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UNIVERSITY OF TORONTO

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GIORGIO BANDINI

IL PRINCIPE,

E

DISCORSI SOPRA LA PRIMA DECA

DI TITO LIVIO.

IL PRINCIPE,

E

DISCORSI SOPRA LA PRIMA DECA

DI TITO LIVIO, DI IVlCCOIiÒ ]fIA€HlAVEIiIil:

premessevi le considerazioni DEI. PROF. AIWDREA ZAMBELLI

SUL I-IBKO DEL PRINCIPE.

FIRENZE.

SUCCESSORI LE MONNIER.

1880.

JeRARy APR191995

^f/?SITYOf^

N^.

AVVEIITIME.MO DKLL' EDlTOUi:.

Nel condurre le presente edizione, vollesi compiacere al desiderio che oggi si mostra e al consiglio che vien dato da molti, di ricondurre i classici scrittori a quella primi- genia sincerità di lezione, da cui troppo si allontanarono, 0 per negligenza ò per arbitrari sistemi, gli editori del 17" e 18° secolo, e in parte ancora del nostro.

A tal fine volemmo riscontrate dihgentemente queste opere politiche del Segretario Fiorentino colle due famige- rate e pregevolissime edizioni di A. Biado; cioè quanto al Principe, Roma 1531, e quanto ai Discorsi, ivi 1532; alle quali abbiamo quasi sempre data la preferenza.

Si ebbe oltracciò sotto gli ocelli un esemplare della cosi detta Testina (1550), con correzioni a penna, appar- tenente alla Biblioteca del Marchese Gino Capponi ; e ven- nero assai di frequente consultate le impressioni di Fila- delfia (Livorno) 1796, e quella d'Italia (Firenze) 1813; alla prima delle quali presiedette, com'è noto, il Poggiali; e all'altra Reginaldo Tanzini e Francesco Tassi.

Non si è lasciato nelle occorrenze di consultare qual- che altra edizione.

Questo lavoro di pazientissima diligenza venne da noi affidato al signor F.-L. Pohdori, il quale a giustificare il metodo da tenuto per conciliare il suo proprio genio e le convinzioni colla comodità degli odierni lettori, fece an- cora le brevissime note che si leggono a pie di pagina.

Infine , perchè non mancasse agli studiosi una guida che loro aprisse le riposte intenzioni del Principe, ci piacque pre- mettere le Considerazioni del prof. Andrea Zambelli , di cui Giovan-Battista Niccolini ebbe a dire : « Meritano di esser lette » le profonde considerazioni che sul libro del Principe scrisse » il celebre prof. Andrea Zambelli, il quale desumendo la ra- » gione e lo scopo di quest' opera dall'indole del Machiavelli » e da quella de' suoi tempi, pose fine alle antiche e mo- » derne dispute insorte fra coloro che del Segretario Fioren- » tino trascorrono nel biasimo o nella lode. »

F. Lk ìMonmku.

SUL LIBRO DEL PRINCIPE,

CONSIDERAZIONI

DEL PROF. ANDREA ZAMDELLI.

Preiper gli alleri e sollevar gì' imbelli Fur r arti lor.

Tasso.

Per ciò che si riferisce ai libri dell' i4r/e della guerra, ai Discorsi sopra Tito Livio , alle Storie fiorentine, alle Commedie ed alle Poe- sie, Machiavelli fu giudicato abbastanza da critici autorevoli; ma non si può dir lo stesso del Libro del Principe, intorno a cui così calde quistioni agitaronsi e si agitano tuttavia, che le menti rimangono nell'incertezza. Alberico Gentile, Wicquefort, Rou.sseau ed Alfieri il lodarono; Giusto Lipsio, Artaud, Macauley l'ammirarono, ma non senza mescolare il biasimo all'ammirazione; Federico il Grande, Voltaire, Dugald Stewart il biasimarono soprammodo. Molti, che tampoco non l' avean letto, veri telegrafi dell' altrui opinione, i quali la ripetono e la trasmettono senza comprenderne il senso, furono dei più acerbi fra i suoi detrattori. Un padre Lucchesini giunse per- fino a pubblicare uno scritto sulle sciocchezze eh' egli pretendeva di avere scoperte nelle opere di Machiavelli.

In mezzo a siffatte discrepanze, io non dubito di affermare che nissuno, ch'io mi sappia, riguardò il libro di cui si tratta nel suo vero aspetto. Alcuni han preteso dimostrare, che quivi egli non par- lasse da senno, ma solo per far la satira dei tiranni, di cui abbondava la sua età, e che col fingere di dar lezioni ai principi ne abbia date di grandi ai popoli, svelando le perfidie e le malvagità di quelli: ma co- desta opinione incontra parecchie gravi diliìcollà. La famosa lettera della villa di San Casciano, dovè Machiavelli espone schiettamente al suo più fidalo amico, cui nulla taceva, il modo e il fine da lui propostosi, e quella di Biagio Bonaccorsi, suo famigliarissimo, a Pandolfo Bellucci, m'inducono a credere aver egli scritto di buona fede il libro: Ginguené e l' Artaud pensano lo stesso. Poi, se tali fossero stale in realtà le sue mire, vi sarebbe opposta la medesima

vili CONSIDERAZIONI

raffinatezza de' suoi precelli, più acconci ad islruire un principe clic a smascherarlo in faccia del popolo , e da essere compresi anzi da quello che da queslo. Poi, qual prova adducono della loro asserzione codesll scrillori ? L'essersi Machiavelli nei Discorsi mostralo assai diverso da ciò che appare nel Principe. Eppure nei primi si trovano non poche massime del fare di quelle che si leggono nel secondo; come a dire sulla necessità d'esser temuto ma non odialo, del be- neficare o spegnere, del fare un principe ogni cosa nuova in una città o provincia presa, sul non sapere gli uomini essere al tulio tri- sti o al tutto buoni, sull'effetto che scusa il fallo, e simili. Anzi, ve- nendo il Segretario fiorentino al discutervi , < se le promesse siano sempre da osservarsi o no, conchiude : « Di ciò è largamente dispu- tato da noi nel nostro trattato del Principe; però al presente lo tace- remo : » e dove parla del riscontrare il modo del procedere suo coi tempi,' non cita egli evidentemente queir istcsso trattalo, in cui dice presso a poco il medesimo? Le quali analogie e citazioni dimostrano a occhi vegnenti, ch'egli non cangiò natura apparenza, come vor- rebbero certuni , e sempre francamente espose quel che pensasse e di principi e di repubbliche. Ciò fece in codeste due opere, ciò nelle Storie^ ciò ne' minori suoi scritti, insino nelle sue lettere.

Molto meno posso concedere ad alcuni altri, ch'egli mirasse a rendere odiosa la casa Medici, scrivendo ad un tiranno ciò che dee piacere ad un tiranno, a fine di farlo andare, se poteva , di sponla- nca volontà in precipizio. Oltre le dette ragioni, ed oltreché Lorenza non era uomo da lasciarsi allucinare come (iiacomo II con Sunder- land, in ogni lettera di Machiavelli, segnatamente in quelle scritte a Francesco Vetlori ed al Guicciardini, si scorge la evidente, schietta e continua brama d'essere da quei signori impiegato, e di divenire un' altra volta sotto il loro dominio un uom del potere. Non che dessn sia stata in quel libro il suo solo intento, come pur crede qualcuno : ^ le soprascritte citazioni e massime uguali dimostrano il contrario; ma certo pur vi entrava in qualche parte il desiderio d' un impiego. Che il Segretario avesse contro il duca d'Urbino quella torta inten- zione, alcuni Fiorentini l'asserirono al cardinal Polo, e questi il cre- dette: ma io credo invece, che quegli astuti volessero con lale sutlerfugio scusare in qualche guisa alla lor foggia repubblicana il pro- prio'concittadino appresso il buon prelato, che odiava i tiranni, e non sapea darsi pace di quel libro. Se cosi non fosse, come mai il

* Discorsi, lib. Ili , cap. 42,

2 Lib. III,cap. 9.

5 L' autore d' un articolo critiro dilla Pane rie Paris.

SUL LIBRO DEL PUINCIPE. IX

Varchi, contemporaneo del Segretario, avrebbe potuto scrivere nelle sue Storie, che « quegli indirizzò a Lorenzo il sua Principe, perchè si facesse signore assoluto di Firenze, e che dopo il rivolgimento dello Stato (cioè dopo la cacciala dei Medici) tentò di spegnere codesta sua opera, non essendo ancora stampala? » S' egli avesse inteso di far con essa la satira dei tiranni e di esporre il suo principe al pugnale dei repubblicani, certamente, anziché cercare di spegnerla, se ne sa- rebbe gloriato fra un popolo che sognava un' altra volta l' antica li- bertà. Ma, perciocché le sue intenzioni erano assai diverse, e cia- scuno il sapeva, egli che aveva insegnato come convien variare coi tempi, e oltracciò vedeva i Fiorentini aver grosso animo contro la signoria pallesca, tra per seguire le proprie massime, e, diremo an- cora, per paura, voleva spegnere quel libro. V ha chi aft'erma, aver egli due volle congiuralo contro i Medici, ma parecchi pur v'hanno che affermano il contrario; ed io, per la verità, pensando, come non se n' ebbero che dei sospetti , e quali massime egli abbia manifestale nei Discorsi in proposilo dell'accomodarsi ai tempi e dell'esser con- tenli a vivere sotto quell'imperio che dalla sorte ci è slato preposto, credo, che se Machiavelli ne fu sospettato, in realtà non congiurasse giammai. Quanto egli dice nel capitolo delle congiure, dichiara evi- dentemente per qual motivo lo scrivesse, e che ne pensasse.

Stimano certi altri che il Segretario abbia tallo della politica un'arte di frodi e di perfidie, perchè fondò le sue esperienze e i suoi precetti sulla condotta dei piccoli principi italiani del secolo XV, i quali, sprovvisti di milizie e di finanze in «n dominio angusto, aveano d' uopo di ricorrere all' astuzia ed al tradimento per mante- nersi in islalo. Ma nel libro del Principe, segnatamente nel capi- tolo XVIllj in cui parla dell' osservar la fede, non propone egli ad esempio Ferdinando il Cattolico, che pur non era sovrano di angu- sto dominio? L' errore è manifest» ; ma più strano ancora mi sembra quello àèW Antimachiavello , il quale, sia che fosse scritto da Fede- rigo il Grande o Voltaire, non è degno al certo del vincitore di Rosbach dell' autor di Zaira : vi si vorrebbe fare di Machia- velli un filosofo del secolo XVllI, con quella mistura di astrattezze filantropiche e di irreligione che ne era il distintivo carattere. A fine di apprezzar rettamente la condotta d' un uomo antico, è necessario guardarsi da codesta via storta e fallace. Colle idee, colle massime dell'età presente si giudicarono uomini e popoli, che, sotto l'in- fluenza di età e di circostanze diversissime, dovevano naturalmente avere altre massime ed altre idee. Perciò Gregorio VII, il quale in secoli d'oppressione, di scandalo e di anarchia, si delle con forle animo ad accrescere V autorità pontificia, non per altro che per pò-

X CONSIDERAZIONI

ter quindi senza alcun ostacolo rifornnare ia disciplina ecclesiaslica già tanto degenerala, sembrò un ambizioso a chi lo considerava corno un papa dell' età nostra. Si suppose un line politico dove altro non si dovea scorgere che un Gne religioso, richiesto dalle necessità di tempi duri e scorretti. Per ciò stesso in un altro stato di cose, agli occhi di simili giudici Machiavelli è uno scellerato, un mostro d'ini- quità. Ma chi sappia trasportarsi col pensiero nel tempo in c\iì visse, lo trova un politico quale lo portava l'età, non peggiore mi- gliore di quella ; un profondo conoscitore dei disordini che vi domi- navano ; il quale adattò i suoi consigli a circostanze che certamente egli non avea fatte nascere consigliale, anzi in più luoghi le con- danna e deplora. Viveva in un secolo dei più corrotti e dei più ab- bondanti di esempi di slealtà, di bassezza e di scelleraggine. L'ini- micizia politica era un odio individuale ; nessun politico di que'tempi facevasi coscienza d'una violazione di fede che gli fosse per esser giovevole. Gli uomini grandi chiamavano vergogna il perdere, non l'acquistar con inganno; il tenersi in fede col suo avversario sarebbe parso un atto di debolezza, quando potea tornare in acconcio il di- venire spergiuro"; ed in cambio di compiangere un principe il quale per soverchia fiducia avesse perduto il trono e la vita, si derideva sua dappocaggine. In siffatti tempi il politico non dava consigli so- pra cose da farsi, ma sopra cose fatte , che non lasciavano all' ambi- zioso altra facoltà che quella di scegliere fra due tristi partiti. Che altro fecero Ferdinando il Cattolico e Luigi XI ? Che altro consigliò il Segretario fìorenlino ? Egli pertanto non era un ipocrita, uno scellerato ; era un politico del Quattrocento, che volle far la pit- tura del suo secolo, pieno di atroci e cupi tiranni e di pubblici mis- fatti , il quale non reputossi offeso da un libro che lo ritraeva al na- turale ; un politico, che sarebbesi assai maravigliato che altri si maravigliasse della sua condotta. « // mondo che ne circonda^ dice Bentham, e quello la cui opinione ci serve di regola e di principio: » la virtù eroica, che sa sollevarsi sulle abitudini del suo tempo, poteva esser propria d' un politico di quel secolo.

l'er altra parto , osservando -come tra mezzo a codesti precetti Machiavelli consigli altresì al suo principe ora di avere armi nazio- nali anziché straniere, ora di assicurare e promuovere l' agricoltura, il commercio e l' industria, d'onorare gli uomini eccellenti in cia- scun'arte, e di dare esempio d'umanilà e di munificenza, ora la parsimonia a fine di scemare i publici aggravii, ora l' equità di que- sti, e come disapprovi in ogni caso le confiscazioni e il tener divise in parli le terre soggette ; sono indotto a credere ch'egli veramente non mirasse ad istruire un tiranno , quale ce lo rappresenia Arislo-

SUL LIBRO DEL PRINCIPE. XI

Iole. * Che anzi alcuni avvertimenti del capitolo 14 sembrarono al- l'Artaud così morali e salutari, che non dubitò di pareggiarli a quelli di Bossuet e di Fénélon. Ben mi accorgo che qui taluno dirà, essere però egoista il principe di Machiavelli , e consigliarglisi le sopra- scritte cose perchè, risultando ogni di lui forza dal popolo, il suo maggiore interesse richiede che quello sia prospero , numeroso , for- midabile ; ma per me rispondono Aristotele e Rousseau. 1 tiranni sanno bene, essi dicono, come il loro interesse personale ricerca in- vece che il popolo sia debole e miserabile, sicché non possa mai loro resistere. Certo, supponendosi i sudditi sempre perfettamente som- messi, l'interesse di quelli richiederebbe in tal caso, che il popolo fosse polente, acciò, essendo codesta potenza la loro propria, li rendesse formidabili allo straniero; ma, soggiungono, siccome que- sto interesse non è che subordinalo, e i due supposti sono incompa- tibili , è naturai cosa che i tiranni diano sempre la preferenza a quella massima che riesce loro immediatamente utile. Ora un prin- cipe il quale, seguendo i consigli di Machiavelli, preferisca le armi nazionali alle straniere, e venga con ciò a manifestare una nobile confidenza nei propri sudditi ; un principe che, secondo quei consi- gli, onori gli uomini eccellenti, rimuova dai cittadini le discordie, ne incoraggi l'industria, ne moderi e distribuisca equamente le im- poste, si astenga dall' applicarne le sostanze al fisco, e si dimostri umano e liberale, tutto il contrario insomma di ciò che dicono i due ricordati scrittori ; codesto principe, anziché procurare la povertà, la reciproca diffidenza, la debolezza e l'avvilimento del popolo, ne pro- cura la ricchezza, la concordia e la potenza. Non tanto che un sif- fatto principe sia un tiranno, egli è co' suoi sudditi un buon mo- narca, il quale ne promuove la prosperità. Se poi, operando in que- sta guisa, il principe identifica i suoi interessi con quelli dei cittadini, egli viene a fare ciò che consiglia la vera politica, consistendo ap- punto in quella identità l'unità dello Stato, onde nasce per virtù di tante forze associate una immensa forza. Come dunque si può affer- mare che Machiavelli istruisca un tiranno ?

Ma d'altra parte, in parecchie cose il principe machiavellico sente eziandio del tiranno. Laonde, se già non si voglia supporre che il Segretario cadesse in una mostruosa contraddizione con mede- simo,^ convien pensare che i suoi terribili artificii si riferissero a

^ Questa è pure l'opinione di qualcuno. Vedi la delta Prefazione alle Opere di Niccolò Machiavelli nell' edizione d' Italia i819.

^ Quest' apparente contraddizione fu sempre avvertita dall' Artaud (Machia- yd, son genie et ses crrcnrs); ma egli non volle scioglierne il problema. L'au- tore d' un articolo critico della lìevuc de Paris credette liovarnc la soluziouc

Xn CONSIDERAZIOrHI

singolari circostanze e ad uno stato particolare «li persone, piulto- slocbè air universale : a dimostrare la qual cosa ho io inoltre più d' una prova. Era quello il tempo, che tra mezzo alle fazioni del po- polo e della nobiltà erano sorte in Italia, dove piccole dove grandi signorie, quali pel favor popolare, quali per quello dei nobili o dei papi 0 dei Cesari, quali per l'effetto d'una usurpazione. Così sorsero infatti gli Estensi, i Visconti, i Medici, gli Scaligeri, i Gonzaga, ed altrettali potenti famiglie. La generale debolezza ed i continui sub- bugli dei municipii resero necessaria la prevalenza di esse : le quali però, non tanto cbe fossero sicure nei dominii loro, avevano a lot- tare continuamente ora con una licenziosa e matta plebe, ora con al- tre signorie che tentavano di soverchiarle, ora coi nobili castellani o popolani: ma, generalmente parlando, perciocché riesce assai più facile il soddisfare chi non vuol essere oppresso che chi vuole oppri- mere, erano favorevoli al popolo anziché ai grandi; e quand'anche non fossero sórte col favore di quello, ne pigliavano facilmente e po- liticamente la protezione, come pure osservò il Segretario. Tiranni- che furono la più parte, ma sotto la loro tirannia il popolo trovava quasi dappertutto sicurezza e quiete, e un polente ostacolo la super- bia dei grandi. Le memorie di quel tempo ce ne danno parecchie prove, le quali ricevono maggior conferma dall'essere state quasi tutte aristocratiche le congiure contro i signori. In questa età di pas- saggio dallo scompartimento dei poteri all'unità monarchica, olà de- plorabile, come furono esaran sempre lutti i tempi transitivi da uno stato sociale all'altro, principali fini della politica erano deprimere i baroni, i grandi, i signorotti, sollevare i cittadini, nel quali per la detta ragione poteasi avere maggior Oducia, ed introdurre, per quanto lo concedevano le circostanze, una centralità di poteri, pre- cipuo elemento della forza politica, dell'ordine pubblico e della pace comune. Pei quali due rispetti la condotta dei principi italiani d'al- lora non differiva da quella di Luigi XI, di Ferdinando il Cattolico, di Arrigo VII; più che ogni altro gli somigliava Cesare Borgia, il tipo di Machiavelli, e Egli uvea racconcia la Romagna ^ unitala e ridonala in pace e in fede ; e il popolo divenne affaionato alla sua potema,

ncll' inilolc vertatile Hi Machiavelli, ligia ai vari potenti per Tjvrriic denaro ed iinpicglii. Ma, concesso ancora ch'ei fosse di tal natura , ciò spicghcrcl»l)e le conlraddizioni fra i principii d'opere diverse, non fra quelli d' un'opera istessa. Oltre di che , già vedemmo che -nelle diverse opere non cangiò prin- cipii, anzi nei Discorsi citò due volte il libro del Principe; il che non avreblie fatto, te avesse voluto esser piaggialor del potere , e non altro. Gli adulatori sogliono rinnegare se stessi col variare delle circostanze ; ma il Segretario pro- cedette altrimenti: onde convicn riferire 'ad altra fonte originaria le sue ap- parenti contraddizioni.

SUL LIBRO DEL PRINCIPE. XIII

e coli fidente di quella, » dice il Segretario .< E il Romagnosi 2 afferma « che il passare sotto il duca Valentino fu per molte città un vero guadagno, e solo per certe case potenti uno sterminio. » Vero è clie parecchi dei potenti ch'egli sterminò, non erano feudatari simili in tutto a quelli di Francia ; erano signori assoluti di feudi della Santa Sede , e quindi più facili ad esserne spodestati : ma e i lini e il bisogno sociale ne erano uguali.

Senonchè l'autore d'un celebre articolo intitolato : Machiavelli ed il suo secolo, impresso, or fanno in circa dieci anni, nella Rivi- sta d' Edimburgo ,^ ne ragiona in maniera assai diversa; Osserva egli che, dove negli altri paesi europei una classe numerosa e potente conculcava il popolo, e contrabbilanciava il poter del governo; in Italia, attese le franchigie municipali concesse già dai Romani, man- tenute per la debolezza dei governi stranieri che vi si avvicendarono, confermale da Ottone imperatore, favorite ed accresciute dalle lun- ghe discordie fra l' impero e il sacerdozio , e vittoriose pei soccorsi dei papi e della parte guelfa, l'influenza dei nobili feudali era ben poca cosa : i quali, eccetto il regno di Napoli e lo Slato della Chiesa, aveano terminato col confondersi a poco a poco insieme col popolo; e se in alcune parli conservavano un potere, già non erano piccioli sovrani, ma grandi cittadini, che, invece di agguerrire i castelli sulle montagne, rabbellivano i palazzi sulla publica piazza: segnatamente la Lombardia e la Toscana, attraverso a tulli i loro rivolgimenti, avevano conservato un tale carattere. Talché, mentre gli annali della Francia e dell' Inghilterra non offrivano che scene di barbarie, d'igno- ranza e di miserie, il commercio, le scienze e le arti, insomma lutto ciò che contribuisce agli agi ed ai piaceri della vita sociale, ricom- parve allora in Italia, e vi fece luminosi progressi. Ma, com'egli poi soggiunge, una decrepitezza affrettala fu il risultamento d'una ma- turila troppo primaticcia : le sedentarie abitudini mercantili, che ri- chieggono un intervento continuo, resero insopportabili le fatiche della guerra; quindi l'uso d'arrolare soldati mercenari divenne ge- nerale in Italia quando era ancora sconosciuto nelle altre contrade. Diche procedellero parecchie conseguenze : l'una, che combattendo fra loro mercenari con mercenari, i quali non aveano ne interessi sentimenii opposti, anzi uniformi per la comune professione, si guer- reggiava quasi senza far sangue; la seconda, che, a differenza degli altri popoli, fra cui, come beljicosi che erano, faceasi indispensa-

' Nel cap. 17 del Principe. ' Dell' indole e elei fattori dell' incivilimento.

3 Ne fu slampata una traduzione ntW Indicatore Lombardo all'anno 1830. L'nulore è Macauley.

XIV CONSIDERAZIOM

bile il valore, presso gl'Italiani questo avea cessato d'appartenere al numero delle virtù, come avvenne in Grecia al tempo dei Romani; onde le terre loro rimasero senza difesa contro i Francesi, gli Sviz- zeri e gli Aragonesi ; la terza, clie perciò appunto si originarono fra le nazioni due moralità diversissime: nella maggior parte d' Europa, un' indole violenta ed altera che aveva in discredito la frode e l'ipo- crisia ; in Italia, la dissimulazione, l'inganno, le vie coperte, le cru- deltà provocate da fredde e profonde meditazioni, avute in onore "non meno che l' elevatezza dell' ingegno , V amor di patria , ed un ragio- nalo coraggio. Pertanto, egli conchiude, Machiavelli in altro non peccò che nell'avere adottate alcune massime, allora generalmente abbracciate, e nell'averle esposte con maggior forza e in un ordine più luminoso che non abbian fatto gli altri scrittori dell'età sua.

Tale a un dipresso è il costrutto di quel ragionamento; il quale, se fosse vero in tutto, porrebbe ad ogni modo tra la malvagità di Machiavelli e quella de' suoi contemporanei il divario che è da chi la metta in atto a chi abbia l'impudenza d' insegnarla pubblicamente e metodicamente. Ma in quelle considerazioni , peraltro assai dotte ed ingegnose, io trovo una mescolanza di vero e di falso. L' Italia, nel- l'epoca di cui parliamo, era ben lontana dall' offrire agli sguardi nel politico un solo stato di cose. Da un lato l'aristocrazia ereditaria, dall' altro la democrazia ; qui un principato ereditario , un princi- pato elettivo; dove una feudalità con una signoria assoluta, dove un reggimento feudale simile a quelli di Francia e di Spagna: tali erano le diverse condizioni politiche in cui trovavasi. E, ciò che riusciva ancor più singolare, diverse erano le sorti delle forme istcsso di go- verno nei diversi paesi ; perocché l'aristocrazia ereditaria, che face» prosperare Venezia , teneva in continui tumulti Genova ; e mentre Milano sotto gli Sforza fioriva di belle arti, di lettere, di popolazione e di ricchezza, parecchie città della Romagna languivano nella mise- ria sotto i principi che vi d(»minavano. Per conseguenza, il ridurre tutta r Italia in un solo dominio era al certo una delle più malagevoli imprese che mai potessero venire nelle menti dei politici; e, se es- ser poteva, ciò non avrebbe potuto effettuarsi che da un principe il quale, divenuto signoi^ d'uno Slato esteso e potente, avesse prima compressi i nemici interni, incusso un durevol timore negli esterni, e quindi prendesse le mosse alla della impresa. Che Machiavelli ab^ bia avuto in animo d' indurvi il suo principe, non è da dubitare) conforme si raccoglie dall' ultimo capitolo del libro che esaminiamoli ma perchè il disegno sortisse il bramato effetto e non fosse solo un^ desiderio, conveniva ch'egli ne preparasse i fondamenti. Or quale] era lo Stato che a tal line doveva, secondo lui, essere occupalo e ri*

SUL LIBRO DEL PniNClPE. XV

formato dal suo principe? I suoi pruiagonislì ce lo dimostrano: quello di cui erasi insignorito e a cui aspirava Cesare Borgia, quello che pos- sedeva e che agognava Lorenzo de' Medici, li primo , in compagnia di papa Alessandro, dominava la Romagna, Terra di Roma, una parte della Toscana, e la voleva tutta; il secondo, appoggiandosi alla potenza di Leone X, occupava Urbino, Firenze ed altre città, ed il papa suo zio già coloriva i suoi vasti disegni d'impadronirsi di tulli i feudi pontifìcii ed anche del regno di Napoli, come abbiamo da Guicciardini. Pertanto il primo fondamento, e quindi il teatro della politica machiavellica, erano la Romagna, lo Stato Ecclesiastico, il regno di Napoli e la Toscana. La grandezza dei Borgia e poi quella dei Medici formavano la regola, il tipo de' suoi pensieri; secondo che dimostrano e il contesto del Libro del Principe, e la stessa na- tura di quell'intelletto, grande bensì, ma più fatto per osservazioni pratiche che non per astratte teorie. Voleva innanzi tutto assicurare al suo regio allievo un vasto dominio in Italia; voleva che quegli con armi proprie, non mercenarie, non ausiliarie, non miste, si creasse al pari del Valentino una potenza propria ; voleva che contro gli esterni e gli interni ostacoli al pari del Valentino procedesse, cioè con astuzia coi potenti, con severa giustizia coi deboli, e quindi ad ultimo pensasse alla grande impresa.

Quali avessero ad esserne gli ostacoli esterni, e qual politica l'osse costretto a seguir l'ambizioso con essi, il vedemmo nel parlare di quella perfida età. Quanto poi agli interni , pur troppo il novello Stato, che occuparono o agognarono quei principi e quei papi, ab- bondava d'una condizione di gente che conculcava il popolo e con- trabbilanciava il poter del governo; e se in alcune parti la nobiltà era s'caduta dell'antico grado, già non ne veniva che fosse confusa insieme col popolo e divenuta una nobiltà cittadina. Giusta le parole istesse di Machiavelli:* a Gentiluomini sono chiamali quelli, che oziosi vivono dei proventi delle loro possessioni abbondantemente, senui avere alcuna cura o di coltivare o d' alcun' altra necessaria fatica a vivere. Questi tali sono perniziosi in ogni provincia; ma più perni- ìtiosi sono quelli che, oltre alle predelle fortune, comandano a ca- stelli ed hanno sudditi che ubbidiscono loro. Di queste due sorta d'uà- mini ne sono pieni il regno di Napoli, Terra di Roma, la Romagna e In Lombardia : tali generaùoni d' uomini sono nemiche d' ogni ci- vili à, per l'eccessiva loro ambizione e corruttela, che le leggi non bastano a frenare. » E in altro luogo egli cosi ragiona : 3 « La Romn- gna, innanù che in quella fossero spenti da papa Alessandro VI quei

* Nel lil). I , cap. 55, dei Discorsi,

* Nel lib, 111, ciji. 29, dei jDiicorù'

b

XVI CONSIDERAZIOM

signori che la comandavano, era un esempio d'ogni scelleratissima vita , perchè quivi si vedeva per og^ii leggiera cagione seguire ucci- sioni e rapine grandissime. Il che nasceva dalla tristiiia di que' prin- cipi, non dalla natura trista degli uomini , come loro dicevano; per- chè, sendo que' principi poveri e volendo vivere da ricchi, erano fonati volgersi a molte rapine, e quelle per vari modi usare : e , tra le altre disoneste vie che tenevano , facevano leggi e proibivano alcuna aiione; dipoi erano i primi che davano cagione della inosservama di esse, mai punivano gli inosservanti, se non poi quando vedevano essere incorsi assai in simile pregiudicio; ed allora si voltavano alla puniiione, non per telo della legge fatta, ma per cupidità di riscuo- tere la pena. Donde nascevano molti inconvenienti, e soprattutto que- sto, che ipopoli si impoverivano e non si correggevano ; e quelli che erano impoveriti «' ingegnavano contro i meno polenti di loro preva- lersi. » / feudatari ed i piccoli principi della Romagna , dice Ro- scoe, laceravano da lungo tempo la Stato della Chiesa ; sostenevansi colle rapine, ed erano il terrore di tutta l'Italia. Le discordie e le contese che segnalarono quest'epoca, panno essere paragonate ai com- battimenti delle bestie feroci, in cui r animale più furioso e più forte distrugge tutti gli altri. » Il quale sialo di cuse, eccello forse la si- gnoria assolula d'alcuni feudaiari, non era dissimile da quello in cui trovavansi la Francia e la Spagna per cagione della fenda liià : ma danni ancor maggiori apporlava e al governo ed al popoli la nobiltà feudale della Terra di Kuma. I Colonna e gli Orsini coi numerosi aderenti loro,* polenli pei molli feudi e caslelli, potenti altresì, per- chè, condoUieri di ventura com'erano, disponevano d'una (]uanlità di milizie, e, come dice il Segretario, avevano in mano tutte le armi d' Italia , quanto solleciti deirnffezione de' soldati, tanto infesti alle campagne, ai villaggi ed a chi vi abitava, raro era che per 1* cITeilo di continue guerre civili e della militare licenza non gli mettessero a ruba, e non vi recassero la morte e la distruzione ; sicché tra per questo motivo, e pel continuo timore delle misere popolazioni, le terre o venivano abbandonate, o rimanevano pressoché incolte, o diventavano un deserto pieno di paludi pestilenziali. * Colali effetti partorivano le fazioni e la prepotenza di quei castellani , peggiori ai certo di quanti oe avesse qualunque altro paese d' Europa. Vero è, che dessi e i signori della Romagna dai Borgia e da Giulio li rice- vettero una terribile scossa, onde il governo papale cominciò a sa- lirne in maggior potenza ; ma ne andrebbe assai errato chi credesse

* I Savclli , ì Conti , i Santacroce , ec.

8 Vcggasi Sisinondi , Storia delle Repubbliche Italiane del medio evo, tomo 13.

k

SUL LIBRO DEL PRLXCIPE. XVII

che quindi le loro violenze cessassero. In Perugia, in Urbino, in Fermo, in tutta la Marca d'Ancona e nei dintorni, continuò la loro tirannia ai tempi di Leone, il quale talora si vide costretto ad usare contro di essi le arti machiavelliche.^ Nella Terra di Roma, sotto il medesimo pontefice e sotto Clemente, erano ancora potenti e non di rado infesti gli Orsini e i Colonna , la cui grandezza, come c'informa Guicciardini, a fu sempre depressione ed inquietudine dei pontefici. » E convien dire infatti che i piccioli tiranni e i feudatari dessero tut- tavia assai che fare alla corte pontificia, perchè un trattalo fra Leone e il redi Francia, giusta il predetto istorico, conteneva la capitola- zione, che il re dovesse aiutarlo contro ai sudditi ed ai feudatari della Sedia Apostolica : « condizione appartenente allo stabilimento delle cose possedute dalla Chiesa : » soggiunge il medesimo scrittore. Condottieri di fanti e di cavalli, non meno che si facessero 1 padri loro, ne imitavano la feroce licenza: che anzi anche nelle età poste- riori codesti feudatari non si rimisero delle iniquità loro, ricoverando nelle proprie terre i banditi, proteggendo le bande dei masnadieri, e talor anco ponendosene alla testa ; sicché a stento riuscì a stre- marne, non a distruggerne il mal seme, la fiera giustizia di Sisto V. Insomma ne Lorenzo de' Medici, il principe di Machiavelli, avrebbe regnato in Romagna, ne papa Leone avrebbe potuto sostenerlo, se non si distruggeva codesta corrotta e perniciosa razza, nemica d'ogni civiltà, e ch'era l'effettiva peste, non che dello Stato Ecclesiastico, di tutta l'Italia, come anche disse a Machiavelli il duca Valentino. L' autore dell' articolo dice bensì che lo Stato della Chiesa si acco- stava a quello delle grandi monarchie d'Europa; ma non ne osserva tutti gli effetti, tampoco avverte che codesti feudatari della Santa Sede erano appunto quelli con cui ebbe che fare il duca pre- detto, che il Segretario propone per esempio al suo principe. II tipo da lui trascelto, ch'egli non dubita mai d'allegare, e della cui ca- duta spesse volte si duole, mi pare che ci possa dare a divedere dove avesse la mira, e di che tenore fosse quella politica che su tal mo- dello aveva formata. Molto aveva fatto Cesare Borgia ; ma restava ancor mollo da fare a Lorenzo, se pur voleva eseguire il gran dise- gno a cui Machiavelli lo esorlava : senza di ciò il suo principato sa- rebbe slato sempre da meno e degli interni ostacoli e degli esterni. La feudalità napoletana non differiva, come anche dice l'autor dell'articolo, dalla francese e spdgnuola : e, per ciò che si riferisce alla Toscana, vero è che i nobili vivevano nelle città, ma non per questo erano confusi insieme col popolo. Perchè fossero una no- billà cittadina, sarebbe sialo mestieri che ed i nobili ed il popolo

i Si veda il Muratori negli annali d' Italia.

XVIII CONSIDERAZIONI

avessero nvuto nella cosiiiuzioiie dello Slato un comune ordinamen- to. In tal caso vi avrebbe potuto aprire una libera concorrenza alle cariche, conforme faceasi nell'antica Roma ; e le slesse dissen- sioni fra i nobili e la plebe sarebbero slate un utile conlrapponi- mento, una guarentigia, un principio a migliori leggi, a più sal<li ordini politici, come anche osservò Machiavelli.' Ma l'origine dello due condizioni di gente era nelle repubbliche italiane assai diversa. La conquista aveva originala la nobiltà feudale, posseditrice delle terre, e di cui era tanto grande la potenza, che, come ci informa il Segretario, gli ordini e i modi civili a frenarla non bastavano; 2 dal traffico e dall'industria riconoscevano la loro maggioranza i popolani: rappresentavan quelli la proprietà rurale, queslì le manifatture ed il commercio: e se le antiche famiglie fiorentine furono poi coslrellc ad abbandonare i propri castelli, ed esercitarono anch'esse la mer- catura; e se , spente in decorso di tempo o cacciate o represse que- ste, le discordie vi ridussero tra popolo e plebe; i nobili popolani, sorti dalla ricchezza mercantile e dalle occupate magistrature, si det- tero ben presto ad imitare i feudali colie condotte de' soldati, colle molte aderenze e coll'aiulo d' esteri signori e baroni. II fallo loro e non la legge ren-^leali potenti; e, per usar le parole di Machiavelli,' « ne sorgevano tali difficollà, che la Repubblica non paté mai riardi' narsi. » In un'età nella quale la libertà civile era ben poca cosa, in municipii che governavansi a caso, si cercava di contrabbilanciare le prerogative baronesche 0 dei popolani grandi con quelle dei collegi delle arti ; e le une e le altre, e le slesse arti fra loro, slavano in per- petua guerra, o sorda 0 aperta, come si legge nelle Storie fiorentine. Chi bene avverta alle repubbliche italiane di allora, piultostochè unu stato regolare, legittimato dalla tranquilla e soddisfacente convi- venza , erano esse un risullamcnto di corpi morali che a privilegi o concessi o usurpati opponevano altri privilegi di egual natura: ma senza l'unità degli interessi , delle opere e dell' eHetlo fmale, come può progredire una società?* Il desiderio di soverchiare eccitava I grandi; eccitava i plebei quello di non essere soverchiati. In Firenze «bbero questi piìi volte il disopra; ma, siccome non moveali l'amor della pairia e delle leggi, bensì l'odio della parie avversa, vollero poi soverchiar^ anch'essi : quindi gli odii coperti e le reazioni, e Le riforme, dice il Segretario, ' furono fatte non a soddisfazione del ben

« Nel lil». I , cap. 4 e 6 , dei Discorsi.

8 Nel lib. Ili delle Storip forentine.

3 Nel lil). I , cap. 49 , dei Discorsi.

Anche il celebre Guizol e di questo parere nelle sue Lccons sur la Civi' fisation europcenne, all'ari. Comninnes.

* Nel Discorso sulla Bi/orma di Firenze.

SUL LIBRO DEL PRINCIPE. XIX

comune, ma a corrohoraùone e sicurtà della parte; la quale sicurtà non si è anche trovata, per esservi sempre stala una parte malcon- tenta, la quale fu un gagliardissimo istrurnento a chi ha desiderato variare. » Cercarono i Medici d'acquietare le cose: ma che può un governo di clienlela , con poche anni, colla sola autorilà del nome, e perciò debole, contro gP interni ed esterni assalti? Dall' un canto yvean essi a temere il volubile elemento popolare, istigalo ed aggi- ralo dai nobili e dai falsi profeti; dall'altro l'ira di essi nobili che solo taceva quando eron deboli: repressa negli Albizzi, risorgeva essa infalli nei F'azzi, poi faceva negli Strozzi le ultime prove. Si fa dun- (jiie manifesto che nella slessa democratica Firenze, e la nobiltà feu- dataria e la popolana non fu jmai confusa insieme col popolo, mai ciitadina : la lotta, che allora si scorgeva in altre parti tra i feuda- tari, il popolo ed i principi, palese quivi appariva fra i polenti popo- l;ini, successi ai feudali, la plebe, e la casa Medici. I nomi non dif- ferenziano le cose: perpelue discordie vi dominavano, le quali erano I)rincipalmente mantenute da quei grandi, nemici d'una famiglia già loro eguale , che sosteneva la moltitudine, ed a cui per conseguenza , come scrive Hallam, « non venne mai meno l'amor della plebe. » « Non v'era costituito un timore agli uomini grandi che non potes- sero far sètte, le quali sono la rovina d' uno Stato: » dice Io slesso Machiavelli,* e contrappone al governo di Firenze quello di Venezia, che teneva gli uomini polenti a freno." Aveasi ancor qui bisogno d'una mano regia, che facesse tacere quelle discordie per sempre; e la trovarono i Fiorentini nel granduca Cosimo, sostenuto dall'in- fluenza spagnola. Se poi codesta influenza riuscì di grave pregiudi- zio all'Italia e vi spense ogni virtù, non n'ebbero colpa i principi! machiavellici, i quali certo non miravano a costituirvi un principato spagnolo, ma bensì uno che italiano fosse. In somma, nelle sopra- scritte parti d'Italia erano codesti grandi un perpetuo seme di dis- cordie, di fazioni e di pubblici mali; erano una e forse la maggiore di queWe piaghe infistulile che accenna il Segretario. 0 feudatari che fossero, o signoroni, o per altro titolo potenti, tendevano a sover- chiare ei principi e il popolo, ed erano naturali nemici d'ogni vi- ver civile, il precipuo ostacolo a constiUiire un principe. Conveniva a questo usare astuzia coi grandi, deprimendo la nobiltà di fallo per crearne poi una di diritto; usare severa giustizia col popolo, per po- ter divenirgli umano e benefico in appresso. Così le leggi si sareb-

* Nel Discorso stilla Riforma di Firenze.

- Nel lib. I, cap. 41), dei Discorsi. Vedi anche il liL. Ili delle Storie fio- rentine.

XX CONSIDERAZIOM

bero ordinale secondo il ben pubblico, non secondo l'ambizione di pochi; e la le;;p;e avrebbe comandalo e non ruomo, come pur vo- leva il Segrelario. Per mala sorle dell'Italia, deslinaia allora a pas- sare da sialo callivo in peggiore, anzi pessimo; e io Firenze sollo Cosimo e don Francesco, e in Lombardia e nel regno di Napoli , l'in- fluenza spagnola fece prevalere invece i privilegi dei pochi al pub- blico bene; onde comandò l'uomo, e non la legge. Dove il Segrelario consigliava promovere il commercio, questo venne dislrullo; dov'egli voleva che alle armi mercenarie sollenirassero le nazionali, in cui si fonda la vera polenza degli Slati, sollenlrarono le spagnole, che , congiuntesi alle mercenarie, resero quesle ancor peggiori di prima, come dimostra Guicciardini, e recarono all'Italia l'estrema desolazione, segnatamente col sacco di Prato e con quello di Roma. Ben meglio per mia fé' sarebbe stato l'ascoltare invece i consigli di Machiavelli!

Non so poi come l'autore dell'articolo potrebbe provare che di dall'Alpi la guerra, quantunque fosse un mestiere, non era però un mercimonio, e che l'uso d'arrolare soldati mercenari divenne generale in Italia quando era ancora sconosciuto nelle altre contrade. Hobertson* osserva che i re di Francia, considerato che nelle guerre cogli Inglesi gli eserciti fe^jdali mostraronsi inetti all'attacco ed alla difesa delle città dei castelli, tra per questo motivo e per ollcncre la forza permanente ed effettiva che occorreva in quelle prolungale contese, assoldarono numerose bande mercenarie, levate tulvolia fra i propri sudditi, tale altra in stranieri paesi; il quale esempio fu ^oi imitato dagli altri regni europei. Lo stesso Carlo Vili, quando passò in Italia, aveva nel proprio esercito un buon numero di mer- cenari svizzeri ed italiani. Che anzi, a dir vero, l'uso di siffatte armi di dall'Alpi e dal mare è molto più antico ch'io non accenno. As- serisce Ilaliam' che se ne ha memoria sin dai tempi di Canuto il Grande. Ne stipendiarono in Inghilterra Guglielmo il Conquistatore, Guglielmo il Rosso e il re Giovanni, in Francia Filippo Augusto; ed anche nella celebre ballaglia di Crécy combattevano molli mercenari italiani. Furono codeste armi un intermedio tra la feudalità e la cen- tralità dei poteri; perchè, come si disse e come avverte anche Hai- lam, chi aveva denaro era certo d'aver guerrieri più sicuri e fermi che non fossero i nazionali; e perchè, conforme soggiunge il mede- simo scrittore, se pur talora riescivano licenziosi o di manchevoi bravura, l'illimitata devozione, ancor più che il coraggio e la disci- plina, gli rendeva accetti ai principi, i quali d'altra parte polcan le-

* Storia di Carlo V imperatore. ^ L' Europa nel medio etv.

SUL LIBRO DEL PRINCIPE. XXI

mere a ragione l'indipendenle spirilo d'un esercito feudale. Ne queste osservazioni erano sfuggile ai contemporanei di Machiavelli: assai prima di Hallain e di Robertson aveale falle Guicciardini; il quale soprappiù osservava: « Che perciò appunto molli re aveano alleso a disarmare ed alienare i popoli dagli eserciù militari; onde i Francesi^ non confidando più della virtù dei fanti propri, si conducevano timi- damente alla guerra, se nell'esercito loro non era qualche banda di Svizzeri. » *

Senonchè si risponderà, che se l'uso di siffatte armi- erasi ab antico introdotto anche ollremonti, l'Italia ne differiva in ciò, che codesto uso vi era generalmente adottato e da principi e da repub- bliche, e quindi vi si guerreggiava quasi senza far sangue; di che fa pur fede Machiavelli nelle Storie fiorentine e nel Principe. Ma, la- sciando anche slare ciò che del sangue sparsovi dice in contrario l'Ammirato, e la grave armatura d'allora che assicurava dalle ferite, n'eran forse cagione le abitudini mercantili, come vorrebbe l'autore dell'articolo? 11 Piemonte, lo Slato Pontifìcio, il regno di Napoli, aveano anch'essi i loro mercenari, quantunque fossero feudali; feu- dalissimoera il terzo di que'dominii,che pur rimase senza difesa con- tro le armi francesi ed aragonesi. Oltre di che, per la verità, quando si pensa ai Veneziani che furono gl'Inglesi del Medio Evo, ai Geno- vesi e ai Pisani, deditissimi alla mercatura, i quali col valore dell'armi loro occuparono Costantinopoli, la Morea, Candia, Scio, la Crimea, la Corsica e la Sardegna, tenendo fronte agl'Infedeli, e combatten- dosi gli uni gli altri con orrenda furia in tante guerre marittime; non si può credere che il commercio riduca al meno le virtù militari. « Queste guerre, dice Hallam, messe a ragguaglio coi fatti guerre- schi della medesima età, sono veramente più splendide e più sangui- nose, e dimostrano uguale arie e bravura. » Hanno abitudini seden- tarie gli agricoli avvezzi ad un tranquillo genere di vita ed a veder vicini e pronti i ritorni dei capitali; e quinci è che alla loro confidente natura tulli i governi son buoni, purch'essi siano tranquilli. Ma la vita del negoziante è piena di pericoli, di movimento e di attività; desto il tengono sull'andamento degli affari pubblici le sue vaste, lente e lontane intraprese; ogni accidente politico lo interessa, e di frequente lo agi,ta e lo turba: e tali erano effettivamenlre Ira il se- colo XV e il XVI i Toscani ed altri popoli d'Italia: ora per impeto licenzioso prorompevano a sanguinosi fatti, ora per paura tacevano, ma sempre stavano in orecchi ed in sentore. Perchè vi si fosse effet- tuala la decrepitezza che l'autor dell'articolo accenna, e ch'egli non dubita di pareggiare a quella dei Greci del tempo romano, sarebbe

* Lib. II, cap. 5, delle Storie,

XXII CONSIDERAZIONI

Sialo mestieri, che codesti popoli, al pari dell'antica Grecia, avessero pia percorsi tutti i fjradi della loro civiltà, o che oramai sicuri da interne ed esterne offese, avessero al pari dei Veneziani del secolo scorso abbandonalo il commercio per darsi all'agiata ed oziosa vita del patrizio proprietario , che , riposandosi in su l'inceria fede d'un agente, stima arte meccanica tutto ciò che non gli ricordi le sue pos- sessioni e il fasto e la vanagloria. In tale stato cose, fruito d'una lunga non mai inierrolia e torpida pace , col cessare dell' antago- nismo delle passioni e della lotta delle idee, che per la legge essen- ziale dei due contrari mantiene l'ordine generale e la vita degli enti fisici e morali, sarebbevi cessato, come in Venezia cessò, quanto di vitalità, di lumi e di virtù vi fosse slato dapprima. Per lo contrario, le repubbliche italiane dell'eia di Machiavelli non erano giunte che al primo passo dell'incivilimento, cioè a quello delle Lettere e delle Arti, e dei primi studi dell'antica sapienza; il che congiunto al mo- vimento industriale e mercantile, ricordato di sopra, veniva a pro- durre Il primitivo fiore della moderna civiltà europea.^ E se la fu- nesta influenza spagnola, spegnitrice d'ogni lume e d'ogni virtù, col pervertire il buon gusto, le idee e le tendenze degl'Italiani, e col distoglierli dalle abitudini industriali dei padri loro, per sosliluir- vene di oziose, fastose e ridicole, non avesse arrestato e reso retro- grado quel primo passo, ai fiori d'una bella e promettente pri- mavera sarebbero successi i frutti. Dagli avvenimenti del 1530, e non da una maturità primaticcia, provenne la decre()ilezza affrettata delle repubbliche e degli altri Stati d'Italia. D'altra parie, se le repubbli- che e gli stati che precedettero quell'influenza, non faceansi una vera guerra, tampoco stavano in pace: e come l'avrebber potuto fra quelle emule signorie, fra i timori, gli odii, i pericoli, le reazioni e le perpetue discordie? e // passaggio ad un viver molle e codardo, dice Romagnosi, non conveniva ai (empi: sarebbe slato troppo preci- pitoso ed inconciliabile con altri fatti di quella età. »

E veramente, coloro che congiurarono contro Galeazzo Sforza e contro Lorenzo e Giuliano de'MedicI (come si legge nelle Storie fio- rentine) ^se furono empi e traditori, non manifestarono meno un vio- lento coraggio; il quale anzi accostavasi a temerità, considerato il luogo in cui eseguirono quelle congiure, l'estremo pericolo a cui si esponevano, e gli ostacoli che doveansi superare per condurle a fine. Se mai , dice il Segretario,* alcuna faccenda si ricerca l'animo grande e fermo , e nella vita e nella morte per molte esperienze riso-

* Hallam chiama la (ine del secolo XV « aureo mallino della italiana sapienza. •»

' Kelle morie.

SUL LIIÌRO DIiL PRINCIPE. XXIII

luto, è necessario averlo in questa, dove si è assai veduto agli uomini nell'armi esperti e nel sangue intrisi l'animo mancare. » Quindi ap- pare se un Italiano di qua' tempi scansava i pericoli con un accor- j,'imento pusillanime, secondo che vorrebbe l'autor dell'articolo. Aperte, violenti ingiurie furono queste, non segrete e timide. La ge- nerosa franchezza di Lorenzo de' Medici , il quale per salvare il suo popolo dai mali d'una guerra ch'era fatta a lui solo, va egli stesso a trattar della pace in Napoli, rimettendosi nelle braccia d'un perso- nale e potente nemico; le resistenze di Pisa, di Firenze e di Siena; papa Giulio II assai più guerriero che pontefice; e la grande audacia di Piero Capponi , che innanzi agli occhi d' un re di Francia , già vittorioso e con tanto esercito pieno di feroci nazioni, straccia gli immoderali capitoli che proponevansi alla sua patria; bastano, io credo, a fornirci di chiarire, che fra gl'Italiani di quella età non erano cosa nuova strana ì caratteri alteri e violenti. Non so se il re Carlo nella sua feudale Francia avesse veduti esempi simili a quello dell'impetuoso ed audace Fiorentino. Certo egli, alla lesta del lìore della feudalità francese, pur tremò fra quel popolo di mercanti, come abbiamo da Guicciardini, lo già non dirò che in Italia si abbondasse allora di virtù rr.ilitare : leggo in autori gravissimi il contrario; ma ne anche posso indurmi a credere che vi fosse spenta. La disfida di Barletta, per cui la vanità di Francia fu costretta a chia- marsi vinta dal valore italiano ; le Bande Nere di Giovanni de'Medici, chiaro esempio di forte ed agguerrita milizia, per cui, come dice il prefato istorico , apparve molto la ferocia e la virtù del capitano ed il valore dei fanti italiani; Gian Giacopo de'Medici, e gli altri capi- tani di ventura, un Alberico da Barbiano, un Iacopo dal Verme, i Bracceschi, gli Sforzeschi, i quali con eserciti italici formarono una nuova scuola militare, che, al dire- dell' inglese Hallam, tolse il lume ad ogni altra di fuori , ne sono evidente e gloriosa prova. Mercenarie ma italiane erano codeste armi , che ristorarono fra noi l' arte della guerra, già invilita per le armi mercenarie d'Ing4)ilterra, di Bretta- gna e di Provenza. « Se coloro fossero stati duci d'un dato Stato, avrebbero giovato alla consolidazione d'Italia, » dice Romagnosi.

Il mercimonio della milizia, generalizzato in Italia, non era un peccato di popoli, ma di principi e di repubbliche. I primi lo intro- dussero per gelosia del popolo, di cui volevano soifocare la libertà, e dei nobili che ricusavano di piegare il collo ad un loro eguale; le seconde, o pel tiaiore di far sorgere un tiranno, siccome appar chiaro in Firenze, o per la politica di non accordar comandi di terra ad un patrizio in un governo, nel quale il nome collettivo doveva' es- ser tutto ed ogni nome individuale esser nulla : il che accadeva in

XXIV C0?iSIDERAZ10NI

Venezia. Ma senz'armi proprie, senz'armi cilladine non può sussi- itSlere una sicura indipendenza; e quindi procedeitero i mali enormi della passala di Carlo ViU, e gli altri che poi avvennero in così lunga serie. E a ciò avvertiva il Segretario quando scriveva: « Chi disse, che di questo eran cagione i peccati nostri, diceva il vero ; ma non erano già quelli che credeva; e perchè gli erano peccati di principi , ne hanno patito la pena ancora loro. * E nell' ultimo rapitolo del Principe più chiaramente il dimostra con queste parole : « In Ilaìia non. manca materia da introdurvi ogni forma. Qui è virtù grande nelle membra, quando la non mancasse nei capi. Specchiatevi nei duelli e nei congressi dei pochi, quanto gli Italiani siano superiori con le fone: ma , come si viene agli eserciti ; non compariscono , e tulio procede, dalla deboleua dei capi. > differentemente ne pensava 11 gran Consatvo, quando poco prima della disfida di Barletta fu udito dire: ^ e Che se Italia era da pochi anni in qua slata corsa da eserciti fo- restieri, erane stata cagione non altro che la imprudema de' suoi prin- cipi, i quali, per battere V un l'altro, l'armi straniere chiamale aveano. > in conclusione, la pace, l'ignavia, la debolezza italiana di quella età, erano soltanto un'apparenza che nascondeva una ben di- versa realtà, come dimostravano le occasioni : era un fuoco sotto la cenere, un vulcano latente, da cui a quando a quando uscivano fiamme a manifestarlo. La gioventù della nazione appariva in quello discordie, in quel movimento industriale e mercantile, nel progresso delle lettere, delle arti e della ricchezza, il quale dalle spesse guerre e dai civili risorgimenti non era arrestato rilardato; nei tanti fuor- usciti politici, nelle fiere ed indomile indoli dcirAlviano, di Colombo, degli Strozzi, di Zanobi Buondclmonti, di Luigi Alamanni, di Buo- narroti, di Francesco Ferruccio, e nel fervido e manesco Benvenuto (Sellini. Qual partito non he avrebbe cavato un principe, il quale, superati gli ostacoli interni ed esterni , e raccolte con altri ordini po> litici in un medesimo corpo sociale tante forze fìsiche e morali, che disgregate o non riuscivano ad alcun bene o riuscivano a male, avesse formato dell* Italia una sola nazione, una sola monarchia! Ciò pur bramava il Segretario: ^ ma la trista influenza spagnola già già stava per convertirvi il coraggio in viltà, l'industria in rovinosa indolenza, io povertà la ricchezza, in decrepitezza e morte la gioventù. *

' Nel cap. i 2 del Principe.

Vedi Guicciardini nelle Storie.

Kel cap. 26 del Principe.

La sola Toscana potè rialzarsi da un'oppressione di 60 anni, quando prr opera, di Ferdinando granduca , cominciò a sottrarsi da quell' inlluenza : le altre parti d'Italia vi soggiacquero assai più tempo.

I

SUL LIBRO DEL PRINCIPE, XXV

Vero è d'altra parte, clie a siffatte qualità pur troppo si accom- pagnavano l'astuzia, l'ipocrisia e la frode; da questo lato io so dar torto all'autore dell'articolo. Ma egli erra poi soprammodo quando afferma, che codesta moralità fosse propria esclusivamente degli Ita- liani. Le memorie di que' tempi gliene danno una solenne mentila. Ferdinando il Cattolico, quegli che pose fine al dominio dei Mori in Ispagna, che la ridusse alla sua prisca unità , e promosse la scoperta dell'America, fu altresì uno dei principi più falsi e più perfidi del- l'età sua. Nella sua gloriosa corte le promesse erano un laccio, un giuoco i giuramenti, un nome vano la fede; e così poco v' erano in discredito la frode e l'ipocrisia, ch'egli stesso fu udito gloriarsi d'avere ingannato più di dieci volte Luigi XH re di Francia. Il gran Consalvo, educato a codesta scuola, non sdegnò di accoppiare al suo alto valore le arti della perfidia; e ben ne dette un saggio quando fece partire il duca di Calabria per la Spagna dopo aver giurato sul- r Ostia Sacra eh' egli potrebbe ritirarsi dove bene gli paresse , e quando abbracciò il Valentino prima di farlo ritener prigioniero. Noti sono i veneficii di Riccardo III, i fraudolenti intrighi di Luigi XI, il quale, come ben dice Hallam , se non fu l'inventore, fu certo il col- tivatore più insigne di siffatta insidiosa destrezza. Ed anche Luigi XII non fece forse un turpe traffico delle alleanze ? Gli stessi Borgia, le cui colpe furono però esagerate, eran pure una famiglia spagnola. Tant' è : la slealtà d'oltrementi uguagliava quella d'un Francesco Sforza, d'un Lodovico il Moro, seppure non la superava; che anzi, non che gli Italiani fossero altrui maestri del mancar di fede, poteano apprenderlo dagli stranieri, siccome fece alla corte d'Aragona il Guicciardini; per soprammercato traditi essi furono ben più che tra- ditori. Ne sono una chiara prova la casa reale di Napoli, tradita da Francia e da Spagna coll'inìquo trattato di Granata; Lodovico il Moro abbandonato dagli Svizzeri; i Bresciani, indotti dal cardinale di Sion a congiurare contro i Francesi , e poi da lui derelitti ed esposti al ri- sentimento di Gastone di Foix. Tutto ciò mi pare che basti a per- suadere, che le crudeltà provocate da fredde e profonde meditazioni, e gli inganni e i tradimenti, erano propri così dello Spagnolo, del Francese e dello Svizzero, come dell'Italiano. « Troppo coceva agli stranieri di dover confessare negli Italiani la superiorità dell' intelli- genza e della dottrina: quindi la rappresentarono come un vantaggio necessariamente congiunto alla dissimulazione ed alla perfidia; ed ar- rogandosi la palma del valore e della lealtà, lasciarono a quelli con dis- prezzo il merito dell' accortezza e dell'astuzia. » Così dice Sismondi, e dimostra come la mala fede degli stranieri non fu mai pareggiata in quel tempo dai più diffamali politici dell' Italia. Era questa in-

XXVI CONSIDERAZIONI

somma una tendenza universale dell'età; e la superstizione del Medio Evo, come avea prima sanliGcala la violenza, santificava adesso le perfide macchinazioni. *

Or venendo a considerare donde provenisse codesta moralità, di que'lempi{jeneralmente seguila in Europa, mi sembra trovarlo nella reciproca debolezza dei baroni, dei municjpii, dei signori e dei principi d' allora , congiunta alla decadenza della feudalità. Dove per l'ordinario il potente è generoso e franco, il debole che pur voglia ingrandirsi, raro k che non mescoli alla forza l'astuzia; altrimenti con molta probabilità vi rovinerebbe sotto, e La perfìdia, la memo- gna, i tradimenti, furono sempre il retaggio d'un'ambiiione sfornila di prevalenti poteri , » dice Romagnosi.' Quando il Segretario scrisse : un principe deve esser volpe e leone : coloro che stanno semplice- mente in sul leone non se ne intendono: » volle alludere alle condi- zioni ed al conseguente procedere degli statuali di codesta età. La lotta che variamente durava e imperversava tra quelle quattro po- tenze, le indeboliva tutte quante. La nobiltà feudale, temuta e gloriosa ne' suoi violenti principi! e nei tempi cavallereschi, ora per r incremento dei comuni , per le introdotte artiglierie e per la pro- gressiva potenza dei principi, o era depressa o avea perduta non poca parte della sua maggioranza. Le milizie mercenarie e poi le nazio- nali che già principiavano ad introdursi in qualche parte, soppian- tando ed avvilendo le baronesche, aveano fatto perdere al patto feu- dale, cioè alla fedeltà del servigio, la virtù primitiva; quella che insieme collo spirito cavalleresco avea pur sostenuta la scadente lealtà del Medio Evo. * I municipii eransi dove più dove meno arricchiti ed armati, ma non poteano stare senza sospetto o dei nobili feudali, o di quelli ch'erano sorti sulle rovine di questi, o dei piccoli signori che rimpiazzavano i feudatari e ne imitavano i soprusi. Ed i principi trovavano alle lor mire d'ingrandimento , di consolidazione e di cen- tralità, tre forti ostacoli ora nei grandi, ora nel popolo, ora nelle pic- cole signorie, di cui segnatamente abbondava l' Italia. Quindi veniva con necessaria conseguenza il procedere detto di sopra : aiutavansi il comun di Firenze e le altre repubbliche italiane coi loro Sccorlì

* L'autore dell'articolo della Bevne de Paris, gi'a mentovalo, confessa anch' egli, che codesti erano viii dell' eia e non d'un paese; ma poi soggiun- ge, che l'Italia se n'era fatta maestra agli altri Stati: il che io nego, ed evidente ne è la ragione.

- Fattori dell' incivilimento»

5 Questa verità fu assai bene dimostrala da Hallam e da Cibrario , com' è da vedersi al cap. V dell' Europa nel medio evo ì e al li!). I dcH' Economia politica del medio e\'0.

li

SUL LIBRO DEL PRINCIPE. XXVII

oratori, che non si facevano coscienza mancar di fedeqnando oc- corresse; cogli incanni e colle crudeltà usale a tempo procacciavano di sbarazzarsi dei baroni e signorotti, loro perpetui nemici, papa Alessandro e Cesare Borgia : simil condotta teneano coi castellani d'Aragona e coi feudatari di Francia, Ferdinando il Cattolico e Luigi XI; ed anche Arrigo VII, re d'Inghilterra, se non usò le arti della perfidia , certo mostrossi assai artificioso nel preconcetto dise- gno di soUevare sulla depressione della nobiltà inglese la prerogativa reale.' Dovunque, insomma, uguali cause inducevano per diversi ri- spetti ad uguali espedienti; ad esser volpe e leone.

Ma intanto, singolare e strana appariva veramente la condizione dei tempi. Per la naturai legge del progresso, alla quale obbediscono lutti gli enti e fisici e morali, la società, dove T incivilimento già cominciava più o meno a produrre i suoi frutti , stanca dell'anarchia feudale, delle risse civili e di tanti piccioli tiranni, abbisognava d'uno stato sicuro e potente , a cui pure tanti ostacoli si attraversavano, e quello dell'ambizione dei grandi era il maggiore. Decaduti come po- tenza , eran costoro ancor terribili come opposizione ; le vie di correzione e di transazione poteano praticarsi con gente predomi- nata da furti passioni e da forti interessi divergenti, e in una età dove pur mancavano tanti elementi di civiltà e di moralità pubblica. V impresa di abbatterli per sempre e di costituire una forza centrale ed inconcussa, all'ombra della quale potessero gli Stali prosperare ed ingrandirsi , era il bisogno dell' età ; perchè senza di quella non avrebbe potuto esservi concordia civile, non pubblica quiete, in- dustria; quindi , ricchezza, civiltà. Orchi poteva soddisfare in Italia ad un tale bisogno? Non certo i municipii, giacché i governi democratici per la naturai diffidenza del popolo non hanno mai un' energica podestà esecutrice ; ed oltracciò troppo deboli erano fra tante forze nemiche, troppo esposti alle gare ed ai tumulti civili, perchè fossero atti alla grande opera delta rigenerazione sociale. '

* Il cardinale Ximenes , che fra lo splendore della porpora e della gran- dezza spagnola seppe conservare 1* austerità monastica , nella sua celelìre reg- genza di Spagna fece anch' egli lo slesso. Vedi Robertson , Storia del Regno di Carlo V imperatore , lib. I.

2 « Le vecchie libertà europee, dice Gaizot {Leeoni sur la Civilisation europèenne ) , non avcano potuto dare alla società ne la sicurezza ne il pro- gresso che pure costituiscono la vita sociale. Ogni sistema che non procacci 1' ordine nel presente e il movinnento verso l' avvenire , è vìsioso e bentosto abbandonalo. Tali erano le repubbliche del secolo XV. Cercaronsi que'due elementi in altri principii ed in altri m»zi, cioè in un sistema mena perico- loso e meno popolare, il quale, anziché allargare, restringesse il cerchio deUe insliluzioni. « . .^. k .^i» •">

XXVIII CONSIDERAZIONI

Solo il poteva 1* energia, l'atiìviià, la costanza d'un potere indivi- duale, che non scorj^endo osiaculi alla risoluta sua volontà, non guardasse a destra a manca, e procedesse immiiiabile verso un sol fine. Con le milizie di cui dis[»oneva, e con una provalenza sui nobili, sui signorotti e sul popolo, la quale già si manifestava pel precedente increaieuio di essa e per la decadenza di quelli, il prin- cipato parca destinato a compiere la dispotica ma salutare e neces- saria impresa. La forza legale non bastava contro inveterate prero- gative ed usurpati poteri: conveniva ricorrere a mezzi straordinari e terribili, se già non si voleva che le piaghe inpslolite * de^jli Stati si incancherissero, e Finché i potenti non siano disarmati e posti nel- V impossibilità di sottrarsi alle leggi, dice Romagnosi; * ^m/ié il po- polo non sia alimentalo e sicuro, finché V amminislranone non sia forte e moderata , sarà assolutamente impossibile di evitare or più or meno le orride scene riferite dagli annalntt italiani. Coloro che aveano la confideniM dei signori e sedevano net loro consigli, non ignoravano non potere esistere fona signorile sema l'unione delle forxe singolari, e che V unione di queste fnr%e viene operata soltanto dui tornaconto comune; ma adorando il simulacro del potere, lo credettero un essere necessario , al quale sagri ficar si dovesse ogni altra regola comune, ono- rando soltanto la riuscita. Questa piega politica non era prodotta da ignofama, dal rifiuto di eque leggi, ma dal bisogno d'una fona accentrala e prevalente, che difendesse le persone, le cose e le civili tnslituiioni. Il movimento ascendente era promosso dall'energia vitale del popolo, e limitato o rintuaatv dai privilegi che non si erano pò- tuti abolire. Qurst' ultima opera, la più ardua e la più indispensabile di tutte, fu ridotta quasi a termine dulia possnma del principato , col quale i potenti venivano in conflitto, nell'atto che per parte dei citta- dini SI promoveva per quanto era possibile l'agricoltura, l'industria, il commercio, le scienie e le lettere. Non é questa una congettura, ma unfatlo.^* Vere e sapienti parole, le quali al tutto si combinano con quanto io ne penso. Tanl' è : v' hanno nel corso dei secoli al- cune condizioni sociali di così rea natura, che non si può rimediare ad un male fuorché con un altro male. Talvolta le circostanze non pur muovono, ma strascinano. Quul è il nocchiero che col getto delle merci salvi in una tempesta il rimanente , tal era un principe del secolo XV; e come, a giudizio di Sismondi e di Guizoi , era ne- cessario ai corrottissimo ed invecchiato mondo romano che la bar- ■*'

' Espressioni di Machiavelli.

' Meli' opera dei FaUori dell' incivilimento , quando parla delle Signorie italiane dei secoli XIV e XV.

SUL LIBRO DEL PRINCIPE. XXlX

barìe settentrionale il ringiovanisse, così nel tempo di cui par- liamo, per una diversa ma non men trista faialiià, era mestieri clie un Borgia o un Medici, un Ferdinando, un Luigi, adopras- sero i loro terribili artilicii, per liberare il progresso sociale dalle pa- stoie in cui trova vasi miseramente condotto, e gli dessero quello sciolto andamento che la progressiva natura delle cose impeiiosa- menle richiede. « L'Italia, come il resto dell' Europa , dice il pre- lodato Guizot, dovea passare per mezzo ad una centralità dispotica che ne avrebbe fatto un popolo , e V avrebbe resa indipendente dallo straniero : » ed anche il dispotismo è necessario per quelle riforme sociali che non possano essere secondate da una matura civiltà.'

Ora, in sififatte circostanze, qual altra mira dovéa proporsi il Se- gretario fìorentino, se non era quella voluta dalla condizione de' suoi tempi, che nissuno conobbe al pari di lui? Codesta politica che stava per produrre una rivoluzione sociale, parmi che, se non sem- pre'Cdi che vedremo le ragioni più sotto), certo nel libro di cui par- liamo ed in altre scritture venisse pur consigliata da Machiavelli. In una delle sue lettere a Francesco Vettori esorta egli i principi « a fare della cittadinanza un medesimo corpo , sicché tutti non ricono- scano che un solo sovrano , » e ricorda « la grande affezione del popolo al duca Valentino, ottenuta nel modo ricordato di sopra ; le opere del quale, egli dice, io imiterei sempre quando fossi un principe nuovo, Nel capitolo 3 del Principe consiglia l'occupatore d'uno Slato «a farsi cupo e difensore dei minori potenti, ed ingegnarsi d'indebolire t più potenti di quello; » e dopo alcune altre parole soggiunge : « faciU mente può coh le forze sue e con il favore dei minori potenti abbassar quelli che sono potenti, per rimanere in tutto arbitro di quella proviti'^ cm.-Nel capitolo 7 di esso libro, dopo aver detto che learmr d'Ita- lia erano nelle mani degli Orsini, dei Colonnesi e dei loro seguaci , dimostra com'era necessario a Cesare Borgia il turbare quegli or- dini e il disordinare gli Stali di coloro: il che egli fece col disper- dere quelli di casa Colonna , poi coir indebolire gli Orsini, guada- gnandosi gli aderenti loro, appresso collo spegnerli Insieme coi loro partigiani a Sinigaglia: in seguilo a che occupò la Romagna, e tro- vandola essere stala comandata da signori impotenti, i quali piuttosto aveano spogliati i loro sudditi che corretti, e dato loro più materia di disunione che d'unione; tanto che quella provincia era tutta piena di latrodnìi, di brighe, e d' ogni altra ragione d' insolenza ; giudicò fosse necessario , a volerla ridurre pacifica ed ubbidiente al braccio

* Ne a1)l)isognò infatti la Russia j e forse ne aliblsognerà l'Oriente. 2 Ciò pure aUenna e dimostra nel cap. 40, lib. 1, dei JJiscorsi saltt Deche di Tito Livio.

XXX CONSIDERAZIONI

regio , darle un buon governo . ... e si guadagnò tutti i popoli, per avere incomincialo a gustare il ben essere loro. » Ora gli Orsini, iCo- lonnesi e i loro aderenti, che altro erano che i baroni e i signorotti dello Stato Ecclesiastico, vivendo i quali, come già si vide, Tltalia non poteva. aver pace? t Chi dunque, egli conchiude, giudica neces- sario nel suo principato nuovo assicurarsi degli inimici^ guadagnarsi amici, farsi amare e temere dai popoli, spegnere quelli che ti possono 0 debbono offendere, innovare con nuovi modi gli ordini antichi , es- sere severo e grato , magnanimo e liberale , non può trovare più fre- schi esempi che le a%ioni di costui. > E quali infatti furono quelli eh' egli depresse e eh* ci sollevò ?

Nel capitolo 9 il Segretario ci signiflca evidentemente Io stalo di cose in cui erano allora molte città italiche; dove, come afferma , trovavansi due umori diversi , i grandi desiderosi di comandare e di opprimere il popolo, e questo desideroso di non essere oppresso. Onde nasceva che talvolta, vedendo i grandi non poter resistere al popolo, cominciavano a voltare la riputazione ad uno di loro, e lo fa- cevano principe, per poter poi sotto P ombra sua sfogare il loro ap- petito; e tal altra il popolo voltava la riputazione ad un solo, ve- dendo non poter resistere ai grandi, e lo faceva principe, per essere con Tautorità sua difeso. Nella quale alternativa, di cui si era veduto più d*un esempio, egli consiglia il principe nuovo ad occupare il principato col favore del popolo, anziché con quello dei grandi; e se anche divenga principe col favore dei grandi, cercare innanzi ad ogni altra cosa di guadagnarsi il popolo: e fra le varie e savio ragioni che De adduce e che vi si possono vedere, giova qui ricordar questa, che non si può con onestà soddisfare ai grandi e senza ingiuria d'ai- tri, ma sibbene al popolo; perchè quello del popolo è più onesto fine che quello dei grandi, volendo questi opprimere e quello non essere oppresso. Sembra che Machiavelli non vedesse altra via per sedare quei diversi umori, fuorché un principato, il quale si fondi sul- l'amore del popolo e sulla depressione dei grandi; come fecero ap- punto i Gonzaga, i Medici, gli Estensi,'! Borgia, sotto i quali tutti, ed anche sotto gli iniqui fra essi, il popolo prosperava. Nel cerchio fatale dove, secondo lui, si rigirano le umane società, la licenza loro, se già non volevano divenir suddite d'uno stalo vicino, aveva necessariamente a rifuyjgire sotto l'ombra del principato. 11 quale cerchio, se veramente non si eOfetlua, a buon conto Machiavelli così pensava. *

La sopraddetta mira si manifesta ancor più nel capitolo il , in cui ricercando il Segretario, donde venisse che la Chiesa nel tempo- < nel lib. I, cap. 2, dei DiscorsL

StJL LIBRO DEL PR^CIPE. ^XXI

rate fosse venuta a tanta grandezza, che, dove da Alessandro indie- tro i potentati italiani, anzi ogni barone o signore, quanto al tem- porale la stimava poco, allora un re di Francia ne tremava, ci avverte « che i di lei nemici a tenerla bassa servivansi dei baroni di Roma, cioè degli Orsini e Colonnesi, i quali, stando coli' armi in mano in sugli occhi del ponleficey tenevano il pontificalo debole ed infermo. » E soggiunge: « benché sorgesse qualche volta un papa animoso, come fu Sisto, pure la fortuna o il sapere non lo potè mai disobbligare da queste incomodità; onde le forze temporali del papa erano poco sti- mate in Italia. Sorse dipoi Alessandro VI, il quale coli' istrumento del duca Valentino fece tutte le cose ch'io ho discorse di sopra; e ben- ché l'intento suo non fosse di far grande la Chiesa ma il duca,, non- dimeno ciò che fece tornò a grandez^ia della Chiesa, la quale dopo la sua morte, spento il duca, fu erede delle fatiche sue. Venne dipoi papa Giulio,, e trovò la Chiesa grande, avendo tutta la Romagna, ed essendo spenti tutti i baroni di Roma, e per le battiture di Alessandro annullate tutte le fazioni. » E seguita mostrare, come quindi ad esso papa Giulio aperse la vìa ad accrescere di denari e di do- minio la potenza ecclesiastica. Or lo domando: e non par qui ve- dere un altro Luigi XI, il quale 'coir indebolire i grandi, e poi spe- gnerli 0 deprimerli, fece quello che fu fatto da papa Alessandro? Certo, questi il faceva per ingrandire la propria famiglia piuttosto- ìhè la Chiesa; ma Luigi il facea forse per la mira generosa del bene ■della nazione francese, o pel bene proprio, perla propria ambizione? Il flne immediato d'ambedue fu l'egoismo; ma da siffatto egoismo sorse a nuova vita il regno di Francia , come principiò a sorgerne lo Stato Ecclesiastico, poiché ne furono battuti i baroni, i quali, come dice il Giovio, erano chiamali ceppi dei Pontefici.* Senonchè, come già si disse, il mal seme non ne fu tolto: le insolenze baronesche e le piccole tirannidi ripullularono a guisa dell'idra, le cui leste non poteano esser tutte troncate che dal principe di Machiavelli; il quale, giusta le cose dette, non avrebbe mai potuto mandare ad effetto l'impresa ideata dal Segretario, se prima non troncava tutte quelle teste.

E dove pure nel libro istesso Machiavelli esorta il principe a fondare la sua potenza in su l'armi proprie, impossibili ad aversi

* La setitenzd d* Adamo Smitb , che le mire più personali ed ignobili hanno partoriti gli effetti più salutari , mi sembra profondamente vera , e che sparga molta luce sul presente argomento. Oltre la prova eh' egli ne adduce nel lusso de' feudatari che ne diminuì la prepotenza, io soggiungerei: e i comuni dell' Inghilterra non debbono forse la loro franchigia e l' esistenza al bisogno che aveano i re dei loro sussidi? Bene il dimoiUò Hailam.

e*

XXXII CONSIDERAZIONI

senza una centralità di poteri e senza formare, collo spejrnere la pre- potenza dei Grandi o feudali o condoUien di milizie, una tanieria cit- tadina, eh' è la nazione dei campi; dove lo consi};lia a farsi amare dai pop')li anziché a maniener fazioni e fortezze, a balere i pochi e aver dalla sua l'universale; e quando propone T esempio di Ferdi- nando il Cattolico, tanto nemico ai baroni, sopra i quali, come dice, acquistò riputazione ed imperio; quando biasima il re di Nupoli ed il duca di Milano, perchè non procacciarono di avere amici i popoli ed assicurarsi dei grandi; non manifesta ej? li i medesimi principii? In conclusione, il contesto del libro del Principe c\ fa palese il pensiero di ridurre in atto il disegno dei principi di quella età , coir abbassare la fortuna dei grandi, col rendere docile, unito e soddisfatto il po- polo, e col procurare allo Stato una potenza centrale.

Senonchè i pensieri di Machiavelli non furon sempre monarchici: nel Discorso sulla riforma di Fireme e in parecchi capitoli dei Dis- corsi sopra Tito Livio egli manifesta eziandio una tendenza repub- blicana, segnatamente per ciò che concerne la sua patria. tampoco si può dire che fosse contrario in lutto ai gentiluomini; perocché, se dair un canto afferma quivi < « che in Romagna , in Terra di Roma, nel regno di Napoli e nella Lombardia essi eran nemici d' ogni civiltà, onde vi bisognava una mano regia che ponesse freno alla loro eccessiva corruttela; > per altra parte asserisce pure' < che colui il quale , dove sia assai egualità , voglia fare un regno , non lo potrà mai fare, se non trae di quella equalità molli d'animo ambizioso e inquieto, e quelli fa gentiluomini in fatto, donando loro castelli e possessioni; acciò posto in meiM di loro , mediante quelli mantenga la sua potenza , ed essi me- iiante quello la loro ambiiione. »

Ricercando or dunque il motivo di codeste varietà del Segretario, per cui ora apparve fautore di principali, ora di repubbliche, ora volle deprimere i gentiluomini castellani, ora introdurli, io stimo di tro- varlo nella slessa natura della di lui politica. Per poco che uno si dia ad osservarne le azioni e gli scritti, si accorge di leggieri, eh* egli era V uomo delle circostanze, il quale variava col variare di quelle; ma , non che il suo vario procedere nascesse da debole o volubile in- gegno o da turpe egoismo , egli lo reputava richiesto dall' utile pub- blico, e in esso riponeva la maggiore virtù politica. Rideva degli uo- mini speculativi, i quali sognan repubbliche e principati che non si sono mai visti conosciuti: voleva andar dietro alla verità effettuale della cosa piuttostochè all' immaginazione di essa, e non lasciare quello che si fa per quello che si dovrebbe fare: affermava, essere

* Nel lib. I, cap. 65, dei Discorsi, t Ibidem.

I

SUL LIBRO DEL PRINCIPE. XXXUI

mollo discosto da come si vive a come si dovrebbe vivere: coi due opposti est'iìipi di Pier Soderini e di pupa Giulio II diinosiiava che a voler sempre avere buona fortuna , conviene riscontrare il modo del procedere suo coi tempi. * PerUmto queste istesse raj;ioni, che nel Principe gli fecero vari;ire i consij^li secondo che si tratti d' un prin- cipato ereditario o misto o nuovo al tulio, e che anche nei Discorsi lo indussero a cangiare il tenore ne' suoi precetti colcangiarsi degli accidenti, queste istesse lo mossero alle varieià di cui parliamo. Se- gretario qual fu, per tanti anni e con tanto zrlo, d'una repubblica democratica, egli ebbe per l' ordinario una tendenza repubblicana; ma non sì, che giusla gli esposti principii il variare delle circostanze non la variasse. Nel tempo della sua legazione a Cesare Borgia, gli parve che quest'uomo, il quale a tristi qualità univa mollo valore, molta perizia politica e fermezza, tra pel sostegno dell'armi francesi e delle ecclesiastiche , e pel concorso di favorevoli congiunture, fosse il solo che potesse ridune l' Italia sotto una sola signoria , e purgarla dalle vecchie magagne di quei baroni , di que' piccoli signori o li- ranni, di quelle perpetue fazioni, e, quando che fosse, liberarla al- tresì dalle scorrerie e dominazioni straniere. Il contesto della detta Legazione e del libro del Principe ^ mi pare che ci chiarisca, essere a Machiavelli o prima o poi entrato nell' animo codesto pensiero, e che egli vi abbia per qualche tempo fatto su fondamento: massime il capitolo settimo e il ventesimosesto il danno a diveder chiaramente. Che quello poi fosse il disegno del Valentino, non può rimanerci in forse, considerato quanta fosse la lui ambizione, quanta la po- tenza, e quali Stati agognasse l' anno islesso che morì papa Alessan- dro. Basti il dire, che questi avea già proposto al sacro collegio di conferirgli il titolo di re. Ma V esser morto suo padre nel tempo eh' ei purè trova vasi malato a morte, fu la rovina sua; al che allude il Se- gretario in un luogo di quel capitolo dove esorta il suo principe a farsi capo della redenzione d' Italia: benché ^ egli dice , in fino a qui si sia mostro qualche spiracolo in qualcuno, da poter giudicare che fosse ordinato da Dio, nientedimeno si è visto dappoi, che nel più alto corso delle albioni sue è slato dalla fortuna reprobato: » le quali pa- role forniscono di manifestarci qual fosse l' intendimento e di Ma- chiavelli e di Cesare Borgia.

