara, la dolomia a Pecten di Zandobbio (Trescorre), la roccia selciosa a Spiriferine di S. Bernardo d’Almenno ed il calcare grigio a brachiopodi di Strozza in Vall’Imagna. Alla zona a Pentacrinus tuberculatus, Arietites obtusus, Oxynoticeras oxy- notus spettano i calcari ammonitici del Monte Sisma e del Monte Albenza, ed i calcari a cefalopodi, a gasteropodi ed a bivalvi di Saltrio e di Val Marianna in provincia di Como. Probabilmente spetta a quest’orizzonte anche il calcare rosso marmoreo a Diotis Janus Mgh. di Nese in Valseriana. Partsch J. — Die Haujptkette des Zentral Apennins. (Verhandl. d. Gesell. f. Erdk. zu Berlin. Bd. XVI, n. 9). — - Berlin. In questa conferenza letta il 12 ottobre 1889, l’autore dopo avere riassunto elegantemente quanto scrissero dell’Appennino Centrale Suess, Spada e Orsini, Zittel, Canavari e Baldacci, si ferma specialmente sulle traccie dei fenomeni glaciali nel gruppo della Sibilla e del Gran Sasso. Per la Sibilla trova evidenti tali traccie nell’alta valle dell’Aso fra il Vettore e la Cima Petrara fino a 1820 m. di altezza. Pel Gran Sasso morene e traccie glaciali si troverebbero nelle valli del Rio Arno e del Venaquaro e scenderebbero nella prima fino a 1650 m., nella seconda a 1950, per tacere di altre dubbie, che arriverebbero fino a 1190 m. Pelacani L. — Appunti intorno alla miniera dell' Argentiera (Sar- degna). (Riv. it. di Se. nat., Anno IX, 15-16). — Siena. Questa nota contiene alquante sommarie notizie intorno alla geologia del di- stretto dell’Argentiera all’estremo N.O della Sardegna. — 427 — Quei monti sono quasi esclusivamente formati da micascisti siluriani, poggianti direttamente sulle formazioni granitiche. I micascisti sono qua e là attraversati da grossi filoni di granito porfiroide e di quarzo, associati a solfuri metallici che formano oggetto di una importante industria mineraria. La miniera dell’Argentiera è l’unica in tutta la Sardegna a matrice di quarzo. Piatti A. — La sorgente termo-solforosa di Sermione sul lago di Garda. (Boll. Com. geol., 9-10). — Roma. Il prof. A. Piatti in questa sua nota rende conto di osservazioni recente- mente fatte sulla sorgente termo-solforosa di Sermione nel lago di Garda, intorno alla quale aveva già dato alcune notizie nel Bollettino del Comitato geologico del 1887. L’ estremità di un tubo artesiano fu introdotta nel foro dal quale scaturisce la più importante delle polle, e che è posto al centro d’una depressione di più d’un metro di diametro. Quasi subito si ebbe un getto d’acqua che saliva a circa due metri sul livello del lago ed aveva 58°di temperatura. Parecchi giorni dopo l’autore trovò la stessa temperatura. L’ acqua fu trovata contenere molto acido solfìdrico, dell’acido carbonico libero, dei solfati di magnesio, di sodio e di ferro, e traccie di carbonati, di ioduri e di tannino. L’autore misurò la profondità delle differenti polle, delle quali la maggiore è a 17m, 40, e rilevò pure le profondità del fondo su una linea E-0 che dalla spiaggia va alla sorgente. Piolti G. — Gneiss tormalinifero di Villar Focchiardo {Val di Susa). Cenni descrittivi . (Atti Acc. Se. Torino, Voi. XXIV, 13). — Torino. La roccia argomento del presente lavoro è compresa nella ellissoide gneissica detta dal Gastaldi ellissoide Dora-Vàraita: essa è un gneiss tormalinifero che in qualche punto passa a granito. L’ing. Zaccagna parlando di quella ellissoide ha osservato che lo gneiss trasformasi talora in granito, e specialmente nelle loca- lità ove l’ellissoide per la potenza minore mostra esser stata soggetta ad ener- giche pressioni laterali. Scopo principale del dott. Piolti si è appunto quello di dimostrare che il gneiss tormalinifero presenta prove di forti pressioni. Il gneiss tormalinifero di Villar Focchiardo, ha l’aspetto d’un gneiss musco- vitico, però la mica vi è in minima proporzione ed è sostituita da tormalina, che vi è variamente ^disposta. La densità è 2,6, uguale al valor minimo indicato da Zirkel per lo gneiss. I componenti normali sono quarzo, ortosio, mica bianca e tormalina : elementi accessori sono la mica scura, molto rara, ed il microclino. — 428 — Il quarzo presenta spesso sezioni allungate e spezzate, indizio che la roccia ha subito forti pressioni. Si hanno grossi individui di ortose di prima consolida- zione rotti, e le fenditure sono riempite da quarzo secondario ; oltre alla rottura osservasi pure uno spostamento effettuatosi dopo che il quarzo aveva riempito le fenditure. In qualche preparato l’ortose presenta quell’aspetto di reticolati rettan- golari che sono forse prodotti, secondo De Lasaulx, da pressioni subite dalla roccia ; e taluni cristalli geminati presentano pure quella estinsione che fu detta ondulata ed è forse in rapporto con la stessa causa. La tormalina presenta frequenti rotture, distorsioni e spostamenti. Con forti ingrandimenti si vede che essa è solcata da un’ infinità di strie incrociantisi ad angolo retto ; e ciò pure è dovuto probabilmente a pressione. Piolti G. — Il piano del Moncenisio. (Boll. Club. alp. it., Voi. XXII, n. 55). — Torino. In questa nota l’autore accenna alle escavazioni in forma di imbuti che os- servansi nel gesso del Moncenisio, ricordando anche quanto ne scrisse il De Saussure: enumera pure i minerali che furono segnalati come esistenti al Monce- nisio (pirite, galena, calcopirite, quarzo, albite, asbesto, calcite, dolomite, gesso) e indica per parecchi di essi il giacimento. Platania G. — Stromboli e Vulcano nel settembre del 1889. (Boll. deirOss. meteorol. del R. Ist. nautico di Riposto). — Riposto. In questa nota l’autore rende conto delle osservazioni fatte a Stromboli e Vulcano nel settembre dello scorso anno, quand’egli vi si recò con la comitiva di geologi inglesi venuti in Italia a studiarvi le regioni vulcaniche. Pollini C. — Sopra alcuni avanzi di pesci fossili terziari , conservati nel Museo geologico della R. Università di Genova . — Milano, 1889. Gli ittioliti argomento della presente memoria provengono da varie località della Liguria (Santa Giustina, Sassello, Mioglia, Ponzone, Morbello, Dego, Car- care, Pareto, Stazzano e Serravalle Scrivia) ed in minor numero da Rosignano Monferrato e dai Colli torinesi. I giacimenti di Liguria appartengono al Tongriano, ad eccezione di quello di Serravalle che è elveziano, e quello di Stazzano, torto- mano; i giacimenti di Rosignano e dei Colli di Torino sono elveziani. Le specie sono diciasette, appartenenti agli Elasmobranchi pleurotremi ed — 429 — ai Teleostei : una, proveniente da Santa Giustina e rappresentata dallo scheletro, è nuova ed è dall’autore denominata Rhombus ligusticus. La descrizione dei fossili è preceduta da un’assai estesa nota di opere che si riferiscono ai pesci fossili italiani, con un cenno del contenuto del maggior numero di esse. In una tavola sono figurati il Rhombus ligusticus ed alcuni denti di altre specie. Portis A. — Nuove località fossilifere in Val di Susa. (Boll. Corri, geol., 5-6). — Roma. Ai già numerosi giacimenti alpini a piante carbonifere uno nuovo se ne ag- giunge scoperto dall’ing. Mattirolo ed illustrato dal prof. Portis nella presente nota. La massima parte delle montagne che formano il lato destro dell’alta Valle Stretta di Melezet sopra Bardonnecchia è, secondo il Mattirolo, costituita da are- narie carbonifere con letti di schisti ardesiaci neri o grigiasti inclinati, salve nu- merose accidentalità, verso l’esterno della valle : esse sopportano a luoghi lembi triassici. Tali scisti presentano su una grande estensione e specialmente al sommo ed al colle della Tempesta traccie ed impronte di piante, nelle quali l’autore rico- nobbe : Sphenopteris Hoeninghausii Brongt., Dicksoniites Pluckenetii (Schloth. sp.) Brongt sp., Lepido dendron Sternbergii Brongt., Lycopodium, denticulatum (Gold.; Schimper, Lepidophyllum trilineatum Heer, L. majus Brongt., Distrigo - phyllum bicarinatus (Lindi, sp.) Heer ?, Calamites Succovii (Brongt. ex. p.) Stur emend., Cistii C. Brongt., C. ramosus Artis, Calamaladus Asterophyllites , Wol - kmanniae aut., Bruckmanniae , etc. (rami, foglie, spighe, radici). Cordaites (Ea- cordaites ) borassifolius Sternb. Cordaites ( Poa-C .) microstachys Goldemb. La Sphenopteris Hoeninghausii , il Lycopodium denticulatum ed il Cala- mites ramosus sono nuove per le Alpi occidentali : l’ultima specie venne però ultimamente (1889) riconosciuta da Haug nel prolungamento dei depositi del Del- finato a Barles. Dallo esame della precedente flora, l’autore conchiude che nella regione stu- diata sono rappresentati tanto il livello del Delfinato (inferiore) quanto quello della Tarantasia (superiore). La seconda parte della memoria del prof. Portis è consacrata all’esame dei fossili di due nuove località triasiche, posta l’una a valle del piccolo cono di de- fezione dei valloncini sboccanti sotto l’abitato del Gad d’Oulx a pochi metri sul livello della Dora, e l’altra a 12 Cm., al Colle des Acles ; la prima esplorata dall’ing. Zaccagna e l’altra dall’ing. Mattirolo. Della prima località Fautore ha determinato: Natica sp. aff. N. pulla Goldf., Natica sp. aff. N. escculpta Schaur., — 430 — . Myophoria sp. aff. M. elegans Dunk., Lima costata Munsi, Diplopora pauci- forata Gùmb. Dal Colle des Acles si ha : Diplopora pauciforata Giimb., e, dubi- tativamente D . minutula Gùmb. sp. Questi fossili, e particolarmente la Diplopora pauciforata inducono l’autore a collocare i due lembi triasici nel Muschelkalk inferiore, parallelizzandoli cioè col calcare a brachiopodi (o di Recoaro) delle Alpi lombarde e venete. Portis A. - — Di alcuni Gimnodonti fossili italiani. (Boll. Corri, geol., 11-12). — Roma. Essendosi accinto allo studio di un’interessante placca dentale di Diodontide raccolta dal doti Tellini nell’Eocene di Castel Madama presso Tivoli, il prof. Portis si vide condotto a prendere in esame gli altri resti di quel genere prece- dentemente trovati in Italia. Ed il presente lavoro comprende la descrizione di quelli fra questi resti non ancora noti, cui precede la discussione di quanto fu scritto sino ad ora intorno ai Gimnodonti fossili. L’autore giunge alla conclusione di doversi rapportare tutte le specie di Gimno- donti fossili fin qui note al genere Diodon, abolendogli altri generi Heptadio don, Gymnodus e Progymnodon , siccome quelli che erano fondati sopra un carattere necessario ecostante nei Diodon e soggetto a variazioni solo atte a fornire specie differenti. Il genere Diodon potrebbe, secondo l’autore, dividersi in tre sezioni, per le quali propone i nomi di Cheimediodonti, Clinodiodonti ed Ortodiodonti, le quali differiscono per i caratteri della placca dentale interna, superiore od inferiore. Si hanno rappresentanti fossili di queste tre sezioni: solo le due ultime hanno rappresentanti viventi. Le specie descritte nella presente memoria sono le seguenti, tutte nuove : 1) Diodon gigantodus; trovato nel Bartoniano di Castel Madama (Tivoli). 2) Diodon meristodus ; raccolto nel Bartoniano di Gassino. 3) Diodon platyodus ; proveniente dal Tongriano di Mornese (Appennino ligure) e da quello di Santa Trinità. 4) Diodon Rocasendae ( Phyllodus incerta s Michelotti), proviene dal Barto- niano di Gassino. 5) Diodon stenodus ; raccolto nelle sabbie langhiane od elveziane della Collina di Torino. Le placche dentali, per cui le precedenti specie sono conosciute, sono figu- rate in una tavola unita alla presente memoria. L’autore osserva ancora che delle 16 specie di Diodonti fossili conosciute, il più gran numero appartengono all’Italia e si trovano nei vari piani del terziario, ma particolarmente nell’Eocene superiore. — 431 Rambotti V. — Cenni sulla costituzione geologica del littorale jonico da Cariati a Monasterace : con osservazioni e note di A. Neviani. (Boll. Soc. geo!., VII. 3). — Roma. Il defunto ing. Rambotti aveva lasciato una Carta geologica al 1/200,000 del litorale jonico compreso fra Cariati e Monasterace, accompagnata da una descri- zione. Entrambi questi lavori rimasero sino ad ora ignoti. Il prof. Neviani ha cu- rato nel Bollettino della Società geologica la pubblicazione della memoria descrit- tiva, della Carta dei dintorni di Catanzaro e d'una tavola di sezioni. Lo scritto del Rambotti contiene molte interessanti osservazioni ; e il prof. Neviani ha aggiunto in nota alcune notizie di quanto sull’argomento fu scritto dopo la morte dell’ autore. Ricciardi L. — Genesi e composizione chimica dei terreni vulcanici italiani . (L’Agricoltura italiana, Anni XIV-XV). — Firenze. Questo lavoro del prof. Ricciardi è diretto a presentare un quadro della com- posizione di quella parte del suolo italiano la quale è formata da roccie cristal- line e vulcaniche ; e ciò nell’intento di giovare all’agricoltura. In esso è riportato buon numero di analisi di tali roccie, eseguite dall’autore e da altri. Riccio L. — Nuovi documenti sull' incendio vesuviano dell ’ anno 1631 e bibliografia di quella eruzione. (Archivio storico p. le prov. napol., Anno XIV, n. 3). — Napoli. L’originale di questi documenti, prima d’ora inediti, esiste a Montpellier nella Biblioteca di quella Facoltà di medicina. Sono varie lettere scritte da Napoli sul finire del 1631 e sul cominciare del 1632 dal Padre Capece e dal marchese di Villa, G. B. Mauro, oltre una relazione d’ignoto autore, ed una serie di brevi lettere, notizie, ecc., anonime (1631,1632). Questi nuovi documenti hanno, come osserva l’au- tore, importanza perchè confermano fatti già segnalatila altri scrittori contemporanei. A queste pubblicazioni tien dietro un elenco comprendente 132 numeri di scritti del tempo riferentesi a quell’eruzione. {Continua). PUBBLICAZIONE DELLA CARTA GEOLOGICA D’ITALIA PER CURA DEL R. UFFICIO GEOLOGICO PARTI PUBBLICATE (al 31 Ottobre 1890) Carta geologica della Sicilia nella scala di 1/100 000 : Foglio N. 244 (Isole Eolie) prezzo L. 3 00 Foglio N. 262 (Monte Etna) . . L. 5 00 » 248 (Trapani) . . . » 3 00 » 265 (Mazzara del Vallo)» 3 00 » 249 (Palermo) . . . » 4 00 » 266 (Sciacca) . . . » 4 00 » 250 (Bagheria). . . » 3 00 » 267 (Canicattì) . . . » 5 00 » 251 (Cefali)) . . . . » 3 00 » 268 (Caltanissetta) . » 5 00 » 252 (Naso) .... » 4 00 » 269 (Paterno) . . . » 5 00 » 253 (Castroreale) . . » 4 00 » 270 (Catania) . . . » 3 00 » 254 (Messina) . . . » 4 00 » 271 (Girgenti) . . . » 3 00 » 256 (Isole Egadi) . . », 3 00 » 272 (Terranova) . . » 4 00 » 257 (Castelvetrano) . » 4 00 » 273 (Caltagirone) . . » 5 00 » 258 (Corleone) . . . » 5 00 » 274 (Siracusa) . . . » 4 00 » 259 (Termini Imerese). » 5 00 » 275 (Scoglitti) . . . » 3 00 » 260 (Nicosia) . . . » 5 00 » 276 (Modica) . . . » 3 00 » 261 (Bronte). . . » 5 00 » 277 (Noto) . . . . » 3 00 Tavola di sez. N. I (annessa ai fogli 249 e 258) L. 4 00 » » N. II (annessa ai fogli 252, 260 e 261) » 4 00 » » N. Ili (annessa ai fogli 253, 254 e 262) » 4 00 » » N. IV (annessa ai fogli 257 e 266) » 4 00 » » N. V (annessa ai fogli 273 e 274) » 4 00 NT.B. — L'intiera Carta della Sicilia, in 28 fogli e 5 tavole di sezioni, con quadro d'unione e copertina, è in vendita al prezzo di lire 100. Carta geologica della Sicilia nella scala di 1/500 000 (serve anche di foglio di unione della*1 precedente) con sezioni prezzo L. 5 00 Descrizione geologica dellTsola di Sicilia, con una Carta geologica, tavole in zincotipia ed incisioni, delTlng. L. Baldacci prezzo L. 10 00 Carta geologica dell’ Isola d’ Elba, nella scala di 1/25 000 con sezioni annesse (in due fogli) . . prezzo L. 10 00 Descrizione geologica dell’ Isola d’ Elba, con Carta annessa nella scala di 1/50 000, dellTng. B. Lotti prezzo L. 10 00 Relazione sulle miniere di ferro dell’Isola d’Elba, con un atlante di carte e sezioni geologiche, dellTng. A. Fabri . . . prezzo L. 20 00 Carta geologica della Campagna Romana e regioni limitrofe, nella scala di 1/100 000 (sei fogli e una tavola di sezioni) . prezzo L. 25 00 HL B. — Sono pure in vendita i fogli separati ai prezzi seguenti : Civitavecchia ( L . 4) Bracciano {L. 5); Palombara (L. 5); Cerveteri (L. 4); Roma (L. 5); Cori ( L . 4). Carta geologico-mineraria dell’ Iglesiente (Sardegna), nella scala di 1/50 000 (in un foglio) prezzò L. 5 00 Descrizione geologico-mineraria dell’Iglesiente, con un atlante di XXX tavole e una Carta geologica, dell’ Ing. G. Zoppi. . . . prezzo L. 15 00 Descrizione geologico-mineraria della zona argentifera del Sarrabus (Sarde- gna), con una Carta geolog., dellTng. C. De Castro prezzo L. 8 00 Carta geologica dell’Italia, in due fogli, nella scala di 1/1 000 000 (seconda edizione riveduta della Carta pubblicata nel 1881). . . prezzo L. 10 00 Pubblicazioni in vendita presso l’Ufficio Geologico ' Bollettino del R. Comitato Geologico d’Italia; Voi. I a XX, dal 1870 al 1889 — Prezzo di ciascun volume .*■ L. 10 — Idem di un fascicolo bimensile separato » 2 — N.B. - Il prezzo di abbonamento annuo b di L. 8 per V interno e di L. IO per V estero. Memorie per servire alla descrizione della Carta geologica d’Italia: Yol. I. Firenze, 1872 » 35 — Voi. IL Firenze, 1873-74 » 30 — Yol. III. Firenze, 1876-88 » 25 — I. Cocchi. — Brevi cenni sui principali Istituti e Comitati geologici e sul R. Comitato Geologico d’Italia. Firenze, 1871 » 1 50 P. Zezi. — Cenni intorno ai lavori per la Carta geologica in grande scala. Poma, 1875 » 1 F. Giordano. — Esposizione in ordine cronologico delle principali disposi- zioni successivamente emanate relativamente alla Carta geologica d’Italia. Poma, 1879 » 1 — F. Giordano. — Cenni sull’organizzazione e sui lavori degli Istituti geologici esistenti nei vari paesi. Poma, 1881 » 1 50 G. Capellini. — Relazione a S. E. il Ministro di Agr. Ind. e Comm. sul Congresso geologico internazionale del 1881. Roma, 1881 .... » 1 — C. W. C. Fuchs. — Carta geologica dell’Isola d’ Ischia; scala di 1/25,000. Firenze, 1873. » 2 — C. Doelter. — Carta geologica delle isole Ponza, Palmarola e Zannone ; scala di 1/20,000. Poma, 1876 » 2 — C. De Giorgi. — Abbozzo di Carta geologica della Basilicata; scala di 1/400,000. Poma, 1879 » 2 — C. De Giorgi. — Carta geologica della provincia di Lecce; scala di 1/400,000. Poma, 1880 » 2 — G. Capellini. — Carta geologica dei monti di Livorno, di Castellina Ma- rittima e di parte del Volterrano ; scala di 1/100,000. Poma, 1881 . » 3 — G. Capellini. — Carta geologica della provincia di Bologna ; scala di 1/100,000. Poma, 1881 » 4 — G. Capellini. — Carta geologica dei dintorni del golfo di Spezia e Val di Magra inferiore; 2a edizione; scala di 1/50,000. Poma, 1881 . . » 3 — T. Taramelli. — Carta geologica del Friuli, con testo descrittivo ; scala di 1/200,000. Udine, 1881 » 7 — T. Taramelli. — Caria geologica della provincia di Belluno, con testo descrittivo; scala di 1/172,800. Pavia, 1883 . » 7 — Bibliographie géologique et paleontologique de l’Italie. Bologne, 1881 . . » 10 — Bibliografia geologica e paleontologica della provincia di Roma. Poma, 1886 » 2 — Bibliografia geologica italiana per l’anno 1886. Roma, 1887 » 1 50 Idem idem per l’anno 1887. Poma, 1888 » 1 50 Idem idem per l’anno 1888. Poma, 1889 » 1 50 Annunzi di pubblicazioni Fr. Bassani. — Il calcare a Nerinee di Pignataro Maggiore in provincia di Caserta (Rendiconto dell’Acc. delle Scienze fìsiche e matematiche S. 2a, Voi. IV, fase. 7 e 8). — Napoli, 1890 ; pag. 6 in-4°. A. Verri. — La « Melania Verrii » De Stef. nel delta del Tevere plioce- nico (Bollettino della Soc'. Geologica Italiana, Voi. IX, fase. 1°). — Roma, 1890* pag. 26 in-8°. G. B. Cacciamali. — Gli elefanti fossili di Val di Cornino (Ibidem). — Roma, 1890; pag. 4 in-8°. E. De Nicolis. — Nuova contribuzione alla conoscenza della costituzione della bassa pianura veronese e della relativa idrografìa sotterra- nea (Ibidem). - Roma, 1890; pag. 6 in-8°. C. F. Parona. — Brevi notizie sulla fauna carbonifera del Monte Pizzul in Carnia (Ibidem). — Roma, 1890; pag. 15 in-8°. L. Bozzi. — La flora carbonifera del Monte Pizzul in Carnia (Ibidem). — Roma, 1890 ; pag. 15 in-8°. G. Antonelli. — Il pliocene nei dintorni di Osimo e i suoi fossili carat- teristici (Ibidem). — Roma, 1890; pag. 22 in 8°.. Idem. — Alcune osservazioni sui terreni e sulle sorgenti minerali del- 1’ Aspio (Ibidem). — Roma, 1890 ; pag. 8 in-8°. Idem. — Bradisismi di una parte della costa adriatica (Ibidem). — Roma, 1890 ; pag. 14 in-8°. C. E. Parona. — Radiolarie nei noduli selciosi del calcare giurese di Cittiglio presso Laveno (Ibidem). — Roma, 18E0; pag. 42 in-8° con sei tavole. E. Sacco. — Relazione geologica sopra un progetto di derivazione d’acqua dal torrente Giandone. — Torino, 1890; pag, 18'in-4° con una carta geo- logica. E. Artini. — Studii petrografìci su alcune rocce del Veneto (Giornale di> Mineralogia, Cristallografia e Petrografìa, Voi. 1°, fase. 2°). — Pavia, 1890; pag. 20 in-8° con due tavole. I. Chelussi. — I porfidi quarziferi del colle di Buccione e del monte Mesma sul lago d’Orta (Ibidem, fase. 3°). — Pavia, 1890; pag. 8 in-8°. E. Virgilio. — Il pernio-carbonifero di Valle Stretta nell’ alta valle della Dora Riparia (Atti della R. Accademia delle Scienze, Voi. XXV, disp. 14a). — Torino 1890; pagi 12 in- 8° con una Carta geologica. G. Platania. — I fenomeni sottomarini durante l’eruzione di Vulcano nel 1888-89. — Acireale, 1890 ; pag. 16 in- 8° con tre tavole. A. Schneider. — La miniera cuprifera di Montecatini in Val di Cecina. — Firenze, 1890; pag. 88 in-8°, con due tavole. C. De Castro. — Descrizione geologico-mineraria della zona argentifera del Sarrabus in Sardegna (Memorie descrittive della Carta geologica d’Italia, Voi V). — Roma, 1890 ; pag. 80 in-8° con sei tavole e una Carta geologico-mineraria annessa. P. Franco. — Studii sull’ idocrasia del Vesuvio ; nota preliminare (Bol- lettino della Società dei Naturalisti, Voi. IV, fase. 2°). — Napoli, 1890; pag. 16 in-8°. T. Taramelli. — Carta geologica della Lombardia nella scala di 1 a 250 000. — Milano, 1890; un foglio con fascicolo di Spiegazione. A. Tommasi. — Rivista della fauna raibliana del Friuli (Annali del R. Isti- tuto tecnico di Udine, Serie II, Anno Vili). — Udine, 1890 ; pag. 96 in-4° con quattro tavole. SCiEJgTlA- IlVDUSTg^; D’ITALIA Novembre e Dicembre Anno 1890 foL XXI della Raccolta ». 11 6 12 Voi. I della 3“ Serie P t w EOMA TIPOGRAFIA NAZIONALE J7. 1890. ELENCO del personale componente il Comitato e l’Ufficio Geologico R. Comitato Geologico. Capellini Giovanni, prof, di geologia nella R.Università di Bologna, Presici. Cocchi Igino, prof, di geologia, a Firenze. Cossa Alfonso, prof, di chimica nella R. Scuola di applicazione per gli ingegneri in Torino. De Zigno Achille, membro del R. Istituto Veneto, a Padova. Gemmellaro Gaetano Giorgio, prof, di geologia, R. Università di Palermo. Omboni Giovanni, prof, di geologia nella R. Università di Padova. Scacchi Arcangelo, prof, di mineralogia nella R. Università di Napoli. Scarabelli Giuseppe, senatore del Regno, a Imola. Stoppani Antonio, professore di geologia nel R. Istituto' tecnico supe- riore di Milano. Strììver Giovanni, prof, di mineralogia nella R. Università di Roma. Taramelli Torquato, prof, di geologia nella R. Università di Pavia. Il Direttore del R. Istituto geografico militare in Firenze. Giordano Felice, ispettore-capo del R. Corpo delle Miniere, a Roma. Pellati Niccolò, ispettore nel R. Corpo delle Miniere, a Roma. Personale addetto ai lavori della Carta Geologica. Direzione superiore : Ing. Giordano Felice, Direttore. Ing. Pellati Niccolò. Ufficio geologico: Ing. Zezì Pietro, Capo d’ufficio e Segretario del Comitato. Ing. Sormani Claudio. Dott. Di Stefano Giovanni, paleontologo. Ing. Aichino Giovanni. Sig. Lusvergh Cesare, aiutante. Geologi operatori : Ing. Baldacci Luigi. Ing. Lotti Bernardino. Ing. Cortese Emilio. Ing. Zaccagna Domenico. Ing. Mattirolo Ettore. Ing. Viola Carlo. Ing. Novarese Vittorio. Ing. Sabatini Venturino. Ing. Franchi Secondo. Sig. Fossen Pietro, aiutante. Sig. Cassetti Michele, aiutante. Sig. Moderni Pompeo, aiutante. La sede dell’Ufficio geologico è in Roma nel Museo agrario-geologico, via Santa Susanna, n. 1-A. BOLLETTINO DEL R. COMITATO GEOLOGICO D’ ITALIA. Serie III. Voi. I. Novembre e Dicembre 1890. N. 11 e 12. SOMMARIO. Memorie originali. — I Della formazione lehrzolitica di Baldissero nel Canavese ; nota del Prof. A. Issel. — II. Sopra un affioramento di schisto bituminoso a Santopadre in provincia di Caserta ; nota del Prof. G. B. Cacciamali. — 111. Osservazioni geologiche sulle Isole Tremiti e sull’Isola Pianosa nell’Adria- _ tico, del Dott. A. Tellini. Notizie bibliografiche. — Bibliografia geologica italiana per 1’ anno 1889. ( Conti- nuazione e fine y v. fascicolo n. 9 e 10). ^ Notizie diverse. Il Devoniano in Calabria (E. Cortese). Cenno necrologico : Orazio Silvestri. Avviso di pubblicazione della Carta geologica d’ Italia. Tavole ed incisioni. — Sezione geologica presso Santopadre, a pag. 438. — Tav. XI ri„ « ai X ? annesse alla memoria sulla geologia delle Isole Tremiti, a pai?. 514. Elenco del personale del Comitato ed Ufficio geologico alla fine del 1890. parte ufficiale, — Lettera con la quale il Presidente del Comitato trasmette al Ministero di Agricoltura, Industria e Commercio i verbali delle adunanze 17 18 e 19 dicembre 1890. — Regolamento interno del Comitato geologico ap- provato nella seduta del 18 dicembre 1890. ^ MEMORIE ORIGINALI I. Bella formazione lehrzolitica di Baldissero nel Canavese; nota del Prof. A. Issel. A ponente di Baldissero, non lunge da Oastellamonte (circondario d Ivrea), si estende, da N.E a S.O, una massa di roccie magnesiache, di circa 3 chilometri di lunghezza con larghezza massima di 750 metri, la quale costituisce una catena di colline tondeggianti, nude, aridissime, che emergono da un deposito alluviale, quaternario e da piccoli rilievi morenici. Presso i ruderi dell’antica Torre Cives, si trova il punto più elevato della catena collinesca, alto m. 582 sul livello del mare e circa 200 sul letto della vicina Chiusella. La roccia più abbondante in questa formazione è una lehrzolite — 434 — descritta sotto F aspetto petrografico dallo Striiver fino dal 1874 1 e studiata poi chimicamente dal Cossa 2. E poi associata alla lehrzolite, alla quale passa per graduate transizioni, la serpentina normale, ma in copia relativamente scarsa. Come già fu avvertito dallo Striiver, sif- fatta serpentina è analoga pei suoi caratteri esterni a quella della Li- guria orientale e della Toscana. La lehrzolite apparisce alterata in alcuni tratti, massime verso Nord e S.O, per la sua metamorfosi più o meno progredita in serpen- tina; altrove, per esempio lungo il margine orientale della formazione, sembra parzialmente convertita in magnesite impura (in quel minerale ricercato dall’industria ; ceramica sotto il nome di baldisserite ), ma- gnesite che acclude numerosi adunamenti di semiopale 3. La formazione di cui si tratta non è ancora particolarmente illu- strata dal punto di vista geologico; ma parecchi autori, e in ispecie il Gastaldi 4 e il Baretti 5, la ricordano come parte di quella zona pre- paleozoica, detta delle pietre verdi, che ha tanto sviluppo nelle Alpi occidentali. Anche nelle recenti mappe del Reale Comitato geologico figura la detta formazione come pertinente alle pietre verdi. Durante reiterate dimore nel Canavese ebbi occasione di visitare più volte il territorio di Baldissero e, recentemente, nel delimitare i confini della massa rocciosa lehrzolitica, fui condotto ad osservare i suoi rapporti di sovrapposizione con certe assise fossilifere, in modo da poter arrischiare qualche apprezzamento circa il posto che le com- 1 Struver, Sulla peridotite di Baldissero in Piemonte (Aiti della R. Ac- cademia delle Scienze di Torino, voi. IX. Torino, 1874). 2 CoSSA, Ricerche chimiche e spettroscopiche su roccie e minerali di Italia. Torino, tip. Bona, 1881. 3 La magnesite costituisce, nella lehrzolite, fìloncelli irregolari, vene, reticola- ture, compenetrazioni e .veri ammassi; ad essa è intimamente connessa e subor- dinata la semiopale, i cui noduli, essendo puri o quasi puri nell’ interno, sono inquinati alla periferia da carbonato di magnesio. 4 Gastaldi, Studi geologici sulle Alpi occidentali , parte seconda. Fi- renze, 1874. 5 Baretti, Studi geologici sul gruppo del Gran Paradiso (Memorie della R. Accademia dei Lincei, serie 3a, voi. I. Roma, 1877). — 435 pete nella scala cronologica, posto ben diverso da quello assegnatole da altri. Da ciò l’opportunità di questa nota preliminare. All’estremità settentrionale della zona lehrzolitica, e specialmente nella regione Vespia, da un lato, e lungo la via che conduce a Vidracco, dall’altro, la massa lehrzolitico-serpentinosa gia«e, infatti, sopra fta- niti e diaspri rossi (che passano gradatamente alFarg’lloscisto e al- l’argilla), nei quali potei riconoscere, coll’esame microscopico di sezioni sottili, numerosi fossili (radiolarie e spicule di spugne). Nella stessa regione Vespia, e precisamente lungo il fianco occi- dentale del Bricco Forcola, si osserva alla periferia della massa lehr- zolitica un piccolo lembo di conglomerato ad elementi granitici assai alterati, che offre perfetto riscontro colle breccie granitiche, subordi- nate alla formazione serpentinosa dell’Appennino ligure. Le ftaniti, i diaspri e gli argilloscisti che vi si connettono fissa- rono anche 1’ attenzione del Gastaldi e del Baretti, i quali ascrivono queste roccie al gruppo paleozoico, reputandole inferiori ai calcari dolomitici da calce e superiori alle pietre verdi. Il secondo dice espli- citamente: « le roccie paleozoiche si posano a fondo di battello sulla serpentina di Torre Cives a Sud e sul granito dei monti tra Vidracco e Issiglió a Nord-Ovest ...» 1 Io però potei verificare che le roccie diasproidi, unitamente agli scisti che fanno loro seguito, si trovano non già sopra, ma sotto la lehrzolite e la serpentina. Le radiolarie osservate nel diaspro e nella ftanite di Baldissero, corrispondono in parte ad alcune, del giura e della creta, descritte da Rùst 2 e da Parona3, in parte a quelle dei diaspri eocenici, illustrate dal Pantanelli 4. 1 Baretti, Opera citata. 2 RuST, Beitràge zur Kenntniss der fossilen Radiolarien aus Gesteinen der Kreide. Stuttgart, 1888. — Beitràge zur Kenntniss der fossilen Radiolarien aus Gesteinen der Jura. Stuttgart, 1885. 3 PARONA, Radiolarie nei noduli selciosi del calcare giurese di Cittiglio presso Lareno (Bollettino della Soc. geologica italiana, voi. IX, fase. I. Roma 1890). 4 Pantanelli, I diaspri della Toscana (Memorie della R. Accademia dei Lincei, Classe di scienze fisiche, matem. e nat., serie 3, voi. Vili. Roma, 1890). — 436 — La forma più comune nella roccia da me esaminata, per quanto lo stato degli esemplari permette di giudicare, corrisponde alla Ceno - sphera gregaria , Rust (Beitràge zur der foss. Rad. aus Gest. der Juraì p. 286, tav. XXVI, f. 10), figurata anche dal Parona, un’ altra Ceno- sphera meno comune è indubbiamente la C. clathrataì Parona (opera cit., p. 19, tav. I, f. 5); sono poi presenti, secondo ogni verosimiglianza, la Lithocampe Haeekeli (Polgstichia Haeckeliì Pantanelli), una Di - ctyomitra indeterminata, una piccola Adelocyrtis (A. spinosa ? Pant.) ed avanzi di una sezione triradiata, in cattivo stato di conservazione, che ricordano V Euchitonia Crevolensis di Pantanelli. Non mancano, come dissi, organismi riferibili a spicule di spugne. Si conoscono troppo imperfettamente ancora le radiolarie fossili dei singoli sistemi (e in ispecie quelle del trias e del gruppo paleozoico) per poter trarre dall’esame di poche specie criteri sicuri, circa il significato loro come fossili distintivi. Sappiamo soltanto che talune tra le forme comuni nei giacimenti più noti hanno una distribuzione verticale relativamente assai estesa >. Nel caso presente, le specie fin qui identificate valgono ad escludere l’ipotesi che i diaspri in cui sono contenute sieno arcaici e porgono fondato indizio che appartengano al gruppo terziario o al secondario. II. Sopra un affioramento di schisto bituminoso a Santopadre in provincia di Caserta; nota del Prof. G. B. Cacciamali. Nel settembre di quest’anno ebbi notizia dell’esistenza nel territorio di Santopadre (piccolo paesello posto a S.E di Arpino) d’una pietra che, posta a fuoco, ardeva; proprietà questa di cui da tempo pare si accorgessero alcuni contadini di colà nell’accendere qualche fornace da calce. Si danno parecchi esempi di specie che passano dal giura alinocene. i — 437 — Quantunque io già in antecedenza conoscessi la geologia di quel territorio, per essermivi più d’una volta recato allo scopo di rilevare una dettagliata Carta geologica di Arpino e comuni circonvicini, pure nelle mie gite m’ era sfuggita la roccia in discorso; per cui mi affrettai a recarmi nuovamente sopra luogo per le necessarie constatazioni di fatto» Ed ora riferisco qui i risultati delle mie osservazioni e delle mie ana- lisi, aggiungendo tutte quelle considerazioni che reputo dei caso. Premetto intanto alcune notizie sulla topografìa e sulla natura geo- logica del territorio che ci interessa. Da un altezza di 760 m., a cui si trova Santopadre, e di 7^'5 m., come misura il M. Favone, posto a pochi passi a Sud del paese, il suolo, nel men- tre s abbassa ad occidente verso il Liri, scende pure ad oriente verso il Melfa . due rivi (uno ad Est e 1’ altro a S.E di Santopadre) scorrono nel ver- sante di mattina, formando una depressione detta di Valle Contere, poi riuniti precipitano nel Melfa, che qui si trova a soli 260 m. d’altezza. Due specie di roccie abbiamo in questo versante, e cioè: il cal- care compatto della creta e le arenarie e puddinghe del pliocene supe- riore, quello tra il Melfa e Valle Contere, coi banchi pendenti a S.O, e queste tra Valle Contere e Santopadre, con pendenza ad O.N.O. Il contatto tra le due roccie è in gran parte determinato dai surriferiti fossi, onde ne viene che di questi quello meridionale, scorrendo verso N.E per andarsi ad unire, dietro Monte Inero, al compagno, si trova quasi nella stessa direzione degli strati pliocenici; per cui lungo questo rivo, dei cennati strati vengono a mostrarsi i più bassi della serie. E se qualche altro materiale, sottoposto alle puddinghe ed alle arenarie, venisse ad affiorare, qui di preferenza dovrebbe farsi vedere; ed infatti è appunto in questo posto che mi fu mostrata la pietra che arde , ossia la pietra a libro , così detta evidentemente per la sua schistosità. Si tratta dunque di uno schisto bituminoso: esso ha un color cinereo scuro, non offre alcun odore sensibile, si presenta in straterelli di poco spessore, sfaldabili con estrema facilità ed alternati più volte con un’arenaria grigiastra. Occupa precisamente il letto e le due sponde del fosso di S.E, seguendolo per un certo tratto e pende ad O.N.O con una inclinazione media di 25°, internandosi quindi sotto le arenarie e le puddinghe plioceniche di M. Favone, mentre dalla parte opposta trovasi in contatto discordante colla calcarea ippuritica di M. Inero. — 438 - Oltre a ciò ho notato come tra i materiali del pliocene superiore e Taffi or amento di schisto bituminoso faccia capolino una marna azzurra, che certo è la solita marna del pliocene inferiore, la quale nel terri- torio arpinate si mostra costantemente sotto la considerevole massa delle più volte ricordate arenarie e puddinghe; per cui, anche con- siderato che tanto queste quanto lo schisto pendono nello stesso senso (quantunque le prime di soli 10° ed il secondo, come dissi, di 25°), io credo di poter qui stabilire la seguente regolare successione di terreni: a) Puddinghe ed arenarie del pliocene superiore. b) Marne azzurre del pliocene inferiore. c) Schisto probabilmente miocenico. Sezione geologica da Santopadre alla valle del Melfa, M. Pavone (775 m.) V. Contere M. Itero F. Meli 1. Calcare compatto (Cretaceo) 3. Marna azzurra (Pliocene inf.) 2. Schisto bituminoso (Miocene ?) 4. Puddinga ed arenaria (Pliocene sup.) Scala di 1 per 25 0G0. Sopra diversi saggi di schisto, che meco recai nel laboratorio, ho istituito in seguito il dovuto esame, e constatai innanzitutto come questo materiale, posto sul fuoco, bruci realmente, ed anzi con fiamma assai bella e luminosa, senza colare in alcun modo, mantenendosi cioè per- fettamente asciutto, e spandendo un forte odore di bitume: restava cosi confermato trattarsi di schisto bituminoso. Pesata poi, previo essica- mento, una certa quantità di detto materiale, e postala ad ardere in un crogiuolo, dopo la sua completa combustione mi diede una perdita di — 439 — peso del 20 per cento : lo schisto conterrebbe quindi un quinto del suo peso di materie combustibili, da cui ricavare o gaz, o petrolio, o catrame. Il giacimento bituminifero di Santopadre è certo in relazione con quelli di Colle S. Magno, di Monte S. Giovanni e di altre località della valle del Liri, giacimenti già descritti da altri, ed ultimamente da me 1 ; anzi questo di Santopadre trovasi proprio nel centro della clas- sica regione bituminifera e petroleifera di Valle Latina: infatti a set- tentrione, sopra Campoli, abbiamo il calcare bituminoso e scistoso del Lacerno 2, a levante le breccie asfaltifere di Atina, di Terelle, di Colle S. Magno 3 e più oltre di Cervaro, a S.O quella di Arce, il pe- trolio di S. Giovanni Incarico e Pico 4 e la pece di Castro, a ponente la breccia asfaltifera di Fontana 5, i giacimenti bituminosi di Monte 1 G. B. Cacciamali, Petroli e bitumi di Valle Latina (Riv. It. di Scienze •Nat., Siena 1889). 2 Di questo calcare e delle breccie asfaltifere di Cervaro e di Arce, ho tro- vato notizie solo nella Contribuzione allo studio dei materiali litologici della provincia di Terra di Lavoro pubblicata a Caserta nel 1879 dal Prof. O. Ferrerò. 3 II primo a scrivere del bitume di Colle S. Magno fu l’Ing. Gaetano Tenore nelle sue Osservazioni geologiche sulla catena di monti compresa tra Mon- tecassino ed il fiume Melfa (Poliorama pittoresco. Napoli, 1852). E delle cal- caree asfaltifere a Sud di Atina ed a N.O di Terelle trovo la prima notizia nei Ragguagli delle peregrinazioni eseguite sulle montagne del bacino d’ Alvito e dei lavori della Commissione per la ricerca delle miniere di ferro nel distretto di Sora, dello stesso Ing. Tenore (Ann. Civ. del Regno delle Due Sicilie. Na- poli, 1856). 4 Anche pel petrolio di S. Giovanni Incarico la priorità degli studi spetta all’Ing. Tenore, come risulta dalla sua memoria Saggio sull' industria mineraria e sulla costituzione geologica della Terra di Lavoro, con schema di carta geologica della provincia (La scienza e l’arte dell’ Ing.-arch. ; Napoli, 1872). Lo Stoppani si recava la prima volta sul posto nello stesso anno 1872, e dava rela- zione dei suoi studi nel 1877 colla memoria I petroli in Italia , pubblicata nel giornale II Sole di Milano. 5 Cito Fontana perchè nella memoria del Prof. G. O. Costa Sull'asfalto di Roccasecca (leggi di Colle S. Magno), pubblicata fra gii atti dell’Istituto d’inco- raggiamento (Napoli, 1860) trovo detto essere stato l’autore assicurato esservi a Fontana una breccia asfaltifera, da lui però non vista. Nemmeno io la vidi, nè ne sentii parlare. — 440 — S. Giovarmi e Bauco ed il petrolio di Strangolagalli e Ripi, e final- mente a N.O materiale asfaltico a Veroli 1 e più in là a Collepardo 2. Se noi consideriamo il fatto che il giacimento di Santopadre si trova in posizione quasi centrale in un distretto eminentemente petro- lifero ed asfaltifero ; se consideriamo l’altro fatto della grande esten- sione che prende il terreno pliocenico nel territorio di Santopadre, e quindi della probabile continuazione, sotto di esso terreno, dello schisto bituminoso ; se consideriamo ancora il frequente affiorare del calcare ippuritico di sotto al manto degli strati pliocenici e la leggera pen- denza di questi, indizi certi della non soverchia profondità a cui si manterrebbe lo schisto stesso ; se consideriamo infine la maggior ricchezza di sostanze idrocarbonate presentata dagli schisti bituminosi in genere, e da questo in ispecie, in confronto di altre roccie bituminose, pure coltivate 3, comprenderemo agevolmente l’importanza industriale che potrebbe assumere il deposito di Santopadre. Inoltre dallo studio degli affioramenti calcarei, io mi son fatto la convinzione che il pliocene di Santopadre, e quindi anche il sottoposto schisto, colmano una specie di bacino: ora sul fondo di questo bacino non sarebbe improbabile la presenza anche di petrolio, il quale per ini- bizione avrebbe impregnato lo schisto fino al suo affioramento. 4 Però, 1 Anche Veroli lo cito per la semplice ragione che nel 1853 i signori G. Ponzi e P. Carpi presentavano all’Acc. Pont, dei Nuovi Lincei l’analisi d’un calcare bi- tuminoso proveniente dal territorio di Veroli; ma su questo materiale non trovai altre notizie. 2 Alle citate località si può aggiungere, oltre Collepardo, anche Filettino, che trovasi però nella valle dell’Aniene. 3 II calcare asfaltifero di Colle S. Magno, per esempio, dà al massimo un prodotto del 10 per OlO. 4 Oggi è ammesso da tutti che il bitume deriva dal petrolio, e non questo da quello; è ancora in questione invece l’origine stessa del petrolio, e due son le teorie che si trovano di fronte: quella cioè della combinazione diretta o della emanazione (Stoppani, Berthelot, Mendelejeff), e quella che attribuisce al petrolio un’origine organica animale (Wall, Sterry-Hunt, Curioni). Io, nella citata mia me- moria Petroli e bitumi di Valle Latina, già mi pronunciai per quest’ultima ipo- tesi, che ora vedo corroborata anche dagli studi di Kramer e Bòttger e dalle espe- rienze di Engler(V. Boll, del R. Com. geol. d’Italia, n° 5-6 ; Roma, 1889). Nel caso — 441 — anche indipendentemente dai fatto della imbibizione dello schisto e della trasformazione dell’idrocarburo liquido in bitume, starebbe con- tro l’attuale esistenza del petrolio nel bacino pliocenico di Santopadre, il possibilissimo fatto di una emigrazione del petrolio stesso, avvenuta attraverso fratture sotterranee: probabilmente il petrolio di S. Giovanni Incarico ripete così la sua origine da Campoli, da Santopadre, da Colle S. Magno, ecc. In ogni modo, per accertarsi della utilità d'una coltivazione, sia pur del solo schisto, converrebbe fare prima qualche trivellazione, onde constatare l’andamento e la continuità di questo, ed analisi accurate del materiale che venisse estratto dalla trivella. Certi della cosa, la coltivazione della miniera non offrirebbe difficoltà grandi, nè per i mezzi di trasporto, nè dal lato tecnico: non per i mezzi di trasporto, perchè a soli 1400 m. a N.E dell’affioramento abbiamo le sbocco al Melfa, e da questo punto alla stazione ferroviaria di Roccasecca (sulla linea Napoli-Roma) non ci sono che 9 chilometri di strada carrozza- bile; non dal lato tecnico perchè i pozzi, entro il terreno pliocenico, sarebbero di facile escavazione, e perchè vi sarebbe anche la possibilità di far gallerie: una prima galleria, dante un ribasso di circa 50 m., si potrebbe aprire, sempre entro terreno pliocenico, a 400 m. a N.E del- l’affioramento; ed occorrendo un ribasso maggiore, una galleria aperta al Melfa stesso, praticata però nel calcare, lo darebbe di circa 200 m. Arpino, novembre 1890. particolare di questa regione, credo che il petrolio (od il bitume) che si trova, an- ziché entro terreni secondari, come a Campoli ed a Colle S. Magno, entro terreni terziari, come a Santopadre ed a S. Giovanni Incarico, non sia stato generato in questi terreni, ma vi sia pervenuto dopo essere stato prodotto dai calcari di epoca secondaria. — 442 — III. Osservazioni geologiche sulle Isole Tremiti e siilT Isola Pianosa neU Adriatico ; del Dott. A. Telline (con due tavole) Chi esamina una Carta d’Italia, anche di piccola scala, purché non affatto scorretta, scorge allineate nel mezzo dell’Adriatico tra il piccolo porto di Termoli (a Nord del promontorio garganico) e Stagno (città sedente sulla lingua di terra che unisce la penisoletta di Sabbioncello alla costa dalmata) in direzione presso a poco rettilinea da O.S.O ad E.N.E, diverse isolette o gruppi d’isole e di scogli che sono in ge- nerale tanto più piccole quanto più si trovano nel mezzo del mare, mentre vanno man mano ingrossandosi e confondendosi colla frasta- gliatissima terraferma verso la costa dalmata. Da occidente ad oriente le isole od i gruppi d’ isole sono i seguenti : Gruppo delle Tremiti composto di quattro isolette accostate tra loro, di cui la più vicina al continente ne dista dal punto più prossimo (foce Schiapparo) chilometri 21,250 *, da Capo Mileto (Gargano) chi* lom. 22, da Punta Pietre Nere (f- ce del Fortore) chilom. 23,250. In secondo luogo incontriamo la piccola e bassa Pianosa, estrema isoletta ancora politicamente italiana, che dista chilom. 20,500 dal punto più vicino delle Tremiti (mentre dista chilom. 33,750 da Torre di Mileto sul Gargano). Propriamente nel mezzo dell’Adriatico troviamo il gruppo di Pelagosa,1 2 costituito da Pelagosa Grande e Pelagosa Pic- 1 Le misure delle distanze sono prese con una approssimazione all’ incirca di un centinaio di metri dalla : Carte hydrographique, Mer Adriatique etc. (Vedi Saggio bibl. in fine). Della stessa Carta mi sono servito specialmente per le mi-, sure batimetriche dei varii punti dell’Adriatico. Le distanze in ogni caso sono prese dalle due sponde direttamente opposte. 2 L’isola di Pelagosa, ritenuta res nullius , non apparteneva di fatto ad alcuno Stato, essendo disabitata ed improduttiva, quantunque si ritenesse tacitamente far parte dell’Italia; ma nel 1873 il Governo austriaco vi fece costrurre un faro com- prendendola così ufficialmenta nel proprio territorio. — 443 — cola, con diversi scogli minori, e più oltre dallo scoglio di Cajola, di- stante dalla prima verso Est chilom. 6,500. Pelagosa dista chilometri 43,250 da Pianosa e chilom. 50,500 dal Gargano (Torre di Calalunga tra Viesti e Peschici). Questo gruppo può considerarsi il residuo di una cresta rocciosa sottomarina, in gran parte distrutta, poiché per una larghezza mas- sima di 500 m., e per 9 chilometri di lunghezza in direzione O.N.O- E.S.E si ha un’area che, oltre comprendere le tre isole maggiori, è sparsa di una grande quantità di scogli e di secche che hanno la base sopra un fondo più elevato che la regione circostante. Delle isole dalmate la più occidentale nella nostra direzione è Cazza, che dista chilom. 41,500 da Pelagosa (Cajola). Oltre Cazza le isole dal- mate fannosi sempre più accostate tra loro e più grandi, e conseguente- mente i canali di mare che le separano più angusti. Facendo centro in Cajola, con un raggio corrispondente a 53 chilom. si tocca l’isola di Cazziol, con uno di chilom. 54,500 Lagosta, con chi- lom. 64 Curzola e con chilom. 86 si tocca la penisola di Sabbioncello, com- prendendo molte altre isole più al Nord, e finalmente a 116 chilom. si tocca la costa dalmata di terraferma alle foci del fiume Narenta. Considerando Pelagosa Grande, come la principale del gruppo, si rileva facilmente che essa è più vicina al Gargano (Punta Calalunga) che alla Punta Ossit (la più prossima della penisola di Sabbioncello) di 39,500 metri ; ed è più vicina alla costa italiana (astrazion fatta dal promon- torio garganico) cioè alla Punta delle Pietre Nere di chilometri 23,250 di quello che non sia alla costa continentale dalmata in corrispondenza del paese di Drasnice che sta tra le isole Lesina e Brazza. La distanza relativa di queste isole, ma specialmente di quelle italiane, la loro estensione ed altitudine, nonché la profondità dei bracci di mare da cui sono divise, ci permetterà di tentare delle conclusioni, dopoché ne avremo esaminata la costituzione geologica. Per ora con- statiamo solo il loro allineamento, l’accentuata sporgenza della costa italiana nell’Adriatico per opera del promontorio garganico e nello stesso tempo osserviamo la mancanza di ogni isola occupante il mezzo del mare tanto nella sua parte settentrionale (che da questo allinea- mento insulare può considerarsi naturalmente diviso in due bacini), come nella porzione meridionale fino al Canale d’Otranto. — 444 Ma è ora di limitarci al gruppo delle Tremiti. Esso è costituito attualmente di quattro isolette, di cui la maggiore» che è pure la più elevata (116 m.), chiamasi S. Domino o S. Domo (in tempi passati arche S. Doimo o S. Domingo). La sua superficie è di chilom. quad. 2,3255 1 circa; ha torma grossolanamente romboidale, assai irregolare, col contorno frastagliato di punte aeute o di coste rotondeggianti, protendentesi e cadenti a picco o quasi nel mare, tra le quali si hanno insenature profonde, cale o calette , che, riparate da qualche vento, possono servire di approdo o d’ancoraggio per barche o piccoli bastimenti. La maggiore sua dimensione è da S.O a N.E, ed ha cioè la di- rezione dell’ intero gruppo quale si potrebbe ottenere circoscrivendo con una linea continua e non frastagliata tutte le isole in guisa da otte- nerne una sola, quale si può credere aver esistito prima che l’abbas- samento del sottosuolo in concomitanza coll’ erosione operata dalle onde l’abbia frastagliata e divisa in più altre come oggidì. Come ap- pare dalla Carta topografica e dallo schizzo prospettico d’assieme delle isole (ottenuto guardando da un punto che sta sei miglia ad E. N.E. delle isole stesse) che si può consultare nella Carta idrografica ita- liana alla scala di 1/100 000 2, S. Domino è costituito da un altipiano (che è la parte coltivata) alto in media 50 metri, estendentesi dal lato che prospetta le altre isole, e verso occidente terminato da un colle rotondeggiante che forma il culmine dell’isola (116 m.), il quale si eleva gradatamente dall’altipiano, mentre dalla parte opposta più sollecitamente e direttamente degrada fino al mare. Tutta questa porzione più ripida, che forma la regione dell’ isola, rivolta a S.E, è coperta da fitto bosco di Pinus haleppensis , e di vegetazione arbustacea e ad ericaie ( Cistus ). In generale, ovunque all’ ingiro dell’isola, fuorché al 1 Vedi: Istituto Geografico Militare, Superficie del Regno d'Italia valutata nel 1884, Firenze, 1885, pag. 64. 