= 00 ioo CO 143. Roberto Savelli Grimaldi e la Rifrazione (.(•Sdì jn' ni (i Tav. XIII Francesco Maria Grimaldi Da un quadro della collezione del Cardinal Del Monte presso la Biblioteca Universitaria di Bologna Roberto Savelli Grimaldi e la Rifrazione /•• VIBRAR y OV 1 7 1967 U Estratto da Cesalpinia; Settembre 1951. PREMESSA Secondo una certa interpretazione idealistica della storiografia, quando per esempio il Pastor scrive la (( Storia dei Papi », non quella dei Papi veramente, bensì la sua propria storia egli scrive. C è un po' di vero in questo ; e allora vai meglio prenderne subito piena consapevolezza: questi che io vado elaborando, saggi forse, o forse abbozzi, intorno a cose relative allo sviluppo dell' Ottica (idee, esperienze, tempi e persone), sono piuttosto la cronaca di una mia faticosa esplorazione, del mio proprio graduale dirozzamento, o stenebramento, e periodico riordinamento di idee; e non potrebbe da ciò venir fuori nulla di più o di diverso da quello che io stesso non sia riuscito, non pur dico ad assimilare, ma a (( ruminare »; con tutto quanto di subiettivo e di relativo ciò importa, con le alterazioni (sperabilmente non adulterazioni) inevitabilmente implicite, e tutto quanto di contingente o di casuale proviene da condizioni e da circostanze interne od esterne. La circostanza che è stata occasione, se non ragione, del presente lavoro, venne da qualche impulso di stizza e quasi direi da una lievissima ombra di risentimento verso un uomo, d'altra parte a me simpatico, 1' Algarotti, per quel modo col quale, nella sua infatua- zione anglofila e newtoniana, egli si sbriga del Grimaldi quasi con atti di mal dissimulato fastidio; a un certo punto pressoché defrau- dandolo del suo maggior merito sulla diffrazione, pur da Newton tanto altamente riconosciuto da cominciare col nome del Grimaldi il libro terzo del suo trattato ('). Eppoi mi venne sinanco il sospetto che I'Algarotti non si fosse data la pena di leggere veramente il Grimaldi, sospetto venutomi su lieve indizio : che 1' Algarotti attribuisce al Grimaldi come suo proprio, un termine — dispersione — il quale — beninteso, nel senso antico diverso dall' attuale — non mi pareva tuttavia verosimile (^) Le mie citazioni da Newton si riferiranno sempre ad una edizione dell'Ottica stampata, lui vivente, nel 1722. — 4 — in lui: mi dava cioè il vago senso, e come un incerto ricordo, di dover essere estraneo al suo vocabolario. Cosa che poi ho visto essere vera, e non vera: vera, perché la parola usuale, tante mai vohe ripetuta dal Grimaldi per designare il concetto cui si allude è un'altra: dissipazione; che è poi quella che a sua volta ripete anche Newton là dove fugacemente menziona il Grimaldi per tale sua idea (sul fine della 4" esperienza, II proposizione, Lih. I, parte 1"): vera in sostanza, perché sulle circa 330.000 parole di cui consta la interminabile dissertazione del Grimaldi, tre sole volte, che io mi sia accorto, appare la parola (( dispersione », usata per caso o forse con sfumatura di significato che qui non importa cercare, e che costituisce perciò quella tale eccezione che non infirma la regola, anche se in senso propriamente assoluto non possa dirsi che il Grimaldi non l'abbia mai usata ( ). (^) Poiché I'Algarotti è, nel mio quadro, figura occasionale di cui non avrò motivo di occuparmi altrove, ne faccio qui rapido cenno, per la grande e pronta rinomanza procuratagli, insieme con la stima e l'amicizia di molti uomini illustri, da quel « Newtonianismo per le Dame, ovvero dialogo sopra la luce e i colori » che, scritto da lui verso l'età di 23 anni (era nato a Venezia nel 1712), rappresenta uno dei piiì fortunati esempì di leggiadra e intelligente divulgazione scientifica, e nel quale egli si era proposto fra l'altro di dare saggio di nuova prosa italiana, sciolta e viva, libera da gonfiezze classicheggianti e da « quegli intralciati periodi.... col verbo in fine, nemici dei polmoni e del buon senso ». Piaciuto al Voltaire e — anche troppo — a Madame du Chatelet che l'avrebbe voluto a lei dedicato (del che l'Autore la deluse dedicandolo invece al Fontanelle), tradotto in più lingue, e persino in portoghese ed in russo, può ben dirsi sia stato uno dei piti efficaci veicoli di difi"usione, presso il gran pubblico, del nome e dell'opera di Newton: per questo libro il nome dell'A. fu conosciuto e bene accetto al gran Federico, il quale dell'ALGAROTTi diverrà poi amico e protettore, volendolo accanto a sé nel giorno dell'incoronazione, creandolo conte, e designandolo tra i primi sei membri della Accademia di Berlino da lui riformata. Un altro newtoniano, anzi il primo propulsore del newtonianismo in Francia, e maestro in questo allo stesso Voltaire, il Mau- PERTUis — anch'egli un protetto di Federico, che poi lo volle presidente del- l'Accademia di Berlino — era stato tra i primi a dimostrare stima ed afi"etto all'Algarotti. Il quale, passato per diverse Corti ed alti Uffici, fortunato presso i potenti d'Europa come in ogni altro rapporto mondano, non però ebbe vita felice sino in fondo: malato di tisi, contratta — pare — nella consuetudine Furono appunto queste varie sensazioni mal definite, a farmi decidere di riprendere in mano il libro del Grimaldi, felice se per ventura avessi potuto riconoscere in qualche parte di esso una sia pur pallida e torpida larva di quella che sarebbe poi stata, pochi con un artista, si ritrasse nel 1762 in Pisa dove, dicendo spesso : « va bene morire, ma patire tanto.... », con serenità e forza d'animo attese la fine (1764): Fede- rico IL Grande dette ancora testimonianza della sua amicizia e del suo rim- pianto, facendogli erigere un monumento nel celebre Camposanto di quella città. Sull'opera complessiva, dispersa tra mille argomenti, per lo più di lette- ratura e d'arte, non importa qui dar giudizio : basti solo respingere netta- mente quello — meschino e fegatoso — che dell'Autore dette il Tommaseo: « un ingegnino di quelli che, ripetendo, non condensano le idee altrui, ma coagulano ». Potranno invece interessare due parole sul libro sopra menzionato, ed un fugace confronto tra la prima edizione e quella, rielaborata, che, col mutato titolo di « Dialoghi sopra VOttica Newtoniana », fu stavolta dedicata a Fede- rico (1752), dicendo l'Autore stesso di « aver corretto in età più matura quello che era stato il lavoro della sua prima giovinezza ». Riassumerei, al più possibile con sue parole, quello che mi sembra essere stato l'intento dell'ALGAROTTi, dicendo ch'egli prospetta l'ottica di Newton come il più bello e maturo frutto del metodo di Galileo; contrapponendo questo metodo al dommatismo di Descartes e dei cartesiani, i quali avevano finito per costituire una setta di seguaci non meno testardi e zelanti di quelli di Aristotele, e tanto più risibili quanto più dello stesso vizio si befi'avano in altri. Del resto vedo ch'egli ha compreso molto bene ed ha esposto con fedeltà e chiarezza i principi su cui si basa l'ottica cartesiana, ai quali finge d'otte- nere facile assenso dalla sua « Marchesa », per poi farla urtare in difficoltà accortamente scelte ed abilmente esposte; e — conducendola quasi per mano attraverso successivi cambiamenti d'opinione (con una sosta notevole sul- l'ottica del Malebranche) — farla aderire infine con entusiasmo e convin- zione alle conclusioni newtoniane, non senza però averla, nel frattempo, gra- datamente educata a diffidare degli speciosi « sistemi » ed a pregiare l'osser- vazione e la cauta esperienza, benché quelli lusinghino l'ambizione umana, e queste invece piuttosto la umilino. Nella edizione riveduta, il cui titolo non si rivolge più direttamente alle Dame, nonostante questo, o forse proprio per questo, l'Autore ha cancellato con cura certi tratti capaci non dico di offendere ma di solleticare l'orecchio d'una Signora: frasi d'una galanteria un po' spinta, o allusioni, qui al «monte di Venere», là a particolarità microscopiche del liquido seminale....; le digres- anni dopo, la splendida iridata farfalla della « separazione » newtoniana. Quale approdo abbia avuto tale speranza, è ciò che potrebbe vedere chi avesse la pazienza di accompagnarmi attraverso le pagine seguenti (^). sioni storiche e letterarie sono meno frequenti e più sobrie, e — ciò che più importa — certi punti deboh dell'ottica newtoniana vengono ora sorvolati, o che l'Autore cominciasse finalmente ad avere qualche perplessità critica o che li stimasse naeno adatti alla divulgazione, e meno opportuni. Le frasi cui ho alluso, circa il ternaine « dispersione » si trovano a p. 162-165, a p. 173 e altrove, dell'edizione Napoli 1737 del « N. per le Dame»; nia spe- cialmente a p. 99 della edizione dei « Dialoghi » in « Opere », T. I, Livorno, 1764, dove si dice che ad una supposizione del Grimaldi «fu da lui posto nome disper- sione della luce »: meno perdonabile mi sembra poi di aver parlato, sia pur sol- tanto per bocca della « Marchesa », « del Signor Newton e della sua diffrazione » (p. 228, citata ediz. Napoli), come se la diflfrazione fosse cosa di Newton. Quello infine ch'io non intendo, è come I'Algarotti, specie nella dedica a FoNTENELLE, datata da Parigi, gennaio 1736, parli di Newton con parole che converrebbero solo ad un vivente: egli era morto da più di 8 anni! (^) Nei prossimi richiami al libro del Grimaldi, i numeri romani indiche- ranno le « Proposizioni » e quelli arabi i loro paragrafi. Solo eccezionalmente e dopo esplicita avvertenza i numeri arabi verranno usati ad indicare le pagine. INTENTO, LIMITI E CARATTERE DELLA RICERCA L' intento è stato già dichiarato nelle ultime righe della premessa ; e mi si potrà subito osservare che il titolo dell' opuscolo non vi corrisponde. Non mi scuserò per questo: nel seicento si poteva adottare come titolo tutto un lungo periodo e dar così un'idea del contenuto: oggi il titolo vuol esser breve; e per di piìi — in un titolo — io non potevo usare, per esempio, la parola « dispersione », una delle piìi equivoche che esistano nella storia dell' ottica. Né d' altra parte la « dispersione », nello stretto senso attuale del termine, avrebbe potuto offrire il punto di vista più adatto nei riguardi dello scopo prefisso, ch'è appunto uno scopo di prospettiva: apprezzare nel modo piìi giusto, cioè con la minore deformazione possibile, la posizione e i rapporti che assumono le idee del Grimaldi rispetto ai massimi risultati di Newton per quanto concerne le relazioni fra luce e colori, e il modo di formarsi di questi ultimi. Perciò il men peggio m' è parso di indicare nel titolo quell'oggetto, di valore puraiuente strumentale, in cui ho creduto che meglio si compendiassero e più scopertamente si scorgessero le ragioni e il carattere della risposta cui stavo pervenendo. Il meccanismo della rifrazione e la via da cui si fan procedere certe sue conseguenze, mi son parsi i tratti grimaldiani più caratteristici, da dover essere — nella prospettiva che ho detto — guardati decisamente di fronte, sebbene poi non possa dirsi che altri oggetti non vengano visti pure di fronte, e veramente pochi solo di scorcio. Ma della diffrazione deliberatamente dovrò tacere, tutto quel che possa dirsene essendo stato già detto nel miglior modo: così resta fuori quadro il maggior titolo di gloria del Grimaldi. Pur uscente dai voluti confini è la questione deW interferenza (^). (1) Ma proprio perchè non potrò tornarvi nel corpo del lavoro, desidero qui fare qualche apprezzamento. Chi, per qualsiasi ragione, si sia trovato a sfogliare i vecchi trattati di Ottica, avrà rilevato come uno fra essi, quello — per il suo tempo eccellente — E tuttavia, nonostante queste esclusioni, 1' esplorazione del rima- nente farà si che F (( ottica grimaldiana » — nelle sue tendenze, nei suoi principi caratteristici e differenziali — vi si mostrerà tutta intera. del Mascart si distingua per la grande obiettività dei sia pur pochissimi e sobri richiami storici sparsi nei suoi tre volumi. Essi spiccano per un sicuro senso storico, cioè per la esatta percezione del momento in cui il pensiero fa una svolta e per la giusta designazione di quello, fra i tanti indagatori di un problenia, cui spetti veramente l'intuizione precorritrice, oppure l'osservazione decisiva: vedasi, per un esempio, la valutazione del merito di Galileo, e l'esat- tissima determinazione dell'atteggiamento di Descartes (così frequentemente frainteso) circa la questione della velocità della luce (pp. 39-40, voi. 3°). Mette conto perciò di sentire il parere di un giudice così competente e sereno sulla questione accennata. Dopo avere (p. 156, voi. 1*^) esattamente riassunto le scoperte di Grimaldi sulla diffrazione e i fenomeni connessi, prosegue: « Grimaldi credette anche di riconoscere sulla parte comune delle macchie « fornite da due fori vicini, degli effetti che sembravano indicare che la luce « aggiunta ad altra luce può produrre oscurità. Il testo del Grimaldi (e qui « Mascart riporta per intero il titolo della Prop. XXII del libro 1°) è ben « Venunciato d^un fenomeno d"" interferenza, ed a lui è stato attribuito spesso il « merito di questa scoperta ; ma le condizioni deW esperienza ch'egli descrive abha- . di fronte allo sconcertante enigma di un autore che elabora faticosamente 472 pagine per sostenere una tesi, eppoi se ne sbriga alla svelta in altre 63, ammettendo la quasi uguale sosteni- bilità della tesi contraria. Goethe parla di ciò più d' una volta, e la sua interpretazione è ferma e precisa. Benché un tal modo di procedere sia dav>èero ironico per un autore così serio e conseguente come il Grimaldi, è tuttavia certo e manifesto che si tratta di un accorgimento di scaltrezza, di un artificio, di un trucco, non forse per ingannare la Censura, ma per renderle possibile di chiudere un occhio: di tale bel modo — e il ravvicinamento goethiano può far sorridere — s' era giovato anni addietro Galileo nei dialoghi: così, delle due parti del libro, la prima è scritta perché cammini spedita sulle vie del mondo, la seconda ci sta solo come paravento perché la Censura non abbia a scanda- nosciuto ... razione che i raggi luminosi esercitano gli uni sugli altri », ossia sol- tanto per il contestato e contestabile esperimento deìV interferenza, mentre avrebbe potuto menzionarlo addirittura a proposito di ciò che dava il titolo al suo lavoro, tanto piìi che egli vi adottava appunto il termine grimaldiano, a preferenza di quello successivamente prescelto da Newton. (1) Del Goethe tengo presente la grande edizione di Weimar (1887-1912) «ve « Zur Farbenlehre » occupa i volumi 1-5^ della II Serie. Stampati tra il 1890 e il 1906, il 1° comprende la « parte didattica », il 2» la « parte pole- mica », il 3° ed il 40 formano la parte storica, il 5^ è dedicato alla « Cromatica », e il 5^ contiene i « paralipomeni ». Oltre il lungo capitolo appositamente dedicatogli nel voi. Ili, a p. 308 e seguenti, ricorrono ben diciotto menzioni dell'opera di Grimaldi soprattutto nel 40 volume, ma anche nel 2° e nel 5^. E poiché nella « Premessa » ho preso le mosse dall'ALGAROTTi, segnalerò anche, per un certo interesse di curiosità, il capitoletto che Goethe gli dedica a p. 140, e le altre parole a p. 470 del 4° volume. — 16 — lizzarsi. La seconda parte confuta in apparenza la prima; ma Goethe crede di vedere che la confutazione sia condotta in tal guisa da annullare sé stessa (e in questo c'è un po' di vero); e crede di trovar segni di ciò anche nel Proemio e nella chiusa del primo libro. La precauzione, egli dice, ha avuto felice esito perché il libro è potuto uscire senza mutilazioni. Io non concordo con la interpretazione del Goethe. Addurrò qualcuna delle mie ragioni, ma F ultima soltanto avrà forza risolutiva. Potrei dire che Grimaldi non era uomo da trucchi : 1' analisi del suo stile, il sia pur poco che si sa di lui, me ne convincono. Potrei dire, ancora e meglio, che la Censiira non avrebbe avuto motivo di adombrarsi del suo libro: lo avrebbe considerato di argo- mento tecnico, o — per esser più chiaro — 1' avrebbe «timato come un« bega fra dotti, da infischiarsene. Bene osserva il Gilson che 1' attaccare le tesi peripatetiche non era cosa \detata in sé stessa, se Gassendi aveva potuto scrivere in tutta calma contro gli aristotelici: dava ombra, e poteva diventare anche estremamente pericolosa se gli antiperipatetici si fossero presentati sotto un più radicale aspetto di riformatori, minaccioso per l' orga- nizzazione o per r autorità della Chiesa ; se avessero avuto eco in larghi strati di quella che oggi direbbesi la pubblica opinione, se avessero toccato questioni generali od affermazioni largamente credute, o avallate dalla Chiesa. Nel caso della luce e di Grimaldi, V Inquisitor generale di Bo- logna, cui spettava di emettere — come emise — l' Imprimatur, poteva pur badare a dormire tra due guanciali. Non dico, con questo, che il Grimaldi non avrebbe potuto avere qualche noja o contrarietà, ma puramente su piano accademico, come del resto su piano accademico s' erano per verità mantenute quelle di Galileo finché egli s' era ristretto ad argomenti come la caduta dei gravi o i pianeti medicei, comunque ben più appassionanti e popolari della... sostanzialità della luce. Ma poi non era forse il Grimaldi sotto il naturale usbergo della potentissima Compagnia cui apparteneva, nella quale lo spirito di corpo sarebbe scattato più alto e più forte di qualsiasi divergenza interna d'opinioni o di giudizi? Un censore pontificio che osi r affronto delle forbici sull' opera di un dotto Gesuita non riguar- — 17 — dante minimamente né V organizzazione né la politica della Chiesa, e cosi discreta anche nei riferimenti alle Scritture, un tal censore io non riesco neanche ad immaginarmelo. Credo che per ricusare V interpretazione di Goethe questi argo- menti sieno già abbastanza forti, ma prima di passare all' ultimo e conclusivo, poniamo un pajo di domande, anch' esse lontane dal pen- sie»:o di Goethe. Prima: non potrebbe darsi che il dibattito dottrinale, il contrap- porsi delle due tesi fosse soltanto destinato, per l'Autore, a suscitare occasioni e come a fornire il pretesto per esporre indagini dirette e presentare positivi sondaggi: che insomma le due tesi fossero qualcosa come la trama e 1' ordito fra i quali intrecciare i fili d' oro e d' argento dell' Esperienza e dell' Osservazione : così come in un palio, o in un paramento, il valore sta nel trapunto o persin nelle gemme incastratevi, cui però abbisogna una tela per necessario sostrato o sostegno ? Questa sarebbe l' interpretazione piìi simpatica, suffragata da alcune righe del frontespizio; ma purtroppo immediatamente smentita dal libro stesso ; nel quale appena varcato V arco trionfale della I Proposizione, dopo quelle prime undici pagine immortali, la mania disputativa prende talmente il sopravvento da rivelarsi fine a sé stessa, che anzi (adattando al caso una frase di Berenson) riesce sol- tanto a seppellire l' opera di scienza sotto mucchi di cianfrusaglie tali, che ci vorranno squadre di soccorso per rimetterla in luce. Seconda: non potrebbe darsi che veramente il «libro secondo» segnasse, rispetto al a libro primo », un atto di resipiscenza? Contro questa ipotesi non ha gran valore la considerazione che i due libri escono insieme. Sono ambedue postumi, e non sappiamo veramente a qual distanza di tempo possano essere stati redatti: fors' anche parecchia, sebbene io non pensi che il « De Lumine » sia (( r opera di tutta una vita » (^). (^) È improbabile che Grimaldi abbia potuto occuparsi della luce prima di essere stato assegnato dal suo Provinciale (e per questa benemerenza ho tenuto a ricordarne il nome qui dietro) a quello che, per intenderci, potremo chiamare il reparto del Padre Riccioli, di vent'anni piìi anziano, ed uomo, ai suoi tempi, di notevole rilievo, come lo prova l'ampiezza delle sue iniziative: quella, fortunata, della mappa lunare (in cui ebbe a coadiutore appunto il — 18 — Ma io respingo ugualmente questa ipotesi, per una radicale ragione, che è poi r ultima e conclusiva : che cliiunque faccia con la debita cura e con mano esperta del mestiere, la critica interna del primo libro, s' accorge che esso contiene già tutti i germi da cui dovrà svilupparsi il secondo: che la divisione in due successivi libri o parti non è che la vistosa coagulazione esteriore di un dualismo, di un dissidio e d' una contrapposizione, già intimamente operanti fin dal principio, e che di tutta V opera costituiscono il pungolo, insieme, e la remora. È bene raccogliere alcuni elementi chiarificatori, alla svelta, ma senza che c'incresca rifarci a remota antichità. Zenone d' Elea (V sec. a. C), dando forma tecnica ad un proce- dimento già usato a caso e senza regole, foggiò il metodo eristico o con- tenzioso: posto un quesito, e data come probabile una risposta — che si fa approvare da un supposto interlocutore — se ne deducono conse- guenze tali che si contraddicano tra loro e con la proposizione di par- tenza, conducendo ad una tesi opposta, in modo da far dire all'interlo- cutore prima si e poi no. Ben furono chiamati, quelli di Zenone, «giochi fatti sul serio»; e sarà ancora un pensiero che gioca con sé stesso, quello dei Sofisti, maestri di retorica (arte di persuadere), il cui metodo è V antilogia: opposizione di tesi possibili o ipotesi; giostra di ragioni contro ragioni. Ne deriverà poi, sotto altra forma e su altro piano, la diatriba dei Cinici. Socrate — instancabile disputatore — men lontano dai Sofisti che comunemente non si creda, apporta Tulteriore raffinamento d'una dissi- mulazione sorniona, ohe finge ignoranza per poter con piìi accortezza interrogare e meglio confondere l'avversario. Tanto Vantilogia dei Sofisti quanto l'esame socratico, sono varietà del metodo di confutazione. Residui e germi di consimili procedimenti sopravvivono e si sviluppano lungo il medioevo, e nella tecnica Sco- lastica. Abelardo — vir bellator — nel Sic et Non aduna intorno a ciascun quesito sentenze in contrasto, in modo che dopo una serie d'ar- Grimaldi) e quelle, meno fortunate, di rilevamenti geodetici. È sotto la dire- zione del Riccioli che dobbiamo immaginarci i primi passi scientifici del Gri- maldi. E sarei per azzardare la congettura che l'elaborazione del « De Lumine » possa aver preso al massim.o un 15 anni. — 19 — gomenti di valore affermativo, segue un Et coiitra con la serie opposta. Alessandro di Hales svilupperà tale metodo in un ordinamento tri- partito in cui trova posto una aspirazione alla sintesi. S. Tommaso doveva raccogliere l'eredità d'una forma espositiva ormai collaudata dalla tradizione universitaria, avendo d'altra parte avuto per suo conto parecchie occasioni di acuire le sue qualità di controversista ; e quel (( Respondeo dicendum quod » (sia o no proprio suo) è ben la formula d'un metodo polemico. Così possiam dire che un po' tutti — da Socrate a S. Tommaso — debbono qualcosa a Zenone; ma naturalmente anche le forme degene- rative dovevano svilupparsi, ed in certe epoche e ambienti prevalere. Le Epistolae obscurorurn virorum, da qualcuno attribuite a Jean Reu- CHLIN flagellano i monaci e la Scolastica per la loro mania delle con- troversie; e più tardi anche Descartes in piìi luoghi, per es. nella lettera all'Abate PicoT, da servire come prefazione ai Principi, biasima la cavillosità e l'ostinazione delle controversie della Scuola. Tutto questo — e l'atmosfera Scolastica in cui Grimaldi respirava — dev'esser tenuto presente a tutti i fini: per concedergli le poche attenuanti (e vedrem subito perché tanto poche) cui ha diritto; per meglio interpretare — tanto in via di analogia quanto in via di con- trapposto — i suoi procedimenti; per evitare errori di valutazione e qualche ingenuità: come quella, per esempio, di dar corpo o personalità fisica a tutta una coorte d'avversari, ed innnaginarsi un Grimaldi in quasi irata contesa con loro, anzi addirittura alle prese con un muc- chio d' imbecilli, come pur fu scritto, per certa tendenza a (( colorire », eh' è propria della letteratura divulgativa ( ^). (^) Per amor del « colore » si può anche fingere di non capire il latino (perchè quello di Grimaldi, sebbene piuttosto sciatto, è pur sempre latino); ma p. es. explodo non vale « esplodere », è solo « respingere », « mandar via » [histrionem... explodere, anche soltanto coi fischi, senza pomodori); e magna imbecillitasi tante volte ricorrente, è solo gran debolezza (dei sensi, degli argomenti) : a dir altro, in latino, converrebbe la parola stultitia. Tuttavia, che d'imbecilli a Bologna ce ne potesse essere un mucchietto anche allora, è probabile; nia anzitutto Grimaldi non bazzicava l'Università, eppoi se per una volta sola dice che un dotto gli ha fatto venir la bile in una certa discussione, io penso che quel dotto fosse tutt'altro che sciocco a non lasciarsi abbindolare da argomenti così speciosi e capziosi come quelli che — li vedremo — Grimaldi sapeva tirar fuori all'occorrenza. — 20 — Quali fossero le fonti e gli alimenti della sua formazione dottri- nale ottica, quali gli interlocutori ideali che agirono su di lui e cui egli potè reagire, risulta abbastanza chiaramente, benché quasi sempre sua malgrado. Al qual proposito va notato che non è proprio giusto in modo assoluto incolpare l'epoca e le sue consuetudini per le offese al dovere di riconoscere a ciascuno il suo: non tutti procedevano a quel modo, e già tempo addietro Descartes aveva dovuto difendersi dai rimproveri per non aver menzionato Galileo e per non aver menzionato Kepler dove sarebbe stato giusto ricordarli. A quel tempo faceva testo — e rimase a far testo anche oltre il principio del settecento — l'opera del (( turingopolonico » W itelo o ViTELLiONE; e Grimaldi dovette conoscerla in quella edizione di Ba- silea, 1572. ch'è la più diffusa in Italia e comprende anche il libro di Alhazen, detto Opticae thesaurus, dal quale l'opera di Vitellione mas- simamente deriva, o anzi ne costituisce il rifacimento, con qualche innesto da Euclide e da Tolomeo. Oggi più celebre del libro cui si riferisce — ma naturalmente di minor lama a quel tempo — è l'opera di Kepler, Ad Vitellionem Paralipomeua, etc. uscita a Francoforte nel 1604. Vedremo a loro luogo le tracce che se ne trovano in Grimaldi; ma una cosa che per prima avrebbe dovuto far sua, cioè la concretezza della trattazione, non è riuscito a prenderla. Nel memorabile anno 1611 (l'anno stesso in cui Kepler pubbli- cherà la (( Diottrica ») — da Napoli l'uno e da Venezia l'altro — ve- nivano diffusi fra gli studiosi due piccoli libri immortali. I quali danno l'occasione di riflettere quanto poco valga, ai fini dell'inquadramento di uno sfondo storico, la comparazione di certe date: il tale nasceva, o entrava a scuola, mentre quest'altro moriva... a che serve? La con- cezione, l'incubazione, la schiusa, eppoi la diffusione delle idee, sono quattro momenti che possono essere anche lungamente separati nel tempo, e di cui l'ultimo finisce per avere il maggior peso : io credo che la storia dell'Ottica ne fornisca più di ogni altra esempi frequenti e casi estremi (si ricordi quello di Sjvellius). Anche per autori eosì celebri come quel Maurolycus, (( messa- nensis », che i francesi chiamavano anche Marulle — l'interprete dei geometri greci, l'indagatore della secante, il difensor della patria (e perciò detto (( il secondo Archimede »), uno degli uomini più venerati e ammirati durante la vita — le opere ottiche finirono per essere vera- mente a portata di mano dei ricercatori solo con gran ritardo : nel caso — 21 — di Maurolico mercé un' edizione, postmna di più di 30 anni, divul- gatrice di pensieri formulati per la maggior parte da più di 60 anni, e taluni da circa 90. È un libretto denso, tutto intessuto di definizioni, postulati, teoremi, dal quale Grimaldi avrebbe ben potuto imparare la virtù del « dir breve ». Mentre a Napoli usciva questo libretto, da \ enezia veniva diffuso quello del grande de Dominis, colui che Newton chiamò famoso e cui rese nella sua « Ottica )) (Libro I, parte 2'\ prop. Q"*, problema IV) un omaggio più alto che a chiunque altro, ben intenzionalmente indu- giando a sottolineare che quel libro era stato composto u più di ventanni prima » della sua pubblicazione, avvenuta per cura d'un amico ('}. Antonio de Dominis, gesuita ribelle, ma per qualche tempo gesuita, che va alla posterità ( ) con 78 paginette, con quei suoi 18 capitoletti smilzi, svelti, dritti allo scopo, avrebbe pur potuto mo- strare al Grimaldi quali fossero gli spiriti e le forme preferibili in un' opera di scienza. Ma procede il tempo, e la coltura si rinnova : \ itellione è vecchio di secoli, ed ecco farsi avanti nel nostro quadro due insigni Gesuiti, che aspirano a succedergli nella gloria — mai facile, e spesso effimera — che compete al trattatista. Sono Francesco Aguilonius, ed Ata- nasio KiRCHER. Per una volta tanto andrò d'accordo col giudizio com- parativo di Goethe, che dice (( complicata e prolissa » l'opera del primo, (( chiara e spaziosa » quella del secondo. Gli Opticorum libri sex. di Aguilonius (talvolta chiamato anche Aquilonio) sono del 1613. Se da un giudizio comparativo si dovesse passare ad uno assoluto, vi sarebbe da rimanere perplessi; ma nessuno potrebbe negare d'aver provato un senso di sbalordimento davanti a tanta erudizione, e d'essere almeno per qualche momento rimasto preso o forse soggiogato dalla fluidità e talvolta magnificenza dello stile : in armonia con la dignità, o forse lusso, della veste tipografica. Troppo letterario- ad ogni modo: e sarà lui. Aguilonius, ad apprestare — senza che possa fargliesene colpa — qualcuno dei mulini a vento contro i quali combatterà il Grimaldl (^) De radiis Visus et Lucis — in Vitris perspcctivis et Iride — Tracta- tus — Marci Antoii de Dominis — per Joannem Bartolum — in lucem editus — Venetia 1611. (-) Le opere di gran mole, e di soggetto ecclesiastico, che tanti guai gh procurarono, anche dopo morto, sono oggi dimenticate. — 22 — Molto più vicina, nel tempo, a lui ed al presumibile periodo di incubazione del De Lumine^ è l'opera del Padre Kircher, finita nel 1645, pubblicata nel 1646 ('). So bene che il mio giudizio non troverà alcun consenso; ma il mio giudizio resta fermo ugualmente: quella del Kircher è una grande opera. Se si riesca a superare la repulsione che ci fa quella mania — del resto abbastanza innocente — di sfoggiare e, al bisogno, coniare parole strane ed ermetiche, come (( sciasofia )), (( eco- sofia )), (( attinobolismo », (( cosmometria » e tante altre del genere, che in veste latina han poi un aspetto ancor piìi burbero ; se' non ci si fermi all'aspetto esteriore di qualche capitolo leggiadramente screziato d'astro- logia, o d'un simbolismo un po' magico o un po' superstizioso, ma il cui contenuto è poi quasi sempre piìi concreto e piìi naturalistico di quel che il titolo non farebbe supporre; se si vincano — dicevo — queste ripugnanze, non si potrà infine non ammirare la vastità del disegno, l'immensa ricchezza e varietà dell'informazione. Quando si pensi che — nonostante la prevalenza di una parte scientifico-tecnica, riguar- dante i calcoli intorno agli orologi a sole, agli astrolabi, e simili — trova modo di trattare delle piìi disparate cose anche in via indiretta attinenti alla luce o al colore: dal valore diagnostico del colore del- l'orina ad ogni sorta di artifici scenici, dal comportamento del cama- leonte ai corpi fosforescenti, dalle ombre colorate a fenomeni che oggi si direbbero di fluorescenza, e via via.... fino al significato simbolico dei colori, bisogna pur riconoscere che ci si trova davanti ad una vera (( Summa » di tutto quanto generalmente veniva creduto e pensato a quel tempo intorno alla luce: una fonte storica inesauribile ed insosti- tuibile, densa tanto da far apparire poche le 935 pagine che la com- pongono. Che se a questo si aggiunge la simpatica premura — eccezio- nale a quel tempo — di segnare a nome coloro che l'Autore approva o di cui si è giovato in qualcosa d'importante, gli si potrà piìi volon- tieri perdonare il fatto di non essere forse abbastanza (( progressista » e forse un po' troppo attaccato ad idee e tradizioni che andavano decli- nando: e vedremo dopo se sotto quella certa velatura di magia e di astrologia, non avesse un pozzo di buon senso, al quale Grimaldi avrebbe potuto attingere senza riserva. Potrò aver torto; ma non metto in questo quadro il dottissimo (1) Atanasii Kircheri S. J. — in Romano Collegio Professori Ordinarij. Ars Magna lucis et umbrae, in decem libros digesta. Roma, 1646. — 23 — Marco Marci de Kronland, che pubblicava a Praga, nel 1648, la sua Thaumantias Iris, etc. : credo proprio che Grimaldi non lo conoscesse. Se è del 1637 la Diottrica, pubblicata, con le Meteore (pur com- prendenti parti ottiche), a seguito del Discorso del Metodo, fingendo che di tal metodo fossero i frutti; se del 1644 sono i Principi, pur fonda- mentali a tale oggetto; è però di tutta la vita (da quando nacque alla Filosofia) l'interesse di Descartes alFargomento già di per sé a lui carissimo della Luce, acuito da tante polemiche (cui ebbero, più o meno scopertamente, molta parte i Gesuiti), esalato in lettere e brani di lettere a tutta una folla di corrispondenti. In un'epoca in cui la di- scussione scientifica nasceva e si propagava per lettere, correnti l'Eu- ropa, più assai che attraverso i libri, e circa questioni in cui Descartes aveva avuto interesse ad impegnare i Gesuiti come corpo, più che come persone, necessariamente il Collegio di Bologna doveva esserne al cor- rente. Descartes tuttavia, nel particolare quadro che stiamo abboz- zando, non ha quelF importanza che avTebbe in un quadro più gene- rale, sebbene curiosissimo sia il modo di comportarsi di Grimaldi rispetto alla legge dei seni. Molto più importante, relativamente al nostro soggetto, è il Sieur De la Chambre, la grafia del cui nome si trova in molte varianti: con lui la rassegna delle dramatis personae volge al suo termine. Uomo di mondo, uomo di Corte — medico ordinario e Consi- gliere del Re. che poteva permettersi di dedicare i suoi libri a Luigi XIV e al Cardinal Mazarino — mordace oppositore di De- scartes; figura oggi poco nota eppur sempre molto notevole, cui il Fermat presentava quasi in omaggio il suo (( principio » con parole che, da parte di un uomo di tanto cavalleresca dirittura, mi ripu- gnerebbe pensare fossero di pura piaggeria e non contenessero anche un po' 1' espressione d' una deferenza veramente sentita. De la Chambre, fra l' altro, si ergeva contro l' uso del latino nella prosa scientifica, ed un suo contemporaneo disse essere stato egli il francese che meglio abbia scritto, in Francese, di cose scientifiche: e tra le opere che più meritano tale elogio sono certo le due che e' inte- ressano, le Nouvelles ohservations et conjectures sur V Iris, del 1650, e il Traité de la Lumière, del 1657; opere che non conviene separare, essendo tra loro molto omogenee per stile e contenuto, e perché verso di esse il Grimaldi assume lo stesso genere di rapporti: considereremo i due volumi come formanti un' opera sola. — 24 — Si ricordi che abbiam detto in principio di voler limitare i con- fronti col De Lumine solo ai libri degni di rimanere nella storia dell' Ottica, il che equivale ad escludere consapevolmente le varie Filosofie della Luce ed altri simili frutti degli ozi ecclesiastici del tempo: nella schiera, così assottigliata, dei libri tenuti degni di consi- derazione, r opera di De la Chambre spicca vistosamente, rispetto al De Lumine, come quella che inducendo nell'idea di una falsa somi- glianza, può più veramente esser tenuta come (( segno di contraddi- zione » : appariscenti analogie esteriori coprono il più intimo e sostanziale contrasto, in ogni particolare grande o piccolo che si voglia considerare. L'atteggiamento eccessivamente raziocinante, quel qualcosa di cau- sidico e di cavilloso che a prima vista sembrerebbe apparentare i due autori, è quello invece che più li separa : si veda in De la Chambre l'uso scaltrissimo del « principio di contraddizione )), la maestrìa tecnica, le predisposte vie e la piena consapevolezza del dove vuole arrivare; a contrasto con V incertezza, con l' intima esitazione, con quell' andare a tentoni, che è bensì più onesto per il ricercatore, ma deleterio al dialettico, che è nel Grimaldl Notevolissima l' attitudine del De la Chambre a esporre idee diverse ed anche opposte alle sue, mettendo nel maggior risalto possibile le ragioni e gli argomenti che possano appoggiarle, al punto che il lettore frettoloso il quale non legga proprio tutto, può prendere abbaglio — come certamente l'ha preso Goethe — e pensare che idee esposte con tanta efficacia non possano esser- altro che quelle stesse dell'autore (e invece son forse di un avversario): questo di De la Chambre è un po' come lo spirito critico, facile, mobile, pene- trante, di cui parla Sainte Beuve, che serpeggia intorno ad opere e idee come un fiume grande e limpido serpeggia intorno a rupi, rocche, e basse rive: e mentre ogni cosa resta fissa a suo luogo poco curandosi r una dell' altra, il fiume va dall' una all' altra, le cinge, le lambisce con acqua viva, le specchia: e quando il viaggiatore è vago di cono- scerle, lo accoglie come in una barca, lo conduce senza scosse, e svolge innanzi a lui la mutevole scena. È piacevole seguire De la Chambre, signore del fluido eloquio, attraverso le teorie del suo tempo: è più comodo e più istruttivo che mai, impararle da lui. Nel De Lumine la disparata e spesso contrastante molteplicità Cesalpinia Tav. XV N O V VELLES OBSERVATIONS ET CONIECTVRES S V R Parie S' DE LACHAMBRE, Confaller du Roj mfes Confals ^fon Mcdecm Gràmole, ^ Ajn^ ^^^-^v/ A P A R I S, Chcz Pierre Rocolet, Imprimcur du Ro)r, au Paiais , cn la gallerie des Prilòiiniers , aux armcsdela Ville. M. D cTx X X X X^ AVEC PKIVILEGE DF ROY, IL FRONTESPIZIO DI UN ESEMPLARE DELL'IRIS DI DE LA CHAMBRE POSSEDUTO DAL COLLEGIO DEI GESUITI DI BOLOGNA. Cesalpinia Tav. XVI RAPPRESENTAZIONE, NELLA LUMIÈRE DI DE LA CHAMBRE, DI UN FRONTE DI LUCE DETERMINATO DALL'INVILUPPO DI UN NUMERO INFINITO DI SFERE LUMINOSE ELEMENTARL — 25 — delle idee esposte può costituire un altro motivo di somiglianza appa- rente; ma il risultato è l'opposto: De la Chambre conclude sempre, e una volta per sempre accetta o rifiuta; in Grimaldi se ci si imbatta a metà libro in una conclusione tanto chiara e soddisfacente da sem- brare definitiva, si deve restar sempre con la paura che cento pagine più giìi ci rimetta le mani, eoli' esito quasi infallibile di guastarla, intorbidando ciò che prima era parso chiaro, tornando a mettere in forse ciò che pareva deciso. Certe caratteristiche del metodo espositivo, eerte tendenze — come quella di sdoppiare i concetti e i significati delle parole — sono in FiG. 1. - Riproduzione, lievemente ingrandita, di una figura, dalla p. 354 del De Lumine, per mostrare la deviazione subita dai raggi per opera di una superficie rugosa. Lo schema può dirsi soddisfacente per spiegare la genesi della luce diffusa, non quella dell'iridescenza. Grimaldi nient' altro che F esagerazione caricaturale, la manifesta- zione in grado patologico di inclinazioni eh' egli ha contratto dal De LA Chambre. Egli subisce da parte di quel francese una specie di attrattiva ; ma non V ama, tutt' altro. Lo saccheggia addirittura ; eppure si può anche dire che non lo saccheggi abbastanza. Le prove di quello che dico si vedranno via via; ma è bene darne qualche esempio fin d' ora. Una delle pochissime volte in cui il Grimaldi — generalmente un po' distaccato e impersonale nel suo modo di esporre — si lascia andare ad una lieve espansione, è quando narra 1' esperimento della colorazione cerulea e rossa eh' egli crede ottenuta (( per sola rifles- — 26 — sione » di luce bianca su superfici d' argento o d'altro fulgido metallo^ minutamente graffiate: dice che l'esperimento l'ha sempre fatto con giocondità sua e degli astanti, e invita a ripeterlo (XXIX). Questo insolito calore comunicativo non sembrerebbe forse attestare che l'esperimento è tutto suo, e ch'egli lo considera con affetto paterno? Grimaldi l'ha variato in molti modi; ma l'ha trovato enunciato a p. 101, e poi discusso a p. 124 e altrove, nell' Iris di De la Chambre. Altrettanto dicasi per le osservazioni sul filo di ragno, che egli ha trovato annunciate alla p. 108 dello stesso libro, dove poi (pp. 119 e 120) seguono tali sviluppi d' idee da dover deplorare veramente che Grimaldi non ne abbia raccolte le suggestioni, e che in questo caso abbia saputo portar via troppo poco. Spesso citate son pure le osservazioni del Grimaldi sui colori, generati allo stesso modo, cioè per diffrazione ed interferenza, e eh' egli credeva di pura riflessione, sulle superfici rugose (XXIX): De la Chambre parla in piìi luoghi di certi vasi di stagno le cui pareti appajono iridescenti e a p. 125, Iris, riconosce che ciò è dovuto alla rugosità della superficie, e ne discute. Riproduco alla Tav. XV il frontespizio dell' esemplare dell' Iris di De la Chambre oggi appartenente alla Biblioteca Universitaria di Bologna, e che porta, tracciata a mano, la chiarissima indicazione di aver appartenuto al Collegio dei Gesuiti di Bologna: non mi passa per la mente che possa essere proprio questo l' esemplare che il Grimaldi ha avuto fra mano : ripeterò solo che queste figure (( mi hanno spesso arrecato nel lavoro un senso di freschezza, cui spero partecipi il lettore » (E. Mach). Che il Grimaldi conosca i due libri molto bene, ci son prove infinite ; ma 1' autore non lo nominerà mai, benché si capisca che quando nel Proemio se la piglia con quelli che trattano la luce con iperboli ammirative e laudative esagerazioni, la freccia è anzitutto per lui: ed è bene accoccata. In un certo luogo De la Chambre fa un discorso che somiglia tutto a quello che il Manzoni mette in bocca a Don Ferrante (P. s., cap. XXXVII): (( In rerum natura, non ci sono che due generi di cose: sostanze e accidenti... le sostanze sono o spirituali o materiali, ecc. »: ora De la Chambre {Lum., art. 8, cap. 3"') con argomenti che per la sua buona reputazione preferisco tacere, giunge a quahficare nien- temeno che (( sacrilega » F affermazione che la luce sia un corpo. Un sacrilegio che il buon Grimaldi era molto dolente di non essere ancora riuscito a consumare per intero. E ora davvero ne abbiamo abbastanza dello sfondo storico, dello scenario e dei personaggi di contorno: torniamo al protagonista, per riesaminarne qualche atteggiamento, cogliere qualche altra caratteri- stica della sua opera, e chiederci qual parte, del contenuto e della forma del suo libro, debba farsi a lui propriamente, e quale ai con- temporanei ed alla tradizione. S' è visto che fa parte della tecnica di quei metodi, dei quali abbiamo accennato la lunga evoluzione, fingersi degli interlocutori: con la sola differenza che, per esempio, quelli dei dialoghi di Pla- tone — anche quando egli li chiama col nome di persone reali — sono in gran parte finti e fabbricati su misura ai suoi scopi, cioè per aver ragione lui o per darla a Socrate; invece quegli innominati dai quali Grimaldi si fa dir tante cose [dices... dices...). troppo spesso egli se li fabbrica per aver torto. Il fatto è che tali esercitazioni dialettiche presuppongono la esatta determinazione del tema che si esamina, delle ipotesi da cui parte V induzione : richiedono una esatta distinzione dei termini, la rigorosa definizione delle parole, il loro uso appropriato : e invece in certi argomenti concreti definizioni rigorose e delimitazioni esatte sono talvolta irraggiungibili o — caso mai — si troverebbero al punto d' arrivo della ricerca, la quale non a\Tebbe neanche ragion d' essere se si trovassero al punto di partenza ; e quando poi manchi anche la antiveggente scaltrezza di chi muove la discussione, allora quello che doveva essere espediente dialettico volto ad uno scopo, vien meno con lo scopo stesso; e può anzi accadere che il disputante si trovi lui stesso irretito nei suoi propri discorsi. E quello che talvolta succede al Grimaldi. Applicando con zelo ciò che S. Tommaso (tanto piìi sincero, in questo, di Descartes) aveva insegnato — che per inve- stigar bene la verità bisogna anzitutto saper ben dubitare, cioè toccare bene le cose che son dubitabili — egli finisce per toccare ogni cosa e rigirarsela tra mano con inguaribile dubbio: se quella dei Sofisti era stata r arte di persuadere, la sua è Y arte di restar poco persuaso lui stesso di molte tra le varie cose che dice. Che la incessante battaglia di parole sia il più delle volte contro sé stesso, e nel dialogo con sé stesso possano pensarsi sue le afferma- zioni ed altrettanto sue le obiezioni — obiezioni infinite, a catena, tali e tante che a seguirle ci si dimentica (oppure non si è mai saputo) — 28 — qiial fosse T assunto da sostenere — costituisce, fra F altro, il solo mezzo che ci resti per dare una decente spiegazione del suo scarso concludere, che avrebbe dovuto essere piìi fermo e frequente se la disputa fosse stata unicamente con avversari determinati e tangibili del mondo esteriore. Mi sembra d' aver già delineato con sufficiente precisione ed am- piezza i contorni del mondo intellettuale entro cui potevano avvenire i suoi scambi e i suoi attriti; e pur senza propormene ricerca mi- nuta — che sarebbe fatica sproporzionata al risultato e scivolerebbe nella quisquilia erudita — non mancherò d' identificare, ove si