Mancalo questo spiraglio, e non vedendone alcun altro, Machia- velli riprese i consueti pensieri repubblicani. Poi, quando i Medici furono rimessi in istato, e tanto prosperarono nella prosperità di papa

* Vedi il Principe, cap. ib e altrove j i Discorsi, lili. Ili, cap. 9. 2 Vedi inoltre il Discorso Del modo di tratiare i popoli della Val (tt Chiana,

XXXIV CONSIDERAZIONI

Leone, gli parve di scorgere un allro raggio di speranza dapprima in Giuliano, appresso in Lorenzo, duca d'Urbino; il quale, già imparen- talo colla Casa reale di Francia e divenuto signore di Firenze, erasi dato ad ambiziosi disegni e ad ardile speranze; e, come dice Roscoe,< < si supponeva, e forse non sema ragione, che col soccorso di Leone X e del monarca francese intendesse impadronirsi di Siena e di Lucca , ed unendo a questi Stati il ducato d' Urbino è lo Stato pure di Firen- %e , stabilir per tal modo un dominio esleso dall' una all' altra costa d' Italia. B Io dubito eh' egli vi avesse T altitudine del Borgia; ma ad ogni modo, ne pareggiava la vastità delle mire d' ingrandimento; e se fosse vissuto più a lungo, e papa Leone lo avesse secondato , chi sa s'ei non vi sarebbe riuscito? Certo, il Segretario non ne dispe- rava in quell' auge della fortuna pallesca ; e ben Io dimostra nel preallegalo capìtolo,' dove effettivamente esorta Lorenzo alla grande Impresa ed a seguire l'esempio del Valentino. L'Arlaud non crede a quella esortazione, affermando che molte volle il pensiero non va così lontano come le parole; che Lorenzo, pel suo mal fermo stato di Firenze e per la corta vita dei pontefici , non polea concepire un sif- fatto disegno; e che Machiavelli, alla (ine, avea mandato a quel principe il suo libro n^n per divolgarlo, ma per lui solo, e non per altro che per averne un impiego. Ma io per Io contrario ho multe prove a credere che quivi egli facesse da vero. Prima cosa, parec- chie delle difficoltà che aveva papa Alessandro a voler far grande il Duca suo figliuolo, cioè di non poterlo farsignore d'alcuno Stato che non fosse Stato di Chiesa , e dell' essere alcune città di questo sotto la protezione del Veneziani, non le aveano papa Leone e Lorenzo: lo Stalo di Firenze costituiva per medesimo un potente dominio, e la generosità Leone verso i nemici della sua famiglia gli aveva af- fezionali gli animi dei Fiorentini; giovine era il ponlelice e potente per gli acquisti di papa Giulio , ai quali egli aggiunse Urbino , Modena e Reggio; e già, come abbiamo da Guicciardini e da Roscoe, me- diante l'alleanza francese avea fallo disegno sopra Ferrara, Parma e Piacenza, sopra tutta la Toscana e sul Regno di Napoli; fu lon- tano dal pensare a liberar l' Italia dalla dominazione straniera. Ben- ché interrotto dalle circostanze, manifesto appariva in lui a quando a quando anche il pensiero di ingrandire la propria famiglia ; ^ tal-

< iftor/a del Pontifcato di Leone X.

Ventesimosesto.

' La tenerezza che Leone avea mostrata per promuovere l'avanzamento del di lui nipote, e i modi dispendiosi e pericolosi ai quali avea ricorso per questo fine, sono pure dichiarati da Roscoe. Vedi la Storia del Pontif- calo di Liont X. Vedi ancha il Muratori, Àtmali d' Italia, anno i514.

SUL LIBRO DEL PRINCIPE XXXV

che, se pur contradisse talora ì vasti concelti di Lorenzo, sembra che noi facesse per altro, se non perchè i tempi non ne erano per anco maturi. In breve, l'impresa non appariva superiore alle forze dei Medici: voglioso erane il nipote, non alieno lo zio; molte parole ovunque ne correvano: qual maraviglia che Machiavelli la giudicasse probabile? Il desiderio di veder sorgere chi guarisse l' Italia dalle sue piaghe infistolite , e vi ponesse fine agli stranieri insulti , desiderio di Dante, di Petrarca e di parecchi altri, non era per ancora estinto fra gl'Italiani dalla dominazione spagnola: papa Giulio II, che il nutriva con ardente animo, fece il potere per mandarlo ad esecuzione, e noi depose che con la vita; ed anche l'Ariosto * ne dei barlumi: or come poteva esservi straniero il Segretario , che nel trattare e di sto- ria e di politica e di guerra non sapea mai dimenticarsi la gloria e la grandezza romana , sospirando il ritorno di que' tempi in cui l' Ita lia, anziché riceverla, dava legge al mondo? Il gran principio della centralità, senza di cui uno Stato non può prosperare soste nersi a lungo, non era ignoto a quel robusto intelletto, come appare da parecchie delle sue scritture; e quando nei Discorsi afferma * « che alcuna provincia non è mai unita a felice , se la non viene tutta al- l' obbedienza d' una repubblica a d' un principe , cnm' è avvenuto alla Francia ed alla Spagna, » e duole « che l' Italia non sia in quel me- desimo termine , » dimostra evidentemente eh' egli le desiderava un principe del fare di Ferdinando il Cattolico; di Ximenes e di Luigi XI. E la sua Arte della Guerra, in cui non meno che nel Principe e nei Discorsi egli esorta i governi ad avere armi proprie e buone fanterie, non rivela forse in lui la speranza di suscitare un futuro conquista- tore italiano che soggiogasse tutti gli Stati d' Italia e la liberasse dalle invasioni straniere ? « Qualunque di quelli che tengon oggi Stati in Italia, egli vi dice,' prima entrerà per questa via , fia prima che al- cun altro'signore di questa provincia . . . Essa par nata per risuscitare le cose morte, come s'è visto della poesia, della pittura e della scul- tura . . . interverrà a questo Stato come al regno dei Macedoni sotto Filippo e sotto il figliuolo. » Lo stesso calore persuasivo del celebre capitolo che andiamo esaminando, calore il quale non poteva essere infuso nell'animo che da un vero e forte sentire, sempre più ci con- vince di quanto asserisco; e ce ne fa por giù ogni dubbiezza il vedere proposto ad esempio del principe nuovo, eh' ei volea formare in Lo- renzo, il duca Yaleniino; il quale, come si vede e come dice il Se-

* E Gianantonio Flamminio , e Polidoro Vergilio nel libro De Prodigiist dedicato a Francesco Maria, duca d'Urbioo. 2 Lib. I, cap. 12. » In fine.

XXXVl CONSIDERAZIONI

greiario, avrebbe redenta l' Italia , se non lo avesse reprobato la for- tuna. Codesto esemplare aveva insieme con papa Alessandro princi- piata e quasi condutla a fine in Romagna V impresa di Luigi e di Ferdinando.*

Ma, quandacol mancar di Lorenzo mancò ancor questo secondo spiraglio per la redenzione italica, altri concetti dovettero natural- mente entrare nella mente di Machiavelli. Per la morte di quel prin- cipe, il pontefice trova vasi il solo maschio legittimo della discendenza di Cosimo; e, conforme osserva il Segretario istessu nei Discorsi,* « la Chiesa, che teneva imperio temporale in Italia, non era si potente di tal virtù, che ne potesse occupare il restante: » e di fatto, se un papa esser poteva in istalo di procacciare ad un Aglio, ad un nipote il dominio dell' Italia , secondo che fu visto per F esempio di Alessan- dro VI , non pare che il potesse acquistare per sé: « /a dignità pontifi- cia, come avverte Roscoe, era difficilmente compatibile coli' assumione e coli eterciiio d' un tal potere. » Ditrerenii circostanze suscitarono adunque in Machiavelli differenti pensieri.- Nulla essendo più ormai del pensare z ridurre V Italia sotto una sola signoria, le cure e le sollecitudini di lui concentraronsi tutte nuovamente in Firenze; e pa- rendogli di trovarvi una grande equalità, com'egli pur dice, sicché facilmente vi si potesse costituire una repubblica, nel Discorso sulla Riforma di Fireme, ch'egli compose ad istanza di Leone X, lo Irò- viam pendere manifestamente io animo repubblicano, t Essendo ve- nuta, egli dice, la cosa in termine, com'è per la morte del Duca (cioè di Lorenzo de* Medici) , si ha da ragionare di nuovi modi di go- verni ; > e più sotto: quanto ni principato, io non la discorrerò par- ticolarmente, si per le difficoltà che vi sarebbero a farlo, si per esser mancato l' istrumento (il Duca predetto): » ne divei*so egli si m(»s(ra in alcuni capitoli dei Discorsi. Che fusse in Firenze tanta eqiialiià da potervi inlrudur facilmente un viver civile, secondo che atTerma il Segretario, io ne dubito forte, giusta quello che ne dissi di supra; anzi, a dir vero, egli stesso, nel capitolo cinquantesiinoquinto del libro primo dei Discorsi, mi pare che venga a contraddire quanto in tale proposito avea detto nel capìtolo quarantesimonono e nel /dis- corso sulla Riforma di Firenie, dove parla del predominio che avea- no le parti in essa città, le quali iniprdivanla dell'avere uno stato che potesse veramente chiamarsi repubblica : il che io pure dimostrai

* Il celebre Ranke , nella sua Critica di alcuni storici moderni, opina an- ch' egli che il pensiero di Machiavelli fosse quello di salvar i' Italia mediante il vigoroso dominio di un sol uomo; e che perciò coa6dossi in Lorenzo dei Medici , di fiero e risoluto carattere.

S Mei Uh. 1, cap. 13.

SUL LIBRO DEL PRINCIPE. XXXVil

nel luogo accennalo. Ma ciò sia dello così per iransito: baslimi che Machiavelli a seconda delle circostanze ora fu ordinalore di princi- pali, ora di repuhbliche. S'io m;»l non mi appungo , era in lui un'al- lernazione di amore per la repubblica , e di amore per l' indijiendenza italica da effettuarsi per mezzo dell' unità monarchica ; gli avveni- menti risvej^liavano or questo affetto or quello; ora sorgeagli in mente il fatai cerchio delle umane cose, ora ripij,'liava le abitudini re- pubblicane. L'ondeggiar che faceano allora le ciilà italiche in scam- biamenti repubblicani e monarchici, effettua vasi pure nelle considera- zioni pratiche del Segretario: egli era in lutto un riflesso de' suoi tempi. Oa ragione o a Iorio, questa fu insomma la maniera da lui costantemente seguila, il variare a norma delle circostanze: maniera non dissimulata, ma fatta aperlamenie palese a chiunque la legga: ond' è, che altri forse potrà dire aver esso seguita una falsa via, ma non mai provare che cangiasse natura ne apparenza.

Per (juello poi che concerne i gentiluomini, le sue massime non lasciano di esser conformi e alla sana politica ed alla condizione dei tempi. Voleva egli il principe nuovo fare un regno dove fosse assai eqiialiià, com'era a dire in Firenze? ' Per comprimervi la tendenza repubblicana , propria di siffatta equajità, massimamente in quei riot- tosi «empi, era necessario il costituirvi una nobiltà. A fine di impe- dire l'urto ed il conflitto dei due principii monarchico e popolare, che sarebbe avvenuto qu;dora fossero stati in cospetto 1' uno dell' al- tro, doveasi effeiluare codesto gradualo passaggio dal principe al po- polo, onde se ne rendesse insensibile la disparità, e ad un tempo si- cura la forza monarchica mediante l' appoggio delle classi intermedie. Gli stati dispotici, che son privi d' una graduazione sociale , van sog- getti perciò a quelle terribili sommosse, in cui si passa dal muto e cieco <d)bedire alla licenza, dalla venerazione alla rivolta; come di- mostrano le storie orientali, piene di sanguinosi ed atroci falli. S'ag- giunge, che la nobiltà interessa i grandi alla stabilità del governo, da cui emanano ed a cui sono essenzialmente inerenti le loro pre- rogative : e, come dice il Segretario, ^ « un principe solo , spogliato di nobiltà, non può sostenere il pondo del principato; ond' è necessario che tra lui e /' universale aia un me^^^o che l' aiuti sostenerlo. » S' ag- giunge, che giusta il mentovato cenno di esso Machiavelli, ' a cui Consuonano le sentenze di Condorcel e di Bentham,*» l' insti turione della nobiltà ereditaria è un ottimo meno per addormentare V inquie-

* Secondo il parere di Machiavelli.

2 Nel Discorso sulla Bifornia di Firenze. ' Nei Discorsi , lil). I, cap 55.

* Traile des récompenses : e si noli , che essi non erano aristocratici.

XXXVIII CONSIDERAZIONI

tudine febbrile e le perpetue gelosie da cui sono tormentati gli uomini quando tutti si risguardano come uguali ; e la certeaa di vedersi ri- spettato è un preservativo contro quella vanità irrequieta ed ombrosa che dovunque scorge V insulto o suppone il dixpreao ; passione impla- cabile che col male che fa si vendica del dolore che soffre. » Se altri poi mi domandi, perchè fn cambio dei nobili di dignità e di ripiiia- zione, cóm' erano allora i Veneziani e prima i Romani, Machiavelli proponga quivi i nobili feudali , che non piacciono debbon piacere ai polìtici odierni, risponderò, ch'egli giudicava propri quelli d'una repubblica, questi d' un principato;* il quale, secondo eh' egli avvisa nel Principe, dee fondarsi in sul Umore anziché sull'amore dei po- poli,' onde gli fa d' uopo una gran forza , qual è il soccorso d' una nobiltà castellana; la quale, a dir vero, potea farse sembrar neces- saria con un popolo di tendenze repubblicane e licenziose, in un tempo che il principato non avea per anco acquistale le forze che poi acqui- stò col mezzo delle regolari imposte e della centralità delle leggi e cogli eserciti stanziali. ' Per la stessa ragione, anche il Boterò consi- gliò un simile provvedimento. Credevasi, che i principati senza di quella fossero quasi corpi senz' ossa e nervi. L' età ricercava ciò che in un' altra età sarebbe parso improvvido ; e ciò avrebbe pur fatto Lorenzo in Firenze, se pel mancare di lui non vi fosse mancato l' istru- mento a farvi un principato.

Per altra parte, qualora si avessero a riordinare provincie, come la Romagna, la Terra di Roma e il regno di Napoli, in cui , al dire del Segretario, trovavasi gran copia di gentiluomini, nemici d' ogni civiltà, e dei quali era tanta la materia corrotta, che le leggi non ba» stavano a frenarla,^ bisognava far ciò che furon costretti a fare pnpa Alessandro e Cesare Borgia; i quali cogli artifìci! ricordati di sopra, purgarono in panie i dominii loro di codesta eccessiva ambiiione e cor- ruttela, supplendo con quelli alla manchevolezza delle leggi. Indarno si obbietterebbe che il Segretario in questo luogo si mostra avverso ai castellani, dove neir altro vuole che siano favoriti dal principe nuovo. I gentiluomini del primo caso venivano creati dal principe islesso, quelli del secondo aveano avuto origine da usurpazioni an- tiche, e, per usare le parole istesse di Machiavelli, t non per graiia del signore, ma per antichità di sangue tenevano quel grado. » 1 primi

« Vedi il lib. I, cap. 55, dei DUcorH. »Cap. 17.

' Vedi la mia Opera, Delle Differenze polilichefra i popoli antichi e mo- derni, parte prima , La guerra j nella condasione. * Parole del Bolero. 5 Nel Ub. I, cap. l^, dei Discorsi.

I

SUL LIBRO DEL PRINCIPE. XXXIX

pertanto non aveano altre prerogative fuorché (pielle concesse dalle leygi, quindi le necessarie e non più; i secondi, come usurpatori che erano, ne avevano di soverchie, per cui erano divenuti prepo- tenti ed altrettanti sovrani nelle terre loro:* e, dove quelli, rico- noscendo il loro legale principio dal principato, erano interessati alla sua conservazione; questi, avendo un principio illegale ed opposto, agognavano anzi la distruzione d' ogni sovranità centrale che troppo ne attraversava gli ambiziosi e corrotti appetiti. Hallant ^ dimostra che la nobiltà primitiva, eccetto l'inglese, non che derivasse da con- cessioni sovrane, si poteva chiamar creata da medesima; e che la nobilià creata in appresso dai re, concorse a scemare la forza e V in- dipendenza di quella. Gli uni per conseguenza doveano essere ono- rati , gli altri o spenti o abbassati , per fondar poi sulla rovina loro un'altra nobiltà che moderata e legale fosse: il che per avventura avrebbe fatto il duca Valentino, se avesse avuto miglior sorte: e quindi si comprende, perchè Machiavelli, se in parecchi luoghi vuole che si«no o rovinati o depressi i grandi, in altri pur vuole che siano onorati : la diversità delle circostanze inducevalo a dare diversi consigli, come anche si vide in effetto. Che se egli (come è la taccia di alcuni) pensava forse un po' troppo all'utile del principe e troppo poco a quello del popolo, non convien mai dimenticarsi che i politici di quel tempo non ignoravano il gran principio del torna- conto comune, ma credettero necessario il fare dapprima il bene del re, perchè questo, acquistate che avesse contro i pubblici nemici baslevoli forze, potesse fare il bene del popolo.

Ma, per conseguire un tal line, doveasi poi consigliare ai principi il mancare della data fede, l'ingannare, l'aggirare gli uomini? Un tale consiglio si legge effettivamente nel capitolo decimottavo del Principe, ' il quale perciò divenne l'oggetto d»'lle più calde decla- mazioni contro il Machiavelli, Dico pertanto, che non è sarà mai mia intenzione di giustihcare codesto consiglio, corUrario alle mas- sime inalterabili della morale privata e pubblica: ma dove, lasciando da un canto i clamori, propri delle menti superticiali, si voglia guar- dar la cosa un po' più al minuto, credo si verrà a conoscere, che se il Segretario è degno di biasimo, non ne merita tanto quanto gliene danno i suoi detrattori. La sua è una (|uestione non assoluta di ra- gione civile, ma relativa di necessità peculiari. Consentaneo alla sua professione politica, di sopra esposta, egli parla della condona da tenersi nei vari casi e nelle varie condizioni ; quindi ancora di quella

* Vedi la Storia delle Fepubbliche Italiane di Sismondi , tomo 13,

* L* Europa nel medio evo»

5 Ed anche nel libro II, ciip. 13, dti Discorsi. . . . <

d

XL CONSIDERAZIONI

d' an principe nuovo in tempi difficili e malvagi. In fatti, si raccoglie dallo slesso libro del Principe, e da altri lesti dichiarativi delle sue vere intenzioni, ch'egli varia i suoi consigli col variare dei principali. Ai principi ereditari, o d' uno Stato già stabilito e fermo, propone ad esempio la giustizia, l'umanità e la virtù di Marco Aurelio impera- tore; e quanto ai principi nuovi, premette la massima, eh' è lodevole in un principe il mantener la fede e vivere con integrità e non con astuiia : soggiunge, che converrebbe esser buono se tutti gli uomini il fossero, ma siccome p^r esperiema de' nostri tempi (i quali già si vide di che natura fossero) essi sono tristi, e non osserverebbero la fe- de, cosi il prirtcipe nuovo che voglia mantenere il suo stato dee saper talora non osservarla quando bisogna, parer leale, ma non esserlo sem- pre. Ponendo adunque avvertenza a questo lesto, ed osservando eziandio, come il medesimo autore dice espressamente altrove, e che non ti dee partirsi dal bene potendo, ma solo necessitato che la ma- lignità dei tempi impedisce di fare il bene che sarebbe lodevolissimo l'esser buono che conviene guardarsi da tutti i viii; ma ch'egli scrive a chi l'intende, cioè fra tanti che non son buoni * che ad un principe (cioè del secolo decimoquinto) fa d'uopo talora entrare nella via del male e che è meglio esser privato che principe con tanta rovina degli uomini: » mi sembra se ne possa dedurre, che il Segretario già non intese di lodare la slealtà, da lui chiamata un male ed un vizio, ma volle adattare i consigli alle circostanze dell'eia sua, ch'egli non avea fatte nascere consigliate, e che anzi condannava e deplorava, come si scorge nei testi preallogati. Da questo lato io trovo in lui non un moralista o un giurista, ma piuttosto uno storico, uno stati- stico ; il quale, lasciando slare le verità morali che, come dissi, sono inalterabili, parla per modo di eccezione ed in ipotesi di questa poco intelligibile umana natura, e delle cagioni per cui i principi nuovi o si mantenevano nel principato o ne trabocca vano, giusta le cose dette; e quasi mi parche dica al suo principe nuovo : < Assai meglio sarebbe che tu non fossi a queste condiiioni ; ma se pur vi ti trovi , sappi che, qualora tu non faccia com' io ti dico , ci rovinerai sotto. Rela- tivamente agli affari esterni, già vedemmo che all'ambizioso non rimaneva altra facoltà che quella di scegliere fra due tristi partiti; e in ordine agl'interni, vedemmo pure a che inducesse gli statuali di quella età la lor comune debolezza in tanto disordin sociale, e Pur troppo confessar dobbiamo, dice Romagnosi,' la mancama d'un po- tere politico che fosse abbastanta forte per proteggere l' ordine civile ;

* Vedi anche il cap. 45 del Principe.

2 Nei Fattori dell' Incivilimento ^ quando parla dtìHe Signorìe italiane dei lecoU XIV e XV,

SUL LIBRO DEL PHI^CIPE. XU

onde coloro che aveano la confidenza dei signori e sedevano nei loro consigli, sentivano la necessità di supplire alla forata mancante col- l'astinia; e questa piega politica non era prodottane da ignoranza dal rifiuto di eque leggi , ma dal bisogno d' una [or%a accentrata e prevalente. » Non polendosi conseguir l'intento in altra maniera, la polìtica si limitava ad esporre le massime generali per giungervi e mantenervisi.

So bene che i moralisti dimostrano ragionevolmente, non po- ter essere un argomento a giustidcazione del mancar di fede, la pre- sunzione che tutti gli uomini siano sleali ; perchè questa sarebbe un'ingiuria all'umanità, e d'altronde per tal forma ogni promessa po- trebb' esser violata : ma , torno a dirlo, il Segretario in questo luogo non vuol fare il moralista che si rivolge a tutti gli uomini; egli parla ad un principe nuovo de' suoi tempi, il quale, come pur dice, e spesso necessitato , per mantenere lo slato , operare contro la fede ; e bisogna che abbia un animo disposto a volgersi secondo che i venti e le variazioni della fortuna gli comandano: ed allega gli esempi di papa Alessandro e di Ferdinando il Cattolico. Anziché dell' intera umanità, intese adunque parlare di coloro coi quali ebbero che fare ì principi nuovi dell'età sua, e i due ricordati sovrani che in codesta loro im- presa del tòr di mezzo o di reprimere la prepotenza baronesca o ca- stellana, faceauo al certo una gran novità nei dominii loro. I princìpi del suo secolo, i baroni , i signorotti e simili altri, erano gli uomini di cui egli qui evidentemente afferma, che non avrebbero osservala la fede; il che si concilia colla descrizione che poi ne fece nei Dis- corsi^ e con quanto io pure osservai sopra in proposito degli sta- tuali tutti di quella corrottissima età, in cui gli inganni e le frodi erano non solo ordinari, ma, secondo i casi, e apprezzali e lodati. Con simil gente, eh' io non dubiterei di paragonare ai ladri, agli as- sassini, dobbiamo noi maravigliarci se per propria guarentigia si opponeva l' inganno all' inganno? « Lo statista ^ dice a questo propo- silo il Marlens,* dee regolare la propria condotta secondo quella di coloro coi quali egli entra in un negoziato : se gli trova leali e schietti, deve esser tale anch' egli ; ma qualora impieghino V astuzia , egli è pienamente autorizzato a valersi delle medesime armi: e a torto si biasimerebbe un negoziatore che fosse costretto ad operare in tal forma da chi cerca d' ingannarlo , perchè il conseguire il suo fine è quanto v' ha d'essenziale in lui. *

Non dissimulo l'obiezione di alcuni. Quando, essi dicono, con- chìuso che siasi un patto, un trattato, si abbiano indizi e prove ma- nifeste, che l'altro contraente non sìa per osservare la fede, si pu(>

* Guide dìplomatique f etc.

XLII CONS'.DERAZIOM

avere nn giusto titolo per non altenergliela ; ma non già quando gl'in- dizi siano anteriori e non posteriori al contralto, come avverrebbe del pirata, del ladro e di altrettali persone; giacché soggiungono, e perchè dunque, nonosianli quelle antecedenze, patteggiaste coh loro? Se non vi foste li dato, non avreste pattuito con essi. La lot' n^alvagia vita dee bensì distogliervi dal venir seco ai patti; ma, ronchiusi che gli abbiate, se essi non vi diano cagione di fondalo ti- more, voi non avete il diritto di mancare ad essi della data parola. Assai severa è questa morale, lutti i trattatisti la spingono tant' ol- tre: ma io, lasciando la questione indecisa, voglio considerar le cose neir aspetto in cui dovea considerarle il Segretario, Mi si dica per- tanto: nei tristi tempi che allora correvano, quei gentiluomini ca- stellani di Napoli, della Terra di Roma e della Romagna, quei grandi fiorentini che con le sètte rovinavano lo Stato, quei signori che aveano occupati i feudi della Chiesa, gerite, come pur dice il Segretario, ec- cessivamente ambiziosa e corrotta, perniciosa in ogni provincia, nemica d' «)gnl civiltà, un esempio d'ogni scelleratissima vita, che per ogni leggiera cagione commetteva uccisioni e rapine grandissime, per cui I popoli s' impoverivano e depravavano; gente che per conse- guenza opponeva un continuo ostacolo alla civile concordia, alla cen- tralità , ed alla tranquilla e soddisfacente convivenza, non eran forse allrellanii pubblici oeniici ? Come già si vide nel testo preallegato di Romagnosi, e come dice il Segretario istesso in quel capitolo, pur mentovato, dei Discorsi, non v'era poier politico legge che fosse sufficiente a frenire tanta materia corrotta ed a proleggere 1* or- dine pubblico; onde non basiamlo la forza ledale, non bastando le ordmarie vie della giustizia, conveniva supplirvi con T astuzia. Ciò stesso fu udito dire anche Leon X in proposito del Baglioni, se dob- bìain credere all'Anonimo padovano, citato dal Muratori.' Quale altro mezzo rimaneva infatti alla società per la propria conservazione, che è pure la prima legge di quella? I terrbini della ragion di stato non debbono essi dilatarsi in proporzione di codesta legge? Non fe- cero forse di pii"» Pier Gradenigo colla serrata del maggior Consi- glio, Bonaparte col diciotto brumale? Se fosse lecito mescolare le cose sacre colle profane, direi pure: che altro fece Giuditta? Per la necess evidente del comun bene, per guarentirsi e salvarsi dal* l'altrui perfìdie e malvagità , non per farne, la ragione di stati» è non solo un diritto, ma si un'obbligazione naturale e indispensabile. Le frodi e gl'inganni, come asserisce anche Arislolile, hanno talora sovvertiti gli stati. Perchè non si ha da impedire e stornare cdesti mali, e salvare la società coi mezzi istessi con cui si vorrebbe ro-

* Annali d' Italia.

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SUL LIBRO DEL PRINCIPE. ^LIII

vinaria ? II volere con simil gente operare altrimenti , è talvolta un voler tradire e perdere lo Sialo.

« Se alcuno, dice lo Slellìni , * cerchi di conseguire ciò che a buon dritto se gli debba e che dall' altrui iniquità gli sia impedito, convengono e i giuristi e i più severi filosofi, non essere interdetto l' aiutarsi della menzogna a quel fine : e di fatto, sarebbe in filoso fi.a assurdo il dire , che non sia lecito l'opprimere più sicuramente cogli inganni colui che non ingiustamente possa esseve ucciso da noi con maggiore pericolo: imperciocché l'inganno non si oppone più della forza alla ragione naturale, qualora tendano ambedue a perturbare i sociali diritti; e, se nel difendere e pretender questi, la forza è giudi- cata onesta , non può essere disonesto V inganno al medesimo fine im- piegato. » Tanto asserisce l'autorevole moralista; ed a conferma della sua sentenza allega un passo della Ciropedia, dove il padre di Ciro dice al fio[liuolo, che così dee fare il nemico contro il nemico; ed un altro luogo di Senufonle, in cui non altrimenti consiglia il filosofo, anzi pare che in tale proposito reputi migliore l'inganno. Ora, co- desti occupatori delle ragioni della Chiesa, codesti castellani o grandi 0 baroni, di cui parla il Segretario, non erano essi ribelli e malvagi, che, postisi colle violenze loro al di sopra della legge , toglievano ai cittadini la personale e reale sicurezza, ed impedivano allo Stato ogni viver civile? E questi, che venivano dalla loro iniquità impediti, non eran forse i più sacri diritti dell' uomo e della società, la cui con- servazione è non pure concessa ma comandata dalia stessa natura? Se questa vuole il fine, dee quindi volerne i mezzi, e giustificare an- che l'astuzia, se altri non ne rimangano a conseguirlo, fuorché la forza 0 r inganno. ^ La società deve essere dagli estremi pericoli sal- vata ad ogni costo, ed in modo pronto ed eflìcace; altrimenti nena- scon due mali, la mancanza dei beni che non si ottengono, e le pub- bliche sventure che si vanno di di in accumulando: sicché, qualora in così tristi ed imperiose circostanze, che non ammettono trans- azione né ritardo, sorga un astuto potente che in un modo o neir al- tro sia in istato di salvarla, io per me credo che giuridicamente il possa: egli é un nocchiero, che, potendo ei solo salvar la nave da una tempesta, si arroga quell'imperio che gli il pericolo della co- mune sicurezza. Il poter sociale ora fu l' effetto della natura, ora della fortuna, ora dell'arte; ma dove soddisfaccia allo scopo di effettuare una tranquilla e felice convivenza, i cittadini hanno il dovere di uni-

* Etilica.

2 Pensava lo stesso anche Eorico Luden in un suo molto notalnle arti- olo sulla traduzione di Rehl)Crg del Libro del Principe. (Vedi lenaische Algem. Litlerature Zeilung: 1810, p. 81 e seg,)

XLIV CONStDERAZlONt

formarvi gl'interessi e le opere, perchè appunto Io legittima qnel con- seguito scopo e r essenziale socialità, senza di cui gli uomini non potrebbero perfezionarsi tampoco conservarsi: * ma per giungere inque'tempi perversi a codesto slato di cose, erano appunto neces- sari i terribili artifici consigliati da Machiavelli, giaccliè non v'era altra via per uscire da queir intricato e infame labirinto, in cui i malvagi aveano avviluppata la società, e II principe, dice il coscien- zioso Montaigne,' se mai un'urgente circostama ed il bisogno dello stato lo inducano a mancar di fede , e lo gettino fuori del suo dovere ordinario, deve attribuire questa necessità a un colpo della verga di- vina. Non è questo un viiio, avendo egli abbandonata la propria ra- gione ad una più universale e potente ragione ; ella è una sventura di ehi ti trova agretto fra due estremi: sono rari e pericolosi esempi, eccetioni inferme alle nostre regole naturali, e bisogna cedervi. Nis- suna utilità privata è degna che si faccia una tal forxa alla nostra co- scienxa , ma ti la pubblica , qualar sia evidentissima ed importan- tissima. » ^

lo non aggiungo altre parole sa qnesto geloso argomento , in cui per una parte ci sta sugli occhi la necessità politica, per V altra ci trattiene la santità dei patti e della data fede. L'animo mio in grave dubbio propende a quest'ultima; ma in conseguenza delle cose dette, io mi credo in diritto di osservare ad un tempo, non essere stala la politica di Machiavelli al tutto iniqua e scellerata, come vor- rebbero i suoi detrattori. Altro è il lodare, altro il parlare di neces- sità politica: « Non ii può chiamar virtù il tradire, l'essere senta fede ; ma se del male è lecito dire bene , sono codeste axioni straor- dinarie, che, accusandole il fatto, l'effetto le scusa. » Così dice e ripete il Segretario e nel Principe e nei Discorsi. Cosi pure in quel lesto dove dimostra gli inconvenienti delle milizie mercenarie e dei capitani di ventura, ne accenna come conseguenza probabile di essi la necessità politica, per cui il senato veneziano trasse con lusin- ghiere parole il conte di Carmagnuola a Venezia , e poi lo ammazzò. Sono circostanze da evitare possibilmente; ma quando un principe o fatalmente o spontaneamente vi sia incorso, ne nasce di necessità un male cagionato da un altro male. In ciò ini par si racchiuda la somma della politica machiavellica.

Ciò quanto ai grandi e ai prepotenti: rispetto al popolo, potea bastare, come si vide, la forza legale. Ma codesta forza doveva es- sere eccessiva? Pare che Machiavelli cosi consigli nel capitolo de-

* Sa qaesta verità , ch'io tocco appena^tono da vederti le teorie di Roma* gnosi , di Gaizot , di Aacillon, ec. « Etsaù.

fetJL LIBRO DKL PRINCIPE. XLV

cìmoseltinio ; dove agitando la questione, se torni meglio l'esser temuto 0 amato, premette che si vorrebbe essere l'uno e l'altro, e che ami ciascun principe dee desiderare di esser tenuto pietoso e non crudele; ma soggiunge, che ad un principe nuovo è impossibile fug- gire il nome di crudele, per essere gli Slati nuovi pieni di pericoli, e perchè gli uomini (cioè a dire quelli del suo tempo) sono general- mente ingrati, simulatori e riottosi, talché convien tenerli colla paura della pena.* Senonchè troviam qui pure una questione relativa di necessità peculiari. In una età nella quale, come si disse, l'anar- chia e i baroni e i signorotti di città e di castelli aveano pervertito ogni viver civile, il popolo manteneva naturalmente in se i vestigi dei passati disordini. Peggiore ancora della popolare licenza , la tiran- nia degrada ad un tempo e chi la esercita e chi la soffre; essa fa tra- lignare il carattere nazionale e lo corrompe, come dimostrarono i Greci, oppressi già lungamente dal dispotismo ottomano, e come sempre dimostrano in sulle prime gli schiavi emancipati. Or dove non basti l'obbedienza volontaria, non ha forse da supplire la forzata in proporzione del difetto di quella? Non è egli miglior partito l'esser crudele con pochi esempi, che il lasciare con una mal inlesa pietà che i malvagi offendano l'universale? Certo, a questa nostra civiltà non piace il nome di crudele; ma quando io leggo pur nel medesimo ca- pitolo, che in ogni caso il principe non dee procedere contro il san- gue di alcuno, se non quando vi sia giustificaTsione conveniente e ma- nifesta ; che deve astenersi dalla roba d' altri , esser grave al credere ed al muoversi, non farsi paura da stesso, e condursi in modo temperato con prudenza ed umanità, per forma che la troppa confi- derà non lo faccia incauto e la troppa diffidenza intollerabile, e in somma sia temuto ma non odiato; sono tentato a credere che Ma- chiavelli intendesse consigliare una crudeltà che però non eccedesse i termini del giusto, e che a miglior dritto chiamerebbesi severità. Ben era crudele affatto il governo di Robespierre; ma questa di cui parlo, sembrami invece una dura giustizia, fondata sulla necessità sociale. Sono queste le crudeltà che altrove egli chiama bene usale; ' crudeltà che poi si convertono in maggiore utilità dei sudditi ; cru- deltà più di nome che di fatti. In conclusione: astuzia coi polenti, severa giustizia col popolo, indi magnanimità e liberalità nella con- seguente potenza : ecco la divisa del Segretario.

Ma un'altra taccia è data a Machiavelli; quel fondarsi e tomaia sempre sugli esempi dei Borgia. Or io non gli loderò, tampoco gli approverò; Io stesso Machiavelli gli lodò gli approvò in ogni

< Mi semLra che talor anco , Machiavelli giudicaste ^li altri tempi l dai «ttoi. '4

XLVt CONSlDERAZiONt

sao scrino , come appare dalla sua Legatione a papa Giulio II e dai Decennali. Pure la severa imparzialità della storia non potrà mai ne- gare, che o per studio di parte contro una famij»lia che si era in- nalzata sulla rovina di tante case potenti e piene di aderenze , o per la naturale propensione a supporre altri delitti in chi realmente ne commise parecchi, o perchè in quei corrottissimi tempi in cui si teneva possibile anzi probabile quanto di più atroce e nefando imma- ginar sì potesse, la perfìdia dell'età non scomp;4gnava.si dagli scrit- tori ; i vizi ed i misfatti papa Alessandro e del Valentino siano stati esagerati dal Poniano, dal Sannazzaru, da Guido Postumo, dal Guicciardini, dal Giovio, e dair infame Burcardo;' il quale ultimo non pertanto (e questo valga contro Guicciardini ) tace dei supposti amori incestuosi di quel ponteGce, accenna ch'egli morisse di veleno, preparato per altri.» Alessandro era un principe non diverso dagli altri principi del suo tempo: abusò dell' eminente sua dignità, servendosi della potenza spirituale per favorire interessi temporali; ma altri papi di codesta età non fecero forse altrettanto?' Se molto egli operò per T elevazione della sua casa, e per far giungere suo figlio al grado di principe sovrano in Italia, si può imputare lo stesso a Clemente VII e a Paolo III, con questo soprappiù, che il nipote del primo e il IIkIìo del secondo di questi due papi se somi- gliarono il Gglio di Alessandro nei vizi e nella malvagità e fors' anco il superarono, erano ben lungi dal pareggiarne i talenti militari e pulitici. In un tempo che con insigne perfìdia Ferdinando il Cattolico e Luigi XII dividevansi il regno di Napoli cacciandone una reale fa- miglia generalmente amala e rispettata in Italia, e con cui Tuno di essi aveva una stretta parentela, il papa potea credersi autorizzato a far perire alcuni baroni del suo stato, perfidi ed insolenti condot- tieri di truppe mercenarie, amati da queste perchè ne favorivano la licenza, ma odiati dal popolo, che sotto la loro signoria non era, come si vide, giammai sicuro delle sostanze, della propria industria, delle persone, e Roma non godette mai di lunga quiete, finché il papa non acquistò for%e bastanti da frenare la violenta di quelle turbolenti fazioni dei Colonna e degli Orsini, » dice a ragione il dotto Cibrario. * Que* signori , que' principi di Romagna o spode-

< Non parlo At\ Tommasi e del Gordon , perchè gli credo inferiori alla critica; il primo h un Gregorio Leti senza ingegno, il secondo quasi non fa che copiare il Tommasi.

S Raffaele di Volterra e il Muratori dimostrano la morte di papa Alei- •andrò essere succeduta per fehbre tehana.

' Giulio II e Leone X.

* Storia dell' Economia politica del medio evit.

SUL LIÈRO DEL PRINCIPE. XlVII

stati 0 sterminati da lui e dal fi}»liuolo, erano anch'essi feudatari e vicari suoi, che per la maggior parie aveano acquistali i loro prin- cipali coi mezzi di cui egli si valse contro di loro, e che, come pure si osservò, con le uccisioni e con le rapine vessavano e depravavano i loro sudditi;* e, se taluni ^ prolessero le lettere, già non protes- sero ciò che un sovrano dee principalmente proleggere. Secondo che raccolgo dalle memorie dell'età, il loro mal governo era l'éffelto deir angustia e povertà dei dominii loro, e della mancanza d'una centralità, da cui nasce appunto la ricchezza e la forza degli stati, ed alla quale aspiravano ì Borgia. Già vedemmo che da Alessandro in poi i papi cominciarono a fare una miglior figura nel mondo come principi secolari: al che dove si aggiunga, che tutti' si accordano ad attribuirgli un coraggio superiore agli avvenimenti, e una mira- bile eloquenza e destrezza nel trattare gli aflfari ; che seppe governare il popolo, ristabilire nel suo regno la pubblica sicurezza, visitando egli stesso più volte le prigioni, e facendo punire ben sovente i ladri e gli assassini con tutta la severità delle leggi; che per le sue provvisioni la carestia, che desolava il rimanente d' Italia, in tutto il tempo del suo pontiOcato non si fece sentire ne' suoi stati; e che eziandio le arti, le lettere e l'archiginnasio romano trovarono in lui un liberale e costante protettore ; si fornirà di convincersi , che Alessandro, se non fu un buon papa (che certamente noi fu), ne an- che fu il peggiore dei papi, com'è la pubblica opinione; e che se egli con una mano atterrava i prepotenti, assicurava con l'altra e beneficava i popoli.* In materia di storiche indagini io non inclinerei gran fallo a citare l'autorità di Voltaire, di cui è nota la parzialità e la poca coscienza slorica; ma sulla bocca d' uno scrittore tanto ne- mico ai papi, una difesa d'uno di questi mi pare che per quella stessa parzialità divenga preziosa e da non trascurarsi. Ora egli in un ragionanienlo sulla morie di Enrico IV re di Francia, venendo per incidenza a parlare di alcuna di quelle enormità che si appon- gono a papa Alessandro, cosi apostrofa contro il Guicciardini: « tu hai ingannata l' Europa, e fosti ingannato tu stesso dalla tua passione:

* Vedi Machiavelli nei Discorsi al luogo citalo Veggasi anche il Krauts , e il Coqueo, il quale dimostra come i Protestanti aggravarono non poco i falli di Casa Borgia : sempre esagera o travede- 1' amor di setta.

' I Montefeltro, i Varano, te.

' Segnatamente Raffaele di Volterra, il Panvìnio, il Naiiclefo e il Mo- naldeschi. Quest'ultimo lo rhiama: - magnanimo, generoso e prudente, w Può vedersi anche Roscoe , Storia del pontifcato di Leon X.

In Alexandre (ut de Jnnibala lAvins scribit) aquahant vitia virUites, dice il mentovato Raffaele di Volterra; e il Coqueo dice de' suoi nemici: vitia notant, non dignitatem insectanlur.

XLVm CONSIDERAZIONI

odiavi il papa, e troppo credesti all'odio tuo, e agli altri viù e misfatti di quello.

A coloro poi t che chiamano il duca ValenlìDO un mostro , os- serverò che codesto mostro seppe introdurre il primo in Italia rusan7.a anni nazionali, che certo non sembra confarsi alla natu- rai diffidenza d'un tiranno; seppe colla militare perizia, con un co- raggio e con una politica che tengono del miracolo , fondare uno stato che poteva essere il propugnacolo, la salvezza degl' Italiani, e prevenirne le ulteriori sciagure: < e quantunque abbia regnato per breve tempo, pur seppe far gustare in Romagna i vantaggi del suo governo ; lalmentechè, siccome dovette confessare lo stesso Guic- ciardini, nemico dei Borgia, e anche dopo la caduta del Valentino quella provincia stava quieta ed inclinata alla divoiione sua , avendo per esperiema conosciuto, quanto fosse più tollerabile stato a quella regione il servire tutta insieme sotto un signore solo e potente, che quando ciascuna di quelle città stava sotto un principe particolare, il quale per la sua deboleita gli poteva difendere , per la povertà beneficare; piuttosto, non gli bastando le sue piccole entrate a sosten- tarsi, fosse costretto a opprimergli. Ricordavansi ancora gli uomini, egli prosegue, che per V autorità e grande*ia sua, e per l' ammini- ttraiione sincera della giustiiia , era stalo tranquillo quel paese dai tumulti delle parti, dai quali prima soleva esser vessato continua- mente; con le quali opere t'avea fatti benevoli gli animi dei popoli, similmente coi benefiii fatti a molti di loro; onde l'esempio degli altri che si ribellavano, la memoria degli antichi signori gli alie- nava dal Valentino. » Queste lodi che la forza della verità strappò di bocca a chi avrebbe desiderato di fare il contrario, sono una prova manifesta di quanto io già dimostrai; cioè che il governo di codesto tipo del Machiavelli era pur quello che richiedevano i guasti suoi tempi. Ma odasi un altro scrittore, di ben diversa tempera, e che non fu mai V apologista dei tiranni, e Cesare Borgia , dice Sis- monài,* ottimamente conosceva ciò che poteva formare la felicità de' suoi sudditi: manteneva inviolabile la pubblica sicureaa; chiun- que si segnalasse aveva in lui un illuminato protettore; gli uomini d' arme trovavano avamamento negli eserciti e nelle fartene , e lauto pensioni e beneficii i letterati. Insomma lo stato prosperava, e nes- sun Romagnolo poteva sema timore figurarsi il ritorno dei piccoli an-

* Forte, dice MacauTey, sarebbe stato il salvatore dell'Italia, il solo capace di difendere l' indipcndeata del suo paese.

Siimma ceqtiitate popnlor regebat , miitta tiibditonim prcbalione : àict di Cesare Borgia Raffaele di Volterra.

SUL LIBRO DEL PRINCIPE. XLIX

tìchi signori. » Non dobbiamo adunque negar fede a Machiavelli quando affei-ma « che il Borgia aveva racconcia la Romagna, unitala e ridottala in pace ed in fede, e che si guadagnò tutti i popoli], per avere incominciato a gustare il ben essere loro ; » ne tampoco si vuol quindi ricusar credenza allo stesso Valentino, allorché nel suo celebre colloquio con Giiidobaldo da Montefeltro, riportato da Bernardino Baldi, dopo molle parole soggiunge: « che io non sia tiranno (come da' miei nemici per tutto si va dicendo) io non voglio altro testimonio che le città della Romagna , le quali sotto il mio governo hanno co- minciato a conoscere quella tranquillità e quella pace che noti aveano neppur sognata , non che goduta, per l' addietro. * E veramente non so se Urbino siasi trovalo in miglior condizione sotto il gran Guido- baldo, cui mancavano gli elementi di potenza e di ricchezza, ricor- dati da Guicciardini. Del resto, costui e i Varano furono buoni e va- lorosi principi; ma gli altri, che prima del Borgia dominavano la Romagna, meritavano o tutti o quasi tutti l'orrendo fine che fecero, e alcuni il confessarono essi medesimi poco innanzi la morte. In breve, le cose battevano tra l'opprimere e 1' essere oppressi, fra il togliere la vita a un pugno di ribaldi, e la miseria dell'universale. Tali insidie e da tali potenti e facinorosi nemici erano tese al Duca da ogni lato, che, indugiando egli, lo avrebbero finalmente ucciso. Avendo l' animo grande e la sua intenzione alta , cioè d' occupare l'Italia desolata e sconvolta, non poteva operare altrimenti. Bene è il vero ancora, ch'egli fu il commettitore parecchie iniquità, e che nelle sfrenale sue voglie non perdonava a persona; ma, torno a dirlo, gli altri principi del suo tempo non furono migliori di lui: era egli un iniquo, ma un iniquo, sotto il cui reggimento prospe- rava il popolo. La rigenerazione popolare fu nel suo nascere inter- rotta dalla di lui caduta; quindi nella memoria dei più non ne rima- sero che gli iniqui principii, scompagnati dal fine che si stava per ottenerne: assai men fortunato della duca) casa Medici, la quale col fine ottenuto da Ferdinando I e dai suoi discendenti fece dimenticare i principii!

Or conchiudendo dico: se Luigi XI non fu migliore del Valen- tino, e non pertanto si disse di lui, che fu un principe severo ma fece un gran bene alla sua nazione, chi sa se forse non sarebbesi detto lo slesso di Cesare Borgia, dov'egli e la sua casa avessero do- minato lungamente in Romagna? I Romagnoli al certo lo amavano più che i Francesi non amasser Luigi. Se a preparare il regno di Luigi XII e di Francesco 1 furono necessarie le arti del principe accennalo, secondochò dimostrai più sopra, dovrem noi biasiraarlq 4i»c|»§ Mw|ler dice, che 0tìytrq6 etto umaoilà e con giusti^i^.

l CONSIDERAZIONI

al tutto? Se altri fuori dei Luigi e dei Borgia non avrebbero potuto impiegarle « perchè a tal uopo richiedeasi appunto quella (reuienda indole d'uumini , non veniva ad essere la condotta luro una neces- sità politica? lo non voglio deciderlo; ma ben dirò che, posto da un lato il gran disordine sociale che quindi fu tolto, e dall'altro il mezzo per cui lo si tolse, ne viene assai scemalo l'orrore di quesi'uU timo. DeplorabiI cosa è al certo, che vi si dovesse ricorrere por la tristissima condizione dei tempi; ma per le incuncepihili coninuii zioni dell' umana natura, trovansi nelle storie alcuni problemi sociali difficili ed ardui, che non gli può sciogliere pienamente la Ulo* sofla la politica.'

* Non si appartiene al mio assunto di parlare di Lucrezia Borgia , dflla «piale il cosrieniioto Roscoe ba latta una lunga e ragionata apologia, dimo- strando la falsità di quanto le apposero i poeti napoletani, il Burrardo e il Guicciardini. Certuni , a cui sembra che piaccia il ctedcr prohalnle quanto di laido e di nefando spacciarono gli storici ed ì satirici , trovano nel di lei celebre apologista anzi un retore che un critico; ma, oltreché in quella ape- logia rgli adduce dei fatti e non dei 6ori retlorici, i me basta 1' argumrnto dedotto -alla condotta di Lucrezia , poi eh* essa divenne duchessa di Ferrara. Una donna che per parecchi anni seppe inspirare al gentilissimo Pietro Bembo un amore , che ( come affermano il ,Gualteruzzi , 1' Oitrocchi e il Mattuc- chelli j non offese mai le leggi dell' onore , e poi si cangio m reciproca stima ed amicizia ; una donna che fu la protettrice e l' amica del Trissino e di Aldo Manuzio, chiarissimi ambedue per dottrina e per onestà di costumi ; che fu ottima moglie di Alfonso, ed ottima madre di Ercole d'Kste , da loro •mata ed apprezzata 6no alla morte; non poteva esser stata una Taide. Di cotali metamorfosi non si videro ne in Poppea, o'e in Teodora, ne in llianca Cap- pello, aè io altre siflàtle L'età, diue taluno a questo proposito, è un buon mi.ssio- Dario; ma lasciando anche slare che scarsi, incerti e spregevoli sono pur sempre i frutti di codesta, che Montaigne chiama a ragione, virtù catarrosa e vile, provegnenle da sazietà e dai troppi anni anziché da pura o miglio- rala coscienza, Lucrezia quando sali sul trono di Ferrara era ancor giovane , era ancora la più liella principessa del suo tempo. Chi inai leggendo quelle ■uè lettere che ci furono conservate , quelle che tanti uomini illustri le scris- sero da tante parti d'Italia, e le poesie e le opere che le furono intitolate, eziandio da chi pur non aveva alcun interesse ad adularla, testimonianze tutte de' suoi molti e rari prrgi , i t]u»\i , al dire de' più imparziali scrittori ne for- mavano una saggia e colta principessa ; chi mai può indursi a credere cb' ella fosse ad un tempo la figlia , la spos» e la nuora di Alessandro , e che avesse presieduto alle orgie oscene descritte da BurcardoT Considerato pertanto, quale sia stata per confessione di ogni coscienziato storico la di lei viia nel- l'epoca di cui parliamo; considerato , inoltre, che niuna delle colpe anterior- mente appostele fu mai prosata in modo irrefragabile : io non temo di pec- care in soverchia simpatia, se affi-rmo che quelle sono piulloslo da attribuirsi alla tristissima natura de* suoi tempi , in cui regnavano la menzogna e la ca- lunnia . e i quili, licrnzio<>i>>imi essendo, rrndeano crrdiliili le accuse che furie Dol sarebbero stale iu altra età. Finga Villor IIujjo di Lucrezia Bor-

I

SUL LIBRO DEL PRINCIPE. LI

Per buona sorte, già molti e molli anni finirono tra noi que' tem- pi, né più ritorneranno. Subentrata alle divisioni feudali, ai signo- rotti ed alle popolari fazioni, l'unità e la centralità degli Stali; suc- cessi alle licenziose milizie baronesche e mercenarie, gli eserciti nazionali, disciplinati e permanenti, le regolari imposte agl'incerti tributi; e venuti per la crescente civiltà in miglior cognizione dei lor veri interessi i governanti e i governati; la politica è oramai stabi- lita sulle gran basi della potenza armata , della ricchezza nazionale e della giustizia, e la felicità dei popoli è divenuta il desiderio , il bi- sogno e r interesse medesimo dei governi potenti e perciò generosi : i quali sanno inoltre, quale elemento sia della loro poleuza la con- cordia civile, l'unione degl'interessi e quindi delle opere, e il pro- sperare delle rendile private, da cui derivano le pubbliche. Dato an- cora che ciò non fosse, dato che fra tanti sovrani non d'altro solleciti che del bene dei popoli, il quale si accomuna col loro pro- prio, sorgesse un principe del fare di quelli dell'età machiavellica (il che è al tutto improbabile), come potrebb'egli seguire i precetti del capitolo decimottavo in un tempo che l'opinion pubblica, frutto anch'essa dell'odierno incivilimento, è un tribunale terribile pel po- vero e pel ricco, pel debole e pel polente; e che il credito pubblico, da cui nasce la necessità della pubblica confidenza, è uno dei preci- pui elementi degli stati? Invece di mantenersi in isialo, egli ci rovi- nerebbe sono : il contrario appunto di ciò che quivi insegna il Ma- chiavelli. Dirò più: tampoco gioverebbero i di lui artificii in una civiltà così universalmente sparsa; lalmentechè, se il grande politico vivesse in questa età nostra, civile e cólta, terrebbe al certo luit'altra via. solo in ordine alle cose accennale sarebbero odier- namente inopportuni i consigli di Machiavelli ; che altri pur se ne leggono, contrari alle massime politiche comunemente ricevute dai moderni. Le sue soverchie lodi alla parsimonia ed alla miseria dello spendere, dimostrano non aver esso conosciuti i vantaggi d'un mo- deralo lusso, che crea nuove produzioni col creare nuovi bisogni, e fa progredire l'agricoltura mediante le muliiplicate ricerche delle ma- nifatture e del commercio : quando afferma , esser ricchi i popoli dal cui paese non escono denari, e dove sempre entrano e sono por- tali denari, a divedere ch'egli adotta il sistema mercantile, am- plialo poi da Colberl, e che ignora l'avvilimento del contante a causa della sovrabbondanza, e il conseguente alzamento dei prezzi delle al- tre derrate, che tanto nuoce al commercio: dove dice, che i go-

gia quel che gli piace. Concesso, anzi necessario ai poeti è il fingere; ne mai tanto riescono quanto allora che fingono. Ma la severa storia , come fa giustizia dei malvagi, cosi dee pur farla delle malvage calunnie, :, ^

Ln CONSIDERAZIONI

verni ben regolali hanno cànove pubbliche da mr>n«*iare , da bere e da ardere per un anno, non si accorj^e, che una mal intesa carila può ingenerare nei poveri la infingardaggine, la quale divien poi ca- gione d' un aumento sempre crescente di povertà; e che quella sola è una saggia e salutare beneficenza, la quale, anziché un pane pre- cario, procaccia al povero uno slabile ed onoralo lavoro.

D'altra parie però, non posso fare che non aggiunga con Giuslo l-ipsio, avere allresì il Segretario Fiorenlino parecchi pen- sieri fundamenlali, propri di tulli i tempi e di tulli i paesi. La massima t che sempre una mula%ione di governo lascia lo addentel' Iato per l'edificaiione dell'altra; massima la cui verilà efTelluale fu pur troppo dimostrata nei della memoria nosira, sembra am- monire i popoli dell'enorme danno che risulta ad essi dalle rivo- luzioni violente: quella e che le leggi si ordinano secondo ti ben pub- blico, non secondo l' ambinone di pochi; » e T altra che acciò le imposte siano uguali , conviene che la legge e non l' uomo le distri- buisca; » paiono alluiiere ai tanti disordini degli amichi calasti e ca- richi publdici levati arbilrariamente, e quindi iniquiimenie, e quasi indicare il modo per cui P(»mpeo Neri ins(ìlu\ fra noi un censo le- giilimo, ed una giusta e regolare maniera d'imposte: la contrarietà ch'egli mostra verso le coniìscazìoni, ne onora il cuore e riniellelto: allor che dire e che i beneficn si debbono fare a poco a poco, acciò si assaporino meglio, » ci per l'economia delle ricompense un ol* timo precetto, il quale non è sempre osservalo; un altro ne d'im- mensa applicazione quando afferma: e si trova questo nell'ordine delle cose, che mai si cerca fuggire un inconveniente che non si incorra in un altro; ma la prudenza consiste in saper conoscere le qualità de- gV intonvenienti t prendere il manco Insto per buono. > Ma più di tutti (che soverchio sarebbe il volerli registrar qui ad uno ad uno) io trovo degno di molta lode il seguente ammaeslramenlo, citalo al* irove.: t Essere più conveniente andar dietro alla verità effettuale della cosa che all' immaginaxione di essa, » e che molti si sono immagi- nati repubbliche e principati , che non si sono mai visti conosciuti essere in vero; » e e ch'egli è molto discosto da come si vive a come si dovrebbe vivere, » Colali parole di uno che per la conlinna lezione delle cose del mondo, e per la lunga pratica delle corti e degli affari pubblici erasi tanto profondato in queste materie, non doveano mai essere dimenticate: ma, pur troppo, e nella età di Machiavelli e nelle posteriori, o non le Cimobbero o non le curarono gli ulopisli ; e pur troppo, in tempi a noi vicini trovaron costoro chi prestò ad essi cre- denza, onde sorsero siffatte costituzioni di stali e siffatti ordini po- litici f che essendo ìd soverchia discordanza cogli effettivi bisogni so*

SUL LIBRO DEL PRINCIPE. LUI

ciali, non poteano reggersi , e crollavano da so medesimi tra inflnite sventure |)ubbliche e private. Di codesti utopisti, i quali in ogni cosa ricercan l'ottimo senza pensare che talvolta esso è nemico del bene, non è penuria anche al d'oggi. Or possa, dunque, imprimersi bene addentro nella loro memoria quel salutare avviso d'un grand' uomo, il quale peccò, è vero, ma forse più per colpa de' suoi tempi che per la propria, e che a ogni modo fu il rappresentante della politica di due secoli, ed è pure il primo storico e il primo prosatore italiano.

ILLUSTRAZIONI.

A pag. XVII e XLix.

Una prova ancor maggiore del mio assunto è il Proemio delle Effemeridi del Ponlifìcalo di Sisto Quinto, inserito due anni fa nel- V Archivio Storico Italiano;* dove infatti si legge, che lo Stalo Ecclesiastico prima di quel pontefice « vedeva tutte le cose private pubbliche in precipizio e in rovina. » E veramente è un quadro codesto, sopra cui l'occhio non può fermarsi senza spavento e raccapriccio. Or quali erano gli autori di tanta miseria? 1 castellani, i baroni, i signorotti; quelli di cui parlo a carte dicias- sette; quelli cui avrebbero sterminati o abbattuti i Borgia, se il Va- lentino avesse mantenuta e consolidata la sua potenza. Vero è che, come quivi si accenna, vi porse occasione anche « l'indole fiacca di papa Gregorio XIII, divenuto più debole per vecchiezza d'oltre ot- tani'anni; » ma è pure fuor di dubbio, che il don>inio papale, benché salito dopo Alessandro VI in maggiore potenza, nondimeno sotto Leone X, Clemente Vii ed altri papi, ebbe assai che fare con codesti piccioli tiranni , ancora potenti ed infesli, ancora feroci e li- cenziosi. Ciò ch'io ne dico nel testo, e il Minatori ^ e il Sismondi * dimostrano abbastanza la continuazionedi quel disordine. Era un'idra, che andava rimettendo le sue teste, perchè l'uomo tremendo che accennai di sopra , troppo presto venuto in basso da tanta altezza ,

1 PuLLlicato da G. P. Vieusseux in Firenze. Vedi Appendice N. 8, pag. 343.

2 jénnali d'Italia, passim.

5 Storia delle Repubbliche Italiane del medio ct-o, tomo 13.

LIV . CONSIDERAZIONI

non avea potuto troncarle tutte; e perchè i successori di papa Ales- sandro, 0 non avendone i Uilenli e l'energia , o distraiti dalla poli- tica esterna, o non seppero o non vollero seguire le arti dei Borgia, le sole che potessero frenare tanta materia corrotta, e proteggere l'or- dine pubblico in un tempo che non vi bastavano le ordinarie vie della giustizia, come a lungo dimostro nel presente Scritto: arti ter- ribili, ma giustilicate dalla necessità politica; arti richieste dall' im- perioso bisogno d'una forza concentrata e prevalente, e dal dovere di disarmare i prepotenti e porli nell' impossibilità di sottrarsi alle leggi , onde il popolo ottenesse la sicurezza necessaria per pros|»e- rare Dell' industria e nella civiltà: in breve, lo scopo di ogni civile consorzio, fuor del quale diviene ingiusto ogni governo. Se invece di avvilupparsi in leghe e guerre con monarchi assai più potenti di loro, dalle quali non trassero che pochi vantaggi e molli danni e umiliazioni, avessero i papi proseguila l'impresa interrutta dei Bor- gia, 0 il Valentino avesse più lungo tempo regnato in Romagna e avuti successori che l'imitassero; ed essa e il vicino Stato Rom;ino sarebbero andati di bene in meglio nella pace e felicità di cui, come attestano e Guicciardini e Machiavelli e Sismondi, già godevano i po« poli sotto il di lui governo e sotto quello di papa Alessandro; si sa- rebbero evitate le calamità da cui furono afflitte parecchie genera- zioni d'uomini per lo spazio di oltre un secolo; si sarebbe veduta la casa Orsini, e tante altre a lei aderenti, farsi protettrici di infami banditi e masnadieri, e turbar con essi ogni diritto, ogni cosa pri- vata e pubblica, profana e sacra ; i Aeri casi di Vittoria Accoram- buoni avrebbero spaventala l'Italia. Il conseguir queireATetto e l'evi- tare que' mali enormi, per mia fé, avrebbero più giovalo all' uma- Dilà ed all'onore del lemporal dominio dei papi, che non tulle quelle leglre e guerre, e, dirò pure, che non luiti quei soniuosi editici e musei della metropoli pontiRcia. Il primo dovere della sovranità, senza l'adempinicnio del quale vien meno ogni suo diritto, è il pro- curare ai sudditi la tranquilla e soddisfacente convivenza. Che giova il resto senza di questa? Perciò appunto papa Sisto si dette ad eser- citare quella sua famosa giustizia, che parve ai male informali so- verchiamente fiera e crudele; ma le Effemeridi del Gualtieri dimo- strano che era necessaria.' Il Muratori ne'suoi Annali, parlando di codesta mala rana di banditi e malviventi, non dubita di soggiun- gere: e molle storielle si contavano allora delle loro crudeltà e fur-

* Effemeridi del pontificato di Sisto Quinto t icrilte in latino <la Guido GiuUieri da San Ginesio , che ti conservano inedite in un Codice della ricca Colletione Capponi. Finora non ne fu pul>I)licato che il Proemio. Vedi U delta Appendice, N. 8, dth' Archivio Storico Italiano t p»g- 343.

SUL LIBRO DEL PRINCIPE. LV

berie, e si spacciano anche oggidì per cose nuove dai cantimbanchi; » e, dopo aver narrate parecchie ch'egli chiama manifeste crudeltà, lascia che i lettori Taccian qui le loro riflessioni, e e vuol passare a rac- contar cose allegre e sicuramente gloriose al pontefice Sisto. » * Bella maniera invero di levarsi d'impaccio! Così egli pur fece in altre gravi questioni ch'io non dico. Questa bruita lacuna può essere riempiuta dalle mie Consideraùonisul Libro del Principe di Machiavelli, e da quel brano delle Effemeridi del Gualtieri pubblicato dal benemerito Vieus- seux. Nessuno dopo di essi dirà che le enormezze ed astuzie di quei banditi erano novelle di cerretani.

A pag. XIX.

Nel capitolo terzo del Libro del Principe , dove Machiavelli si la- gna che Luigi XII avesse diviso il Regno di Napoli con Ferdinando di Aragona, e messo così in Italia un forestiere potentissimo, egli bensì qualche barlume del costui futuro ingrandimento: ma in un tempo che Carlo Quinto non era ancora salito sul trono dell' Im- pero Germanico delle Spagne, e che l' Italia era ancora contrastala tra i Francesi, gli Spagnuoli, i Veneziani e la Chiesa, e prima delle grandi prove e vicende di Francesco I, come potea prevedersi la preponderanza spagnuola in Italia? Quel Libro fu scritto nel 1513;* nel qual anno in Ispagna regnava tuttavia Ferdinando, gelosissimo della propria autorità che a stento divideva coli' erede di Isabella, Massimiliano in Germania, e Carlo era per anco un fanciullo : e al- lorché questi successe ai suoi potenti avoli, essendo scomparso ogni spiraglio per l'italica indipendenza, Machiavelli avea già deposti i pen- sieri monarchici , com' io dimostro a carte trentasei. Vana essendo oramai ogni cura, vano ogni pensiero di ridurre l'Italia sotto una sola Signoria, le cure di lui eransi riconcentrate tutte in Firenze; in quella sua nobil patria, di cui la morte, sopravvenutagli nel 1527, gli tolse vedere gli ultimi sforzi repubblicani e la miserabil caduta, che fu pure il principio della universale decadenza italiana.

A pag. XXII.

Prima del secolo decimosettimo, i nobili fiorentini , veneziani e lombardi ^ non sdegnavano il commercio ed il lavoro : ma da indi in

* Vedi Jnnali d' Italia , ali* anno 1586.

3 Come appare dalla famosa leUera a Francesco Vettori, in data de' dieci di decemLre lóiiJ.

3 Vedi Pecchio, Storta dell' Economia politica in Italia t lotroduxione.

lVi considerazioni

poi l'influenza preponderante della Spajfna, donde e manifatture e traffichi erano gran tempo in bando, introdusse per tuiia Italia In- sieme colle sue foggia i pregiudizi aristocratici, e quello che da lei ebbe il nome di ozio spagnuido, che reputavano ogni industria, per quanto utile ed onorevole fosse, un' arte meccanica. Le quali scioc- che opinioni ed abitudini lasciaronvi lunghi e profondi vestigi, che ancor dopo la decadenza di codesta monarchia , ancor dopo le felici riforme Maria Teresa e di Giuseppe Angusti , ancor dopo i fiiosoQ e gli economisti del secolo decìmotlavo e le scosse della ri- voluzione francese, ne rimase fra noi qualche traccia. Quanto non stentarono a prendervi stabii piede le grandi intraprese nurcanlili , le società anonime, le strade ferrate, gli studi economici! Si suuie attribuirlo al vivere sedentario d'un popolo agricola, il quale, av- vezzo ad una limitata ed unif<»rme sfera di azione, ai più o men presti proventi, ed alla materiale loro certezza, non è, come dicono, di sua natura disposto ad aspettare i lenti ritorni dei capitali ed Illa fiducia nel cretliio. Ma eran tali i nostri maggiori prima della dominatiune spagnuola T Combinavano essi la coltivazione d'un ter- mo fertilissimo con qnclla dell* industria e della mercatura. Non la fecundità del suolo, non I* agricoltura , ma quella trista influenza produsse e mantenne lungamente in Italia un'avversione airaitività industriale.

A pag. XXX e Lli.

Se Napoleone avesse o meglio compresi o avuti maggiormente a memoria o più apprezzati i consigli di Macliiavelli,' segnata- niente nei capitoli 3, 7 e 9 del Principe, e 26, 37 e 40 del li- bro primo dei Disconi, forse non sarebbe caduto dal trono. Riso- luto ed audacissimo in guerra, in politica, < pigliò talora certe vie del mezzo che gli furono dannosissime: » < le ofl'ese che faceva, non eran fatte in modo che non temessero la vendetta: » f cercò di avere amici coloro che non gli potevano essere amici: te non s;«pcva indursi, egli uomo nuovo, a fare ogni cosa nuova con nuovi uo- mini, > « i quali riconoscendo lo stalo da lui, e non avendo altro appoggio, in lui solo si fidassero. » Insomma, o non seppe o non volle essere V uomo prudente di Machiavelli: il quale (mi perdonino quelle grandi anime di Fouché e di Talleyrand) di queste cose in-

Verri, Memorie ttoriche, pag. 63-64-93 e Mg., dovt cita il decreto del Collegio dei GiareconsulU di Milaoo, del ià93, che escluse i commercianti dalla noLiilà. Emo era il solo corpo municipale che poteste provarla. 4 Eppure lo avea commeotato.

iiUL LIBRO DEL PRINCIPE. tVlI

tendevasi assai più che i politici di Francia , coni* egli pur disse a quel vanaglorioso Cardinal di Roano,' che per l'uzzolo di divenir papa fece il diavolo e peggio: eppure, benché passasse per gran po- litico, non vi riuscì. Qual fortuna per Napoleone, se alle virtù mi- litari di Francia avesse accompagnata la civil prudenza italiana!

A pag. XXXVI.

Entrava egli nell'animo di Machiavelli, che ad effettuare l'ita- liana unità monarchica, di cui parla nei libro del Principe, fosse necessaria l'abolizione del dominio temporale dei papi? Ciò ch'ei ne disse al Cardinal di Roano, ^ e il capitolo duodecimo del libro primo dei Discorsi, non ne lasciano alcun dubbio; e in quello istesso del Principe, al capitolo undecimo, non si vede chiaro, se nel parlare della sicurezza e felicità dei principati ecclesiastici egli facesse da burla 0 da vero , se un encomio o non piuttosto una satira , come anche fece in altre materie consimili. Ma, d'altra parie, i suoi due spiragli per la redenzione d'Italia, chi erano? figlio l'uno, l'altro nipote di un p:ipa. Da chi doveano essere indirizzati e sostenuti nell'ardua impresa? da due papi. La temporale podestà dei ponte- fici, un principato mantenuto dagli ordini anliquali della religione, erdi il primo fondamento a sollevare e costituire il suo principe. Or io domando altresì: e, costituito ch'ei fosse come voleva il Segretario, ne avrebbe il papale dominio veduto sempre di buona voglia l' in- grandimento e la potenza? Secondo ciò che si legge in quel capitolo dei Discorsi, sarebbe avvenuto il contrario. « La cagione che l'Ita- lia non abbia anch' ella, come la Francia e la Spagna, un principe che la governi, è, diceva egli, solamente la Chiesa: il che tiene questa nostra provincia divisa, ed è cagione della rovina nostra; »' con quel che segue. Contradiceva dunque Machiavelli a mede- simo? Lo crederà un lettore superficiale; ma chi attentamente lo esamini e maturamente lo intenda nelle varie sue opere, troverà quella contradizione piuttosto apparente che reale. Era l'Autor nostro, com' io pur dimostrai a carte xxxii e xxxiif, l' uomo delle circostanze, 11 quale variava col variare di quelle; e con esempi antichi e nuovi dimostrava, dovere gli uomini riscontrare il modo del proceder loro coi tenjpi, e secondo questi mutare ordine nel maneggiarsi.* Amava

* Giorgio d* Amboise, arcivescovo di Roaao. Vedi il tap, 3 del liLro del Principe.

a Vedi ibidem.

3 Discorsi, libro I, cap. 42,

* Vedi ibidem , lib. Ili, cap. 9. Lo stesso dice nel lib. I delle Istorie fiorentine.

LVIII CONSIDERAZrONI

e disamava, voleva e disvoleva la persona e la cosa Istessa, secon* dochè i tempi consigliassero di far l'uno o l'altro. In quelle s^ mu- tabili sorli d'Italia diveniva in lui costanza il mutar pensiero. All'io* dipendenza italiana, finché se ne mostrava qualche spiraglio in alcuno, avrebbe sagrificata la libertà di Firenze, che prediligeva pur tanto quando cessava quello spiraglio. Gli avvenimenti risvegiìavan- gli or questo affetto or quello; * ma tutto era pel maggior bene della sua patria e dell' Italia.^ In sino a tanto che il duca Valentino gli parve acconcio alla redenzione italica, lo amò ed apprezzò; poi, quando riprovollo la fortuna, più non curossi di lui, perchè avea cessato di essere un opportuno strumento al suo favorito disegno ìnonarchico ed italico.* Cosi pure nel presente caso piaceagll l'ele- mento ecclesiastico per innalzare il suo ideato edilizio d'un principe italiano; e se mai questo avesse avuto luogo, lo stesso amore della italica unità ed indipendenza lo avrebbe indotto a consigliare Ce- sare Borgia 0 Lorenzo a spezzare lo stromenlo di cui si erano valsi nelle prime lor mosse , a lòr di mezzo il papale dominio tem- porale, che, come dice,* e era cagione che l'Italia non potesse venir tutta sotto un capo. » * Cosi fa la politica che sappia e vo- glia, comunque siasi, accomodarsi alle circost.inze, erit^scire a ogni modo nell'intento suo; non come fece il gonfaloniere Sederini, che perciò appunto rovinò e la sua patria.* Essa muove il cattolico Carlo Quinto ' a far assediare da sfrenali luterani in Castel Sani' An-

* Vedi il testo a carte xxxri e xxxvit.

* m Manlrnere l'indipendenEa fra le hurratrbedi quelle guerre, era per gli Slati italiani difficile impresa. InMacliiavelli noi vediamo lo sfurzo di procacciare un tale bene6cio alla sua patria Firenie, ansi ,p<>tsil>ilmente, a tutta l'Italia. Noi

dolibiamo riconoscere in lui un verace amor di patria L'unita dell'Italia e

l'ultimo scopo de' suoi desideri!... » Vedi Ver Furst des Ntccolò Machiavtlli, uebersetit and eingefeilet von Dr. Karl Riedel, 1S41 ; nel quale anno appunto ia pultLlicava le mie Consideratiom.

* Come dimostra nella sua prima Legazione alla Corte di Roma, quando già le cose del Valentino « andavano ali* ingiù, ed egli sdrucciolava nell'avello.» Lo stesso fa nei Decennali. Era colui già « riprovato dalla fortuna , •» non piìi m ordinato da Dio per la redenzione italica.

* Lib. I, cap. 13, dei Discorsi.

' Per tal modo si può conciliare il mìo pensiero con quello del mentovato Riedel, a pag. 38-39 della sua EinlelUmg alla traduzione del Principe j «eb- bene, a dir vero, egli trascorra un po' troppo, e vegga in Machiavelli troppo più che non comportava il suo secolo.

6 Vedi il lib III, cap. 9 dei Discorsi.

' « Che libri di leligione leggesse questo monarca, non vel saprei dire. Di questa sfigurata religione viene accusato anche Cosimo I de' Medici gran- duca di Fireuxe, » dice il Muratori, Annali d' Italia: kn. i540.

SUL LIBRO DEL PRINCIPE. LlX

gelo quel papa istesso, da cui poi prende riverentemente in Bologna la corona ferrea e i' imperiale ; induce ad allearsi co' Turchi e cogli eretici, contro i cristiani e i cattolici, Francesco I re di Francia, ze- lante persecutore dell'eresia; consiglia Napoleone a giovarsi di Pio Settimo per convalidare la sua assunzione al trono, e poi a privarlo di tutto ciò che contrasta a' suoi ambiziosi disegni : con queste opposte maniere di procedere i famosi monarchi contradicevano a stessi, siccome quelli che con diversi mezzi servivano ad un fine solo, alla politica loro; politica interessata, la quale rispettava la religione e il capo di essa quando vi trovava il suo vantaggio, e non la curava nel contrario caso. E quanti altri prìncipi e repubbliche non la seguirono?* dove almeno quella di Machiavelli mirava ad un nobile e generoso fine, l'indipendenza italiana, per cui, come egli dice, « giusta è la guerra, e son pietose le armi.» 'Dalle quali considerazioni provengono due corollari assai degni di nota: l'uno, che il politico nostro, rispettivamente alla Chiesa, anziché contradire, era pur sem- pre consenziente a slesso; l'altro, che andrebbe assai errato chi sospettasse per ciò in lui un riformatore religioso,' Nei vari suoi scritti non appare alcuna traccia delle dottrine di Lutero e di Cal- vino, quantunque già germogliassero al suo tempo, e preparassero gli animi alla rivoluzione religiosa che stavasi per effettuare o per tentarla; il che poi avvenne quando eravi disposto il terreno, come sempre accade di ogni rivoluzione qualsiasi. * Era egli un politico pratico, non un filosofo, molto meno un teologo; e nella religione non trovava che un mezzo per ottenere un fine politico, conforme chiaro si vede nei capitoli H e 21 del Principe e nei capitoli il e seguenti del lib. I dei Discorsi: ed io mi rendo certo, che se egli fosse nato un mezzo secolo più tardi, allorché la Riforma andava già propagandosi,^ anziché entrare in controversie religiose di cui

< Segnatamente con le scambiate religioni per l'acquisto d'un trono o per UB regio parentado.

2 cap. 26 del Principe. *

5 Come par che creda G.-C. Gervinus (ffist Schrijìen , pag. i 39). Anche nel capitolo primo del HI). Ili dei Discorsi ,\k dove parla degli ordini religiosi di San Francesco e di San Domenico, i quali, come dice, « ritirarono la nostra reli- gione verso il suo principio, »» altro egli non ebhc in animo che di fare una mor- dace salirà dei prelati e capi di essa religione, come pur fece nel cap. 5 del lib. II dei delti Discorsi, e nel cap. II del Principe.

* Vedi il mio Discòrso : Del/e cause da cui derivarono parecchie altera- zioni nelle storie antiche, inserito nel tomo 13 del Giornale dell' I. R. Istituto Lombardo.

* Efficacemente in Germania, nel Norie, nella Svizzera e nei Paesi Bassi; con inutili tentativi in Frapcia ed in Italia.

LX CONSIDERAZIONI

ben poco cura vasi, avrebbe calcolalo, quale delle religiose credenze meglio servisse ai politici suoi fini, e si sarebbe gellato, dove avesse veduto un util maggiore: avrebbe faito quello che pur fecero i principi del secolo decimosesto; de' quali alcuni abbraccia- rono le nuove dottrine, che ne estendevano l'autorità e ne arric- chivan l'erario colla primazia religiosa e collo spoglio delle chiese e dei conventi; altri le perseguitarono, perchè temevano, non forse i novatori religiosi diventassero novatori politici: motivi l'uno e l'al- tro del rapido incremento dell'eresia, delle guerre religiose di Carlo Quinto, delle barbare leggi di Francesco I contro gii eretici, degli orrori delle due Leghe in Francia, e dell'atroce Inquisizione spa- gnuola.' Pei principi di quel tempo fu questa una quistione viepiù di interessi politici che di coscienza:^ età corrotta ed incredula, in cui allo stesso caltolicismo pel ravvedimento e la naturale rea- zione, pel salutare Concilio di Trento e per la migliorata disciplina ecclesiastica, che ne furono la conseguenza, giovò forse la stessa eresia.

e Lutero, dice il preallegato Riedel,' con un po' meno di teo* logia e con un po' più di politica, avrebbe potuto diventare per la Ger- mania ciò che Machiavelli si sforzava di essere per l'Italia; ma egli commise i' imperdonabile errore di annodare a interessi particolari il distacco d' una chiesa tedesca , e così perdette di vista il grande pensiero della patria. Non ,mai stanco dal predicare contro il Gran Turco, rimanevasi muto contro gli interni nemici della grandezza e felicità della Germania: uomo senz'anima per risvegliare il senli-^

* Ferdinando d'Aragona , fondatore della Inquisiiione di Spagna, nella cui corte, com'io pur dissi a carte xxv, •• le promesse erano un larcio. un giuoco i giuramenti, un nome vano la fede, •• ed al quale allude con misteriose parole il Segretario nel e. 18 del Principe j Filippo 11, promotore inderesso di quel tri- bunale , eppur nemico di Sisto Quinto e di Paolo IV , pontefici ; il Cardinal di Lorena, capo della Lega Cattolica, che tiene coi principi tedeschi occulte prati- che per rendere luterana la Francia e divenirne egli il patriarca ; Caterina de'Me- dici, la quale benché fautrice del cattolicismo, scrive al barone des Adrels, che •• te a distruggere l'autorità dei Guisa non gli bastavano i cattolici, armasse pure contro di essi gli ugonotti : questi e gli altri esempi già ricordati , dimostrano evidentemente la verità del mio asserto Vedi a m.-iggiore illustrazione il Saggio Isterico di Eugenio Alberi sulla Vita di Caterina de' Medici, alle pagine 60 e 456; e la Bevue des Deiix MondeSy T. XI V, nouvelle sèrie ^ pag. 6>)0 et suiv.

' « Ce n'est pas, à proprement parler, une affaire de religion , mais une affaire politique; » scriveva all'ugonotto barone dei Adreta la cattolica Cate- rina. « Par quelque voie que ce fùt, » soggiungeva essa, « pour le lervice de Dieu. la de'livrance du roi et de la reine, et conservation de son e'tat. £ fu orribilmente obbedita. Vedi Revtie des Deitx Mondes , al tomo citato.

' Ibidem , pagina 40.

f

SUL LIBRO DEL PRINCIPE. LXI

mento nazionale. Slava in poter di Lutero lo scongiurare le tempe- ste e le indicibili sciagure della guerra dei trent'anni, di cui potè vedere egli stesso a' suoi giorni i lampi precursori, e quelle altresì, che hanno ancor da venire sulla nostra cara patria. » Piacemi ve- ramente di vedere questo dotto e generoso Alemanno giustificare le dottrine del nostro grande politico, e comprenderlo assai più che non l'abbian compreso parecchi letterati italiani:* credo anch'io, che Luiero fece male di teologizzare senza modo; ma non so, se il famoso riformatore avrebbe potuto « essere per la Germania ciò che Machiavelli si sforzava di essere per l'Italia. » Il potentissimo e dispotico Carlo Quinto, quel solo che potesse allora effettuarvi il disegno della unità monarchica, non avrebbe avuto la pazienza ne il bisogno di ascoltare le libere parole dell'audace frate di Eisle- ben: il sentimento nazionale che anima odiernamente i popoli te- deschi, mal poteva essere suscitalo in quelle masse peranco rozze ed ignoranti, viepiù alte a seguire il riottoso sarto di Leida o la mistica parola d'un nuovo predicante, che ad intendere un politico o un filo- sofo; e il solo tentarlo gli avrebbe inimicati que' principi, l'aiuto dei quali eragli indispensabile per sostenere la sua riforma e salvare la propria persona contro la potenza imperiale e pontificia. Che sa- rebbe avvenuto di Lutero e della sua dottrina senza codesto aiuto? Se il principe di Machiavelli dovea generalizzare ed unire per otte- nere il suo intento, alla dottrina luterana conveniva lo speci;dizzare ed il dividere per diminuire le forze de' suoi avversari e propagarsi al sicuro.