2 Vedasi il foglio intitolato : Carta costiera dal lago di Lesina al Faro di Vieste, ecc. In esso havvi lo schizzo prospettico delle Isole Tremiti viste da sei miglia e mezzo N. 77° E. dal semaforo. Lo schizzo di Pianosa è preso da un miglio di distanza (N. 48° E.), e pure in esso si vedono da lontano anche le Tremiti* Simili profili esistono anche nel piano delle Isole Tremiti alla scala di 1/15 000. — 445 fondo di qualche cala ed alla punta S.O, la sponda piomba per 10 a 20 o più metri nei mare che talora vi penetra anche al disotto in pro- fonde grotte (Grotta Menichello, del Sale, del Bue Marino), nelle quali le onde mugghiando minano continuamente per conquistare ampio do- minio anche su questo ostacolo che parasi loro dinanzi. A chi si avvicina alle isole dal -ud parrebbe che l’altipiano di S. Domino si estendesse a destra, continuando in un’ isola sola ele- vata d’un tratto dal mare quasi un muraglione, e con il dorso pianeg- giante o leggermente inclinato. Avvicinandosi invece si vede che questo altipiano è interrotto da un solco che lo incide fino sotto al livello del mare, onde si ha net- tamente separata dalle altre, l’isola terza in grandezza (chilom. qua- drati 0,4841), ossia S. Nicola (o S. Nicolò od anche S. Maria) che ha una forma semplicissima, essendo costituita da un altipiano legger- mente ondulato avente verso il mare da ogni parte un pendìo ripi- dissimo e naturalmente quasi inaccessibile, disegnante un contorno1 bislungo in direzione S.O-N.E, di cui la costa che guarda N.O è quasi diritta, e quella rivolta a S.E ha una ampia insenatura per cui alla parte mediana è più larga e presenta un restringimento verso la sua punta meridionale; le due estremità sono arrotondate. Il punto più alto sovrasta 75 m. al mare. E l’isola più sterile, quasi priva di vegeta- zione naturale e della quale si tenta molto difficilmente di ridurre qualche lembo a coltura. Si accede sulla piattaforma per mezzo di una gradinata dalla parte del paesetto o porto e dopo attraversato l’antico forte-con- vento, che trovasi alla estremità dell’ isola che guarda la costa italiana, si deve varcare una tagliata (ovvero un taglio artificialmente praticato nella viva roccia, profondo diversi metri, di cui ancora si scorgono bene le tracce e che serviva a maggior difesa del forte separandolo dall’isola sulla quale facilmente si sarebbe potuto fare uno sbarco), taglio che avrebbe dovuto sprofondarsi fino al mare in guisa da divi- dere l’isola di S. Nicola in due. Attraversata dunque questa depressione che trovasi al piede del punto più elevato ed estremo dei fabbricati dell’ isola (poiché ivi appunto sovrasta il semaforo) si passa sulla parte più estesa ed arrida dell’altipiano che forma la maggior massa del- l’ isola. Per chi arriva da Sud resta nascosta dalle due isole citate Caprara — 446 — (o Capperara o Capperaia), che viene per estensione superficiale dopo S. Domino, misurando chilom. quadrati 0,5991. Ha (considerata grosso- lanamente) forma di mezzaluna irregolare, bene appuntita alle estre- mità, con una profonda intaccatura (la Cala dei Turchi), alla metà circa dalla parte convessa che è rivolta verso N.O, ossia verso il libero mare. Vista di profilo presenta due colli arrotondati ai lati della depressione mediana. Più grande, quantunque poco più alto, è il colle che sta a Nord (M. Grosso, 53 m.) sul cui sperone maggiormente proteso in mare verso levante sorge il^ faro, mentre di poco più basso (51 m.) ma molto più piccolo è il colle che sta all’altra estremità. Quest’isola è costituita da un piano inclinato che discende dolcemente verso il canale frappo- nentesi tra essa e S. Nicola, mentre dalla parte opposta, ossia verso il mare libero, il pendìo è fortissimo, bene spesso le sponde sono verticali. Finalmente l’ isoletta più piccola chiamasi Cretaccio: situata in mezzo alle tre maggiori, ma più vicina a S. Domino, è di forma ro- tondeggiante, con un’ insenatura a Nord così profonda che fra .non molto risoletta sarà ridotta dall’erosione a due scogli. Ha una super- fìcie certamente inferiore a Ì000 m. quadrati (nella valutazione officiale della superficie del regno d’Italia essa non è considerata) ed una altezza di poco superiore a due diecine di metri. Infine molti piccoli scogli in- significanti circondano qua e là le isole, tenendosi però a pochi metri dalla costa; il più considerevole è quello denominato La Vecchia, che trovasi tra il Cretaccio e S. Nicola. La distanza tra le varie isole è assai piccola (300 m. al più tra Caprara e S. Nicola), tanto che in pochi minuti si va in barchetta dal- l’una all’altra, in breve si possono girare attorno tutte quante, ed i canali che le dividono sono assai poco profondi, specialmente in con- fronto dell’aperto mare circostante. L’Isola Pianosa occupa una posizione E.N.E rispetto alle Tre- miti; è piana, come indica il nome, poiché sopra un’estensione di chilom. quadrati 0,1735 raggiunge l’altitudine massima di soli 9 m.1 Ha 1 Secondo il dizionario corografico dell’ Amati, che risale ad una trentina di anni fa, Pianosa sarebbe alta 20 m. Si può supporre che il dato sia erroneo ; ma se invece fosse dovuto ad una misura esatta, bisognerebbe pensare ad un rapido abbassamento. — 447 — forma irregolare, allungata, colla costa settentrionale descrivente un contorno a curva irregolarmente concava e la meridionale convessa. Sul versante rivolto a Sud discende dolcemente in mare, mentre cade a picco dal versante opposto. E però tutta rocciosa e non presenta spiaggia sottile poiché cade da ogni parte nel mare con sponde di viva roccia. Dalla descrizione fatta si può facilmente arguire, senza valersi del criterio geologico, che in tempo relativamente vicino, confinante col- l’epoca storica, le Isole Tremiti erano presumibilmente unite a formare una sola isola, un po’ più estesa di quella che si otterrebbe riunendo le linee costiere guardanti il libero mare delle isole attuali. Infatti la profondità massima del canale fra esse interposto è di 28 m. tra il Cretaccio e la Caprara, mentre è di m. 12 tra S. Nicola ed il Cretaccio e da 9 a 23 fra S. Nicola e Caprara, senza contare le profondità mi- nori non considerate nella Carta idrografica. Del resto dall’alto di S. Nicola si vede benissimo il fondo del limpido canale che si inter- pone alle isole, ora biancastro per la fanghiglia, ora bruno per la presenza di campi d’alghe, ovvero qua e là sparso dì grossi massi rocciosi. Se poi si prolunga idealmente 1’ altipiano delle isole in guisa che esse discendano nel mare con dolce pendìo, come dovrebbe accadere naturalmente, anzicchè con ripe quasi verticali, come avviene ora; esse si ridurranno allo stato in cui presumibilmente dovevano essere appena sorte dal mare prima di subire l’azione erosiva, cioè avrebbonsi appunto le quattro isole raccolte a formarne una sola alquanto più estesa di quello che riunendone semplicemente, quali oggi esistono, le sponde guar- danti l’aperto mare. Il canale principale interposto è appunto scavato nella roccia più tenera che trovasi nel seno di esse e sulla quale il mare ha potuto esercitare con più risultato la propria azione, mentre nella periferia se la roccia era in molti punti più consistente, la forza delle onde era anche in più favorevoli condizioni per esercitare la sua potenza livellatrice. Così ricostituito il gruppo delle Tremiti, darebbe un’isola allungata secondo Y asse maggiore S.O-N.E, cioè parallelo alla direzione degli — 448 — strati la inclinazione dei quali è in media di 30° verso Sud-Est, apparendo le testate di essi sul versante opposto. Ne viene quindi che verso il li- mite N.O delle isole stesse è avvenuto il massimo sollevamento che ha determinato la frattura degli strati. Nell’Isola Pianosa la kro di- rezione è a un dipresso da Est a Ovest con inclinazione a Sud ; e da O.N.O ad E.S.E, ossia parallela alla cresta sottomarina del gruppo in Pelagosa-Cajola, però con gli strati ora perpendicolari ed ora inclinati a N.N.E, oppure anche in senso contrario. In generale quindi osser- viamo che la direzione degli strati in queste isole è parallela alla loro maggiore lunghezza e se pensiamo anche ad altre isole di formazione sedimentare, a strati rialzati e di costituzione semplice troveremo es- sere questa una legge generale. Congiungendo ora idealmente da un gruppo d’ isole all’ altro le direzioni di questi strati, si ottiene ad un dipresso una curva ellittica i cui fochi si troverebbero all’ incirca nel Gargano lungo una linea avente la direzione Apricena — Testa del Gargano. Ma non i soli punti emersi rappresentati da scogli o da isole si tro- vano tutti su questa curva, poiché proprio nel bel mezzo dell’ Adriatico, circa a metà della linea che congiunge Vieste allTsola Meleda (cioè nel punto indicato nella cartina annessa, Tav. XII), trovasi indicata nelle carte idrografiche una piccola area profonda solo 188 m. (ma forse molto meno poiché in quella regione di alto mare gli scandagli sono fatti in stazioni piuttosto lontane e certamente non è stato toccato il punto culminante del fondo) che sorge sopra un piano inclinato che s’inabissa rapidamente da 500 a 1000 m. di profondità e ciò che più deve attirare la nostra attenzione si è la constatazione che lo scandaglio in questo punto segna roccia mentre in ogni dove del mezzo dell’Adriatico (esclusi alcuni punti immediata- mente intorno a Pianosa ed alcune regioni vicinissime alle coste) non si trova che sabbia, fango o conchìglie. Dunque in quest’area abbiamo una punta rocciosa sottomarina che si eleva d’un tratto di 600 m. circa sul fondo circostante. La coincidenza più mirabile si è che questa punta trovasi sul prolungamento della curva passante per le isole circum- garganiche. Dirò più esattamente che descrivendo delle curve concentriche alla elissi giura-liassica del M. Gargano (quale si scorge nella Carta geo- logica d’Italia pubblicata dall’ Ufficio geologico nel 1889 e qual’è am- 449 — messa nel lavoro di Cortese e Canavari *) che forma il nucleo dei pro- montorio essendo all’ ingiro rivestita dagli strati cretacei e poi dagli eocenici, forse originariamente fascianti tutto all’ ingiro il nocciolo sot- tostante, ma di cui ora non si scorgono che dei lembi essendo la mag- gior parte di essi sprofondata nel mare ; descrivendo dunque questa serie di curve si osserva che per ogni punto emerso nel piccolo tratto visibile, in confronto di tutta la estensione della linea in cui il mare ci vela la stratigrafia del suo fondo, esse, per quella frazione sono parallele alla direzione degli strati, ed ancora si nota che ad un dipresso la elissi di Tremiti è quella stessa che passa per Pianosa e quella di Pelagosa e Cajola non passa molto lungi dal bassofondo 188 m. Come è facile vedere dalla Carta d’ Italia sopra citata, 1* elissi costituente il Gargano geologico ha 1’ asse maggiore in direzione E-0 mentre Felissi irregolare costituente il Gargano geografico attuale avrebbe la maggior direzione da S.O a N.E. Il quale spostamento, non è se non di configurazione esteriore e si deve ai diversi bradi- sismi cui andò soggetto il promontorio, alP erosione ed ai fenomeni geologici terziarii recenti e quaternarii che diedero P ultimo tocco ai dettagli di forma dei continenti. A provare però maggiormente 1’esistenza di questa anticlinale elittica da ogni parte immergentesi nel mare che per la regione continentale veniva prima ravvisata dai geologi Canavari e Cortese, aggiungo una osservazione inedita. Finora si conoscevano solo due lembi eocenici a testimoniare la preesistenza della estrema periferia del Gargano, adagian- tisi sopra la fascia continua cretacea, ossia quelli di Peschici e di Mat- tinata. Orbene posso affermare il nummulitico trovarsi alquanto potente, ed affatto analogo a quello dei lembi sinora conosciuti, sulla costa che da Vieste va a Peschici lungo la quale l’ho seguito per qualche chilo- metro. Questo contribuisce sempre più a ristabilire la regolarità del- 1’ elissoide garganica poiché appunto in corrispondenza della estremità N.E del promontorio per la presenza di una larga fascia di cretaceo 1 Cortese E. e Canavari M., Nuovi appunti geologici sul Gargano (Boll. R. Com. geol., Anno XV). Roma, 1884. 29 450 — quale viene indicata sulle ultime carte sarebbe parso che questa re- golarità fosse alquanto turbata. Ne viene quindi che il canale interposto fra Tremiti, Pianosa ed il Gargano è dovuto ad una sinclinale molto depressa, che dalla parte estrema ha subito una frattura. Un’ onda o delle onde successive di sollevamento periferiche al nucleo garganico, comprendono una prima cerchia di cui i soli testimoni emersi sono presentemente Tremiti e Pia- nosa, una cerchia più lontana comprenderebbe altri due punti cioè Pe- lagosa e il bassofondo 188m che non sijrese mai manifesto fuori del livello del mare poiché prima che i suoi strati vedessero il sole da un bradisismo discendente furono di nuovo inabbissati a maggior profon- dità. Credo quindi di non andar fuori del campo che comprende deduzioni fondate, attribuendo una intima correlazione genetica tra il Gargano e le isole dell’Adriatico occidentale-meridionale, che si potrebbero chia- mare a ragione isole garganiche o perigarganiche. Il Gargano per la sua regolare stratigrafia si può ritenere affatto distinto dalla catena appenninica e mostra chiaramente dalla sua sem- plicità stratigrafica di essersi sollevato gradatamente a cominciare dal Giura e di aver raggiunto nel Miocene un massimo di emersione, nel qual periodo probabilmente era riunito all’ Apulia e costituiva il cosi detto sistema apulo-garganico. Al finire del Miocene si abbassò dalla parte rivolta verso Y Appen- nino di guisa che nel Pliocene raggiunse la sua massima depressione da questo lato mentre dairopposto attinse il massimo sollevamento e successivamente subì un movimento contrario, sollevandosi ad Ovest e sommergendosi di nuovo coll’ estremità Est. Ma entreremmo ora in un campo che deve essere trattato dopo la descrizione geologica delle isole. Il potente corrugamento garganico si esercitò gradatamente e con- tinuatamente in senso positivo dal Lias fino al Miocene e si fece sen- tire, oltre che in tutta la sua penisola, anche sulle cerehie insulari peri- feriche; però sempre in ritardo e con minor forza quanto più lontani i punti di azione. Le isole Cazza, Cazziol, Lagosta, Lagostini e Meleda, sembrano ancora disposte secondo una lontana sfumatura di queste onde e Cur- zola con la penisola di Sabbioncello accennano forse ancora con la — 451 — loro disposizione curvilinea ad una ulteriore influenza di quel centro. Ma poi le isole della Dalmazia settentrionale nonché l’Istria ed il terri- torio littorale stesso hanno un regolare andamento stratigrafìco a strette curve con l’asse in direzione parallela a quella del bacino adriatico. A questa regolarità, spiccata e continua, per sì lungo terri- torio, fa contrasto ed eccezione l’isola di Lissa, con S. Andrea e con gli «cogli vicini che ci mostrano forme litologiche diverse dal restante della Dalmazia e correlativi complicati assestamenti tectonici, che quasi completamente ci rimangono velati sotto la inesplorabile distesa delle acque, e di cui non è lecito intravedere che in barlume qualche rela- zione lontana colla massa di calcari secondarii che costituisce il nucleo del Monte Conero presso Ancona. Ed ora sarebbe cosa utile, anche in relazione allo studio geolo- gico che intraprendiamo, seguire la storia delle Isole Tremiti nei vari lavori descrittivi e geografici e nelle varie carte che ne sono state tracciate nel passato. Tenendo dietro alle successive cognizioni che si incontrano qua e là negli scritti più o meno antichi a riguardo delle nostre isole (no- tizie prima incerte, favolose ed estremamente scarse, e che di mano in mano, sebbene molto tardi, vanno fecendosi più numerose e più pre- cise fino agli ultimi accurati rilievi topografici ed idrografici) e com- parando opportunamente le notizie, sarebbe forse possibile trarre dei dati abbastanza attendibili da cui dedurre quali furono i mutamenti, specialmente costieri ed orografici subiti dalle isole durante T epoca storica. È indubitato che in una regione così piccola e limitata ovunque dal mare, una variazione accusata dal geologo, ma di cui egli non può precisare le fasi successive, nè la potenza complessiva può essere stata notata dai successivi geografi, ed ora confrontando una descri- zione accurata fatta parecchi secoli or sono, coll’aspetto offerto attual- mente dalle coste, potrebbonsi avere sufficienti elementi per calcolare quanto territorio è stato inghiottito dalle acque per F erosione in con- comitanza coll’ abbassamento bradisismico che si sa essere fenomeno generale per tutta la periferia del mare Adriatico a datare dal principio dell’epoca geologica attuale e tuttora avente luogo. La concorrenza dei quali fenomeni in un’isola o gruppo d’ isole si manifesta sotto questi aspetti: frazionamenti delle isole in altre sempre più piccole ; scomparsa graduale delle isole o scogli più pic- coli, più bassi e più erodibili. Quindi variabilità continua del numero e della grandezza delle isole e per risultato finale diminuzione comples- siva in superficie ed in volume della massa emersa. Disgraziatamente però le descrizioni dei geografi antichi sono tut- t’alt.ro che precise e pur troppo, per certe regioni dimenticate e fuori dei centri di civiltà anche molta parte di quello che se ne scrisse fino a ieri non è che parzialmente accurato ed esatto. In mancanza di de- scrizioni precise dobbiamo accontentarci di dati meno certi ma non meno giovevoli, sapendone trarre vantaggio. Infatti possiamo almeno attenderci dagli scrittori antichi qualche notizia sul numero delle isole. Onde consultando i geografi classici troviamo questa coincidenza no- tevole, che potrebbe anche essere fortuita, ma non però del tutto trascu- rabile che cioè il loro numero per il gruppo è sempre più piccolo quanto più grande è l’antichità dell’opera che ne parla. Si potrebbe però spiegare questo, considerando che le indicazioni geografiche quanto più risalgono indietro nel tempo altrettanto sono più grossolane e meno particolareggiate e precise, e quindi può credersi che non si tenesse conto se non dell’isola o delle isole maggiori o per diverse cause più notevoli ed importanti. Vi è poi una seconda inter- petrazione che cioè col nome generico di Diomedee (che tale era il nome del gruppo nelPantichità) sì comprendessero tutte le isole peri- garganiche e che quando si nominavano due di queste isole si volesse significare i due gruppi principali di esse; e questa spiegazione fu data in seguito alla esplorazione di Pelagosa che rivelò importanti tracce della civiltà romana, senza però che gli scrittori classici ne avessero mai fatta speciale menzione. Aristotele e Dionigi d’Alicarnasso nominano una sola isola (Isola Diomedea) e sono i più antichi autori che la menzionino. Il geografo Strabone che fiorì pochi anni dopo Cristo, dice le Dio- medee essere in numero di due (lib. 3°) e Plinio {Nat. Hist. lib. 3°) ne indica altrettante di cui una più grande coltivata e l’altra minore ed incolta. In Tacito trovasi la prima volta la denominazione di Trimerum — 453 — (secondo altri, Tremerum o Tremetum) ed infine Tolomeo (lib. 3°) che fiorì verso l’anno 138 dell’era volgare, dice esisterne cinque. Nei portolani medioevali le isole perigarganiche sono indicate, ma non ho i mezzi, nè ora sarebbe conveniente, di fare un esame mi- nuto di questa questione puramente geografica. Mi basti^di additare ad altri il problema. Nel Lexicon geographicum di Phil. Ferrario (Mediol. 1627) sono indicati anche i nomi delle cinque isole cioè : S. Maria , S. Domino , Gatizzo ì Caprara e Credazzi. Nell’opera del Coccarella, anteriore di un secolo, ma di cui la pubblicazione è ad un dipresso della stessa data del Lexicon non si fa parola del Gatizzo ma è invece figurato lo scoglio tuttora esistente detto La Vecchia. Nel Dizionario Corografico d’ Italia (Reame di Napoli, Voi. IV, pag. 994), trovo .questo periodo fra le altre notizie in genere poco precise : « Su vari altri scoglietti che sorgono tra le Tremiti come Gattizzo, « Carduccio, Pelagrosa, non merita parlarne ». Supponendo che non sia stata confusa questa Pelagrosa con il gruppo di Pelagosa e che trattisi di uno scoglio esistente tra le isole, come probabilmente gli altri, bisogna concludere che sieno tutti scomparsi e divenuti affatto trascurabili in questi ultimi anni, poiché attualmente non resta più traccia nemmeno di quelle denominazioni. Quindi anche queste osservazioni insignificanti, tendono sempre a confortare la nostra tesi. Ma le più positive deduzioni possiamo otte, nere solamente confrontando lo stato attuale delle isole, con la descri- zione accurata del Coccarella e del Ribera, o meglio ancora con la veduta prospettica delle stesse che trovasi nella traduzione del Ribera (vedi Appendice bibliografica in fine). Prescindendo dai cambiamenti dovuti all’opera dell’uomo (costruzioni, coltivazione) ed alla vegetazione, noi osserviamo i seguenti mutamenti nei limiti della porzione osser- vabile nella tavola. In generale poi, come era facilmente prevedibile, si nota che il massimo cambiamento in tre secoli si è manifestato lungo le coste for- mate diroccia meno resistente e solo leggere modificazioni dove sono for- mate di roccia calcarea molto compatta. — 454 — L’isolotto Cretaccio era meno staccato da S. Domino che oggidì, anzi nel testo dell’opera del Coccarella (1508) esso è considerato come un prolungamento di S. Domino (Libro II, capo II). Lo scoglio Capanna, di calcare compatto, aveva anche allora la stessa odierna configu- razione. Lo scoglio La Vecchia, era un po’ più allungato che attualmente ed alla punta meridionale della Caprara esistevano degli scogli ben evidenti che ora sono scomparsi o ridottissimi. Ma ben più profondi sono i cambiamenti avvenuti nella parte costituita di roccia meno tenace. La costa S.E di Caprara era meno frastagliata di oggidì ed ai suoi piedi mancavano i numerosi scogli oggi manifesti. Presentemente S. Nicola lungo la costa rivolta a S.E cade a picce o quasi nel mare, mentre allora degradava meno rapidamente per mezzo di una serie di collinette (e determinava due scogli notevoli, oggi man- canti) coperte in parte da vegetazione, ed aveva verso oriente una punta protendentesi nel mare per qualche decina di metri e che oggidì è affatto arrotondata. La modificazione più notevole ci è data dalla scomparsa quasi completa di un’opera dell’uomo della cui presenza al tempo del Ribera non è lecito dubitare. Una strada tagliata nella roccia, partiva dalla piattaforma su cui giacciono i fabbricati oggi abitati dai coatti e dagli isolani liberi e cioè dall’estremità meridionale-occidentale dell’isola e che non sorpassa 1’ altezza di 35 m. sul mare, e passando sul pendìo meridionale di essa sotto il castello, toccava la tagliata che non era praticata se non fino ad una quarantina di metri sul mare e poscia continuando sempre lungo il pendio della costa, raggiungeva la som- mità dell’isola, sul suo dorso disabitato, oltre il castello. E inutile av- vertire che da allora in poi questo lato è stato profondamente eroso, che quella strada è affatto scomparsa e che non si raggiunge il dosso più elevato di S. Nicola se non si attraversa il castello e non si varca la sella dovuta alla tagliata. Questo è adunque quanto ci può rivelare le modifica- zioni compiute in questi ultimi- secoli dall’erosione e dall’abbassamento le quali azioni entrambe si manifestarono certamente nelle isole fino dai tempi preistorici, ad onta che dell’ abbassamento non sieno state finora notate delle prove dirette. — 455 — Altri cambiamenti nell’ aspetto delle isole, dovuti all’azione del- l’uomo, si intrecciano troppo intimamente alla storia civile di questa regione. Abitate più volte e dadiverse civiltà, furono poscia a più riprese abbandonate, e rimasero per anni ed anni incolte e deserte ed altra volta di nuovo coltivate, fiorenti ed anche ben munite (poiché resistet- tero nel 1567 ad nn assedio posto dalla flotta turca che si ritirò colla peggio, e nel 1815 ad un attacco dell’armata inglese) e visitate da molti forestieri, anche di lontani paesi, per oggetto di devozione. Quasi tutto quello che si riferisce alla loro storia, si troverà nei libri indicati nell’appendice. Ora l’isola è destinata a relegati (coatti) ed a persone libere che non vi hanno un domicilio perfettamente legale. La popolazione è sem- pre variabile di numero, ma non già in correlazione colle risorse del- l’isola stessa. Nel 1844 contavansi circa 900 individui, 665 nel 1876, 520 nel 1881 ed ora sono più numerosi, sicché le persone viventi sulla piattaforma destinata a colonia penale vivono addossate in ristret- tissimi fabbricati. Dal libro del Monterumici (1877) rilevo questi dati approssimativi (poiché la somma non corrisponde alla superfìcie totale), sulla cultura riferentisi a computo anteriore a quell’ anno. Complessivamente sulle quattro isole si avevano 60 ettari di terreno coltivato, 90 di boschivo, 177 di dis'sodabile e 77 di sterile. Ora il terreno coltivato è di molto aumentato. Non si hanno finora raccolti dei fatti positivi per affermare che le isole sieno state abitate dall’uomo nei tempi preistorici, mentre per l’accurato lavoro del Marchesetti 1 è accertato che nell’isola di Pela- gosa, alquanto più piccola, ben più lontana da qualsiasi terraferma, e quindi molto meno raggiungibile dagli uomini aventi mezzi di na- vigazione affatto primitivi , l’uomo dell’età della pietra nonché di quella del ferro e successivamente delle epoche storiche, vi ha lasciato tracce non dubbie. Alcune scheggie di selce che trovai alla superfìcie del suolo, e che anzi si incontrano con qualche frequenza, non lasciarono scor— 1 Mabchesetti Carlo, Descrizione dell'isola di Pelago sa (Bollettino Società Adriatica di Scienze naturali, voi II). Trieste, 1876. — 456 — gere a chi è presso noi il più competente nella materia, i caratteri sicuri dell’opera intenzionale dell’uomo, nè mi è noto che vi sieno stati fi- nora raccolti altri manufatti litici meno dubbi. La selce però trovasi at- tualmente nell’isola in un solo sito alquanto recondito, alla base di una rupe che cade a picco nel mare ed in istrati che escono solo per pochi metri dal livello dell’acqua, onde è impossibile che quei fram- menti di selce sparsi su tutta la superfìcie delle isole, sieno pervenuti naturalmente da quell’ affioramento. Quindi bisogna per forza ammet- tere che fu l’uomo a frantumare la selce ed a spargerla, sia pure importandola dal continente ed in tempi a noi vicini, ovvero è suppo- nibile che la selce potè distribuirsi naturalmente e più agevolmente sulla superficie delle isole quando essendo alquanto più estese, gli strati selciferi potevano essere anche più diffusi e più elevati rispetto al piano delle isole. BIBLIOGRAFIA GEOLOGICA. Ben pochi sono gli scritti che trattano delle Isole Tremiti in genere, uno solo, che io conosca, che ne parli esclusivamente sotto il punto di vista scientifico, ma pur esso risale a molti anni addietro. Nel giugno dell’ anno 1837, Guglielmo Gasparrini visitò le isole precipuamente con il fine di suggerire i mezzi migliori per ridurle nuovamente a coltura, e pubblicò il risultato 1 dalle sue osservazioni, facendolo precedere da un piccolo cenno storico, fìsico e geologico sulle isole, e dando 1’ elenco nominale delle piante che egli vi ha incon- trate 2. Suggerisce poi quali vegetali utili, coltivati ivi opportunamente avrebbero dato buoni prodotti. Nel capo 2° del suo lavoro (pag. 104) parla della Struttura e qua- 1 Gasparrini G., Descrizione delle Isole Tremiti ecc. 2 II Dott. Achille Terracciano ha recentemente aumentato considerevol- mente quel catalogo. — 457 — lità delle rocce. Riferisce che sino allora le isole si ritennero general- mente vulcaniche per analogia con quelle del golfo di Napoli ed ag- giunge che non solo non vi incontrò rocce vulcaniche, ma nemmeno rocce massiccie. Egli le giudica essenzialmente formate di calcare con nummuliti e di un tufo più o meno duro, giallastro, ricco di con- chiglie fossili, che ritiene sottostante al calcare a nummuliti, mentre invece è sovrastante e soggiace ad un calcare quaternario, che si può ammettere benissimo sia stato da lui, non geologo, considerato identico a quello più antico in causa di una certa analogia esteriore. Ed è perfettamente scusato degli equivoci che ha preso poiché soggiunge che 1’ isola « non pare sia fatta a strati, disposti secondo « qualche regola, perchè in quanto si scopre alla vista comparisce di « un solo masso segato di quando in quando da vene, senz’ordine e « senza direzione », con che appunto ha voluto dire che la stratifica- zione del calcare è ben poco visibile, e tanto meno per lui che non era geologo, se non per quell’occasione. Conclude, che tanto per i petrefatti, che per i minerali, tali isole dovevano attribuirsi al terreno Cretaceo (colla quale denominazione si comprendeva allora anche il Nummulitico) e che erano complessi- vamente simili alla formazione del Gargano. Le rocce portate dal Gasparrini furono esaminate dal Pilla e dallo Scacchi. Il primo parla incidentalmente di Tremiti nella relazione 1 del suo viaggio al Gargano fatto per esaminare le cave dei marmi e per valutarne la bontà indu- striale. Egli pensa (pag. 106) che le Tremiti abbiano origine comune col Gargano e che ne siano state staccate recentemente, essendo come egli asserisce, le rocce delle isole identiche a quelle del lato orientale del promontorio. Pensa che l’Isola di Pianosa, sia egualmente stata staccata dal Gargano. Lo Tchihatcheff 2 visitò il Gargano assieme al Pilla e nella sua 1 Pilla, Relazione diretta all'intendente di Capitanata sopra la struttura geologica del Monte Gargano , inserita negli Atti della Società economica di Ca- pinata, voi. V, 1840. 2 Pierre de Tchihatcheff, Coup d’oeil sur la constit. gioì, des Proc . merid. du roy. de Naples, etc. — Berlin, 1842, in 8°. — Vedasi pure dello stesso 458 — memoria parla per incidenza delle Tremiti, non aggiungendo però alcuna cognizione diretta sulla loro storiùgeolcgica. Accenna (pag.50ediz. frane.) alla presenza di rocce basaltiche e sienitiche assieme mescolate lungo il littorale adriatico, presso la foce del Fortore « le quali, dice, atte- « stano ad una vulcanicità estinta. Quivi esisteva probabilmente un « vulcano il cui punto di eruzione si trovava nel fondo di mare che si « estende tra il littorale e la piccola Isola di Tremiti, esclusivamente « formata di calcare a nummuliti e dove non si scorge alcuna traccia « vulcanica. » E soggiunge poi che quel centro eruttivo deve avere avuto parte nella grande catastrofe che ha separato il Gargano dal- l’Appennino e dalle Tremiti. Onde vedesi come sia stata anche qui trattata incidentalmente la geologia delle Isole Tremiti, e come l’autore sia ancora preoccupato dalla teoria delle rivoluzioni telluriche. Dell’esistenza di queste rocce vulcaniche antiche, non è possibile dubitare.* 1 Di esse ne parlano anche il Pilla ed il Collegno; ma nessuno dei moderni autori le ha più ricordate. Giustiniano Nicolucci studiò in questo frattempo alcuni foramini- autore, Geognostische Schilderung des M. Gargano in den Jahre 1839 und 1840 (in Neues Jahrb. f. Min. Geog., Geol. und Peti*. K. von. Leonh. u. Bronn., pag. 39-58 con carta geol. a coloii, ed incisioni nel testo. Stuttgart 1841). 1 È abbastanza sorprendente il fatto che dalle Carte geologiche posteriori a quella del Collegno, l’indicazione di tale zona di rocce vulcaniche sia scomparsa senza alcuna buona ragione. Invero il Tchihatcheff ne parla ben chiaramente e dif- fusamente, oltre che indicare l’affioramento in modo preciso nella Carta geologica annessa, sulla quale le più recenti di quella regione non segnano, o quasi, alcun reale progresso. La foce del F. Fortore è un po’ discosta dalla parte montuosa del Gargano, ma non è alcun dubbio che geograficamente e geologicamente vi appartenga; onde i geologi che hanno recentemente trattato di quel territorio non avrebbero dovuto dimenticare quell’ interessantissimo punto che valeva, se non altro, a rompere la desolante monotonia che offre il paesaggio geologico del Gargano. Nella scorsa estate, allorché la presente nota era già scritta, un operatore dell’Ufficio geologico ha riscoperto l’importante affioramento nell’ eseguire il rile- vamento dei dintorni del Lago di Lesina ; infatti insospettitosi del nome geogra- fico di Punta Pietre Nere , situata su di una spiaggia sottile limitante una pianura alluvionale, vi portava specialmente la sua attenzione e raccoglieva campioni di quelle roccie. - - . — 459 — feri terziari dell’Italia meridionale e presentò una nota 1 e poscia una memoria accompagnata da tavole all’Accademia di Napoli nel 1843 2 ma questa non vide la luce se non nel 1846 in altra pubblicazione e senza le tavole. 3 Questo lavoro è fatto con criterii alquanto antiquati, sebbene già esistessero in parte le opere classiche e sintetiche del D’Orbigny. Fra i politalami non comprende le nummuliti, delle quali ne parla solo in una nota a piè di pagina che riferirò a suo luogo. Delle Isole Tremiti trovo indicate le seguenti specie di foraminiferi di cui trascrivo di fronte ad ognuna il corrispondente sinonimo attuale per lo più alquanto diverso che mi procurò gentilmente il competen- tissimo foraminiferologo Dott. G. Terrigi: Nome adottato dal Nicolucci Textularia aciculata d’Orb. Rotalia globulosa Ehr. » perforata Ehr. Planulina turgida Ehr. Planorbulina mediterranensis d’Orb. Anomalina laevis n. sp. Sinonimo attuale Idem. piccoli indiv. di Planorbulina globulosa Ehr., altre volte Globigerina sp. Globigerina bulloides d’Orb. Planorbulina ariminensis d’Orb. Idem. ? Noto che l’autore dà queste specie come appartenenti al calcare nummulitico di Tremiti; mentre è facile avvedersi che si tratta di specie plioceniche e viventi, e quindi non comuni all’eocene, anche perchè l’autore stesso le assegna ad altri depositi schiettamente pliocenici. Fortunatamente è facile spiegare l’appareute contraddizione. Sic- come infatti in seguito alla relazione del Gasparrini le isole nel complesso 1 Nicolucci Giustiniano, Elenco di pochi politalami /ostili trovati in diversi saggi di rocce fra cui in una calcaria del Gargano e nel calcare num- mulitico delle Isole Tremiti (Vedi Rendiconti delle adun. di lavori dell’Acc. delle Scienze, Sez. della Società Reale Borbonica). Napoli, 1843, voi. II, pag. 345 e 352 Non ho potuto consultare queste note che comprendono al più due pagine, ma non dubito che contengano gli stessi errori della memoria posteriore. 2 Relazione sulla Memoria a pag. 448 del Volume sopra citato. 3 Nicolucci Giustiniano, Descrizione dei politalami fossili delV Italia Meridionale (Nuovi Annali delle Scienze Naturali, etc. Serie II, tomo VI). Bo- logna 1846. — 460 — vennero ritenute eoceniche, o meglio nummulitiche, naturalmente i cam- pioni portati vennero confusi assieme, tanto più che allora non Si reputava necessario fare delle distinzioni per una località ritenuta tanto limitata ed uniforme, e il Nicolucci attribuì come appartenenti al calcare num- mulitico i foraminiferi che non può aver trovato se non nel tufo , ossia nella marna calcarea spettante al pliocene inferiore, come vedremo in seguito. La stessa confusione è avvenuta per le rocce nummulitiche dei Gargano cui sono attribuiti foraminiferi pliocenici e viventi. Qui però la spiegazione è più difficile, poiché se vi hanno formazioni plioceniche alle falde occidentali del Gargano sono ben distanti dagli scarsi lembi eocenici, o meglio dall’unico lembo allora conosciuto. Mi sono diffuso su questo particolare apparentemente insignificante per dimostrare quanto incerte ed erronee sieno state queste prime ri- cerche paleontologiche fatte intorno a queste isole, perchè l’unica nota che dal titolo lascia comprendere che dovrebbe trattare in qualche guisa della geologia di Tremiti, è completamente fondata sopra un errore gros- solano di osservazione. Ad onta di tutto ciò le notizie positive e dirette su Tremiti non possiamo averle, sieno esse esatte od erronee, a seconda della interpre- tazione suggerita per il caso speciale, se non ricercandole cotanto ad- dietro, cioè nei lavori dei geologi di cinquant’ anni fa; poiché quello che si può ricavare dai lavori più recenti che trattano del Gargano, quali sono quelli del Bucca e di Canavari e Cortese, e che non par- lano delle Tremiti se non per incidenza, si può dire che non aggiunge, ma anzi toglie alle notizie antecedenti. In lavori posteriori a quell’epoca, dirò eroica per la geologia ita- liana, troviamo solo ricordate alcune specie di nummuliti di Tremiti, cioè nella citata opera del Canavari e Cortese ed antecedente nelle Considera- zioni sulla Geologia stratigrafica della Toscana , di Savi e Meneghini (Firenze 1851). Vengono poi spesso le isole stesse ricordate nei non scarsi lavori geologici riguardanti l’Isola di Pelagosa ed in quelli molto re- centi che discutono la questione dell’Adria che avrò occasione di trat- tare alla fine. Nella Carta geologica d’Italia pubblicata recentemente alla scala di 1 a 1 000 000 dall’Ufficio geologico, e che rappresenta la sintesi dei lavori finora compiuti sulla geologia della penisola, queste isole appa- — 461 — iono costituite di solo Eocene, mentre vedremo tosto che in esse si ri- scontra la serie continua dal Neocomiano al quaternario. D’altronde dalla stessa carta, Pianosa appare incognita, perchè infatti nessuno l’ha esplorata geologicamente, e la stessa sorte ha subita Pelagosa che al contrario fu oggetto di speciale accuratissima illustrazione da parte del Marchesetti di Trieste e di note particolari dei più conosciuti geologi austriaci. Altre isole poi molto più estese (S. Andrea) e lo Scoglio Pomo, che sono quelle che più si protendono dalla Dalmazia verso il mezzo dell’Adria- tico, sono addirittura omesse anche come indicazioni geografiche, mentre sappiamo che questi relitti per quanto minuscoli possono darci luce sopra l’origine del bacino stesso. Non riferisco nemmeno dove trovansi affatto recentemente stam- pate cose come queste che « le Isole Tremiti offrono ovunque all’os- servatore tutte le gradazioni dei fenomeni vulcanici », frase che tro- vasi quasi identicamente ripetuta nei dizionari corografici e nelle enci- clopedie più estese e più recenti. Onde io non dubito asserire che fino a poco fa chi volesse sapere qualche cosa intorno alle Isole Tremiti avrebbe dovuto ricorrere alla descrizione del Cecarella che ornai conta 300 anni. Ricorderò infine che nel Dizionario corografico d’ ItaliafiJ ol.IV , Reame di Napoli (Milano 1852), parlando di S. Nicola di Tremiti, dice che « il 15 maggio 1816 si formò in questa isola un vulcano che durante sette ore vomitò pietre ed una lava solforosa, e che fece poscia altre simili eruzioni. » Trovo questa frase ripetuta in opere recenti senza che però vi sia aggiunto alcun particolare. Non ho potuto finora incontrare alcun libro che accenni più diffusamente a questa eruzione, e tanto meno la fonte prima della notizia. Leggo nel Girardin 1 pag. 164 « Volcan de S. Nicolas (ile de SS Nicolas , Vune des Tremiti). Tres petit volcan en activitè » il che è assolutamente inverosimile, poiché la parte insulare non porta alcuna traccia di attività vulcanica nè recente nè antica, e se l’eruzione sopra indicata con precisione di data è veramente acca- 1 Girardin M. J., Consider. géner, sur. les volcans , etc. Paris, 1831. — 462 — duta, non può trattarsi che di una eruzione sottomarina lontana discre- tamente dalle isole. DESCRIZIONE DEI TERRENI. Cretaceo inferiore. — ( IVeocouiiano ). Nella parte dove il sollevamento appare essere statò più potente, a base di tutti gli altri strati, ora a giorno, affiorano per pochi metri sopra il livello del mare, sotto una rupe a perpendicolo, le testate di strati sottili di calcare, o meglio di dolomite, alternati con straterelli e noduli di selce. / La dolomite è subsaccaoride, alquanto compatta e massiccia, forse un po’ impregnata di selce, nei varii strati ha tinta un po’ varia tra il biancastro, il verdognolo, il roseo ed il giallastro. L’aspetto indica che trattasi di dolomite e l’analisi fatta dall’Ing. Mattirolo nel laboratorio dell’ Ufficio geologico conferma la supposizione, poiché diede 40,64 per cento di carbonato di magnesia. E quindi una dolomite ricca di magnesia. I piani di stratificazione sono ben distinti e gli strati hanno po- tenza variabile da pochi centimetri a due decimetri circa. I «noduli di selce sono disposti in letti alternati con gli strati di dolomia La selce è biancastra alla superfìcie, conservando il nucleo più o meno bruno. Non v’incontrai alcuna traccia di fossili macroscopici o micro- scopici. Per la posizione stratigrafìca, sottostante concordantemente alla formazione nummulitica, nonché per 1’ analogia della facies litologica, (trascurando la circostanza forse locale, non altrove notata, se trattasi veramente di calcare o di dolomite) con quella dei depositi cretacei così estesi al Gargano, non resta dubbio sulla pertinenza di questo affioramento al Neocomianoì quale viene comunemente inteso in Italia. Poiché oltre che essere diffusissime al vicino Gargano, formazioni affatto analoghe a queste per faàies e per posizione, cioè sottostanti alFippuritico e sovraincombenti al Giura, trovansi estesissime nel Ve- neto occidentale e nella Lombardia dove si conoscono sotto il nome di Majolica e di Biancone ; nella Toscana, negli Appennini centrali, nei monti Tiburtini, Cornicolani e nei Sabini, come appare dalla recente Carta dei dintorni di Roma pubblicata dal R. Ufficio geologico, e nei pochi — 463 — siti dove affiorano nella Sicilia (presso Sciacca). Ovunque conservano sempre un carattere uniforme o quasi, che è generale per tutta l’Italia e tale serie è stata sempre riferita al Neocomiano. Onde si può ben concludere- che condizioni ovunque uniformi o simili verificaronsi du- rante la sedimentazione del Cretaceo inferiore nella maggior parte d’Italia, il che è già affermato dal Taramelli per l’area periadriatica. Nel gruppo delle Tremiti si possono adunque osservare gli strati neocomiani emergere dal mare di pochi metri e lungo un breve tratto di costa alla estremità Sud-Ovest dell’Ìsola Caprara tra la Punta di Terra e la Cala dei Turchi. È facile dedurre che tutta la base sotto- marina delle isole deve poggiare su questo terreno, se esso mantiene come è da ritenersi, una potenza non dissimile da quella valutata nel pro- montorio garganico, cioè di 600 m. Nella regione insulare la potenza complessiva degli strati emersi dalle acque non supera una dozzina di metri. Cretaceo medio e superiore. La parte culminante ed il pendìo settentrionale del M. Grosso, ov- vero del dorso maggiore che costituisce Caprara, la porzione che sovrasta immediatamente agli strati neocomiani, alla parte meridio- nale della stessa isola, nonché la estremità Sud-Ovest di S. Domino, compreso il suo rilievo maggiore, sono costituiti di una roccia affatto simile a quella del Neocomiano, che senza dubbio devesi ritenere do- lomia o calcare dolomitico quantunque non siastata di proposito ana- lizzata. Ha struttura finamente saccaroide ed è compatta come la dolomia su cui riposa; ne differisce per avere un colore uniformemente grigio- giallastro e distinguesi nettamente per la mancanza di selci e per la deficienza di demarcazione nei piani di stratificazione. Per i quali caratteri invece si avvicina e spesso si confonde con i sovrastanti banchi nummulitici. Esaminata la roccia da vicino presenta piccolissime cavità irregolari nelle quali appaiono chiaramente le fac- cette brillanti dei microscopici cristalli di dolomite. La potenza ne è dif- ficilmente calcolabile perchè i limiti superiore ed inferiore non si pos- sono marcare con sicurezza. Si può però ritenere approssimativamente che oscilli tra 150 e 250 metri. Non ha dato alcuna traccia di fossili, — 464 ma per la posizione sua dovrebbe rappresentare il piano ippuritico. Passa insensibilmente alinocene non lasciando scorgere alcun repen- tino cambiamento di facies in base al quale sia possibile tracciare un limite preciso. La stratificazione è difficilmente visibile, non tanto perchè il ter- reno non presenti affatto dei piani di stratificazione sia pure indistinti, quanto perchè esso affiora in un’area limitata e non praticabile per l’asprezza del luogo, e coperta dalla vegetazione o dalla incrostazione calcarea superficiale sparsa quasi dovunque sulle isole. Terreni eocenici. Il gruppo eocenico ed i membri che lo compongono non manten- gono uniformità di facies per così estesa parte d’ Italia come ac- cade per il piano neocomiano. Ma è del resto legge generale che nella evoluzione fìsica e conseguentemente biologica della terra, da condizioni primitive uniformi o poco dissimili per tutta la sua super- fìcie si passi lentamente e per gradi, durante il succedersi delle ere geo- logiche, ad avere delle zone, delle plaghe, o dei bacini sempre meno estesi in ognuno dei quali allato dei fenomeni generali per quell’epoca, se ne svolgano di quelli speciali tanto in ordine al regno fìsico che a quello organico. Ma più che mai l’uniformità è turbata profondamente nella regione italiana durante la sedimentazione del gruppo costituente il terziario inferiore, talché ci si presenta così multiforme sotto ogni aspetto da non potersi dubitare essere stata l’Italia e le adiacenti regioni, teatro sia per tutto il tempo da luogo a luogo, sia nei periodi successivi nello stesso sito, di una successione svariata ed incantevole di paesaggi (in- tendendo con questa parola tutti i fenomeni animati ed inanimati della natura) aventi ognuno una impronta caratteristica rimasta indelebil- mente scolpita nelle Prealpi nostre e negli Appennini. Infatti abbiamo un tipo speciale di Eocene nel Nizzardo e nelle Alpi marittime, un secondo tipo nel medio Piemonte; e bacini distinti e diversi nel Vicentino e nel Veronese, poi nel Friuli, nell’Istria e nella Dalmazia. Infine dalla Liguria all’ Umbria sono prevalenti quelle con- dizioni che ci diedero quali sedimenti il macigno, l’alberese e le argille scagliose. Nell’Italia centrale altre argille scagliose alternate con cal- — 465 — cari nummulitici, e più giù ancora altri tipi di formazioni, solo parzial- mente studiati, che nella loro proteiforme varietà hanno un solo ca- rattere costante ed universale, quello cioè di contenere una sterminata quantità di nummuliti. Un' area di cui non mi sono noti i limiti e che comprende il Gargano, le Isole Tremiti e il gruppo della Majella (e che si estende forse fino al M. Vettore comprendendo il Gran Sasso dTtalia, quantunque non lo sappia per osservazione diretta), mostra un tipo speciale di strati eocenici e che finora non è stato incontrato altrove in Italia, cogli stessi carat- teri petrografici e paleontologici. In questa contrada gli strati eocenici più potenti e più caratteristici trovansi alla base della formazione e sono rappresentati da calcari bianchi o biancastri, spesso dolomitici, compatti o farinosi, talora zeppi di nummuliti macroscopiche più o meno tenacemente in essi conglobate, e talora costituiti quasi esclusivamente da piccolissime nummulitidee e da altre foraminifere ed infine da altri calcari spesso dolomitizzati con pochi, ovvero senza traccia alcuna di organismi. Gli strati eocenici di Tremiti appartengono adunque a questo tipo a facies uniformemente calcarea dove dal basso in alto si ha in linea generale, e senza che vi sia possibile una distinzione netta fra le diverse categorie, la seguente successione di rocce: A) Calcari biancastri privi di fossili che formano il passaggio tra il Cretaceo superiore e l’Eocene con nummuliti. Ad un certo punto divengono più giallastri e più farinosi, ed allora racchiudono numerosi resti organici dei quali non sono rimaste che indiscernibili tracce sotto forma di cavità alterate dalle azioni fisiche. In alcuni campioni si scorge a mala pena che i fossili dovevano essere nummuliti, in altri queste sono un po’ più visibili, quantunque sempre in modo insufficiente a qualsiasi specificazione. Contengono anche impronte di calici di coralli sem- plici. La scomparsa quasi totale dei fossili lasciava intravvedere che qualche azione chimica, lenta ma profonda, doveva essere intervenuta nella roccia e l’aspettò di essa faceva ritenere trattarsi di dolomi- tizzazione. Infatti l’analisi fatta gentilmente nel laboratorio chimico del R. Ufficio geologico sopra un campione della roccia diede in essa il 23,58 per cento di carbonato di magnesio, onde una vera dolomia. 