possa, le persone o piuttosto le idee eh' egli avesse preso di mira in certi tratti; ma son convinto che nessun avversario avrebbe mai potuto trovar pivi ostinato e pivi cavilloso di sé, contro sé stesso: epperò a questa vittima rassegnata della perplessità — fra tesi e antitesi mai veramente raggivmgente il sviperamento in una sintesi — a me par giusto dar merito di quel che di buono possa trovarsi tanto dalF un dei lati quanto dall' altro, specie se le presunte obiezioni si vedan discendere da fatti che egli stesso abbia direttamente osservati: ed è quel che farò, p. es., quando cercherò di attribuirgli una intenzione precorritrice circa vin determinato capitolo dell' ottica moderna. E bisogna riconoscere che nella gran battaglia di parole s' innesta vm immenso corredo di cose: fatti risaputi e sue osservazioni, testi- monianze raccolte e suoi esperimenti: se lo si applichi a questo lato della svia attività, F elogio di Goethe diventa pienamente meritato : molto esperto nel suo campo, pieno di sapere, acuto, diligente, esatto, instancabile... E tuttavia, questa gran copia di cose fa una vera ric- chezza o non è al contrario il segno di una qualche povertà? Perché si rifletta che questo non è un trattato, come quello di Kircher; qui lo scopo è dimostrare o confutare delle proposizioni: e allora qviella profusione di esempi, modelli, o paradigmi (anche quando non sieno in contrasto o non si esclvidano a vicenda), che altro dice se non che nessuno di essi è veramente decisivo e dimostrativo? Tutto qviesto mi sembra avere il carattere di un gran processo indiziario, in cvii il massimo che possa sperarsi è di raggiungere una specie di certezza morale, mediante un cumulo di prove che traggan forza dalF insieme, essendo però ognvma di esse debole e manchevole. Nel cvunulo di queste prove è notevole F alta proporzione di quelle procurate con F esperimento. Non troveremo in Grimaldi il -- 29 — ritornello abituale di Newton sotto i titoli delle sue proposizioni: (( prova fondata sulle esperienze » ; ma tale fondamento alle prove è pur qui il ben venuto : un certo spirito galileiano eh' era nell' aria fa violenza e penetra fra le giunture della corazza scolastica. Ed è giusto riconoscere che il Grimaldi ricorre raramente e malvolentieri all'Autorità, alle cause finali; il suo è un atteggiamento deterministico fortemente accentuato: ciò che segna il cannnino alla luce non est causa libera et agens cum intelligentia (p. 149); e si legga a p. 171 questa tirata quasi positivistica : « la ragione della rifrazione deve (( esser cercata in qualche cosa di relativo alla superficie [di separa- (( zione] e alla densità dei due mezzi ... e ... deve essere qualcosa di (( diverso da una mera metafisica astrazione ... deve esser qualcosa (( concernente il sito e la figura ... e inoltre deve aver connessione con (( la densità e con la rarità, e perciò dev' essere allo stesso titolo (( qualcosa di genere quantitativo dipendente dall' eccesso di densità (( dell' un mezzo sull' altro. Non possiamo dunque su questo argo- (( mento dar rifugio a qualcosa di occulto e a puramente intelligibili (( condizioni della luce, ma invece dobbiamo basarci su quelle cose (( che palesemente vediamo intervenire per sé stesse nella determina- (( zione di effetti molto sensibili quali sono appunto la luce e la densità (( maggiore nelF uno e minore nell' altro dei diafani mezzi ». Dove tuttavia ben si vede che gli spunti d' ispirazione cartesiana prevalgono sullo spirito galilejano. A proposito di questi soggetti d' osservazione e sperimentali, una gradita sorpresa sta nel constatare la diffusione, in questo libro, di parole che molti credono moderne. La antica parola a dissipazione » sulla quale abbiamo sostato nella (( Premessa » era già in De la Chambre e in altri; ma nel De Lumine troviamo per decine di volte la parola (( radiazione » usata in circostanze che le conferiscono un senso vicinissimo al nostro ; (( flusso » è nel De Lumine quello appunto che sarà poi il (( flusso d' energia » e simili ; e riguardo a cose più minute e più tecniche, troviamo p. es. i (( pennelli » di luce {penicilli radiorum, XL, 52), i colori a saturi » (XLIII, 16), etc. Ma, con tutto questo, nonostante questo, il carattere saliente del De Lumine resta l'accentuazione delle disquisizioni astratte, extrafisiche, o per dirla nel senso più volgare e corrente della parola, metafisiche: questa che appariva come una specie di appannatura in Alhazen e in ViTELLiONE, come una rosea caligine in Aguilonius, diventa — e — 30 - come anacronisticamente — spessa cortina fumogena in Grimaldi: e a seguito di questo fondamentale, con esso strettamente connesso, è il carattere contenzioso, V antilogia fra tesi ed antitesi ; e, ancora dietro a questo — altrettanto peculiare, e oggi per noi altrettanto sgradevole — il carattere troppo spesso negativo: davanti ad un fenomeno, nella ricerca delle probabili cause, il procedimento per esclusione prende dimensioni soverchianti: non è la riflessione, non è la rifrazione, non è il cambiamento del mezzo, non è la diversa densità, non è questo, non è codesto, non è quello ... finché a volte finisce per essere niente di niente. Ed altro ancora: non si può dire davvero che in questo libro ci sia il culto dell'Uno: troppo spesso c'è da combattere con la dualità e con 1* alternativa. Diafaneità ce ne sono due, e lo vedremo tra poco in dettaglio; ma anche il concetto di densità è bifronte (XX, e altrove) cioè vi son due modi di definirla e di pensarla, sicché fra due corpi, A e B, potrà darsi che A sia pivi denso di B finché la densità si pensi e si definisca ad un modo, ma che diventi meno denso se invece si pensi e si definisca in quell' altro. A un dato punto (XXIX, 4) anche la rifrazione diventa doppia, non nel senso di (( doppia rifrazione » ma nel senso che oltre ad una rifrazione intesa come la intendono tutti, ce n' è un' altra da intendersi in altro modo, sulla base di una differenza che chi la capisce è bravo: poiché si può star certi che i concetti dicotomizzati dall' autore si frammente- ranno ulteriormente nelle teste dei lettori; mai come in questi casi essendo tanto legittima l'aspettativa che si verifichi il detto di Gorgia: che le parole non avendo lo stesso significato per clii le ascolta e per chi le dice, finiscono per sdoppiare le cose: qui subiranno gli sdoppiamenti degli sdoppiamenti, e sarà un bel caso se non usciranno polverizzate. L'estenuante altalena fra gli opposti; quel silo continuo tornar da capo a ripeter le stesse cose con diverse ma sempre troppe parole, che nel suo pio desiderio sarà per chiarire, e riesce invece soltanto a stancare e confondere ; la mancanza di misura, d' equilibrio e d'ordinamento; non possono non imporre l'urtante confronto con quelle eh' erano state virtìi personali dei due grandi ottici italiani, Maurolico e de Dominis, e che si sarebbe avuto il diritto di credere conquiste universali ed irrevocabili dopo Descartes: la precisa sem- plicità, la tersa chiarezza, la serrata concatenazione del discorso, e la — 31 — incisiva fermezza delle conclusioni: che tali appunto erano i caratteri della prosa di Descartes anche quando diceva spropositi. Se qualcuno ricorda F elogio fatto all' opera massima di S. Tom- maso: ((Stylus brevis; grata facundia; celsa, darà, firma sententia )) ; ripeta tutto al contrario, e — quanto alla forma — avrà caratterizzato il De Lumine. IL VANO ENIGMA Sostanza o accidente? That is the question. Questione di lana caprina, se mai ve ne furono. E, a sbrigarmene, potrei domandare se non era già stata ridicolizzata abbastanza, anni prima, da quell' Ismael Bouillau o Bouillaud (o Bullialdus) che aveva sentenziato esser la luce (( media proporzionale tra sostanza e accidente» (1637); potrei osservare che questa e molte altre consimili discussioni si dovrebbero fondare soltanto sopra definizioni rigorose poiché — come già aveva avvertito Andrea Cesalpino — basta un leggero cambiamento di parole nella definizione per passare da una cosa air altra {animalis definitio in aniinae definitionem transit, diceva Cesalpino, per un esempio), mentre la luce non è stata mai in nessun tempo troppo comoda da definire, se per il famoso vescovo di Lincoln, poi dottore di Oxford, Roberto Grossatesta, era corpus spirituale, sive niavis dicere spiritus corporalis, e se Grimaldi una definizione neppur la tenta, non potendosi minimamente scambiare per definizioni delle frasi imbastite su ipotesi incontrollabili, se è vero ciò che aveva detto lo stesso Cesalpino, che ogni definizione è già una specie di dimostrazione; potrei infine — e anche con più ragione — dire che tale discussione avrebbe potuto appunto essere a posto nelle Questionum Peripateticarwn del Cesalpino (1571), da mettersi vicino a quella se il calore inerisce al sangue o come vi inerisce, per neces- sità o per accidente; ma che 80 anni non corrono invano e ormai questa era roba sorpassata, svuotata di interesse o, come dicono oggi con parola da elettricista, (( sfasata ». Ma tutto ciò, benché giusto, significherebbe sfuggire la discussione; ed io invece voglio affrontarla, brevemente ma con la massima esattezza, e — conformemente a quello spirito già enunciato sul principio — tenendo nella massima considerazione quella atmosfera peripatetico- tomistica che respirava Grimaldi, e dentro le cui forme generali neces- sariamente doveva muoversi anche quando a qualche particolare appli- cazione eventualmente si ribellasse: e, proprio per questo, mi riferirò principalmente a S. Tommaso, e solo secondariamente a Descartes, — as- cile del resto in questo non si discosta molto dalla tradizione scolastica. La generale ignoranza dei commentatori del Grimaldi in tale ordine di cose costituisce una ragione di più per procedere — pur nella voluta concisione — adagio e dal principio. Accidente è ciò che per la sua esistenza dipende da altra cosa, che è il suo soggetto. Il suo essere è un <( essere in »; vale a dire che la sua realtà può concretarsi soltanto nel soggetto; o — in altre parole — è un qualcosa che appartiene ad altra cosa, all' ens per se. o sostanza. Perciò la sostanza è anteriore all'accidente: anteriore non nel senso temporale, ma in senso dialettico; nel senso di prior. Il concetto esatto e caratteristico di accidente è dunque dato dalla imperfezione del suo sussistere, dal non poter sussistere se non appog- giato ad altra cosa: propria diffinitio accidentis non est esse in subjecto, sed est esse rem cui debetur esse in subjecto. La sostanza è, invece, ens subsistens, seu per se exsistens. cioè (( cosa esistente in tal modo da non aver bisogno che di sé medesima per esistere ». Qualche speciale sfumatura può trovarsi in Avicenna, per il quale il soggetto, esistente per sé stesso, riceve gli accidenti, incapaci di esistere (( per sé » : il soggetto è la cosa posta, per opposizione a quella aggiunta e che esso porta. L' idea di (( soggetto » è, in Avicenna, espressa con parola che — secondo i preziosi insegnamenti del GoiCHON — è collegata al concetto di (( quello che porta ». E appunto r idea globale di (( portare » e d' (( esser portato » è quella che meglio spiega il più semplice aspetto del rapporto tra sostanza e accidente. Ora è bensì vero che. astrattamente, il filosofo mette la (( sostanza », ens per se, come in contrapposto agli (( accidenti », entis ab alio: ma lo fa dopo aver ben chiaramente detto che nessun accidente può sussi- stere senza una sostanza, della quale sia 1' atto. Il filosofo separa ideal- mente ciò che la realtà ha congiunto: separa idealmente l'accidente, ma solo dopo aver detto che subjectum est causa proprii accidentis, e che subjectum est causa propria accidentis. Siamo dunque noi, soltanto noi, con una operazione del nostro intelletto, con l' operazione di astrarre (abstrahere intellectu) che possiamo pensare staccato un accidente che in realtà non si regge senza UT» supporto, che non può sussistere indipendentemente dalla sostanza cui si riferisce: e ancora qui un suggerimento profondo ed arguto viene dalla filologia: la parola usata da Avicenna per rappresentare — 34 — r astrazione, sempre secondo gli insegnamenti del Goichon, deriva da ciò che fanno le locuste quando lasciano desolata la terra ove s' ab- battono, spogliando, denudando d' ogni verzura. E se mai vi sia un caso in cui occorra tendere con tutte le forze a ricomporre in unità ciò che il pensiero ha separato, quel caso sarà il nostro: e farà vera- mente opera di sterilità, opera da locusta, chi al contrario accentui la opposizione che viene dalla astrazione; la quale — anche per la scolastica occidentale ( ^) — è smembramento, separazione in parti di qualcosa che naturalmente starebbe unito in un tutto organico. Che se è vero che non può esistere nessun accidente che non sia accidente d' una sostanza, è però altrettanto vero — in buona e ortodossa scola- stica — che nessuna sostanza è conoscibile se non per mezzo dei suoi accidenti, anche se si ammetta che ne rimanga sempre un residuo inconoscibile e inafferrabile. Ma specialmente quelli tra i pensatori che — come Suarez — tendono verso la identificazione della essenza con r esistenza, convengono che quanti piìi accidenti si conoscono d' una sostanza, tanto più la sostanza stessa è conosciuta. Che la sostanza possa (( in confuso » essere conosciuta prima degli accidenti, fu ammesso da qualche scolastico; ma Suarez conclude che per quanto si possa capire che la sostanza non debba essere esclusa dal primo concepimento dell' intelletto, è però (( assolutamente vera » V opinione di quelli che considerano gli accidenti come via naturale alla cono- scenza della sostanza. Questa è la posizione definitiva : /' accidente non può esistere senza il supporto di una sostanza, ma la sostanza è conoscibile solo attraverso i suoi accidenti. Difatti, tutti coloro che han pensato la luce come accidente — da Aristotele a Fresnel — non si son mai sognati di separarla da una sostanza che le facesse da supporto. Tipica, esauriente, esemplare per chiarezza è, al riguardo, la posizione di Descartes. Non intendo entrare a discutere la fisica della sua interpretazione: voglio solo collocare ciascuno degli elementi essenziali che la costituiscono al posto che gli compete nei riguardi della questione discussa. Non è forse del tutto una digressione pre- (^) Per un certo gruppo di pensatori islamici si è parlato di una « scolastica orientale ». — 35 — mettere che tende ad aumentare di vigore la corrente di studiosi che vede in Descartes piuttosto il coronamento del pensiero medioevale ehe non F inaugurazione del pensiero moderno. Anche la luce in Descartes serba fortemente alcuni caratteri tradizionali, e basterebbe la istantaneità della sua trasmissione per farne qualcosa di assai poco moderno. Ma la sua concezione dei fenomeni di colore è nuova e geniale: essi sono dati da moti di rotazione delle particelle costituenti il « se- condo elemento », che sono immaginate come piccole palle capaci di rotolare; e a seconda che la rotazione sia più o meno celere, specie in rapporto alla velocità di un possibile moto di simultanea traslazione, sorge questo o quel colore. Il colore è perciò una data forma di moto. E il moto è, naturalmente, accidente {Principia, I, 53, 56, 57, 59, 61, 62, 65; II, 27, etc), perciò in Descartes, il colore è accidente. La condizione della luce, in Descartes, non è, fisicamente, altret- tanto facile: essa non è veramente un moto, è come una pressione, una spinta: ma siccome qui non è la questione fisica che ci interessa, bensì solo quella filosofica, noi compendieremo in una parola sola, ch'è poi quella stessa che usa Descartes : « azione ». La luce è perciò una azione. Ora, la azione solo in Dio potrebbe essere predicato essenziale coincidente con la sostanza, in tutti gli altri casi è accidente. Perciò, in Descartes, la luce è accidente. Ma qui sorge, o può sorgere, un aspetto particolarmente inte- ressante della questione: le espressioni di Descartes, pur essendo particolarmente sobrie ed aliene da analisi astratte, sembrano tuttavia suggerire F idea — perfettamente ammissibile ed ammessa — d' una gerarchia tra gli accidenti; e nel modo come essi si innestano (o meglio nel modo come noi possiamo pensarli innestati) sul loro soggetto, v' è luogo per una particolare possibilità, che ora vedremo. Il fatto che un accidente possa trovare il suo sostegno in una data sostanza noi lo esprimeremo d' ora innanzi dicendo che tale accidente è (( suhjectahile » in quella sostanza : non proveremo a tradurre questa parola perché da un travestimento italiano ne verrebbe maggiore offesa alla lingua e alF orecchio di quella che viene dal- l' usarla com* è. Ora, la scolastica è stata condotta ad annnettere che a far da soggetto possa prestarsi anche un accidente il quale imme- — 36 — diatamente può servir da supporto ad altre modalità accidentali: va da sé che poi quelF accidente che fa da soggetto al secondo accidente dovrà a sua volta appoggiarsi ad una sostanza, la quale finalmente — mi ?i passi l'espressione — sosterrà il peso di ambedue. Accidens potest t'sse subjectiim accidentis, sed per substantiam. Vale a dire che se gli accidenti — come nel nostro caso — sono due, la sostanza in definitiva li sostiene ambedue, ma uno dei due quasi in modo mediato, più direttamente appoggiandosi esso all' accidente principale. In questo caso si può prospettare che il colore — quando e' è — sia un accidente intervenuto in aggiunta e come a dire a complica- zione deir altro accidente, dialetticamente antecedente : la luce. Perciò la concezione ottica di Descartes si risolve in un accidente suir accidente ( V accidente colore suU' accidente luce), ambedue soste- nuti da una sostanza che nella parte IV dei Principia è definitiva- mente chiamata il « secondo elemento », ed in scritti precedenti era stata chiamata (( materia sottile », ed alla quale si attribuisce in ogni caso una struttura granulare. Non è forse fuori luogo aggiungere che la sostanza che fa da supporto alla luce-accidente non è pensata come esclusivamente ed appositamente destinata a sostenere la luce: è pensata suscettibile di anche altri accidenti e di altre funzioni; può essere caratterizzata da molti attributi che in nessun modo si potrebbero dire appartenenti alla luce stessa. Non importa nulla se nella loro epoca queste parole, a accidente » e a sostanza ». non fossero piìi di moda : nelle teorie ondulatorie — diciamo, per concretare, da Huygens a Fresnel — la luce è ancora accidente, e la sostanza destinata a sostenerlo è l' etere. Ora si ri- pensi — di volo — di quali e quanti (e quanto assurdi) attributi si fiuì per caricare via via questo «etere» (o per meglio dire qualcuno tra i suoi vari modelli), e si riuscirà forse a capire meglio quali sieno le differenze e i rapporti tra sostanza e accidente in un caso tipico di applicazione fisica. Capire a fondo qual sia al riguardo la posizione vera di Grimaldi è difficile; e vi concorrono tanti e contrastanti elementi. Ma bisogna anzitutto dissipare un possibile malinteso: in una delle pagine precedenti — mi si potrebbe dire — avete avuto l'aria di rimproverare al Grimaldi d' aver posto quel tal dilemma, avete parlato di a lana caprina » ; eppoi quando s' è trattato di Descartes, — 37 — avete trovato legittimo, e convenientemente risolto, lo stesso problema... È giustizia, questa? Mi è facile rispondere che in Descartes il problema era risolto in anticipo, o anzi meglio che non si può neanche parlare di un problema che non e' è. Mi spiego: quella di Descartes è una costruzione tutta ipo- tetica, i cui elementi vengono posti: la sua ottica è dogmatica, come del resto la sua filosofia. Per questo, e soltanto pef questo, è conosciuto in anticipo il gioco delle parti; e allora si fa presto a dire: questa è la sostanza, quest' altro è F accidente. Ma la posizione di Grimaldi è tutt' altra : dobbiamo confessare che gli sarebbero mancati la chiarezza d' idee e il vigore logico neces- sari a tentare la costruzione di un sistema (^) dbmmatico opposto a quello di Descartes ; ma dobbiamo pur ammettere a suo merito ch'egli era già orientato verso un indirizzo piìi positivo. E qui chiarisco che quando dico (( positivo » io non penso particolarmente al metodo indut- tivo di Galileo, penso piuttosto a un certo intimo atteggiamento del pensiero, che trova forse la sua radice in Grecia, forse fra gli Scettici, o forse altrove: particolarmente in questo momento io penso lo spirito positivo come opposto allo spirito dommatico: penso alla differenza tra ciò che è posto e che è dato e ciò che invece è incognito e da cercare : penso alla opposizione tra Y immagine e V idea ricevute beli' e fatte, e quelle invece che si vanno costruendo e si modificano per via. Forse renderò meglio la cosa ricorrendo a Carneade di Cirene: sto guardando un qualcosa di lungo e di cilindrico: è una corda — quella — mi pare... Poi vado più vicino, guardo meglio: non è una corda, dico, è un serpente. La cognizione che si vien formando, e perciò muta, costruita in certo modo da noi stessi per approssimazioni successive: questo, secondo me, dà lo spirito positivo, ed implica una interpretazione critica delle condizioni di certezza e dei gradi di verità. (^) Parlando di un « sistema » intendo l'insieme coordinato di un certo numero di principi o di ragionamenti posti a base della interpretazione della luce e dei suoi fenomeni: se anche mi sfugga l'espressione «sistema di De- scartes », alludo ad un sistema così otticamente inteso, non ad un sistema filosofico. — 38 — Grimaldi, sia detto a sua lode, era già un po' in questo spirito. Ma allora non avrebbe potuto legarsi con pastoie peggiori di quelle che derivano dal suo dilemma. Nello spirito positivo, e più che mai in tesi fisica, alla domanda (( sostanza o accidente? » (che più tardi Algarotti qualificherà come (( vano enigma ))) si sarebbe dovuta sostituire la formola (( sostanza e accidente » ; salvo a ripartire poi fra i termini del binomio quelli fra gli elementi che fossero via via risultati sufficientemente chiari da per- metterne un riconoscimento. E qui mi conviene cedere la parola al De la Chambre, dolente di non poter citare per esteso e di dover riassumere e ricucire sparsi frammenti : « è vano — egli dice — porre certe questioni circa cose (( che non si sa bene come definire e rispetto alle quali i più giudiziosi (( sono coloro che maggiormente ignorano : quelle cose di cui bisogna (( conoscere tutti gli esterni [cioè gli aspetti o — diremo meglio — i a fenomeni] prima di poterne tentare V essenza. La prima e la miglior (( cosa da fare è vedere le apparecchiature, i preparativi e le dispo- (( sizioni che occorrono a rendere un corpo luminoso; e la gran per- (( plessità viene dall'essere Imninosi tanto una stella quanto un verme. (( Di questa luce noi dunque conosciamo la sola causa prima, che è (( Dio. ma purtroppo ci manca la conoscenza delle cause seconde, che (( son poi le sole di competenza del fisico; e allora — in queste con- ce dizioni — si è meno lontani dal vero con la semplice ignoranza, ((che non ingolfandosi in un seguito di falsi ragionamenti» (^). E sono ben queste medesime cose quelle che — senza parole — doveva aver pensato Atanasio Kircher, il quale — nel suo solido buon senso — risolve il (( vano enigma » nell' unico modo che meri- (1) Ma dopo queste così belle e liberali parole. Db la Chambre tradisce sé stesso. Preoccupazioni d'altro ordine prendono il sopravvento nel punto speciale «sostanza-accidente»; e tra le pp. 137 e 140 del Lumiere, dopo avere escluso che una « sostanza » possa essere sensibile per se, facendo un uso scaltro e sottile del principio di contraddizione egli non lascia alla luce altra possi- bilità che di essere accidente, e perciò « come tutti gli altri accidenti bisognosa di un soggetto che la sostenga ». Per lui (e qui è retrogrado) il soggetto è il «diafano»; e questo — lo riconosce lui stesso apertamente — non è che il ritorno a ciò che Aristotele aveva più oscuramente definito « l'entelechia del diafano ». — 39 — tava da parte di un fisico: con una scrollata di spalle: hic Rhodus^ hic saltiis. dice; e dice ancora: pigliatela come volete, per me fa lo stesso: (( quod qui asserere voluerit, per me licet... quid in tam perplexo negotio dici deheat nescio ». Ma Grimaldi non vuole ascoltare la lezione del suo famoso correligionario, e vuol fare il filosofo (\). Bisognerebbe almeno che stesse alle regole del gioco. Comincia con un equivoco circa la parola « sostanza » : la quale è nella sua filosofia quello che sopra si è detto; e perciò in Descartes, p. es., l'anima è una sostanza (che ha per attributo principale il pensiero); gli angeli, per chi ci credesse (e pare che Kepler ci credesse), sareb- bero sostanze: voleva forse il Grimaldi fare della luce qualcosa di simile air anima o all' angelo? Egli voleva farne ciò che oggi si direbbe (( materia », ma neanche questa parola sarebbe filosoficamente adeguata al suo concetto, perché nella scolastica la materia non è né massa né estensione, è soltanto ciò che la forma perfeziona ; e l' intelligenza p. e?, è materia. Quello eh' egli realmente avrebbe voluto poter dimo- strare sarebbe stato espresso nella sua filosofia col dire che la luce è un corpo, cioè rex extensa. Tanto vero che Kircher pone appunto così la questione: ade radioruin entitate; an accidentia sint? an corpus? ». il che è chiaro e adeguato ('). Di conseguenza, in Grimaldi c' è un perpetuo malinteso, e gli argomenti usati nel tentativo di provare la (( sostanzialità » anche se fossero validi sarebbero poi insufficienti a provare la « corporeità ». Sulle molte centinaja di volte che ricorre questa parola a sostanza », è rarissimo il caso che il concetto consapevolmente si completi nel- 1' espressione a sostanza corporea » ( II, XXIV). Ma fino a tanto che si discute di (( sostanza » con gli argomenti filosofici usuali, si fanno discorsi che. ai fini della luce, meritano d' essere caratterizzati con (^) Non c'è bisogno di rifarsi a Freld per accordare che spesso i lapsus hanno un significato rivelatore. E così io credo che quando il Mascart, citando il libro del Grimaldi nel Tomo I (p. 156) del suo Trattato, ne deformava il titolo in Philosophicomathesis de Lumine, dimostrasse proprio con questo di averne preso una coscienziosa visione diretta, e che l'impressione fattagli dal contenuto influì a sua insaputa sulla trascrizione del titolo. (^) Ad essere sinceri tale estremo di chiarezza si trova in KiRCHER solo alla p, 3 dell'Indice. — 40 — quello che lo stoico Aristone diceva della logica e dei granchi: {( molta coccia, e poca ciccia ». Perché, o io m' inganno, o a vantaggio di Grimaldi si può fare una congettura, fondata sulla probabilità. Secondo il mio solito modo io credo più giusto, storicamente, riferirmi a paragone piuttosto a S. Tommaso che ad Aristotele: il primo riassume, chiarisce e sem- plifica le concezioni del secondo, e inoltre deve ritenersi una fonte più prossima, più naturale e di più agevole accesso per Grimaldi: il quale — non lo ha detto, né avrebbe potuto dirlo — ma, secondo me, doveva sentirsi urtato da talune sentenze come queste: a illumiuatio non est motus localis », (( lux dicitur esse sine numero, pontiere et mensura... »; e deve aver desiderato di far rientrare la luce in quel- r ordine che è stabilito nel libro della Sapienza : (( omnia in mensura, et numero, et pondere disposuisti », che è poi anche ciò che ispirava la tendenza recentemente affermatasi nella fisica di Descartes di ricondurre a valori quantitativi i caratteri qualitativi delle cose. E proprio appunto perché S. Tommaso ha scritto più volte « lux seu lumen non est corpus ». a Grimaldi dovette parere che il miglior modo per restituire la luce al mondo dei numeri e delle misure fosse quello di farla diventare corpo. Sbagliava metodo, metteva il carro avanti ai buoi; e la sua affer- mazione era dommatica non meno della tradizionale negazione, e non valeva di più. Costituirà forse un progresso il solo fatto, in sé e per sé, di dire il contrario di quel che aveva detto Aristotele? Ma allora, se così fosse, Grimaldi avrebbe fatto meglio, p. es., a difendere il vuoto, che era stato necessario a Leucippo come ricettacolo infinito del movimento di infiniti atomi, ma che era aborrito da Aristotele e negato da Descartes. In Grimaldi, questo suo muoversi rigidamente entro le forme scolastiche tradizionali, questo voler restar fedele a quasi tatti i loro postulati, e rompere solo con uno o due di essi, significa intanto non avere un adeguato sentimento della armonia e della concatenazione delle parti in una tale costruzione del pensiero; e significa mettersi in uno stato d' intima contraddizione che non potrà in qualche momento non divenire flagrante. Non si può sostenere la corporeità della luce e nello stesso tempo mantenere la negazione del vuoto e mantenere il principio della incompenetrabilità dei corpi. Le incongruenze di un atteggiamento che non vuole essere radi- — 41 — cale, si uniscono all' errore fondamentale di avere accentuato una opposizione (fra sostanza e accidente) che, in tesi fisica piìi che mai, sarebbe stato necessario placare in unità. Molte e molte volte ripetuto nel corso del libro, e fatto valere contro la accidentalità della luce, il noto effetto tomistico : (( accidens non transit de subjecto in subjectum ». Se anche V argomento fosse valido potrebbe appoggiare la fisicamente inutile (( sostanzialità » della luce, senza giungere a provarne la a corporeità », alla quale vera- mente mirava il Grimaldi. Ma nel sistema di Descartes quando la luce attraversa 1' aria^ V acqiia^ il vetro, essa luce non passa di soggetto in soggetto, perché in Descartes il vetro V acqua e F aria non sono i soggetti della luce: il soggetto è uno e sempre quello: il (( secondo elemento ». Quando, più tardi, sorgeranno le teorie ondulatorie, se la luce traverserà gli spazi interplanetari, poi 1' aria, Y acqua e il vetro ; non per questo passerà di soggetto in soggetto, perché quegli spazi e r aria e V acqua e il vetro, non sono minimamente i soggetti della luce ; il soggetto resta uno e uno solo : V etere. Così Grimaldi incespica e fa incespicare i suoi lettori contro ostacoli che avrebbe potuto prendersi sotto gamba. Crede di combattere contro la accidentalità della luce ma — com- battente di retroguardia — si attarda invece contro F idea aristotelica che la luce fosse suhjectahile nel diafano, e che Descartes aveva superato in quanto appunto con lui la luce aveva già cambiato il suo soggetto. E da un punto di vista più strettamente filosofico, se invece di applicarlo così pedantescamente ripetendolo tante volte, Grimaldi avesse meditato il contenuto e la ragione di quelF effato, avrebbe visto ciò che esso significa : F accidente è talmente determinato dal suo soggetto, talmente dipendente dalla sostanza in cui si invera, che non potrebbe passare ad altra senza trasfigurarsi esso stesso in tutt' altra cosa. E perciò F affermazione del legame profondo tra sostanza e accidente, che è quello di cui il Grimaldi non ha avuto sentimento adeguato. Ma egli non è insensibile né alla forza della ragione né alla forza dei fatti. QuaF è la (( sostanza corporea» ch'egli può offrire? Una sostanza che continuamente muore appena sul nascere (XXVII), la cui apparente conservazione (( non è altro che una continuata produzione », e la — 42 — cui presenza è sempre nuova attraverso un seguito di distruzioni e riparazioni. Il disagio che ne deriva, Grimaldi lo sente tanto che, contro ogni sua voglia, s' induce a far ricorso ad un argomento fina- listico: sarebbe certo seccante se la luce continuasse a rimanerci negli occhi... E tenta di dare una prova positiva, tanto della durata, quanto della sua brevità, attraverso la persistenza delle immagini nell' occhio. Ci si rammenti che, corporea o no. doveva esser a sostanza »:• una cosa cioè che per esistere non ha bisogno (C altro che di sé stessa; e si rifletta dunque quanto mai dovesse essere ostica, specie a quei tempi, una u sostanza » che, non si sa come, muore appena sul nascere. Questo capitolo vorrebbe serbare il suo carattere dottrinale e non scendere ad esemplificazioni fisiche particolari, che troveranno miglior luogo in seguito; ma non è possibile rinunciare a dare, per cenni, qualche anticipazione che conferisca concretezza a ciò che si vuol provare. In XXIV, pp. 195 e 207, e in pochi altri luoghi la luce è sostanza di per sé immediatamente sensibile; e altrove si spinge fino a dire che deve ritenersi qualcosa di corporeo proprio perché è sensibile, senza badare che il calore, il quale era per consenso unanime acci- dente, è tanto sensibile da poter divenire insopportabile. Dire che la luce è sensibile di per sé significa dire, o che agisce a distanza, o che r occhio vede per (( estramissione » (XXV, 8), cioè per emissione di raggi visuali : e, certo, Grimaldi non vuole né F una cosa né r ahra. Perché la luce fosse sensibile di per sé dovrebbe rilucere anche quando sta ferma. Invece Grimaldi (e come potrebbe farne a meno?) dovrà convenire che la luce non è tale se non per il suo continuo rapidissiiuo flusso, che se stagnasse non ci sarebbe neanche la via d' esplorarla, che solo il moto, solo la violenza del suo impeto, la costituisce al grado di luce: e così la sua virtìi luminifera non è già nella sua (( corpulentia » sibbene nel suo moto e nel suo impeto. Filosofo di scarsa filosofia, Grimaldi ne ha però quanto basta per dargli il vago senso che la sua luce, piìi egli la elabora e più gli si trasforma fra le mani in luce-accidente. E già verso il principio del libro, in una pagina disastrosa e felice al tempo stesso, la p. 127 — in un momento rivelatore che sarebbe poi inutile rinnegare — egli tocca con mano che la sua luce quando ristagna è una luce che si è spenta, e perciò non è piìi luce : non solo perché « non ferisce gli occhi », ma perché ha perso — 43 — ogni altro suo carattere. Sola funzione che gli resti è questa: che (( riempe », il che è certo una bella cosa in tempi in cui il vuoto è proscritto; ma questo... riempitivo non è luce: la luce-sostanza è beli' e svanita, e a noi non resta se non un inafferrabile « soggetto » cui è vano ormai cercare un nome: lo si chiami a puriis aether )), lo si chiami (( materia sottile », lo si chiami « latte in mammella » o (( acqua in spugna )), ormai che importa? Luce non è più. Aveva detto appunto eh* era un fluido, da raffigurarcelo come acqua in spugna o latte in mammella, ma queste — per quanto felici sotto altri aspetti — sono immagini statiche, e le immagini statiche non servono più. Quando, trascinato da necessità, comporrà tutti i fatti della sua luce con: constipatio, dilatatio, acceleratio, retardatio, dissipatio, diffractio, separatio, glomeratio, eppoi ancora undulatio^ uiidatio, volw tatio, fluitatio, fluctuatio e tante altre cose in alio, può forse nascon- dersi che per il solo fatto di terminare in alio, tutti questi sono i nomi di altrettanti accidenti attraverso i quali (e come altrimenti?) egli tenta di raffigurarsi la sua « sostanza »? E quando — decisamente, apertamente — egli ha fatto del colore un accidente, bisognerà bene che, sia pure a tratti, e specie dopo certe sue proposizioni, che tuttavia non rinnega perché le ha pro- nunciate con convinzione, lo assalga ogni tanto il presentimento che r accidentalità del colore finirà per trar seco, fatalmente, 1' acciden- talità della luce: più intelligente, certo, di quei suoi commentatori — oculisti, professori di fisica, che di sostanza e d' accidente non ne capiscono proprio un accidente — i quali gli dan lode al tempo stesso della (( sostanzialità » della luce e d' una supposta concezione ondu- latoria della medesima. Ma dove il Grimaldi sente più vivamente il dissidio dei suoi pensieri è forse là dove tenta i rapporti tra luce e calore. La sua « sostanza » non può dare di per sé, immediatamente, il calore : altrimenti — fra V altro — lo darebbe tutto in una volta. La luce ottiene il suo effetto per attrizione; vale a dire che la « cale- fazione » è conseguita come da una lima che riscaldi il legno (XLIII). Ma una lima posata sul tavolo non lo riscalda. Anche per la calefa- zione egli deve ricorrere al solito rapidissimo moto locale. È questo moto, altrettanto necessario alla visione quanto alla calefazione, ciò che fa veramente la luce. A un certo momento egli non ha voluto concedere alla luce-acci- _ 44 — dente neanche il diritto di muoversi entro lo stesso soggetto: e in base a ciò ha ribadito più che mai la negazione di una luce-accidente. Ma caldo e freddo sono accidenti per tutti, e anche per lui: ora, v' è forse qualcosa che passi piìi facilmente da soggetto a soggetto? In XLni, 49 e altrove sarebbe facile rinvenire frasi che, forzan- done appena un poco il senso, preluderebbero al concetto d' una trasformazione d'energia; e non è affatto da escludere l'intuizione che la luce assorbita si tramuti in calore. Ma qual filosofico disa- stro — inammissibile, scandaloso — se una sostanza si trasformasse in accidente ! In mezzo a tutto questo una sola cosa si innalza e trionfa: la sua onestà. Non si infinge, non maschera il travaglio della sua perplessità. E gli fa gran torto chi crede che abbia atteso a manifestarlo solo nel secondo libro C): lo dicono se non altro, via via, tutti i punti in cui si sforza di render valide le sue dimostrazioni sive lumen dicatur Substantia, sive Accidens. Preso fra una tradizione che. pur nel tramonto, non poteva dirsi indegna del suo rispetto ed i fermenti di un rinnovamento già manifesto, egli volle mettere il vino nuovo negli otri vecchi, e biso- gnava invece « mettere il vin nuovo in otri nuovi » (Luca, V, 37 e 38). Ma, pivi veramente, egli non potè fare una scelta che da un lato o dair altro sarebbe stata penosa, benché penoso dovesse essere — se fu pienamente consapevole — anche Y interno rinascente dissidio : la sua figura è forse piìi drammatica che a prima vista non sembri; ed è senza ombra di irriverenza che io vorrei chiamarlo V Amleto della luce. (1) Il Padre Secchi, correligionario del Grimaldi, ha insinuato persino che il secondo libro possa non essere stato scritto da lui [U unità delle forze fisiche 4a ed.. 1885, voi. I, p. 258, in nota). ONDULAZIONI In un corpo diafano illuminato, il Imne è venuto dall'esterno; e come cosa fluida deve esservisi diffuso per moto locale, cioè transi- tando di luogo in luogo, il che parrebbe render necessaria una velocità finita, benché altissima: parrebbe, perché Grimaldi esita a prender partito. Dapprima tiene un atteggiamento per così dire sospensivo e provvisorio, si rifugia in un neutrum (che mi fa ricordare Pietro Pompon Azzi): a sua scusante va ricordato che persino Newton, pur dopo le dimostrazioni di RÒmer — e nonostante le sue proprie opi- nioni — dice di essersi preoccupato di dare alle sue due prime defi- nizioni una forma (riu^icita in verità molto contorta) conveniente tanto alla trasmissione nel tempo, quanto a quella istantanea. Per Grimaldi, tuttavia, la cosa non doveva esser poi tanto (( neu- tra )) come per gli Stoici avere sulla testa un numero pari o dispari di capelli; ed egli finisce per dire questo: che la trasmissione istantanea non è provata, che probabilmente la trasmissione avviene nel tempo, ma un tempo di fatto insensibile: negarlo sarebbe timidezza, e la mancata dimostrazione della temporaneità non autorizza a ritenere provata l' istantaneità (XI, XII, XIII e altrove). L' argomento scolastico per sostenere l' istantaneità era che la luce nel diafano non ha contrari; ma — osserva Grimaldi — neanche il suono ha un contrario che gli si opponga. Tuttavia quando pro- spetta ( XIV, 8), piuttosto come un' eco di discorsi altrui che come un proposito proprio, una prova sperimentale, egli intimamente non ci crede, perché in molti luoghi e per molte ragioni traspare la sua convinzione d' una velocità così estremamente grande da sfuggire alla osservazione, ciò che del resto sembra dedursi dalla considerazione balistica che una traiettoria essendo tanto più tesa quanto piìi veloce è il projettile, e quella della luce essendo praticamente rettilinea, la velocità della luce deve essere altissima oltre ogni immaginazione. La distanza di cui parlava Grimaldi relativamente a quel prospettato esperimento era di 30-40 miglia, pari ad un percorso di 60-80, ciò — 46 — che darebbe — se le miglia bolognesi non differivano troppo da quelle toscane e lombarde — circa 99-132 chilometri: a Fizeau nel 1849 ne basteranno 17. Questo che s'è detto, va tenuto ben presente come premessa a più precise caratterizzazioni della luce grimaldiana, la quale viene concepita anzitutto come fluido celerissimo perfuso nel diafano: e per averne un conveniente modello si comincia subito a considerare r acqua di un fiume e come essa si muove, riconoscendovi caratteri che sembrano ben convenire (o almeno non ripugnare) alla fisica ed alla metafisica della luce, cioè alle sue proprietà ed alla sua essenza, ed in particolar modo conciliarsi con la diffrazione da un lato, e dal- l' altro con la necessità di salvare all' ingrosso la trasmissione in linea retta, richiesta dalle piìi comuni esperienze visive (II, 6, 14 e altrove). Nei fiumi la corrente, piìi veloce al centro che verso le rive, se incontra ostacoli, pare invitarci allo sforzo di ritrovare in essa la facoltà e i modi di riflettersi su piane e curve superfici propri della luce: questa capacità di riflusso, il frangersi dei flutti, il loro modo di incontrarsi e di mescolarsi nel confluire di due correnti, danno luogo a moti sì multipli e vari, che andar dietro alle loro modalità è come entrare nel labirinto della disperazione; ma qualche punto può essere stabilito. L' acqua nella quale sia gettata violentemente una pietra forma tenui flutti circolari successivamente uno dopo F altro dilatantisi : circoli ondosi possono prodursi tanto nelP acqua stagnante quanto in quella fluente; si allargano molto e sono veramente circoli se l'acqua è stagnante : li vediamo succedersi l' uno all' altro, ma una festuca di paglia galleggiante rimane allo stesso posto (II, pag. 18, colonna destra) mentre invece i cerchi ondosi avanzano fino a luoghi remoti progressivamente allargandosi. Questi circoli non cessano di dilatarsi quand' anche 1' acqua tutta scorra come nell' alveo d' un fiume ; ma allora, se F acqua corre veloce, F agitazione ondulatoria in essa prodotta dal sasso lanciato ha una influenza comparativamente minima rispetto a quella della corrente, sicché F agitazione predetta poco si estende sui lati e molto invece si estende in lunghezza, ossia nella direzione del flusso; sicché insomma non dobbiamo piìi immaginare dei circoli come nelF acqua stagnante, ma possiamo soltanto immaginarli defor- mati, stirati, in elissi più o meno allungate a seconda che la velocità della corrente più o meno prevalga. Nella luce, che è velocissima, questa deformazione della pertur- bazione ondosa, che trovasi per così dire trascinata nella direzione e nel senso del flusso e del raggio, deve essere estremamente pronun- ciata; e questo fino a tanto che altre immagini, altri modelli, non ci soccorrano. Un primo rilievo fondamentale — e una prima differenza radi- cale — rispetto a quella che sarà poi la teoria ondulatoria della luce è questa: che qui. nella concezione grimaldiana, la velocità della luce non dipende affatto dal moto ondoso: la corrente, il flusso rapidissimo, preesistevano, e resterebbero — come restano — tali e quali anche senza le onde. Nella teoria ondulatoria, come comunemente s"^ intende, la lunghezza delle onde e la loro frequenza danno tutta intera la velo- cità della luce: sono esse — lunghezza e frequenza — i fattori (anche in senso aritmetico) che formano la velocità della luce. Nella concezione grimaldiana, invece, le onde — quando ci sono — non sono elemento costitutivo della luce, sono un epife- nomeno: non sono esse le determinanti della velocità della corrente fluviale, ossia — fuor di metafora — della velocità della luce. La corrente del fiume-luce resta tale anche se non ci caschi dentro il sasso-perturbazione che genera le onde. E il procedere ondula- tamente non significa affatto procedere per onde. È pure un errore — provocato da una confusione d' idee invo- lontariamente favorita dal Grimaldi stesso — parlare di una teoria ondulatoria della luce, con l' idea che in Grimaldi luce e colore si identifichino: le ondulazioni — e questo emerge da moltissime parti del libro — riguardano, spiegano e provocano la formazione del colore, non la formazione della luce : il colore può pensarsi distinto dalla luce nella stessa maniera e nello stesso grado come una perturbazione non necessaria ed accidentale (quella del sasso lanciato) può pensarsi distinta dalla corrente che la subisce. In Grimaldi, salvo in pochissimi casi di eccezionale coerenza (come, per esempio, quello eccezionalissimo del colore che non risie- derebbe nei corpi neppure se la luce fosse accidente) non si può cercare di meglio che una opinione più frequentemente espressa e prevalente. Qui non può esservi dubbio: le modificazioni della luce che vengono operate dai corpi, perché possano essere rese sensibili sotto forma di colori, consistono probabilmente in a ondulazioni mi- nutissimamente increspate » diffuse con una (( fluttuazione sottilissi- — es- ina » (XLIII) la quale proviene da ciò: che nell'incontro