* Che ancor quando yoglion fare il Blosofo o il politico non sanno uscire dei termini della rettorica: eppur noa mancano di ammiratori!

IL PIUNCIPE,

NICCOLÒ MACHIAVELLI AL MAGNIFICO LORENZO

DI PIERO DE MEDICI.

Sogliono il più, delle volle coloro che desiderano acquisl'are grazia appresso un Principe, (arsegli innanzi con quelle cose che intra le loro abbino più, care, o delle quali vegghino lui più duellarsi : donde si vede molle volle esser loro presentali cavalli, arme, drappi d' oro, pietre preziose, e simili ornamenti, degni della grandezza di quelli. Desiderando io, adunque, offerirmi alla Vostra Magnificenza con qualche testimone della servitù mia verso di quella, non ho trovalo intra la mia suppellettile cosa, quale io abbi più cara o tanto slimi quanto la cognizione delle azioni degli uomini grandi, imparata da me con una lunga espe- rienza delle cose moderne, ed una continova lezione delle anti- che : la quale avendo io con gran diligenza lungamente escogitata ed esaminala, ed ora in uno piccolo volume ridotta, mando alla Magnificenza Vostra. E benché io giudichi questa opera inde- gna della presenza di quella, nondimeno confido assai, che per sua umanità gli debba essere accetta ; consideralo che da me non gli possa essere fatto maggior dono , che darle facullà a po- ter in brevissimo tempo intendere lutto quello che io in tanti anni , e con tanti miei disagi e pericoli, ho conosciuto ad inteso: la quale opera io non ho ornala ripiena di clausole ampie, o di parole ampullose o magnifiche, o di qualunque altro lenoci- nio 0 ornamento estrinseco, con li quali molli sogliono le lor cose descrivere ed ornare ; perchè io ho voluto o che veruna ì cosa la onori, o che solamente la verità della materia e la gra- ì vita del soggetto la faccia grata. voglio sia riputala presun- [

zione, se uno uomo di basso ed infimo sialo ardisce discorrere e regolare i governi de' Principi : perchè cosi come coloro che disegnano i paesi, si pongono bassi nel piano a considerare la natura de' monti e de luoghi ahi, e per considerare quella de* bassi si pongono alti sopra i monti; similmenle a conoscer bene la natura de' popoli, bisogna esser principe; ed a conoscer bene quella de' Principi, conviene esser popolare. Pigli adunque Vo^ slra Magnificenza questo piccolo dono con quello animo che io lo mando : il quale se da quella fia diligentemente considerato e lello, vi conoscerà dentro un estremo mio desiderio, che lei pervenga a quella grandezza che la fortuna e le altre sue qua- lità le promettono. E se Vostra Magnificenza dallo apice della sua altezza qualche volta volgerà gli occhi in questi luoghi bassi, conoscerà quanto indegnamente io sopporti una grande e con- linova malignità di fortuna.

IL PRINCIPE.

Cap. 1. Quante siano le specie de* principali, e con quali modi si acquistino.

Tulli gli stati, latti i dominii che hanno avuto ed hanno imperio sopra gli uomini , sono stati e sono o repubbliche o principati. I principali sono, o ereditari, de' quali il sangue del loro signore ne sia slato lungo tentìpo Principe ; o e* sono nuovi. I nuovi, o sono nuovi lutti, come fu Milano a Fran- cesco Sforza; o sono come membri aggiunti allo slato ere- ditario del Principe che gli acquista, come è il regno di Na- poli al re di Spagna. Sono questi dominii cosi acquistati, o consueti a vivere sello un Principe, o usi ad esser liberi; ed acquislansi o con Tarmi d'altri o con le proprie, o per fortuna o per virtù.

Cap. n. De* principati ereditari.

Io lascerò indietro il ragionare delle repubbliche, per- chè altra volta ne ragionai a lungo. Vollerommi solo al prin- cipato, e anderò, nel rilessero queste orditure di sopra, dis- putando come questi principali si possono governare e mantenere. Dico adunque, che nelli siali ereditari, e^ assue- falli al sangue del loro Principe, sono assai minori didìcultà a mantenerli, che ne' nuovi : perchè basta solo non trapas- sar l'ordine de' suoi antenati, e dipoi temporeggiare con gli accidenti ; in modo che se lai Principe è di ordinaria in- dustria, sempre si manlerrà nel suo stato, se non è una strasordinaria ed eccessiva forza che ne lo priva ; e privalo che ne sia, quanlunche * di sinistro abbia Toccupatore, lo

* Cosi neir edizione del Biado; e qui significa : per tjnanlo poco.

4*

B IL PRl^CIPE.

racquisterà. Noi abbiamo in Italia per esempio il duca di Fer- rara, il quale non ha retto agli assalti de' Viniziani neir84, a quelli di papa Giulio nel 10, per altre cationi che per essere antiquato in quel dominio. Perchè il Principe naturale ha minori cagioni e minori necessità di offendere ; donde conviene che sia più amato: e se slrasordinari vizi non lo fanno odiare, è ragionevole che naturalmente sia ben voluto da' suoi, e nell'antichità e continuazione del domìnio sono spente le memorie e le cagioni delle innovazioni ; perchè sempre una mutazione lascia lo addentellato per la ediGca- zione dell'altra.

Cap. III. De* principati misli.

Ma nel principato nuovo consiistono le didlcultà. £ prima, se non è tutto nuovo, ma come membro che si può chia- mare tutto insieme quasi misto, le variazioni sue nascono in prima da una naturai difflcultà, quale è in tutti li princi- pati nuovi: perchè gli uomini mutano volentieri signore, credendo mes^liorare; e questa credenza gli fa pigliar l'arme contro a chi regge: di che s'ingannano, perchè veggono poi per esperienza aver peggiorato. Il che depende da un'al- tra necessità naturale ed ordinaria, quale fa che sempre bisogna offendere quelli di chi si diventa nuovo Principe, e con gente d'arme, e con infìnite altre ingiurie che si tira dietro il nuovo acquisto. Dimodoché ti trovi aver inimici (ulti quelli che tu hai offesi in occupare quel principato ; e non ti puoi mantenere amici quelli che vi l'hanno messo, per non li potere satisfare in quel modo che si erano pre- supposto, e per non poter tu usare contro di loro medicine forti, essendo loro obbligato; perchè sempre, ancora che uno sia fortissimo in sa gli eserciti, ha bisogno del favore de'pro- vinciali ad entrare in una provincia. Per queste ragioni Luigi XII re di Francia occupò subilo Alitano, e subito lo perde ; e bastarono a torgliene la prima volta le forze pro- prie di Lodovico: perchè quelli popoli che gli avevano af)erle le porle, trovandosi ingannali della opinione loro e di quel futuro bene che s'avevano presupposto» non potevano sop-

IL PRINCIPE. 7

portare i fastidii del nuovo Principe. È ben vero che acqui- standosi poi la seconda volta i paesi ribellali, si perdono con pili ditTicultà ; perchè il signore presa occasione dalla ribel- lione, è meno respcttivo ad assicurarsi con punire i delin- quenti, chiarire i sospetti, provvedersi nelle parti più de- boli, in modo che se a far perdere Milano a Francia bastò la prima volta un duca Lodovico che romoreggiasse in su' confini; a farlo dipoi perdere la seconda, gli bisognò avere contro il mondo lutto, e che gli eserciti suoi fossero spenti, e cacciati d'Italia; il che nacque dalle cagioni sopraddette. Nondimeno, e la prima e la seconda volla gli fu tolto. Le cagioni universali della prima si sono discorse ; resta ora a vedere quelle della seconda, e dire che rimedi egli ave- va, e quali ci può avere uno che fosse ne' termini suoi, per potersi meglio mantenere nello acquistato, che non fece il re di Francia. Dico, pertanto, che questi stali i quali acqui- standosi si aggiungono a uno stato antico di quello che gli acquista, o sono della medesima provincia e della medesima lingua, o non sono. Quando siano, è facilità grande a tener- gli, massimamente quando non siano usi a vivere liberi; e a possedergli securamente, basta avere spenta la linea de) < Principe che li dominava; perchè nelle altre cose, mante- j nendosi loro le condizioni vecchie, e non vi essendo disfor- mità di costumi, gli uomini si vivono quietamente: come si è visto che ha fatto la Borgogna, la Brettagna, la Guasco- gna e la Normandia, che tanto tempo sono state con Fran- cia; e benché vi sia qualche disformità di lingua, nondi- meno i costumi sono simili, e possonsi tra loro facilmente comportare: e a chi le acquista, volendole tenere, bisogna , aver duoi rispetti: l'uno che il sangue del loro Principe) antico si spenga; l'altro di non alterare loro leggi né\ loro dazi ; talmenteché in brevissimo tempo diventa con il loro principato aulico lutto un corpo. Ma quando si acqui- stano slati in una provincia disforme di lingua , di costumi e d'ordini, qui sono le dilTicultà, e qui bisogna avere gran fortuna e grande industria a tenerli : ed uno de* maggiori rimedi e più vivi sarebbe, che la persopA di chi gli acquista ,Yi andasse ad abitare. Questo farebbe più sicura e più dura-

8 IL PRINCIPE.

bile quella possessione : come ha fatto il Turco di Grecia ; il quale con tutti gli altri ordini osservati da lui per tenere quello stato, se non vi fosse ito ad abitare, non era possi- bile che lo tenesse. Perchè standovi, si vejigono nascere i disordini, e presto vi si può rimediare ; non vi stando, s' in- tendono quando sono grandi, e non vi è più rimedio. Non è, oltre a questo, la provincia spogliata da'Iuoi otTìciali, satis- fannosi i sudditi del ricorso propinquo al Principe : donde hanno più cagione di amarlo, volendo essere buoni; e vo- lendo essere altrimenti , di temerlo. Chi degli esterni vo- lesse assaltare quello stato, vi ha più rispetto ; tantoché abi- tandovi, Io può con grandissima difllcultà perdere. 1/ altro miglior rimedio è mandare colonie in uno o in duoi luoghi, che siano quasi le chiavi * di quello slato ; perchè è neces- sario o far questo, o tenervi assai gente d'arme e fanterie. Nelle colonie non spende molto il Principe, e senza sua spesa, o poca, ve le manda e tiene: e solamente ofTendo coloro a chi toglie li campi e le case per darle a* nuovi abi- tatori, che sono una minima parte di quello stato: e quelli che egli offende, rimanendo dispersi e poveri, non gli pos- sono mai nuocere: e tutti gli altri rimangono da una parte non offesi, e per questo si quietano facilmente; dall'altra paurosi di non errare, perchè non intervenisse loro corno a quelli che sono stati spogliati. Conchiudo che queste co- lonie non costano, sono più fedeli, ofTendono meno: e gli offesi, essendo poveri e dispersi, non possono nuocere, come ho detto. Perchè si ha a notare, che gli uomini si debbono o vezzeggiare o spegnere ; perchè si vendicano delle leggieri offese; delle gravi non possono : sicché l'offesa che si fa all'uomo, deve essere in modo che la non tema la vendetta. Ma lenendovi, in cambio di colonie, gente d'ar- me, si spende più assai, avendo a consumare nella guardia j tutte l'entrate di quello stato; in modo che l'acquislato gli j torna in perdila, ed offende mollo più, perchè nuoce a tutto ( quello slato, tramutando con gli alloggiamenti il suo cscr*

* llMS.Laufenziano, seguito quasi che in tutto nella edltioat Jcl ISI3, ha : siert9 (Jaàsi compedi.

IL PRKNCIPE. * 9

cito : del qual disagio ognuno ne sente, e ciascuno li di- venta nimico, e sono inimici che gli posson nuocere, rimanendo battuti in casa loro. Da ogni parte, dunque, questa guardia è inutile, come quella delle colonie è utile. Debbe ancora chi è in una provincia disformo, come è detto, farsi capo e difensore de* vicini minori potenti, ed ingegnarsi d' indebolire i più potenti di quella, e guardare che per ac- cidente alcuno non vi entri «no forestiere non meno po- tente di lui : e sempre interverrà che vi sarà messo da coloro che saranno in quella malcontenti, o per troppa am- bizione 0 per paura ; come si vide già che gli Etoli missero li Romani in Grecia; ed in ogni altra provincia che loro entrarono, vi furon messi dai provinciali. E l'ordine della cosa è, che subito che un forestiere potente entra in una provincia, tutti quelli che sono in essa men potenti gli aderiscono, mossi da una invidia che hanno contro a chi è stato potente sopra di loro: tantoché, rispetto a questi mi- nori potenti, egli non ha a durare fatica alcuna a guada-^ guarii, perchè subito tutti insieme volentieri fanno massa con lo stato che egli vi ha acquistato. Ha solamente a pen- sare che non piglino troppe forze e troppa autorità ; e facil- mente può con le forze sue e col favor loro abbassare quelli che sono potenti, per rimanere in tutto arbitro di quella provincia. E chi non governerà bene questa parte, perderà presto quello che ara acquistato; e mentre cheto terrà, vi ara dentro infinite ditlìcultà e fastidi. I Romani, nelle provincie che pigliarono, osservaron bene queste parti ; e mandarono le colonie, intrattennero i men potenti, senza crescer loro potenza; abbassarono li potenti, e non vi lasciaron prendere l'iputazione a' polenti forestieri. E voglio mi basti solo la pro- vincia di Grecia per esempio. Furono intrattenuti da loro gli Achei e gli Etoli, fu abbassato il regno do' Macedoni, funne cacciato Antioco: mai li meriti degli Achei o degli Etoli fecero che permettesser loro accrescere alcuno stato, le persuasioni di Filippo gì* indussero mai ad essergli amici senza sbassar}o, la potenza di Antioco potè fare gli con- sentissero che tenesse in quella provincia alcuno stato. Per- chè i Romani ferono in questi casi quello che lutti i Principi

40- IL PRI^XIPE.

savi debbon fare: li quali non solamente hanno aver ri- goardo alli scandoli presenti, ma alli fuluri, ed a quelli con ogni industria riparare; perchè prevedendosi discosto, facil- mente vi si può rimediare; ma aspellando che li s'appres- sino, la medicina non è più a tempo, perchè la malattia è di- venuta incurabile : ed interviene di questa come dicono i medici della elica, che nel principio suo è facile a curare, e dilTicile a conoscere; ma nel corso del tempo, non l'avendo Inel principio conosciuta medicala, diventa facile a co- Doscere, e difTìcile a curare. Così interviene nelle cose dello stato: perchè conoscendo discosto (il che non è dato se non a an prudente) i mali che nascono in quello, si guariscon presto; ma quando, per non gli aver conosciuti, si lascino crescere in modo che ognuno li conosce, non vi è più rime- dio. Però i Romani vedendo discosto gl'inconvenienti, li ri- mediarono sempre, e non gli lasciaron mai seguire per fug- Igire una guerra; perchè sapevano che la guerra non si lieva, ma si differisce con vantaggio d'altri: perù volsero fare con Filippo ed Antioco guerra in Grecia, per non l'avere a fare con loro in Italia ; e potevano per allora fuggire l'una e l'al- tra t il che non volsero ; piacque mai loro quello che tutto di é in bocca de* savi de' nostri tempi, godere li heifiefìcii del tempo ; ma bene quello della virtù e prudenza loro : perchè il tempo si caccia innan7.i ozni cosa, e può condurre seco bene come male, male come bene. Ma torniamo a Francia, ed esaminiamo se delle cose dette ne ha fatto alcuna : e par- lerò di Luigi, e non di Carlo, come di colui del quale, per aver tenuto più lunga possessione in Italia, si sono meglio visti li suoi andamenti; e vedrete come egli ha fatto il con- trario di quelle cose che debbono fare per tenere uno stato disforme. 11 re Luigi fu messo in Italia dall'ambizione de' Vi- niziani, che volsero guadagnarsi mezzo lo stato di Lombardia per quella venula. Io non voglio biasimare questa venuta o partito preso dal re; perchè volendo cominciare a mettere un piede in Italia, e non avendo in questa provincia amici, anzi essendoli, per li portamenti del re Carlo, serrale tulle lo porle, fu forzato prendere quelle amicizie che poteva: e sa- rebbeli riuscito il pensiero ben presto, quando negli altri ma-

IL PRINCIPE.

ncggi non avesse fatto errore alcuno. Acquistata, adunque, il re la Lombardia, si riguadagnò subito quella reputazione che li aveva tolta Carlo; Genova cedette; i Fiorentini gli diventa- rono amici; marchese di Mantova, duca di Ferrara, Befitivogli, madonna di Furlì, signore di Faenza, di Pesaro, di Rimino, di Camerino, di Piombino, Lucchesi, Pisani, Sanesi, ognuno se li fece incontro per esser suo amico. Ed allora poterono considerare li Viniziani la temerità del partito preso da loro; i quali, per acquistar due terre in Lombardia, fecero signore 1 il re di duoi terzi d' Italia. Consideri ora uno con quanta po- ca difficullà poteva il re tenere in Italia la sua reputazione, se egli avesse osservate le regole sopraddette, e tenuti securi 0 difesi tutti quelli amici suoi, li quali, per esser gran nu- f mero, e deboli, e paurosi chi della Chiesa, chi de' Viniziani, i erano sempre necessitati a star seco, e per il mezzo loro pò- ! teva facilmente assicurarsi di chi ci restava grande. Ma egli non prima fu in Milano, che fece il contrario, dando aiuto a papa Alessandro perchè egli occupasse la Homasna. si accorse, con questa deliberazione, che faceva debole, to- gliendosi li amici, e quelli che se li erano gettati in grembo; e la Chiesa grande, aggiugnendo allo spirituale, che gli ék tanta autorità, tanto temporale. E fatto un primo errore, fu costretto a seguitare; intantochè, per por fine all'ambizione di Alessandro, e perché noa divenisse signor di Toscana, gli fu forza venire in Italia. E non gli bastò aver fatto grande la Chiesa, e toltisi gli amici, che per volere il regno di Na- poli, lo divise con il re di Spagna; e dove lui era prima ar- bitro d'Italia, vi messe un compagno, acciocché gli ambi- ziosi di quella provincia e malcontenti di lui avessero dove ricorrere; e dove poteva lasciare in quello regno un re suo pensionario, egli ne lo trasse, per mettervi uno che potesse cacciare lui. ]& cosa veramente molto naturale e ordinaria [ desiderare di acqu stare; e sempre quando gli uomini lo fanno \ che possine, ne saranno laudati e non biasimati: ma quando ' non possono, e vogliono farlo in ogni modo, qui è il biasimo e l'errore. Se Francia, adunque, con le sue forze poteva assaltare Napoli, doveva farlo: se non poteva, non doveva dividerlo. E se la divisioqe che fece con Viniziani di Lombardia, me-

12 IL PRINCIPE.

rito scasa, per aver con quella messo il pie in Italia; questa merita biasimo, per non esser scusalo da quella necessità. Aveva, adunque, Luigi fatto questi cinque errori: spenti i mi- nori polenti ; accresciuto in Italia potenza a un potente ; mosso in quella uno forestiere potentissimo; non venuto ad abitarvi ; non vi messo colonie. Li quali errori ancora, vivendo lui, I potevano non rolTendere, se non avesse fattoli sesto, di tórre Io stalo a'Viniziani : perchè, quando non avesse fatto grande

Ila Chiesa, messo in Italia Spagna, era ben ragionevole e necessario abbassarli ; ma avendo presi quelli primi par- tili, non doveva mai consentire alla rovina loro: perchè es- sendo quelli potenti, arebbono sempre tenuti ^li altri disco- sto dalla impresa di Lombardia ; si perchè i Viniziani non vi arebhero consentito, senza diventarne signori loro ; si perchè gli altri non arebbero voluto tòria a Francia per darla a loro, e andarli ad urtare ambedui ifon arebbono avuto animo. E se alcon dicesse : il re Luigi cede ad Alessandro la Komagna, ed a Spagna il Regno, per fuggire una guerra; rispondo, con le ragioni dette di sopra, che non si debba mai ' lasciar seguire un disordine per fuggire una guerra ; per- , cbè ella non si fugge, ma si differisce a tuo disavvantaggio. ) E se alcuni altri allegassero la fede che il re aveva dato al papa, di far per lui quella impresa, per la risoluzione del suo matrimonio e per il cappello di Hoano ; rispondo ron quello che per me sotto si dirà circa la fede dei principi, e come si debba osservare. Ha perduto, adunque, il re Luigi la Lombardia per non avere osservalo alcuno di quelli termini osservati da altri che hanno preso provincie, e vo- lutele tenere. è miracolo alcuno questo, ma molto ragio- nevole ed ordinario. E di questa materia parlai a Nantes con Roano, quando il Valentino, che cosi volgarmente era chia- malo Cesare Borgia tìglio di papa Alessandro, occupava Ila Romagna: perchè, dicendomi il cardinale Roano che I gr Italiani non s'intendevano della guerra, io risposi che . i Francesi non s'intendevano dello stato; perchè, inlenden- i dosene , non lascerebbono venire la Chiesa in tanta gran- dezza. E per esperienza jìì è visto, che la grandezza in Ita- lia di quella I e di Spagna, è stala causata da Francia; e la

IL PRINCIPE, 13

rovina sna è proceduta da loro. Di che si cava una regola generale, quale non mai o raro falla, che chi è cagione che «no diventi potente, rovina : perchè quella potenza è cau- sata da colui o con industria o con forza ; e 1' una e V altra di queste due è sospetta a chi è divenuto potente.

Gap. IV. Perchè il regno di Dario da Alessandro occu' paté, non si ribellò dalli successori di Alessandro dopo la morte sua.

Considerate le difficoltà le quali si hanno in (enere uno stato acquistato di nuovo, potrebbe alcuno maravigliarsi, donde nacque che Alessandro Magno diventò signore del- l'Asia in pochi anni, e non l'avendo appena occupala, mori; donde pareva ragionevole che tutto quello stalo si ribellassi : nondimeno li successori suoi se lo mantennero, e non eb- bono a tenerselo altra difficultà che quella che infra loro medesimi, per propria ambizione, nacque. Rispondo, come ì principati de' quali si ha memoria, si trovano governati in duoi modi diversi : o per un Principe, e lutti gli altri servi, i quali come ministri, per grazia e concessione sua, aiutano go- vernare quel regno ; o per un Principe e per baroni, i quali non per grazia del signore, ma per antichità di sangue ten- gono qugl grado. Questi tali baroni hanno stati e sudditi pro- pri, li quali gli riconoscono per signori, ed hanno in loro naturale atTezione. Quelli stati che si governano per un Prin- cipe e per servi, hanno il loro Principe con più autorità; perchè in tutta la sua provincia non è alcuno che riconosca per superiore se non lui; e se ubbidiscono alcuno altro, lo fanno come a ministro e ufficiale, e non gli portano particulare amore. Gli esempi di queste due diversità di governi sono, ne* nostri tempi, il Turco e il re di Francia. Tutta la monar- chia del Turco è governata da un signore; gli altri sono suoi servi: e distinguendo il suo regno in sangiacchi, vi manda diversi amministratori, e gli muta e varia come pare a lui. Ma il re di Francia è posto in mezzo d' una moltitudine antica di signori riconosciuti da' loro sudditi, ed amati da quelli; hanno le loro preminenzie; le può il re tórre loro

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senza suo pericolo. Chi considera, adunque, l'uno e l'altro di questi stati, troverà ditTicullà nell* acquistare Io stalo del Turco ; ma vinto che sia, è facilità grande a tenerlo. Le ca- gioni delle ditTicuità in potere occupare il regno del Turco, sono per non potere Toccupatore esser chiamato da' prin- cipi di quel regno, sperare con la rebellione di quelli ch'egli ha d'intorno poter facilitare la sua impresa: il che na- sce dall^ ragioni sopraddette. Perchè, essendogli lutti schiavi ed obbligati, si possono con più dilìlcultà corrompere ;e quando bene si corroiùpessino, se ne può sperare poco utile, non po- lendo quelli tirarsi dietro i populi per le ragioni assegnale. Onde, a chi assalta il Turco è necessario pensare di averlo a trovare unito, e li conviene sperare più nelle forze proprie che ne'disordini d'altri: ma Tinto che fusse, e rotto alla cam- pagna in modo che non possa rifare eserciti, non s' ha da dabilare d'altro che del sangue del Principe; il quale spento, non resta alcuno di chi s'abbia a temere, non avendo gli altri credito con i popoli: e come il vincitore avanti la vit- toria non poteva sperare in loro, cosi non debbe depo quella temere di loro. 11 contrario interviene ne' regni governali come è quello di Francia, perchè con facilità puoi entrarvi, guadagnandoti alcuno barone del regno; perchè sempre si trova dei malcontenti, e di quelli che desiderano innovare. Costoro, per le ragioni delle, li possono aprir la via a quello stato, e facilitarli la vittoria : la quale da poi a volerli man- tenere, si lira dietro infìnile difllcultà, e con quelli che ti hanno aiutato, e con quelli che tu hai oppressi. ti basta spegnere il sansiue del Principe; perchè vi rimangono quelli signori, che si fanno capi delle nuove alterazioni ; e non li po- lendo contentare spegnere, perdi quello stato qualunque volta venga l'occasione. Ora, se voi considerrete di qual na- tura di governi era quello di Dario, lo troverete simile al regno del Turco: e però ad Alessandro fu necessario prima urlarlo tutto e lòrgli la campagna; dopo la qual vittoria essendo Dario morto, rimase ad Alessandro quello stato securo per le ra- gioni sopra discorse. E li suoi successori, se fussino stati uniti, se lo potevano godere oziosi: in quel regno nac- quero altri tumulti, che quelli che loro propri su^citaroau.

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Ma gli stati ordinati come quello di Francia, è impossibile possedergli con tanta quiete. Di qui nacquero le spesse re- bellioni di Spagna, di Francia e di Grecia da*Ronaani, per li spessi princi[)ali che erano in quelli stati: de' quali mentre che durò la memoria, sempre furono i Romani incerti di quella possessione; ma spenta la memoria di quelli, con la potenza e diuturnità dell' imperio ne diventarono securi pos- sessori. E poterono dipoi anche quelli, combattendo ira loro, ciascuno tirarsi dietro parte di quelle provincie, secondo l'autorità vi aveva preso dentro ; e quelle per essere il san- gue del loro antico signore spento, non riconoscevan altri che i Romani. Considerando adunque queste cose, non si ma- raviglierà alcuno della facilità che ebbe Alessandro a tenere Io stato d'Asia, e delle diflìcultà che hanno avuto gli altri a , conservare l'acquistato; come Pirro e molli altri: il che non 1 è accaduto dalla poca o molta virtù del vincitore, ma dalla 1 disformità del suggello. ^

Gap. V. In che modo siano da governare le cillà o primi' pali, quali prima che occupali fussino, vitevano con le loro leggi.

Quando quelli stati che s* acquistano , come è detto, sono consueti a vìvere con le loro leggi e in libertà, a volerli tenere ci sono tre modi. Il primo è rovinarli; l'altro an- darvi ad abitare personalmente; il terzo lasciargli vivere con le sue leggi, tirandone una pensione, e creandovi den- tro uno slato di pochi, che te lo conservino amico. Perchè, essendo quello stato creato da quel Principe, sa che non può slare senza l'amicizia e potenza sua, e ha da fare il tutto per mantenerlo: e più facilmente si tiene una città usa a vi- vere libera con il mezzo de' suoi cittadini, che in alcuno al- tro modo, volendola preservare. Sonoci per esempio gli Spar- tani e li Romani. Gli Spartani tennero Atene e Tebe crean- dovi uno slato di pochi: nientedimeno le perderonp. I Romani per tenere Capua, Carlaaine e Numanzia, le disfe- cero, e non le perderono. Volsero tenere la Grecia quasi come la tennero gli Spartani , facendola libera e lasciandole le sue

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leggi ; e non saccesse loro: in modochè furono costrelti dis- fare molle cillà di quella provincia, per tenerla ; perchè in verità non ci è modo sicuro a possederle, altro che la rovina. E chi diviene padrone di una città cotìsuela a vivere Ubera, e non la disfaccia, aspetti di essere disfatto da quella; per- chè sempre ha per refugio nella rebellione il nome della li- bertà, e gli ordinf antichi suoi, li quali per lunghezza di tempo per beneGcii mai si scordano : e per cosa si fac- cia o 8i provvegga, se non si disuniscono o dissipano gli abitatori, non si dimentica quel nome quelli ordini, ma subito in ogni accidente vi si ricorre ; come Pisa dopo tanti anni * che ella era stata posta in servitù da' Fio- rentini. Ma quando le città o le provincie sono use a vivere sotto un Principe, e quel sangue sia spento; essendo da una parte use ad ubbidire, dall'altra non avendo il Principe vecchÌo7 farne uno infra loro non s'accordano; vivere li- beri non sanno: dimodoché sono più tardi a pigliar l'armi, e con più facilità se li può un Principe guadagnare, e assicu- rarsi di loro. &la nelle repubbliche è maggior vita, maggior odio, più desiderio di vendetta; nèffli lascia può lasciare riposare la memoria dell'antica libertà: talché la più sicura via è spegnerle, o abitarvi.

Cip. vi. De* principati nuovi, che con le proprie armi , e virtù t* cuquiitano.

Non si maravigli alcuno se nel parlar che io farò de* prin- cipati al tutto nuovi e di Principe e di slato, io addurrò gran- dissimi esempi: perché, camminando gli uomini quasi sempre per le vie battute da altri, e procedendo nelle aziorii loro* con le imitazioni, si polendo le vie d'altri al tutto tenere, alla virtù di quelli che tu imiti aggiugnere; debbo un uomo prudente entrare sempre per vie battute da uomini grandi, e quelli che sono stali eccellentissimi imitare, acciocché se la sua virtù non v'arriva, almeno ne renda qualche odore; e far come gli arcieri prudenti , a* quali parendo il luogo dove disegnano ferire troppo lontano, e conoscendo fino a

' U MS. LaureiuiaQo 1 1' edizione del iSlZtdopo cento anni.

IL PRINCIPE. il

quanto arriva la virtù del loro arco, pongono la mira assai più allo che il luogo destinato, non per aggiugnere con la loro forza o freccia a tanta altezza, ma per potere con l'aiuto di si alla mira pervenire al disegno loro. Dico, adunque, che ne'principati in tutto nuovi, dove sia un nuovo Principe, si trova più o meno difiìcultà a mantenerli, secondo che più o meno virtuoso è colui che gli acquista. E perchè questo evento di diventar di privato Principe presuppone o virtù o fortuna, pare che l' una o l' altra di queste due cose miti- ghino in parte molte ditfìcultà. Nondimeno, colui che è stato | manco in su la fortuna, s' è mantenuto più. Genera ancora ^ * facilità l'esser il Principe costretto, per non aver altri stati, venirvi personalmente ad abitare. Ma per venire a quelli che per propria virtù, e non per fortuna, son diven- tati Principi; dico che li più eccellenti sono Moisè, Ciro, Ko- mulo, Teseo e simili. E benché di Moisè non si debba ra- gionare, essendo stato un mer^ esecutore delle cose che gli erano ordinate da Dio; pure merita di essere ammirato solamente' per quella grazia che lo faceva degno di parlare con Dio. Ma considerando Giro, e gli altri che hanno acqui- stalo o fondato regni, si troveranno tutti mirabili: e se si considereranno le azioni ed ordini loro particulari, non par- ranno differenti da quelli di Moisè, benché egli ebbe si grag [yrecettore. Ed esaminando le azioni e vita loro, nonsi ve- drà^clie quelli avessino allro dalla fortuna che l'occasione, * la quale delle loro materia di potervi introdurre quella forma .^Cii.i che a lor parse; e senza quella occasione la virtù dell'animo '

loro si saria spenta; e senza quella virtù l'occasione sarebbe ^ venuta invano. Era, adunque, necessario a Moisè trovare il popolo d'Isdrael in Egitto schiavo, e oppresso dagli Egizi,- acciocché quelli per uscire di servitù si disponessino a se- guirlo. Conveniva che Romulonon capesse in Alba, e fusse stato esposto al nascer suo, a voler che diventasse re di Roma, e fondatore di quella patria. Bisognava che Ciro tro- vasse i Persi malcontenti dell'imperio de' Medi, e li Medi molli ed effeminati per lunga pace. Non poteva Teseo dimo- strareTSTsua virtù, se non trovava gli Ateniesi dispersi. Queste occasioni, pertanto, feciono questi uomini felici; e Tee-

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cellenle virtù loro quella occasione esser conosciuta: donde la loro patria ne fu nobilitata, e diventò felicissima. Quelli i quali per vie virtuose, simili a costoro, diventano Prin- cipi, acquistano il principato con ditTicuItà, ma con facilità lo tengono: e le ditlìcultà che hanno nell'acquislare il prin- cipato, nascono in parte da' nuovi ordini e modi che sono forzati introdurre per fondar lo stato loro e la loro sicurtà. E debbesi considerare come non è cosa più diffìcile a trat- tare, né più dubbia a riuscire, più pericolosa a maneg- giare, che farsi capo ad introdurre nuovi ordini. Perchè Tin- trodutlore ha per nimici tutti coloro che degli ordini vecchi fanno bene; e tepidi difensori tutti quelli che degli ordini nuovi farebbono bene: la qoal tepidezza nasce parte per paura degli avversari, che hanno le leggi in benefìcio loro; parte dalla incredulità degli uomini, i quali non credono in verità una cosa nuova, se non ne veggono nata esperienza ferma. Donde nasce che qualunque volta quelli che sono ni- mici hanno occasione d'assaltare, lo fanno parzialmente; * e quelli altri difendono lepidamente, in modochè insieme con loro si pendila. È necessario pertanto, volendo discor- rere bene questa parte, esaminare se questi innovatori stanno per lor medesimi, o se dependano da altri: cioè, se per con- durre l'opera loro bisogna che preghino, ovvero possono forzare. Nel primo caso, capitan sempre male, e non condu- cono cosa alcuna; ma quando dependono da loro propri, e posson forzare, allora è che rare volte periclitano. Di qui nacque che lutti li profeti armati vlnsono, e li disarmati ro- vinarono: perchè, olirà le cose dette, la natura de' popoli è varia; ed è facile a persuadere loro una cosa, ma è diffìcile fermarfì in quella persuasione. E però conviene essere or- dinalo in modo, che quando non credono più , si possa far loro credere per forza. Moisè, Ciro, Teseo e Romulo non arebbono possulo fare osservar lungamente le loro costitu- zioni, se fussero stati disarmali: come ne' nostri tempi in- tervenne a frate Girolamo Savonarola, il quale rovinò ne'suoi ordini nuovi, come la moltitudine cominciò a non credergli;

' Cio^, con pauiooe e ferocia da faziosi (signiiìcazioDe omeua nel Vocako* tari). U Laurentiano e l' edizione del 1S13 biono : partigianamente,

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e lai non aveva il modo da tenere fermi quelli che avevano credulo, a far credere i discredenti. Però questi tali hanno nel condursi gran dilTicuUà, e tutti i loro pericoli sono tra via, e conviene che con la virtù li superino: ma superati che gli hanno, e che cominciano ad essere in venerazione, avendo spenti quelli che di sua qualità gli avevano invidia, rimangono potenti, sicuri, onorati e felici. A si alti esempi io voglio aggiugnere un esempio minore; ma bene ara qual- che proporzione con quelli, e voglio mi basti per lutti gli altri simili: e questo è lerone Siracusano. Costui privato diventò Principe di Siracusa, ancor lui conobbe altro dalla fortuna che l'occasione; perché essendo i Siracusani oppressi, l'elessono per loro capitano, donde meritò d'es- ser fatto lor Principe: e fu di tanta virtù ancora in privala fortuna, che chi ne scrive, dice che niente gli mancava a regnare, eccetto il regno. Costui spense la milizia vecchia, ordinò la nuova, lasciò le amicizie antiche, prese delie nuove j e. come ebbe amicizie e soldati che fossero suoi, potette in su lai fondamento edificare ogni edifìcio: tantoché lui durò assai fatica in acquistare, e poca in mantenere.

Cap. vii. De*principali nuovi, che con forze d'altri e per fortuna s'acquistano.

Coloro i quali solamente per fortuna diventano di pri- vali Principi, con poca fatica diventano, ma con assai si man- tengono: e non hanno difficullà alcuna tra via, perché vi vo- lano; ma tutte le diflìcultà nascono da poi vi sono posti. E questi tali sono quelli a chi è concesso alcuno stalo o per danari, o per grazia di chi lo concede: come inter- venne a molti in Grecia, nelle città di Ionia e deirEIIcsponlo, dove furon fatti Principi da Dario, acciò le tenessero per sua sicurtà e gloria; come erano ancora fatti quelli impera- dori, che di privati, per corruzione de'soldali, pervenivano allo imperio. Questi stanno semplicemente in su la voluntà e fortuna di chi gli ha fatti grandi, che sono due cose vola-^ bilissime ed instabilì; e non sanno e non posson tenere quel grado: non sanno, perché se non è uomo di grande ingegno

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e virlù, non è ragionevole che, essendo sempre vissuto in privala fortuna, sappia comatidare; non possono, perchè non hanno forze che gli possino essere amiche e fedeli. Dipoi, gli stali che vengono subilo , come tutte le altre cose della natura che nascono e crescon presto, non possono avere le radici e corrispondenzie loro, in modo che il primo tempo avverso non le spenga; se già quelli tali, come è detto, che st in un subito son diventati Principi, non sono di tanta virtù, che quello che la fortuna ha messo loro in grembo, sappino subito prepararsi a conservare; e quelli fondamenti che gli altri hanno fatti avanti che diven- tino Principi, gli faccino poi. Io voglio all'uno e l'al- tro dì questi modi, circa il diventar Principe per virtù o per fortuna , addurre duoi esempi slati ne' di della memoria nostra: questi sono Francesco Sforza, e Cesare Borgia. Francesco , per li debili mezzi e con una gran virtù, di privato diventò duca di Milano; e quello che con mille affanni aveva acquistato, con poca fatica mantenne. ]Dairallra parte. Cesare Borgia, chiamato dal vulgo duca Va- lentino, acquistò lo stalo con la fortuna del padre, e con quella lo perdette; nonostante che per lui s'usasse ogni opera, e facessinsi tutte quelle cose che per un prudente e virtuoso uomo si dovevau fare, per metter le radici. sue in quelli stali che l' armi e fortuna d' altri gli aveva concessi. Perchè, come di sopra si disse, chi non fa i fondamenti prima, gli potrebbe con una gran virlù fare dipoi; ancor- ché si faccino con disagio dell'architettore, e perìcolo dello cdiGzio. Se, adunque, si considerrà tutti i progressi del duca, si vedrà quanto lui avesse fallo gran fondamenti alla fu- tura potCLza; li quali non giudico superfluo discorrere, per- chè io non saprei quali precetti mi dar migliori a un Prin- cipe nuovo, che lo esempio delle azioni sue: e se gli ordini suoi non gli giovarono, non fu sua colpa, perchè nacque da una slrasordinaria ed estrema malignità di fortuna. Aveva Alessandro VI nel voler far grande il duca suo tiglio assai diflicullà presenti e future. Prima, non vedeva via di polcrio far signore d'alcuno stato che non fosse stalo di Chiesa ; e vol- gendosi a lòr quel della Chiesa, sapeva che il duca di Milai

It PRINCIPE. Si

ei Viniziani non gliel consentlrebbono, perchè Faenza e Ri- mino eran già sotto la protezione de'Viniziani. Vedeva, oltre a questo, l'armi d'Italia, e quelle in spezie di chi si fusse possuto servire, esser nelle mani di coloro che dovevan temere la grandezza del papa: e però non se ne poteva fidare, essendo tutte negli Orsini e Colonnesi , e loro segnaci. Era, dun- que, necessario che si turbassero quelli ordini , e disordinare gli stati d' Italia, per potersi insignorire securamente di parte di quelli: il che gli fu facile, perchè trovò Viniziani che^ mossi da altre cagioni , s' eran vòlti a far ripassare i Fran- cesi in Italia; il che non solamente non contradisse, ma fece più facile con la resoluzione del matrimonio antico del re Luigi. Passò, adunque, il re in Italia con lo aiuto de' Vini- ziani e consenso d'Alessandro; prima fu in Milano, che il papa ebbe da lui gente per l'impresa di Romagna, la quale gli fu consentita per la reputazione del re. Acquistata, adunque, il duca la Romagna, e battuti i Colonnesi , volendo mante- nere quella e procedere più avanti , l' impedivano due cose: r una r armi sue, che non gli parevano fedeli; l'altra la vo- lontà di Francia: cioè temeva che l'armi Orsine, delle quali si era servito , non gli mancassero sotto, e non solamente gì' impedissero l'acquistare, ma gli togliessero l'acquistato; e che il re ancora non gli facesse il simile. Degli Orsini n'ebbe un riscontro quando, dopo la espugnazione di Faenza, assaltò Bologna, che gli vide andar freddi in quello assalto. E circa il re, cognobbe l'animo suo quando, preso il ducato d'Urbipo, assaltò la Toscana, dalla quale impresa il re Io fece desìstere : ondechè il duca deliberò non dependere più dalla fortuna ed armi d'altri. E la prima cosa, indebolì le parti Orsine e Colonnesi in Roma , perchè tutti gli aderenti loro che fussino gentiluomini, si guadagnò, facendoli suoi gentiluomini; e dando loro gran provvisioni, gli onorò, se- condo lor qualità , di condotte e di governi , in modo che in pochi mesi negli animi loro l'atTezìone delle parli si spense, e tutta si volse nel duca. Dopo questo, aspettò l* occasione di spegnere gli Orsini, avendo dispersi quelli di casa Colonna: la quale gli venne bene, e lui l'usò meglio; perchè, avve- dutisi gli Orsini tardi che la grandezza del duca e della

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Chiesa era la lor roina, fecero ana dieta alla Magione nel Pe- rugino. Da quella nacque la rebellione d'Urbino, eli tumulli di Romagna, ed infìnili pericoli del duca, li quali superò tutti con l'aiuto de' Francesi : e ritornatoli la repulazione, si fidando di Francia 'né d' altre forze esterne , per non le avere a cimentare, si -volse agringannì; e seppe tanto dissi- mulare l'animo suo, che gli Orsini, mediante il signor

-[ *Pavolo, 8i riconciliarono seco; con il quale il duca non mancò d'ogni ragione d'officio per assicurarlo, dandoli veste, da- nari e cavalli; tanto che la simplicilà loro gli condusse a Sinigaglia nelle sue mani. Spenti, adunque, questi capi, e ri- dotti li partigiani loro amici sooi, aveva il duca gittalo assai buoni fondamenti alla potenza sua, avendo tutta la Romagna con il ducato d' Urbino , e guadagnatosi tutti quelli popoli per avere incominciato a gustare il ben essere loro. E per- chè questa parte è degni di notizia , e da essere imitata da altri, non voglio lasciarla indietro. Preso che ebbe il duca la Romagna, trovandola essere stala comandata da signori impotenti, quali più presto avevano spogliato i loro sudditi che correttoli , e dato loro più materia di disunione che di ooione; tanto che quella provincia era piena di latrocini!, di brighe e d'ogni altra sorte d'insolenza; giudicò necessario, a volerla ridurre pacifica ed obbediente al braccio regio, darle un buon governo. Però vi prepose messcr Remiro d'Orco, uomo crudele ed espedito; al quale dette pienissima potestà. Costui in breve tempo la ridusse pacifica ed unita, con grandissima reputazione. Dipoi giudicò il duca non essere a proposito si eccessiva autorità, perchè dubitava non diven- tasse odiosa; e preposevi un giudizio civile nel mezzo della provincia, con un presidente eccellentissimo, dove ogni città aveva l'avvocato suo. E perchè conosceva le rieorosità passate avergli generato qualche odio, per purgar gli animi di quelli popoli, e guadagnarseli in tutto, volse mostrare che se crudeltà alcuna era seguita, non era nata da lui, ma

j dall'acerba natura del ministro. E preso sopra questo occa- sione, lo fece mettere una mattina in duoi pezzi a Cesena in su la piazza, con un pezzo di legno ed un collello sangui no^^o a canto. La ferocità del quale spettacolo fece quelli popoli

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un (erapo rimanere satisfalli e slupidi. Ma torniamo donde noi partimmo. Dico che trovandosi il duca assai potente , ed in parte assicuralo de* presenti pericoli , per essersi ar- mato a suo modo, ed avere in buona parte spente quelle armi che vicine Io potevano otTendere; li restava , volendo procedere con l'acquisto, il rispetto di Francia, perchè co- nosceva che dal re, il quale tardi s'era avveduto dell' er- ror suo, non gli sarebbe sopportato. E cominciò per questo a cercare amicizie puove, e vacillar con Francia, nella ve- nuta che fecero i Francesi verso il regno di Napoli contro alii Spagnuoli che assediavano Gaeta. £ l'animo suo era di assicurarsi di loro; il che gli saria presto riuscito, se Ales- sandro viveva. E queéti furono i governi suoi circa le cose presenti. Ma quanto alle future, lui aveva da dubitare in prima che un nuovo successore alla Chiesa non gli fusse amico, e cercasse tòrgiì quello che Alessandro gli aveva dato: e pensò farlo in quattro modi. Prima, con spegnere tutti i sangui di quelli signori che lui aveva spogliato, per tórre al papa quelle occasioni. Secondo, con guadagnarsi tulli i gentiluo- mini di Roma per poter con quelli, come è dello, tenere il papa in freno. Terzo, con ridurre il Collegio più suo che po- teva. Quarto, con acquistar tanto imperio avanti che il papa morisse, che potesse per medesimo resistere ad un primo impelo. Di queste quattro cose alla morte d'Alessandro ne aveva condotte tre ; la quarta aveva quasi per condotta. Per- chè, de' signori spogliali ne ammazzò quanti ne potè aggiu- gnere, e pochissimi si salvarono; i gentiluomini Romani s' aveva guadagnalo; e nel Collegio aveva grandissima parie. E quanto al nuovo acquisto , aveva disegnato diventar si- gnore di Toscana, e possedeva già Perugia e Piombino, e di Pisa aveva presa la protezione. E come non avessi avuto aver rispetto a Francia (che non gliene aveva d' avere più , per esser già i Francesi spogliati del regno di Napoli dagli Spagnuoli , in forma che ciascun di loro era necessitalo di comperar l'amicizia sua), saltava in Pisa. Dopo questo, Lucca e Siena cedeva subito, parte per invidia de' Fiorentini, e parie per paura; i Fiorentini non avevan rimedio: il che se li fusse riuscito (che gli riusciva V anno medesimo che

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Alessandro mori), s'acquistava (ante forze e (anta reputa- zione, che per stesso si sarebbe retto, senza dependere dalla Tortana o forza d'altri, ma solo dalla potenza e virtù sua. Ma Alessandro mori dopo cinque anni ch'egli aveva incominciato a trarre fuori la spada. Lasciollo con lo stato di Romagna solamente assolidato, con tutti gli altri in aria, intra duoi potentissimi eserciti inimici, ammalato a morte. Ed era nel duca tanta ferocia e tanta virtù, e si ben cono- sceva come gli uomini s'abbino a guadagnare o perdere, e (ante erao validi li fondamenti che in si poco tempo s'aveva fatti ; che se non avesse avuto quelli eserciti addosso, o fusse stato sano , sarebbe retto a ogni diftìcullà. E che li fonda- menti suoi fussino bnoni^ si vide, che la Romagna l'aspettò più d'un mese; in Roma, ancora che meizo morto, stette secare; e benché i Bastioni , Vitelli ed Orsini venissero in Roma, non cbbon séguito contro di lui. Potè fare, se non chi esli foUe, almeno che non fusse papa chi egli non vo- leva^ Ila te nella morte di Alessandro fusse slato sano, ogni cosa gli era facile. E lui mi disse, ne* di che fu creato Giu- lio li, che aveva pensato a tutto quello che potesse nascere morendo il padre, e a lutto aveva trovato rimedio; eccetto che non pensò mai, in sa la sua morte, di stare ancof lui per morire. Raccolte, adanqoe, tutte queste azioni del duca , non saprei riprenderlo ; anzi mi pare, come io ho fatto , di proporlo ad imitare a tutti coloro che per fortuna e con r armi d' altri sono saliti all' imperio. Perché lui avendo r animo grande, e la soa intenzione alta, non si poteva go- ▼ernare altrimenti ; e solo si oppose sili suoi disegni la bre- vità della vita d' Ale.«sandro, f la sua infìrmità. Chi, adun- que, giudica necessario nel aio principato nuovo assicurarsi degl'inimici, guadagnarsi amici, vincere o per forza o per fraude , farsi amare e temer da' popoli , seguire e riverire da' soldati, spegner quelli che li possono o debbono offen- dere, innovare eoo nuovi modi gli ordini antichi, esser severo e grato, magnanimo e liberale, spegnere la milizia infedele, creare della nuova, mantenersi le amicizie de' re e delli principi, in modo che li abbino a beneficare con gra- zia 0 ad otTeodere con rispetto; non può trovare più freschi

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esempi che le azioni di costui. Solamente si può accusarlo nella creazione di (ìiulio II, nella quale lui ebbe mala ele- zione: perchè, come è detto, non potendo fare un papa a suo modo, poteva tenere che uno non fusse papa ; e non de- veva acconsentir mai al papato di quelli cardinali che lui avesse offesi, o che, diventati pontefici, avessino ad aver paura di lui. Perchè gli uomini offendono 0 per paura o per odio. Quelli che lui aveva offesi, erano, tra gli altri. San Pie- tro ad Vincula, Colonna, San Giorgio, Ascanio. Tutti gli altri, assunti al pontificalo, avevan da temerlo, eccello Uoano e gli Spagnuoli : questi per congiunzione e obbligo ; quello per potenza, avendo congiunto seco il regno di Francia. Per- tanto il duca, innanzi ad ogni cosa, deveva creare papa uno Spagnuolo; e non potendo, dovea consentire che fusse Roano, e non San Pietro ad Vincula. E chi crede che ne' personaggi grandi i beneficii nuovi faccino dimenticare V ingiurìe vec- chie, s'inganna. Errò, adunque, il duca in questa elezione, e fu cagione dell'ultima rovina sua

Gap. Vili. Di quelli che per scelleratezze sono pervenuli al principato.

Ma perchè di privato si diventa ancora in duoi modi Principe (il che non può al lutto 0 alla fortuna 0 alla virtù attribuire), non mi pare da lasciarli indietro: ancora che dell'ano si possa più diffusamente ragionare dove si trat- tasse delle repubbliche. Questi sono, quando o per qualche via scellerata e nefaria s'ascende al principato; o quando uno privato cittadino con il favore degli altri suoi cittadini diventa Principe della sua patria. E parlando del primo modo, si mostrerà con duoi esempi, l* uno amico, T ailro moderno, senza entrare allrimenli ne' meriti di questa parte, perchè giudico che bastino a chi fusse necessitato imitargli. Agatocle Siciliano, non solo di privata ma d'infima ed abietta fortuna, divenne re di Siracusa. Costui nato di un orciolaio, tenne sempre, per i gradi della sua fortuna, vita scellerata. Nondimanco, accompagnò le sue scelleratezze con tanta virtù d'animo e di corpo, che vellosi alla milizia, per

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li gradi di quella pervenne ad esser pretore di Siracusa. Nel qual grado essendo cosliluilo, ed avendo deliberalo vo- lere diventar Principe, e tenere con violenza e senza ob- bligo d' altri quello che d'accordo gli era stalo concesso ; ed avuto questo suo disegno intelligenza con Amilcare car- taginese, il quale con gli eserciti militava in Sicilia; con- gregò una mattina il popolo e il senato di Siracusa, come se egli avessi avuto a deliberare cose pertinenti alla repub- blica, e, ad un cenno ordinato, fece da' suoi soldati uccidere tutti li senatori e li più ricchi del popolo: li quali morti, oc- cupò e tenne il principato di quella città, senza alcuna con- troversia civile. E benché dai Cartaginesi fosse due volte rotto, e ultimamente assediato, non solamente potè difen- dere la sua città, ma lasciata parte della sua gente alla di- fesa di quella, con l'altre assaltò l'Affrica, e in breve tempo liberò Siracusa dall'assedio, e condusse i Cartaginesi in estrema necessità: i quali furono necessitati ad accordarsi con quello, a essere contenti della possessione dell' Affrica, e ad Agatocle lasciar la Sicilia. Chi considerasse, adunque, le azioni e virtù di costui, non vcdria cose, o poche, le quali possa attribuire alla fortuna : concìossiachè, come di sopra é detto, non per favore d'alcuno, ma per li gradi della mi- lizia, quali con mille disagi e pericoli si aveva guadagnato, pervenisse al priocipato, e quello dipoi con tanti animosi partiti e pericolosi mantenesse. Non si può chiamare ancora virtù ammazzare li suoi cittadini, tradir gli amici, essere lenza fede, senza pietà, senza religione; li quali modi pos- sono fare acquistare imperio, ma non gloria. Perchè, se si considerasse la virtù di Agatocle nell' entrare e nell' uscire de' pericoli, e la grandezza dell'animo suo nel sopportare e superare le cose avverse, non vede perchè egli abbi ad esser tenuto inferiore a qual si sia eccellentissimo capitano. Nondimanco, la sua efferata crudeltà ed inumanità, con infi- nite scelleratezze, non consentono che sia tra li eccellentis- simi uomini celebrato. Non si può, adunque, attribuire alla fortuna o alla virtù quello che senza 1' una e l' altra fu da lui conseguito. Ne* tempi nostri, regnante Alessandro VI, Olìverotto da Fermo, essendo più anni addietro rimasu

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piccolo, fu da un suo zio materno, chiamalo Giovanni Fo- gliani, allevalo, e ne* primi tempi della sua gioventù dato a militare sotto Favolo Vitelli, acciocché ripieno di quella di- sciplina pervenisse a qualche grado eccellente di milizia. Morto dipoi Favolo, militò sotto Vitellozzo suo fratello; ed in brevissimo tempo, per essere ingegnoso, e della persona e dell'animo gagliardo, diventò de' primi uomini* della sua milizia. Ma parendogli cosa servile lo stare con altri, pensò, con l'aiuto d'alcuni cittadini di Fermo, a* quali era più cara la servitù che la libertà della loro patria, e con il fa- vore vitellesco, d'occupare Fermo; e scrisse a Giovan Fogliani, come, essendo stato più anni fuor di casa, voleva venire a veder lui e la sua città, e in qualche parte rico- noscere il suo patrimonio. E perchè non s' era affaticato per altro che per acquistar onore, acciocché i suoi cittadini vedessino come non aveva speso il tempo invano, voleva venire onorevolmente, ed accompagnato da cento cavalli di suoi amici e servidori, e pregavalo che fusse contento ordi- nare che da* Firmani fusse ricevuto onoratamente; il che non solamente tornava onore a lui, ma a proprio, es- sendo suo allievo. Non mancò, pertanto, Giovanni d'alcuno olTicio debito verso il nipote; e fattolo ricevere onoratamente da' Firmani, alloggiò nelle case sue: dove, passato alcun giorno, ed atteso a ordinar quello che alla sua futura scel- leratezza era necessario, fece un convito solennissirao, dove invitò Giovan Fogliani, e tutti li primi uomini di Fermo. Ed avuto che ebbero fine le vivande, e tutti gli altri in- trattenimenti che in simili conviti si fanno, Oliverolto ad arte mosse certi ragionamenti gravi, parlando della gran- dezza di papa Alessandro e di Cesare suo figlio, e del- l'imprese loro; alli quali ragionamenti rispondendo Gio- vanni e gli altri, egli a un tratto si rizzò, dicendo quelle essere cose da parlarne in più segreto luogo, e ritirossi in una camera, dove Giovanni e lutti gli altri cittadini gli an- darono dietro. prima furon posti a sedere , che de' luo- ghi segreti di quella usciron soldati, che ammazzarono Giovanni e tutti gli altri. Dopo il quale omicidio, montò Oli-

* Il MS. Laurcnziano e l'edizione del 18iU: diventò il primo nomo.

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verodo a cavallo, e corse la (erra, ed assediò nel palazzo il supremo magistrato; tanlo che per paura faron coslrelli ubbidirlo, e fermare un governo, del quale si fece Principe. E morti lutti quelli che per essere nìalconlenli lo potevano offendere , si corroborò con. nuovi ordini civili e militari; in modo che, in spar.io d'uno anno che (enne il principato, non solamente lui era sicuro nella città di Fermo, ma era di- ventalo formidabile a lutti li suoi vicini : e sarebbe stata la sua espugnazione diflìcile, come quella di Agalocle, se non si fusse lasciato ingannare da Cesare Borgia, quando a Si- nisaglia, come di sopra si disse, prese gli Orsini e Vitelli; dove preso anfor lui, un anno dopo il commesso patricidio, fu, insieme con Vitellozzo, il quale aveva avuto maestro delle virtù e scelleratezze sue, strangolnto. Potrebbe alcuno dubitare, dónde nascesse che Agatocle ed alcuno simile, dopo infìniti tradimenti e crudeltà, potette vivere lungamente si- curo nella sua patria, e difendersi dagl* inimici esterni, e da* suoi cittadini non sii fu inai conspirato centra: concios- siacbé molti altri mediante la crudeltà non abbino mai pos- snto ancora ne' tempi pacifici mantenere lo stato, non che ne' tempi dubbiosi di guerra. Credo che questo avvenga dalle crudeltà male o bene usate. Bene osate si possono chiamar quelle (se del male è lecito dir bene) che si fanno una sol volta per necessità dell'assicurarsi, e dipoi non vi s'in- siste dentro, ma si converliscono in più utilità de' sudditi che si può. Le male usate son quelle, quali, ancora ehe da principio sian poche, crescono piuttosto col tempo che le si spenghino. Coloro che osserveranno quel primo modo, possono con Dio e con gli nomini avere allo stato loro qual- che rimedio; come ebbe Agatocle. Quelli altri, è impossibile che si mantenghino. Onde è da notare, che nel pigliare uno stato, debba l'occupatore d'esso discorrere e far tutte le crudeltà in un tratto, e per non avere a ritornarvi ogni di, e per potere non le innovando assicurare gli uomini, e guadagnarseli con beneficarli. Chi fa altrimente o per timi- dità o per mal consiglio, è sempre necessitato tenere il col- tello in mano, mai si può fondare sopra i suoi sudditi; non si potendo quelli, per le continue e fresche ingiurie, assi-

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curar di lui. Perchè le ingiurie si debbono fare tulle insieme, acciocché, assaporandosi meno, offendino meno: li benefìcii si debbono fare a poco a poco, acciocché si assaporino me- glio. E deve, sopra luUo, un Principe vivere con li suoi sud- diti in modo, che nissuno accidente o di male o di bene lo^ abbia a far variare: perché venendo per li tempi avversi la necessità, tu non sei a tempo al male ; ed il bene che tu fai non ti giova, perchè è giudicalo forzalo, e non grado alcuno ne riporti.

Gap. IX. Del principalo civile

Ma venendo all'altra parte quando un Principe citta- dino, non per scelleratezza o altra intollerabii violenza, ma col favore degli altri suoi cittadini diventa Principe della sua patria; il quale si può chiamare principato civile, al pervenirvi è necessario o lutla virtù, o tutta fortuna, ma più presto un' astuzia fortunata: dico che s' ascende a que- sto principato o col favore del popolo, o col favore de* grandi. Perché in ogni città si trovano questi duoi umori diversi ; e nascono da questo, che il popolo desidera non esser coman- dato né oppresso da' grandi, e i grandi desiderano coman- dare ed opprimere il popolo ; e da questi duoi appetiti diversi surge nelle città uno de' tre elTetti, o principato, o libertà, o licenza. 11 principato è causato o dal popolo, o da* grandi, secondo che 1' una o 1* altra di queste parti n'ha 1' occa- sione; perché vedendo i grandi non poter resistere al popolo, cominciano a voltare la riputazione ad un di loro, e lo fanno Principe per poter sollo l'ombra sua sfogare l'appe- tito loro. Il popolo ancora volta la riputazione a un solo, vedendo non poter resistere alti grandi, e lo fa Principe per essere con l'autorità sua difeso. Colui che viene al princi- pato con l'aiuto de' grandi, si mantiene con più difTicultà, che quello che diventa con l'aiuto del popolo; perché si trova Principe con di molti intorno che a loro pare essere eguali a lui, e per questo non gli può maneggiare comandare a suo modo. Ma colui che arriva al principato col favor popolare, vi si trova solo, ed ha intorno o ncs-

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sano o pochissimi che non sieno parati ad ubbidire. Oltre a questo, non si può con onestà satisfare a' srandi, e senza ingiuria d'altri; ma sibbeneal popolo: perchè quello del po- polo è più onesto fine che quel de* grandi, volendo questi opprimere, e quello non esser oppresso. Acgiungesi nncora, che del popolo inimico il Principe non si può mai assicurare, per essere troppi: de' grandi si può assicurare, per esser pochi. Il pegsio che possa aspettare un rrinci|>e dal popolo inimico, é Tessere abbandonato da lui: ma da' grandi ini- mici, non solo debbe temer di essere abbandonato, ma che ancor loro gli ?enghino contro; perchè, essendo in quelli più vedere e più astuzia, avaniano sempre tempo per sal- varsi, e cercano gradi con qaello che sperano che vinca. È necessitato ancora il Principe vivere sempre con qoel me- desimo popolo; ma può ben fare senza quelli medesimi grandi, potendo farne e <1isfarne ogni di, e tórre e dare, quando gli piace, reputazione loro. E per chiarir meglio questa parte, dico, come i grandi si debbono considerare in dooi modi principalmente : cioè, o si governano in modo col proceder loro che si obblisano in lutto alla tua fortuna, o no : quelli che s'obbligano, o non sieno rapaci, si debbono ono- rare ed amare; quelli che non s'obbligano, s' hanno a con- siderare in dooi modi : o fanno questo per posillanimilà e difetto natorale d* animo; ed allora li debbi servir di loro, e di quelli massime che sono di buon consìglio, perchè nelle prosperit«i le ne onori, e nelle avversità non hiri da temere : ma quando non si obbligano ad arte e per cagione ambiziosa, è segno come e* pensano più a che a le; e da quelli si deve il Prìncipe guardare, e tenergli come se fos- sero scoperti inimici, perchè sempre nelle avversità l'aiole- ranno rovinare. Debbe, pertanto, ano che diventa Principe per favore del popolo, mantenerselo amico ; il che gli fia fa- cile, non domandando lai se non di non essere oppresso: ma uno che, contro il popolo, diventi Principe col favore de' grandi, deve innanzi a ogni altra cosa cercare di gua- dagnarsi il popolo ; il the gli fìa facile quando pigli la pro- lezione sua. E perchè gli uomini quando hanno bene da chi credono aver male, si obbligano più al bcnefìcatore loro ;

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diventa il popolo suddito più suo benivolo, che se si fusse condotto al principato per li suoi favori: e puosselo il Prin- cipe guadagnare in molti modi, li quali perché variano se- condo il suggetlo, non se ne può dar certa regola; però si lasceranno indietro. Conchiuderò solo, che ad un Principe è necessario avere il popolo amico; altrimente, non ha nelle avversità rimedio. Nabide, Principe degli Spartani, sostenne r ossidione di tutta Grecia , e d' uno esercito romano vittoriosissimo ; e difese contro a quelli la patria sua e il suo slato; e gli bastò solo, sopravvenendo il pericolo, assi- curarsi di pochi : che se egli avesse avuto il popolo inimico, questo non gli bastava. E non sia alcuno che repugni a que- sta mia opinione con quel proverbio trito, che chi fonda in sul popolo, fonda in sul fango : perchè quello è vero quando un cittadino privato vi fa su fondamento, e dassi ad inten- dere che il popolo lo liberi quando esso fussi oppresso da- gl' inimici 0 da' magistrati ; in questo caso si potrebbe tro- vare spesso ingannato, come intervenne in Roma a* Gracchi, ed in Firenze a messer Giorgio Scali. Ma essendo un Prin- cipe quello che sopra vi si fondi, che possa comandare, e sia un uomo di cuore, si sbigottisca nelle avversità, e non manchi delle altre preparazióni, e tenga con l'animo e ordini suoi animato l'universale; non si troverà ingannato da lui, e gli parrà aver fatti i suoi fondamenti buoni. So- gliono questi principati periclitare quando sono per salire dall'ordine civile allo assoluto; perché questi principi o co- mandano per loro medesimi, o per mezzo di magistrati. Nell'ultimo caso, è più debile e più pericoloso lo stalo loro, perché egli stanno al lutto con la volontà di quelli cittadini che sono preposti a' magistrati ; li quali, massimamente ne' tempi avversi, gli possono tórre con facilità grande Io stato, o con fargli contro o col non l'ubbidire: e il Prin- cipe non è a tempo ne' pericoli a pigliare l'autorità asso- luta, perchè li cittadini e sudditi che sogliono avere li co- mandamenti da' magistrati, non sono in quelli frangenti per ubbidire a' suoi, ed ara sempre ne* tempi dubbi penuria di chi si possa fidare. Perchè sirail Principe non può fondarsi sopra quello che vede ne' tempi quieti, quando i cittadini

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hanno bisogno dello sialo: perchè allora ofrnano corre, ognuno promette, e ciascuno vuol morire per lui quando la morte è discosto ; ma ne' tempi avversi, quando lo stato ha bisosnn de* cittadini, allora se ne trova pochi. E tanto più è questa esperienza pericolosa, quanto la non si può fare se non una volta. Però, un Principe savio deve pensare un modo per il quale li suoi cittadini, sempre, ed in ogni modo e qual'tà di tempo, abbino bisogno dello stalo di lai; e sempre poi gli saranno fedeli.

Ckp. X. In chf modo le forze di lutti t ffincipalt $i delibino misurare.

Tonviene avere, neir esaminare le qualità di questi principali,, an* altra consideratione : cioè se un Principe ha lanlo sialo, che poan, bisognando, per nedeaimo reggersi; ovvero ne ha sempre Decessila della difeMioiM d* altri. B per chiarir meglio questa parte, dico, come io giudico potersi coloro rcKsere per medesimi, che possono o per abbon- daotia d'uomini o di denari mellere insieme an esercito giaslo, e fare ana giemala con qoalanqae gli viene assal- tare: e cosi giudico, coloro aver sempre necessità d'altri, che non possono comparire contro gl'inimici in campagna, ma sono necessitali rifusnirsi dentro alle mura, e guardar quelle. Nel primo caso s'è discorso, e per 1* avvenire diremo quello che ne occorre. Nel secondo caso non si può dire al- tro, salvo che confortare tali Principi a munire e fortificare la terra propria ; e del paese non tenere alcun conto. E qua- lunque ara ben fortificala la sua terra, e circa gli altri go- verni coi sudditi si sia maneggiato come di sopra è detto, e di sotto si diri ; sari sempre assaltato con gran rispetto : (>crchè gli uomini son sempre inimici delle imprese dove si vegga difficoltà ; si può veder facilità asfaltando uno che abbi la sua terra gagliarda, e non sia odiato dal popolo. Le città d'Alamagna sono libéralissime, hanno poco contado, ed obbediscono all'imperadore quando le vogliono, e non temono quello altro polente che rabbino intorno: l»ercbé le sono in rooio fortificate, che ciascuno pensa l.i

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espugnazione di esse dovere esser tediosa e difiìcile; perchè tulle hanno fossi e mura convenienti , hanno artiglieria a sufficienza, e tengono serapre nelle canove pubbliche da mangiare e da bere e da ardere per un anno. Oltre a questo, per poter tenere la plebe pasciuta, e senza perdita del pubblico, hanno serapre in comune per un anno da poter dar loro da lavorare in quelli esercizi che siano il nervo e la vita di quella città, e dell'industria de' quali la plebe si pasca: tengono ancora gli esercizi militari in repulazione, e sopra questo hanno molli ordini a mantenerli. Un Principe, adunque, che abbia una città forte, e non si facci odiare, non può essere assaltato; e se pur -^ssi, chi l'assaltassi se ne partirebbe con vergogna: perchè le cose del mondo sono si varie , che egli è quasi impossibile che uno possi con gli eserciti stare un anno ozioso a campeggiarlo. E chi repli- casse : se il popolo ara le sue possessioni fuora , e veggale ardere, non ara pazienza; e il lungo assedio e la carità pro- pria gli farà sdimenticare il Principe: rispondo, che un Prin- cipe potente ed animoso supererà sempre quelle difficullà, dando ora speranza a' sudditi che il male non sia lungo, ora timore della crudeltà del nimico, ora assicurandosi con de- strezza di quelli che gli paressono troppo arditi. Oltre a que- sto, il nimico deve ragionevolmente ardere e rovinare il paese loro in su la giunta sua, e ne' tempi quando gli animi degli uomini sono ancora caldi, e volonterosi alla difesa; e però, tanto meno il Principe deve dubitare, perchè dopo qualche giorno che gli animi sono raffreddi , sono di già fatti i danni, son ricevuti i mali, e non v' è più rimedio: ed allora tanto più si vengono ad unire col loro Principe , parendo che esso abbia con loro obbligo, essendo slate loro arse le case e rovinate le possessioni per la difesa sua. E la natura degli uomini è cosi obbligarsi per li beneficii che essi fanno, come per quelli che essi ricevono. On^e, se si considera bene lutto, non fia diffìcile a un Principe pru- dente tenere prima e poi fermi gli animi de* suoi cittadini nella ossidione, quando non gli manchi da vivere, da di- fendersi.

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Gap. XI. De' principali ecclesiaslici.

Restaci solamente al presente a ragionare de' principali ecclesiastici ; circ' a' quali tutte le difQcultà sono avanti che si possegghino, perchè s' acquistano o per virtù o per for- tuna, e senza 1' una e l'altra si mantengono; perchè sono sostentati dagli ordini anticali nella religione, quali sono tulli tanto potenti , e qualità che tengono i loro Principi in stato, in qualunque modo si procedino e vivino. Costoro soli hanno stato e non Io difendono, hanno sudditi e non gli governano ; e gli slati, per essere indifesi, non sono loro tolti ; e li sudditi, per non essere governati, non se ne curano, pensano possono alienarsi da loro. Solo, adunque, que- sti principati sono sicuri e felici. Ma essendo quelli retti da cagioni superiori, alle quali la mente umana non aggiugne, lascerò il parlarne ; perchè , essendo esaltali e mantenuti da Dio, sarebbe ufficio d' uomo presuntuoso e temerario il dis- correrne. Nondimanco, se alcuno mi ricercasse donde viene che la Chiesa nel temporale sia venula a tanta grandezza ; conciossiaché da Alessandro indietro i potentati Italiani , e non solamente quelli che si chiamano potentati , ma ogni barone e signore, benché minimo, quanto al temporale la slimava poco; ed ora un re di Francia ne trema ; e l'ha po- tuto cavare d'Italia, e rovinare i Vintziani : ancoraché ciò nolo sia, non mi pare superfluo ridurlo in qualche parte alla memoria. Avanti che Carlo re di Francia passassi in Italia, era questa provincia sotto l'imperio del papa, Vini- ziani, re di Napoli, duca di Milano e Fiorentini. Questi po- tentati avevano ad avere due cure principali: Tuna, che un forestiero non entrassi in Italia con Tarmi; l'altra, che nessuno di loro occupasse più stato. Quelli a chi s'aveva più cura , erano il papa e Viniziani. Ed a tenere indietro i Viniziani, bisognava l'unione di lutti gli altri, come fu nella difesa di Ferrara; e a tener basso il papa , si servivano dei ba- roni di Roma: li quali essendo divisi in due fazioni , Orsini e Colonnesi, sempre v'era cagione di scandoli tra loro; e stando con l'armi in mano in su gli occhi del pontefice,

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tenevano il pontificalo debole ed infermo. E benché sorgessi qualche volta un papa animoso, come fu Sisto; pure la for- tuna o il sapere non lo potè mai disobbligare da queste in- comodità. E la brevità della vita loro ne era cagione; per- chè in dieci anni che, ragguagliato, viveva un papa, a fatica che potessi sbassare T una delle fazioni: e se, per modo di parlare, l'uno aveva quasi spenti 1 Colonnesi, surgeva un altro inimico agli Orsini, che gli faceva risurgere, e non era | a tempo a spegnerli. Questo faceva che le forze temporali j del papa erano poco stimate in Italia. Sorse dipoi Alessan- dro VI, il quale, di tulli li pontefici che sono slati mai, mo- strò quanto un papa e con il danaio e con le forze si po- teva prevalere; e fece, con V istrumenlo del duca Valentino, e con l'occasione della passata de' Francesi, tutte quelle cose che io ho discorso di sopra nelle azioni del duca. E benché l'intento suo non fusse il far grande la Chiesa, ma il duca ; nondimeno ciò che fece , tornò a grandezza della ; Chiesa, la quale dopo la sua morte, spento il duca, fu erede / delle fatiche sue. Venne dipoi papa Giulio, e trovò la Chiesa grande, avendo tutta la Romagna, ed essendo spenti tutti li baroni di Roma, e, per le battiture d'Alessandro, annul- late quelle fazioni ; e trovò ancorala via aperta al modo del- l' accumulare denari , non mai più usitato da Alessandro indietro. Le quali cose Giulio non solamente seguitò, ma ac- crebbe; e pensò guadagnarsi Bologna, e spegnere i Vini- ziani, e cacciare i Francesi d' Italia : e tulle queste imprese , gli riuscirono; e con tanta più sua laude, quanto fece ogni 1 cosa per accrescere la. Chiesa, e non alcun privato. Man- J tenne ancora le parti Orsine e Colonnesi in quelli termini che le trovò ; e benché tra loro fossi qualche capo da fare alterazione, nientedimeno due cose gli ha tenuti fermi: l'una la grandezza della Chiesa, che gli sbigottisce; l'altra, il non aver loro cardinali, quali sono origine de' tumulti tra loro: mai staranno quiete queste parti qualunque volta abbino cardinali, perchè questi nutriscono in Roma e fuori le parli, e quelli baroni sono forzati a difenderle; e cosi dall'ambi- zione de' prelati nascono le discordie e tumulti tra'baroni. Ila trovalo, adunque, la sanlilà di papa Leone questo ponli-

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y,< ficaio polend'ssiroo : del quale si spera che, se quelli lo fe- jff ^fi^-tìero grande con l' armi , esso con la bonlà ed infinite allre ,miMt sue virtù lo farà grandissimo e venerando.

J Gap. XII. Quante siano le spezie della milizia.

e de' soldali mercenari.

Avendo discorso particolarmente tutte le qualità di quelli principati, de'quali nel principio proposi di ragionare , e considerato in qualche parte le cagioni del bene e del male esser loro , e monstri i modi con li quali molli han cerco d' acquistargli ; mi resta ora discorrere generalmente l' of- fese e difese che in ciascuno dei prenominali possono acca- dere. Noi abbiamo detto di sopra*, come ad un Principe è necesario avere li suoi fondamenti buoni ; altrimenti , di necessità conviene che rovini. I principali fondamenti che abbino lutti gli stati, così nuovi come vecchi o misti, sono le buone leggi e le buone armi: e perchè non posson essere buone leggi dove non sono buone armi , e dove sono buone armi conviene che siano buone leggi , io lascerò indietro il ragionare delle leggi, e parlerò dell'armi. Dico, adunque, che Tarmi con le quali un Principe difende il suo stato , o le sono proprie, o le sono mercenarie, o ausiliari, o misle. Le mercenarie ed ausiliari sono inutili e pericolose : e se uno tiene lo slato suo fondato in su l'armi mercenarie, non starà mai fermo sicuro ; perchè le sono disunite , ambi- ziose e senza disciplina, infedeli, gagliarde tra gli amici, Ira li nimici vili ; non hanno timore di Dio, non fede con gli uomini, e tanto si differisce la rovina quanto si. difiTc- risce r assalto; e nella pace sei spogliato da loro , nella guerra da'nimici. La cagione di questo è, che non hanno altro amore altra cagione che le tenga in campo , che un poco di stipendio; il quale non è sufficiente a fare ch'elli veglino morire per te. Vogliono ben essere tuoi soldali mentre che tu non fai guerra; ma come la guerra viene, o fuggirsi o andarsene. La qual cosa deverei durar poca fatica a persua- dere, perché la rovina d'Italia non è ora causata da altra cosa, che per essere in spazio di molti anni riposatasi in su

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r arQìi mercenarie : le quali fecion già per qualcuno qual- che progresso, e parevan gagliarde infra loro; ma come venne il forestiere, elle mostrarono quello che l'erano. Onde- che a Carlo re di Francia fu lecito pigliare Italia col gesso: e chi diceva che ne erano cagione i peccati nostri, diceva il vero; ma non erano già quelli che credeva, ma questi eh' io ho narrato. E perchè gli erano peccati di Principi, nej hanno patito la pena ancora loro. Io voglio dimostrar me- glio la infelicità queste armi. I capitani mercenari o sono uomini eccellenti, o no: se sono, non te ne puoi fidare, per- chè sempre aspireranno alla grandezza propria, o con 1' oppri- mere te che li sei padrone, o con l'opprimere altri fuor della tua intenzione; ma se non è il capitano virtuoso, ti rovina per l' ordinario. E se si risponde che qualunque ara l'arme in mano, farà questo medesimo, o mercenario o no; replicherei, come l' armi hanno ad essere adoperate o da un Principe, o da una repubblica : il Principe deve andare in persona a far lui l'officio del capitano; la repubblica ha da mandare ì suoi cittadini : e quando ne manda uno cho non riesca valente, debbe cambiarlo; e quando sia, tenerlo con le leggi che non passi il segno. E per esperienza si vede, i Principi soli e le repubbliche armate far progressi gran- dissimi, e l'armi mercenarie non fare mai se non danno: e con più difficultà viene all' ubbidienza d' un suo cittadino Ìi<^^i^ f^ una repubblica armata d'armi proprie, che una armata .^/V^ d'armi forestiere. Sterono Roma e Sparla molti secoli ar- ^ ^t*^* mate e libere. I Svizzeri sono armatissimì e liberissimi.* .^ Dell'armi mercenarie antiche, per esempio ci sono li Carla- '*' ^> ginesi ; li quali furono per essere oppressi da' lor soldati -^'^ '^ ^ mercenari, finita la prima guerra coi Romani, ancoraché i ' ' '^^ Cartaginesi avessero per capitani loro propri cittadini. Filippo Macedone fu fatto da'Tebani, dopo la morte di Epaminonda, capitano della lor gente ; e tolse loro dopo la vittoria la li- bertà. I Milanesi, morto il duca Filippo, soldarono France-

* L' ecUz. del Biado ha libéralissimi : il che avrebbe riscontro anche nel cap. X, ove è detto : le città d' Alemagna sono libéralissime. Se non che , tra la liberta delle città anseatiche o d' altre della Germania, e quella de' cantoni Sviz- zeri , era non lieve la diOercnza. Si rifletta al divario che anc' oggi passa tra i popoli veramente liberi, e (j[ueUi che godono istituzioni più o nìcuo liberali.

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SCO Sforza contro a'Viniziani, il quale, superali gì* inimici a Caravaggio, si congiunse con loro per opprimere i Milanesi suoi padroni. Sforza suo padre, essendo soldato della regina Giovanna di Napoli, la lasciò in un tratto disarmata; onde lei, per non perdere il regno, fu costretta gittarsi in grembo al re d' Aragona. E se i Viniziani e Fiorentini hanno ac- cresciuto per r addietro lo imperio loro con queste armi, e li loro capitani non se ne sono però fatti Principi, ma gli hanno difesi; rispondo che gli Fiorentini in questo caso sono stati favoriti daHa sorte: perchè de'capitani virtuosi, li quali potevano temere, alcuni non hanno vinto; alcuni hanno avuto opposizioni; altri hanno vòlto l'ambizione loro altrove. Quello che non vinse, fu Giovanni Acuto, del quale, non vin- cendo, non si polea conoscer la fede; ma ognuno confes- serà, che, vincendo, stavano ì Fiorentini a sua discrezione. Sforza ebbe sempre i Bracceschi contrari, che guardarono Tnn l'altro. Francesco volse l'ambizione sua in f.ombar- dia ; Braccio contro la Chiesa e il regno di Napoli. Ma ve- gniamo a quello che è seguito poco tempo fa. Fecero i Fio- rentini Paolo Vitelli loro capitano, uomo prudentissimo, e che di privata forUina aveva preso riputazione grandissima. Se costui espugnava Pisa, nessuno sarà che nieghi come e' conve- niva a' Fiorentini star seco ; perchè, se fosse diventato sol- dato de' lor nemici, non avevan rimedio; e tenendolo, ave- vano ad ubbidirlo. 1 Viniziani, se si considera i progressi loro, si vedrà quelli sicuramente e gloriosamente avere ope- ralo mentre che fecion guerra i loro propri T che fu avanti che si volgessino con l'imprese in terra, dove con li gentil- uomini e con la plebe armata operarono virtuosamente : ma come cominciarono a combattere in terra, lasciarono questa virtù, e seguitarono i costumi d'Italia. E nel principio del- lo augumento loro in terra, per non vi avere molto stato, e per essere in gran riputazione, non avevano da temere mollo de' loro capitani; ma come essi ampliarono, che fu sotto il Carmignuola, ebbono un saggio di questo errore : perchè, vedutolo virtuosissimo, battuto che ebbero sotto il suo go- verno il duca di Milano, e conoscendo dall'altra parte come egli era freddo nella guerra, giudicarono non poter

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più vincere con lui, perchè non volevano potean licen- ziarlo, per non perder ciò che aveano acquistato; onde- che furono necessitali, per assicurarsi, di aramazzarlo. Hanno dipoi avuto per loro capitano Bartolommeo da Bergamo, Ro- berto da San Severino, conte di Pitigliano, e simili ; con 11 quali avevano da temere della perdila, non del guadagno loro: come intervenne dipoi a Vaila, dove in una giornata perderon quello che in ottocento anni con tante fatiche avevano acquistalo ; perchè da queste armi nascono solo i lenti, tardi e deboli acquisti, e le subite e miracolose per- dile. E perchè io son venuto con questi esempi in Italia, la quale è stala. governata già molti anni dall'armi merce- narie, le voglio discorrere più da allo, acciocché vedute le origini e progressi di esse, si possano meglio correggere. Avete da intendere, come, tosto che in questi ultimi tempi lo imperio cominciò ad essere ributtato d'Italia, e che il papa nel temporale vi prese più riputazione, si divise la Ita- lia in più stali: perchè molle delle città grosse presono l'armi contro i loro nobili, li quali prima favoriti dall' ira- peradore le tenevano oppresse, e la Chiesa le favoriva per darsi riputazione nel temporale ; di molte altre i loro citta- dini ne diventarono Principi. Ondechè, essendo venuta l'Ita- lia quasi in mano della Chiesa, e di qualche repubblica, ed essendo quelli preti e quelli altri cittadini ^ usi a non conoscer arme, incominciarono a soldare forestieri. Il pri- mo che dette riputazione a questa milizia, fu Alberigo da Conio, ^ romagnuolo. Dalla disciplina di costui discese, tra gli altri, Braccio e Sforza, che ne'lor tempi furono arbitri d'Italia. Dopo questi, vennero tulli gli altri che fino a' no-

* Così, mollo meglio che Cardinali, nella ediz. del Biado, nella Testina e in quella del 1SÌ3.