30 — 466 — B) La roccia nummulitica principale è costituita generalmente da un calcare farinoso, almeno nei massi della superficie (forse nelle pro- fondità più compatto) zeppo di nummuliti. Le specie principali incon- trate sono le seguenti: N. perforata d’Orb. var. Renemeri de la H. N. lucasana Defr. e var. Meneghina (d’Arch. et H.). N. discorbina Schloth. N. subdiscorbina de la H. N. cfr. striata d'Orb. N. cfr. Guettardi d’Arch. Orbitoides ephgppium Schloth. *. Dove questo calcare passa al successivo, si aggiunge alle specie citate la N. Tchihatchefft d’ Arch., le Orbitoidi si fanno più frequenti e nello stesso tempo le due N. lucasana e perforata divengono più rare. Il piano B, per la presenza delle due specie ora indicate, deve essere riferito al Parisiano superiore, corrispondente cioè agli strati inferiori della Mortola. C) Gradatamente si passa ad un calcare più bianco ed un po’ meno farinoso, che costituirebbe un piano equivalente al Bartoniano supe- riore dell’Europa centrale. La roccia è piena di nummuliti e di altri organismi tra cui ho incontrato frammenti di Echinidi, di Rotularia spirulaea Lamk., ed un.’ Isis breois d’Arch. Le specie di nummulitidee determinate nelle varie località sono le seguenti : 4 11 mare in cui si deponevano questi strati doveva essere talmente ricco di carbonato di calcio che gli animali in esso viventi costruivano il loro scheletro con maggiore ricchezza di calcare che non abbiano fatto altrove. A proposito delle nummuliti è ciò avvertito già da un pezzo dal Savi e Meneghini nell’Ajo- pendice sulla Toscana alla traduzione del Murchison. Ciò non pertanto il d’Ar- chiac fece una N. Meneghina di una varietà locale a lamina molto spessa della N. lucasana. Le parole del Nicolucci (pag. 176, nota) a proposito delle nummuliti di Tremiti sono le seguenti: « Questo calcare contiene, oltre i politalami, tre specie di mun- te muliti delle quali havvene taluna della grandezza quasi di un pollice. Sono dette « specie la N. placentula (Forsk.), la N. laemgata e la N. cellulosa », ecc. Anche ridotti questi nomi alla diversissima sinonimia odierna in nulla convengono colle specie incontrate a Tremiti. — 467 — N. complanata Lk. N. latispira Savi e Menegh. N. Tchihatclieffi d’Arch. N. Guettardì d’Arch. N. bìarritzensis d’Arch. N. Ramondi Defr. N. striata d’Orb. ? N. anomala de la H. N. gar panica Teli. N. lucasana Defr. Assilina Madaràszi Hantk. Operculina ammonea Leym. O. diomedea Teli. Heterostegina sp. Orbitoides gapyracea Boub. O. Fortisi d’Arch. O. ephgppium Schloth. O. tenella Gumb. Negli strati più elevati trovasi maggior ricchezza di Orbitoidi. In complesso però le due faune nummulitiche degli strati B e C sono molto simili e offrono tra loro dei passaggi graduati. Alla Majella non ho potuto incontrare dei campioni di rocce in cui non fossero sempre mescolate le specie di queste due faunule, e di più qualche altra forma, onde ho dovuto indicare il complesso di quegli strati come appartenenti a depositi che rappresentano altrove la sedi- mentazione cominciata col Parisiano superiore e che ha proseguito per tutto o quasi il Bartoniano. D) Al di sopra vi si adagia un calcare bianco compatto, privo di fossili e nel quale i piani di stratificazione sono ancora meno visibili, se possibile, che nei calcari sottostanti onde la direzione ed inclina- zione di questi sarebbe indiscernibile se non vi fossero ad indicarla gli strati miocenici e quelli del neocomiano oltre che l’andamento oro- grafico delle isole stesse. Di questa massa calcarea omogenea non è possibile dire con approssimazione l’età, ma probabilmente deve rappresentare tutta la sedimentazione avvenuta dall’Eocene superiore al Miocene medio. Essendo la più tenace roccia delle isole, ha resistito — 468 — di più alla demolizione delle onde e di essa sono costituite le punto più scoscese penetranti a guisa di cunei nel mare, e gli scogli più ispidi e dirupati. Frale rocce eoceniche di Tremiti devesi ancora ricordare un’ are- naria calcarea un po’ giallastra nell’assieme, assai compatta, costituita, in gran parte di organismi fossili. Gli elementi sono delle foraminifero tra cui specialmente numerose Milioline e piccole Nummuliti , spugne calcaree, Lithotamnium , numerose spine di echinoidei e finalmente, con il guscio calcinato, numerosi esemplari di Hydrobiae (?) e fram- menti di Triforis (?) e di lamellibranehi, tra i quali si può constatare la presenza del genere Cardium. In complesso questa roccia ha molta analogia colle sabbie fossi- lifere di Guise-la-Motte e più ancora colle sabbie di Beauchamp del bacino di Parigi, quest’ ultime appartenenti al piano Bartoniano. Di questa roccia però, che appare così ben caratterizzata non devono esistere che piccolissimi letti tra il calcare nummulitico poiché non ho potuto incontrarla nella sua posizione originale, onde resta incerto il suo posto nella serie. Le nummuliti, essendo troppo piccole ed impi- gliate nella roccia non possono dare dei criterii cronologici sufficienti. Incontrai dei pezzi della interessante roccia tra la Punta Secca e la Cala Inglese, sul versante N.O di S. Domino. Delle varie divisioni innanzi stabilite si deve ritenere che il com- plesso degli strati designati colle lettere B e C è quello costituente la parte principale di questo tipo nummulitico diffuso .sull’area abruz- zese-garganica. A Tremiti l’Eocene è in gran parte mascherato dalla incrostazione calcarea quaternaria e dal suolo coltivato. Dell’altipiano- di S. Domino, di cui forma quasi T intero basamento, non vedonsi allo scoperto gli strati se non sul pendio esterno e sulle balze cadenti in mare. Di Eocene è adunque costituita tutta la parte mediana (versante orien- tale del Monte dell’Eremita) e la settentrionale di S. Domino, esclusa una porzione della costa prospettante S. Nicola. Ne è parimenti formata la base N. 0 del Cretaccio e la parte media e più bassa di Caprara dalla Punta del Faro alla Punta di Terra, escluso il pendio immediata- mente sovrastante al mare dalla parte del canale mediano che divide le isole, e qualche porzione del pendio che limita la Cala dei Turchi. — 469 — Alla Grotta Menichello, alla Grotta del Sale ed alla Cala Inglese si hanno piuttosto predominanti gli strati del piano Parisiano supe- riore ; a S. E di Casa Baronessa, dalla Punta Diamante allo scoglio Pa- gliaro, alla base del Cretaccio, allo scoglio La Vecchia ed alle due punte opposte di Caprara si osserva la roccia calcarea assai dura che forma il passaggio al Miocene e che designammo colla lettera D. Nel tratto intermedio prevalgono gli strati del piano Bartoniano e special- mente alla base del M. Grosso e tra Casa Baronessa ed il colle mag- giore di S. Domino. Aggiungo che la potenza complessiva dell’Eocene -si può valutare a 300 metri e finalmente che questo terreno è l’unico di cui finora si potesse affermare con sicurezza la presenza a Tremiti. Miocene medio. — ( Elveziano ). Senza hyatus apparente, avviene il passaggio dall’Eocene al Mio- cene, nello stesso modo che si passa insensibilmente da questo al Pliocene e poi al Quaternario. Avendo ivi perdurato per tutta l’epoca terziaria il regime schietta- mente marino, i piani che altrove si riscontrano (se sono essi comuni e dif- fusi almeno per tutto il bacino del Mediterraneo) dovrebbero pur ivi essere rappresentati, ma invece in tutto il Miocene non ravvisiamo che una piccola serie di strati la quale a mala pena, senza corredo dei dati paleon- tologici, possiamo dividere ed attribuire approssimativamente a due piani successivi, V Elveziano ed il Tortoniano. Siccome in tutta la serie ter- ziaria delle Tremiti non incontriamo alcun elemento detritico che ci riveli la vicinanza immediata di coste, ne viene facile la spiegazione dell’esiguità relativa dei depositi e nello stesso modo, trattandosi di forma- zioni discretamente pelagiche, possiamo agevolmente darci ràgione della uniformità biologica che ha durato lungamente, nel mentre p. e. al piede immediato delle Alpi e degli Appennini, abbiamo nelle età corrispondenti svariatissimi depositi e faune multiformi. Ho detto che in generale non si hanno rocce clastiche grossolane a Tremiti, ma in realtà appunto nel Miocene medio si ha l’unico caso in tutta quella serie terziaria, in cui apparisca una arenaria a gra- nuli di glauconia di cui però è sempre incerta la provenienza, e che parrebbe, secondo il Taramelli, avere relazione colle eruzioni doleritiche 1 degli Euganei. — 470 — Il punto migliore e più pittoresco per osservare la formazione mio- cenica nel gruppo, è l’isolotto Cretaccio, chè, spoglio affatto di vegeta- zione ed eroso profondamente da ogni lato, lascia scorgere la regolare sovrapposizione degli strati. Quivi Fazione erosiva fu talmente forte che oramai mancano solo pochi metri in altezza ed in estensione di roccia arenacea da asportare^ poi l’isolotto sarà diviso in due scogli; mentre pare certo che in epoca storica e non lontana il Cretaccio fosso ancora unito all’isola di S. Domino. Al Cretaccio dunque sopra il calcare bianco attribuito all’ Eocene superiore e forse rappresentante l’Oligocene, si adagia una serie di strati ben distinti di un’arenaria glauconitica in cui si hanno varie gra- dazioni di colore da strato a strato, dal rosso mattone fino al verdo- gnolo abbastanza intenso. Gli strati inferiori sono prevalentemente di tinta rossa mentre nei soprastanti predomina il colore verde. L’arenaria di colore rosso vista attentamente da vicino si presenta composta dì piccoli granuli di colore verde o scuro compatti e lucenti alla superfìcie. I granuli verdi ben individualizzati sono rari ed insieme con quelli verdognoli-terrei ben più numerosi, che derivano dall’alterazione dei primi, giacciono in una pasta finamente ed irregolarmente bucherellata di colore rosso vivo ed a struttura minutamente cristallina. Nell’ acida cloridrico la roccia si scioglie completamente lasciando intatti solo i piccolissimi granelli glauconitici più bruni. Essa è discretamente dura e rugosa al tatto. Quella varietà che ha colore verdognolo è costituita di granuli di glauconia, non alterata, talora anche aventi qualche millimetro di diametro, da glauconia decomposta, che ha assunto colore verde-chiaro ed infine da un cemento non molto tenace, marnoso, di colore giallastro. L’erosione meteorica produce alla superficie degli strati di arenaria, delle reticolature irregolari corrispondenti a vene più calcarizzate di di cui è intrecciata la roccia. Gli effetti della demolizione e dell’erosione esercitati su più larga scala e visti da lungi ci presentano delle forme di rocce pittoresche alle quali la stratificazione, il vivace colore vario da strato a strato e la presenza dell’acqua azzurro-cupo del mare, danno sembianze severe e strane, od apparenza di forme imitative o fantastiche che,, sebbene in miniatura, non per questo sono prive di bellezza. Oltre che al Cretaccio, e più precisamente sulla parte N.E di esso. — 471 — dove questi strati fono maggiormente caratteristici, specialmente per il colore rosso che presentano, incontransi anche in varii punti del pendio orientale di S. Domino tra il Porto e la Casa Baronessa e scar- samente sulla costa S.E di Caprara. Fortunatamente questo terreno presenta frequenti odontoliti spe- cialmente diffusi nella roccia verdognola più tenera. Le poche specie rinvenute, gentilissimamente determinate dal Prof. Francesco Bassani, sono le seguenti: Galeocerdo aduncus Agass. Lamna cuspidata Agass. Chrysoprhys cincta Agass. Oxyrhina hastalis Agass.? Le quali forme a detta dell’illustre paleoittiologo, son sufficienti a caratterizzare il miocene medio ossia PEIveziano, confortando così le conclusioni cui si sarebbe giunti col solo criterio strati grafico, natu- ralmente però in questo caso badando di preferenza agli strati che stanno sopra e che danno la serie più completa e meglio accertabile. La potenza di questo piano unitamente al successivo di cui non si può nè distinguere nettamente il limite nè precisare l’età con dati paleontologici, ascende ad un numero di metri che può essere coni- preso tra i cinquanta ed i settanta. Miocene superiore. — (To rt onia no *?) Una marna leggermente calcarea, farinosa e sabbiosa, che lavata presenta una grande quantità di foraminiferi e che contiene ovunque, lungo tutto il suo affiorare, dei grossi noduli di limonite pseudomorfa di marcassite in cristalli, costituisce gli strati che poggiano diretta- mente sulla arenaria elveziana. Talora questa roccia è più dura e compatta ed assume una tinta un pò più bruno-verdognola passando anche ad un calcare pochissimo marnoso. Di fossili contiene, come dissi, molti foraminiferi e vi incontrai solamente un frammento di echi- nide (Emipatagusf) ed un radiolo di Cidarite. Si adagia sovra agli strati attribuiti all’Elveziano sulle coste di S. Domino e del Cretaccio che guardano S. Nicola, nonché alla Ca- prara nella porzione che sta di rimpetto al cimitero di S. Nicola ed alle rive della Cala dei Turchi. A S. Domino poi incontrai dei — 472 — piccoli lembi attribuibili a quella roccia sui fianchi della Punta Secca, la presenza dei quali dimostrerebbe solo che il sollevamento della parte antica delle isole erasi accentuato, almeno sotto la superficie del mare, allorché venivan deposti gli strati miocenici; onde ivi avreb- besi una vera stratificazione discordante fra questi strati e gli eocenici. Questa roccia ha potenza di poche diecine di metri ed è associata alla precedente. Pliocene inferiore. — ( Piacentino ). Le marne a marcassite limonitizzata trovansi allineate lungo la costa che guarda S.E delle isole di S. Domino, del Cretaccio e di Caprara, e gli strati immergonsi con piccola inclinazione nel braccio di mare interposto tra queste isole e S. Nicola che sorge quindi oltre il canale ad una distanza di 300 a 350 m. ed ha la base costituita dalle marne più o meno calcaree del Pliocene inferiore. Noi scorgiamo di leggeri che questo canale diretto da S.O a N.E ha larghezza uniforme, che è parallelo alla direzione generale degli strati e che quindi le coste delle isole dal lato che lo formano sono quasi rette, mentre dai lati rivolti al mare aperto sono irregolarmente sporgenti o sinuose: ne viene facile la deduzione che in corrispondenza al medesimo abbia esistito una serie di strati molto teneri che il mare avrebbe divorato, senza lasciarne alcuna traccia. E che questa erosione si sia esercitata sugli strati gessoso-marnosi, del Min-pliocene non può finora rimanere che una supposizione, finché non sia nota nei suoi particolari la serie terziaria del più prossimo affioramento del conti- nente. L’isola di S. Nicola, dalla base fino a due terzi e più della sua parte emersa é, costituita da strati leggermente inclinati verso S.E di una marna piuttosto indurita, compatta, talora sensibilmente calcarea avente una tinta giallognola che presenta quasi una massa omogenea lasciando Scorgere pochissimi piani di stratificazione, intrecciati con delle diaclasi in varie direzioni. I fossili racchiusi in questi strati, si può dire in linea generale costituiscano una fauna a Pecten e ad Ostrea , che trovansi di preferenza in nidi riuniti in alcuni punti specialmente alla parte settentrionale di S. Nicola. — 473 — In generale i Peeten sono rotti ed in ogni modo quasi sempre le due valve non si trovano riunite. Però non subirono alterazione no- tevole nel processo di fossilizzazione conservando interamente la pri- mitiva costituzione. Le specie che si incontrano con maggiore frequenza sono: Ostrea cochlear Poli, var. alata Foresti, var. navicularis Brocchi. Peeten ( Pleuronectia ) comitatus , Fontan. Peeten , specie varie e diverse dalle forme comuni sinora ritrovate nel pliocene italiano. Inoltre radioli di echinidi, denti di pesce e numerosissimi forami- niferi che sono affidati per lo studio al chiarissimo Dott. Terrigi. Il Peeten comitatus caratterizza secondo Fontannes e Capellini la formazione pliocenica inferiore, tanto del bacino del Rodano, come in Italia, dove si incontra negli strati immediatamente superiori al piano a Congerie. L’ Ostrea cochlear secondo il Foresti « ha avuto il suo maggiore sviluppo, insieme alle sue varietà, al cominciare dell’epoca pliocenica. Difatti il maggior numero di esemplari si rinviene nella parte inferiore del pliocene antico. » Ed invero è molto frequente a S. Nicola. Resta quindi stabilita la pertinenza di questi strati al Pliocene infe- riore corrispondente quindi al Piacentino , notando che questo piano differisce un po’ per livello da quello tipico della Liguria, del Piemonte e del versante occidentale delPAppennino avvicinandosi al Mio-pliocene altrimenti detto piano a Congerie dell’Alta Italia. Strati affatto simili, contenenti gli stessi caratteristici Peeten furono osservati recentemente nei dintorni di Penne, sul versante orientale delPAppennino. La potenza di questo piano per Pisola di S. Nicola si può calcolare che non superi i sessanta metri nella porzione emersa. Pliocene medio e superiore. — ( A.stiano ) La massa delle marne del Piacentino di S. Nicola è protetta inte- ramente da una specie di cappello calcareo che ha pur esso leggera inclinazione verso S.E, come le marne dure sottostanti. La potenza I complessiva di questo gran banco è superiore di poco ad una ventina | di metri. In alcuni punti le marne su cui poggia furono probabilmente 1 in parte stemprate dalle acque sotterranee ed asportate, per cui il cal- — 474 — care discese in basso lentamente mancando di sostegno, e qua e là si vede infatti il banco un po’ ripiegato all’infuori dell’ isola ed all’in- giù in modo da venir quasi a toccar V acqua. Tutto all' ingiro ove il sostegno marnoso è venuto meno, grossi blocchi di calcare sono roto- lati al basso, ed ora costituiscono in massima parte la sponda dell’isola e ne riparano in qualche modo la. base dall’ infuriare incessante delle onde. Alla estremità su cui giace l’abitato di Tremiti, il banco di cal- care è inclinato discretamente verso il Sud, sicché i fabbricati sono di- sposti sopra una china dolce per la quale, più facilmente che per altra via si guadagna la sommità dell’isola. Che questa condizione locale sia dovuta alla primitiva forza di solle- vamento, oppure a posteriore fenomeno di erosione della roccia, marnosa sottostante, non ho dati per negare od affermare. E che, in questa se- conda supposizione, Tequilibrio si sia poi ristabilito violentemente nella isola, che fu sempre la più abitata, e questo fatto avesse procacciato il nome di Tremetum a tutto il gruppo (Tacito ed Anonimo del XI secolo) già interpretato da alcuni come se dovuto alla frequenza dei terremoti, ed infine che questa condizione geologica possa presentarsi sfavorevole per la stabilità di tutta quest’isola, e specialmente della estremità fabbri- cata di essa, in un avvenire più o meno lontano, mi basti solo di avere incidentalmente notato. Nei diversi punti dell’ isola e nei diversi strati successivi il cal- care prende forme assai diverse. Talora è assai compatto, bianco o roseo, privo di fossili, tal’ altra è rossastro con modelli di bivalvi, altre volte è ridotto ad una finissima arenaria puramente calcare per- fettamente bianca, costituita in gran parte di foraminiferi piccolissimi incrostati di calcare ed insieme conglutinati. Infine altra forma consiste in un calcare terroso, bianco, tutto co- stituito da un impasto di conchiglie assieme confuse in guisa da presen- tarsi siccome un vero calcare organico. Questi diversi strati e banchi trovansi assieme associati, ne è possi- bile dire quale si trovi piuttosto in un sito che nell’altro, e quale sia costantemente più antico. Gli strati inferiori di passaggio al Piacen- tino contengono discreto numero di fossili, tra cui raccolsi: Pecten Jacobaeus Lin.; Thracia ventricosa Phil .; — 475 — Thracia pubescens Kiener ; Ostrea cochlear Poli, Cardium sp., ecc. Inoltre numerosi foraminiferi e vari modelli di gasteropodi indetermi- nabili. I fossili sono contenuti nella parte inferiore di questi strati, e di mano in mano che saliamo, si osserva che le acque marine divennero soprasature di calcare sino a spegnerne totalmente la vita. Nello stesso tempo noi assistiamo ad un sollevamento graduato del fondo in cui si operava tale deposito, poiché i fossili marini si fanno sempre più scarsi, e poi mancano del tutto, finché constatiamo che al regime marino si sostituisce quello terrestre. Ma questo sollevamento segna il passaggio dall’ èra terziaria alla quaternaria. Terreno quaternario. Le località pianeggianti e leggermente ondulate delle isole, più estesamente la piattaforma di cui è per metà costituito il dorso dell’i- sola di S. Domino, ed interamente il piano superiore di S. Nicola sono ricoperte di uno strato di spessore variabile da pochi centimetri a qualche metro, costituito di un calcare più o meno compatto, di colore variabile tra il bianco, il biancastro, il giallastro, il roseo ed il rosso. La roccia di quest* ultimo colore è più rara, ma presa in piccoli fram- menti tra i più compatti può presentare l’aspetto di un calcare secon- dario e particolarmente scambiarsi colla roccia detta rosso ammoniaco. La compattezza è assai varia, e corrispondentemente variabile la tenacità, la friabilità ed il peso, essendovene tra i campioni rac- colti nei vari siti, di quelli pesanti e duri e di quelli assai teneri, mi- nutamente porosi e quindi notevolmente leggeri. Si può dire in generale, che quanto è raccolta in sito più superfi- ciale,altrettanto è di colore più giallastro e di struttura più porosa. Vi si osservano facilmente le incrostazioni successive per le quali andò for- mandosi, ed avviene anche che in uno stesso campione si scorga il pas- saggio graduale di colore dal rosso al biancastro, e la stessa variazione di tenacità.La varietà di color rosso mostra delle macchie irregolari di colore più carico sparse in mezzo ad una reticolatura di tinta rosea. Questa varietà contiene rarissimi frammenti di ciottolini angolosi te- nacemente inclusi, provenienti dai terreni più antichi che trovansi a mag- giore altezza, ed affatto incorporati nella sua massa dei pezzi di nummu- — 476 — liti e di orbitoidi visibilmente derivate dai vicini strati. Di fossili propri ha numerosi gusci, biancheggianti per calcinazione, di molluschi terre- stri i più allo stato di frantumi e si presentano solo conservati in molta parte alcuni esemplari di piccole Helix. Però questo calcare d’ acqua dolce fossilifero trovasi solo in alcuni punti deirisola, mentre quello biancastro costituente la crosta più su- perficiale e privo di organismi, è sparso su maggiore estensione, ma in molti siti è coperto di terra vegetale, mentre altrove è esportato dall’erosione, ovvero si confonde col calcare del Pliocene superiore , dal quale alla vista non è sempre possibile distinguerlo. Il calcare conchiglifero trovasi specialmente in alcuni punti del versante Nord delle isole e precisamente presso la Punta Secca di S. Domino a pochi metri sul mare ed alle sponde limitanti la Cala dei Turchi. La varietà più superficiale si incontra invece sulla piattaforma di S. Domino ed in piccoli lembi sopra il Cretaccio, qua e là sulla Ca- prara e sopra tutto il dorso di S. Nicola. Questo strato di origine terrestre è verosimilmente concordante con gli strati del Pliocene superiore che appena emersi dal mare as- sieme a quelli immediatamente più antichi furono base a questa formazione continentale che si depositò specialmente sulle parti pia- neggianti e durante un tempo abbastanza lungo. E questa concordanza di stratificazione si verifica specialmente a S. Nicola. Dove manca il Pliocene superiore, il calcare quaternario giace in- differentemente sopra gli strati anteriormente formati ed emersi, e questo dimostra che lungo una linea quasi retta che ora corrisponde alla estremità N.O delle isole, si operò più forte il sollevamento, e colà cominciò ad esercitarsi come movimento ascensionale già dal finire del periodo eocenico, ma che non si manifestò come isola se non molto più tardi, mentre poco lungi da questa linea, cioè parallelamente ad essa verso S.E, il sollevamento fu gradatamente meno forte e ma- nifestassi più in ritardo e più leggero fino ad essere affatto nullo. Poiché se il sollevamento, inteso come manifestazione a noi sen- sibile sotto forma di territorio emerso dal mare, fosse avvenuto sola- mente e completamente dopo la deposizione degli ultimi strati marini, e si fosse esercitato di eguale potenza ed uniformemente su tutto il sotto- suolo delle isole in guisa da dinotare una forza endogena molto profonda — 477 — e potente, noi ora vedremmo che ogni strato marino più recente ricopri- rebbe successivamente ed interamente tutti gli strati più antichi, mentre in realtà invece succede, (come appare dalle sezioni) che ogni strato copre solo una parte di quello che lo precede per età, donde reputo doversi ammettere che il movimento ascensionale cominciò assai per tempo, ma si effettuò con estrema lentezza e sopra un’estensione assai limitata in larghezza mentre in lunghezza è probabile abbia interessato grande porzione di una delle curve peri-garganiche prima indicate. A proposito della larghezza su cui si esercitò il movimento, basta notare che tra la parte più sollevata che mostra l’affiorare del Neoco- miano e la porzione in cui emerse il Pliocene inferiore non vi è una distanza maggiore di 600 metri. A spiegare poi il fatto della successione graduata di tanti terreni dai più vecchi ai più giovani dal punto più fortemente sollevato a quello meno, in uno spazio così ristretto, ammetterei che di mano in mano che il nucleo più antico si sollevava, e gli strati erano già elevati sul fondo marino circostante, mantenendosi però sempre sotto il livello dell’acqua, venissero essi erosi dalle correnti a vantaggio delle forma- zioni mano mano posteriori costituentisi al piede del nocciolo, e che alla fine del Pliocene un movimento ascensionale più rapido abbia po- tuto far emergere dalle acque tutto questo lembo dapprima più esteso facente parte delle concentriche sottili catene peri-garganiche. Mi sono trattenuto così a lungo sopra una regione in vero poco estesa, che se fosse posta nel mezzo di un continente non meriterebbe più di alcune parole, perchè credo che data la condizione insulare e la distanza da ogni altra terraferma, di questo territorio, esso debba rilevare la storia geologica di un tratto ben più esteso di regione circumambiente che ci è nascosta dal mare. Vedremo di trar partito di queste osservazioni in seguito trattando del bacino adriatico in generale. Isola Pianosa. — In questo periodo, od appena appena dalla som- mità estrema del Pliocene, allorché il mare in quel sito non nutriva più molluschi, comincia a fare la sua comparsa nella storia geologica risola di Pianosa. Del calcare biancastro compatto che è, si può dire, uniforme su tutta la superficie dell’ isola e che raggiunge una potenza sopra il li- . — 478 - vello del mare di 9 metri, gli strati inferiori, si possono per induzione, ma senza l’aiuto di alcun resto organico, riferire alla sommità del Plio- cene, mentre tutta la massa superficiale deve essere riferita al Quater- nario. Infatti i calcari dell’isola offrono tutte le varietà di colore e di compattezza reperibili in quelli formanti la crosta superficiale alle Tre- miti. Mostrano pur quivi vene di colore rosso e rossastro e dei letti in cui la roccia è terrosa e che esplorati con comodità potrebbero dare qualche traccia di organismo. Appena dalla conformazione generale dell’isola, che è allungata da O.N.O ad E.S.E e, più elevata verso Nord, discende con dolce pendio verso il Sud, nonché dai pochi letti terrosi o dalle vene di calcare a tinta diversa, stante l’assenza dei piani di stratificazione, è possibile arguire della direzione degli strati che è appunto parallela alla maggior lunghezza dell’isola. La loro inclinazione è di circa 15° verso S.S.O, ossia come il pendìo naturale dell’isola. La brevissima fermata ivi fatta, essendo l’isola più che altro uno scoglio disabitato, completamente sassoso e con poca vegetazione er- bacea, non mi permise che di farvi un giro all’intorno in quelle con- dizioni semi-patologiche che si soffrono dopo una traversata non del tutto tranquilla fatta con una barca peschereccia. Trattandosi di una emersione massima di 9 m., di una roccia uniforme e priva de’ fossili, il geologo trova poco campo su cui esercitare le sue indagini e trovar prove alle sue deduzioni. Tuttavia credo di non andar errato figurandomi Pianosa nelle stesse condizioni in cui troverebbesi S. Nicola di Tremiti se venisse sommerso nel mare per 65 a 68 m. della sua altezza. E secondo questa supposizione ho tentato di rappresentarla nella sezione. La Carta idrografica italiana, che è Tonico lavoro (oltre al rilievo topografico militare al 50 000, riprodotto nella tavola annessa) su Pianosa, ci indica che almeno in alcuni punti esiste nuda roccia al fondo del mare ad essa circostante. E questa nozione ci lascia supporre l’estensione sottomarina del calcare quaternario sotto cui si può credere si espanda la formazione pliocenica come alle Tremiti. Per non esage- rare però senza ragione la potenza del calcare quaternario nella tavola annessa, ne ho disegnato il profilo non diverso da quello dell’ isola di S. Nicola. — 479 — Nel bassofondo dì 188 m. a S.E di Pelagosa, nel mezzo dell’Adriatico dove lo scandaglio segna una montagna rocciosa sottomarina ò più proba- bile si tratti di calcare cretaceo forse in relazione con quella breccia cal" careo-selciosa che costituisce l’ossatura della dirupata isola di Pelagosa. Ricorderò infine che sulla roccia nuda presso la Caletta dove si sbarca comunemente per approdare all’Isola Pianosa raccolsi un campione- di quella interessante varietà di calcite stalattitica di colore nero picei- forme che è distinta col nome di pelagosite dal vicino gruppo dove fu primieramente trovata. Dopo i lavori del Marchesetti, dello Tschermack e del Vierthaler non è il caso di parlare più a lungo sopra questa discussa varietà mineralogica, rimanendo pago di avere aggiunto un nuovo punto di rinvenimento. OSSERVAZIONI SULLA TERRAFERMA ADRIATICA. Lo studio del Quaternario delle Isole Tremiti e della Pianosa, ci porta a fare delle ricerche in un campo più vasto e più generale di cui la tesi sarebbe questa: Origine di queste isole, relazione tra loro e con le terre vicine; e questi temi si riannodano col problema enun- ciato dal Neumayr 1 sostenuto dal Suess 2 e divulgato in Italia spe- cialmente dal Canavari 3 che afferma resistenza, in tempi geologici più o meno vicini, di una terraferma emergente in una parte della re- gione ora occupata dai bacino medio e settentrionale del mare Adria- tico, terra che si convenne di chiamar Adria per analogia con la Tyrrhenis e con V Atlantide. 4 1 Neumayr, Zar Gesch. des òstlichen Mittelmeerbecke. Berlin, 1882. 2 SuESS, Die adriatische Senkung , nell’ opera Das Antlitz der Erde , Voi. II, Prag, 1885. 3 Canavari M., Osservazioni intorno all' esistenza di una terraferma nel - l'attuale bacino adriatico (Proc. Verb. Soc. Tose, di Se. Nat., Voi. IV, 1 feb- braio 1885, pag. 151). Pisa. 4 Vedi per l’Atlant'de il seguente scritto in cui sono bene riassunti i lavori precedenti: Borsari Ferdinando, L’ Atlantide, saggio di geografa preistorica (nella Rivista < La Rinascenza » pag. 127 e 219). Napoli, 1889, — 480 Enunciato sotto altra forma, sebbene più modesta, cioè di « for- mazione del bacino adriatico, questo problema, non ancora risoluto, ha fissato per tanti anni la mente » com’ egli dichiara, del Prof. Tarameli! che è infatti il primo e quasi Punico geologo che abbia cercato di dare le risposte più concrete e più positive a questo quesito, e le sue osser- vazioni dirette, fatte in lunga serie di anni, sparse in tante pubblica- zioni comprendono tutta la vastissima zona che va dall’ Istria alla Lombardia. In correlazione con un altro concetto, ossia, che lo studio dei con- tinenti del passato, deve andare di pari passo con quello dei mari del passato, quindi in conformità alla così detta geologia continentale , la stessa questione fu ancora posta in campo e maestrevolmente esposta secondo le conoscenze di allora dal Prof. Stoppani neWEra Neozoica e fu su questa via seguito con nuove ricerche ed induzioni dal Tara- melli, sempre però limitatamente alla valle padana ed alle pianure venete. Tutti questi autori trattarono la questione da un punto di vista o troppo generale o troppo speciale. Cercherò in base alle recenti os- servazioni di ricondurla nei limiti più rigorosi della critica distinguendo tra le diverse ipotesi quelle che presentano maggiore probabilità di esser conformi al vero. Tremiti e Pianosa entrano molto da vicino nella controversia poiché relitti importantissimi, veri o supposti, di quella terraferma; e qual lume potevano offrire se la loro geologia era, si può dire, ignota? La cono- scenza un po’ particolareggiata di queste isole modifica infatti alquanto le anteriori supposizioni ed ora non potrei esonerarmi dall’applicare le acquisite cognizioni a queste ricerche d’indole, invero molto generale, perchè si scostano da una semplice esposizione di fatti, ma non per questo meno, anzi ben più interessanti. Poiché se gli studi geologici più comunemente ci rivelano la storia fisica e biologica dei mari del passato (e solo fenomeni quali i vulcani ed i ghiacciai riconducono di quando in quando il nostro sguardo sulle parti continentali) saremo non meno fortunati nelle ricerche, quando da indizi, sia pure insignificanti, abbiamo le tracce per rifare la storia fisica dei continenti che si sono succeduti sulla faccia della terra in continua vicenda nelle epoche che precedettero la nostra. - 481 - È questo infatti il compito della Geologia continentale al quale proposito non posso dimenticare le parole del Taramelli: « Ricordiamoci che non solo di faune spente deve occuparsi il geologo; bensì che uno dei suoi obbiettivi esser deve la logica ricostituzione delle passate oro- grafìe. » 1 L’ordine naturale di procedimento indicherebbe doversi cominciare dalle origini più remote del bacino che vogliamo studiare. Ma anche in questo caso quanto più risaliamo i tempi, altrettanto i documenti che noi abbiamo a nostra portata sono più scarsi, più incompleti e più diffìcile è interpretarli convenientemente. Trasgredendo quindi al metodo generale di tener dietro ai fenomeni nella maniera in cui si sono ordinatamente susseguiti nello svolgersi del tempo, procederò in senso inverso cominciando dal noto, dal più certo e dal più vicino per continuare verso il più dubbio, il più incerto e il più indefinito. L’ Adria storica. Se in una prima tappa, noi consideriamo i cambimenti avvenuti nell’epoca storica in base agli interrimenti prodotti dall’ avanzarsi dei fiumi nel mare ed allo emergere o sommergersi della costa a seconda dei bradisismi che ha subito il sottosuolo, troveremo che nello spazio geologicamente breve di venti o trenta secoli avvennero non lievi mu- tamenti nella linea di costa. Non è il caso di citare tutti gli autori che trattarono dell’avanzamento del delta del Po, e per i bradisismi che interessano le coste dell’Adriatico basti consultare la nota opera del- l’ Issel senza che sia bisogno di risalire in ogni caso alle numerosi fonti che offrirono i materiali a quel lavoro 2. Dalla cartina dei bradi- 1 Taramelli, Desc. geogn. del Margr. d’Istria , pag. 157. 2 Gli autori principali che trattarono dei movimenti delle coste adriatiche e quelli che diedero le fonti per le osservazioni posteriori sono così numerosi che mi stimo pago di citare i nomi e la data delle loro opere, desumendoli in gran parte dal libro dell’Issel. [n ordine alla data dei loro scritti essi sono: Angelo Eremitano (secolo XVI), Sabbadino e Correr (1551), Macci Sebastiano (1612), Meyer C. (1695), Zendrini e Manfredi (1731), Maire e Bòscovich (1752, 1770), Temanza (1761), Fortis (1771), Donati (1772), Filiasi (1796-98, 1811-14, 1826), Bo- 31 — 482 — sismi che trovasi a pag. 177 di quell’opera si rileva che dall’ epoca romana tutti i punti della costa adriatica che si offrirono in circostanze propizie alla constatazione dei cambiamenti, presentarono una certa quota di abbassamento, onde è lecito concludere che, salvo forse par- ziali eccezioni, un bradisismo discendente costiero ed insulare fu generale sulle sponde e nel bacino adriatico settentrionale stesso durante l’epoca storica. Ne fanno fede le costruzioni romane in vari punti oggi sommerse od a fior d’acqua, che si osservano nell’Istria, nel litorale friulano, a Lesina a piedi del Gargano, nonché la scomparsa della città di Conca a 10 chilom. da Rimini già da pareccbi-secoli totalmente sommersa nel mare. Il Marchesetti dimostrò che Pelagosa deve esersi abbassata posterior- mente all’epoca in cui fu abitata dall’uomo neolitico, e nelle pagine che precedono ho tentato di porre in chiaro che tanto le Isole Tremiti quanto Pianosa, per l’opera concomitante dell’erosione e dell’ abbas- samento, subirono notevole diminuzione di area emersa in tempi da noi non molto lontani. Risultato diretto del generale abbassamento costiero è l’invasione del mare dentro terra quindi continuamente dall’epoca storica in poi si avrebbe per effetto risultante una lenta e graduata estensione del ba- cino a spese delle sue sponde. Ma abbiamo un’azione compensatrice nella deposizione di materiali detritici alla foce dei fiumi che avanzano il proprio delta e ricolmano le paludi. Tutti i fiumi infatti, ricchi di detriti, che discendono dalle Alpi, dall’Isonzo al Po, e dagli Appennini lungo tutta la costa orientale dalla penisola italiana, dovrebbero fab- bricare della terraferma a spese del mare, ma in realtà solo il Po e l’Adige avanzano il loro delta ed il primo ben potentemente nel mare. nicelli (1807-1808), Boscovich (1811), Zendrini (1806, 1821), Brocchi (1814), Bri- ghenti (1829), Paoli (1838, 1842), Catullo (1839), Campi-Lanzi (1840), Quadri (1840), Morlot (1848), Cicognara, Casoni (1849, 50, 55), Bianchi (1850), Paleocapa (1856), Bullo (1861), Lorenz (1863), Stache (1859, 67, 82), De Bosis (1863, 69), Klòden (1871), Angelucci (1872), Marchesetti (1876, 82), Reclus (1877), Foschini (1878), Hahn (1879), Venturoli, Goiran, Taramelli (1871), Mojsisovich, Supan, Neu- mayr, Suess, Lanciani (1879), De Rossi (1880), Bócchi (1880), Pilar (1881), Urbani di Ghetolf (1881), Almerico da Schio (1881), Uzielli (1881), Luciani (1881), Czòr- nig (1882), Antonelli (1890), ed infine l’ Issel (1883), che li riassume quasi tutti. — 483 — Questa disuguaglianza apparente di effetti dipende da un altro fattore di cui bisogna tener conto, e cioè dalla corrente marina che decorre lungo la costa da Nord a Sud che rapisce gran parte dei detriti portati nel suo dominio spargendoli lungi dalla foce dei fiumi e lontano dalle coste. Alle bocche del Po dove il materiale detritico è considerevolissimo, l’opera delPabbassamento e il trasporto operato dalle correnti marine vengono non solo annullate ma sorpassate, onde si ha l’avanzamento del delta. Un protendimento lentissimo della spiaggia si osserva anche lungi di là, cioè a Rimini dove la corrente marina trasporta la sabbia che rapisce dalle recenti e mal ferme sporgenze in mare che vanno ogni giorno formandosi immediatamente più a Nord. Altrove si ha una costa stazionaria o quasi, poiché le azioni si equilibrano, mentre in altri siti ancora manifestasi il solo abbassamento per la mancanza di qualsiasi fiume interrante, o di qualsiasi corrente marina deposi- tante. Lo storico più antico da cui si può attingere (500 anni av. Cristo) ci offre dei dati con i quali possiamo calcolare 1 che a quell’epoca la foce del Po era più a monte che non lo sia oggi di una distanza compresa tra 34 300 e 35 300 m. ; al principio dell* Era volgare, secondo ciò che ci lasciò scritto Strabone, possiamo ritenere che la foce distava dalla odierna tra 21 500 e 22 500 m. Si può del pari convenire che duemila e cinquecento anni fa la costa decorreva probabilmente lungo una linea curva che non passava più ad Est di Rovigo, Polesella, Ferrara e Ravenna, ed i così detti tomboli , ossia quell’ allineamento di dune sabbiose, o barre che si estendono da Brondolo per Contarina a Codigoro, segnano il cordone littorale del secolo XI, il che significa che quanto di terraferma sporge dalla linea Chioggia-Comacchio, e forma un promontorio non disprezzabile che termina colla Punta deWa Maestra è opera non solo geologicamente, ma anche dal punto di vista storico, alquanto recente. Per quanto riguarda il littorale veneto, si può affermare che durante 1’ epoca romana, la linea di costa doveva essere poco dissimile dalla attuale, salvo però questa differenza che la zona prossima al mare 1 Vedi Marinelli G., Geografìa universale, Voi. I. — 484 — doveva essere allora un territorio asciutto e salubre che andò poi man mano nell’età di mezzo, facendosi paludoso e malsano. Il Taramelli però ha potuto calcolare che la Punta Sdobba, in corrispondenza della foce del F. Isonzo, dall’ epoca archeolitica in poi si è avanzata nel mare con una velocità di sette metri annui. Modificazioni simili a quelle avvenute sul lido veneto, devonsi essersi verificate dopo l’epoca ro- mana sul versante settentrionale del Gargano. £■’ Adria quaternaria. Nel Quaternario antico le variazioni del bacino adriatico sono do- vute alle stesse cause, che continuatesi nei tempi storici, indussero gli odierni spostamenti della linea di costa; ma a queste cause ed a queste circostanze se ne aggiungono altre che fa duopo esporre brevemente* Anch e ignorando l’ipotesi dell’ Adria, il semplice studio, finora tut- t’altro che approfondito, del Quaternario delle isole garganiche, ci fa chiedere se data l’attuale loro estensione e compresovi anche tutta la parte rapita dall’erosione concomitante con l’abbassamento, in qual modo ed in quali condizioni il deposito quaternario costituito da uno strato di calcare d’acqua dolce, vi si sarebbe potuto formare. Anche concessa alle isole un’altitudine maggiore dell’attuale e parecchie volte l’odierna estensione e tenuto conto della maggióre umidità del clima durante la prima fase dell’epoca quaternaria, troviamo queste condizioni essere ancora insufficienti a spiegarci la formazione così uniformemente dif- fusa del calcare d’acqua dolce, per la cui deposizione occorrono acque soprasature di carbonato di calce sgorganti dal sottosuolo e forse an- che non del tutto fredde per la circostanza che se in un solo luogo abba- stanza ristretto si trovarono delle piccole conchiglie ed ancor esse terre- stri, ovunque altrove, il calcare si presentò privo di qualsiasi traccia organica, onde è facile pensare che in generale quelle acque e la terra circostante non presentassero condizioni favorevoli alla vita. A queste deduzioni si contrappone invece il fatto che troviamo ri- petuto in tutti i libri, compresi i più antichi, che le Isole Tremiti man- cano non solo di sorgenti ma anche di qualsiasi stagno naturale. E inutile aggiungere che a Pianosa il problema della formazione del cal- care quaternario, che apparisce più compatto di quello che non sia nel gruppo di Tremiti, riuscirebbe ancor più complesso e meno esplicabile. — 485 — Colà le condizioni d’altitudine durante la sua formazione dovevano •essere certamente diverse dalle attuali in cui il calcare di origine ter- restre trovasi al livello del mare, nella parte più emersa e dalla parte meridionale dell’ isola esso si sprofonda sotto la superficie delle onde, e ciò solo basterebbe a provare l’ abbassamento immediatamente post-quaternario, che si continua tuttora, sopra un’area estesa occupante una parte abbastanza centrale del bacino adriatico. Non meno diffìcilmente si potrebbe spiegare resistenza di un piccolo lembo di calcare tufaceo dello spessore di 2 a 5 metri in strati di poco inclinati verso Nord con resti di Helix giacente si può dire appiccicato alle rupe di Pelagosa a 50 metri di altitudine (essendo il punto culmi- nante dell’isola 87m.) sui suoi fianchi dirupati e da ogni lato natural- mente inaccessibili senza l’opera dell’uomo. Ed è ancora da notarsi che che colà il calcare quaternario copre concordantemente gli strati marini del Pliocene superiore. E se a Tremiti ed a Pelagosa agli strati quaternari sovrastano alti- metricamente calcari più antichi che avrebbero potuto fornire direttamente il materiale sedimentare, e a Tremiti incontrai nel deposito quater- nario un ciottolino angoloso e frammenti di nummuliti indicanti una pro- venienza non lontana ; tuttavia è duopo convenire che in entrambi i siti la massa rocciosa sovrastante è troppo poca cosa per far credere abbia dato tanto carbonato di calce da coprire aU’intorno una così estesa regione, e ad ogni modo avrebbe sempre fatto difetto l’acqua. Ma la spie- gazione deve essere valida anche per ciò che si osserva all’Isola Pianosa, che anche immaginando riunita a Pelagosa ed a Tremiti con un tratto di terra emersa, apparisce allora tanto più evidente la impossibilità per le poche rocce antiche quivi emergenti a dare materiale calcareo per coprire una così estesa regione interposta ai minimi lembi tuttora superstiti. E ve- ramente per l’analogia estrema di costituzione che offrono tra loro i lembi quaternari di cui sono fornite tutte, senza eccezione, le isole garganiche interrotte attualmente da sì ampie lacune, dobbiamo dedurre della generalità del fenomeno che li ha prodotti che deve quindi aver avuto luogo contemporaneamente su tutti quei punti e conseguentemente sul territorio, ora scomparso che li riuniva. E se ben interpreto la memoria del Canavari e Cortese, una for- mazione non diversa, che non ha attirata sufficientemente l’attenzione — 486 — dei due autori (che dichiararono d'altronde di occuparsi solamente della parte montuosa del Gargano), troverebbesi anche alle sponde del lago di Lesina (proprio di contro a Tremiti) e fra Carpino e il lago di Varano (vedi pag. 29 dell’estratto). Dal rilevamento fatto recentemente del Tavoliere di Puglia per opera dell’Ufficio geologico e tuttora inedito, risultò che tutta questa pianura è ricoperta da una crosta calcarea di qualche centimetro di spessore che inclino a ritenere però meno antica,, ma dovuta ad identica causa. Sappiamo che in annate di estrema siccità, essendosi esaurite le riserve d’acqua a Tremiti (dove piove assai poco e dove l’acqua pota* bile conservata nelle cisterne, quando vi esiste, è pessima) il go- verno passato ha dovuto farne condurre dal vicino continente, ed un vecchio barcaiuolo mi disse che la prendeva da una polla d’acqua dolce sorgente in mezzo al mare presso Rodi. Del resto la stessa tettonica del Gargano ci indica che le acque meteoriche assorbite dal terreno alla sommità dei monti scorrendo tra gli strati discedenti per le gambe dell’anticlinale garganica tentano a confondersi con le acque marine (vedi Canavari e Cortese, pag. 30 dell’estr.) onde le frequenti sorgenti, quasi al livello del mare, e di cui alcune sottomarine ed anche lontane dalla costa che si trovano tutto all’intorno del promontorio. Non è adunque improbabile, che nell’epoca quaternaria queste acque sotterranee, più copiose che le attuali, dopo attraversata la massa del Gargano, an- ziché gittarsi nel mare sieno venute a giorno ricche di sali calcarei, sulla terra emersa di recente dal mare pliocenico che riuniva, le ora sparse isole garganiche, e fossero esse a lasciar quivi traccia del loro passaggio. E questa terra a guisa di ponte, o continuo o mancante solo di qualche arcata, ha probabilmente riunito il Gargano alla Dalmazia. Siccome poi gli strati secondarii e terziarii antichi, tra il Gargano, Tremiti e Pianosa formano una sinclinale, alcune delle sorgenti hanno potuto venire alla luce anche alla estremità nord-orientale della curvar ossia non lungi dalla porzione ancora oggi insulare, tanto più che le due gambe della sinclinale sono presentemente, e si trovavano anche allora ad un notevole dislivello. E da ritenersi quindi che sul Gargano, come in un centro, nel pe- riodo di umidità abbondante che corrisponde all’epoca glaciale, in luogo 487 — di formarsi ghiacciai, stante la sua poca altitudine, le acque prove- nienti dalle pioggie e dalle nevi si infiltrassero abbondanti nelle caver- nosità del monte per rinascere, dopo acquistata la facoltà incrostante, ai fianchi ed al piede tutto all’ingiro e spargersi nelle pianure circo- stanti ad esercitare la loro azione. Ma non è questo il solo argomento che ci induce ad ammettere una profonda diversità tra le condizioni geografiche attuali di questa porzione del bacino adriatico e quelle che dovevano esistere nel qua- ternario antico. Se consultiamo infatti la Carta idrografica dell’Adriatico ad uso dei naviganti nella scala di 1: 500000 per i maggior dettagli, ma anche delle carte idrografiche alquanto più modeste quali trovansi nei comuni atlanti, noi ci accorgiamo di leggeri che il fondo dell’Adriatico si pre- senta formato di due bacini distinti. Il settentrionale, che chiameremo dalmata, avente la massima profon- dità di 243 m. circa (quindi insignificante rispetto all’ampiezza del mare) sul parallelo 43° cioè a mezzo della linea che riunisce l’isola di S. Andrea con la foce del Tesino; il meridionale che diremo pugliese ha invece la massima profondità misurata di 1590 m. tra Bari e Durazzo più a Nord del parallelo 41°, pure nel mezzo dello stretto. Questi due bacini sono distinti abbastanza nettamente da un rilievo schiacciato avente dolce pendìo verso il bacino settentrionale e ripido verso il meridionale, rilievo che si estende dalla punta orientale del Gargano, passa per Pelagosa e raggiunge la Dalmazia per 1* isola di Cazza. La profondità massima lungo questa diga è di 181 m. Il bacino adrio-pugliese quantunque ben distinto, è alquanto più aperto verso il Mediterraneo, avendo una barriera continua solo a cominciare da una profondità di 800 m. in corrispondenza dell’estremità meridio- nale della Terra d’Otranto. Limitiamo l’osservazione al bacino adriatico settentrionale. Troviamo anzitutto che la porzione che forma il golfo di Venezia e di Trieste non supera generalmente 35 m. di profondità e solo in un tratto bre- vissimo raggiunge 55 m., ma la media non sorpassa i 20 metri. Fino ad una linea che va dalle foci della Vibrata a Zara la pro- fondità è inferiore ai 100 m. — 488 — Il fondo del bacino si raggiunge a 200 e 243 metri lungo una zona piut- tosto stretta che ha la maggior lunghezza in direzione da S.O e N.E e trovasi all’ incirca nel mezzo del mare tra Ortona e Sebenico. Dal che si vede che questo bacino è ben poco importante per pro- fondità e che i fiumi e le correnti, ad onta dell’abbassamento, potranno colmarlo in un tempo geologicamente breve. E se il bradisismo che lo in- teressa cessa o prende direzione inversa da quella che ha attualmente, la totale emersione dal livello del mare, sarebbe un fenomeno che la nostra stessa razza potrebbe vedere compiuto l. E ciò ci può indurre a riguardare con occhio meno incredulo Ja supposizione che nei periodi geologici che ci hanno immediatamente preceduti, dove oggi è ampio mare sia stata terra asciutta. Si pensi solamente che la Tyrrhenis , terra, bensì più antica dell’Adria, si è non ostante sprofondata di molte e molte centinaia di metri, poiché nel tratto di mare tra la Sardegna e l’Ar- gentaro già occupato dalla Tyrrhenis la profondità raggiunge 1700m. E limitandoci a considerare i punti situati lungo l’istmo dalmato- garganico troviamo che tra questo promontorio e Tremiti la profondità massima, è di 87 m.; fra Tremiti e Pianosa e tra quest’ultima ed il Gargano la profondità massima misurata è di 88 m., essendo queste isole com-' prese tra la costa italiana e la linea batimetrica di 100 m. Da Pianosa a Pelagosa la profondità è un po’ più elevata, ma non supera mai i 140 m. Tra Pelagosa e Cajola 87 m. ed in fine 181 m. tra quest’ultima e l’isola di Cazza in Dalmazia. Poscia i bracci di mare sono sempre più stretti e meno profondi per cui del ponte restano si può dire a te- stimonio induscutibile, numerose e stabili le pile. Quest’ultima profon- dità di 181 m., potrà sembrare un po’ elevata e militante contro la ipotesi dell’ Adria, eppure basterà che io richiami il fatto che gli angusti canali della Dalmazia e dell’ Istria interposti a quel dedalo di isole hanno costantemente profondità superiori ai 50 m. e talora anche ai 100, e che queste quote si incontrano vicinissime alle coste; eppure nessuno dubita che fino ad epoca geologicamente a noi vicinissima queste isole sieno state tra loro riunite a formare un’unica terra colla prospiciente costa. 