della luce con le inuguaglianze di superficie dei corpi colorati, e con gli imbocchi dei loro pori [e forse meglio con gli orli di questi imbocchi] questa luce viene fratta, e nella frattura particolarmente agitata (XLII, 51, pag. 340): da qui il colore. Ciò che del resto costituisce anche la spiegazione grimaldiana delle iridescenze dei corpi a superficie rugosa e scabra (XLIII, p. 354; e confronta la figura qui riprodotta a p. 25), che poi faranno oggetto di un importante lavoro di Young e saranno da lui ricondotte a fenomeni di diffrazione e di interferenza: Grimaldi crede che la causa ne sia semplicemente la riflessione, ma una rifles- sione con (( spargimento », una riflessione multiforme, inaequaliter difformem dissipationem, causa sufficiente, secondo lui, di quelle che a p. 351 ha — senza possibile equivoco — chiamato (( ondulazioni colorifiche ». E, sempre, ove parli di diffrazione, esplicito o implicito incombe il pensiero del lumen agitato per talem diffractionem, dove è chiaro che la diffrazione è la causa di una agitazione, che nello stesso lumen prima non e' era ; e questo sempre sul modello dell' acqua corrente, che si frange contro un ostacolo, ed in parte rifluendo sfugge per vie laterali ed opera ima fluctuum glomeratio e altre perturbazioni. Lo stesso quando il lumen passa per un sottile forame e vien rappre- sentato come rotto, e sui margini lacero e sfibrato, nel che consiste la dissipatione cum diffractione che non spiega il comparire del colore se non attraverso la causa prossima di questo, la fluitazione ondulata, la speciale fluttuazione, così generata (I, II, XXI, XXIII, e altrove, anche nel libro 2"). Trovo inutile moltiplicare gli esempì per confermare che in gene- rale il colore viene da una perturbazione che la luce subisce quando urta in qualcosa di materiale che contrasta il suo libero corso, e che quella delle « ondulazioni » è una teoria del colore, non una teoria della luce: è la ((modificazione colorifica » che ((non improbabil- mente » consiste (( in una certa sua [del lumen] ondulajzione », come un tremito nella diffusione: ciò che sarebbe senza senso se la ondu- lazione e il tremito appartenessero già alla luce bianca e al suo normale modo di diffusione (XLII, XLIII, XXVIII e altrove). Riassumendo ancora: la luce è sostanza corporea sottilissima fluida profusa nel diafano velocemente lanciata su linee diritte: se a questo rapidissimo moto di trasferimento o traslazione si aggiunge — come per un sasso lanciato nella rapida corrente d' un fiume — un impulso — 49 — ondoso, questo darà un moto sovrapposto a quello rettilineo preesi- stente e prevalente, ed è esplicito in XXIV, pag. 198 che tale agitazione potrà estendersi modicamente sui lati, mentre quasi tutta in lungo si esplica conformandosi al moto velocissimo. E a proposito di concezioni ondulatorie grimaldiane, e di una sua figura, spesso riprodotta, e che a mia volta riproduco qui sotto anche io, la quale mostra, entro lo spazio compreso fra due segmenti retti, una linea a zig-zag che potrebbe anche rappresentare una spirale vista in proiezione, osserverò che solo un qiii-pro-quo può far omo- lE V^ FiG. 2. - Riproduzione (leggermente ingrandita) di una figura della p. 342 del De Lumine, che mostra, a destra, la trajettoria serpeggiante d'una particella del lumen. logare questo schema con quello della ipotesi ondulatoria ad onde trasversali. In quest' ultima, quando si riportano sulle ascisse i tempi e sulle ordinate le distanze della particella dalla posizione di riposo, vien fuori, nel caso piìi semplice, una sinusoide che somiglia molto allo zig-zag di Grimaldi. Ma nel primo caso la curva vien fuori come mezzo di rappresentazione in dipendenza dell' uso delle coordinate cartesiane, e potrebbe essere un' altra curva con un altro metodo di rappresen- tazione; nello zig-zag di Grimaldi la curva costituisce invece la vera e reale trajettoria assegnata al corpuscolo luminifero. Certamente si può seiupre parlare di ondulazione perché infine si chiamano ondulati anche i capelli d' una ragazza, ma è una ondulazione tutta diversa dalla vibrazione d' un corpuscolo che vibrando ripassa incessantemente — 50 — per le stesse posizioni, mentre il corpuscolo di Grimaldi corre velo- cissimo e mai torna indietro. Corre serpeggiando, onde piìi propria- mente si può appunto parlare di serpeggiamenti, meglio che di onde. La concezione del Grimaldi, più che somigliare al modello elastico- ondulatorio di Fresnel può somigliare piuttosto a concezioni emissivo- balistiche o più antiche o più recenti; con questo di problematico: che sulla carta è facile tirare due linee parallele CD ed EF che limitino lateralmente, e come dentro un corridojo, 1* ampiezza di questi scan- tonamenti a destra e a sinistra; ma in una luce fluida non è facile vedere la ragione di questi argini né del loro andamento parallelo e rettilineo. Si vorrebbe bene accordare al Grimaldi una teoria ondulatoria del colore (non della luce); ma le sue supposizioni, e le parole con cui le esprime, son troppo varie, troppo imprecise e mutevoli e troppo poco motivate. In XXIV, pag. 196 parla di agitatione multi formiter undulosa; ma la multiformità è troppa. Tutte queste: undulatio, undatio, agitatio, fluctuatio, indicano solo un pensiero vago e malfermo circa le funzioni e i moti delle particelle, tanto che quando si arriva alla volutatio, e Goethe la commenta da par suo, pare addirittura che si mettano a ballare il Walzer, né certo giova alla precisione fisica il paragone delle varietà dei colori con le varietà delle scritture a mano (XLIIL 14), come a suggerire che le particelle luminifere disegnino ghirigori. La miglior cosa che si ricava dalle undulationes è che esse sono sommamente idonee ad operare una titillatio sulle parti sensibili del- l' occhio, e questo è un modello efficacissimo per ajutare a capire come — secondo la felice interpretazione grimaldiana — dalla mesco- lanza di due raggi di luce diversamente colorati, sorga nelV occhio, e soltanto nelV occhio, la sensazione di un terzo colore, che par nuovo: è la titillatio che è nuova, mentre le undulationes sono rimaste distinte e tali e quali erano prima. Si aggiunga che questa concezione è difficile ad afferrarsi e a raffigurarsi senza che faccia capolino una rappresentazione parcellare o granulare della luce, prima decisamente negata. In XXIV e' è un altro modello che potrebbe diventare un modello ondulatorio: immagina una schiera di particelle, o vogliam dire di globetti, fra la terra e il sole. In un primo momento si muove una prima particella, e poi se ne muove una seconda, mentre la prima torna in quiete, poi se ne muove una terza mentre le prime due sono — si- ili quiete, e così via. Se ad un certo punto, per esempio quando si muove la 6'* particella, si inunagina che torni a muoversi la prima, questo potrebbe diventare un modello ondulatorio della luce; ma appunto per questo Grimaldi lo combatte e lo respinge: per un caso si accorge (ciò di cui non si accorgono i suoi eommentatori) che, ridotta a ondulazione, la luce diverrebbe accidente. Approfondiamo i concetti generali: a lui preme che la luce, colo- randosi, non cessi di essere luce; difatti conserva le proprietà fonda- mentali della luce: si vede, e concentrata riscalda. A lui che tentava di farne una sostanza premeva anche di poterla colorare senza assun- zione o mescolanza di sostanze nuove, ciò che egli malissimo esprime dicendo che nel colorarsi non le si aggiunge nessuna a entità » nuova. Dove anzitutto molte inconseguenze possono far pernio sulla assoluta indeterminazione della parola (( entitate ». Che cosa è F ente? In fisica è niente, e nella Scolastica quasi direi che praticamente è del pari niente per la buona ragione che può essere qualsiasi cosa, sostanza e accidente, atto e potenza, reale ed irreale, tempo e luogo : un' anima e un sasso. Allora è impossibile che una qualsiasi luce pensata come non colorata si possa colorare senza che le si aggiunga ( o le si tolga, eh' è lo stesso) un qualche ente. Passando oltre alle proteste di Grimaldi, vediamo che nel suo sistema ciò che si aggiunge essendo 1' ondulazione, questo è un ens per accideiis. Perciò del tutto vuoti e superflui i discorsi con i quali, in più punti, sottolinea che Va ondulazione in sé » non fa il colore. Filosofo, avrebbe dovuto vedere anzitutto che è senza senso la frase (( ondulazione in sé », perché 1' ondulazione, come ogni altro accidente, non è ens per se; e per la stessa ragione credere che la luce o qualsiasi altra cosa possa essere pensata come « puro moto » è puro sproposito, perché il moto, come accidente, non potest per se existere. In altre parole, oinne accidens dependet a subjecto: ora è appunto il modo di innestarsi della ondulazione sul suo soggetto, che può avere un particolare interesse. Per il modo come in Grimaldi son messe le cose, sembra pienamente lecito profittare di quella ammis- sione scolastica per cui accidens potest esse subiectum accidentis (dove F aggiunta : sed per suhstantiam, segue naturalmente da quanto detto or ora): sembra lecito pensare l'ondulazione innestata sopra il velo- cissimo moto di traslazione preesistente; ed a ciò sembra consentire il Grimaldi stesso quando, a quel che ho capito (XLIII e altrove), accenna che se la fluitazione cessa, cessa anche, il colore. Allora, progressiva- — 52 — mente scavando, siamo arrivati a questo, che il colore - accidente è una modificazione ondulatoria d' un moto originariamente rettilineo, che come tale farebbe la luce bianca. Ossia un accidente sopra un altro accidente. Non è ancor tutto, ma V ultima conclusione già si delinea inevitabile. LA PIETRA DI BOLOGNA Che il fluido, ovverossia (( sostanza » di cui il Grimaldi si sforza di darci la descrizione sia la luce stessa, o sia invece soltanto il suo soggetto, da ridursi comparabile interamente al (( secondo elemento » di Descartes, è questione importantissima per la teoria, ma che da un punto di vista puramente descrittivo può essere comodamente ignorata. Un ritratto della (( sostanza » grimaldiana io non lo prenderò dal suo autore; perché, dopo tutto, mi pare anche piìi somigliante cpiello col quale, più tardi, il Conte Magalotti ci raffigurerà un' altra sua luce (nella IV delle Lettere scientifiche ed erudite; Firenze. 1721) in una frase nella quale, con la consueta eleganza, ci fa passare dalla fabbrica degli spaghetti al boudoir della sua dama : (( in quella guisa <( che noi vediamo un torchio di legno minutamente forato, gemere ({ in sottilissime fila una pasta, o pure una siringa di stagno spiccar (( fila di candido latte, o altra di quella più fine intorbidar V aria (( d* una stanza con isfumar nebbie invisibili d'acque odorose: così... (( le conviene schizzar solo per le diritture de' pori dell' istess' aria, <( la quale in cotal guisa di luce tutta s' ingravida, e divien luminosa ». Questa è — a pennello — la « luce quasi filata » che Grimaldi s' illude di poter comprovare, e che appunto sprizza fuori dal diafano in filetti liquidi o quasi, come fa T acqua dalla « cipolla » di un annaffiatojo. (( A volte attraverso i fenomeni un principio generale pienamente (( si afferma : così Grimaldi attraverso numerosi esperimenti prova <( che la luce è una sostanza »: quest'altro è Goethe che parla, e ci vuole tutto il suo adorabile candore per credere che una tal eosa fosse dùnostrabile, e che Grimaldi l' avesse dimostrata. Per dimo- strare che la luce fosse un liquido o una pasta e' era una sola cosa da fare: imbottigliarla, ossia — diciamo — chiuderla e conservarla in una bombola ; ma questo, lui non l' ha fatto. Eppure un mezzo che avrebbe potuto aver l'aria d'essere adatto a — 54 — (( imbottigliare » la luce, Grimaldi V aveva, e ne parla, ma come chi ne parlasse quasi soltanto per sentito dire, in fretta e con superficialità; proprio lui, bolognese, che 1' aveva a portata di mano, e avrebbe potuto cimentarlo in mille modi: rasenta un oggetto che per lui avrebbe potuto avere una importanza incalcolabile, lo sfiora, e passa oltre quasi senza accorgersene. Parlo, si sarà già capito, del (( fosforo » o « phosphoros » (appor- tatore di luce): termine usato per designare quel prodotto, preparato verso il 1603 da Vincenzo Casciarolo, scarparo bolognese che faceva il mago a tempo perso, e eh' ebbe la fortuna di scoprire come una certa pietra, calcinandola, potesse acquistare la mirabile proprietà di risplendere al bujo — fredda e senza fiamma — se prima fosse stata esposta alla luce del sole: proprietà magica e perturbante subito venuta in altissima fama, tanto che sessant' anni piìi tardi, quando fu estratto dalForina e dalle ossa un corpo che riluceva al bujo in aria umida, gli fu dato il nome di « fosforo » : perciò non che la fosforescenza derivi il suo nome dall' elemento fosforo, come comu- nemente si crede ; ma proprio il viceversa : 1' elemento deriva il suo nome dalla fosforescenza e da quello che per tanto tempo fu chiamato (( fosforo di Bologna » o « pietra di Bologna )). È intorno a quel che chiamano il Monte Paderno (ma in verità una agevole amena collina, di 350 metri d' altezza, ultimo rilievo importante nel costale che scende tra i fimni Sàvena e Reno, a otto chilometri da Bologna, fuori porta San Màmolo, oltre il tristo luogo delle Salse, di dantesca memoria) che s' apre il vasto emiciclo dei (( calanchi », ove si raccolgono le celebri glebe o « arnioni » : concre- zioni fibroso-raggiate o fibroso-lamellari costituite prevalentemente di Baritina, solfato di Bario, che Casciarolo trattò con carbone sui 600° o poco sopra, riducendolo a solfuro, Ba S, eh' è poi la sostanza (( ecci- tabile )) della (( pietra fosforica » (così anche chiamata). Non solo al Monte Paderno, ma anche nelle lavine o calanchi del Monte Veglio e nei dintorni di Porretta, le piogge dilavando e scal- zando le argille scagliose mettono in luce questi arnioni, di svariatis- sime grandezze (uno se ne ricorda, regolarmente ovoide, che pesava 20 chili), in genere grigi, traslucidi in massa. La stessa pietra può presentarsi talvolta in piccole lastre, suscettibili di ampie superfici di sfaldatura. Tenuta in gran pregio, ricercata un tempo per la prepara- zione industriale delle polveri fosforescenti, la descrissero o ne discus- — 55 — sero il comportamento, Poterio, Montalbano, Du Fay, Mancini, Herbert, Macquer, Liceti, il Padre Kircher, Mentzel, Marsigli, Zanotti, Beccari, Algarotti, Vogli, Galvani, Marchetti, il Padre Secchi, etc. : in questa lista il lettore vede brillare qualche gran nome. Ho abbondato in particolari, perché V essere stata culla della fosforescenza è — tra parecchie usurpate — una delle glorie auten- tiche di Bologna, al cui incremento Grimaldi avrebbe potuto contri- buire, e non lo fece: ed è stupefacente che egli — conoscendo le considerazioni del resto giustissime che ne aveva tratte il De la Chambre in prova della accidentalità della luce — non senta il bisogno di passarle per proprio conto al vaglio sperimentale, discuterle, con- futarle. Il De la Chambre (p. 151 Lum.; p. 200 Iris) doveva avere di questo fenomeno, a quel che credo, una cognizione solo indiretta, attraverso letture di scritti o relazioni altrui; ma egli con mano sicura afferra immediatamente il suo carattere fondamentale: la luce che la pietra di Bologna emette, e che vediamo quando è posta all' oscuro, non è la luce stessa del sole che V ha illuminata, come se essa luce solare avesse compenetrato di sé questa pietra e vi fosse stata per cosi dire messa in serbo e immagazzinata; è invece una luce nuova, ima luce propria della pietra e da essa stessa prodotta, e come stimolata ed accesa entro le sue particelle dalla luce del sole: non dunque un residuo di luce solare, ma un' altra luce, da quella eccitata. Dopo tre secoli riconosciamo francamente che meglio di così non si sarebbe potuto dire; e quanto al fatto che la luce emessa è una luce nuova, generata nella pietra stessa, se ne vede meglio F importanza quando si ricordi che la discussione intorno ad esso ed alle sue pos- sibili interpretazioni in favore o contro le varie teorie o i vari modelli che si succedono intorno alla luce, durò ancora per altri due secoli. Invece Grimaldi (che, per usare un eufemismo, ha (( spigolato » nei due libri di De la Chambre covoni interi di grano e anche un po'^ di loglio) qui non sa veder nulla che gli sembri da raccogliere. E tutto quel che di suo ci sa dire è questo (XXIV, 20, e altrove): poiché la pietra bolognese esposta — anche sotto nùbilo cielo — alla luce del sole, la raccoglie, e gliene rimane in serbo tanta da continuare a rilucere nell' oscurità per parecchio tempo dopo, si vede come ciò si convenga alla interpretazione che la luce sia un fluido od un quasi liquido di cui la pietra si possa imbevere. E alla domanda come mai — 56 — gli altri corpi [io penserei alla pomice, preferibilmente] non facciano altrettanto, risponde che neanche l' acqua bagna od imbeve tutti i corpi: p. es. quelli untuosi o grassi non li bagna e non li imbeve. Ravvicinamento analogico che doveva riuscire un po' grottesco in un' epoca in cui di corpi fosforescenti si conosceva — credo — quello soltanto, dato che la moltiplicazione dei casi viene piìi tardi, soprat- tutto col Du Fay. L' altro ravvicinamento analogico, già accennato dal Padre KiR- CHER. è con r occhio. Noi comprendiamo benissimo come, sia per la credenza che gli occhi di certi animali rilucessero di notte, sia per i fatti — già allora notissimi e discussi — di quella che oggi si chiamerebbe la (( persistenza delle inunagini nella retina », il ravvi- cinamento tra r occhio e la pietra di Bologna dovesse essere possibile sulla base comune di un (( imbevimento » di luce da parte di certi corpi. Ma il singolare è che Grimaldi piuttosto che sottolineare il lato positivo del possibile ravvicinamento, preferisca sottolineare un tratto diffe- renziale: per fortuna che T occhio non si imbeve di luce così a fondo come fa la pietra di Bologna, e che la persistenza della luce vi sia rapidamente transitoria, altrimenti come sarebbe possibile che le sus- seguenti visioni non fossero turbate dalle precedenti o con esse confuse? Dove si vede — ancora una volta — sino a che punto V aspetto di un fatto cambi a seconda della idea entro cui va ad innestarsi; e che il valore storico-scientifico non risiede nel dato di osservazione o nel trovato sperimentale in sé; ma in quello che vi si è saputo o vi si è voluto leggere dentro {intus legere). LE DUE DIAFANEITA In più punti (V, VII, etc.) il Grimaldi stabilisce che la diafaneità, ossia perspicuità o pervietà al lumen, può essere concepita in due modi: uno concernente un primo genere di diafaneità, vera o pro- priamente detta ; e F altro una diafaneità impropria o, diremmo noi, spuria. Il primo è dato da quei corpi la cui fluidità e sottilità è tanta da potersi paragonare a quella stessa del corpo-luce, sì che diafano e corpo-luce si accolgono V un nelF altro reciprocamente, in intima mescolanza, come innegabilmente accade quando il vino rosso penetra neir acqua chiara ; il che, pur vedendosi così bene, sembra tanto difficile a comprendersi — non potendosi annnettere la compenetra- bilità — che un ricorso alla Divina Onnipotenza non sembra fuori luogo al Grimaldi (V, 3, 4). Il secondo tipo è dato da corpi i quali solo in grazia di minu- tissimi pori o canalicoli che li attraversano possono lasciarsi invadere da fluidi estranei purché sottilissimi; e perciò benché la materia in cui i pori sono scavati sia di per sé stessa opaca, tali corpi riescono idonei a dare adito alla luce; e si ha ben ragione di dire che la loro diafaneità è impropria. Nella diafaneità di prima specie la luce sopraggiunta vien quasi a fare una cosa sola col diafano, cui aderisce (( come la forma al suo soggetto» (V, 7): nell'altra specie il rapporto è più estrinseco: il diafano non si mescola con la luce, ne è soltanto permeato. La prima specie, che sarebbe tanto ovvia ammettendo la luce- accidente, resta campata in aria nel caso della luce corporea, in quanto inconciliabile con quella incompenetrabilità che Grimaldi vuol pur conservare, appoggiandola anche (ed è doveroso dargli atto che è per lui inconsueto fare appello a tal sorta di appoggi) su argo- menti di fede (che altrimenti non sarebbe miracolosa l' entrata di Cristo nel Cenacolo a porte chiuse, né la sua nascita dall' utero della Vergine). — 58 — Così cominciamo ad entrare, seguendo il Grimaldi, in un giro affannoso di contraddizioni apparenti, le quali tuttavia hanno una giustificazione profonda. Queir appellarsi alla Onnipotenza Divina per render concepibile come r acqua si mescoli col vino, non è come un ripudiare una affer- mazione che ha fatto quasi per forza ed alla quale in fondo non crede? Non pare infatti incomprensibile come mai, poche pagine dopo aver ammesso, su questo modello dell' acqua e vino, una diafaneità che chiama vera (e perciò necessariamente prima, tipica, e fondamentale), si dia poi tanta pena (VI, 12-16) per convincere che tutti i corpi sono porosi, e che tali sono anche il mercurio, l'acqua e il vino? Se credesse veramente alla esistenza di fluidi capaci di immedesi- marsi r uno neir altro, che bisogno avrebbe di rompersi la testa a dimostrare una porosità (che doveva apparire incredibile a quei tempi) anche nell'acqua? Se persino l'acqua fosse porosa, la sua diafaneità non ricadrebbe allora nel secondo caso, cioè in quello di tipo improprio, e 1' anmiissione del primo tipo, tanto meno comprensibile, non diven- terebbe superflua? Per rispondere a questi e ad altri interrogativi, nulla di meglio che stralciare una fra le tante prove ed esemplificazioni con le quali egli vuol riuscire a convincere che tutti i corpi sono porosi: muove dalla porosità delle pareti dei vasi, che lasciano trasudare acqua e vino, e ciò prelude ad un lunghissimo discorso nel quale con dubbi ma sovrabbondanti argomenti si dibatte tra il si e il no (ma finalmente prevarrà il si) la questione della porosità del vetro: in favore vengono prodotte persino argomentazioni acustiche ; ma è certo d' altra parte che se i pori del vetro fossero tali che l' aria potesse trapelare entro la canna di vetro dell' esperimento torricelliano, il mercurio ricasche- rebbe giìi nel pozzetto — discendisset per fistivlam in vas suppositum — il che è molto ben ragionato: ma il bello è che con questi esperimenti alla Torricelli (dal Grimaldi, tuttavia, mai menzionato) si vuol riuscire a provare anche la porosità del mercurio: sbagliano coloro che credono che nello spazio sovrastante al mercurio ci sia il vuoto: quello spazio è stato invaso dalla sostanza che abitualmente riempie i pori del mercurio; sostanza che si riesce anche ad estrarre ed è fluida e pellucida. E fin qui niente di male: sarà stata acqua, chi sa come rimasta od entrata nei vasi o nei tubi; ma il piìi bello è che i — 59 — — a coronamento della dimostrazione — lui gliela fa rimangiare (^), cioè crede di essere riuscito a farla rientrare negli stessi pori del mercurio donde era uscita ("): e chi ne vuol di piìi legga quel che (1) Veramente io non ho capito se questi esperimenti vengono addotti dal- l'Autore in nome proprio, o come già noti per opera altrui. C^) Tre sono gli oggetti di numerosissime esemplificazioni: la universale diffusione dei pori, la loro sottigliezza, e l'estrema sottigliezza della luce desti- nata a passarvi dentro: noi mescolerenio insieme le varie prove — sparse un po' dovunque — con le quali Grimaldi vuol mostfare porosità insospettate, ed alcuni estremi di fisica sottigliezza. Ecco la porosità del duiùssimo « osso » dell'albicocca, dimostrata, secondo lui, dal fatto che la mandorla contenuta è dolce (cioè — a quel che intendo — mentre la mandorla cresceva entro il suo involucro, la sostanza zuccherina non poteva pervenirle se non attraverso i pori di questo). E si pensi alla proboscide d'una mosca, quando succhia un pezzetto di zucchero: qual sarà la sottighezza delle particelle dello zucchero, e dei canalicoli della proboscide ch'esse attraversano; e di quelli della probo- scide d'una zanzara attraverso cui vanno, in un senso, il sangue succhiato, e nell'altro senso gli « spiriti animali » della zanzara, responsabili del nostro prurito (VI). E si pensi che gli animalcoli, quelli che le lenti del microscopio ci nao- strano, tanti e così piccoli, hanno pur ciascuno le loro molte membruzze, necessariamente piccolissime (di che cosa veramente parli è difficile capire: ma l'accenno è comunque interessante, perchè Leeuwenhoeck era bensì già adul- to; ma le sue coniunicazioni alla Royal Society di Londra comincieranno, ch'io mi sappia, solo verso il 1673) (IX, 9). Quaranta libbre bolognesi di seta, ove se ne tragga un filo semplice, cioè unico elementare quale esce dal baco, ne contengono a sufficienza da circon- dare il globo nel suo circolo massimo : figurarsi quanto ha da essere sottile questo filo. E di sottigliezza mirabile sono le foglie d'oro e d'argento. E parla del glutine tratto dalla farina (VI, pag. 47); altro accenno interes- sante perchè di molto anteriore a quel Bartolomeo Beccari cui generalmente ^iene attribuito tutto il merito di tal preparazione. Esempi migliori, quelli relativi al come si propaghi attraverso la fluidità del mezzo il fumo dell'incenso, e alla sottigliezza dell'alito dei corpi odorosi, uno dei quali da 10 anni continui non ha cessato di spandere il suo profumo senza visibile diminuzione; e ancora migliore l'esempio delle sostanze coloranti diluite nell'acqua. Così finisce per fare dei calcoli (su basi, s'intende, molto ipotetiche) sul numero di particelle in cui si risolve un granello di nitrato nella polvere pirica che esplode; e trova un non so più che cosa da esaurire in più di 315 mihoni di parti; ma soprattutto — e questo è il colmo — invita a pen- sare quanto mai han da esser piccole le particelle del tempo (si tratta qui di — 60 — scrive il dottossimo Padre Casati, nel libro che ha per titolo: Vacuum proscriptum. Eccola qui, finalmente, la spiegazione della stortura apparente nelle concezioni di Grimaldi ! È V arcigna figura del Padre Casati che gli si para di contro a vietargli il modello più semplice. Si capisce che a lui, poveretto, i pori gli avrebbero fatto più comodo vuoti, ma se il vuoto non s' ha da ammettere allora è giocoforza riempirli con un qualcosa che dev'esser diafano senza essere a sua volta poroso, con un diafano della prima specie, con un diafano vero. È ovvio che questa porosità ripiena — che perciò finisce per non essere più una porosità — fa si che il diafano del secondo tipo, cioè il diafano improprio, diventi veramente un caso secondario e derivato, interamente dipendente dal diafano della prima specie, il quale — per ostico che sia — resta fondamentale e indispensabile. Né poteva sfuggire al Grimaldi che solo una porosità vuota gli avrebbe aperto facile passaggio per la sua luce materiale (( quasi filata », e che questa porosità ripiena, suggeritagli dal desiderio di salvare due volte capra e cavoli (la diafaneità e la proscrizione del vuoto, la materialità della luce e la incompenetrabilità dei corpi) lo risospinge invece a naufragare fra Scilla e Cariddi; e che nonostante l'escogitata porosità il nucleo del problema rimane tutto intero. Veramente, perforando 1' acqua con tanti pori, non ha egli fatto appunto... un buco nell' acqua, se poi li deve riempire... con che cosa? con qualcosa, evidentemente, che dovrà esserci anche quando manca la luce: purus aether, per esempio (Vili, 85) [e allora, vien voglia di dire, perché non affidare al «puro etere» tutte quante le funzioni?], oppure (( materia sottile » (Vili, 88), di evidentissima ispirazione car- una forse eccessiva determinazione di quel concetto di tempo come succes- sione di momenti separati, che aveva avuto una recente affermazione anche in Descartes). Ma la sottigliezza della luce (e qui, dopo certi esempi che ha osato, mi pare veramente che esageri) è di gran lunga maggiore. Sono questi, e tanti altri di questo tipo, gli esempì o paradigmi — alcuni buoni, altri fuori posto — che formano l'ammirazione di Goethe, il quale li qualifica con abbondanti aggettivi, come « fortunati », « felici », etc. e vi scorge la testimonianza di una vasta conoscenza della Natura, che anche noi abbiamo poco sopra motivatamente riconosciuto. — 61 — tesiana. A tradire il disagio di queste ammissioni forzate viene ad un certo punto l' affermazione che non è neanche necessario che la (( materia tenue » o il « puro etere » vengano espulsi al sopraggiungere della luce: basta che possano essere compressi per poi tornare a rare- farsi: e non s'accorge che dicendo questo dimentica o rinnega, anche per la qualsiasi materia riempitiva dei pori, la già asserita diafanità vera, cioè la sua naturale miscibilità o immedesimabilità con la luce ! Ma e' è di più : chi dicesse che la luce stessa riempie i pori non andrebbe contro il probabile, perché la sostanza-luce potrebbe giacere inerte entro il corpo diafano immerso nelV oscurità, essere tale senza essere luminosa, e non manifestarsi perché non si manifesta se non è agitata: inerte ma pronta ad una ((veemente ejaculazione » (Vili, 86) appena sopravvenga dall'esterno la vera luce lanciata a velocità incalco- labile: ammissione gravissima, con la quale si riconosce che la lumi- nosità sta nella veemenza del moto, e che dunque — s' è già visto — è accidente. Che meraviglia se l' Autore, così irretito, si sente perplesso? La conclusione piìi ferma sarebbe quella che avrebbe dovuto scaturire dalla citazione eh' egli fa (Vili, 92) dal libro di Giobbe (cap. XXXVIII), quando Dio gli domandò, quasi in isfida : (( sai in qual luogo dimora la luce ? ne conosci i sentieri ? puoi condurla al suo termine ? ». Ma Grimaldi si guarda bene dal riportare — e avrebbe dovuto farla sua ! — anche la risposta di Giobbe (cap. XXXIX): (( sono avvilito... ho parlato una volta... anzi due... ma non continuerò più ». Grimaldi, invece, continua. I PORI E LA RIFLESSIONE Fra le altre indebite attribuzioni fatte al Grimaldi dai suoi zelatori indiscreti, e' è questa : che egli sarebbe stato la prima persona che abbia rilevato il fenomeno delle due riflessioni sulla faccia ante- riore e su quella posteriore d' una lamina trasparente, e ne abbia messo in evidenza la difficoltà (( per niente lieve », e tale che chi V avesse eliminata avrebbe, (( aggiungendo luce a luce », bene meritato della sua chiarezza. Nel fatto concorrono due questioni: perché un lumen che attraversata V aria incontri un diafano piìi denso, poniamo il vetro, abbia un doppio comportamento, cioè in parte si rifletta sulla superficie del vetro e in parte F attraversi, in generale rifran- gendosi ; e r altra questione è il perché il detto lumen entrato nel vetro e al momento di riuscirne, non esca tutto ma in parte ancora una volta si rifletta, cioè torni indietro, nonostante che il nuovo mezzo che gli si offre — 1' aria — sia piìi tenue e piìi agevole. Il primo dei due fatti è di banale antichissima osservazione; e quanto al secondo solo una momentanea ma ben radicale amnesia deve aver tolto il ricordo della parte che necessariamente avevano le riflessioni interne (cioè appunto quelle che avvengono nel passaggio dal diafano piìi denso al meno denso) nelle più antiche spiegazioni dell' arcobaleno da parte di coloro che correttamente consideravano V andamento delle cose entro le singole gocciole (p. es. Maurolico, p. 50-51, Diaphanorum) e non genericamente entro la nube: rimando in proposito ad una figurina di Maurolico molto sbagliata ma molto graziosa a vedersi ; e pur rinviando ad un altra figura, anch' essa piacevole all' occhio, del De la Chambre, che riprodurrò in una delle seguenti pagine e che mostra una infinità di tali riflessioni interne, qui additerò la fonte da cui il Grimaldi piìi direttamente prese i suoi schemi e le sue ispirazioni. È una figura di Kepler, a p. 143 dei Paralipomena. Il raggio FC, che cade obliquo sulla faccia polita d' una lastra pianoparallela, è in parte riflesso in CG e in parte rifratto, coni' è evidente nonostante r infortunio tipografico capitato al raggio rifratto CD, il quale si — 63 — riflette bensì in D, ma ci costringe a confessare che questa sua rifles- sione non e' interessa, perché Kepler per ragioni sue ha spahnato con qualche cosa, credo con cerussa, la seconda superficie della lamina facendone una superficie quasi speculare: quel che c'interessa in- vece — e che taglia la testa al toro — è la riflessione che avviene in B e che genera il raggio BE. Capita dunque al raggio DB di dover parzialmente tornare indietro quando incontra la superficie polita KC, ripercotendovisi ad angoli uguali, indebolendo cosi quella parte di raggio (BH) che è invece trasmesso, e ciò nonostante — dice chiara- FiG. 3. - Figura riprodotta (con notevole ingrandimento) dalla p. 143 dei Paralipomena di Kepler, per mostrare come egli consideri, sulla superficie polita CK di una lastra vitrea, le due sorta di riflessioni parziali, esterna ed interna. mente Kepler — che dopo B venga V aria. I fatti non son forse tutti qui ? Nei riguardi delle spiegazioni, quella luce che un giorno verrà ad illuminare la luce, non è un concettino secentesco, è una espres- sione antichissima, perché risale a Plotino; ma in bocca a Grimaldi non può non fare un effetto particolare, se si metta in rapporto con la sua famosissima prop. XXII, nella quale luce aggiunta a luce può generare oscurità: e tuttavia Grimaldi è sempre e inderogabilmente troppo serio per potergli attribuire F ombra di un' intenzione ironica; e la mia è soltanto una malignità. Per suo conto Grimaldi non tanto mi sembra cercare la spiega- zione di questi fatti, quanto piuttosto giovarsi della loro esistenza per sostenere la sua particolare concezione sulla struttura dei corpi diafani, la quale (III, 35) negat totalem pervasionem diaphani a luniine. 64 essendo una opinione volgare e un inganno dei sensi che il diafano riceva in sé la luce secondo la sua totalità, cioè ne sia compenetrato in ogni sua parte : la prova del contrario ce la fornisce proprio V aria, che non rifletterebbe la luce uscente dal vetro se potesse accoglierla ugualmente bene in ogni sua parte (Vili, XVI, XVIII, e altrove). Il fatto che il lumen venga riflesso tanto nelF ingresso quanto neir egresso dal vetro, viene provato con modalità sperimentali di qualche interesse: si fa uso di una lamina a facce piane non parallele: FiG. 4. - Riproduzione, lievemente ingrandita, di una figura, dalle pp. 25 e 234 del De Lamine, per mostrare uno schema col quale Grimaldi diraostra le due riflessioni, una sul vetro nel passaggio del raggio dall'aria al vetro; e una, secondo lui, sull'aria, nel passaggio dal vetro all'aria. le due riflessioni inviano i rispettivi raggi in due direzioni diverse, e se (III, 7) la lamina è di vetro colorato, piuttosto spessa, la prova diventa ancor più persuasiva, perché il lumen proveniente dalla prima riflessione apparet mundum ac sincerum (cioè assolutamente incolore); mentre il lumen proveniente dalla seconda riflessione apparirà inqui- nato, o — com' egli dice — (( infetto » dal colore del vetro. Notiamo di passaggio che questa esperienza è alquanto delicata, e per essere realmente eseguita presuppone F uso di un fascetto molto stretto, o di una lama di luce molto sottile, circostanza non frequente negli esperimenti di Grimaldi ove troppo spesso la finezza dei fasci fa difetto. Una variante di questo esperimento è quella esposta in XXIX, ove la lamina è sempre di vetro colorato e a superfici non parallele, ma la 1^ superficie è lievemente increspata da fini asperità, F altra lucida e complanata. Allora, facendovi cadere un sottil fascio, la prima rifles- sione darà una luce non colorata del colore del vetro bensì iridescente, come compete alle superfici rugose, Y altra sarà colorata del colore del vetro. La forza probativa di questi esperimenti rispetto a ciò che si vuol dimostrare, cioè che sono le particelle dell' aria contigue al vetro a riflettere parte della luce che dal vetro stesso defluisce, sarà efiiciente soltanto in quanto si possa escludere quella interpretazione secondo la quale la riflessione non avviene propriamente all' uscita dal vetro, ma entro il vetro stesso, cioè sulla crusta vitri, uno strato-limite del vetro, più denso e di spessore minimo, che si pensa formarsi sulle sue superfici ed avvolgere come una pelle ogni oggetto di vetro. In questo caso la discontinuità determinante la riflessione non sarebbe più tra vetro e aria, cioè da più denso a meno denso, ma tra vetro e vetro, cioè tra il vetro e la sua \àtrea pellicola, e dunque ancora da meno denso a più denso. Grimaldi fa del suo meglio per eliminare questa interpretazione, e per esempio lavora con superfici vetrose di frattura recente, fino a convincersi che quel tanto di luce che soggiace alla riflessione non può averla subita se non per opera delle particelle dell' aria che dunque si dimostrano opache, perché naturalmente (III, 21) riflettono la luce solo quei corpi che ne impediscono il progresso ulteriore: e per allontanare ogni dubbio che l'agente riflet- tente non sia proprio 1' aria con le sue particelle opache, non disdegna di ricorrere ad argomenti puramente verbali facendo notare che quando la luce si riflette, p. es. sulla superficie di un lago, si dice appunto che è 1' acqua che la riflette, e non viene in mente a nessuno che possa essere stata riflessa dall'ultimo strato d'aria su essa incom- bente (III, 11). Di fatto noi diciamo che una lastra di vetro — che siamo soliti di chiamar trasparente — riflette la luce; ma in realtà le due cose avvengono in parti diverse: il vetro riflette con quel tanto di opaco che c'è in lui. cioè con le sue particelle solide; ed è invece diafano con quel tanto di non solido che e' è in lui, cioè con i suoi pori e per i suoi pori. La riflessione avviene negli intervalli tra poro e poro cioè sulle particelle solido-opache entro cui i pori sono scavati; la diafaneità trova invece il suo luogo nei pori o cribri: e sarà diafaneità tanto più perfetta quanto più frequenti più grandi e meglio ordinati in serie diritte e raramente interrotte saranno i detti pori. — 66 — È una lo^ca elementare che conduce a queste conseguenze, le quali sviluppate ancora un poco si troveranno a contraddirsi fra loro, con i dati di partenza e con i fatti di osservazione. I pori han da essere in serie diritte e continue, in modo che non i pori in sé stessi, ma il loro ordinamento dà la diaf aneità : tant' è vero che se prendo un pezzo di vetro e lo trituro in un mortaio, ne ho una polvere bianca nella quale gli spazi tra le particelle saranno, caso mai, aumentati, e ciononostante la massa è divenuta opaca; e cento altri esempì di questo tipo possono addursi. Solo un tal modello può dar conto dell' opacità : impossibile, da tutto il già detto, e da tanti esempi portati, che i corpi opachi non sieno porosi, e allora ciò che li fa opachi è la tortuosità e discontinuità dei pori. Ma se cosi è, se la diafaneità viene da una speciale continuità e da uno speciale ordinamento dei pori, necessariamente dovrà essere abolita da ogni fattore che induca discontinuità, disordine nelle particelle, mutazioni d' orientamento nei pori e il non più corrispondersi di questi e dei loro imbocchi: logicamente basterà allora (Vili, 43) una forte agita- zione del mezzo a renderlo opaco; come mai un gran vento, per esempio, non basta da solo a intorbidare 1' aria ? Si badi che la composizione dell' aria con particelle solido-opache è parsa fondata in grazia ai fatti della riflessione all' uscita dal vetro ; ma Grimaldi sa benissimo che la luce si riflette di più nel passaggio dal vetro all' aria, che non dal vetro all' acqua : e il peggio è che avrebbe continuato a riflettersi anche se dopo il vetro ci fosse stato il vuoto ; né so quanto basti a salvarlo il fatto eh' egli s' era imposto di non credere al vuoto, perché ai suoi fini una rarefazione estrema dell' aria o d' altro fluido poneva problemi consimili ; e una rarefa- zione estrema doveva già riuscirgli non solo teoricamente pensabile, ma anche praticamente sperimentabile in quello spazio torricelliano che egli conosceva benissimo. E per difficoltà di questo genere che, avendo già dicotomizzato la diafaneità in propria ed impropria, dovrà ancora sminuzzare quest' ultima, prospettando varie possibilità di pori pochi ma larghi o viceversa fini ma fitti che permettano di far giocare in contrasto diverse condizioni di densità e diafaneità. Ma tutti questi modelli — qualunque cosa si faccia — saranno tutti incompatibili col fatto che la luce, una volta entrata nel vetro, lo attraversa altrettanto bene in qualsivoglia direzione; e quando (Vili, 11) egli raccatta dal De la Chambre, che F aveva rifiutata. — 67 — una immagine viva e felice (ch'è però solo un'immagine): quella della visuale che è libera da ogni parte in un arboreto disposto a quinconce, non ci si può dissimulare che questo paragone o modello distrugge i precedenti che eran pur venuti fuori dalla necessità di metter d' accordo circostanze speciali. Se in un diamante (Vili, 43) si dovessero immaginare tante gal- lerie quante ce ne vogliono perché la luce passi sempre diritta in qualunque direzione, del diamante alla fine non ci rimarrà niente: eppure, dopo tutto — aggiungiamo noi — il diamante pesa tre volte e mezzo piìi dell' acqua. E come faranno a passare insieme e contemporaneamente per uno stesso poro, e magari seguendo opposte direzioni, raggi diversamente colorati, sia apparentemente sia permanentemente (si noti che qui attribuisce la famosa distinzione ai raggia non agli oggetti da cui pro- vengono!!), qualunque cosa essi rappresentino? La difficoltà è tale e tanta che a un dato punto non rimarrebbe altro di meglio da pensare che il flusso di luce non dovesse essere proprio continuo ma alternato, come a dire a singhiozzo, mediante una (( interpolazione » dell' una e dell'altra corrente sul passaggio comune: in un istante passa un raggio, neir istante successivo un altro, in modo da contentar tutti, uno alla volta (Vili, 81, 83, 85 etc). E su questa via troviamo pagine e pagine che discutono la eterogeneità della luce; non da intendersi, per carità, in senso qualitativo come una eterogeneità di composizione di tipo newtoniano, ma come qualcosa che noi diremmo discontinuità: una struttura come sabbiosa o pulverulenta, in piccole parti finite, che avrebbe potuto ajutare a spiegare quel passaggio promiscuo o inter- mittente, ma che ciononostante finisce per esser negata. E com' è possibile con tal modello concepire la concentrazione di numerosi raggi in un punto? Strano che, dopo le dimostrazioni di Descartes, parli di concentrazione in un punto. Solo piìi tardi si ricrede e riconosce che si raccolgono in uno stretto spazio (Vili, 58). Qui raggiungiamo forse il colmo della assurdità, perché per far con- centrare questa luce fluida entro angusto spazio, viene rievocata la considerazione (generalmente attribuita a Leibnitz, ma che è molto prima in Hobbes, il quale peraltro ne rifiuta 1' applicazione alla luce) che luminis inipetus in angustis acceleratur, secondo il noto modello del fimne che corre calmo su ampio letto, eppoi si fa impetuoso e sale di livello quando si trova stretto tra due alte ripe rocciose. Nel — 68 — fiume ciò accade proprio perché il flusso è ridotto in stretto andito fra argini impermeabili, ma se regaliamo una permeabilità a questi argini ben poco rimarrà di tutto ciò. E cos'è mai che potrà costringere il fluido-luce a concentrarsi in un « punto » entro una sfera di vetro, mentre tutt' intorno, da ogni lato, gli si offrono i pori del vetro aperti liberi e beanti come prima e come sempre? Un fluido, e per di più compresso, come tale tende ad espandersi, e scapperà via per tutti i buchi che troverà aperti. E, per giunta, come avviene che questa materia così concentratamente addensata entro i pori, istantaneamente si annulli all' estinguersi della sorgente? Questa teoria dei pori (stravecchia, e le cui origini — sullo sfondo generale offerto da Leucippo e dalla sua scuola, secondo cui ogni azione ed ogni passione si spiega col passaggio di correnti d'atomi, o efiluvì, attraverso pori appropriati — sono piìi specificamente da ricercarsi in Empedocle, il quale mette nelF occhio diverse membrane, che comportano diverse sorta di pori, attraverso cui penetreranno piccole particelle staccatesi dai corpi e soprattutto generatrici di colori diversi, che taluni penetrano per i pori del fuoco, altri per i pori del- l' acqua... e formano le diverse immagini); questa teoria assai diffusa già prima di Grimaldi, è tra le pochissime di cui De la Chambre — così tollerante, così benevolmente asshuilatore, che pare si proponga di fare da specchio alle idee da cui dissente — parli con ironico sprezzo : inutile « trastullarsi )) con tali (( immaginazioni bucate e vuote come i pori su cui si fondano » {Liim., p. 54, 333, 335). Io dico che De la Chambre ha ragione; e gliela dà a modo suo anche Grimaldi, quando già nel primo Libro (III, e altrove), di fronte alla insufficienza degli altri tentativi di spiegare il fatto che la luce si rifletta più nel passaggio dal vetro all' aria che non dal vetro all' acqua, invoca il contatto perfetto o imperfetto tra i due mezzi, o — come anche potrebbe dirsi — la maggiore o minore attitudine del secondo mezzo a (( bagnare » il primo, il che equivale ad