2 Pare che nessun altro editore si accorgesse prima di noi dell' errata le- zione da Como: cosa invero da maravigh'arsene , in quanto che tutti sanno non esser Como tra le città di Romagna, ma di Lombardia. Alberigo da Bar- biano, celebre istitutore della Compagnia di San Giorgio, e delle armi nazio- nali (se si riguardi a'tempi^ assai benemerito, ebbe altresì , per una fra le terre possedute dalla sua stirpe, il soprannome di Cntiio, o da Conio. E di questa con- tea, o castello (oggi distrutto), fa menzione lo stesso Dante, ove scrive, nel XIV del Purgatorio: Ben fa Bagnacaval che non rijìglia, E mal fa Qastrocaro , e peggio Conio , C/ie difg/iar lai conti più s' impiglia

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stri tempi hanno governale 1* armi d' Italia : ed il fine delle loro virtù è stato, che quella è stata corsa da Carlo, predala da Luigi, sforzata da Ferrando, e vituperala da' Svizzeri. L'ordine che loro hanno tenuto, è slato, prima, per dare riputazione a loro propri, aver tolto riputazione alle fanterie. Feciono questo perchè essendo senza slato, e in su l'indu- stria, f pochi fanti non davano loro riputazione, e li assai non potevano nutrire; e però si ridussero a' cavalli, dove con numero sopportabile erano nutriti e onorati : ed erano ridotte le cose in termine , che in un esercito di venti- mila soldati, non si trovavano duemila fanti. Avevano, olire a questo, usato ogni industria per levar via a ed a' soldati la fatica e la paura, non s'ammazzando nelle zuffe, ma pi- gliandosi prigioni e senza taglia. Non traevano di notte alle terre ; quelli delie terre non traevano di notte alle tende ; non facevano intorno al campo steccato fossa, non campeggiavano il verno. E tutte queste cose erano permesse ne' loro ordini militari, e trovale da loro per fuggire, come è detto, e la fatica e i pericoli: tanto che essi hanno con- dotta Italia schiava e vitui)erata.

Cap. XIII. De' soldati auii7iart, misti e propri.

L'armi ausiliarie, che sono le altre armi inalili, tono quando si chiama un potente, che con le armi sue ti venga ad aiutare e difendere : come fece ne' prossimi tempi papa Giulio, il quale avendo visto nell' impresa di Ferrara la trista prova delle sue armi mercenarie, si volse alle ausi- liarie, e convenne con Ferrando re di Spagna, che con le sue genti ed eserciti dovesse aiutarlo. Queste armi possono essere utili e buone per lor medesime, ma sono per chi le chiama sempre dannose; perché perdendo rimani disfallo, e jfjncendo resti loro prigione. E ancora che di questi esempi ne sien piene l'antiche Félorie, nondiroanco io non mi vo- glio partire da questo esempio di papa Giulio II, quale é an- cor fresco; il partito del quale non potè essere manco con- siderato, per volere Ferrara, metlendosi tulio nelle mani d' un forestiero. Ma la sua buona fortuna fece nascere una

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terza causa , acciò non cogliesse il frullo della sua mala elezione: perchè, essendo gli ausiliari suoi rolli a Ravenna, e surgendo i Svizzeri che cacciarono i vincilori fuor d'ogni opinione e sua e d'altri, venne a non rimanere prigione degl'inimici essendo fugali, degli ausiliari suoi avendo vinlo con allre armi che con le loro. I Fiorentini, essendo al lutto disarmali, condussero diecimila Francesi a Pisa per espugnarla ; per il qual parlilo portarono più pericolo che in qualunque tempo de' travagli loro. Lo iraperadore di Costan- tinopoli, per opporsi alli suoi vicini, misse in Grecia dieci- mila Turchi, li quali, finita la guerra, non se ne volsero partire , il che fu principio della servitù della Grecia con gl'infedeli. Colui, adunque, che vuole non poter vincere, si vaglia di queste armi, perchè sono molto più pericolose che le mercenarie; perchè in queste è la rovina falla, son tulle unite, tutte vòlte all' obbedienza di altri : ma nelle merce- narie, ad offenderti, vinto ch'elle hanno, bisogna più tempo e migliore occasione, non essendo tutte un corpo, ed essendo trovale e pagale da te; nelle quali un terzo che tu facci capo, non può pigliare subito tanta autorità che t'offenda. In somma, nelle mercenarie è più pericolosa la ignavia e pigrizia al com* battere; nelle ausiliarie, la virtù. Un Principe, pertanto, savio sempre ha fuggito queste armi, e vòllosi alle proprie; e vo- luto piuttosto perdere con le sue, che vincere con l'altrui, giudicando non vera vittoria quella che con le armi d'altri si acquistasse. Io non dubiterò mai di allegare Cesare Bor- gia e le sue azioni. Questo duca entrò in Romagna con le armi ausiliarie, conducendovi tulle genti francesi, e con quelle prese Imola e Furlì : ma non li parendo poi tali armi sicure, si volse alle mercenarie, giudicando in quelle manco pericolo, e soldo gli Orsini e Vitelli; le quali poi nel maneggiare trovando dubbie, infedeli e pericolose, le spense, e volsesi alle proprie. E puossì facilmente vedere che differenza è tra l'una e l'altra di queste armi, considerato che differenza fu dalla riputazione del duca quando aveva i Francesi soli, e quando aveva gli Orsini e Vitelli, e quando rimase con gli soldati suoi e sopra di stesso, e si troverà sempre accresciuta; mai fu stimalo assai se non quando ciascun vedde ch'egli era

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,^, ÌDlero possessore delle sue armi. Io non mi volevo partire ^'A dagli esempi italiani e freschi ; pure non voglio lasciare in-

r dietro lerone Siracusano, essendo uno de' sopra nominati da me. Costui, come di già dissi, fatto dalli Siracusani capo degli eserciti, conobbe subito quella milizia mercenaria non essere utile, per essere conduttori fatti come li nostri Italiani; e parendogli non li poter tenere lasciare, li fece lutti tagliare a pezzi; dipoi fece guerra con l'armi sue, > e non con l' altrui. Voglio ancora ridurre a memoria una figura del Testamento Vecchio fatta a questo proposito. Of- ^ ferendosi David a Saul d'andare a combattere con Golia provocatore Glisteo, Saul, per dargli animo, l'armò dell'armi sue; le quali come David ebbe indosso, ricusò dicendo con ù ^' quelle non si poter ben valere di stesso ; e però voleva r trovare il nimico con la sua fromba e con il suo coltello. n io somma, l'armi d'altri, o le ti cascan di dosso, o le ti ^ pesano, o le ti slriogono. Carlo VII, padre del re Luigi XI, ^ "' avendo con la sua fortuna e virtù liberala Francia dagl'In- hA^^ ghilesi, conobbe questa necessità d'armarsi d'armi pro- fj^ prie, ed ordinò nel suo regno l' ordinanze delle genti d' arme T^L e delle fanterie. Dipoi il re Luigi suo figliuolo spense quella B«^ ' de' fanti, e cominciò a soldare Svizzeri: il quale errore se- guitato dagli altri, è, come si vede ora in fatto, cagione de' pericoli di quel regno. Perchè, avendo dato reputazione a'Sviizeri, ha invilito (olle l'armi sue; perchè le fanterie ha spente in tutto, e le sue genti d'armi ha obbligale all'armi d'altri; perchè essendo assuefalli « militare eoo Sviizeri, non par loro di poter vincere senza essi. Di qui nasce che li Francesi contro a' Svizzeri non bastano, e senza Sviz- zeri contro ad altri non provano. Sono, adunque, stali gli eserciti di Francia misti, parte mercenari e parte propri: le quali armi tulle insieme son molto migliori che le sem- plici mercenarie o le semplici ausiliarie, e molto inferiori alle proprie. E basii l'esempio detto, perché il regno di Francia sarebbe insuperabile, se l'ordine di Carlo era ac- cresciuto o preservalo. Ala la poca prudenza degli uomini comincia una cosa, che per sapere allora di buono non ma- ^^ j Difesta il veleno che v'é sotto ; come io dissi di sopra delle

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febbri eliche. Pertanto, se colui che è in un principato, non conosce i mali se non quando nascono, non è veramente savio; e questo è dato a pochi. E se si considerasse la prima rovina dell'imperio romano, si troverà essere slato solo il I ^^ cominciare a soldare Goti; perchè da quel principio co- '^ minciarono ad enervare le forze dell' imperio romano ; e tulla quella virtù che si levava da lui, si dava a loro. Con- chiudo adunque, che senza avere armi proprie, nessun prin- cipato è securo; anzi è tutto obbligato alla fortuna, non avendo virtù che nell' avversità lo difenda. E fu sempre opi- ^ nione e sentenzia degli uomini savi, che niente sia cosi in- fermo ed instabile come è la fama della potenza non fon- data nelle forze proprie. E 1' armi proprie son quelle che sono composte di sudditi, o di cittadini, o di creati tuoi: tutte r altre sono o mercenarie , o ausiliarie. E il modo ad ordinare l'arme proprie sarà facile a trovare, se si discor- reranno gli ordini sopra nominati da me; e se si vedrà come Filippo padre di Alessandro Magno, e come molte repubbli- che e Principi si sono armati ed ordinati : a' quali ordini io mi rimetto al tutto.

Gap. XIV. Quello che al Principe si appartenga circa la milizia.

Deve, adunque, un Principe non avere altro oggetto altro pensiero, prendere cosa alcuna per sua arte, fuora della guerra, ed ordini e disciplina di essa; perché quella è sola arte che si aspetta a chi comanda; ed è di tanta virtù, che non solo mantiene quelli che son nati principi , ma molte volte fa gli uomini di privata fortuna salire a quél grado. E, per contrario, si vede, che quando i Principi hanno pensato più alle delicatezze che all'armi, hanno perso lo stalo loro. E la prima cagione che li fa perdere quello , è il dìsprezzar questa arte; e la cagione che te lo fa acquistare, è r essere professo di questa arte. Francesco Sforza, per es- sere armato, diventò , di privato, duca di Milano; e li figli , per fuggir le fatiche e i disagi dell'armi, di duchi, diven- tarono privali. Perchè intra le altre cagioni di male che far-

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reca l'esser disarmalo, ti fa contennendo: la quale è una di quelle infamie, delle quali il Principe si debbe guardare; come di sotto si dirà. Perchè da uno armalo a un disarmalo non è proporzione alcuna ; e la ragione non vuole che chi è armalo ubbidisca volenlieri a chi è disarmalo, e che il dis- armalo stia securo intra i servilori armati. Perchè , essendo nell'uno sdegno, e nell'allro sospetto, non è possibile ope- rino bene insieme. E però, un Principe che della milizia non s' intende, oltre all'allre infelicità, come è detto, non può essere stimalo da' suoi soldati, fidarsi di loro. Non deve, pertanto, mai levare il pensiero da questo esercizio della guerra ; e nella pace vi si deve più esercitare che nella guerra: il che può fare in duoi modi; l'uno con l'opere, r altro con la mente. E quanto all'opere, deve, oltre al tener bene ordinati ed esercitali li suoi , star sempre in su le caccio , e mediante quelle assuefare il corpo a' disagi; e parte impa- rar la natura de' siti, e conoscere come surgono i monti, come imboccano le valli, come giacciano i piani, ed inten- dere la natura de' fiumi e delle paludi ; ed in questo porre grandissima cura. La qual cognizione è utile in duoi modi. Prima, s'impara a conoscere il suo paese, e può meglio in- tendere le difese di esso. Dipoi, mediante la cognizione e pratica quelli siti, con facilità comprende un altro silo che di nuovo gli sia necessario speculare : perchè li poggi , le valli, e piani e fiumi e paludi che sono, per modo di dire, in Toscana, hanno con quelli dell'altre provincie certa simili- tudine; talché dalla cognizione del silo d'una provincia, si può facilmente venire alla cognizione dell'altre. E quel Principe che manca di questa perizia, manca della prima parte che vuol avere un capitano; perchè questa insegna trovare il nimico, pigliare gli alloggiamenti, condurre gli eserciti, ordinare le giornate, campeggiar le terre con tuo vantaggio. Filopomene, Principe degli Achei, intra l'altre laudi che dagli scrittori gli sono date, è che ne' tempi della pace non pensava mai se non a' modi della guerra; e quando era in campagna con gli amici, spesso si fermava e ragio- nava con quelli: Se gli nimici fussero in su quel colle, e noi ci trovassimo qui col nostro esercito, chi di noiarebbe van-

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taggio? come sicuramente si potrebbe ire a trovargli ser- vando gli ordini? se noi volessimo ritirarci, come aremmo a fare? se loro si ritirasseno, come aremmo a seguirli? E proponeva loro, andando, tutti i casi che in un esercito pos- sono occorrere; intendeva l'opinion loro, diceva la sua, corroboravala con le ragioni : talché per queste continue cogitazioni non poteva mai , guidando gli eserciti , nascere accidente alcuno, che egli non vi avesse il rimedio. Ma quanto all'esercizio della mente, deve il Principe leggere le istorie, ed in quelle considerare le azioni degli uomini ec- cellenti; vedere come si sono governati nelle guerre; esa- minare le cagioni delle vittorie e perdile loro, per potere queste fuggire, quelle imitare; e sopra lutto , fare come ha fatto per l' addietro qualche uomo eccellente, che ha preso ad imitare se alcuno è stato innanzi a lui lodato e glorioso , e di quello ha tenuto sempre i gesti ed azioni appresso di sé: come si dice che Alessandro Magno imitava Achille, Ce- sare Alessandro, Scipione Ciro. E qualunque legge la vita di Ciro sopradetlo scritta da Senofonte, riconosce dipoi nella vita di Scipione, quanto quella imitazione gli fu di gloria, e quanto nella castità, affabilità, umanità e liberalità, Scipione si con- formassi con quelle- cose che di Ciro sono da Senofonte scritte. Questi simili modi deve osservare un Principe savio , mai ne' tempi pacifici stare ozioso; ma con industria farne capitale, per potersene valere nelle avversità, acciocché, quando si muta la fortuna, lo trovi parato a resistere alli suoi colpi.

Cap. XV. Delle cose rnedianle le quali gli uomini , e massimamenle i Principi, sono laudali o viluperali.

Resta ora a vedere quali devono essere i modi e go- verni d' un Principe con li sudditi e con li amici. E perchè io so che molli di questo hanno scritto , dubito scrivendone ancor io non esser tenuto presuntuoso, partendomi, massime nel disputare questa materia, dagli ordini degli altri. Ma essendo l'intento mio scriver cosa utile a chi l'intende, m'è parso più conveniente andar dietro alla verità effel-

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I (oale delia cosa , che air immaginazione di essa : e molti si ' sono immaginali repubbliche e principali che non si sono mai visli conosciuti essere in vero; perchè egli è tanto dis- costo da come si vive a come si doverria vivere, che colui che lascia quello che si fa per quello che si doverria Tare, impara piuttosto la rovina che la presei razione sua : perchè un uomo che voglia fare in tutte le parli professione di buono, conviene che rovini infra tanti che non sono buoni. Onde è necessario ad un Principe, volendosi mantenere, imparare a potere esser U^ non booDO, ed osarlo e non usarlo secondo la necessità. La- (#A^, sciando, adunque, indietro le cose circa un Principe immagi- j^ naie, e discorrendo quelle che son vere ; dico che lutti gli À^ Qomioi, quando se ne parla, e massime i Principi, per esser * ^/ posti più allo, son notali di alcuna di queste qualità che ar- , ' recano loro o biasimo o laude : e questo è che alcuno é le-

U^ nolo liberale, alcuno misero, u8l^ldo un tcrfliine toscano ^j \\ (perchè avaro in nostra lingua è ancor colui che per ra- pina desidera d'avere; misero chiamiamo quello che troppo si astiene dall' usare il suo); alcuno è tenuto donatore, alcuno L^ . rapace; alcuno crudele, alcuno pietoso; l'uno fedifrago, .*](«* l'altro fedele; l'uno effeminato e pusillanime, l'altro feroce ^t ed animoso; Tono umano, l'altro superbo; l'uno lascivo, ^' V altro casto ; l' uno intero, l' altro astuto; l'uno duro, l'altro

facile; Tono grave, l'altro leggiere; l'uno religioso, l'altro incredulo; e simili. Io so che ciascuno confesserà, che sa- rebbe laudabilissima cosa , un Principe * trovarsi , di lutto le sopraddette qualità, quelle che sono tenute buone : ma perchè non si possono avere, interamente osservare, per le condizioni umane che non lo consentono, gli è necessario essere tanto prudente, che sappia fuggir l' infamia di quelli , vizi che gli lorrebbono lo stato, e da quelli che non gliene tolgano, guardarsi, se egli è possibile; ma non potendovi, si può con minor rispello lasciar andare. Ed ancora non si V f^' ^^^^ ^' incorrere nell' infamia di quelli vizi , senza i quali f j?' possa difficilmente salvare lo stalo: perchè, se si considera ben tutto, si troverà qualche cosa che parrà virtù, e se-

' Così in tutte le edìzioDÌ da noi vedate. Srmbra però certo doversi leg- gere t in tm Principe.

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IL P1UNCI.PE. 47

guendola sarebbe la rovina sua; e qualcun' altra che parrà vizio, e seguendola ne resulta la sicurtà, ed il ben es- sere suo.

Gap. XVI. Della liberalUà e miseria.

Cominciandomi, adunque, dalle prime soprascritte quali- tà, dico come sarebbe bene esser tenuto liberale: nondimanco la liberalità usata in modo che tu non sia temuto, li of- fende; perchè se la si usa virtuosamente e come la si deve usare, la non fia conosciuta, e non ti cadrà l'infamia del suo contrario. E però, a volersi mantenere infra gli uomini il nome del liberale, è neceipario non lasciare indietro alcuna qualità di sontuosità : talmenlechè sempre un Principe così fatto consumerà in simili opere tutte le sue facultà ; e sarà necessitato alla fine, s' egli si vorrà mantenere il nome del liberale, gravare i popoli estrasordinariamente , ed esser fiscale, e far tutte quelle cose che si posson fare per avere danari. Il che comincia a farlo odioso con li sudditi, e poco stimar da ciascuno, diventando povero; in modochè, avendo con questa sua liberalità otTeso molti e premiato pochi , sente ogni primo disagio, e periclita in qualunque primo pe- ricolo; il che conoscendo lui, e volendosene ritrarre, incorre subito neir infamia del misero. Un Principe, adunque , non potendo usare questa virtù del liberale senza suo danno, in modo che la sia conosciuta; deve, s' egli è prudente, non si curare del nome del misero: perchè con il tempo sarà tenuto sempre più liberale, veggendo che con la sua parsimonia le sue intrate gli bastano, può difendersi da chi gli fa guerra, può far imprese senza gravare i popoli ; lalmentechè viene a usare la liberalità a lutti quelli a chi non toglie, che sono infiniti ; e miseria a lutti coloro a chi non dà, che sono po- chi. Ne' nostri tempi noi non abbiam visto fare gran cose se non a quelli che sono stali tenuti miseri ; gli altri essere spenti. Papa Giulio II , come si fu servito del nome di libe- rale per aggiugnere al papato, non pensò poi a mantener- selo, per poter far guerra al re di Francia: ed ha fatto tante guerre senza porre un dazio estraordinario, perchè alle su-

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perflue spese ha somministralo la lunga sua parsimonia. Il re di Spagna presente, se fusse tenuto liberale, non arebbe fatlo vinto tante imprese. Pertanto, un Principe deve sJimar poco, per non avere a rubare i sudditi, per poter difendersi, per non diventare povero e contennendo , per non essere forzato diventar rapace , d' incorrere nel nome di misero ; perchè questo è uno di quelli vizi che lo fanno resnare. E se alcun dicesse ; Cesare con la liberalità pervenne all'imperio; e molti altri per essere stati ed esser tenuti liberali, sono venufi a gradi grandissimi ; rispondo : o tu se' Principe fallo , 0 tu se' in via di acquistarlo. Nel primo caso , questa liberalità è dannosa ; nel secondo, è ben necessario esser te- nuto liberale : e Cesare era un di quelli che voleva perve- nire al principato di Roma; ma se poi che vi fu venuto , fusso sopravvissuto e non si fusse temperato da quelle spese, arebbe distrutto quell'imperio. E se alcuno replicasse: molli sono stali Principi, e con gli eserciti hanno fatto gran cose , che sono stati tenuti libéralissimi ; ti rispondo : o il Principe spende del suo e de' suoi sudditi , o di quel d' altri. Nel primo caso, deve esser parco ; nel secondo, non deve lasciar indietro parte alcuna di liberalità. K quel Principe che va con gli eserciti, che si pasce di prede, di sacchi e di la- glie, e maneggia quel d'altri, gli è necessaria questa libera- lità: altrimenti, non sarebbe seguilo da' soldati. E di quello che non è tuo o de' tuoi sudditi, si può essere più largo do- natore, come fu Ciro, .Cesare e Alessandro; perchè lo «pen- dere quel d'altri non toglie riputazione, ma le ne aggiugne: solamente lo spendere il tuo è quello che li nuoce. E non c'è cosa che consumi stessa quanto la liberalità : la quale mentre che tu l'usi, perdi la facultà di usarla , e diventi o povero e contennendo ; o per fuggire la povertà , rapace e. odioso. E in tra tulle le cose da che un Principe si debbo guar- dare, è l'esser contennendo e odioso; e la liberalità all'una e l'altra di queste cose li conduce. Pertanto, è più sapiente tenersi il nome di misero, che partorisce una infamia senza odio; che, per volere il nome di liberale, incorrere per neccs- p. ~ 8ilà nel nome di rapace, che.parlorisce una infamia con odio.

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IL PRINCIPE. 49

Gap. XVII. ~ Della crudeltà e clemenzia, e s' egli è meglio essere amalo o lemulo.

Descendendo appresso alle altre qualità preallegate, dico che cìascan Principe deve desiderar d* essere tenuto pietoso, e non crudele. Nondimanco, deve avvertire di non usar raale questa pietà. Era tenuto Cesare Borgia crudele; nondimanco quella sua crudeltà aveva racconcia la Roma- gna, unitola e ridottola in pace e in fede. 11 che se si consi- derrà bene, si vedrà quello essere slato molto più pietoso che il popolo fìorenlino, il quale, per fuggire nome di cru- dele, lasciò distruggere Pistoia. Deve, pertanto, un Principe non si curar dell' infamia di crudele, per tenere i sudditi suoi uniti ed in fede: perchè con pochissimi esempi sarà più pietoso che quelli li quali, per troppa pietà, lasciano se- guire i disordini, onde nanchino occisioni o rapine; perchè queste sogliono offendere una università intera; e quelle ese- cuzioni che vengono dal Principe, offendono un pafticulare. E intra lutti ì Principi, al Principe nuovo è impossibile fug- gire il nome di crudele, per essere gli stali nuovi pieni di pericoli. Onde Virgilio, per la bocca di Didone, escusa Tina-^. manilà dei suo regno per essere quello nuovo, dicendo:

Bes dura , et regni novitas me talia cogitnt Moliri , et latejines custode tueri.

Nondimeno, deve esser grave al credere ed al muoversi, / si deve far paura da stesso; e procedere in modo lem- \ perato con prudenza ed umanità, che la troppa confidenza | non lo faccia incauto, e la troppa ditfìdenza non lo renda inlollerabile. Nasce da questo una disputa: «'eiyW é meglio essere amalo che temuto^ o lemulo che amalo. Rispondesi, che si vorrebbe essere l'uno e l'altro; ma perché gli è diHìcile che gli stiano insieme, é mollo più picuro l'esser temuto che \ amato, quando s'abbi a mancare dell* un de' duoi. Perchè j degli uomini si può dir questo generalmente, che sieno in- \ grati, volubili, simulatori, fuggitori de' pericoli, cupidi di \ guadagno: e mentre fai lor bene, sono tulli tuoi, ti offeri- scono il sangue, la roba, la vita, ed i figli, come di sopra

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.^0 tL PRINCIPE.

dissi, qnando il bisosno è discosto: ma qnando li si appres- sa, si rivoltano. E quel Principe che si è tulio fondalo in su le parole loro, trovandosi nudo d' altrf preparamenti, rovina; perchè T amicizie che si acquistano con il prezzo, e non con grandezza e nobilita d'animo, si meritano, ma le non s' hantio, ed a* tempi non si possono spendere. E gli uo- mini hanno men rispello d'offendere uno che si facci amare, che ano che si facci temere: perchè l'amore è tenuto da un vinculo d' obbligo, il quale, per esser gli uomini tristi, da ogni occasione di propria utilità è rotto; ma il timore è te- nuto da una paura di pena, che non abbandona mai. Deve, nondimeno, il Principe farsi temere in modo, che se non acquista' l'amore, e* fuscR l'odio; perchè può molto bene stare insieme esser temalo ò%ntìtì odiato: il che farà sempre che si astenga dalla robb.i de' soci cittadini e de'suoi saddili, e dalle donne loro. K quando pure gli bisounas^e procedere contro al sancoe di qualcuno, farlo quando vi sia giuslifìdi- zione conveniente e causa manifesta: ma sopraltulto aste- nersi dalla robba d'altri; perchè gli uomini dimenticano più presto la morte del padre, che la perdita del patrimonio. Dipoi, le cagioni del tdrrc la robba non mancano mai; e sem- pre colui che comincia a vivere con rapina, trova cagion d* occupare quel d'altri: e, per avverso, contro al sangue sono più rare e mancano più presto. Ma quando il Principe è con gli eserciti, ed ha in governo moltitudine di soldati, allora è al tutto necessario non si curar del nome di erodete; perché senza questo nome non si tiene un esercito onito, disposto ad alcuna fazione. Intra le mirabili azioni di An- nibale si connumera questa, che avendo un esercito gros- sissimo, misto d'intinile generazioni d'uomini, condotto a militare in terre d'altri, non vi surgesse mai una dissen- sione, né infra loro contro il Principe, cosi nella tri.sla come nella sua buona fortuna. Il che non potè nascere da altro che da quella sua inumana crudeltà; la quale insieme con infìn^le sue virtù Io fece sempre nel cospetto de' suoi soldati venerando e terribile; e senza quella l'altre sue virtù a far quello effello non gli bastavano. £ gli scrittori poco considerali 'dall'una parte ammirano queste sue azioni, e

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IL PRINCIPE. ^1

dair altra dannano la principal cagione d* esse. E che sia il vero che l'altre sue virtù non gli sarieno bastale, si può considerare in Scipione (rarissimo non solamente ne' tempi suoi, ma in tutla la memoria delle cose che si sanno), dal quale gli eserciti suoi in Ispagna si ribellarono: il che non nacque da altro che dalla sua troppa pietà, la quale aveva dato a' suoi soldati più licenza che alla disciplina militare non si conveniva. La qual cosa gli fu da Fabio Massimo nel senato rimproverata, chiamandolo corruttore della romana milizia. I Locrensi essendo stati da un legalo di Scipione distrutti, non furono da lui vendicati, l'insolenza di quel legato corretta, nascendo lutto da quella sua natura facile: tairaentechè, volendolo alcuno in senato escusare, disse come \ egli erano molti uomini che sapevano meglio non errare, che correggere gli errori d'altri. La qual natura arebbe con il tempo violato la fama e la gloria di Scipione, se egli avesse con essa perseverato nell* imperio ; ma vivendo sotto il go- verno del senato, questa sua qualità dannosa non solamente si nascose, ma gli fu a giuria. Gonchiudo, adunque, tornando all'esser temuto ed amato, che amando gli uomini a posta / loro, e temendo a posta del Principe, deve un Principe savio ' fondarsi in su quello che è suo, non in su quello che è d'ai- / tri: deve solamente ingegnarsi di fuggir l'odio, come è dello.

Gap. XVIIL In che modo i Principi debbono osservare la fede.

Quanto sìa laudabile in uti Principe mantenére la fede e vivere con integrità, e non con astuzia, ciascono lo itf* tende. Nondimeno, si vede per esperienza ne' nostri tempi, quelli Principi aver fallo gran cose, che della fede hanno tenuto poco conto, e che hanno saputo con aslM/ia assirare i^ervelli degli uomini, ed alla fine hanno superato quelli che si sono fondati in su la lealtà. Dovete, adunque, sapere come sono due generazioni di combattere; l'una con le leggi, l'altra con le forze: quel primo modo è degli uomini, quel secondo è delle bestie; ma perchè il primo spesse volle non

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basta, bisogna ricorrere al secondo. Perfanto a un Prin- cipo è necessario saper bene usare la beslia e V uomo. Que- sta r>arle è stata insegnata a' Principi coperiaroenle dai^li ^ .antichi scrittori, i quali scrivono come Achille e molli altri V di quelli Principi antichi furono dati a nutrire a Chirone kJ*'A' ^^^^^^^^^ c^^ ^^^0 '^ s"^ disciplina gli custodisse: il che . jf non vool dir altro l'aver per precettore un mezzo bestia '^ ^ ' e mezzo uomo, se non che bisogna ad un Principe sapere yt/'^ osare T una e T altra natura , e 1' una senza l'altra non è M durabile. Essendo, adunque, un Principe necessitHto saper

bene osare la bestia, dehbe di quelle pigliare la volpe e il leone; perchè il leone non si difende da* lacci, la volpe non si defende da' lupi. Bisogna, adunque, essere volpe a cono- scere i lacci, e lione a sbigottire i lupi. Coloro che stanno 7 templiceraenle in sol leone, non se ne intendono. Non può, pertanto, on sìcnor pnidente debbe osservar la fede, quando tale osservaniia gli tornì contro, e che sono spente le cagioni che la feciono promettere. E se gli uomini fossero I lotti buoni, questo precetto non saria buono; ma perché •on tristi, e non 1' os«erverebbono a le, tu ancora non l'hai I da osservare a loro. mai a un Principe mancarono ca- gioni legittime di colorare l' inosservanza. Di questo se ne potrien dare infiniti esempi moderni, e mostrare quante paci, quante promesse sieno siale fatte irrite e vane per la isfedelità de' Principi: ed a quello che ha saputo meulio / asar la volpe, è meglio successo. Ma è necessario questa natora sa(»erla ben colorire, ed essere gran simulatore e , dissimulatore: e sono tanto semplici gli uomini, e tanto oh- I bediscono alle necessità presenti, che colai che inganna, troverà sèmpre chi si lascerà ingannare, lo non voglio de- gli esempi freschi tacerne uno. Alessandro VI non fece mai altro che ingannar uomini, mai pensò ad altro, e tro- soggetto da poterlo fare; e non fu mai uomo che avesse maggiore eflìcacia in asseverare, e che con maggiori giura- menti aflfermasse una cosa, e che l'osservasse meno: non- dimanco gli succederono sempre gl'inganni, perché cono- sceva bene questa parte del mondo. A un Principe, adunque, non è necessario avere tolte le soprascritte qualità; ma è

ben necessario parer d* averle. Anzi, ardirò di dir qnesto, che avendole ed osservandole sempre, sono dannose; e pa- / ^ [v^* rendo d'averle, sono utili: come parer pietoso , fedele,*^ Jt'( amano, religioso, intero, ed essere; ma stare in modo edì-p-c*^*^ ficaio con l'animo, che bisognando non essere, lu possi e sappi f* ^< t mutare il contrario. Ed bassi da intender questo, che un Prin- , <. ^ cipe, e massime un Principe nuovo, non può osservare tutte r' / quelle cose per le quali gli uomini son tenuti buoni, essendo spesso necessitato per mantener lo stato, operare contro alla fede, contro alla carità, contro alla umanità, contro alla reli- gione. E però, bisogna che egli abbia uno animo disposto a volgersi secondo che i venti e le variazioni della fortuna gli comandano; e, come di sopra dissi, non partirsi dal bene, potendo, ma sapere entrare nel male, necessitato. Deve, adun- que, avere un Principe gran cura che non gli esca mai di bocca una cosa che non sia piena delle soprascritte cinque qualità; e paia, a vederlo e adirlo, lutto pietà, tutto fede, lutto integrità, tutto umanità, lutto religione. E non è cosa più ne- cessaria a parer d'avere che questa ultima qualità: perchè gli nomini, in universale, giudicano più agli occhi che alle mani; perchè tocca a vedere a ciascuno, a sentire a pochi. Ognun vede qualche tu pari, pochi sentono quel che tu sei; e quelli pochi non ardiscono opporsi alla opinione de' molli, che ab- bino la maestà dello slato che gli difenda ; e nelle azioni di tutti gli uomini, e massime de' Principi, dove non è giudi- ciò da reclamare,* si guarda al fine. Facci, adunque, un Principe conto di vivere' e mantenere lo stato: i mezzi sa- ranno sempre giudicati onorevoli, e da ciascuno lodali; per- chè il vulgo ne va sempre preso con quello che pare, e con lo evento della cosa: e nel mondo non è se non vulgo, e gli pochi han loco quando gli assai non hanno dove appog- giarsi. Alcun Principe di questi tempi, il quale non è bene nominare, non predica mai altro che pace e fede; e dell' una e dell' altra è inimicissimo; e V una e 1' altra quando

* Cosi nell' edizione del Biado. In tutte T altre da noi vedute : a c/a' re* damare.

2 L' edizione del Biado omette qui conto. Il MS. Laurenziano, e 1* edizione dèi i813, invece di vivere, hanno vincere.

^ IL ptimciPÉ.

e' r avesse osservata , gli arebbe più volte tolto lo stato e la reputazione.

Gap. XIX. Che si debbe fuggire lo essere disprezzalo e odialo.

Ma perchè circa le qualità che di sopra fa men- zione, io ho parlato delle più importanti; l'altre voglio dis- correre brevemente sotto queste generalità, che il Principe pensi, come di sopra in parte è detto, di fuggire quelle cose che lo faccino odioso o conlennendo;e qualunque volta fuggirà questo, ara adempito le parti sue, e non troverà nell' altre in- famie pericolo alcuno. Odioso lo fa sopratutto, come io dissi, r esser rapace ed usurpatore della roba e delle donne de' sud- diti: di che si deve astenere; e qualunque volta alla univer- ] sita degli nomini non si toglie robba onore^ vivono I contenti, e solo s' ha a combattere con l' ambizione pochi, \ la quale in molti modi e con facilità si raffrena. Contennendo lo fa lo esser teoolo vario, leggiero, effeminato, pusillanimo, irresoluto: di che on Principe si deve guardare come da uno scoglio, ed ingegnarsi che nelle azioni sue si riconosca gran* dczza, animosità, gravità, fortezza; e circa i maneggi pri- vali de' sudditi, volere che la sua sentenzia sia irrevocabile, e si mantenga in tale opinione, che alcuno non pensi ad ingannarlo ad aggirarlo. Quel Principe che di que- sta opinione, è riputato assai; e contro a chi è riputato assai, con difOcultàsi congiura; e con diflìcultàè assaltato, purché s'intenda che sia eccellente e riverito da' suoi. Perché un Principe deve aver due paure; una dentro per conto de' sud- I diti; l'altra di fuori per conto de' potenti esterni. Da questa si difende con le buone armi e buoni amici; e sempre se ara buone armi, ara buòni amici; e sempre staranno ferme le cose di dentro, quando stien ferme quelle di fuora, se già le non fussero perturbate da una congiura; e quando pur quelle di fuora movessero, se egli sarà ordinato, e vissuto come io ho detto, sempre quando non s'abbandoni, sosterrà ogni impeto, come dissi che fece Nabide spartano. Ma circa i sud- diti, quando le cose di fuora non muovino, s'ha da temere

ìl principe. 55

che non congiurino segretamente: del che il Prìncipe si as- sicura assai, fuggendo Tessere odiato e disprezzato; e te- nendosi ìl popolo satisfatto di lui; ìl che è necessario conse- guire, come di sopra si disse a lungo. Ed uno de' più polenti rimedi che abbia un Principe contro le congiure, è non es- sere odiato o disprezzato dall'universale: perchè sempre chi congiura crede con la morte del Principe satisfare al popolo; ma quando ei creda ofTenderlo, non piglia animo a prender simil partito, perchè le ditlìcultà che sono dalla parte de' con- giuranti, sono infmite. Per isperienza si vede molte essere state le congiure, e poche aver avuto buon fine; perchè chi consìura non può esserselo, può prender compagnia se non di quelli che creda essere malcontenti; e subito che a un malcontento tu hai scoperto l'animo tuo, gli dai mate- ria a contentarsi, perchè manifestandolo, lui, ne può sperare ogni comodità: talraentechè, veggendo il guadagno fermo da questa parte, e dall' altra reggendolo dubbio e pieno di pe- ricolo, convien bene oche sia raro amico, o che sia al tutto ostinato inimico del Principe ad osservarti la fede. £ per ri^ durre la cosa in brevi termini, dico: che dalla parte del con- giurante non è se non paura, gelosia, sospetto di pena che Io sbigottisce; ma dalla parte del Principe è la maestà del principato, le leggi, le difese degli amici e dello stato che lo defendono: talmentechè, aggiunto a tutte queste cose la benivolenza popolare, è impossibile che alcun sia si teme- rario che congiuri. Perchè, per l'ordinario, dove un congiu- rante ha da temere innanzi alla esecuzione del male; in questo caso debbe temere ancor dapoi, avendo per nimico il popolo, seguilo l'eccesso, potendo per questo sperare ri- fugio alcuno. questa materia se ne potria dare infiniti esempi, ma voglio solo esser contento d'uno, seguito alla memoria de' nostri padri. Messer Annibale Bentivogli, avolo del presente messer Annibale, che era Principe in Bologna, essendo da'Canneschi che gli congiurarono contro ammaz- zato, né rimanendo di lui altri che messer Giovanni, quale era in fasce; subito dopo tale omicidio, si levò il popolo, ed ammazzò tutti i Canneschi. Il che nacque dalla benevolenza popolare che la casa de' Bentivogli aveva in quei tempi in

o6 IL t>RINCIPe.

Bolosna: la qaale fa tanta, che non vi restando alcnno che potessi, morto Annibale, reggere Io slato, ed avendo indi- zio come in Firenze era uno nato de' Bentivogli, che si te- neva (ino allora figlio di nn fabbro, vennero i Bolognesi per quello in Firenze e li dettono il governo di quella città; la quale fu governata da lui fino a tanto che messer Gio- vanni pervenne in età conveniente al governo. Conchiudo, adunqiie, che nn Principe deve tenere delle congiure poco conio, quando il popolo gli sia benivolo; ma quando gli sia inimico, ed abbilo in odio, deve temere d'ogni cosa e di ognuno. E gli stati bene ordinali, e li Principi savi hanno con ogni dil genza pensato di non far cadere in disperazione i grandi, e di satisfare al popolo e tenerlo contento; perchè questa è una delle più importanti materie che abbi un Prin* cipe. Intra i regni bene ordinati e governati a' nostri (empi è quel di Francia, ed in esso si trovano infinite costitu- xionì buone, donde ne depende la libertà e sicurtà del re; delle quali la prima è il parlamento e la sua autorità: per- ché quello che ordinò quel regno, conoscendo Tambizion de' potenti e la insolenza loro, e giudicando esser necessa- rio loro un freno in bocca che gli correggesse; e dall'altra parte conoscendo l'odio dell' universale contro i grandi, fon- dato in su la paura, e volendo assicurarli; non volse che questa fosse parlicular cura del re, per tórli quel carico che e' potessi avere con i grandi favorendo i popolari, e con i popolari favorendo i grandi; e però costituì un giudice terzo, che fusse quello che, senza carico del re, badesse i grandi, e favorisse i minori. po(è essere questo ordine migliore, più prudente, maggior cagione di sicurtà del re e del regno. Di che si può trarre nn altro notabile, che li Principi debbono le cose di carico metter sopra d'altri, e le cose di grazia a medesimi.* Di nuovo conchiudo, che un Principe deve stimare i grandi, ma non si far odiare dal popolo. Parrebbe forse a molli , che considerata la vita e morte di molti imperadori romani, fussino esempi

Le cdicioni del iSl 3 e del 1819 ! ^e cose di carico fare amministrare ad aìtrtf e quelle di grazie a lor medesimi. La Testina, colla editione del Poggiali, invecp di «mmjn£jfrafv, pongono sttmminlstrare e somministrare.

IL PRINCIPE. , 87

Contrari a questa mia opinione; trovando alcuno esser vis- suto sempre egregiamenle, e mostro gran virtù d'animo, nondimeno aver perso l' imperio; ovvero essere stato morto da'suoi, che gli hanno congiurato contro. Volendo, adunque, rispondere a queste obiezioni, discorrerò le qualità d'alcuni imperadori, mostrando la cagione della lor rovina, non dis- forme da quello che da me s'è addotto; e parte metterò in considerazione quelle cose che sono notabili a chi legge le azioni di quelli tempi. E voglio mi basti pigliar tutti quelli imperadori che succederono nell'imperio da Marco filosofo a Massimino: li quali furono Marco, Commodo suo figlio, Pertinace, Giuliano, Severo, Antonino, Caracalla suo figlio, Macrino, Eliogabalo, Alessandro e Massimino. Ed è prima da notare, che dove negli altri principati si ha solo a contendere con l'ambizione de' grandi ed insolenza de' popoli, gl'imperadori romani avevano una terza diflRcultà, d'avere a sopportare la crudeltà e avarizia de' soldati: la qual cosa era si difficile, che la fu cagione della rovina di molli, sendo difficile satisfare a' soldati ed a' popoli; perchè i popoli amano la quiete, e per questo amano i Principi modesti; e li soldati amano il Principe d'animo militare, e che sia insolente e crudele e rapace. Le quali cose volevano che egli esercitassi ne' popoli , per poter avere duplicato stipendio, e sfogar la loro avarizia e crudeltà: donde ne nacque che quefii imperadori che per natura o per arte non avevano ri- ) putazione tale che con quella tenessero l'uno e l'altro iii( freno, sempre rovinavano; e li più di loro, massime quelli che come uomini nuovi venivano al principato, conosciuta la difficultà di questi duoi diversi umori, si volgevano a satis- fare a' soldati, slimando poco lo ingiuriare il popolo. Il qual partito era necessario: perchè, non potendo i Principi man- care di non essere odiati da qualcuno, si debhon prima sfor- zare di non essere odiati dairuniversità; e quando non pos- , sono conseguir questo, si debbono ingegnere con ogni inda- | stria fuggir l' odio di quelle università che sono più potenti. » E però quelli imperadori che per novità avevano bisogno di favori estraordinari, aderivano a' soldati più volentieri che alti popoli: il che tornava loro nondimeno utile o no, se-

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condo che quel PrÌDcipe si sapeva mantenere riputalo con lo- ro. Da queste cagioni sopraddette, nacque che Marco, Perti- nace ed Alessandro, essendo tutti di modesta vita , amatori della giustizia, inimici della crudeltà, umani e benigni, eb- bero tutti, da Marco in fuora, tristo fine: Marco solo visse e mori onoratissimo, perché lui succede all'imperio per ragion d'eredità, e non aveva a riconoscer quello dai soldati dai popoli ; dipoi , essendo accompagnalo da molte virili che lo facevano venerando, tenne sempre che visse l'uno ordine e r altro dentro a suoi termini , e non fu mai odiato De disprezzato. Ma Pertinace fu creato imperadore contro alla voglia de' soldati; li quali essendo usi a vivere licenzio» samcnle sotto Commodo, non poterono sopportare quella vita onesta alla quale Pertinace gli voleva ridurre: onde aven- dosi creato odio, ed a questo odio aggiunto dispregio per l'es- ser vecchio, rovinò ne' primi principi! della sua amministra- zione. Onde si deve notare, che l'odio s'acquista cosi me- diante le buone opere, come le triste: e però, com'io dissi l di sopra, volendo un Principe mantenere lo slato, é spesso forzato a non esser buono; perchè, quando quella universi- tà, o popolo o soldati o grandi che sieno, delia quale tu giudichi per mantenerti aver bisogno, è corrotta, li convien seguire l'umor suo, e satisfarle; e allora le buone opere ti ^ ^'^ sono inimiche. Ma vegnamo ad Alessandro ; il qual fu di ^^««««4411 latita bontà, che intra l'altre lode che gli sono attribuite, é che i quattordici anni che tenne l'imperio, non fu mai morto da lui nessuno ingiudicato: nondimanco, essendo tenuto efle- .. minato, ed uomo che si lasciasse governar dalla madre, e ^**^ per questo venuto in dispregio, conspirò contro di lui l'eser-

cito, ed ammazzollo. Discorrendo ora, peropposito, le qualità di Coraraodo, di Severo, di Antonino, di Cariicalla e di Massimino, gli troverete crudelissimi e rapacissimi; li quali, 1 per satisfare a' soldati, non perdonarono a nessuna qualità ; d'ingiuria che ne' popoli si potessi commettere; e tulli, ec- I cello Severo, ebbero tristo fine: perché in Severo fu tanta vir- tù, che mantenendosi i soldati amici, ancorché i popoli fus- seroda lui gravali, potè sempre regnare felicemente; perchè quelle sue virtù lo facevano nel cospetto de'soldati e de'po-

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IL PRINCIPE. 59

poli mirabile , che questi rimanevano in un certo modo at- toniti e stupidi, e quelli altri reverenti e satisfatti. E perchè le azioni di costui furono grandi in un Principe nuovo, io vo- glio mostrar brevemente quanto egli seppe ben usare la persona della volpe e del leone; le quali nature dico, come di sopra, esser necessarie ad imitare a un Principe. Cono- sciuta Severo la ignavia di Giuliano imperadore, persuase al suo esercito, del quale era in Schiavonia capitano, ch'egli era bene andare a Roma a vendicar la morte di Pertinace, il quale era stato morto dalla guardia imperiale ; * e sotto questo colore, senza mostrar di aspirare all' imperio, mosse l'esercito contro a Roma, e fu prima in Italia che si sapesse la sua partita. Arrivato a Roma, fu dal senato per timore eletto imperadore, e morto Giuliano. Restavano a Severo, dopo questo principio, due difTìcultà a volersi insignorire di tutto lo slato: r una in Asia, dove Nigro, capo degli eserciti asiatici, s' era fatto chiamare imperadore; l'altra in ponente, di Albi- no, il quale ancora lui aspirava all'imperio. E perchè giu- dicava pericoloso scoprirsi inimico a tutti a duoi, deliberò di assaltar iNitjro, e inj^annare Albino; al quale scrisse, come essendo dal senato eletto imperadore, voleva partecipare quella dignità con lui; e mandògli il titolo di Cesare, e per deliberazione del senato se lo augiunse collet;a: le quali cose furono accettale da Albino per vere. Ma poiché Severo ebbe vinto e morto Nigro, e pacate le cose orientali, ritornatosi a Roma, si querelò in senato di Albino, che, come poco cono- scente de' benelìcii ricevuti da lui, aveva a tradimento cerco d' aramazzarlo, e per questo era necessitato andare a punire la sua ingratitudine. Dipoi andò a trovarlo in Francia, e gli tolse lo stato e la vita. Chi esaminerà, adunque, tritamente le azioni di costui, lo troverà un ferocissimo leone e un'astu- tissima volpe; e vedrà quello temuto e reverito da ciascuno, e dagli eserciti non odialo; e non si maraviglierà se lui, uomo nuovo, ara possuto tenere tanto imperio, perchè la sua gran- dissima reputazione lo difese sempre da quell'odio che i po- poli per le sue rapine avevano possuto concipere. Ma Anlo-

1 II MS. Laurenziano e l'edizione del 1813; il quale dai soldati preto- riani era stato morto.

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60 IL PRINCIPE.

nino 800 figlioolo fa ancor lai eccellentissimo, ed aveva in parli* che lo facevano aromirabile nel cospetto de' po- poli e grato assoldati; perchè era uomo militare, sop- porlantissimo d'ogni fatica, disprezzalore d'ogni cibo deli- cato e d'ogni altra molliiie: la qual cosa lo faceva amare da 1 '^ ' (otti gli eserciti. Nondimeno , la sua ferocia e crudeltà fa tanta e ai inaodila, per avere dopo molte Decisioni* parti- colari morto gran parie del popolo di Roma e tatto quel d'Alessandria, che diventò odiosissimo a tutto il mondo, e

!t#^'^v. cominciò a esser temuto da quelli ancora ch'egli aveva in-

I torno; in modo che fojimmaxzalo da od centurione in mezzo

del suo esercito. Dove è da~notare, che queste simili morii,

le quali seguitano per delihera/ione di un animo deliberalo

# e ostinato, non si possono da' Principi eviiare, perchó eia-

*£/.\iu I senno che non si curi morire lo può fare; ma deve bene , I il Principe temerne meno . perchè le sono rarissime. Deve solo

(^ K*^- jtaardarsi di non fare inniuria grave ad alcuno di coloro de'

^K\ quali si serve, e eh' esli ha d'intorno al servizio del suo prin-

'^. cipalo: come aveva fallo Antonino, il quale aveva morto con-

y^,|U^4^'tomeliosaraente an fratello di quel centurione, e lui ogni giorno minacciava, e nientedimeno lo teneva alla guardia del suo corpo; il che era partito temerario e da rovinarvi , come gì' intervenne. Ma vegniamo a Commodo, al quale era facilità grande tener l'imperio, per averlo ereditario, es- tendo fìsliuol di Marco, e solo gli bastava seguir le vesti- gia del padre, ed a' popoli ed a* soldati arebbe satisfatto; ma essendo d'animo crudele e bestiale, per poter usare la sua rapacità ne' popoli, si volse ad intrattenere gli eserciti e far- gli licenziosi: dall'altra parte, non tenendo la sua «tisnìtà, de- scendendo spesso nelli teatri a combattere co' gladiatori, e facendo altre cose vilissime e poco degne della maieslà impe- '^ fiale, diventò contennendo nel cospetto de' soldati; ed essendo odiato da una parle,e dall'altra disprezzato, fu conspirato con- tro di lui, e morto. Restaci a narrare le qualità di Massimino. Costui fu uomo bellicosissimo; ed essendo gli eserciti infasti-

* Cofi oell' edirione Romana La romane Inionc è t/tt ancor Ini nomo ec- cellenti f timo, ed a\-eva in jte pnHi ecee/tnttiMtime,

* Alcune rrpuUte stampe hanno: ocemMtomt. 0

IL PRINCIPE. 6i

diti dalla mollizie d'Alessandro, del quale è di sopra dis- corso, morto lui, Io elessero ali* imperio. Il quale non mollo tempo possedette, perchè due cose lo fecero odioso e conten- nendo; runa l'esser lui vilissimo, per aver guardate le pe- core in Tracia (la qual cosa era per tutto notissima, e gli fa- ceva una gran dedignazione nel cospetto di ciascuno); l'altra perchè avendo, nell'ingresso nel suo principato, difrerilol'an» dare a Roma ed entrare nella possessione della sedia impe- riale, aveva dato opinione di crudelissimo, avendo per li suoi prefetti in Roma, e in qualunque luogo dell'imperio, esercitato molte crudeltà. A tal che, commosso tutto il mondo dallo sdegno per la viltà del suo sangue, e, dall'altra parte, dall'odio per paura della sua ferocia, prima l'Affrica, di- poi il senato, con tutto il popolo di Roma e tutta l'Italia, gli cospirò contro: al che si aggiunse il suo proprio esercito; il quale, campegsiando Aquileia e trovando diflìcullà nella espu- gnazione, infastidito della crudeltà sua, e per vedergli tanti inimici temendolo meno, lo ammazzò. Io non voglio ragionare di Eliogabalo, di Macrin^nè di Giuliano, i quali per essere al lutto contennendi si spensero subito: ma verrò alla conclusione di questo discordo, e dico che li Principi de'noslri tempi hanno meno questa diflìcuUà di satisfare estraordinaria- mente a'soMati ne'governi loro; perchè, nonostante che s'abbi da avere a quelli qualche considerazione, pure si risolve presto, per non aver alcuno di questi Principi eserciti insie- me che sieno inveterati con governi ed amministrazioni delle Provincie, come erano gli eserciti dell' imperio roma- no: e però, se allora era necessario satisfare a' soldati più che a'popolì, era perchè i soldati potevano più che i po- poli; ora è più necessario a tutti i Principi, eccetto che al Turco ed al Snidano, satisfare a'popoli che a'soldali, perchè i popoli possono più che quelli. Di che lo ne eccettuo il Tur- co, tenendo sempre quello intorno dodicimila fanti e quin- dicimila cavalli, da'quali depende la sicurtà e la fortezza del suo regno; ed è necessario che, posposto ogni altro risp«Kto de' popoli, se gli mantenga amici. Simile è il regno del Soldano; quale essendo tutto in mano de' soldati, conviene che ancora lui , senza rispetto de' popoli , se gli mantenga ami-

62 IL PRINCIPE.

ci. Ed avete a notare, che questo stato del Soldano è disforme da tutti gli altri principati, perchè euli è simile al pontifi- cato cristiano, il quale non si può chiamare ne principalo ereditario, principato nuovo; perché non i tìi;li del Prin- cipe mono rimansiono eredi e signori, ma colui che è eletto a quel grado da coloro che ne hanno autorità. Ed essendo questo ordine anticalo, non si può chiamare principato nuo- vo, perchè in quello non sono alcune di quelle dilìicullà che sono ne' nuovi; perchè, sebbene il Principe è nuovo, gli or- dini di quello stalo sono vecchi, e ordinali a riceverlo come se russe loro signore ereditario. Ma tornando alla materia nostra, dico, che qualunque considererà al sopraddetto dis- corso, vedrà o l'odio o il dispregio essere stato causa della rovina di quelli imperadori prenominati; e conoscerà ancora donde nacque, che parte di loro procedendo in un modo e parte al contrario, in qualunque di quelli uno ebbe felice e gli altri infelice (ine: perchè a Pertinace ed Alessandro, per essere Principi nuovi, fu inutile e dannoso il voler imitare Marco, che era nel principato erediiario; e similmente a Ca- racalla, Commodo e Massiniino, essere stala cosa perniziosa imitar Severo, per non avere avuto tanta virtù che bastassi a seguitare le vestigia sue. Pertanlo, un Princi|)e nuovo in un principato non può imitare le dizioni di Marco, ancora è necessario imitare quelle di Severo; ma deve pigliare di Severo quelle parti che per fondare il suo stalo son neces- sarie, e da Marco quelle che sono convenienti e gloriose a conservare uno stalo, che sia di già stabilito e fermo.

Cap. XX. Se le fortezze, e moìU altre cose che spesse volle i Principi (anno, sono utili o dannate.

Alcuni Principi, per tenere securamenle lo stalo, hanno disarmato i lor «odditi; alcuni altri hanno tenute divise in parti le terre sugsetle; alcuni allri hanno nutrito inimicizie contro a medesimi ; alcuni altri si sono vòlti a guadagnarsi quelli che gli erano sospetti nel principio del suo slato; al- cuni hanno edificato fortezze: alcuni le hanno rovinale e di- strulle. E benché di tutte queste «ose non si possa dare de- terminata sentenzia, se non si vieue#' particulari di quelli

IL PRINCIPE. 63

stati dove s* avessi da pigliare alcuna simile deliberazione ; nondimeno io parlerò in quel modo largo che la nlateria per medesima sopporta. Non fu mai, adunque, che un Principe nuovo disarmasse i suoi sudditi; anzi, quando ^li ha trovalo disarmati, gli ha sempre armati: perchè armandosi, quelle armi diventano tue, diventano fedeli quelli che li sono so- spetti, e quelli che erano fedeli si mantengono, e di sudditi si fanno tuoi partigiani. E perchè lutti i sudditi non si possono armare, quando si benefichino quelli che tu armi, con gli altri si può far più a sicurtà: e quella diversità del procedere che conoscono in loro, gli fa tuoi obbligali; quelli altri li scusano, giudicando esser necessario quelli aver più merito che hanno più pericolo e più obbligo. Ma quando tu gli disarmi, tu incominci ad olTeudergli, e mostri che tu abbi in loro ditlìdenza, o per viltà o per poca fede : e V una e l'altra di queste opinioni concipe odio contro di te. E per- chè tu non puoi star disarmato, conviene che li volli alla milizia mercenaria, della quale di sopra abbiam detto quale sia ; e quando ella fusse buona, non può esser tanta che ti defenda da' nimici potenti, e da' sudditi sospetti. Però, come io ho detto, un Principe nuovo in un nuovo principato sem- pre vi ha ordinato l'armi. Di questi esempi son piene le isto- rie. Ma quando un Principe acquista uno stato nuovo che come membro s'aggiunga al suo vecchio, allora è necessa- rio disarmare quello stato , eccetto quelli che nello acqui- starlo si sono per te scoperti; e questi ancora, col tempo ed occasioni, bisogna render molli ed etfeminati; ed ordi- narsi in modo, che tutte l'armi del tuo stalo sieno in quelli soldati tuoi propri, che nello stalo tuo antico vivono appresso di le. Solevano gli antichi nostri, e quelli che erano stimali savi, dire come era necessario tener Pistoia con le parli e Pisa con le fortezze ; e per questo nutrivano in qualche terra lor suddita le diflferenze, per possederla più facilmente. Questo in quelli tempi che Italia era in un certo modo bilan- ciala, doveva esser ben fatto; ma non mi pare si possa dar oggi per precetto: perchè io non credo che le divisioni falle ^ faccino mai bene alcuno; anzi é necessario quando il

* Fatte h nella Bladiana, nella Testina e io più altre edizioni j e forse è da

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nimico s'accosta, che le città divise si perdino subito, per- [ che sempre la parte più deb. le s' accosterà alle forze esler- I ne, e l'altra non potrà reseere. I Vinìxiani, mossi, corn'io credo, dalle ragioni sopraddette, nutrivano le sètte guelfe e ghibelline nelle città loro suddite ; e benché non le lascias- sero mai venire al sangue, pure nutrivan fra loro questi dispareri, acciocché occupati quelli cittadini in quelle loro dilTerenzie, non si movessero contro di loro. Il che, come si ▼idde, non tornò poi loro a proposito; perché essendo rotti a Vaila, sahilo una parte di quelle prese ardire, e tolsono loro tutto lo slato. Arsuiscono, pertanto, simili modi debolezza del Principe: perchè in un principato sasliardo mai si permette- ranno tali divisioni, perché le fanno solo profitto a tempo di pace, potendosi mediante quelle più facilmente maneggiare i sudditi; ma venendo la suerra, mostra simil ordine la fal- lacia sua. Senza dubbio li Principi diventano srandi quando •operano le difllrultà e le opposizioni che son fatte loro ; e però la fortuna, massime quando vuole far grande un Prin- cipe nuovo, il quale ha maggior necessità d'acquistare ripu- taiione che uno ereditario, gli fa nascere de' nemici e gli fa fare delle imprese contro, acciocché quello abbia caaione di toperarle, e su per quella sciila che gli hanno pòrta i ne- Bici saoi, salir più allo. E però molti eiudicano che un Prin- ^ cipe savio, quando s'abbia l'occasione, deve nutrirsi con aalQzia qualche inimiciiia; acciocché, oppressa quella, ne se- guili massior sua srande'za. Hanno i Principi, e special- mente quelli che son nuovi, trovato più fede e più utilità in quelli uomini che nel principio del loro stato sono tenuti sospetli , che in quelli che nel principio erano confidenti. Pandolfo Petruccì, principe di Siena, reggeva lo stato suo più con quelli che li furono sospetti, che con eli altri. Ma di questa cosa non si può parlare largamente, perché ella varia secondo il subbietto: solo dirò questo, che quelli uomini che nel prin- cipio d'un principale erano slati inimici, se sono di qualità chea mantenersi al»bìno bisogno d'appoggio, sempre il Prin- cipe con facilità grandissima se li potrà guadagnare ; e loro

intendersi per fatte al arte , procurate II Co<lke Laareuiaoo pero le^e : che dtviticmitfmcutmo mmi ce

It t>RlNClt>E. 68

ma£;giormen(e son forzati a servirlo con fede, quanto cono- scono esser loro più necessario cancellare con l'opere quella opinione sinistra che si aveva di loro: e cosi il Principe ne trae sempre più utilità, che di coloro i quali servendolo con troppa sicurtà, stracurano le cose sue. E poiché la noateria lo j ricerca, non voglio lasciare indietro il ricordare a un Prin- cipe che ha preso uno stato di nuovo mediante i favori in- trinsechi di quello, che consideri bene qual cagione abbi mosso quelli che V hanno favorito, a favorirlo; e se ella non è aCTezione naturale verso di quello, ma fusse solo perchè quelli non si contentavano di quello stato, con fatica e diffi- cultà grande se gli potrà mantenere amici, perchè e' fia im- possibile che lui possa contentarli. E discorrendo bene, con quelli esempi che dalle cose antiche e moderne si traggono, la cagione di questo; vedrà esser molto più facile il guada- gnarsi amici quelli uomini che dello stato innanzi si conten- tavano, e però erano suoi inimici, che quelli i quali, per non se ne contentare, gli diventarono amici, e favorironlo ad oc- cuparlo. È stata consuetudine de' Principi, per poter tenere più sicuramente lo stato loro, edificare fortezze, che sieno briglia e freno di quelli che disegnassino fare lor contro, ed Cvere un refugio sicuro da un primo impeto. Io lodo questo ìiodo, perchè gli è usitato anticamente. Nondiraanco, messer Niccolò Vitelli, ne' tempi nostri, s' è visto disfare due fortezze in Città di Castello, per tener quello stato. Guid' Ubaldo, duca d' Urbino, ritornato nel suo stato, donde da Cesare Borgia era stato cacciato, rovinò da' fondamenti tutte le fortezze di quella provincia, e giudicò senza quelle di avere a riperdeie più dif- ficilmente quello stato. I Bentivogli, ritornati in Bologna, usa- rono simil termine. Sono, adunque, le fortezze utili o no se- condo li tempi; e se ti fanno bene in una parte, t'olTendono in un' altra. E puossi discorrere questa parte così. Quel Prin- | cipe che ha più paura de' popoli che de' forestieri, deve far ( le fortezze ; ma quello che ha più paura de' forestieri che ^ de' popoli, deve lasciarle indietro. Alla casa Sforzesca ha fatto e farà più guerra il castel di Milano, che ve lo edificò Francesco Sforza, che alcun altro disordine di quello stato. Però, la miglior fortezza che sia, è non esser odiato da'popo- /

a* \

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li: perchè, ancora che tu abbi le fortezze, e il popolo li abbi in odio, le non ti salvano; perchè non mancano mai a' po- poli, preso che egli hanno Tarmi, forestieri che gli soccorri- ne. Ne' tempi nostri non si vede che quelle abbin fatto pro- fìtto ad alcun Principe, se non alla contessa di Forlì quando fa morto il conte Girolamo suo consorte ; perchè mediante quella potè fuggire l'impeto popolare, ed aspettare il soccorso di Milano, e ricuperare lo slato; e li tempi stavano allora in modo, che il forestiero non poteva soccorrere il popolo. Ma dipoi valsone ancor poco a lei, quando Cesare Borgia ras<ial' tò, e che il popolo, inimico suo, si congiunse col forestiero. Pertanto, ed allora e prima saria stato più securo a lei non essere odiala dal popolo, che aver le fortezze. Considerate, adunque, queste cose, io loderò chi farà fortezze, e chi non le farà; e biasimerò qualunque, fidandosi di quelle, stimerà poco lo esser odialo da' popoli.

Gap. XXI. Come ii debba governare un Principe per acquitlarti ripulazione.

Nessuna cosa fa tanto slimar un Principe, quanto fanno le grandi imprese, e il dar di esempli rari. Noi abbiamo nei nostri tempi Ferrando re di Aragona, presente re di Spa- gna. Costui si può chiamare quasi Principe nuovo, perchè d' un re debile è diventato per fama e per gloria il primo re de' Cristiani ; e se considererete le azioni sue, le troverete tulle grandissime, e qualcuna straordinaria. Egli nel princi- pio del suo regno assaltò la Granata, e quella impresa fu il fondamento dello stalo suo. In prima ei la fece ozioso, e senza sospetto di essere impedito: tenne occupali in quella gli animi de' baroni di Casliglia, li quali pensando a quella guerra, non pensavano ad innovare; e lui acquistava in que- sto mezzo riputazione ed imperio sopra di loro , che non se ne accorgevano. Potè nutrire con danari della Chiesa e de'po- poli gli eserciti, e con quella guerra lunga fare fondamento alla milizia sua; la quale dipoi lo ha onoralo. Olirà questo, per poter iii tra prende re maggiori imprese, servendosi sem- pre della religione, si volse a una pietosa crudeltà, cacciando

ÌL PRLNClPfi. 6l

è spogliando il suo regno de' Marrani : può esser questo esempio più miserabile più raro. Assaltò sotto questo me- desimo pretesto V Affrica , fece l' impresa d' Italia , ha ulti- mamente assaltato la Francia; e cosi sempre ordito cose grandi, le quali hanno sempre tenuto sospesi ed ammirati gli animi de' sudditi, ed occupati nello evento d'esse. E sono nate queste sue azioni in modo l'una dall'altra, che non hanno dato mai spazio agli uomini di poter quietare ed ope- rargli contro. Giova assai ancora a un Principe dare di ' esempi rari circa il governo di dentro , simili a quelli che si narrano di messer Bernabò di Milano, quando s' ha l'occa- sione di qualcuno che operi qualche cosa straordinaria o in bene o in male nella vita civile ; e pigliar un mo4o circa il premiarlo o punirlo, di che s' abbi a parlare assai. £ so- prattutto, un Principe si debbe ingegnare dare di in ogni sua azione fama di grande ed eccellente. È ancora stimato un Principe quando egli è vero amico e vero inimico ; cioè quando, senza alcun rispetto, si scuopre in favor d' alcuno contro un altro : il qual partito fia sempre più utile che star | " : neutrale; perchè, se duoi potenti tuoi vicini vengono alle 1 mani, o essi sono di qualità che vincendo un di quelli tu abbi i da temere del vincitore, o no. In qualunque di questi duoi ' casi, ti sarà sempre più utile Io scoprirti, e far buona guer- i ra ; perchè, nel primo caso, se tu non ti scuopri, sarai sempre ' n ^ ^' preda di chi vince, con piacere e salisfazione di colui, che è » /• 7 . stato vinto, e non arai ragione cosa alcuna che ti difenda Kl^^- che ti riceva. Perchè, chi vince non vuole amici sospetti, ^ e che nelle avversità non T aiutino; chi perde non ti riceve, per non aver tu voluto con 1* armi in mano correre la for- tuna sua. Era passato Antioco in Grecia, messovi dagli Etoli per cacciarne i Romani. Mandò Antioco oratori agli Achei, che erano amici de' Romani, a confortargli a star di mezzo; e dall' altra parte i Romani gli persuadevano a pigliar l'ar- * mi per loro. Venne questa cosa a diliberarsi nel concilio degli Achei, dove il legato d'Antioco gli persuadeva a stare neutrali ; a che il legato romano rispose: Quanto alla parte che si dice essere ottimo ed utilissimo allo stato vostro il non v'intromettere nella guerra nostra, niente vi è più centra-

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rio; imperocché non vi ci inlromeltendo, senza grazia e senza ripalazione alcuna, reslerete premio del vincitore. E sempre inlerverrà che quello che non ti é amico li richiederà della neutralità, e quello che ti è amico ti ricercherà che ti scuo- pra con l'armi. E li Princìpi mal resoluti, per fuggire i pre- senti pericoli, seguono il più delle volle quella via neutrale, ed il più delle volle rovinano. Ma quando il Principe si scuo- pre gagliardamente in favor d' una parte, se colui con chi tu aderisci vince, ancoraché sia polente e che tu rimangn a sua discrezione, egli ha teco obbligo, e vi é contratto l'amo- re: e gli uomini non sono mai si disonesti, che con tanto esempio d' ingratitudine ti opprimessero. Dipoi, le vittori© non solfo mai si prospere, che il vincitore non abbia ad avere qualche rispetto, e massime alla giustizia. Ma se quello con il quale tu aderisci perde, la se' ricevuto da lui; e men- tre che può t'aiuta, e diventi compagno d' una fortuna che può resurgere. Nel secondo caso, quando quelli che combat- tono insieme sono di qualità che tu non abbia da temere di quel che vince, tanto più é gran prudenza lo aderire: per- ché tu vai alla rovina d'uno con l'aiuto di chi lo dovrebbe salvare, se fussi savio ; e vincendo, rimane alla tua discrezio- ne, ed é impossibile che con 1' aiuto tuo non vinca. E qui ò da notare, che un Principe deve avvertire di non for mai com- pagnia con uno più potente di per offendere altri, se non quando la necessità lo strigne, come di sopra si dice: perchè, vincendo lui, tu rimani a sua discrezione; e li Principi deb- bon fuggire quanto possono lo stare a discrezione d' altri. I Vinizìani si accompagnarono con Francia contro al duca di Milano, e potevan fuggire di non far quella compagnia, di che ne risultò la rovina loro. Ma quando non si può fuggir- la, come intervenne a' Fiorentini quando il papa e Spagna andarono con gli eserciti ad assaltare la Lombardia, allora vi deve il Principe aderire per le sopraddette ragioni. creda mai alcuno stato poter pigliare partili sicuri, anzi pensi d'avere a prenderli tolti dubbii; perchè si trova questo nel- r ordine delle cose, che mai non si cerca fuggire uno inconve- niente, che non s' incorra in un altro: ma la prudenza con- siste in saper conoscere le qualità degl'inconvenienti, e

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prendere il manco tristo per buono. Deve ancora un Principe moslrarsi amatore delle virtù, ed onorare gli eccellenti in ciascuna arte. Appresso, deve animare li suoi cittadini di po- ter quietamente esercitare gli esercizi loro, e nella mercanzia e nell'agricoltura ed in ogni altro esercizio degli uomini, acciocché quello non si astenga d' ornare le sue possessioni per timore che non gli sieno tolte, e quell'altro di aprire un traffico per paura delle taglie ; ma deve preparare premii a chi vuol fare queste cose, ed a qualunque pensa in qualun- que modo d' ampliare la sua città o il suo stato. Deve, oltre a questo, ne' tempi convenienti dell' anno tenere occupati li popoli con feste e spettacoli : e perchè ogni città è divisa o in arti 0 in tribù, deve tener conto di quelle università, adu- narsi con loro qualche volta, dare di esempio d* umanità e magnificenza; tenendo nondimeno sempre ferma la maie- stà della dignità sua , perchè questo non si vuole mai che manchi in cosa alcuna.

Gap. XXII. Delli segretari de' Principi.

Non è di poca importanzia a un Principe la elezione de' ministri ; li quali sono buoni o no, secondo la prudenza del Principe. £ la prima coniettura che si fa d' un signore e del cervel suo, è veder gli uomini che lui ha d'intorno; e quando sono sutTicienti e fedeli, sempre si può riputarlo sa- vio, perchè ha saputo conoscergli sufficienti, e mantenerseli fedeli. Ma quando siano altrimenti, sempre si può fare non buon giudizio di lui ; perchè il primo errore eh' e' fa, lo fa in questa elezione. Non era alcuno che conoscesse messer An- tonio da Venafro per ministro di Pandolfo Petrucci principe di Siena, che non giudicasse Pandolfo essere prudenlissimo uomo, avendo quello per suo ministro. £ perchè sono di tre generazioni cervelli; l'uno intende per sé, l'altro intende quanto da altri gli è mostro, il terzo non intende per stesso per dimostrazione d'altri: quel primo è eccellen- tissimo, il secondo eccellente, il terzo inutile: conveniva pertanto di necessità, che se Pandolfo non era nel primo grado, fusse nel secondo; perchè ogni volta che uno ha il

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giadicio di conoscere il bene ed il male che un fa e dice , ancoraché da non abbia invenzione, conosce le opere tri- ste e le buone del ministro, e quelle esalta e leallre correij;- ge; ed il ministro non può sperar d' ingannarlo, e mantiensi buono. Ma come un Principe possa conoscere il ministro, ci è questo modo che non falla mai. Quando tu vedi il ministro pensar più a che a te, e che in tutte le azioni vi ricerca l'utile suo, questo tale cosi fatto mai non fia buon ministro, mai te ne potrai tìdare ; perché quello che ha lo stato d' uno in mano, non deve mai pensare a sé, ma al Principe, e non gli ricordar mai cosa che non appartenga a lui. £ dal> l'altra parte, il Principe, per mantenerlo buono, deve pen- sare al ministro, onorandolo, facendolo ricco, obbligandose- lo , participandogli izli onori e carichi ; acciocché li assai onori , le assai ricchezze concessegli, siano causa che egli non desideri altri onori e ricchezze; egli assai carichi gli faccino temere le mutazioni, conoscendo non potere reggersi seii/.a lui. Quando, adunque, i Principi e li ministri sono cosi fatti, possono confidare l'uno dell' altro; quando allrimeoti, il fine sarà tempre dannoso, o. per l'uno o per l'altro.

Gap. XXllI. Come si debbino fugjire gli adulatori.

Non voglio lasciare indietro un capo importante, ed un errore dal quale i Principi con diflìcultà si difendono, se DOG anno prudcntissimi, o se non hanno buona elezione. £ questo é quello deuli adulatori; delli quali le corti son pie- De, perché gli uomini si compiacciono tanto nelle cose lor proprie ed in modo vi s' incannano, che con diflìcultà si di- fendono da questa peste; ed a volersene difendere, si porta pericolo di non diventare contennemio. Perché, non ci é altro modo a guardarsi dalle adulazioni, se non che gli uomini in- tendino che non l'oflendono a dirli il vero: ma quando cia- scuno può dirti il vero, ti manca la reverenzia. Purlanto, un I Principe prudente deve tenere un terzo modo, eleggendo nel suo slato uomini savi ; e solo a quelli deve dare libero arbi- trio a parlargli la verità, e di quelle cose sole che lui do- manda, e non d'altro: ma deve domandargli d' ogni cosa.

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e udire le opinioni loro, dipoi deliberare da èè a sno modo: e con questi consiizli, e con ciascun di loro portarsi in modo, che ognuno conosca che quanto più liberamente si parlerà , tanto più gli sarà accetto; fuori di quelli, non voler udire alcuno , andar dietro alla cosa deliberata , ed essere ostinato nelle deliberazioni sue. Chi fa altrimenti, o precipita per gli adulatori, o si muta spesso per la variazione de' pareri; di che ne nasce la poca estimazione sua. Io voglio a questo proposito addurre un esempio moderno. Pre' Luca, uomo di Massimiliano, presente imperadore, parlando di sua maiestà disse, come non si consigliava con persona, e non faceva mai d'alcuna cosa a suo modo: il che nasceva dal tenere contrario termine al sopraddetto. Perchè l'imperadore è uomo segreto, non comunica li suoi disegni con persona, non ne piglia parere: ma come, nel mettergli ad effetto, s'incomin- ciano a conoscere e scoprire, gì' incominciano ad esser con- tradetti da coloro che egli ha d'intorno; e quello, come facile, se ne stoglie. Di qui nasce che quelle cose che fa l' un giorno, distrugge l'altro; e che non s'intenda mai quel che vegli o disegui fare; e che sopra le sue deliberazioni non si può fondare. Un Principe, pertanto, debbe consigliarsi sempre; ma quando lui vuole, e non quando altri vuole; anzi debbo tórre r animo a ciascuno di consigliarlo d' alcuna cosa se non gliene domanda: ma lui deve ben essere largo domandatore, e di- poi circa le cose domandate paziente auditore del vero; anzi, intendendo che alcuno per qualche rispello non gliene dica, turbarsene. E. perchè alcuni stimano che alcun Principe il quale di opinione di prudente, sia così tenuto non per sua natura, ma per li buoni consigli che lui ha d'intorno, senza dubbio s' ingannano : perche questa non falla mai, ed è regola generale, che un Principe il quale non sia savio per stesso, non può essere consigliato bene; se già a sorte non si rimettesse in un solo che al tutto lo governasse, che fussi uomo prudentissimo. In questo caso, potrà bene esser ben governato, ma durerebbe poco, perchè quel governatore in breve tempo gli terrebbe lo slato; ma consigliandosi con più d'uno, un Principe che non sia savio non ara mai uniti consigli, s^P*"^ P®*" slesso unirgli. Dei consiglieri, eia-

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scano penserà alla proprietà saa, ed egli non li saprà cor- reggere né conoscere. E non si possono trovare altrimcnli , perchè s\\ uomini sempre ti riusciranno tristi, se da una necessità non sono fatti buoni. Però si conchiude, che li buoni consigli, da qualunque venghino, conviene naschino dnlla prudenza del Principe ; e non la prudenza del Principe da' buoni consigli.

Cap. XXIV. Perchè i principi d' Ilalia abbino perduto i loro siali.

Le cose sopraddette, osservale prndentemenle, fanno pa- rere on Principe nuovo, antico; e lo rendono subito più sicuro e più fermo nello stato, che se vi fosse anlicato «lentro. Per- ché un Principe nuovo é molto più osservalo nelle sue azio- ni, che uno ereditario; e quando le son conosciute virtuose, gi guadasnano molto più gli uomini, e molto più gli obbli- gano, che il sangue antico: perchè gli uomini sono mollo più presi dalle cose predenti che dalle passate ; e quando nelle presenti ei trovano il bene, vi si eodono e non cercano altro; anzi pigliano ogni difesa per lui, quando il Principe non man- chi nelle altre cose a medesimo. E cosi ara duplicata gloria di aver dato principio a uno principato nuovo, ed ornatolo e corroboratolo di buone lessi, di buone armi, di buoni amici e di buoni esempi ; rome quello ara duplicala versogna, che è nato Principe, e per sua poca prudenza l'ha perduto. E se si considera quelli signori che in Italia hanno perduto Io stato ne' nostri tempi, come il re di Napoli, duca di Milano, ed altri ; si troverà in loro, prima, un comune difetlo quanto all'armi, per le cagioni che di sopra a lungo si sono discor- se; dipoi si tedrà alcun di loro » che avrà avuti inimici i popoli, 0 se ara avuto amico il popolo, non si sarà saputo assicurare de* grandi: perchè senza questi difelli non si per- dono gli slati che abbino lauti nervi che possino tenere un esercito alla campagna. Filippo Macedone, non il padre di Alessandro magno, ma quello che fu da Tito Quinzio vinlo. aveva non mollo stalo, respollo alla grandoz^a de' Romani e di Grecia che lo assaltò: nientedimeno, per esser uomo mi-

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lilare, e che sapeva intrattenere i popoli, ed assicurarsi de' grandi, sostenne più anni la guerra contro di quelli; e se alla fine perde il dominio di qualche città, gli rimase nondi- manco il regno. Pertanto, questi nostri Principi, i quali dimolti anni erano stati nel loro principato, per averlo dipoi perso, non accusino la fortuna, ma la ignavia loro: perchè non avendo mai ne' tempi quieti pensato che possino mutarsi (il che è comune difetto degli uomini, non far conto nella bonaccia della tempesta), quando poi vennero i tempi avversi, pensa- rono a fuggirsi, non a defendersi ; e sperarono che i popoli infastiditi per la insolenza de' vincitori, gli richiamassero.il qual partito, quando mancano gli altri, è buono; ma è ben male aver lasciato gli altri rimedii per quello, perchè non si vorrebbe mai cadere per credere poi trovare chi ti ricolga. 11 che 0 non avviene, o se egli avviene, non è con tua si- curtà, per essere quella difesa suta* vile, e non dependere da te; e quelle difese solamente sono buone, certe e durabili, che dependoDO da te proprio e dalla virtù tua.

Gap. XXV. - Quanto possa nelle umane cose la fortuna, e in che modo se gli possa ostare.

Non mi è incognito come molti hanno avuto ed hanno opinione, che le cose del mondo sieno in modo governate dalla fortuna e da Dio, che gli uomini con la prudenza loro non possino correggerle, anzi non vi abbino rimedio alcuno; e per questo potrebbono giudicare che non fusse da insudare molto nelle cose, ma lasciarsi governare dalla sorte. Questa opinione è suta più creduta ne' nostri tempi, per la varia- zion grande delle cose che si son viste e veggonsi ogni di, fuor d' ogni umana coniettura. AI che pensando io qualche volta, sono in qualche parte inchinato nella opinione loro. Nondimanco, perchè il nostro libero arbitrio non sia spento giudico potere esser vero che la fortuna sia arbitra della metà delle azioni nostre, ma che ancora ella ne lasci gover- nare l'altra metà, o poco meno, a noi. Ed assomiglio quella ad un fiume rovinoso, che quando e' s' adira, allaga i piani,

' L'edizione del Biado ha, erroneamente, suas quella del 1SÌ3, stala.