1 Se l’avanzamento della foce del Po procede colla stessa potenza che si veri- fica dal 1600 in qua, ossia di 70 metri all’anno, in appena 1200 anni essa toc- cherà la costa della penisola istriana. — 489 Ed è appunto ciò che ho voluto rappresentare nella annessa tavola. A prova di quella opinione che addotto pienamente, abbiamo varie osservazioni dovute al Marchesetti, al Taramelii e ad altri; le quali ora riassumo: Su varii punti delle isole dalmate si hanno breccie ossifere qua- ternarie con resti di grossi mammiferi, e particolarmente se ne rin- vennero sullo scoglio di Silo (non lungi dall’isola Canidole Piccola nel Quarnero) ora a fior d’acqua e totalmente coperto dall’ alta marea. Se queste isole tutte ossifere non fossero state congiunte al continente, quei grossi animali non avrebbero potuto recarvisi nè avrebbero tro- vato le condizioni necessarie per dimorarvi. E poiché mi piace citare anche i nostri classici in materia di geo- logia, voglio ricordare l’abate Fortis il quale nel Saggio di osseroa - zioni sopra l'isola di Cherso ed Oserò (Venezia 1771) a pag. 90 e seg., fa lungamente menzione dell’abbondanza di breccie ad ossa di mammiferi nelle isole dalmate ed in quelle ionie a cominciare dall’i- sola di Cherso ed Oserò per terminare a Corfù ed a Cerigo. Nella carta unita alla sua memoria sono indicate le località ossifere, tra le quali oltre alla Canidole Grande ed a Sansego è pure segnata la iso- letta di Sciutim ad Est di Cherso per la quale serve ancor più il ragionamento che si attaglia alla presenza di tutte queste breccie ossi- fere insulari. Il primo a menzionare 1’esistenza di tali ossami fu Vitaliano Donati, ed in seguito tanto si esagerò fino a dire che le isole erano esclusi- vamente formate di ossa, siccome immani cimiteri, e che vi mancava la più piccola traccia di roccia. In secondo luogo abbiamo i canali dell’ Istria (Canale dell’ Arsa, del F. Quieto e di Lemme, senza contare i minori) ora occupati allo sbocco dal mare a guisa di fjords e più a monte percorsi attualmente da fiu- micelli o ruscelli affatto insignificanti; i quali fjords , dovuti all’erosione, non avrebbero potuto essere scavati se non da forti correnti terrestri aventi la foce molto più a valle che non sia attualmente lo sbocco in mare di quei canali ed allorché per i movimenti bradisismici la idro- grafia non aveva mutato, come in seguito, per essersi aperte alle acque vie sotterranee nelle fratture prodottesi. Ed abbiamo tuttora la testimonianza del corso antico di questi fiumi — 490 — nei depositi detritici arenosi poggianti direttamente sul terreno cretaceo che trovansi all’ isola di Sansego separata dallo sbocco attuale dal Ca- nale dell’Arsa, da cui con ogni probabilità derivano, da un braccio di mare esteso 50 chilom. e profondo al massimo 58 m., ma però con un letto che si presenta pianeggiante ad una media di 40 m. sotto il livello del mare. Onde è duopo concludere che l’abbassamento e l'erosione hanno diminuito di almeno 60 m. l’altezza del braccio interposto tra lo sviluppo principale dell’isola di Sansego ed il continente e ciò dopo lo sviluppo principale dell’epoca quaternaria perchè i depositi terrestri di quell’isola per i fossili che contengono debbonsi riferire alla fase più antica di quel periodo. Per queste ragioni, volendo nell’abbozzo uni to (vedi Tav. XII) fis- sare uno dei momenti geografici dell’Adriatico quaternario, ho delineata la sua costa orientale in guisa che dal dominio del mare restino escluse tutte le isole dalmate, nonché quelle più lontane dall’attuale costa, come S. Andrea e Pelagosa, in guisa che appare chiara una sporgenza della terraferma protendentesi alquanto verso il Gargano. Proseguendo il nostro cammino lungo le sponde dell’Adriatico tro- viamo che nel littorale veneto durante il quaternario il lido si presentava poco diverso dall’attuale poiché la costa pliocenica, che era alquanto più a‘Sud, a poco a poco si andò ritirando per l’abbassamento del sotto- suolo. Durante la fase glaciale probabilmente mancavano le lagune o non erano della attuale estensione, ma le fiumane provenienti dal disgelo delle fronti dei grandiosi ghiacciai gettavansi direttamente per molte foci in mare. L’abbassamento post-quaternario, e tutt’ora conti- nuato, sommerse parte dei depositi quaternarii che si erano formati lungo questo lato del bacino, e la graduale formazione delle lagune e l’impaludamento che rese malsana la contrada orientale è un feno- meno a cui assistette l’uomo dell’epoca storica. L’esistenza dei canali nelle laguna, indicanti gli antichi alvei subaerei dei fiumi sboccanti in mare, si spiega solo ammettendo l’abbassamento de Uà regione. A Caorle, a Belvedere ed a Barbana presso Grado rimangono ancora i residui del cordone littorale che il Taramelli ritiene dell’epoca glaciale. 1 1 Nella tavola III della Geologia delle Provincie Venete è rappresentata la configurazione del paese durante l’epoca degli anfiteatri morenici. La costa set- tentrionale dell’Adriatico è indicata 5 a 6 chilometri più a Sud dell’attuale. — 491 — A Venezia nello scavare un pozzo artesiano si incontrarono fino a 85 m. sotto l’attuale livello del mare dei depositi fluviali e palustri qua- ternarii, ed anzi a quella quota si trovò un piccolo letto di torba for- mata nel seno delle acque dolci il che indica essersi il sottosuolo conti- nuamente abbassato dopo il pliocene. È quindi certo che ivi da un pezzo perdura il regime continentale sotto forma di maremme e probabilmente un territorio basso a guisa di estuario si estendeva anche fuori del li- mite attuale del continente. Solo a metri 105,30 si trovano commiste conchiglie marine e e d’acqua dolce ed a 119 m., punto più basso raggiunto, non si ebbero che depositi marini. Questi numeri dimostrano ben chiara- mente che se non si fosse verificato un così potente abbassamento che paralizzò l’opera delle alluvioni, da lungo volgere di anni, la parte setten- trionale del bacino adriatico sarebbe stata colmata. La valle padana, nel periodo quaternario in genere (non potendosi distinguere tra il prin- cipio e la fine di questa lunga fase che ci si manifesta come la conti- nuazione di un medesimo fenomeno, e che in ordine alle nostre ricerche doveva presentare delle differenze notevolissime nei diversi momenti in cui si vuole considerare) era un grande golfo che doveva giungere da principio fino a Piacenza, avendo per isponda all’ incirca i due lati che si estendevano da Venezia a Piacenza e da Rimini a Piacenza. E questo golfo andò man mano riempiendosi da Ovest ad Est nello svolgersi del periodo quaternario, venendo però ritardata quest’opera dall’incessante abbassamento, che non si può negare abbia pure contri- buito ad aumentare in così grande scala la profondità dei laghi veneto- lombardi proporzionatamente al livello odierno del mare. In quell’epoca di correnti gonfie, in parte sotto forma di ghiacciai, i detriti delle Alpi ve- nivano rapidamente portati a valle ed il riempimento del golfo potè non ostante farsi in tempo relativamente breve. Da Rimini alle foci del Fortore il littorale non era molto diverso dall’attuale. Il M. Conero, dopo il sollevamento postpliocenico era riunito alla penisola, e se il movimento inverso che si è verificato durante l’epoca storica lungo tutta questa spiaggia fu iniziato, corri’ è probabile, ante- riormente, è d’ uopo per conseguenza ammettere che nel momento in cui il sollevamento post-pliocenico ha raggiunto l’apice, la costa fosse di qualche chilometro più addentrata verso il mare, come ho rappresen- tato nella tavola. Allora le roccie vulcaniche che trovansi alla Punta — 492 — delle Pietre Nere, presso la foce del Fortore, erano già riunite alla pe- nisola ma dovevano formare ancora un nucleo roccioso più elevato che ai nostri giorni non sia quel piccolo lembo di spiaggia. I laghi di Lesina e di Varano al piede del Gargano sono profondi al massimo due o tre metri e dei cordoni littorali recenti li separano dal mare. È probabile che in epoca romana il fondo di quei laghi fosse ancora una pianura salubre di terraferma, a giudicare dai ruderi ora sommersi che vedonsi nei laghi stessi e che accennerebbero a Lesina antica quelli del lago omonimo ed alla città di Urio quelli coperti dal lago di Varano. Posteriormente queste pianure dovettero lentamente sprofondarsi e poi essere separate dal mare per opera di barre e cor- doni littorali, e divenire insalubri e pestilenti. Durante il massimo sollevamento post-pliocenico, come accennai, una distesa di terra emersa che durò, sia pure per poco tempo, con- giungeva da questo lato il Gargano alle Tremiti ed a Pianosa. Lo stretto che durante il pliocene metteva in comunicazione l’Adria- tico con il Mar Jonio per la Basilicata, tra l’altipiano delle Murgie e il ramo occidentale dell’Appennino diretto verso la Calabria, era com- pletamente chiuso dopo il sollevamento post-pliocenico. Il golfo di Manfredonia al principio del quaternario era invece più addentrato verso terra occupando la pianura di Foggia e man mano il littorale andò in seguito avanzandosi fino al limite attuale. E poi da ritenersi che nei diversi momenti del quaternario in cui il bacino adriatico settentrio- nale era meno ampiamente comunicante con il meridionale, non abbia sempre durato una lingua di terra emersa e continua tra il Gargano e la Dalmazia, la quale avrebbe fatto dell’Adriatico un mare chiuso, ma che invece abbia esistito sempre comunicazione più o meno profonda o più o meno ampia tra i due mari, ora tra il Gargano e Pianosa, ora tra questa e Pelagosa, oppure fra quest’ultimo gruppo e le isole dalmate, a séconda del variare incessante di questi lembi di terraferma effimera, poco stabile e dirò quasi fluttuante. Ed appunto in questo senso è di- segnato l’abbozzo della tavola XII. Queste condizioni hanno mirabilmente concorso a stabilire dei legami tra le piante e gli animali che ora vivono sulle due sponde opposte e sulle isole dell’Adriatico, legami e relazioni che ora pas- serò ad esaminare e che costituiscono una delle ragioni che indussero ad ammettere l’esistenza dell’Adria. Ma disgraziatamente per gli animali che ora vivono sui residui di quella terra, non è stato fatto alcuno studio comparativo generale, e siamo ben lontani dal vederne nonché il compimento, neppure 1’ inizio. Dei vertebrati solo quelli che non hanno mezzi per diffondersi attra- versando il mare, potrebbero darci qualche criterio sulla distribuzione loro e sui centri d’onde si diffusero, ma dagli invertebrati terrestri potremmo, ottenere qualche termine di confronto soltanto da quelli che non hanno mezzi di locomozione troppo accentuati o che difficilmente si possono trasferire e diffondere attivamente o passivamente sotto la forma di uova, di larve, quando sia il caso, o di animali perfetti da un luogo ad un altro. Certi ordini di insetti, alcuni crostacei, i miriapodi, i ragni ed i vermi terrestri servirebbero all’uopo, ma il loro studio deve essere fatto da specialisti provetti che sgraziatamente sono molto scarsi, ed i quali in genere poco si occupano della distribuzione geo- grafica di quegli organismi. Infine bisogna notare che sarebbe molto lungo ed incomodo pro- curarsi tutti, o la maggior parte, degli animali di quei gruppi che vi- vono sopra ogni singola isola. I molluschi terrestri, per essere più fa-cili a raccogliere, più lenti ad emigrare e meno numerosi di generi, si prestano magnificamente a tali considerazioni, ma quello che sappiamo finora è, si può dire, que- sto solo, che i molluschi del Gargano, per l’affermazione del Neumayr, si avvicinano piuttosto a quelli dalmati che a quelli dell’Appennino. I pochissimi esemplari, che stante la stagione sfavorevole, ho po- tuto raccogliere in istato vivente sulle isole, non diedero al valen- tissimo malacologo Pollonera, che li ha gentilmente studiati, alcun ri- sultato pratico in quest’ordine di ricerche. Essi appartengono tutti a specie vivente sia sul Gargano, sia altrove sul versante adriatico del- l’Italia. Una Helìx abbondantissima a Pianosa del gruppo della varia- bili sembra nuova. Numerosissime furono invece le forme piccole e grandi che incontrai nelle posature lasciate dal mare nei seni tranquilli e sugli scogli. In quelle il Pollonera vi riconobbe la Helix corcyrensis Partsch, che vive a Corfù e aCattaro, Narenta e Ragusa nella Dalmazia meridionale, la Patula soiaria Menke che vive a Cattaro e nell’ Istria. E ciò senza esclu- dere in modo assoluto che possano vivere sulle nostre isole, prova sola- — 494 — mente che, come molte altre forme provenienti dalla vicina costa ita- liana, specialmente le piccole specie possono essere trasportate sui flutti per molte e molte diecine di chilometri, e quindi anche dalla pro- spiciente Dalmazia, trasporto che del resto si verifica per grandissimi tratti lungo il corso dei fiumi. Da ciò che ho detto sinora e da quello che dirò poi parlando del- l’Adria pliocenica e miocenica, risulterà che la questione non è poi tanto semplice quanto la faceva il Neumayr, che ammetteva solamente un legame diretto durante il pliocene tra il Gargano e la Dalmazia. Infatti dimostrerò che questa unione diretta nel periodo pliocenico fu impossibile per la presenza di strati marini di quell’epoca a Pelagosa, e perchè l’Adriatico che sta a Sud di essa si presenta profondo delle ì centinaia di metri; se poi i molluschi comuni alle due contrade si di- stribuirono durante il quaternario, non vi è ragione perchè non ve ne sieno, almeno alcuni, diffusi sino sull’Appennino od alle sue falde nello stesso modo che salirono le pendici del Gargano, perchè non è il caso di obbiettare che si tratti di specie alpine, poiché se hanno attraversata la pianeggiante Adria quaternaria, hanno dovuto percorrere un terri- torio basso se pure un poco ondulato, e se le condizioni del clima di quell’epoca, lasciarono che specie usualmente abitanti la montagna, vivessero anche in pianura avrebbero essi potuto benissimo arrivare al- l’Appennino allora congiunto con il Gargano e più o meno diretta- mente colle isole garganiche. Se poi quei molluschi si diffusero durante il Miocene, avrebbero dovuto recarsi anche nella Puglia, che dimostrerò per quanto è possibile, trattandosi di un periodo abbastanza lontano, allora riunita al Gargano. Ma lo stato più corrispondente al vero è, a mio credere, rappre- sentato dal quadro seguente, il quale indica la distribuzione di alcune piante rare, trovate sui diversi punti che hanno avuto in qualche mo- mento contatto diretto tra 'loro. — 495 — SPECIE Isole Tremiti Pianosa Pelagosa Gargano il Dalmazia Altre località Alyssum leucadeum Guss. - . + + + Capo S. Maria di Leuca, Galli- poli, Castro. Brassica mollis Vis _ ? 4- -f- Palermo Statice cancellata Bruii. [ = + + + Isola dei Brioni, Lesina , Istria , S. pubescens. J Peloponneso. Centaurea Diomedea Gasp. . + + » Friderici Vis + + + Scoglio Pomo; al Gargano col nome di C. garganica. » ragusina Lin + + Plantago Cornuti Gou + + Istria , Veneto, Francia merid. Marrhuòium uulgare L. ( = + + Puglia , Sicilia, Sardegna, Cala- M. apulurn Ten. = var. bria. lanatum Benth. Euphorbia dendroide s L. . . . + + + 4- Montenegro, Grecia, Creta, Cala- bria ed Italia occidentale. Sueda fruticosa Forsk + + + ~y Puglia , Grecia, Italia merid. Capparis ovata Guss. = (C. si - + !' Sicilia, Spagna meridionale, Al- cula Duh. ) bania. Papaver hybridum Lin- ( = 4~ + + Puglia , Montenegro , Manfre- P. apulum Ten.) donia {Gargano). Campanula garganica Ten. +0 + Istria. Verbaseum garganieum Ten. + Calabria. Il quadro rappresenta il legame complessivo tra le varie re- gioni indicate, legame che può essere stato lungo od effimero, recente od antico, e più o meno intimo. Resterebbe ancora sempre a deter- minare se per caso queste piante sono dei fossili viventi ed a quale epoca risalgono, oppure in qual momento hanno cominciato a divergere dal tipo comune sì da potersi poi erigere al grado di specie. Ma pqr queste piante, che sono specialmente erbacee, la paleofitologia non è ancora giunta al punto di darci soddisfacente risposta. La massima parte delle indicazioni riguardanti Tremiti e Pianosa furono tratte con rara abilità dal Dott. Achille Terracciano su cattivissimi esemplari da me raccolti. Il prelodato botanico mi indicò pure gentilmente quali fossero le specie che per occupare un’area limitata nella distribuzione — 496 — geografica meritassero di esser poste a confronto. È superfluo indicare ora i lavori speciali da cui attinsi le indicazioni delle località. Ai fatti d’indole geodinamica riferiti a prova dell’ ipotesi dell’Adria, nulla posso aggiungere di mia diretta osservazione. Però abbiamo in un fenomeno recente, ossia nel terremoto adriatico dell’ 8 dicembre 1889, studiato dal Prof. Tacchini (Rendic. delle sedute dell’Acc. dei Lincei, 5 gennaio 1890, voi. VI, pag. 3), un’altra prova dell’esistenza di un centro sismico sottomarino che occupa una parte dell’Adriatico. La maggiore intensità sismica si verificò nei paesi settentrionali del Gar- gano, ed il Tacchini ne inferisce che il centro di scuotimento risieda nell’Adriatico a Nord del promontorio. Questa circostanza speciale della località in cui deve risiedere, tale centro sismico, ci fa pensare alla eruzione vulcanica sotto marina che al principio di questo secolo deve essere avvenuta in quei pressi, ed anche un poco ci fa arrivare col pensiero alle rocce vulcaniche della Punta delle Pietre Nere. E quale conclusione alle osservazioni sull’ Adria quaternaria appare dal fin qui detto che tutto il littorale del bacino dalmata dell’adriatico (ossia dalla Venezia al Gargano), dal periodo quaternario in poi subì un bradisismo discendente che in linea generale avrebbe dovuto ovun- que produrre allargamento del mare a danno della terra circostante. Ad alterare però questa legittima conseguenza interviene il potere di sedimentazione e deltazione dei fiumi non disgiunto dal trasporto dei materiali arenacei per opera delle correnti marine. Ed infatti là dove i sedimenti sono trascinati in maggior copia al mare, e precisamente allo sbocco dei fiumi di maggior corso, di più ampio bacino e discendenti dalle Alpi, si verifica un rapido avanzarsi della terraferma onde colà l’effetto dell’abbassamento è vinto e di gran lunga, dal lavoro di riem- pimento per trasporto di sedimenti e ciò ha luogo alle Bocche del Po, dell’Adige e dell’ Isonzo; invece lungo il lido marchigiano-abruz- zese le alluvioni dei fiumi e le sabbie distribuite lungo la costa dalla corrente adriatica arrivano all’ incirca a compensare l’abbassamento onde si ha, considerata nell’assieme, una certa stazionarietà della linea di costa ; finalmente sui lidi istriani e dalmati, dove i fiumi sono semplici ruscelli che non portano alcun contingente di alluvioni, e perchè ivi la corrente marina erode quelle scogliere a picco, anziché deporre arene come sul lido, per lo più sottile, della nostra penisola, — 497 — l’abbassamento continentale non è da nessun’altra circostanza reso meno evidente, onde si effettuò rapida dal quaternario in poi, l’invasione del mare. Un’ altra prova ancora, a conferma dell’abbassamento post-plioce- nico e post-quaternario di tutto il perimetro del bacino nostro, l’abbiamo nel fatto che sulle sponde di esso non si trovò finora, per quanto io mi sappia, alcun deposito marino quaternario, nè alcuna zona a fori di litodomi sollevata dal mare durante questo periodo geologico, e ciò sta in perfetta antitesi con quello che osserviamo lungo tutta la costa occidentale d’Italia dalla Liguria alla Sicilia, su cui i depositi quater- nari, sotto forma specialmente di panchina o di macco post-pliocenico trovansi di molti metri sollevati dall’attuale livello marino,1 e dove si può dire ogni roccia calcarea prospiciente sul mare, ed ora sul suo livello variamente elevata, porta le impronte dei molluschi litofagi. li’ Adria pliocenica. Risalendo indietro nei tempi, a ritroso dell’ordine naturale in cui si manifestarono successivamente i vari fenomeni, per ricercare le con- dizioni fisiche del bacino adriatico, nei periodi geologici che prece- dettero il quaternario, ci convinciamo di leggeri, che mediante i dati finora raccolti non è possibile fare la storia particolareggiata di ogni singolo episodio, di ogni fase e neppure di ogni età in cui sarebbe per comune consenso divisibile ogni periodo geologico. E ciò perchè non è ancora fatto con sufficiente dettaglio e con unità di vedute, il rile- vamento di tutte le sponde del bacino che ci interessa, e poiché i di- versi piani e sottopiani finora riscontrati qua e là non si può assicurare che sieno tra loro esattamente corrispondenti. Parlando quindi di Pliocene o di Miocene mi riferirò di preferenza al piano medio di quei periodi quando ne è accertata Y equivalenza e quando gli strati corrispondenti siano in quel luogo rappresentati; 1 Si sono notati spesso dei movimenti locali e temporanei, di data geologi- camente recente, che sono talora opposti a quelli generali surriferiti; si tratta però di movimenti parziali che non infirmano la legge generale.Vedi Antonelli, Bradi- sismi di una parte della costa adriatica (Boll, della Società geologica italiana, 1890); ISSEL, opera citata. 32 — 498 — non pertanto allorché manchi il medio o non sia stato in alcun modo specificato, pur di aver dei dati, dovrò servirmene egualmente qualsiasi l’età alla quale debba poi esser riferito. Gli autori che finora trattarono dell’Adria si sono appagati di ap- prossimazioni ben più grossolane, nè hanno distinto in alcun modo i diversi stadi e le fasi che ha attraversato la storia geologica di questa interessantissima terra. Le sponde del bacino, appartenendo a due varii stati ed essendo quindi studiate da geologi di nazionalità diversa non aventi costante- mente fi identico indirizzo, non è sempre possibile un accordo perfetto, e poiché quelli austriaci furono i primi a porre più chiaramente e sotto forma più generale la questione, ne viene che gli argomenti principali in favore della tesi sono tratti da fatti osservati specialmente nella parte che spetta più specialmente alla sfera di azione di quelli scien- ziati. L’argomento principale per dimostrare l’esistenza dell’Adria ter- ziaria è esenzialmente tettonico (essendo nulli od insignificanti finora quelli tratti dallo studio della distribuzione geografica dei viventi attuali e dei così detti fossili viventi, sulle sponde e sui relitti di quella terra mentre invece sono i soli e gli essenziali per sostenere la esistenza della Tyrrhenis) e nel complesso diversifica da quelli che ci servirono finora. Esso è il seguente : Sull’Istria e sulla Dalmazia continentale ed insulare mancano af- fatto i depositi pliocenici e miocenici marini ed invece trovansi i sin- croni depositi continentali bene sviluppati. 1 Sulla sponda opposta invece, cioè lungo le falde dell’Appennino, i sedimenti marini di questi periodi sono potentissimi, internati molti chilometri verso terra e quindi elevati parecchie centinaia di metri sul livello del mare. Ne viene che du- rante il pliocene il territorio che ora trovasi al piede orientale del- 1 Se per questo argomento si vuol consultare una fonte, è ben vero non tanto recente, ma in compenso originale e di autore italiano si guardi il bel lavoro del Lanza, Essai sur les format, gèognostiq. de la Dalmatie (Bull. Soe. Géol. de France, 2° serie, T. 13, pag. 123) 1855-56. Per la parte paleontologica sono essenziali i molteplici lavori di S. Brusina. — 499 — l’ Appennino doveva essere sommerso, mentre la Dalmazia doveva godere un completo regime continentale e quindi la costa presumibilmente si trovava alquanto più ad occidente, cioè verso l’asse del bacino adria- tico attuale. Avremo per conseguenza dal pliocene al momento attuale uno spostamento, quasi una lentissima emigrazione da Ovest ad Est del bacino stesso. « Il littorale dell’Adria, dice il Canavari (pag. 152), che nel miocene « medio e superiore correva circa lungo l’asse del bacino adriatico, « nel pliocene si avanzò molto più ad occidente per comprendervi non « solamente tutte le isole sparse nel mare (leggi Tremiti, Pianosa e « Pelagosa), ma eziandio la estremità S.E della penisola, cioè le Murgie, « il Gargano e più a Nord il M. Conero presso Ancona; al Sud poi, l’ Adria « pliocenica si estendeva fino alla linea determinata dalla catena insu- le lare Tremiti-Pelagosa-Lagosta. » Senza rilevare la contraddizione patente racchiusa in queste frasi secondo cui l’Adria pliocenica si estendeva dal M. Conero alle Murgie, ma era limitata al Sud dalla linea Tremiti-Pelagosa-Lagosta e senza accennare alle altre profonde divergenze, cercherò di indicare colle parole che seguono i limiti più precisati, che in seguito alle ultime carte e ricerche si possono assegnare al bacino nel periodo pliocenico. Il tracciato dell’Adria pliocenica indicata nella tavola qui unita presenta non lievi divergenze anche dai limiti indicati nell’abbozzo del Neumayr ( Erdgesehichte , Voi. I, pag. 330; Leipzig 1887). Il mare pliocenico rasentava il piede delle Alpi e degli Appennini che dovevano essere meno sollevati che ora di 300 a 600 m., 1 ma nello stesso tempo di molte decine di metri meno erosi e smantellati alla superficie di quello che appaiono al presente. Talora penetrava in stretti e tortuosi canali a guisa di fjords fra mon- tagne costituite di roccie primarie e secondarie come cioè fino a Cre- vacuore in Valsesia, od in ampi golfi racchiusi da pareti geologica- mente più giovani come a Borgo S. Dalmazzo (Cuneo), a Novi ecc. Si arrestava però al piede meridionale di quelle grandi erosioni-spac- ' Il Taramelli ( Spiegazione della Carta geol. della Lombardia. Milano 1890) pone la massima elevazione del Pliocene, tanto al piede delle Alpi che sugli Ap- pennini alla quota di 500 metri circa. — 500 - cature che dovevano poi essere occupate dai laghi subalpini. In mezzo al grande golfo padano emergeva solamente un gruppo di piccole isole preludiante quella increspatura del suolo che doveva essere poi la col- lina Torino-Valenza. La costa occidentale del bacino decorreva all’in- circa lungo una linea S. Marino, Urbino, Macerata, Teramo, descrivendo molte insenature che non permettevano di intravedere se non lo sche- letro spolpato della nostra penisola alquanto più frastagliata e molto meno estesa in superficie di quello che fu possibile indicare nella tavola XII. Il M. Conero formava un’isola, da cui verso Nord-Ovest partiva una stretta scogliera che raggiungeva presso a poco la località ora occu- pata da Ancona. Il Gargano era staccato dall’Appennino, e probabil- mente già emergevano, benché di pochi metri, od appena affioravano i primi scogli che dovevano poi essere le isole Tremiti, Pelagosa, e 1’ attuale punta delle Pietre Nere alla foce del Fortore. La Puglia meridionale (Terra di Bari e Terra d’Otranto) formava una serie di isole molto basse e frastagliate che nell’assieme disegnavano appena in abbozzo la futura configurazione dell’Italia. Il golfo di Manfredonia attraverso un dedalo di isole e di stretti canali convoluti, comunicava forse col golfo di Napoli da un lato e certamente dall’altro con quello di Taranto a mezzo di un ampio brac- cio di mare, occupante tutta la Basilicata orientale. La porzione settentrionale ed orientale del bacino adriatico offrivano un aspetto diverso dall’attuale e siffatto che non si deduce dalla semplice ispezione di una carta geologica generale. Le località subalpine più orien- tali in cui ci si presentano depositi pliocenici marini sono il colle di Castenedolo e San Bartolomeo di Salò nel Bresciano. Più ad oriente i depositi pliocenici, ovunque fu possibile identificarli,^ sono rappresentati esclusivameate da strati di origine continentale, e più specialmente da ghiaie e da conglomerati assai potenti, che, tutt’ al più, racchiudono qualche banco intercalato di lignite e di marne a conchiglie. Ciò si verifica dal Veneto alla Dalmazia. Nel Carso poi e nellTstria, regioni eminente- mente calcaree, è dovuto a mio credere a questo lungo periodo di emer- sione e quindi di degradazione meteorica il potente e caratteristico ac- cumulo di terra rossa e lo stabilirsi della estesissima ed intricata idro- grafia sotterranea. — 501 - È ora facile dedurre, tenendo conto delle osservazioni fatte ante- cedentemente, che il confine dell’Adria doveva percorrere ad un dipresso una linea che partiva dall’estremità meridionale del lago di Garda, ra- sentava i Colli Euganei e si dirigeva verso Y Istria per ripiegarsi poi verso il S.O lungo l’asse attuale dell’ Adriatico sino a toccarne la costa odierna verso le Bocche di Cattaro, in guisa però da lasciare in pieno mare l’isola di Pelagosa, che sopporta depositi marini di questo periodo. Ciò che si riferisce al limite del mare pliocenico nella Venezia è un fatto da tempo acquisito dalla scienza ed è esclusivo merito italiano. Esiste infatti, come riassunto dei lavori antecedenti, un abbozzo che esprime graficamente il fatto, nella cartina dello Stoppani ( Era neo - zoica, 1880) che rappresenta il mare pliocenico con i supposti fjords subalpini. Aggiungerò per maggiore dettaglio, che il Gargano nella parte orientale è affatto privo di depositi pliocenici, mentre dal lato opposto | gli strati di quell’epoca si trovano fino ad una altezzza di 140 m. sul ! mare. E cosa certa che questo versante si è quindi sollevato dopo il plio- cene, trascinato dal movimento ascensionale delTAppennino mentre al lato opposto sarebbe rimasto stazionario, ma più presumibilmente però, per un certo compenso che si osserva in questi fenomeni, si è forse abbassato ad accentuare la depressione adriatica. Il M. Conero e la catena secondaria che lungo il mare si prolunga fino ad Ancona, è rivestita fino a metà circa, di depositi pliocenici, dalla parte occidentale, mentre dal lato opposto, cade a picco nel mare con le roccie secondarie, ond’è probabile che si protendesse per qualche tratto ancora in quella direzione verso di esso ; non credo tuttavia che potesse essere congiunto al territorio dalmato poiché mancano fatti positivi a provarlo. È meritevole piuttosto indagare se durante il periodo pliocenico Tremiti e Pelagosa erano ancora nate in qualche modo dalle onde, poiché è assurdo ritenerle facenti parti dell’Adria pliocenica continen- tale dal momento che portano sul dorso degli strati marini di quel tempo, e per questo deve stimarsi a mio credere non conforme al vero in questo dettaglio la Carta del Neumayr (voi. I, pag. 330), la quale riunisce il | Gargano alla Dalmazia con un istmo che comprende anche l’isola di Pelagosa. Bisogna però convenire che quello schizzo corregge molto — 502 — opportunamente l’estensione attribuita all’Adria dal Canavari e che ri- ferii innanzi colle sue parole testuali. Riguardo dunque alla or posta questione devo confessare che la, soluzione che sto per dare io stesso non ritengo assoluta. Anzitutto bisogna notare che i depositi pliocenici insulari non con- tengono alcun detrito un po’ grossolano che riveli la vicinanza di terre emerse. D’altra parte si può fare questo semplice calcolo, che cioè mentre gli strati più alti del pliocene inferiore diTremiti dinotano essersi formati in un mare abbastanza profondo, ammettiamo solo di 30 m., siccome trovansi ora a 60 m. sul mare, di altezza è giocoforza concedere che l’isola si trovasse allora più depressa che attualmente di 90 m., almeno nei punti abbastanza vicini al luogo in cui si deposero quelli strati. Es- sendo attualmente la massima altitudine che si verifica nel gruppo,, di 116 m ne viene che allora la parte emersa doveva essere alta solo 26 m., più ciò che fu tolto dall’erosione, che non può essere gran cosa, man- cando assolutamente corsi d’acqua che potessero esercitare un’azione degradante meccanica tale da diminuire sensibilmente l’altezza dell’iso- lotto, poiché l’azione del mare ne può diminuire solo la superfìcie che gli è a contatto o quella che non vi dista molto. Lo stesso ragiona- mento vale per Pelagosa, di cui la cima rocciosa di età secondaria so- vrasta di pochi metri agli strati pliocenici. Non è neppure lecito ammettere, nel caso del gruppo delle Tremiti, che durante il pliocene abbiano avuto molta maggiore estensione di terra emersa dalla parte di N.E, dove gli strati sono più rialzati e più an- tichi, per la ragione abbastanza ovvia che appunto al limite estremo Nord-orientale delle isole avvenne la rottura degli strati durante il sollevamento che dovrebbe pur essere antico, se contemporaneo a quello del Gargano, e per cui si è formata la gamba esterna iella sinclinale pe- rigarganica. Invece è possibile che a quell’epoca l’estremità periferica di questa sinclinale girante sia stata più continua, e che dalie Tremiti fino al bassofondo di 183 m. presso la Dalmazia vi fossero delle scogliere più numerose ed anelli concentrici, variamente incompleti ed interrotti a formare una specie di arcipelago. Ma questa non è che una suppo- sizione che in scienza non deve porre radice. Prima però di finire occorre un’ultima osservazione che servirà spe- — 503 — cialmente anche a delucidare la storia del bacino durante il Miocene. La disposizione stratigrafica che si osserva alle Isole l’ remiti e che è indicata nelle sezioni può benissimo dare luogo alla supposizione che il solle- vamento, ovvero l’emersione totale delle isole, abbia avuto luogo dopo la deposizione dell’ultimo strato pliocenico, purché si ammetta che il sollevamento non si sia esercitato uniformemente su tutta la base delle isole, ma che sia stato più potente là dove gli strati sono più incli- nati e dove i più antichi vennero a giorno (quindi nella parte N.E delle isole) e più lento e meno potente dove emersero solo i terreni più recenti come cioè all’isola di S. Nicola. La parte più elevata sarebbe stata facilmente denudata e privata delle assise più recenti e più incoerenti e conserverebbe quindi il solo nucleo di calcari più resistenti. Con questo ragionamento si dovrebbe ammettere che la totale elevazione sia avvenuta dopo il pliocene e ciò spiegherebbe perchè gli strati che lo rappresentano trovansi da una parte sola delle isole, mentre se il sollevamento fosse avvenuto uni- formemente su tutta la base che sostiene quest’area, osserverebbonsi tutto all’ ingiro dell’isola, poiché non vi è ragione che da una sola parte e non ovunque, abbiano resistito alla erosione. Coll’ammettere che la forza sollevante . abbia agito da profondità non lieve ed eziandio len- tissimamente a trarre da molto in basso gli strati cretacei ed eocenici, si darebbe ragione soddisfacente del perchè non si è fatto palese sopra il livello del mare sino dal principiare del Miocene il piccolo territorio tremitano che rivela contemporaneità e comunanza di origine col Gar- gano per l’identità degli strati e per il legame tettonico. Ma la questione tende ad impicciolire più di quello che occorra e senza utilità immediata, passo quindi a considerare le condizioni del bacino nel periodo precedente. Nel periodo di passaggio tra Miocene e Pliocene, abbiamo la serie di strati ascritta al piano messiniano che fu anche chiamato periodo mio-pliocenico allorché si intese di farlo equivalente per importanza ai due che lo comprendono. Gli strati di questo piano o periodo sono bene caratterizzati per circostanze comunemente note, e per la porzione padana del nostro bacino saremmo già in grado di tracciarne i confini approssimativi nel — 504 — tempo corrispondente distinguendoli nettamente da quelli che si possono segnare per gli altri momenti geologici e questo riuscirebbe già coni dati che possediamo presentemente. Però discendendo lungo la penisola, le osservazioni che si riferiscono a questo periodo scarseggiano alquanto fino a scomparire del tutto sia per mancanza di ricerche dettagliate all’uopo, sia realmente perchè i suoi strati si confondono con quelli dei due periodi vicini ed ora vengono conglobati in quelli dell’uno ora in quelli dell’altro. Quindi ora è impossibile qualsiasi distinzione in questo senso riguardo alle sponde dell’Adriatico propriamente detto. Per quanto riguarda il bacino padano, il piano messiniano si pre- senta sotto forma prevalentemente continentale. Sugli orli dei golfo, laddove durante i periodi tra cui questo è compreso, abbiamo schietto regime marino, presentasi in questo frattempo un paesaggio continentale, se non di terraferma asciutta, almen sotto forma di maremme, di laghi salmastri e di grandiose alluvioni. Tuttociò ci viene attestato o dalla presenza di filliti, di frutti e di larve di Libellula Doris , nelle marne in quel periodo depositate, ed altrove dalle estesissime zone di con- glomerati, ovvero ancora da altre marne a conchiglie d’acqua salmastra, alternate è bensì vero con alcuni strati a conchiglie marine. Durante tale periodo transitorio, il mare, in questo golfo, deve essere stato non solo meno esteso che nello schietto Pliocene, ma anche più ristretto che nel Miocene. La spettanza a questo tempo dei con- glomerati del Montorfano bresciano, cui viene assegnata una potenza non minore di 300 metri, e di altri affioramenti di tale natura al piede delle stesse prealpi lombarde, dimostra che il mare doveva essere ancora più lontano dalle Alpi di quello che non fosse dalla catena appenninica. Nella sola provincia di Treviso esisteva un golfo od un estuario che pare abbia dato dei fossili marini di questo periodo. Una marna, che rinvenni a settentrione del Colle di Susans, nel Friuli, alla base dei conglomerati spettanti a questo piano non mi diede più altro che conchiglie terre- stri e d’acqua dolce. li’ Adria miocenica. L’Adria miocenica presenta la sua costa rivolta ad occidente, rav- vicinata di molto alla Dalmazia odierna nella parte settentrionale, — 505 — mentre nella parte meridionale si spinge tanto innanzi sino a riunirsi con ogni probabilità al Gargano. Una delle più notevoli differenze che si possono osservare diretta- mente tra la distribuzione delle aree emerse durante il Pliocene ed il Miocene si incontra senza dubbio nel Veneto dove si può tenere dietro mano mano alle oscillazioni che ha subito questa regione dal Miocene sino ai giorni nostri poiché qua e là ci sono rimasti dei residui di tutti i depositi formati da quell’epoca in poi. Emersa rapidamente dal mare, dopo l’Eocene, tutta la serie degli strati che in quel periodo eransi formati, contribuendo a costituire buona parte della regione alpina e specialmente subalpina del Friuli collinesco ed orientale, dell’ Istria e della Dalmazia, ne deduciamo che il mare al- l’aurora del periodo miocenico doveva percuotere pressapoco una costa avente questo andamento, cioè, da Buja passando per i colli di Buttrio e di Medea a Monfalcone. Infatti il sedimento aqnitaniano (strati di di Schio a Scutella subrotundata) più orientale che si conosca nel Friuli l’incontriamo a Pozzuolo a Sud di Udine, affiorante appena appena dalle alluvioni grazie all’erosione del T. Cormor, e ad un poco sen- sibile rialzo sulla pianura che raggiunse oggi una altezza sul mare di soli 65 m. Nel versante opposto delle Alpi Giulie e Dinariche il mare miocenico si addentra assai nelle valli della Sava e della Drava per cui era relativamente non molto larga la barriera che divideva i due mari. Ma nelle età successive il dominio delle onde va perdendo terreno e direi quasi il mare emigra da oriente verso occidente onde possiamo seguire passo passo l’avanzarsi della terraferma studiando i depositi che si presentano a giorno al piede delle alpi venete, ed arguire, dove questi non si possono ora vedere per la presenza del mare, che un movimento non dissimile deve essere avvenuto parallelamente a questo nel luogo occupato oggi dal golfo di Venezia, quindi lungo un asse parallelo a quello dell’odierno Adriatico. Infatti i lembi più orientali di miocene medio e superiore vera- mente marini non si osservano che ad Osoppo cioè a poche centinaia di metri dalla sponda sinistra del F. Tagliamento, per trovare il Mio-plio- cene marino od almeno salmastro bisogna passare alla destra del Piave ed infine per incontrare il Pliocene marino bisogna andare su la sponda occidentale del Garda e del Mincio, fino a S. Bartolomeo di Salò, lo- — 506 — calità estrema in cui recentemente esso fu ritrovato. E nello stesso tempo noi possiamo osservare che in una medesima località di mano in mano i depositi di mare aperto divengono costieri, poi di laguna, di estuario, infine fluviali e schiettamente torrentizi, onde la formazione potente di ghiaie e di conglomerati di cui è ricoperta anzi formata per molte diecine di metri tutta la pianura veneta. Quella formazione co- stituisce principalmente la alluvione preglaciale. In essa, che sovrasta direttamente a simile formazione più cementata e più disturbata, spet- tante al Villafranchiano, alcun letto marnoso, nè alcun banco di li- gnite indica un po’ di vita o di calma in mezzo a quello sterminato e desolante piano inclinato di ciottoli e di ghiaie. Nel fin qui detto nulla trasparisce dell’estensione del mare verso settentrione, ma è d’altra parte chiaro che nelle età geologiche a noi vicine il mare andò sempre ritirandosi al T infuori del nucleo centrale della catena alpina sino ad essere limitato alla regione subalpina durante il Miocene ; e gli strati formati in quel mare trovansi inclusi entro le ultime e più esterne pieghe stratigrafiche che interessarono i terreni secondarii ed eocenici, mentre gli strati pliocenici trovansi solo ada- giati sul declivio formato dalle precedenti ripiegature che sovrasta im- mediatamente alla pianura. Il Miocene inferiore si addentra discreta- mente nelle valli, occupando p. e. il vallone di Belluno ed alle falde del M. Cavallo, al Rio Caltea, trovasi fino a 1000 m. di altezza. Gli strati dell’ E Iveziano e del Tortoniano colà non raggiungono mai quell’altitudine e sono compresi in curve meno profonde, molto meno addentrate nella catena montuosa, e che interessarono solo terreni abbastanza giovani. Il Messiniano ed il Pliocene (di facies villafran- chiana) subirono solo un certo sollevamento con leggere contorsioni. Il mare miocenico nel golfo padano si presentava in genere più inol- trato al Sud verso 1* Appennino, come ne fanno fede gli estesissimi depositi che costituiscono il Piemonte meridionale, i nuclei dell’Emilia dellUmbria, mentre non doveva arrivare al piede delle prealpi. A prova di che sta il fatto che nessun deposito miocenico marino trovasi ad- dossato alla catena alpina da Mondovì sino ai dintorni di Bassano veneto. Chè i depositi assegnati al Miocene e che trovansi all’estremità meri- dionale dei laghi Maggiore e di Como, se marini spettano all’Oligocene (marne a Dentalina e strati dei dintorni di Manerb sul Garda asse- — 507 — gnati finora al nummulitico, nei quali il di Rovasenda scoperse recen- temente le specie caratteristiche del Tongriano) ma per lo più sono conglomerati ad arenarie riferibili al Miocene, che per sola traccia di vita contengono qualche banco insignificante di lignite, e sono quindi formazioni continentali. Il Taramelli stesso dice che il« notissimo conglomerato poligenico di Camerlata... accenna ad una idrografia littoranea, all’aurora del mio- cene, sensibilmente diversa alla idrografìa quaternaria » 1 e che per la Lombardia subalpina il miocene fu un’epoca di emersione e di pro- fonda abrasione. 