insinuare, fin dal primo Libro, il dubbio radicale che, in fondo, la semplice discontinuità tra i mezzi potrebb' essere bastante causa della riflessione; e con ciò mostra quasi senza accorgersene il presentmiento di quella (( discon- tinuità » appunto, che poi — tanto più tardi — starà a base di uno sviluppo teorico del Fresnel. Tale dubbio radicale si dichiarerà poi apertamente nella prop. II del secondo libro, dove — con un discorso insolitamente colorito di finalismo — si ammette una certa tendenza — 69 conservatrice che potrebbe far rimanere la luce nel vetro, dubitativa- mente prospettando F idea che un passaggio da un mezzo all' altro possa fare ostacolo per sé stesso. Il che è come un ritrovarsi pari pari al punto di partenza, è come aver buttato all' aria con un calcio tutto il castello di carte così faticosamente messo insieme. PROPAGAZIONE E DIFFUSIONE Cosa s' intenda per (( propagazione », meglio è vederlo alla fonte donde Grimaldi trae la parte sostanziale del suo discorso; cioè in De la Chambre (Lum., Cap. IV, p. 151-157, e principio del Cap. 1, libro II) che, pur tra le obiezioni, si preoccupa anzitutto di rispecchiare lucidamente i lineamenti essenziali di questa idea: è la luce medesima che produce la luce, come una fiaccola ne accende un' altra. Veramente, osserva De la Chambre, a guardar meglio, non è la luce della fiaccola che fa nuova luce; è la fiamma che propaga la fiamma. Dire che la luce si diffonde per propagazione significa dire che un corpo hmiinoso la produce in una parte del diafano, questa in un' altra e così via, ciò che ricorda il a crescete e moltiplicate », che è però qualcosa di complementare, un che di aggiunto alla ordinaria natura delle cose, altrimenti non ci sarebbe stato bisogno di farne oggetto d' un partico- lare comandamento. Una tale fecondità della luce le conferirebbe, in qualunque parte del diafano ella fosse, la virtù di produrre il suo simile nella parte che le è prossima e da questa in altra, passando di seguito in seguito a tutto il resto come entro la polvere di cannone da un granello all' altro si propaga la fiamma. Si sente che De la Chambre è attratto da questa interpretazione e la considera con simpatia; ma la verità è più forte: tale interpreta- zione rovinerebbe le due cose più caratteristiche della luce, cioè la pratica rettilinearità dei suoi raggi, e l'uguaglianza degli angoli nella sua riflessione. La confutazione di De la Chambre è chiara e vigorosa, raffor- zata dalla considerazione di vari fenomeni: sottile l'argomento tratto dalla riflessione del raggio su sé stesso quando incide verticalmente; e — come ragionamento astratto — buona anche la dimostrazione della incompatibilità fra la « propagazione » e l' istantaneità di trasmissione, cui egli credeva. Per mio conto, io credo di riconoscere antichissimi germi di questa idea nel vescovo di Lincoln, Roberto Gross atesta (Robert Great- — 71 — head), il quale, mentre fa diffondere la luce in tutte le direzioni, sfericamente, accenna che ciò abbia luogo per mezzo di una automolti- plicazione, cosicché a intervalli «i ha per così dire una filiazione, ogni sfera generando una nuova sfera. La cosa pivi notevole che Grimaldi può aggiungere (X), avversando nettamente ogni applicazione del concetto alla luce, è una disquisizione intorno ai significati della parola a propagazione ». Ma io preferisco dire, con parole mie e con una immagine mia, che propagazione vera è quella di un bulbo, che ne produce accanto a sé un altro, o piìi altri, e questi dopo un po' di tempo fanno altrettanto, sicché la propagazione implica un vero aumento della massa, e — se del caso — del numero di ciò che si propaga; e non è soltanto una diffusione o un trasporto: non è — per dirlo ancora con una immagine mia — il semplice allar- garsi di una macchia d' olio. L' argomento principale contro la « propagazione » è che intorno ad ogni parcella di luce si formerebbero altre luci, tutt' in giro e d' ogni lato ; mentre invece in effetto la luce non si estende lateral- mente. Ma io osservo per mio conto che un altro forte argomento si sarebbe potuto usare: già da tempo Kepler aveva sviluppato il principio fondamentale della fotometria, che la luce diffondendosi cambia di forza in ragione inversa del campo illuminato, ciò che per una diffusione sferica viene ad essere la ragione inversa del quadrato del raggio (^). Ora, un incendio in un bosco, che si propaghi per faville non si attenua affatto, allontanandosi dal primo centro d' ac- censione ("). Quando Huygens elaborò il suo famoso « principio » (che sbriga- tivamente si può schematizzare così: i punti che vengono raggiunti dalla perturbazione luminosa divengono essi stessi centri di onde elementari, le cui azioni ad ogni istante sono sensibili sulla superficie che le inviluppa e che in ogni istante rappresenta la (( superficie d' onda »), non solo venne a pescare — ne son convinto — nel libro (1) Ha torto Geminiano Montanari di argomentare che se la luce fosse sostanza, la sua intensità dovrebbe diminuire in ragione del cubo e non del quadrato. Ma non è questo il luogo per approfondire l'esame di tale opinione. (2) Da notare, di sfuggita, che in Grimaldi, allontanandosi dal centro di emissione, la luce non solo perde di intensità ma anche di velocità (Vili, 69)> — 72 — di De la Chambre la diretta ispirazione per i centri delle onde elementari; ma ci trovò beli' e fatta — benché ad altro proposito — anche T idea dell' inviluppo. Infatti {Lum., p. 243 e seguenti) De la Chambre considera che sopra un corpo luminoso esteso non e' è alcun punto che non sia un centro particolare di una infinità di raggi che formano intorno ad esso una sfera di luce. E così nel sole ogni punto della sua superficie sferica è il centro di una di tali sfere luminose; ma si può pensare una sfera piìi grande che inviluppi tutte le sfere elementari, e questa si chiamerà la sfera luminosa del sole. Nella figura a p. 246 (che io ho riprodotto, come meglio mi è stato pos- sibile (^), nella Tav. XVI) che necessariamente si sviluppa in un piano, si considera che tutta la circonferenza del disco solare è composta di punti, ciascuno dei quali serve da centro ad un cerchio di raggi che lo attornia, in modo che si formano tanti cerchi quanti sono i punti: tutti questi cerchi riuniti determinano, tangente a ciascuno di essi, un nuovo cerchio che ha il centro nel centro del sole, ed è una delle sezioni principali di tutta la sfera luminosa del sole. Nella figura sono segnati soltanto 16 di questi cerchi elementari, e solo due sono muniti di raggi; ma è quanto basta per dare una idea del come tutte le sfere che essi rappresentano risultino involucrate entro una sfera unica, che ne è 1' (( inviluppo », e che rappresenta la sfera secondo cui globalmente si attuano le potenze luminose del sole. La superficie di questa sfera non è ancora un a fronte d' onda », ma un fronte di luce sì: che è dato da un inviluppo. Queste idee sono dunque precedenti e largamente diffuse prima del Grimaldi, il quale nettamente si pronuncia nel senso che il procedere ordinario della luce non è una (( propagazione » ma un transito. Tuttavia e' è un punto su cui non bisogna creare equivoco : dal quale molti altri ne sorgerebbero. Da un lato non bisogna anticipare troppo strette comparazioni col principio di Huygens nella sua inte- rezza : altra cosa è riconoscere 1' origine dei suoi elementi costitutivi presi separatamente, altra è considerarlo intero e funzionante nel caso {}) L'esemplare appartenuto al « Collegio » dei Gesuiti, ha le pagine este- samente naacchiate e ingiallite: spiccano fortemente piccole chiazze di un ros- siccio scuro. Sul frontespizio (Tav. XV) si legge, scritto a mano: Collegij Bonons. Societ: Jesu - ex dono P. Bartoli. — 73 — specifico della sua applicazione. E d' altro lato bisogna sottolineare che un tratto essenziale di tale principio è che le onde elementari secondarie trovano per cosi dire base e punto d' appoggio per la loro formazione anche nel mezzo stesso in cui la prima onda si è generata. Foss' anche tutto quanto il mezzo di trasmissione ridotto a puro etere (e non è il caso qui di sostare sulla struttura che Huygens conferisce al suo etere), il gioco di queste onde sarebbe quello sopra accennato. Perciò possono avere con esso una somiglianza puramente esteriore, e in certi possibili effetti una coincidenza apparente, fenomeni che il Grimaldi conosce benissimo, e che sono invece tutti basati sulle idee di eterogeneità e di discontinuità. Quando (I, 21. pag. 7) egli prospetta (e quanto poco c'importi eh' egli lo metta in bocca altrui lo vedremo dopo) che certe radiazioni possano essere tali perché /' aria illuminata è come se fosse divenuta liuninosa essa stessa, e crea le sue sfere d' attività, e perciò si pro- ducono luci secondarie in molteplici vie; tutto ciò che di bello e di nuovo e di memorabile e" è in queste frasi è proprio la materializza- zione nelle particelle dell' aria, concepite come opache, dei punti di appoggio di un fenomeno che non è piìi (( propagazione » (neanche nel senso attenuato in cui questa parola è usata da Huygens), ma è profusione cioè sparpagliamento (e perciò con apparente attenuazione di forza) di luce preesistente: all' incirca ciò che oggi direbbesi la (( diffusione molecolare », per il tanto che poteva esserne presentito a quel tempo. E qui bisogna guardarsi da un secondo equivoco: dal pensare che qualcuno potesse avere escogitato una teoria di (( propagazione », ondu- latoria o no, proprio per spiegare la diffrazione: questo fenomeno non attrasse così subito tanta attenzione da provocare una vasta disputa; e quanto al Grimaldi stesso, in più punti (passi delle prop. XXI - XXIII. e anche certi punti del 2** Libro), se parla di ondulazioni a tal proposito, non è con Y idea che l' ondulazione possa venirgli in ajuto per spiegare la diffrazione, ma piuttosto viceversa per ottenere che la diffrazione gli generi ondulazioni secondo i suoi bisogni e i suoi intenti. Il Grimaldi sa benissimo, e se ne giova, che per mettere in evi- denza il percorso di un fascio di luce in quello eh' egli chiama « un cubicolo oscuro » non e' è niente di meglio che mandarci dentro un po' di fumo; conosce benissimo quelle infinite riflessioni dovute ai — 74 — pulviscoli e alle nebule: le luci da loro riflesse fanno le aurore e i crepuscoli. Si possono vedere cenni di tali effetti anche dalla umidità deir alito ed in qualunque mezzo pieno di corpuscoli che « Inter se discontinuata sunt », come egli dice magistralmente calcando sul con- cetto di discontinuità. Chi ricordi che per lui Y aria è diafana nei suoi pori, non nelle sue particelle, e che le particelle sono opache (e perciò riflettenti) vede che V aria da sola fa un discontinuo ; e che vien da ciò tutta la forza e la verità che può cavarsi da un discorso, il quale anzi, per me, contiene già qualcosa di piìi di un effetto Tyndall. Nel luogo citato della Prop. I, Grimaldi non combatte questi fatti e queste interpretazioni che lui stesso sosterrà in tanti luoghi nel seguito del libro: egli combatte solo F applicazione che volesse farsene onde spiegare le frange e gli altri aspetti della sua diffrazione; e bisogna dire che in questo caso combatte con misura e con giustizia: dice che non quelli sarebbero stati, qualitativamente, gli effetti da attender- sene, e comunque sarebbero insufficienti quantitativamente a spiegare manifestazioni così cospicue. E evidente che a lui interessava provare che la diffrazione si genera nella luce come tale, e che gli sarebbe seccato se qualcuno avesse potuto pensarla legata ad un epifenomeno a lui del resto notissimo e da lui ammesso (ma non prossimamente collegabile con quei principi che molto tempo dopo serviranno a dare la teoria della diffrazione). Questo è appunto uno di quei casi in cui piìi manifestamente il dialogo è con sé stesso, e si farebbe male togliendogli il merito di una qualunque delle alternative in contesa. Fra le alternative, quella che per intenderci chiameremo alla Tyndall, è tanto a lui nota e tanto volentieri ammessa, che egli ne farà la base d' interpretazione per quel che doveva essere V inizio di uno — se non di due — tra i più brillanti capitoli dell' ottica moderna. La prima menzione di un fatto di tale ordine si attribuisce ad un trattato di materia medica di Niccolò Monardes {Venezia, 1575; del quale io non ho preso cognizione diretta) dove si accenna alle pro- prietà ottiche d' un estratto acquoso del « legno nefretico » — poi detto piìi comunemente nefritico — rispetto al quale, oggi, e' è anche da risolvere un non piccolo problema di identificazione: che se è vero che Linneo nella sua Materia Medica (1749), ricordandone le — 75 — proprietà diuretiche e depurative che ne spiegano il nome, lo fa deri- vare da Guilandina inermis = Moringha Zeilonica, ciò che ribadisce nello Species Plantarum (1762) Tomo 1", ove accenna pure alle qua- lità che qui ci interessano; e se è vero che questa pianta corrisponde a quella che oggi si chiama Moringa pterygosperma Gaert. ; e che abita nell'India boreale-occidenatle; e se è pur vero che io ne ho trovato menzione neWAnanga Rango, nella cui traduzione inglese la pianta (Sigrù) è riferita alla Hyperanthera Moringa; e pur vero d' altra parte che Kircher (op. cit., p. 77), quando vuole studiarlo, un tal legno se lo fa venire dal Messico. È lecito dedurre che debbano essere diverse, e forse appartenenti a famiglie lontane, le piante che danno un legno dotato di consimili proprietà, che non sono adeguatamente rese dalla frase di Linneo: a lignum peregrinuni aquani coeriilea reddens ». Si tratta di altro. Grimaldi già sapeva di stoffe, intessute di più sorta di fili, che guardate per un verso o per un altro appajono diversamente colorate (versicolori); e sapeva anche di quadri che guardati da sinistra verso destra mostravano, p. es. una figura vestita di bianco, e da destra verso sinistra, una figura vestita di porpora (VII, 24). Qui appunto si trattava del fatto che da questo legno, tenendolo in acqua per poche ore, si otteneva un estratto di due colori, eeruleo e giallo: il primo colore si vedeva, anche molto intenso, se V occhio rice- veva solo il lume riflesso da tale acqua ed era difeso dall' ingresso di altro lume ; il giallo si vedeva quando l' occhio riceveva la luce che aveva attraversato 1' acqua sia che essa provenisse direttamente da una sorgente luminosa, sia che fosse stata prima riflessa da una super- ficie bianca. La interpretazione di Grimaldi è esposta in modo tale che converrebbe alla diffusione provocata da infinite particelle in sospen- sione, ed alle infinite riflessioni interne che vengono operate anche dalle particelle di quei corpi che il volgo crede interamente diafani: il legno ha moltiplicato le particelle, ha aggiunto le sue a quelle dell' acqua e l' eterogeneità è causa dei colori. Le luci riflesse sono una parte della luce totale e prevalgono in una certa direzione, mentre nella direzione ortogonale a questa prevale la luce non riflessa: altra ragione — dice Grimaldi — non può esserci. Spiegazione notevole, sebbene insufficiente: fra l'altro, se a tale effetto bastasse l' invocato incremento di eterogeneità, la « perfusione » — To- di particelle minutissime, esso dovrebbe essere molto comune e facil- mente riproducibile; non dovrebbe essere l'appannaggio esclusivo del (( legno nefritico » C). Il fatto in sé è la fluorescenza, come oggi sappiamo; ma Grimaldi che non aveva sentito neppure il potente richiamo della (( pietra di Bologna », non era probabilmente inclinato verso prove che piìi pote- vano avvicinarlo alle interpretazioni recenti; ed il suo è come un solco d' aratro (che molto in ritardo verrà seminato) scavato in quest' altra direzione che ho detto: rendere responsabile del fenomeno questa profusione dei corpuscoli eterogenei introdottisi nei pori dell' acqua, tracciando come un primo abbozzo del concetto di (( mezzo torbido » e di altri piìi o meno collegati. Il fenomeno interpretato come riflessione da parte di infinite particelle conduce a rilievi di fatto e ad accorgimenti tecnici, che del resto convengono anche alla fluorescenza : la direzione laterale o come esattamente dice — anche laterale della radiazione derivata, 1' oppor- tuna obliquità della luce incidente, l'elegantissimo esperimento della introduzione laterale, attraverso una lente, di un sottile pennello di luce, i modi di osservazione variati con grande acume (contro una parete nera, ecc.)..., tutte cose che fanno di questa ricerca una vera genuna rilucente, in mezzo al grigiore delle specie intenzionali e degli accidenti; mentre per una volta tanto è anche miracolosamente sobria persino la parte polemica nella quale rifiuta i possibili errori di interpretazione. Ed è qui, dunque, in queste pagine (pagg. 7, 327, 328, e altrove) che — prescindendo da cenni precedenti, rintracciabili in Leonardo DA Vinci — noi possiamo, con un po' di buona volontà, porre un primo e remoto germe di quel ramo di scienza che molto piìi tardi verrà su, attraverso Brìjcke, Tyndall, Strutt (poi Lord Rayleigh), Cabannes, fino a Raman: a condizione di lasciare, per il momento, le parti- celle dell' aria come le vuole Grimaldi, opache e riflettenti, anche se la luce da loro rimandata non possa ancora visibilmente dimostrarsi (^) Del « legno nefritico » dopo Kircher e Grimaldi si occuparono Boyle e Newton, per dir solo dei più grandi: poi scompare dalla letteratura, proba- bilmente al tempo stesso in cui scompare dalla farmacia; ed oggi procurarselo non è facile. — 77 sopra uno schermo posto lateralmente (^); ciò che riuscirà molto bene, poco meno di tre secoli dopo, a R. J. Strutt (1918) sopra una lastra fotografica. (1) Quali che sieno le prove di fatto, il Grimaldi non può minimizzare eccessivamente quello che per lui è il potere « riflettente » dell'aria, senza porsi in aperta contraddizione con quanto ha voluto sostenere per spiegare la se- conda riflessione nella lastra vitrea. LUCE E CALORE Viene attribuito al Grimaldi non so qual merito ed una specie di priorità per avere addotto come prova della esistenza obiettiva — extra ociiliim — della luce ( '), il fatto del riscaldamento dei corpi illuminati. (^) Non vai la pena di sostare sulle disquisizioni comparative tra luce e suono, al quale ultimo Grimaldi nega più volte ogni esistenza extra aurem, in opposizione con la luce che esiste fuori dell'occhio. Per fortuna che poi si contraddice, in questa occasione forse più frequentemente che in altre; e mi fa ripensare ciò che a tutt 'altro proposito dice il Berenson: che, dopo tutto, delle contraddizioni non bisogna meravigliarsi, perchè su ben poche cose si riesce a dire più d'una mezza verità; l'altra mezza uscirà fuori — se uscirà — chi sa quando e chi sa dove, e costituirà la contraddizione. Da questo punto di vista le contraddizioni sono integrazioni di verità, e più ce ne sono.... Confesso che se il contraddirsi è una virtù, Grimaldi l'ha esercitata in grado eroico; ma non sarò io che mi sentirò la forza di ricercarle, e poi ricucirle tutte, queste mezze verità! Tuttavia mi pare che tra luce e suono sieno troppo prevalenti le negazioni sulle affermazioni di analogia. C'è una ragione profonda per la quale gli animali possono chiudere gli occhi, ma non gli orecchi.... e Grimaldi si trovava particolarmente in fase negativa scrivendo in XXII, 9 che il suono, se pur si voglia assegnare uìi qualche oggetto esterno al senso del- Pudito, è prodotto da un corpo percosso; mentre per il colore basta qualche « ondulazione increspata » nella luce che è visibile di per sé; e in questo, secondo lui, sarebbe tanta disparitas inter sonum et colorem, che qualche comparabilità non è neppur da pensarsi. La enormità della differenza, tra l'altro, sta in questo: che la natura del suono dipende per intero dalla qualità del corpo percosso; la natura del colore — secondo lui — sta solo nella luce: il che è un'altra conseguenza delle sue idee storte sui « colori permanenti », E invece a quel tempo le comparazioni col suono erano ancora le meno infelici che potessero pensarsi per aprire uno spiraglio sulla natura del colore, come si vede in De la Chambre. Del resto, circa il colore, dimentica che tutto quanto di meglio ha saputo trovare lui stesso per generarlo è appunto un urto della luce in corsa contro un ostacolo materiale, qualcosa dunque come una percussione; sicché un papavero (quello che è rosso soltanto nel- l'anima) tiene appunto lo stesso posto della campana, mentre reciprocamente anche del suono si potrebbe dire che viene per aliquam specialem agitationem, magari anche sinuoso-crispata, nel modo indicato da Grimaldi, e in « cento altri incogniti ed inopinabili », come pochi anni prima aveva argutamente avvertito Galileo (Cap. XXI del Saggiatore). — 79 — Posto che r esistenza obiettiva della luce abbia bisogno di una prova, questa addotta non prova niente. Un sasso si riscalda al sole: questo dice unicamente che il sole gli versa addosso calore, non dice che questo calore sia contenuto nella luce. Si riscalderà anche per opera di un ferro da stiro tenuto a distanza, senza che questo gli mandi niente che Grimaldi possa chiamare luce: e questo anzi legit- tima il sospetto che — tra i doni del sole — luce e calore sieno distinti e separabili. Né il secondo può testimoniare dell' esistenza della prima. Difatti, senza accorgersene, lo mostra Grimaldi stesso quando tratta la luce della luna come non calorifica. E allora? La luce della luna potrebbe non esistere extra oculuin? Ma è — rinviata — quella stessa del sole: dunque, per la stessa luce, la (( prova » una volta c'è, e un' altra volta non e' è. Io avrei qualcosa di men peggio da suggerire al Grimaldi. Giacché in questo nostro ormai lungo discorso ci siam trovati in mezzo a vescovi, preti e frati, tanto vale completare e metterci la chiesa il sagrestano e gli scaccini: quando si avvicina Pasqua nelle chiese si comincia a pensare ai (( sepolcri » : nel cui addobbo, convenientemente malinconioso, il pezzo forte è dato da grandi vasi traboccanti di un pallido esile capillizio di steli procombenti: sono veccie o senape che 10 scaccino ha fatto germinare e crescere al bujo qualche giorno prima. L' abito d' una veccia verde è talmente e tanto diverso da quello di una eziolata che non c'è bisogno di vederle: si distinguono al bujo toccandole. E qui non e' è ferro da stiro né altro surrogato da chiamare in soccorso: la luce e soltanto la luce — la insostituibile luce — o la sua mancanza — operano tanta differenza. Perciò, come prova di esistenza extra ocivluin, è men peggio la mia. Circa il modo di concepire l' effetto calorifico rispetto a quello luminoso, una impostazione fisica veramente giusta non era possibile, a quel tempo, per nessuno; perciò io debbo dare molto peso alle opinioni, anche a quelle non suffragate da un gran corredo di fatti. E per meglio precisare dove sia l' importanza che io annetto a queste opinioni desidero ribadire quello che, per me, è il vero problema. 11 Sole versa sulla Terra contemporaneamente ma distintamente calore e luce, o invece versa una cosa unica che produce insieme i due effetti? E la inseparabilità della vis calorifica dalla radiazione luminosa ciò che costituisce il concetto importante, e sul quale le prime conseguenze delle scoperte newtoniane e certi affinamenti tecnici portarono in epoca — 80 — posteriore una fase di oscuramento, e nella interpretazione piuttosto un regresso, stranamente correlativo al progresso sperimentale. Nel De la Chambre la parte relativa ai rapporti fra calore e luce è una delle meno felici. La luce che illumina i corpi, li riscalda anche: quello che piìi all' autore sta a cuore è di respingere P opinione di coloro che vogliono ridurre tale azione della luce ad una semplice conseguenza del suo movimento, sulla base del presupposto che ogni movimento abbia la virtù di scaldare. Potrebbe essere persino comico seguire i ragionamenti, così poco aderenti alla verità, eppur formalmente giusti e serrati, coi quali l'autore combatte quella tesi; ma affrettiamoci alla conclusione, che è questa: la luce, pur senza essere né un fuoco né una fiamma (ciò eh' è impossibile dacché la luce non è un corpo) ha la proprietà calo- rifica in sé stessa, non virtualmente ma formalmente. La virtù calorifica è contenuta nella luce come un minore è contenuto nel maggiore: come il 3 può pensarsi contenuto nel 5. Il che è appena un espediente per mascherare un pensiero ancora immaturo. Peraltro una cosa è degna di rilievo: il calore non è aggiunto alla luce, né è un suo effetto secondario come sarebbe se dipendesse dal suo moto: è la luce stessa in una delle sue manifestazioni. E un pensiero diverso dal nostro, ma meno lontano dal vero di quelli che predomineranno in epoche posteriori. In armonia con i suoi principi 1' autore afferma che, contro le apparenze, i raggi luminosi di qualunque sorta sono naturalmente calorifici: e anche qui si vede quanto sia più vero questo pensiero seicentesco, di altri che prevalsero in epoche successive. E, per aggiungere qualcosa di più fisico e di più tecnico, è bensì vero che i raggi del sole scaldano anche dopo aver attraversato 1' acqua e il ghiaccio, ma alla lunga sotto la loro azione anche il ghiaccio si fonde e 1' acqua si riscalda. Il che vuol dire che De la Chambre s' è accorto che anche il mezzo, qualunque esso sia, assorbe in qualche misura e non è interamente diafano; e che la luce attraversandolo lascia in esso qualcosa di sé, e ne esce alquanto diminuita. Dopo vista r opinione di De la Chambre, che è la prima degna di rilievo nelF epoca immediatamente antecedente al Grimaldi, proce- dendo a ritroso merita sosta quella del Kircher, che per me assume grande importanza. Egli si occupa della questione in molti punti, e specialmente nel Cap. XIII, libro V\ parte l'*, ma già sul principio, a p. 31, aveva — 81 — cominciato ad enunciare come inseparabile triade: Calor, Color, Lux; finché a p. 919, nella parte del resto assai sobriamente dedicata alla teologia della luce, mette il coronamento al suo modo di vedere, pur sulla base di una formula modificata. Tirando le somme, il calore è (come il colore) la luce stessa in un' altra delle sue manifestazioni. La potenza calorifica, la vis cale- factiva non è qualcosa di distinto, né di concomitante, né di aggiunto o di sovrapposto; ma è compresa nella essenza stessa della radiazione ed abbracciata nella sua unità. Infine, la vis calefactiva entra in una specie di Trinità, e perché questo insieme che è trino debba essere anche uno bisogna che la vis calefactiva sia come riassorbita nella unità d' essenza della luce. La contaminazione fisico-teologica, per una volta tanto, non ha prodotto altro che bene: in questa circostanza il pensiero di Kircher assume un atteggiamento cosi felicemente e stranamente lungimirante, che le idee correnti piìi di un secolo e mezzo dopo — diciamo quelle seguite nel periodo tra Herschel e Melloni, ed anche un poco oltre — rappresentano non dico un regresso, ma un vero capitom- bolo ali' indietro; ed occorrerà ancora del tempo per rimettersi alla pari. Dopo di che, a completare lo sfondo storico, rispetto al quale soltanto potremo saggiare a paragone il valore delle idee di Grimaldi, non resta che accennare al maggior personaggio: Kepler. Il quale si occupa della questione dalla Prop. XXXII alla XXXVIII dei Paralipomena. Propostosi di derivare il concetto che la luce è calda dai principi da lui assunti, ribadisce che il calore le è proprio; ed anzi: lucis color immateriatus est (dove queW a immateriatus )) ha la stessa funzione che molto tempo dopo verrà svolta dall' aggettivo (( raggiante » nel termine <( calorico raggiante »). Vale a dire che il calore è già fin d' ora la luce stessa o un suo modo di manifestarsi. Ma il merito principale è forse quello di aver tracciato i primi linea- menti di una teoria dell' assorbimento. Chiama nero il colore che non emette luce, ma nota che tuttavia è il piìi caldo, appunto perché piìi luce va consumata in lui: il nero raccoglie i raggi, il bianco li dissipa. Al qual proposito, benché sia uno sconfinamento in epoca posteriore al Grimaldi, non so tenermi dal ricordare la materializzazione che Boyle farà di questo concetto kepleriano raffigurandosi i corpi bianchi come aventi una superficie data da una infinità di particelle convesse e perciò divergentemente riflettenti la luce, e al contrario i neri con — 82 — superfici tutte composte di particelle concave come coppe avide di raccogliere. Quale posizione prende il Grimaldi in questo movimento di idee? Quando egli dice che luci di diversa provenienza riscaldano di- versamente anche se appajono di ugual chiarore — il che in linea di fatto può esser vero — egli intende prospettare il caso estremo di luci prive di facoltà calorifica, e ne addita una in quella della luna. A questo mira quando invita a scaldarsi al lume di luna, ciò che del resto — sia detto di sfuggita — Santoro credeva di aver già fatto, e Montanari lo crederà ugualmente tra poco. Con questo egli parzialmente scinde il concetto di luce da quello di calore, va contro alla comune sentenza dei tre predecessori citati, e soprattutto ali" esplicito' avvertimento di De la Chambre, e segna perciò un qualche regresso. Che non esistano corpi interamente trasparenti, che i trasparenti si scaldino meno degli opachi, e i bianchi meno dei neri, è roba vecchia e che riprende dai predecessori, specie da Kircher; ed ho V impres- sione che sia pure ripetuto, non originale, V esperimento — comun- que interessante — di scaldare un ferro coi raggi di un sole d' estate passati attraverso una corrente di frigida acqua (Vili, 8, pag. 98). L' intento dell' esperimento è quello di escludere che il calore mani- festatosi nel ferro sia venuto per quella che poi sarà detta « condu- zione » cioè come una partecipazione al calore del mezzo circostante, dal che sembra quasi necessariamente seguire una precisazione della sede dell' assorbimento, che sarebbe esattamente collocata nel ferro stesso, e sorgere in pari tempo il quesito se la radiazione possa o no passare senza scaldare lungo il tragitto. Tutto ciò in mezzo a discorsi vuoti o semivuoti come questo: se la presenza del sole basti da sé a scaldare, o se qualcosa debba passare dal sole alla mano che si scalda, e se quando il ferro o una mano si sono scaldati possa o non possa dirsi che il loro calore provenga dal sole (XI, 12. 13). Importante sarebbe piuttosto poter vedere chiaramente se e quali sviluppi porti Grimaldi al già abbozzato concetto di « assorbimento », e soprattutto se vi sia qualche presentimento del relativo concetto di trasformazione di queste che saran poi chiamate energie. Ma qui si incappa nel solito inconveniente : che Grimaldi ne dice tante, e discordi, in modo che fra le varie si potrebbe tirare a sorte. Sicuramente, tuttavia. — 83 — riprende il concetto di Kepler che il nero sia il colore più riscaldabile, appunto in quanto raccoglie in sé, imprigionandola, la luce; e — questa è davvero una buona idea — dice che i corpi opachi non possono esser tali del tutto perché non si riscalderebbero se in qualche modo non ammettessero in sé e non imprigionassero questa luce. Ma che cosa farà dentro ai corpi — neri ed opachi — la povera prigioniera? Si dibatterà. Qui infatti ricomincia la storia dei pori: ci si ricordi che i pori dei corpi opachi sono tortuosi, e la luce vi è dunque presa come in un labirinto, vi si agita, e V ostacolo che vien fatto al suo libero corso, e che è tanto piìi forte quanto meno il corpo è diafano, provoca un seguito di confricazioni, contusioni (XXIV, 12), concepite proprio meccanicamente, sicché il calore generato è come il prodotto di un martellamento interno operato dalla luce, e perciò uguale a quello che proverrebbe da un martellamento o da un attrito esterno. Due cose ne vengono di conseguenza: che il calore deriva solo indirettamente dalla luce, che è quello appunto che i tre antecessori, e specialmente De la Chambre avevano escluso; e che il calore durerà nel corpo quanto vi dureranno la luce e il suo martellamento, come qualcosa venuta accanto alla luce, e non come la luce stessa che spo- gliata la sua veste \Tisibile abbia assunto quest' altra, diversamente ma pur sempre sensibile. E non v' è perciò V affermarsi dell' idea che anzi il calore si generi in quanto la luce si trasformi: né — a pensarci bene — poteva esserci: perché il calore è accidente, e mai il Grimaldi avrebbe potuto convalidare una idea del genere senza sconfessare apertamente la sostanzialità della sua luce: una sostanza, s'è già detto, non può divenire accidente. Ed egli, irretito dalla sua stessa dialettica, non può evaderne. Quel travestimento che s' è detto, della luce che spogliando la sua veste visibile assume quella calorifica si sarebbe trovato progre- dendo decisamente nella direzione accennata da Kepler, Kircher, De la Chambre; e non è detto che Grimaldi non ne senta l'impulso: lo sente, anzi; e vorrebbe soddisfarlo con qualche decente compro- messo: ad un certo punto si domanda se il calore-accidente non potrebbe pensarsi come (( subjectabile » nella sostanza-luce e da essa direttamente trasferibile nei corpi materiali; ma poi forse si accorge che con questo concederebbe al calore-accidente quella trasferibilità 'da soggetto in soggetto che aveva così accanitamente negata alla luce- ~ 84 — accidente, e preferisce non insistere. Mi fa veramente ridere Goethe quando dice : (( si vede bene che 1' autore è molto esperto in tutte le sottigliezze della dialettica » : io direi che spesso ci si muove come un pulcino nella stoppa; e questo dei rapporti tra luce e calore è uno dei casi. Abbandonato il tentativo d' una ulteriore chiarificazione sul piano concettuale, s' impiglia in complicate spiegazioni sul preteso fatto che un corpo esposto al sole si scalda prima se sta fermo che non quando si muove, sosta sulla domanda perché il flusso magnetico non riscaldi {^), finché scivola sul magazzino delle curiosità: gli sternuti provocati dalla (^) Le considerazioni analogiche ricavate dallo studio del magnetismo costi- tuiscono una delle migliori parti del libro. Anche il magnetismo, per Grimaldi, non agisce e non può agire a distanza, ma per una trasmissione mediata, pro- cedente per contiguità, come è forse reso meglio dal francese « de proche en proche % cioè, come la luce, attraverso qualcosa di interposto: infatti la po- tenza del magnete può essere modificata da corpi interposti, e si attua per certe linee che non solo si rifrangono (ciò che De la Chambre nega) ma anche si riflettono (VI, 27): la virtù magnetica ricevuta nel soggetto, può rimanervi benché solo in parte, e durare in esso anche quando il magnete è allontanato. Dove bisognerebbe attenuare la portata di certi termini e intendere generi- camente che l'autore parli di deviazioni di linee di forza dipendenti dalla diversa permeabilità dei mezzi. Ma anche pel magnetismo, purtroppo, ricomincia l'altalena sostanza-acci- dente, e — se accidente — qualitativo o d'altra specie; e — se qualitativo — d'una sola specie o di due, e così via... finché quando si decide a dire «racco- gliamo le vele » (VI, 86), si finisce per capire che — per quanto ammirevoli siano le proprietà del magnetismo — non c'è ragione per escludere che sia una sostanza, e — come la luce — - anch'essa fluida, anch'essa non veramente compenetrante i corpi in cui entra, anch'essa capace di attraversare i pori; tant'è vero che la tenue sostanza magnetica può essere in parte espulsa dal ferro per flessione, contusione, e quasi « espirata », così come una espirazione odoros'a effluisce dalla buccia d'una mela o d'un limone violentemente striz- zata (VI, 46). Interessantissimi paragrafi, sia per gli esperimenti con la lima- tura di ferro e con magneti liberi e vincolati in vari modi, sia per le idee sulla terra, qualificatavi come il « magnete universale » (VI, 38), e nella quale un duplice effluvio di fluido magnetico muove dai poli verso i tropici... interes- santissimi, benché non privi di qualche favola, come quella, per esempio, che estraendo il succo di una pianta e facendolo rapprendere dopo averlo sparso, le sue particelle si raccolgono e si ordinano in modo da formare disegni ripro- ducenti la figura della pianta (VI, 66); ciò che sarebbe stato tanto facile con- trollare per falso. luce (che, purtroppo, si trovano anche m Kircher), i rapporti tra luce e maree, i suoni che si senton lueglio di notte che di giorno, perché F aria illuminata li conduce meno bene, etc. Concludendo, per quanto dica che la virtìi calorifica del sole non è distinta da quella luminosa, poiché segue le stesse leggi (di rifles- sione, etc), il legame tra luce e vis calefactiva è in lui molto meno profondamente sentito che nei tre citati antecessori; e questo è un regresso: temperato tuttavia da quei fermenti positivi e sperimentali eh' egli dissemina con larga mano, e da un accentuato sforzo verso una rappresentazione fisica dei rapporti fra luce e ealore, che gli sarebbe riuscito più fruttuoso se avesse potuto muoversi liberamente, senza r impedimento di quella catena legatasi al piede : la sostanzialità della luce. EIDOLA, SPECIE INTENZIONALI E COLORI Giove, Minerva — è stato detto — non furon mai confutati. Svanirono da sé, si dileguarono, appena la gente si accorse che nessuno più ci credeva. Vale a dire che nominalmente continuarono ad essere oggetto di un omaggio esteriore, di un vuoto culto ufficiale, anche un pezzo dopo che intimamente eran già morti. Accadde dell' altro : che le loro statue, cambiato nome, servissero per altri culti e per altri riti. In parte (solo in parte) può dirsi lo stesso per gli èidola. Voler restringere in breve epoca, o peggio legare ad un nome la loro scom- parsa, sarebbe un non senso storico: meglio che scomparire, essi, dopo aver compiuto una inestimabile funzione, gradatamente si smate- rializzano, si cambiano in « specie intenzionali », e F ulteriore transito in specie visive sempre meglio aderenti al piìi recente concetto di immagine ottica (anch' esso, del resto, di tutt' altro che facile defi- nizione; elastico anch'esso e disputabile), è quanto di più graduale e di più sfumato possa immaginarsi. Non questo il luogo per tracciare una così lunga e interessante storia; ma si può ricordare per cenni che quando, nei maestri della scuola S^Abdera, in Leucippo, in Democrito, fanno la loro comparsa i (( sinuilacri », emanazioni che conservano i caratteri specifici degli oggetti da cui provengono e agiscono come suggelli sull' aria interposta fra r occhio e l' oggetto, un passo avanti vien fatto in confronto a Parmenide d' Elea, in cui prevaleva la risoluzione di accordare all' occhio una parte attiva, facendogli emettere dei raggi i quali andassero a toccare quasi come mani gli oggetti veduti. Preparata da Empedocle, piena di vigore e di poesia si dispiega in Epicuro questa concezione di lievi involucri vuoti fluttuanti nel- r aria, che ci portano come i messaggi delle cose, anche di quelle che da tempo han cessato di esistere, anche di quelle a noi negate, per noi inaccessibili: fragili pellicole atomiche, che nel tragitto possono anche alterarsi o fondersi causandoci i fantasmi del delirio e del sogno: i centauri e le chimere. - 87 — Quando, col tempo, gli èidola, le vestigia, i simulacri, diventano (( specie intenzionali », la smaterializzazione, o è già a\^ enuta virtual- mente, o è in cammino : quella parola (( intenzionale », tra i molteplici significati che può avere, ne ha spesso in S. Tommaso uno assai sem- plice: è sinonimo di imago. E V imago è solo qualcosa che porti un indizio manifesto e sicuro di ciò che le ha dato origine, un segno di somiglianza specifica rispetto a ciò da cui fu tratta. Ho detto di voler procedere per cenni; e per chi è del mestiere basterà appunto un cenno: Andrea Cesalpino nelle Questioni Peri- patetiche (libro \. q. 8"). dunque verso il 1571, era già pervenuto a tal punto: che il colore è un modo di reagire delle cose rispetto alla luce; e che non è perciò veramente una proprietà delle cose. Questo dice, in altre parole, che le « specie intenzionali » stanno diventando pura luce. Nel concetto di specie intenzionali non vi è nulla che necessariamente contrasti V idea di una pura innnagine ottica, formata o in formazione. Certo, uno degli uomini piìi retrivi, meno aperti all' a\^ enire. fu — nel suo tempo — Aguilomus: egli accentua fortemente la differenza tra i colori apparenti e quelli corporei, fissa questi ultimi in una unione coi corpi talmente stretta che il colore non possa distruggersi senza distruggere il corpo stesso; ma quando mette in campo una terza specie di colori, quelli nozionali o intenzionali, tali che si muovano in aria, che possano raccogliersi con una lente, e perciò deviabili, rifrangibili; e suppone che lungo il canmiino tendano a rivelarsi, ma che non possano realizzare questa (( intenzione » finché non si gettino su un corpo opaco, e a questo fine li raccoglie su uno schermo bianco; egli, Aguilonius, forse inconsapevolmente, o forse anche contro sua voglia, dà una spinta potente alla evoluzione delle ((specie»; e quasi direi che — da opposta sponda — egli stenda una mano verso Kepler il quale, quando raccoglie in aria le immagini (( pendule » e le converte in (( pitture )) sopra lo schermo, stringe le specie visibili entro una determinazione ormai così esatta, che T ul- timo passo può dirsi compiuto. Ed è per questo che Descartes ( il quale per suo conto aveva detto che i colori nei corpi da noi chiamati colorati altro non sono che vari modi in cui questi corpi ricevono la luce e la rimandano indietro nell' occhio) non avrà bisogno di prendere alcun atteggiamento polemico, e quando sul principio della Diottrica dice: ((non v' è più _ 88 — bisogno di supporre che passi qualcosa di materiale dagli oggetti fino ai nostri occhi ... la vostra mente sarà liberata da tutte quelle imma- gini che volteggiavano in aria, chiamate specie intenzionali, che affa- ticano tanto r immaginazione dei filosofi », egli fa poco piìi di quel che può fare un notajo quando firma un atto di morte. Morte degli antichi èidola materiali; trasformazione, evoluzione delle (( specie vi- sive )). E tuttavia, se ciò non basti, se si voglia vedere più da presso lo stato della questione in un tempo più immediatamente prossimo a quello di Grimaldi, il meglio sarà di rivolgersi a De la Chambre, cogliendo anzi l' occasione per rimaneggiare tutta la materia, nella cui ampiezza è facile che sfuggano le molte connessioni. A fondamento della teoria dei colori in De la Chambre sta il principio psicologico che il senso è V unico giudice del suo proprio oggetto, e che la ragione non ha né diritto né mezzo per contraddire il suo giudizio {Lum., p. 27); il che è giustissimo finché si parli della sensazione in sé. Men giusto, anzi insostenibile, è che il senso sia testi- monianza verace di condizioni esterne; ma se l'Autore inclina troppo verso questo errore, ciò costituisce storicamente una reazione utile — e persin necessaria — contro la tendenza di attribuire alla vista in confronto con gli altri sensi il monopolio delle illusioni, e quasi un ruolo di sistematica ingannatrice. I colori — apparenti o reali che voglian dirsi — sono luce e soltanto luce; perciò veri come è vera la luce. Tanto nella azione prossima e controllabile del prisma, quanto nella formazione, più lontana, dell' arcobaleno, non e' è niente che formi il colore all' infuori della luce: nei «colori apparenti» è la luce stessa che si cambia in colore; il corpo opaco [lo schermo] che usiamo perché ci si manifesti non fa che riceverla, ed essa è in aria prhna di cadere su di lui: anzi dico male che la luce si cambi in colore; dirò ben meglio: che il colore è pura e semplice luce senza nulla d'aggiunto o di mescolato, e la luce tiene in sé V essenza di tutti i colori. {Lum.. p. 126; Iris, art. 3", p. 36 e passim). Può esser giusto dire che un paesaggio lontano è solo apparente- mente bleu, ma in quanto 1' attributo (( apparente » lo si riferisca al paesaggio, non al color bleu che per sé stesso è vero e reale, nessun colore che si presenti all' occhio non potendo non esser vero e reale, come reale e positiva è la luce che lo forma; come reale e positivo 89 — è r azzurro del cielo : che se pur veramente non si possa dire che r aria è azzurra, lo è bensì la luce da essa modificata. E dicendo che il colore non è se non luce modificata, questa mo- dificazione non s'ha da intendere minimamente come un cambiamento di natura, ma come un indebolimento, tanto particolare tuttavia che solo un paragone col suono può renderne F idea : non come l' inde- bolimento d' un suono che s' allontani, bensì come quelP apparenza FiG. 5. - Riproduzione (leggermente ingrandita) di una figura, a p. 243 del De Lumine, con la quale il Grimaldi indica la disposizione opportuna per un esperimento inteso a mostrare che la modificazione cromatica di due fasci di luce è indipendente dallo spessore del vetro attraversato in un prisma. d' indebolimento che dà quando passa dalla pienezza del tono grave alla sottigliezza dell' acuto... : barlumi d' un' idea che troverà in Ma- lebranche migliore sviluppo. Lucida, vigorosa, tra le migliori eh' io abbia mai letto, la confu- tazione dell' idea antica che i colori vengano da varia mescolanza con r oscurità, e dell' idea, recente, che vengano da una influenza o infezione esercitata sulla luce da qualcosa di materiale o di opaco, ciò che appunto si voleva spiegasse l' azione del prisma {Iris, p. 58-63, Lum., art. 4" e 5° Lib. I, etc). Era stato de Dominis a proporre una considerazione, che — tenuto — 90 — conto del tempo — appare, pur nel suo errore, piena d' acume : cioè che nel (( vetro oblungo-triangolare » [il prisma] i raggi penetrati vicino allo spigolo, ove è minima la grossezza del vetro e perciò minima l'opacità, escono punicei [rossi], più sotto escono verdi; ultimi i purpurei, che pavonacei [paonazzi] anche chiamiamo, e son quelli che han risentito del maggiore spessore attraversato, lo spessore del vetro avendo una diretta influenza di oscuramento: il ceruleo sta tra il verde ed il porpora. Si potrebbe — in considerazione della figura qui dietro — attri- buire a Grimaldi il merito d' aver provato la fallacia di questa spie- gazione mostrando che la formazione e successione dei colori è la stessa tanto per un fascetto che attraversi il prisma verso il vertice, quanto per uno che lo attraversi vicino alla base; ma storicamente tale esperimento non vai nulla, essendo appena una variante di quello di De la Chambre, che nell'art. 4** del Libro I della Lumière fa la comparazione — assolutamente equivalente — del comportamento e della colorazione dei raggi che attraversano un prisma grosso e un altro piccolo, in modo che lo spessore maggiore attraversato nel pic- colo verso la sua base (e che dà il bleu- viola) equivalga o sia inferiore allo spessore attraversato nel grande prisma verso lo spigolo (e che dà il rosso): Grimaldi non ha fatto altro che operare con un sol prisma invece che con due. Se dai colori, che generalmente dicevansi apparenti^ passiamo a quelli fissi o reali, ci imbattiamo in una stravagante opinione del De LA Chambre: che invece di omologarli, caso mai, a luci riflesse dagli oggetti, egli li omologa a quelle che chiama luci radicali, quelle cioè di cui rilucono i corpi che splendono di luce propria. L' idea è strana per F epoca, e benché il De la Chambre sembri volerne la paternità tutta per sé, io invece vorrò scorgerne la prima radice in Platone, per il quale il colore è fiamma uscente dai cotpi {Timeo, XXX), vorrò scendere nel profondo medioevo, per trovare in Gros- SATEsta che il colore è luce incorporata nel perspicuo, ciò che verrà ripreso quasi alla lettera da Kepler, che nella prop. XV dei Parali- pomena lo dirà « luce sepolta in pellucida materia ». E tuttavia, sotto un certo aspetto, questa era la peggior soluzione che De la Chambre potesse adottare; ma dal ristretto punto di vista in cui ora ci poniamo, era anche davvero la piìi (( radicale » per venire a dire che anche questi colori, come quelli apparenti, sono luce, tutta — 91 — luce, nient' altro che luce. E di conseguenza quelle specie, che De LA Chambre non vuol chiamare intenzionali, e chiamerà soltanto «visive» (anche perché gli ripugna di sminuire la dignità della luce assegnandole una funzione rappresentativa rispetto a vili oggetti mate- riali: e ((intenzionale» significa appunto ((rappresentativo») vanno, in mezzo omogeneo, per linee rette; ma quando occorre si rifrangono con le leggi ben note, si riflettono al modo noto: sono costituite di nient'altro che di raggi di luce, che traversano l'aria (^); e i raggi son vere linee, e ognuna di esse porta Y inunagine del (( punto rischiarante » da cui proviene (Iris, p. 65, p. 232-4; Lum., p. 207, 363, e altrove); né questi raggi vengono dalla semplice estrema superficie del corpo; ma anzi da un certo spessore della sua profondità, come lo dimostra il fatto che si soglion dare più strati di vernice. Se si prescinda dagli accessori, se si rimuovano alcune superfe- tazioni, i lineamenti dell' ottica di De la Chambre restano, in proposito, essenzialmente questi: egli attribuisce a sé stesso la dimo- strazione di ciò eh' egli crede un gran progresso (ma che veramente si trova già in autori precedenti): che la luce esterna (l'antico lumen) è della stessa natura della luce radicale {lux); e poiché i colori cosiddetti apparenti sono luci esterne e quelli cosiddetti reali sono luci radicali, gli uni sono della stessa natura degli altri, e gli uni e gli altri sono luce, avendo la stessa natura della luce. Facendo il sunto dei sunti: luci esterne e luci radicali, colori apparenti e colori fissi, specie visive (o immagini, eh' è la stessa cosa) sono costituiti soltanto da una stessa identica unica cosa, eh' è la Luce. Non si oppone a che per ragioni pratiche si serbi la distinzione tra colori fissi e mobili (parola non così equivoca come (( apparenti »), purché si resti intesi di questo: che i mobili hanno gli stessi effetti e le stesse proprietà dei fissi, perché sono della stessa natura. Per un sol colore si potrà consentire di dirlo apparente: il nero; ma in verità esso è privazione di luce: è perciò anche privazione di colore, e dunque non può essere propriamente un colore. Si potrà dir tale solo convenzionahnente. (^) Va da sé che quando le « specie » sono scorporizzate e ridotte esse stesse a pura luce, vien meno anche quel complesso rapporto rispetto ad una luce- guida che le conduce attraverso il supporto-diafano: le «specie» hanno impa- rato a camminare da sole. — 92 — Dopo di che, al Grimaldi rimarrà da sfondar porte aperte. 