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rovina gli arbori e gli edifici, lieva da questa parie terreno ponendolo a quell'altra; ciascono gli fugge davanti, ognun cede al suo furore, senza potervi ostare; e benché sia così fatto, non resta però che gli uomini, quando sono tempi quieti, non vi possino fare provvedimenti e con ripari e con ar- gini, in modochè crescendo poi, o egli anderebbc per un ca- nale, 0 r impeto suo non sarebbe si licenzioso si dannoso. f Similmente interviene della fortuna ; la quale dimostra la sua potenza dove non è ordinala virtù a resistere, e quivi volta i suoi impeti dove la sa che non son fatti gli argini i ripari a tenerla. E se voi considererete ritalia,cheéla sedo di queste variazioni, e quella che ha dato loro il moto, ve- drete esser una campagna senza argini e senza alcun ripa- ro. Che se la fussi riparata da conveniente virtù, come é la Magna, la Spagna e la Francia, questa inondazione non avrebbe fatto le variazioni grandi che Tha, o la non ci sa- rebbe venuta. E questo voglio basti aver detto quanto alVop- porsi alla fortuna in universale. Ma restringendomi più al parliculare, dico come si vede oggi questo Principe felicitare, e domani rovinare, senza vederli aver mutato natura o qualità alcuna. Il che credo nasca, prima , dalle cagioni che si sono lungamente per lo addietro trascorse;* cioè che quel Principe che s'appoggia tutto in su la fortuna, rovina come quella varia. Credo ancora che sia felice quello, il modo del cui procedere si riscontra con la qualità de' tempi ; e simil- mente sia infelice quello, dal cui procedere si discordano ì tempi. Perchè si vede gli uomini, nelle cose che li conducono al Gne, quale ciascuno ha innanzi, cioè gloria e ricchezze, procedervi variamente ; l'uno con respetli, V altro con impe- to ; r uno per violenza , l' altro per arte ; V uno con pazienza , r altro col suo contrario : e ciascuno con questi diversi modi vi può pervenire. E vedesi ancora duoi rispettivi, l' uno per- venire al suo disegno, l'altro no; e similmente duoi egual- mente felicitare con diversi studi, essendo l'uno respet- ti vo, l'altro impetuoso: il che non nasce da altro se non da qualità di tempi, che si conformino o no col procedere loro. Di qui nasce quello ho detto, che duoi diversamente operan-

* Il MS. Laurensiano e 1' cdixiooe del 1813: discorse.

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do, sorliscano il medesimo effello ; e duoi egualmente ope- rando, l'uno si conduce al suo fine, T altro no. Da questo ancora dipende la variazione del bene : perchè, se a uno che si governa con rispetto e pazienza, i tempi e le cose girano in modo che il governo suo sia buono, esso viene felicitando; ma se li tempi e le cose si mutano, egli rovina, perchè non muta modo di procedere. si trova uomo si prudente che si sappi accordare a questo ; si perchè non si può deviare da quello a che la natura ci inchina; si ancora perchè avendo uno sempre prosperato camminando per una via, non si può persuadere che sia bene partirsi da quella ; e però l' uomo respettivo , quando gli è tempo di venire all' impeto , non lo sa fare, donde egli rovina; che se si mutasse natura con tempi e con le cose, non si muterebbe fortuna. Papa Giulio li procedette in ogni sua azione impetuosamente, e trovò tanto i tempi e le cose conformi a quel suo modo di procedere, che sempre sorti felice fine. Considerate la prima impresa che fece di Bologna, vivendo ancora messer Giovanni Ben- tivogli. I Viniziani non se ne contentavano, il re di Spagna similmente con Francia aveva ragionamento di tale impresa ; e lui nondimanco, con la sua ferocità ed impeto, si mosse per- sonalmente a quella espedizione : la quale mossa fece star sospesi e fermi e Spagna e i Viniziani; quelli per paura, queir altro per il desiderio di ricuperare tutto il regno di Napoli: e dall'altra parte si tirò dietro il re di Francia, per- chè vedutolo quel re mosso, e desiderando farselo amico per abbassare i Viniziani, giudicò non poterli negare le sue genti senza ingiuriarlo manifestamente. Condusse, adunque, Giulio con la sua mossa impetuosa quello che mai altro pon- tefice con tutta r umana prudenza avria condotto: perchè, se egli aspettava di partirsi da Roma con le conclusioni ferme e tutte le cose ordinate, come qualunque altro pontefice arebbe fatto, mai non gli riusciva. Perchè il re di Francia avria trovate mille scuse, e gli altri gli arebbero p;esso mille paure. Io voglio lasciare slare le altre sue azioni, che tulle sono slate simili, e tutte gli sono successe bene; e la brevità della vita non gli ha lasciato sentire il contrario: perchè, se fossero sopravvenuti tempi che fusse bisognalo

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procedere con respelti, ne seguiva la sua rovina,, perchè mai non arebbe deviato da quelli modi, acquali la natura lo in- chinava. Conchiudo, adunque, che variando la fortuna, e gli uomini stando nei loro modi ostinati, sono felici mentre concordano insieme; e come discordano, sono infelici. Io giudico ben questo, che sia meglio esser impetuoso che re- spelti vo ; perchè la fortuna è donna, ed è necessario, volen- dola tener sotto, batterla ed urtarla: e si vede che la si lascia più vincere da questi, che da quelli che freddamente proce- dono. E però sempre, come donna, è amica de' giovani, perchè sono meno respettivi) più feroci, e con più audacia la comandano.

CiP. XXVI. Esorlaxtone a liberare V lUiUa da' barbari

Considerato, adunque, tutte le cose di sopra discorse, e pensando meco medesimo se al presente in Italia correvano tempi da onorare un Principe nuovo, e se ci era materia che dessi occasione a uno prudente e virtuoso a introdurvi nuova forma che facesse onore a lai, e bene alla università degli uomini di quella; mi pare concorrine tante cose in benefìcio d' uno Principe nuovo, che non so qual mai tempo fussi più allo a questo. E se, come io dissi, era necessario, volendo vedere la virtù diBloisè, che il popolo d'Israel fosse schiavo in Egitto; ed a conoscere la grandezza e Io animo di Ciro, che i Persi fussero oppressi da' Medi; e ad illustrare la ec- cellenzia di Teseo, che gli Ateniesi fussero dispersi : così al presente, volendo conoscere la virtù d'uno spirilo italiano, era necessario che l'Italia si conducesse ne' termini presen- ti, e che la fusse più schiava che gli Ebrei, più serva che i Persi, più dispersa che gli Ateniesi; senza capo, senz'or- dine; battuta, spogliata, lacera, corsa ; ed avesse sopportalo d'ogni sorta rovine. E benché insino a qui si sia mostro qualche spiraculo in qualcuno, da poter giudicare che fusse ordinato da Dio per sua redenzione ; nientedimanco si è vi- sto come dipoi, nel più alto corso delle azioni sue, è slato dalla fortuna reprobato: in modo che, rimasa come senza vita, aspetta qual possa esser qiiello che sani le sue ferite, e

IL PRINCIPE. i /

ponga Gne alle direpzioni e a' sacchi di Lombardia, alle espi- lazioni e taglie del Reame e di Toscana, e la guarisca da quelle sue piaghe già per il lungo tempo infistolite. Yedesi come la prega Dio che le mandi qualcuno che la redima da queste crudeltà ed insolenzie barbare. Vedesi ancora tutta pro- na' e disposta a seguire una bandiera, purché ci sìa alcuno che la pìgli. si vede al presente che ella possa sperare, altra che la illustre casa vostra potersi fare capo di questa redenzione, sendo questa dalla sua virtù e fortuna tanto suta esaltata, e da Dio e dalla Chiesa, della quale tiene ora il principato, favorita.^ E questo non vi sarà' molto difficile, se vi recherete innanzi le azioni e vite de' soprannominati. E benché quelli uomini siano rari e maravigliosi, nondimeno furono uomini, ed ebbe ciascuno di loro minore occasione che la presente ; perchè r impresa loro non fu più giusta di questa, più facile; fu Dio più a loro amico che a voi. Qui è giustizia grande; perché quella guerra é giusta che gli è necessaria ; e quelle armi sono pietose, dove non si spera in altro che in elle. Qui è disposizione grandissima; può essere, dove è grande disposizione, grande difficultà, pur che quella pigli delti or- dini di coloro che io vi ho proposto per mira. Oltre a que- sto, qui si veggono estraordinari senza esempio condotti da Dio : il mare s' è aperto, una nube vi ha scorto il cammino, la pietra ha versato l'acque, qui è piovuto la manna, ogni cosa è concorsa nella vostra grandezza ; il rimanente dovete far voi. Dio non vuole far ogni cosa, per non ci tórre il li- bero arbitrio, e parte di quella gloria che tocca a noi. E non è maraviglia se alcuno de' prenominati Italiani non ha pos- suto fare quello che si può sperare facci la illustre casa vo- stra; e se in tante revoluzioni d' Italia, ed in tanti maneggi di guerra, e' pare sempre che in quella la virtù militare sia spenta : perchè questo nasce che gli ordini antichi di quella

* Il MS. Laurenziano e l'edizione del 1813 : pronta.

* Cosi nella Romana. Nelle altre edizioni , e nella Testina che qui rico- piamo, questo periodo leggesi come appresso: Ne si vede al presente in quale la possa più sperare che nella illustre casa vostra, la quale con la sua virtù et/or- Ulna (favorita da Dio et dalla Chiesa, della quale è hora Principe) possa/arsi capo di questa redentione.

3 II MS. Laurenziano e la stampa del iS13: // che non vi fa.

r

78 IL PRINCIPE.

non erano buoni, e non ci è salo alcuno che n'abbi sapulo Irovare de' nuovi. Nessuna cosa fa (anto onore a un uomo che di nuovo 8urga, quanto fanno le nuove le<?gi e nuovi ordini trovali da lui. Queste cose, quando sono ben fondate ed abbino in loro grandezza, lo fanno reverendo e mirabile; ed in Italia non manca materia da introdurvi ogni forma. Qui è virtù grande nelle membra, quando ella non mancasse ne' capi. Specchiatevi nelli duelli e nei congressi de' pochi, quanto gl'Ilaliani siano superiori con le forze, con la de- strezza, con l'ingegno. Ma come si viene agli eserciti, non compariscono: e tutto procede dalla debolezza de' capi; per- chè quelli che sanno, non sono ubbidienti;* ed a ciascuno par sapere, non ci essendo inGno a qui suto alcuno che si sia rilevato tanto, e per virtù e per fortuna, che gli altri cedino. Di qui nasce che in tanto tempo, in tante guerre (atte nei passati venti anni, quando gli è stato un esercito tutto ita- liano, sempre ha fatto mala prova : di che è leslimone prima il Taro, dipoi Alessandria, Capaa, Genova, Vaila, Bologna, Meslri. Volendo, dunque, la illustre casa vostra seguitare quelli eccellenti nomini che redimerono le Provincie loro, è ne- cessario innanzi a tolte le altre cose, come vero fondamento d*ognì impresa, provvedersi d'armi proprie, perchè non si può avere più Gdi, più veri, migliori soldati. E benché ciascuno di essi sia buono, tutti insieme diventeranno migliori, quando si vedranno comandare da loro Principe, e da quello onorare e intrattenere. È necessario, pertanto ^ prepararsi a questo armi, per potersi con virtù italiana di- fendere dagli esterni. £ benché la fanteria svizzera e spa- gnuola sia stimata terribile, nondiroanco in ambedue è di- fetto, per il quale un ordine terzo potrebbe non solamente opporsi loro, ma confidare di superargli. Perchè gli Spa- gnnoli non possono sostenere ì cavalli, e gli Svizzeri hanno ad aver paura de' fanti, quando gli riscontrino nel combat- tere ostinati come loro. Donde si è veduto, e vedrassi per esperienza, gli Spagnuoli non poter sostenere una cavalleria francese, e gli Svizzeri essere rovinali da una fanteria spa- gnuola. E benché di quest'ultimo non se ne sia vista incera

* L* edùione del Biado ha obcditi.

IL PUINCIPE. 71)

esperienza, nientedimeno se ne è veduto un saggio nella gior- nata di Ravenna, quando le fanterie spagnuole si aCfronta- rono con le battaglie tedesche, le quali servano il medesimo ordine che i Svizzeri: dove gli Spagnuoli, con l'agilità del corpo e aiuti de' loco brocchieri, erano entrati tra le picche loro sotto, e stavano securi a ofTendergli, senza che li Te- deschi vi avessino remedio; e se non fussi la cavalleria che gli urtò, gli arebbono consumati lutti. Puossi, adunque, co- nosciuto il difetto dell'una e dell'altra di queste fanterie, ordinarne una di nuovo, la quale resista a' cavalli, e non abbi paura de* fanti: il che lo farà non la generazione delle armi, ma la variazione degli ordini. * E queste sono di quelle cose che di nuovo ordinate, danno riputazione e grandezza a uno Principe nuovo. Non si deve, adunque, lasciar passare questa occasione, acciocché la Italia vegga dopo tanto tempo apparire un suo redentore. posso esprimere con quale amore ei fussi ricevuto in tutte quelle provincie che hanno patito per queste illuvioni esterne; con qual sete di vendetta, con che ostinata fede, con che pietà, con che lacrime. Quali porte se gli serrerebbono? quali popoli gli negherebbono la obbedienza? quale invidia se gli opporrebbe? quale Italiano gli negherebbe l' ossequio? A ognuno puzza questo barbaro DOMINIO. Pigli, adunque, la illustre casa vostra questo assunto con quello animo e con quelle speranze che si pigliano 1* im- prese giuste, acciocché sotto la sua insegna e questa patria ne sia nobilitata, e sotto i suoi auspicii si verifichi quel detto del Petrarca :

Virtù coDira furore

Prenderà l'arme; e fij '1 comLattcr corto;

Che l'antico valor,',

Neil' italici cor non è ancor morto.

< Con notaLile diversità di concetto, ha qui la Bladiana : /o^rtrà Ingenera- tione de l'armi y et la i'ariatione degli ordini.

DISCORSI

SOPRA ■..% PRIMA DECA DI T. lilTlO.

NICCOLO MACHIAVELLI

A ZANOBI BUOÌVDELMOKTI E COSIMO RUCELLAI

SALUTE.

lo vi mando un presente, il quale se non corrisponde agli obblighi che io ho con voi, è tale senza dubbio, quale ha potuto Niccolò Machiavelli mandarvi maggiore. Perchè in quello io ho espresso quanto io so, e quanto io ho imparalo per una lunga pratica e conlinova lezione delle cose del mondo. E non polendo voi altri disiderare da me più, non vi potete dolere se io non vi ho donato più. Bene vi può increscere della povertà dello ingegno mio, quando siano queste mie narrazioni povere ; e della fallacia del giudizio , quando io in molte parti, discorrendo, m' inganni. Il che essendo, non so quale di noi si abbia ad esser meno obbligato aW altro; o io a voi, che mi avete forzato a seri' vere quello eh' io mai per me medesimo non arci scritto; o voi a me, quando scrivendo non abbi soddisfatto. Pigliate, adun- que, questo in quello modo che si pigliano tutte le cose degli ami- ci; dove si considera più sempre la intenzione di chi manda, che le qualità della cosa che è mandata. E crediate che in questo in ho una satis fazione , quando io penso che, sebbene io mi fussi ingannalo in molle sue circostanze , in questa sola so eh' io non ho preso errore, di avere eletti voi, ai quali sopra tutti gli altri questi miei Discorsi indirizzi: perchè, facendo questo, mi pare aver mostro qualche gratitudine de' benefizii ricevuti : perchè e* mi pare esser uscito fuora dell' uso comune di coloro che scrivono, i quali sogliono sempre le loro opere a qualche Principe indirizzare; e, accecati dall' ambizione e dall'avarizia, laudano quello di tutte le virtuose qualitadi, quando di ogni

84

vituperevole parie doverrebhono biasimarlo. Onde io, per non in- correre in questo errore, ho elelli non quelli che sono Principi, ma quelli che per le infinite buone parli loro merilerebhono di essere ; quelli che polrebbono di gradi, di onori e di ric- chezze riempiermi, ma quelli che, non polendo, vorrcbbono farlo. Perchè gli uomini, volendo giudicare dirittamente, hanno a sli- mare quelli che sono, non quelli che possono esser liberali; e cosi quelli che sanno, non quelli che, senza sapere, possono go- vernare un regno. E gli scrittori laudano più lerone Siracu- sano quando egli era privalo, che Perse Macedone quando egli era re: perchè a lerone a esser Principe non mancava altro che il principato; quell'altro non aveva parte alcuna di re, altro che il regno. Godeteci, pertanto, quel bene o quel rfiale che voi medesimi avete voluto: e se voi starete in questo errore, che queste mie oppinioni vi siano grate, non mancherò di seguire il retto della istoria, secondo che nel principio vi promisi. Valete.

DEI DISCORSI

IiIBRO PRuno.

*Ancorachè,perla invida natura depili nomini, sia sempre slato pericoloso il ritrovare modi ed ordini nuovi, quanto il cercare acque e terre incognite, per essere quelli più pronti a biasimare che a laudare le azioni d'altri ; nondimeno, spinto da quel naturale desiderio che fu sempre in me di operare, •senza alcun rispetto, quelle cose che io creda rechino comune benefìzio a ciascuno, ho deliberalo entrare per una via, la quale, non essendo stata per ancora da alcuno pesta, se la mi arrecherà fastidio e diffìcullà, mi potrebbe ancora arre- care premio, mediante quelli che umanamente di queste mie fatiche considerassero. E se V ingegno povero, la poca espe- rienza delle cose presenti, la debole notizia delle antiche, faranno questo mio conato difettivo e di non molta utilità; daranno almeno la via ad alcuno, che con più virtù, più di- scorso e giudizio, potrà a questa mia intenzione satisfare: il che se non mi arrecherà laude, non mi dovrebbe partorire biasimo. E quando io considero quanto onore si attribuisca all'anlichità, e come molte volle, lasciando andare molli al- tri esempi, un frammento d'una antica slatua sia stalo com-| peralo gran prezzo, per averlo appresso di sé, onorarne la' sua casa, poterlo fare imitare da coloro che di quella arte si dilettano; e come quelli poi con ogni industria si sforzano in tulle le loro opere rappresentarlo: e veagendo, dall'altro canto, le virtuosissime operazioni che le istorie ci mostrano, che sono slate operale da regni e da repubbliche antiche,

' Questo principio, sino alla seg.lin. 17, manca nell' ediz. del Biado (1531), rosi come nella Testina; le quali invece comi>}ciano: Considerando io guanto honore si attribuisca all' antichità ec,

s

86 DEI DISCORSI

dai re, capilani, ciUadini, datori di leggi, ed altri che si sono per la loro patria atTaticali, esser più presto ammirate che imitale; anzi in tanto da ciascuno in ogni parte fussito, che di quella antica virtù non ci è rimaso alcun scsno: non posso fare che insieme non me ne maravigli e dolga; e tanto più, quanto io veggio nelle difTerenze che intra i cittadini ci- vilmente nascono, o nelle malattie nelle quali gli uomini in- corrono, essersi sempre ricorso a quelli giudìcii o a quelli rimedii che dagli antichi sono stati giudicati o ordinati. Per- che le leggi civili non sono altro che scntenzie date dagli antichi iurcconsulli, le quali, ridotte in ordine, a* presenti nostri iareconsulli giudicare insegnano; ancora la medi- cina è altro che esperienzia falla dagli antichi medici, sopra la quale fondano i modici presenti li loro giudicii. Nondimeno, nello ordinare le repubbliche, nel mantenere gli slati, nel governare i regni, ncll'ordinsire la milizia ed amministrar la guerra, nel giudicare i sudditi, nello accrescere lo impe- rio, non si trova principi, repubbliche, capilani, cittadini che agli esempi degli antichi ricorra.' Il che mi persuado che nasca non lauto dalla debolezza nella quale la presente educazione ha condotto il mondo, o da quel male che uno ambizioso ozio ha fatto a molte provincie e città cristiane, quanto dal non avere vera cognizione delle isto- rie, per non Irarne, legaendole, quel senso, gustare di loro quel sapore che le hanno in sé. Donde nasce che infi- niti che leggono, pigliano piacere di udire quella varietà delli accidenti che in esse si contengono, senza pensare al- triroenle d'imitarle, giudicando la imitazione non solo dilli- Cile ma impossibile: come se il cielo, il sole, gli elementi, gli uomini fossero variali di moto, d'ordine e di potenza, da quello ch'egli erano anticamente. Volendo, pertanto, trarre gli uomini di questo errore, ho giudicato necessario scrivere sopra tutti quelli libri di Tito Livio che dalla malignità de'

La dfslnenwi del singolare, adoperata qui invece del plurale, segaitando forse l'uso del popolo, o procedente fori' anche dalla omissione del segno che suole nei MSS. indicare la 6nale no, indusse i posteriori editori , non esclusi quelli della Testina, a correggere: «è principe, ne repubblica ^ ne capitano, ne cittadino.

LIBRO PRIMO. 87

tempi non ci sono stati interrotti, quello che io, secondo le anliclie e moderne cose, giudicherò esser necessario per mag- giore inlelligenzia d'essi; acciocché coloro che questi miei Discorsi leggeranno, possino trarne quella utilità per la quale si debbe ricercare la cognizione della istoria. E benché questa impresa sia diffìcile, nondimeno, aiutato da coloro che mi hanno ad entrare sotto a questo peso confortalo, credo portarlo in modo, che ad un altro resterà breve cam- mino a condurlo al luogo destinalo.

Gap. I. Quali siano siali universalmente i principii di qualunque città , e quale fosse quello di Roma.

Coloro che leggeranno qual principio fosse quello della città di Roma, e da quali legislatori e come ordinato, non si maraviglieranno* che l;inta virtù si sia per più secoli man- tenuta in quella città; e che dipoi ne sia nato quello imperio, al quale quella Repubblica aggiunse. E volendo discorrere prima il nascimento suo, dico che tutte le città sono edificale o dagli uomini natii del luogo dove le si edificano, o dai fo- restieri. Il primo caso occorre quando agli abitatori dispersi in molle e piccole parti non par vivere sicuri, non potendo ciascuna per sé, e per il sito e per il piccol numero, resi- slere all'impelo di chi le assaltasse; e ad unirsi per. loro difensione, venendo il nemico, non sono a tempo; o quando fussero, converrebbe loro lasciare abbandonali molti de'loro ridotti, e cosi verrebbero ad esser subita preda dei loro ne- mici: talmente che, per fuggire questi pericoli, mossi o da loro medesimi, o da alcuno che sia infra di loro di maggior autorità, si ristringono ad abitar insieme in luogo eletto da loro, più comodo a vivere e più facile a difendere. Di que^ sle, infra molle altre, sono slate Atene e Vinegia. La prima, sotto Tautorità di Teseo, fu per simili cagioni dalli abitatori dispersi edificata; l'altra, sendosi molli popoli ridotti in certe isoletle che erano nella punta del mare Adriatico, per fug- gire quelle guerre che ogni dì, per lo avvenimento di nuovi barbari, dopo la declinazione dello imperio romano, nasce-

1 La Bladiaaa : non si maraviglierà.

88 DEI DISCORSI

vano in Italia, cominciarono infra loro, senza altro prìncipe particolare che gli ordinassi, a vivere sotto quelle leggi che parvono loro più alte a mantenerli. II che successe loro fc^li- cernente per il lungo ozio che il sito dette loro, non avendo quel mare uscita, e non avendo quelli popoli che afUiggevano Italia, navigi da poterli infestare: talché ogni picciolo prin- cipio li potè fare venire a quella grandezza nella quale sono. Il secondo caso, quando da genti forestiere è edificata una città, nasce o da uomini liberi, o che dipendano da altri: come sono le colonie mandale o da una repubblica o da un principe, per isgravare le loro (erre d'abitatori, o per difesa di quel paese che, di nuovo acquistato, vogliono sicuramente e senza spesa mantenersi; delle quali città il Popolo romano ne ediGcù assai, e per lutto l'imperio suo: ovvero le sono edificate da un principe, non per abitarvi, ma per sua gloria; come la città di Alessandria da Alessandro. E per non avere queste cittadi la loro origine libera, rade volte occorre che le facciano progressi* grandi, e possinsi intra i capi dei regni numerare. Simile a queste fu l'edificazione di Firenze, per- ché (o edificala da' soldati di Siila, o, a caso, dagli abitatori dei monti di Fiesole, i quali, confidatisi in quella lunga pace che sotto Ottaviano narque nel mondo, si ridussero ad abi- tare nel piano sopra Arno) si edificò sotto l'imperio romano; potette, ne'principii suoi, fare altri augamenti che quelli che per cortesia del principe li erano concessi. Sono liberi li edificatori delle cittadi, quando alcuni popoli, o sotto un principe o da per sé, sono costretti, o per morbo o per fame o per guerra, a abbandonare il paese patrio, e cercarsi nuova sede: questi tali, o egli abitano le cittadi che e'irovano ne' paesi ch'egli acquistano, come fece Moisè; o ne edificano di nuovo, come Enea. In questo caso è dove si conosce la virtù dello edificatore, e la fortuna dello edificato: la quale è più 0 meno meravigliosa, secondo che più o meno è vir- tuoso colui che ne é slato principio. La virtù del quale si conosce in duoi modi: il primo é nella elezione del sito; l'altro nella ordinazione delle leggi. E perché gli uomini operano o per necessità o per elezione; e perchè si vede

< L'edU. di Roma hàprocutt.

LifeRo Plinio. 89

quivi esser maggiore virtù dove la elezione ha meno aulo- . rilà; è da considerare se sarebbe meglio eleggere, per la edì- ] ficazione delle citladi, luoghi sterili, acciocché gli uomini, \ costretti ad industriarsi, meno occupati dall'ozio, vivessino \ più uniti, avendo , per la povertà del sito, minore cagione di discordie; come intervenne in Raugia, e in molte altre cit- ladi in simili luoghi edificate: la quale elezione sarebbe senza dubbio più savia e più utile, quando gli uomini fossero. con- tenti a vivere del loro, e non volessino cercare di comandare altrui. Pertanto, non potendo gli uomini assicurarsi se non j con la potenza, è necessario fuggire quesla sterilità del I paese, e porsi in luoghi fertilissimi; dove, polendo per la uberlà del sito ampliare, possa e difendersi da chi l'assal- tasse, e opprimere qualunque alla grandezza sua si oppo- nesse. E quanto a quell'ozio che le arrecasse il sito, si debba ordinare che a quelle necessiladi le leggi la coslringhino, che 'l sito non la costringesse; ed imitare quelli che sono stati savi, ed hanno abitato in paesi amenissimi e fertilissimi, e atti a produrre uomini oziosi ed inabili ad ogni virtuoso esercizio: che, per ovviare a quelli danni i quali l'amenità / del paese, mediante l'ozio, arebbero causati, hanno posto unai necessità di esercizio a quelli che avevano a essere soldati ; \ di qualità che, per tale ordine, vi. sono diventati migliori soldati che in quelli paesi i quali naturalmente sono slati aspri e sterili. Intra i quali fu il regno degli Egizi, che non ostante che il paese sia amenissimo, tanto potette quella ne- cessità ordinata dalle leggi, che vi nacquero uomini eccel- | lentissimi; e se li nomi loro non fussino dalla antichità ^ spenti, si vedrebbe come meriterebbero più laude che Ales- ' Sandro Magno, e molti altri de' quali ancora è la memoria fresca. E chi avesse consideralo il regno del Soldano, e l'or- dine de'Mammaluchi, e di quella loro milizia, avanti che da Salì, Gran Turco, fosse stata spenta ; arebbe veduto in quello molli esercizi circa i soldati, ed arebbe in fatto conosciuto quanto essi temevano quell'ozio a che la benignità del paese gli poteva condurre, se non vi avcssino con leggi fortissime ovviato. Dico, adunque, essere più prudente elezione porsi in luogo fertile^ quando quella fertilità con le leggi infra' debili '

90 bEl DISCORSI

termini si restringe. Ad Alessandro Magno, volendo edificare una città per sua gloria, venne Dinocrate architetto, e gli mostrò come ei la poteva fare sopra il monte Albo; il quale luogo, oltre allo esser forte, potrebbe ridursi in modo che a quella città si darebbe forma umana; il che sarebbe cosa meravigliosa e rara, e degna della sua grandezza: e doman- dandolo Alessandro di quello che quelli abitatori viverebbo- no, rispose, non ci avere pensato: di che quello si rise, e lasciato stare quel monte, edificò Alessandria, dove gli abi- tatori avessero a stare volentieri per la grassezza del paese, e per la comodità del mare e del Nilo. Chi esaminerà, adun- que, la edificazione di Roma, se si prenderà Enea per suo primo progenitore, sarà di quelle cittadi edificate da' fore- stieri ; se Romolo, di quelle edificate dagli uomini natii del luogo; ed in qualunche modo, la vedrà avere principio libe- ro, senza dependere da alcuno: vedrà ancora, come di sotto si dirà, a quante necessitadi le leggi fatte da Romolo, Nu- ma, e gli altri, la costringessino; talmente che la fertilità del sito, la comodità del mare, le spesse vittorie, la grandezza dello imperio, non la poterono per molti secoli corrompere, e la mantennero piena di tante virtù, di quante mai fusse alcun' altra repubblica ornata. E perchè le cose operate da lei, e che sono da Tito Livio celebrate, sono seguile o per pubblico 0 per privato consiglio, o dentro o fuori della cil- tade, io comincerò a discorrere sopra quelle cose occorse dentro, e per consiglio pubblico, le quali degne di maggiore annotazione giudicherò, aggiungendovi (atto quello che da loro dependessi: con i quali Discorsi questo primo libro, ovvero questa prima parte, si terminerà.

Gap. il Di quante spezie sono le repuhblichet e di quale fu la Repubblica Romana.

Io voglio porre da parte il ragionare di quelle cittadi che hanno avuto il loro principio sottoposto ad altri; e par- lerò di quelle che hanno avuto il principio lontano da ogni servitù esterna, ma si sono subito governate per loro arbi- trio, 0 come repubbliche o come principato: le quali hanno

I

,

ilfeRO PRllflÒ. 8i

avuto, come diversi principii, diverse leggi ed ordini. Perchè ad alcune, o nel principio d'esse, o dopo non mollo tempo, sono slate date da un solo le leggi, e ad un tratto; come quelle che furono date da Licurgo agli Spartani: alcune le hanno avute a caso, ed in più volle, e secondo li accidenti^ come Roma. Talché, felice si può chiamare quella repubbli» ca, la quale sortisce uno uomo si prudente, che le dia leggi ordinale in modo, che senza avere bisogno di correggerle, possa vivere sicuramente sotto quelle. E si vede che Sparta le osservò più che ottocento anni senza corromperle, o senza alcuno tumulto pericoloso: e, pel contrario, tiene qualche grado d'infelicità quella città, che, non si sendo abbattuta ad uno ordinatore prudente, è necessitala da medesima rior- dinarsi: e di queste ancora è più infelice quella che è più discosto dall'ordine; e quella è più discosto, che con suoi ordini é al tutto fuori del dritto cammino, che la possi con- durre al perfetto e vero fine: perché quelle che sono in que- sto grado, è quasi impossibile che per qualche accidente si rassettino. Quelle altre che, se le non hanno l'ordine per- fetto, hanno preso il principio buono, e atto a diventare migliori,' sono per la occorrenza delli accidenti diventare perfette. Ma fia ben vero questo, che mai non si ordineranno senza pericolo; perchè li assai uomini non si accordano mai ad una legge nuova che riguardi uno nuovo ordine nella città, se non è mostro loro da ana necessità che bisogni farlo; e non potendo venire questa necessità senza pericolo, è facil cosa che quella repubbUca rovini, avanti che la si sia condotta a una perfezione d'ordine. Di che ne fede appieno la repubblica di Firenze, la quale fu dallo accidente d'Arezzo, nel II, riordinata, e da quel di Prato, nel XII,.disor- dinata. Volendo, adunque, discorrere quali furono li ordini della città di Roma, e quali accidenti alla sua perfezione la condussero; dico, come alcuni che hanno scritto delle repub- bliche, dicono essere in quelle uno de' tre stati, chiamati da loro Principato, d'Ottimati e Popolare; e come coloro che or- dinano una città, debbono volgersi ad uno di questi, secondo pare loro più a proposito. Alcuni altri, e secondo la oppinlone

f La Bla diana ha migliore»

9^ DEI DISCORSI

di molti più sari, hanno oppinione che siano di sei ragioni governi; delli quali Ire ne siano pessimi; tre altri siano buoni in loro medesimi, ma si facili a corrompersi, che vengono ancora essi ad essere perniziosi. Quelli che sono buoni, sono i soprascritti tre: quelli che sono rei, sono Ire altri, i quali da questi tre dependono; e ciascuno d'essi è in modo simile a quello che gli è propinquo, che facilmente saltano dall'uno all'altro: perchè il Principato facilmente diventa tirannico; li Oitìmati con facilità diventano stato di pochi; il Popolare senza diffìcuKà in licenzioso si converte. Talmente che, se ano ordinatore di repubblica ordina in ana città uno di quelli (restati, ve lo ordina per poco tempo; perchè nessuno ri- medio può farvi, a far che non sdruccioli nel suo contrario, per la similitudine che ha in questo caso la virtù ed il vizio. Nacquono queste variazioni di governi a caso intra li uomini: perchè nel principio del mondo, sendo li abitatori rari, vis- sono un tempo disperati, a similitudine delle bestie; dipoi, multiplicando la generazione, si ragunorno insieme, e, per potersi mculio difendere, cominciorno a riguardare fra loro quello che fusse più robusto e di roagsiore cuore, e fecionlo come capo, e lo obedivano. Da questo nacque la cognizione delle cose oneste e buone, difTerenli dalle pemiziose e ree: perchè, vciigcndo che se uno noceva al suo benefattore, ne veniva odio e compas<iione intra gli uomini, biasimandoli in- grati ed onorando quelli che fussero grati, e pensando an- Cora che quelle medesime ingiurie potevano esser fatte a loro; per fuzgire simile male, riducevano a fare leggi, or- dinare punizioni a chi centra facesse: donde venne la co- gnizione della giustizia. La qual cosa faceva che avendo dipoi ad eleggere un principe, non andavano dietro al più ga- gliardo, ma a quello che fussi più prudente e più giusto. Ma come dipoi si cominciò a fare il principe per successione, e non per elezioite, subito cominciorno li eredi a degene- rare dai loro antichi; e lasciando l'opere virtuose, pensa- vano che i principi non avessero a fare altro che superare li altri di sontuosità e di lascivia e d*ogni altra qualità deliziosa: in modo che, cominciando il principe ad essere odiato, e per tale odio a temere, e passando tosto dal ti-

LIBRO PRIMO. 93

more all' offese, ne nasceva presto una tirannide. Da questo nacquero appresso i principii delle rovine, e delle conspira- zioni e congiure centra i principi ; non fatte da coloro che fussero o timidi o deboli, ma da coloro che per generosità, grandezza d'animo, ricchezza e nobiltà, avanzavano gli altrj; i quali non potevano sopportare la inonesta vita di quel principe. La moltitudine, adunque, seguendo l'autorità di questi potenti, si armava contra al principe, e quello spento, ubbidiva loro come a suoi liberatori. E quelli, avendo in odio il nome d'uno solo capo, constituivano di loro medesimi un , governo; e nel principio, avendo rispetto alla passata tiran- \ nidO; si governavano secondo le leggi ordinate da loro, r posponendo ogni loro comodo alla comune utilità ; e le cose 1 private e le pubbliche con somma dili'genzia governavano e | conservavano. Venuta dipoi questa amministrazione ai loro / figliuoli, i quali, * non conoscendo la variazione della fortuna, , non avendo mai provato il male, e non volendo stare cou- tenti alla civile equalità, ma rivoltisi alla avarizia, alla am- bizione, alla usurpazione delle donne, feciono che d'uno go- verno d'Ottimati diventassi un governo di pochi, senza avere rispetto ad alcuna civiltà : tal che in breve tempo intervenne loro come al tiranno ; perché infastidita da* loro governi la moltitudine, si ministra di qualunque disegnassi in alcun modo offendere quelli governatori ; e cosi si levò presto al- cuno che, con l'aiuto della moltitudine, li spense. Ed essendo ancora fresca la memoria del principe e delle ingiurie ri- cevute da quello, avendo disfatto lo stato de' pochi e non volendo rifare quel del principe, si volsero allo stato popo- lare; e quello ordinarono in modo, che i pochi potenti, uno principe vi avesse alcuna autorità. E perchè tutti gli stati nel principio hanno qualche reverenza, si mantenne questo slato popolare un poco, ma non mollo, massime spenta che fu quella generazione che l'aveva ordinato; perchè su- ^ bito si venne alla licenzia, dove non si temevano li uomini \ privati i pubblici ; di qualità che, vivendo ciascuno a suo \ modo, si facevano ogni mille ingiurie: talché, costretti per

* A volere che il senso non rimanesse in sospeso, dovrebbe leggersi onesti 0 costoro.

94 DEI DISCORSI

necessità, o per saggeslione d' alcuno buono uomo, o per fuggire tale licenzia, si rilorna di nuovo al principato ; e da quello, di grado in grado, si riviene verso la licenzia, ne' modi e per le cagioni dette. E questo è il cerchio nel quale gi- rando tutte le repubbliche si sono governate, e si gover- nano: ma rade volle ritornano ne' soveroi medesimi; per- chè quasi nessuna repubblica può essere di tanta vita, che possa passare molle volte per queste mutazioni, e rimanere in piede. Ma bene interviene che, nel travagliare, una repub- blica, mancandoli sempre consiglio e forze, diventa suddita d'uno stalo propìnquo, che sia meglio ordinato di lei : ma dato che questo non fusse, sarebbe alla una repubblica a rigirarsi infinito tempo in questi governi. Dico, adunque, che tutti i detti modi sono pestiferi, per la brevità della vita che è ne* Ire buoni, e per la malignità che è ne' tre rei. Talché, avendo quelli che prudentemente ordinano leggi, conosciuto questo difetto, fuggendo ciascuno di questi modi per se stesso, n'elessero uno che pafticipnsse di tulli, giudicandolo più fermo e più stabile; perchè l'uno guarda l'altro, scudo in una medesima città il Principato, li Oilimnti, ed il Governo Popolare. Intra quelli che hanno per simili consliluzioni meritalo più laude, è Licur::o; il quale ordinò in modo le sue leggi in Sparla, che dando le parli sue ai He, agli Ottimati e al Popolo, fece uno stalo che durò più che ottocento anni, con somma |ju<le sua, e quiete di quella città. Al contrario intervenne a Solone, il quale ordinò le leggi in Alene; che per ordinarvi solo lo slato popolare, lo fece di si breve vita, che avanti morisse vi vide nata la tirannide di Pisislrato: e benché dipoi anni quaranta ne fussero cacciati gli suoi eredi, e ritornasse Atene in libertà, perché la riprese lo slato po- polare, secondo gli ordini di Solone; non lo tenne più che cento anni, ancora che per mantenerlo facesse molte con- sliluzioni, per le quali si reprimeva la insolenzia de' grandi e la licenzia dell'universale, le quali non furon da Solone considerate: nientedimeno, perchè la non le mescolò con la potenzia del Principato e con quella delli Ottimati, visse Atene, a rispetto di Sparta, brevissimo tempo. Ma vegniamo a Koma; la quale nonoslante che non avesse uno Licurgo

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che la ordinasse in modo, nel principio, che la pofesse vìvere lungo lampo libera, nondimeno furon lanti gli accidenti che in quella nacquero, per la disunione che era inlra la Plebe ed il Senato, che quello che non aveva fatto uno ordinatore, lo fece il caso. Perchè, se Roma non sorti la prima fortuna, sortì la seconda ; perchè i primi ordini se furono defettivi, nondimeno non deviarono dalia diritta via che li potesse condurre alla perfezione. Perchè Romolo e lutti gli altri Re fecero molte e buone le^^gi, conformi ancora al vivere libero: ma perchè il fine loro fu fondare un regno e non una repub- blica, quando quella città rimase libera, vi mancavano molte cose che era necessario ordinare in favore della libertà, le quali non erano state da quelli Re ordinate. E avvegnaché quelli suoi Re perdessero l'imperio per le casioni e modi discorsi ; nondimeno quelli che li cacciarono, ordinandovi su- |- bito duoi Consoli, che stessino nel luogo del Re, vennero a| cacciare di Roma il nome, e non la potestà regia: làiche, I essendo in quella Repubblica i Consoli ed il Senato, veniva solo ad esser mista di due qualità delle Ire soprascritte; cioè di Principato e di Ottimati. Reslavali solo a dare luogo al Governo Popolare : onde, essendo diventala la Nobiltà ro- mana insolente per le casioni che di sotto si diranno, si levò il Popolo contro di quella; talché, per non perdere il tutto, fu costretta concedere al Popolo la sua parte; e, dall'al- tra parte, il Senato e i Consoli reslassino con lar»ta autorità, che potessino tenere in quella Repubblica il grado loro. E così nacque la creazione de' Tribuni della plebe ; dopo la quuie creazione venne a essere più stabilito lo stato di quella Repubblica, avendovi tutte le tre qualità di governo la parte ^spa. E tanto li fu fiivorevole la fortuna, che benché si pas- sasse dal governo de' Re e delti Ollimali al Popolo, per quelli medesimi gradi e per quelle medesime caiiioni che di sojjra si sono discorse; nondimeno non si tolse mai, per dare autorità alli Ottimati, lotta V autorità alle qualità regie; si diminuì l'autorità in tutto alli Ottimati, per darla al Po[)(»Io ; ma ri- manendo mista, fece una reiìubhlica perfetta: alla quale per- fezione venne per la disunione della plebe e del Senato, come nei duoi prossimi seguenti capitoli largarpeiUe si dimostrerà.

96 DEI DISCORSI

Cap. III. Quali accidenti facemno creare in Koma i Tribuni della plebe ; il che fece la Repubblica più per fella.

Come dimostrano talli coloro che ragionano del vivere civile, e come ne è piena di esempi ogni istoria, é necessa» rio a chi dispone una repubblica, ed ordina leggi in qaella, presupporre tutti gli uomini essere cattivi, e che li abbino sempre ad usare la malignità dello animo loro, qualunche volta ne abbino libera occasione: e quando alcuna malignità sta occulta un tempo, procede da una occulta cagione, che, per non si essere veduta esperienza del contrario, non si co- nosce; ma la fa poi scoprire * il tempo, il quale dicono essere padre d'ogni verità. Pareva che fusse in Roma intra la Plebe ed il Senato, cacciati i Tarquini, una unione grandissima; e che i Nobili avessino deposta quella loro superbia, e rus- sino diventati d'animo popolare, e sopportabili da qualunche, ancora che infimo. Stelle nascoso questo insanno, se ne vide la cagione, infino che i Tarquini vissono; de' quali te- mendo la Nobiltà, ed avendo paura che la Plebe mal Iraltala non si accostasse loro, si portava umanamente con quella: ma come prima furono morti i Tarquini, e che a' Nobili fu la paura fuggita, cominciarono a sputare contfa alla Plebe quel veleno che si avevano tenuto nel petto, ed in tutti i modi che potevano la otTendevano: la qual cosa fa testimo- nianza a quello che di sopra ho detto, che gli uomini non operano mai nulla bene, se non per necessità; ma dove la elezione abbonda, e che vi si può usare licenzia, si riempie subilo ogni cosa di confusione e di disordine. Però si dice che la fame e la povertà fa gli uomini industriosi, e le leggi gli fanno buoni. E dove una cosa per medesima senza la leege opera bene, non è necessaria la legse; ma quando quella buona consuetudine manca, è sùbito la legge necessaria. Però, mancati i Tarquini, che con la paura di loro tenevano la Nobiltà a freno, convenne pensare a uno lìuuvo ordine che facessi quel medesimo eflTetto che face- vano i Tarquini quando erano vivi. E però, dopo molle con-

* La Bladiana : scoperire.

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fusioni, roraori e pericoli di scandali, che nacquero intra la Plebe e la Nobiltà, si venne per sicurtà della Plebe alla crea- zione de'Tribuni; e quelli ordinarono con (ante preminenze e tanta riputazione, che polessino essere sempre di poi mezzi intra la Plebe e il Senato, e ovviare alla insolenzia de' Nobili.

Gap. IV. Che la disunione della Plebe e del Senato romano fece libera e polente quella Repubblica.

Io non voglio mancare di discorrere sopra questi tu- multi che furono in Roma dalla morte de'Tarquini alla crea- zione de'Tribuni; e di poi alcune cose contro la oppinione di molli che dicono, Roma esser slata una repubblica tumul- tuaria, e piena di tanta confusione, che se la buona fortuna e la virlù militare non avesse supplito a'ioro difetti, sarebbe stata inferiore ad ogni altra repubblica. Io non posso negare che la fortuna e la milizia non fussero cagioni dell'imperio romano; ma e'mi pare bene, che costoro non si avvegghino, che dove è buona milizia, conviene che sia buono ordine, e rade volle anco occorre che non vi sia buona fortuna. Ma vegnamo alli allri particolari di quella città. Io dico che co- loro che dannano i tumulti intra i Nobili e la Plebe, mi pare che biasimino quelle cose che furono prima cagione di te- nere libera Roma ; e che considerino più a' romori ed alle grida che di tali tumulti nascevano, che a'buoni effetti che quelli partorivano: e che non considerino come e' sono in ogni repubblica duci umori diversi, quello del popolo, e quello de'grandi; e come tulle le leggi che si fanno in fa- vore della libertà, nascono dalla disunione loro, come facil- mente si può vedere essere segiiilo in Roma: perchè da'Tar- quini ai Gracchi, che furono più di trecento anni, i tumulti di Roma rade volte partorivano esilio, radissimo sangue. si possono, per tanto, giudicare questi tumulti nocivi, [ una repubblica divisa, che in lanlo tempo per le sue diffe- renze non mandò in esilio più che olio o dieci cittadini, e ne aramazzò pochissimi, e non molti ancora condennò in danari. si può chiamare in alcun modo, con ragione, una

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repubblica inordinata, dove siano tanti esempi di virtù; per- chè li baoni esempi nascono dalla buona educazione; la buona educazione dalle buone leggi; e le buone leggi da quelli lu- mulli che molli inconsideralamenle dannano: perchè chi esaminerà bene il fìne d'essi, non troverà ch'egli abbino partorito alcuno esilio o violenza in disfavore del comune bene, ma leggi ed ordini in benefìzio della pubblica libertà. E se alcuno dicesse: i modi erano straordinari, e quasi eflTc- rati, vedere il Popolo insieme gridare contra il Senato, il Senato contra il Popolo, correre tumultuariamente per le strade, serrare le botteghe, partirsi tutta la Plebe di Roma, le quali tutte cose spaventano, non che altro, chi legge; dico come ogni città debbe avere i suoi modi con i quali il popolo possa sfogare l'ambizione sua, e massime quelle cittadi che nelle cose importanti si vogliono valere del po- polo: intra le quali la città di Roma aveva questo modo, che quando quel Popolo voleva ottenere una legge , o e' faceva alcuna delle predette cose, o e* non voleva dare il nome per andare alla guerra, tanto che a placarlo bisognava in qual- che parte satisfarli. E i desiderii de' popoli liberi, rade volte sono peroiziosi alla libertà, perchè e' nascono o da essere oppressi, o da suspìzione di avere a essere oppressi. E quando queste oppinìoni fussero false, e* vi è il rimedio delle concioni, che surga qualche uomo da bene, che, orando, dimostri loro come e* s' ingannano: e li popoli, come dice Tullio, benché siano ignoranti, sono capaci della verità, e facilmente cedono, quando da uomo degno di fede è detto loro il vero. Debbesi, adunque, più parcamente biasimare il governo romano, e considerare che tanti buoni cfTelti qnanti uscivano di quella repubblica, non erano causati se non da ottimo cagioni. E se i tumulti furono cagione della creazione de' Tribuni, meritano somma laude; perchè, olire al dare la parte sua all'amministrazione popolare, furono constituili per guardia della libertà romana, come nel se- guente capitolo si mostrerà.

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Cap. V. Dove più securamenie si ponga la guardia della libertà, o nel Popolo a ne' Grandi; e quali hanno mag- giore cagione di lumuUuare, o chi vuole acquistare o chi vuole mantenere.

Quelli che prudentemente hanno constiluìla una repub- blica, intra le più necessarie cose ordinale da loro, è stalo consliluire una guardia alla libertà: e secondo che questa è bene collocala, dura più o meno quel vivere libero. E per- chè in ogni repubblica sono uomini grandi e popolari, si è dubitato nelle mani di quali sia meglio collocala della guar- dia. Ed appresso i Lacedemoni, e, ne'noslri tempi, appresso de* Viniziani, la è stata messa nelle mani de* Nobili; ma appresso de' Romani fu messa nelle mani della Plebe. Per tanto, è necessario esaminare, quale di queste repubbliche avesse migliore elezione. E se si andassi dietro alle ragioni, ci è che dire da ogni parte: ma se si esaminassi il fine loro, si piglierebbe la parie de' Nobili, per aver avuta la libertà di Sparla e di Vinegia più lunga vita che quella di Roma. E venendo alle ragioni, dico, pigliando prima la parte de'Ro- \ mani, come e' si debbe mettere in guardia coloro d' una co- sa, che hanno meno appelilo di usurparla. E senza dubbio, i se si considera il fine de' nobili e delli ignobili, si vedrà in quelli desiderio grande di dominare, ed in questi solo de- siderio di non essere dominati; e, per conseguente, maggiore volontà di vivere liberi, polendo meno sperare d'usurparla che non possono li grandi: talché, essendo i popolani pre- posti a guardia d'una libertà, è ragionevole ne abbino più cura; e non la potendo occupare loro, non permeltino che altri la occupi. Dall'altra parte, chi difende l'ordine spar- tano e veneto, dice che coloro che mettono la guardia in mano de' polenti, fanno due opere buone: l' una, che satis- fanno più all'ambizione di coloro che avendo più parie nella repubblica, per avere questo bastone in mano, hanno ca- gione di contentarsi più; l'allra, che lievano una qualità di autorità dagli animi inquieti della plebe, che è cagione d'in- finite dissensioni e scandali in una repubblica, e alta a ri-

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durre la nobiltà a qualche disperazione, che col tempo faccia ] callivi efletli. E ne danno per esempio la medesima Roma, che per avere i Tribuni della plebe questa autorità nelle mani, non bastò loro aver un Consolo pleheio, che gli vol- lono avere ambedue. Da questo, e'vollono la Censura, il Pre- tore, e tulli li altri gradi dell'imperio della città: basiò loro questo, che menati dal medesimo furore, corainciorno poi, col tempo, a adorare quelli uomini che vedevano atti a battere la Nobiltà; donde nacque la potenza di Mario, e la roTina di Roma. E veramente, chi discorresse bene V una rosa e 1* altra, potrebbe stare dubbio, quale da lui fosse eletto per guardia di tale libertà, non sa|>endo quale qualità d'uomini sia più nociva in una repubblica, o quella che de- sidera acquistare quello che non ha, o quella che desidera mantenere Tenore già acquistato. Ed in fine, chi sottilmente esaminerà lutto, ne farà questa conclusione: o tu ragioni d'una repubblica che vogli fare uno imperio, come Roma; o d'una che li basti mantenersi. Nel primo caso, i^li è ne- cessario fare ogni cosa come Roma; nel secondo, può imitare Vinegla e Sparla per quelle cagioni, e come nel seguente capitolo si dirà. Ma, per tornare a discorrere quali uomini siano in una repubblica più nocivi, o quelli che desiderano d'acquistare, o quelli che temono di perdere lo acquistato; dico che, sendo fatto Marco Mcnennio dittatore, e Marco Fulvio maestro de* cavalli, tutti duoi plebei, per ricercare certe congiure che si erano fatte in Capeva contro a Roma, fu dato ancora loro autorità dal Popolo di potere ricercare chi in Roma per ambizione e modi straordinari s'ingegnasse di venire al consolato, ed agli altri onori della città. E pa- rendo alla Nobiltà, che tale autorità fusse data al Dittatore contro a lei, sparsero per Roma, che non i nobili erano quelli che cercavano gli onori per ambizione e modi straor- dinari, ma gl'isnobili, i quali, non confidatisi nel sangue e nella virtù loro, cercavano per vie straordinarie venire a quelli gradi; e particolarmente accusavano il Dittatore. E •tanto fu potente questa accusa, che Slcnennio, fatta una con- clone e dolutosi delle calunnie dategli da'Nobili, depose la dittatura, e sottomessesi al giudizio che di lui fussi fatto dal

LlliilO PRIMO. 401

Popolo ; e dipoi, agitala la causa sua, ne fu assoluto : dove si disputò assai, quale sia più ara!)izioso, o quel che vuole man- tenere 0 quel che vuole acquistare ; perché facilmente l'uno e l'altro appetito può essere cagione di tumulti grandissimi. Pur nondimeno, il più delle volte sono causati da chi pos- siede, perchè la paura del perdere genera in loro le mede- sime voglie che sono in quelli che desiderano acquistare ; perchè non_ji»re agli uomini possedere sicuramente quello che l'uomo ha, se non si acquista di nuovo dell'altro. E di più~vrè, che possedendo molto, possono con maggior po- tenzia e maggiore moto fare alterazione. Ed ancora vi è di più, cheli loro scorretti e ambiziosi portamenti accendono ne' petti di chi non possiede voglia di possedere, o per ven- dicarsi contro di loro spogliandoli, o per potere ancora loro entrare in quella ricchezza e in quelli onori che veggono essere male usati dagli altri.

Cap. VF. Se in Roma si poteva ordinare uno stalo che togliesse

via le inimicizie intra il Popolo ed il Senato.

'.'>3o.j 'ti

Noi abbiamo discorsi di sopra gli effetti che facevano le controversie intra il Popolo ed il Senato. Ora, sendo quelle se- guitale in fino al tempo de'Gracchi, dove furono cagione della rovina del vivere libero, potrebbe alcuno desiderare che Roma avesse fatti gli effetti grandi che la fece, senza che in quella fussino tali inimicizie. Però mi è parso cosa degna di considerazione, vedere se in Roma si poteva ordinare uno slato che togliesse via dette controversie. Ed a volere esaminare questo, è necessario ricorrere a quelle repubbli- che le quali senza tante inimicizie e tumulti sono state lungamente libere, e vedere quale stato era il loro, e se si poteva introdurre in Roma. In esempio tra li antichi ci è Sparta, tra i moderni Vinegia, stale da me di sopra nomi- nale. Sparla fece uno Re, con un picciolo Senato, che la go- vernasse. Vinegia non ha diviso il governo con i nomi; ma, sotto una appellazione, lutti quelli che possono avere ammi- nistrazione si chiamano Gentiluomini. II quale modo lo dette il caso, più che la prudenza di chi delle loro le leggi : perchè.

i02 DEI DISCORSI

seodosi rìdoUi in su quelli scogli dove è ora quella cillà, per le cagioni delle di sopra, molli abilalori ; come furon cre- sciuti in tanto numero, che a volere vivere insieme biso- gnasse loro far leggi, ordinorono una forma di governo; e convenendo spesso insieme ne' consigli a deliberare della città, quando parve loro essere tanti che fussero a sufficienza ad un vivere politico, * chiusone la via a tulli quelli altri che vi venissino ad abitare di nuovo, di potere convenire ne' loro governi ; e, col tempo, trovandosi in quel luogo assai abitatori fuori del governo, per dare riputazione a quelli che governavano, gli chiamarono Gentiluomini, e gli altri Po- polani. Potette questo modo nascere e mantenersi senza tu- multo, perchè quando e' nacque, qualunque allora abitava in Yinegia fu fallo del governo, di modo che nessuno si poteva dolere ; ' quelli che dipoi vi vennero ad abitare, trovando lo stato fermo e terminalo, non avevano cagione comodità fare (amulto. La cagione non v' era, perchè non era stalo loro tolto cosa alcuna: la comodità non v'era, perchè chi reg- geva gli teneva in freno, e non gli adoperava in cose dove e' potessino pigliare autorità. Oltre di questo, quelli che dipoi venoono ad abitare Yinegia, non sono stati molti, e di tanto numero, che vi sia disproporzione da chi gli governa a loro che sono governati ; perchè il numero de' Gentiluomini o egli è eguale a loro, o egli è superiore: sicché, per queste cagioni, Yinegia polette ordinare quello stato, e mantenerlo unito. Sparta, come ho detto, essendo governala da un Ke e da uno stretto Senato, potette mantenersi cosi lungo tempo, perchè essendo in Sparla pochi abitatori, ed avendo tolta la via a chi vi venisse ad abitare, ed avendo prese le leggi di Licurgo con reputazione, le quali osservando, levavano via tutte le cagioni de' tumulti, poterono vivere uniti lungo tempo : perchè Licurgo con le sue leggi fece in Sparta più equalità di sustanze, e meno equalità di grado; perchè quivi era una eguale povertà, ed i plebei erano manco ambiziosi, perché i gradi della città si distendevano in pochi cittadini,

* Mcn bene la Testina, e più altre edizioni: pubblico. ' Il Machiavelli sembra scambiare la primitiva aristocraxia dei Veneti col più rtcenle e maraNigtioso allo politico, che si chiamo Serrala del gran Consiglio.

LIDRO PRIMO. iOo

ed erano tenuti discosto dalla plebe, gli nobili col trat- targli male dettero mai loro desiderio di avergli. Questo nacque dai Re spartani, i quali essendo collocati in quel prin- cipato e posti in mezzo di quella nobiltà, non avevano mag- giore rimedio a tenere fermo la loro degnila, che tenere la plebe difesa da ogni ingiuria: il che faceva che la plebe non temeva, e non desiderava imperio ; e non avendo imperio temendo, era levata via la gara che la potessi avere con la nobiltà, e la cagione de' tumulti; e poterono vivere uniti lungo tempo. Ma due cose principali causarono questa unio- ne : runa esser pochi gli abitatori di Sparta, e per questo poterono esser governali da pochi; l'altra, che non accet- tando forestieri nella loro repubblica, non avevano occasione di corrompersi, di crescere in tanto che la fusse in- sopportabile a quelli pochi che la governavano. Considerando adunque tutte queste cose, si vede come a' legislatori di Roma era necessario fare una delle due cose, a volere che ,

Roma stessi quieta come le sopraddette repubbliche: o non %^4*^ ^ adoperare la plebe in guerra, come i Viniziani ; o non aprire , y. /^ la via a' forestieri, come gli Spartani. E loro feceno 1' una e l'altra; il che dette alla plebe forza ed augumento, ed infi- nite occasioni di tumultuare. £ se lo stato romano veniva ad essere più quieto, ne seguiva questo inconveniente, ch'egli w^' era anco più debile, perchè gli si troncava la via di potere '"^ venire a quella grandezza dove ei pervenne: in modo che -^ r^ volendo Roma levare le cagioni de' tumulti, levava anco y<v le cagioni dello ampliare. Ed in tutte le cose umane si vede \ < questo, chi le esaminerà bene: che non si può mai cancel- / ^*^zi lare uno inconveniente, che non ne surga un altro. Per tanto, {. C**^ se tu vuoi fare un popolo numeroso ed armalo per potere £^ fare un grande imperio, lo fai di qualità che tu non lo puoi *^ . e poi * maneggiare a tuo modo: se tu lo mantieni o piccolo o it#i^ disarmalo per potere maneggiarlo, se egli acquista dominio, , \^, non lo puoi tenere, o diventa vile, che tu sei preda di qua- ^' lunche ti assalta. E però, in ogni nostra deliberazione si ti*^^ debbe considerare dove sono meno inconvenienti, e pigliare ^ ^v^ quello per migliore partito: perché tutto netto, lutto senza j . / ,x

< Cosi , ni; può essere arbitrio di editori , nella Bladiana. Nelle altre : dopo, .,| Jt * ^

J^^y^

i04 DEI DISCORSI

sospello non si Irova mai. Poteva, adunque, Roma a similitu- dine di Sparta fare un Principe a vita, fare un Senato |.ic- colo; raa non poteva, come quella, non crescere il numero de' cittadini suoi, volendo fare un grande imperio: il che faceva che il Re a vita ed il picciol numero del Senato, quanto alla unione, gli sarebbe giovato poco. Se alcuno vo- lesse, per tanto, ordinare una repubblica di nuovo, arebbe a esaminare se volesse ch'ella ampliasse, come Homa, di do- minio e di potenza, ovvero ch'ella stesse dentro a brevi ter- mini. Nel primo caso, è necessario ordinarla come Roma, e dare luogo a' tumulti e alle dissensioni universali, il meglio che si può; perchè senza gran numero di uomini, e bene armali, non mai una repubblica potrà crescere, o se la cre- scerà, mantenersi. Nel secondo caso, la puoi ordinare come Sparta e come Vinegia : ma perchè l' ampliare è il veleno di simili repubbliche, debbe, in latti quelli modi che si può, chi le ordina proibire loro lo acquistare; perchè tali acquisti fondati sopra una repubblica debole, sono al tutto la rovina 803. Come intervenne a Sparta ed a Vinegia: delle quali la prima avendosi sottomessa quasi tutta la Grecia, mostrò in su ano minimo accidente il debole fondamento suo; perchè, seguita la ribellione di Tebe, causala da Pelopida, ribellan- dosi l'altre ciltadi, rovinò al tallo quella repubblica. Simil- roenle Vinegia, avendo occupato gran parte d'Italia, e la maggior parte non con guerra ma con danari e con astu- zia, come la ebbe a fare prova delle forze sue, perdette in ^a giornata ogni cosa. Crederei bene, che a fare una repub- blica che durasse lungo lempo, fossi il miglior modo ordi- narla dentro come Sparta o come Vinegia; porla in luo2[0 forte, e di tale potenza, che nessuno credesse poterla subito opprimere; e dall'altra parie, non fussi si grande, chela fussi formidabile a' vicini: e cosi potrebbe lungamente go- dersi il suo stato. Perchè, per due cagioni si fa guerra ad una repubblica : l' una per diventarne signore, l'altra per paura eh' ella non li occupi. Queste due cagioni il sopraddetto modo quasi in lutto toglie via; perchè, se la è difficile ad espugnarsi, come io la presuppongo, sendo bene ordinata alla difesa, rade volle accadcrà, o non mai, che uno possa fare disegno

LIBRO PRIMO. iOo

d'acquistarla Se la si sjarà inlra i (ermini suoi, e veggasi per esperienza, che in lei non sia ambizione, non occorrerà mai che uno per paura di gli faccia guerra : e (anlo più sarebbe questo, se e' fusse in lei constituzione o legge che le proibisse l'ampliare. E senza dubbio credo, che po- tendosi tenere la cosa bilanciata in questo modo, che e' sa- rebbe il vero vivere politico, e la vera quiete di una città. Ma sendo tutte le cose degli uomini in moto, e non polendo slare salde, conviene che le saglino o che le scendine; e (i^| ijiolte cose che la ragione non t' induce, t'induce la neces- £Uà: talmente che, avendo ordinata una repubblica alta a mantenersi non ampliando, e la necessità la conducesse ad ( ampliare, si verrebbe a torre via i fondamenti suoi, ed a j farla rovinare più presto. Cosi, dall'altra parte, quando il ' Cielo le fusse benigno, che la non avesse a fare guerra, ne nascerebbe che l' ozio la farebbe o effeminata o divisa ; le quali due cose insieme, o ciascuna per sé, sarebbono ca- gione della sua rovina. Pertanto, non si potendo, come io credo, bilanciare questa cosa, mantenere questa via del mezzo a punto; bisogna, nello ordinare la repubblica, pen- sare alla parte più onorevole; ed ordinarla in modo, che quando pure la necessità la inducesse ad ampliare, ella po- tesse quello ch'ella avesse occupato, conservare. E, per tor- nare al primo ragionamento, credo che sia necessario se- guire V ordine romano, e non quello dell' altre repubbliche ; perchè trovare un modo, mezzo infra l'uno e l'altro,' non credo si possa: e quelle inimicizie che intra il popolo ed il senato nascessino, tollerarle, pigliandole per uno inconveniente ne- cessario a pervenire alla romana grandezza. Perchè, oltre al- l'altre ragioni allegale dove si dimostra l'autorità tribuni- zia essere stala necessaria per la guardia della libertà , si può facilmente considerare il benefizio che fa nelle repub- bliche l'autorità dello accusare, la quale era inlra gli altri commessa a' Tribuni ; come nel seguente capitolo si dis- correrà.

* Prendiamo dalla Testina cjuc&la |iuiiUiazione, per cui la voce ìiiczzo riceve la forza <1i avverLio.

103 DEI DISCORSI

\ Gap. vii. Quanto siano necessarie in una Repubblica le accuse per mantenere la libertà.

A coloro che in una cillà sono preposti per guardia della Mia libertà, non si può dare autorità più utile e necessaria, quanto è quella di poterd accusare i cittadini al popolo, o a qualunque magistrato o consiglio, quando che peccassìno in alcuna cosa centra allo stato libero. Questo ordine fa duoi enettt utilissimi ad una repubblica. Il primo è che i cittadini, per paura di non essere accusati, non tentano cose centra allo stato; e tentandole, sono incontinente e senza rispetto oppressi. V altro è che si via onde sfogare a quelli umo- ri che crescono nelle cittadi, in qualunque modo, centra a qualunque cittadino : e quando questi umori non hanno onde sfogarsi ordinariamente, ricorrono a' modi straordinari, che fanno rovinare in tutto una repubblica. E non è cesa che faccia tanto slabile e ferma una repubblica, quanto or- dinare quella in modo, che l'alterazione di questi umori che la agitano, abbia una via da sfogarsi ordinata dalie leggi. U che si può per molti esempi dimostrare, e massime per quello che adduce Tito Livio di Coriolano, dove ei dice, che essendo irritata centra alla Plebe la Nobiltà romana, per parerle che la Plebe avesse troppa autorità mediante la creazione de' Tri- buni che la difendevano; ed essendo lloma, come avviene, venuta in penuria grande di vettovaglie, ed avendo il Se- nato mandalo per grani in Sicilia; Coriolano, nimico alla fa- zione popolare, consigliò come egli era venuto il tempo da potere gastigare la Plebe, e tòrte quella autorità che ella si aveva acquistata, e in pregiudizio della Nobiltà presa,* le- nendola arfamata, e non li distribuendo il frumento: la qual sentenza sondo venula alti orecchi del Popolo, venne in tanta indegnazione centra a Coriolano, che allo uscire del Senalo lo arebbero lumultuariamenle morto, se gli Tribuni non l'avessero citalo a comparire a difendere la causa sua. So- pra il quale accidente, si nota quello che di sopra si è del- lo, quanto sia utile e necessario che le repubbliche, con le

* Con l)revilà che poco toglie al conceUo, ha l'eclii. del Biado: quella au- torità che ella si aveva in pregiudizio della nobiltà presa.

LIBUO PUIMO. iOl

leggi loro, diano onde sfogarsi all'ira che concepe la univer- salità conlra a uno cittadino: perchè quando questi modi or- dinari non vi siano, si ricorre agli estraordinari; e senza dubbio questi fanno molto peggiori effetti che non fanno quelli. Perchè, se ordinariamente uno cittadino è oppresso, ancora che li fosse fatto torto, ne seguita o poco o nessuno disordine in la repubblica : perchè la esecuzione sJ fa senza forze private, e senza forze forestiere, che sono quelle che rovinano il vivere libero ; ma si fa con forze ed ordini pub- blici, che hanno i termini loro particulari, trascendono a \ cosa che rovini la repubblica. E quanto a corroborare questa / oppinione con gli esempi, voglio che degli antichi mi basti questo di Coriolano; sopra il quale ciascuno consideri, quanto male saria resultato alla repubblica romana, se tumultuaria- mente ei fussi slato morto : perchè ne nasceva offesa da pri- vati a privati, la quale offesa genera paura; la paura cerca di- fesa ; per la difesa si procacciano i partigiani ; dai partigiani nascono le parti nelle cittadi; dalle parti la rovina di quelle. Ma sendosi governata la cosa mediante chi ne aveva autori- tà, si vennero a lór via tutti quelli mali che ne potevano nascere governandola con autorità privata. Noi avemo visto ne' nostri tempi, quale novità ha fatto alla repubblica di Fi- renze non potere la moltitudine sfogare l'animo suo ordina- riamente conlra a un suo cittadino; come accadde nel tempo di Francesco Valori, che era come principe della città: il quale essendo giudicato ambizioso da molli, e uomo che vo- lesse con la sua audacia e animosità trascendere il vivere civile ; e non essendo nella repubblica via a poterli resistere se non con una setta contraria alla sua; ne nacque che non avendo paura quello, se non di modi straordinari, si comin- ciò a fare fautori che lo difendessino : dall' altra parte, quelli che lo oppugnavano non avendo via ordinaria a reprimerlo, pensarono alle vie straordinarie : intanto che si venne alle armi. E dove, quando per l'ordinario si fosse potuto oppor- seli, sarebbe la sua autorità spenta con suo danno solo; aven- dosi a spegnere per lo straordinario, seguì con danno non solamente suo, ma di molti altri nobili cittadini. Potrebbesi ancora allegare, a fortificazione della soprascritta conclusio-

108 BEI DISCORSI

ne, r accidente seguilo por in Firenze sopra Piero Soderini; il quale al tulio segui per non essere in quella repubblica alcuno modo di accuse contra alla ambizione de' potenti cit- tadini : perchè lo accusare un potente a otto giudici in una repubblica, non basta : bisogna che i giudici siano assai, per- chè pochi sempre fanno a modo de' pochi. Tantoché, se tali modi vi fussono stati, o i cittadini lo arebbono accusato, vivendo egli male; e per lai mezzo, senza far venire l'eser- cito spagnuolo, arebbono sfogalo l'animo loro: o non vi- vendo male, non arebbono avuto ardire operarli contra, per paura di non essere accusali essi : e cosi sarebbe da ogni parie cessato quello appetito che fu cagione di scandalo. Tanto che si può conchiudere questo, che qualunque volla si vede che le forze esterne siano chiamale da una parie d'uomini che vivono in una città, si può credere nasca da' cattivi ordini quella, per non esser, deniro a quello cerchio, ordine da potere senza modi istraordinari sfogare i maligni umori che nascono nelli uomini : a che si provvede al lutto con ordi- narvi le accuse alli assai giudici, e dare riputazione a quel* le. Li quali modi furono in Roma si bene ordinali, che in tante dissensioni della Plebe e del Senato, mai o il Sonalo o la Plebe o alcuno particolare ciltadino non disegnò va* tersi di forze esterne ; perchè avendo il rimedio in casa, non erano necessitali andare per quello fuori. E benché gli esempi soprascritti siano assai sufllcienti a provarlo, nondimeno ne voglio addurre un altro, recitato da Tito Livio nella sua isto- ria : il quale riferisce come, sondo sialo in Chiusi, città in quelli tempi nobilissima in Toscana , da uno Lucumone vio- lata una sorella di Arunle, e non polendo Arunte vendicarsi per la potenza del violatore, se n'andò a trovare i Franciosi, che allora regnavano in quello luogo che oggi si chiama Lombardia ; e quelli confortò a venire con armata mano a Chiusi, mostrando loro come con loro olile lo potevano ven- dicare della ingiuria ricevuta: che se Arunte avesse veduto potersi vendicare con i modi della città, non arebbe cerco. le forze barbare. Ma come queste accuse sono utili in una re- pubblica, cosi sono inutili e dannose le calunnie; come nel capilolo seguente discorreremo.

LI DUO PRIMO. . 409

Gap. VIU. ~ Quanto le accuse sono ulili alle repubbliche, tanto sono perniziose le calunnie.

Non ostante che la virtù di Furio Caramillo, poi eh' egli ebbe libera Roma dalla oppressione de' Franciosi, avesse fallo che tulli i cittadini romani, senza parer loro tòrsi repu- tazione 0 grado, cedevano a quello ; nondimeno Manlio Ca- pitolino non poteva sopportare che gli fusse attribuito tanto onore e tanta gloria ; parendogli, quanto alla salute di Roma, per avere salvalo il Campidoglio, aver meritalo quanto Cam- mino; e quanto all' altre belliche laudi, non essere inferiore a lui. Di modo che, carico d'invidia, non polendo quietarsi per la gloria di quello, e veggendo non potere seminare dis- cordia infra i Padri, si volse alla Plebe, seminando varie op- pinioni sinistre intra quella. E intra l'altre cose che diceva, era come il tesoro il quale si era adunato insieme per dare ai Franciosi, e poi non dato loro, era stalo usurpalo da privali cittadini ; e quando si riavesse, si poteva convertirlo in pub- blica utilità, alleggerendo la Plebe da' tributi, o da qualche privalo debito. Queste parole poterono assai nella Plebe ; tal- ché cominciò avere concorso, ed a fare a sua posta tumulti assai nella città: la qual cosa dispiacendo al Senato, e paren- dogli di momento e pericolosa, creò uno Dittatore, perchè ci riconoscesse questo caso, e frenasse lo impelo di Manlio. Onde che subilo il Dittatore lo fece citare, e condussonsi in pubblico all'incontro l'uno dell'altro; il Dittatore in mezzo de' Nobili, e Manlio in mezzo della Plebe. Fu domandalo Manlio che dovesse dire, appresso a chi fusse questo tesoro che ei diceva, perchè ne era così desideroso il Senato d'inten- derlo come la Plebe ; a che Manlio non rispondeva particu- larmenle; ma, andando fuggendo, ' diceva come non era ne- cessario dire loro quello che e' si capevano : tanto che il Dittatore Io fece mettere in carcere. È da notare per questo testo, quanto siano nelle città libere, ed in ogni altro modo di vivere, detestabili le calunnie; e come, per reprimerle, si

* "Parecchie tShloni: sfuggendo. S'intende pur sempre per lo rispondere in modo di eludere la domanda.

40

HO DEI DISCORSI

debbe non perdonare a ordine alcuno che vi faccia a propo- silo. Né può essere migliore ordine a lòrle via, che aprire assai luoghi alle accuse; perchè quanto le accuse giovano alle C éf<*^*^ repubbliche, tanto le calunnie nuocono : e dall' altra parte, è f^y^i^ questa differenza, che le calunnie non hanno bisogno di le- ^^ stiroone, di alcuno altro parliculare riscontro a provarle, * ^ in modo che ciascuno da ciascuno può essere calunniato ; ma *^**'^^" non può già essere accusato , avendo le accuse bisogno di riscontri veri, e di circostanze, che mostrino la verità del-

Ì l'accusa. Accusansi gli uomini a' magistrati, a' popoli, a' con- sigli ; calunniansi per le piazze e per le logge. Usasi più questa calunnia dove si usa meno l'accusa, e dove le cillù sono meno ordinate a riceverle. Però, uno ordinatore d' una repubblica debbe ordinare che si possa in quella accusare ogni cittadino, senza alcuna paura o senza alcuno sospetto ; e fatto questo e bene osservato, debbe punire acremente i calunniatori : i quali non si possono dolere quando siano pu- niti, avendo i luoghi aperti a udire le accuse di colui che gli avesse per le logge calunnialo. E dove non è bene ordinata questa parte, seguitano sempre disordini grandi : perchè lo calunnie irritano, e non castigano i cittadini; e gli irritati pensano valersi, odiando più presto, * che temendo le cose che si dicono centra a loro. Qucsla parte, come è detto, era bene ordinala in Roma ; ed è stala sempre male ordinata nella nostra città di Firenze. E come a Roma qucslo ordine fece molto bene, a Firenze questo disordine fece molto male. E chi legge le istorie di questa città, vedrà quante calunnio sono state in ogni tempo date a' suoi cittadini che si sono adoperati nelle cose importanti di quella. Dell' uno dicevano, ch'egli aveva rubati danari al Comune; dell'altro, che non aveva vinto una impresa per essere slato corrotto; e che lueir altro per sua ambizione aveva fatto il tale e tale incon- veniente. Del che ne nasceva che da ogni parie ne surgeva odio: donde si veniva alla divisione; dalla divisione alle sètte; dalle sètte alla rovina. Che se fusse stalo in Firenze ordine d'accusare i cittadini, e punire i calunniatori, non seguivano infìnili scandali che sono seguili : perchè quelli

' Cioè, i detrattori o calunnialorL

LlBFxO PRIMO. ili

cilladinì, o condennali o assoluti che fussino, non arebhono polulo nuocere alla cillà ; e sarebbono stali accusali meno assai che non ne erano calunniali, non si polendo, come ho dello, accusare come calunniare ciascuno. Ed inlra l'altre cose di che si è valuto alcuno cittadino per venire alla grandezza sua, sono state queste calunnie: le quali venendo conlra a' cittadini polenti che allo appetito suo si opponevano, fa- cevano assai per quello ; perchè, pigliando la parte del Popo- lo, e confirmandolo nella mala oppinione ch'egli aveva di loro, se lo fece amico. E'benchè se ne potesse addurre as- sai esempi, voglio essere contento solo d' uno. Era lo eser- cito fiorentino a campo a Lucca, comandato da racsser Giovanni Guicciardini, commissario di quello.. Vollono o i cattivi suoi governi, o la cattiva sua fortuna, che la espu- gnazione di quella cillà non seguisse. Pur, comunque il caso stesse, ne fu incolpato messer Giovanni, dicendo com'egli era slato corrotto da' Lucchesi : la quale calunnia sendo fa- vorita da* nimici suoi, condusse messer Giovanni quasi in ultima disperazione. E benché, per giustificarsi, ei si volessi mettere nelle mani del Capitano; nondimeno non potette mai giustificare, per non essere modi in quella repubblica da poterlo fare. Di che ne nacque assai sdegno inlra li amici di messer Giovanni, che erano la maggior parte delti uo- mini grandi; ed infra coloro che desideravano fare novità in Firenze. La quiU cosa, e per queste e per altre simili ca- gioni, tanto crebbe, che ne segui la rovina di quella repub- blica. Era dunque Manlio Capitolino calunniatore, e non accusatore; ed i Romani mostrarono in questo caso appunto, come i calunniatori si debbono punire. Perchè si debbo far- gli diventare accusatori; e quando l' accusa si riscontri vera, o premiarli, o non punirli: ma quando la non si riscontri vera, punirli, come fu punito Manlio.

Cap. IX. -Come egli è necessario esser solo a volere ordinare una repubblica di nuovo, o al tulio fuori delli antichi suoi ordini riformarla,

E' parrà forse ad alcuno, che io sia Iroppo trascorso den- tro nella istoria romana, non avendo fallo alcuna menzione

n2 DEI DISCORSI

ancora degli ordinatori di quella Rejubblica, di quelli ordini che o alla religione o alla milizia riguardassero. E però, non volendo lenere più séspesi gli animi di coloro che sopra quesla parie * volessin* intendere alcune cose; di- co, come molli per avventura giudicheranno cattivo esempio, che ano fondatore d' un vivere civile, quale fu Romolo, abbia prima morto un suo fratello, dipoi consen- tito alla morte di Tito Tazio Sabino, eletto da lui compa- gno nel regno; giudicando per questo, che gli suoi cittadini potessero con l'autorità del loro principe, per ambizione o desiderio di comandare, oflTendcre quelli che alla loro auto- rità si opponessino. La quale oppinione sarebbe vera, quando non si considerasse che fìne V avesse indotto a fare tal omi- cidio. E debbesi pigliare questo per una regola generale: che non mai o di rado occorre che alcuna repubblica o regno sia da principio ordinato bene, o al lutto di nuovo fuori dell! ordini vecchi riformalo, se non è ordinato da uno ; anzi è necessario che uno solo sia quello che dia il modo, e dalla cui mente dependa qualunque simile ordinazione. Però, uno prudente ordinatore d'una repubblica, e che abbia questo animo di volere giovare non a ma al bene co- mune, non alla sua propria successione ma alla comune patria, debbe ingegnarsi di avere l'autorità solo; mai Jl^ ^ c^ ano ingegno savio riprenderà alcuno di alcuna azione islraor- ì\[ \ dinaria, che per ordinare un regno o conslituire una re- ' i ' I pubblica osasse. Conviene bcnc,^che, accusandolo il fatto, A I lo efTetlo lo scusi ; e quando sia buono, comò quello di Ro- r moTo, sempre lo scuserà: perchè colui che 6 violento per

r^ guastare, non quello che é per racconciare, si debbe ri- I v'^f prendere. Debbe bene in tanto esser prudente e virtuoso, ^ j che quella autorità che si ha presa, non la lasci ereditaria

' i|^ ad un altro: perchè, essendo gli uomini più proni ' al male fi^i^ ' che al bene, potrebbe il suo successore usare ambiziosamente ^ V^^ " quello che da lui virtuosamente fosse stato usato. Olire di \ji^*^ questo, se uno è atto ad ordinare, non è la cosa ordinala

v^t < Cosi la Romaoa e l'cdii del 1813. La Tellina e il Poggiali: queste

^tJSA^ par//.

V^ S CoM anche Tedi», del 1813. La Testina, e molte altre: pronti.

LIBRO PUlMO. 413

per durare mollo, quando la rimanga sopra le spalle d' uno ; ma si bene, quando la rimane alla cura di molli, e chea molli slia il manlencrla. Perchè, cosi come molli non sono alli ad ordinare una cosa, per non conoscere il bene di quella, causalo dalle diverse oppinioni che sono fra loro; cosi conosciuto che lo hanno, non si accordano a lasciarlo K che Romolo fusse di quelli che nella morie del fralello e del compagno merilasse scusa; e che quello che fece, /tiW^ fusse n^g il bene comune, e non per ambizione propria ; lo ] x)^ dimostra lo avere quello subilo ordinalo uno Senalo, con il '^ J^ quale si consigliasse, e secondo l'oppinione del quale delibo- pjf Tiìsse. E chi considera bene l' autorità che Romolo si ri-^( e/Jl/^ serbò, vedrà non se ne essere riserbata alcun' altra che comandare alli eserciti quando si era deliberata la guerra,/-^ e di ragunare il Senalo. li che si vide poi, quando Roma divenne libera per la cacciala de'Tarquini; dove da' Ro- mani non fu innovalo alcun ordine dello antico, se non che in luogo d'uno Re perpetuo, fussero duoi Consoli an- nuali: il che Icslifica, lutti gli ordini primi di quella cillà essere siali più conformi ad uno vivere civile e libero, che ad uno assoluto e tirannico.* Polrebb2si dare in corrobora- zione delle cose sopraddette infinili esempi; come Moisè, Licurgo, Solone, ed altri fondatori di regni e di repubbli- che, i quali poterono, per aversi attribuito un'autorità, for- mare leggi a proposito del bene comune: ma gli voglio la- sciare indietro, come cosa nota. Addurronne solamente uno, non si celebre, ma da considerarsi per coloro che deside- rassero essere di buone leggi ordinatori: il quale è, che desiderando A^ide re di Sparla ridurre gli Spartani intra quelli termini che le leggi di Licurgo gli avessero rinchiu- si, parendoli che por esserne in parie deviali, la sua città avesse perduto assai di quella antica virlù, e, per conse- guente, di forze e d'imperio; fu ne' suoi primi principii ammazzato dalli Efori spartani, come uomo che volesse occupare la tirannide. Ma succedendo dopo lui nel regno Cleomene, e nascendogli il medesimo desiderio per gli ri- cordi e scrini ch'egli aveva trovati di Agide, dove si ve- deva quale era la mente ed intenzione sua, conobbe non

<0*

Ili DEI DISCORSI

potere fare questo bene alla sua patria se non divenlava ' solo di autorità; parendogli, per l'ambizione degli uomini, non potere fare utile a molli centra alla voglia di pochi : ) e presa occasione conveniente, fece ammazzare lutti gli Efori, e qualunque altro gli potesse contrastare; dipoi rin- novò in lutto le leggi di Licurgo. La quale deliberazione era alla a fare risuscitare Sparla, e dare a Cleoracne quella reputazione che ebbe Licurgo, se non fusse slato la potenza de* Macedoni, e la debolezza delle altre repubbliche greche. Perchè, essendo dopo tale ordine assaltato da' Macedoni, e trovandosi per stesso inferiore di forze, e non avendo a chi rifuggire, fu vinto; e restò quel suo disegno, quan- tunque giusto e laudabile, imperfetto. Considerato adunque tutte queste cose, conchiudo, come a ordinare una repub- blica è necessario essere solo; e Romolo per la morte di Remo e di Tazio meritare iscusa , e non biasmo.