2 Possiamo quindi ritenere che la costa piemontese- lombarda del golfo padano fosse alquanto più vicina alla linea che oggi segna il corso del Po, e questa circostanza ci spiega, senza ri- correre ad altre ipotesi, la presenza dei blocchi giganteschi di roccie alpine negli strati elveziani della Collina di Torino che allora era molto più vicina che oggi alla montagna. La costa nel Miocene medio 3 all’incirca poteva avere questa direzione: partendo da Cuneo rasentava Torino e la base meridionale degli anfiteatri morenici, offriva una insenatura nel Bresciano, un golfo al lago di Garda, una penisola comprendente, Ve- ronese, colli Berici ed Euganei ed infine un bel golfo da Bassano ad Udine con insenature più o meno accentuate e variabili a seconda delle età nel vallone di Belluno ed allo sbocco della valle del Tagliamento, separate da uno sprone abbastanza accentuato dovuto ai contrafforti meridionali del M. Cavallo o dell’ altipiano del Cansiglio. Tali con- clusioni per ciò che riguarda l’area lombarda, sono pienamente d’ac- cordo con quanto riassume il Taramelli nel suo recente lavoro sintetico sulla geologia lombarda. Egli dice che gli elementi formanti i conglo- merati oligocenici che trovansi al piede dei laghi Verbano e Lario derivano non già dalle valli del Ticino o dell’Adda, allora non suffi- 1 Taramelli, Note geologiche sul bacino idrografico del Fiume Ticino, pag. 296. 2 Id., pag. 308. 3 Se invece di considerare il Miocene medio si fosse risaliti all’ indietro sino al Tongriano, si troverebbe che il bacino padano non si sarebbe ancora potuto chiamare un golfo, poiché comunicava largamente col Mediterraneo tra Dego e Savona, circa al passo di Altare. — 508 — cientemente scolpite, ma provengono da occidente, cioè dalle valli della Dora Baltea e della Sesia. Il disfacimento del territorio montuoso emerso che ho accennato dover esser esistito ad Ovest del F. Sesia, ha potuto largamente provvedere i materiali per i conglomerati oligocenici e mes- siniani, e tanto più agevolmente gli elementi minuti. La supposizione di una emersione datante da così lungo tempo, sospesa solo per poco, ma in maniera molto accentuata, durante il periodo pliocenico, è am- piamente confermata dalla mancanza al piede di quelle Alpi, quasi dalla Stura di Cuneo sino al Lago Maggiore, non solo di depositi miocenici, ma anche di quelli eocenici. Ancora era appena accennata la prima comparsa di alcuni isolotti che segnavano il posto che doveva poi essere occupato dalla Collina di Torino, e lungo la linea appenninica, avevano una costa frastagliatis- sima che sportava affatto verso Ovest l’asse attuale della penisola; ed in molti punti l’Adriatico comunicava col Mediterraneo, di guisa che piut- tosto che una catena continua si aveva una serie di isolotti allungati, disposti in serie parallele, separati da canali più o meno ampii; in- somma la penisola nostra doveva allora offrire ad un dipresso l’aspetto attuale della Dalmazia insulare. Il M. Carpegna (S. Marino) costituiva un’isola ben distinta e solo il M. Conero del gruppo giurese-cretaceo di Ancona si innalzava di pochi metri, propriamente nella parte centrale del mare, lungi da qual- siasi terra. Se verso il Mediterraneo il nostro bacino non era ancora ben de- limitato, dalla parte opposta lo era certamente da una terraferma con- tinua. Giudico che nel Miocene medio la costa partendo dallo sbocco del F. Tagliamento, attraversasse la pianura friulana, da N.N.O a S.S.E e continuando nella stessa direzione all’ incirca lungo l’asse mediano dell’Adriatico attuale sino a Pelagosa, comprendendola nella terra asciutta, assieme al bassofondo di 188 m., si accostasse o raggiungesse del tutto il Gargano, ed in fine volgendo ad oriente guadagnasse tosto la costa Dalmata odierna, oppure rasentandola per buon tratto vi si confondesse molto più in giù. Ed anche se non vi fossero altri argomenti, vista la struttura uni- forme e la direzione parallela da N.O a S.E degli strati eocenici e cre- tacei dallo sbocco del Tagliamento per tutto il Friuli orientale, per l’I- — 509 — stria e più giù sino all’estrema Dalmazia, l’aver dimostrato che nel Friuli la costa andò avanzandosi verso Ovest durante il Miocene, ba- sterebbe entro certi limiti, a fare arguire che in modo non dissimile si siano comportati gli strati che. più a Sud sono la continuazione evidente e più diretta di quelli del Friuli. Che anzi in Istria ed in Dalmazia la tettonica è ben più regolare di quello che non sia nel Friuli, dove la direzione degli strati N.O-S.E, e quindi il sollevamento parallelo a questa direzione, evidentissima nella parta orientale della regione, viene turbata e complicata dalla direzione ortogonale a questa e dall’analogo sollevamento che ha subito la catena principale alpina. Chè infatti le sinclinali e le fratture dell’Istria e del Friuli orientale tagliano ad an- golo retto la frattura che trovasi alla base del Monte Cavallo e del- l’altipiano del Cansiglio, al pari della sinclinale decorrente al piede di quella gran massa e che ha contribuito a determinare le valli padana ed adriatica. 1 Il M. Gargano durante tutto il Miocene, se non era più elevato, do- veva avere almeno la medesima altitudine che oggi presenta, poiché nè sul suo dorso nè sui fianchi offre tracce di depositi marini di questo pe- riodo. Era certamente separato dall’Appennino, ma ho ragione di credere che fosse riunito all’altipiano della Puglia settentrionale (Murgie), il quale invece doveva essere elevato più che oggi. Infatti, se per certo un braccio di mare si interponeva durante il periodo pliocenico a queste due regioni (poiché la Puglia da Barletta a Taranto è tutta circondata, e sui dorso stesso sparsa di lembi pliocenici), questi d’altra parte pog- giano direttamente sugli strati secondarii; poiché tra Barletta, Ta- ranto e Monopoli, ossia nella parte che prospetta direttamente al Gar- gano, mancano non solo i depositi miocenici, ma bensì anche quelli eocenici che potrebbero far credere ad una emersione più antica della quale non è ora il caso di intrattenerci. In ogni modo, e per noi è suf- ficiente, un periodo continentale miocenico ci si manifesta chiaramente nell’ istmo tra la Puglia ed il Gargano. In base a questi criterii, se è affatto impossibile ammettere la riu- nione del Gargano alla Puglia durante il pliocene, in epoca anteriore. 1 Vedi Taramelli, Geolog . prov. venete , Tav. II. — 510 — allorquando la orografia era quasi radicalmente diversa dalla attuale, e ci si presentava sotto un aspetto che oggi si può appena immagi- nare od intravedere con luce crepuscolare, tale unione diventa un fatto possibile 1 nella stessa guisa che diventa assurda la supposizione (che già fu fatta) che vi possa essere stato mai un legame diretto tra il Monte Conero ed il Gargano poiché abbiamo di mezzo le Isole Tre- miti a testimoniare che ivi dal Cretaceo al Quaternario vi fu sempre regime marino. E per lo stesso ordine di idee non si potrà mai ammettere che le Isole Tremiti prima del quaternario sieno state riunite al Gargano. Il Canavari, nel suo d'altronde pregevolissimo lavoro, accenna anche all’analogia del nummulitico garganico e tremitano, per le specie che racchiude, con quello del Veneto, e conseguentemente alla sua no- tevole diversità con quello appenninico ; inoltre qua e là fa menzione dell’estrema rassomiglianza stratigrafica e geofisica tra le Murgie, il Gargano, il Monte Conero e le Alpi nei dintorni di Verona, non esi- tando quasi di affermare che una intera e continua catena congiungesse in origine queste lontane regioni. In contrapposto a questa opinione faccio in primo luogo notare trattarsi di una orografia che si sarebbe presentata in epoca geologica- mente abbastanza lontana, per la quale le nostre osservazioni e dedu- zioni possono avere un valore molto limitato. Secondariamente le analogie stratigrafiche e biologiche dei depo- siti indicano solo che possono essersi formati in uno stesso mare od in condizioni poco dissimili, ma non potranno dare alcuna prova che essi abbiano fatto parte di un medesimo sistema di sollevamento ; non credo le corrispondenze tettoniche abbastanza concludenti fra quelle lontane regioni separate da immense lacune. Se vi esiste questa analogia nelle formazioni mesozoiche bisognerà 1 Gli argomenti biologici a prova di questo fatto sinora conosciuti sono invero troppo scarsi. L ’Alyssum leucadeum Guss. è una pianta che trovasi sola- mente in questi siti: Pelagosa, Tremiti, Gargano, ed estrema punta meridionale della Terra d’Otranto (Capo S. Maria di Leuca). È però ovvio e facile ammettere che la distinzione di questa specie dal tipo non sia tanto antica e che la sua dif- fusione sia avvenuta nel periodo quaternario. — 511 — r cercarne la causa in sistemi di sollevamento ben più antichi, di cui i residui sono perciò sempre più scarsi e quindi tanto più problematici ed incerti, che avrebbero limitati dei bacini di mare giuresi e cretacei nel senso confaciente ai caratteri che ci sembra oggi di osservare nelle rocce provenienti dal seno di quei bacini. All’osservazione riguardante la maggiore analogia nel nummulitico garganico con quello veneto, piuttosto che con quello appenninico è presto risposto: alla Majella, che dovrebbe essere affatto fuori della catena Gargano-Conero-Veronese, e quindi appartenere al sistema schiet- tamente appenninico, si trova invece l’identico nummulitico che al Gar- gano, come ho dimostrato in altro scritto. Se poi si volesse discutere seriamente sulle analogie delle diverse faune nummulitiche dell’Italia e delle regioni finitime, sarebbe argomento cui occorrerebbero molti e molti anni di indagini e si verrebbe alla conclusione che le condizioni geografiche di queste regioni erano affatto diverse anche da quello che su per giù ora sappiamo o crediamo di sapere a sufficienza- essere state durante il periodo miocenico. E già con il Miocene siamo giunti ad un punto abbastanza avan- zato nella conoscenza delle orografìe passate della nostra regione, chè di mano in mano che risalimmo nel tempo, fu d’uopo tener conto di quell’ importante fattore di modificazioni che è 1’ erosione, i cui effetti crescono proporzionatamente nelle epoche geologiche più remote, con maggior rapidità che in quelle meno lontane, essendo noi indotti erro- neamente, dalle stabilite divisioni geologiche, a considerare un eguai periodo di tempo da noi lontano più breve che uno vicino. Bisogna poi aggiungere che le forze tettoniche, in un lasso più lungo di tempo, hanno sconvolti maggiormente gli strati, e che non basta più osservare una Carta geologica per conoscere l’estensione di una serie di strati, ma dai pochi lembi residui, considerati nell’ altitu- dine e nella posizione loro, bisogna ricostruire l’amplissimo deposito originario. In ogni modo, col Miocene ha il primo inizio la depressione adria- tica, che racchiude il mare cui si conviene tal nome, cioè avente limiti continui, o quasi, di terraferma che sono i soli termini atti ad individualizzare un bacino. Il mare che prima occupava quell’area o parte di essa non è abbastanza distinto dal resto del Mediterraneo, nè — 512 — dal Mar Nero, per meritare un nome proprio; e solo presentava proba- bilmente delle insenature più o meno divise, di cui ora è scomparsa la traccia, che davano ricetto a faune nummulitiche un po’ diverse tra loro. In quel tempo a mala pena dalla presenza di qualche isola si sarebbe potuto indicare il sito che doveva racchiudere poi il nostro mare. Ed ora, per riassumere il fin qui detto, farò notare alcuni contrasti nella distribuzione della terraferma e dell’acqua fra la estremità setten- trionale e la meridionale della porzione di Adriatico che abbiamo con- siderato, nei periodi in cui ne abbiamo tracciata la storia geologica. Facendo astrazione dal golfo padano, notiamo che durante il Miocene nella regione veneta predomina il mare, al Gargano invece la terra- ferma. Nel periodo seguente il Veneto è tutto emerso, mentre per con- trapposto, l’istmo dalmato-garganico è tutto sommerso e l’Adria meri- dionale viene spinta verso la Dalmazia. Nel quaternario antico invece, benché, per poco, ritorni a predominare la terra alla parte meridionale del bacino ed il sollevamento d’allora as- sicuri decisivamente l’esistenza durevole delle isole peri-garganiche, all’estremità opposta il lido pliocenico si ritira sempre più verso le coste attuali, in causa dell’incipiente abbassamento. Nel quaternario recente o post-glaciale di nuovo si apre, ed ampiamente, il canale tra la Dalmazia ed il Gargano, tutte le coste vanno abbassandosi, e nella re- gione settentrionale del bacino stesso continua bensì l’abbassamento, ma i cordoni littorali del periodo glaciale segnano tuttora il limite tra mare e terra e, quale compenso a questa persistenza dello statu quo , ab- biamo l’avanzarsi rapidissimo delle bocche del Po da Piacenza fino alla notevole sporgenza attuale segnata dalla Punta della Maestra. Non intendo dare gran peso a questi contrasti simmetrici che si rivelano nella natura, quasi per una. legge universale di compensazione, ogni qual volta noi facciamo delle indagini; ma parrebbe ciò non di meno che vi fosse stato un regolare movimento di altalena, a lunghi periodi di intervallo tra le due parti opposte del bacino nostro, altalena di cui il punto d’appoggio sarebbe stato al M. Conero di Ancona, che, rimasto neutrale nell’avvicendarsi di questi moti, avrebbe solo obbedito ad un continuo e lento sollevamento. Ed ora non mi resta che far voti affinchè qualche geologo italiano, — 513 — sopra scala più vasta, con maggior corredo di osservazioni e sicurezza di sintesi, raccolga di tanto in tanto, durante altrettante tappe lungo la via dell’analisi, anche graficamente, i risultati della geologia con- tinentale ; poiché, siccome quella parte che è più agevole a rappre- sentarsi e che è più facile ad entrare nelle menti che desiderano solo di raccogliere i risultati scientifici supremi per coltura generale, deve anche prender posto, e principale) come già vedo in Neumayr ed in Flam- marion) nei libri d’ indole popolare, e per essi bisogna che, a scanso di inesattezze od errori, la materia sia preparata ed elaborata da co- loro che hanno famigliarità colla scienza e che vi attingono a fonti dirette. (Dal Museo geologico della R. Università di Roma, agosto 1890). S-A_G-C3-IO BIBLIOGRAFICO E CARTOGRAFICO DELLE ISOLE TREMITI. 1508. Cochorella Benedictus Vercellensis. — Tremitanae, olim Diomedeae insulae, descriptio (epoca in cui fu scritta l’opera). 1603. Aldrovandus Ulysses. — De Ave Diomedea, a pag. 57-62 dell’opera: Orni_ tfiologiae, Tomus tertius ; Bononiae. In-folio con figure. 1604. Prima edizione latina di Alberto Vintiano dell’opera del Cochorella , poscia in voi. XIII, del Tfies. A ut. et Hist Siciliae. Lugd. Bat. 1725, in-folio, con tavola. 1606. Cocarella B. — Cronica istoriale di Tremiti composta in latino, etc. etc. fiora volgarizzata da D. P. P. Ribera, con la brieve descrizione della fortezza moderna et isole antiche del luogo, già dette Diomedee. . . . etc. 1 voi. in-4°, Venezia, presso G. B. Colosino, con tavola. 1606. Ribera Pietro Paolo Val. — Successo dei Canonici regolari lateranensi nelle loro isole Tremitane con l’armata del Gran Turco....... nel 1567, etc. 1 voi. in-4°, Venezia, G. B. Colosino. 1838. Gasparrini Guglielmo. — Descrizione delle Isole Tremiti e del modo come renderle coltive. (Articolo inserito nel XXX fascicolo degli Annali civili di Napoli, pag. 101-127, in-4°). 33 = 514 — 1843. Nicolucci Giustiniano. — Elenco di pochi politalami fossili trovati in diversi saggi di rocce, fra cui in una calcarea del Gargano e nel calcare nummolitico delle Isole Tremiti (Rendiconti delle Adun. di lavori dell’Acc. delle Se. della Soc. R. Borbonica). Napoli, Voi. II . pag. 345 e 352 in 4° 1869. Istituto geografico militare italiano. — Tavolette S. Nicandro Garga- nico (foglio 156-IV) alla scala 1 : 50 000 comprendente le isole Tremiti e Rodi (156-1) comprendente l’isola di Pianosa. 1874. Saraceni Pietro. — Il monastero delle Isole Tremiti, Romanzo Storico ; Milano, 2 voi. in 16°. 1875. Susca Vito. — Le Isole Tremiti, Ricordi. 1877. Monterumici Domenico. — Studio sulle condizioni e bisogni delle Isole e Colonia penale di Tremiti. Opuscolo in 4° con carta topograf. San Remo, Biancheri. 1878 ... — Sunto del lavoro sopra citato nel Bollettino della Società Geografica Italiana. Volume III, serie II, pag. 367-370, Roma. 1878. Magnaghi G. B. (direttore della pubblicazione). — Piano delle isole Tremiti, rilevato dalla R. spedizione idrografica, diretta dal ‘Ca- pitano di Vascello A. Imbert, 1873. Scala 1 : 15 000. Pubbl. 1878. — Hoepli. (Vi è aggiunta l’ isola Pianosa alla stessa scala con due profili). 1879. Idem. — Carta costiera dal Lago di Lesina al Faro di Vieste. Rilievi eseguiti dalla R. Spediz. Idrografica diretta dal Cap. di Vascello A. Imbert nel 1873-75. Scala 1:100 000. (Contiene le Tremiti, Pianosa ed i profili). Ulrico Hoepli. 1884. ...... . „ . Carte Hydrographique. — Mer Adriatique, partie Nord et partie Sud. Gravè par Raynau. 1884, 2 fogli, scala 1 : 500 000 1885. Istituto geografico militare. — Superfìcie del Regno d’Italia valutate nel 1884, 1 voi. in 4°, Firenze. 18. .. Sanner. — Le Cento isole italiane abitate. Cenni geografici. Voi. IL Adriatico. Vigevano. 1890. Terracciano Achille. — La flora delle isole Tremiti (Nuovo Giorn. Bot., Anno 1890, pag. 383, fase. IV). a... Palazzo Luigi. — Stazione magnetica a Tremiti. Studi da pubblicarsi tra breve nell’Accademia dei Lincei e negli Annali dell’ Ufficio cen- trale di meteorologia italiana. .... Pollonera Carlo. — Molluschi di Tremiti e Pianosa (da pubblicarsi). Vedi inoltre i principali dizionari geografici tra cui : Amato Amati, Dizion. Corog. d’ Italia ; Boccardo, Nuova Enciclo- pedia Italiana (1887) e Dizionario Corografico universale dell’Italia. Reame di Napoli, Milano 1852, etc. ABBOZZO GEOLOGICO del gruppo delle Cala dà/TurdiL Scala di 1 ; 25,000 orizzontali : 10' Cala Sorrentino Cimitero JfeJ.Maria fruita Diamante oSela Vecchia Tramiti Porto* Cala degli inglesi I.S. DOMINO 1 Quaternaria antico ] | Pliocene supcriore (Astiano) I Pliocene' inferiore (Piacentino) || ~ '| Miocene/ ( Toi-toniano edElveziano ) □ Eocene ( Bar tornano e Parisiano) □ Cretaceo superiore EU Cretaceo inferiore' (Eeovonùnno ) Credei Bue Marino Grolla Me "“del Dia nolo Boll.del B_.Coia.Geol d’Italia Lon^lttidimt dui Tncrri Anno 1890. Tav.XT (A.TeTLini) Sezione A.B. Isola Pianosa Sezione C .D . Sezione E.K.G Isola S. Domino Scala per le orizzontali i:25,OOOi perle verticali 1:12,500 Stnb.Lit. Binato e Salai Idei R.Com.Geol. d’Italia Anno 189Q.Tav.aE (A Telimi , VARIAZIONI SUBITE DA UNA PARTE DEL BACINO ADRIATICO DAL PERIODO MIOCENICO ALL’EPOCA PRESENTE Scala di 1:3 OOO 000 Stab.Xit.Bnmo e Sa.lcrm.one, Roma — 515 — NOTIZIE BIBLIOGRAFICHE BIBLIOGRAFIA GEOLOGICA ITALIANA PER L’ANNO 1889 ( Continuazione e fine ; V. fascicolo n. 9-10). Ristori G. — Sopra un crostaceo fossile del Veronese. (Boll. Soc geol., VII, 3). — Roma. È questa una breve comunicazione fatta alla Società geologica italiana. Il fossile fu raccolto dal dott. Oppenheim in un’arenaria a grana fina con cemento calcareo-argilloso, nel piano a Natica crassissima dell’Eocene veronese, e comu- nicato per istudio all’autore : il quale vi riconobbe una specie del genere Scylla , probabilmente nuova, ma non determinabile per lo stato di conservazione. È questo l’unico esemplare del genere finora trovato nel terziario d’Italia. Ristori G. — Crostacei piemontesi del Miocene inferiore. (Boll. Soc. geol., VII, 3). — Roma. • I fossili, oggetto di questa nota, provengono da Sassello, Santa Giustina, Cairo -Montenotte, Mioglia e Dego; e fan parte, quelli delle prime quattro località della collezione di Don Perrando Deogratias, e quelli dell’ultima della collezione Michelotti. Le specie descritte sono : Palcceocarpilius macrocheilus Dessn., Eriphia sp. ind., Neptunus convexus n. sp., Grapsus sp. ind., Coeloma vigil A. Edw., Mursiopsis pustulosus nov. sp. (nuovo genere), Ranina speciosa Miinster ?, R. Aldovrandi ? (Ranzani), Callianassa Canavarii sp. nov., C. sp. ind. e Hoplo - paria sp. ind. Le forme nuove sono disegnate in una tavola. Per ciascuna specie sono indicate le sinonimie, e gli orizzonti in cui si ri- venne altrove. L’autore conchiude che la fauna descritta dimostra il sincronismo delle for- inazioni di Mioglia, S. Giustina, Sassello, Dego con quella del Vicentino (Mio- cene inferiore) ed accentua il loro distacco da quella dei Colli di Torino. Ristori G. — Sopra alcune scimmie fossili del Valdarno e di Mon- tebamboli. (Boll. Soc. geol., VII, 3). — Roma. L’ autore esaminò gli esemplari delle scimmie fossili del Pliocene del Val- darno superiore e del Miocene di Montebamboli, esistenti nel Museo geologico e paleontologico di Firenze. I resti del Valdarno superiore appartengono ad una. nuova specie del genere Inuus , assai vicina all’ I. ecaudatus, e non ad un nuovo genere come si ritenne. La scimmia di Montebamboli, denominata Oreopithecus Bambolii del Gervais, non è riferibile, come questi credette, agli Antropomorfi , ma invece ai Cynopi- thecidi. Rutley F. — Fulgurites from Monte Viso. (Quart. Journal of thè Geol. Society, Voi. XLV, n. 177). — {Sunto in Abstr. of thè Proceed.. of thè Geol. Soc., n, 529, e Geol. Magazine, Decade III, Voi. VI, 1)_ — London. Gli esemplari studiati dal prof. Rutley, e minutamente descritti, anche coi sussidio di figure, in questa nota, furono raccolti a circa due metri dalla vetta del Monviso: essi sono di uno scisto glaucofane-epidotico con granato, sfeno ed accidentalmente diallagio. Sulla superficie del maggiore di essi, rappresentato in una tavola, si osserva un canale semicilindrico, sinuoso e ramificato di diametro variabile fra 12 millimetri e 8 decimi di millimetro, coperto di una sottile crosta di sostanza vitrea bruno-scura, che riempie completamente uno dei rami minori^ Accuratamente studiando questa sostanza vitrea, l’autore verificò in essa la pre- senza di cristalliti (globuliti, longuliti e margariti), non prima d’ ora segnalata nelle folgoriti, e variamente fra loro disposti. Al contatto della parte vitrea con la roccia, non s'osserva in questa alcun indizio di cangiamento; solo una sottile ed irregolare striscia d’una sostanza bianca ed opaca potrebbe considerarsi come tale, ma l’ autore ritiene invece non es- sere altro che sfeno alterato, il quale si vede pure in altri punti nell’ interno della roccia. La presenza di cristalliti parrebbe indicare un raffreddamento della massa, fusa, meno repentino di quanto si ritiene d’ ordinario accadere in tali casi. — 517 — Rutley F. — Le folgoriti del Monte Viso. (Boll. Com. geol., 1-2). — Roma. È un sunto della nota precedente. Sacco F. — Le Ligurien. (Bull. Soc. géol. de France, S. Ili, T. XVII, 3). — Paris. Questa nota è essenzialmente diretta a stabilire che il Liguriano, quale s’in- tende dal Mayer suo fondatore, anziché essere superiore al Bartoniano gli è infe- riore. L’autore ha potuto osservare che la formazione di marne e calcari di Gassino da lui, come dal prof. Portis, determinata quale certamente bartoniana, è verso le colline di Casale largamente rappresentata e sta fra il Liguriano ed il Tongriano senza che sia possibile ammettere disturbi stratigrafìci : lo stesso fatto osservasi nelle colline tortonesi, dove però il Bartoniano non presenta fossili ca- ratteristici. Questa formazione, che l’autore altra volta nomò Gassiniano, contiene in taluni punti (Valle S. Genesio, presso Chivasso) lenti di ciottoli di roccie tipiche del Liguriano. Il prof. Sacco corrobora la propria tesi con l’esame delle formazioni di altre località, italiane e straniere. E da tale esame è pure condotto a concludere che la formazione del Flysch, sopra la quale il Mayer fondò il Liguriano non può esser base d’un piano geologico determinato, avendo cominciato nel Cretaceo inferiore, e forse nei Giurese, per prolungarsi sino all’Oligocene; quindi il nome di Liguriano deve essere abolito, o ritenuto solo ad indicare un facies speciale non proprio ad un solo piano. In un quadro 1’ autore compendia le proprie idee, mettendo a fronte delle divisioni da lui adottate (Tongriano, Sestiano, Bartoniano, Parisiano, Suessoniano) i principali fossili caratteristici, la scala delle nummuliti secondo de La Harpe, i termini corrispondenti della classificazione Mayer, e le differenti formazioni di varie regioni che debbono rapportarsi a quelle divisioni. Sacco F. — Un coin intéressant du tertiaire d' Italie. (Bull. Soc. belge de Géol., Pai. et Hydr., Mémoires, Tome III). — Bruxelles. La regione oggetto di questa memoria è quella compresa fra Castelnuovo d’Asti e Cocconato, ed è specialmente interessante come quella che offre ben ca- ratterizzate le formazioni a partire dal Liguriano, in parecchi punti molto ricche di fossili. L’autore ne descrive particolareggiatamente i diversi orizzonti, e la de- — 518 — scrizione correda d’una carta geologica al 1/25 000 e d’ una sezione alla stessa scala, diretta da nord a sud fra Passerano e Aramengo. Sacco F. — Les conglomérats du Flysch. (Bull. Soc. belge de Géol., Pai. et Hydr.? Mómoires, Tome III). — Bruxelles. Il dott. Sacco ha osservato in parecchie località del Piemonte entro al Flyscli lenti di breccia e di veri conglomerati ad elementi talvolta assai voluminosi : e di essi s’occupa in questa nota, siccome di quelli che possono contribuire a chia- rire l’origine del Flysch stesso. Ricordato che tale fatto fu già da altri notato in Isvizzera ed in Italia, l’autore espone il modo con che esso si presenta net punti da lui studiati. Nell’alta valle del Curone nelle argille scagliose del Liguriano (o Flysch ) al- ternate come di consueto con letti più o meno rotti di gres e di alberese, appa- riscono potenti banchi di conglomerato che si estendono per oltre 2 chilometri : alquanto ad oriente osservasi lo stesso fatto nella valle di Borgonuovo. I ciot- toli sono quasi sempre fortemente cementati, soventi impressionati profonda- mente e qualche volta rotti : sono di macigno, alberese, diaspro, e raramente di serpentina, e provengono essenzialmente dalla parte inferiore del Liguriano : questo, secondo l’autore, prova che il Liguriano va diviso in due orizzonti come già proponeva nel 1865 il Pareto (Liguriano propr. detto o inferiore, e Modenese). Altri conglomerati entro al Flysch si veggono presso Giarella, al Monte Cugrasso e allo sbocco di valle Grue nelle colline tortonesi, e nell’ Appennino settentrionale. Nella collina di Torino, al villaggio di Marcorengo si hanno due lenti di con- glomerato che appartengono al Liguriano e risultano una di quarzite, serpentina e porfidi quarzitici, e l’altra di calcare e quarzo : altra lente poco distante da queste, è composta di ciottoli calcarei e di diaspro fortemente impressionati. Lenti di conglomerato entro le argille scagliose liguriane, si hanno pure nelle colline di Monteu da Po ed in quelle di Lauriano : in queste località ed in altre si hanno pure breccie calcaree. I banchi di conglomerato si trovano nel Flysch del Piemonte specialmente a due livelli differenti: il superiore di essi è alla sommità del Liguriano o nella zona di passaggio fra questo ed il Bartoniano. L’autore si occupa in ultimo dell’origine e del modo di trasporto degli ele- menti dei conglomerati descritti: questione ch’egli ritiene non potersi ancora risol- vere completamente. Crede però che in massima parte i ciottoli provengano dal Liguriano stesso, e che gli altri sieno stati trasportati da corsi d’acqua e non già da ghiacciai. — 519 Sacco F. — Il bacino terziario del Piemonte. (Atti Soc. it. Se. nat., Voi. XXXI, 3 4 e XXXII, 2-3). — Milano. Questo lavoro, nel quale il prof. Sacco riunisce e coordina i risultati dei suoi studi sul terziario del Piemonte è tuttora in corso di pubblicazione: converrà quindi ritornarvi sopra ad opera finita. Per ora, notiamo solo che nella parte indicata qui sopra, è compreso, oltre un esteso elenco bibliografico, 1’ esame dei terreni sino allo Stampiano. Sacco F. — Carta geologica del bacino terziario del Piemonte, alla scala di 1/100 OC 0.— Torino, 1889. Il prof. Sacco ha pubblicato alla scala di 1/100 000 la carta del bacino ter- ziario del Piemonte, delle varie regioni del quale è da parecchi anni venuto pub- blicando la Carta parte alla scala di 1/50 000, e parte a quella di 1/25000. Questo lavoro, che forma utile corredo dell’opera precedente, contiene distintamente rap- presentati i terreni seguenti: Quaternario : Terrazziano, Sahar'ano. Pliocene: Villafranchiano, Fossàniano (e Astiano), Piacenziano, Messiniano. Miocene: Tortoniano, Elveziano, Langhiano. Oligocene: Aquitaniano, Stampiano, Sestiano (e Tongriano). Eocene : Barloniano, Liguriano (Parisiano). E noto per le numerose precedenti pubblicazioni del prof. Sacco, in qual modo ed entro quali limiti sieno da lui intesi questi differenti piani. La Carta contiene tre sezioni: una schematica alla scala di 1/500 000 attra- verso il bacino; un’altra al 1/50 000 attraverso la conca del Tortonese; e l’ultima infine al 1/100 000 attraverso i colli Torino-Casale, dalla Val Tanaro presso Asti alla pianura vercellese. Sacco F. — I terreni terziari del Piemonte e della Liguria settentrionale* — Torino, 1889. Ai fogli pubblicati negli anni precedenti sotto il titolo generale sovraindicato il prof. Sacco ha aggiunto nel 1889 quello di Cherasco e Cervere, alla scala di 1/25000. — 520 — Sacco F. — I chetoni astiani del Piemonte . (Mem. Acc. Se. Torino, Serie II, Tomo XXXIX). — Torino. Il dott. A. Portis illustrò con due note (1879, 1883) i cheioni del Piemonte : un nuovo esemplare recentemente studiato dal dott. Sacco porge a questi l’occa- sione di ritornare suH’argomento con la presente memoria: nella quale oltre l’esame particolareggiato di quell’esemplare, trovano luogo osservazioni sulle altre specie già note. Il fossile in esame fu raccolto da lungo tempo in vai d’Andona ; ma rimase sino ad ora ignorato. Non è nota l’esatta località in cui si rinvenne: ma per ra- gioni diverse il Sacco lo considera come astiano. L’esoscheletro è quasi completo e assai ben conservato, sebbene in qualche punto deformato." conserva le linee suturali delle scaglie : mancano le estremità ambulatone, il capo e la coda. Ap- partiene al genere Ernys e rappresenta una specie nuova, che tra le fossili pare avvicinarsi alla E. Deludi (descritta e figurata nel 1822 da Bourdet che la deter- minò su un’ impronta trovata sulle sabbie marnoso-calcaree dell’Astigiano), e tra le viventi si approssima molto alla E. caspica e alla E. sigritz delle quali pare essere la forma progenitrice più o meno diretta. Per mettere in evidenza questa parentela, nella particolareggiata descrizione del fossile l’autore mette a riscontro con i suoi caratteri quelli delle dette due specie viventi. La nuova specie, dedicata dall’autore al dott. Portis, porta a 14 le specie di chelonii note nel bacino terziario del Piemonte. Sacco F. — Il seno terziario di Moncalvo. (Atti Acc. Se. Torino, Voi. XXIV, 12). — Torino. La descrizione particolareggiata del seno terziario di Moncalvo, accompagnata da carta al 1/25 000, fatta nella presente memoria è così rissunta dall’autore stesso : 1° nella regione studiataci può seguir quasi perfettamente l’intiera serie ter- ziaria, spesso riccamente fossilifera, dall’Eocene al Pliocene superiore; 2° in detta regione, durante il Miocene, per compressioni laterali, agenti da N.E verso S.O, 'si verificarono due potentissimi corrugamenti diretti da N.O a S.E,fra di loro quasi paralleli e facenti parte regolare del generale corrugamento che originò i colli Torino-Valenza ; 3° fra queste due rughe eo-mioceniche si costituì uno stretto e profondo seno marino, regolare, tranquillo, che durò per tutta l’epoca pliocenica, finché il grandioso movimento che chiuse detta epoca cangiò in regione continen- tale l’intero golfo padano; 4° l’attuale configurazione della regione è dovuta es- senzialmente ai fenomeni di erosione verificatisi durante l’epoca quaternaria. . . : — 521 — Sacco F. — I colli monregalesi. (Boll. Soc. geol., Vili, 1). — Roma. I terreni terziari e posterziarì rappresentati nelle colline di Mondovì sono i seguenti: Tongriano, Elveziano, Tortoniano, Messiniano, Piacenziano, Astiano, Saliariano, Terrazziano, Alluvium. Di ciascuno di essi il prof. Sacco si occupa nella presente memoria indicandone particolareggiatamente le varie condizioni lo- cali. Nell’Elveziano inferiore si hanno molto sviluppati dei conglomerati, talora a grossi- blocchi, analoghi a quelli della collina di Torino : l’autóre li considera do. vuti a grandiosi correnti acquee sboccanti nel mare, anziché a ghiacciai. La memoria è corredata da una Carta geologica al 1/25 000. Sacco F. — Sopra un progetto di serbatojo in Valle Usseglia presso To- rino. Osservazioni geologiche. — Torino, 1889. Per questo serbatoio, il dott. Sacco esaminò le condizioni d’interrimento e quelle di impermeabilità delle pareti ; e le dichiara favorevoli descrivendo a grandi tratti la geologia della regione già da lui studiata minutamente in precedenti lavori. Sacco F. — Sopra due tracciati per un tronco della linea ferroviaria Torino- Chieri-Piovà- Casale. Osservazioni geologiche. — Torino, 1889. I due tratti di ferrovia esaminati dal dott. Sacco sono compresi fra Moriondo d’Asti e Castelnuovo d’Asti: uno si svolge a sud per Buttigliera, e l’altro a nord. Della geologia di questa regione l’autore si occupò in varie pubblicazioni prece- denti: in questa nota, premesse alcune considerazioni generali intorno alla diffi- coltà del passaggio dalla pianura padana alle colline astigiane, e accennati agli ostacoli incontrati in altri lavori, egli discute le condizioni relative dei due trac- ciati, dando la preferenza al primo. Sacco F. — La conca terziaria di Varzi-S. Sebastiano. Studio geolo- gico. (Boll. Com. geol., 9-10). — Roma. Ad oriente di S. Sebastiano -Curone i terreni terziarj formano una piccola conca interessante e caratteristica che parve al dott. Sacco meritasse particolare descrizione: la quale è data assai diffusamente in questa nota, col sussidio pure di una Carta geologica alla scala del 1/50 000. I terreni rappresentati in questa conca con importanza assai varia sono i se- guenti: Liguriano, Bartoniano, Sestiano, Tongriano, Stampiano, Aquitaniano, Lan- — 522 •— gliiano, ed Elveziano. Per ciascuno di essi 1’ autore descrive i caratteri generali ed i locali. Questa regione offre al prof. Sacco la conferma di idee altre volte emesse e ancora sviluppate in recenti pubblicazioni, riguardo al Liguriano ed al Bartoniano: è noto che egli crede che il Liguriano di Piemonte e Liguria rappresenti l’Eocene medio e l’inferiore, anziché il superiore; è noto del pari che il Bartoniano è per lui superiore al Liguriano, e che per esso propose il nome di Gassiniano, dalla località (Gassino presso Torino) in cui prima e meglio osservò il fatto. La formazione più interessante nella conca ora descritta è per potenza, ca- ratteri tipici e ricchezza in fossili, la tongriana. L’autore desume dal suo studio che la conca compresa fra S. Sebastiano-Curone e Varzi e tra il Curone e la Staffora, coll’ asse maggiore diretto da oriente ad occidente, schiacciata e fortemente rialzata a settentrione, rappresenta in scala minore il grande bacino terziario del Piemonte, per i caratteri stratigrafìci, lito- logici e paleontologici (per questi due ultimi, particolarmente riferita alla parte meridionale del bacino piemontese). Saltelli E. — Bapport sur lebassin anthraxifére de la Thuile en vallèe d1 Aoste, province de Tur in. — Ivrée, 1889. Questo rapporto diretto a mettere in luce l’importanza del bacino antraciti- fero della Thuile nella valle d’Aosta, contiene oltre la parte tecnica qualche notizia geologica e l’indicazione della disposizione degli strati quale fu verificata nei di- versi lavori già fatti in parecchi punti. E annesso pure un quadro dei saggi fatti alla Scuola degli ingegneri di Torino ed alla scuola chimica Cavour della stessa città su campioni di combustibile di detto bacino. Scacchi A. — Catalogo dei minerali e delle roccie vesuviane, per servire alla storia del Vesuvio ed al commercio dei suoi prodotti. (Atti del R. Istit. d’incoragg. di Napoli, S. IV, Voi. I, 5). — Napoli. Questo catalogo, come l’autore stesso dichiara nella introduzione, è destinato specialmente a giovar al commercio dei prodotti vesuviani dando per questi tutti i particolari atti a farne conoscere ai naturalisti l’alto valore scientifico. Fatto con questo scopo esso offre eziandio importanti elementi alla storia del Vesuvio. Alla memoria sono unite 4 tavole di forme cristalline. — 523 — Scacchi A. — Il vulcanetto di Puccianello. (Atti Acc. Se. Napoli, S. II, Yol. Ili, 7). — Napoli. Questa memoria è intesa non solo a segnalare un nuovo centro eruttivo della Campania, ma eziandio e sopratutto a mettere in luce fatti interessanti per la co- noscenza di quella regione. Il vulcanetto di cui trattasi è a Puccianello, a 2 cliilom. da Caserta: e per la natura ed abbondanza delle roccie metamorfosate (projetti) racchiuse nel tufo, esso può paragonarsi a quelli di Fiano (Nocera) e Fossa Lupara (Sarno) altra volta illustrati dall’autore. Un’escavazione ha messo in luce sotto a 12 m. di tufo, e riposante sopra il calcare, uno strato di 3 m, di materie incoerenti, il quale nella metà superiore è bruno, assai tenero e con poche pomici, e nella parte inferiore è formato da po- mici bianchiccie con frammenti di roccia nerastra. Qui pure, e meglio che altrove, si vede adunque che l’emissione della materia fangosa che formò il tufo fu pre- ceduta da quella di materie rimaste incoerenti e che probabilmente si deposita- rono in seno ad acque. I frammenti di roccie metamorfosate, estranei alla sostanza vulcanica, tro- vansi solo nel tufo, e più abbondano alla sua parte inferiore. Fra le geodi terrose fluorifere di Puccianello una ha il maggior diametro di 14 cm. e le pareti da 8 a 14 mm.: le dimensioni straordinarie di questa geode permisero di determinare la presenza di silice nelle sue pareti; ciò che l’autore non aveva ancora potuto fare, ed è importante per la genesi dei prodotti fluori- feri della Campania proposta dall’autore. L’interno della geode è occupato da fluorite cellulare con mica, cristalli probabilmente di nocerina ed altri non determinati. L’autore si occupa in seguito di geodi jluorifere coacervate , che si differen- ziano dalle altre per trovarsi riunite in breve spazio e per assere tenacemente legate al tufo e non contenere quei cristalli di ortoclase e quei brandelli di scorie che si hanno alla superfìcie delle geodi isolate. La stessa tufara di Puccianello offre pure un interessante fìloncello di fluorite jalitiforme, dei filetti di silice idrata e cristalli di ematite. L’ultima parte della memoria contiene qualche notizia intorno a tufare pros- sime a quella di Puccianello. Scacchi A. — I proietti agglutinanti dell1 incendio vesuviano del 1631. (Rend. Acc. Se. Napoli, S. II, Voi. Ili, 10). — Napoli. Il prof. A. Scacchi dà il nome di projetti agglutinanti a certi prodott del“ — 524 — l’eruzione vesuviana del 1631, costituiti da frammenti di roccie notevolmente dif- ferenti da quelle che si rinvengono nella parte attualmente accessibile del vulcano e sulla superfìcie dei quali sono saldamente impiantati brandelli di lava. Tali prodotti sono interessanti tanto per la natura della roccia, quanto per il lor modo d’origine non ben chiaro. Forse essi forono projettati al modo stesso delle odierne bombe, ma non è escluso che i frammenti di roccia che ne formano il nucleo si trovino alla superfìcie della lava perchè salitivi quand’ essa era ancor fluida grazie la minore loro densità. Nella presente nota il prof. Scacchi descrive alcuni di questi projetti, sui quali ha istituito ricerche chimiche di cui riporta i risultati. Schenk A. — Bemerkungen iiber einige Pflanzenreste aus den triassischen und liassischen Bildungen der Umgebung des Comersees. (Ber. der k. Sachs. Ges. der Wiss., 7 Jan.). — Liepzig. I resti fossili di cui si tratta in questa nota provengono da varie località nei dintorni di Como e di Bergamo, in alcune delle quali Escher v. der Linth aveva già raccolto resti di piante la cui determinazione fu fatta e pubblicata da Heer. Fra i resti, in generale male conservati e quindi assai dubbii, si presenta anche il Bactryllium che già dallo Heer fu ritenuto una pianta corrispondente alle ba- cillarie. L’autore potè confermare pienamente la descrizione data dall’ Heer, ma non è ancora ben certo sul posto sistematico da assegnare a questi ancora pro- blematici organismi. Gli esemplari delle equisetacee appartengono probabilmente all’ Equisetum cirenaceum Jaeg. sp. e Schizoneura Meriani Brgn. sp. , ma non è ben certo. Di Felci si presentano tre forme diverse e cioè : A ndriania Stoppami n. sp. Cgcadopteris sp. e Asterotheca Meriani Brgn. sp. La prima è alquanto incerta, e l’autore ebbe il dubbio che si trattasse invece di squame di placoidi. Esso osserva poi incidentalmente essere convinto che 1’ Andriania Fr. Braun e la Gutbiera Presi sieno fra di loro identiche. Il nome dato da Presi deve essere mantenuto in luogo di quello usato finora. Si presentano molti esemplari di conifere i quali tutti vengono considerati come rami di diverse età del Pagiophyllum peregrinum Lindi, e Hutton. Di Cicadee vi sono soltanto frammenti indeterminabili. I fossili sopraccennati indicano quindi dei depositi che possono essere tanto dell’epoca basica che triasica. — 525 Silvestri 0. — Sopra due nuovi generi di rizopodi (foraminifere) ap- partenenti al Pliocene inferiore d’ Italia . (Boll. Soc. ifc. microscopisti, Yol. I.). — Acireale. I due nuovi generi di rizopodi descritti e figurati in questa nota sono dedi- cati ai professori Meneghini e Seguenza. II primo di essi presenta caratteri tali da servir in qualche modo come anello di congiunzione fra gli ordini delle Elicosteghe e delle Agatisteghe di d’Orbigny, o delle Rotalidae e delle Miliolidae di Brady: ed è rappresentato da un’unica specie ( Meneghinia n autili f or mis, Silv.) che si trova assai rara nelle argille tur- chine del Pliocene inferiore di Borrocieco (Siena), ove la trovò Soldani che la chiamò Frumentaria nautiliformis. Il genere Seguenza è collocato dall’autore nell’ordine Elicosteghe di d’Orbigny ( Rotalidae di Brady), benché non presenti con esso perfetta corrispondenza : è rappresentato da un’ unica specie (S. anomala Silv.) eruttata rara dalla Maccaluba di Paterno (Etna) nell’eruzione di fango del 1878-79 con una ricca fauna di fora- minifere proprie alle argille del Pliocene inferiore che costituiscono il sottosuolo della Maccaluba. Silvestri O. — Sur Véruption recente de Vile de Vulcano. (Comptes-rendus de TAc. d. Sciences, T. CIX, 6.). — Paris. L’autore espone i caratteri di questa eruzione, ch’egli riferisce alla fase da lui detta vulcaniana. Uno dei fatti dominanti in questa eruzione è la mancanza di parosismi si- smici che caratterizzano le fasi pliniana e stromboliana. Nessuno degli strumenti sismici disposti dalla Commissione governativa presso il cratere dettero segni d’oscillazioni: eccetto il bagno di mercurio che coprivasi di pieghe durante 5'' prima di ciascuna esplosione, restava tranquillo 30'r, e in seguito vibrava durante l’esplo- sione. Questo farebbe supporre che l’esplosione superficiale sia preceduta da una a grande profondità a traverso un magma fluido. A 500 m dal cratere il ba- gno non si risente del movimento precursore, a 1000 g1 cessa l’azione delle esplosioni. Silvestri O. — SulVattuale eruzione di Vulcano nelle Isole Eolie inco- minciata il 3 Agosto 1888. Relazione a S. E. il Min. d’Agr. Ind. e Comm. (Ann. Uff. Oentr. Meteor. e Geodin., P. IV, Yol. IX.). — Poma. In questo rapporto, in data del 31 Agosto 1888, il prof. Silvestri espone i — 526 — fenomeni eruttivi presentati da Vulcano dopo il suo risveglio del 3 dello stesso mese. Egli visitò l’isola durante più giorni, e potè osservare da vicino tutte le fasi dell’eruzione: di questa si è dato un cenno nella bibliografìa dello scorso anno, in occasione di altro lavoro dello stesso autore. La presente relazione esordisce con una breve descrizione di Vulcano, ed una esposizione della sua storia. L’origine di quest* isola, come quella delle altre Eolie, risale almeno all’Astiano, essendosi trovati loro prodotti insieme a fossili di quel l’età sulla prospiciente costa di Sicilia. Entro al cratere preistorico che forma tutta l’isola, si formò in epoca proba” bilmente vicina ai tempi storici, un altro cratere; le grandi eruzioni di lave tra- chitiche che formarono il nucleo principale dell’isòla, precedettero in gran parte i tempi storici. Per quanto ci è noto, Vulcano con questo suo secondo cratere si mantenne nei tempi storici più o meno attivo, specialmente eruttando ceneri e ma- terie frammentarie dando solo a lunghi intervalli eruzioni di lava : quale fu quella che originò Vulcanello (206 anni A. C. secondo Plinio), e l’altra del Febbraio 1444 che riunì coi suoi materiali Vulcano e Vulcanello; l’ultima formidabile eruzione con lava pare sia stata quella del 1771. Da quest’ ultima data il vulcano conservò la fase solfatariana, interrotta solo da periodi più attivi con eruzioni di cenere e materiali pietrosi (1786, 1810, 1832). Nel 1873 Vulcano ebbe un risveglio assai vivo che si ripetè più volte sino al 1879: succedette un periodo di calma relativa, sino al 3 Agosto 1888 in cui cominciò la fase oggetto del presente lavoro. Silvestri 0. — L'isola di Vulcano ed il suo risveglio eruttivo. (Nuova Antologia, Voi. XXI, fase. 11). — Eoma. In questa nota, scritta il 15 maggio 1889, il prof. Silvestri, dopo esposta suc- cintamente la conformazione dellTsola Vulcano, narra i fenomeni presentati nella eruzione cominciata nell’agosto dell’anno precedente. Già nell’anno 1873, il cratere aveva dato segno di qualche eccitazione stra ordinaria, sviluppando dai fumaroli abbondanti vapori con cenere: ma tali feno- meni, dopo essersi ripetuti ad intervalli vari sino al 1879, cessarono affatto dopo l’eruzione dell’Etna di quell’anno, e la calma durò fino al 1888. Fin dal principio di questa eruzione, l’autore la ritenne caratteristica di una fase cui diede nome di vulcaniana, come quella che fu, per quanto è noto, la più comune per Vulcano nel passato, almeno nei tempi storici. Tale fase vulca- niana ha questi caratteri principali : seguito di esplosioni più o meno violenti e man- canza di fenomeni geodinamici importanti e di lava. Silvestri 0. — Etna, Sicilia ed isole vulcaniche adiacenti nel 1888 , sotto il punto di vista dei fenomeni eruttivi geodinamici . (Annuario meteor. it., Anno IV.) — Torino. — (Atti Acc. Grioenia Se. nat., S. IV, Voi. I.). — Catania. La rete di osservatore geodinamici estesa a tutta la Sicilia ed alle prossime isole, permette al prof. Silvestri che ne ha la direzione suprema, di esporre in questa memoria particolareggiatamente le differenti manifestazioni dell’attività in- terna e ricercare il nesso che può esistere tra di loro. L’autore insiste in particolar modo intorno alla fase da lui chiamata vulca- niana dall’Isola Vulcano che la presentò ben determinata lo scorso anno: dimostra inoltre che il periodo eruttivo dell’Etna, che ebbe deboli manifestazioni nei primi mesi dell’ anno, è andato gradatamente crescendo in seguito, raggiungendo un massimo nel Maggio e nel Giugno; indi declinò col principiare della fase eruttiva, di stesso genere ma più energica, di Vulcano, per poi aumentare e decrescere ri- spettivamente col decrescere od aumentare di questa. Silvestri 0., Consiglio Ponte S., Silvestri A. — Sulla attuale eruzione scoppiata il di 3 Agosto 1888 alV Isola Vulcano nell1 arcipelago Eolio (Sunto), (Bull. mens. Acc. Grioenia d. Se. nat., Nuova serie, fase. Vili.). — Catania. E questo il sommario di una memoria che sarà pubblicata negli Atti dell’Ac- cademia Gioenia. Accennando al capitolo in cui trattasi del modo di presentarsi dei fenomeni eruttivi di Vulcano è detto che essi sono rappresentati da eruzioni intermittenti di grandi masse di vapori che sprigionandosi determinano projezioni d’immensa quantità di cenere spesso mescolata a detrito minuto e grossolano: queste esplosioni si succedono con intervalli di riposo più o meno lunghi, e la loro violenza è in generale in rapporto diretto con la durata di questi intervalli. Ad un chilometro dal centro d’eruzione, il suolo non presenta nessun movi- mento: a minore distanza da quello si hanno per ogni eruzione due tremiti: la tranquillità del suolo è in relazione con l’assenza di lava la quale porrebbe osta- colo allo sviluppo dei vapori. I prodotti molto vari del vulcano sono dati da antiche lave spesso decom- poste : la cenere, bigio chiara, è formata da elementi prevalentemente feldispatici ed anche silicei (tridimite e quarzo) si hanno pure vere bombe, costituite da un nucleo di pomice coperto da una crosta di apparenza subvitrea o ipossidianica variamente screpolata: questa crosta è un meteriale nuovo, cioè di fresca data e — 528 — sempre a un dipresso del medesimo aspetto. Lo studio chimico mette in evidenza lave acidissime (70 80 0/° di silice), lave basiche (54 %) e lave intermedie (61-62 %). Simonelli Y. — Appunti geologici sull' Isola di Giannutri (Arcipelago toscano ). (Boll. Com. geol., 1-2). — Roma. L’ossatura dell’isola di Giannutri è formata da un calcare il quale presenta tre principali varietà: una grigia più o meno cavernosa, con le cellule tappezzate di minuti distaili di calcite o ripiene di polvere grigia o bianca: una brecciforme a cemento cristallino grigio o superficialmente rosso: la terza infine, nera, a strut- tura apparentemente compatta, ricca di materia organica cui deve il proprio co- lore. Quest’ultima varietà presenta sola stratificazione, ed occupa in generale la parte inferiore: solo in essa si rinviene qualche raro e problematico fossile. Manca quindi ogni dato paleontologico per determinare l’età di questa formazione: la quale però, per analogie litologiche, è dall’autore ascritta al Retico. In nessun punto dell’isola affiorano terreni più antichi : ma indizj varj accer- tano che i calcari riposano sopra gli scisti permiani. Nel calcare trovansi in qualche località grosse vene di manganite e piccoli letti di limonite : entro una caverna affiorano strati di gesso saccaroide con tenui strati di solfo (1/2 cm.). Oltre al Retico non si hanno nell’isola altri terreni che il Quaternario. Lungo tutta la costa le fenditure del calcare contengono una breccia formata in gran parte di frammenti del calcare stesso, riuniti da cemento calcareo-argilloso : vi si trovano microscopiche pagliette di mica e cristallini di pirosseno, provenienti probabilmente da ceneri dei vulcani tirreni. Queste breccie contengono ossa di mammiferi e d’uccelli e conchiglie di molluschi terrestri. Un esame preliminare dei molluschi ha mostrato differenze notevoli fra la fauna quaternaria dell’ isola e l’attuale. Simonelli Y. — Terreni e fossili dell ’ Isola di Pianosa nel Mar Tir- reno. (Boll. Com. geol., 7-8). — Roma. Alla descrizione dei terreni e dei fossili di Pianosa, l’autore premette alcuno notizie bibliografiche e qualche cenno della topografìa, climatologia, flora e fauna dell’isola. In parecchi punti si hanno argille più o meno marnose e sabbiose, grigie e giallognole, in generale prive di fossili: alla Marina del Marchese però esse con- tengono un discreto numero di fossili che permettono di collocarle nel Mio- cene medio. — 529 — Il calcare che costituisce la parte maggiore dell’isola, offre più varietà: sempre d’ origine organica, è talora formato quasi esclusivamente da Lytho - thamnium, altravolta da colonie di briozoi o da gusci di molluschi, specialmente lamellibranchi: qualche volta è costituito da minutissimi frammenti di origine or- ganica uniti a pagliette di mica nera, e a granelli di quarzo e di feldispato. In generale questi calcari sono orizzontali; qualche volta sono inclinati di 10° e più, ma non può escludersi che ciò sia dovuto a scoscendimenti locali per erosione delle argille sottostanti. Questi calcari, cui i diversi autori assegnarono età diverse, sono pliocenici. In varj punti della costa, a 2 o 3 m. sul livello del mare si hanno piccoli lembi di panchina, coacervata di gusci di molluschi, tuberi di nullipore, minuti ciottoletti calcarei o quarzosi, con cemento calcare. Taluni di questi lembi sono forse recenti, ma altri sono postpliocenici. Si ha ancora un calcare ad HeliaGì biancastro o rossiccio, facile a disgregarsi ; il quale riempie spaccature del calcare pliocenico. Nelle rare breccie ossifere non si trovarono frammenti determinabili. Entro le caverne esistenti nell’isola non tro- varonsi ancora specie estinte di mammiferi. Cinque tavole vanno unite a questo lavoro, in quattro delle quali sono raffi- gurati fossili. SimonelliV. — Placunanomie del Pliocene italiano. (Boli. Soc. Mal. it., Voi. XIV).