0, per esser piìi giusti, da allargarle, perché le nuove idee fluiscano più rapide. Combattente di retroguardia, si adopra — per continuare il para- gone bellico — a (( svuotare » certe (( sacche » ad esaurire certe resistenze che gli altri s' eran lasciate indietro, ansiosi solo di avanzare: sotto certi aspetti egli è V ultimo epigono di Alhazen, e chiude un' epoca. Certamente anche io penso che, come dice Cesare Balbo ( Som- mario, prefaz. 3" ed.), « non si suol scriver ciò di che tutti sien già persuasi; si scrive appunto per far passare le proprie opinioni dalla minorità alla pluralità », e che naturalmente ciò implichi una specie di tensione; ma Grimaldi spesso passa il segno e finisce per ritrovarsi dalla parte del torto: vogliamo darne un esempio, attraverso un caso di estrema cavillosità. Nella Prop. XXXIX, volta a mostrare che per vedere una cosa non sempre è necessario eh' essa sia colorata, né lucente per sé, ne da altrove illuminata, egli si domanda cos' è la visione in senso lato ; e risponde che è qualsiasi atto di cognizione oculare anche confusa, e che di un oggetto dia nulla piìi che la figura e la posizione: così diciamo di vedere, di sera, le strisce (che a quell' epoca erano, credo, di piombo) che tengono insieme i vetri delle finestre; e in una notte di luna diciamo di vedere un campanile od un albero sol perché la sagoma di questi oggetti spicca tutta nera contro il chiarore del cielo. L' argomento vorrebbe esser valido contro le (( specie ». Certo, sa- rebbe difficile sostenere che, in quelle condizioni, la striscia di piombo, il campanile e 1' albero, possano emettere le loro (( specie ». Così come, se si ritagliano in un foglio di carta dei caratteri o altre figure, guardando il foglio contro lo sfondo di una stanza buja, potremo dire di vedere come tinti in nero tutti i vuoti, benché questi vuoti certo non possano far volare in aria le loro specie pivi o meno inten- zionali. Tuttavia, è evidente che questo vedersi dei vuoti è in realtà un non vedere, e soltanto la interruzione e il venir meno della inunagine nelle aree corrispondenti ai buchi della carta, la quale potrà mandare le sue specie, o magari i suoi èidola, da tutte le sue parti tranne che da quelle asportate. È un « non vedere » che solo per contrasto somiglia a un (( vedere » ; è un non vedere privo non solo di èidola, ma anche privo di luce. Se un tale argomento dovesse essere ritenuto per valido, — 93 — esso varrebbe non solo contro gli èidola, ma contro tutto, luce com- presa: si può forse pretendere che la luce venga riflessa da un buco? Dove vuole arrivare Grimaldi? Pel solo gusto di distruggere le (( specie )) vuol forse dimostrare che le cose si vedono senza luce? C) Andrebbe a finire proprio così, dato che le a specie » ormai son quasi la stessa cosa delle immagini ottiche. Davanti a ragionamenti cosi capziosi dico francamente che non so se in fatto di bile (cfr. XLV, 41) Grimaldi non rimanga sempre in credito lui. Gli èidola, il colore intenzionale di Aguilonius che si muove invisibile nello spazio e si rivela solo come pictura super opaco (locu- zione grimaldiana — XL, 12 — di stretta ispirazione kepleriana) e la (( luce modificata » di Descartes o di Grimaldi sono tre stadi metamorfici sopra una stessa linea evolutiva. Meritano una sosta certi particolari sui colori. Non e' è, in tutta la storia dell' ottica una cosi bella sfilata di parole, molte delle quali suggestive ed alate, come quella che serve, nei secoli, a denominare quei colori che — conformemente ad un poco felice giudizio di Seneca — furono più comunemente detti apparenti (cioè quelli che si vedono in un corpo solo quando è collocato in un certo modo sia rispetto alla sorgente illuminante, sia rispetto all' occhio che li vede, e possono mutare col mutare di queste circo- stanze), ma anche transeunti, mobili, mutabili, variabili, cangianti, e poi fantastici, enfatici, fulgidi, queste parole non essendo intese come una qualificazione aggettivale, ma come un termine tecnico adeguato a designarli ; e che de Dominis preferirà chiamare splendidi, nelF atto in cui li dirà (( derivati dalla luce » ed anzi nient' altro che luce essi stessi; mentre Kircher, con riferimento al modo più facile e noto per ottenerli, li chiamerà anaclastici. A contrasto, sono pedestri e terragne le parole usate per designare r altra categoria di colori : quelli reali, o propri, o fissi, o materiali^ il termine più usato essendo forse permanenti. La tendenza alla distinzione, anzi al contrasto fra queste due categorie, e la opposta tendenza alla unificazione, portano a varie questioni tra cui molte di pura lana caprina, e ad atteggiamenti inte- (^) Poiché in XLIII, p. 368, Grimaldi sembra indulgere alle storie di colori percepiti con le mani, cioè ad una sensazione colorifica per via tattile, ci sarebbe da domandargli appunto se questa è possibile o no al bujo. — 94 — ramente falsi, specie ove il buon senso non ajuti a tener presente, fra r altro, quanto di convenzionale e di abbreviato e' è in ogni linguaggio, a cominciare da quello scientifico. Molto interessante al riguardo è la posizione di De la Chambre, che realizza la più conqjleta unificazione quanto alla essenza delle due categorie che sono ambedue pura luce, ma istituisce una separa- zione quanto all' origine perché i colori fulgidi, eh' egli chiama mobili, vengono a determinarsi in una luce esterna, o diremo noi già emessa, corrispondente più o meno al lumen, i colori fissi sono tali fin dalla emissione ch'egli immagina avvenire nei corpi colorati: ed essendo troppo ovvio che se i corpi colorati emettessero luce dovrebbero anzi vedersi meglio al bujo che non di pieno giorno, egli se la cava con una similitudine: come certi corpi odorano molto di più quando sono scaldati dai raggi del sole, così possiamo ammettere che la luce del giorno sia in qualche modo necessaria per ajutare la debole luce interiore a sbucar fuori, ad attraversare non so qual barriera super- ficiale del corpo colorato (^). In conseguenza, questa macchinosa concezione veniva a concor- dare con la più antica e primitiva interpretazione, connessa eon gli èidola, che cioè i colori esistessero nelle cose anche al bujo, e che alla luce spettasse la funzione di renderli manifesti. Ma già neir antichità s' era fatta strada l'opposta affermazione : i colori tutti non essere in alcuna maniera nei corpi, ma soltanto appa- rirvi; cioè che i colori non sieno qualcosa che stia di per sé negli oggetti, nei quali esiste soltanto una certa predisposizione, e come a dire una certa tessitura di particelle, che li determina a diversi modi di riflettere o diffonder la luce, nelle modificazioni della quale consiste il colore. Democrito aveva detto che i colori esistono per convenzione e AvEMPACE sapeva che tolta la luce ogni colore dilegua dai corpi. Conosciamo già F ultima conclusione di Ces alpino; e ogni miglior progresso da fare tra il cinque e il seicento poteva essere, in sostanza, un ritorno a Lucrezio (-). (1) Grimaldi combatte questo modello in XXVIII, p. 280. (2) Lucrezio già ben sapeva non aver senso una idea di colore che pre- scindesse da quella della luce, non esistendo colori senza luce; e che i colori non appartengono in proprio ai corpi che ce li mostrano : naturalmente in Lucrezio queste idee sono dominate dalla concezione atomistica, attraverso — 95 — Ma r una e V altra attribuzione — Y una che fa colorati i corpi, e r altra che fa colorata la luce — avrebbero potuto esser mandate a spasso insieme, osservando che veramente il colore non è nel corpo e non è nella luce, ma — essendo una sensazione — è nell'anima; ciò a cui del resto accenna — in un sua piìi completa interpretazione — la parola a intenzionale » che nella Scolastica assmne anche un senso gnoseologico, ed in tal senso indica più che altro qualcosa di sogget- tivo, interno al senziente, o un rapporto tra l'immagine conosciuta e r oggetto da cui fu desunta. E allora, non dove risiede il colore dovremo domandare, ma quali circostanze fisiche suscitano la nostra sensazione di colore. Domandare se per vedere il rosso del papavero sia piìi necessario avere il papavero o guardarlo non di notte ma di giorno, è come chiedere — mi si consenta di adattare al caso una frase di Stuart MiLL — è come chiedere a quale delle due lame di una forbice si deve r effettuazione di un taglio. la quale bisogna sforzarsi di intenderle. Il fatto che — come è stato detto — egli avvolga « di poetico manto » le idee di Epicuro non giustifica la tendenza a sottovalutarne il significato scientifico. Le traduzioni fatte dai letterati non sempre aderiscono bene al contenuto naturalistico : io le ho seguite solo in parte, ritoccandole ove ciò mi parve opportuno. I seguenti frammenti sono stralciati dal De rerum natura, libro 11°, fra i versi 730 e 833: « Ciò che appare bianco o nero alla vista non risulta di bianchi o neri germi « formato ; né del colore che i corpi riveste è causa un colore siniile di cui la « Natura abbia tinto i loro atomi. Non hanno colore i corpuscoli primordiali << della natura.... e devonsi solo al variare delle loro forme le tinte molteplici « delle cose e il loro mutarsi.... al come congiungansi insieme e come dispon- « gansi, e quali moti a vicenda ognuno imprima sull'altro o subisca,.., quando « si mescoli dentro di sé la materia o si sposti l'ordine degli atomi.... Che se di « cerulei germi constassero le onde del mare, esse non potrebbero mai coronarsi « di bianca spuma.,.., né i colori esistono senza la luce. Qual colore può darsi «nella tenebra? E quelli stessi che nella luce si vedono variano a seconda « che essa cada diritta o di fianco, come sulle piume del collo dei colombi, ora « rosse come piròpo e poi, mutando posto, miste di verde o d'azzurro, o sulla « coda del pavone che muta colore con la inclinazione dei raggi.,., mai non « sorge colore senza la luce.,,, e quanto più in piccole parti sminuzzi una cosa, «tanto più tenue diventa la sua tinta grado a grado scemando.... l'ostro si « smorza.... e ben prima di giungere agli atomi primordiali, il colore delle cose « si estingue ». — 96 — Nel binomio inscindibile, propendere per un termine o per 1' altro, è un non senso. Se è vero ebe il papavero, da solo, non fa il colore, è vero anche il reciproco: che la luce senza il papavero resterà bianca. Siamo perfettamente d' accordo : una data tessitura di particelle non può dirsi in nessun modo un colore; ma può ben dirsi una virtù colorifica, cioè una potenzialità che al sopravvenire della luce bianca si cambia in attitudine : V attitudine di modificarla in una luce che io vedrò rossa. E poiché tutte le volte che metterò insieme papavero e luce bianca vedrò rosso, ho diritto a ritenere che questa attitudine è permanente, ho diritto a parlare di una virtù colorifica permanente (^). Profittando del fatto che Molière, per ora, ha altro da fare {Le nialade imaginaire apparirà solo nel 1673) — al riparo dalle sue beffe — io dirò che il papavero appare rosso « quia est in eo virtus rubrifica » ; e lo dirò per la stessa ragione per cui, anni dopo, anche un raggio di Newton sarà raggio rubrifico. Il contradittore di Grimaldi se la sbrigava invece dicendo che il papavero è rosso, e parlando di colore permanente. Per riprendere il paragone di Stuart Mill della forbice e dei taglio, Grimaldi può essere scusato quando, per legittima reazione, affila soltanto una delle due lame ; ma se distrugge V altra, la forbice non taglia più. In certi momenti pare voler polverizzare, volatilizzare, il concetto di (( colore permanente » ; e allora non è soltanto il « docto corpore » dei Peripatetici, ma è il buon senso scarpone dell' uomo della strada, è la nobile corporazione dei verniciari, che han diritto a ribellarsi. Grimaldi a un dato punto (XXVIII) dice che solo ai corpi lumi- nosi di per sé potrebbe appartenere un colore permanente; e che non è permanente il colore di quelli che riflettono semplicemente ('). (^) Si noti che in questo discorso il termine luce bianca è preso nello stesso senso di allora, e nel senso dell'ottica fisica recente: nel senso come lo usa Wood: legittimo — dunque — non solo allora per la ragione che su per giù la luce usata era soltanto quella del sole; ma legittimo anche oggi, benché diversissimo da quello che potrebbe avere nella fisiologia visiva. (-) Inaccettabile la ulteriore distinzione di Grimaldi tra colori propri ed alieni (cioè di altrui appartenenza) perchè nel tentativo di definire egli intro- duce elementi ipotetici, arbitrari ed incontrollabili, incompatibili con lo spirito di una definizione. — 97 — Ma più oltre (XXXII, e altrove) pare che senta il bisogno di aderire anche lui alla convenzione di chiamare fissi o permanenti quei colori che sempre appajono in un dato corpo appena s' illumina con « lu- mine puro ac sincero » cioè con luce bianca. Io osserverò che vi sono proposizioni di autori notissimi — Mau- ROLico tra i primi, poi molti altri — che non si sarebbe - saputo neanche come formulare senza la suddetta ammissione. Esse dicono press'a poco così: (( Qualunque superficie illuminata di pura luce emette una luce secondaria colorata del suo colore; quanto piìi il colore di una superficie è conforme alla luce che lo illmnina, tanto più intensa è la luce secondaria che ne potrà essere riflessa o diffusa ; o — sott' altra forma — ciascun corpo appare più luminoso in quel lume che è del suo proprio colore» (\). Sono espressioni di grandi ottici e si può star certi che sotto la forma difettosa celano una verità, ma la crepa logica è sin troppo visibile finché non venga sanata dalla intesa di assumere come colori propri e permanenti dei corpi, cp.ielli eh' essi mostrano quando sono investiti da luce bianca, e dalla ammissione che quando appajono in un corpo tali colori essi sono il risultato di certe sue disposizioni materiali e della luce insieme. Così il termine (( colore proprio » dei corpi sottintende una convenzione-definizione, quasi anchilosata in una abbreviazione estrema, in funzione pragma- tistica di (( economia di pensiero ». Coni' era da aspettarsi, vi ricasca spesso anche Grimaldi, come p. es. quando dice che un oggetto visto per rifrazione appare con colori non suoi; ove è implicita l'am- missione che ne abbia di suoi. Invero, il concetto di colore permanente non può, storicamente, essere sottovalutato: esso è la prima lontana radice di qualsiasi futura affermazione nel campo della specificità dei rapporti tra materia e luce, anche dove tali rapporti non abbiano più nulla che fare col (1) Quando Grimaldi fa presente e avanza come obiezione (XLV) che i corpi dotati di colori cosiddetti permanenti non si vedono dello stesso colore sotto diverse luci, come si può constatare nel proscenio dei teatri dove le luci artificiali si preferiscono a quelle del sole, egli non fa che ripetere questa stes- sissima cosa — dunque perfettamente nota a chi parlava di colore perma- nente — e con ciò dinientica o vuole ignorare in qual senso era presa tale « permanenza », ciò che invece egli sa tanto bene da averlo esposto lui stesso in altri passi del libro. — 98 — colore: spettri d'assorbimento, rifrazione molecolare, poteri rota- tori specifici, spettri di fluorescenza... su su fino agli spettri Raman (veri cartelli segnaletici C) per caratterizzare le strutture molecolari), tutto ciò ed altro ancora è inconsapevolmente contenuto in germe neir antico concetto di colore permanente, che sott' altri nomi vive necessariamente anche oggi, per es. nella inevitabile distinzione tra colori spettrali e colori pigmentari. La minimizzazione eccessiva, il quasi annullamento di questo concetto, era forse un passaggio necessario che V ottica doveva attra- versare nel suo sviluppo, e sarà tanto più interessante cogliere in questa fase due ricercatori cosi diversi come De la Chambre e Gri- maldi. Il leit-motiv grimaldiano è questo; il lumen incoloro si colora per molte vie, ed anche per ciascuna di queste presa isolatamente: per sola riflessione, per sola rifrazione, per sola diffrazione... ; e queste vie essendo intercambiabili e nessuna di per sé necessaria, poiché il lumen, è il solo fattore che in tutti questi casi non manca mai, deve essere il lumen stesso e nient' altro a generare . il colore. È un ragionamento che non persuade, anzi non è neppure un ragionamento. Sarebbe come dire: un battello a vapore, un veliero e una barca a remi risalgono un fiume: in mezzo alle loro differenze, quello che nei tre natanti e' è di comune è lo scafo di legno : dunque nient' altro che lo scafo di legno può essere il responsabile della spinta che li manda contro corrente. In realtà, quello grimaldiano è solo un elemento induttivo, legit- timo ma isolatamente insostenibile, e che deve cercare gli appoggi necessari. Grimaldi fa del suo meglio per trovargliene con la consueta abbondanza. Particolarmente la sua attenzione si appunta sulla colorazione che assume la luce passando per mezzi colorati: trova scusabili coloro che pensano che nel tragitto la luce si sia caricata di qualcosa di estraneo (XXXIII), tanto piìi che luci di diverse origini, e eh' egli con pensiero alquanto retrogrado continua a credere di diversa specie (pag. 251), passando p. es. per lo stesso vetro rosso si colorano allo (1) Non, mi raccomando, ((fiches anthropometriques » che c'entri Vanthropos non lo vedo proprio. — 99 — stesso iiiodo (^) quasi che transitando avessero asportato una qualche parte del vetro stesso facendosi perciò veicolo delle sue qualità ("'). Ora egli vuol combattere questa interpretazione spontanea e quasi istintiva, ed escludere che F effetto cromatico venga da qualche entità nuova coassunta, da qualcosa che si sovrapponga alla luce; e crede di pervenirvi riflettendo (XLI, e altrove) che se e' è una ragione prossima per la quale il lumen [bianco] passa a colore apparente, questa dovrà agire anche su luci colorate, nel caso che sieno ancora vere luci, e su quelle provenienti dai corpi che si dicono « perma- nentemente )) colorati, ed è in questo spirito eh' egli organizza un esperimento. Fa passare (XXXIII, 9) la luce per un vetro colorato d' un colore diverso dai tre soliti (che per lui sono rubro, ceruleo e giallo) che il prisma produce [eccezionalmente riesce a vedere anche il verde] : si stenta un poco a capire che colore avrà potuto essere, forse violetto, benché il modo generico di esprimersi sembri suggerire che l' espe- rimento possa essere stato fatto piìi volte con diversi colori. Questa luce, così tinta da un tal vetro, egli la fa passare per un prisma, dice che ne ricava i soliti tre colori, e ne conclude perciò che essa non è affatto mutata per mistione o coassunzione di qualche entità diversa dalla luce. È facile per un moderno errare nel giudizio d' un tale esperimento, cioè considerarlo attraverso un preconcetto newtoniano: ci si ricordi che qui non si tratta di giudicare se la luce è semplice o se si scom- pone in luci elementari: si tratta solo di vedere se la luce colorata è una modificazione della luce solita (bianca) o è la detta luce con cpialcosa in più, con qualcosa di asportato dai corpi; essendo noi, qui, in queir ordine d' idee che mette insieme il colore con le « specie intenzionali ». Qualora il quesito da risolvere fosse stato di sapere se quelle (1) Ciò che appare ugualmente attraverso liquori, foglie d'alberi, scorze di frutti, stoflfe sottili, ambra (e avrebbe potuto aggiungere il lobo dell'orecchio e 1 e palpebre stesse). (2) Noi oggi diciamo, al contrario, che si colora perchè perde qualcosa di sé; allora volevano che qualcosa vi si aggiungesse. Fatti che si ripetono, in un senso o nell'altro: flogisto che si perde, in un'epoca; ossigeno che si acquista, poco dopo. — 100 — luci colorate erano semplici o composte, la risposta sarebbe stata chiara e categorica: erano luci composte. Ma un tal quesito non poteva neanche pensarsi; ed essendo invece l'altro che s'è detto, r esperimento lascia il tempo che trova, anzi potrebbe ritorcersi contro la tesi dello sperimentatore: egli pretende che il colore sia luce mo- dificata, ma dacché passandola attraverso il prisma dà — a sua detta — interamente i soliti effetti [eppure un po' di differenza doveva esserci] non si vede alcuna prova della asserita modificazione; né d'altra parte r (( entità coassunta » resta esclusa, perché essa non è affatto tenuta a manifestarsi attraverso il prisma. Sempre entro il solco di un deviamento indotto dalle nostre attuali cognizioni potremmo chiederci perché mai il Grimaldi — che pur possedeva più di un prisma (come risulta da altre parti del libro) — • non abbia pensato di sottoporre all' azione del prisma una luce colo- rata proveniente a sua volta da un altro prisma. È ovvio per un moderno porre una tale domanda. Ma per Gri- maldi i colori prismatici erano il caso più tipico tra i tipici « colori apparenti », sui quali ormai l' unanimità di giudizio s' era formata definitiva: che fossero pura luce. Gli veniva perciò a mancare da questo lato quel tanto di stimolo che invece poteva ancora offrirgli una luce tinta o, come dicevano, (( contaminata » per aver attraversato un corpo colorato; né Grimaldi avrebbe saputo cercare altrove un surrogato a tale stimolo. E tuttavia possiamo sempre porre il caso che circostanze qual- siasi avessero condotto il Grimaldi ad un tale esperimento, e chiederci quali probabilità avrebbe avuto di vedere per questa via qualche cosa di più conforme a quello che oggi a noi appare come verità. Per me, queste probabilità sono da ritenersi molto scarse, quando si ripensi che — pur dopo le dimostrazioni di Newton — ad uno sperimentatore abile e ben versato nell' Ottica come il Mariotte una simile esperienza riuscì così male che, per esempio, il rosso da lui separato, passando attraverso un secondo prisma ancora gli sputava fuori del violetto e del bleu; tanto che in Francia nessuno volle credere a Newton, fin quando questa esperienza fondamentale non fu ripetuta — nel 1715 — in Inghilterra, ma da un francese, Desaguliers, dinanzi ad una specie di commissione d' accademici e di gentiluomini suoi connazionali, che ne riportarono in patria la testimonianza; e se si ripensi che in Italia persino al conte Algarotti, — 101 — quando volle ripeterla, con una certa solennità, proprio in Bologna, r esperienza riuscì maluccio, e continuò ad andare maluccio fino a quando egli non si decise a procurarsi prismi inglesi, visto che quelli di Murano (^) erano restii all'obbedienza. Tutto sommato, F esperienza di Grimaldi difficibuente avrebbe potuto riuscire piìi produttiva; essa dovette essere di sua piena soddi- sfazione perché conforme a quello che se ne aspettava: non ha il valore dimostrativo ch'egli crede; ma psicologicamente rinforza la pre- sunzione di identità tra i colori apparenti e quelli veri o permanenti. Sul qual punto diamo ora la parola a De la Chambre: come si può rispondere — egli dice in sostanza — alla domanda: c'è una differenza tra il verde dell' iride e quello dello smeraldo? Se la nega ne segue che il colore dei corpi è una partecipazione della luce del sole, e questo è contrario come s' è \dsto ad una delle sue affermazioni ; e d' altra parte se la afferma smentisce la testimonianza degli occhi, ciò che come si ricorderà è pur contrario alla sua fede nella veridicità delle sensazioni. E gli occhi — dice lui — non rico- noscono nessuna differenza. A dir vero mi pare che il discorso possa andar bene per lo smeraldo, ma se al posto dello smeraldo avesse messo delle giuggiole o delle sorbe mature, ho qualche dubbio che avrebbe potuto ritro- varne il colore neir iride. Deve comunque rassegnarsi ad avere un po' di torto in una cosa o nell' altra, e per decidere fa una osserva- zione acuta, che discende direttamente da uno dei fatti che abbiamo visto in precedenza. Se egli fa cadere sul verde fisso e reale dello smeraldo il verde apparente o mobile dell' iride il risultato è un verde ancora più verde e piìi splendido che mai. Ora, non v' ha dubbio che due qualità le quali si corroborano a vicenda debbono essere della stessa specie. Da notare che egli crede puro non solo il verde dell' iride, ma anche quello dello smeraldo: non solo, ma è puro anche il colore del- l' ametista, ed infine i colori sono sempre e tutti semplici e puri, anche quando a formarli hanno manifestamente concorso due colori (^) In Italia i prismi si lavoravano per appenderli alle finestre delle ville a trastullo delle dame e dei fanciulli che giocavan coi raggi del sole; e si capisce che a tal fine niente importava se fossero pieni di difetti. — 102 — diversi: perché nel loro incontro non è avvenuta soltanto una me- scolanza, ma una vera fusione dalla quale esce una cosa unica e nuova altrettanto semplice come semplici erano le luci che Y han generata; e anche la luce bianca, in tutta la sua purezza, non è un composto, non è costituita da parti qualitativamente diverse; è una e semplice come semplici ed unici sono sempre i colori. È un pensiero profondamente antinewtoniano, ma è pensiero forte ed originale che — oltrepassando le sin troppo ovvie smentite di fatto — contiene qiialche germe vitale. Meno alato ma più giusto il pensiero di Grimaldi: quando due colori sovrapponendosi sembrano generarne uno nuovo, è solo nel- r occhio che sorge questo qualcosa di (( nuovo » dalla pretesa mistione (XLIII, pag. 358), ed acutamente osserva che la visione d' insieme di piccoli granelli colorati (XL, 27) ci dà p. es. un grigio, che in realtà non esiste in nessuno dei singoli granelli. E tuttavia e' è un punto in cui Grimaldi sarà felice di seguire il francese, naturalmente senza menzionarlo. La sensazione dei colori permanenti, non v' è dubbio, si esercita nello stesso modo come quella dei colori apparenti, cioè eoi mezzo della sola luce che nelF un caso e nell'altro porta in sé le stesse modificazioni; e poiché De la Chambre sa bene — e può ripeterne ad ogni momento la prova — che sulla tavolozza del pittore il verde si ottiene con la mescolanza del giallo col bleu, non ci vuol altro per fargli dire che necessaria- mente ogni incontro di bleu e di giallo darà il verde. L' esperienza, fatta con colori mobili (cioè luci spettrali) dà 1' attesa conferma {Lum... p. 28; e altrove). Grimaldi non se lo lascia ripetere due volte: e rifa gli esperimenti (XLIII). Ciò che egli si propone è di ottenere per due diverse vie lo stesso verde; prima per mescolanza dell'indaco (ceruleo) con l'auro dato dall' auripigmento (^orpimento); e poi per mistione di un giallo con un azzurro di provenienza pri- smatica. A me sembra tutt' altro che chiara la spiegazione del dispo- sitivo sperimentale; ma che gli sia spuntato fuori un verde, questo lo dice chiaro. Come a De la Chambre: ed è un bell'incontro; ma non avrebbe potuto avvenire in peggiore occasione. E bensì vero che in certi casi la mescolanza dei pigmenti dà risultati piii o meno simili a quelli prodotti dalla mescolanza delle luci spettrali, ma in altri casi dà risultati molto diversi e quasi opposti, come p. es. la mescolanza del rosso e del verde, la quale, operata con luci spettrali dà diversi — 103 — toni di giallo biancastro con tendenze all' arancio, molto luminosi comunque; mentre invece eseguita con pigmenti dà toni scuri e indescrivibili di grigio-marrone quasi nerastro, raggiungendo forse il massimo di differenza tra quelle elie nella pratica diconsi rispettiva- mente: combinazione addittiva e combinazione sottrattiva. Ora, né De la Chambre, né Grimaldi al suo seguito, hanno scelto, p. es., la mescolanza del rosso col giallo, che nell' un caso e neir altro avrebbe dato su per giìi un arancione ; ma sono andati a scegliere una combinazione di giallo e di bleu, e pretendono d'aver avuto con essa in ambo i casi del verde. Il che è erroneo, perché la combinazione addittiva di questi due colori, giallo e bleu, dà un biancastro pivi o meno sporco, come proveranno circa un pajo di secoli dopo le ricerche di Maxwell, di Lambert, di Helmoltz, di MiJLLER, etc. ; perché neanche a farlo apposta il cavallo di battaglia (e la battaglia era contro Brewster e seguaci) di tutti questi speri- mentatori è stata proprio la combinazione giallo-bleu. Anche intendendo in senso lato i nomi di questi due colori, e includendo nel primo l' arancio, e nel secondo un po' di violetto, mai avrebbe potuto uscirne fuori un verde neppur lontanamente simile a quello che può venir fuori dall' indaco e dall' orpimento. L' impurezza delle luci spettrali usate è la prima ragione del ... troppo brillante successo conseguito; ma la seconda ragione è che i due ricercatori — De la Chambre prima, e Grimaldi al suo seguito — - hanno soprattutto visto quello che volevano vedere, e che discendeva per via di ragionamento dalle loro premesse. UNA OSSERVAZIONE DIFFICILE Le questioni della visione e del comportamento di raggi luminosi attraverso una lastra vitrea pianoparallela immersa nelF aria, le aveva già trattate più di un secolo prima, con notevole approfondimento, il ce- lebre Abate Francesco Maurolico (^), da Messina, nel suo Diapha- neon, ai teoremi V e XXI, nei quali mostra, fra Taltro, che se i raggi incidenti sono paralleli tra loro, paralleli vi si rifrangono e paralleli ne escono, i raggi emergenti serbandosi inoltre paralleli a quelli incidenti. Non mi pare che Grimaldi, riprendendo V argomento, lo sviluppi ulteriormente dal lato teorico: tratta, è vero, di preferenza, il comportamento di raggi non paralleli, ma questo già risultava — pur nella sua concisione estrema — dall' esposto di Maurolico, e dalle sue figure. Piuttosto, Grimaldi si avanza sul terreno dell' esperimento, ciò che pur senza avere gran risalto nel libro, è tuttavia fondamentale, per il tentativo suo di assegnare le vere cause ai fenomeni, come per il mio proprio tentativo di interpretare il suo pensiero afferrandone la genesi: ed una convinzione erronea cui viene indotto è per lui — ancorché molto non appaja — gravida di conseguenze. Avendo sperimentato con la luce del sole, obliquamente diretta, egli afferma che le radiazioni emergenti da un cristallo pianoparallelo non gli appajono in nessun modo colorate, se il cristallo è puro, e se (1) Maurolico ha tutto il piglio di chi, scrivendo, pensa ai posteri: nel- l'apporre le date, a coronamento di lavori anche brevi, è preciso e solenne (in arce Catanensi,... hora vespertina...); e tuttavia — stranamente — il Dia- phaneon non è datato. Esso appare come la 1^ parte, o parte generale, preniessa al Diaphanorum, che — come 2^ parte — si occupa specificamente de Iride, cioè dell'Arcobaleno, e come 3^ dell'occhio e « de conspiciliis ». Ora, io ritengo che il Diaphaneon preceda di molto il Diaphanorum, il quale per la 2^ parte è datato dal 12 Febbraio 1553, e per la 3^ dal 20 Maggio 1554. Non solo il cambiamento del titolo dalla foggia greca a quella latina, ma anche il fatto che in qualche parte si accenna ad un trent'anni di lavoro intorno all'argo- mento, mi portano a credere che una notevole distanza di tempo separi la stesura del Diaphaneon da quella delle due parti successive denominate Dia- phanorum. Per gli scritti ottici di Maurolico, ho tenuto presente la edizione postuma di NapoH, 1611. — 105 — le facce sono veramente parallele (XXXVI, specialmente in 6); e questo, ed altri affini, sono in qualche parte del libro (p. es. XXXII, 4) chiamati {< certissmii esperùnenti ». Vediamo: passando attraverso una lastra piano-parallela, immersa nell'aria, i raggi luminosi che incidano obliquamente, subiscono un cosidetto (( spostamento laterale ». frase che esprime male ed incom- pletamente i fatti; ma che basta già al nostro scopo. L'ampiezza di tale spostamento d, dipende dall'angolo di inci- denza i, dalla entità della rifrazione, e dallo spessore e della lamina: sin (i — r) d= e . cos r che subito fa rilevare la proporzionalità con lo spessore, e — a spes- sore uguale — che lo spostamento cresce con Tincidenza per doppia ragione : perché i — r cresce, e quindi cresce anche il suo seno, mentre invece decresce il coseno di r. Può desiderarsi di eliminare r, esprimendo tutto in fun- zione di i, e perciò introducendo l' indice di rifrazione n. Attraversò ^ / cos i \ . . d = e sin / 1 — si ottiene, in forma più comoda: \ n cos r/ cos i d — e sin i 1 n^ — sin^ I che rende immediatamente evidente come per i ^ 0" (cioè facendo il raggio normale alla superficie della lamina} lo spostamento si annulli, come pure si annulla per n ^ 1; e come infine per i = 90" raggiunga il valore di e. Ne \"iene che per incidenze intermedie, cioè oblique, lo sposta- mento è diverso per le diverse lunghezze d'onda, rispetto alle quali variano i valori di n: vale a dire che ove si consideri — in concreto — Fimmagine di una fenditura, realizzata in luce bianca a raggi paral- leli, l'interposizione obliqua d* una di tali lastre porta a un diverso valore degli (( spostamenti laterali » delle diverse radiazioni, e perciò le immagini determinate nei diversi colori slittano lievemente F una sulF altra, marginalmente dissociandosi, con l'effetto di una orlatura cromatica, data dai colori dei raggi piìi rifrangibili sul lato che si trova rivolto verso il senso dello spostamento, e dai colori meno rifran- gibili sulF altro lato. — 106 — Questo dico per una fenditura tenuta un po' larga: la fenditura, i raggi paralleli, la sorgente artificiale si discostano un poco dalle condizioni di laivoro del Grimaldi; ma una sensibile larghezza della fenditura riconduce a quelle condizioni sul punto essenziale, ed in pari tempo evita la intrusione di manifestazioni non desiderate. L' effetto è però minimo, e — per non avventare giudizi alla leggera — possiamo vedere quanto importi, numericamente, la diffe- renza dello (( spostamento laterale » per due radiazioni estreme nel visibile, ponendo 45* di incidenza (caso tecnicamente conveniente; e che semplifica i calcoli in quanto seno e coseno divengono uguali), e 1 centimetro di spessore, nel caso concreto di un Flint pesante contenente molto Pb, e che abbia indice 1,69 (re), per A di circa 766 mil- limicron, e indice 1,75 (n^) per A di circa 398, rispettivamente nel rosso cupo, e nell'estremo violetto. Per la radiazione rossa: 0,70711' d = 0,70711 — , / == = 0,38136 |/ 1,69' — 0,70711' cioè nun. 3, 8136, per lastra di 1 cm. di spessore. Per la radiazione violetta : di = mm. 3,9476, per lastra di 1 cm. di spessore. La differenza tra i due spostamenti è — pur in questo caso di eccezionale dispersività del vetro — appena di mm. 0,134, poco più di 1/30 dello spostamento globale, ciò che, per il caso semplificato di cui sopra, si sarebbe anche potuto ricavare direttamente da 0,5 0,5 d^ — d E fin qui, quel che s' è detto e calcolato viene da cose assai vecchie, sebbene generalmente mal precisate. Sarà forse un passo avanti il dir chiaramente quanto poco significhino per il nostro scopo questi (( spostamenti laterali » e le loro differenze (cioè le grandezze dei segmenti EF, EFi e CD nella figura qui sotto, ove per maggiore evidenza e per comodità di disegno la differenza tra gì' indici fu talmente esagerata da portarli a circa 1,233 per il rosso ed 1,673 per il violetto). Basta per questo considerare il caso estremo della luce — 107 — radente, cioè delFincidenza di 90', nella quale lo spostamento laterale si identifica con e, qualunque sia V indice di rifrazione, che dunque, in quella condizione, non influisce piìi sulla entità di tale spostamento. Ma avrebbe gran torto chi credesse per questo annullata anche la sua influenza sullo (( slittamento » sopra accennato, o — Paggio ancora — credesse annullato lo « slittamento )) stesso. *^'*^^-^. FiG. 6. - Schema (in contrapposto alla interpretazione del Grimaldi) della « separazione » di due radiazioni estreme, operata da una lastra piano-parallela su di un raggio misto obliquamente incidente. Incidenza 45^; indici 1,23 ed 1,67, rispettivamente per il raggio rosso (linea tratteggiata) e per il raggio violetto (linea intera). La verità è — come sopra ho accennato — che lo (( spostamento laterale » esprime incompletamente e male Y essenza del fenomeno ; e — per quel che ora cerchiamo — non gli spostamenti (( laterali », cioè le grandezze EF e EF^, o la loro differenza CD, bensì soltanto la grandezza del segmento BC, cioè la distanza fra i punti B e C, dai quali emergono — paralleli fra loro, ma distinti — i raggi estremi diversamente rifratti, può essere veramente significativa: grandezza questa che sussiste, e continua a diversificarsi col diversificarsi degli indici, anche quando lo spostamento (( laterale » si è stabilizzato suir insuperabile valore di e (vedasi figura qui appresso): grandezza — los- che, nel caso di incidenza radente, si delinea soltanto sulla superficie seconda della lastra; e che nel caso di incidenza obliqua si ritrova raccogliendo Timmagine, per esempio di una fenditura, su uno schermo tenuto parallelo alla lastra anziché normale alla direzione del fascetto emergente. È ovvio che, per il caso di incidenza obliqua, tale grandezza BC, J C ^yà4<è^-^ FiG. 7. - Schema teorico concernente l'azione di una lastra pianoparallela su di un raggio misto a incidenza radente (90°), ove il cosidetto « spostamento laterale » diviene costante ed uguale, per qualunque indice, allo spessore e della lamina. Valore degli indici come nella figura precedente: gli angoli di rifra- zione corrispondenti divengono di circa 54^ e 12' per il rosso, e circa 36° e 42' per il violetto. Se il raggio misto risultava da queste due sole radiazioni estreme, il tratto BC misurerà l'ampiezza dell'effetto marginale e sarà illuminato dal solo violetto. può essere collegata (considerando il triangolo BDC) alla differenza degli spostamenti laterali: BC di — d cos i che nel caso concreto trattato sopra, essendo i = 45'' e di — d^ mm. 0,134, dà mm. 0,189. Ma tale formula, per incidenza di 90^, diventa t^, simbolo di indeterminazione, come è giusto che accada per questa via, e come meglio non si potrebbe desiderare per rimanere avvertiti che bisogna sciogliersi dalla considerazione dello « spostamento laterale ». — 109 — La grandezza BC. cioè la distanza tra i due punti di emersione dei raggi si ha direttamente, per risoluzione del triangolo OBC, ed è sin r sin r^ e — e . cos r cos Tj Ossia, chiamando S questa distanza tra i punti di emersione dei raggi / sin i sin i \ considerati: S = e I , . -; ; — ^=; che. per e = 1 cm.. per ^]n^ — sin^ i ] ni — sìn^i' gli indici considerati, e per i =^ 45", fa naturalmente ritrovare lo stesso valore di mui. 0.189 dedotto poco addietro; ma permette ora di calcolare anche, per il caso di luce radente, i = 90": S = e n^-l U?