Gap. X. Quanto sono laudabili i fondatori d' una repubblica 0 d* uno regno, tanto quelli d' una tirannide inno vitu- perabili.

Intra tutti gli uomini laudati, sono i laudatissìmì quelli che sono stati capi e ordinatori delle relisìoni. Appresso di- poi, quelli che hanno fondalo o repubbliche o regni. Dopo costoro, sono celebri quelli che, preposti alli csercili, hanno ampliato o il regno loro, o quello della patria. A questi si aggiungono gli uomini litterali; e perchè questi sono di più ragioni, sono celebrati ciascuno d'essi secondo il grado suo. A qualunque altro uomo, il numero de' quali è infinito, si attribuisce qualche parte di laude, la quale gli arreca l'arte e l'esercizio suo. Sono per lo contrario infami e dctcslaliili gli uomini destrullori delle religioni, dissipatori de* regni e delle repubbliche, inimici delle virtù, delle lettere, e d'ogni altra arte che arrechi utilità ed onore alla umana ge- nerazione; come sono gli empii e violenti, gl'ignoranti, gli oziosi, i vili, e i dappochi. E nessuno sarà mai si pazzo o si savio, Iristo o si buono, che, propostosli la elezione delle due qualità d'uomini, non laudi quella che è da laudare, e

LIIÌKO PRIMO. 115

biasrai quella che è da biasmare : nienlediraeno, dipoi, quasi tulli, ingannali da un falso bene e da una falsa gloria, la- sciano andare, o volunlariamenle o ignoranlemenle, ne'gradi di coloro che raerilano più biasimo che laude; e polendo fare, con perpetuo loro onore, o una repubblica o un regno, si volgono alla tirannide : si avveggono per questo par- tito quanta fama, quanta gloria, quanto onore, sicurtà, quiete, con satisfazione d'animo, e'fuggono; e in quanta in- famia, vituperio, biasimo, pericolo e inquietudine incorro- no. Ed è impossibile che quelli che in stalo privato vivono in una repubblica, o che per fortuna o virtù ne diventano principi, se leggessino l'istorie, e delle memorie delle anti- che cose facessino capitale, che non volessero quelli tali privati, vivere nella loro patria piuttosto Scipioni che Cesari; e quelli che sono principi, piuttosto Agesilai, Timoleoni e Dioni, che Nabidi, Falari e Dionisi: perchè vedrebbono questi essere sommamente vituperali, e quelli eccessiva- mente laudali. Vedrebbono ancora come Timoleone e gli al- tri non ebbero nella patria loro meno autorità che si aves- sino Dionisio e Falari, ma vedrebbono di lunga avervi avuto più sicurtà. sia alcuno che si inganni per la gloria di Ce- sare, sentendolo, massime, celebrare dagli scritlori: perchè questi che lo laudano, sono corrotti dalla fortuna sua, e spauriti dalla lunghezza dello imperio, il quale reggendosi sotto quel nome, non permetteva che gli scrittori parlassero liberamente di lui. Ma chi vuole conoscere quello che gli scritlori liberi ne direbbono, vegga quello che dicono di Ca mina. E tanto è più detestabile Cesare, quanto più è da bia simare quello che ha fallo, che quello che ha voluto fare un male. Vegga ancora con quante laudi celebrano Bruto; tal- ché, non potendo biasimare quello per la sua potenza, e' ce- lebrano il nemico suo. Consideri ancora quello eh' è diven- talo principe in una repubblica, quante laudi, poiché Roma fu diventata imperio, meritarono più quelli imperadori che vissero sotto le leggi e come principi buoni, che quelli che vissero al contrario : e vedrà come a Tito, Nerva, Traiano, Adriano, Antonino e Marco, non erano necessari i soldati pretoriani la moltitudine delle legioni a difenderli, per-

■.:.,S

HO DEI DISCORSI

che i costami loro, la benìvolcnza del Popolo, lo amoro del Sonalo gli difendeva. Vedrà ancora come a Caligola, Ne- rone, Yilellio, ed a (anli altri scellerati imperadori, non ba- starono gli eserciti orientali ed occidentali a salvarli contra a quelli nemici , che li loro rei costumi, la loro malvagia vita aveva loro generati. E se la istoria di costoro fusse ben con- siderata, sarebbe assai ammaestramento a qualunque prin- cipe, a mostrargli la via della gloria o del biasroo, e della sicurtà o del timore suo. Perchè, di ventisei imperadori che furono da Cesare a Massimino, sedici ne furono ammazzati, dieci morirono ordinariamente ; e se di quelli che furono morii ve ne fu alcuno buono, come Galba e Pertinace, fu . , morto da quella corruzione che lo antecessore suo avevala-

^ sciata ne' soldati. E se Ira quelli che morirono ordinaria-

^-*, ménte ve ne fu alcuno scellerato, come Severo, nacque da una sua grandissima fortuna e virtù ; le quali due cose pochi uomini accompagnano. Vedrà ancora, per la lezione di que- sta istoria, come può ordinare un regno buono: perchè lutti gì* imperadori che succederono all' imperio per eredità, eccetto Tilo, furono callivi ; quelli che per adozione, furono lutti buoni, come furono quei cinque da Nerva a Marco: e come l'imperio cadde negli credi, ei ritornò nella sua ro- vina. Pongasi, adunque, innanzi un principe i tempi da Nerva a Marco, e conferiscagli con quelli che erano stati prima e che furono poi; e dipoi elegga in quali volesse essere nato, o a quali volesse essere preposto. Perchè in quelli governali da' buoni, vedrà un principe sicuro in mezzo de' suoi sicuri cittadini, ripieno di pace e di giustizia il mondo: vedrà il Senato con la sua autorità, i masistrati con i suoi onori ; f godersi i cittadini ricchi le loro ricchezze; la nobilita e la

virtù esaltata: vedrà ogni quiete, ed ogni bene ; e, dall'altra 0"*^ parte, ogni rancore, ogni licenza , corruzione e ambizione

|t^- V » spenta: vedrà i tempi aurei, dove ciascuno può tenere e di- fendere quella opinione che vuole. Vedrà, in fine, trionfare 1*^ il mondo ; pieno di riverenza e di gloria il principe, d'amore N . e di sicurità i popoli. Se considererà, dipoi, tritamente i tempi

^ degli altri imperadori, gli vedrà atroci per le guerre, dis-

cordi per le sedizioni, nella pace e nella guerra crudeli:

LIBRO PRIMO. ili

tanli principi morii col ferro, lanle guerre civili, (ante eslerne; l'Italia offlilla, e piena di nuovi inforlunii ; r^i- nale e saccheggiale le cillà di quella. Vedrà Roma arsa, il Campidoglio da' suoi cilladini disfallo, desolali gli antichi è J^ifJi^ templi, corrotte le cerimonie, ripiene le cillà di adullerii: ^ ^ \ vedrà il mare pieno di esilii, gli sco^lj^pjcnMIjangue. Ve- ^ ir drà in Roma seguire innumerabili crudelladi ; e la nobiltà, '^ ^ vJ! le ricchezze, gli onori, e sopra lutto la virtù essere imputata / a peccato capitale. Vedrà premiare li accusatori, essere cor- rotti i servi contro al signore, i liberi * contro al padrone; e quelli a chi fussero mancati i nemici, essere oppressi dagli amici. E conoscerà allora benissimo quanti obblighi Roma, / ^saia# ^ Italia, e il mondo_abbia con JCesare. E senza dubbio, se / ^,

e' sarà nato d uomo, si sbigottirà da ogni imitazione dei /**^ tempi cattivi, e accendcrassi d'uno immenso desiderio di «it Jr^ seguire i buoni. E veramente, cercando un principe la gloria *\, j|

del mondo, doverrebbe desiderare di possedere una città cor- ^/ f^ > A rolla, non per guastarla in tutto come Cesare, ma per rior- ... ijf^ , dinari^ come Romolo. E veramente i cieli non possono dare / y , V *

aìTi uomini maggiore occasione di gloria, li uomini la ijjn '^r possono maggiore desiderare. E se a volere ordinare bene/^ lA*' . una cillà, si avesse di necessità a deporre il principale, me- /^ / riterebbe quello che non la ordinasse, per non cadere di quel grado, qualche scusa: ma polendosi tenere il principato ed ordinarla, non si merita scusa alcuna. E in somma, consi- derino quelli a chi i cieli danno tale occasione, come sono loro proposte due vie: 1' una che gli fa vivere sicuri, e dopo la morte gli rende gloriosi; 1' altra gli fa vivere in conlinove an- gustie, e dopo la morie lasciare di una sempiterna infamia.

Cap. XI. Della religione de' lìomani.

Ancora che Roma avesse il primo suo ordinatore Ro- molo, e che da quello abbi a riconoscere come figliuola il

* L* etliz. (tei 1813 lia , non so con qual fontlamrnlo, liberti. Padrone iniò qui inlcndcrsi come atlo|)crato nel senso di palrono.

iiS DEI DISCORSI

nascimento e la educazione sua; nondimeno, giudicando i cieli che gli ordini di lioraolo non bastavano a tanto impe- rio, messone nel petto del Senato romano di eleggere Numa Pompilio per successore a Romolo, acciocché quelle cose che da lui fossero state lasciate indietro, fossero da Numa or- dinate. 11 quale trovando un popolo ferocissimo, e volendolo ridurre nelle ubbidienze civili con le arti della pace, si volse

Ialla religione, come cosa al lutto necessaria a volere man- tenere una civilità; e la costituì in modo, che per più secoli non fa mai tanto timore di Dio quanto in quella Repubblica: il che facilitò qualunque impresa che il Senato o quelli grandi uomini romani disegnassero fare. E chi discorrerà infinite azioni, e del popolo di Roma tutto insieme, e di molti de* Romani di per sé, vedrà come quelli cittadini te- mevano più assai rompere il giuramento che le leggi ; come coloro che stimavano più la potenza di Dio, che quella de- j gli uomini: come si vede manifestamente per gli esempi di I Scipione e di Manlio Torquato. Perchè, dopo la rotta che An- nibale aveva dato a' Romani a Canne, molti cittadini si erano adunali insieme, e sbigottiti e paurosi * si erano conve- nuti abbandonare l'Italia, e girsene in Sicilia: il che sen- tendo Scipione, gli andò a trovare, e col ferro ignudo in mano gli costrinse a giurare di non abbandonare la patria. Lucio Manlio, padre di Tito Manlio, che fu di()oi chiamato Torquato, era sialo accusato da Marco Pomponio, Tribuno della plebe; ed innanzi che venissi il di del giudizio, Tito andò a trovare Marco, e minacciando d'ammazzarlo se non giurava di levare l'accusa al padre, lo costrinse al giura- mento; e quello, per timore avendo giurato, sii levò l'ac- cusa. E così quelli cittadini i quali l'amore delia patria e lo leggi di quella non ritenevano in Ilalia, vi furon ritenuti da . uno giuramento che furono forzati a pigliare ; e quel Tribuno ^ <tfj, i*^ pQgg jjjj pflrie r odio che egli aveva col padre, la ingiuria che i^^f^ gli aveva fatta il figliuolo, e l'onore suo, per ubbidire al * 0t«^- giuramento preso: il che non nacque da altro, che da quella

t^ è^'^\ * L' edii. del Biado legge : sbigottiti ilcl/a patria j e 1' esemplare della Tr-

/V**' *''"' ^^ "*'' consultato, ci offre, a penna però, la stessa variante. E facile clic il J Machiavelli avesse scritto : sbigottiti della paura.

LIBRO PRIMO. liO

religione die Numa aveva inlrodolla in quella cillà. E ve- desi, chi considera bene le istorie romane, quanto serviva la religione a comandare agli eserciti, a riunire la Plebe, a mantenere gli uomini buoni, a fare vergognare li tristi. Talché, se si avesse a dispulare a quale principe Roma fusse più obbligala, o a Romolo o a Numa, credo più tosto Nu- ma otterrebbe il primo grado: perchè dove è religione, fa- cilmente si possono introdurre l' armi ; e dove sono 1' armi e non religione, con dilTicultà si può introdurre quella. E si vede che a Romolo per ordinare il Senato, e per fare altri ordini civili e militari, non gli fu necessario dell'autorità di Dio; ma fu bene necessario a Numa, il quale simulò di avere congresso con una Ninfa, la quale lo consigliava di quoUo ch'egli avessi a consigliare il popolo: e tutto nasceva per- chè voleva mettere ordini nuovi ed inusitati in quella città, e dubitava che la sua autorità non bastasse. E veramente, mai non fu alcuno ordinatore di leggi straordinarie in uno po- polo, che non ricorresse a Dio ; perchè altrimenle non sa- rebbero accettate: perchè sono molti beni conosciuti da uno prudente, i quali non hanno in ragioni evidenti da poter- gli persuadere ad altri. Però gli uomini savi, che vogliono tórre questa difilcultà, ricorrono a Dio. Così fece Licurgo, cosi Solone, cosi molti altri che hanno avuto il medesimo fine di loro. Ammirando, adunque, il Popob romano la bontà e la prudenza sua, cedeva ad ogni sua deliberazione. Ben è vero che Tessere quelli tempi pieni di religione, e quelli uomini, con i quali egli aveva a travagliare, grossi, gli det- lono facilità grande a conseguire i disegni suoi, potendo im- primere in loro facilmente qualunche nuova forma. E senza dubbio, chi volesse ne' presenti tempi fare una repubblica, più facilità troverebbe negli uomini montanari, dove non è alcuna civililà, che in quelli che sono usi a vivere nelle città, dove la cìvilità è corrotta : ed uno scultore trarrà più facil- mente una bella statua d' uno marmo rozzo, che d'uno male abbozzato d' altrui. Considerato adunque tutto, conchiudo che la religione introdotta da Numa fu intra le prime cagioni della felicità di quella città : perchè quella causò buoni or- dini; i buoni ordini fanno buona fortuna; e dalla buona for-

120 DEI DISCOUSI

(una nacquero i felici saccessi delle imprese. E come la os- servanza del culto divino è cagione della grandezza delle repubbliche, cosi il dispregio di quella è cagione della rovina d'esse. Perchè, dove manca il Umore di Dio, conviene che 0 quel regno rovini, o che sia sostenuto dal timore d'un principe che supplisca a' difetti della religione. E perchè i principi sono di corta vita, conviene che quel regno manchi presto, secondo che manca la virtù d' esso. Donde nasce ^ che i regni i quali dependono solo dalla virtù d'uno uomo, i sono poco durabili, perchè quella virtù manca con la vita di I quello ; e rade volle accade che la sia rinfrescata con la suc- cessione, come prudentemente Dante dice:

Rade volte discende per li rami

L'umana probitate; e questo vuole Quel che la dà, perchè da lui si chiami.

Non è, adunque, la salale di una repabblica o d'uno regno avere uno principe che prudentemente governi mentre vive ; ma uno che l'ordini in modo, che, morendo ancora, la si man- tenga. E benché agli uomini rozzi più facilmente si persuade uno ordine o una oppinione nuova, non è per questo impossi- bile persuaderla ancora agli uomini civili, e che si presumono non essere rozzi. Al popolo di Firenze non pare essere ignorante rozzo: nondimanco da frale Girolamo Savona- ì rola fu persuaso che parlava con Dio. Io non voglio giudi- ' care s'egli era vero o no, perché d'un tanto uomo se ne i debbe parlare con reverenza : ma io dico bene, che infiniti Io credevano, senza avere visto cosa nessuna istraordinaria da farlo loro credere; perchè la vita sua, la dottrina, il soggetto che prese,. erano sulTìzienli a fargli prestare fede. Non sia, pertanto, nessuno che si sbigottisca di non potere conseguire quello che è stato conseguito da altri; perchè gli uomini, come nella Prefazione nostra si disse, nacquero, vissero e morirono sempre con un medesimo ordine.

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Cap. XII. Di quanta importanza sia tenere conto della re- ligione, e come la Italia per esserne mancata mediante la Chiesa romana, è rovinala.

Quelli principi , o quelle repubbliche , le quali si vo- gliono mantenere incorrolle, hanno sopra ogni altra cosa a mantenere incorrotte le cerimonie della religione, e tenerle sempre nella loro venerazione; perchè nissuno maggiore in- dizio si puole avere della rovina d'una provincia, che ve- dere dispregiato il culto divino. Questo è facile a intendere, conosciuto .che si è in su che sia fondata la religione dove r uomo è nato; perchè ogni religione ha il fondamento della vita sua in su qualche principale ordine suo. La vita della religione gentile era fondata sopra i responsi delti oracoli, e sopra la setta delli arioli e delli aruspici: tutte le altre loro cerimonie, sacrifici!, riti, dependevano da questi; per- chè loro facilmente credevano che quello Dio che ti poteva predire il tuo futuro bene o il tuo futuro male, te lo potessi ancora concedere. Di qui nascevano i tempii, di qui i sacri- ficii, di qui le supplicazioni, ed ogni altra cerimonia in venerarli : perchè l'oracolo di Delo, il tempio di Giove Am- mone, ed altri celebri oracoli, tenevano il mondo in ammi- razione, e devoto. Come costoro cominciarono dipoi a par- lare a modo de' polenti, e questa falsità si fu scoperta ne' popoli, divennero gli uomini increduli, ed atti a perturbare ogni ordine buono. Debbono, adunque, i Principi d'una repub- blica o d' un regno, i fondamenti della religione che loro ten- gono, mantenerli; e fatto questo, sarà loro facil cosa a man- tenere la loro repubblica religiosa, e, per conseguente, buona ed unita. E debbono, tutte le cose che nascono in favore di quella, come che le giudicassino false, favorirle ed accre- scerle; e tanto più lo debbono fare, quanto più prudenti sono, e guanto più conoscitori delle cose naturali. E perchè questo modo è stato osservato dagli uomini savi, ne è nata l'oppinione dei miracoli, che si celebrano nelle religioni eziandio false: perchè i prudenti gli aumentano, da qua- lunche principio e' si nascano ; e l' autorità loro poi a

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d23 DEI DISCORSI

quelli fede appresso a qualunque. Di questi miracoli ne fu a Roma assai; e intra gli altri fu, che saccheggiando i soldati romani la città de' Veienti, alcuni di loro entrarono nel tcm- r pio di Giunone, ed accostandosi alla immagine di quella, e \ dicendole vis venire Romarriy parve ad alcuno vedere che la \ accennasse; ad alcun altro, che ella dicesse di sì. Perchè. ^ sendo quelli uomini ripieni di religione (il che dimostra Tito Livio, perchè nell'entrare nel tempio, vi entrarono senza tumulto, tutti devoti e pieni di reverenza), parve loro udire quella risposta che alla domanda loro per avventura si ave- vano presupposta: la quale oppinione e credulità, da Cam- ■Dillo e dagli altri principi della città fu al tutto favorita ed accresciuta. La quale religione se ne* Principi della repub- blica cristiana si fussc mantenuta, secondo che dal datore d'essa ne fu ordinato, sarebbero gli slati e le repubbliche cristiane più unite e più felici assai ch'elle non sono. si può fare altra maggiore conieltura della declinazione d'essa, quanto è vedere come quelli popoli che sono più propinqui \alla Chiesa romana, capo della religione nostra, hanno {meno religione. E chi considerasse i fondamenti suoi, e ve- desse l'aso presente quanto è diverso da quelli, giudiche- ] rebbe esser propinquo, senza dubbio, o la rovina o il flagello. : E perchè sono alcuni d' oppinione, che 'I ben essere delle cofec d' Italia dipende dalla Chiesa di Roma, * voglio contro ad essa discorrere quelle ragioni che mi occorrono : e ne al- legherò due poicniissime, le quali, secondo me, non hanno repugnanza. La prima é, che per gli esempi rei di quella corte, questa provincia ha perduto ogni divozione ed ogni religione: il che si tira dietro infiniti inconvenienti e infi- niti disordini; perchè, cosi come dove è religione si presup- pone ogni bene, cosi dove ella manca si presuppone il con- trario. Abbiamo, adunque, con la Chiesa e con i preti noi

' Da questo luogo tino al leguente perìodo Questo e che la Chiesa, l'edìx. Romana compeodia , e muta quasi in apologia la gravissima inrolpazione , cosi : forse SI patria dire il contrario, avendo rispetto però a quelli che in essa Chiesa Romana non servano tutti quelli precetti che debbono servare» anzi vengono ad adulterare li tanti et catolici inxtituti, li quali sono stati osservali. Et olir a questo ee. Ma ti noti cb* essa lascia interamente sussistere , dalla voce nostra (provincia} in fuori, la seconda e non meno terribile accusa.

LIBRO PRIMO. 423

llaliani qaeslo primo obbligo, d'essere diventati senza reli- gione e cattivi: ma ne abbiamo ancora un maggiore, il quale è cagione della rovina nostra. Questo è che la Chiesa ha tenuto e tiene questa nostra provincia divisa. E vera- mente, alcuna provincia non fu mai unita o felice, se la non viene tutta alla obedienza d' una repubblica o d' uno prin- cipe, come è avvenuto alla Francia ed alla Spagna. E la ca- gione che la Italia non sia in quel medesimo termine, abbia anch' ella o una repubblica o uno principe che la go- verni, è solamente la Chiesa: perchè, avendovi abitato e le- rjuto imperio temporale, non è stata potente di tal virtù, che T abbia potuto occupare il restante d'Italia, e far- sene principe; e non ostata, dall'altra parte, si debile, che, per paura di non perdere il dominio delle cose temporali, la. non abbi potuto convocare uno potente che la difenda centra a quello che in Italia fusse diventato troppo potènte: come si è veduto anticamente per assai esperienze, quando me- diante Carlo Magno la ne cacciò i Lombardi, ch'erano già quasi re di tutta Italia; e quando ne* tempi nostri ella tolse la potenza a' Veneziani con l' aiuto di Francia ; dipoi ne cac- ciò 1 Franciosi con l'aiuto de'Svizzeri. Non essendo, dunque, stata la Chiesa potente da potere occupare l'Italia, avendo permesso che un altro la occupi, è stala cagione che la non è potuta venire sotto un capo ; ma è stata sotto più principi e signori, da' quali è nata tanta disunione e tanta debolezza, che la si è condotta ad essere slata preda, non solamente di Barbari potenti, ma di qualunque l'assalta. Di che noi altri Italiani abbiamo obbligo con la Chiesa, e non con al- tri. E chi ne volesse per esperienza certa vedere più pronta la verità, bisognerebbe che fusse di tanta potenza, che man- dasse ad abitare la corte romana, con l'autorità che l'ha in Italia, in le terre de'Svizzeri; i quali oggi sono quelli soli popoli che vivono, e quanto alla religione e quanto agli or- dini militari, secondo gli antichi: e vedrebbe che in'poco tempo farebbero più disordine in quella provincia i costumi tristi di quella corte, che qualunche altro accidente che in qualunche tempo vi potessi surgere.

Ì^À DEI DISCORSI

Gap. XIII. Come i Romani si servirono della religione per or- dinare la ciuà, e per seguire le loro imprese o fermare i (u- mulli.

Ei non mi pare fuor di psoposilo addurre alcuno csiMn- pìo dove i Romani si servirono della religione per riordinare la ciUà, e per seguire l'imprese loro; e quantunque in Tilo Livio ne siano molli, nondimeno voglio essere conlento a quesli. Avendo crealo il Popolo romano i Tribuni, di poic- sia consolare, e, fuorché uno, lulli plebei; ed essendo oc corso quello anno peste e fame, e venuti certi prodigii ; uso- rono questa occasione i Nobili nella nuova creazione de* Tri- buni, dicendo che li Dii erano adirali per aver Roma male usata la maestà del suo imperio, e che non era altro rime- dio a placare gli Dii, che ridurre la elezione de'Tribuni nel luogo suo: di che nacque che la Plebe, sbigottita da questa religione, creò i Tribuni tutti nobili. Vedesì ancora nella espugnazione della città de'Veienti, come i capiiani degli eserciti si valevano della religione per tenergli disposti ad una impresa : che essendo il lago Albano, quello anno, crc- scialo mirabilmente, ed essendo i soldati romani inTasliditi per la lunga ossidione, e volendo tornarsene a Roma, tro- varono i Romani, come Apollo e certi altri responsi dice- vano che quell'anno si espugnerebbe la ciltà de'Veienti, che si derivasse il lago Albano : la qual cosa fece ai soldati sopportare i fastidi della guerra e delia ossidione, presi da questa speranza di espugnare la terra ; e slettono contenti a seguire la impresa, tanto che Cammillo fatto Dittatore cspu- . gnò delta città, dopo dieci anni che l'era stata assediata. E 1 cosi la religione, usata bene, giovò e per la espugnazione di ^ quella città, e per la restituzione dei Tribuni nella Nobillà : che senza detto mezzo diflìcilmente si sarebbe condotto e I r uno e r altro. Non voglio mancare di addurre a questo pro- posito un altro esempio. Erano naii in Roma assai tumulti per cagione di Terentillo Tribuno, volendo lui promulgare certa legge, per le cagioni che di sotto nel suo luogo si di- ranno; e tra i primi rimedi che vi usò la Nobillà, fu la rcli-

LIBRO PRIMO. l25

gione : della quale si servirono in duo modi. Nel primo fe- cero vedere i libri Sibillini, e rispondere, come alla città, mediante la civile sedizione, soprastavano quello anno peri- coli di non perdere la libertà : la qual cosa, ancora che fusse scoperta da' Tribuni, nondimeno messe tanto terrore ne' petti della Plebe, che la ralTreddò nel seguirli. L'altro modo fu, che avendo uno Appio Erdonio, con una moltitudine di sbanditi e di servi, in numero di quattromila uomini, occu- pato di nelle il Campidoglio, in tanto che si poteva temere, «hesegli Equi ed i Volsci, perpetui nemici al nome romano, ne fossero venuti a Roma, la arebbono espugnata; e non cessando i Tribuni per questo di insistere nella pertinacia loro di promulgare la legge Terentilla, dicendo che quello insulto era fittizio e non vero : uscì fuori del Senato uno Pu- blio Rubezio, cittadino grave e di autorità, con parole parje amorevoli, pajte minaccianti, mostrandoli i pericoli della cìTlàT^ la intempestiva domanda loro; tarlo che e' con- strinse la Plebe a giurare di non si partire d^Ua voglia del Consolo: onde che la Plebe obediente, per forza ricuperò il Campidoglio. Ma essendo in tale espugnazione morto Publio Valerio consolo, subito fu rifallo cor'.solo Tito Quinzio; il quale per non lasciare riposare la ì?lebe, darle spazio a ripensare ?.lla legge Terentilla, le comandò s'uscissi di Roma per andare conira a* Volsci, dicer?do che per quel giu- ramento aveva fatto di non abbandonare il Consolo, era ob- bligata a seguirlo; a che i Tribuni si opponevano, dicendo come quel giuramento s'era dato al Consolo morto, e non a lui. Nondimeno Tito Livio mostra, come la Plebe per paura della religione volle più presto obedire al Consolo, che cre- dere a' Tribuni ; dicendo in favore della antica religione que- ste parole: Nondum Iicec, quoe nunc lerelscoculum.neijUgcnlia Deùm venerai, nec inlerprctando sibi quisque jw^jurandum et le(jes aplas faciebal. Per la qual cosa dubitando i Tribuni di non perdere allora tutta la lor degnila,* accordarono col Consolo di stare alla obedienza di quello ; e che per uno anno non si ragionasse della legge Terentilla, ci i Consoli per uno anno non potessero trarre fuori la Plebe alla guerra. E cosi

* Male ncH'ciliz. ilei DuUaii, e nella Testina: /a loro libertà.

Il*

1:26 DEI DISCORSI

la religione fece al Senato vincere quella difficuUà, che senza essa mai non arebbe vinto.

Cap. XIV. / lìomani inlerprelavano gli auspicii secondo (a necessilà, e con la prudenza mostravano di osservare la religione, quando forzali non V osservavano ; e se alcuno lemerariamenle la dispregiava, lo punivano.

Non solamente gli aagarii, come di sopra si è discorso, erano il fondamento in buona parte dell' antica religione de' Gentili, ma ancora erano quelli che erano cagione del bene essere della Repubblica romana. Donde i Romani ne avevano più cura che di alcuno altro ordine di quella; ed usavangli ne' cornili consolari, nel principiare le imprese, nel Irar fuori gli eaerctli, nel fare le giornate, ed in ogni azione loro importante, o civile o militare ; mai sarebbono iti ad una espedizione, che non avessino persuaso ai soldati che gli Dei promcllevaoQ loro la vittoria. Ed infra gli altri auspicii, ave- vano negli eseri: ili ccrli ordini di aruspici, * che e'chiamavano Pollarli : e qualunque volta eglino ordinavano di fare la gior- nata col nemico, volevano che i Pollarii facessino i loro au- spicii ; e beccando i poMi, combattevano con buono augu io; non beccando, si asteneva^no dalU xofla. Nondimeno, quando la ragione mostrava loro una cosa «fofersi fare, non ostante che gli auspicii fossero avversi, la facevano in ogni modo; ma rivoltavanla con termini e modi tanto attamente, che non paresse che la facessino con dispregio della religione: il quale termine fu usalo da Papirìo consolo in una zuffa che fece importantissima coi Sanniti, dopo la quale restorno in lutto deboli ed afflitti. Perchè, sendo Papirio in su' campi rincontro ai Sanniti, e parendogli avere nella zuffa la vitto- ria certa, e volendo per questo fare la giornata, comandò ai Pollarii che facessino i loro auspicii ; ma non beccando i poi* li, e veggendo il principe de' Pollarii la gran disposizione

* Le edicipni che d servono di riscontro hanno tnlte » /ra gli altri ariupi- cii (o aruspici) avevano .. certi ordini di atispiciii e quella del Biado ambedue le volte: aitspicii. La nostra correzione non ba, ci $eni)>ra , bisogno di essere giu&liGcala.

LIBRO PRIMO. d27

dello esercito di comballere, e la oppinione che era nel capi- Uino ed in tulli i soldati di vincere, per non tórre occasione di bene operare a quello esercito, riferi al Consolo come gli auspicii procedevano bene: talché Papirio ordinando le squa- dre, ed essendo da alcuni de' Pollarii dello a certi soldati, i polli non aver beccalo, quelli lo dissono a Spurio Papirio nipote del Consolo ; e quello riferendolo al Consolo, rispose subilo, ch'egli adendesse a fare l'ofiTizio suo bene, e che quanto a lui ed allo esercito gli auspicii erano retti ; e se il Pollarlo aveva detto le bugie, ritornerebbono in pregiudicio suo. E perchè lo effetto corrispondesse al pronostico, comandò ai legali che consliluissino i Pollarii nella prima fronte della zuffa. Onde nacque che, andando conlra ai nemioi, sendo da un soldato romano tratto uno dardo, a caso ammazzò il prin- cipe de' Pollarii : la qual cosa udita il Console, disse come ogni cosa procedeva bene, e col favore degli Dii ; perchè Io esercito con la morte di quel bugiardo si era purgato da ogni colpa, e da ogni ira che quelli avessino preso conlra di lui. E cesi, col sapere bene accomodare i disegni suoi agli auspi- cii, prese parlilo di azzuffarsi, sen ',a che quello esercito si avvedesse che in alcuna parte quello avesse negletti gli or- dini della loro religione. Al coptrario fece Appio Pulcro in Sicilia, nella prima gwe.rra punica: che volendo azzuffarsi con l'esercito cartaginese, fece fare gli auspicii a' Pollarii; e referendogli quelli, come i polli non beccavano, disse: veggìa- mo se volessero bere ; e gli fece gitlare in mare. Donde che, azzuffandosi, perdette la giornata : di che egli ne fu a Roma condennato, e Papirio onorato: non tanto per aver l'uno vinto e l'altro perduto,' quanto per aver l'uno fallo conlra agli auspicii prudentemente e l' altro temerariamente. ad al- tro fine tendeva questo modo dello aruspicare, che di fare i soldati confidenlemenle ire alla zuffa; dalla quale confidenza quasi sempre nasce la vittoria. La qual cosa fu non solamente usata dai Romani, ma dalli esterni: di che mi pare di ad- durre uno esempio nel seguente capitolo.

* Così nella Romana. Nelle allre: l' uno perduto e V allrò vinto.

1^8 I>G1 DISCORSI

Gap. XV. Come t Sannili , per estremo rimedio alle cose loro affline, rieorsono alla religione.

Avendo i Sanniti avole più rolle dai Romani, ed o^. sendo slati per oltiroo diblralti in Toscana, e morti ì loto eserciti e gli loro capitani ; ed «$scndo stali vinti i loro com- pagni, come Toscani, Franciosi ed Umbri; nee mii , n^ ex» Icmit virUfUi jam tiare p^leranl : (amen hello non «(fMlilkaiiI, adeo ne infeliciler quidem defensa liberlatis Ictdrbat, ti vinci, quam non Untare vicloriam» malebant. Onde deliberarono far- ultima pfjva: e perchè ei sapevano che a voler vincere era necessario indarre ostinazione necli animi de* soldati, e che a indarla non v' era mislinr mezzo che la religione ; pensarono di ripeCefa «so antico loro sacrifìcio, mediante Ovio Faccio, lora aaetffdote. Il qaale ordinarono in questa Torma : che, fallo il sacrifìcio solenne, e fatto intra le vittime morte e gli ailari i cesi giurare tatti i capi dello esercito di non abbandonare mai la lufla, citarono i soldati ad ano ad ano; ed intra qaelli altari, nel mezzodì più centurioni con le spade nude in mano, gli facevano prima giurare che non ridirebbono tota ebt vedessino o sontissino ; dipoi, con parole esecrabili e versi pieni di apavea(o« gli facevano giurare e promettere agli Dii, d'eaiere presti dove gli imperadori gli comandassino, e di non si fogsire mai dalla zu(T^, e d'am- mazzare qualunque vedessino che si fuggisse : la qual cosa non osservata, tornasse sopra il capo della sua famiglia e della soa stirpe. Ed essendo sbigottiti alcuni di loro, non vo- lendo giurare, subito da* loro centurioni erano morti ; talché gli altri che succedevano poi, impauriti dalla ferocità dello spettacolo, giurarono tutti. E per fare questo loro assembra- mento più magnifìco, scodo quarantnmiia uomini, ne vesti- rono la metà di paoni bianchi, con creste e pennacchi sopra le celale ; e cosi ordinati si posero presso ad Aquilonia. Con* Ira a costoro venne Papirìo; il quale, nel confori^ire i suoi sol* dati, disse: Aon enim eritlas vulnera fncere^ et pietà atque aurata scula Iransire romanum pileum. E per debilitare la op- pinionc che avevano i suoi soldati de'nemici per il giuramcnlu

LIBRO PRIMO. 129

preso, disse che quello era "per essere loro a timore, non a for- tezza; perchè in quel medesimo tempo avevano avere paura de'ciltadini, degli Dii, e de'nimici. E venuti al conflitto, fu- rono superali i Sanniti; perchè la virtù romana, ed il timore conceputo per le passate rotte, superò qualunque ostinazione ei potessino avere presa per virtù della religione e per il giuramento preso. Nondimeno si vede come a loro non parve potere avere altro rifugio, tentare altro rimedio a poter pigliare speranza di ricuperare la perduta virtù. Il che testi- fica appieno, quanta confidenza si possa avere mediante la religione bene usata. E benché questa parte piuttosto, per avventura, si richiederebbe esser posta intra le cose estrinse- che; nondimeno, dependendo da uno ordine de'più importanti della Repubblica di Roma, mi é parso da commetterlo in questo luogo, per non dividere questa materia, ed averci a ritornare più volte.

Gap. XVI. Un popolo uso a vivere soUo un principe^ se per qualche accidente diventa Ubero, con di jficuUà mantiene la libertà.

Quanta difficultà sia ad uno popolo uso a vivere sotto un principe, preservare dipoi la libertà, se per alcuno acci- dente l'acquista, come l'acquistò Roma dopo la cacciata de' Tarquini; lo dimostrano infiniti esenip' che si leggono nelle memorie delle auliche istorie. E tale dillìcollà è ragionevo- le; perchè quel popolo è non altrimenti che uno animale bru- to, il quale, ancora che di feroce natura e silvestre, sia stalo nudrilo sempre in carcere ed in servitù, che dipoi lasciato a sorte in una campagna libero, non essendo uso a pascersi, sappiendo le latebre dove si abbia a rifuggire, diventa preda del primo che cerca rincalenarlo. Questo medesima interviene ad uno popolo, il quale sondo uso a vivere sotto ì governi d'altri, non sappiendo ragionare delle difese o offese pubbliche, non cognoscendo i principi essendo co- nosciuto da loro, ritorna presto sotto un giogo, il quale il più delle volte è più grave che quello che per poco innanzi *

* La Blailiana : c/ie pocr innanzi

J30 DEI DISCORSI

si aveva levalo d'in su 'I collo: e trovasi in queste diflìcullà, ancora che la materia non sia in tulio corrotta; perchè in * t uno popolo dove in lutto è entrata la corruzione, non può, non che picciol tempo, ma punto vivere libero, come di solto si discorrerà: e però ì ragionamenti nostri sono di quelli popoli dove la corruzione non sia ampliala assai, e dove sia più del buono cfie dèi gu;r5Tò7^ggiurig:esi alla so- prascritta, un'altra diflìcullà; la quate è, che lo sialo che diventa libero, si fa partigiani nemici, e non partigiani amici. Partigiani nemici gli diventano tutti coloro che dello slato tirannico si prevalevano, pascendosi delle ricchezze del principe; a'quali sendo tolta la facultà del valersi, non possono vivere contenti, e sono forzali ciascuno di tentare I di riassumere la tirannide, per ritornare neir autorità loro. Non si acquista, come ho dello, partigiani amici; [)crchè il vivere libero propone onori e prcmii, medianti alcune oneste e determinate cagioni, e fuori di quelle non premia ne onora t^ L alcuno; ^ quando uno ha quelli onori e quelli utili che gli

M^ I pare meritare, non confessa avere obbligo con coloro che lo rimunerano. Oltre a questo, quella comune utilità che del vivere libero si trae, non è da alcuno, mentre che ella si possiede, conosciuta: la quale è di potere godere liberamente le cose sue senza alcuno sospetto, non dubitare dell'onore delle donne, di quel de* figliuoli, non temere di sé; perchè nissuno confesserà mai aver obbligo con uno che non l'of- fenda. Però, come di sopra si dice, viene ad avere lo stalo libero e che di nuovo surge, partigiani nemici, e non parti- giani amici. E volendo rimediare a questi inconvenienti, e a quegli disordini che le soprascritte diflìcullà si arrechereb-

/ f bono seco, non ci è più potente rimedio, più valido,

più sano, più necessario, che ammazzare i figliuoli di Bruto: i quali, come l'istoria mostra, non furono indotti, insieme con altri gioveni romani, a congiurare contra alla patria per altro, se non perché non si potevano valere f straordinariamente sotto i Consoli, come sotto i Re; in modo che la libertà di quel popolo pareva che fosse diventata la loro servitù. E chi prende a governare una moltitudine, o

' Questo in , di tulle le cdiziooi , è , chi Lene vi guardi , apposticelo.

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LIBRO PRIMO. i31

per vìa libertà o per vìa principato, e non si assicura di coloro che a quell'ordine nuovo sono nemici, fa uno slato di poca vita. Vero è ch'io giudico infelici quelli principi, che per assicurare lo stalo loro hanno a tenere vie straordi- narie, avendo per nenaici la moltitudine: perchè quello che ha per nemici i pochi, facilmente, e senza molti scandali, si assicura; ma chi ha per nemico l'universale, non si assicura mai; e quanta più crudeltà usa, tanto diventa più debole il suo principalo. Talché il maggior rimedio che si abbia, è J cercare di farsi il popolo amico. E benché questo discorso sia disforme dal soprascritto, parlando qui d* un principe e quivi d'una repubblica ; nondimeno, per non avere a tornare più in su questa materia, ne voglio parlare brevemente. Volendo, pertanto, un prìncipe guadagnarsi un popolo che gli fusse nemico, parlando di quelli principi che sono diventati della loro patria tiranni; dico ch'ei debba esaminare prima quello che il popolo desidera, e troverà sempre ch'ei desi- dera due cose: l'una vendicarsi contro a coloro che sono cagione che sia servo; l'altra di riavere la sua libertà. Al primo desiderio il principe può satisfare in tutto, al secondo in parte. Quanto al primo, ce n'é lo esempio appunto. Clear- co, tiranno di Eraclea, sendo in esilio, occorse che, per controversia venuta intra il popolo e gli ottimati Eraclea, * veggendosi gli ottimati inferiori, si volsono a favorire Clear- co, e congiuratisi seco lo missono, centra alla disposizione popolare, in Eraclea, e tolsono la libertà al popolo. In modo che, trovandosi Clearco intra la insolenzia degli ottimati, i quali non poteva in alcun modo contentare corregge- re, e la rabbia de'popolari, che non potevano sopportare lo avere perduta la libertà, deliberò ad un tratto liberarsi dal fastidio de'grandi , e guadagnarsi il popolo. E presa sopra questo conveniente occasione, tagliò a pezzi tutti gli ottimati, con una estrema satisfazione de' popolari. E così egli per questa vìa satisfece ad una delle voglie che hanno i popoli, cioè di vendicarsi. Ma quanto all'altro popolare desiderio di riavere la sua libertà, non potendo il principe satisfargli,

* Qui la Bladiana ripete superfluamente il che, secondo il vezzo, in specie, del secolo XV , nel quale il nostro Autore era nato.

iS'ì DEI DISCORSI

debbe esaminare quali cagioni sono quelle che gli fanno de- siderare d'essere liberi; e Iroverà che una piccola parie di loro desidera d'essere libera per comandare; ma talli gli al- tri, che sono infiniti, desiderano la libertà per vivere securi Perchè in tutte le repubbliche, in qualunque modo ordinate, ai gradi del comandare non aggiungono mai quaranta o cin- quanta cittadini: e perchè questo è piccolo numero, è facil cosa assicurarsene, o con levargli via, o con far lor parte di tanti onori, che secondo le condizioni loro essi abbino in buoua parte a contentarsi. Quelli altri, ai quali basta vivere securi, si satisfanno facilmente, facendo ordini e leggi, dove insieme con la potenza sua si comprenda la sicurità univer- sale. E quando uno principe faccia questo, e che il popolo vegga che per accidente nessuno ei non rompa tali legtti, comincerà in breve tempo a vivere securo e conlento. In esempio ci è il regno di Francia, il quale non vive securo l>er altro, che per essersi quelli re obbligali ad infinite leg- gi, nelle quali si comprende la securtà di lutti i suoi popoli. E chi ordinò quello stalo, volle che quelli Re, dell'arme e del danaio facessino a loro modo, ma che d'ogni altra cosa non ne potessino altrimenti disporre che le leggi si ordinas- sino. Quello principe, adunque, o quella repubblica che non si assicura nel principio dello slato suo, conviene che si as- sicuri nella prima occasione, come fecero i Romani. Chi lascia passare quella, si pente tardi di non aver fallo quello che doveva fare. Scndo, pertanto, il popolo romano ancora non corrotto quando ei recuperò la libertà, potette mante- nerla, morti i figliuoli di Bruto e spenti i Tarquini, con tulli quelli rimedi ed ordini che altra volta si sono discorsi. Ma se fusse stato quei popolo corrotto, in Roma altrove si trovano ^ rimedi validi a mantenerla; come nel seguente capitolo mostreremo.

* Coti la Romana e la Testina ; le altre : si trovavano. Logiramenle però ne 1* ano ne l' allro soddisfa ; e sarebbe convenuto scrivere t io Roma ti tro- vavano, ne allrore si trovano; o: troverebbero.

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Gap. XVII. Uno popolo corrotto, venuto in libertà, si può con difficoltà grandissima mantenere Ubero.

Io giudico che gli era necessario, o che i Re si eslin- guessino in Roma, o che Roma in brevissimo lempo div«-,., •' nissi debole, e di nessuno valore: perchè, considerando a quanta corruzione erano venuti quelli Re, se fussero segui- tati cosi due o tre successioni, e che quella corruzione che era in loro, si fussi cominciata a distendere per le membra; come le membra fussino state corrotte, era impossibile mai più riformarla. Ma perdendo il capo quando il busto era in- tero, poterono facilmente ridursi a vivere liberi ed ordinati. E debbesi presupporre per cosa verissima, che una città corrotta che vive sotto un principe, ancora che quel principe con tutta la sua stirpe si spenga, mai non si può ridurre li- bera; anzi conviene che 1' un principe spenga l'altro: e senza creazione d'un nuovo signore non si posa mai, se già la bontà d'uno, insieme con la virtij, non la tenessi libera; ma durerà tanto quella libertà, quanto durerà la vita di quello: come intervenne a Siracusa di Dione e diTimoleone, la virtù de' quali in diversi tempi, mentre vissero, (enne libera quella città; morti che furono, si ritornò nell'antica tirannide. Ma non si vede il più forte esempio che quello di Roma ; la quale cacciali i Tarquini, potette subito prendere e mantenere quella libertà : ma morto Cesare, morto Caligula, morto ^Q'ÌAh^^ , rone, spenta tutta la stirpe cesarea, non potette mai, non ,^ tt A solamente mantenere, ma pure dare principio alia libertà.r ' ^ tanta diversità di evento in una medesima città nacque '»' ^ da altro, se non da non essere ne' tempi de' Tarquini il Po- polo romano ancora corrotto ; ed in questi ultimi tempi essere \^^^^^^ corrottissimo. Perchè allora, a mantenerlo saldo e disposto a fuggire i Re, bastò solo farlo giurare che non consentirebbe mai che a Roma alcuno regnasse; e negli altri tempi, non bastò r autorità e severità di Bruto, con tutte le legioni orien- tali, a tenerlo disposto a volere mantenersi quella libertà che esso, a similitudine del primo Bruto, gli aveva renduta. Il / t^ che nacque da quella corruzione che le parti mariane ave- "yj

134 DEI DISCORSI

vano messa nel popolo ; delle quali essendo capo Cesare, potede accecare quella molliludine, ch'ella non conobbe il giogo che da medesima si metteva in sul collo. E benché questo esempio di Roma sia da preporre a qualunque al- tro esempio, nondimeno voglio a questo proposito addurre innanzi popoli conosciuti ne' nostri tempi. Pertanto dico,

f che nessuno accidente, benché grave e violento, potrebbe redurre mai Milano o Napoli libere, per essere quelle mem- bra tutte corrotte. Il che si vide dopo la morte di Filippo

' Visconti ; che volendosi ridurre Milano alla libertà, non po- tette e non seppe mantenerla. Però, fu felicità grande quella di Roma, che questi Re diventassero corrotti presto, acciò ne fussino cacciati, ed innanzi che la loro corruzione fussc passata nelle viscere di quella città : la quale incorruzione * fu cagione che gì' infiniti tumulti che furono in Roma, avendo gli uomini il fine buono, non noccrono, anzi giova- rono alla Repubblica. E si può fare questa conclusione, che dove la materia non è corrotta, i tumulti ed altri scandali non nuocono: dove la ó corrotta, le leggi bene ordinate non giovano, se già le non son mosse da uno che con una estre- ma forza lo facci osservare, tanto che la materia diventi buo- if^f,j^ na. Il che non so se sie * mai intervenuto, o se fusse possi- bile ch'egli intervenisse: perché e' si vede, come poco di sopra dissi, che una città venuta in declinazione per corru- zione di materia, se mai occorre che la si levi, occorre per

, la virtù d'uno uomo eh' è vivo allora, non per la virtù del-

. lo universale che sostenga gli ordini buoni ; e subilo che quel f*^ \ tale é morto, la si ritorna nel suo pristino abito : come inter- venne a Tebe, la quale per la virtù di Epaminonda, mentre lui visse, potette tenere forma di repubblica e di imperio; ma morto quello, la si ritornò ne' primi disordini suoi. La cagione è, che non può essere un uomo di tanta vita, che 'I tempo basti ad avvezzare bene una città lungo tempo male

* La comune delle stampe corruzione: T emenda opporlunissima e neces- saria vedesi nella sola edit. del i813.

S Tutte le edixioni hanno, non bene, al mio credttt : ti i j cbe quando fosse lezione sincera , com' è coilrullo inusilalo , avrebbe per corrispondente di sotto : s' intervenisse.

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I

LIBRO PRIMO. 135

avvezza. E se uno d'una lunghissima vita, o due successioni virtuose continove non la dispongono; come una manca di loro, come di sopra è dello, subilo rovina, se già con molti pericoli e molto sangue e' non la facesse rinascere. Perchè tale corruzione e poca attitudine alla vita libera, nasce da una inequalità che è in quella città; e volendola ridurre equale, è necessario usare grandissimi estraordinari; i quali pochi sanno o vogliono usare, come in altro luogo più particolar- mente si dirà.

Gap. XVIII. In che modo nelle cillà corrotte si potesse man- tenere uno stalo libero, essendovi; o non essendovi, ordì- narvelo.

Io credo che non sia fuori di proposito, disforme dal soprascritto discorso, considerare se in una città corrotta si può mantenere lo stato libero, sendovi; o quando e* non vi fusse, se vi si può ordinare. Sopra la qual cosa dico, come gli è molto dilììcile fare o l'uno o l'altro: e benché sia quasi impossibile darne regola, perché sarebbe necessario proce- dere secondo i gradi della corruzione; nondimanco, essendo bene ragionare d'ogni cosa, non voglio lasciare questa in- dietro. E presuppongo* una cillà corrottissima, donde verrò ad accrescere più tale dilTicultà; perchè non si trovano jiè leggi ordini che bastino a frenare una universale corru- zione. Perchè, così come gli buoni costumi, per mantenersi, iranno bisogno delle leggi; cosi le leggi, per osservarsi, hanno bisogno de'buoni costumi. Oltre di questo, gli ordini e le leggi fatte in una repubblica nel nascimento suo, quando erano gli uomini buoni, non sono dipoi più a proposilo, divenuti che sono tristi. E se le leggi secondo gli accidenti in una città variano, non variano mai, o rade volte, gli ordini suoi: il che fa che le nuove leggi non bastano, perché gli ordini, che stanno saldi, le corrompono. E per dare ad intendere meglio questa parte, dico come in Roma era l'ordine del governo, o vero dello stalo; e le leggi dipoi, che con i ma- gistrati frenavano i cittadini. L'ordine dello slato era l'auto-

* Cosi la Bladiaiia; le altre: prcstipjorrò.

J36 DEI DISCORSI

rilà del Popolo, del Senato, dei Tribani, dei Consoli, il modo di chiedere e del creare i magistrali, ed il modo di fare le leggi. Questi ordini poco o nulla variarono nelli accidenli. Variarono le leggi che frenavano i cittadini; come fu la legge degli adullcrii, la suntuaria, quella della ambizione, e molle altre; secondo che di mano in mano i cittadini diventavano corrotti. Ma tenendo fermi gli ordinr dello stalo, che nella corruzione non erano più buoni, quelle leggi che si rinno- vavano, non bastavano a mantenere gli uomini buoni; ma sarebbono bene giovate, se con la innovazione delle leggi si russerò rimutati gli ordini. E che sia il vero che tali ordini nella città corrotta non fussero buoni, e* vede espresso in due capi principali. Quanto al creare i magistrati e le leggi, non dava il Popolo romano il consolato, e gli altri primi gradi della città, se non a quelli che lo dimandavano. Que- sto ordine fu nel principio buono, perchè e* non gli doman- davano se non quelli cittadini che se ne giudicavano degni, ed averne la repulsa era ignominioso; si che, per esserne gfudicai] degni, ciascuno operava bene. Diventò questo modo, poi, nella città corrotta pcmiziosissimo; perchè non quelli che avevano più virtù, ma quelli che avevano più potenza, domandavano i magistrati; e gl'impotenti, comecché virtuosi, se ne astenevano di domandargli per paura. Vennesi a questo inconveniente, non ad un tratto, ma per i mezzi, come si cade in tutti gli nitri inconvenienti: perchè avendo i Romani domata l'AtTrica e l'Asia, e ridotta quasi tutta la Grecia a sua obidienza, erano divenuti sicuri della libertà loro, pareva loro avere più nimici che dovessero fare loro paura. Questa securtà e questa debolezza de'nemici fece che il Po- polo romano, nel dare il consolato, non riguardava più la vir- tù, ma la grazia; tirando a quel grado quelli che meglio sa- pevano intrattenere gli uomini, non quelli che sapevano meglio vincere i nemici: dipoi da quelli che avevano più gra- zia, discesero a dargli a quelli che avevano più potenza; talché i buoni, per difetto di tale ordine, ne rimasero al tutto esclusi. Poteva uno Tribuno, e qualunque altro cittadino, proporre al Popolo una legge; sopra la quale ogni cittadino poteva parlare, o in favore o incontro, innanzi che la si de-

LIBRO PRIMO. ì'Sl

liberasse. Era queslo ordine buono, quando i ciUadini erano buoni; perchè scinj^re fu bene, che ciascuno che intende uno bene per il pubblico, Io possa proporre; ed è bene che cia- scuno sopra quello possa dire l'oppinione sua, acciocché il Popolo, inleso ciascuno, possa poi eleggere il meglio. Ma di- veniali i ciUadini caltivi , divenlò tale ordine pessimo; per- chè solo i polenti proponevano leggi , non per la comune li- bertà, ma per la potenza loro; e contra a quelle non poteva parlare alcuno per paura di quelli: talché il Popolo veniva o ingannato o sforzato a deliberare la sua rovina. Era necessa- ^rìoTpérianto, a volere che Roma nella corruzione si mante- nesse libera, che, cosi come aveva nel processo del vivere ^ , suo falle nuove leggi, l'avesse fatti nuovi ordini: perché allri,^*'^'^ ^ ordini e modi di vivere si debbe ordiriafé in uno soggetto cai- I/vl. /^ iivo, che in un buono; può essere la forma simile in una ^, jc/JU materia al tutto contraria. Ma perchè questi ordini, o e'si 1 ^ hanno a rinnovare tutti ad un tratto, scoperti che sono non'^ esser più buoni, o a poco a poco, in prima che si conoschino •'"*** per ciascuno; dico che T una e l'altra di queste due cose è quasi impossibile. Perchè, a volergli rinnovare a poco a poco, conviene che ne sia cagione uno prudente, che veggia questo inconveniente assai discosto, e quando e' nasce. Di questi tali è facilissima cosa * che in una città non ne surga mai nessuno : e quando pure ve ne surgesse , non potrebbe per- suadere mai ad altrui quello che egli proprio intendesse ; perchè gli uomini usi a vivere in un modo, non lo vogliono variare; e tanto più non veggendo il male in viso, ma avendo ad essere loro mostro per conietlure . Quanto ad innovare questi ordini ad un tratto, quando ciascuno conosce che non sono buoni, dico che questa inutilità , che facilmente si co- nosce, è dilTicile a ricorreggerla : perchè a fare questo, non basta usare termini ordinari, essendo i modi ordinari catti- vi ; ma è necessario venire allo istraordinario , come è alla violenza ed all'armi, e diventare innanzi ad ogni cosa prin- cipe di quella città, e poterne disporre a suo modo. E perchè il riordinare una cillà al vivere politico presuppone uno uomo

* La Romana soltanto ci offre la seguente interpunzione : questo inconvc- nicnlc assai discosto: et quando e' nasce di questi tali? e facilissima co iO- ce.

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i38 DEI DISCORSI

buono, ed il diventare per violenza principe di una repubblica presuppone un uomo caUivo ; per questo si troverà cbe ra- dissime volte accaggia , che uno uomo buono voglia diventare principe per vie cattive, ancoraché il fine suo fosse buono; e che uno reo divenuto principe, voslia operare bene , e che gli caggia mai nell'animo usare quella autorità bene , che esU ha male acquistata. Da tutte le soprascritte cose nasce la diffì- cuUà, o impossibilità, che è nelle città corrotte, a mantenervi una repubblica, o a crearvela di nuovo. E quando pure la vi si avesse a creare o a mantenere , sarebbe necessario ridurla più verso lo slato regio, che verso lo sialo popolare ; acciocché quelli uomini i quali dalle leggi, per la loro inso- lenzia, non possono essere corretti, Tussero da una podestà quasi regia io qualche modo frenati. Ed a volergli fare per altra via diventare buoni , sarebbe o crudelissima impresa, o al (atto impossibile ; come io dissi di sopra che fece Cleo- mene: il quale se, per essere solo, ammazzò gli Efori; e se Romolo, per le medesime cagioni, ammazzò il fratello e Tito Tazio Sabino, e dipoi usarono bene quella loro autorità; nondimeno si debbe avvertire che l'uno e l'altro di costoro non avevano il soggetto di quella corruzione macchiato della quale in questo capitolo ragioniamo, e però poterono volere, e volendo, colorire il disegno loro.

Cap. XIX. Dopo uno eccellente principe si può mnnlrncrc un principe debole ; ma dopo un debole, non si può con un allro debole mantenere alcun regno.

Considerato la virtù ed il modo del procedere di Romo- lo, Numa, e di Tulio, i primi tre Re romani^ si vede come Roma sorti una fortuna grandissima, avendo il primo Re fe- rocissimo e bellicoso, l'altro quieto e religioso, il terzo si mite di ferocia a Romolo, e più amatore della guerra che della pace. Perché in Roma era necessario che sorgesse ne' primi principii suoi un ordinatore del vivere civile, ma era bene poi necessario che gli altri Re ripigliassero la virtù di Romolo ; altrimenti , quella città sarebbe diventala clTe- minata, e preda dc'suoi vicini. Donde si può notare, che uno

LIBRO PRIMO. 430

successore non di (anta virtù quanto il primo , può mante- nere uno slato per la virtù di colui che V ha retto innanzi , e si può godere le sue fatiche: ma s' egli avviene o che sia di lunga vita, o che dopo lui non sorga un altro che ripigli la virtù di quel primo, è necessitato quel regno a rovinare. Così, per il contrario, se due, l'uno dopo l'altro, sono di gran virtù, si vede spesso che fanno cose grandissime, e che ne vanno con la fama in fino al cielo. Davil , senza dubbio , fu un uomo per arme, per dottrina, per giudizio eccellentissi- mo ; e fu tanta la sua virtù, che, avendo vinti ed abbattuti tutti i suoi vicini, lasciò a Salomone suo figliuolo un regno pacifico: quale egli si potette con le arti della pace, e non delia guerra, conservare; e si potette godere felicemente la virtù di suo padre. Ma non potette già lasciarlo a Roboan suo fi- gliuolo ; il quale non essendo per virtù simile allo avolo, per fortuna simile al padre , rimase con fatica erede della sesta parte del regno. Baisit, sultan de' Turchi , ancora che fosse più amatore della pace che della guerra, potette godersi le fatiche di Maometto suo padre; il quale avendo, come Da- vil, battuti i suoi vicini, gli lasciò un regno fermo, e da poterlo con V arte della pace facilmente conservare. Ma se il figliuolo suo Salì, presente signore, fusse stalo simile al pa- dre, e non all'avolo, quel regno rovinava: ma e' si vede co- stui essere per superare la gloria dell'avolo. Dico pertanto con questi esempi, che dopo uno eccellente principe si può mantenere un principe debole; ma dopo un debole non si può con un altro debole mantenere alcun regno, se già e' non fusse come quello di Francia, che gli ordini suoi antichi lo mantenessero: e quelli principi sono deboli, che non stanno in su la guerra. Conchiudo pertanto con questo discorso, che la virtù di Romolo fu tanta, che la potette dare spazio a Numa Pompilio di potere molti anni con 1' arte della pace reggere Roma: ma dopo lui successe Tulio, il quale per la sua ferocia riprese la reputazione di Romolo: dopo il quale venne Anco, in modo dalla natura dotalo, che poteva usare la pace, e sopportare la guerra. E prima si dirizzò a volere tenere la via della pace; ma subito conobbe come i vicini , giudicandolo ctTeminato , lo stimavano poco: laimetite che

i40 Di:i Disconsi

pensò che , a voler mantenere Roma , bisognava volgersi alla guerra, e somigliare Romolo, e non Numa. Da qucslo piglino esempio tutti i principi che tengono slato , che chi so- migheràNuma, lo terrà o non terrà, secondo che i tempi o la fortuna gli girerà sotto: ma chi somiglierà Romolo , e fìa come esso armato di prudenza e d'armi, lo terrà in ogni modo , se da una ostinata ed eccessiva forza non gli è tolto. E certamente si può stimare, che se Roma sortiva per terzo suo Re un uomo che non sapesse con le armi renderle la sua reputazione, non arebbe mai poi , o con grandissima diffìcultà, potuto pigliare piede, fare quelli etTetli ch'ella fece. E cosi, in mentre ch'ella visse sotto i Re, la portò questi pericoli di rovinare soUo un Re o debole o tristo.

Cip. XX. Due continove succestioni di prìncipi virtuosi fanno grandi e/felli; e come le tepubbUche bene ordinale hanno di necessità virtuose successioni : e però gli acquisti ed augumenti loro sono grandi.

Poi che Roma ebbe cacciati i Re, mnncò di quelli pe- ricoli i quali di sopra sono detti che la portava, succedendo in lei uno Re o debole o tristo. Perchè la somma dello im- perio si ridusse ne' Consoli, i quali non per eredità o per in- ganni o per ambizione violenta , ma per sntTragi liberi venivano a quello imperio, ed erano sempre uomini eccel- lentissimi : de' quali godendosi Roma la virtù e la fortuna di tempo in tempo, potette venire a quella sua ultima gran- dezza in altrettanti anni, che la era stala sotto i Re. Perché si vede, come due continove successioni di principi virtuosi sono sudìzienti ad acquistare il mondo : come furono Fi- lippo di Macedonia ed Alessandro Ma?no. Il che tanto più debbe fare una repubblica, avendo il modo dello eleggere non solamente due successioni, ma infìniti principi virtuo- sissimi, che sono V uno dell' altro successori : la quale vir- tuosa successione fìa sempre in ogni repubblica bene or- dinala.

LIBRO PUIJIO. i41

Gap. XXI. Quanto biasimo merili quel principe e quella repubblica che manca d'armi proprie.

Debbono i presenti principi e le moderne repubbliche, le quali circa le difese ed offese mancano di soldati propri, vergognarsi di loro medesime; e pensare, con lo esempio di Tulio, tale difello essere non per mancamento d'uomini atti alla milizia, ma per colpa loro, che non hanno sapulo fare i loro uomini militari. Perchè Tulio, sendo slata Roma in pace quaranta anni, non trovò, succedendo lui nel regno, uomo che fusse stato mai alla guerra: nondimeno, disegnando lui fare guerra, non pensò di valersi di Sanniti, di Tosca- ni, né di altri che fussero consueti slare nell'armi; ma deli- berò, come uomo prudenlissimo, di valersi de' suoi. E fu tanta la sua virtù, che in un tratto sotto il suo governo gli potè fare soldati eccellentissimi. Ed è più vero che alcuna altra verità, che se dove sono uomini non sono soldati, na- sce per difetto del principe, e non per altro difetto o di sito o di natura: di che ce n'è uno esempio freschissimo. Perchè ognuno sa, come ne' prossimi tempi il Re d'Inghilterra as- saltò il regno di Francia, prese altri soldati che i popoli suoi; e per essere stato quel regno più che trenta anni senza far guerra, non aveva soldato capitano che avesse mai militato: nondimeno, ei non dubitò con quelli assaltare uno regno pieno di capitani e di buoni eserciti, i quali erano slati continovamente sotto l'armi nelle guerre d' Italia. Tulio nacque da essere quel Re prudente uomo, e quel regno bene ordinalo; il quale nel tempo della pace non intermette gli ordini della guerra. Pelopida ed Epaminonda tebani, poiché gli ebbero libera Tebe, e trattola dalla servitù dello imperio sparlano; trovandosi in una città usa a servire, ed in mezzo di popoli effeminati; non dubitarono, tanta era la virtù loro! di ridurgli sotto l'armi, e con quelli andare a trovare alla campagna gli eserciti spartani, e vincergli: e chi ne scrive, dice come questi due in breve tempo mostrarono, che non solamente in Lacedemonia nascevano gli uomini di guerra, ma in ogni altra parte dove nascessino uomini, pure che si

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142 DEI DISCORSI

trovasse chi li sapesse indirizzare alla milizia, come si vede che Tulio seppe indirizzare i Romani. E Virgilio non pò- Irebbe meglio esprimere questa oppinione, con altre pa- role mostrare di aderirsi a quella, dove dice:

Detidesqite movebit TiJIiu in arma viros.

Gap. XX II. Quello che sia da notare nel caso dei tre Orazi romani, e dei ire Curiazi albani.

Tulio, re di Roma, e Mezio, re di Alba, convennero che quel popolo Tusse signore dell'aUro, di cui i soprascritti tre uomini vincessero. Furono morti tutti i Curiazi albani, restò vivo uno degli Grazi romani; e per questo, restò Mezio, re albano, con il suo popolo, soggetto ai Romani. E tornando quello Orazio vincitore in Roma, e scontrando una sua so- rella, che era ad uno de* tre Curiazi morti maritala, che piangeva la morte del marito; l'ammazzò. Donde quello Ora- zio per questo fallo fu messo in giudizio, e dopo molle dis- pute fu libero, più per li prieghi del padre, che per li suoi meriti. Dove sono da notare tre cose: una, che mai non si dehbe con parte delle sue forze arrischiare tutta la sua for- tuna; r altra, che non mai in una città bene ordinata li de- meriti con li meriti si ricompensano; la terza, che non mai sono i partili savi, dove si debba o possa dubitare della inos- servanza. Perché, gl'importa tanto a una città lo essere ser- va, che mai non si doveva credere che alcuno di quelli Re 0 di quelli Popoli stessero contenti che ire loro cittadini gli avessino sottomessi; come si vide che volle fare Mezio: jl quale, benché subito dopo la vittoria de' Romani si confes- sassi vinto, e promettessi la obedienza a Tulio; nondimeno nella prima espedizione che gli ebbono a convenire con- tra i Veienti, si vide come ei cercò d'ingannarlo; come quello che tardi s' era avveduto della temerità del partito preso da lui. E perchè di questo terzo notabile se n'è par- lalo assai, parleremo solo degli altri due ne' seguenti duoi capitoli.

LIBUO PRIMO. 143

Cap. XXIII. -- Che non si debhe meUere a pericolo tutta la fortuna e non tulle le forze ; e per questo, spesso il guardare i passi è dannoso.

Non fu mai giudicalo parlilo savio mellere a pericolo lulla la fortuna tua, e non tulle le forze. Questo si fa in più modi. L*uno è facendo come Tulio e Mezio, quando e' com- raissono la forluna tutta della patria loro, e la virtù di tanti uomini quanti avea 1' uno e l' altro di costoro negli eserciti suoi, alla virtù e forluna di tre de' loro cittadini, che veniva ad essere una mìnima parte delle forze di ciascuno di loro. si avvidono, come per questo parlilo lulla la fatica che avevano durala i loro antecessori nell' ordinare la repubhli- ca, per farla vivere lungamente libera e per fare i suoi cittadini difensori della loro libertà, era quasi che suta va- na, stando nella potenza di pochi a perderla. La qualcosa da quelli Re non potè esser peggio considerala. Cadesi an- cora in questo inconveniente quasi sempre per coloro, che, venendo il nemico, disegnano di tenere i luoghi difficili, e guardare i passi : perchè quasi sempre questa deliberazione sarà dannosa, se già in quello luogo difficile comodamente tu non potessi tenere tutte le forze lue. In questo caso, tale parlilo é da prendere; ma sendo il luogo aspro, e non vi polendo tenere tutte le forze lue, il parlilo è dannoso. Que- sto mi fa giudicare cosi lo esempio di coloro che, essendo assaltali da un nemico potente, ed essendo il paese loro cir- condalo da' monti e luoghi alpestri, non hanno mai tentalo di combattere il nemico in su' passi e in su' monti, ma sono ìli a incontrarlo di da essi ; o, quando non hanno voluto far questo. Io hanno aspetlalo dentro a essi monti, in luo- ghi benigni e non alpestri. E la cagione ne è suta la preal- legala: perchè, non si polendo condurre alla guardia de' luo- ghi alpestri molli uomini, si per non vi potere vivere lungo lempo, per essere i luoghi stretti e capaci di pochi ; non è possibile sostenere un nemico, che venga grosso ad urtar- li : ed al nimico è facile il venire grosso, perchè la intenzione sua è passare, e non fermarsi ; ed a chi V aspella è impossi-

i44 DEI DISCORSI

bile aspcilarlo grosso, avendo ad alloggiarsi per più tempo, non sapendo quando il nemico voglia passare in luoghi, co- ro'io ho dello, slrelli e sterili. Perdendo, adunque, quel passo che tu ti avevi presupposto tenere, e nel quale i tuoi popoli e lo esercito tuo confidava, entra il più delle volle ne' po- poli e nel residuo delle genti tue tanto terrore, che senza potere esperimenlare la virtù di esse, rimani perdente; e così vieni ad avere perduta (ulta la tua fortuna con parte delle lue forze. Ciascuno sa con quanta ditTicultà Annibale pas- sasse Talpi che dividono la Lombardia dalla Francia, e con quanta ditTicullà passasse quelle che dividono la Lombardia dalla Toscana : nondimeno i Romani 1* aspettarono prima in sul Tesino, e dipoi nel piano d'Arezzo: e vollon più tosto, che il loro esercito fusse consumato dal nemico nelli luoghi dove poteva vincere, che condurlo su per l'alpi ad esser destrutto dalla malignità del silo. E chi leggerà sensata- mente tulle le istorie, troverà pochissimi virtuosi capitani aver tentato di tenere simili passi, e per le ragioni delle, e perchè e' non si possono chiudere ' tutti ; sendo i monti corno campagne, ed avendo non solamente le vie consuete e fre- quentate, ma molte altre, le quali se non sono note a' fore- stieri, sono note a' paesani ; con l'aiuto de' quali sempre sarai condotto in qualunque luogo, contra alla voglia di chi ti si oppone. Di che se ne può addurre ano freschissimo esempio, nel 1515. Quando Francesco re di Francia disegnava passare in Italia per la recuperazione dello stato di Lombardia, il maggiore fondamento che facevano coloro eh' erano alla sua impresa contrarli, era che gli Svizzeri lo terrebbono a' passi in su' monti. E, come per esperienza poi si vide, quel loro fondamento restò vano: perchè, lascialo quel Ucda parte due o tre luoghi guardali da loro, se ne venne per un'altra via incognita ; e fu prima in Italia, e loro appresso, che lo ave^ sino presentilo. Talché loro isbigollili si ritirarono in Mi- lano, e tulli i popoli di Lombardia si aderirono alle genti franciose ; sendo mancati di quella oppinione avevano, che i Franciosi dovessino essere tenuti in su' monti.

' La Bladiana: dividere ; per errore nato da affinila di lettere la più per* fetta* Invece di campagne f le altre ediaioni baaoo campagna.

LIBRO PRIMO. 145

Gap. X'XIV. Le repubbliche bene ordinate consliluiscono premii e pene a' loro cilladinif compensano mai l'uno con V altro.

Erano stati i meriti di Orazio grandissimi, avendo con la sua virtù vinti i Curiazi. Era stato il fallo suo atroce, avendo morto la sorella : nondimeno dispiacque tanto tale omicidio ai Romani, che lo condussero a disputare della vita, non ostante che gli meriti suoi fossero tanto grandi e si freschi. La qual cosa a chi superficialmente la conside- rasse, parrebbe uno esempio d'ingratitudine popolare: non- dimeno chi la esaminerà meglio, e con migliore considera- zione ricercherà quali debbono essere gli ordini delle repub- bliche, biasimerà quel popolo più tosto per averlo assoluto, che per averlo voluto condennare. E la ragione è questa, che nessuna repubblica bene ordinata, non mai cancellò i de- menti con gli meriti de'suoi cittadini; ma avendo ordinati i premii ad una buona opera e le pene ad una cattiva, ed avendo premiato uno per aver bene operato, se quel mede- simo opera dipoi male, lo gastiga, senza avere riguardo al- cuno alle sue buone opere. E quando questi ordini sono bene osservali, una città vive libera molto tempo; altrimenti, sem- pre rovinerà presto. Perchè, se ad un cittadino che abbia fatto qualche egregia opera per la città, si aggiugne, oltre alla ri- putazione che quella cosa gli arreca, una audacia e confidenza di potere, senza temer pena, fare qualche^péra non buona; diventerà in brieve tempo tanto insolente, che si risolverà ogni civilità. È ben necessario, volendo che sia temuta la pena per le triste opere, osservare i premii per le buone; come si vede che fece Roma. E benché una repubblica sia povera, e possa dare poco, debbe di quel poco non astener- si; perchè sempre ogni piccolo dono, dato ad alcuno per ri- compenso ' di bene ancora che grande, sarà stimato, da chi Io riceve, onorevole e grandissimo. È notissima la istoria di Orazio Code, e quella di Muzio Scevola: come l'uno soslen-

* Questa desìnenea , di cui non mancsoo esempi anche dello stesso Ma- chiavelli, è geli' edixioae Romana.

146 DEI DISCORSI

ne i nemici sopra un ponte, tanto che si tagliasse: I*aUro si arse la mano, avendo erralo, volendo ammazzare Porsena, re delli Toscani. A costoro per queste due opere tanto egre- gie, fu donato dal pubblico due staiora di terra per ciascuno. È nota ancora la istoria di Manlio Capitolino. A costui, per aver salvato il Campidoglio da'Gaili che vi erano a campo, fu dato da quelli che insieme con lui vi erano assediati den- tro, una piccola misura di farina. Il quale premio, secondo la fortuna che allora correva in Roma, fu grande; e di qua- lità che, mosso poi Manlio o da invidia o dalla sua cattiva natura, a far nascere sedizione in Roma, e cercando guada- gnarsi il popolo, fu, senza rispetto alcuno de'suoi meriti, gittato precipite da quello Campidoglio ch'egli prima, con tanta sua gloria, aveva salvo.

Gap. XXV. Chi vuole riformare uno sialo anlico in una cillà libera t rilenga almeno l'ombra desmodi anlichi.

Colai che desidera o che vuole riformare uno slato d*ona città, a volere che sia accetto, e poterlo con satisfa- zione di ciascuno mantenere, é necessitato a ritenere l'om- bra almanco de* modi antichi, acciò che a' popoli non paia avere mutato ordine, ancora che in fatto gli ordini nuovi fussero al lutto alieni dai passati; perchè lo universale degli uomini si pasce così di quel che pare, come di quello che é; anzi molte volte si muovono più per le cose che paiono, che per quelle che sono. Per questa cagione i Homani, co- noscendo nel principio del loro vivere libero questa necessi- tà, avendo in cambio d'un Re creati duoi Consoli, non vol- lono ch'egli avessino più che dodici littori, per non passare il numero di quelli che ministravano ai Re. Oitra di que- sto, facendosi in Roma uno sacrifizio anniversario, il quale non poteva esser fatto se non dalla persona del Re; e vo- lendo i Romani che quel popolo non avesse a desiderare per la assenzia degli Re alcuna cosa dell'antiche; creorono un capo di detto sacrificio, il quale loro chiamorono Re Sacrifi- colo, e lo sottomessone al sommo Sacerdote: lalraentechò quel popolo per questa via venne a satisfarsi di quel sacri*

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tìzio, e non avere mai cagione, per mancamento esso, di desiderare la tornala dei Re. E questo si debbe osservare da tutti coloro che vogliono scancellare ano antico vivere in una città, e ridurla ad uno vivere nuovo e libero. Perchè al- terando le cose nuove le menti degli uomini, ti debbi inge- gnare che quelle alterazioni rilenghino più dell' antico sia possibile; e se i magistrati variano e di numero e d' auto- rità e di tempo dagli antichi, che almeno ritenghino il no- me. E questo, come ho detto, debbe osservare colui che vuole ordinare una potenza assoluta, o per via di repubblica o di regno: ma quello che vuol fare una potestà assoluta, quale dagli autori è chiamala tirannide, debbe rinnovare ogni cosa, come nel seguente capitolo si d'irà.

Gap. XXVI. Un principe nuovo, in una cillà o provincia presa da lui, debbe fare ogni cosa nuova.

Qualunque diventa principe o d* una città o d' uno sta- to, e tanto più quando i fondamenti suoi fussino deboli, e non si volga o per via di regno o di repubblica alla vita ci- vile; il megliore rimedio che egli abbia a tenere quel princi- pato, è, sendo egli nuovo principe, fare ogni cosa di nuovo in quello stalo: come è, nelle città fare nuovi governi con nuovi nomi, con nuove autorità, con nuovi uomini; fare i poveri ricchi, come fece Davit quando ei diventò re: qui esurienles implevit bonis^ et diviles dimisit inanes; edificare ol- irà di questo nuove città, disfare delle fatte, ^ cambiare gli abitatori da un luogo ad un altro; ed in somma, non lasciare cosa ninna intatta in quella provincia, e che non vi sia grado, ordine, stalo, ricchezza, che chi la tiene non la riconosca da te; e pigliare per sua mira Filippo di Macedonia, padre di Alessandro, il quale con questi modi, di piccolo re, diventò principe di Grecia. E chi scrive di lui, dice che tramutava gli uomini di provincia in provincia, come i mandriani tramutano le mandrie loro. Sono questi modi crudelissimi, e nemici d'ogni vivere, non solamente cristiano, ma umano; e debbegli qualunque uomo fuggire, e

< Cosi la Bladiana. Le altre edizioni t delle vecchie.

148 DEI DISCORSI

volere piollosto vivere privato, che re con (anta rovina de- gli uomini: nondimeno, colui che non vuole pigliare quella prima via del bene, quando si voglia mantenere, conviene che entri in questo male. Ma gli uomini pigliano certe vie del mezzo, che sono dannosissime; perchè non sanno essere tutti buoni lutti cattivi: come nel seguente capitolo per esempio si mostrerà.

Cip. XXVII. Sanno rarissime volle gli uomini essere al lutto tristi o al tutto buoni.

Papa Giulio secondo, andando nel' 1505 a Bologna per cacciare di quello stato la casa de'Bentivogli, la quale aveva tenuto il principato di quella città cento anni, voleva an- cora trarre Giovampa^olo Baglioni di Perugia, della quale era tiranno, come quello che aveva congiurato centra a tutti gli tiranni che occupavano le terre della Chiesa. E perve- nuto presso a Perugia con questo animo e deliberazione nota a ciascuno, non aspettò di entrare in quella città con lo esercito suo che lo guardasse, ma vi entrò disarmato, non ostante vi fusse dentro Giovampagolo con genti assai, quali per difesa di aveva ragunate. Sicché, portato da quel fu- rore con il quale governava tutte le cose, con la semplice sua guardia si rimesse nelle mani del nemico; il quale dipoi ne menò seco, lasciando un governadore in quella città, che rendesse ragione per la Chiesa. Fu notata dagli uomini pru- denti che col papa erano, la temerità del papa e la viltà di Giovampagolo; potevano slimare donde si venisse che quello non avesse, con sua per()elua fama, oppresso ad un tratto il nemico suo, e arricchito di preda, sendo col papa tutti li cardinali, con tutte le lor delizie. si poteva cre- dere si fusse astenuto o per bontà, o per conscienza che lo ritenesse; perché in un petto d'un uomo facinoroso, che si I teneva la sorella, che aveva morti i cugini ed i nepoti per l regnare, non poteva scendere alcuno pietoso rispetto: ma si \ conchiuse, che gli uomini non sanno essere onorevolmente [tristi, o perfettamente buoni; e come una tristizia ha in ' grandezza, o è in alcuna parte generosa, eglino non vi sanno

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entrare. Così Giovampagolo, il quale non stimava essere in- cesto e pubblico parricida, non seppe, o, a dir meglio, non ardi, avendone giusta occasione, fare una impresa, dove ciascuno avesse ammirato l'animo suo, e avesse di la- sciato memoria eterna; sendo il primo che avesse dimostro ai prelati , quanto sia da stimar poco chi vive e regna come loro ; ed avesse fatto una cosa, la cui grandezza avesse superato ogni infamia, ogni pericolo, che da quella potesse dependere.

Cap. XXVIII. Per qual cagione i Romani furono meno ingrati agli loro ciUadini che gli Ateniesi.

Qualunque legge le cose fatte dalle repubbliche, troverà in tutte qualche spezie di ingratitudine centra a* suoi citta- dini ; ma ne troverà meno in Roma che in Atene, e per av- ventura in qualunque altra repubblica. E ricercando la ca- gione dì questo, parlando di Roma e di Atene, credo accadesse perchè i Romani avevano meno cagione di so- spettare dei' suoi cittadini, che gli Ateniesi. Perchè a Roma, ragionando di lei dalla cacciata dei Re infine a Siila e Ma- rio, non fu mai tolta la libertà da alcuno suo cittadino ; in modo che in lei non era grande cagione di sospettare di loro, e, per conseguente, di offendergli inconsideratamente. Intervenne bene ad Atene il contrario : perchè, sendole tolta la libertà da Pisistrato nel suo più florido tempo , e sotto uno inganno di bontà; come prima la diventò poi libera, ricor- dandosi delle ingiurie ricevute e della passata servitù, di- ventò acerrima vendicatrice non solamente degli errori, ma dell'ombra degli errori de' suoi cittadini. Di qui nacque l'esilio e la morte di tanti eccellenti uomini; di qui l'or- dine dello ostracismo, ed ogni altra violenza che centra i suoi ottimati in vari tempi da quella città fu fatta. Ed è veris- simo quello che dicono questi scrittori della civiltà : che ì popoli mordono più fieramente poi eh' egli hanno recuperala la libertà, che poi che l'hanno conservata. Chi considerrà,*

* Più volte troviamo nell'edizione Romana Considera , dove le altre hanno considererà. 12 nota, d'altra parte, a lutti l'antica e tnscanissima inflessione considerràf che stimiamo esser la vera voce tra le due, per diversa cagione alterate nelle stampe.