— Pisa. L’autore premette alcune nozioni generali intorno alle Placunanomie: questo genere, riconosciuto nel Cretaceo, nel Miocene e nel Pliocene, non era stato fino ad ora indicato per il terziario d’Europa. Già da parecchi anni il prof. Meneghini riconobbe fra il materiale pliocenico del museo di Pisa, cinque specie apparte- nenti a quel genere. Sono queste specie che 1’ autore descrive e raffigura nella presente memoria, valendosi oltre che del materiale fornito da quel museo, di quello del museo di Modena. I fossili provengono dal Pliocene del Senese, del Volterrano, di Castellarquato, di Castel San Valentino, di Palermo e di Imola. Squinabol S. — Cenno 'preliminare sulla flora fossile di Santa Giu- stina. (Annali Museo Civico di St. nat. di Genova, S. II, voi. 7). — Genova. L’autore dà il catalogo delle felci da lui riconosciute nella ricca collezione di fossili di Santa Giustina (Varazze, Liguria) del rev. Deogratias Perrando. 34 — 530 - Il giacimento è ritenuto tongriano: però la presenza di alcuni tipi di piante alquanto più antichi, ( Caulinites Icipopytis, i Dryophyllum, alcune Castanea del- l’Eocene di Parigi, Myrica Matheroniana) e di numerose specie di felci nuove e formanti passaggio fra le puramente eoceniche e quelle un po’ recenti di Monte Promina, Gargas, ecc., inducono l’autore a credere che si abbia, almeno nella parte inferiore, un orizzonte di passaggio fra l’Eocene ed il Tongriano. Mancando però lo studio delle altre fìlliti e della fauna, non è per ora possibile risolvere la questione. Squinabol S. — Contribuzioni alla flora fossile dei terreni terziarii della Liguria. - II. Caracee-Felci. - ( Saggio bibliografico delle opere di Paleontologia vegetale italiana del secolo presente). — Genova, 1889. Nella prima parte delle sue contribuzioni alla flora fossile dei terreni ter- ziarii della Liguria (Boll. Soc. geol. it., Voi. Il) il dott. Squinabol studiò le Fu- coidi e le Elmintoidee. Nella seconda parte, ora pubblicata, egli si occupa delle Càracee e delle Felci; le specie descritte provengono quasi totalmente da Santa Giustina, intorno al qual giacimento l’autore diede alcuni cenni preliminari nella nota indicata pre- cedentemente: le restanti provengono dai lembi miocenici di Cadibona e di Sas- sello e dal Pliocene di S. Fruttuoso (Genova). Il giacimento di S. Fruttuoso, del quale l’autore descrive la W oodwardia radicane Cav. var. pliocenica Sap. e Mar. è costituito di marne azzurre appar- tenenti, come quelle di Genova, Savona, Albenga, Bordighera ecc. al Pliocene più antico, pressoché al Messiniano, come i tufi di Meximieux dove appunto il Laporta e Marion trovarono l’indicata varietà di Woodwardia. Delle specie descritte, una sola appartiene alle Caracee; tutte le altre, assai numerose, appartengono alle Felci, delle quali 15 sono nuove. Alla memoria sono unite 12 tavole. Steinmann G. — Ueber das Alter des ApenninJcalkes von Capri. (Ber. d. naturf. Ges. zu Freiburg, IV Bd., 3 H.) — Freiburg. L’autore ha trovato presso il paese di Capri un calcare contenente Ellipsa- ctiniae e Sphaeractiniae, ed anzi formato in gran parte dai loro scheletri; sonvi pure fossili simili a chaeteti, briozoi, esacoralli; echinodermi ecc. Dall’esame delle condizioni delle località in cui furono trovate Ellipsactiniae e Sphaeractiniae l’autóre conclude che quel calcare deve ritenersi titon'ano : il Walther lo aveva invece creduto cretaceo. — 531 — Steinmann Gr. — Sulla età del calcare appenninico di Capri. ( Tradu- zione dal tedesco con note di M. Canavari). (Boll. Com. geol., 1-2). — Roma. Alla traduzione elei precedente lavoro dello Steinmann, il prof. Canavari fa seguire l’enumerazione di altre località in cui furono trovate Ellipsactiniae, e le oui condizioni confermano l’età giurassica del calcare ad idrozoi di Capri e di tutto il bacino mediterraneo. In Italia osservaronsi Ellipsactiniae nella valle della Stura di Cuneo, al Gar- gano, al Monte Giano (Abruzzo cit.), al Gran Sasso, al Monte di Tiriolo (Calabria). L’ing. Baldacci riconobbe che il calcare ad Ellipsactiniae forma tutta l’ossatura dell’isola di Capri e sottostà direttamente a calcari a rudiste che formano lembi •assai limitati al palazzo di Tiberio e sul Monte S. Antonio tra Capri e Anacapri. Strobel P. — Gli orsi delle caverne nel continente italiano contempo- ranei delVuomo. (Bull, palet. it., S. 11, T. V, 1-2). — Parma. L’autore esamina i risultati delle osservazioni fatte dal dott. L. Tonini nelle caverne delle Alpi Apuane, i quali parrebbero portar luce sulla esistenza contem- poranea dell’uomo e dell’orso delle caverne in Italia. Infatti in quelle caverne tro- varonsi, oltre ad abbondanti ossa e denti d’Ursus spelaeus, strumenti ed armi fatti con queste spoglie: trovaronsi però pure manufatti litici, la maggior parte dei quali non può assegnarsi che all’ultimo periodo dell’età della pietra durante il quale non esisteva più YUrsus spelaeus. All’autore sembra che l’ipotesi più verosimile sia quella, che le due sorta di manufatti non siano contemporanei: quelli d’ossa e di denti d’orso apparterreb- bero al paleolitico o quaternario e gli altri al neolitico. Struever Gr. — DelV aftalosio di Racalmuto in Sicilia . (Rend. Acc. Lincei, S. IV, Voi. V, 11, 1° sem.). — Roma. Ricordate le conclusioni cui pervennero i professori vom Rath e Scacchi ri- guardo l’aftalosio di Racalmuto, trimetrico per il primo e romboedrico per il secondo, l’autore espone i risultati dell’esame ottico e delle misure che egli ne fece. L’af- talosio di Racalmuto è romboedrico. Struever Gr. — Contribuzioni alla mineralogia della Valle Vigezzo . (Rend. Acc. Lincei, S. IV, Voi. V, 9, 2° sem.). — Roma. In questo scritto il prof. Struever dà interessanti notizie su alcuni campioni — 532 — provenienti da Craveggia (Val Vigezzo) di recente donati al museo mineralogico dell’Università romana, fermandosi alquanto di più su due di essi di singolare importanza. Il primo è una varietà di tormalina di color giallo-olio o giallo-brunastro che si presenta disseminata entro una singolare roccia scistosa micacea composta di due varietà di mica e distene. Una delle miche è muscovite; l’altra, assai più ab- bondante, è di color bruno garofano, biasse, ad angolo degli assi ottici piccolo, e si paragonerebbe alla flogopite. IL distene è in individui lamellari allungatissimì bianco-grigiastri. L’altro minerale è varietà di pirosseno che ricorda il pirgome di Montaieu sopra Traversella, la fassaite della Valle di Fassa, il diopside di Philipstad (Nord- marken). I cristalli non presentano all’esterno alcun indizio di alterazione, ma nel loro interno, sono spesso, interamente o parzialmente, trasformati in un intreccio di cristalli aciculari di attinoto verde ; i quali a volte non lasciano che uno strato esterno di pirosseno di qualche millimetro nel quale penetrano quà e là, ed a volte sono distribuiti a strisce fra le quali conservasi il pirosseno inalterato. Si ha dunque un caso di antibolo pseudomorfo di pirosseno; non essendosi potuto fare analisi, non può dirsi se trattisi di semplice paramorfìsmo oppure di pseudomor- fìsmo con cangiamento chimico. Stkuevek GL — Ematite di Stromboli . (Mem. Acc. Lincei, S. IV, Yol. IV). — Roma. Il prof. Struever espone in questa nota il risultato dello studio cristallografico di un ricco materiale di ematite di Stromboli. Questa ematite non presenta che uno scarso numero di forme semplici riunite in poche combinazioni; queste sonot [111] [100], [111] [100] [lolf [111] [100] [Ilo], [111] [100] [101] [110]. Si hanno importanti aggruppamenti regolari: i numerosi geminati hanno luogo secondo le due leggi note dell’ematite, cioè ad asse [111] ossia normale ad una faccia di [211], e ad asse normale ad una faccia del romboedro diretto [100]. Talorale due leggi sono riunite in un solo gruppo, riunione non ancora osservata nell’ematite. La memoria è accompagnata da una tavola. Stur D. — Einige fluchtige , die InoceramenschicJiten des Wiener- sandsteins betreffende7 Studienreise nach Italien. (Jahrb. K. K. geol. Reich., Bd. XXXIX, Heft 3-4). - Wien. L’autore dà relazione di un viaggio intrapreso allo scopo di studiare gli strati ad inocerami d’Italia in confronto di quelli dell’arenaria di Vienna per pre- 533 cisarne l’età ritenuta coetanea con la formazione cretacea di Gosau, ma non an- cora esattamente definita. Egli si proponeva di vedere le collezioni di fossili relativi a quei terreni e di visitare le località dalle quali esse provenivano specialmente quella raccolta dai Fratelli Villa in Brianza (Lombardia). L’autore rende quindi conto delle visite fatte in diversi musei e specialmente in quelli di Bologna e Firenze e delle osserva - zioni fatte lungo il viaggio in particolare nell’ Appennino da Bologna a Firenze e nella Brianza predetta. Quantunque gli sia mancato lo scopo principale del viaggio, cioè quello di vedere la collezione di fossili dei Fratelli Villa perchè ancora chiusa in casse nel Museo Civico di Milano, tuttavia gli restò accertata la presenza degli scisti ad inocerami, come a Vienna e Salzburgo, anche nella Brianza e nei dintorni di Fi- renze ove si trovano inoltre i giacimenti più ricchi in cefalopodi che ora si cono- scono; dallo studio diligente e dettagliato dei quali si potrà ottenere una più ampia conoscenza della zona cretacea del Flysch appenninico e della arenaria di Vienna. Benché tali formazioni esigano ancora ulteriori studii l’autore crede in- tanto di potere stabilire tra quelle dell’Appennino e quelle di Vienna il seguente parallelo. Appennino. Dintorni di Vienna. Argille scagliose rosse e variegate. Arenarie del Ponte di Rida. Argille scagliose con blocchi di altre roccie. Arenaria a Lucina di Porretta. Scisti ad inocerami. Tacchini P. — Sulle attuali eruzv Acc. Line., S. IV, Voi. V, 5, Scisti rossi e variegati più recenti. Arenarie a nummuliti di Greifenstein. Scisti di Wolfpassing. Calcare a Lucina di Hollingstein (Wa- schberge). Scisti ad inocerami. li di Vulcano e Stromboli. (Rend. 5° sem.). — ■ Roma. Accennato brevemente alle circostanze che precedettero il risveglio di attività di Vulcano, l’autore comunica le prime notizie trasmessegli dalla Commissione governativa recatasi nel febbraio a studiare l’eruzione. Tenore Gr. — Priorità di osservazioni geologiche ed importanza indu- striale dei giacimenti petroliferi della Valle del Liri nella Terra di Lavoro . (Atti del R. Ist. d’Incoragg. di Napoli., S. IV, Voi. IL). — Napoli. In questa nota, l’ingegnere Tenore ricorda che già molti anni sono egli rese di * — 534 — pubblica ragione alcune sue osservazioni sulla geologia della Valle del Liri (Terra di Lavoro) e sull’importanza di quei giacimenti di petrolio ; e tale importanza con- ferma e corrobora citando quanto ne scrisse lo Stoppani. È unita una Carta geologica della Terra di Lavoro al 1/280 000, già pubbli- cata nel 1872. Terrenzi G. — Il fenomeno del Carso osservato nei monti di Narni . (Riv. it. di Se. nat., Anno IX, n. 10-12). — Siena. L’autore dà notizia di una cavità che si osserva nel calcare basico sul pen- dìo d’un monte presso Narni. Questa cavità, conosciuta localmente sotto il nome di Pizzo Corvo , ricorda quelle caratteristiche dei monti del Carso, ed altre ana- loghe che osservansi assai comuni nell’Appennino centrale. L’autore ritiene tali cavità scoscendimenti prodotti dalle acque interne, come è anche opinione generale. Terrenzi G. — Fossili pliocenici di Grottamare. (Rivista Se. ind., Anna XXI, 4). — Firenze. E una breve nota di fossili di Grottamare, aggiunta a quella già dall’autore pubblicata sin dal 1881. Comprende le specie seguenti: Anomia radiata Brocchi, Pecten glaber (Ostreu) Lin., Venus ovata Penn., Tellina pulchella Lamk., T. depressa Gemei., Nassa sp. N. serraticosta Bron., N. incrassata (Tritonium) Muller, Cyclonassa neritea ( Buccinum ) Lin., Odostomia conoidea (Turbo) Broc., Melampus Serresii Journ. Terrenzi G. — Sui fori lasciati dai litodomi pliocenici nel calcare liasico di Borgaria presso Narni. (Riv. Se. ind., Anno XXI, 6-7). — Fi- renze. Il calcare liasico sul quale sta il castello di Borgaria è ricoperto in parte da marno e sabbie plioceniche. L’autore ha trovato in esso, specialmente nella parte superiore in contatto con le sabbie plioceniche, fori di litodomi, probabil- mente di più specie. Oltre all’annunziare tale osservazione egli enumera i varii autori che parlarono di fori simili nelle regioni prossime, e dà in ultimo l’elenco dei fossili da lui riconosciuti in quelle sabbie. Terrenzi G. — Il mare pliocenico nell' interno della conca di Terni. (Riv. Se. ind.. Anno XXI, 10-11). — Firenze. Recenti trivellazioni eseguite nella conca di Narni permettono all’autore di — 535 — mettere in chiaro 1’esistenza del Pliocene marino nell’interno di quella conca. Pre- messe alcune considerazioni sitila geologia della regione, egli trascrive l’elenco dei terreni traversali da due trivellazioni, e quello dei fossili da lui determinati entro marne che risultano essere plioceniche, marine, di acque mediocremente profonde. Terrenzi Gr. - — Sopra una zanna elefantina scoperta nelle sabbie gialle plioceniche di Camartana (Narni). (Riv. Se. incl., Anno XXI, 16-17). — Firenze. A Camartana (Narni) il Pliocene marino molto esteso è rappresentato da sabbie gialle alternanti con marne azzurre. Entro le sabbie gialle fu di recente trovata una zanna elefantina che misurava 3 m., la quale però rotta andò dispersa non riuscendo al dott. Terrenzi di ottenerne che un frammento lungo 63 cm., insuf- ficiente per determinare la specie. L’autore, oltre a segnalare questo fatto, dà l’elenco dei fossili da lui determinati nelle sabbie che racchiudevano quella zanna. Terrigi Gr. — Il calcare (macco) di Palo e sua fauna microscopica . (Mem. Acc. Line., S. IV, Voi. VI). — Roma. Nella prima parte della memoria, dopo avere riassunto le notizie bibliografi- che relative a questa interessante formazione, l’autore descrive dettagliatamente la mi'crofauna del macco di Palo, nella quale egli enumera ben 84 specie dise- gnate accuratamente in 10 tavole; in esse sono rappresentati specialmente i generi Cythere , Cytherella , Miliolina, Textularia , Lagena , Globigerina , Truncatulina, Amphistegina, Poly stornella e Nonionina . Nella seconda parte della Memoria tratta molto accuratamente delle condi- zioni del terreno esaminato, della sua potenza, della sua posizione quasi orizzon- tale, del suo carattere littoraneo, e nota in taluni banchi la presenza di mate- riali vulcanici. Fa quindi una erudita discussione intorno all’epoca cui vanno as- segnati in generale i calcaridetti ad Amphistegina, per venire poi a trattare della probabile età del macco, essendo stato questo terreno giudicato dai più come appar- tenente al Pliocene inferiore. Dalla discussione geologica e dal carattere della fauna sembra che il medesimo siasi depositato nej-l’epopa stessa nella quale specie analoghe od identiche vivevano negli ultimi banchi del Pliocene di Monte Mario, ma in condizioni locali diverse. Pare quindi lo si debba ascrivere alla parte più recente del Pliocene e forse anche al passaggio fra questo terreno ed il Quater- nario antico. — 536 — Toldo Gr. — Mitridae nel Miocene superiore di Montegibio. (Bull. Soo. Mal. it., Yol. XIY). — Pisa. L’autore ha rivisto la collezione di Mitridae del Museo di Modena in seguito alla pubblicazione del lavoro di Bellardi su quella famiglia; la presente nota con- tiene il catalogo delle specie determinate, sei delle quali, nuove, sono pure figu- rate in una tavola. Tommasi A. — Sul lembo cretaceo di Vernasso nel Friuli. (Annali del R. Ist. Tecn. A. Zanon, S. II, Anno YII). — Udine. L’autore ha studiato a Vernasso, nel distretto di dividale, una formazione che gli pare debba con tutta probabilità riferirsi al Senoniano, piano non ancora riconosciuto nel Friuli. In una cava di pietra da calce si ha: alla base 4 m. di calcare compattissimo per frattura e colore simile alla maiolica, con abbondanti Ostreae di specie non determinata: succede con potenza di 3 m. altro calcare, ne- rastro sulle superficie fresche, ceruleo e bianchiccio dopo esposto all’atmosfera, il quale è molto ricco in fossili, ed ha alla parte superiore intercalati straterelli bianco rosei: su questo riposa un calcare durissimo, grossolano con abbondanti gusci di echinidi. Cinquanta metri di strati non potuti esaminare separano la for- mazione precedente da un conglomerato dell’Eocene inferiore. Nel calcare mediano, l’autore ha determinato tre specie proprie del Seno- niano ( Inoceramus Cripsi Mant., I. planus Munst. e Schaphites constrictus Sow. sp.), una propria del Turoniano ( Inoceramus labiatus Schloth. sp.) ed una che si trova nel Cretaceo medio e superiore ( Pholadomya nodulifer Munst.): oltre a Pholadomya che presentando molta affinità con la aequwalcis Goldf. del Cretaceo superiore. Il dott. Bozzi che studiò le fìlliti di questo giacimento, concluse soltanto che esso deve appartenere ad un piano del Cretaceo non inferiore al Cenomaniano. Toni F. — Collezione di minerali: raccolta di minerali e di roccie erut- tive e stratigrajiche. Relazione in proseguimento della memoria intorno alla collezione geol. eco. (Accademia spoletina. Anno 1889, Studi vari, Parte II). — Foligno. E il catalogo dei minerali e delle roccie comprese nella ricca collezione esi- stente presso l’autore, e della quale egli rese conto nel 1888 con la pubblicazione di cui è cenno nella bibliografia di detto anno. La collezione dei minerali è costi- e — 537 — tuita da oltre 800 esemplari differenti e di quasi altrettanto quella delle roccìe, e sì gli uni che le altre appartengano in gran parte all’Italia, sicché possono ser- vire ad uno studio generale di mineralogia e geologia italiana. Meritano poi parti- colare menzione le raccolte speciali delle roccie del Monte Pisano, degli alabastri di Volterra e più ancora quella assai ricca delle roccie alpine della Lombardia orientale. Trabucco Gr. — Frane di Bettola e di Groppallo. Cause e rimedii . (La Libertà^ Corriere di Piacenza. Anno VII, n. 1926.). — Piacenza. Scoscendimenti importanti si produssero a Groppallo nel 1888 e a Bettola nel 1889, non che in epoca precedente. I terreni che ne sono affetti appartengono al Liguriano, rappresentato da calcari alberesi e marnosi, passanti a vere marne, da breccie calcaree, puddinghe calcareo-serpentinose, argille scagliose, arenarie, gabbro, serpentina, ecc. L’alternanza dei calcari ed arenarie colle argille origina gli sco- scendimenti, col processo ben noto. Travaglia P. — I giacimenti di solfo in Sicilia e la loro lavorazione. — Padova, 1889. Questo lavoro, d’indole industriale, si apre con un capitolo di appunti geo- logici, nel quale oltre all’esame dell’estensione della formazione gessoso-solfìfera, della distribuzione e condizione dei giacimenti minerari nei vari bacini, ecc, trova posto la discussione della genesi del solfo. Su quest’ultimo argomento l’autore ritorna di proposito nella nota seguente. Travaglia R. — Contributo agli studi sulla genesi dei giacimenti di solfo. — (Boll. Gom. geol., 3-4). — Poma. È noto che l’ing. Baldacci nella sua descrizione dell’isola di Sicilia ha esposto intorno alla origine della formazione gessoso-solfìfera una teoria in alcuni punti assai differente da quella dell’ing. Mottura che primo s’occupò con gran corredo di dottrina e ampiezza di svolgimento dello interessante problema. L’autore della presente nota accettando nelle sue linee generali l’ipotesi dell’ing. Baldacci, pro- pone alcune varianti. Ed in prima: laddove ammette l’ing. Baldacci che, essendosi formata una serie di lagune, il solfato di calce vi si depositasse per essere il canale d’a- limentazione delle lagune insufficiente a sostituire completamente l’acqua perduta per evaporazione, vuole invece il Travaglia che quelle lagune sieno diventate ges- sifere per grande e forse assoluta sicc:tà per lui provata da fatti diversi. Le ma - — 538 — terle carburate che decomposero il gesso, provennero, secondo l’ipotesi dell’ing Travaglia, da depositi animali esistenti sul fondo delle lagune od a piccola profondità sotto di esso: infine le marne nere ed i tufi, si formarono a spese delle argille mioceniche ed eoceniche per opera delle acque marine irrompenti a formare nuove lagune. Titccimei Gr. — Il Villafrancliiano nelle valli sabine e i suoi fossili ca- ratteristici. (Boll. Soc. geol., Vili, 1). — Roma. La parte maggiore di questa nota è consacrata all’ elenco descrittivo dei fossili di quella formazione essenzialmente marnosa addossata alle roccie basiche dell’Appennino sabino dalla parte che guarda la vallata del Tevere e internantesi più o meno nelle valli del Farfa e del Galantina suoi affluenti, la quale fu dal- l’autore in precedente lavoro ascritta al Villafranchiano. Si ha una formazione lacustre limitata alla valle del Farfa e ad alcune col- line che formano il delta pliocenico del Farfa; e risulta di ghiaie grossolane a monte, di ghiaie, sabbie, marne e ligniti a valle ; ed una salmastra in gran parte marnosa nella valle del Galantina. Della prima formazione l’autore cita 34 specie, e della seconda 54. Di queste specie, 29 sono estinte. L’ esame delle specie, la proporzione fra quelle estinte eTe viventi, oltre che le condizioni stratigrafiche inducono l’autore a conchiudere che la formazione]va posta nel Pliocene, e forma un passaggio dall’Astiano al Quaternario. Fra le specie descritte alcune sono nuove, e vengono rappresentate in una tavola insieme con altre e a due premolari di Rhinoceros etruseus Falc. Tuccimei G. — Sulle formazioni littorali plioceniche addossate alle falde delV Apennino sabino. (Atti Acc. Pont. N. Lincei, Ann. XLII, Sess. VI). — Roma. È un riassunto delle conchiusioni della memoria precedente. V : Weithofer K. A. — Die fossilen Hydnen des Arnothales in Toskanà. (Denkschriften der K. Ak. der Wiss., mathem-naturw. Cl., Bd. 55, Abth. H). — Wien. In questo lavoro, il cui sunto era già stato presentato l’anno prima all’Ac- cademia delle Scienze di Vienna, l’autore figura e descrive i resti delle jene del Valdarno di cui due, la Hyaena Topariensis Major e la H. robusta n. sp., sono — 539 plioceniche, e la terza, H. crocuta Érscl., quaternaria. Siccome la II. robusta era stata classificata come H. Arvernensis Cr. et Job. che è stata dal Lyddeker considerata come identica alla H. striata , l’autore piglia occasione per stabi" lire le differenze fra la H. striata e la H. crocutat ed affermare che le due specie plioceniche di Val d’Arnó da lui descritte appartengono al tipo di queste ultima. Weithofer K. A. — Ueber die tertidren Landsdugethiere Italiens. (Jahrbuch der Kais.-Kon. geolog. Reichsanstalt, XXXIX Bd., 1-2 H.). — Wien. E una rassegna delle forme fossili dei mammiferi terziarii italiani, dedotta da quanto ne è stato finora pubblicato e dalle osservazioni fatte dall’ autore sul ma- teriale conservato nei musei italiani. Sono date le liste dei mammiferi fossili tro- vati nelli ligniti aquitaniane di Cadibona, nelle ligniti di Montebamboli, a Casino presso Siena ed in Val d’Arno. Discorrendo della fauna di Montebamboli, l’Autore si ferma in special modo sull’ Enhydriodon Campami Menegh. mantenendo il genere Enhydriodon contro Lyddeker, che non vorrebbe vedervi che una Lutra, e sopra il Hyaenarctos antraoites Weith. ( Amphicyon Laurillardi Menegh.), e nota che la fauna di Montebamboli per le forti analogie che presenta con quella di Pikermi, indicherebbe che gli strati che la contengono sono più giovani dell’ età che loro attualmente si attribuisce. Parlando della fauna di Val d’Arno, il Weithofer, promette di occuparsene in seguito con maggiore diffusione e da alcuni particolari sopra forme insufficien* temente note come Ursus etruscus Cuvier, Mustela sp., Rhinoceros etruscus Fal- coner, che paragona col Rh. tichorhinus e Rh. hemitoechus, accennando ad una nuova specie di elefante, Elephas lyrodun nov. sp. Il Weithofer completa nel presente lavoro le sue osservazioni sulla fauna delle ligniti di Casteani e Montebamboli comparse nel Boll, del R. Com. geol., n. 11-12,1888. Anonimo. — Analisi chimica delle acque della Ficoncella in Civitavecchia . (Idrol. e Climatol. med., XI, 5). — Firenze. Quest’analisi fu eseguita nel laboratorio di chimica del prof. Cannizzaro in Roma. L’acqua sgorga da una collina calcarea eocenica, è limpidissima, incolora^ pungente alla lingua e di sapore indecisamente acido ed amarognolo; ha leggero o dorè di idrogeno solforato. La sua temperatura è di 56 centigradi. — 540 — Un chilogrammo di quest’acqua contiene: (CO3) Residuo di acido carbonico corrispondente a gr. 0,19479 di anidride carbonica combinata gr. 0, 26562 (SO4) Residuo di acido solforico, corrispondente a gr. 1,36974 di acido solforico .... » 1,34179 Cloro » 0,03456 Sesquiossido di ferro e fosfato di calcio . . » 0,00133 Calcio. . * » 0,00133 Magnesio » 0,58930 Potassio » 0,11955 Sodio * . » 0,04221 Totale gr. 2,47304 Trovato direttamente per evaporazione. . . » 2,60717 Anonimo. — A natisi chimica quantitativa delVacqua di Fiuggi in An- ticoli di Campagna. (Idrol. e Climatol. med., XI, 7). — Firenze. L’acqua di Fiuggi in Anticoli di Campagna è fornita da quattro sorgenti, che ne danno complessivamente 527 ettolitri in ventiquattro ore. Non forma incrosta- zioni e non si intorbida se lasciata in vaso aperto. I risultati dell’analisi eseguitane nel laboratorio del prof. Cannizzaro in Roma, su gr. 100 000, sono i seguenti: Cloruro di sodio . » di magnesio . Carbonato di calcio » di magnesio » di potassio . Anidride silicica. Nitrato di potassio . Solfato di calcio gr. 1,209 » 0,114 » 1,159 » 0,945 » 0,092 » 1,073 » 0,727 » 0,555 Totale dei composti inorganici fìssi determinati gr. 5,874 Ossidi di rame, stronzio, litio, titanio ed anidride vanadica piccole quantità Ossidi di ferro, alluminio, bario, rubidio . . traccio Sostanze non determinate e perdite gr. 0,246 Residuo fìsso disseccato a 18° gr. 6,120 NOTIZIE DIVERSE Il Devoniano in Calabria. — Nel fare la Carta geologica della Calabria mi sono molto preoccupato di raccogliere gli elementi per determinare l’epoca geologica cui appartengono gli scisti lucenti neri, (o verdastri, o grigi) che furono chiamati, in genere, filladi. Il Seguenza parlando di quelli della parte N.E di Sicilia, che sono identici a quelli di Calabria, li chiamò carboniferi; ma io, percorrendo quella parte dell’isola, tutta la Calabria e facendo anche espressamente una gita in Sardegna, ho dovuto convincermi che quegli scisti lucenti (filladi) sono di un’epoca molto piu antica. Infatti: essi sono traversati, oltreché da numerosi fìloncelli di quarzo latteo, da filoni di pegmatite, di porfidi vari e di granito; sopra ad essi, ossia posteriori, sono i micascisti bianchi, i gneiss porftroidi, i micascisti granatiferi e finalmente le grandi masse di granito della Serra e della Sila. Perciò gli scisti lucenti, abbondantissimi, estesi in Sicilia, in Ca- labria e in Sardegna, non si possono ascrivere che alla serie dei terreni cristallini, arcaici, riferibili ai calcescisti, che li rappresentano nelle Alpi. Però in quelle regioni si trovano scisti filladici di vario genere, appartenenti ad altre epoche geològiche. Nella parte N.E di Sicilia si hanno quelli che accompagnano la formazione complessa delle roccie di Alì, e che furono da me e da altri, riferiti al Permiano. Da questi doveva provenire il pezzo erratico, trovato nella fiumara di Limina (o di Roccafiorita) contenente Y Amblypterus macropterus. Scisti neri o verdastri, lucenti, con vene quarzose e lenti di quar- zite, si tro^ ano nella Calabria Citeriore, litologicamente quasi identici alle fìlladi cristalline, che vanno riferiti all’ Eocene, perchè si sovrap- pongono a strati calcari nummulitici, contenendone anche di intercalati. Finalmente nella Calabria Ulteriore si trova una zona di uno scisto speciale, violaceo-bruno, semilucente, passante a calcescisto noduloso. Questa forma di fìllade, apparisce soltanto sotto ai monti Stella e Con- solino presso Stilo e Pazzano. 542 — La roccia forma la base su cui posano i calcari che costituiscono quelle due montagne, ma non appare che sul loro versante settentrio- nale in una zona limitata, che va dai Monte Campanaro alla gola del fiume Stilaro. La potenza della zona non è grande ; gli scisti posano direttamente sulla vera fillade cristallina, che qui è sviluppatissima, si manifesta con tutti i suoi caratteri speciali (filoni di pegmatite, di porfidi, di granito) e si accompagna ai graniti della Serra, che la ricoprono. Al di sopra dello scisto noduloso sta la formazione secondaria, rappresentata da quei calcari, che appartengono al giurese, meno la parte superiore, che è assolutamente di calcare turoniano. Gli scisti di Pazzano sono differenti dallo scisto filladico lucente cristallino e perciò sono facili a distinguersi ; tuttavia in tutta la re- gione da me percorsa non li vidi che là. In questi scisti il Montagna raccolse un frammento di trilobite, colla sua impronta. Il fossile fu descritto e determinato dal prof. P. Franco 1 come la Phacops laevis Mùnster, caratteristico del Devo- niano superiore. È a deplorarsi che in questo scisto non sia stato trovato finora che quel solo fossile. Io stesso, fin dal 1882, il Dott. M. Canavari nel 1889 e il Dott. Di Stefano pochi giorni sono, vi abbiamo fatto lunghe ricerche, senza mai poìer rinvenirvi alcuna traccia organica. E curioso poi che quella forma litologica la quale, almeno, servi- rebbe a far riconoscere il terreno devoniano, non si presenti che in queU’unica località. I calcari che formano il Monte Stella e il Consolino di Stilo, ap- paiono diverse volte, in Calabria. Si vedono presso la Marina di Bova, e si estendono da Palizzi, Pietrapennata, a Staiti, formano il Monte Mutolo di Canolo, presso Gerace, costituiscono i due monti suddetti, il Monte di Tiriolo, e di qui in vari lembi, si mostrano fino a Sellia, finalmente presso Amantea formano il Cozzo Grassullo. In quasi tutte queste masse, il calcare che corona quelle alture è ricco di rudiste, ed è turoniano. 1 Rendiconti dell’ Accademia, delle Scienze fìsiche e matematiche. Napoli anno XX, 1881. # — 543 — biotto ad esso abbiamo i calcari a corallari e ad ellipsactiniae, che sono titonici. Vi sottostanno dei calcari rossi, che per Ja loro facies , sono rife- ribili al malm , e il dogger potrebbe esser rappresentato dai calcari, inferiori, dolomitici, rossastri e bruni, tanto potenti al Monte Mutolo, al Consolino e al Tiriolo. Anzi il giacimento limonitico, che sta sotto ai calcari di Stella e di Consolino potrebbe riferirsi a quelli, caratteristici, che si trovano nel dogger inglese (Yorkshire) e che visitai altra volta. Queste masse di terreno secondario individuano in Calabria un arco di ellisse. Il secondario della parte N.E di Sicilia, che va da Ta- ormina a S. Agata di Militello, circuendo il Peloro, è rappresentato da calcari liasici , oltreché da quelli giurassici. Questi poi hanno una facies diversa da quello dei calcari giurassici calabresi, poiché mentre in Sicilia si hanno calcari marnosi, scistosi, con aptichi e belemniti, in Calabria si ha il giurassico a facies corallina. Contuttociò, riflettendo che l|a differenza di aspetto litologico non sta a rappresentare altro che una differenza di condizioni del giacimento, resta sempre a con- siderare r importanza del fatto che, la zona secondaria nel messinese continua l’arco di ellisse individuato da quella calabrese. In Sicilia il secondario circuisce i terreni cristallini della regione peloritana, come in Calabria circuisce quelli della parte ulteriore. Tutte le masse di calcari secondarii posano direttamente sulle filladi cristalline, meno quella del gruppo Stella-Consolino, che posa sopra la sottile e limitata zona di scisto e calcescisto noduloso che, secondo la determinazione del prof. Franco, si dovrebbe ascrivere al Devoniano. La presenza di questo è dunque tanto più strana, inquantochè esso non colma l’enorme hiatus esistente tra le filladi propriamente dette e il secondario, non succede immediatamente a quelle, nè pre- cede immediatamente questo, che pur vi si adagia in concordanza, senza neppure l’ intermezzo di un conglomerato. Il frammento contenente il trilobite, veduto da me al Museo del- l’Università di Napoli, è perfettamente riconoscibile come proveniente dallo scisto di Pazzano ; anzi il fossile è propriamente nello scisto a riflessi violacei, mentre la controimpronta è nel calcescisto noduloso, a noduli di calcare violaceo. E. Cortese. — 544 — NECROLOGIA. ORAZIO SILVESTRI Dobbiamo qui ricordare la grave perdita fatta nel corrente anno dal R. Comitato geologico per la morte del prof. Orazio Silvestri, av- venuta in Catania il 17 agosto scorso. Nato in Firenze nel 1835, fece i suoi studi in Pisa, ove si laureò dapprima in filologia e belle lettere, e successivamente in scienze fisi- co-chimiche e naturali. Professore di chimica e storia naturale nel Liceo di quella città nel 1859, passò nel 1862 a Napoli come assistente alla cattedra di chimica industriale diretta dal prof. De Luca, e cominciò fin d’ allora ad occuparsi degli studi per lui prediletti di vulcanologia, dedicandosi specialmente alle ricerche fisico-chimiche, geologiche e mineralogiche sul Vesuvio. Nel 1863 fu nominato professore di chimica generale nella Regia Università di Catania, ove consacrò le prime sue cure alFinsegnamento e all’ organizzazione del laboratorio chimico di cui quella università mancava. L* eruzione etnea del 1865 lo spinse a dedicarsi con nuovo ardore agli studi vulcanologici, e d’ allora' in poi il suo nome fu ognora le- gato a quello del gran vulcano siciliano. Nel 1874 chiamato al posto di professore di chimica tecnologica presso il Museo industriale di Torino, vi rimase tre anni, dopo i quali ottenne di ritornare ai suoi favoriti studi in Catania come professore 1 Per mancanza di spazio non fu possibile inserire questo cenno necrologico nel fascicolo precedente. Ipv " ' — 545 — titolare di geologia e mineralogia e della nuova cattedra di fìsica ter- restre e vulcanologia per lui creata da quel consorzio universitario. Egli potè così allora realizzare il progetto già da tempo da lui for- mato di creare un grande stabilimento scientifico con laboratorio e collezioni, che è uno dei più belli e più importanti consacrati in Eu- ropa alla fìsica terrestre. Ebbe dal Governo la direzione del servizio geodinamico sull’Etna, servizio che ordinò ed estese in seguito a tutta la Sicilia e alle isole vicine. Oltre all’insegnamento ebbe molti incarichi onorifici: fu presidente della Sezione catanese del Club alpino da lui fondata, segretario gene- rale dell’Accademia Gioenia, membro del consiglio direttivo della Società metereologica italiana e di altre accademie e società scientifiche, e membro del R. Comitato geologico d’Italia con decreto del marzo 1885. Nei vari compiti assegnatigli, o che esso volonteroso s’imponeva, mostrò sempre intelligenza, operosità ed energia non comuni. Mentre attendeva a compiere la sua maggiore opera sui fenomeni vulcanici dell’ultimo ventennio, colpito da morbo improvviso, fu rapito in pochi giorni alla famiglia, alla scienza, agli amici nella ancora fresca età di 55 anni. Il Prof. Silvestri oltre ad alcune pubblicazioni di botanica e di pa- leontologia, lascia una copiosa raccolta di memorie riguardanti i fe- nomeni vulcanici dell’Etna e delle Lipari, specialmente quelle sulle eruzioni etnee degli anni 1865, 1869, 1883 e 1886. Lascia pure una serie di analisi e di studi inediti, specialmente sull’ultima eruzione di Vul- cano, nonché su altri argomenti di geologia e di chimica. 35 PUBBLICAZIONE DELLA CARTA GEOLOGICA D’ ITALIA PER CURA DEL R. UFFICIO GEOLOGICO PARTI PUBBLICATE (al 31 Dicembre 1890) Carta geologica della Sicilia nella scala di 1/100 000 : Foglio N. 244 (Isole Eolie) prezzo L. 3 00 Foglio N. 262 (Monte Etna). . L. 5 00 » 248 (Trapani) . . . » 3 00 » 265 (Mazzara del Vallo)» 3 00 » 249 (Palermo) . . . j> 4 00 » 266 (Sciacca) . . . » 4 00 » 250 (Bagheria) . . . » 3 00 » 267 (Canicattì) . . . » 5 00 » 251 (Cefalù) .... » 3 00 » 268 (Caltanissetta) . » 5 00 » 252 (Naso) .... » 4 00 » 269 (Paterno) . . . » 5 00 » 253 (Castroreale) . . » 4 00 » 270 (Catania) . . . » 3 00 » 254 (Messina) . . . » 4 00 » 271 (Girgenti) . . . » 3 00 » 256 (Isole Egadi) . . » 3 00 » 272 (Terranova) . . » 4 00 » 257 (Castelvetrano) . » 4 00 » 273 (Caltagirone) . . » 5 00 » 258 (Corleone) . . . » 5 00 » 274 (Siracusa) . . 275 (Scoglitti) . . . » 4 00 » 259 (Termini Imerese). » 5 00 » . » 3 00 » 260 (Nicosia) . . . » 5 00 » 276 (Modica) . . . » 3 00 » 261 (Bronte). . . . » 5 00 » 277 (Noto) . . . . » 3 00 Tavola di sez. N. I (annessa ai fogli 249 e 258) L. 4 00 » » N. II (annessa ai fogli 252, 260 e 261) » 4 00 » » N. Ili (annessa ai fogli 253, 254 e 262) » 4 00 » » N. IY (annessa ai fogli 257 e 266) » 4 00 » » N. V (annessa ai fogli 273 e 274) » 4 00 NT.B. — L'intiera Carta della Sicilia, in 28 fogli e 5 tavole di sezioni, con quadro d’unione e copertina, è in vendita al prezzo di lire 100. Carta geologica della Sicilia nella scala di 1/500 000 (serve anche di foglio di unione della precedente) con sezioni prezzo L. 5 00 Descrizione geologica dell’Isola di Sicilia, con una Carta geologica, tavole in zincotipia ed incisioni, delTlng. L. Baldacci prezzo L. 10' 00 Carta geologica dell’ Isola d’ Elba, nella scala di 1/25 000 con sezioni annesse (in due fogli) prezzo L. 10 00 Descrizione geologica dell’ Isola d’ Elba, con Carta annessa nella scala di 1/50 000, dellTng. B. Lotti prezzo L. 10 00 Relazione sulle miniere di ferro dell’Isola d’Elba, con un atlante di carte e sezioni geologiche, dellTng. A. Fabri . . . prezzo L. 20 00 Carta geologica della Campagna Romana e regioni limitrofe, nella scala di 1/100 000 (sei fogli e una tavola di sezioni) . prezzo L. 25 00 I\T. B. — Sono pure in vendita i fogli separati ai prezzi seguenti : Civitavecchia ( L . 4); Bracciano ( L . 5); Palombara (L. 5); Cerveteri (L. 4); Roma {L. 5); Cori (L. 4). Carta geologico-mineraria dell’ Iglesiente (Sardegna), nella scala di 1/50 000 (in un foglio) prezzo L. 5 00 Descrizione geologico-mineraria dellTglesiente, con un atlante di XXX tavole e una Carta geologica, dell’ Ing. GL Zoppi. . . . prezzo L. 15 00 Descrizione geologico-mineraria della zona argentifera del Sarrabus (Sarde- gna), con una Carta geolog., dellTng. C. De Castro prezzo L. 8 00 Carta geologica dell’Italia, in due fogli, nella scala di 1/1 000 000 (seconda edizione riveduta della Carta pubblicata nel 1881). . . prezzo L. 10 00 ELENCO del personale componente il Comitato e l’Ufficio Geologico R. Comitato Geologico. Capellini Giovanni, prof, di geologia nella R.Università di Bologna, Presici. Cocchi Igino, prof, di geologia, a Firenze. Cossa Alfonso, prof, di chimica nella R. Scuola di applicazione per gli ingegneri in Torino. De Zigno Achille, membro del R. Istituto Veneto, a Padova. Gemmellaro Gaetano Giorgio, prof, di geologia, R. Università di Palermo. Omboni Giovanni, prof, di geologia nella R. Università di Padova. Scacchi Arcangelo, prof, di mineralogia nella R. Università di Napoli. Scarabelli Giuseppe, senatore del Regno, a Imola. Stoppani Antonio, professore di geologia nel R. Istituto tecnico supe- riore di Milano. Stri) ver Giovanni., prof, di mineralogia nella R. Università di Roma. Taramelli Torquato, prof, di geologia nella R. Università di Pavia. Il Direttore del R. Istituto geografico militare in Firenze. Giordano Felice, ispettore-capo del R. Corpo delle Miniere, a Roma. Pellati Niccolò, ispettore nel R. Corpo delle Miniere, a Roma. Personale addetto ai lavori della Carta Geologica. Direzione superiore : Ing. Giordano Felice, Direttore. Ing. Pellati Niccolò. Ufficio geologico : Ing. Zezi Pietro, Capo d’ufficio e Segretario del Comitato. Ing. Sormani Claudio. Dott. Di Stefano Giovanni, paleontologo. Ing. Aichino Giovanni. Sig. Lusvergh Cesare, aiutante. Geologi operatori : Ing. Baldacci Luigi. Ing. Lotti Bernardino. Ing. Cortese Emilio. Ing. Zaccagna Domenico. Ing. Mattirolo Ettore. Ing. Viola Carlo. Ing. Novarese Vittorio. Ing. Sabatini Venturino. Ing. Franchi Secondo. Sig. Fossen Pietro, aiutante. Sig. Cassetti Michele, aiutante. Sig. Moderni Pompeo, aiutante. La sede dell’Ufficio geologico è in Roma nel Museo agrario-geologico , via Santa Susanna, n. 1-A. BOLLETTINO DEL R. COMITATO GEOLOGICO. Serie III.