- cioè, nel caso sopra considerato, S = mm. 0,387; mentre la differenza tra gli (( spostamenti laterali » è — ovviamente — ridotta a zero. Riassumendo, le espressioni di cui sopra danno la misura della separazione nel caso-base (che è una mera astrazione) di un raggio, o se si voglia di una lama di luce strettissima, idealmente esente da altri fenomeni qui non considerati, e risultante di piìi radiazioni, p. es. delle due radiazioni rossa e violetta sopra indicate. Quand'anche essendo divenuto costante ed uguale ad e il valore degli « spostamenti laterali » sia annullata ogni possibilità di differenza tra loro, restano nondimeno separati — e variabilmente separati in dipendenza degli indici — i punti di emersione delle due radiazioni, e la dissociazione cromatica raggiunge anzi il massimo in queste condizioni, benché rimanga per così dire aderente alla seconda superficie della lastra stessa. Del resto, una incidenza propriamente di 90" è un caso-limite del tutto teorico. Ma un raggio, una lama di luce strettissima, sono mere astra- zioni: se in concreto si operi con una fenditura, tenuta sensibilmente larga, come sopra accennai, e in luce bianca, anziché composta di due sole radiazioni estreme, lo slittamento delle varie immagini diversamente cromatiche l' una sulF altra resta sensibile soltanto ai margini, con un effetto per cosi dire bipartito interrotto o spezzato da una zona intermedia di ricomposizione, bianca per la maggior parte, ciò che contribuisce a renderlo, visualmente, meno percettibile: effetto che, se pur dal calcolo sia risultato già piccolo anche in un — no — caso eccezionalmente favorevole per dispersività, se pur resti ancor ridotto praticamente da epifenomeni che accenneremo, è nondimeno suscettibile di un incremento indefinito in teoria, e praticamente limitato soltanto da ciò che può limitare lo spessore dello strato piano- parallelo, cioè dal suo grado di trasparenza. Riconosco francamente che l'osservazione presenta difficoltà note- i li FiG. 8. - Riproduzione (leggermente ingrandita) della figura, a p. 272 del De Lumine, con la quale il Grimaldi mostra l'azione della lastra pianoparallela sopra un fascio di raggi luminosi. voli, non però insuperabili neanche al tempo di Grimaldi, e con i suoi mezzi. Con una lamina ben lavorata, ma di vetro non perfettamente incolore, dello spessore di poco più di un centimetro, cioè un po' più forte di quello dello schema disegnato dal Grimaldi (schema che del resto non vale a fare arguire quale sarà stato il vero spessore da lui sperimentato), operando a luce artificiale, resa parallela, e pur dando una forte obliquità, io ho potuto dapprima scorgere distintamente solo una delle marginature colorate: quella dei raggi meno rifratti, che mi apparve gialla: perchè il giallo anche per il divino Platone è privilegiato rispetto alle nostre capacità visive: splendido colore egli lo chiama nel (( Timeo ». Si badi però che il giallo qui visibile non è il giallo spettrale. — Ili — cioè quello composto di radiazioni che generalmente si conviene di porre tra / 5950 e ). 5650: è un giallo fisiologico di ricomposizione, cui concorrono radiazioni rosse, gialle e verdi; perciò giallo chiaro e poco saturo. In realtà, teoricamente, e nelle condizioni sopra indicate, colori spettrali — semplici nel vecchio senso di Newton — rimangono solo i 2 estremi ai due margini opposti: solo il rosso estremo e il violetto estremo: tutti gli altri sono colori di ricomposizione; e sono tali r arancione, che risulta dal concorso di radiazioni rosse, arancio e gialle, e poi — piìi esteso — il giallo, che in realtà potrebbe distin- guersi in due zone: una di colore più caldo cui concorrono radiazioni rosse, gialle e verdi, e una, che poi si perde nel bianco, cui concorrono, oltre alle predette, anche alcune radiazioni del primo bleu, prossimo ai 4900; poi il bianco, variamente esteso a seconda della larghezza della fenditura, poi un ceruleo anch'esso, come il giallo, variamente composto, eppoi — puro, nel senso di Newton — il violetto. Si noti di sfuggita, che nessuna sensazione di verde si avrà nella condizione qui esaminata. Di tutto questo, può rimanere anche assai poco, per effetto del- l' assorbimento, ma quello che più facilmente rimane, visualmente apprezzabile, è — 1' abbiam detto — il giallo. E questo non soltanto per le ragioni di ricomposizione sopra esposte, non soltanto per la ragione fisiologica dell' alta visibilità del giallo in confronto con la minor visibilità del rosso; ma anche — in certa misura — per due ragioni fisiche più basilari: che, per dirla in parole semplici, certe luci artificiali contengono molto giallo; e che il rosso viene da certi vetri, appena un po' verdolini come lo sono tutti i vetri usuali, più fortemente assorbito, e verso il suo estremo — nelle condizioni dell'esperimento — interamente mangiato. L' allargamento della fenditura non fa che allargare la zona intermedia bianca: le orlature cromatiche si spostano, ma non deb- bono cambiare di ampiezza, la loro ampiezza dipendendo soltanto dallo spessore della lastra e dai suoi indici. Aumentando lo spessore del vetro, si deve, in teoria, aumentare la larghezza della marginatura cromatica, ma l' effetto è contrastato dall' aumentato assorbùnento. Bisogna compensare aumentando simul- taneamente l'intensità di illmninazione ; ma moderatamente per non incorrere in inconvenienti più gravi. — 112 — Così infatti riuscii a percepire anche un'orlatiu-a appena cerulea dal lato opposto a quello della orlatura gialla, con lastra di vetro di circa quattro centimetri di spessore. Non bisogna lasciarsi tentare dal paragone con la visibilità nel caso di osservazione spettroscopica, dove F occhio riesce a vedere righe molto sottili anche se d'intensità molto tenue: nel nostro caso la contiguità con luce bianca parecchio intensa guasta tutto, e sono le condizioni psicofisiologiche della visione che finiscono per prevalere: così è che non sempre ad un aumento di illuminazione corrisponde una maggior visibilità dell' effetto ; e se il margine colorato non è un po' cospicuo, la sua percezione vien meno ( ). Così fu solo attraverso uno strato d' acqua pianoparallelo di ben 23 cm. di spessore (oltre quello non trascurabile delle 2 pareti di vetro del recipiente), e con una incidenza che per ragioni tecniche dovevo limitare a 45"*, che io potei finalmente riuscire a vedere un filetto violaceo a coronamento d' una piìi ampia e sfumata orlatura bleu, ed un filetto rosso sulla opposta e più vivida orlatura gialla. Vale la pena di calcolare questo caso, considerando la sola acqua. Volendo prendere in esame non radiazioni estreme come si è fatto sopra, ma radiazioni ben visibili e tali da non essere obliterate per effetto dell' assorbimento, ho stabilito, ad una temperatura piut- tosto bassa, e con acqua non distillata, ma di fonte, un' indice di 1,330 rispetto al rosso e 1,341 per il viola. Presa l'incidenza a 45% / 0,70711 \ d = 23 X 0,70711 1 — , — , che per il rosso dà cm. 6,05, e per ^ 1 71 2— 0,5/ il viola cm. 6,17. Sperimentalmente, gli spostamenti misurati sono stati maggiori di qualche millimetro, per l' influenza aggiuntiva del vetro. Volendo calcolare il valore di S, sopra definito, cioè la distanza tra i punti di emersione delle due radiazioni estreme quando dalla 1,2 lastra ripassano nell'aria, si ha, in millìmetri: ^YchT]^^ ^■>^^ ^"^^ è valido nel caso di un raggio, o — se si preferisce — d'una lama (^) Tuttavia, per quanto lieve, l'effetto cromatico viene schivato nella pratica applicazione di lamine pianoparallele a ben noti scopi ottici, costruen- dole con vetro di debole dispersione; in genere Crown boro-silicato con indice- base 1,51. — 113 — strettissima di luce, nelle condizioni del tutto teoriche in cui si riduca a zero la fascia bianca mediana. In pratica, e anche per l'effetto aggiuntivo delle pareti di vetro, r orlatura cromatica percettibile ad occhio dal lato dei meno rifran- gibili era larga quasi un millimetro, mentre dall' altro lato, per effetto della scarsa visibilità del bleu-viola, appariva più stretta. Ma quando poi ho fatto ricorso ad una grande vasca parallele- pipeda che offriva la possibilità di lavorare su 58 cm. di spessore vH R V i \ ^K ? j B \ \ \ e 0 P Q. FiG. 9. - Riproduzione (leggermente ingrandita) della figura, a p. 255 del De Lumine, con la quale il Grimaldi mostra la rifrazione di un fascio di raggi luminosi attraverso un grosso strato di acqua contenuto entro un recipiente di vetro. d'acqua (oltre i 2-3 cm. delle pareti di vetro) l'effetto è divenuto vistosissimo, con una variante, peraltro, di cui non penso di dare spiegazione (da ricercarsi nelle modalità di assorbimento): che l'aran- cione era dominante, occupando più di 3/4 dell'orlatura; e il rosso verso 1' esterno, e il giallo verso l' interno appena visibili. Dall' altro lato, il solito ceruleo dello stesso tono visto in precedenza. Fors' anche i 58, ma certamente i 20 o 25 centimetri dell' espe- rimento precedente erano ben accessibili anche al Grimaldi. — 114 — Egli dice che la lastra pianoparallela non dà alcun effetto croma- tico, se il cristallo è puro, cioè — a quel che pare d' intendere — inco- lore quanto più si possa: vero il contrario, cioè che il ristretto effetto cromatico marginale è tanto più facilmente obliterato quanto più forte sia r assorbimento da parte del vetro. Ma il curioso è che, da certi suoi passaggi, a me sembra eh' egli abbia visto ben chiaro il vantaggio di rivolgersi a grossi strati di acqua: e se, pur con questo, finisce col negare ciò che per tal via avrebbe potuto facilmente vedere, bisogna concludere che, probabilmente, c'era in lui qualcosa — forse soltanto il preconcepito germe d' una idea — che gli impediva la vista. Ma, comunque, potrebbe farsi gran colpa al Grimaldi per non aver visto ciò che neppur Newton volle vedere? Potrà sembrare eh' io abbia tirato troppo in lungo questo argo- mento, ma per me esso ha un peso storico che difficilmente potrebbe essere sopravalutato. Newton — proprio lui, e pare impossibile — suggestionato dall' idea che due rifrazioni uguali e contrarie si annullino vicen- devolmente, non si accorge che tale annullamento riguarda bensì la direzione dei raggi ed implica perciò un « raddrizzamento », per usare la stessa parola eh' egli usa, ma non può in alcun modo annul- lare quel tanto di separazione, per minimo che sia, acquisito entro il vetro: separazione che non sarà progressiva come lo sarebbe nel caso di deviazione angolare, ma sarà costante, proprio e precisamente in forza del fatto che le luci uscenti dal vetro (( escono, come Newton dice, in linee parallele a quelle secondo le quali erano entrate ». E proprio per questo parallelismo sono meritevoli di qualche altra considerazione : parallele, si, le linee d' uscita a quelle d' entrata (su questo, da Maurolico a Newton il passo e breve, o meglio non e è neppure un passo) ; ma non con identica larghezza di fronte, se la luce incidente era composta e se V incidenza era obliqua; ed è questo allargamento di fronte nel caso di luce incidente bianca ('), che Newton ha il torto d' aver trascurato, in piena oblivione del suo proprio metodo e del suo principal risultato. L' esperienza Z"" di Newton, parte 2" del libro 1°, non vale più dell' esperienza di Grimaldi, ma in Newton, ormai, non poteva ope- rare celatamente, come in Grimaldi, gravi sviamenti. (^) Allargamento che non accadrebbe in luce monocromatica. — 115 — Per Grimaldi — possa o non possa fargliesene appunto — l'esito negativo delle sue prove con lastre pianoparallele, fatale alla verità, era per contro bene adatto al sistema eh' egli andava elaborando, e perciò ha dato tutto il suo frutto. Una osservazione piìi fortunata, o più acuta, l' avrebbe portato a concludere (cfr. XXXII, 4) che la rifrazione in sé genera il colore: cosa che per un orecchio moderno suona come errore (qualcuno direbbe: errore polivalente); ma sarebbe stato uno di quegli errori storicamente felici, che camminano incontro alla verità. UN COROLLARIO Anche se ciò mi distrae per un momento dall' assunto, voglio sostare sopra una considerazione accessoria. Io ritengo che uno dei concetti classici di cui piìi difficile riesce rintracciare origine e sviluppo, sia quello della (( reciprocità del percorso » detto anche, talvolta, del (( ritorno inverso » : la difficoltà sta nel trovare un limite all' arretramento, poiché lo si può pensare più o meno latente negli autori piìi antichi, e specie in quelli — com- V> ^f^, H, FiG. 10. - Schema per mostrare come volendo respingere i raggi « separati » da una lastra pianoparallela ad un'altra regione della stessa lastra, tanto me- diante uno specchio piano, S, quanto con un prisma di Porro, P, pur con l'inverso comportamento di questi due riflettori, il risultato è — nei casi e modi della figura — il medesimo : raddoppiamento della distanza di separazione dei raggi derivati, come per un raddoppiato spessore della lastra. M. raggio misto cadente da sinistra verso destra; M^ raggio misto cadente da destra verso sinistra; F ed i?. Fi ed R^ i raggi rispettivamente derivati; gli indici e le altre convenzioni come nella precedente fig. 6. La ricomposizione dei raggi, attra- verso la lastra, si otterrebbe con l'ausilio di tre prismi di Porro, conveniente- mente orientati, e sei riflessioni totali; ma questo non può venir rappresentato sul piano della figura. — 117 — preso Tolomeo — che vengono poi a sboccare nella felice rielabora- zione di ViTELLiONE, nella quale tal principio sembra più scoperta- mente operante. A meno di non volerlo applicare proprio alla lettera, cioè di rispedire indietro sullo stesso loro precedente percorso i due raggi emergenti dalla lastra pianoparallela, chi pensasse di utilizzare tale principio onde ottenerne la loro ricombinazione facendoli ripassare per due altri punti della stessa lastra, urterebbe contro difficoltà sor- genti da quello stesso a principio di simmetria » che agisce nel « ritorno inverso » e da quel (( Rechts - Links - Problem » universalmente pre- sente, dalla geometria alla chimica alla biologia. Che infatti, se i raggi si rimandano indietro con uno specchio parallelo alla lastra, la loro successione (vista da destra a sinistra o da sinistra a destra) resta la medesima, ma s' inverte il senso della inclinazione sulla nuova faccia d'entrata; che se prima rispetto a tale faccia l' inclinazione era da destra a sinistra, ora i raggi cadranno da sinistra a destra; e il risultato è che il secondo passaggio attra- verso la lastra consegue l'effetto di un raddoppiamento di spessore: aumenta la separazione anziché ottenere la desiderata riassociazione. Un prisma di Porro, disposto come nella figura, consegue il vice- versa, cioè conserva il senso dell' inclinazione, ma inverte l' ordine di successione, e il risultato è quello stesso di prima: raddoppiamento di distanza tra i raggi separati anziché ricombinazione. Probabilmente nel miglior modo, un (( veicolo » costituito da tre prismi di Porro, opportunamente orientati, dopo sei riflessioni totali, consegue F effetto di far ripassare per un altra regione della stessa lastra i due raggi nelF ordine giusto, con F inclinazione giusta e nel senso giusto occorrenti alla loro ricombinazione. Forse non si sarebbe previsto che quel po' di a separazione » conseguita da una lastra pianoparallela sarebbe stata così difficilmente reversibile. UNA ESPERIENZA BELLA E MENDACE C è una considerazione, che farò qui — possibilmente — una volta per tutte, ma che per Grimaldi andrebbe ripetuta cento volte: è un vero peccato che la pessima usanza, quasi generale a quel tempo, di conglobare le cose altrui nelle proprie senza menzione della fonte e senza alcun segno che le faccia distinguere, autorizzi la FiG. 11. - Riproduzione (leggermente ingrandita) della figura, a p. 257 del De Lumine, con la quale il Grimaldi mostra refi"etto delle rifrazioni e delle rifles- sioni interne in un prisma a sezione equilatera investito da un fascio di raggi luminosi. Egli afi"erma che il fascio emergente dalla terza faccia è interamente bianco, in contrasto con quelli iridati emergenti dalla prima e dalla seconda faccia. perplessità e getti come un velo di dubbio sulla originalità di certi concetti o di certi trovati, che potrebbero essere stati invece tolti di peso da fonti poco note ed oggi difficili da riconoscere e da rintracciare. Se è di Grimaldi, come credo, l'esperienza schematizzata nella figura riprodotta qui sopra dalla p. 257 del suo libro, non si può non ammirare la magistrale perizia, di mente e di mano, con la quale egli s' è addentrato a scrutare le riposte possibilità di quell' oggetto. — 119 — veccliio di secoli, ma che alle maggiori glorie dell' Ottica era ancora da nascere: il prisma, il n triangularis vitro ))^ come lo chiamava Aguilonius. C \ FiG. 12. - Schema che mostra come un prisma a 60° si comporti da lamina pianoparallela rispetto ai raggi emergenti dalla sua «terza faccia»: sono rap- presentate le vicende di rifrazione e di riflessione di due radiazioni separatesi dal raggio misto M, incidente sulla faccia ^C di un prisma a sezione equilatera. Si vede — in conformità alle osservazioni del Grimaldi — il particolare com- portamento dei raggi emergenti dalla « terza faccia » (BC), paralleli tra loro (risultato che — sebbene illustrato qui attraverso un caso speciale, particolar- mente semplice — ha validità generale per tale tipo di prisma, nel quale gli angoli di incidenza dei raggi interni sulla « terza faccia » sono obbligatamente uguali agli angoli della prima rifrazione attraverso la « prima faccia ») ; ma si vede anche — in opposizione alle interpretazioni del Grimaldi — che una « separazione » (nel senso di Newton) sussiste (e quindi sussiste un effetto cro- matico marginale per un fascetto che fosse costituito di luce bianca) anche per i raggi uscenti dalla «terza faccia»; il loro comportamento essendo in tutto e per tutto corrispondente a quello che risulterebbe dall'aver attraver- sato una lastra pianoparallela di spessore / sin 60°, ove / sia il lato della sezione triangolare del prisma. Nella figura, R ed Ri sono i punti della prima rifles- sione interna sulla faccia AB; E ed E^ sono i punti di emersione dalla «terza faccia » dei due raggi paralleli. Del rimanente, gli indici di rifrazione e le altre convenzioni, come alla precedente fig. 7. — 120 — Ciò che esprime la figura: le 2 riflessioni interne e le 4 rifra- zioni, in un prisma di sezione equilatera, costituisce già quanto di più complesso e di piìi differenziato possa escogitarsi nella disposizione di tale oggetto a fine di indagine. Certo, quel cono di luce che fa vertice proprio sulla faccia d' incidenza, e quel complesso dei 3 raggi considerati — necessario, vedremo, alla tesi del Grimaldi — sono particolarità che possono sminuire la immediatezza e 1' efficacia dimo- strativa. Né io voglio affermare, e neppur contestare, che il Grimaldi si sia reso ben conto del fatto che il prisma lo riconduceva, sul punto per lui fondamentale, al caso stesso della lastra pianoparallela. Io rimarrò aderente alla esperienza del Grimaldi traducendola in termini moderni, con la considerazione di un solo raggio: del solito raggio misto, astrazione consentita già nelle pagine precedenti. Assumo in ipotesi un prisma a sezione equilatera, fatto di tal materia che ad un raggio incidente a 45", misto di due radiazioni, rossa e viola, corrispondano due raggi rifratti con angoli di 35" per il rosso, e 25" per il viola. Sono i 2 angoli già usati nella figura della lastra pianoparallela, e possono avere un certo interesse perché la loro somma è di 60", il che può in qualche caso semplificare il proce- dimento senza cambiare le conseguenze. Gli indici rispettivi vengono ad essere approssimativamente 1,232801 per il rosso e 1,6731578 per il viola: l'esagerazione enorme facilita il disegno e la sua interpretazione. Il raggio misto M entra per la faccia di incidenza AC, e quando i due raggi che se ne separano arrivano sulla faccia AB, per rie- mergere neir aria, i loro angoli di incidenza sono 25" per il rosso e 35" per il violetto, perciò gli angoli di rifrazione sotto i quali riemer- gono nell'aria saranno, per il rosso circa 31" e 24'; e per il violetto circa 73" e 40', con una divergenza enorme tra i due. Sulla faccia AB avvenendo la prima riflessione interna, due raggi saranno inviati verso BC. Sulla faccia BC sarà ora il violetto a cadere con un angolo di 25", mentre il rosso, stavolta, viene ad incidere con un angolo di 35", e non occorrono particolari dimostrazioni per vedere che accade una compensazione per la quale i due raggi usciranno paralleli fra loro, ambedue a 45" rispetto alla faccia BC, e rispetto alla nor- male: paralleli, sì, ma separati da una distanza tra i punti di emersione che dipende, a parità di altre condizioni, dallo spessore attraversato. I raggi nuovamente riflessi dalla faccia BC potranno riemergere — 121 — ancora dalla faccia AC, e stavolta di nuovo con angolo di incidenza di 25" per il rosso e di SS" per il violetto, e perciò di nuovo con angoli di rifrazione rispettivamente di 31° e 24' e 73" e 40', perciò con la stessa divergenza angolare di quelli usciti dalla faccia AB; ma con una molto m^aggior distanza tra i punti di emersione. Chi non tenga conto, oltre che delle divergenze angolari, anche delle distanze tra i punti di emersione, commette un errore trascu- rabile solo per piccoli spessori della materia rifrangente e solo per deboli dispersività. Ora, per tornare più vicino a ciò che massimamente interessava Grimaldi, faccio notare che il comportamento dei raggi all' uscita dalla faccia BC è esattamente quello che competerebbe a raggi uscenti da una lastra pianoparallela quale si otterrebbe con un ribaltamento di 180" intorno al segmento AB, in modo tale che i segmenti IR ed RE venissero ad allinearsi, e così pure i segmenti IRi e RiEi: allora i corrispondenti raggi uscirebbero da una faccia divenuta parallela ad AC. Lo spessore di tale lastra pianoparallela sarebbe ovviamente / sin 60" (chiamando / il lato della sezione triangolare del prisma), ossia approssimativamente 0,866 /. Non credo che il Grimaldi si sia propriamente accorto che il caso complesso da lui studiato, nei riguardi del fascio emergente dalla terza faccia, lo riconduceva a quello di una lamina pianoparallela di spessore 0,866 /; ma la conclusione cui egli si afferra, che tale fascio è di luce bianca, è erronea allo stesso titolo ed allo stesso grado di quella tratta dalla lastra pianoparallela, seppure ora, nella esecuzione sperimentale, e con un fascetto di luce bianca, le difficoltà diventino ancora maggiori e l'osservazione dell'effetto cromatico marginale quasi impossibile, se non altro per causa delle luci parassite più difficilmente evitabili in questa circostanza. Io direi che, sperimentalmente, il merito di aver visto come fascio bianco quello emergente dalla terza faccia, supera la implicita menda; ma ai fini della indagine causale sulla genesi dei colori, questa seconda veste resa ancor piìi speciosa dall' ovvio confronto e dall'elo- quente contrasto tra l'aspetto di questo fascio e quello degli altri due, emergenti dalla seconda e dalla prima faccia; questa seconda veste, dicevo, in cui lo stesso errore si ripresenta, gli conferisce 122 lina forza suggestiva, che inette come il sigillo alle conclusioni cui il Grimaldi già propendeva. AGGIUNTA. Avevo già finito di scrivere questo capitolo, allorché — rimedi- tandone le prime righe — parve delinearmisi in mente una sempre più nitida reminiscenza d^ un qualcosa di simile che avrebbe potuto FiG. 13. - Riproduzione (parecchio ingrandita) della figura, a p. 266 delle Nou- velles observations, etc. del De La Chambre, ove egli mostra una serie infinita di riflessioni interne, in un prisma equilatero. costituire o un precedente o una fonte d' ispirazione per ciò che Grimaldi espone. Sicché, riprendendo in mano ancora una volta i libri di quel secolo, la mia reminiscenza si concretò neirimmediato riconoscimento della figura che nel 1650 De La Chambre aveva pubblicato nel già citato libro « Noiwelles observations et conjectures sur V Iris ». Non interessa qui narrare per qual ragione l'Autore disegni questa figura, né a qual fine se ne serva: tutto quel che io voglio, è di mostrare come già in questa figura esista un gioco di multiple — 123 — riflessioni interne ; e quindi naturalmente chiarissima V idea che la riflessione ha luogo anche nel passaggio dal più denso (vetro) al meno denso ( aria). Il ritrovamento è di mia piena soddisfazione, perché: 1") da un lato esso mostra chiaramente la derivazione dell' idea di Grimaldi, 2") d' altro lato esso mostra una costruzione così artificiosa da parte di De la Chambre, e che il Grimaldi sopravanza di tanto, da non dovere io in nulla pentirmi del tono ammirativo dato di primo gè Ito al capitolo. Un fuggevole commento alla figura del De La Chambre: i raggi che partono dal Sole non sono paralleli, e in questo ha fatto hene, per quanto non fossero quelli gli angoli da dare. Ma ciò che nessuno potrà riuscire a capire è come mai i raggi non parallelamente inci- denti sopra una faccia del prisma, divengano paralleli dentro di esso. Una volta concessa questa... licenza poetica al De La Chambre, tutto il resto diventa molto interessante, perché egli — con un po' d' artificio — ha conferito alla materia del prisma un indice di rifrazione tale, e ai raggi una inclinazione tale('), che ogni raggio, dopo cinque riflessioni ritorna su sé stesso, e si stabilisce così un giro perpetuo di raggi sempre tornanti sulle stesse vie: o che, per meglio dire, sarebbe tale se non ci fossero le perdite, come quelle determinate p. es. ogni volta che emergono nelF aria raggi rifratti, evento che egli ha rappresentato una volta sola, quasi a marcare il suo maggiore interessamento per le riflessioni interne che non per le rifrazioni. Grimaldi non sarà di questo parere. (^) Perchè il giochetto funzioni bisogna che ogni raggio incida, sulla prima faccia di riflessione interna D, a 30°, in modo che l'angolo tra il raggio inci- dente e quello riflesso sia di 60°. Tra questi raggi ce ne potrebbe essere uno privilegiato : quello che cadesse proprio sul punto mediano della prima faccia di riflessione interna D. che ritornerebbe su sé stesso dopo sole tre riflessioni. Guardando meglio mi avvedo che il numero dei raggi è dispari (nove): allora è probabile che quello di mezzo — il quinto — sia appunto tale raggio privi- legiato. TEORIE SULLA RIFRAZIONE Non bisogna spiegare la riflessione con la rifrazione, ma caso mai viceversa, dice Grimaldi (III,, 20): tuttavia l'eventuale relazione fra le due cose non viene indagata, e si restringe più che altro ad un certo fondamento comune nella interpretazione. Egli vorrebbe derivare per via razionale le leggi seguite dalla riflessione, e crede di trovare questa via in quella certa {( crassitudine » del raggio, eh' egli aveva accettato da Kepler e da altri, anche perché senza di essa a non ci sarebbe ragione di parlare di fluido » ( XVIII). Ora. poiché il raggio prima e dopo la riflessione decorre nello stesso mezzo, non e' è ragione — secondo Grimaldi — né per una consti- patio né per una rarefactio: perciò il raggio deve serbare la sua densità primitiva. E questo non può farlo se non seguendo la nota legge di Euclide: in qualsiasi altro modo cambierebbe di spessore e perciò di densità. Nel Grimaldi è questa una delle prime manifestazioni di quel concetto di densità della luce, che diverrà poi il caposaldo di talune tra le sue più caratteristiche interpretazioni. Ma nel caso attuale costituisce appena una trasposizione del problema, non una risolu- zione. Perché poi dovrebbe conservare la stessa ((crassitudine»? E questo appunto ciò che si trattava di dimostrare. Perché — risponde Grimaldi — il mezzo è sempre lo stesso. Ma chi opera la riflessione è la superficie riflettente, non il mezzo ; e la ragion sufficiente per un cambiamento di densità potrebbe risiedere nella superficie riflet- tente: ed è ben questo che bisognerebbe poter escludere. Ma invece il mezzo, supponiamo V aria, resta identico anche quando la riflessione avviene sopra uno specchio convesso e la den- sità cambia : il che suggerisce che il mezzo non intervenga a deter- minarla e sia da cercarsi altrove la causa del suo cambiamento. Curioso poi che il Grimaldi sosti anche sul caso del raggio che cadendo perpendicolarmente ritorna su sé stesso, senza accorgersi che in tal caso, entro quello spazio, la densità del lumen cambia (sche- maticamente si può dire che raddoppi, essendo indifferente — ai fini della capacità dei pori che dovrà attraversare — ogni questione di — 125 — direzione e senso), così come cambia anche in quel triangolino della figura die ha per base D F ed è la sezione di uno spazio entro il quale raggio riflesso e raggio incidente si frammischiano. Questo del Grimaldi è quasi un modello di ciò che allora si preferiva chiamare un paralogismo, o — io direi — d' una pseudodimostrazione. Tuttavia il principio è quello stesso di cui si servirà nella ricerca delle (( vere ragioni » della rifrazione. J3JÌF FlG. 14. - Riproduzione (alquanto ingrandita) di una figura, dalla p. 167 del De Luìnine, con la quale il Grimaldi intende dare una dimostrazione della legge di Euclide, fondata sulla considerazione della densità del flusso lumi- noso. I segmenti OF e DP rappresentano rispettivamente quello che potrebbe dirsi il calibro dei raggi incidente e riflesso, e la cui variazione importerebbe una variazione di densità: OF e DP essendo uguali, nessuna variazione è accaduta. Negli autori che di ciò trattarono — in verità ben pochi — Grimaldi dice infatti di non aver trovato nulla che gli riesca soddi- sfacente. Ma intanto, da parte sua, egli comincia con una discussione che, apparentemente, non è pertinente al soggetto. La rifrazione con- siste in una deviazione di percorso del raggio, perciò la (( illumina- zione )) in sé, o — a quel che par di capire — la sua intensità e la capacità maggiore o minore del corpo di venire illuminato, non si vede come e' entrino : perché ci potessero entrare a buon diritto biso- gnerebbe che quel che oggi chiamiamo l' indice di rifrazione cambiasse con la intensità della luce rifratta, il che era stato già escluso, p. es., da Kepler. Eppure Grimaldi sosta su considerazioni di questo tipo: il vapore che ascende dall' acqua calda è più rarefatto che non 1' acqua stessa, e tuttavia è quasi opaco, e meno illuminabile dell'acqua: condensandosi in gocciole sopra un vetro freddo ritorna altamente — 126 — illuminabile [sulla qual valutazione — osserveremo noi — influi- scono per non poco fatti riferibili, oltreché al cambiamento di stato, alla forma delle gocciole, che funzionano ora da lenti ora da specchi]. Viceversa grasso e cera col calore si sciolgono rarefacendosi e diven- gono trasparenti, mentre la refrigerazione li fa tornare meno perspicui; al contrario della chiara d' ovo che col calore si solidifica divenendo bianca ed opaca. Insomma — ed è questa la difficoltà che preoccupa Grimaldi — non si riesce a vedere una regolarità, o connessione, o concordanza di effetti, tra calore, densità e capacità di accogliere la luce: la qual parola equivoca (( accogliere », induce in una certa con- fusione di idee tra opaco, diafano e illuminabile ('). Parrebbe clie di questa discussione avrebbe ben potuto fare a (^) Incredibile la mole di discorsi inutili cui danno luogo certe lievi impro- prietà di espressione. Per esempio: indubbiamente v'è una certa improprietà nel dire che un cono o pennello di luce proveniente da un sottile forame ter- mina sullo schermo sul quale disegna un cerchio luminoso; che anzi da lì si dipartono i raggi i quali venendo all'occhio rendono visibile tale cerchio; e nell'occhio — non sullo schermo — trovano la loro vera « terminazione ». Ma l'osservazione (VII, e altrove) è pedantesca. Aguilonius, non men che Gri- maldi, sa benissimo cosa vuol dire «terminare»: viene «terminato» in quanto cono, non in quanto lumen: come cono, o piramide, lo schermo viene a segnarne la base o il termine, da cui si diparte un nuovo corso, una diffusione in tut- t'altre direzioni. Ed equivoche sono le parole « accogliere », « ricevere » la luce (V) : la quale può venir accolta senza esser trattenuta, come nel diafano che la lascia libera di proseguire; ma può al contrario venir captata (come da un nero opaco). che può essere anche questo un altro modo di accogliere. Oltre tutto, il Gri- maldi si trova alle prese da un lato con i fenomeni ancora mal compresi del- l'assorbimento, e d'altro lato col postulato scolastico che la luce nel propa- garsi non incontra ostacoli né subisce contrarietà a lei ostili. I rapporti tra perspicuo ed opaco vengono pensati un po' analoghi a quelli fra tenebra e luce. La tenebra non è il contrario della luce, né qualcosa di positivo che le si opponga: similmente l'opacità più che essere una qualità positiva é difetto di diafaneità: la opacità (VIII, 40) solo in quanto privazione della perspicuità diventa il presupposto della riflessione, in armonia — si noti bene — con la concezione grimaldiana che il diafano riflette^ solo con quello che in esso vi è di opaco; né per diversa ragione si vedono i pulviscoli del- l'aria, né altrimenti si avverte il transito di un raggio attraverso di essa: ap- punto perchè la visione dei corpi non dipende solo dal fatto che essi sieno illumi- nati ma dal fatto ch'essi mandino nell'occhio la luce da loro riflessa (XXXVIII), ne segue che quello che viene maggiormente illustrato non è il corpo traspa- — 127 — meno dal momento che lui stesso riconosce essere la rifrazione tutt'altra cosa. Ma in Grimaldi era già piìi o meno latente l' idea di voler col- legare la rifrazione con la porosità del diafano, e perciò la stortura di quei discorsi è — anche qui — solo apparente; ed essi, benché non conchidano, sono mossi invece da una profonda ragione ( \). rente (che come tale non s'illumina in quanto appunto lascia che la luce lo attraversi liberamente), ma l'opaco — Vadiopton di Aguilonius — il quale, in quanto non accolga la luce ma la respinga, può dirsi concorrere in qualche modo positivo alla riflessione. Diafano e opaco non sono degli indivisibili: si riducono ad un concetto di più e di m.eno, non essendovi fra loro un formale conflitto, ma solo una diversità di misura nel potere di estinguere o deviare la luce: non c'è diafano che, su tratti via via sempre piìi lunghi, non diventi gradatamente sempre pili inetto alla trasmissione ed infine, su adeguato spessore, opaco; ne v'è opaco che lo sia tanto da non diventare un po' pellucido per un assottiglia- mento spinto a sufficienza. Così opaco e diafano son termini relativi, e l'opa- cità non è una positiva forma istituita dalla natura, ma è cessazione, priva- zione della diafaneità. Dove, sottilizzando, si potrebbe cogliere il Grimaldi in un'altra, intima- contraddizione. Si voglia rammentare la differenza tra le parole negatio e pri, ratio, nella Scolastica. Privazione è più forte, perchè è la mancanza di qualcosa che ci dovrebbe essere: ora, anche indipendentemente dalle parole usate, Gri- maldi in più punti sem.bra considerare, come ora si è visto, fondamentale lo stato di diafaneità e derivato per « difetto » o privazione lo stato di opacità. Ma quando si ripensi che per lui il diafano è tale solo in grazia di pori scavativi, e la sostanza corporea (ciò che oggi direbbesi materia) che lo compone è invece di per sé opaca, sembra bene al contrario che la condizione fondamentale sia l'opacità; e secondaria o derivata sia — caso mai — la diafaneità. Questo almeno per i corpi più usuali e tangibili, diciamo il vetro e il ferro; a pre- scindere da quella inaff'errabile sostanza riempitiva che dovrebbe spontanea- mente compenetrarsi con la luce, e che Grimaldi si è trovato costretto ad am- mettere senza avere in essa quel minimo di fede che gli sarebbe stato necessario per farne poi un qualsiasi uso nelle sue rappresentazioni fisiche, sembrando più volte rinnegarla (e nella prop. IV forse più scopertamente che altrove). (^) Ho già dato (p. 59) un buon campionario degli argomenti del Gri- maldi in favore dei pori, della loro sottigliezza, e della tenuità della luce. Ora, che è stata abbracciata una materia più vasta, possiamo lumeggiarla con un altra serie di tali prove od esempi, e poiché il Grimaldi trova qualcuno dei suoi momenti più felici proprio nelle diversioni o scorribande che fa in altri campi della fisica, volontieri anche di queste daremo un altro saggio. Per un momento fu tentato di dire che i corpi opachi non avessero pori; ma poiché dai pori troppe cose dipendono — e p. es. anche la flessibilità — dovette anche ai corpi opachi concederli, ma tortuosi e jjiale ordinati. Dal — 128 — Grimaldi si dà a costruire difficoltà puramente immaginarie alla accettazione della luce come accidente, ma non dissimula le difficoltà vere che incontra l' ammissione della luce-sostanza. che si spiega, p. es., una certa penetrazione della luce anche nei corpi opachi; e si capisce che in canalicoli tortuosi, la tortuosità medesima può esser ridotta per una serie di sezioni successive, e si rende ragione così del passaggio a pel- lucido per assottigliamento, come si vede nel corno o nel legno. I pori non si devono intendere come cavità chiuse, bensì come canali comunicanti fra loro (VI) ed anche progressivamente ramosi (Vili); e per la diafaneità pori larghi ma tortuosi possono servire meno che pori strettissimi e dritti, l'ordinamento o meglio il coordinamento dei pori avendo a tal fine piìi importanza della loro capacità (VII): per questo le spume opache divengono trasparenti quando si addensano; e sembra anche che il Grimaldi abbia una giusta intuizione del fatto che certe discontinuità, con l'aumentato numero di riflessioni fanno retroceder la luce. Per questo si possono costituire corpi opachi con elementi trasparenti: la bianca neve è un opaco che viene dall'aggregazione di «miche cristalline» ciascuna delle quali è diafana; e del fatto che l'importanza del coordinamento dei pori, della loro « congruenza », prevalga, si ha una riprova nelle trasparenti limpidissime gocce di resina, che basta toccarle con le dita perchè divengano quasi opache, così come s'intorbida comprimendolo il cri- stallino dell'occhio. Naturalmente poi dipende insieme dalla intensità della luce e dallo spessore del corpo esaminato il maggiore o minor grado di tra- sparenza: un lume di candela passa uno strato sottile di vino rosso, ma non uno strato spesso; e la camicia che nasconde il corpo lascerebbe passare pe- raltro la luce del sole: così la povera gente mette nelle finestre la carta al posto dei vetri. Meno chiara mi sembra la spiegazione del come avviene che, ungendola, la carta diventi trasparente. Poter passare a volontà dall'opaco al diafano e viceversa sarebbe stato in qualche modo il cimento per la convalida delle sue interpretazioni; ma è difficile per lui districarsi dalle distinzioni for- mali: come, *p. es., si può concepire che due diafaneità possano contenere una opacità potenziale? Eppure egli conosce il fatto che due liquidi trasparenti, mescolati, possano darne uno opaco [torbido]; e si darà a fare una quantità di questi intrugli appunto per passare dal trasparente all'opaco, eppoi far ri- torno da questo al trasparente. Bellissima, forse ancor migliore di quella riguardante il magnetismo, la digressione sulla capillarità, che è — oltre tutto — insolitamente sobria: l'acqua sale nel filtro quasi come su una scala, sale lungo cannule sottili, sieno esse immerse diritte od oblique; si possono ottenere travasamenti attraverso sifoni capillari (VII), la mollica di pane attira il vino nel quale sia appena immersa. Si conceda pure di parlare di « vis attractiva », ma in realtà, fisicamente, essa consiste in una minutissima porosità o tessitura o intrecciata ramificazione di particelle del corpo attraente. INon è una spiegazione, ma è almeno un sicuro additamento della via per cui la spiegazione dovrà esser cercata: è una delle parti migliori del libro. — 129 — Così come non gli è st^to facile di spiegare la riflessione nel passaggio dal più denso al meno denso, così analogamente gli riuscirà difficile di trovare una ragione plausibile alla deviazione del raggio nella stessa circostanza. Perché mai un raggio — che dunque per Grimaldi dovrebb' essere un getto di sostanza fluida — non prosegue diritto quando il nuovo mezzo che incontra è anzi più capace di accogliere in sé qualunque sostanza corporea che per esso debba aver FiG. 15. - Riproduzione, alquanto ingrandita, di una figura, dalla p. 172 del De Lumine, con la quale si intende di rappresentare l'andamento della rifra- zione secondo il modello del « birotio ». adito? La rifrazione avviene forse per conservare la stessa velocità ai raggi? Qualcuno dice che la luce si rifrange per questo: perché altri- menti non potrebbe proseguire il suo corso con uguale velocità in tutti i suoi raggi o nelle diverse parti di ciascuno di essi. Per chiarezza, poniamo che da una sorgente luminosa scenda lume per il raggio A B, raggio fisico, tuttavia, e perciò spesso quanto basti a segnarvi parecchie linee, sia parallele ed estese secondo la sua longitudine, sia trasversali tra i margini laterali estremi CD ed E F. La luce fluisce uniformemente finché il mezzo resta uniforme, come uniforme è la sua densità. Ma supponiamo che il mezzo muti, e al disopra della superficie G H si ponga per esempio aria, e invece al disotto acqua o vetro: allora la luce non potrà decorrere con la — 130 — stessa velocità di prima, ma fluirà piìi tarda nel cristallo che è più denso (fig. 15). E per causa della obliquità, le parti del raggio, sia quelle interiori, sia quelle laterali, che correvano finora in modo uguale, non incontreranno tutte ugualmente ed insieme il nuovo mezzo, e perciò non tutte ugualmente ed insieme subiranno r effetto della sua maggior resistenza. Da qui verrebbe il disgiungersi e il rompersi della confluente [con-fluente, cioè fluente insieme, in modo solidale] società finora serbata. Perché mentre la particella I, sul lato E I. è già entrata nel cristallo, che con minor velocità la trasmette, la particella opposta K, sulF altro lato C K, ancora corre per r aria discendendo più veloee; e quando sarà giunta in L, l'altra particella I non avrà potuto pervenire in O come avrebbe dovuto se la sua primitiva velocità si fosse conservata, insieme con la primi- tiva contiguità di tutte le particelle del raggio. Il proseguire nella primitiva direzione porterebbe necessariamente una disgiunzione nelle parti prima ugualmente e parimenti correnti. Questa disgiunzione fra le particelle della luce non è senza ripugnanza da parte di esse, perché la luce è un corpo in qualche modo compatto, non fluisce disciolto come sabbia, ma come un fluido le cui parti fossero in qualche maniera legate, simultaneamente tendenti a conservare 1' unione di tutte, come attraentisi tra loro, sicché formino un fluido, si, ma continuo. Cosi mentre la particella I, penetrata in G H, discende attraverso il cristallo ritardata da esso, la particella K giunta veloce per Y aria alla super- ficie G H, non consente di separarsi da I, e ciò rende necessario che la linea K I si infletta più o meno a seconda dell' eccesso di velocità della particella K sulla I, nel modo come vediamo in un biroccio O se una ruota ritarda in confronto dell' altra o si ferma, che allora s* inclina l' asse congiungente le due ruote e parimente il timone cambia la sua direzione, per il qual modo una qualche violenta rot- tura viene evitata. Da qui finalmente proviene che il raggio dalla prima via si distorce e che, primitivamente indirizzato verso B, pro- cederà ormai verso M, e similmente si può capire come avvenga V inverso nel caso reciproco [implicita affermazione del principio del «ritorno inverso»]. (') La parola italiana è, foneticamente, appena una lieve corruzione di birotio { ^ bi-rotum) : ma è tanto quanto basta a mascherarne interamente origine e significato. — 131 — Questa esposizione del Grimaldi, sebbene io abbia cercato di migliorarla riassumendola, resta incerta e confusa; ma piìi che altro la figura (riprodotta a p. 129), che dovrebbe illustrarla, le è particolar- mente infedele: in essa — soprattutto — vien meno completamente la asserita connessione tra le particelle, tanto che il supposto raggio fisico — o, diciamo meglio, il raggio elementare descritto — si allarga, in dispregio alla postulata compattezza ed attrazione fra le sue parti: la (( crassitudine » del raggio rifratto M è maggiore di quella del raggio incidente A, e questo non avrebbe dovuto accadere, per rimaner fedele alla teoria che Grimaldi diceva di voler esporre. In realtà Grimaldi, assai più preoccupato delle idee sue proprie che già gli mulinavano in mente, che non di rendere fedelmente le teorie altrui, ha fatto per dir così una ibridazione tra quanto aveva letto in De la Chamrre e quanto aveva letto in Kepler: pur re- stando il fatto che, per non far torto a nessuno dei due, egli non cita né V uno né 1' altro. Per avere una migliore idea di ciò che veramente fosse la teoria — storicamente importante — del biroccio o chariot, basta gettare un'occhiata, anche senza commento, alla figura ( riprodotta a p. 132) che De la Chambre dà a p. 349 di Lumière. De la Chambre deve rifiutare un tale modello, perché per lui i raggi non hanno spessore, e dato e non concesso che 1' avessero non potrebbero comunque pre- sentare una velocità diversa sui due lati, per la semplice ragione che per lui la velocità della luce — se proprio di velocità si vuol parlare — é sempre e soltanto infinita. Ciò non gli vieta di esporre la cosa in poche parole, ma con chiarezza e fedeltà, mettendola nella miglior luce; e perciò naturalmente lasciando al raggio lo stesso spessore, prima e dopo la rifrazione. JNon sono certo che Grimaldi si sia accorto che — nella genuina teoria — lungo il tratto KL della sua figura, corrispondente al tratto DE della figura di De I-a Chambre, si ha un cambiamento di velocità della particella K nonostante che questa resti pur sempre nelF aria. e che analogamente la trajettoria della particella stessa è costretta a mutar direzione mentre ancora è nell' aria. Quanto al cambiamento di spessore del raggio (( fisico », cioè dotato di crassitudine — cambiamento che storicamente ha una im- portanza enorme — Grimaldi V ha preso da Kepler, il quale lo pone a base del suo tentativo di interpretare la diversa entità della 132 rifrazione in rapporto all' angolo d' incidenza, e di darne la misura. La considerazione dello spessore del raggio ricorre frequente nelle polemiche con Descartes da parte dei suoi oppositori, ed il filosofo FiG. 16. - Riproduzione di una figura dalla p. 349 di Lumière, del De la Chambre (da considerare in confronto con la precedente del Grimaldi), in cui viene rappresentato l'andamento della rifrazione secondo il modello del « birotio ». HoBBEs vi ebbe una parte generalmente misconosciuta, ma secondo me notevole. Qui peraltro è preferibile rifarsi a Kepler, perché con lui la variazione di tale « crassitudine » diventa il punto di partenza per una riflessione: che più il raggio è inclinato e più, a parità di rapporti fra incidenza e rifrazione, ringrossamento del raggio rifratto è note- vole, e più cresce perciò la resistenza che il mezzo oppone ad un raggio così ingrossato. Da qui viene, per Kepler, che la rifrazione (intesa, naturalmente, secondo il suo modo) cresca più rapidamente di qtiel che non comporterebbe la semplice proporzionalità con l'inci- denza. Ed è seguendo quest' idea eh' egli introduce la considerazione di funzioni circolari nella teoria quantitativa della rifrazione; e in primo luogo di quella secante eh' era stata valorizzata anni prima da — 133 — Maurolico, le cui opere per manifesti segni Kepler conosceva benis- simo sebbene mai le menzioni (^). Si potrà dire che Kepler rompe 1" unità del fenomeno ; ma vera- mente — chi ben guardi — ciò che non è unitario, nella concezione di Kepler. non è il fenomeno, ma soltanto il nostro modo di raggiun- BLM. &: LM latusmino FlG. 17. - Riproduzione, notevolmente ingrandita, dalla p. 11 dei Paralipo- mena di Kepler, della fondamentale figura, cui sono ispirate quelle del Gri- maldi, aventi rapporto con la variazione di grossezza del raggio, per effetto della rifrazione. sierne la misura: egli scinde la entità della rifrazione in due addendi, uno proporzionale alla incidenza, ed uno che viene dedotto con un calcolo complicato attraverso secanti e seni: addizionate le due parti si ottiene la grandezza vera della rifrazione, che — come mostra la tabella qui riprodotta — riesce mirabilmente vicina ai risultati spe- rimentali quali si trovano riferiti in Vitellione. Ma a questo punto io voglio pur prendermi il gusto di calcolare per mio conto quegli angoli, come risulterebbero dalla legge di Snellius- Descartes conferendo all'acqua ( poiché dell' acqua si tratta), in gros- solana approssimazione, un indice medio di 1,33. (1) Questo può dirsi senz'altro per le opere ottiche: quanto alla secante Kepler probabilmente poteva disporre anche dei dati del Rhaeticus. ÌM Ecco le cifre, per tal modo calcolate, da confrontar;?! simultanea- mente con quelle della 4' colonna (calcolo di Kepler) e con la S" (dati sperimentali secondo Vitellione): per 10" . . . 