13»

i^ b£l blSCOR^t

adanqae, qoanto è dello, non biasimerà in questo Atene, lauderà Roma ; ma ne accuserà solo la necessità , per la di- versità degli accidenti che in queste città nacquero. Perchè si vedrà, chi considererà le cose sottilmente, che se a Roma fosse suta tolta la libertà come a Atene, non sarebbe siala Roma più pia verso i suoi cittadini, che si fusse quella. Di che si può f^re verissima coniettura per quello che occorse, dopo la cacciata dei Re,contraa Collatino ed a Publio Valerio: de' quali il primo, ancora che si trovasse a liberate Roma, fu mandalo in esilio non per altra cagione che per tenere il nome de'Tarquinii; l'altro, avendo solo dato di sèsospetlo per edificare una casa in sul monte Celio, fu ancora per es- sere fatto esule. Talché si può stimare, veduto quanto Roma fu in questi due sospettosa e severa, che l' arebbe usala la in- gratitudine come Atene, se da' suoi cittadini, come quella De' primi tempi ed innanzi allo augumento suo, fus:^e stata ingiuriata. E per non avere a tornare più sopra questa ma- teria della ingratitudine, oe dirò quello ne occorrerà nel se- gueole capitolo.

Gap. XXIX. Quale sia più ingrato, o un popolo, o un principe.

Egli mi pare, a proposito della soprascrìtta materia, da discorrere quale usi con macgiori esempi questa ingratitu- dine, o un popolo, o un principe. E per disputare meglio questa parte, dico, come questo vizio della ingratitudine na- sce o dalla avarizia, odal sospetto. Perché, quando o un po- polo o un principe ha mandato fuori un suo capitano in una espedizione importante, dove quel capitano, vincendola, ne abbia acquistata assai gloria ; quel principe o quel popolo è tenuto allo incontro a premiarlo : e se, in cambio di premio, o ei Io disonora o ei l'otTende, mosso dalla avarizia, non volendo, ritenuto da questa cupidità, satisfarli ; fa uno er- rore che non ha scusa, anzi si lira dietro ana infamia eter- na. Pure si trovano molti principi che ci peccano. E Corne- lio Tacito dice, con questa sentenzia, la cagione: Proclivius est injurio!, quam beneficio vicem exsolvere, quia gratta oneri.

tlijllO PRIMO. Ì8Ì

ullio in queslu hahelur. Ma quando ei non Io premia, o, a dii meglio, l'offende, non mosso da avarizia, ma da sospetto; allora merita, e il popolo e il principe, qualche scusa. E di queste ingratitudini usale perlai cagione, se ne legge assai: perchè quello capitano il quale virtuosamente ha acquistato uno imperio al suo signore, superando i nemici, e riempiendo di gloria e gli suoi soldati di ricchezze; di necessità, e con i soldati suoi, e con i nemici, e coi sudditi propri di quel principe acquista tanta reputazione, che quella vittoria non può sapere di buono a quel signore che lo ha mandato. E perchè la natura degli uomini è ambiziosa e sospettosa, e non sa porre modo a nissuna sua fortuna, è impossibile che quel sospetto che subito nasce nel principe dopo la vittoria di quel suo capitano, non sia da quel medesimo accresciuto per qualche suo modo o termine usalo insolentemente. Tal- ché il principe non può pensare ad altro che assicurarsene; e per fare questo, pensa o di farlo morire, o di tòrgli la re- putazione, che egli* si ha guadagnata nel suo esercito e ne' suoi popoli ; e con ogni industria mostrare che quella vitto- ria è nata non per la virtù di quello, ma per fortuna, o per viltà dei nemici, o per prudenza degli altri capitani che sono stali seco in tale fazione. Poiché Vespasiano, sendo in Giu- dea, fu dichiarato dal suo esercito imperadore, Antonio Pri- mo, che si trovava con un altro esercito in Illiria, prese le parli sue, e ne venne in Italia conlra a Vitellio il quale re- gnava a Roma, e virtuosissimamente ruppe due eserciti Vi- telliani, e occupò Roma; talché Muziano, mandato da Vespa- siano, trovò per la virtù d'Antonio acquistalo il tutto, e vinta ogni ditTicullà. Il premio che Antonio ne riportò, fu che Mu- ziano gli tolse subito la ubidienza dello esercito, e a poco a poco lo ridusse in Roma senza alcuna autorità: talché Anto- nio ne andò a trovare Vespasiano, il quale era ancora in Asia; dal quale fu in modo ricevuto, che, in breve tempo, ridotto in nessun grado, quasi disperalo mori. E di questi esempi ne sono piene le istorie. Ne' nostri tempi, ciascuno che al presente vive, sa con quanta industria e virtù Consalvo Fer- rante, militando nel regno di Napoli conlra a' Franciosi per

' C/ie egli manca nella Romana; ne, per me, la credo omissione.

i5^ DEI DISCORSI

Ferrando re di Ragona, conquistasse e vincesse quel regno; e come, per premio di vittoria , ne riporlo che Ferrando si parli da Ragona, e venato a Napoli, in prima gli levò la obe- dienza delle genti d'arme, e dipoi gli tolse le forteize, ed appresso Io menò seco in Spagna; dove poco tempo poi, inonoralo, mori. È tanto, dunque, naturale questo sospetto ne* principi, che non se ne possono difendere; ed è im|>ossi- biie eh* egli usino gratitudine a quelli che con vittoria hanno fatto sotto le insegne loro grandi acquisti. E da quello che non si difende un principe, non è miracolo, cosa degna di maggior considerazione, se un popolo non se ne difendo. Perché, avendo una città che vive libera, duoi fini, 1* uno lo acquistare, Taltro il mantenersi libera ; conviene che nel- r una cosa e nell'altra per troppo amore erri. Quanto agli errori nello acquistare, se ne dirà nel luogo suo. Quanto agli errori per mantenersi libera, sono, intra gli altri, questi: di offendere quei cittadini che la doverrebbe premiare; aver sospetto di quelli in cui si doverrebbe confidare. E benchò questi modi in una repubblica venuta alla corruzione siano cagione di grandi mali , e che molte volte piuttosto la viene alla tirannide, come intervenne a Roma di Cesare, che per forza si tolse quello che la ingratitudine gli negava ; nondi- meno in una repubblica non corrotta sono cagione di gran beni, e fanno che la ne vive libera più, mantenendosi per paura di punizione gli uomini migliori, e meno ambiziosi. Vero è che infra tutti i popoli che mai ebbero imperio, per le cagioni di sopra discorse, Roma fu la meno ingrata : per- chè della sua ingratitudine si può dire che non ci sia altro esempio che quello di Scipione; perché Corìolano e Cammillo fumo fatti esuli per ingiuria che l'uno e l'altro aveva fatto ^lla Plebe. Ma all' uno non fu perdonato, per aversi sempre risbrbato contra al Popolo l'animo nemico; l'altro non sola- mente fu richiamato, ma per tutto il tempo della sua vita adorato come principe. Ma la ingratitudine usata a Scipione nacque da un sospetto che i cittadini cominciorno avere di lui, che degli altri non s'era avuto: il quale nacque dalia grandezza del nemico che Scipione aveva vinto ; dalla repu- tazione che gli aveva data la vittoria di si lunga e pericolosa

LIBRO PRIMO. 453

gaerra ; dalla celerità di essa ; dai favori che la gioventù, la prudenza, e le altre sue memorabili virtuti gli acquistavano. Le quali cose furono tante, che, non che altro, i magistrati di Roma temevano della sua autorità : la qual cosa spiaceva agli uomini savi, come cosa inconsueta in Roma. E parve tanto straordinario il vivere suo, che Catone Prisco, riputato santo, fu il primo a fargli contra ; e a dire che una città non si poteva chiamare libera, dove era un cittadino che fusse temuto dai magistrati. Talché, se il popolo di Roma segui in i questo caso la opinione di Catone, merita quella scusa che di sopra ho detto meritare quelli popoli e quelli principi che per sospetto sono ingrati. Conchiudendo adunque questo di- scorso, dico, che usandosi questo vizio della ingratitudine o per avarizia o per sospetto, si vedrà come i popoli non mai per r avarizia la usorno , e per sospetto assai manco che i principi, avendo meno cagione di sospettare: come di sotto si dirà.

Cap, XXX, Quali modi debbe usare un principe o una repubblica per fuggire questo vizio della ingratitudine ; e quali quel capitano o quel cittadino per non essere op- presso da quella.

Un principe, per fuggire questa necessità di avere a vi- vere con sospetto, o esser ingrato, debbe personalmente andare nelle espedizioni; come facevano nel principio quelli imperadori romani, come fa ne' tempi nostri il Turco, e come hanno fatto e fanno quelli che sono virtuosi. Perchè, vìncendo, la gloria e lo acquisto è tutto loro; e quando non vi sono, sondo la gloria d'altrui, non pare loro potere usare quello acquisto, s'ei non spengono in altrui quella gloria che loro non hanno saputo guadagnarsi, e diventare ingrati ed ingiusti: e senza dubbio, è maggiore la loro perdita, che il guadagno. Ma quando, o per negligenza o per poca pru- denza, e'si rimangono a casa oziosi, e mandano un capitano; io non ho che precetto dar loro altro, che quello che per lor medesimi si sanno. Ma dico bene a quel capitano, giudicando / io che non possa fuggire i morsi della ingratitudine, che faccia l

454 DEI DISCORSI

[ ona delle dae cose : o sabito dopo la vittoria lasci lo esercito, \ e rimettasi nelle mani del suo principe, guardandosi da ogni I atto insolente o ambizioso ; acciocché quello , spoglialo d'ogni l sospetto, abbia cagione o di premiarlo o di non lo offendere: \ o, quando questo non gli paia di fare, prenda animosamente 'la parte contraria, e tenga tutti quelli modi per li quali \ creda che quello acquisto sia suo proprio e non del principe suo, facendosi benivoli i soldati ed i sudditi ; e faccia nuove ; amicizie coi vicini, occupi con li suoi uomini le fortezze, /corrompa i principi del suo esercito, e di quelli che non può corrompere si assicuri; e per questi modi cerchi di punire il ^fluo signore di quella ingratitudine che esso gli userebbe. /Altre vie non ci sono : ma, come di sopra si disse, gli uomini /non sanno essere al tutto tristi, al tutto buoni ; esem- ;pre interviene che, subito dopo la vittoria, lasciare lo eser- cito non vogliono, portarsi modestamente non possono, usare \lermini violenti e che abbino in l'onorevole, non sanno; (talché, stando ambigui , intra quella loro dimora ed ambiguità, '^sono oppressi. Quanto ad una repubblica, volendo fuggire questo vizio dello ingrato, non si può dare il medesimo ri- medio che al principe; cioè che vadia, e non mandi, nelle espedizioni sue, sendo necessitate ' a mandare un suo cit- tadino. Conviene, pertanto, che per rimedio io le dia, che la tenga i medesimi modi che tenne la repubblica romana, ad esser meno ingrata che l'altre: il che nacque dai modi del suo governo. Perché, adoperandosi tutta la città, e gli no- bili e gli ignobili, nella guerra, surgeva sempre in Roma in ogni età tanti uomini virtuosi, ed ornati di varie vittorie , che il popolo non avea cagione di dubitare di alcuno di loro, sendo assai, e guardando l'uno l'altro. E in tanto si mantenevano interi, e respettivi di non dare ombra di alcuna ambizione, cagione al popolo, come ambiziosi, d'olTcndergli ; che ve- nendo alla dittatura, quello maggior gloria ne riportava, che più tosto la deponeva. E cosi, non potendo simili modi gene- rare sospetto, non generavano ingratitudine. In modo che, una repubblica che non voglia avere cagione d'essere ingraia,

' Coti, con relaxiooe piutlotto logica che grammaticale, odia Bladiaaa t nella Testina. 1 moderni editori corrcM^ro , aenaa bitogoo t necessitata.

LIBRO PRIMO. ioo

si debbe governare come Roraa ; e uno cittadino che voglia fuggire quelli suoi morsi, debbe osservare i termini osservati dai cittadini romani.

Gap. XXXI. Che i capitani romani per errore commessa non furono mai islraordinariamenle puniti; furono mai ancora punili quando, per la ignoranza loro o Irisli par- tili presi da loro, ne fussino seguiti danni alla repubblica.

I Romani, non solamente, come di sopra avemo discor- so, furono manco ingrati che l'altre repubbliche, ma furono ancora più pii e più respettivi nella punizione de' loro Capi- tani degli eserciti, che alcune altre. Perchè, se il loro errore fusse stato per malizia, e' lo gastigavano umanamente; se gli era per ignoranza, non che lo punissino, e' lo premia- vano, ed onoravano. Questo modo del procedere era bene consideralo da loro: perchè e' giudicavano che fusse di tanta importanza a quelli che governavano gli eserciti loro, lo avere l'animo libero ed espedito', e senza altri estrinsechi ri- spetti nel pigliare i partiti, che non volevano aggiugnere ad una cosa per stessa dilTicile e pericolosa, nuove difficultà / e pericoli; pensando che aggiugnendoveli, nessuno potesse ( essere che operasse mai virtuosamente. Verbigrazia, e' man- davano uno esercito in Grecia centra a Filippo di Macedonia, 0 in Italia contra ad Annibale, o contra a quelli popoli che vinsono prima. Era questo capitano che era preposto a tale espedizione , angustiato da tutte quelle cure che arrecavano dietro quelle faccende, le quali sono gravi e importantissime. Ora, se a tali cure si fussino aggiunti più^ esempi di Romani ch'eglino avessino crucifissi o altrimenti morti quelli che avessino perdute le giornale, egli era impossibile che quello capitano intra tanti sospetti potesse deliberare strenuamente. Però, giudicando essi che a questi tali fusse assai pena la igno- [ minia dello avere perduto, non gli voUono con altra maggior / pena sbigottire. Uno esempio ci è, quanto allo errore com- messo non per ignoranza. Erano Sergio e Virginio a campo aVeio, ciascuno preposti ad una parte dello esercito; de'quali

* Della Testina e della Romana. Nelle altre : tali.

156 DEI DISCORSI.

Sergio era ali* incontro donde potevano venire i Toscani, e Virginio dairallrn parie. Occorse che sondo assaltalo Sergio dai Falisci e da altri popoli, sopportò d'essere rollo e fusaio prima che mandare per aiuto a Virginio. E dall'altra parte, Virginio aspellando che si amiliasse, volle piuttosto vedere il disonore della patria sua, e la rovina di quello esercito, che soccorrerlo. Caso veramente essemplare e tristo, * e da fare non buona conietlura della Repubblica romana, se l'uno e l'altro non fussero stati saslìgali. Vero è che, dove un'altra repubblicagli arebbe puniti di pena capitale, quella gli punì in danari. Il che nacque non perchè i peccali loro non merilassino maggior punizione, ma perchè gli Romani vollono in questo caso, per le razioni già delle, mantenere gli antichi costumi loro. E quanto agli errori per ignoranza, non ci è il più bell'esempio che quello di Varrone: per la (emerita del quale scndo rolli i Romani a Canne da An- nibale, dove quella Repubblica portò pericolo della sua libertà; nondimeno, perchè vi fu ignoranza e non malizia, non solamente non Io gastigorno ma lo onororno, e gli andò incontro nella tornata sua in Roma (ulto l'Ordine senatorio: e non lo polendo ringraziare della zulTa, Io rin- graziorono eh* egli era tornato in Roma, e non era di- 8perato delle cose romane. Quando Papirio Cursore voleva fare morire Fabio, per avere conlra al suo comandamento combattuto coi Sanniti; intra le altre ragioni che dal padre di Fabio erano assegnate conlra alla ostinazione del Diltalore, era che il Popolo romano in alcuna perdila de' suoi Capitani non aveva fatto mai quello che Papirio nella vittoria vo- leva fare.

Cap. XXXH. Una repubblica o uno principe non debbe differire a beneficare gli uomini nelle sue nccessilali.

Ancora che ai Romani succedesse felicemente essere li- berali al Popolo, sopravvenendo il pericolo, quando Porsena

* Lezionr ilei Blacìo, adottata giudiziosamente anrhe dagli editori de] 1813. CoìtTo a' quali esemplare , preso in cattiva parte, non piacque , mutarono (comq -embra) d'ail>ilrio: malvagio, e degno d' ester notato-

I

LIBRO l'iUMO. i57

venne ad assaltare Roma per rìmellere i Tarquinii; dove il Senato dubitando della Plebe, che non volesse piuttosto ac- cettare i Re che sostenere la guerra, per assicurarsene la sgravò delle gabelle del sale, e d' ogni gravezza; dicendo come i poveri assai operavano in benefizio pubblico se ei nutrivano i loro figliuoli; e che per questo benefizio quel Po- polo si esponesse a sopportare ossidione, fame e guerra: non sia alcuno che, confidatosi in questo esempio, differisca ne'terapi de' pericoli a guadagnarsi il Popolo; perchè mai gli riuscirà quello che riusci ai Romani. Perchè lo universale giudicherà non avere quel bene da te, ma dagli avversari tuoi; e dovendo temere che, passata la necessità, tu ritolga loro quello che hai forzatamente loro dato, non ara leco ob- bligo alcuno. E la cagione perchè ai Romani tornò bene questo partito, fu perchè lo slato era nuovo, e non per an- cora fermo; ed aveva veduto quel Popolo, come innanzi si erano fatte leggi in benefizio suo, come quella della appel- lagione alla Plebe; in modo che ei potette persuadersi che quel bene gli era fatto, non era tanto causato dalla venuta dei nemici, quanto dalla disposizione del Senato in benefi- carli. Oltre di questo, la memoria dei Re era fresca; dai quali erano stati in molti modi vilipesi ed ingiuriati. E perchè simili cagioni accaggiono rade volte, occorrerà ancora rade volle che simili remedi giovino. Però, debbe qualunque tiene sta- lo, cosi repubblica come principe, considerare innanzi, quali (empi gli possono venire addosso contrari, e di quali uomini ne* tempi avversi si può avere di bisogno; e dipoi vivere con loro in quel modo che giudica, sopravvegnenle qualunque caso, essere necessitalo vivere. E quello che altrimenti si governa, o principe o repubblica, e massime un principe; e poi in sul fallo crede, quando il pericolo sopravviene, coi benefizi riguadagnarsi gli uomini; se ne inganna: perchè non solamente con se ne assicura, ma accelera la sua ro- vina.

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lo8 DEI DISCORSI

Gap. XXXIII. Quando uno inconvenienle è cresciuto o in uno sialo o conlra ad uno sialo, è più salutifero parlilo Icmporcggiarlo che urlarh.

Crescendola Repubblica romana in reputazione, forze ed imperio, i vicini,! quali prima non avevano pensjalo quanto ( quella nuova Repubblica potesse arrecare loro di danno, co- ( minciorno, ma lardi, a conoscere lo errore loro; e volendo rimediare a quello che prima non avevano rimediato, con- spirorno be^njQjaranta^^o^oli con tra a Roma: donde i Ro- mani, intra gli altri rimedi solili finsi da loro negli urgenti pericoli, si volsono a creare il Dittatore; cioè dare potestà ad un uomo che senxa alcuna consulta potesse deliberare, e senza alcuna appellagione potesse eseguire le suo delibera- zioni. Il quale rimedio come allora fu utile, e fu cagione che vincessero gì' imminenti pericoli, cosi fu sempre utilissimo in tutti quelli accidenti che, nello augumenlo dello imperio, in qualunque tempo surgessino contro alla Repubblica. Sopra il quale accidente è da discorrere prima, come quando uno in- conveniente che surga, o in una repubblica o centra ad una repubblica, causalo da cagione intrinseca o estrinseca, e diventalo tanto grande che e' cominci a far paura a cifiscuno; è mollo più sicuro partilo tcmi;oreggiarsi con quello, che tentare di estinguerlo. Perchè, quasi sempre coloro che ten- tano di ammorzarlo, fanno le sue forze maggiori, e fanno accelerare quel male che da quello si suspettava. £ di questi simili accidenti ne nasce nella repubblica più spesso per ca- gione intrinseca, che estrinseca: dove molte volte, o e' si lascia pigliare ad uno cittadino più forze che non è ragione- vole, 0 e' si comincia a corrompere una legge, la quale è il nervo e la vita del vivere libero; e lasciasi trascorrere que- sto errore in tanto, che gli è più dannoso parlilo il volervi rimediare, che lasciarlo seguire. £ tanto più è difTicile il co- noscere questi inconvenienti quando e' nascono, quanto e' pare più naturale agli uomini favorire sempre i principii delle cose. E (ali favori possono, più che in alcuna altra cosa, nelle opere che paiono che abbino in qualche virtù, e

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siano operale da' giovani: perchè se in una repubblica vede surgere un giovane nobile, quale abbia in virlù islraor- dinaria, tulli gli occhi de' cittadini si cominciano a voltare verso di lui, e concorrono senza alcuno rispetto ad onorar- lo; in modo che, se in quello è punto d' ambizione, accozzati i favori che gli la naiura e questo accidente, viene su- bito in luogo, che quando i cittadini si avveggono dell'errore loro, hanno pochi rimedi ad ovviarvi; e volendo quelli tanti 1 ch'egli hanno, operarli, non fanno altro che accelerare la potenza sua. Di questo se ne potrebbe addurre assai esempi, ma io ne voglio dare solamente uno della città nostra. Cosi- a mo de' Medici, dal quale la casa de' Medici in ia nostra città j ebbe il principio della sua grandezza, venne in tanta repu- | lazione col favore che gli dette la sua prudenza e la igno- \ ranza degli altri cittadini, che ei cominciò a fare paura allo \ slato; in modo che gli altri cittadini giudicavano 1' offenderlo pericoloso, ed il lasciarlo stare cosa pericolosissima. Ma vi- vendo in quei tempi Niccolò da lizzano, il quale nelle cose civili era tenuto uomo espertissimo, ed avendo ftilto il primo errore di non conoscere i pericoli che dalla reputazione di Cosimo potevano nascere; mentre che visse, non permesse inai che si facesse il secondo, cioè che si tentasse di volerlo spegnere, giudicando tale tentazione essere al tutto la rovina dello stato loro; come si vide in fatto che fu, dopo la sua morte: perchè, non osservando quelli cittadini che rimasono, questo suo consiglio, si feciono forti contra a Cosimo, e lo cacciorno da Firenze. Donde ne nacque che la sua parte, per questa ingiuria risentitasi, poco dipoi lo chiamò, e lo fece principe della repubblica: al quale grado senza quella mani- festa opposizione non sarebbe mai polulò ascendere. Questo medesimo intervenne a Roma con Cesare; che favorita da Pompeioe dagli altri quella sua virtù, si convertì poco dipoi quel favore in paura: di che fa testimonio Cicerone, dicendo che Pompeio aveva tardi cominciato a temer Cesare. La qual paura fece che pensorono ai rimedi ; e gli rimedi che feciono, accelerorno la rovina della loro Repubblica. Dico adunque, che dipoi che gli è didìcile conoscere questi mali quando e'surgono, causala questa dillìcultà da uno inganno

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che (i fanno le cose in principio; è più savio partito il (era- poreggiarle poiché le ai conoscono, che l'oppugnarle: perchè r temporeggiandole, o per lormedesinaesi spengono, o almeno 1 il mate si differisce in più lungo tempo. E in tulle le cose \ debbono aprir gli occhi i principi che disegnano cancellarle, o alle forze ed impelo loro opporsi; di non dare loro, in cam- bio di detrimento, augumento; e credendo sospingere una cosa, tirarsela dietro, ovvero soffocare una pianta con annaf- fiarla. Ma si debbe considerare bene le forze del malore, e quando li vedi sutlìziente a sanarlo, metterviti senza rispet- to: altrimenti, lasciarlo slare, in alcun modo tentarlo. Perchè interverrebbe, come di sopra si discorre, e come in- tervenne avvicini di Uoma: ai quali, poiché Roma era cre- sciuta in tanta potenza, era più salutifero con gli modi della ( pace cercare di placarla e ritenerla addietro, che coi modi della guerra farla pensare a nuovi ordini e nuove difese. r Perchè quella loro congiura non fece altro che farli più uni- .11, più gagliardi, e pensare a modi nuovi, medianli i quali «in più breve tempo ampliorono la potenza loro. Intra' quali fu la creazione del Dittatore; per lo quale nuovo ordine non solamente supcrorono gli imminenti pericoli, ma fu cagione di ovviare a infiniti mali, ne' quali senza quello rimedio quella Repubblica sar-ebbe incorsa.

Cap. \Wi\. L' auloriià dillaloria fece bene, e non danno, alla repubblica romana: e come le autorità che i cittadini si tolgono, non quelle che sono loro dai suffragi liberi date, sono alla vita civile perniciose,

E' sono slati dannati da alcuno scrittore quelli Romani che trovorono in quella città il modo di creare il Dittatore, come cosa che fusse cagione, col tempo, della tirannide di Roma; allegando, come il primo tiranno che fusse in quella

.città, la comandò sotto questo titolo dittatorio; dicendo che se non vi fusse stalo questo, Cesare non arebbe potuto sotto alcuno titolo pubblico adonestare la sua tirannide. La qual

)cosa non fu bene da colui che tenne questa opinione esami- nala, e fu fuori d' ogni ragione creduta. Perchè, e' non fu il

LIBRO PRIMO. ^Gl

nome il grado del DiUatore che facesse serva Roma, raa fu r autorità presa dai citladini per la diuturnità dello impe- rio: e se in Roma fusse mancalo il nome dittatorio, ne areb- hon preso un altro; perchè e* sono le forze che facilmente j s'acquistano i nomi, non i nomi le forze. E si vedde che 'I j Dittatore, mentre che fu dato secondo gli ordini pubblici, e non per autorità propria, fece sempre bene alla città. Per- chè e' nuocono alle repubbliche i magistrati che si fanno e r autoritali che si danno per vie isiraordinarie; non quelle che vengono per vie ordinarie: come si vede che segui in Roma in tanto progresso di tempo, che mai alcuno Dittatore fece se non bene alla Repubblica. Di che ce ne sono ragioni evidentissime. Prima, perchè a volere che un cittadino possa offendere, e pigliarsi autorità islraordinaria, conviene eh' egli abbia molte qualità le quali in una repubblica non corrotta non può mai avere: perchè gli bisogna essere ric- chissimo, ed avere assai aderenti e partigiani, i quali non può avere dove le leggi si osservano; e quando pure ve gli avesse, simili uomini sono in modo formidabili, che i suffragi liberi non concorrono in quelli. Oltra di questo, il Dittatore [ era fatto a tempo, e non in perpetuo, e per ovviare solamente a \ quella cagione mediante la quale era creato; e la sua auto- rità si estendeva in potere deliberare per se stesso circa i modi di quello urgente pericolo, e fare ogni cosa senza consulla, e punire ciascuno senza appellagione: ma non poteva far cosa che fusse in diminuzione dello stalo; come sarebbe stalo tórre autorità al Senato o al Popolo, disfare gli ordini vecchi della città, e farne de' nuovi. In modo che, raccozzato il breve tempo della sua dittatura, e l'autorità limitata che egli ave- va, ed il popolo romano non corrotto; era impossibile ch'egli uscisse de' termini suoi, e nocesse alla città: e per espe- rienza si vede che sempre mai giovò. E veramente, infra gli altri ordini romani, questo è uno che merita esser conside- rato, e connumeralo infra quelli che furono cagione della i grandezza di tanto imperio; perchè senza un simile ordine ' le città con ditfìcuUà usciranno degli accidenti istraordinari: ; perchè gli ordini consueti nelle repubbliche * hanno il moto i

' La ciadiana e la Testina aggiungono a questo luogo un die, il «[naie,

11*

Iij2 DEI Disconsi

lardo (non potendo alcuno consiglio alcuno magislralo per se slesso operare ogni cosa, ma avendo in molle cose bisogno r uno dell' allro), e perchè nel raccozzare insieme quesli voleri va lempo, sono i rimedi loro pericolosissimi, quando egli hanno a rimediare a una cosa che non aspelli lempo. E però le repubbliche debbono inlra'loro ordini avere un simile modo: e la Repubblica veneziana. Iti quale intra le moderne repubbliche è eccellente, ha riservalo autorità a pochi cittadini, che ne' bisogni urgenti, senza maggiore con- sulla, tulli d'accordo possine deliberare. Perchè quando in una repubblica manca un simil modo, è necessario, o ser- vando gli ordini rovinare,© per non rovinare rompergli. Ed in una repubblica non vorrebbe mai accader cosa, che eòi modi estraordinari s' avesse a governare. Perchè, ancora che il modo istraordinario per allora facesse bene, nondimeno lo esempio fa male; perchè si mette una usanza di rompere gli '# /*^ (ordini per bene, che poi sello quel colore si rompono por t^Jk^A ( male. Talché mai (ìa perfetta una repubblica , se con le leggi *^.'8ue non ha provvisto a lutto, e ad ogni accidente posto il ri- j'* medio, e dalo il modo a governarlo. E però, conchiudendo, jL*m^ dico che quelle repubbliche le quali negli urgenti pericoli ^ / non hanno rifugio o al Dittatore o a simili aulorilati, scm- **" •' pre ne' gravi accidenti* rovineranno. È da notare in questo ^ nuovo ordine , il modo dello eleggerlo, quanto dai Romani fu

saviamente provvisto. Perchè, sondo la creazione del Ditta- tore con qualche vergogna dei Consoli, avendo, di capi della città, a venire sotto una ubidicnza come gli altri; e presup- ponendo che di questo avesse a nascere isdegno fra i citta- dini; vollono che l'autorità dello eleggerlo fusse nei Consoli: pensando che quando l'accidente venisse, che Roma avesse bisogno di questa regia potestà, e' lo avessino a fare volen- lieri; e facendolo loro, che dolessi lor meno. Perchè le fe-

Ìritc ed ogni allro male che l'uomo si fa da spontaneamente e per elezione, dolgono di gran lunga meno, che quelle che

al mio rre(Icre, intralcia , auzichc rendere più spedila la sintassi. Noi credemmo piuUo&to di poter supplire un' e congiuntiva tra il primo e il secondo ;jcrc/r« alla fine della parentesi: e il nostro modo di costruire il periodo, in tulle le edizioni malconcio, ci siamo ingegnali di darlo ad intendere colla punluazionc.

LIBUO PRIMO. 1C,'>

li sono falle da altri. Ancora che poi negli ullimi lempi i Ro- mani usassino, in cambio del Diltalore, di dare lale aulorilà al Console, con quesle parole: Vidcal Consul, ne Respublica quid delrimenti captai. E per tornare alla maleria nostra, conchiudo, come i vicini di Roma cercando opprimergli, gli feciono ordinare, non solamente a potersi difendere, ma a potere, con più forza, più consiglio e più aulorilà, offender loro.

Cap. XXXV. La cagione perchè in Roma la creazione del decemvirato fu nociva alla liberlà di quella repubblica , non ostante che fosse creato per- suffragi pubblichi e liberi.

E' pare contrario a quel che di sopra è discorso;' che quella aulorilà che si occupa con violenza, non quella eh' è data con gli suffragi, nuoce alle repubbliche; la elezione dei dieci cittadini creali dal Popolo romano per fare le leggi in Roma: i quali ne divenlorno col tempo tiranni, e senza al- cun rispetto occuporno la libertà di quella. Dove si debbe considerare i modi del dare l'autorità, ed il tempo perchè la si dà. E quando e* si dia autorità libera, col lempo lungo, chiamando il tempo lungo un anno, o più; semine fìa perico- losa, e farà gli effetti o buoni o tristi, secondo che fieno tri- sti o buoni coloro a chi la sarà data. E se si considera l'au- torità che ebbero i Dieci, e quella che avevano i Diltalori, si vedrà senza comparazione quella dei Dieci maggiore. Perchè, crealo il Diltalore, rimanevano i Tribuni, i Consoli, il Se- nato, con la loro autorità; il Dittatore la poteva tórre lo- ro: e s'egli avesse potuto privare uno del consolato, uno del senato, ei non poteva annullare l'ordine senatorio, e faro nuove leggi. In modo che il Senato, i Consoli, ed i Tribuni, restando con 1' aulorilà loro, venivano ad esser come sua guardia, a farlo non uscire della via diritla. Ma nella crea- zione dei Dieci occorse lutto il contrario: perchè gli annul- lorno i Consoli ed i Tribuni, dettone loro aulorilà di tare leggi, ed ogni altra cosa, come il Popolo romano. Talché, trovan- dosi soli, senza Consoli, senza Tribuni, senza appellagione al

* Abbiasi, in questo luogo, per sollialcso: cioè.

Ulì DEI DISCORSI

Popolo; e per quesfo non venendo ad avere chi osservas- scgli,' ci poterono, il secondo anno, mossi dall' ambizione di Appio, divenlare insolenti. E per questo si debbo no(aro, che quando e* si è dello che una autorità data da'sufTraui liberi, non offese mai alcuna repubblica; si presuppone che un popolo non si conduca mai a darla, se non con le debite circonstanzie, e ne'debili tempi: ma quando, o per essere in- gannato, o per qualche altra cagione che lo accecasse, e' si conducesse a darla imprudeoleroente, e nel modo che M Po- polo romano la dette a' Dieci, gl'interverria sempre come a quello. Questo si prova facilmente, considerando quali ca- gioni mantenessero i DiUalori buoni, e quali facessero i Dieci cattivi; e considerando ancora, come hanno fatto quelle re- pubbliche che sono stale tenute bene ordinale, nel dare l'au- torità per lungo tempo; come davano gli Spartani agli loro Ke, ecome danno i Veneziani ai loro Duci: perchè si vedrà, all'ano ed alPaltro modo di costoro esser poste guardie, che facevano che i Re non potevano usare male quella autorità. giova, in questo caso, che la materia non sia corrotta; perchè una autorità assoluta, in brevissimo tempo corrompe la materia, e si fa amici e partigiani. gli nuoce o esser f)Ovcro, 0 non avere parenti : perchè le ricchezze, ed ogni al- tro favore subitogli corre dietro: come particolarraenle nella cre.»zione de'dclli Dieci discorreremo.*

Cap. XXXVI. ~ Non debbono i cillaìini che hanno avuti { magjiori onori, sitcgnarsi de* minori.

Avevano i Romani fatti Marco Fabio e G. Manilio con- soli, e vinta una gloriosissima giornata contra a' Veienli e gli Elrusci; nella quale fu morto Quinto Fabio, fratello del consolo, quale lo anno davanti era stato consolo. Dove si debhe considerare , quarito gli ordini di quella città erano atti a farla grande; e quanto le altre repubbliche che si disco-

* La comune delle tdixìcmi: f;fi assentisse s la Romana, con errore evi- dente: osservagli. È prolialtile che T Autore scrivesse osservargli j modo eliUico il quale soUinlendereMie potesse, o dovesse.

2 Di ciò infalli torna a parlare nel seg. rap. XL : ond'c per lo meno c«|UÌvoca la lezione della BlaJiaua e della Testina : discórrtmo.

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LIBRO PRIMO. 105

Stano dai modi suoi, s'ingannano. Perchè, ancora che i Ro- mani fussino amatori grandi della gloria, nondimeno non sii raavano cosa disonorevole ubbidire ora a chi altra volta essi avevano comandato, e trovarsi a servire in quello esercito del quale erano stati principi. Il quale costume è contrario alia oppinione, ordini e modi de' cittadini de' tempi nostri: ed in Vinegia è ancora questo errore, che uno cittadino f avendo avuto un grado grande, si vergogni di accettare uno \ minore; e la città gli consente che se ne possa discostare. La qual cosa, quando fusse onorevole per il privato, è al tutto inutile per il pubblico. Perchè più speranza debbe avere una repubblica, e più conQdare in uno cittadino che da un grado grande scenda a governare uno minore, che in quello che da uno minore salga a governare un maggiore. Perchè a costui non può ragionevolmente credere, se non li vede nomini intorno, i quali siano di tanta riverenza o di tanta virtù, che la novità di colui possa essere con il censi- , glie ed autorità loro moderata. E quando in Roma fusse stata la consuetudine quale in Vinegia, e nell'altre repubbliche e regni moderni, che chi era stato una volta Consolo, non vo- lesse mai più andare negli eserciti se non Consolo; ne sareb- bono nate infinite cose in disfavore del viver libero; e per gli errori che arebbono fatti gli uomini nuovi, e per 1' ambizione che loro arebbono potuto usare meglio, non avendo uomini intorno, nel cospetto de* quali ei temessino errare; e così sarebbero venuti ad essere più sciolti: il che sarebbe tornato tutto in detrimento pubblico.

Cap. XXXVII. Quali scandali partorì in Roma la legge agraria: e come fare una legge in una repubblica che ris- guardi assai indietro, e sia cbnlra ad una consuetudine antica della città, è scandólosissimo.

Egli è sentenza degli antichi scrittori, come gli uomini / sogliono affliggersi nel male e stuccarsi nel bene; e come f dall' una e dall' altra di queste due passioni nascono i me- desimi efletti. Perchè, qualunque volta è tolto agli uomini il f combattere per necessità, combattono per ambizione: la quale

IGQ DEI DISCORSI

è lanlo potente ne' pelli amani, che mai» a qualunque grado si salgano, gli abbandona. La cagione è, perchè la natura ha creali gli uomini in modo, che possono desiderare ogni cosa, e non possono conseguire ogni cosa: talché, essendo sempre maggiore il desiderio che la polenza dello acquistare, \ oe risulla la mala conlenlezza di quello che si possiede, e la poca satisfazione di esso. Da questo nasco il variare della fortuna loro: perchè desiderando gli uomini, parte di avere più, parie temendo di non perdere lo acquistalo, si viene alle inimicizie ed alla guerra ; dalla quale nasce la rovina di quella provincia, e la esaltazione di queir altra. Questo discorso ho fallo, perchè alla Plebe romana non bastò assicurarsi de' No- bili per la creazione de' Tribuni, al quale desiderio fu con- slrctla per necessità; che lei subilo, ollenulo quello, cominciò a combaltere per ambizione, e volere con la Nobiltà dividere gli onori e le sustanzc, come cosa stimata più dagli aomini. Da questo nacque il morbo che partorì. In contenzione della legge agraria, ed infine fu causa c|e|Ia distruzione della Re- pubblica romana. E perchè le repubbliche bone ordinale hanno a tenere ricco il pubblico, e li loro cittadini poveri; convenne che fosse nella città di Roma difetto in questa legge: la quale o non fosse fatta nel principio in modo che la non si avesse ogni di a rilrallare; o che la si diiTerisse tanto in farla, che fosse scandoloso il riguardarsi indietro; 0 sendo ordinata bene da prima, era stala poi dall' uso cor- rotta: talché, in qualunque modo si fosse, mai non si parlò l di questa legge in Roma, che quella città non andasse sot- ( losopra. Aveva questa legge duoi capi principali. Per 1' uno si disponeva che non si potesse possedere per alcun citta- dino pi(i che tanti iugeri di terra; per l'altro, che i campi di che si privavano i niioici, si dividessino intra il popolo ro- mano. Veniva pertanio a fare di duoi sorte offese ai Nobili: perchè quelli che possedevano più beni * non permelleva la legge (quali erano ta maggior parte de' Nobili), ne avevano ad esser privi; e divedendosi intra la Plebe i beni de' nimici, si toglieva a quelli la via dello arricchire. Sicché, venendo

* Molti cdilori (io credo) qtrf" aggiunsero chej rammoJcrnando , non facendo più bello il discorso.

LIBRO PRIMO. 4C7

ad essere queste offese centra ad uomini polenti , e che pa- reva loro, contrastandola,' difendere il pubblico; qualunque volta, com'è detto, si ricordava, andava sottosopra quella città: ed i Nobili con pazienza ed industriala temporeggiava- no, o con Irar fuora un esercito, o Che a quel Tribuno che la proponeva si opponesse uno altro Tribuno; o talvolta ce- derne parte; ovvero mandare una colonia in quel luogo che si avesse a distribuire: come intervenne del contado di An- zio, per il quale surgendo questa disputa della legge, si mandò in quel luogo una colonia tratta di Roma, alla quale si con- segnasse fletto contado. Dove Tito Livio usa un termine no- tabile, dicendo che condifflcultà si trovò in Roma chi desse il nome per ire in detta colonia: tanto era quella Plebe più pronta a volere desiderare le cose in Roma, che a possederle in Anzio! Andò questo umore di questa legge cosi travaglian- dosi un tempo, tanto che i Romani cominciarono a condurre le loro armi nelle estreme parli di Italia, o fuori di Italia; dopo al qual tempo parve che la restasse. Il che nacque perchè i campi che possedevano i nimici di Roma essendo discosti dagli occhi della Plebe, ed in luogo dove non gli era facile il coltivargli, veniva meno ad esserne desiderosa: ed ancora i Romani erano meno punitori de' loro nemici in si- mil modo; e quando pure spogliavano alcuna terra del suo contado, vi distribuivano colonie. Tanto che per tali cagioni questa legge slette come addormentata infino a' Gracchi: da' quali essendo poi svegliala, rovinò al lutto la libertà ro- mana; perchè la trovò raddoppiala la potenza de' suoi av- versari, e si accese per questo tanto odio intra la Plebe ed il Senato, che si venne all'armi ed al sangue, fuor d'ogni modo e costume civile. Talché, non polendo i pubblici magi- strati rimediarvi, sperando più alcuna delle fazioni in quelli, si ricorse a' rimedi privati, e ciascuna delle parti pensò di farsi un capo che la difendesse. Pervenne in que- sto scandolo e disordine la Plebe, e volse la sua riputazione a Mario, tanto che la lo fece quattro volte Consolo; ed in tanto

* Riferisce , logicamente , alla legge. Quegli editori che ciò non intesero , rassettarono: contrastandole. E che [)oi, senza questa più lontana relazione, reggerebbe il verbo si ricordava?

iCyS DEI DISCORSI

continuò con pochi inlervalli il suo consolalo, che si polellc per se stesso far Consolo tre altre volte. Conlra alla qual peste non avendo la Nobiltà alcuno rimedio, si volse a favo- rir Siila; e fatto quello capo della parte sua, vennero alle guerre civili; e dopo mollo sangue e variar di fortuna, ri- mase superiore la Nobiltà. llìBuscilorono poi questi umori a tempo di Cesare e di Pompeo; perchè, fallosi Cesare capo della parie di Mario, e Pompeo di quella di Siila, venendo alle mani rimase superiore Cesare: il quale fu primo tiranno in Roma; talché mai fu poi lìbera quella città. Tale, adunque, principio e Gne ebbe la legge agraria. E benché noi mo- strassimo altrove, come le inimicizie di Roma intra il Senato e la Plebe mantenessero libera Roma, per nascerne da quelle leggi in favore della libertà; e per questo paia disforme a tale conclusione il fine di questa legge agraria; dico come, per questo, io non mi rimuovo da tale oppinione: perchè egli è tanta V ambizione de* grandi, che se per varie vie ed in vari modi la non è in una città sbattuta, tosto riduce quella città alla rovina sua. In modo che, se la contenzione della legge agraria penò trecento anni a fare Roma serva, si sarebbe condotta, per avventura, mollo più tosto in servitù, quando la Plebe, e con questa legge e con altri suoi appetiti, non avesse sempre frenalo la ambizione de'Nobili. Vedesi per questo an- cora, quanto gli uomini stimano più la roba che gli onori. Perchè la Nobiltà romana sempre negli onori cede senza scandali istraordinari alla Plebe; ma come si venne alla ro- ba, fu tenta ostinazione sua nel difenderla, che la Plebe ricorse, per isfogare l' appetito suo , a quelli istraordinari che di sopra si discorrono. Del quale disordine furono motori i Gracchi; de' quali si debbe laudare più la intenzione che la prudenza. Perchè, a voler levar via uno disordine cresciuto in una repubblica, e per questo fare una legge che riguardi assai indietro, è partito male consideralo; e, come di sopra largamente si discorse, non si fa altro che accelerare quel male a che quel disordine ti conduce: ma temporeggiandolo, 0 il male viene più tardo, o per se medesimo col tempo, avanti che venga al fine suo, si spegne.

LIBRO PRIMO. i69

Gap. XXXVIII. Le repubbliche deboli sono male risolute y e non si sanno deliberare ; e se le pigliano mai alcuno par^ tito, nasce piii da necessità che da elezione.

Essendo in Roma una gravissima pestilenza, e parendo per questo agli Volsci ed agli Equi che fusse venuto il tempo di potere oppressar Roma; fatti questi due popoli uno grossis- simo esercito, assaltorono gli Latini e gliErnici;e guastando il loro paese, furono constrelti gli Latini e gli Ernici farlo in- tendere a Roma, e pregare che fussero difesi da' Romani: ai quali, sendo i Romani gravati dal morbo, risposero che pigliassero partito di difendersi da loro medesimi e con le loro armi, perchè essi non li potevano difendere. Dove si conosce la generosità e prudenza di quel Senato, e come sempre in ogni fortuna volle essere quello che fusse. principe delle deliberazioni che avessero a pigliare 1 suoi; si ver- r gognò mai deliberare una cosa che fusse contraria al suo \ modo di vivere o ad altre deliberazioni fatte da lui, quando la necessità gliene comandava. Questo dico perchè altre volte i il medesimo Senato aveva vietato ai detti popoli l'armarsi e ' difendersi: talché ad un Senato meno prudente di questo, sarebbe parso cadere del grado suo a concedere loro tale di- fensione. Ma quello sempre giudicò le cose come si debbono i giudicare, e sempre prese il meno reo partito per migliore: perchè male gli sapeva non potere difendere i suoi sudditi; ( male gli sapeva che si armassino senza loro, per le ragioni ' dette, e per molte altre che si intendono: nondimeno, cono- scendo che si sarebbono armati, per necessità, a ogni mo- do, avendo il nimico addosso; prese la parte onorevole, e volle che quello che gli avevano a fare, lo facessino con li- cenzia sua, acciocché avendo disubbidito per necessità, non si avvezzassino a disubbidire per elezione. E benché questo paia partito che da ciascuna repubblica dovesse esser preso; nientedimeno le repubbliche deboli e male consigliale non gli sanno pigliare, si sanno onorare di simili necessità. Aveva il duca Valentino presa Faenza, e fatto calare Bolo- gna agli accordi suoi. Dipoi, volendosene tornare a Roma per

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170 DEI DISCORSI

la Toscana, mandò in Firenze uno suo uomo a domandare il passo per e per il suo esercito. Consullossi in Firenze come si avesse a governare questa cosa, fu mai consi- glialo per alcuno di concedergliene. In che non si segui il modo romano: perché, sendo il Duca armatissimo, ed i Fio- rentini in modo disarmali che non gli potevano vietare il passare, era mollo più onore loro, che paresse che passasse con permissione di quelli, che a forza; perchè, dove vi fu al lutto il loro vituperio, sarebbe stato in parte minore quando r avessero governata altrimenti. Ma la più cattiva parte che abbino le repubbliche deboli, è essere irresolute; in modo che lutti i parliti che le pigliano, gli pigliano per forza; e se vien loro fatto alcuno bene, lo fanno forzalo, e non per pru- denza loro, lo voglio dare di questo duoi altri esempi , occorsi ne' tempi nostri nello stalo della nostra città, 'nel millecin- quecento. Ripreso cfie il re Luigi Xll di Francia ebbe Milano, desideroso di rendergli ' Pisa, per aver cinquanta mila duca- ti che gli erano stati promessi da' Fiorentini dopo tale re- stituzione, mandò gli suoi eserciti verso Pisa, capitanati da ( monsignor Beaumonle; benché francese, nondimanco uomo \ ÌD cui i Fiorentini assai confidavano. Condussesi questo eser- (cilo e questo capitano intra Cascina e Pisa, per andare a com- battere le mora; dove dimorando alcuno giorno per ordinarsi alla espugnazione, vennero oratori Pisani a Beaumonle, e gli otTeriroHo di dare la città allo esercito francese con que- sti palli: che, sotto la fede del re, promettesse non la mettere in mano de' Fiorentini, prima che dopo quattro mesi, il quel partito fu dai Fiorentini al tutto rifiutato, in modo che si se- guì nello andarvi a campo, e partissene' con vergogna. fu rifiutato il parlilo per altra cagione, che per diffidare della fede del re; come quelli che per debolezza di consiglio si erano per forza messi nelle mani sue: e dall'altra parie, non se ne fidavano, vedevano quanto era meglio che il re

* La Romaoa pone qni paolo, leggendo t della nostra città. Aet MD. ripreso ec

S L'ediiione stessa t rendervi. lotendasi, reodere alla nostra cittàr^oauti nominata.

' Vale a dire, se ne partì; comspondente all'altro, si segià. La Testina però legge > partirsene.

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LIBRO PRIMO. Ì7Ì

potesse rendere loro Pisa sendovi dentro, e non la rendendo scoprire l'animo suo, che non la avendo, poterla loro pro- mellere, e loro essere forzati comperare quelle promesse. Talché mollo più utilmente arebbono fatto a consentire che Beaumonle l'avesse, sotto qualunque promessa, presa: come se ne vide la esperienza dipoi nel 1502, che essendosi ribel- lalo Arezzo, venne a* soccorsi de' Fiorentini mandato dal re di Francia monsignor Imbalt con gente francese; il qual giunto propinquo ad Arezzo, dopo poco tempo cominciò a pra- ticare accordo con gli Aretini, i quali sotto certa fede volevano dare la terra, a similitudine de'Pisani. Fu riGutato in Firenze tale partito; il che veggendo monsignor Imbalt, è parendo- gli come i Fiorentini se ne intendessino poco, cominciò a tenere le pratiche dello accordo da sé, senza participazione de' Commessari: tanto che e' lo conchiuse a suo modo, e sotto quello con le sue genti se ne entrò in Arezzo, facendo intendere a* Fiorentini come egli erano matti , e non si in- tendevano delie cose del mondo: che se volevano Arezzo, lo facessino intendere al re, il quale lo poteva dar loro molto meglio, avendo le sue genti in quella città, che fuori. Non si reslava in Firenze di lacerare e biasimare detto Imbalt; si restò mai, infino a tanto che si conobbe che se Beaa- monle fusse stato simile a Imbalt, si sarebbe avuto Pisa come Arezzo. E cosi, per tornare a proposito, le repubbliche irresolute non pigliano mai partiti buoni, se non per forza, perchè la debolezza loro non le lascia mai deliberare dove è alcuno dubbio; e se quel dubbio non è cancellato da una vio- lenza che le sospinga, stanno sempre mai sospese.

Gap. XXXIX. In diversi popoli si veggono spesso % medesimi accidenli.

E' si conosce facilmente per chi considera le cose pre- senti e le antiche, come in tutte le città ed in tutti i popoli sono quelli medesimi desideri! e quelli medesimi umori, e come vi furono sempre: in modo che gli è facil cosa a chi esamina con diligenza le cose passale, prevedere in ogni re- pubblica le future, e farvi quelli rimedi che dagli antichi

172 DEI DISCORSI

sono stati osati; o non ne trovando degli usati, pensarne de' nuovi, per la similitudine degli accidenti. Ma perchè que- ste considerazioni sono neglette, o non inlese da chi lesge; o se le sono intese, non sono conosciute da chi governa; ne seguita che sempre sono i medesimi scandali in ogni tempo. Avendo la città di Firenze, dopo il 94, perduto parte dello im- perio suo, come Pisa ed altre terre, fu necessitata a fare guer- ra a coloro che le occupavano. E perchè chi le occupava era ; potente, ne seguiva che si spendeva assai nella guerra, senza alcun frutto: dallo spendere assai ne risultava assai gravezze; dalle gravezze, infinite querele del popolo: e perchè questa guerra era amministrata da uno magistrato di dieci cittadini che si chiamavano i Dieci della guerra, l'universale comin- ciò a recarselo in dispetto, come quello che fusse cagione e della guerra e delle spese di essa; e cominciò a persuadersi che tolto via detto magistrato, fusse tolto via la guerra: tanto che avendosi a rifare, non se gli fecero gli scambi; e lasciatosi spirare, si commisero le azioni sue alla Signoria. Laqual deliberazione fu tanto perniziosa, che non solamente non levò la guerra, come lo universale si persuadeva; ma tolto via quelli uomini che con prudenza la amministravano, ; ne segai tanto disordine, che, oltre a Pisa, si perde Arezzo e molti altri luoghi: in modo che, ravvedutosi il popolo dello r. errore suo, e come la cagione del male era la febbre e non ; il medico, rifece il magistrato de' Dicci. Questo medesimo ( amore si levò in Roma centra al nome de' Consoli: perchè, I veggendo quello Popolo nascere l' una guerra dall' altra, e non poter mai riposarsi; dove e' dovevano pensare che la nascesse dalla ambizione de' vicini che gli volevano opprime- re; pensavano nascesse dall' ambizione de' Nobili, che non polendo dentro in Roma gastigar la Plebe difesa dalla pote- stà tribunizia, la volevano condurre fuori di Roma sotto i Consoli, per opprimerla dove non aveva aiuto alcuno. E pensarono per questo, che fusse necessario o levar via i , Consoli, o regolare in modo la loro potestà, che e' non aves- sino autorità sopra il popolo, fuori in casa. Il primo che tentò questa legge, fu uno Terentillo tribuno; il quale proponeva che si dovessero creare cinque uomini che do^

Libro primo* 173

vessino considerare la potenza de* Consoli, e limitarla. Il che alterò assai la Nobiltà, parendoli che la maiestà dell* im- perio fusse al tutto declinata, talché alla Nobiltà non restasse più alcuno grado in quella Repubblica. Fu nondimeno tanta la ostinazione de* Tribuni, che il nome consolare si spense; e furono in fine conlenti, dopo qualche altro ordine, piutto- sto creare Tribuni con potestà consolare, che i Consoli: tanto avevano più in odio il nome che la autorità loro. E cosi seguitorno lungo tempo, infino che, conosciuto lo errore loro, come i Fiorentini rilornorno ai Dieci, cosi loro ri- creorno i Consoli.

Gap. XL.-'La creazione del decemvirato in Roma, e quello che in essa è da notare: dove si considera, intra molte altre cose, come si può salvare per simile accidente, o appressare una repubblica.

Volendo discorrere particolarmente sopra gli accidenti che nacquero in Roma per la creazione del decemvirato, non mi pare soperchio narrare prima lutto quello che segui per simile creazione, e dipoi disputare quelle parli che sono in esse azioni notabili: le quali sono molte, e di grande considerazione, cosi per coloro che vogliono mantenere una repubblica libera, come per quelli che disegnassino som- metterla. Perchè in tale discorso si vedranno molli errori fatti dal Senato e dalia Plebe in disfavore delia libertà; e molti errori fatti da Appio, capo del decemvirato, in disfa- vore di quella tirannide che egli si aveva presupposto sta- bilire* in Roma. Dopo molte disputazioni e contenzioni se- guite intra il Popolo e la Nobiltà per formare nuove leggi in Roma, per le quah e' si stabilisse più la libertà di quello stato; mandarono, d'accordo, Spurio Postumio con duoi altri cittadini ad Atene per gli essempi di quelle leggi che Solone détte a quella città, acciocché sopra quelle potessero fondare le leggi romane. Andati e tornati costoro, si venne alla crea- zione degli uomini ch'avessino ad esaminare e fermare dette

^ Così nella Testina. L*edicion« del Biado t presuposto stabile i le altre i ài stabilire. ... ,. , , , . ,

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i7i DEI DISCORSI

leggi; e creorno dieci ciUadini per ano anno, tra i quali fu creato Appio Claudio, uomo sagace ed inquieto. E perchè e'potessino senza alcuno rispetto creare tali leggi, si leva- rono di Roma tutti gli altri magistrati, ed in particolare i Tribuni ed i Consoli, e levossi lo appello al Popolo; in modo che tale magistrato veniva ad essere al tutto principe di Ro- ma. Appresso ad Appio si ridusse tutta l'autorità degli altri suoi compagni, per gli favori che gli faceva la Plebe: perchè egli s'era fatto in modo popolare con le dimostrazioni, che pareva meraviglia eh' egli avesse preso si presto una nuova natura e uno nuovo ingegno, essendo stalo tenuto innanzi a questo tempo un crudele persecutore della Plebe. Gover- naronsi questi Dieci assai civilmente, non tenendo più che dodici littori, i quali andavano davanti a quello ch'era in- fra loro preposto. E bench'egli avessino l'autorità assoluta, nondimeno avendosi a punire un cittadino romano per omi- cidio, ' lo citorno nel cons|)etto del Popolo, e da quello lo fecero giudicare. Scrissero le loro leggi in dieci (avole, ed avanti che le confìrmasscro, le messone in pubblico, accioc- ché ciascuno le potesse leggere e dispularle; acciocché si conoscesse se vi era alcuno difetto, per poterle innanti alla conQrmazione loro emendare. Fece, in su questo, Appio na- scere un remore per Roma, che se a questo dieci tavole se n'aggiungessino due altre, si darebbe a quelle la loro per- fezione; talché questa oppinione dette occasione al Popolo di rifare i Dieci per uno altro anno: a che il Popolo si accordò volentieri; si perchè i Consoli non si rifacessino; perché speravano loro potere stare senza Tribuni, sendo loro giudici delle cause, come di sopra si disse. Preso, 'adunque, partito di rifargli, tutta la Nobiltà si mosse a cercare questi onori, ed intra i primi era Appio; ed usava tanta amanita verso la Plebe nel domandarla, che la cominciò ad essere sospetta a suoi compagni: credebanl enim haud graluUam in tanta superbia comilatem fore. E dubitando di opporsegli aperta- mente, diliberarono farlo con arte; e benché e' fusse minore di tempo di tutti, dettone a lui autorità di proporre i futuri Dieci al popolo, credendo eh' egli osservasse i termini degli

' "Là Bhdiaoa soIUnto : per omicida.

ilBUO t>KlMO. i*l^

altri di non proporre se medesimo, sendo cosa inusitata e ignominiosa in Roma. lUe vero impelimenlum prò occasione arripuit;e nominò intra i primi, con meraviglia e dispia- cere di tutti i Nobili: nominò poi nove altri al suo proposito. La qual nuova creazione fatta per uno altro anno, cominciò a mostrare al Popolo ed alla Nobiltà lo error suo. Perchè su- bilo Appio: finem fecU ferendud alienw personce; e cominciò a mostrare la innata sua superbia, ed in pochi di riempiè di suoi costumi i suoi compagni. £ per isbigottire il Popolo ed il Senato, in scambio di dodici littori, ne feciono cento venti. Slette ia paura eguale qualche giorno; ma cominciarono poi ad intrattenere il Senalo,e battere la Plebe: e s'alcuno battuto dall'uno, appellava all'altro, era peggio trattato nell'appella- gione che nella prima causa. In modo che la Plebe, cono- sciuto lo errore suo, cominciò piena di afOizione a riguardare in viso ì Nobili, el inde liberlalis captare auram, unde servilu- lem limendo, in eum slalum rempublicarn adduxeranl. E alia Nobiltà era grata questa loro afflizione, ut ipsi^ la:dio prcB- seniium, Conmles desiderarenl. Vennero i di che termina- vano l'anno: le due tavole delle leggi erano fatte, ma non pubblicate. Da questo i Dieci presono occasione di continovare nel magistrato, e comincìorono a tenere con violenza lo slato, e farsi satelliti della gioventù nobile, alla quale da- vano i beni di quelli che loro condannavano. Quihus donis Juventus corrumpebatur , et malebat licenliam suam, quam om- nium liberlatem. Nacque in questo tempo, che i Sabini ed i Volsci mossero guerra a' Romani: in su la qual paura co- minciarono i Dieci a vedere la debolezza dello stato loro; perchè senza il Senato non potevano ordinarcla guerra, e ragunando il Senato pareva loro perdere lo stato. Pure, ne- cessitati, presono questo ultimo partito; e ragunati i Senatori insieme, molti de' Senatori parlarono contro alla superbia de' Dieci, ed in particolare Valerio ed Orazio: e la autorità loro si sarebbe al tutto spenta, se non che il Senato, per in- vidia della Plebe, non volle mostrare 1* autorità sua, pensando che se i Dieci deponevano il magistrato voluntarii, che po- tesse essere che i Tribuni della plebe non si rifacessero. Dehberossi adunque la guerra; uscissi fuori con due eserciti

ì% DEI DISCORSt

guidati da parte di detti Dieci; Appio rimase a governare la città. Donde nacque che si innamorò di Virginia, e che vo- lendola tórre per forza, il padre Virginio, per liberarla, r ammazzò: donde seguirono ì tumulti di Roma e degli eserciti; i quali ridottisi insieme con il rimanente della Plebe romana, se ne andarono nel Monte Sacro, dove stet- tero tanto che i Dieci deposono il magistrato, e che furono creati i Tribuni ed i Consoli, e ridotta Roma nella forma della antica sua libertà. Notasi, adunque, per questo testo, in prima esser nato in Roma questo inconveniente di creare questa tirannide, per quelle medesime cagioni che na- scono la maggiore parte delle tirannidi nelle città: e questo / è da troppo desiderio del popolo d' esser libero, e da troppo ) desiderio de' nobili di comandare. E quando e' non conven- gono a fare una legge in favore della libertà, ma gettasi qualcuna delle parti a favorire uno, allora è che subito la tirannide surge.' Convennono il Popolo ed i Nobili di Roma I a creare i, Dieci, e òrearli con tanta autorità, per desiderio ' che ciascuna delle parti aveva, T una di spegnere il nome consolare, l'altra il tribunizio. Creali che furono, parendo alla Plebe che Appio fusse diventato popolare e battesse la ^ Nobiltà, si volse il Popolo a favorirlo. E quando on popolo si conduce a far questo errore di dare riputazione ad uno perchè balta quelli che egli ha in odio, e che quello uno sia savio, sempre interverrà che diventerà tiranno di quella città. Perchè egli attenderà, insieme con il favore del popolo, ( a spegnere la nobiltà; e non si volterà mai alla oppressione ' del popolo, se non quando ei 1' ara spenta; nel qual tempo conosciutosi il popolo essere servo, non abbi dove rifuggire. , Questo modo hanno tenuto tutti coloro che hanno fondato ' tirannidi in le repubbliche : e se questo modo avesse tenuto Appio, quella sua tirannide avrebbe preso più vita, e non sa- rebbe mancata si presto. Ma ei fece tutto il contrario, si potette governare più imprudentemente; che per tenere la tirannide, e* si fece inimico di coloro che glie l'avevano data e che gliene potevano mantenere, ed amico di quelli che non erano concorsi a dargliene e che non gliene arebbono V potuta mantenere; e perdessi coloro che gli erano amici, e

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m LIBRO PRIMO. in

cercò di avere amici quelli che non gli potevano essere ami- ci. Perchè, ancora che i nobili desiderino tiranneggiare, quella parte della nobiltà che si truova fuori della tirannide, è sempre inimica al tiranno; quello se la può mai guada- gnare tutta, per l'ambizione grande e grande avarizia che è in lei, non potendo il tiranno avere tante ricchezze tanti onori, che a tutta satisfaccia. E cosi Appio, lasciando il Popolo ed accostandosi a' Nobili, fece uno errore eviden- tissimo, e per le ragioni dette di sopra, e perché a volere con violenza tenere una cosa, bisogna che sia più potente chi sforza, che chi è sforzato. Donde nasce che quelli tiranni che hanno amico lo universale ed inimici i grandi, sono più sicuri; per essere la loro violenza sostenuta da maggior for- ze, che quella di coloro che hanno per inimico il popolo ed amica la nobiltà. Perché con quello favore bastano a conser- varsi le forze intrinseche; come bastorno a Nabide tiranno di Sparta, quando tutta Grecia ed.il popolo romano lo assal- tò: il quale assicuratosi di pochi nobili, avendo amico il po- polo, con quello si difese; il che non arebbe potuto fare avendolo inimico. In quello altro grado, per aver pochi amici dentro, non bastano le forze intrìnseche, ma gli conviene cercare di fuora. Ed hanno ad essere di tre sorti : V una sa- telliti forestieri, che ti guardino la persona; l'altra armare il contado, che faccia queirofllzio che arebbe a fare la plebe; la terza aderirsi co' vicini polenti, che ti difendine. C4hi tiene questi modi e gli osserva bene, ancora eh' egli avesse per inimico il popolo, potrebbe in qualche modo salvarsi. Ma Appio non poteva far questo di guadagnarsi il contado-, sendo una medesima cosa il contado e Roma ; e quel che poteva fare, non seppe: talmente che rovinò ne' primi prin- cipii suoi. Fecero il Senato ed il Popolo in questa creazione del decemvirato errori grandissimi: perchè ancora che di sopra si dica, in quel discorso che si fa del Dittatore, che •quelli magistrati che si fanno da per loro, non quelli che fa il popolo, sono nocivi alla libertà ; nondimeno il popolo debbo, quando egli ordina i magistrati, fargli in modo che gli ab- bino avere qualche rispetto a diventare tristi. E dove e' si debbe proporre loro guardia per mantenergli buoni , i Ro-

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i78 DEI DISCORSI

mani la levorono, facendolo solo magistrato in Roma, ed annullando tulli gli altri, per la eccessiva voglia (come di sopra dicemmo) che il Senato aveva di spegnere i Tribuni, e la Plebe di spegnere i Consoli; la quale gli accecò in mo- do, che concorsono in tale disordine. Perchè gli uomini, come diceva il re Ferrando, spesso fanno come certi minori uccelli di rapina; ne* quali è tanto desiderio di conseguire la loro preda, a che la natura gli incita, che non sentono un altro maggior uccello che sia loro sopra per ammazzargli. IConoscesi, adunque, per questo discorso, come nel principio I proposi, lo errore del Popolo romano, volendo salvare la li- bertà; e gli errori di Appio, volendo occupare la tirannide.

Gap. XLI. Sahare dalla umilia alla superbia^ dalia pietà alla crudellà, ienza debili mezzi^ è cosa imprudente ed inulile.

Oltre agli altri termini male usati da Appio per mante- nere la tirannide, non fu di poco momento saltare troppo presto da una qualità ad un'altra. Pefchè la astuzia sua nello ingannare la Plebe, simulando d'essere uomo popolare, fu bene usata ; furono ancora bene usali i termini che tenne perchè i Dieci si avessino a rifare ; fu ancora bene usata quella audacia di creare se stesso contro alla oppinione delia Nobiltà; fu bene usato creare colleghi a suo proposito: ma non fu già bene usalo, come egli ebbe fatto questo, secondo che di sopra dico, mutare in un subilo natura; e di amico, mostrarsi nimico alla Plebe; di umano, superbo; di facile, diffìcile; e farlo tanto presto, che senza scusa veruna ogni uomo avesse a conoscer la fallacia dello animo suo. Perchè chi è paruto buono un tempo, e vuole a suo proposito diventar tristo, lo debbo fare per gli debiti mezzi; ed in modo con- durvisi con le occasioni, che innanzi che la diversa nalura ti tolga de'favori vecchi, la te ne abbia dati tanti de^li nuovi, che tu non venga a diminuire la tua autorità: altrimenti, tro- ^ yandoli scoperto e senza amici, rovini. . '

LIBRO PRIMO. 479

Gap. XLIl. Quanto gli uomini facilmente si possono corrompere.

Notasi ancora in questa materia del decemvirato, quanto facilmente gli uomini si corrompono, e fannosi diventare di contraria natura, ancora che buoni e bene educati ; consi- derando quanto quella gioventù che Appio si aveva eletta ( intorno, cominciò ad essere amica delia tirannide per uno j poco d' utilità che gliene conseguiva ; e come Quinto Fabio, uno del numero de' secondi Dieci, sendo uomo ottimo, ac- cecato da un poco di ambizione, e persuaso dalla malignità di Appio, mutò i suoi buoni costumi in pessimi, e diventò simile a lui. Il che esaminato bene, farà tanto più pronti i legislatori delle repubbliche o de' regni a frenare gli appe- titi umani, e tórre loro ogni speranza di potere impune errare.

Gap. XLllI. Quelli che combattono per la gloria propria, sono buoni e fedeli soldati.

Gonsiderasi ancora per il soprascritto trattato, quanta differenza è da uno esercito contento e che combalte per ^ la gloria sua, a quello che è male disposto e che combatte . per la ambizione d' altri. Perchè, dove gli eserciti romani so- levano sempre essere vittoriosi sotto i Consoli, sotto i De- cemviri sempre perderono. Da questo essempio si può cono- scere parte' delle cagioni della inutilità de' soldati'mercenarii; j i quali non hanno altra cagione che li tenga fermi, che un / poco di stipendio che tu dai loro. La qual cagione non è ' può essere bastante a fargli fedeli, tanto tuoi amici, che veglino morire per te. Perché in quelli eserciti che non è una alTezione verso di quello per chi e* combattono, che gii facci diventare suoi partigiani, non mai vi potrà essere tanta virtù che basti a resistere ad uno nimico un poco virtuo- so. E perché questo amore non può nascere, questa gara,

* La Romana ha irt^ parte; ne, certo, ajiurdamcnte , ove conoscere inten- dasi per giudicar*.

480 DEI DISCORSI

da altro che da'sodditi tooi; è necessario a volere tenere uno 8(atOf a volere mantenere ana repubblica o uno regno, armarsi de' sudditi suoi: come si vede che hanno fallo lutti quelli che con gli eserciti hann« Ikiti grandi progressi. A\e- vano gli eserciti romani sotto i Dieci quella modcsima virtù: ma perchè in loro non era quella medesima disposizione, non facevano gli asitati loro effetti. Ma come prima il ma- gistrato de' Dieci fa spento, e che loro come liberi comin- ciorno a militare, ritornò io loro il medesimo animo ; e per conseguente, le loro imprese avevano il loro Gne felice» le* condo la antica consuetudine loro.

Gap. XfJV. Una molUludin* tenta capo, è inutih: e non ti dcbbe wìinacciare priWM, § poi chièdere V aulorilà,

£ra la Plebe romana per lo accidente di Virginia ridotta armala nel Monte Sacro. Mandò il Senato suoi ambasciadorì a dimandare con quale autorità egli avevano abbandonali i loro capitani, e ridottisi nel Monte. E tanta era stimata Tau- loriti del Senato, che non avendo la Plebe intra loro capi, Diano si ardiva a rispondere. E Tito Livio dice, che e' non mancava loro materia a rispondere, ma mancava loro chi facesse la risposta. La qual cosa dimonstra appunto la inuti- lità d* una moltitudine senza capo. Il qual disordine fu cono- sciato da Virginio, e per suo ordine si creò venti Tribuni mililari, che fussero loro capo a rispondere e convenire col Senato. Ed avendo chiesto che si mandasse loro Valerio ed Orazio, a' quali loro direbbono la voglia loro, non vi volsone andare se prima i Dieci non deponevano il magistrato : ed arrivati sopra il Monte dove era la Plebe, fa domandalo loro da quella, che volevano che si creassero i Tribuni della plebe, e che si avesse ad appellare al Popolo da ogni magi» strato, e che si dessino loro tutti i Dieci, che gli volevano ardere vivi. Laudarono Valerio ed Orazio le prime loro domande; biasimorono T ultima come impia, dicendo: Crude- lilalem damnalis, in crudeUlalem ruilis ; e consigliarongli che dovessino lasciare il fare menzione de* Dieci, e ch'epli at- lendessioo a pigliare l'autorità e potesCà loro: dipoi non

LIBRO PRIMO. ^81

mancherebbe loro modo a satisfarsi. Dove apertamente si conosce quanta sluUizia e poca prudenza è domandare una > cosa, e dire prima: io voglio far male con essa; perchè non 1 si debbo mostrare l'animo suo, ma vuoisi cercare d'ottenere \ quel suo desiderio in ognijQodo. Perchè e' basta a diman- i ^ dare a uno le armi,^enza dire: io li voglio ammazzare con j t * esse ; polendo poi che tu hai V arme in mano , satisfare allo appetito luo.

Gap. XLV. È cosa di malo essempìo non osservare una legge fatta , e massime dallo autore d' essa : e rinfrescare ogni nuove ingiurie in una città , è a chi la governa danno- sissimo.

Seguito lo accordo, e ridotta Roma in la antica sua for- ma, Virginio citò Appio innanzi al Popolo a difendere la sua causa. Quello comparse accompagnato da molli Nobili. Vir- ginio comandò che fusse messo in prigione. Cominciò Appio a gridare, ed appellare al Popolo. Virginio diceva che non era degno di avere quella appellagione che egli aveva distrut- ta , ed avere per difensore quel Popolo che egli aveva ofTeso, Appio replicava, come e' non aveano a violare quella ap- pellagione eh' egli avevano con tanto desiderio ordinata. Pertanto egli fu incarcerato, ed avanti al di del giudizio am- mazzò se stesso. E benché la scellerata vita di Appio meritasse ogni supplicio, nondimeno fu cosa poco civile violare le leggi, e tanto più quella che era fatta allora. Perchè io non credo che sia cosa di più cattivo essempio in una repubblica, che fare una legge e non la osservare; e tanto più, quanto la * non è osservata da chi 1' ha falla. Essendo Firenze , dopò ^ il XCIV, stata riordinata nel suo stato con l'aiuto di frate Girolamo Savonarola, gli scritti del quale mostrano la dot- trina, la prudenza, la virtù dello animo suo; ed avendo intra l'altre constituzioni per assicurare i cittadini, fatto fare una legge, che si potesse appellare al popolo dalle sentenze che, per caso di stato, gli Otto e la Signoria dessino; la qual legge persuase' più tempo, e con diflìcullà grandissima otten-

* Cioè , il Savonarola.

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182 DEI DISCORSI

ne: occorse che, poco dopo la confirmazione d'essa , furono condennali a morte dalla Signoria per conto di stalo cinque cittadini; e volendo quelli appellare, non furono lasciati, e non fu osservala la legge. Il che tolse più riputazione a quel frate, che nessun altro accidente : perchè, se quella appella- gione era utile, ei doveva farla osservare; s'ella non era utile, non doveva farla vincere. E tanto più fu notalo questo accidente, quanto che il frate in tante predicazioni che fece poi che fu rolla questa legge, non mai o dannò chi 1' aveva rotta, o lo scusò; come quello che dannare non voleva, come cosa che gli tornava a proposito; e scusare non la po- teva. Il che avendo scoperto l' animo suo ambizioso e parti- giano, gli tolse riputazione, e dettegli assai carico. Offende ancora uno stato assai, rinfrescare ogni nello animo de'tuoi cittadini nuovi umori, per nuove ingiurìe che a questo e quello si facciano: come intervenne a Roma dopo il decem- virato. Perchè tutti i Dieci, ed altri cittadini, in diversi tempi furono accusati e condennati: in modo che gli era uno spa- vento grandissimo io tutta la Nobiltà, giudicando che e' non si avesse mai a porre fine a simili condennagìoni, fìno a tanto che tutta la Nobiltà non fosse distrutta. Ed arebbe generalo in quella città grande inconveniente, se da Marco Duellio tribuno non vi fusse stato provveduto; il qual fece uno edit- to, che per uno anno non fusse lecito ad alcuno citare o ac- cusare alcuno cittadino romano: il che rassicurò tutta la No- biltà. Dove si vede quanto sia dannoso ad una repubblica o ad un principe, tenere con le conlinove pene ed offese sospesi e paurosi gli animi de' sudditi. E senza dubbio, non si può tenere il più pernicioso ordine: perchè gli uomini che comin- ciano a dubitare di avere a capitar male, in ogni modo si assicurano ne' pericoli, e diventano più audaci, e meno rispettivi a tentare cose nuove. Però è necessario, o non oìlendere mai alcuno, o fare le offese ad un tratto; e dipoi rassicurare gli uomini, e dare loro cagione di quietare e fermare V animo.

LIBRO PRIMO. d83

Gap. XLVl. Gli uomini salgono da una ambizione ad un' altra ; e prima si cerca non essere offeso, dipoi di offen- dere altrui.

Avendo il Popolo romano ricuperata la libertà, ritornato nel suo primo grado, ed in tanto maggiore , quanto si erano fatte dimolle leggi nuove in corroborazione della sua poten- za; pareva ragionevole che Roma qualche volta quietasse. Nondimeno, per esperienza si vide il contrario; pìerchè ogni di vi surgeva nuovi tumulti e nuove discordie. E perchè Tito Livio prudentissimamente rende la ragione donde que- sto nasceva, non mi pare se non a proposilo riferire appunto le sue parole, dove dice che sempre o il Popolo o la Nobiltà insuperbiva, quando l'altro si umìhava; e stando la Plebe quieta intra i termini suoi, cominciarono i giovani nobili ad ingiuriarla; ed i Tribuni vi potevano fare pochi rimedi , per- chè ancora loro erano violati. La Nobiltà, dall'altra parte, ancora che gli paresse che la sua gioventù fusse troppo fe- roce, nondimeno aveva a caro che avendosi a trapassare il modo, lo Irapassassino i suoi, e non la Plebe. E così il de- siderio di difendere la libertà faceva che ciascuno tanto si prevaleva, eh' egli oppressava l'altro. E 1' ordine di questi accidenti è, che mentre che gli uomini cercano di non te- mere, cominciano a far temere altrui ; e quella ingiuria ch'egli scacciano da loro, la pongono sopra un altro: come se fusse necessario olTendere , o essere offeso. Vedesi , per questo, in quale mpdo, fra gli altri , le repubbliche si risol- vono; e in che modo gli uomini salgono da una ambizione ad un'altra, e come quella sentenza salustiana posta in bocca di Cesare, è' verissima: quod omnia mala exempla bonis iniliis orlasunl. Cercano, come di sopra è detto, quelli cittadini che ambiziosamente vivono in una repubblica, la prima cosa di non potere essere offesi, non solamente dai privati, ma eziam da' magistrali: cercano, per potere fare questo, ami- cizie; e quelle acquistano per vie in apparenza oneste, o con sovvenire di danari, o con difendergli da' polenti: e per-

* L' edizione del Biado : era.

184 DEI DISCuRSI

che qaeslo pare virlaoso , s'ingaona facilmente ciascuno, e per questo non vi si pone rimedio; intanfo che egli senza ostacolo perseverando, diventa di qualità, che i privati cit- tadini ne hanno paura, ed i magistrali gli hanno rispetto. E quando egli è salito a questo grado, e non si sia prima ovviato alla sua grandezza, viene ad essere in termine, che volerlo urlare è pericolosissimo , per le ragioni che io dissi di sopra del pericolo che è nello urtare ano incon- veniente che abbi già fatto augumento in una città: tanto che la cosa si riduce ih termine, che bisogna o cercare di spegnerlo con pericolo di una subita rovina; o lasciandolo fare, entrare in una servitù manifesta, se morte o qualche accidente non le ne libera. Perchè, venato a* soprascritti ter- mini, che i cittadini ed i magistrati abbino paura ad offen- der lai e gli amici suoi, non dura dipoi molta fatica a fare ehe giudichino ed ofTendino a suo modo. Donde una repub- blica intra gli ordini suoi debbe avere questo, di vegghiare che i sooi cittadini sotto ombra di bene non possino far ma- le; e ch'egli abbino quella riputazione che giovi, e non nuoca, ■Ila libertà: come nel suo luogo da noi sarà disputato.

Ca». ICLVII.— Gli uomini, ancora che ti injannino ne*g€nerali, nei parlieolari non ti ingannano.