* — Anno I." 1890 ATTI UFFICIALI. — 3 — BOLLETTINO DEL R. COMITATO GEOLOGICO PARTE UFFICIALE R. Decreto 29 Dicembre 1889, col quale il Prof. G. Capellini è con- fermato Presidente del R. Comitato geologico per Vanno 1890; ed i signori G. Scar abelli, A. Cossa , A. Scacchi e G. G. Gemmellaro, sono confermati membri di detto Comitato, per il triennio 1890-92. UMBERTO I PER GRAZIA DI DIO E PER VOLONTÀ DELLA NAZIONE RE D’ITALIA. Visto il Nostro Decreto del 22 Febbraio 1885, N. 2979, Serie 3tt; • Sulla proposta del Ministro di Agricoltura, Industria e Commercio; Abbiamo decretato e decretiamo: Art. 1. Sono confermati Componenti del R. Comitato Geologico pel trien- nio 1890*92 i signori : Giuseppe Scarabelli Gommi Flamini, Alfonso Cossa, Arcangelo Scacchi e Gaetano Giorgio Gemmellaro. Art. 2. Il Prof. Giovanni Capellini è confermato Presidente del detto Co- mitato per l’anno 1890. Il Ministro anzidetto è incaricato della esecuzione del presente Decreto che sarà registrato alla Corte dei conti. Dato a Roma., addì 29 Dicembre 1889. Firmato : UMBERTO. Controfirmato: Miceli. Registrato alla Corte dei conti addì 13 Gennaio 1890. Registro 259, Personale civile, f.86. Firmato : Mandillo . R. Decreto 29 Dicembre 1889, còl quale il Doit. Giovanni Di Stefano , è nominato paleontologo del R . Corpo delle Miniere. UMBERTO I PER GRAZIA DI DIO E PER VOLONTÀ DELLA NAZIONE RE D’ITALIA. Visto il Nostro Decreto del 30 Giugno 1889; Udito il R. Comitato Geologico; Sulla proposta del Ministro di Agricoltura, Industria e Commercio; Abbiamo decretato e decretiamo: Il Dott. Giovanni Di Stefano è nominato paleontologo del R. Corpo delle Miniere, con Tannilo stipendio di lire Tremilacinquecento (L. 3500) a decorrere dal 1° Gennaio 1890. Il Ministro anzidetto è incaricato della esecuzione del presente Decreto, che sarà registrato alla Corte dei conti. Dato a Roma, addì 29 Dicembre 1889. Firmato : UMBERTO. Controfirmato: Miceli. Registrato alla Corte dei conti addì i5 Gennaio 1890. Registro 259, Personale civile , f. 117. Firmato: Mandillo. Visto il Capo Ragioniere Firmato : Botta. BOLLETTINO DEL R. COMITATO GEOLOGICO PARTE UFFICIALE Lettera con la quale il presidente del Comitato trasmette al Ministero di Agricoltura , Industria e Commercio i verbali delle sedute 11, 12 e 13 giugno 1890. Bologna, 22 giugno 1890. A sua Eccellenza il Ministro di Agricoltura, Industria e Commercio. -Roma. Ho l’onore di trasmettere alla E. Y. i verbali delle adunanze della sessione primaverile del R. Comitato geologico convocato in Roma dalla E V. con lettera del 6 giugno u, s. Il Comitato tenne la sua prima adunanza la mattina dell’ll giugno, però i © membri delle Commissioni nominate dal Comitato stesse- nella sessione del di- cembre 1889 si trovarono in Roma il 10 giugno per conferire e preparare le loro relazioni. Premesse alcune comunicazioni della Presidenza, l’Ispettore Giordano presentò la sua relazione annuale sui lavori della Carta geologica e se ne constatò il buon andamento, malgrado la scarsità dei mezzi dei quali si potè disporre ed anche una certa deficienza nel personale, dovuta in gran parte a cause impreviste. Dopo la accurata esposizione dell’Ispettore Giordano fu trattata la questione della pubblicazione dei lavori eseguiti dal personale dell’Ufficio geologico, ed il Comitato si occupò segnatamente della Carta geologica d’ Italia nella scala di 1 a 500 000 in conformità del voto del Congresso internazionale geologico di Bo- logna, notando che per altre nazioni, per esempio per la Francia, tale pubblica- zione è già un fatto compiuto. A tal fine, riconosciuta la necessità di uniformarsi per quanto è possibile a ciò che si fa presso gli altri Stati europei, il Comitato pensò di nominare una Commissione per proporre ciò che si dovrà deliberare intorno alle divisioni da adottarsi. Suda proposta del generale Ferrerò per la preferenza da darsi alla scala di 1 a 75 000 per la pubblicazione della Carta geologica della penisola, come già ebbi — 6 — ad accennare all’ E. V. nella precedente mia lettera del 20 dicembre dello scorso- anno, il Comitato udite le ragioni esposte dalla Commissione che si riunì in Fi- renze presso l’Istituto geografico, onde studiare la proposta stessa dal lato scien- tifico ed economico, ne riconobbe 1’ alta importanza e la preferenza da darsi a. questa scala invece di quella di 1 a 100 000. Si accennarono lavori da preparare per presentarci convenientemente al Con- gresso internazionale geologico, che si terrà in America, e che si spera non avrà, luogo prima del 1892; si trattò dell’indirizzo da dare alle diverse pubblicazioni che si fanno in nome del R. Comitato geologico e alla convenienza che il Comi- tato possa assumerne una vera responsabilità, esaminando e deliberando su quanto- si dovrà pubblicare. A questo riguardo il prof. Cocchi, relatore della Commissione incaricata di proporre aggiunte e modificazioni al Regolamento che determina le attribuzioni del Comitato, presentò il nuovo Regolamento, che dopo matura discussione fu ap- provato ad unanimità. Di questo Regolamento, da sostituire a quello del 1880, ho pure l’onore di inviare copia all’ E. V., aggiungendo vive preghiere perchè si com- piaccia di sanzionarlo con suo Decreto ministeriale, sicché possa essere pubbli- cato per tempo e reso effettivo col principiare del 1891. Dalla importante deliberazione, presa dal Comitato nella sessione della quale* invio i resoconti, 1’ E. V. potrà rilevare i notevoli vantaggi che ce ne ripromettiamo, l’interesse con cui intendiamo di curare sempre più lo sviluppo ed il progresso dei lavori e come a tutti stia grandemente a cuore di tutelare ed accrescere l’alta stima in che sono saliti i lavori del Comitato geologico anche presso le nazioni le più provette in questi studi, e dalle quali con cortese premura non solo è chiesto lo scambio delle pubblicazioni del Comitato geologico italiano, ma di esse è reso' conto nei termini i più lusinghieri. Il Presidente del R. Comitato geologico . Prof. G. Capellini. Verbale dell’adunanza 11 giugno 1890. La seduta e aperta alle ore 9 e 1]2 antimeridiane. — Sono presenti, oltre il pre- sidente Capellini, i membri Cocchi, Cossa, Gemmellaro, Giordano, Scarabelli, Sil- vestri, Strùver e Taramelli. I signori De Zigno, Ferrerò, Omboni, Pellati e Scacchi scusano la loro assenza per malattia od altro motivo. Dal presidente viene fatta dare lettura di una lettera in data 11 giugno 1890, -con la quale il Ministero di agricoltura, industria e commercio lo ringrazia per la comunicazione fattagli dei processi verbali delle sedute 9 e 10 dicembre 1889, e del rapporto presentato sui voti espressi dal Comitato in quella occasione; voti che accetta in massima, dando incarico all’Ispettore-capo delle miniere per la loro esecuzione in quanto dipenda da lui. Lo stesso presidente presenta una lettera della nuova Commissione per la Carta geologica del Belgio, in data 16 aprile 1890, con la quale si dà notizia della riorganizzazione di quel servizio conformemente alle decisioni prese dalle Camere legislative; e ciò con R. decreto 31 dicembre 1889, del quale si dà copia, secondo cui la esecuzione della Carta è affidata ad una Commissione dipendente dal Ministero di agricoltura, industria e lavori pubblici, direzione generale delle miniere. A detta Commissione il presidente ha già risposto ringraziando. Ha quindi la parola l’ispettore Giordano per la sua relazione annuale sui lavori della Carta geologica. Egli comincia con alcune osservazioni su certe difficoltà provate per l’avan- zamento dei lavori, come la prolungata cattiva stagione, la malattia di alcuno degli operatori e l’assenza di qualche altro, fra cui l’ ing. Baldacci andato a stu- diare l’Abissinia. Ciò impedì anche 1’ invio stato!raccomandato di alcuno dei nostri geologi a fare studi in Sardegna, studi che però non urgevano; ma una gita in quell’isola verrà fatta quanto prima dall’ ing. Cortese per osservarvi certi terreni, specialmente di scisti cristallini antichi, in relazione con i consimili del continente italiano. Lo stesso Giordano passa quindi a trattare dell’operato nel 1889 e ne di- scorre sui punti più salienti. I lavori di rilevamento continuarono regolarmente anche in quest’anno, mal- grado le suaccennate contrarietà che vi portarono qualche ritardo; si ebbe poi il vantaggio del nuovo paleontologo residente in ufficio e del laboratorio chimico- petrografìco stato aperto alla fine del decorso anno. Venendo a parlare delle singole regioni accenna prima all’ Italia centrale (sede Roma), dove il lavoro si è avanzato verso l’ Adriatico, specialmente nel- 1’ Abruzzo e nella Capitanata, e si ebbero anche a studiare importanti problemi di idrografia sotterranea, interessanti specialmente la regione delle Puglie, per la quale si avevano sollecitazioni anche dal Parlamento. — Nella sezione di Salerno pure si avanzò il lavoro, malgrado l’assenza del Baldacci e quella poi avvenuta dell’ ing. Mezzena, ed accenna in proposito alla scoperta di lembi di terreni ca- ratterizzati da Ellipsactinie, il cui studio per noi importantissimo rimase inter- rotto dopo la partenza del paleontologo Canavari, il quale aveva radunato per ciò un ricco materiale. — La Calabria rimase principalmente affidata all’ ing. Cor- — 8 — lese, il quale già conoscendo la regione per molti studi relativi al tracciato delle ferrovie, potè far progredire di molto il rilevamento, che ora si può dire quasi, ultimato. Di questa regione egli presenta anche una Carta ridottaci 500m-> la quale,. come si dirà poi, si potrebbe stampare quando si voglia in attesa della Carta in grande scala, la cui pubblicazione non può farsi immediatamente per la man- canza della Carta topografica senza tratteggio. — Nella regione toscana lavorarono tanto il Lotti quanto il Canavari; vi si è progredito il rilevamento, e inoltre si fecero diverse escursioni di massima assai importanti in quei terreni appenninici che presentano ancora alcuni problemi da risolvere. Accenna pure ad uno studio speciale fatto sui terreni ohe contengono i giacimenti cinabriferi del Monte Amiata, con corredo di analisi chimiche fatte nel nostro laboratorio dall’ ing. Mattirolo, e che potrà essere presto pubblicato. Parla poi della prossima pubblicazione delle carte delle Alpi Apuane e della zona carrarese, entrambe già autorizzate dal Ministero; ed avverte che quando su quest’ultima sieno tracciati anche i dati geognostici relativi ai marmi, con aggiunta di sezioni geologiche e di dati statistici che già si adu- nano, si avrebbe un’ opera importante da potersi, ad esempio, inviare alla pros- sima Esposizione degli Stati Uniti, con molto vantaggio anche della nostra in- dustria dei marmi, che ha in quel paese uno dei suoi maggiori emporii. — In quanto alle Alpi occidentali venne inaugurata la campagna 1889 con una escursione in vari punti della frontiera, insieme ai geologi francesi da noi dissidenti, i quali do* vettero riconoscere la giustezza delle nostre vedute geologiche. Si fece poi, dai rostri una sezione geologica generale attraverso quella catena, la quale ne rias- sume la geologia, e che si potrà presto pubblicare con una cartina geologica. Quanto alla Carta della vallata del Po, accenna a momentaneo rallentamento del lavoro dovuto a varie cause, tra le quali la partenza dell’ ing. Stella per gli studi all’estero. — Il prof. Taramelli dà però varie spiegazioni sull’apparente ritardo ed accenna agli ultimi rilevamenti del geometra Bruno d’ Ivrea, che ha ultimato diversi fogli lungo il Ticino e si è anche occupato di osservazioni speciali sulle formazioni moreniche nell’ interno delle valli .alpine. Il prof. Pantanelli poi altro collaboratore, ultimata la parte di Carta a lui affidata, presentò la sua relazione,, nella quale si estende specialmente sulle condizioni idrografiche del sottosuolo nella regione emiliana. L’isp. Giordano parla quindi dei lavori di laboratorio, e in particolare dello studio dei minerali cinabriferi dell’Amiata e roccie relative, fatto dall’ ing. Mat- tirolo. Accenna alla organizzazione che vi si darà poco a poco, e tocca della necessità elle si potrebbe presentare in seguito di una persona che attendesse tutto l’anno a tali lavori, non potendosi per ora distrarre troppo il Mattirolo dal rilevamento delle Alpi, aòneno nella stagione estiva. Riguardo alle Carte tipografiche, di cui si ha bisogno per la geologia, e delle' — 9 — quali l’Ufficio geologico si occupa, d’accordo con il Consiglio superiore dei lavori geodetici, ricorda la proposta già accettata di fare eseguire dall’Istituto Carto- grafico in Roma la Carta della Calabria con le sole curve di livello. Quattro fogli della medesima si stanno ora facendo per saggio, e presenta intanto quello di Catanzaro. La spesa di tale Carta spetterebbe per due quinti al Ministero dei lavori pubblici, per un quinto all’Istituto geografico, il rimanente all’Ufficio geo- logico. Essa si dividerebbe in diversi esercizi finanziari, e per noi si potrebbe stabilire una quota annua, ad esempio, di lire 4000. Fa infine un cenno dei molti studi di utilità pratica fatti dal personale d'Uf- ficio, in particolare per frane, ricerche di acque sotterranee, tracciati ferro- viari, eco. Fra questi studi va collocata la ricerca di combustibili fossili ; e a tale proposito accenna alle accuse fatte al Ministero di agricoltura, industria e commercio, ed agli ingegneri delle miniere in genere, relativamente ai giacimenti di Agnana in Calabria, ed alla visita fattavi eseguire, dalla quale risultarono confermate le prime previsioni sulla poca importanza di quel deposito di lignite. Circa al personale dell’Ufficio, fa parola della nomina fatta del dottor Di Stefano a paleontologo, pareggiato agli ingegneri delle miniere, con i quali farà carriera, e per ora col grado di seconda classe ; come pure della missione del Baldacci in Africa, che si è dovuta prolungare per diversi incarichi avuti, fra i quali anche una raccolta di materiali utili da collocarsi nel Museo e da esporsi a Palermo nel 1891. Un nuovo allievo si ha attualmente agli studi a Berlino, l’in- gegnere Stella sovraccennato. Accenna pure alla nuova organizzazione che infine, seguendo i voti altra volta espressi, si è potuta dare al personale geologico, per la quale ora tutti possono avere residenza in Roma con indennità di soggiorno relativa, che però non grava il bilancio della Carta geologica. — - In conseguenza si dovettero modifi- care alquanto le antiche norme amministrative, e di esse fu fatta una ristampa con tutte le nuove indicazioni rese necessarie da quel cambiamento e dall’ag- giunta del paleontologo in Roma e del laboratorio. Da ultimo, lo stesso Giordano fa parola della costruzione di nuovi locaii per le collezioni con nuove scaffalature, che per ora si possono ritenere sufficienti al bisogno. Circa al collocamento delle raccolte venne per ora adottato un sistema to- pografico in relazione ai diversi fogli della Carta geologica rilevata; ma si andrà poi perfezionando, all' occorrenza , in accordo a quanto si pratica nei migliori Musei di tal genere. Presenta infine il rendiconto delle spese per l’anno 1889. In quanto al da farsi pei lavori ordinari nel nuovo anno, non vi è altro che continuare quelli in corso, spingendoli un po’ più nelle Alpi occidentali, dove si — 10 — ha ora molto interesse a farlo, e ciò con l’aggiunta di qualche nuovo operatore che si avesse disponibile. Per le pubblicazioni, oltre a quella già decisa delle Alpi Apuane, vi sarebbe ora la memoria delle Isole Eolie, preparata, per la parte petrografia, dall’inge- gnere Sabatini, con la Carta geologica dell’ing. Cortese, e ne presenta il mano- scritto al Comitato, che nell’ ultima seduta si era riservato di decidere su tale pubblicazione. Lispettore Giordano passa quindi a parlare della convenienza non solo, ma anche della necessità di pubblicare, man mano clie il rilevamento di una regione è fatto, la sua Carta al 500m, sia per soddisfare a certe richieste in attesa di poterne dare la Carta a grande scala, che talora deve ritardarsi, sia per avere poi a suo tempo una Carta generale in quella scala, che è quella richiesta alle varie nazioni sin dal Congresso di Bologna del 1881. Ora possiamo pensare a tale Carta, avendo avuto dall’Istituto geografico la Carta topografica assai chiara e conveniente, e la spesa non è grande, potendosi fare gradatamente in più anni. Si potrebbe intanto incominciare dalla Calabria, che è pronta, e solo conviene stabilire la serie dei terreni da farvi figurare ; per il che ne presenta un saggio, sul quale il Comitato potrà deliberare. Havvi poi da discutere l’altra questione, di sostituire la Carta al 75m a quella del 100m nella pubblicazione in grande scala, di cui fu fatto cenno nell’ ultima seduta ; e presenta in proposito qualche saggio di colorazione, per giudicare del vantaggio che presenta tale sostituzione, tra cui il foglio di Cosenza, disegnato dall’ing. Cortese, che è uno dei più complicati, osservando che a questa scala del 75m è possibile inserire tutti i dettagli che si rilevano sul terreno al 50m, e che inoltre altre nazioni vicine hanno adottato la stessa scala o altra ad essa assai prossima. Il prof. Capellini, riferendosi a varie parti della esposizione Giordano, inco- mincia con la raccomandazione, più volte fatta all’Istituto geografico, di comple- tare la Carta topografica dell’Italia centrale, colmando la lacuna che tuttora esiste per quasi tutta la regione appenninica da Firenze a Roma, e che imbarazza non poco l’ordine dei rilevamenti geologici ; tale raccomandazione viene appoggiata unanimemente dal Comitato. Passa quindi ai punti seguenti della stessa esposizione : Sullo studio delle E llip sactinie. — Il presidente, riferendosi ai precedenti di questo studio stato incominciato dal Canavari, ed il cui compimento non potrebbe essere meglio fatto che dal medesimo, cita anche lettere del geologo Oppenheim che aveva perciò mandato a lui il proprio materiale, e mostra la necessità che tale lavoro si compia, ciò che del resto il Canavari si è già impegnato di fare. Cosi — 11 — si avrà presto una memoria importantissima, frutto dei lavori e delle spese già fatte dall’Ufficio geologico. Crede quindi necessario sia affidato al prof. Canavari il materiale per la continuazione del lavoro già condotto a buon punto, onde l’Italia non abbia a perdere il primato in lavoro di tanta importanza scientifica. Fa una raccomandazione in proposito, che il Comitato appoggia, con raggiunta che si potrebbe invitare il Canavari a venire a Roma per riprendersi questo materiale. Stilla Carta di’ Italia al 500m. — Il Comitato appoggia la pubblicazione di tale Carta, essendo un lavoro di molto interesse e, in seguito a osservazioni del pre- sidente, si riconosce l’opportunità di nominare una Commissione per decidere sulle divisioni geologiche da adottare per tale^Carta. Sulla memoria delle Isole Eolie. — Per decidere della pubblicazione di questo lavoro, che inaugurerebbe da noi le pubblicazioni ufficiali di petrografia, e perciò di molta importanza, il presidente crederebbe opportuno farlo esaminare da persona del Comitato competente in materia, e propone per questo il prof. Struever; ma, in seguito ad osservazioni di quest’ultimo e di altri, viene nominata una Com- missione composta dei membri Struever, Silvestri e Cossa, con raggiunta del prof. Gemrnellaro, che presterà l’opera sua quando fosse richiesta dagli altri. Sulla Carta al 75m. — Il presidente, dopo avere esaminata la questione a Firenze nell’Istituto geografico insieme con l’ispettore Giordano, e persuaso della grande utilità di adottare tale scala in luogo di quella del l00m per la pubblica- zione, mette la proposta ai voti, riferendosi all’ispe'ttore per quanto spetta alla parte economica, con spesa da ripartirsi in diversi anni. — Il Comitato è dello stesso av- viso ed appoggia le proposte. Lo stesso presidente fa quindi cenno delle domande pervenute dal Comitato inglese e da quello americano, relative al Congresso geologico internazionale da tenersi negli Stati Uniti nel 1891 a Filadelfia. Ora nacque diversa opinione, essen- dovi molte proposte per tenerlo invece a Washington; oltre a ciò molti opinano conveniente rimandarlo al 1892, epoca in cui si celebrerà colà solennemente il 4° centenario della scoperta dell’America, essendo quest’epoca assai più conve- niente per avere maggiore tempo a prepararsi, e .ciò anche pei lavori che noi avremmo interesse di presentarvi. Si tratta di dare ora una risposta a quel Co- mitato. — Il Comitato appoggia le viste esposte dal presidente, cioè di tenere il Congresso a Washington nel 1892. Egli ricorda infine la Commissione nominata nell’ultima seduta, 9 dicembre 1889, con lo scopo di completare il regolamento interno del Comitato che ne determina — 12 — le attribuzioni, e composta, oltre del presidente, dei membri Cocchi, Gemmellaro e Giordano. Essa si riserva di riferire sul proprio operato domani dopo una riu- nione che i Commissari terranno oggi alle ore 2 pom. La seduta è levata alle ore 12 meridiane. Il presidente G. Capellini. Il segretario P. Zezi. Verbale dell’adunanza 12 giugno 1890. La Seduta è aperta alle ore 2 e 1\2 pom. — Sono presenti, oltre il presi- dente Capellini, i membri Cocchi, Cossa, Gemmellaro, Giordano, Scarabelli, Silve- stri e Tarameli]'. Viene data lettura del verbale della seduta precedente, che resta approvato» Il presidente invita il prof. Cossa a riferire su quanto ha fatto la Commis- sione incaricata di esaminare il lavoro dell’ing. Sabatini sulle Isole Eolie. — Cossa presenta la sua relazione, dalla quale risulta la convenienza di introdurre in detto lavoro alcune modificazioni, dopo delle quali, lasciando completamente intatta la responsabilità scientifica all'autore, la Commissione darebbe la sua approvazione per la stampa. La stessa Cemmissione poi è di parere che la parte petrografia resti affatto distinta dalla descrizione geologica di quelle isole e di lasciare all’in- gegnere Cortese, che ne ha rilevato la Carta, la cura di presentare un lavoro suo proprio su questo argomento. In seguito ad osservazioni del presidente, il Comitato adotta le conclusioni della Commissione, lasciando all’ing. Cortese di completare quanto riguarda la Carta geologica e sua descrizione, e dando incarico al Direttore del servizio di ripresentare il lavoro dell’ing. Sabatini quando sia stato ’nodificato. In questa circostanza il Comitato poi crede opportuno di stabilire che nei lavori petrografici in genere, finché si mantenga l’attuale divergenza di varie scuole, gli autori debbano curare la sinonimia per più facile intelligenza dei loro lavori. Si passa quindi alla lettura e successiva discussione del progetto di Regola- mento interno del Comitato, come modificazione del vigente del 1880, preparato dalla Commissione di cui nell’adunanza precedente. — Dopo lunga discussione e re- lativi schiarimenti dati dal relatore Cocchi, i singoli articoli del Regolamento vengono approvati isolatamente e lo è pure il Regolamento in complesso, quale — 13 — viene allegato al processo veibale. Il medesimo dovrebbe andare in vigore col gennaio 1891. Infine l’ispettore Giordano presenta un abbozzo di Norme, preparate per il ser- vizio della Carta geologica, in surrogazione di quelle pubblicate nel 1888, e che ora dovranno subire alcune modificazioni per mettersi in accordo col sopradetto Re- golamento e altre variazioni avvenute nel servizio. Dopo che il Comitato ebbe presa cognizione delle principali disposizioni con- tenute nelle nuove Norme ed approvatele, la seduta è levata alle ore 4 e mezzo pomeridiane. Il presidente G. Capellini. Il segretario P. Zezi. * Verbale dell’adunanza 13 giugno 1890. La seduta è aperta alle ore 9 e lf2 ant. — Sono presenti, oltre il presi- dente Capellini, i membri Cocchi, Gemmellaro, Giordano, Silvestri e Taramelli. Viene data lettura del verbale della seduta precedente, il quale resta ap- provato. Il presidente ricorda che rimane a nominare la Commissione per l’esame della scala della Carta d’Italia al 500m presentata dall’Ufficio, e per le proposte relative. — Detta Commissione viene formata, oltre che dal presidente, dai membri Cocchi, Gemmellaro e Taramelli. Resta inteso che il progetto presentato dall’Ufficio sarà mandato ai singoli commissari, i quali lo rimanderanno poi airUfficio con le loro osservazioni. Lo stesso presidente fa osservare che il lavoro del prof. Canavari sulle El- lipsactmie è già a buon punto e potrà essere presto ultimato, per il che si po- trebbe pubblicare senz’altro nel Voi. IV delle Memorie, attualmente in corso di stampa. Presenta pure una memoria del dottor Terrigi sopra i foraminiferi tro- vati nei terreni attraversati dal pozzo artesiano della via Appia antica, presso Roma, e che converrebbe utilmente pubblicare nello stesso volume. — Il Comitato approva. Infine egli, ritornando sulla proposta fatta altra volta di un concorso alle spese del monumento da erigersi in Pisa al compianto Meneghini e di altro ricordo allo stesso da collocarsi nell’Ufficio geologico, ritiene opportuno di rinno- — 14 — vare la proposta, che già fa per la prima parte accettata in massima dal Mini- stero. Al che l’ispettore Giordano risponde che pel monumento di Pisa il Ministero ha già dato risposta favorevole, ed accenna alia importanza che potrà avere un ricordo nell’ Ufficio, per il suo carattere tutto speciale, mentre P altro non sarà che un contributo ad un monumento pubblico; crede non sarà difficile l’ottenerlo, tanto più che si tratta di piccola spesa. Il presidente fa altre osservazioni per dimostrare la opportunità sotto ogni rapporto che l’Ufficio abbia un ricordo suo proprio del compianto Meneghini, e fa una proposta relativa che viene accettata alla unanimità ; tale ricordo potrà essere un medaglione in bronzo da collocarsi in una delle sale di collezione. Dopo ciò la seduta è levata alle ore 10 e 1{2 ant. Il presidente G. Capellini. Il segretario P. Zezi. Relazione annuale dell’ Ispettore-Capo al R. Comitato geologico SUL LAVORO DELLA CARTA GEOLOGICA (1889-90). Presento al R. Comitato l’annuale Relazione sul lavoro della Carta geolo- gica pel decorso anno 1889, e sul da farsi nel seguente. Circa al modo ed ordine dell’esposizione in essa relazione adottati saranno proseguiti ancora quelli dei decorsi ultimi anni, e di cui venne a suo tempo dato conto, non essendo incorsa ragione per variarli sostanzialmente: si avvertirà sol- tanto che nel decorso anno, a vece di una sola riunione del Comitato geologico in primavera, ne venne tenuta una seconda nell’autunno, sistema che si intende seguire anche in appresso pei vantaggi che presenta. Però mentre il resoconto di tale adunanza viene pubblicato nel Bollettino geologico del mese in cui ebbe luogo, conviene, per non generare confusioni che al Comitato ed al pubblico venga poi presentata una relazione generale unica dei lavori dell’intero anno solare come sempre pel passato si fece. Operato nel 1889. Nella enumerazione dei lavori si seguirà pure la solita divisione loro se- condo le diverse regioni o centri di rilevamento già stabiliti, e dei quali è resa ragione nelle precedenti relazioni. Nel riferire poi sui rilevamenti eseguiti nelle varie regioni del territorio, oltre al fare notare i principali fatti geologici, si avrà sempre cura di riportare le cifre delle aree rilevate dai singoli operatori o squadre di rilevatori, ed il cui complessa costituisce l’annuale accrescimento della Carta geologica. Italia centrale. — Questa zona, avente per centro la Capitale, si estende ad Est fino ai dintorni di Napoli, dove confina con la sezione di Salerno, all’ Ovest sino in circa all’antico confine toscano e nell’ interno della penisola ad una pro- fondità varia, che ora nel Teramano e nelle Puglie raggiunge l’Adriatico, ma più a Nord, cioè nell’Umbria si arresta incirca al parallelo di Terni a non molta distanza da Roma, poiché purtroppo di questa regione così centrale non è ancora rilevata la Carta topografica. 11 personale della sezione è tuttavia composto soltanto dell’ ingegnere Zezi e degli aiutanti-ingegneri Cassetti e Moderni, ai quali due venne principalmente affidato il lavoro sul terreno. — 16 — Il Cassetti proseguì nella parte più meridionale della zona, dove egli ultimò 12 tavolette, quelle cioè di Montecalvo, Bovino, Ariano, Lacedonia, Sant’Angelo dei Lombardi, Andretta, Ascoli-Satriano, Candela, Lavello, Cerignola, Tressanti e Trinitapoli. L’area così rilevata alla scala di 1/50000 fu di 3647 km. q. con lavoro di 231 giornate di campagna, e il percorso di km. 5805, ciò cke risponde ad 1 km. 58 per km. quadrato. Questa cifra assai bassa si spiega pel fatto che questa vasta regione già era stata esplorata nel 1886 dall’ ingegnere Cortese e dal Cassetti medesimo per studi relativi alla ricerca di acque, oltreché la geologia di gran parte della stessa regione è relativamente assai semplice. I terreni esistenti nell’area dell’eseguito rilevamento sono tutti d’origine se- dimentare, eccettuatone il piccolo gruppo vulcanico del Vulture, che sorge presso Melfi, già stato precedentemente rilevato. Simili terreni vanno dal Cretacico medio (ippuritico) dei monti avellinesi al Quaternario recente della costa adriatica, con prevalenza dell’Eocene e del Pliocene, e scarsità del Miocene, il quale vi appari- rebbe soltanto qua e là in pochi lembi -isolati di arenarie micaceo -argillose e di breccie. L’Eocene è predominante nella regione montuosa, e rappresentato al solito dalle argille scagliose intercalate ai calcari e alle breccie nummulitiche e talvolta con strati assai grossi di gesso cristallino. La stratificazione ne è molto disturbata e presenta alla superfìcie frequenti frane e sconvolgimenti. Il Miocene, come fu detto, si presenta in rari lembi, mentre il Pliocene è estesissimo, rappresentato princi- palmente dalle solite argille turchine ricoperte di sabbie e conglomerati sabbiosi, a stratificazione assai regolare e pendenza predominante a N.E, cioè vtrso mare. Questo terreno si trova talora portato a grande altezza ed in qualche punto, come ad Ariano, forma lo spartiacque della penisola. Si estende poi ampia mente al piede dei monti, formando il sottosuolo profondo del Tavoliere di Puglia. La superfìcie di questo è costituita generalmente da ciottoletti quaternari ricoperti dalla così detta crosta calcareo-sabbiosa che vi fa un cappello general- mente poco permeabile. — Vanno menzionati nella regione rilevata certi lembi, talvolta assai estesi, di tufi vulcanici incoerenti situati sugli altipiani entro bacini chiusi o nel fondo delle valli. Simili depositi vulcanici sparsi in punti svariati della regione, e che talvolta forniscono discrete pozzolane, hanno provenienza aerea, cioè furono prodotti da cadute di ceneri trasportate dai venti. Il suddescritto studio della regione pugliese, .e particolarmente del Tavoliere, fu di molta utilità riguardo alla importante e controversa questione della ricerca di acque sotterranee per soddisfare ai gravi bisogni della sua popolazione. Già nel 1886 tale questione era stata stu fiata, come fu detto, dai nostri geologi, d’ or- dine del Ministero; ma la previsione era piuttosto sfavorevole, onde erasi desistito da altre ricerche. Da ultimo però erano sorte a tale proposito delle critiche al 17 — Ministero ed all’Ufficio geologico, come se non avesse fatto abbastanza, e si erano da taluno manifestate delle speranze su nuovi tentativi da fare con lavori sotter- ranei ed anche con pozzi forati. Ma l’eseguito rilevamento, che venne poi sul fine dell’anno completato da nuove visite dell’ ingegnere Cortese, permise all’Ispettore delle miniere di rispondere agli appunti fatti, e con la pubblicazione di una suc- cinta memoria dimostrare la poca loro attendibilità e ridurre a giusti, e purtroppo modesti limiti, l’esito che si può attendere da ulteriori ricerche di acque sotter- ranee in quella regione. L’altro operatore Moderni proseguì anche nel 1889 nelle due regioni diverse a lui affidate, ossia per i mesi estivi quella dell’Abruzzo Chietino e Teramano e per l’inverno la più temperata dei vulcani Vulsinii intorno al lago di Bolsena sin dove si possiede la carta topografica. Nell’ Appennino abruzzese venne con il concorso dello stesso ingegnere Zezi completato il gruppo della Majella e si rilevarono poi i monti di Penne in pro- lungamento delia catena del Gran Sasso. Vennero così ultimate le tavolette di Penne, Bucchianico e Caramanico nell’ Abruzzo. — L’area rilevata vi fu di circa 1200 km. quadrati coll’impiego di 95 giorni di campagna ed un percorso di 2678 km., ciò che risponde a 2 km. 23 per km. quadrato. A parte un piccolo lembo basico nei monti di Penne, il terreno più antico della regione è rappre- sentato dai soliti calcari cretacei (ippuritici) formanti la base della Majella, costituita poi nel suo complesso da calcari eocenici regolarmente inclinati a N.E e ricoperti tutto all’intorno da estesi lembi di Miocene con calcari marnosi, argille gessifere e breccie. Nella regione vulcanica romana furono rilevate le tavolette di Pitigliano, Va- lentano e in gran parte anche quella di Acquapendente al Nord del lago di Bolsena, dove venne ultimato lo studio del grandioso cratere di Latera. — Dal complesso dei fatti rilevati sembra potersi asserire che 1’ azione eruttiva in quella regione siasi sviluppata da quattro centri diversi con molteplici bocche. Vennero ivi rac- colti e messi allo studio microscopico numerosi campioni delle roccie laviche con la cooperazione del dottore Bucca della Regia Università, il quale già altre volte si occupò della petrografìa dei vulcani romani. La superfìcie rilevata in 102 giorni di campagna nei Vulsinii fu di 485 km. q. mediante un percorso di 2898 km., ciò che corrisponde a circa 6 km. per km.° q. L’elevatezza di questa cifra rispetto a quella di 2 km. 23 trovata per gli Abruzzi dipende dalla tanto maggiore varietà e frastaglio delle masse di roccie vulcaniche in confronto coi terreni sedimentari e che quindi esigono, per venire delimitate, molto maggiore percorso. In complesso nella sezione di Roma venne rilevata nel decorso anno una su- perficie di 5332 km. q. coll’impiego di 428 giornate di campagna dei rilevatori, 18 ed un percorso su strade ordinarie e sentieri di 11.311 km. Aggiungendo que- st’area di 5332 km. quadrati a quella già rilevata al fine del 1888 che era di circa 27,400 km. q., si avrebbe pel fine del l889*un totale di 32.732 km. q., di cui piccola parte rilevata su carta al 1/25 000, il resto al 1/50 000. L’ ingegnere Zezi oltre alle escursioni fatte per predisporre il lavoro dei ri- levatori ed il relativo controllo, ne praticò altre per scopi speciali, tra cui la vi- sita alle gallerie della terrovia Benevento-Foggia per raccogliere i dati concer- nenti la sezione geologica delle medesime, onde completare i dati che devono poi servire ad una raccolta completa delle sezioni geologiche delle principali gallerie ferroviarie esistenti nel nostro territorio e della quale raccolta, come già fu altre volte esposto, si potrebbe poi fare a suo tempo una interessante pubblicazione. Nel Beneventano l’ingegnere Zezi visitò anche, pé/incar:co del Ministero delle Finanze, diversi terreni destinati alla coltivazione del tabacco. Sezione di Salerno (regione da Salerno a Potenza ed al Jonio). — Nella relazione dello scorso 1888 fu detto come si era costituita la squadra per la sezione di Salerno, la quale doveva estendere i suoi rilevamenti dalla costa tir- rena fra Salerno e la Calabria, fino all’ Adriatico, e come il personale addetto alla medesima si componesse dei due ingegneri Yiola e Sabatini sotto la dire- zione dell’ ingegnere Baldacci. Questi rilevatori ripresero il lavoro di campagna nelr marzo, e nel successivo giugno venne aggiunto alla squadra l’ ingegnere Mez- zena di recente tornato dagli studi all’estero. A questi venne assegnata la zona più meridionale che da Lagonegro e Montemurro si estende verso il Jonio, mentre gli altri due colleghi dovevano proseguire nelle rispettive zone verso Est. L’ in- gegnere Baldacci oltre al proprio rilevamento nelle tavolette più prossime a Sa- lerno dovette fare diverse perlustrazioni e ricognizioni su tutta la sezione, sia per predisporre il lavoro dei suoi rilevatori, sia poi per controllarlo. Riguardo alla quantità del rilevamento eseguito nell’anno si riassume nei seguenti dati. L’ingegnere Baldacci negli intervalli di tempo lasciati a lui liberi delle sue funzioni di capo-squadra rilevò, 1580 km. q. nelle tavolette di Rocca d’Aspide, Montecorvino, Buccino, Calabritto, Muro Lucano ed altre; e ciò in 95 giornate di lavoro e con il percorso di circa 2295 km. su vie ordinarie e sentieri; ciò che corrisponde a 1 km. 45 per km. q. Egli eseguiva inoltre diverse escur- sioni e studi attinenti alla stabilità delle ferrovie in costruzione in quelle regioni, ed alla frana che minaccia il paese di Lauria. L’ ingegnere Viola rilevò Te tavolette di Sanza, Moliterno, Marsiconovo, Laurenzana e metà di quella di Stigliano; area 1800 km. q. in giornate 153 di campagna e col percorso di 4416 km. I.’ ingegnere Sabatini completò quelle di Pisciotta e Sapri sul Tirreno e poi — 19 rilevò al Nord quelle di Potenza ed Avigliano; area 1190 km. q. in giornate 125 col percorso di km. 3056. L’ ingegnere Mezzena rilevò in buona parte le tavolette di Lagoncgro, La- tronico ed Oriolo con un’area di 980 km. q. in 83 giornate, con un percorso di 2459 km.; e ciò senza contare le escursioni preparatorie che gli occuparono altri 28 giorni, con un percorso di 845 km. Il percorso per chilometro quadrato risultò pei detti tre operatori rispettiva- mente di 2 km. 45, 2 km. 56 e 2 km. 51; cifre quasi uguali. L’ ingegnere Sabatini eseguì anche una visita generale alle isole Eolie e di Ponza, per le prime delle quali aveva intrapreso sin da Parigi uno studio petro- grafìco, impiegandovi 48 giorni e con un percorso di km. 857. Tale studio do- vrebbe far parte di una prossima pubblicazione. In complesso tutta la sezione di Salerno rilevava nel 1889 una superficie di 5550 km. q. in 632 giorni di campagna e con il percorso su vie ordinarie e sen- tieri di 14,716 km. L’area rilevata nel decorso 1888 era stata di 3610 km. q., onde il totale sin’ ora di 9160 km. q. Fra le osservazioni geologiche degne di nota nel rilevamento già assai esteso di questa sezione si possono menzionare le seguenti. I terreni più antichi, quali si ve- dono a scoperto nei gruppi montuosi più occidentali, cioè di Salerno, Cava dei 't irreni, Mercato S. Severino, ecc. ; sono dei calcari non anteriori al Cretacico in- feriore, cioè all’Urgoniano ed al Neocomiano. Era bensì stata annunciata resi- stenza di calcari titonici ad ellipsactinie alla base di quei monti cretacei, ma le ricognizioni ivi fatte dall’ ingegnere Baldacci mo.strarono che calcari con tali fos- sili si trovano realmente all’isola di Capri, ma non nei monti salernitani, e che le credute ellipsactinie non erano se non concrezioni silicee a struttura fogliacea con- centrica, quali se ne incontrano anche in altri terreni di diversa età. All’estremità orientale della sezione, nei dintorni di Lagonegro, di Maratea» Trecchina e Monte Serino, dove la medesima si attacca con alte giogaie di monti alla penisola calabrese, l’età dei terreni è alquanto più antica, manifestandosi il Titonico ad ellipsactinie sovrapposto, ma in discordanza, al Lias medio e inferiore ed al Retico. Nel gruppo del Monte Serino, i calcari sottostanti all’ Eocene, so- spettati di epoca giurassica, rivelarono ora nel corso del rilevamento dei fram- menti di ammoniti male determinabili, ma che accennerebbero piuttosto al Seno- niano, il quale raggiunge poi, nell’Appennino centrale, un grande sviluppo sotto la. nota forma di scaglia. Venne intanto determinata la serie dei terreni costituenti l’ossatura del Monte Serino di Lagonegro, serie che presentava una certa diffi- coltà. Quell’ossatura è costituita da calcari compatti grigio-cerulei a noduli e liste di selce, sui quali riposa in perfetta concordanza e con passaggio graduale una serie di scisti siliceo-argillosi di colore variegato. Tali scisti incontrati anche nel la gruppo montuoso fra Bella e S. Fele, come pure fra Potenza, Tignola, Abriola, ecc., già erano stati riconosciuti come sottostanti alla formazione delle argille scagliose, ed associati inoltre a dei calcari nummulitici talvolta metamorfosati in selce pure nummulitica. Sarebbe così accertata l’età eocenica di tali scisti che probabilmente sostituirebbero qui il calcare a grandi nummuliti dell’Eocene inferiore. I dintorni di Latronico sono poi specialmente interessanti per le manifestazioni serpentinose e per i marmi svariati che presentano. Calabria . — Si rammenta che il rilevamento di questa regione era stato affidato ad ima squadra composta degli ingegneri Cortese, Aichino e Novarese sotto la direzione del primo ; che però diverse contrarie circostanze, sia per man- cata salute, sia per altri disturbi ne avevano ritardata l’opera. Ora avvenne che nel 1889 simili circostanze vieppiù accentuatesi, sovratutto per una lunga assenza dell’ingegnere Novarese, ridussero la squadra al solo capo di essa l’ingegnere Cortese. Ma le numerose escursioni già ivi antecedentemente da lui eseguite, sia per generali ricognizioni, sia per studi pratici di ferrovie ed altro, gli agevolarono di molto il compito del rilevamento regolare al 1/50 000 delle zone che ancora mancavano e che principalmente estendevansi nella regione Silana. E così, in 162 giornate di campagna e con un percorso di 3744 km., poteva egli rilevare 3720 km.2, cioè circa 1 km.2 per km. percorso; proporzione molto vantaggiosa rispetto ad altre regioni più facili di questa, che è generalmente assai montuosa ed intercisa da numerosi torrenti. L’area totale rilevata della Calabria, che al fine della scorsa campagna era di circa km.2 8530, venne così portata a circa 12 250 km.'2. Non mancavano che poco più di un 2700 km.2 ad avere il rilevamento delle tre provincie completo. Oltre al suindicato rilevamento al 1/50 000, venne dall’ingegnere Cortese com- piuto e perfezionato quello della tavoletta di Catanzaro nella scala ingrandita di 1/10 000. che dovea rimanere in dono a quella città in occasione dell’adunanza ivi tenuta in settembre dalla Società geologica. I principali risultati della campagna, in fatto di geologia, sarebbero stati: 1° Di avere stabilito definitivamente l’età relativa della estesissima formazione degli scisti fìJladici granatiferi e micacei, età che sarebbe arcaica ed anteriore a quella dei graniti che affiorano nella regione. Tali graniti, attraversando quelle masse scistose, le avrebbero metamorfosate nei contatti riducendole ad una forma speciale che sarebbe quella dei così detti scisti di Pentone, località dove furono prima osservati. 2° Di avere stabilita la serie dei terreni mesozoici nei gruppi del Monte Pollino e del Cozzo dei Pellegrino nella Calabria Cosentina, distinguendovi il Trias superiore caratterizzato da fossili, il Retico sviluppatissimo ed il Lias infe- riore, oltre al Giurese della media Calabria. — 21 — 3° Di avere meglio fissata la successione delle forme di Eocene e di Oli- gocene, le quali, sovratutto nel primo, sono svariatissime. La Carta è qui perciò molto particolareggiata, mostrando gli scisti di varia forma, le argille, i calcari, ecc. 4° Venne fissata 1’esistenza della zona a congerie presso Catanzaro. La riunione della Società geologica, tenutasi dal 20 al 26 settembre, fu evento di una certa importanza. Del Comitato geologico vi intervennero il presidente -Capellini coi membri Scarabelli, Cocchi, Omboni, e deirUfficio geologico gli inge- gneri Giordano, delegatovi dal Ministero, Sormani, Canavari paleontologo, oltre l’ingegnere Cortese che fu uno dei principali organizzatori e guida nelle escursioni. Diversi altri geologi italiani ed amatori convennero, rimanendo però altri trattenuti in Sicilia da una riunione con geologi inglesi, che erano venuti allora in Italia per esaminarvi le formazioni vulcaniche delle provincie meridionali. Le adunanze si alternarono con diverse escursioni nei dintorni, come Marcelli - nara, Tiriolo, dove si pernottò, Gemigliano ed altri siti. 11 municipio di Catan- zaro, nelle cui sale si tenevano le sedute, fu larghissimo di ogni aiuto e presta- zione alla Società, come pure quelli degli altri comuni, dimostrando un caldo interesse alla scienza. Utilissimo risultato frattanto della riunione in Calabria fu anche quello di aver dato campo a verificare l’esattezza del rilevamento della Carta geologica di quelle regioni, la quale dovrà fra non molto venire pubblicata. In questa occasione venne anche fatta dall’ingegnere Cortese col Canavari una escursione a Longobucco, dove fu verificato ciò che già sospettavasi, che cioè i calcari di quella località, prima ritenuti del Retico, vanno invece attribuiti al Lias medio, analogamente a quanto avvenne pei calcari di Taormina in Sicilia. Toscana . — Il rilevamento geologico proseguito dall’ingegnere Lotti nella sezione Toscana all’Est della Cecina, dove era giunto lo scorso anno, venne in questo principalmente esteso alla regione pliocenica della Val d’Elsa col gruppo serpentinoso-cuprifero di Gambassi ed ai terreni retici di S. Gimignano, che formano l’anello di congiunzione fra la Montagnola Senese ed i monti di Jano. Alquanto del lavoro interrotto nell’anno precedente venne pure ripreso nel Fiorentino e nel- l’ Appennino centrale, all’intento di sempre meglio stabilirvi una linea di separa- zione fra l’Eocene ed il Miocene; problema diffìcile, come è ben noto, per l’ana- logia del facies arenaceo-argilloso delle due formazioni, e la scarsità dei fossili miocenici. Nella stagione estiva il Lotti attendeva in ispecial modo al rilievo e studio della regione metallifera di Massa Marittima. I giacimenti metalliferi, che vi apparirebbero non privi di una certa importanza, contengono principalmente lo zinco allo stato di carbonato ed associato a diversi solfuri, entro filoni che attraversano strati calcareo-argillosi eocenici. A vece che in veri filoni si presentano talvolta in masse — 22 — filoniformi a contatto fra gli strati eocenici ed un calcare retico, specialmente atto a subire la metamorfosi prodotta dalle acque mineralizzanti, ed in relazione inoltre con masse ferrifere assai ingenti. Simili indagini, relative a giacimenti me- talliferi in rapporto ai terreni geologici che li racchiudono, vennero poi anche estese dal Lotti a parte dei terreni cinabriféri del Monte Amiata, dei quali si erano pure occupati gli ingegneri Baldacci e Deferrari ed il dottore Canavari. Sarebbe stata qui definita la tettonica dei terreni cretacico-eocenici di quel gruppo di monti nei quali sono racchiusi dei ricchi giacimenti di cinabro, e sarebbesi ri- conosciuto che il giacimento del Siele, per esempio, sarebbe contenuto nell’Eocene mentre l’altro del Cornacchino sarebbe nel Neocomiano. Tali indagini, geogno- stico-minerarie richiedevano assai minuto lavoro, e perciò l’estensione dei sum- menzionati rilevamenti geologici, fatti durante un 150 giorni di campagna, e col per- corso di un 3160 km., fu alquanto limitato, cioè di 1070 km.2, dei quali un 200 circa alla scala di 1/50 000 e gli altri al 1/25 000. Nel prossimo anno il rilevamento potrà procedere assai celeremente, progreden- do ad incontrarsi verso Est con quello che si è avanzato dalla regione romana. Nelle Alpi Apuane, il cui rilevamento già era fatto, venne tuttavia eseguito dall’ingegnere Zaccagna insieme al Lotti qualche ricognizione per risolvere defi- nitivamente le questioni ancora pendenti relative alla divisione degli scisti centrali (permiani) dai superiori (triasici) nella valle del Frigido. Nel dicembre poi venne eseguita l’escursione che era stata decisa in seduta del Gomitato per una verificazione generale della Carta geologica. rilevata al 1/25 000 prima di farne la stampa. In quella escursione doveva pure risolversi la questione delle nummuliti di tipo eoce- nico, che trovansi così impigliate in ripiegamenti di terreno triasico da' creare qualche imbarazzo alla spiegazione del fenomeno. Presero principalmente parte all’escur- sione eseguita verso Minucciano, il presidente Capellini, il prof. Cocchi ed il paleon- tologo Canavari, il quale avea accuratamente studiati quei fossili. Esatta ed accurata venne riconosciuta la classificazione dei terreni, stata adottata ed accuratissimo il rilevamento, onde si può procedere alla sua pubblicazione. Quanto al problema speciale delle nummuliti, benché il tempo non abbia allora permesso di studiarlo in tutte le località, dove sarebbe stato bene di esaminarlo, la Commissione ritenne che, la inclusione di strati con fossili di tipo terziario entro la formazione generale triasica, potesse spiegarsi soddisfacentemente come uno dei casi soliti a presen- tarsi nelle catene montuose, che subirono complicati movimenti. Insomma anche qui, come in altri paesi, il fenomeno sarebbe spiegabile senza che la tettonica sia in urto con la paleontologia. Del resto una visita ulteriore, che dovrà ancora farsi a punti vicini in opportuna stagione, potrà meglio dilucidare ogni cosa. L’altro lavoro particolareggiato, quello della Carta generale delle cave mar- mifere dal Carrarese alla grande scala di 1/2000, rilevata dal Fossen, era ter— — 23 — minata sin dalla fine dello scorso anno, in quanto concerne la topografia del terreno, salvo qualche piccola zona, che sarebbe stato bene lo aggiungervi per darvi un contorno più regolare. Simile Carta può e deve servire, come sappiamo, a diversi usi utilissimi, sia scientifici, sia tecnici ed industriali, per i quali ul- timi basta aggiungervi diverse indicazioni geognostiche, relative specialmente alla qualità e quantità dei marmi diversi che costituiscono gran parte di quella -catena. Questi marmi sono una delle maggiori ricchezze industriali del nostro paese, poiché, mentre le masse ferrifere dell’Elba e quelle solfifere della Sicilia e di altre nostre miniere, sono assai limitate, e quindi in pochi lustri esauribili, in- vece le masse marmoree delle Apuane sono capaci di durare più secoli, fornendo ottima materia prima all’industria ed al genio artistico, che di tanto ne accre- scono il valore ; ciò che costituisce invero il migliore dei patrimoni che la natura ci diede. Quanto ora preme di fare si è di rendere questa Carta utile al pubblico, volgarizzandola e soddisfacendo così un desiderio che ci venne ripetutamente espresso dai molti industriali di Carrara, il cui Municipio del resto avea prestato un sussidio per le spese del rilevamento. Tale pubblicazione non porterebbe per ora gran spesa, potendosi fare assai economicamente dall’Istituto geografico militare con processo fotolitografìco ; ma •occorre prima farne una bella copia scevra delle indicazioni geodetiche del rile- vamento, che vi farebbero confusione, e corredata invece di alcune utili indicazioni concernenti le cave ed i loro gruppi principali. Questa bella copia è un lavoro di tavolo assai lungo, e che, per essere presto eseguito, esigerebbe l’opera di diversi abili disegnatori. Per ora invece non si potè averne che uno; ma ad ogni modo il lavoro sta ora eseguendosi. Il Comitato, nella sua adunanza autunnale del dicembre ultimo, proponeva che -appena pronti si pubblicassero nell’ anzidetto modo ad uso del pubblico alcun1 fogli di detta Carta, quelli per esempio, della parte centrale, che sono i più inte- ressanti per gli industriali; ciò che poteva farsi con una spesa di poche centinaia •di lire. Il Ministero vi consentiva, e così potrà incominciarsi, benché modestamente, questa utile pubblicazione di un lavoro che costò tanta fatica e che porterà certo utilissimi frutti. Gioverà intanto cennare come in quella stessa regione, così ricca di cave, venne testé compiuta la ferrovia marmifera portandola, con ardite opere e gallerie aperte intieramente nelle masse marmoree di cui talune oltre un km,, fino alle alte cave di Colonnata, Canalgrande e Ravaccione, che già fornivano e più ancora potranno così fornire grandi masse di materia prima delle migliori qualità. Alpi Occidentali. — In questa regione di tanto scientifico interesse, ma di eccezionale difficoltà, venne fatto proseguire il lavoro dalla squadra stata costi- — 24 — tuita lo 'scorso anno cogli ingegneri Zaccagna, Mattirolo e Franchi. In quest’anno- però speciali circostanze vennero a limitare assai il lavoro di rilevamento propria- mente detto in km. quadrati, indipendentemente anche dalla stagione atta a simile lavoro, la quale è naturalmente in tali regioni brevissima. Per contro si ottennero dei risultati che largamente compensano tale limita- zione di rilevamento, del resto momentanea. Anzitutto, come già ne venne fatto cenno altrove, inauguravasi la campagna alpina, con una perlustrazione eseguita dai nostri suaccennati ingegneri, in comune con dei geologi delegati dal Direttore della Carta geologica di Francia, per risol- vere d’accordo possibilmente diverse questioni sulla classificazione dei terreni della catena alpina, che sorge fra l’Italia e la Francia, sulle quali i nostri differivano di opinione dai francesi e specialmente da quella del prof. Lory, che era stato inca- ricato del rilevamento della zona lungo la nostra frontiera. Essendo morto nella primavera detto geologo, il Direttore della Carta di Fran- cia, che non ignorava gli studi nostri, si mostrò voglioso di venire ad una intelli- genza, ed essendo stato egli impedito di intervenire personalmente, delegò i due- geologi Potier e Bertrand, che già avevano eseguiti studi