2" 29 20" . . 5" 6' 30" . . T 55' 40" . . . 11 6' 50' . . . 14" 50' 60" . . . 19" 22' 70" . . . 25'" 3' 80 . . . 32" 13' 90" . . , . 41" 15' Si vede che fino ai 60" inclusi la concordanza del calcolo di Kepler con la legge dei seni è molto più perfetta che non con i dati di Vitellione; ma dai 60" in poi le divergenze si fanno rapidamente notevoli e il calcolo di Kepler resta in difetto sulla verità, come del resto appare a prima vi a ViC ^..... .....^.,-.>,._^.. onuaquxA'adiio^dicai-, hacìioncs^quas ifiilnimcro ilio explorauit,vt appareat cófcnlus. J Dijìxnttx ! ?Ars refr.t Additarne -\Tota demo ' Vttelltonk Dtfftrm- \radrwtis a cfion: 0 ].;-- .80 19. ^7 IO 43 50 0 JO 0 0 0, 90 21. 43 H 47 ^6 jo FlG. 18. - Riproduzione, alquanto ingrandita, della tabella nella quale Kepler riassume i suoi calcoli sulla rifrazione nel passaggio di raggi, variamente incli- nati, dall'aria all'acqua. Nella 1» colonna, espresso in gradi, quello che oggi direbbesi angolo di incidenza; nella 2^ e 3^ colonna i due addendi da cui risulta la rifrazione (intesa nel senso di Kepler, cioè come misura angolare della deviazione subita), uno proporzionale all'incidenza, e l'altro in funzione del- Faumento di resistenza dovuto all'ingrossamento del raggio: nella 4^ colonna la somma dei due addendi, ossia la misura teorica della rifrazione; nella .S^ co- lonna i dati sperimentali riferiti in Vitellionb: nella 6^ colonna le differenze in piiJ o in meno, tra il dato teorico e quello sperimentale. Si noti che nella 4^ linea della colonna 2^, la cifra 9,39 risulta — neiresemplare fotografato — da una correzione fatta a penna, perchè originariamente qui c'era un errore di stampa (3,39): la veste tipografica dei Paralipomena non è invero molto commendevole, come s'è già visto a proposito della figura riprodotta a p. 63. — 136 — corrente in linea retta secondo A B e in un dato istante vi immer- giamo bruscamente un cristallo in direzione obliqua, la superficie G H di questo cristallo verrà ad intersecare i punti marginali L ed I simultaneamente e non successivamente; e co?ì dicasi anche per tutti i punti compresi in linea retta tra L ed I, e si vedrà benissimo che in tal caso si dovrà considerare come fronte la linea obliqua L I, venendo meno così ogni necessità di rifrazione : le particelle della linea L I, dopo un tempuscolo, verranno in N O (fig. 15). Non è universalmente vero che il fronte del raggio incidente, ossia quella che deve intendersi come la sua parte anteriore, debba essere la linea KI ortogonale ai lati; e non è vero che la particella K, a differenza della I, non venga ostacolata nella sua corsa, perché avendo davanti a sé tutte le particelle comprese fra K ed L sarà da queste impedita e rallentata dallo stesso indugio che contemporaneamente subiscono I ed L all' atto di penetrare nel vetro. Insomma F intoppo che subisce la particella L appena incontra il vetro non può non ripercuotersi su tutta la fila che le sta dietro e che comprende la parti- cella K; e tutte insieme le particelle schierate lungo L I faranno rallen- tare tutte le retrostanti: e perciò, o che le particelle rallentino il loro corso armonizzandolo in tutto quanto il raggio, o che retroce- dano per riflessione, non v' è piìi ragione per la quale il raggio debba inflettere verso M, e può benissimo continuare verso B : il raggio non si piega se niente lo costringe a piegarsi: perché si pieghi ci dev' essere una positiva ragione che lo determini a tale o a tal altra, a tanta o tant' altra flessione. E così cadono i fondamenti dell' asserita disuguaglianza nel deflusso dei raggi. Obiezione formidabile! Se io potessi esser sicuro che tutto questo così serrato ragionamento è proprio suo, direi che qui veramente si sente la zampa del leone, che qui si ritrova veramente il Grimaldi maggiore. Il momento geniale sta nell' aver sostituito al flusso che sopraggiunge contro una superficie rifrangente, la brusca inserzione della stessa superficie entro un flusso continuo preesistente. Naturalmente, è ovvio riflettere che, più tardi, col sopraggiungere delle teorie ondulatorie, e con F introduzione del concetto di fase, anche il fronte diviene altra cosa da quella che Grimaldi analizza, e si redime come fronte d" onda. Ma non si creda che per questo r obiezione di Grimaldi resti svuotata di tutta la sua forza : il modo e il momento in cui svanisce del tutto non può essere qui oggetto — 137 — di esame: ripelasi solamente che questo — inosservato dai soliti com- mentatori — è uno dei momenti più felici della meditazione grimal- diana. La quale tuttavia diviene meno vigorosa quando si attarda su altre possibilità più particolari. Alcuni credono di poter risolvere la luce in minutissimi globuli e considerano i raggi quasi come esili \K FiG. 19. - Riproduzione, alquanto ingrandita, di una figura, dalla p. 174 del De Lumine, con la quale Grimaldi intende rappresentare lo schema di una teoria della rifrazione, che combatte con argomenti simili a quelli che gli sono valsi contro la teoria del birotio. I globuli sembrerebbero a prima vista di ispirazione cartesiana, ma in Descartes essi formano soltanto il « soggetto » della luce accidente: Grimaldi invece parla come se fosse la luce stessa a risol- versi in minutissimi globuli. cilindri formati da sferici atomi tra loro contigui ed uniformemente fluenti finché sono nello stesso mezzo: ma allorché obliquamente essi incidano sulla superficie di un mezzo più denso, alcuni globuli che si trovano da un lato del raggio sono i primi — dicono — a toccare la -uperficie. e sono ultimi quelli del lato opposto. Così nella fig. 19 il globulo A è il primo a sentire la resistenza del mezzo e a tardare il suo corso, mentre il globulo B ancora immerso nel mezzo tenue serba la sua velocità. Da ciò — dicono — segue la conversione del globulo B verso A. nello stesso modo che sopra s' è visto per le par- ticelle I e K. non capaci di conservare fra loro la reciproca distanza — 138 — se non a patto di deflettere il eorso, a causa che la velocità in una di esse è ritardata. Ma ciò non salva la rifrazione, perché contro di ciò \algono ugualmente gli argomenti già detti: che se anche in effetto B non tocca direttamente sulla superficie del diafano piìi denso, ci saranno tuttavia davanti a lui altri globuli che insieme con esso B saranno ritardati: cioè B subisce l'effetto insieme con gli altri che sono precedentemente penetrati per G C. e ritardano il corso di quelli che si trovano a tergo. Quella contro cui s' abbatte la pretesa spiega- zione è una sola e medesima difficoltà, sia che il raggio formi un continuo, sia che consista di elementi sferici a contatto. Senonché un rifugio alla rifrazione può essere offerto da un' altra veduta circa la quale meno chiare riescono sia 1' esposizione sia la con- futazione del Grimaldi. Secondo questa veduta, si considera una serie unica di questi (( atomi globosi » : si potrà asserire che quando ciascuno di essi si immerge nel nuovo mezzo più resistente non potrà non avvenire in lui una rotazione, se la direzione del suo moto di trasla- zione risultava obliqua rispetto alla superficie del mezzo denso. Se si immaginano entro il globulo tanti diametri, ve ne sarà uno diretto secondo il moto di traslazione e cioè in linea con la longitudine del raggio, e questo diametro privilegiato D E lo chiameremo diametro del moto: nel momento in cui il globulo <( continge » con la superficie G C e la tocca col suo punto F che perciò viene rallentato mentre invece il punto I ugualmente distante dal « diametro del moto » serba r antica velocità, avverrà una rotazione che sposterà il « diametro del moto » convertendolo dalla direzione D E in quella F K, secondo la quale il moto del globulo proseguirà entro il nuovo mezzo. Insomma, con parole piìi semplici di quelle del Grimaldi, si vuol dire che il punto del primo contatto col mezzo più denso, cioè il punto F, diventa un fulcro intorno al quale tutta la sfera tende a girare d' un certo angolo, nel quale atto tuttavia il fulcro stesso si sposta. E questo è vero; ma il «diametro del moto» non ha alcuna concre- tezza, e anch' esso nell' atto stesso in cui si sposta vien sostituito da un altro, cui tuttavia difficilmente il Grimaldi potrebbe conservare la sua primitiva direzione. E qui infatti il suo discorso appare imba- razzato e più che altro egli si rifugia nel dire che la effettiva riso- luzione della luce in granuli sferici non è sufficientemente provata. Or qui veniamo ad un punto veramente cruciale, tanto straordi- nariamente interessante, quanto costantemente inosservato dai coni- — 139 — mentatori: un momento in cui, chi legga consapevole di quel che legge, trattiene il fiato nell' aspettativa, nell'ansia, di un presenti- mento newtoniano. Il riferimento a concezioni di Descartes traspare sempre più, nonostante la grossolana identificazione del (( secondo ele- mento » con la luce stessa, e perciò \ ien detto che — ammessa la risoluzione della luce in globuli — per poscia spiegare in che modo la luce si converta in colore occorrerebbe concepire nei globuli mvilti- formi rotazioni (pag. 175); e se dunque i colori dipendessero da rotazioni varie e diversamente veloci, allora le convoluzioni dei globetti intorno al proprio centro (nel che verrebbero a consistere r origine . e le diversità dei colori) necessariamente turberebbero e modificherebbero in diverso modo la predetta conversione dei <( dia- metri del moto » ; e necessariamente ne verrebbe non poter essere uguale la rifrazione delle luci di diverso colore neppur quando fosse uguale V obliquità e uguale il mezzo rifrangente^ il che è manife- stamente contrario ali* esperienza ! ! ! La quantità di rifrazione non potrebbe essere la stessa, come invece è, nelle luci variamente colorate e in quelle incolore; e questa è la principal ragione che fa condannare senza appello l' ipotesi dei globetti. Questo, sì davvero, è un infortunio sul lavoro! Per una via pur tutta piena di triboli essere arrivato fino a trarre da un pensiero altrui la conseguenza che le rifrazioni dovrebbero differire col colore, e non essere neanche sfiorato dal sospetto che ciò possa esser vero: e quella cotanto mirabil conseguenza soffocarla subito in nome di una esperienza non fatta ! Tanto il pensiero del Grimaldi era privo di fermenti prenew- toniani: e quel che abbiamo visto ora ne dà la misura. Amareggiati e delusi, riprendiamo una strada, che ormai ben poche attrattive piìi ci promette. Un po' pivi oltre il Grimaldi esamina l'opinione di quelli che, nei raggi di luce i quali attingono una superficie obliqua- mente, vedono una duplice virtualità, quasi una composita tendenza, e come una integrazione della via di accesso alla superficie con la direzione determinata dalla superficie stessa. Qui è evidente che egli parla di Descartes : sorvoliamo, perché 1' argomento fu e sarà trattato altrove, in più ampio orizzonte: solo notiamo che quella che in Descartes era una equivoca e jnal definita determiuatio. qui diventa impetu. conatu. Al riparo della ambigua determiuatio Descartes aveva potuto difendere la sua pseudodimostrazione movendo a Fermat V ac- — 140 — cusa (li non essere arrivato a capirla (accusa ripetutagli poi con piìi garbo ma con anche maggior vigore da Clerselier). Grimaldi, dal canto suo. non trae tutto il partito che potrebbe dalla sua involontaria chiarificazione e semplificazione, né adduce argomenti logici o geo- metrici del tipo di quelli di HoBBES, De la Chambre o Fermat: oppone solo le ragioni del comun senso, che stimano troppo alieno dal verosimile che la luce si muova più agevolmente nei corpi densi e pili difficilmente nei tenui, mentre V esperienza d' ogni giorno mostra i projettili più agili nell'aria che nell'acqua: adotta, cioè, uno soltanto degli argomenti di Fermat. Ma ciò che è mirabile, è il fatto che Descartes qui non sia nominato; e a prima vista non se ne capisce la ragione, dal momento che in altre parti del libro lo cita largamente e, facendogli dire ciò che veramente non ha detto, crede di confutarlo minuziosamente ('). Il perché e' è, ed è quello stesso per cui, oltre a non citare Descartes, qui non mette in rilievo neanche la legge dei seni: è che tal legge voleva derivarla lui a suo modo, col suo fluido e con i suoi pori: ed ogni precedente che non scaturisse dal fluido e dai pori doveva essere per lui lettera morta. E così, nella prop. XX, pretende di darci lui la vera ragione della rifrazione. Si ricorderà che la luce è contenuta nel diafano non come un capillizio in singoli filamenti distinto, ma come un liquido: acqua in spugna o latte in mammella. La luce esce dai corpi diafani come da una filiera, divisa in tanti liquidi filetti quanti sono gli sbocchi dei canalicoli o pori: quasi filata, e per raggi profusa: minutissimi ma fittissimi pori le cui serie in retta linea ordinate determinano il numero e la rettitudine dei raggi stessi; rettitudine fisica, sebbene geometricamente i raggi seguano itinerari modicamente tortuosi e non abbiano neppure uniforme grossezza, ma (^) P. es. in XLIII oppone a Descartes che se la luce è composta di glo- betti contigui non può condensarsi: dove si vede che egli vuol dimenticare che i globuli di Descartes non sono la luce, ma solo il suo soggetto. E così gli fa parlare anche di « acceleratam luminis velocitatem », che naturalmente per Descartes non è pensabile, la trasmissione dell'effetto luminoso essendo per lui istantanea. Cose queste di cui in altre parti del libro Grimaldi si mostra perfettamente informato. Mi si dirà che anche Algarotti parla di « globetti di luce» a proposito di Descartes; ma per uno scopo divulgativo la colpa diventa minima. — 141 — si allargliino e si restringano secondo i] lume dei pori; e se comparati ad un filo ricorderebbero più che altro un filo cosparso di nodi. E poiché si ammettono persino comunicazioni per passaggi laterali tra pori vicini, naturale ne viene il paragone col modo di penetrazione d' un liquido in un cumulo di grano, eh' è appena una traduzione del mosto e dell' uva nel tino vendemmiale di Descartes ; con questa tuttavia enorme differenza, che si ripeterà uguale in tutti i casi consimili: ciò che in Descartes era solo paragone od immagine, cioè artificio didat- tico, qui diventa concreta rappresentazione di realtà fisica. E se per Descartes ciò che a quel modo doveva trasmettersi era una (( azione », come una spinta; per Grimaldi invece ciò che riempie i vuoti tra chicco e chicco (di grano o di uva, poco importa) è la luce stessa, la cui materializzazione liquida è pensata come reale. E su tali basi che bisognerà spiegare la rifrazione nel pas -aggio Ira due mezzi contigui. I due mezzi hanno pori che differiscono per nmuero. orientamento e capacità, e sono anche diversamente sezionati dalla superficie piana e polita che ne costituisce la separazione; così gli sbocchi dei pori del primo mezzo non corrispondono né in numero né in forma né in grandezza con gli imbocchi dei pori del secondo mezzo, e molti raggi uscenti dall' uno andranno ad urtare sulle parti solide dell' altro. La loro superficie di contatto o di separazione sarà la sede di reazioni d' assestamento : naturalmente la luce che urta sul solido è in gran parte riflessa, ma non è detto che quella parte di luce che non ha incontrato subito i pori debba tutta tornare indietro: in parte essa scorre sulla superficie e trova qualche poro vicino dove poter entrare ( \). Quando ci si ricordi che i pori sono tali rispetto a un dato corpo, ma sono a lor volta riempiti di una qualche sostanza tenue e fluida; a seconda che quest' ultima si prenda o non si prenda in conside- razione si avranno^ due modi di valutare la densità. E ci si immagini cosa diverrà qpiesta orripilante idraulica luminifera quando — pur vanamente — si tenterà di far stare insieme una maggior rarità [bassa densità] del mezzo, una sua maggior diafaneità. e — nonostante questo (stavo per dire (( ad onta n di questo) — una piìi efficace vis reflectendi. Comunque, qualcosa di buono se ne cava: così come (^) Grimaldi sa persino questo: che la porzione di hice riflessa dipende anche dall'angolo di incidenza. 142 r ampiezza dei pori iioii deve dirsi in modo generale e necessariamente maggiore nel mezzo meno denso, così pure la densità in sé non deter- mina il comportamento ottico. Quest'ultimo è un buon concetto; ma ricercatori piìi antichi già sapevano che liquidi più leggeri dell' acqua, come olì ed essenze varie, sono piìi rifrangenti. Nondimeno, in generale, potrà dirsi che un mezzo otticamente più denso è quello che offre al flusso luminoso maggior resistenza. Hii^ é FiG. 20. - Riproduzione, alquanto ingrandita, di una figura, dalla p. 180 del De Lumine, con la quale viene mostrato l'andamento della rifrazione, secondo le vedute del Grimaldi. Come potrà esso compensare questo svantaggio ? Potrebbe farlo, p. es., aumentando la velocità, scappatoja eh' era stata ammessa in altri casi ove appariva molto meno a proposito; ma qui invece vien rifiutata, e si tende piuttosto a trovare un mezzo di compensazione che conser- vando quello che potremmo chiamare il volume del deflusso conservi insieme la sua velocità. Bisognerà che alla aumentata densità del mezzo risponda una più larga diffusione, cioè una dilatazione del flusso, e per ottenerla — dice Grimaldi — esso non ha che da inflettere il suo corso: eviterà una maggior violenza, ma a patto di deviare. Consideriamo (fig. 20) il raggio limitato da C D e C E, che incorre sulla superficie A B del mezzo più denso : se vuole dilatarsi bisognerà che s' accosti alla perpendicolare, e così raggiungerà l' intento : rif ran- — 143 — gerà dunque in modo che D H si accosti a D F, ed E I si accosti ad E G. Si noti subito che il rapporto tra D O ed M E dà in certo modo la misura dell' allargamento conseguito e del vantaggio ottenutone, e che questi segmenti — facendo D E ^ 1 — sono rispettivamente i seni dell'angolo DEI e dell'angolo M D B. Ma fermiamoci subito, per una prima critica: tutto il discorso si basa sulla sottaciuta ammissione che il raggio incidente e quello rifratto debbano avere, come base sul piano A B, una base comune. Che un fascetto cilindrico di raggi paralleli si rifranga appunto cosi, cioè che r incidente e il rifratto abbiano la base in comune, è quel che 1' osser- vazione mostra facilmente, ed è quello altresì che si vede nello schema fondamentale di Kepler (fig. 17). Ma sebbene anche i discorsi di Kepler abbiano uno sfondo vagamente meccanico, egli non ha bi- sogno di giustificarsi. Grimaldi invece specifica troppo per potersi sottrarre ad una obiezione demolitrice. A un certo punto del suo libro (XXIV, 5) appare che 1' armamentario del suo laboratorio com- prendeva anche un clistere, arnese che a quei tempi credo consistesse in una grossa siringa di stagno da azionarsi a stantuffo: se Grimaldi r avesse adoperato per lanciare obliquamente un getto d' acqua contro una superficie porosa, di pietra pomice, di sabbia o ghiajetto compresso, o contro una piastra di gesso, o anche contro una spugna, avrebbe visto — all' incontro della superficie del corpo poroso ma più denso — il getto liquido dilatarsi bensì, ma naturalmente per la via piìi imme- diata del (( debordare », cioè estendendosi di fianco, a destra e a sinistra, oltre i punti D ed E, e per di piìi neanche simmetricamente, bensì maggiormente dal lato verso cui tende il getto. Da notare, che Grimaldi stesso aveva fatto — e l' abbiam visto poco sopra — la pericolosa ammissione che la luce possa scorrere sulla superficie di separazione dei due mezzi; ed ora se ne dimentica. Che se poi nel clistere l' acqua fosse stata colorata, Grimaldi avrebbe potuto ricavarne anche uno spaccato del (( rifratto »; e noi ce V immaginiamo press' a poco come si vede nella fig. 21. Comunque, nel modello troppo concretamente materializzato di Grimaldi, il raggio rifratto non può più serbare una base comune con quello incidente; e dall' osservazione, e dagli schemi quali egli li disegna sulla scorta di Kepler, una cosa in primo luogo si ricava: che il modello grimal- diano non è accettabile per la luce; né c'è considerazione di velocità altissime né c'è cavillo che lo possa salvare: perché la dilatazione — 144 FiG. 21, - Schema del tipo di u dilatazione » che ci si può attendere nelle condizioni del modello grimaldiano. della corrente himinifera non potrebbe avvenire, nel modello grimal- diano, per sola inflessione, o forse neanche per nessuna inflessione. Soo^oiungasi qui che. in caso di incidenza normale alla superficie di un mezzo più denso, un allargamento qualsiasi (se è per via di allargamento che si vuol compensare lo svantaggio del mezzo più denso) deve necessariaììiente avvenire per (( de^ bordamento » ( stavolta simmetrico ), cioè per spostamento dei fianchi del raggio derivato. Tuttavia per proseguire, possiamo sorvolare sul modo come la corrente luminifera consegue la dilatazione, e considerare la dilatazione in sé stessa. Ora, se le ragioni che inducono il filetto fluido a dilatarsi nel passaggio ad un mezzo meno pervio sono in qualche modo accettabili, (|uelle addotte a con- vincere che nel passaggio ad un mezzo più raro « dehet lux conari ad compressionem diffusionem sui » sono penosamente artificiose. La luce dovrebbe sforzarsi a restringere la sua diffusione o — più giustamente — il suo fronte d' avanzata. E perché? Prima aveva cercato di evitare alla luce ogni « conato » verso qualche fine, e per questo aveva detto di non volerle concedere un aumento di velocità, adesso (XX -10) la fa « conare » per niente. E perché poi l' aria dovrebbe avere pori piccoli? Si possono inuna- ginare mezzi rari che abbiano pori piccoli e moltissimi, o al contrario pochi ma grandi, e anche grandi e molti insieme: Grimaldi avrebbe potuto ben capire che era particolarmente pericoloso attribuire alF aria questi o quei pori, perché un gas può sempre dire di essere (( come tu mi vuoi » ; coi pori più larghi o più stretti a seconda della pres- sione, etc. etc. Geometricamente, fa una lunga dimostrazione per provare ( fig. 22) quello che si vede ad occhio : che B L, diametro della sezione normale del raggio rifratto è minore di O C, diametro dell' incidente, e che questi due segmenti stanno fra loro come i seni di B C L e di O B C. Grimaldi ha certo avuto la sensazione delFinsuflìcienza della sua costruzione, perché cerca di puntellarla anche a costo di contraddirsi. Per spiegare la deviazione del raggio s' era finora rifugiato in una 145 causa finale : il deviamento e' era per quel tanto che bastava a conservare invariato il deflusso della sostanza-luce; ora invece si dà a sviluppare considerazioni tali che il deviamento appare imposto come se il raggio lo <( patisse » in ragion diretta di un « indeboli- mento » intervenuto nel raggio stesso a causa dell' ampiezza della *•• Hi FiG. 22. - Riproduzione, alquanto ingrandita, di una figura, dalla p. 182 del De Lumine^ con la quale si mostra la rifrazione nel passaggio dal più denso al meno denso. sezione elittica secondo la quale ha incontrato la superficie del nuovo mezzo, e per conseguenza del maggior nmnero di pori in tal sezione elittica incontrati: piìi sono questi pori, e più sono le parti in cui il raggio è costretto a dividersi, e più da tale suddivisione è debilitato. Così adesso salta fuori che i molti pori, prima d' essere una age- volazione al passaggio. (( debilitano » il raggio: il che non si spiega senza ammettere una tendenza delle sue parti a stare insieme, a coerire, cosa che in altre occasioni era stata negata (^). Né poi si vede chiaro donde venga la forza che dovrebbe profittare dell' intervenuto indebolimento del raggio per piegarlo in questo o quel senso. (^) Infatti, alla nuova scienza, che è deterministica e amante delle cause attuali più che di quelle finali, queste « tendenze » non possono piacere : e non soddisfano neanche Grimaldi. E tuttavia qualche volta (p. es. in XXIV) egli dice che il suo fluido, pur quando è in preda ad agitazione multiforme- mente ondulosa (cioè colorato), « ama l'unione e la continuità fra le sue parti ». — 146 — Certamente ancora insoddisfatto, Grimaldi torna a prendere in esame la possibilità di una accelerazione (') che poco fa aveva escluso appunto perché il raggio deve fare il « minore sforzo possibile » (eco, insieme, e presentimento, di idee che prevarranno più lardi, specie in Maupertuis). Inutile seguirlo nel labirinto delle esitazioni e delle incongruenze, prodotto naturale dei malaugurati pori: vediamo piut- FiG. 23. - Riproduzione, alquanto ingrandita, di una figura, dalla p. 184 del De Lumine, che serve al Grimaldi come base per ricavarne la legge dei seni. to-to un suo schema geometrico che pone il coronamento al sia pur malfermo edificio. La rifrazione sarà piìi forte o piìi debole a seconda della diffe- renza tra i mezzi, ma per due dati mezzi ci deve essere una certa uniformità nella rifrazione, qualunque sieno gli angoli, in modo che, determinata una volta la rifrazione che il raggio patisce per un deter- minato angolo, deve esser possibile prevedere quale sarà la rifrazione in qualunque altro caso di incidenza. Tutto ciò è evidentemente rical- cato su Descartes, ma senza ombra di citazione. Questa uniformità consiste in ciò. che rimane invariato il rapporto tra i seni dell' angolo di inclinazione e dell' angolo rifratto, qualunque possa essere la detta (^) Si ricorderà che l'aumento di velocità gli aveva altra volta servito per superare le difficoltà della concentrazione della luce in un punto : punto fisico, dopo che s'è accorto essere luminis collectio incredibilis in uno puncto. (Vili, e altrove). — 147 — inclinazione; <( e di tale uniformità dico di poter rendere una congrua ragione ». Sia (fig. 23) il raggio fisico il cilindro retto AFCD : la sua sezione determinata dalF incontro con la superficie rifrangente sarà una elissi, il cui diametro maggiore o longitudinale è B C. mentre il diametro del cilindro in sé considerato sarà C F, che fa angoli retti con i lati AB e CD. Analogamente B G misura la grossezza del raggio rifratto ; e ambedue i triangoli rettangoli F B C e B C G hanno una comune ipotenusa B C. Onde rispettivamente | B C — F C = B F. e | B C — BG" = C G. Fatto B C =^ 1, i valori di B F e C G sono quelli dei seni dei due angoli B C F e C B G, rispettivamente uguali ali" angolo di inci- denza e air angolo di rifrazione. Tutto questo va bene, ma resta da dimostrare ( ed era questo che si sarebbe dovuto dimostrare) perché proprio quei due segmenti. B F e C G. debbano essere i regolatori della rifrazione, e perché durante le sue variazioni debbano essere proprio loro a serbare un rapporto costante. Forse appunto nel desiderio di raggiungere queste prove sta la ragione di quel passaggio — che a me sembra oscuro ed inutile — attraverso il teorema di Pitagora. Ma che cosa si è voluto dire? Si è giocato con tre grandezze : il quadrato dell' asse maggiore dell' elisse, che può in qualche modo considerarsi rappresentativo del numero dei pori interessato; e i quadrati dei diametri dei due raggi. incidente e rifratto, che possono considerarsi in certo modo rappre- sentativi delle (( densità )) prmia e dopo la rifrazione : ma il modo di collegamento fra queste tre grandezze non è razionalmente giustificato. Il procedimento è macchinoso e la costanza di rapporto fra i due cateti B F e G C è asserita, ma — eh' io veda — non discende neces- sariamente dalle premesse; non è dimostrata. Tutte le strade portano a Roma; ma son pur molte le strade battute via via per dare (( causa e ragione » a quella che i vecchi scrittori d'ottica italiani (cito, p. es., Fusinieri) preferirono per lungo tempo chiamare puramente e semplicemente legge di Snelxius: anche Grimaldi ha voluto tentare di aprire una sua strada. Essa non conduce in fondo, ma avrebbe torto chi le negasse il merito di un orientamento che non doveva perire del tutto. Molto tempo dopo ci si troverà ricon- dotti a rappresentazioni, che almeno nell' esteriorità della loro appa- — 148 -^ lenza geometrica molto ricordano queste antiche: delle quali forse ;mrhe Fresnel aveva serbato qualche reminiscenza ed era venuto ad infondervi nuova \ita. come altra ne avranno quando si cercherà di meglio comprendere i tatti della luce attraverso considerazioni ener- ^icticlie. Quello, tuttavia, che in Grimaldi resta senza scusa è di non aver nominato Descartes, che alla legge della rifrazione aveva dato la forma più opportuna, e per primo aveva pensato di averla razional- mente dedotta. Grimaldi, poi, non sembra troppo sicuro, poiché si affretta a metter le mani avanti, avvertendo che le osservazioni dirette •sulla rifrazione non potranno mai raggiungere ciò che la ragione su di essa insegna: in altre parole, la conferma sperimentale sarà resa difficile e incerta dalle impurezze, dalla mancanza di omogeneità, etc. ; per cui si possono prevedere notevoli scarti tra V osservato ed il calcolato. Il che tuttavia era già risultato tanto poco vero che un avversario di Descartes, il Petit, il quale probabilmente non avrebbe desiderato di meglio che trovar falsa la legge dei seni, dopo numero- sissime prove lungamente durate, concluse invece onestamente che tutte le sue misure la con ferma v^ano. I COLORI E LA DISSIPAZIONE PRISMATICA Avvicinandoci al termine, riepiloghiamo i tratti generali ed al- cuni dei punti particolari che piìi direttamente concorrono a determi- nare la nostra conclusione. Le idee del Grimaldi vanno considerate sullo sfondo tomistico, e a confronto del maggior sistema allora esistente: quello di Descartes. In S. Tommaso la luce inerisce in due modi alle cose, o a guisa di forma permanente, o a guisa di passione transeunte, distinzione che corrisponde a quella tra lux e lumen ('), la prima essendo qua- lità attiva di quetìe cose che splendono di per sé e tra le quali pri- meggia il sole, mentre il secondo è ciò che emanando da queste cose luminose pervade il mezzo diafano^ rendendolo tale attualmente, cioè attuando la sua diafaneità potenziale. Nel diafano immerso nel bujo non v'è nulla che sia contrario a questa qualità corporea e perciò, non avendo ostacoli da vincere, il lumen., pervade istantaneamente il suo soggetto, che è il diafano in cui agisce ( qualunque materialmente esso sia: aria, acqua, vetro, ecc.): questo è un primo punto in cui la concezione aristotelico-tomistica differisce sensibilmente da conce- zioni più antiche (si ricordi, p. es., che nel pitagorico Filolao, ombra e luce erano opposti). Praticamente, quella di Grimaldi è una teoria del lumen; e ret- tamente analizzando le sue concezioni ci si avvede che il lumen., come egli lo presenta, è dato da un moto traslatorio velocissimo, cui può sovrapporsene uno variamente ondulatorio che genera i colori, i quali son dunque modalità accidentali subordinate all'accidente principale; (^) Tuttavia già in S. Tommaso la distinzione tra lux e lumen è all'atto pratico molto spesso inoperante: e si attenuerà via via negli autori che se- guono, fino ad una quasi identificazione in De la Chambre. Per un moderno è difficile dare su ciò un giudizio perentorio: in quanto lux corrisponda alla luce nelVatto della emissione, e in quanto lumen sia invece luce già emessa e viaggiante nello spazio e deviata dai vari incontri lungo il tragitto, la distin- zione è buona e precorritrice di significati profondi; in altri eventuali sensi è inutile complicazione terminologica. _ ISO — il tutto inserendosi sopra una costanza, che Grimai>di descrive come fluida e continua e che è dunque, non la luce stessa — come egli mostra di credere — ma soltanto il soggetto della luce. Una posizione, cioè, del tutto uguale a quella di Descartes: sono, fra i due. le modalità fisiche, i modelli e le rappresentazioni, che camhiano; ma la valutazione ontologica della luce è — nei due — identica. Il colore, che per l'uno è una rotazione di corpuscoli sul pro- prio centro, per l'altro è come un increspamento o un tremito che interviene nel corso di una corrente: per l'uno e per l'altro è dunque una modalità accidentale. Per l'uno e per l'altro essa viene a dipen- dere da un altro accidente, l'accidente principale su cui si inserisce (la luce): che per l'uno è un'azione, e può essere anche solo una spinta o una pressione, per l'altro è una rapidissiiya traslazione. Per Descartes la trasmissione della luce non implica necessariamente alcun trasferimento materiale da un punto in un altro, ma — con una immagine da lui stesso usata ad altro proposito — è qualcosa come accade in una penna da scrivere, la quale — scrivendo — vien mossa nella parte superiore e scrive invece con l'estremo infe- riore, henché niente di concreto passi dalla parte superiore a quella inferiore. In Grimaldi invece si ha uno spostamento successivo che implica insieme il moto ed il suo soggetto: il fluxum luniinis è affer- mato con sicurezza. Per l'uno e per l'altro, naturalmente, tanto l'accidente principale (luce) quanto quello subordinato (colore), si inseriscono sopra un soggetto o sostanza, che per il primo sarà un insieme di corpuscoli concepiti come sferette solide e rigide, nell'altro sarà invece qualcosa di continuo, massimamente fluido: una sostanza corporea per am- bedue, Descartes perciò si discosta dalle concezioni peripatetiche su due punti importanti: muta il soggetto del lumen; e fa del colore una modi- ficazione di esso lumen. Così i corpi appaiono colorati in quanto modi- ficano la luce che rimandano all'occhio. In confronto di Descartes, Grimaldi segna un punto a suo favore quando toglie alla trasmis- sione dell'impulso luminoso il carattere d'istantaneità, e attribuisce alla luce un transito svolgentesi nel tempo. L' ottica del Grimaldi è tutta fondata sulla mediazione del dia- fano, il quale — degradato dalla funzione di soggetto della luce — 151 — che aveva in Aristotele — offre adito mercè pori o canalicoli al fluido luminifero sottilissimo celerrimo, che deve procedere per linee almeno fisicamente rette: i raggi, i quali dovrebbero poterlo attra- versare in qualsivoglia numero contemporaneamente, e senza disturbo reciproco in quante si vogliano direzioni. Il che è assurdo, se debba compiersi per la via dei canalicoli. E se poi questi, oltre tutto, deb- bono essere pieni di altro indefinito fluido che li occupi diu-ante l'oscu- rità — il vuoto non essendo ammesso — allora la potentia permeandi del lumen dovrà esercitarsi in primo luogo su questo fluido riempi- tivo, e il caso di un diafano poroso è secondario e derivato. Tuttavia resta il solo suscettibile di una elaborazione fìsica, il solo che Gri- maldi riesca in qualche modo a trattare, a patto di dimenticare una di queste due cose: o il fluido riempitivo, o la sua incompenetrabilità. A parole, sembra optare per la seconda via che gli appare meno etero- dossa; ma in pratica segue la prima, piìi radicale. Resta ancora da domandarsi qual sorte abbia il fluido luminifero sgorgato dalla sorgente [emissione], essendo manifesto ch'esso miste- riosamente si perde, anche se voglia ammettersi (XXVII) che soprav- viva alcun poco dopo la soppressione o l'intercezione della sorgente (tipicamente il sole, ma in qualche luogo Grimaldi riconosce che quella d'una lucciola ha la stessa natura della luce del sole). Massimamente oscillanti sono le sue idee circa gli effetti di quella ch'egli crede essere la corpulentia luminis (IX. 4) associata ad una velocità non infinita ma altissima (XVIIL XXI. XXIV) della corrente luminifera: una volta teme che il vento se la porti via; un'altra volta invece riflette che l'impeto d'un così veloce proiettile dovrebbe spazzar via tutto sulla faccia della terra: tra i due estremi emette anche l'opinione moderata che una certa influenza dei moti dell'aria sul corso del lumen in realtà sia attestata dal tremolio delle stelle. Comunque, l'essenza della luce consìste nel suo moto e nel suo impeto: è come un lancio violento di filetti fluidi — i raggi — con- cepiti prevalentemente come continui, non come sciami di singole particelle: e benché in ogni caso sieno tanto fini da non poter cadere sotto la nostra diretta osservazione, può accadere che nel passaggio da diafano a diafano ciascun raggio debba frangersi in raggi ancor piìi sottili, costrettovi dall'incontro con pori di calibro minore. È questo un caso di dissipatione e di radiorum disjunctione (XX. e altrove), consistente in uno scindersi meccanico, come il frangersi in filetti del- — 152 — l'acqua che esce dalla « cipolla » d'un inaffiatojo : nulla assolutamente che implichi una separazione qualitativa fra elementi di diversa specie. In generale, da un ostacolo iiifriugente impetmn fluidi (IL 14) proverrà in questo lumen (( dissipato ». seu discinditui% un turbamento meccanico, un -ommovimento interno, espresso nella undulatio^ donde proviene il colore: idea prevalentemente ispirata da quel che si vede nell'urto della corrente d'un fiume in piena quando s'abbatte sulla pila di un ponte; ed è questo il nucleo germinale dell'idea di diffra- zione, preso inizialmente nel senso letterale {dijfringo\ di (( dirom- pere )). (( infrangere », (( frantumare )), mentre da quella specie di stracciamento o dilacerazione che s'immagina avvenire nella luce in tal frangente nascono i (( frequentissimi e fittissimi » increspamenti ondosi, e da essi il colore. I processi necessari a colorare il lumen non coloratum dovevano naturalmente stare in cima ad ogni pensiero di Grimaldi, e troviamo giusta l'osservazione di Goethe, che gli antichi adoprarono a tal fine quasi soltanto la rifrazione, e che Grimaldi vi aggiunge altri mezzi. Soggiungiamo per cónto nostro che quasi soltanto nel caso della diffra- zione fa le sue rare comparse quella parola (( dispersione », di cui abbiam discorso nella nostra (( premessa ». Ma s'illude il Grimaldi quando, spintovi da una malintesa esi- genza logica, crede di ottenere tale conversione (della luce in colore) con azioni semplici, preoccupandosi di escludere ogni sospetto di cause miste (XXXI e altrove): dopo aver rimosso certe presunte cause tradizionali, come il confinar con l'ombra o il contaminarsi con l'opa- cità, le sue azioni, eh' egli crede pure, sono pur sempre in realtà miste, e vi concorrono prevalentemente diffrazione ed interferenza. Una azione almeno in apparenza semplice, è ancora, tra le mani di Grimaldi, la tradizionale rifrazione, ed è poi intorno a questa soltarto ch'egli riesce ad abbozzare una ipotesi esplicativa ('). (^) Per De la Chambre {Lum. VII, p. 325) la rottura [rifrazione] è come una prova di una certa violenza che la luce patisce; e tale rottura — tanto più efficace inquanto non si fa per angoli uguali, né per le vie più brevi — è sempre presente ed agente, da sola o più spesso in congiunzione con altri atti, dovunque si generi il colore, concepito da lui. nel modo che addietro si è visto, come una particolare forma d'indebolimento della luce. De la Chambre — 153 — La ragione per cui il lumen transita in colore apparente non è né qualche determinato angolo che i suoi raggi facciano tra loro (XXXIV) né qualche sua determinata densità o intensità. Che il diradamento o il condensamento del lumen (cioè la densità e le sue variazioni) non sieno di per sé causa del colore, è dimostrato dal avendo studiato i colori generati da un fdo di ragno, da una sottile stria sopra una lastra d'argento; si era soffermato a domandarsi perchè mai non si ha un effetto simile se il filo è della seta del baco, o se la scalfittura è fatta sul marmo invece che sull'argento. Ed è in quest'ordine di riflessioni che viene ad inquadrarsi quell'idea che invece Grimaldi esporrà solo per contestarla (XXIX): che per dare il colore bisogna che la luce penetri alcun poco in pro- fondità, per la qual cosa subisce necessariamente un qualche po'' di rifrazione: che perciò il colore dei corpi non si vede per pura riflessione ma solo in quanto prima di riflettersi la luce è permeata entro il loro spessore e sol per questo il lume riflesso dall'oro è flavo e quello dell'argento è candido: così come anche nelle penne del collo dei colombi la luce deve ritenersi, prima che riflessa, rifratta in quanto appunto essa le penetra. Grimaldi, mosso dal rigido preconcetto teoretico di voler colorare la luce per singole azioni pure — per pura riflessione, per pura rifrazione, per pura diflfrazione — e ponendo in ciò tutto il suo desiderio e tutto il suo puntiglio, si mette in condizione — proprio lui, l'annunciatore dell'interferenza — di non raccogliere e forse di non avvertire quella che non esito a chiamare l'idea grandiosa di De la Chambre, quando egli dice che il colore viene dall'incontro o dallo scontro tra i raggi derivanti dalla rifrazione e dalle varie riflessioni: per questo appajono iridescenti le lame di mica quando l'aria si insinua fra i suoi strati; per questo è iridescente la madreperla, formata da vari strati che rifrangono e riflettono, e la bava delle lumache, e le bolle di sapone; per questo — tornando al filo di ragno — esso non è mai tanto iridescente come quando è irrorato di rugiada: e più si realizzano condizioni che favoriscano il cozzo fra i raggi e piii i colori risulteranno vivaci e giustificati; in ragion diretta — si direbbe — dell'efficacia delle riflessioni interne, e perciò di un certo grado di trasparenza, che difetta nella seta e nel marmo, ciò che dà la risoluzione al quesito posto piti sopra. Non entriamo nei particolari teoretici dell'Autore: naufragheremmo. Ma ove se ne voglia estrarre soltanto la nuda idea generale deWincontro fra due porzioni della stessa luce bianca come generatore di colori, si riconoscerà che, con questo. De la Chambre veniva, forse per primo, a spianare quel campo sul quale in un giorno lontano doveva essere disputato il gran gioco dell'inter- ferenza: peccato che proprio Grimaldi non abbia voluto inserirvisi, pur avendo idee che avrebbero potuto inclinarvelo : invero le bolle di sapone per lui si colorano in causa della continua discesa delle particelle di sapone e della discon- tinuità fra esse e l'acqua che le avvolge. — 1S4 — fatto che mediante specchi concavi o convessi ('), una hice colorata o non colorata che vi si rifletta può ottenersi addensata od espansa in ogni misura pensabile, a piacere, e nondimeno resta — come prima — bianca se era bianca, e senza mutazione di colore se era colorata. Questo è esposto, con felice brevità, nella trattazione della Prop. XXXMI, ed è in realtà una riconferma di quanto aveva già detto De LA Chambre, il quale pure ammette una (( dissipazione » ( ed usa. prima di Grimaldi, questa stessa parola) contrapposta ad una « con- centrazione » ( Iris. p. 269). ma si oppone alla opinione corrente che i colori più alti [i piìi vivi: rosso e giallo] nascano dalla convergenza, dalla raccolta o dal concorso di raggi più fitti, e che i colori più bassi o più scuri nascano dal contrario, perché appunto i condensamenti o le rarefazioni ottenibili con specchi curvi fanno le luci e i colori più intensi o più tenui, ma