in quelle regioni. Le escursioni in comune ebbero luogo principalmente nella zona tra Briangon, il Mongi- nevra e il Moncenisio. — La principale divergenza consisteva in ciò che i geologi francesi attribuivano alla formazione triasica una estensione molto maggiore della reale, a scapito dei terreni cristallini più antichi ossia arcaici, i quali invece, bene riconosciuti dai nostri con esatti rilevamenti, dovevano estendersi a più ampie zone. — Nè aveano i geologi francesi ancora bene riconosciuto 1’esistenza ed estensione della formazione permiana, la quale, studiata prima dallo Zaccagna nelle Alpi Apuane, era poi stata da lui riscontrata in diverse regioni delle grandi Alpi, sotto forma principalmente di un gneiss prodotto da avanzata metamorfosi, il quale vedevasi- non solo allo Spluga, ma a Courmayeur in valle d’Aosta, a Modane, e sovrattutto al gruppo del monte Besimauda al sud di Cuneo, dove tal roccia assume uno svi- luppo immenso, tanto da poterle dare, per comodità, il nome ora da noi usato di besim audite. Risultato della escursione durata più giorni fu che i geologi francesi, benché molto prevenuti dapprima contro il nostro modo di vedere, convinti dai fatti, rico- nobbero perfettamente giusto quel modo; ed il Direttore della Carta di Francia ci fece poi le più lusinghiere dichiarazioni e assicurò che da ora innanzi i loro rileva- menti lungo la frontiera sarebbero condotti in accordo coi nostri. — E l’ing. Ber- trand, in una conferenza tenuta nell’autunno alla École des Mines di Parigi, narrando la fatta escursione coi nostri, fece in pubblico le stesse dichiarazioni. Intanto, per vie meglio dimostrare ed assodare quanto era stato dai nostri geologi trovato circa alia costituzione stratigrafìca delle Alpi, gli ingegneri Zac- — 25 — cagna e Mattirolo si accinsero a rilevare esattamente una grande sezione normale alla catena nella sua parte centrale, sezione di circa 100 km., che va dalla pia- nura piemontese per la punta del Rocciamelone e le creste della Moriana e Ta- rantasia in Savoia sino alla classica località di Petit-Coeur, che diede luogo a si lunga controversia e della cui tettonica essi pervennero a dare una spiegazione alquanto diversa da quella sin’ora avuta. Questa sezione geologica, che riassume in certo modo la struttura generale delle Alpi, dovrà essere presto pubblicata» Del resto in relazione alla costituzione delle Alpi si possono ancora citare le escurzioni dello Zaccagna nelle Alpi marit- time, in Liguria e sin dentro il confine francese, nelle quali vennero assodati di- versi fatti che stabiliscono limiti precisi a diverse formazioni geologiche. E si può citare il rinvenimento nei dintorni di Zuccarello, Borghetto e Bergeggi di giroporelle, di bivalvi e piccole chemnitzie nei lembi calcari. Oltre ciò P origine sedimentare della besimaudite già da lui prenunciata sin dal 1884 in una nota ai Lincei, venne confermata da vari fatti, tra cui da quello visto sovra Finalborgo, cioè che la roccia include grossi ciottoli rotolati di serpentina arcaica. Con simili escursioni veniva intanto predisposto il campo di rilevamento col quale ultimare la geologia delle estreme propagini delle Alpi marittime, che vanno a finire nel mare ligustico. — A tale rilevamento veniva poi destinato l’ingegnere Franchi, il quale, dopo aver finite nell’estate ed autunno alcune tavolette nella re- gione della Dora Riparia già iniziate lo scorso anno, come quelle di Pianezza, Bussoleno, Lanzo e quella di Viù in collaborazione coll’ingegnere Mattirolo, potè, grazie al mite clima marittimo, lavorare nell’inverno successivo a rilevare parte di quelle propagini alpine nei dintorni di Alassio ed Albenga. L’ingegnere Mattirolo, oltre al lavoro della suddescritta grande sezione insieme allo Zaccagna, potè lavorare al rilevamento della stessa regione della Dora spe- cialmente nei dintorni di Susa, Novalesa e Chiomonte. Quivi vennero trovati diversi lembi di terreno triasico, pizzicati negli scisti arcaici od ai medesimi accollati a diverse altezze e che denotano l’esistenza di un’antico deposito, del quale solo pochi lembi sfuggirono alla generale denudazione. — All’approssimarsi dell’inverno il Mattirolo dovette fare ritorno a Roma, dove era incaricato dell’allestimento del laboratorio, che venne poi infatti presto ultimato. Nello ^scorso anno l’ingegnere Zaccagna avea avuto occasione, soggiornando alquanto tempo in Andorno nel Biellese, di predisporre ivi un centro di rilevamento che già era stato progettato dal fu Quintino Sella, importantissimo per la grande varietà delle roccie cristalline alpine che vi sono riunite. Anche in quest’anno egli vi fu a fare qualche escursione con l’ingegnere Mattirolo, ma la contrarietà della stagione e le altre occupazioni impedirono di estendervi un regolare lavoro ; il quale del resto potrà essere ripreso vantaggiosamente in altra campagna, so“ — 26 — vratutto se si potrà aggiungere alla squadra qualche altro rilevatore pratico di roccie cristalline. Si danno qui per regolarità in breve sunto le solite misure dei lavori eseguiti dalla squadra nella campagna. Ingegnere Zaccagna, giornate 106, oltre 40 di escursioni, km. percorsi 1742; km. q. rilevati 52. Mattirolo, giornate 87, km. 1635, km. q. 90. Franchi, giornate 156, km. 326, km. q. 496. Le surriferite cifre di km. quadrati rilevati, ad eccezione della parte eseguita dal Franchi, sono piuttosto esigue; ma ciò era naturale poiché, mentre la stagione estiva per gli alti monti è brevissima, il lavoro di questa squadra fu nel decorso anno principalmente rivolto allo scopo di risolvere difficili problemi di classificazione e di tettonica, in concorso anche di geologi esteri, e che molto tempo dovette essere consacrato al rilevamento di interessanti e difficili sezioni geologiche, come quella, p. es., di oltre 100 km. estesa dalla pianura del Piemonte attraversando le più difficili catene alpine della Savoia. Carta geognostico-idrogr ajìca della Vallata del Po. — Di questa Carta, che dovea proseguirsi anche nel Veneto, erasi assai estesamente riferito nella relazione del 1888; essa però non potè molto progredire nello scorso anno per impedimenti sopravvenuti da parte del personale che se ne occupava. Il geometra Bruno, oltre allo studio di varie morene in Valle di Aosta, proseguì a rilevare diverse tavolette nella pianura, ma l’ingegnere A. Stella, che si era specialmente occupato delle variazioni dell’alveo del Po e sue foci, avendo concorso come allievo geologo, andò agli studi all’ estero nell’ Istituto montanistico di Berlino. Il prof. Taramelli, che ’avea la superiore direzione dello studio, venne trattenuto dalle occupazioni della carica cui fu assunto del rettorato dell’Università di Pavia. Contuttociò egli non mancò di proseguire qualche lavoro con esplorazioni nei terreni morenici nella Valtellina ed alcune altre valli minori delle prealpi lom- barde. II prof. Pantanelli presentò un’ importante memoria sulla zona emiliana da lui particolarmente studiata. Lavori di laboratorio, roccie e minerali. — Essendosi iniziato in quest’anno, A 1889, il laboratorio chimico-petrografico, di cui si era preparata la costruzione verso il fine dell’anno precedente, si potè porre mano, benché un po’ tardi e con pochi mezzi, non solo a studi microscopici ma anche a diverse analisi chimiche di roccie e minerali, che vennero eseguite dall’ingegnere Mattirolo, il quale impiantava il laboratorio stesso. Vi aiutarono in qualche parte gli ingegneri Franchi ed Aichino. Si possono 27 — «citare come roccie studiate: il gneis permiano della Roja, roccia verdastra che venne impiegata nel laboratorio stesso in cappe di evaporazione, vasche, ecc., per la sua quasi inattaccabilità dagli acidi: pomici dei Campi Flegrei: laterizi di argilla •di Gaeta che presentavano efflorescenze, delle quali si dovea riconoscere la causa; roccie calcaree nelle quali s’avevano ad aprire gallerie per strade ferrate; quarzo ritenuto aurifero di Abissinia; galena di Tunisia e altre sostanze diverse. Quanto a roccie, alcuni degli ingegneri rilevatori poterono procedere essi stessi al loro esame microscopico, come l’ingegnere Sabatini per quelle delle isole Eolie e Ponza, di cui intraprese studio speciale, e l’ingegnere Franchi per quelle alpine. — Il dottor Bucca, assistente del professore Strùver alla regia Uni- versità di Roma, proseguì lo studio di varie lave dei vulcani romani, specialmente dei Vulsini, delle quali avea fatti più di 130 preparati e che interessavano la Carta .geologica che si sta rilevando di quella regione. Ora che il laboratorio è all’ordine, salvo alcuni apparecchi che si andranno a suo tempo aggiungendo, si potranno intraprendere numerosi lavori; ed intanto venne iniziato un registro, ove è tenuta regolare memoria dei medesimi per ogni evenienza. Consiglio superiore dei lavori geodetici dello Stato . — In questo Consiglio, che solo venne istituito con decreto del 1886 presso il Ministero delle finanze, sono rappresentati, come è noto, i diversi ministeri ai quali occorrono Carte to- pografiche diverse, tra cui quello dei Lavori pubblici e quello di Agricoltura, Industria e Commercio, al quale tali Carte sono necessarie per la pubblicazione della Carta geologica. Nel decorso 1889 potè dar principio alle sue operazioni e tenne due riu- nioni, l’una in gennaio (giorni 11, 12, 14), l’altra in novembre. Vi si trattò di varie questioni, ma principalmente di quella che interessa in particolar modo le pubblicazioni geologiche e già contemplata nella seconda parte della relazione dello scorso anno, la convenienza cioè di procurarsi una Carta delle provincie meridionali d’Italia, chiara e perciò senza il solito tratteggio usato in quella al 1/100 000, ma con le sole curve. Venne perciò iniziato il progettato espe- rimento di 4 fogli nei dintorni di Catanzaro in Calabria, nello stabilimento dello Istituto cartografico italiano (Basevi e Fritsche) in Roma, e venne affidato ad una sotto-commissione di trattare con la Ditta per l’esecuzione. Il preventivo dato da questa risultò tuttavia di circa lire 1800 per foglio, quale cioè erasi preveduto; onde è che, per avere la Carta chiara di tutte le provincie meridionali, occorrerebbe realmente la spesa già indicata nella relazione dello scorso anno, cioè di forse lire 100 000. Questa, suddivisa in giuste proporzioni fra l’Istituto geografico, il Mi- nistero dei Lavori pubblici e quello di Agricoltura, Industria e Commercio, porte- rebbe tuttavia a questo un’onere dei 2/g della somma totale, cioè di lire 40 000. Ora questa spesa, anche distribuita in diversi anni, è tuttavia assai grave pel nostro bilancio annuo dopo che il medesimo fu nel 1888-89 diminuito di L. 40 800. Tuttavia farà pur d’uopo il subirla, procurando però che la tangente annua sia. moderata e non superi per esempio le lire 4 000. Quanto al concorso che era stato richiesto all’Ufficio geologico per fornire una Carta dellTsola d’Ischia in scala di 1/2000, potrà il medesimo, a quanto ci si era fatto sapere, essere di un lire 3000, o poco più ; ma poscia non si ebbe più in proposito alcuna sollecitazione. Studi geologici in connessione ad opere di pubblica utilità. — Anche in quest’anno, benché non in grandi proporzioni come in alcuno dei passati anni, ebbero gli ingegneri geologi ad occuparsi, e d’accordo col Dicastero dei lavori pubblici, di questioni attinenti alla stabilità dei terreni, principalmente in riguardo a movimenti o a frane minaccianti le ferrovie. Così l’ingegnere Baldacci dovette occuparsi ripetutamente insieme ad una Commissione istituita dall’ispettorato generale delle ferrovie, delle frane avvenute lungo la linea Potenza-Metaponto, tra cui quella grave di Grassano la quale, per l’investimento occorso in un treno di viaggiatori, produsse numerose vittime e questioni con la società esercente. Causa di simili incidenti fu generalmente la poca consistenza del terreno delle argille plioceniche coronate da sabbie permeabili alle acque delle pioggie, talché quando queste sono lunghe e persistenti la massa si rammollisce su vaste zone e precipita scorrendo sulle pendici. — L’ingegnere Cortese ebbe pure a visitare per scopi di sicurezza la linea calabrese Reggio-Gioia, la galleria di Capo Zeffirio, quella di Stalletti sulla Reggio-Taranto, quella di Mar- cellinara nell’istmo Catanzaro-Stretto Veraldi, ed infine le gallerie della ferrovia Cumana tra Napoli e Pozzuoli. La roccia di una di queste gallerie, in una tratta presso le stufe dette di Nerone presentava una temperatura di oltre 70°. Dall’ingegnere Baldacci insieme ad una Commissione speciale venne pure fatto lo studio dei provvedimenti per salvare il paese di Lauria in Basilicata da una frana che lo minaccia, studio nel quale venne poi sostituito dall’ingegnere Viola quando egli partiva per l’Africa. Venne anche visitato dall’ingegnere Cortese, insieme all’ispettore Giordano, e ad un ispettore del Genio civile, il terreno vastamente franoso di Longobardi presso Amantea in Calabria, dove la Commissione per la regolazione dei torrenti aveva indicato doversi eseguire un serio studio di rinsaldimento. — L’ingegnere Niccoli fece lo studio della frana di Casola-Valsenio nel circondario di Faenza e pubblicava sulla medesima apposito articolo nel Bollettino geologico. — L’ingegnere Zaccagna nei suoi giri in Liguria visitava Porto Maurizio onde vedere le . causa per cui si verificava uno scoscendimento nella parte orientale del colle sul quale è fabbbricata quella città, cause che riconobbe dovute a locali sorgenti. — Il mede- simo sul fine dell’anno eseguì come perito del Governo una visita alle cave di marmo di Vitulano presso Benevento, ove tale materia si troverebbe in un piano cretaceo superiore al Neocomiano. — Altro incarico molto importante affidavasi poi all’ingegnere Zaccagna relativo alla progettata ferrovia Aulla-Lucca, la quale nella sua parte occidentale e più diffìcile verso Aulla, era stata tracciata in terreni eocenici di pessima qualità. La conoscenza che lo Zaccagna possiede di quelle regioni delle quali rilevò la geologia, facea ripromettere dal suo concorso un no- tevole miglioramento nel tracciato tanto al punto di vista della solidità che della economia. Non vennero poi trascurati gli studi relativi a ricerca di acque, quando se ne presentò l’occasione; e già fu cennato come venisse ripetuta qualche osserva- zione nelle Puglie confermanti pur sempre gli studi anteriormente fattivi, e che dimostravano la poca risorsa ivi sperabile dalle acque sotterranee. Si era poi sperato poter avviare diversi pozzi sul genere di quello che già ebbe molto suc- cesso alla stazione di Lecce, ma alcune formalità ritardarono per ora siffatti lavori. Parecchi pozzi forati vennero invece aperti nel basso territorio della pianura adriatica, e dei quali gli ingegneri geologi avevano potuto prevedere l’esito più o meno fortunato. Combustibili fossili. — Già nelle relazioni dei decorsi anni veniva riferito su varie nuove ricerche state fatte, sia dagli ingegneri geologi che da alcuni indu- striali sull’esistenza nel nostro paese, di combustibile fossile, e se non del vero litantrace almeno di giacimenti di lignite di buona qualità e ragguardevole esten- sione per alimentare delle industrie; ma era risultato che nulla poteva prevedersi di nuovo ed importante oltre ciò che già conoscevasi un 10 o 15 anni sono. Ciò- malgrado un’ interpellanza fatta nel 1889 in Parlamento al ministro di Agricoltura, industria e commercio, chiedeva nuovi studi principalmente in certe località di Calabria, come Agnana, per esempio, dove malgrado i fatti già constatati, alcuna proseguiva a ri'enere l’esistenza possibile di importanti giacimenti di buon carbone. A soddisfare tale richiesta vennero pazientemente riesaminate le varie località, ma rimase una volta di più confermato il giudizio già altre volte espresso su tale questione. E per tacere di varie località dove gli indizi sono affatto insignificanti^ citando le due in cui soltanto eravi qualche maggiore apparenza, si ripeterà: 1° Che ad Agnana dove il carbone è una lignite di qualità discreta, la po- tenza dei banchi è però scarsa ed irregolare, e la estensione totale del bacino è tanto poca (meno di 60 ettari) da non poter fornire materiale duraturo per una seria industria. In totalità vi sarebbero estraibili meno di 500 000 tonnellate. — 30 — 2° Che a Gonidoni (Briatico) oltre la quantità non considerevole, la qualità è troppo infima per un utile impiego. Si riconferma quindi che in Italia si hanno come giacimenti relativamente di un certo valore industriale quelli soltanto della Toscana e di qualche lembo del- l’ Italia centrale. Riunione estiva della Società geologica. — Questa ebbe luogo nel settembre a Catanzaro in Calabria accompagnata da diverse escursioni come già venne ac~ cennato trattando dei lavori in Calabria. Essendosi di già in tale occasione rife- rito su quanto venne di essenziale fatto ed osservato vi si rimanda senz’ altro a scanso di ripetizioni. O Pubblicazioni. — Dopo le assai importanti e costose pubblicazioni eseguite nello scorso anno (Carta d’ Italia al 1/1 000 000, Carta della campagna Romana in 6 fogli. Carta dell’ Iglesiente con testo, e Memorie paleontologiche in gran for- mato) si dovette, per varie ragioni, fare un po’ di sosta, applicandosi tuttavia à preparare materiale per nuove pubblicazioni, tra cui una di notevole importanza sulle Alpi Apuane. Quindi nei decorsi mesi non uscivano che la Carta dei vulcani della Campania che accompagna la Memoria del prof. A. Scacchi, e le ordina- rie tavole illustrative del Bollettino geologico. Carta geologica dell’Europa. — Nel decorso anno non si ebbero novità re- lativamente a questo lavoro rimasto affidato alla Direzione dell’ Istituto geologico di Berlino, il quale deve proseguirne l’avanzamento dietro le norme . stabilite d’ac- cordo col Comitato internazionale riunitosi a Londra all’epoca del Congresso geo- logico del 1888. Le osservazioni critiche presentate nella relazione dello scorso anno riguardo alla gamma di colori stata adottata per tale Carta, od almeno ri- guardo a quella parte che concerne le formazioni antiche e le roccie eruttive, rimangono sempre valide per giustificare la riserva da noi e da altre nazioni mantenuta nell’adottarla intieramente ili sostituzione dell’attuale, che invece è sempre per noi molto conveniente. Quanto al nostro concorso pecuniario a quel- l’opera, la parte da noi sin’ora versata, rimane quella che era lo scorso anno, cioè di lire 7500 in complesso, non essendoci più stato fatto alcun nuovo appello di fondi. Personale del Comitato e dell’ Ufficio geologico. — Qualche notevole cambia- mento ebbe luogo nel personale cominciando da quello del Comitato geologico. Come già veniva brevemente esposto nell’ultima relazione al Comitato stesso, questo fa- ceva nel 29 gennaio 1889 la grave perdita del prof. Giuseppe Meneghini suo pre- — 31 — sidente fino dal 1879, perdita sulla quale, dopo le tante e solenni commemora- zioni fattene in varie città, non sarebbe ora del caso discorrere ancora. Si ripeterà solo come il Ministero tosto prò movesse la nomina del suo suc- cessore, che con R. decreto del 20 febbraio veniva nominato nella persona del professore di geologia all’ Università di Bologna già membro del Comitato, Gio- vanni Capellini. A supplire poi il membro deceduto del Comitato geologico, ve- niva con R. decreto del 28 fébbraio nominato Giovanni Omboni professore di geologia all’ Università di Padova. La morte del prof. Meneghini cagionava pure altro cangiamento e fu quello del paleontologo del Comitato. Il dott. Mario Canavari che come tale funzionava da circa 10 anni e che a partire dal 1° dell’anno 1889 era stato assunto in pianta stabile, venne indotto ciò malgrado a lasciare tale posto per prendere quello di professore straordinario all’ Università di Pisa, in sostituzione del Meneghini, al quale era stato prescelto dalla Commissione di professori di geologia convocata presso il ministero dell’ Istruzione pubblica. Fra i diversi concorrenti presentatisi per tale cattedra, la quale godeva di antica tradizione in geologia ed era stata per tanti anni coperta dal Meneghini, la detta Commissione opinò che al momento niuno meglio del Canavari, allievo di questo e forte assai in paleontologia, riu- nisse gli opportuni elementi di riuscita, onde lo prescelse, ed il Canavari accet- tava, lasciando vacante il posto presso il Comitato. La sua dimissione venne accettata ed allora secondando la proposta fattane dal Comitato, veniva con R. decreto 29 dicembre nominato paleontologo a vece sua il dott. Giovanni Di Stefano già addetto al Museo dell’ Università di Palermo. Quanto a posizione il paleontologo è attualmente pareggiato ad un ingegnere delle miniere o del Genio civile di seconda classe, e potrà avere come quelli degli avanzamenti. Intanto con R. decreto stessa data 29 venivano confermati a presidente per l’anno 1890 il prof. Capellini ed a componenti pel triennio 1890-92 i membri Scacchi, Scarabelli, Gemmellaro e Cossa. Verso il fine dell’anno venne poi dal Ministero consentito a che uno dei no- stri geologi, cioè P ingegnere Baldacci andasse in Abissinia per farvi una gene- rale esplorazione geologica, secondando così il voto già espresso fin dall’ anno precedente dal Comitato geologico. La missione gli venne affidata d’ accordo col Ministero della guerra, dal quale dipendeva ogni servizio in Africa, ed il quale consentiva a coadiuvare con qualche mezzo la spedizione. Oltre l’esame geologico generale della contrada da estendersi nel maggior raggio possibile a partire da Massaua, quell’ ingegnere dovea naturalmente preoccuparsi di quanto può essere praticamente profìcuo alla colonia, sovratutto per le acque ed i materiali utili, non che per l’agricoltura: ed al proposito ebbe pure l’incarico di attuare, d’accordo — 32 — col prof. Tacchini, dal quale ebbe le istruzioni e gli strumenti, diversi piccoli os- servatori meteorologici a varie altezze sul mare. Egli partiva per Massaua verso il fine di gennaio 1890. Essendo intanto necessario di pensare a rifornire di qualche individuo il corpo dei geologi per riparare gli effetti del tempo e delle circostanze, venne aperto verso il fine dell’anno 1889 un concorso per due posti agli studi e tirocinio al- l’estero. Risultò per altro coperto un posto solo e questo dall’ ingegnere A. Stella laureato a Torino, quello che già aveva lavorato un certo tempo per l’Ufficio geo- logico alla Carta geognostico-idrografìca della vallata del Po. Egli per opportune considerazioni prescelse di andare all’ Istituto geologico di Berlino. Ora un cenno sull’organizzazione del personale dei geologi addetti al rileva- mento della Carta. Di tale organizzazione, per renderla più efficace al prefisso scopo, già si è trattato abbastanza nelle relazioni precedenti, sovratutto in quella elei 1888, risultandone come fosse desiderevole più frequente riunione del perso- nale nell’Ufficio centrale per la più pronta ed efficace direzione del medesimo, non •che per l’uniformità dei lavori. Il territorio dello Stato in quanto concerne il rile- vamento geologico era suddiviso in diverse Sezioni, affidata ciascuna ad una squadra di operatori, la quale teneva un piccolo ufficio secondario in alcuna delle città di provincia più opportunamente situate per il rilevamento. Dapprima eravi stata la squadra per la Sicilia che finiva nel 1881, poi vi furono le squadre per la Calabria con ufficio prima a Reggio poi a Catanzaro, quella della Lucania e Basilicata con ufficio a Salerno, quella dell’ Italia centrale con ufficio in quello centrale di Roma, quella delle regioni toscane con sede a Pisa e quelle delle Alpi occidentali con sede a Torino. La sede delle squadre e loro ufficio era assai stabile per alcuna delle Se- zioni, come per esempio per quella di Pisa, città molto bene collocata, provve- duta di molti mezzi di studio, oltre che residenza del presidente del Comitato prof. Meneghini. Altre invece come quelle delle estreme provincie meridionali, ol- treché in città di pochi mezzi, doveano essere soggette a frequente spostamento coll’avanzare dei lavori. Tali sezioni erano assai vantaggiose al punto di Vista della economia delle spese di escursione durante i lavori di campagna, ma pre- sentavano alcuni inconvenienti, tra cui l’ isolamento degli operatori gli uni dagli -altri e lungi dalla Direzione, onde si credette bene di adottare un temperamento il quale permettesse loro di riunirsi più frequentemente nell’ ufficio centrale di Roma. La morte del prof. Meneghini avendo diminuita l’opportunità di tenere una -sezione di operatori con residenza stabile del personale in Pisa, quello venne chiamato a Roma insieme al paleontologo, il quale vi ha ora il suo laboratorio nello stesso Museo dell’ufficio centrale e con maggior comodità per tutti gli ope- — 33 — ratori. Questi poi eseguono durante la propizia stagione i loro rilevamenti nelle diverse sezioni del territorio, dove si tiene perciò come prima un piccolo ufficio per le raccolte del materiale e pei lavori di tavolo, ma in certe epoche e sovra- tutto nella stagione poco propizia ai lavori di campagna, esso personale si riuni- sce aU’uffìcio centrale dove, d’accordo con la Direzione, mette in ordine le carte rilevate coordinandole con quelle dei colleghi, studia nel laboratorio i materiali raccolti, e prepara coll’aiuto della comune biblioteca le note illustrative de’ suoi lavori. Simile vantaggiosa organizzazione, quale venne ora attuata, esigeva naturalmente qualche indennità al personale operatore per la doppia residenza cui deve prov- vedersi, cioè, quella ordinaria nella capitale e quella più o meno temporaria ma tuttavia assai lunga nelle Sezioni di provincia, dove si eseguono i lavori di cam- pagna e dove si devono tenere gli uffici secondari ; ma a ciò provvedevasi nel modo più economico mediante la semplice indennità che suolsi accordare agli impiegati residenti in Roma, ed erogandola non dal fondo della Carta geologica, ma da un fondo speciale inscritto nel bilancio del Corpo delle miniere. In questa stessa occasione venne anche ammesso che un modesto compenso a titolo più che altro di distinzione, venga in fine di campagna accordato a quelli che fungendo da capi-squadra diressero i rilevamenti. Quanto al modo di funzionare dell’ Ufficio geologico, e delle sue Sezioni, tutto é ora sufficientemente regolato da semplici norme le quali, come si usa in uffici simili, vennero or sono due anni raccolte in libretto e che possono subire di tempo in tempo opportune variazioni, come, per esempio, in occasione di questi ultimi av- venuti mutamenti. Se ne farà perciò una nuova edizione. Riunione del Comitato geologico . — Due volte riunivasi in quest’anno il Co- mitato, la prima nei giorni 11 e 12 giugno per udire la solita relazione annua sui lavori del 1889, e la seconda volta il 9 dicembre, essendo stato deciso nella precedente di cercare di riunirsi più di una volta nell’anno, in quanto ciò poteva ridondare a vantaggio dell’opera del Comitato stesso nella risoluzione delle varie questioni che si possono presentare. — Le due riunioni furono presiedute dal pro- fessore G. Capellini. Nella prima riunione venne approvato il proseguimento dei lavori secondo le proposte fatte dalla Direzione, e quanto a pubblicazioni si votò quella della Carta geologica, con le necessarie illustrazioni delle Alpi Apuane; importante lavoro che era stato preparato negli anni precedenti. Nella seconda riunione, dopo avere esa- minata una difficoltà insorta appunto riguardo a certi giacimenti fossiliferi delle Alpi Apuane per definire la quale erasi dal presidente con altri membri eseguita in quei monti la surriferita visita, si presero alcune altre deliberazioni, tra cui — 34 — quella di proporre la nomina del dottor Giovanni Di-Stefano a paleontologo in rim- piazzo del Dottor M. Canavari, che aveva lasciato il posto. Del resto, per tutte le osservazioni e deliberazioni, che ebbero luogo in quelle riunioni, si rimanda ai relativi processi verbali pubblicati nei fascicoli di maggio- e giugno, e di novembre e dicembre del Bollettino geologico pel 1889. Locali e collezioni del Museo geologico. — Già veniva accennato nella rela- zione del decorso anno quanto erasi inteso di fare ed iniziato in riguardo alle collezioni del nostro Museo geologico; come per esempio, onde guadagnare spazio alle medesime si costruiva al piano del terrazzo dalla parte della via di S. Su- sanna una galleria di 20m X . — La sua costruzione costò L. 9474, 77 e la medesima veniva poi arredata di vetrine con una spesa di L. 4400. — Altre vetrine vennero costruite per arredare il corridoio del piano superiore che corre lungo il laboratorio, con una spesa di L. 3227, 77, cosicché al momento è prov- veduto a ricevere un certo aumento di collezioni e si ha disponibile nella su- accennata nuova galleria un certo spazio ancora per altre che verranno. Con tutto ciò giova ripetere l’osservazione già altre volte fatta, che cioè con l’esten- dersi del rilevamento geologico queste collezioni vanno rapidamente crescendo, onde occorrerà di tenersi limitati quanto possibile nell’inviarne al Museo centrale, trattenendo per ora tutto ciò che non vi è indispensabile nelle Sezioni di provincia a guisa di riserva. Così, per esempio, esiste ancora a Torino moltissimo materiale delle antiche provincie accumulatovi sin dai primi tempi. 11 medesimo venne testé raccolto in un locale fornito gratis dal Demanio nel palazzo Madama, e che arre- dato di qualche semplice mobile serve anche d’ufficio durante i lavori estivi* Stante simile comodità non è per ora necessario il portare a Roma tutte queste roccie, ma si può attendere a tempo più opportuno e se vi sarà posto disponibile, facen- done intanto la scelta. La sezione dei materiali edilizi veniva pure arricchita di un discreto campio- nario di marmi carraresi che, mediante tenue somma (L. 500), venne acquistato nella ultima esposizione italiana del 1888 a Londra, campionario formato dall’in- gegnere Zaccagna, ed il quale potrà servirci in altra occasione evitandoci la pena, di rifare una simile raccolta. Quanto alla grande raccolta di marmi antichi del fu generale Pescetto, non resta più a pagare per saldarne l’acquisto se non un’ultima rata che potrà an- dare sull’esercizio 1890-91. Questa bella raccolta, unitamente ad altra dello stesso genere già prima acquistata, costituisce un prezioso capitale del nostro Museo; ma così come è ora disposta non fa sufficiente mostra al pubblico; men- tre potrebbe apparire assai meglio riformandone alquanto la disposizione nella grande sala che vi è destinata e nella quale si guadagnerebbe anche maggiore - 35 — spazio. Ciò potrebbe farsi con spesa relativamente lieve e con molto vantaggio del nostro Museo, onde si potrebbe nel prossimo esercizio occuparsene, e così sa- rebbe una volta ben sistemato e messo in miglior vista il Museo geologico della Vittoria. Laboratorio. — Nel corrente del decorso anno venne ultimato, come già cenna- vasi il laboratorio chimico-petrografico all’ultimo piano dell’edifizio, quale era stato descritto nella precedente relazione, e successivamente vi venne aggiunto, al piano stesso, altro ambiente per un laboratorio destinato agli studi paleontologici. Il tutto venne arredato di semplice ma conveniente mobilio, e degli appa- recchi di lavoro, come bilancie di precisione, lambicchi, fornelli diversi di re- cente mode’lo, parte acquistati a Londra, parte in Germania, e di quanto infine occorreva pel suo esercizio. Per l’esame microscopico si hanno ora tre microscopi di cui due sono dei migliori del Nachet di Parigi. Pel taglio delle lastre sottili si hanno degli apparecchi a mano che però bastano per ora, e soltanto vi occorreva l’opera di un’inserviente speciale il quale d’altronde è indispensabile per la manu- tenzione di un laboratorio divenuto abbastanza importante. Nella stagione invernale, quando oltre all’ ing. Mattirolo ed al paleontologo Di Stefano si trovano in Roma altri geologi a fare degli studi di roccie ed altro, il laboratorio è assai frequentato; ma nella stagione dei lavori, quando i geologi vanno in campagna, e talvolta come necessità richiede, anche il suddetto ingegnere, occorre che alcuno rimanga per non interrompere tutto, come sarebbero certe analisi chimiche incominciate e che preme di ultimare. Perciò si può provvedere onde alcuno degli ingegneri non impegnato in escursioni, e capace della partita chimica, rimanga in laboratorio per provvedere alla continuità dei lavori più necessari. Quanto al costo del laboratorio, astrazione fatta dall’impianto dell’acqua mar- cia coi serbatoi di riserva collocati sull’alto dell’edilizio, impianto che del resto serve a tutto lo stabilimento, la spesa totale rimase nel limite di L. 12000 primiti- vamente previsto, malgrado diverse aggiunte fatte dopo nella parte destinata alla paleontologia, e riesce così suddiviso : Opere murarie e diverse per adattamento dei locali . . . . L. 4667 00 Mobilio, scaffali e vetrine « 2475 00 Apparecchi chimici e prime provviste di reattivi » 4885 00 L. 12027 00 Resterebbe ora da completare man mano il materiale con l’aggiunta di qualche nuovo apparecchio, a misura che ne occorresse il bisogno o se ne presentassero di più utili ; ma il più essenziale è per ora provveduto. Sarà poi il caso di completare anche man mano di qualche operala speciale biblio- teca di chimica, come pure quella di paleontologia; e riguardo a questa si potrà 1 b — 36 — aggiungere una raccolta di fossili caratteristici che è molto desiderevole e tutta- via vi manca. Così, con poco, verrà ornai debitamente corredato l’istituto geologico di tutto l’occorrente ai suoi lavori. Resoconto delle spese dell’anno 1889. — Si riferisce qui l’elenco delle spese, effettivamente erogate nell’anno 1889, distinte nei soliti capitoli. L’assegno annuo disponibile è ora ridotto a L. 120 000. La somma però dei pagamenti fatti nel- l’anno ammonta a L. 144 605,62, nella quale cifra entra il pagamento della Carta geologica d’Italia a j qqq'qqq tirata a 3000 copie per L. 24 355, somma questa dispo- nibile perchè impegnata sull’assegno degli anni antecedenti. Resoconto delle spese dell’anno 1889. I. Assegni al personale : Onorario di 6 ingegneri-geologi di 3a classe L. 18.000,00 Un paleontologo pareggiato ad ingegnere di 2a classe (soli 10 mesi). » 2.916,66 Due disegnatori (2 mesate a L. 150, 12 a L. 130 e 6 a L. 120) ...» 2.580,00 Uno scrivano (a L. 120 mensili) » 1.440,00 Due inservienti (a L. 100 e L. 80 mensili) • » 2.160,00 h. 27.096,66 L. 27.096,66 II. Indennità di campagna e trasferte diverse: Rilevamento Sezione della \ Id. Carta Id. geologica j Id. normale Id. delle Alpi occidentali (Torino). L. 6.031,85 della regione toscana (Pisa) . » 3.750,00 dell’ Italia centrale (Roma) . . » 6.984,06 del Salernitano-Basilicala (Salerno) 10.408,36 di Calabria (Catanzaro). ...» 2.965,48 L. 30.139,75 » 30.139,75 Carta della valle del Po » 1.933,82 Carta della regione marmifera Carrarese » 899,40 Trasferta membri del Comitato a Roma ...*..» 2.832,40 Id, id. id. per visita alle Alpi Apuane » 360,80 Carta di Gliannutri, Dott. Simonelli L. 260,00 — "Viaggi di- versi, Ing. Zezi, Sormani, Mazzuoli, Ispettore, ecc., L. 1098,65 — Prof. Issel, Bucca, ecc., L. 202. ...» 1.560,65 Compenso ai Capi squadra (eccetto Roma) ...*.» 3.000,00 Compenso per spese viaggio all’Ing. allievo Mezzena L. 300, piu L. 72 mensili per mesi 4, L. 288 . . . . » 588,00 Compenso all’Ing. Stella per viaggio a Berlino .... » 300,00 L. 11.475,07 » 11.475,07 L. 41.614,82 » 41.614,82 Riporto . . . L. 68.711,48 Da riportare . . . L. 68.711,48 III. Spese d’ufficio, Biblioteca e Istrumenti : Spese ordinarie di posta, trasporti, ( Ufficio centrale di Roma . . L. 3.310,90 ferrovia e cancelleria. * Sezioni (eccetto Roma) ...» 1.907,33 Carte topografiche » 322,00 Biblioteca ed archivio » 2.894,65 Plastico geologicamente colorato della Campagna romana ...» 90,00 L. 8.524,88 IV. Pubblicazioni diverse: j Testo. . . . L. 2.586,25 Bollettino annuale I Tavole ...» 1.233,75 ( Estratti. . . » 216,95 L. 4.036,95 »> Memorie in 4° (tavole pel Voi. IV in corso di stampa) » Memorie in-8° (Disegni fossili Alpi Apuane) » Carta geologica dell’Italia a 1/1 000 000 in due fogli (copie 3000) . . » L. 29.280,70 V. Carta geoloqica dell’Europa : (Nulla quest’ anno). 4.036,95 668,75 220,00 24.355,00 VI. Impianti per Laboratorio, Uffizio e Museo : Costruzione di una nuova galleria per collezioni sul terrazzo al secondo piano verso via S. Susanna L. 9.474,77 Vetrine e scaffalature nella sudd. galleria (metà per ora) L. 2.382,03 Vetrine e scaffalature nelle gallerie dell’ ultimo piano presso il laboratorio » 3.327,77 Scaffalatura per deposito delle carte stampate. . ., . » 1.347,12 L. 7.056,92 » 7.056,92 Adattamento dei locali all’ ultimo pian» per laboratorio chimico petrografico (5 camere), muri di tramezzo, porte, ecc., e com- prese L. 400 per altra camera destinata ad uso laboratorio paleontologico » 4.666.92 Impianto dell'acqua marcia con serbatoi superiori per uso dei laboratoi e del Museo » 3.312,55 Mobilio per laboratoi (pel chimico-petrografìco L. 1.275, pel paleontologico L. 1.200) L. 2.475,00 Apparecchi e provviste pel laboratorio chimico fra cui : Bilancia Sartorius L. 508,00 Bilancia Collot con pesiera » 136,40 Pesiera di Westphal » 66,25 Alambicco di Murrle » 744,87 Forni ed apparecchi a gas di Fletcher acqui- stati a Londra » 437,50 Oggetti di platino acquistati a Londra . . » 143,10 Prodotti chimici di TrommscLorfT. .... » 367,00 Apparecchi, utensili ed oggetti diversi . . » 2.482,04 » 4.885,16 L. 7.360,16 » 7.360,16 Acquisto di una collezione di marmi carraresi che servì alPespo- sizione italiana in Londra » » 500,00 Tende alle gallerie e riparazioni ai mobili d’ ufficio » 1.180,84 L. 33.552.16 Riporto . . . I » 8.521,88 » 29.280,70 » 33.552,16 i. 140.069.22 — 38 - Da riportare . . . L. 140.069, 22r VII. Spese diverse (sussidi, compensi, ecc.) : Sussidio alla Società geologica . . L. 1.200, 00 Compenso al Prof. Taramelli per studi e lavori sui terremoti . . » 1.500,00 Compenso (all’ Aj. Luswergh per progetti ed esecuzioni di costruz. » 350,00 Compenso al Dott. Bucca per studi roccie L. 250 — Compenso al Dott. Canavari per trasloco L. 150 .... » 400,00 Assicurazione al fabbricato dell’ufficio 466 40 Gratificazione al portiere » 120,00 LÌ X536A0 » 4.536,40 Totale . . . L. 144.605.62 Da fare nel 1890. Ora che, secondo quanto venne sovraesposto, tanto il personale operante quanto i mezzi di lavoro e di studio sono bastevolmente organizzati, importa lo avanzare quanto possibile il lavoro del rilevamento in quelle sezioni che furono con pon- derato criterio prescielte come zone assegnate alle varie squadre. E queste sezioni, ora in numero di cinque, sono ben note, cioè partendo dall’ estremo Sud della penisola, la Calabria, le provincie intermedie fra queste e Napoli, l’Italia centrale nel cui mezzo è Roma, la regione Toscana lungo il Mediterraneo sino alle Alpi-Apuane, ed infine all’estremo N.O, le Alpi occidentali. Le medesime sezioni possono mantenersi ancora ; però l’avanzamento dei la- vori negli ultimi mesi ed alcuni mutamenti avvenuti nel personale operatore pos- sono indurre a far qualche mutamento nelle disposizioni da prendere da ora innanzi per l’avanzamento ulteriore dei lavori. Di questi si tratterà ora brevemente sezione per sezione, prendendo nell’ordine stesso dal Sud al Nord. Calabria. — Malgrado l’assottigliamento della squadra operatrice stata alfine ridotta per diverse ragioni al solo capo-squadra, tuttavia il rilevamento di questa . regione della complessiva superficie di oltre 15 000 km. sarà presto compiuto, od al più potranno rimanerne da rilevare, od anche solo da meglio verificare alcuni piccoli lembi, talché non sarà più necessario dedicarvi un apposito personale, po- tendo il suddetto perfezionamento rimanere affidato all’ingegnere Cortese. Questi del resto deve attendere a preparare la Carta con sezioni da pubblicare e la re- lativa memoria. Sezione di Salerno. — Il rilevamento di questa sezione, il cui campo si può estendere da Napoli sino al Jonio ed all’Adriatico, veniva sin’ ora limitato alla sua zona più meridionale che comprende la Lucania e la Basilicata, in cui pre- dominano i terreni terziari dell’Eocene e del Miocene, intermezzati solo da qualche lembo cretacico. Nella zona adriatica invece è relativamente molto limitata la forma*'" - 39 zione terziaria, mentre vi prende dominio la formazione ippuritica delle Murgie, se- guita più al Nord dalle formazioni giurassiche del Barese e del Monte Gargano- Il proseguimento del lavoro con il personale della squadra addetta a tale sezione era diretto per ora al Jonio, aveva già passato Potenza e doveva nella campagna del 1890 terminare con i fogli di Tursi, Matera e Gravina, che attin gono in quella direzione il limite del terreno secondario pugliese. Il personale della squadra comprendeva l’ingegnere Baldacci, fungente da capo e i tre ingegneri Viola, Sabatini e Mezzena. L’ultimo aggiuntosi solo nel decorso anno 1889 teneva affidata la zona più meridionale confinante con la Calabria, nei fogli o tavolette di Maratea e Cerchiara; il Viola ne aveva la zona più centrale con le tavolette di Stigliano, Pisticci, Torremare ; il Sabatini la zona più a Nord, con le tavolette di Grassano, Gravina, Tolve e l’attacco di queste al gruppo vul- canico del Vulture. Il Baldacci, oltre la sorveglianza generale dovea ultimare le tavolette del Salernitano all’Est di Campagna e Montecorvino. Ma nel personale così predi- sposto avvenne sin dal principio d’anno qualche disturbo, poiché come fu detto il capo della squadra Baldacci dovette lasciare l’Italia per l’esplorazione dell’Abis. sinia, nè ancora si può prevedere l’epoca del ritorno. Al medesimo però in quanto concerne la sorveglianza potrebbe supplire l’ing. Cortese. Ma intanto altro vuoto si produceva nel personale, cioè dell’ingegnere Mezzena, il quale avea attivamente cominciata la zona da Lagonegro e Latronico, verso Rocca Imperiale. Egli partiva pure per l’Africa ma di sua iniziativa abbandonando 1’ intrapreso la- voro. L’ing. Sabatini poi era sovente distratto da altri lavori. Così pur troppo la squadra del Salernitano trovasi oggidì molto ridotta, e tutto al più potrà com- piere 1’ attacco della regione in corso di rilevamento con la Calabria. Con simile attacco però sarebbe almeno compiuta la Carta della parte più meridionale della penisola sino a Napoli, cioè le 3 Calabrie, la Basilicata e parte della Lucania. Resterà poi a vedere verso il fine della campagna di quest’anno 1890, dove con- venga dirigere le operazioni, cioè, se a perfezionare la succennata regione tra Na- poli ed il Jonio, già in parte rilevata, in modo da prepararla per la stampa in grande scala, ovvero attaccare le Puglie sino all’estremità della terra otrantina. La decisione dipenderà da due circostanze che oggidì non possiamo tuttavia co- noscere, cioè lo stato del personale disponibile e quello della Carta topografica di queste provincie atta ad una buona pubblicazione geologica, questione questa che, come esponemmo altrove, non è ancora risoluta; ma vi si tornerà sopra alquanto più avanti nel trattare delle future pubblicazioni. Italia Centrale e Toscana. — Venendo alle altre sezioni di rilevamento ab- biamo prima quella di Roma, nella quale scarseggia pure il personale, essendovi 40 — ora il solo ingegnere Zezi, impedito sovente da altre occupazioni, e due aiutanti Cassetti e Moderni. Oggidì però si può considerare unita a questa sezione quella contigua del territorio toscano (antica sezione di Pisa) la quale, ridotta ora alla sua parte meridionale o maremmana, rimane affidata all’ingegnere Lotti, mentre lo Zaccagna prosegue durante la stagione invernale il perfezionamento della difficile regione apuana e adiacenze per prepararne la Carta in grande scala di prossima pubblicazione. La vasta regione componente queste due sezioni e che comprende tutto il corpo dell’Italia Centrale, presenta tuttavia per l’avanzamento regolare della Carta geologica quell’ostacolo del quale tante volte si fece parola, cioè una gran lacuna nella Carta topografica dello Stato Maggiore, lacuna che regna dagli Abruzzi sino al Bolognese ed attraverso la penisola si estende pur troppo sino a Viterbo e Terni, cioè sin molto presso la Capitale. Ciò costringe a tenere per ora il rile- vamento lunghesso la costa tirrena e rinviare a più tardi lo studio dell’ Appennino umbro-tosco-romagnolo. Questo infatti per venire bene rilevato, scarseggiando' molto di fossili, esige una Carta topografica esatta e in grande scala e sulla quale si possano segnare le pieghe ed altri fenomeni della tettonica che in mancanza dei fossili possono dare luce sulla geologia. Intanto si potrà profittare di tutti gli intervalli di tempo favorevoli per com- piere man mano il rilevamento di quelle zone delle quali esiste la Carta topogra- fica, d’estate nelle regioni montuose ed in quelle verso 1’ Adriatico, e d’inverno nelle regioni basse, sovratutto nelle maremmane. Qualche lavoro di perfezionamento resterebbe poi a fare in certe zone delle Apuane e vicinanze; ma a queste già pensava, come venne sovra indicato, l’inge- gnere Zaccagna, il quale dietro il voto del Comitato geologico deve pensare alla pubblicazione della Carta in grande scala. Quanto alla Carta speciale al 1/2 000 delle cave marmifere del Carrarese della. quale già venne autorizzata la pubblicazione, provvederà lo stesso Zaccagna, col mezzo dell’aiutante Fossen e d’accordo coll’ ufficio minerario di Firenze, a corre- darla delle indicazioni geognostico-petrografiche, per renderla utile allo scopo in- dustriale cui è sovratutto destinata. Simile Carta, debitamente completata ed arric- chita dei dati statistici e di opportune speciali illustrazioni sulla produzione e commercio dei nostri marmi, potrebbe formare un soggetto dei più interessanti e per noi proficui in sè, come anche per inviare ad una Esposizione Universale come quella che contemporaneamente al Congresso geologico internazionale si prepara pel 1892 negli Stati Uniti del Nord- America. È noto quanto la nostra produzione in marmi interessi quel paese, onde un lavoro geognostico-statistico sui nostri più ricchi giacimenti colà esposto ; otrà esservi apprezzato ed essere forse eccitamento a maggiori utilissimi scambi. — 41 — - E quindi a sperare che non verrà trascurato da quanti vi sono interessati e dal Governo che già prese l’iniziativa, di fare quanto é possibile per volgere a nostro profitto così opportuna occasione. Catena delle Alpi. - L’importanza assunta dai precisi lavori dei nostri geo- og, nelle Alpi occidentali, q la circostanza superiormente esposta del successo da. medesimi ottenuto lo scorso anno presso i geologi stranieri, specialmente presso quell, della Carta geologica francese che, prima piuttosto ostili, ne riconob- bero po, ampiamente la giustezza, ci impongono di proseguirli ora vieppiù ala- era, nente; PO, che ,1 medesimo successo avuto rispetto ai geologi francesi nelle Alp, occ, dentai, che stanno fra l’Italia e la Francia, potremo averlo rispetto a^li suzzer, nelle Alp, Penarne e Leponzie, e procedendo poi verso Est con i geologi e Austria, alcuno de, qual, conoscendo i nostri primi lavori, già ebbe a pre- sentire ,1 successo medesimo nel rimanente della Catena che ci separa, ma in pari tempo « pone ad intimo contatto scientifico con le altre nazioni. Altra circostanza che ci consiglia ad avanzare quanto possibile il lavoro geo- ogico in essa Catena alpina è 1’ andamento preso dallo Stato Maggiore nella levata della Carta topografica, poiché mentre questa rimane ora sospesa nell’Italia centrale, v.ene mvece avanzata molto rapidamente verso Est, già è giunta nelle • p, Venete e fra non molto sarà intieramente compiuta. Oltre ciò contempora- neamente lo stesso Istituto geografico fa seguire prontamente alla levata della Carta topografica delle Alpi, la sua pubblicazione in edizione nitida, cioè con le sole curve senza tratteggio (se ne mostrano diversi campioni) ciò che permette- rebbe all’ufficio nostro di pubblicarne, quando che sia, una bella Carta geologica. S,m,l, importanti considerazioni, ripeto, tutte consigliano oggidì a spingere rapi- damente .1 lavoro alpino. Ma la difficoltà per noi sta nello scarso personale abile e robusto da applicare a quell’arduo lavoro, mentre tanto breve è nella montagna la stagione propizia. Per procedere un po’ rapidamente occorrerebbe raddoppiare la squadra attuale, composta di tre soli ingegneri (Zaccagna, Mattirolo e Franchi), ponendone una a fin, re le Marittime e le Cozie, e l’altra a lavorare nelle Graie e Pennine. Ciò non si può fare per ora, ma si potrebbe almeno aggiungervi un operatore, cioè l’ingeg