non ne modificano in nulla la specie: e dice di aver eseguito queste riflessioni di luci anche sette volte di seguilo fin quasi ad annientarle come intensità, ma senza riuscire a modificarne i colori. Del resto, possiamo osservare per conto no'stro che non e' è bisogno di specchi curvi per venire a questa conclusione. Quando VlTELLiONE (per non riandare anche più indietro) illustra la sua piramide illuminationis il cui vertice è in un punto del corpjo lumi- noso e la base sulla superficie del corpo illuminato, è implicita Y idea che lungo questa piramide si abbia una continua variazione di densità del lumen, ed è pur lo stesso Vitellione che dice essere la luce (( compressa » più forte di quella (( disgregata ». nelle quali due parole è pure incluso il concetto di (( densità )> ( Libro IL pet. 1"): se dalla densità dovesse dipendere anche il colore, ognuna di queste piramidi sarebbe rossa sul vertice e tenderebbe sempre più verso il ceruleo allontanandone la base, la attenuazione progressiva della densità ovviamente producendosi da sé. ed essendo illimitata (). (^) Notevole l'avvertenza di Grimaldi che in tali esperimenti, quando si adoprino specchi di vetro argentato o stagnato, qualche rifrazione accessoria potrebbe intervenire a falsare il risultato. (^) Era acuta, e niente affatto spregevole, l'osservazione di coloro che in quel ceruleo che si vede in fondo alle deboli fianime delle candele, dei lumi ad olio, a petrolio, ecc., scorgevano il segno di una qualche imperfezione della luce, come qualcosa di incompletamente formato, in contrasto col rosso con- — 155 — E naturale che il concetto di (( densità » della luce si ritrovi in Kepler (p. es. nella Prop. IX. a p. 10, dei Paralipomena) e in KiRCHEK, il quale parla anche lui di lux compressa; ed è pur natu- rale che retrocedendo nel tempo vi si riconoscano le vestigia di quella idea più generale che poneva la radice dei fenomeni naturali in alterne vicende di condensazione e di rarefazione (come in Anassimene di Mileto, in Diogene cV Apollonia, in Archelao d'' Atene); ed è un riflesso di queste idee generali sulF argomento speciale dei colori quello che si ritrova in Platone {Tinieo\ il quale oscuramente ravvicinando le sensazioni dei colori alle azioni operate dal freddo e dai caldo — azioni disgregative e congregative — sembra aver inteso dire che il bianco è fatto d' espansione e il nero di contrazione. Antichissima è dunque la radice di tale concetto; ma in Grimaldi lo troviamo immensamente arricchito con V immissione di criteri di simmetria e di relatività, sempre, in teoria, fecondi di conseguenze. Le quali, ai fini ottici, saranno — come si vedrà fra poco — disa- strose: e tuttavia segnano un momento notevole e caratteristico nella storia della rifrazione. Invero il Grimaldi, avendo escluso che la causa dell' insorgenza del colore possa cercarsi nella rifrazione in sé, o nella densità in sé considerata, o nell'angolazione tra i raggi, crede finalmente di ricono- scere questa causa nella ineguaglianza di costipazione o costrizione ovvero dissipazione o dilatazione che venga considerata entro un me- desimo fascio, nella dissimmetria in esso stabilita da una differenza di densità ripartita su tutta la sua sezione trasversale e massima nel confronto di due lati, destro e sinistro, di una sua sezione longitudi- nale: per chiarire la cosa immediatamente, si torni ad osservare la figura riprodotta a p. 113 di questa memoria, e si vedrà subito che il raggio G A I, che era il raggio mediano del fascio incidente, dopo la rifrazione non è piìi raggio mediano; e che i raggi compresi entro il trapezio N I P Q risultano più compressi di quelli entro il trapezio M I 0 P. Questa è la ragione per la quale, nelle figure di Grimaldi relative a questo soggetto, noi troviamo — come notammo a p. 120 — i fasci sempre schematizzati da tre raggi e non soltanto dai due margi- cepito come vero colore di fiamma: e tuttavia Grimaldi (XXXIII) aveva ben ragione di opporsi — sebbene non molto efficacemente — ad una tale veduta. — 156 — nali: è il raggio interno clic con la sua posizione dà in certo modo la misura della dissimmetria insorta per effetto della rifrazione; ed è per effetto di questa insorta dissimmetria che — secondo il Grimaldi — compare il colore: per vederlo egli colloca sotto il fondo del vaso di vetro della figura precitata una materia bianca, per esempio un foglio di carta, e guarda dall'alto: questo lo fa nella convinzione — quanto fondata lo vedremo dopo — che se il lumen attraversando la parete del vaso riemergesse nell' aria tornerebbe istantaneamente bianco. Questo artificio d' osservazione del Grimaldi è abbastanza ingenuo : comunque, la <( pittura » eh' egli vede determinarsi sulla superficie bianca immediatamente a contatto col fondo, gli fa scorgere un colore rosso ove il lumen è piìi denso ( cioè verso Q) e un colore ceruleo dove è più rado (verso O). E sempre, invariabilmente, riuscirà colorato sol- tanto quel fascio in cui si istituirà una densità disuguale tra V una e 1" altra parte di esso; ed anche nel transito per un (( prisma triangolare cristallino », il fascio riuscirà colorato purché distorto dalla sua via e disugualmente piegato nelle sue parti, e solo in quanto subisca una dissipazione non uniforme: altrimenti non sarà colorato, come appunto s' è visto per il fascio emergente dalla (( terza faccia » nel caso della fig. 11 a p. 118. I commenti e le riserve qui si addensano in folla, ed è questione soggettiva giudicare la convenienza dell'ordine in cui esporli. A me pare anzitutto opportuno ribadire piìi fortemente che a determinare la comparsa del colore non è — in Grimaldi — la dilatazione o la costipazione in sé: né questo o quel grado di densità corrispondono a questo o quel colore, tanto vero — e questa è una osservazione acuta — che molto spesso le rifrazioni colorifiche non fanno se non dilatare ciò che in antecedenza avevano compresso o viceversa; e dila- tano o comprimono variamente a seconda che i fasci i quali incappano nel mezzo rifrangente sono divergenti o convergenti (XXXV), sicché in definitiva il fianco rosso di vm fascio potrà avere densità uguale (o anche minore) a quella che in un altro fascio determina invece il ceruleo, sempre avendo valore determinante una condizione relativa di più e di meno, sempre cioè avendosi il rosso dal lato più denso, e dal lato meno denso sempre il ceruleo, quali che sieno poi in ciascun fascio i valori effettivi di questo (( più » e di questo (( meno ». In altre parole. il fascio va considerato in sé stesso e non in confronto con altri; e nello stesso fascio dissimmetricamente (( dissipato » o (( costipato », ciò — 157 — che conta non è il valore assoluto delle densità messe in gioco e nep- pure — si noti — il valore della loro differenza: qualunque sia questa differenza, poca o molta, sempre il fascio in cui si generi una dissinnnetria mostrerà il colore a più vivo ed ilare » sul margine ove il lumen si addensa, ed il colore piìi freddo e scuro ove si allenta o dirada. E poi necessario avvertire che in questi discorsi le parole « intensità », (( rarità » e simili, vanno intese come più raggi o minor numero di raggi [cadenti, è sottinteso, in una data unità di superficie] e non è prospettato il sospetto che un raggio possa, in sé, variare di intensità, od essere piìi intenso o meno intenso di un altro : in cjuesta, per così dire, rigidità dei raggi (che del resto è una idea sotto certi aspetti felice e lungimirante) si può riconoscere una influenza delle concezioni di De la Chambre. Ma allora tanto più vivamente si desidererebbe a questo punto di apprendere dalle parole stesse del Grimaldi il perché, o meglio il come tale dissimetria del fascio si traduca in colore; ma il Grimaldi è molto più esplicito nel precisare circostanze in cui il colore non sorge, che non nel suggerire le vie per cui può sorgere. Ancora una volta, la sola dilatazione o costipazione non sufficit (XLIII). e la comparazione delle densità tra fascio e fascio non serve allo scopo : si abbiano più fasci paralleli (e perciò a densità costante in ciascuno di essi) distinti e diversamente densi: non possiamo per questo preten- dere di vederli colorati, a meno di non supporre V assurdo che tutti i fasci di luce bianca esistenti in natura sieno egualmente intensi ('), e d' altra parte perché una radiazione si dica uniformemente costipata e quindi bianca (XXXVI) non è necessario che i suoi raggi sieno paral- leli: qualunque obliquità possa esistere fra i singoli raggi si potrà sempre considerare qual somma di raggi sia distribuita nelle varie por- zioni della sezione trasversale del fascio, e se questa distribuzione risulta uniforme, il fascio — comunque divergente o convergente — - non potrà generare colori: anzi una luce in precedenza coloratasi per effetto di inuguale compressione o dissipazione, se per qualche (^) Da notare che, in altra parte del libro (p. 406) dice, con manifesto fon- damento di verità, che luci proprio veramente candide non esistono, tutte le luci naturali avendo qualche lieve tonalità di colore. Fra la considerazione sopra ricordata nel testo, e questa, non c'è contraddizione: Grimaldi considera i fasci candidi come un caso-limite, mentre è ovvio che la luce movendosi in natura sempre fra ostacoli, inevitabilmente subisce qualche turbamento nella dirittura della sua corrente, e perciò qualche inevitabile ondulazione colorifica. — 158 — ragione torni in condizioni di uniforme densità, al tempo stesso e per la stessa ragione perde il colore. Ma la ragione per la quale la luce difformiter dissipata si colori, la connessione tra le (( ondulazioni colorifiche » e la (( inuguale dissi- pazione ». di cui sarebbe stalo pur necessario mostrare le vie, è dal Grimaldi più accennata che espressa: suggerisce, più che non dica, che se iiì un fascio i suoi fianchi sono inegualmente compressi sorge una specie di squilibrio interno, e che i movimenti della luce sono più liberi da un lato che dall'altro: e bisognava invece colle- gare per via di necessità queste ineguaglianze a quelle tali ondulazioni che per lui sono la causa conclamata del colore, derivare queste da (juelìe. spiegare come esse le provochino e le mantengano. Descartes aveva accennato in qualche luogo al procedimento di tenere per vera una cosa della cui dimostrazione, accertata una volta, ci si sia poi dimenticati; ma qui Grimaldi s'è dimenticato addirittura della necessità di una dimostrazione; e par quasi che più si allontani da quei punti salienti in cui avrebbe dovuto darla e più acquisti franchezza e baldanza nel far uso di quella (( disuguale dissipazione » come causa provata di generazione del colore. In via generica, e a prescindere dalle ondulazioni, a me pare nondimeno di poter rendere più esplicito e quasi tangibile il suo pen- siero latente ricorrendo a questo modello: si immagini una massa d' acqua entro un recipiente parallelepipedo, due lati opposti del quale sieno mantenuti a un dislivello costante di temperatura: si gene- reranno nella massa liquida differenze di densità e quindi movimenti tendenti a ristabilire un equilibrio che però torna sempre a rompersi: una specie di circolazione mantenuta dal dislivello di temperatura e che durerà finché esso duri. Se poi la differenza di temperatura la si innnagini sui Iati di una conduttura entro cui l'acqua scorra unifor- memente, al moto di uniforme scorrimento longitudinale si sovrappor- ranno i moli trasversali predetti, e sarà come l' immagine dell' acci- dente colore che si sovrappone sulF accidente luce. Tuttavia, dopo aver foggiato questo modello, debbo demolirlo con una obiezione. Esso reggerebbe se il lumen — come 1' acqua del reci- piente o della conduttura — costituisse un continuo entro cui i movi- menti si potessero trasmettere per contiguità {de proche en proche) attraverso la sezione trasversale del fascio mettendo in qualche modo in rapporto il suo lato destro col sinistro, tra i quali due lati si — 159 — iiiimagina esistere la differenza e la dissimmetria; ma il fascio di Gri- maldi è costituito di filetti o raggi indipendenti e in generale non comunicanti fra loro, perciò incapaci di intrattenere scambi o rapporti del genere di quello prospettato. Ciò apre la via ad altra obiezione: la differenza di densità tra il fianco destro, prossimo a NQ ( cfr. la citata figura 9 a p. 113) ed il fianco sinistro, prossimo ad M O. nei diversi casi potrà essere forte FiG. 24. - Schema disegnato secondo i criteri di Grimaldi, per mostrare quali veramente sono le conseguenze della sua teoria nel caso della lastra piano- parallela. o debole: perché, nonostante questo, sempre ed ogni volta si istituirà da un lato il ceruleo e dall' altro il rosso? Perché non ci sono — gene- rati da dissimmetrie lievi, da piccole differenze di densità — fasci a sinistra cerulei e a destra verdi- oppure a destra rossi e a sinistra gialli? Ciò parrebbe piìi conforme alla interpretazione di Grimaldi; e il quesito prende forza logica da una considerazione: si conceda pure che il lato N Q del fascio abbia da essere rosso ed M O ceruleo : ma nessuno potrà impedirmi di sezionare mentalmente questo fascio in un numero (jualsivoglia di altri fascetti elementari, tanto piii che questo sezionamento non è poi neanche un semplice (( esperimento mentale ». ma è già realizzato nella costituzione fisica che abbiamo detto, formata da tanti indipendenti filetti. E allora, isolando ideal- — ]()() — mente prima il fascetto I N P Q, e poi 1' altro fascetto M I 0 P, si ycvrà — nei riguardi del raggio IP — a quel risultato contraddittorio cui conduce ogni impostazione falsa quando le conseguenze ne \en- «rano sufficientemente sviluppate. Si aggiunga per soprannnercato. che nel caso della figura 9 i colori osservati dovevano e potevano essere soltanto marginali, e la vasta striscia di luce bianca mediana rima- neva ingiustificata dalla teoria, poiché sulla larghezza di questa striscia veniva pur realizzata una differenza di densità ed una dissimmetria generatrici di colore a pari titolo e diritto d' ogni altra, finché si mantenga che è la dissimmetria a generare il colore. Comunque, dando per accettata la teoria, vediamone le conse- guenze. Alla teoria Grimaldi è stato condotto soprattutto da una consi- derazione mossa dal principio che la rifrazione in sé non è causa dei colori: se lo fosse, nel passaggio di un fascio obliquo attraverso una lastra pianoparallela la seconda rifrazione o rifrazione d' uscita dovrebbe raddoppiare V effetto, o quanto meno dovrebbe concorrere a conservare il colore; e invece se il fascio esce dalla lastra torna — secondo lui — subito bianco, cioè la seconda rifrazione elide gli effetti della prima, essendo uguale e contraria alla prima: per una dissipazione il colore si acquista, per la contraria si perde. Ora — per ironia — proprio la teoria di Grimaldi porta a questo : che appunto la lastra pianoparallela dovrebbe dare una bella iride. E, secondo la stessa teoria, il prisma viceversa dovrebbe lasciare bianca la luce nel caso piìi semplice e tipico in cui invece la disperde e colora. Parliamo prima della lastra. Lo schema della fig. 24 è sostanzial- mente identico a quello grimaldiano della fig. 8 a p. 110: solo che qui è stata accresciuta V inclinazione dei raggi, e le rifrazioni non sono poste a caso, bensì calcolate su un indice piuttosto forte: 1,67315. già in precedenza usato. Il disegno è tracciato nello spirito di Gri- maldi, cioè senza fatti di (( separazione » newtoniana, ossia in altri termini come se i raggi fossero monocromatici; la sorgente è — neces- sariamente — estesa, altrimenti il meccanismo della teoria grimaldiana non entrerebbe in gioco; la faccia d'entrata è. come di preferenza in Grimaldi, schermata eccetto in un punto o (( piccolo foraminulo » ; e i tre raggi disegnati incidono rispettivamente a 45", 60" e 1d'\ cui corrispondono gli angoli di rifrazione di 25". 31" e 10': 34" e 58'. Quando i rag.p rifratti riemergono, essi hanno un bel raddrizzarsi e — 161 — tornar paralleli agli incidenti: la dissimmetria — come si vede ad occhio — rimane, né pivi quello che era il raggio mediano resta tale, né più i prolungamenti dei tre raggi s' incontrano in vui medesimo punto: il lumen nella parte superiore-destra è compresso relativamente al lumen della parte inferiore-sinistra che è comparativamente dilatato o dissipato. Dire che nel fascio emergente la luce è a difformemente dissipata » e che perciò — conformemente alla teoria ma a dispetto FiG. 25. - Riproduzione di una figura dalla p. 235 del De Lumine. per mostrare come il Grimaldi studia il comportamento di un fascio che attraversa un prisma. del suo Autore (^) — deve essere abbondantemente colorata, significa soltanto tradurre in termini grimaldiani ciò che modernamente si chiama astigmatismo della lastra pianoparallela : nel caso disegnato è piuttosto forte, e secondo le vedute del Grimaldi dovrebbe dare una bella iride, che in effetto non darà. Convinto coni' era che la lastra pianoparallela lasciasse la luce asso- lutamente bianca e non desse neanche i lievi effetti cromatici che dà in realtà, se il Griivialdi si fosse accorto delle vere conseguenze geo- (^) A proposito di colori dispettosi, una piccola digressione. Per Goethe tutto fa brodo purché abbia l'apparenza di sminuire Newton. E in questo spirito Goethe ci racconta che a Rizzetti la dispersione gli veniva tra i piedi senza cercarla, anche quando meno la desiderava, e con suo disappunto. Si vede che a Goethe, invece, i fenomeni ottici gli venivan fuori per obbedienza: al momento che gli faceva comodo, e solo quelli che gli facevan comodo. — 162 - metriche delle due rifrazioni sarebbe stato costretto ad abbandonare la «Ila teoria. Pare che non se ne sia accorto, e la colpa teorica è scusabile, come lo è quella sperimentale di non essersi accorto dei colori marginali. Dubito che sia altrettanto veniale quella che riguarda il prisma. 11 modo abituale di trattare la questione è, in Grimaldi, quello sche- matizzato nella fig. 25, che riproduce una sua figura: la faccia d'entrata A B del vitreum prisma è schermata e lascia adito per il piccolo /l JaVCfi-^ Fig. 26. - Schema disegnato secondo i criteri di Grimaldi, per mostrare che un fascio parallelo di luce bianca che attraversi il prisma, secondo la sua teoria non può generare colore. forame D: la dissimmetria del fascio emergente si genera unicamente per la differente incidenza dei raggi, quale si vede considerando i raggi estremi o marginali E D ed F D, ed è legata al fatto che la sorgente non è puntiforme ma estesa: unicamente per questa diversa (( ango- lazione » può sorgere l' asimmetria, e perciò unicamente per questa si genera il colore. In questo momento ci riesce sommamente indiffe- rente quella che era la grande e vana preoccupazione del Grimaldi di escludere che la riflessione o altri fatti concomitanti avessero qualche parte nella genesi del colore; e quello invece che a noi interessa — e di cui ci rendiamo conto con una semplice occhiata alla successiva figura 26 — è che un fascio parallelo attraversando il prisma non può, nella teoria di Grimaldi, generare colore. E Grimaldi lo sa benissimo: il fascio parallelo, comunque incidente, subirà rarefazioni e condensamenti, ma questi non potranno essere altro che uniformi. e perciò, secondo la sua stessa sentenza, inoperanti: il prisma allarga 163 — il fascio nella prima rifrazione, torna a restringerlo nella seconda, ma in nessuna di queste variazioni si ottiene la dissimmetria colorifica: il raggio mediano resta mediano in ogni caso, e perciò la luce bianca. bianca rimane: bianca prima della rifra- zione, nella rifrazione e dopo la rifrazione! Lo schema di cui alla fig. 27. che al Grimaldi serve per illustrare un paralogi- smo, può invece servire a noi per mostrare ch'egli ha studiato, sulla carta, il caso del passaggio di fasci paralleli, e non può non averne viste le conseguenze, tanto più che egli tratta poi magistralmente il caso d'un fascio di raggi paralleli che cade -ulla <( sfe- ra vitrea >> e di cui il raggio centrale pro- cede non rifratto, mentre gli altri danno la desiderata « inaequalis constipatio » ( j generatrice di colori disposti conformemente a ciò che mostra l'esperienza. Ora. è bensì vero che sperimentalmente la realizzazione di quello che sbrigativamente si chiama un fascio parallelo ( per dire che sono paralleli i raggi che lo compongono) è anche oggi — se voglia raggiungersi un'alta approssima- zione — operazione delicatissima, ardua, ra- ramente tentata e piìi raramente riuscita; ma quello che io mi sto domandando è se non sarebbe bastata al Grimaldi una serie di approssmiazioni successive per aprirgli gli occhi sul fatto che la luce si sarebbe co- lorata attraverso il prisma anche nel caso limile che di essa si fosse isolata per così dire una parcella minima proveniente da uno solo dei margini del Sole, anche quando — cioè — si fosse praticamente soppressa la (( angolazione » fra i raggi. Questo. Grimaldi non l'ha ottenuto o non l'ha tentato, e perciò è rimasto con la sua teoria. A metterlo in sospetto contro di essa avrebbe I30tuto tuttavia bastare l'attenta considerazione di qualche particolare. ^ O Q, FiG. 27. - Riproduzione, dalla p. 261 del De Lumine di una figura che attesta come il Grimaldi abbia studiato il passaggio di fasci paralleli attraverso il prisma. (^) Espressione perfettamente equivalente all'altra : « disforme dissipazione », pili frequentemente usata. — 164 — piccolo in apparenza, ma di grande significato. Egli aveva ben chiamato sntis notiim ac trititm, eppure sommamente adatto al suo scopo. Fespe- rimento nel quale un lumen si fa transitare attraverso un (( prisma triangolare » su cui incida per un certo angolo, ed accogliendolo poi in luogo oscuro sopra uno schermo opaco e candido vi si osservano colori vi\acissimi. Ed egli aveva — Tabbiani visto — elaborato in qualche caso con \ era maestria le variazioni di un tale esperimento. ( ') Ora. un particolare da lui messo in piena evidenza è che lo schermo opaco e candido bisogna tenerlo a sufficiente distanza dal prisma. Infatti chi collocasse lo schermo proprio sull' uscita della luce, la raccoglierebbe praticamente bianca. Perché? Se fossero responsabili del colore la dissimmetria del fascio e la differenza relativa della sua densità su di un lato rispetto al lato opposto, queste cose essendoci ugualmente al livello d' emersione del fascio come a qualsivoglia di- stanza, del pari dovrebb' essere del colore (/). Da qualunque parte si rigiri, la teoria grimaldiana si sbriciola (^) Il Grimaldi elegge giustamente il prisma triangolare equilatero [a ÓO'^] come il miglior mezzo di «inuguale dissipazione»; ma dà alla forma un valore eccessivo quando dice che tutti i mezzi sono buoni, purché diafani e foggiati a prisma: tra due prismi uguali, d'acqua e di vetro, avrebbe potuto osservare la differenza d'effetto, così cóme l'ha osservata, rispetto al prisma, nei cristalli sferici, cilindrici e lenticolari, che danno lo stesso effetto qualitativo, non però così vivo come il prisma. Lunga ed approfondita l'applicazione della sua teoria alla «lente cristallina», che costituisce una notevole trattazione di quella che oggi si chiama « aberrazione cromatica ». (^) Nessuna meraviglia che in Grimaldi si trovino anche affermazioni ben diverse. Ma allora egli parla il linguaggio dei fatti, non quello della sua teoria: così una volta dice che, se la dissipazione cresce, il fascio si fa via via sempre più colorato; ma ciò non trova alcuna spiegazione o giustificazione nella teoria. Così pure è notevolissimo un passo in cui invita a riflettere che i colori del- l'iride compaiono nell'acqua franta in goccioline sferiche minutissime, quasi un fumo (minime goccioline in nubi roscide), il che costringe a concepire una estrema tenuità della luce i cui raggi debbono essere sottilissimi come è neces- sario perchè durante il loro cammino entro le minime gocciole subiscano quelle riflessioni e rifrazioni che sono la condizione per avere una congrua «. dissi- pazione » della luce, quale è richiesta per produrre i colori. Da cui parrebbe che la dissipazione dovesse raggiungere un certo grado assoluto, in pieno con- trasto con i fondamenti teorici della sua spiegazione. Sulla linea dei fatti, non in quella della teoria, il Grimaldi non poteva non rimanere colpito dallo spuntar fuori del verde, in qualche caso, fra i tre colori consueti (rosso, giallo e ceruleo), e dall'aver potuto, una volta, distin- guere persino il violetto. — 165 — tra le niaiii, e TAutore non ne ha colpa: mancando il concetto del diverso grado di rifrangibilità dei raggi di diversa specie, viene a mancare tutto: questa o qualsiasi altra costruzione teorica si equi- varrebbero nella insostenibilità, senza quella base unica ed insostituibile. Oltre a ciò, questa teoria si applica soltanto alla genesi dei colori (( apparenti ». Quando Grimaldi dice che i corpi permanentemente colorati tingono del loro stesso colore la luce che riflettono, egli si lascia sfuggire inavvertitamente un' espressione erronea, o quanto meno tautologica, conforme al giudizio istintivo, e che sembra rendere un involontario omaggio al colore « nozionale » di Aguilonius : ora. è chiaro che la genesi d' una tale colorazione riflessa non può avere nep- pur per Grimaldi alcun rapporto col meccanismo sopra accennato. Il Grimaldi ha immaginato, poco sopra, una serie di fasci paralleli, bianchi, ciascuno di densità omogenea, differente in ciascuno di essi: egli sa benissimo che disponendo normalmente a tutti questi fasci una lastra di vetro rosso, tutti si coloreranno in rosso; e che la genesi di un tal colore — omogeneo, come omogenea è restata in ciascun fascio la densità — non può neanch' essa aver nulla a che fare con la teoria sopra esposta. I colori di questi fasci, filtrati attraverso un tal vetro, sarebbero probabilmente ascritti da AGUILO^IUS alla cate- goria dei (( nozionali » ; ora, ripensando a quell'esperimento, che solo per im errore di prospettiva storica potrebbe apparire ad un moderno come un esperimento mal riuscito, ed è invece nell'economia del sistema grimaldiano un elemento fondamentalissimo e necessario — dico l'espe- rimento analizzato qui dietro, alle pp. 99 e 100 — noi potremo renderne la sostanza in altre parole dicendo che un colore nozionale è stato trasformato dal prisma in una serie di colori apparenti. Ciò vuol dire che il comportamento del colore nozionale lo assimila alla luce bianca, mentre resiste ancora ( o rientra furtiva dalla finestra dopo essere stata cacciata dalla porta) una qualche distinzione tra colori (( apparenti » e colori d' altro tipo, almeno per quel che riguarda la loro origine, se non la loro essenza. Il Grimaldi aveva avuto una espressione felice ed arguta osservando (a p. 320) che (( 1' anmia stessa, nel momento in cui vede, non può discernere se il colore che vede è transeunte o permanente » ('): ma quello che in pratica se ne è (^) Se è manifestamente errata l'opinione popolare che i colori sieno come infissi nei corpi, gli argomenti con cui Grimaldi la combatte sono incoerenti o storti a loro volta. Per es. egli parla di un calore virtuale nella calce viva. — 166 — cavato è .-^tato j.oIo un «jro^so errore di giudizio nei riguardi del color verde (cfr. qui dietro, alle pp. 102 e 103): e poiché senza dubbio anello il verde potrebbe aversi sotto forma di colore « nozionale » (cioè come luce riflessa da un corpo verde) ovviamente si deduce dal fon- damentale esperimento sopra citato che passandolo attraverso un prisma dovrelìbe a-petlarsene la solita successione di colori apparenti (rosso, «'iallo. ceruleo), nonostante che d'altro lato si sia dichiarato che il verde ri«^ulta da due soli di essi (giallo e ceruleo). Sol<» una indefinita commutabilità dei colori V uno nell' altro, può rompere qualche maglia in una così fitta rete di contraddizioni: e difatti, poiché in sede di pensiero (cioè a prescindere dai meccanismi che si manifesta con l'acqua; e nega invece recisamente il colore virtuale. Ora. nella calce viva, il calore non esiste più di quel che non esista il rosso nel papavero al buio. I due casi sono perfettamente simmetrici, e tanto il calore quanto il colore insorgono da un incontro, da una reazione ad un agente che sopravviene dall'esterno: acqua per la calce, luce bianca per il papavero. Gri- maldi capisce il primo caso e lo raffigura come virtualità, cioè esistenza di una potenzialità capace di attuarsi; ma si ostina a non voler capire il secondo che è perfettamente identico. Se non è vero che i colori appartengano ai corpi o risiedano in essi, ut vulgo putatur, e come l'evidenza oculare sembra suggerire, è bensì vero nondimeno che appartiene ai corpi il potere di generare i colori dalla luce bianca modificandola, e che questo potere ciascun corpo lo possiede in modo caratteristico: invero i corpi opachi ricevono per un certo tratto nel loro interno — nell'immediata prossimità della loro superficie — la luce bianca, e la rinviano non prima di averla modificata in armonia con la loro tessitura materiale dalla quale il colore assunto dipende; sicché è vero alla lettera che esso è rappresentativo di tali strutture e di tali corpi: altro non è ed altro non significa il «colore intenzionale» o «nozionale» di Aguilonius; ed è la luce così tinta che costituisce le « specie visive, intenzionali, o rappresentative » che sono, come in De la Chambre, di pura luce e formantisi attraverso il gioco dei raggi, perciò nient'altro ormai che immagini ottiche, come lo stesso Grimaldi riconosce implicitamente quando (XL, 73) si lascia sfuggire l'espres- sione — tautologica, fra l'altro — « immagine intenzionale ». Ingenuamente irriflessivo l'argomento — sostenuto con una interminabile serie di esperimenti ed esempi, tra i quali i migliori restano quelli di Lucrezio — che i colori permanenti non sono veramente tali perchè cambiano con processi attraverso i quali si possono avere tutte tre le mutazioni pensabili: da colorato a non colorato (neve bianca che sciogliendosi diventa diafana), da non colorato a colorato (vetro che polverizzato diventa bianco) e da colorato ad altro colore (zolfo e mercurio che passano al rosso se formano il cinabro) (XLII, e altrove) : argomenti che anzi valgono proprio a confermare quanta — e quanto stretta — 167 — cr attuazione) quello di Grimaldi differisce di poco dal precedente sistema di Descartes, noteremo come caratteristica dell' uno e del- l'' altro la facilità con cui rendono concepibili tali commutazioni anche lungo un medesimo raggio: rapporti di contiguità e mutamenti di attrito agiranno prevalentemente sulle rotazioni colorifìche di Descartes: pili manifestamente nel raggio fluente di Grimaldi, come lungo il corso di uno stesso fiume le acque ora si restringono, rapide e tmiiul- tuose. ora si distendono placide su largo alveo quasi stagnando, così mutevoli altrettanto dovremo immaginarci i moti ondulosi che nel corso del raggio fanno il colore ( '). e delicata — sia la dipendenza dall'intima « tessitura materiale » dei corpi di quel loro colore che si chiama ed è permanente solo in quanto e fino a quando sia permanente la tessitura stessa che lo genera: argomenti anzi che servono caso mai a mostrare come nel concetto di colore permanente — del cui annien- tamento Grimaldi s'era fatta una fissazione — fosse rinchiuso il presentimento di vedere in quelle luci come un messaggio che. pur da lunge, le strutture ato- miche e molecolari mandano a noi. Quella di Grimaldi era una sorda reazione contro la sentenza della Scuola : « lux facit quod color, qui est visibilis in potentia, fiat visibilis in actu », nella quale, fra l'altro, il colore viene ad avere un'esistenza autonoma antecedente alla luce, il che è manifestamente un errore. Tuttavia in Grimaldi, il quale in un certo momento sembra volere mate- rializzare la luce e smaterializzare il colore, una certa distinzione tra luce e colore rimane: è implicita, già dal Libro I, nelle sue stesse parole, p. es. quando dice che il colore è meglio sentito nella luce meno intensa: o quando riconosce ingegnosa (XLIII. 51) la concezione di Descartes che salva, sia la natura dei colori — ricondotti pur tra le loro diversità ad un genere comune — sia la loro differenza dalla luce bianca: anche prima, dunque, di raggiungere l'atteggiamento del Libro IL dove (p. 526) prospetta che il colore possa essere qualità subjectahile nel lumine (ciò che era stato tentato di ammettere anche per il calore) e prima di giungere a sospettare addirittura che la luce stessa possa essere accidente, nel qual caso luce e colore resterebbero distinti e al tempo stesso collegati, come si collegano due accidenti di un comune soggetto o sostanza. Che è poi l'interpretazione più veramente aderente e conveniente all'ottica del Grimaldi. (1) È appena il caso di notare come, in Grimaldi, il bianco è — a seconda dei casi e delle con^ enienze — dato ora come colore (anzi uno dei fondamentali) ora come non colore; e che ^ — comunque — con un pezzo di latta o di stagno sarebbe stato facile al Grimaldi foggiarsi un riflettore di tale curva da dargli un fascio fortemente dissimmetrico e vedere che ciononostante questo rimaneva bianco. L'ANTINEWTON Omnes rolores siint in lumine ( p. 416. 526, e altrove) o, in ogni raso; non sono extra hunen. neanche quando volesse pensarsi una qualche dislinzione fra luce e colore: i colori appaiono nella luce e per la luce, perché la luce colorata si sviluppa dalla luce hianca. la quale tiene in se la ragione d' ogni colore. D'accordo. Ma non si torcano queste parole a sensi non voluti da chi le pensò, e lontanissimi dalla sua mente: e resti ben fermo che in Grimaldi (come in De la Chambre, ed in altri) la luce bianca tiene in sé indefinite possibilità di colore così come può dirsi che in un cumulo di creta sien contenute in potenza infinite statue, o in cera le forme di infiniti sigilli: così come chi dicesse che la luce è materia prima da cui volta per volta potranno elaborarsi tutti i colori. Ciò che è esattamente il contrario della concezione newtoniana. La luce di Grimaldi è una e alterabile. La luce di Newton è multipla, e i suoi componenti immutabili. In Newton i raggi divenuti a omogenei » attraverso rifrazione, ritengono il loro colore attraverso cjualsivoglia numero di successive rifrazioni. In Grimaldi ogni nuoA a (( disforme dissipazione » — comunque ottenuta — potrà generare da qualsiasi colore nuovi e diversi colori. Newton fa proprio quella « moltiplicazione di forme reali di- stinte )) che Grimaldi — per ragioni del resto rispettabilissime in teoria — non voleva assolutamente (XLV. 8). Per Newton i colori sono precontenuti nella luce bianca. In Grimaldi i colori sono assunti entro il prisma per una azione di esso. Non si creda a questo punto eh' io ignori come una certa fase piuttosto recente dell'ottica abbia accennato — in merito alla natura della luce bianca — ad un ritorno, su alcuni piuiti, ad idee che pre- valevano prima di Newton (cfr.. p. es. il cap. XXIII, 2' ed. Physical Optics del WooD. non riportato nelle successive ristampe): pensavo proprio a queste concezioni moderne, benché ormai vecchie, sulla — 169 — luce bianca, quando a proposito d' una certa idea di De la Chambre dissi (cfr. a p, 102) ch'essa conteneva qualche germe vitale. Ma qui non si tratta di questo: non si tratta di vagliare il grado di verità della concezione di Newton; si tratta di sapere se a tal concezione — quale che essa sia — taluni ottici preparino con la loro opera il terreno propizio, se ne sieno in qualche misura i preannunciatori; o non sia vero al contrario che tutto quel eh' essi affermano possa servire solo a far sembrare piìi inaspettata e piìi nuova la rivelazione ( o rivoluzione) newtoniana. La parte imperitura dell'opera di Newton sta nel Teorema F della I" Proposizione del Libro I": i raggi di luce che differiscono per colore, differiscono pure per grado di rifrangibilità. Grimaldi (cfr. qui dietro, a p. 139) afferma che la « quantità di rifrazione » è in ogni colore la stessa, come nella luce bianca : e pone tale presupposto alla base di ogni sua deduzione. Ed è su questo bel fondamento che Goethe pretende mostrare che Grimaldi (( prepara immediatamente la Newtoniana dottrina ». Per Goethe. Grimaldi spacca, rompe, smembra, frantuma, sbriciola;... lacera, distende, schiaccia, tira, sparge e dissipa la luce: e da tutte queste violenze « sprizza fuori » il colore. Ma con minori violenze e mezzi più facili, questo 1' avevan già fatto Seneca ed altri tanti prima di lui; e nessuno ha mai detto che Newton abbia inventato il prisma (noto e trito, dice bene Grimaldi) o scoperto l' arcobaleno. Non si trattava di questo: si trattava di spiegare il come. La spiegazione di Grimaldi conduce a questo: che un fascetto parallelo di luce bianca dovrebbe attraversare il prisma restando bianco (cfr. a p. 162). Si, è vero: anche in Grimaldi i raggi rossi sono i meno rifratti; ma non sono meno rifratti perché erano rossi, sono diventati rossi perché si son trovati ad essere i meno rifratti; e qualunque altro raggio avrebbe potuto diventare rosso a quel modo a patto di essere nella adatta posi- zione o di ricevere il giusto grado di trattamento. Ed è vero che Grimaldi parla continuamente di una rifrazione inegualmente dissi- pante la luce, ma la ineguale dissipazione — determinata soltanto da ragioni geometriche — è la causa del colore, non ne è la conseguenza. Il voler torcere a sensi newtoniani concetti i quali, nonché mancanti di qualsiasi barlume precursore, sono in netta opposizione ali idea newtoniana, è da parte di Goethe una falsificazione tanto più mas- -- 170 — siccia e priva di misura e discrezione quanto piìi essa è in buona fede: priva di quella circospezione e di quel freno che non sarebbero man- cati in chi avesse agito con frode e malizia. Se la passionalità anti- newtoniana che lo acceca è l'attenuante fortissima da concedere al Goethe, scrittori assai più recenti avranno soltanto quella che deriva dair avere scopiazzato da lui, come fa il pedissequo Halbertsma, senza controllo delle fonti, e nel candore della pura ignoranza: cosa tanto consueta da doversi ormai ritenere veniale. Algarotti. da cui abbiamo preso le mosse, era un superficiale: ma })oiché mi pronto ingegno può talvolta sostituire lo studio appro- fondiSo. egli ebbe giusto fiuto: intuì nel Grimaldi l'avversario fermo ed intransigente di quella (( luce settemplice » che aveva vellicato il suo estro poetico ( '); e fu a sua volta antigrimaldiano eccessivo e indiscreto. Troppo lungo sarebbe spiegare cosa io intenda per (( scoperta di fatto solidamente fondata » e come io la tenga distinta da elaborazioni mentali, dimostrazioni, interpretazioni, precisazioni quantitative, an- nunci precursori, ecc. : senza potermi giustificare enuncerò solamente che — per me — quella della diffrazione è — sulla linea dei fatti — la scoperta piìi importante in quel periodo dell' ottica che va da To- lomeo a Newton e si snoda attraverso quindici lentissimi secoli, lungh' essi operando uouìini anche di altissima statura : come Alhazen o come Descartes. Al Grimaldi toccò la gloria di questa scoperta: il libro trionfal- mente aperto con tale enunciazione, e lungo il quale altre conquiste hanno o meritano di avere il sigillo della sua paternità, si chiude in tono minore: l'Autore, in umiltà, ringrazia quei lettori che abbiano sostenuta la fatica di leggerlo integralmente e ordinatamente: e r Uomo del quale il Riccioli esalterà il parlar modesto, F affabile gravità, la serena mansuetudine, si ritrova in queste parole. E sarebbe mancare di rispetto alla storia, mancare di rispetto al Grimaldi stesso (^) A proposito del quale si vedano le interessanti osservazioni di Goethe, nel luogo citato. — 171 — il porlo in una luce che non gli compete: lui, che desiderò solo il vero o quello che vero gli apparve. Se per un sol momento volessimo far nostra quella caratterizza- zione dei tipi di uomini e d' opere di scienza fondata sopra una comparazione con funzioni e con organi ritenuti tipici nell'attività umana: cervello, occhio e mano, e per la quale fu detto per es. il Malpighi essere stato a suo tempo l'occhio della Biologia, e Pavlov, al suo tempo, esserne stata la mano; noi vedremmo in Grimaldi pri- mieramente la mano, e poi l'occhio. Non la mente: fattosi un ideale della sostanzialità della luce, ma assillato dalla prevalente incombenza dell' accidentalità e come sbattuto fra suggestioni che non riusci a dominare e connettere insieme, si aggirò fra dubbi che non erano solo i suoi propri dubbi, ma erano i dubbi di un'epoca di transizione: verso il limite estremo di un orizzonte, sul quale stava per sorgere la gran luce di Newton. Là solamente si placheranno le contraddizioni, là si comporrà in sintesi quel processo dialettico nel quale il Grimaldi ha rappresen- tato più che altro 1' antitesi. E giusto appare che 1' opera di Newton fosse stimata eccelsa da chiunque ricordasse aver detto dei colori Platone, che solo Iddio poteva esser capace di riunire i molti in uno e separare nuovamente dall' uno i molti. INDICE DEI CAPITOLI Pag. Premessa 3 Intento, limiti e carattere della ricerca 7 L*^ Uomo, r epoca e il libro 12 Il vano enigma 32 Ondulazioni 45 La pietra di Bologna 53 Le due diafaneità . . . . 57 I pori e la riflessione 62 Propagazione e diffusione 70 Luce e calore 78 Eidola, specie intenzionali e colori 86 Una osservazione difficile 104 Un corollario 116 Una esperienza bella e mendace 118 Teorie ?ulla rifrazione 124 I colori e la dissipazione prismatica 149 L' antinewton 168 INDICE DEI NOMI DI PERSONE Abelardo, 18. Aguilonius, 9. 21. 29. 87, 93. 119, 126, 127, 165, 166. Alessandro (di Hales). 19. Algarotti, 3, 4, 5, 6, 15. 38. 55. 100, 140, 170. Alhazen, 20, 29, 92. 170. Anassimene (di Mileto), 155. Aquilonio, vedi: Aguilomus. Archelao (d'Atene), 155. Aristone, 40. Aristotele 5, 34, 38, 40, 151. Avempace, 94. Avicenna, 33. B Balbo, 92. Bartoli, 21. Beccari, 55, 59. Berenson, 17, 78. Bòhme, 13. BouiLLAU, vedi: Bolillaud. Bouillaud, 32. BoYLE, 76, 81. Brewster, 103. Brììcke, 76. Buffon, 11. BuLLiALDUs, vedi: Bouillaud. Cabannes, 76. Cajetanus, 9. Carneade, 37. Casati, 60. Casciarolo, 54. C a verni, 15. Cesalpino, 32, 87, 94. ChÀtelet (Madame du), 4. Clerselier, 140. D De la Chambre, 23. 24, 25. 26, 29. 38. 55. 62, 66, 68, 70, 72, 78. 80. 82. 83. 84. 88, 90, 91, 94, 98. 101, 102, 103, 122, 123, 131, 132. 140. 149, 152. 153, 154, 157, 166. 168, 169. Democrito, 86, 94. Desaguliers, 100. Descartes, 5. 8. 12, 19, 20. 23, 27, 30, 31, 32, 34, 35, 36, 37, 39, 40, 41, 53, 60, 67, 87, 93, 132, 133, 137, 139, 140, 141, 146, 148, 149, 150, 158, 167. 170. Diogene (d' Apollonia). 155. DoMiNis (DE), 21, 30. 89. 93. Du Fay. 55, 56. Empedocle. 68, 86. Epicuro. 86. 95. Euclide, 20, 124, 125. Federico (il Grande), 4, 5. Fermat, 23, 139, 140. FlLOLAO, 149. Fizeau, 46. Fontenelle. 4, 6. Fresnel, 14, 34, 36, 50, 68, 148. Freud, 39. fusinieri, 147. — 174 Galileo. 3, 8. U. 15 J6. 20, 37. 78. Galvani, 55. Gassendl 16. (ilLSON. 16. Giobbe. 61. Goethe. 15. 16. 17, 21. 24, 28. 50, 53, 60. 84. 152, 161, 169, 170, 171. GoiCHON, 33. 34. Gorgia. 30. (Jkeatehad. vedi: Roberto. Grimaldi, passim. Grossatesta, vedi: Roberto. H Halbertsma, 170. Helmoltz, 103. Herbert. 55. Herschel (Sir William), 81. Hobbes, 67, 132, 140. Huygens, 36. 71. 72. 73. I Ingen Housz, 11. K Kepler. 20. 39, 62, 63. 71, 81. 83, 87. 90, 124, 125, 131, 132, 133, 134, 135, 143, 155. KiRCHER, 21, 22, 28, 38, 39, 55. 56, 75, 76, 80, 81. 82, 83, 85, 93, 134, 155. Lamarck, 11. Lambert, 103. Leeuvvenhoeck, 59. Leibnitz, 67. Leonardo (da Vinci), 76. Leucippo, 40, 68. 86. Libri. 15. Liceti, 55. Linneo. 74. 75. Luca (evangelista), 44. Lucrezio, 94, 166. Luigi XIV, 23. M Mach, 26. Macquer, 55. Magalotti, 53. Malebranche. 5. 89. Malpighi, 171. Mancini, 55. Manzoni, 26. Marchettl 55. Marci (Marco, de Kronland), 23. Mariotte, 100. Marsigli, 55. Marulle, vedi: Maurolico. Mascart, 8, 13, 39. Maupertuis, 4, 146. Maurolico, 20, 21, 30, 62, 97, 104, 114, 133. Maurolycus, vedi: Maurolico. Maxwell, 103. Mazarino (Cardinale), 23. Melloni, 81. Mentzel, 55. MiLL, 95, 96. Molière, 96. monardes, 74. montalbano, 55. Montanari, 71, 82. MosÈ, 12, 13. MiJLLER. 103. N Newton, 3, 4, 5, 6, 7, 14, 15, 21, 29, 45, 76, 96, 100, 111, 114, 119, 161, 168, 169, 170, 171. 17= Parmenide, 86. Pastor, 3. Pavlov, 171. Petit, 148. PlCCOLOMINI, 13. PlCOT, 19. Pitagora, 147. Platone, 27, 90. 110, 155, 171. Plotino, 63. pomponazzi, 45. Porro, 116, 117. Poterio, 55, Protagora, 12. R Raman, 76, 98. Rayeligh (Lord), vedi: Strutt. Reuchlin, 19. Rhaeticus, 133. Riccioli, 14, 17, 18, 170. RlGHL 10. Rizzetti, 161. Roberto ( Grossatesta), 32, 70, 90. Robin, 9, 10. RÒMER, 45. Seneca, 93, 169. Snellius, 20, 133, 147. Socrate, 18, 19, 27. Strutt, 76, 77. SUAREZ. 34. Taine, 10. Timpanaro, 10. Tolomeo, 20, 117, 170. Tommaseo, 5. Tommaso (San). 9. 19, 27, 31. 32, 40, 87, 149. Torricelli, 58. Tyndall, 74, 76. Vitellione, 20, 21, 29, 117. 133. 134, 135, 154. VOGLI, 55. Voltaire, 4. W WlLDE. 12. WiTELO, vedi: Vitellione. WooD, 8. 96, 168. Sainte-Beuve, 24. Santoro, 82. Secchi, 44. 55. Senebier, 11. YouNG, 48. Zanotti, 55. Zenone (d'Elea), 18, 19. TIP. COMPOSITORI - BOLOGNA / Q G7S38 Api:lie<5 Sdì Savelli, oberto Grimaldi e la rifrazione PLEASE DO NOT REMOVE CARDS OR SLIPS FROM THIS POCKET UNIVERSITY OF TORONTO LIBRAR^