Essendosi il Popolo romano, come di sopra si dice, re- cato a noia il nome consolare, e volendo che potessino esser fatti Consoli uomini plebei, o che fosse limitata la loro au- torità; la Nobiltà, per non deonestare l'autorità consolare eoo Tana eoo l' altra cosa , prese una via di mezzo , e fu contenta che si creatfioo quattro Tribuni con potestà con- solare, i quali potesaino etiere cosi plebei come nobili. Fu contenta a questo la Plebe, parendogli spegnere il consolato, ed avere io questo sommo grado la parte sua. Nacquene di questo uo caso notabile : che venendosi alla creazione di questi Tribuni, e potendosi creare tutti plebei, furono dal Popolo romano creati tutti nobili. Onde Tito Livio dice que- ste parole: Quorum comiliorum ecentu9 docuil , aliot animo» inconlenlione Uberlalis el honoris, alios secundum deposila

LIBRO PRIMO. ìSo

ccrlamina in incorruplo judicio esse. Ed esaminando donde possa procedere questo, credo proceda che gli uomini nelle cose generali s'ingannano assai, nelle particolari non tanto. Pareva generalmente alla Plebe romana di meritare il con- solato, per avere più parte in la città, per portare più peri- colo nelle guerre, per esser quella che con le braccia sue manteneva Roma libera , e la faceva polente. E parendogli, come é detto, questo suo desiderio ragionevole, volse otte- nere questa autorità in ogni modo. Ma come la ebbe a fare giudizio degli uomini suoi particolarmente, conobbe la de- bolezza di quelli, e giudicò che nessuno di loro meritasse quello che tutta insieme gli pareva meritare. Talché vergo- gnatasi di loro, ricorse a quelli che lo meritavano. Della quale deliberazione meravigliandosi meritamente Tito Livio, dice queste parole: Hanc modesliam, cequilalemque , et allUu- dinem animi, ubi nunc in uno inveneris, qugb tuncpopuU uni- versi fuil? In corroborazione di questo, se ne può addurre uno altro notabile essempio, seguito in Capeva da poi che An- . nibale ebbe rotti i Romani a Canne; per la qual rotta sendo tutta sollevata Italia, Capeva stava ancora per tumultuare, per r odio eh* era intra il Popolo ed il Senato : e trovandosi ih quel tempo nel supremo magistrato Pacuvio Calano, e cono- scendo il pericolo che portava quella città di tumultuare, disegnò con suo grado riconciliare la Plebe con la Nobiltà; e fatto questo pensiero, fece ragunare il Senato, e narrò loro rodio che '1 popolo aveva centra di loro, ed i pericoli che portavano di essere ammazzati da quello, e data la città ad Annibale, sendo le cose de' Romani afflitte: dipoi sog- giunse, ohe se volevano lasciare governare questa cosa a lui, farebbe in modo che si unirebbono insieme; ma gli voleva serrare dentro al palazzo, e eoi fare potestà al popolo di po- tergli gastigare, salvargli. Cederono a questa sua oppinione i Senatori, e quello chiamò il Popolo a conclone, avendo rin- chiuso in palazzo il Senato; e disse com* egli era venuto il tempo di potere domare la superbia della Nobiltà, e vendi- carsi delle ingiurie ricevute da quella, avendogli rinchiusi tutti sotto la sua custodia: ma perchè credeva che loro non Yolessìno che la loro città rimanesse senza governo, era

-16'

186 DEI DISCORSI

necessario, volendo aramazzare i Senatori vecchi, crearne de' nuovi. E per tanto aveva messo tutti gli nomi degli Se- natori in una borsa, e comincerebbe a trargli in loro pre- senza; ed egli farebbe i tratti di mano in mano morire, come prima loro avessino trovato il successore. E cominciato a trarne uno, fu al nome di quello levato un romore grandissi- mo, chiamandolo nomo superbo, crudele ed arrogante: e chiedendo Pacuvio che facessino lo scambio, si racchetò latta la concione; e dopo alquanto spazio, fu nominato uno della plebe; al nome del quale chi cominciò a fischiare, chi a ridere, chi a dirne male in uno modo, e chi in un altro: e cosi seguitando di mano in mano, tulli quelli che furono nominati, gli giudicavano indegni del grado senatorio. In modo che Pacuvio, presa sopra questo occasione, disse: Poi- ché voi giudicate che questa città stia male senza Senato, ed a fare gli scambi a' Senatori vecchi non vi accordate, io penso che sia bene che voi vi riconciliate insieme; perché questa paura in la quale ì Senatori sono slati, gli ara fatti in modo raumiliarc, che quella umanità che voi cercavate altrove, troverete' in loro. Ed accordatisi a questo, ne segui la unione di questo ordine ; e quello inganno in che egli erano si scoperse, come e'furono constretti venire a'particolari. In- gannansi, oltra di questo, i popoli generalmente nel giudicare le cose e gli accidenti di esse; le quali dipoi si conoscono particolarmente, si avveggono di tale inganno. Dopo il 1494,' sendo stati i principi della città cacciali da Firenze, e non vi essendo alcuno governo ordinato, ma piuttosto una certa licenza ambiziosa, ed andando le cose pubbliche di male in peggio; molti popolari veggiendo la rovina della città, e non ne intendendo altra cagione, ne accusavano la ambiziose di qualche potente che nutrisse i disordini, per poter fare uno slato a suo proposito, e tórre loro la libertà: e stavano que- sti tali per le logge e per le piazze, dicendo male di molli cittadini, e minacciandoli che se mai si trovassero de' Si- gnori, scoprirebbono questo loro inganno, e gli gasligarcbbo-

* La Romana ha , eoa idiotismo e secondo prononzia del tempo, i-oi ccr' cavi, e troverrete.

3 Slranamente ncll' edizione del Poggiali : Dopo il 1514>

LIBRO PRIMO. 187

no. Occorreva spesso che de' simili ne ascendeva al supremo magistrato; e come egli era salito in quel luogo, e che e' ve- deva le cose più dappresso, conosceva i disordini donde ' nascevano, ed i pericoli che soprastavano, e la difficullà del \ rimediarvi. E veduto cornei tempi e non gli uomini, causa- vano il disordine, diventava subito d'un altro animo, e d'un' altra fatta; perchè la cognizione delle cose particolari / gli toglieva via quello inganno che nel considerare general- ^ mente si aveva presupposto. Dimodoché, quelli che lo avevano prima, quando era privato, sentito parlare, e vedutolo poi nel supremo magistrato stare quieto, credevano che nasces- se, non per più vera cognizione delle cose, ma perchè fusse stato aggirato e corrotto dai grandi. Ed accadendo questo a molti uomini, e molte volte, ne nacque tra loro un pro- verbio che diceva: Costoro hanno uno animo in piazza, ed uno in palazzo. Considerando, dunque, tutto quello si è dis- corso, si vede come e' si può fare tosto aprire gli occhi a'popoli, trovando modo, veggendo che uno generale gl'ingan- na, ch'egli abbino a descendere a* particolari; come fece Pacuvio in Capeva, ed il Senato in Roma. Credo ancora, che si poésa conchiudere, che mai un uomo prudente non debbe

1^ fuggire il giudizio popolare nelle cose particolari, circa le f distribuzioni de' gradi e delle dignità: perchè solo in questo il popolo non si inganna; e se si inganna qualche volta, , fia si raro, che s* inganneranno più volte i pochi uomini cheaves- sino a fare simili distribuzioni. mi pare superfluo mostrare nel seguente capitolo, Perdine che teneva il Senato per is- gannare * il popolo nelle distribuzioni sue.

Cap. XLVllI. Chi vuole che uno magistrato non sia dato ad un vile o ad un tristo, lo facci domandare o ad un troppo vile e troppo tristo, o ad uno troppo nobile e troppo buono.

Quando il Senato dubitava che i Tribuni con potestà consolare non fussino fatti d' uomini plebei, teneva uno

* Cosi , e assai Lene, al mio credere, la Bladiana, e l'edizione del 1813. Le altre : ingannare.

^88 DEI DISCORSI

de' duoi modi: o egli faceva domandare ai più riputati uomini di Roma; o veramente, peri debiti mezzi, corrompeva qual- che plebeio sordido ed ignobilissimo, che mescolati * con i ple- bei che, di mi<;Iior qualità, per l'ordinario lo domandavano, anche loro lo domandassino. Questo ultimo modo faceva che la Plebe si vergognava a darlo; quel primo faceva che la si vergognava a tòrio. Il che lutto torna a proposito del prece- dente discorso, dove si mostra che il popolo se s'inganna de* generali, de* particolari non s* inganna.

Cap. XLIX. Se quelle città che hanno avuto il principio libero, come Romat hanno difficultà a trovare leggi che le tnanlenghino; quelle che lo hanno immediate servo, ne hanno quasi una impostibilità.

Quanto sia diffìcile, nello ordinare una repubblica, prov- vedere a tutte quelle leggi che la mantenghino libera, lo dimostra assai bene il processo della Repubblica romana: dove non ostante che fussino ordinate di molto leggi da Romolo prima, dipoi da Nuroa, da Tulio Ostilio o Servio, ed ultimamente dai dieci cittadini creali a simile opera ; non- dimeno sempre nel maneggiare quella città si scoprivano nuove necessiti, ed era necessario creare nuovi ordini: come intervenne quando crearono i Censori, i quali furono uno di quelli provvedimenti che aiutarono tenere ' Roma libera, quel tempo ehc la visse in libertà. Perchè, diventati arbitri de' costumi di Roma, furono cagione potissima che i Romani diflerissino più a corrompersi. Feciono bene nel principio della creazione di tal magistrato uno errore, creando quello per cinque anni; ma, dipoi non molto tempo, fu corretto dalla pru- denza di Mamerco dittatore, il qual per nuova legge ridusse detto magistrato a diciotto mesi. Il che i Censori che veg- ghiavano, ebbono tanto per male, che privorno Mamerco del senato: la qual cosa e dalla Plebe e dai Padri fu assai

* L'cdùionc del 1813, e quella del Poggiali: mc/coZafo. Pedantesca cor- rexiooe.

' Così nella Romana; nelle altre: « tenere. Certo io non >o se T Autore ■ctÌTesse o non iscrivetse quell'a: ben so che oM è necessario.

LIBRO PRIMO. 489

biasimala. E perchè la istoria non mostra che Mamerco so ne potesse difendere, conviene o che Io istorico sia difettivo, o gli ordini di Roma in questa parte non buoni: perché non è bene che una repubblica sia in modo ordinala, che un cittadino per promulgare una legge conforme al vivere libero, ne possa essere senza alcuno rimedio offeso. Ma tornando at principio di questo discorso, dico che si debbe, per la crea- zione di questo nuovo magistrato, considerare, che se quelle città che hanno avuto il principio loro libero, e che per se medesimo si è retto, * come Roma, hanno dilTicultà grande a trovar leggi buone per mantenerle libere; non è meraviglia che quelle città che hanno avuto il principio loro immediale servo, abbino, non che difficultà, ma impossibilità ad or- dinarsi mai in modo che le possino vivere civilmente e quietamente. Come si vede che è intervenuto alla città di Firenze; la quale, per avere avuto il principio suo sottoposto allo imperio romano, ed essendo vivuta sempre sotto governo d'altri, stette un tempo soggetta, e senza pensare a se me- desima: dipoi, venula la occasione di respirare, cominciò a fare suoi ordini; i quali sendo mescolati con gli antichi, che erano tristi, non poterono. essere buoni: e così è ita ma- neggiandosi per dugento anni che si ha di vera memoria, senza avere mai avuto stato per il quale ella possa vera- mente essere chiamata repubblica. E queste difficultà che sono state in lei, sono state sempre in tutte quelle città che hanno avuto i principii simili a lei. E benché molte volte, per suffragi pubblici e liberi, si sia dato ampia autorità a po- chi cittadini di potere riformarla; non pertanto mai l'hanno ordinata a comune utilità, ma sempre a proposito della parte loro: il che ha fatto non ordine, ma maggiore disordine in quella città. E per venire a qualche essempio particolare, dico come intra le altre cose che si hanno a considerare da uno ordinatore d'una repubblica, è esaminare nelle mani . J^^ di quali uomini ei ponga l'autorità del sangue centra de' suoi ^^^^\v cittadini. Questo era bene ordinalo in Roma, perchè e' si /^'t*^^*^ poteva appellare al Popolo ordinariamente: e se pure fusse occorsa cosa importante, dove il differire la esecuzione me-

* Male nella Testina, e in altre edizioni : rotto, ì M^ .

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190 DEI DISCORSI

dianle la appellagione fusse pericoloso, avevano il refugio del Ditlatore, il quale eseguiva immediate; al qual rimedio non rifuggivano mai, se non per necessità. Ma Firenze, e r altre città nate nel modo di lei, sendo serve, avevano que- sta autorità collocata in un forestiero, il quale mandato dal principe faceva tale utTizio. Quando dipoi vennuno in libertà, mantennero questa autorità in un forestiero, il quale chia- mavano Capitano: il che, per potere essere facilmente cor- rotto da'cittadini potenti, era cosa perniciosissima. Ma dipoi, mutandosi per la mutazione degli stati questo ordine, creorno otto cittadini che facessino l'ulTizio di quel Capitano. Il quale ordine, di cattivo, diventò pessimo, per le cagioni che altre volte sono dette; che ì pochi furono sempre ministri de' pochi, e de' più potenti. Da che si è guardata la città di Vinegia; la quale ha dieci cittadini, che senza appello pos- sono punire ogni cittadino. E perchè e'noo bastercbbono a punire i potenti, ancora che ne avessino autorità, vi hanno constilaito le Quarantie:ed| più, hanno voluto che il Consi- glio de' Pregai, che è il Consiglio maggiore, possa gastigargli; in modo che non vi mancando lo accusatore, non vi manca il giudice a tener gli uomini potenti a freno. Non é adunque meraviglia, reggendo come in Roma, ordinata da se mede- sima e da tanti uomini prudenti, surgevauo ogni di nuovo cagioni perle quali si aveva a fare nuovi ordini in favore del viver libero; se nell' altre città che hanno più disordinato principio, vi surgano tali dilTIcullà, che le non si possino riordinar mai.

Cap. L. Non dehbe uno consiglio o uno magislralo potere fermare le osion» della ciuà.

Erano consoli in Roma Tito Quinzio Cincinnalo e Gneo Giulio Mento, i quali sendo disuniti, avevano ferme tutte le azioni di quella Repubblica. Il che veggendo il Senato, gli confortava a creare il Dittatore, per fare quello che per le discordie loro non poteva fare. Ma i Consoli discordando in ogni altra cosa, solo in questo erano d'accordo, di non voler creare il Dittatore. Tanto che il Senato, non avendo

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LIBRO PIUMO. J91

altro rimedio, ricorse allo aiuto de'Tribuni; i quali, con V au- torità del Senato, sforzarono i Consoli ad ubbidire. Dove si ha a notare, in prima, la utilità del tribunato; il quale non era solo utile a frenare l'ambizione che i potenti usavano contra alla Plebe, ma quella ancora ch'egli usavano infra loro: . r altra, che mai si debba ordinare in una città, che i pochi possino tenere alcuna deliberazione di quelle che ordinaria- mente sono necessarie a mantenere la repubblica. Yerbi- grazia, se tu dai una autorità ad uno consiglio di fare una distribuzione di onori e d' utile, o ad uno magistrato di am- ministrare una faccenda; conviene o imporgli una necessità perchè ei l'abbia a fare in ogni modo; o ordinare, quando non la voglia fare egli, che la possa e debba fare un altro : altrimenti, questo ordine sarebbe difettivo e pericoloso; come si vedeva che era in Roma, se alla ostinazione di quelli Consoli non si poteva opporre l'autorità de'Tribuni. Nella Re- pubblica veneziana il Consiglio grande distribuisce gli onori e gli utili. Occorreva alle volte che l'universalità, per isde-/ gno o per qualche falsa suggestione, non creava i succes-j sori ai magistrati della città, ed a quelli che fuori ammini- stravano lo imperio loro. Il che era disordine grandissimo : perchè in un tratto , e le terre suddite e la città propria mancavano de' suoi legittimi giudici; si poteva ottenere cosa alcuna, se quella universalità di quel Consiglio non si satisfaceva, o non s'ingannava. Ed avrebbe ridotta questo inconveniente quella città a mal termine , se dagli cittadini prudenti non vi si fusse provveduto: 1 quali, presa occasione conveniente, fecero una legge , che tutti 1 magistrati che sono 0 fussino dentro e fuori della città, mai vacassero, se non quando fussino fatti gli scambi ed i successori loro. E così si tolse la comodità a quel Consiglio di potere, con pericolo delfa repubblica, fermare le azioni pubbliche.

Cap. li. Una repubblica o uno principe debbe mostrare di fare per liberalità quello che la necessità lo constringe.

Gli uomini prudenti si fanno grado sempre delle cose , in ogni loro azione, ancora che la necessità gli constringesse

19^ DEI DISCORSI

a farle in ogni modo. Questa prudenza fu usala bene dal Se- nato romano, quando ei deliberò che si desse lo stipendio del pubblico agli uomini che militavano, essendo consueti mili- tare del loro proprio. Ma veggendo il Senato come in quel modo non si poteva fare lungamente guerra , e per questo non potendo assediare terre, condarre gli eserciti dis- costo; e giudicando essere necessario poter fare l'uno e l'altro; deliberò che si dessino detti stipendi: ma lo feciono in modo che si fecero grado di quello a che la necessità gli conslringeva; e fu tanto accetto alla Plebe questo presen- i le, che Roma andò sottosopra per la allegrezza , parendole 1 ODO benefizio grande, quale mai speravano di avere, e quale mai per loro medesimi arebbono cerco. E benché i Tribuni s'ingegnassero di cancellare questo grado, mostrando corno ' ella era cosa che agsravava, non alleggeriva, la Plebe, sendo necessario porre i tributi per pagare questo stipendio; nien- tedimeno non potevano fare (aoto che la Plebe non lo avesse accetto: il che fu ancora augumentato dal Senato per il modo che distribuivano i tributi ; perché i più gravi ed i maggiori furono quelli ch'e'posono alla Nobiltà, e gli primi che furono pagati.

Cap. Lll. À reprimere la insolenza di uno che lurga m una repubblica polenie, non vt è più tecuro e meno tcandoloso nuHio, che preoccuparli quelle vie per le quali €* vitnt a quella polensa.

Vedesi per il soprascritto discorso, quanto credilo acqui- staste la Nobiltà con la Plebe per le dimostrazioni fatte in benefìzio suo, si del stipendio ordinalo, si ancora del modo del porre i tributi. Nel quale ordine se la Nobiltà si fosse mantenuta , si sarebbe levalo via ogni tumulto in quella città, e sarebbesi tolto ai Tribuni quéTcredìlo che egli ave- vano con la Plebe, e, per conseguente, quella autorità. E ve- ramente, non si può in una repubblica, e massime in quelle che sono corrotte, con miglior modo, meno scandaloso e più facile, opporsi alla ambizione di alcuno cittadino, che preoccuparli quelle vie, per le quali si vede che esso cam-

LIBRO PRIMO. 193

mina per arrivare al grado che disegna. Il qual modo se fusse stalo usato contra a Cosimo de' Medici, sarebbe slato miglior parlilo assai per gli suoi avversari, che cacciarlo da Firenze: perchè, se quelli cittadini che gareggiavano seco avessino preso lo stile suo di favorire il popolo, gli venivano senza tumulto e senza violenza a trarre di mano quelle ar- m^I me di che egli si valeva più. Piero Soderini si aveva fatto puA^ ripuTàzione nella città di Firenze con questo solo di favorire r9^A l'universale: il che nello universale gli dava riputazione, /

come amatore della libertà della città. E veramente, a quelli ^ cittadini che portavano invidia alla grandezza sua, era mollo (>^^ ^ più facile, ed era cosa mollo più onesta, meno pericolosa, e ^^t I meno dannosa per la repubblica, preoccupargli quelle vie' *'^ con le quali si faceva grande, che volere contrapporsegli , acciocché con la rovina sua rovinasse tutto il resto della f' i'*^ repubblica: perché, se gli avessero levale di mano quelle .j|^^ (; armi con le quali si faceva gagliardo (il che potevano fare .,. facilmente), arebbono potuto in lutti i consigli, e in tutte le ^'^/ deliberazioni pubbliche, opporsegli senza sospetto, e senza A ^♦^ rispetto alcuno. E se alcuno replicasse, che se i cittadini che odiavano Piero, feciono errore a non gli preoccupare le vie con le quali ei si guadagnava riputazione nel popolo , Piero ancora venne a fare errore, a non preoccupare quelle vie per le quali quelli suoi avversari lo facevano temere; di'* che Piero merita scusa, si perchè gli era diffìcile il farlo, perchè le non erano oneste a lui : imperocché le vìe con le quali era otfeso, erano il favorire i Medici; con li quali favori essi lo battevano, e alla fine lo rovinorno. Non poteva, per- tanto, Piero onestamente pigliare questa parte, per non po- tere distruggere con buona fama quella libertà alla quale egli era stato preposto a guardia : dipoi, non potendo questi favori farsi segreti e ad uno tratto, erano per Piero pericolosissimi; perchè comunche ei si fusse scoperto amico de' Medici, sa- rebbe diventato sospetto ed odioso al popolo : donde ai nimici suoi nasceva mollo più comodità di opprimerlo, che non avevano prima. Debbono, pertanto, gli uomini in ogni partito

< Tutte le edizioni hanno di chey lasciando così il periodo senza risolu- zione.

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VH DEI DISCORSI

considerare i dlfcltì ed i perìcoli quello ^ e non gli |>ren- dere, qunndo vi sia più del pericoloso che dell' ulile; non- ostante che ne fusse stala data sentenza conforme alla deli- herazion loro. Perché , facendo altrimenti , in questo caso interverrebbe a quelli come intervenne a Tullio; il quale vo- lendo tórre i favori a Marc* Antonio, gliene accrebbe. Perchè, sondo Marc' Antonio stato giudicato inimico del Senato, ed avendo quello grande esercito insieme adunato, in* buona parte, dei soldati che avevano seguitalo la parte di Cesare; Tullio, per (órcli questi soldati, confortò il Senato a dare ri- putazione ad Ottaviano, e mandarlo con lo esercito e con i Consoli contra a Marc' Antonio: allegando, che subito che ì soldati che seguitavano Marc'Antonio, sentissino il nome di Ottaviano nipote di Cesare, e che si faceva chiamar Cesare, lascerebbono quello, e si accosterebbono a costui ; e cosi re- ttalo Marc' Antonio ignudo di favorì, sarebbe facile lo oppri- lucrlo. La qual cosa riusci tutta al contrario; perchè ^Marc'An- (onio guadagnò Ottaviano; e lasciato Tullio ed il Senato, si accostò a lui. La qual cosa fu al tutto la deslruzione della parte degli Ottimali. Il che era facile a conicttnrare : si doveva credere quel che si persuase Tullio, ma tener sempre conto di quel nome che con tanta gloria aveva spenti i ni- roici suoi, ed acquistatosi il principato in Roma; si dovca credere mai potere, o da suoi credi o da suoi fautori, avere cosa che fosse conforme al nome ' libero.

Caf. lui. Il popolo molle volte desidera la rovina tua, in- gannalo da una falsa spezie di bene: e come le grandi spe- ranze e gagliarde promesse facilmenle lo muovono.

Espugnala che fu la città de' Veienti, entrò nel Popolo romano una oppinione, che fusse cosa utile per la città di Roma, che la metà de' Romani andasse ad abitare a Veìo; argomentando che, per essere quella città ricca di contado, piena di edifizii e propìnqua a Roma , si poteva arricchire

* Così ancora nella Testina; io il perchè nelle più moderae leggasi di. Cosi in tutte le edisioni ; non senza sospetto però , chi di tali initeria conoscasi , che 1' Autore avesse scritto t'n-er

LIBRO PRIMO. 495

la raelà de'cilladini romani, e non lurLare per la propin- quità del silo nessuna azione civile. La qual cosa parve al Senato ed a' più savi Romani tanto inutile e tanto dannosa, che liberamente dicevano, essere piuttosto per patire la mor- te, che consentire ad una tale deliberazione. In modo che, venendo questa cosa in disputa, si accese tanto la Plebe cen- tra al Senato, che si sarebbe venuto alle armi ed al sangue, se il Senato non si fosse fatto scudo di alcuni vecchi e sti- mati cittadini ; la riverenza de' quali frenò la Plebe, che la non procede più avanti con la sua insolenza. Qui si hanno a notare due cose. La prima, che *1 popolo molle volte, in- gannato da una falsa immagine di bene, desidera la rovina sua; e se non gli è fatto capace, come quello sia male, e quale sia il bene, da alcuno in chi esso abbia fede, si pone in le repubbliche * infìniti pericoli e danni. £ quando la sorte fa che il popolo non abbi fede in alcuno, come qualche volta occorre, sendo stato ingannato per lo addietro o dalle cose 0 dagli uomini ; si viene alla rovina di necessità. £ Dante dice a questo proposito, nel discorso suo che fa De Monarchia, che il popolo molte volte grida viva la sua morte , e muoia la sua vita. Da questa incredulità nasce, che qualche volta in le repubbliche i buoni partiti non si pigliano: come di sopra si disse de' Veneziani, quando assaltali da tanti inimici non poterono prendere partito di guadagnarsene alcuno con la restituzione delle cose lolle ad altri (per le quali era mosso loro la guerra, e fatta la congiura de' principi loro contro) , avanti che la rovina venisse. Pertanto, considerando quello che è facile o quello che è diffìcile persuadere ad un popolo, si può fare questa distinzione: o quel che tu hai a persua- dere rappresenta in prima fronte guadagno, o perdila; o veramente pare partilo animoso, o vile: e quando nelle cose che si mettono innanzi al popolo, si vede guadagno, an- cora che vi sia nascosto sotto perdila ; e quando e' paia animoso , ancora che vi sia nascosto sotto la rovina della repubblica, sempre sarà facile persuaderlo alla moltitudi- ne: e cosi tìa sempre dilTicile persuadere quelli partili

* La comune delle stampe : in la repubblica.

196 BEI DISCORSI

dove apparisce o viltà ' o perdila , ancoraché vi fusse na- scosto sotto salute e guadagno. Questo che io ho detto, si conferma con infiniti esempi, romani e forestieri, moderni ed antichi. Perchè da questo nacque la malvagia opinione che surse in Roma di Fahio Massimo, il quale non poteva persuadere al Popolo romano, che fusse utile a quella Repub* blica procedere lentamente in quella guerra , e sostenere senza azzuffarsi l'impeto di Annibale; perchè quei Popolo giudicava questo partito vile, e non vi vedeva dentro quella Qlililà vi era ; Fabio aveva ragioni bastanti a dimostrarla loro: e tanto sono i popoli accecati in queste oppinioni gagliar- de, che benché il Popolo romano avesse fallo quello errore di dare autorità al Maestro de'cavalli di Fabio di potersi az- zuffare, ancora che Fabio non volesse ; e che per tale auto- rità il campo romano fusse per esser rotto, se Fabio con la saa prudenza non vi rimediava ; non gli bastò questa espe- . rienza, che fece dipoi consolo Varrone, non per altri suoi meriti che per avere, per tutte le piazze e tutti i luoshi pub- blici di Roma, promesso di rompere Annibale, qualunque ▼olla gliene fosse data autorità. Di che ne nacque la zoflTa e rotta di Canne, e presso che la rovina di Roma. Io voglio addurre a questo proposito ancora uno altro essempio romano. Era stalo Annibale in Italia otto o dieci anni, aveva ripieno di occisione de' Romani tutta questa provincia, quando venne in Senato Marco Centenio Penula, nomo vilissimo (nondi- manco aveva avuto qualche grado nella milizia), ed ofTersegli, che se gli davano autorità di potere fare esercito di uomini volontari in qualunche luogo volesse in Italia, ei darebbe loro, in brevissimo tempo, preso o morto Annibale. Al Senato parve la domanda di costui temeraria ; nondimeno ei pen- sando che s'ella se gli negasse, e nel popolo si fusse dipoi saputa la sua chiesta, che non ne nascesse qualche tumulto^ invidia e mal grado contro all' ordine senatorio, gliene con- cessono: volendo più tosto mettere a pericolo tutti coloro che lo seguitassino, che fare surgere nuovi sdegni nel Po- polo; sappiendo quanto simile partilo fusse per essere accetto, e quanto fusse diflìcile il dissuaderlo. Andò, adunque, costui

' Male nella Teslina, e tirila ec^izione Jel Poggiili: nlilila.

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con una moltitudine inordinata ed incomposita a trovare Annibale; e non gli fu prima giunto all'incontro, che fu con tutti quelli che lo seguitavano rotto e morto. In Grecia, nella città di Atene, non potette mai Nicia, uomo gravissimo e prudentissimo , persuadere a quel popolo, che non fusse bene andare ad assaltare Sicilia: talché, presa quella delibe- razione contra alla voglia de' savi, ne seguì al tutto la ro- vina di Atene. Scipione quando fu fatto consolo, e che desi- derava la provincia di Affrica, promettendo al tutto la rovina di Cartagine; a che* non si accordando il Senato per la sen- tenza di Fabio Massimo, minacciò di proporla nel Popolo, come quello che conosceva benissimo quanto simili delibera- zioni piaccino a' popoli. Potrebbesi a questo proposito dare esempi della nostra città: come fu quando messere Ercole Bentivogli, governadore delle genti fiorentine, insieme con Antonio Giacoraini, poiché ebbono rotto Bartolommeo d'Al- viano a San Vincenti, andarono a campo a Pisa; la qual im- presa fu deliberata dal popolo in su le promesse gagliarde di messer Ercole, ancora che molti savi cittadini la biasi- massero: nondimeno non vi ebbero rimedio, spinti da quella universale volunlà, la qual era fondata in su le promesse gagliarde del governadore. Dico, adunque, come non è la più facile via a fare rovinare una repubblica dove il popolo abbia autorità, che metterla in imprese gagliarde: perché, dove il popolo sia di alcuno momento, sempre fieno accettate; vi ara, chi sarà d'altra oppinione, alcuno rimedio. Ma se di questo nasce la rovina della città, ne nasce ancora , e più spesso, la rovina particolare de' cittadini che sono preposti a simili imprese : perchè, avendosi il popolo presupposto la vittoria, come e' viene la perdita, non ne accusa la for- tuna, né la impotenza di chi ha governato, ma la tristizia e la ignoranza sua ; e quello il più delle volte o ammazza, o imprigiona, o confina : come intervenne a infiniti capitani Cartaginesi, ed a molti Ateniesi. giova loro alcuna vittoria che per lo addietro avessino avuta, perchè tutto la presente perdita cancella : come intervenne ad Antonio Giacomini nostro, il quale non avendo espugnata Pisa, come il popolo

* Inlenùi, noti come alla quale, ma come a lai cosa j e il senso corrcri.

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198 DEI DISCORSI

si aveva presupposto ed egli promesso , venne in tenia dis- grazia popolare , che non ostante infinite sue buone opere passate, visse più per umanità di coloro che ne avevano au- torità, che per alcun' altra cagione che noi popolo lo di- fendesse.

Gap. LW,— Quanta autorità abbia uno uomo grande a frenare una moltitudine concitata.

Il secondo notabile sopra il testo nel superiore capitolo allegato, è, che veruna cosa è tanto atta a frenare una mol- titudine concitata, quanto è la riverenza di qualche uomo grave e di autorità, che se le faccia incontro; senza ca^ gione dice Virgilio:

Ttim pieimU gravem ac meritis ti forte vinim qttem Conspexere , sileni, arrectisqiie murtbus adstant.

Per tanto, quello che è proposto a uno esercito, o quello che si trova in una città, dove nascesse tumulto , debbe rappre- sentarsi in su quello con maggior grazia e più onorevol- mente che può, mettendosi intorno le insegne di quel grado che tiene, per farsi più reverendo. Era, pochi anni sono , Firenze diviso * in due fazioni. Fratesche ed Arrabbiate, che cosi si chiamavano; e venendo all'arme, ed essendo superati i Frateschi, intra i quali era PagolantonioSoderini, assai in quelli tempi riputato cittadino; ed andandogli in quelli tumulti il popolo armato a casa per saccheggiarla; messer Francesco suo fratello, allora vescovo di Volterra, ed oggi cardinale, si trovava' a sorte in casa: il quale, subito sentito il romore e veduta la turba, messosi i più onorevoli panni indosso,edi sopra il rocchetto episcopale, si fece incontro a quelli armati, e con la persona e con le parole gli fermò; la qual cosa fu per tutta la città per molti giorni notata e celebrata. Conchiudo, adunque, come e'non è il più fermo il più necessario rime-

* I Fiorentini toglion fare il nome della lor patria del genere matcolioo. « Gli è por bello (dirà un uomo del popolo) questo Firenze I » Al che non La- darono gli editori toscani della Tetlioa, il Poggiali ed altri, che correggono dit>isa.

' La Testina e il Poggiali : // lrot>i.

LIBRO PRIBIO. 199

dio a frenare una moltitudine concilala, che la presenza d'uno uomo che per presenza paia e sia reverendo. Vedesi, adun- que, per tornare al preallegalo lesto, con quanta ostinazione la Plebe romana accettava quel parlilo d'andare aVeio, per- chè lo giudicava utile, vi conosceva sotto il danno vi era ; e come nascendone assai tumulti, ne sarebbero * nali scanda- li, se il Senato con uomini gravi e pieni di riverenza non avesse frenato il loro furore.

Gap. LV. Quanlo facilmente si conduchino le cose in quella cillà dove la moUiludine non è corrolla: e che dove è equalità, non si può fare principato; e dove la non è, non si può fare repubblica.

Ancora che di sopra si sia discorso assai quello sia da temere o sperare delle città corrotte; nondimeno non mi pare fuori di proposito considerare una deliberazione del Senato circa il voto che Cammillo aveva fatto di dare la decima parte ad Apoiline della preda de' Veienti: la qual preda sendo venuta nelle mani delia Plebe romana, se ne polendo altrimenti riveder conto, fece il Senato uno editto , che ciascuno dovesse rappresentare al pubblico la decima parte di quello gli aveva predalo. E benché tale deliberazione non avesse luogo, avendo dipoi il Senato preso altro modo, e per altra via satisfatto ad Apolline in satisfazione della Plebe; nondimeno si vede per tali , deliberazioni quanto quel Senato confidasse nella bontà di quella, e come e' giudicava che nessuno fusse per non rappresentare appunto tutto quello che per tale editto gli era comandalo. E dall'altra parte si vede, come la Plebe non pensò di fraudare in alcuna parte lo edillo con il dare meno che non doveva , ma di liberarsi da quello con il mostrarne aperte indignazioni. Questo essem- pio, con molti altri che di sopra si sono addotti, mostrano quanta bontà e quanta religione fusse in quel Popolo, e quanlo bene fusse da sperare di lui. E veramente, dove non è questa bontà, non si può sperare nulla di bene; come non si può sperare nelle provincia che in questi tempi si veggono

* La Romana : sarebbe.

200 DEI DISCORSI

\ corroUe: come é la Italia sopra (atte le altre; ed ancora la ' Francia e la Spagna di tale corruzione ritengono parte. E se in ' qaelle provincie non si vede tanti disordini quanti nascono in Italia ogni di, deriva non tanto dalla bontà de'popoli, la quale in baona parte è mancata ; quanto dallo avere uno re che gli I mantiene uniti , non solamente perla virtù sua, ma per Tor- \ dine di quelli regni, che ancora non sono guasti. Vedesi bene I nella provincia della Magna, questa bontà e queslaxeI|gjone ancora in queTTì popoli esser grande ; la qual fa che molte repubbliche vi vìvono libere, ed in modo osservano le loro leggi» che nessuno di fuori di dentro ardisce occuparle. E che sia vero che in loro regni buona parte di quella antica bontà , io ne voglio dare uno cssempio simile a questo detto di sopra del Senato e della Plebe romana. Usano quelle repub- bliche, quando gli occorre loro bisogno di avere a spendere alcuna quantità di danari per conto pubblico , che quelli magistrati o consigli che ne hanno autorità, ponghinoa tutti gli abitanti della città uno per cento, o dua , di quello che ciascuno ha di valsente. E fatta tale deliberazione secondo l'ordine della terra, si rappresenta ciascuno dinanzi agli ese- cutori di tale imposta; e, preso prima il giuramento di pagare la conveniente somma , getta in una cassa a ciò deputata quello che secondo la conscienza sua gli pare dover pagare: del qual pagamento non è testimonio alcuno, se non quello che paga. Donde si può conietturare, quanta bontà e quanta religione sia ancora in quelli uomini. E debbesi stimare che ciascuno paghi la vera somma : perchè, quando la non si pa- . gasse, non gitterebbe la imposizione quella quantità che loro disegnassero secondo le antiche che fussino usitale riscuo- \ tersi ; e non gittando, si conoscerebbe la fraude; e conoscen- dosi, arebbon preso altro modo che questo. La quale bontà è tanto più da ammirare in questi tempi , quanto ella è più rara: anzi si vede essere rimasa sola in quella provincia. Il che nasce da due cose: Puna, non avere avuti commerzi grandi co' vicini ; perchè quelli sono iti a casa loro ,

(essi sono iti a casa altrui ; perché sono stati contenti di quelli beni, e vivere di quelli cibi, vestire di quelle lane che il paese: d' onde è stata tolta via la cagione d'ogni conversa-

LIBRO PRIMO. 201

zione, ed il principio di ogni corrullela; perchè non hanno possuto pigliare i coslumi franciosi spagnuoli italiani, le quali nazioni tutte insieme sono la corrultela del mondo. V altra cagione è, che quelle repubbliche dove si è mantenuto il vivere politico ed incorrotto, non sopportano che alcuno loro cittadino sia, viva ad uso di gentiluomo: anzi mantengono infra loro una pari cqualilà, ed a quelli si- gnori e gentiluomini che sono in quella provincia, sono ini- j micissimi ; e se per caso alcuni pervengono loro nelle mani, come principi* di corruttela e cagione di ogni scandalo, gli ammazzano. E per chiarire questo nome di gentiluomini quale e' sia , dico che gentiluomini sono chiamati quelli I che ociosi vivono de* proventi delle loro possessioni ab- i bondantemente, senza avere alcuna cura o coltivare, J 0 di alcuna altra necessaria fatica a vivere. Questi tali sono | perniciosi in ogni repubblica ed in ogni provincia ; ma ' più perniciosi sono quelli che, oltre alle predette fortune, comandano a castella, ed hanno sudditi che ubbidiscono a loro. Di queste due sorti di uomini ne sono pieni il regno di Napoli, terra di Roma, la Romagna e la Lombardia. Di qui nasce che in quelle provincie non è mai stata alcuna repub- blica , alcuno vivere politico ; perché tali generazioni di uomini sono al tutto nemici d'ogni civiltà. Ed a volere in Provincie fatte in simil modo introdurre una repubblica, non sarebbe possibile: ma a volerle riordinare, se alcuno ne fusse arbitro, non arebbe altra via che farvi un regno. La ragione è questa, che dove è tanto la materia corrotta che le leggi non bastino a frenarla , vi bisogna ordinare insieme co» quelle maggior forza; la quale è una mano regia, che con la potenza assoluta ed eccessiva ponga freno alla eccessiva ambizione *e corruttela de' potenti. Verificasi questa ragione con lo esempio di Toscana : dove si veae in poco spazio di terreno stale longamente tre repubbliche, Firenze, Siena e Lucca ; e le altre città di quella provincia essere in modo ser- ve, che, con l'animo e con 1' ordine, si vede o che le man-

* Così nella Romana e nella Testina, la quale, a meglio fuggir l*equivoro scrive Principi. Pare che non intendessero 1' ardita locuzione ((lu'gli editori che, posero principii e principj.

202 DEI DISCORSI

tengono, o che le vorrebbono mantenere la loro libertà. Tutto è nato per non essere in quella provincia alcun si- gnore di castella, e nessuno o pochissimi gentiluomini; ma esservi tanta equalilà, che facilmente da uno uomo prudente, e che delle antiche civilità avesse cognizione, vi si introdur- rebbe un viver civile. Ma lo infortunio suo è stato tantt* grande, che infìno a questi tempi non ha sorlilo alcuno uomo che lo abbia potuto o saputo fare. Trassi * adunque di questo discorso questa conclusione : che colui che vuole fare dove sono assai gentiluomini una repubblica, non la può fare se prima non gli spegne lutti : e che colui che dove è assai equalità vuole fare uno regno o uno principato, non lo potrà mai fare se non trae di quella equalilà molli di animo am- bizioso ed inquieto, e quelli fa gentiluomini io fatto, e non in nome, donando loro castella e possessioni, e dando loro favore di suslanze e d'uomini; acciocché, posto in mezzo di loro, mediante quelli mantenga la sua potenza; ed essi, me- .diante quello, la loro ambizione; e gli altri siano constretti a «IQpporlare quel giogo che la forza, e non altro mai, può far ^ Sopportare loro. Ed essendo per questa via proporzione da chi sforza a chi è sforzato, stanno fermi gli uomini ciascuno nello ordine loro. £ perchè il fare d'una provincia alla ad essere regno una repubblica, e d'una atta ad essere repub- blica farne un regno, é materia da uno uomo che per cervello e per autorità sia raro; sono slati molli che Io hanno voluto fare, e pochi che lo abbino saputo condurre. Perché la gran- dezza della cosa parte sbigottisce gli uomini, parte in modo gli 'mpedisce, che ne' primi principii mancano. Credo che a questa mia oppinione, che dove sono gentiluomini non si possa ordinare repubblica, parrà contraria la esperienza della Repub- blica veneziana, nella quale non usano avere aUuno grado se non coloro che sono gentiluomini. A che si risponde, come questo essempio non ci fa alcuna oppugnazione, perchè i gen- tiluomini in quella Repubblica sono più in nome che in fatto; perchè loro non hanno grandi entrale di possessioni, sondo

* La «ola edizione del Poggiali, tra le consuìlate da noi, ha Traesi. Gli amatori, o persuasi della necessità d* innovare nella nostra ortografìa, avreb- bero qui posto Tra'ssi o Trassi.

LIBRO PRIMO. 293

le loro ricchezze grandi fondale in sulla mercanzia e cose mobili ; e di più, nessuno di loro tiene castella, o ha alcuna iurisdizione sopra gli uomini : ma quel nome di gentiluomo in loro è nome di degnila e di riputazione, senza essere fondato sopra alcuna di quelle cose che fa che nell'altre città si chiamano i gentiluomini. E come le altre repubbliche hanno tulle le loro divisioni sotto vari nomi, cosi Vinegia si divide / in gentiluomini e popolari ; e vogliono che quelli abbino, ovvero possino avere, tulli gli onori ; quelli altri ne sieno ai ' lutto esclusi. Il che non fa disordine in quella terra, per le ragioni altra voKa dette. Couslituisca, adunque, liTia repub- | blica colui dóve è, o è falla una grande equalilà; ed all' in- 1 contro ordini un principato dove è grande inequalità : altri-f menti farà cosa senza proporzione, e poco durabile.

Gap". LVI. Innanzi che segnino i grandi accidenti in una cillà 0 in una provincia, vengono segni che gli pronostica- no, 0 uomini che gli predicono. *

Donde e' si nasca io non so, ma si vede per gli antichi e per gli moderni essempi, che mai non venne alcuno grave

accidente in una città o in una provincia, che non sia sta- ,• ^ j' ^

to, 0 da indovini o da revelazioni o da prodigi, o da altri i \f^r*

segni celesti, predetto. E per non mi disccslare da casa nel ./i**^^

provare questo, sa ciascuno quanto da frate Girolamo Savo- f^j^ySh^

narola fusse predella innanzi la venula del re Carlo Vili f^,; /> '

di Francia in Italia; e come, olirà di questo, per tulla Toscana ly/^

ci riiccp nccpr cpnfllA in arin ts vpHiifp apnli H'nrrnp. ennrji 4."(

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si disse esser sentite in aria e vedute genti d'arme, sopra * JKI^ Arezzo, che si azzotfavano insieme. Sa ciascuno olirà di que- ^ . ' sto, come avanti la morte di Lorenzo de' siedici vecchio fu percosso il duomo nella sua più alla parte con una saetta celeste, con rovina grandissima di quello edifìzio. Sa ciascuno ancora, come poco innanzi che Piero Sederini, quale era stalo fallo gonfaloniere* a vita dal popolo fiorentino, fusse cacciato e privo del suo grado, fu il palazzo medesimamente da un ful- gore percosso. Potrebbesi, oltra di questo, addurre pie essem-

* La Bladiana: ConfaUnteri,

204 HGI DISCORSI

pi, i quali per fuggire il tedio lascerò.* Narrerò solo quello che Tito Livio dice, innanzi alla venuta de' Franciosi in Roma : cioè, come uno Marco Cedizio plebeio, riferì al Senato avere udito di mezza notte, passando per la Via nuova, una voce maggiore che umana, la quale Io ammoniva che riferisse ai magistrati, come i Franciosi venivano a Roma. La cagione di questo credo sia da essere discorsa ed interpretata da uomo che abbia notizia delle cose naturali e soprannaturali: il che non abbiamo noi. Pure, potrebbe essere che, sendo questo aere, come vuole alcuno filosofo, pieno d'intelligenze; le quali ' per naturale virtù prevedendo le cose future, ed avendo ^ ^ ;U compassione agli uomini, acciò si possino preparare alle di- fese, gli avvertiscono con simili segni. Pure, comunche si •^^y^T sia, si vede cosi essere la vcrilA ; e che sempre dopo tali ac- ^ 01^1^^ cidenti sopravvengono cose istraordinarie e nuove alle pro- jI^ v/»^ ciocie.

M^* Gap. LVn. -- La plebe insieme i gagliarda, di per

^;(U^ i^ ^ è debole.

//

co

Erano molli Romani , sendo seguila per la passata de* Franciosi la rovina della lor patria, andati ad abitare a Veio, contra alla conslitqzione ed ordine del Senato : il quale, per rimediare a questo disordine, comandò per i suoi editti pub- blici che ciascuno, infra certo tempo e sotto certe pene, tor- nasse ad abitare a Roma. De* quali editti, da prima per co- loro contra a chi e' venivano, si fu fatto beffe; dipoi, quando si appressò il tempo dello ubbidire, tutti ubbidirono. E Tito f Livio dice queste parole :*£x ferocibus unioersis, singuli metu I tuo obedientet fuere, E veramente, non si può mostrare me- glio la natura d'una moltitudine in questa parte, che si di- , mostri in questo testo. Perchè la moltitudine è audace nel parlare molte volte contra alle deliberazioni del loro princi-

j\4) . '>e ; dipoi, come veggono la pena in viso, non si fidando l'uno

* Cosi,c«o maggiore soddisfaziooc dell* orecchio , nella Romana. al- tre: lascio.

' Ltqiiafi, relativo, colla ibria (come notai anche a pag- i97) del dimo- aralivo queste.

LIBRO PRIMO. 205

dell' allro, corrono ad ubbidire. Talcbè si vede cerio, che di quel che si dica uno popolo circa la mala o buona disposizion sua, si debhe tenere non gran conto, quando tu sia ordinalo in modo da poterlo mantenere, s'egli è ben disposto; s'egli è mal disposto, da poter provvedere che non ti ofTenda. Que- sto s'intende per quelle male disposizioni che hanno i popoli , nate da qualunque altra cagione, che o per avere perduto la libertà, o il loro principe slato amalo da loro , e che ancora sia vivo ; perchè le male disposizioni che nascono da queste cagioni, sono sopra ogni cosa formidabili, e che hanno biso- 1 gno di grandi rimedi a frenarle: l'altre sue indisposizioni | fieno facili , quando ei non abbia capi a chi rifuggire. Perché non ci è cosa, dalFun canto, più formidabile che una moltitu- dine sciolta e senza capo; e, dall'altra parte, non è cosa più debole: perchè, quantunque ella abbi l'armi in mano, fia facile ridurla, purché tu abbi ridotto da potere fuggire il primo impelo; perché quando gli animi sono un poco raf- freddi, e che ciascuno vede di aversi a tornare a casa sua, cominciano a dubitare di loro medesimi , e pensare alla sa- lute loro, 0 con fuggirsi o con l'accordarsi. Però una molti- tudine così concitala, volendo fuggire questi pericoli, ha subito a fare infra medesima un capo che la corregga , tenghila unita e pensi alla sua difesa; come fece la Plebe romana, quando dopo la morte di Virginia si parti da Roma , e per salvarsi feciono infra loro venti Tribuni: e non facendo a> v questo, interviene loro sempre quel che dice Tito Livio nelle ^^ *^ soprascritte parole, che tulli insieme sono gagliardi; e quando tJ Jf^ ciascuno poi comincia a pensare al proprio pericolo, diventa ^

vile e debole. r^

Gap. LVIII. La moìHludine è più savia, e più costante che un principe.

Nessuna cosa essere più vana e più inconstante che la moltitudine: cosi Tito Livio nostro, come tutti gli altri isto- rici affermano. Perchè spesso occorre, nel narrare le azioni degli uòmini, vedere la moltitudine avere condannalo alcuno a morte, e quel medesimo di poi pianto e sommamente dQ-

206 DEI DISCORSI

sideralo: come si vede avere fatto il Popolo romano di Man- f Ilo Capilolino, il quale avendo condennato a morie, sorama- ' mente dipoi desiderava. E le parole dello autore son queste : \ Populum brevi, poslcaquam ab eo periculum nullumeraltdesi- ^ derium eim lenuil. Ed altrove, quando mostra gli accidenti che nacquero in Siracusa dopo la morte di Girolamo nipote di lerone, dice: Hdtc nalura muUUudinis esl:autumHHer ter- vii, aul superbe dominalur. lo non so se io mi prenderò una provincia dura, e piena di tanta ditTicultà, che mi convenga o abbandonarla con vergogna, o seguirla con carico; volendo difendere una cosa , la quale, come ho detto, da tutti gli scrittori è accasata. Ma ,corounche si sia, io non giudico giudicherò mai essere difetto difendere alcune oppinioni con le ragioni, senza volervi usare o la autorità o la forza. Dico adunque, come di quello difetto di che accusano gli scrittori la moltitudine, se ne possono accusare tutti gli uomini par- ticolarmente, e massime i principi; perchè ciascuno che non sia regolato dalle le^gi, farebbe quelli medesimi errori che la moltitudine sciolta. E questo si può conoscere facilmente, per- V che e' sono e sono stati assai principi, e de'buoni e de'savi ne / sono stati pochi : io dico de' principi che hanno potuto rompere quel freno che gli può coi reggere; intra i quali non sono que- gli re che nascevano in Egitto, quando in quella antichissima antichità si governava quella provincia con le leggi ; quelli che nascevano in Sparta; quelli chea' nostri tempi nascono in Francia: il quale regno é moderato più dalle leg- gi, che alcuno altro regno di che ne' nostri tempi si abbi notizia. E questi re che nascono sotto tali constituzioni, non sono da mettere in quel numero, donde si abbia a considerare la natura di ciascuno uomo per sé, e vedere se egli è simile alla moltitudine: perchè a rincontro loro si dehbe porre una moltitudine medesimamente regolata dalle leggi come sono loro; e si troverà in lei essere quella medesima bontà che noi veggiamo essere in quelli, e vedrassi quella superba- mente dominare umilmente servire: come era il Popolo romano, il quale mentre durò la Kepubhlica incorrotta , non / servi mai umilmente mai dominò superbamente ; anzi con li suoi ordini e magistrati tenne il grado suo onorevoi-

LIBRO PRIMO. 207

mente. E quando era necessario insurgere contra a uno po- tente, lo faceva; come si vede in Manlio, ne' Dieci, ed in altri che cercorno opprimerla: e quando era necessario ubbidire a'Ditlalori ed a' Consoli per la salute pubblica. Io faceva. E se il Popolo romano desiderava Manlio Capitolino morto, non è meraviglia ; perchè e' desiderava le sue virtù , le quali erano stale tali, che la memoria di esse recava compassione a ciascuno ; ed arebbono avuto forza di fare quel medesimo effelto in un principe , perchè 1' è sentenza di tutti li scrittori, come la virtù si lauda e si ammira an- cora negli inimici suoi: e se Manlio, infra tanto desiderio, fusse risuscitato , il Popolo di Roma arebbe dato di lui il medesimo giudizio, come ei fece, tratto che lo ebbe di pri- gione, che poco di poi lo condennò a morte; nonostante che si vegga di* principi tenuti savi, i quali hanno fatto morire qualche persona, e poi sommamente desideratala: come Ales- sandro, Clito, ed altri suoi amici ; ed Erode , Marianne. Ma quello che lo isterico nostro dice della natura della moltitu- dine, non dicedi quella che è regolala dalle leggi, come era la romana; ma della sciolta , come era la siracusana: la quale fece quelli errori che fanno gli uomini infuriati e sciolti , come fece Alessandro magno, ed Erode, ne' casi. detti. Però non è più da incolpare la natura della moltitudine che de' principi, perchè tutti egualmente errano, quando tutti senza rispetto possono errare. Di che, oltre a quello che ho detto, ci sono assai essempi, ed intra gli imperadori romani, ed intra gli altri tiranni e principi; dove si vede tanta incostanza e tanta variazione di vita, quanta mai non si trovasse in alcuna moltitudine. Conchiudo, adunque, contra^ alla comune oppi- nione, la qual dice come i popoli, quando sono principi, sono varii, mutabili, ingrati; affermando che in loro non sono altrimenle questi peccali che si siano ne* principi particolari. Ed accusando alcuni ì popoli ed i principi insieme, potrebbe dire il vero; ma traendone i principi, s'inganna: perchè un popolo che comanda e sia bene ordinato, sarà slabile, pru- dente e grato non altrimenti che un principe, o meglio che

* Altre edizioni : de'j e : dei. ' La Bladiana : olire.

208 DEI DISCORSI

an principe, eziandio stimalo savio: e dall' allra parie, un principe sciolto dalle lpgzi,sarà inoralo , vario ed iinpnulenle più che ano popolo. E * che la variazione del procedere loro nasce non dalla nalara diversa , perchè in tutti è ad un mo- do: e se vi è vanlagsio di bene, è nel popolo; ma dallo avere più o meno rispetto alle leggi, dentro alle quali l'uno e l'al- tro vive. E chi considcrrà il Popolo romano, lo vedrà essere sfato per quattrocento anni iniiniro del nome regio, ed ama- tore della gloria e del bene cornane della saa patria: vedrà tanti essempi u<:ali da lui, che testimoniano Tuna cosa e l' altra. B se alcuno mi allegasse la ingratitudine ch'egli usò conira a Scipione, rispondo quello che di sopra lunsamente si discorso in questa materia, dove si mostrò i popoli essere meno in- grati de' principi. Bla quanto alla prudenza ed alla stabilità , dico, come ano popolo è più prudente, più slabile e di mi- glior giadicio che an principe. E non senza cagione ai asso- iniglia la voce d*an popolo a quella di Dio: perchè si vede una oppinione nniversale fare ctrelli meravigliosi ne* prono- stichi suoi; talché pare che per occulta virtù e* prevegga il suo male ed il suo bene. Quanto al giudicare le cose , si vede rarissime volte, quando egli ode due concionanti che tondino in diverse pafU« quando e* sono di egual virtù, che non pigli la oppinione migliore, e che non sia capace di quella verità ch'egli ode. E se nelle cose gagliarde, o che paiano utili, come di sopra si dice, egli erra; molle volle erra ancora un prìncipe nelle soe proprie passioni, le quali sono molte più che quelle de' popoli. Vedesi ancora , nelle sue elezioni al macistrati, fare di lunga migliore elezioneche uno principe; mai si persuaderà ad un popolo, che sia bene tirare alla degnila ano uomo infame e di corrotti costumi: il che facil- mente e per mille vie si persuade ad un principe. Vedesi un popolo cominciare ad avere in orrore una cosa , e molli secoli stare in quella oppinione : il che non si vede in uno principe. E dell* una e dell'altra di queste due cose voglio mi basti per testimone il Popolo romano: il quale, in tante cen- tinaia d'anni, in tante elezioni di Consoli e di Tribuni, non

* Àbliiati per ripdnto il «etlto di lopri , eonchiiuto.

* Anche qui U Romana: considera Vedi la noia [>o»«a a pag. 149,

LIBRO PR1510. ^09

fece quattro elezioni di che quello si avesse a pentire. Ed eb- be, come ho detto, tanto in odio il nome regio, che nessuno obbligo di alcuno suo cittadino, che tentasse quel nome, potette fargli fuggire le debile pene. Vedesi, oltra di questo, le città dove i popoli sono principi, fare in brevissimo tempo augumenti eccessivi, e molto maggiori che quelle che sempre sono state sotto un principe: come fece Roma dopo la cacciala de' re, ed Alene da poi che la si liberò da Pisistrato. Il che non , può nascere da altro, se non che sono migliori governi quelli ! de' popoli che quelli de' principi. voglio che si opponga a questa mia oppìnione lutto quello che lo isterico nostro ne dice nel preallegalo lesto, ed in qualunque altro; perchè, se si dis- correranno tutti i disordini de* popoli, lutti i disordini de' prin- cipi, tutte le glorie de' popoli, tutte quelle de'principi, si vedrà il popolo di bontà e di gloria essere di lunga superiore. E se i principi sono superiori a' popoli nello ordinare leggi, formare vite civili, ordinare statuti ed ordini nuovi; i popoli sono tanto superiori nel mantenere le cose ordinale, ch'egli aggiungono senza dubbio alla gloria di coloro che l'ordinano. Ed in som- ma, per epilogare questa materia, dico come hanno duralo assai gli stati de'principi, hanno duralo assai gli stali delle repubbliche, e 1' uno e l' altro ha avuto bisogno d'essere re- gelato dalle leggi: perchè un principe che può fare ciò che j vuole, è pazzo; un popolo che può fare ciò che vuole, non è I savio. Se, adunque, si ragionerà d*un principe obbligalo alle' leggi, e d'un popolo incatenato da quelle, si vedrà più virtù nel popolo che nel principe: se si ragionerà dell'uno e del- l' altro sciolto, si vedrà meno errori nel popolo che nel prin- r cipe; e quelli minori, ed aranno maggiori rimedi. Perchè i ad un popolo licenzioso e tumultuario, gli può da un uomo ' buono esser parlato , e facilmente può essere ridotto nella via buona: ad un principe cattivo non è alcuno che possa par- lare, né vi è altro rimedio che il ferro. Da che si può far coniellura della importanza della malattia dell' uno e dell'ai- *^ ^ Irò: che se a curare la malattia del popolo bastano le parole, ed a quella del principe bisogna il ferro, non slira maTal- ^*^^ cuno che non giudichi , che dove bisogna maggior cura , ^ |UiC«< siano maggiori errori. Quando un popolo è bene sciolto, non „.* y

21Ò

1)E1 DISCORSI

si temono le pazzie che quello fa , si ha paura del mal presente, ma di quello che ne può nascere, potendo nascere io fra tanta confusione un tiranno. Ala ne* principi Insti inter- viene il contrario : che si teme il male presente, e nel futuro si spera; persuadendosi gli uomini che la sua cattiva vita possa far surgere una libertà. che vedete la dilTerenza dell* uno e dell' altro, la quale è quanto dalle cose che sono, a quelle che hanno ad essere. Le crudeltà della moltitudine sono centra a chi ci temono che occupi il ben comune: quelle d' un princif>e sono contra a chi ei temono che occupi il bene proprio. Ma la oppinione contra ai popoli nasce perchè de' popoli ciascuno dice male senza paura e liberamente, an- cora mentre che regnano : de' principi si parla sempre con mille paure e miHe rispetti. mi pare fuor di proposito , poiché questa materia mi vi tira, disputare nel seguente ca- pitolo di quali confederazioni altri si possa più fidare; o di quelle fatte con una repubblica , o di quelle fatte con un principe.

Gap. LIX.— Di quali confederazioni, o lega, altri si può più fidare; o di quella falla con una rcpublica, o di quella falla con uno principe.

Perchè ciascuno di occorre che V uno prìncipe con l'al- tro, o runa repubblica con l'altra, fanno lega ed amiciiit insieme; ed ancora similmente si contrae confederazione ed accordo intra una repubblica ed uno principe; mi pare di esaminare qual fede è pia stabile, e di quale si debba te- nere più conto, 0 di quella d'una repubblica, o di quella d' uno principe. Io, esaminando tutto, credo che in molli casi e' siano simili, ed in alcuni vi sia qualche disformità. Credo per tanto, che gli accordi fatti per forza non ti saranno da un principe una repubblica osservati ; credo che quando la paura dello stalo venga, l'uno e l'altro, per i^on lo perdere, ti romperà la fede, e ti userà ingratitudine. Demetrio, quel che fu chiamato espugnttore delle cittadi, aveva fatto agli Ateniesi infiniti beneficii: occorse dipoi, che eeado rollo da' suoi inimici, e rifuggendosi in Alene^ come

Libro primo. èli

in città amica ed a lui obbligata, non fu ricevuto da quella: il che gli dolse assai più che non aveva fatto la perdita delle genti e dello esercito suo. Pompeio, rotto che fu daf Cesare in Tessaglia, si rifuggì in Egitto a Tolomeo, il quale era per lo addietro da lui slato rimesso nel regno ; e lu da lui morto. Le quali cose si vede che ebbero le medesime cagioni : nondimeno fu più umanità usata e meno ingiuria dalla repubblica, che dal principe. Dove è, pertanto, la paura, \ si troverà in fatto la medesima fede. E se si troverà o una ' repubblica o uno principe, che per osservarti la fede aspelli di rovinare, può nascere questo ancora da simili cagioni. E quanto al principe, può mollo bene occorrere che egli sia amico d'un principe potente, che se bene non ha occasione allora di difenderlo, ei può sperare che col lempo e' lo re- stituisca nel principato suo; o veramente che, avendolo se- guito come partigiano, ei non creda trovare fede ac- cordi con il nimico di quello. Di questa sorte sono stati quelli principi del reame di Najtoli che hanno seguite le parti franciose. E quanto alle repubbliche, fu di questa sorte Sagunto in Ispagna, che aspellò la rovina per seguire le parli romane ; e di questa Firenze, per seguire nel 1512 le parli franoiose. E credo, computata ogni cosa, che in questi casi, dove è il pericolo urgente, si troverà qualche stabi- lità più nelle repubbliche, che ne' principi. Perchè, sebbene le repubbliche avessino quel medesimo animo e quella me- desima voglia che un principe, lo avere il molo loro tardo, farà che le porranno * sempre più a risolversi che il prin- cipe, e per questo porranno più a rompere la fede di lui. Romponsi le confederazioni per lo utile. In questo le re- pubbliche sono di lunga più osservanti degli accordi, che i principi. E polrebbesi addurre essempi , dove uno mìnimo utile ha fallo rompere la fede ad uno principe, e dove una grande utilità non ha fatto rompere la fede ad una repub- blica: come fu quello partilo che propose Temistocle agli Alc- Tiiesi, a' quali nella conciono disse che aveva uno consiglio

* L* edizione di Roma , cosi qui come nella linea seguente, lia Berranno: il cbe dìi indizio che 1* Autore scrivesse colle abbreviazioni iisale in quel tetnpo, peneranno, 'pWt^ ^

212 DEI Disconsi

da fare alla loro patria grande utìlilà; ma non lo poteva dire per non lo scoprire, perchè scoprendolo si toglieva la

'occasione del farlo. Onde il popolo Alene elesse Aristide, al quale si comunicasse la cosa, e secondo dipoi che paresse a lui se ne deliherasse : al quale Temistocle mostrò come r armala di tutta Grecia , ancora che stesse sotto la fede loro, era in lato che facilmente si poteva guadagnare o di- struggere; il che faceva gli Ateniesi al tutto arbitri di quella provincia. Donde Aristide riferì al popolo, il partito di Te-

1 mislocle esser utilissimo, ma disonestissimo: per la qual cosa il popolo al tutto lo ricusò. Il che non arebhe fatto Fi-

' lippe Macedone, e gli altri principi che più utile hanno cerco e più guadagnato con il rompere la fede , che con veruno altro modo. Quanto a rompere i patti per qualche cagione di inosservanza , di questo io non parlo come di cosa ordinaria ; ma parlo di quelli che si rompono per ca- gioni istraordinarie: dove io credo, per le cose dette, che il popolo facci minori errori che il principe, e per questo si possa fidar più di lui che del principe.

« Gap. LX. Come il comoìalo e qualunque allro magistrato in Roma si dava senza rispetto di età.

E' si vede per T ordine della istoria, come la Repubblica romana, poiché M consolato venne nella Plebe, concesse quello ai suoi cittadini senza rispetto di età o di sangue; ancora che il rispetto della eia mai non fussc in Roma, ma sempre si andò a trovare la virtù, o in giovane o in vecchio che la fusse. II che si vede per il testimone di Valerio Corvino, che fu fatto Consolo nelli ventitré anni : e Valerio detto, par- lando ai suoi soldati, disse come il consolalo eral prcemium virtulis, non sangniniìt. La qual cosa se fu Lene considerala o no, sarebbe da disputare assai. É quanto al sangue, fu concesso questo per necessità : e quella necessità che fu in Roma, sarebbe in osni città che volesse fare gli elTiftti che fece Roma , come allra volta si è detto: perchè e' non si può dare agli uomini disagio senza premio, si può tórre la speranza di conseguire il premio senza pericolo. li-però a

LIBRO PRIMO. 21»^

buona ora convenne che la Plebe avesse speranza di avere il consolato; e di questa speranza si nutrì un tempo senza averlo. Di poi non bastò la speranza, che e' convenne che si venisse allo effetto. Ma la città che non adopera la sua plebe ad alcuna cosa gloriosa, la può trattare a suo modo, come altrove si disputò: ma quella che vuole fare quel che Roma, non ha a fare questa distinzione. E dato che cosi sia, quella del tempo non ha replica; anzi è necessaria: perchè nello eleggere uno giovane in uno grado che abbi bi- sogno d'una prudenza di vecchio, conviene, avendovelo* ad eleggere la moltitudine, che a quel grado lo facci pervenire qualche sua nobilissima azione. E quando un giovane è di tanta virtù , che si sia fatto in qualche cosa notabile cono- scere ; sarebbe cosa dannosissima che la città non se ne potesse valere allora, e che la avesse ad aspettare che fusse invecchiato con lui quel vigore dell'animo,^ quella pron- tezza, della quale in quella età la patria sua si poteva va- lere: come si valse Roma di Valerio Corvino, di Scipione, ^ di Pompeio, e di molti altri che trionfarono giovanissimi.

* Così nella Romana ; nelle altre : avendolo.

2 Qui le moderne edizioni suppliscono e.

' E qui la Bladiana frappone un e , il quale non leggesi nella Testina.

^14 DEI DISCORSI

lilBRO $iECO\DO.

Laudano sempre gli aomini, ma non sempre ragione- volmente, gli antichi tempi, egli presenti accusano: ed in modo sono delle cose passate partigiani, che non solamente celebrano quelle eladi che di loro sono siate, per la me- moria che ne hanno lasciala gli acrittori, conosciute; ma quelle ancora che, aeodo già vecchi, fi ricordano nella loro giotaneiia avere vedute. E quando quesla loro oppinione sia falsa, come il pia delle volte è, mi persuado varie essere le cagioni che a questo Inganno gli conducono. E la primi eredo aia, che delle cose antiche non s* intenda al tulio la venti ; e che di quelle il più delle volle si nasconda quelle cose ch*e recherehhono a quelli tempi infamia; e quelle al- tre che possono partorire loro sloria, si rendino magnifiche ed amplissime. Però che i più degli acrillori in modo alla fortuna de* vincitori ubbidi<icono , che per fare le loro vit- torie sloriose, non solamente accrescono quello che da loro è virtuosamente operalo, ma ancora le azioni de* nimici in modo illustrano , che qualunque nasce dipoi in qualunque delle due Provincie, o nella vittoriosa o nella vinla, ha ca- gione di maravicliarsi di quelli uomini e quelli tempi , ed è forzato sommamente Inudarjili ed amargli. Olirà di

r questo, odiando gli uomini le cose o per timore o per in- Tidia, vengono ad essere spente due potentissime casioni 'dell'odio nelh cose passate, non ti polendo quelle offendere, e non ti dando cagione d* invidiarle. Ma al contrario inter- viene di quelle cose che si maneggiano e veggono; le quali, per la intera cognizione di esse, non ti essendo in alcuna I parte nascoste, e conoscendo in quelle insieme con il bene \ molle altre cose che ti dispiacciono, tei forzato giudicarle

LIBRO SECONDO. 215

alle antiche molto inferiori, ancora che in verità le presenti molto più di quelle di gloria e di fama meritassero: ragio- nando non delle cose pertinenti alle arti, le quali hanno tanta chiarezza in sé, che i tempi possono tórre o dar loro poco più gloria che per loro medesime si meritino ; ma par- lando di quelle pertinenti alla vita e costumi degli uomini, delle quali non se ne veggono chiari testimoni. Replico, pertanto, essere vera quella consuetudine del laudare e bia- simare soprascritta ; ma non essere già sempre vero che si erri nel farlo. Perchè qualche volta è necessario che giu- dichino la verità ; perchè essendo le cose umane sempre in molo, 0 le salgono, ò le scendono. E vedesi una città o una provincia essere ordinata al vivere polìtico * da qual- che uomo eccellènte; ed, un tempo, per la virtù di quello ordinatore, andare sempre in augumento verso il meglio. Chi nasce allora in tale stato, ed ei laudi più li antichi tempi che i moderni, s* inganna; ed è causato il suo in- ganno da quelle cose che di sopra si sono dette. Ma coloro che nascono dipoi, in (Quella città o provìncia, che gli è venuto il tempo che la scende verso la parte più rea,* al- lora non s'ingannano. E pensando io come queste cose prò- [ cedine, giudico il mondo sempre essere stato ad un mede- ( Simo modo, ed in quello esser stato tanto di buono quanto ( di tristo ; ma variare questo tristo e questo buono di provin- ^ eia in provincia : come si vede per quello si ha notizia di quelli regni antichi che variavano dall'uno all'altro perla variazione de' costumi; ma il mondo restava quel medesimo. Solo vi era questa difTerenza, che dove quello aveva prima collocata la sua virtù in Assiria, la collocò in Media, dipoi in Persia, tanto che la ne venne in Italia ed a Roma: e se dopo lo imperio romano non è seguito imperio che sia du- ralo, né dove il mondo abbia ritenuta la sua virtù insieme; si vede nondimeno essere sparsa in di molte nazioni dove si viveva virtuosamente; come era il regno de' Franchi, il regno de* Turchi, quel del Soldano ; ed oggi i popoli della Magna; e prima quella sella Saracina che fece tante gran

* Così , e cerio assai meglio, nella Romana. Nelle altre '.pubblico. S Xtà Bladiaiia &uIlaulo: ria.

216 DEI DISCORSI

cose, ed occupò tanto mondo, poiché la distrusse lo imperio romano orientale. In tutte queste provincie, adunque, poiché i Romani rovinorono, ed in tutte queste sètte è stata quella virtù, ed è ancora in alcuna parte di esse, che si desidera, e che con vera laude 8i lauda. E chi nasce in quelle , e lauda i tempi passali più che i presenti, si potrebbe ingan- nare; ma chi nasce in Italia ed in Grecia, e non sia dive- nuto o in Italia oltramontano o in Grecia turco, ha ragione di. biasimare i tempi suoi, e laudare gli altri: perchè in iqaeUi fi sono assai cose che gli fanno meravigliosi ; in questi non è cosa alcuna che gli ricomperi da ogni estrema miseria, infamia e vituperio: dove. non è osservanza di re- ^ligione, non di leggi, non di milizia; ma sono maculati d'ogni ragione bruttura. K tanto sono questi vizi più dete- stabili, quanto ei sono più in coloro che seggono prò tri- banali, comandano a ciascuno, e vogliono essere adorati. Ma tornando al ragionamento nostro, dico che se il giudi- ciò degli uomini è corrotto in giudicare quale sia migliore , o il secolo presente o l'antico, in quelle coso dove per l'an- tichità ei non ha possuto avere perfetta cognizione come egli ha de' suoi tempi ; non doverrebbe corrompersi ne' vec- chi nel giudicare i tempi della gioventù e vecchiezza loro, avendo quelli e questi egualmente conosciuti e visti. La qual cosa sarebbe vera , se gli uomini per tutti i tempi della lor vita fossero del medesimo giudizio, ed avessero quelli medesimi appetiti: ma variando quelli, ancora che i tempi non variino,* non possono parere agli uomini quelli medesimi, avendo altri appetiti, altri diletti, altre conside- razioni nella vecchiezza, che nella gioventù. Perchè, man- cando gli uomini quando li invecchiano di forze , e cre- scendo di giudizio e di prudenza ; è necessario che quelle cose che in gioventù parevano loro sopportabili e buone, rie- schino poi invecchiando insopportabili e cattive ; e dove quelli ne doverrebbono accusare il giudirio loro, ne accu- sano i tempi. Sendo, oltra di questo, gli appetiti umani insa- ziabili, perchè hanno dalia natura di potere e voler deside*

4 La Teslioa e il Poggiali: variano j V tdiziont del 1S13 t varino.

LIBRO SECONDO. 217

rare ogni cosa, e dalla fortuna di polere conseguirne * poche ; ne risulta conlinuanaenle una mala conlentezza nelle menti umane, ed un fastidio delle cose che si posseggono: il che fa biasimare 1 presenti tempi, laudare i passati, e desiderare i futuri; ancora che a fare questo non fussino mossi da alcuna ragionevole cagione. Non so, adunque, se io meriterò d'es- sere numerato tra quelli che si ingannano, se in questi mia discorsi io lauderò troppo 1 tempi degli antichi Romani , e biasimerò i nostri. E veramente , se la virtù che allora re- gnava, ed il vizio che ora regna, non fussino più chiari chCj il sole, andrei col parlare più rattenulo, dubitando non in- correre in quello inganno di che io accuso alcuni. Ma es- sendo la cosa manifesta che ciascuno la vede , sarò ani- moso in dire manifestamente quello che intenderò di quelli e di questi tempi; acciocché gli animi de' giovani che que- sti mia scritti leggeranno, possino fuggire questi, e prepa- rarsi ad imitar quegli, qualunque volta la fortuna ne dessi loro occasione. Perchè gli è offizio di uomo buono, quel bene che per la malignità de' tempi e della fortuna tu non hai potuto operare, insegnarlo ad altri, acciocché sendone molti capaci, alcuno di quelli, più amalo dal Cielo, possa operarlo. Ed avendo ne* discorsi del superior libro parlato delle deli- berazioni fatte da' Romani pertinenti al di dentro della città, in questo parleremo di quelle, che '1 Popolo romano fece pertinenti allo augumenlo dello imperio suo.

Cap; I. Quale fa più cagione dello imperio che acquislorono i Romani, o la virlù, o la fortuna.

Molti hanno avuta oppinione, intra ì quali é Plutarco, gravissimo scrittore, che 'l Popolo romano nello acquistare lo imperio fusse più favorito dalla fortuna che dalla virlù. Ed intra le altre ragioni che ne adduce, dice che per confes- sione di quel popolo si dimostra, quello avere riconosciute dalla fortuna tulle le sue vittorie, avendo quello edificati più templi alla Fortuna, che ad alcun altro Dio. E pare che a questa oppinione si accosti Livio; perchè rade volle é che

* JNon bene , ne senza ({ualcbc abbaglio , la Romana : conseguitare.

19

2i8 »EI DISCORSI

facci pc^rlare ad alcuno Romano , dove ci racconli della virtù, che non vi aggiunga la fortuna. La qual cosa io non voglio confessare in alcun modo, credo ancora si possa sostenere. Perchè, se non si è trovato mai repubblica che abbi falli i progressi che Roma, è nato che * non è trovala mai repubblica che sia stata ordinala a potere acquistare come Roma. Perchè la virtù degli eserciti gli feciono acqui- stare lo imperio; e l'ordine del procedere, ed il modo suo proprio, e trovalo dal suo primo legislatore, gli fece man- tenere lo acquistalo: come di sotto largamente in più discorsi si narrerà. Dicono costoro, che non avere mai accozzale due potentissime guerre in uno medesimo tempo, fu fortuna e non virtù del Popolo romano ; perchè e' non ebbero guerra con i Latini, se non quando egli ebbero non tanto battuti i Sanniti, quanto che la guerra fu da' Romani falla in difon- sionc di quelli; non combatterono con i Toscani, se prima non ebbero soggiogali i Latini , ed enervati con le spesse rotte quasi in tutto i Sanniti : che se due di queste potente Intere si fussero, quando erano fresche, accozzale insieme, senza dubbio si può facilmente conìetturare che ne sarebbe seguito la rovina della romana Repubblica. Ma , coraunchc questa cosa nascesse, mai non intervenne che eglino avessino due potentissime guerre in un medesimo tempo: anzi parve sempre, o nel nascere dell'una, l'altra si spes^nesse; o nel spegnersi dell'una, l'altra nascesse. Il che si può facilmente federe per l'ordine delle guerre falle da loro: perchè, la- sciando stare quelle che feciono prima che Roma fusse presa dai Franciosi, si vede che mentre che combnllerno con gli Equi e con i Volsci, mai, mentre questi popoli furono po- tenti, non si levarono conlra di loro altre genli. Dorai costoro, nacaue la guerra conlra ai Sanniti; e benché innanzi che finisse tal guerra, i popoli Ialini si ribellassero da'Komani; nondimeno quando tale ribellione segui, i Sanniti erano in lega con Roma, e con il loro esercito aiulorono i Romani domare la insolenza Ialina. I quali domi, risurse la guerra di Sannio. Battute per molle rotte date a' Sanniti le loro

* È nato perchè, o, da ciò che. Gli editori della Testina, e il Pog- giali , che non intesero questo passo , emendarono : r nolo.

LIBRO SECONDO. 219

forze, nacque la guerra de* Toscani ; la qua! coraposla, si rilevarono di nuovo i Sanniti per la passala di Pirro in Ita- lia. 11 quale come fu ribattuto, e rimandato in Grecia, ap- piccarono la prima guerra con 1 Cartaginesi: prima fu tal guerra finita, che tutti i Franciosi, e di e di qua dal- l'Alpi, congiurarono contra ai Uomani; tanto che intra Popo- lonia e Pisa, dove è oggi la torre a San Vincenti, furono con massima strage superati. Finita questa guerra, per ispazio di venti anni ebbero guerra di non molta importanza ; per- ché non combatterono con altri che con i Liguri, e con quel rimanente de' Franciosi che era in Lombardia. E cosi stet- tero tanto che nacque la seconda guerra cartaginese, la qual per sedici anni tenne occupata Italia. Finita questa con massima gloria, nacque la guerra macedonica; la quale fini!a, venne quella d'Antioco e d'Asia. Dopo la qual vitto- ria, non res <> in tutto il mondo principe repubblica che, di per sé, o tutti insieme, si potessero opporre alle forze romane. Ma innanzi a quella ultima vittoria, chi con- siderrà l'ordina di queste guerre, ed il modo del proce- dere loro, vedrà dentro mescolate con la fortuna una virtù e prudenza grandissima. Talché, chi esaminasse la cagione di tale fortuna, la ritroverebbe facilmente: perchè gli è cosa certissima, che come un principe e un popolo viene in tanta riputazione, che ciascuno principe e popolo vicino abbia di per paura ad assaltarlo, e ne tema, sempre interverrà che ciascuno di essi mai lo assalterà, se non necessitato; in modo che e' sarà quasi come nella elezione di quel po- lente, far guerra con quale di quelli suoi vicini gli parrà, e gli altri con la sua industria quietare. I quali, parte rispetto alla potenza sua, parte ingannati da quei modi che egli terrà per addormentargli, si quietano facilmente; e gli altri potenti che sono discosto, e che non hanno commerzio seco, curano la cosa come cosa longinqua, e che non appartenga loro. Nel quale errore stanno tanto che questo incendio venga loro presso: il quale venuto, non hanno rimedio a spegnerlo se non con le forze proprie ; le quali dipoi non bastano, sendo colui diventalo potentissimo. Io voglio lasciare andare, come i Sanniti stellerò a vedere vincere dal Popolo romano i Yolsci

f*-

"220 DEI DISCORSI.

e gli Equi; e per non essere troppo prolisso, mi farò da' Car- taginesi: ì qiali erano di gran potenza e grande estima- zione qaando i Romani combattevano con i Sanniti e con i Toscani ; perchè di già tenevano tutta V Affrica, tenevano la Sardigna e la Sicilia, avevano dominio in parte della Spa- gna. La quale potenza loro, insieme con V esser discosto ne' conGni dal Popolo romano, fece che non pensarono mai di assaltare quello, di soccorrere ì Sanniti e Toscani: anzi fecero come si fa nelle cose che crescono, più tosto in lor favore collegandosi con quelli, e cercando l'amicizia lo- ro. Né si avviddono prima dell'errore fatto, che i Romani, domi tutti i popoli mezzi infra loro ed i Cartaginesi, comincia- rono a combattere insieme dello imperio di Sicilia e di Spa- gna- Intervenne questo medesimo a* Franciosi che a' Carta- ginesi, e cosi a Filippo re de* Macedoni, ' e ad Antioco; e ciascuno di loro credea, mentre che il Popolo romano era occupato con l' altro, che queir altro lo superasse, ed essere a tempo, o con pace o con guerra, difendersi da lui. In modo che io credo che la fortuna che ebbono in questa parte i Ro- mani, r arcbbono tutti quelli principi che procedessero comò i Romani, e fusscro di quella medesima virtù che loro. Sa* rebbcci da mostrare a questo proposito il modo tenuto dal Popolo romano nello entrare nelle provincie d'altri, se nel nostro trattato de* principati non ne avessimo parlato a lungo; perché in quello questa materia è ditTusamcnte dispulala. Dirò 80I0 questo brevemente, come sempre s'ingegnarono avere nelle provincie nuove qualche amico che fosse scala o porla a salirvi ©entrarvi, 0 mezzo a tenerla : comò si vede che per il mezzo de*Capovani entrarono in Sannio, de'Camertini in Toscana, de'Mamertini in Sicilia, de*Saguntini in Spagna, di Massinissa in Affrica, degli Etoli in Grecia , di Eumene ed altri principi in Asia, de'Massiliensi e dclli Edui in Francia. E cosi non mancarono mai di simili appoggi, per potere facilitare le imprese loro, e nello acquislare le pro- vincie e nel tenerle. Il che quelli popoli che osserveranno , vedranno avere meno bisogno della fortuna, che quelli che ne saranno non buoni osservatori. E perché ciascuno possa

< La Testina e il Poggiati , di Macedonia.

LIBRO SECONDO. 221

meglio conoscere, quanto polè* più la virlù che la fortuna loro ad acquistare quello imperio ; noi discorreremo nel se- guente capitolo di che qualità furono quelli popoli con i quali egli ebbero a combattere, e quanto erano ostinati a difendere la loro libertà.

Cap. II. Con quali popoli i Romani ebbero a combàUerCj e come oslinalamente quelli difendevano la loro libertà.

Nessuna cosa fece più faticoso a' Romani superare i popoli d'intorno, e parte delle provincie discosto, quanto lo amore che in quelli tempi molli popoli avevano alla libertà ; la quale tanto ostinatamente difendevano, che mai se non da una eccessiva virtù sarebbono stati soggiogati. Perchè, per molti essempi si conosce a quali pericoli si mei lessino per mantenere o ricuperare quella ; quali vendette e' facessino contra a coloro che Tavessino loro occupata. Conoscesi an- cora nelle lezioni delle istorie, quali danni i popoli e le citlà^ ricevine per la servitù. E dove in questi tempi ci è solo una provincia la quale si possa dire che abbia in città libere, ne' tempi antichi in tutte le provincie erano assai popoli libe- rissimi. Vedesi come in quelli tempi de* quali noi parliamo al presente, in Italia, dall'Alpi che dividono ora la Toscana dalla Lombardia, insinoalla punta d' Italia, erano molti popoli li- beri ; com'erano i Toscani, i Romani, i Sanniti, e molti al- tri popoli che in quel resto d' Italia abitavano. si ragiona mai che vi fusse alcuno re, fuora di quelli che regnarono in Roma, e Porsena re di Toscana ; la stirpe del quale come si estinguesse, non ne parla la istoria. Ma si vede bene, come in quelli tempi che i Romani andarono a campo a Velo, la To- scana era libera: e tanto si godea della sua libertà, e tanto odiava il nome del principe, che avendo fatto i Veienti per loro difensione un re in Veio, e domandando aiuto a* Toscani contra ai Romani; quelli, dopo molle consulte fatte, delibera- rono di non dare aiuto a' Veienti, infino a tanto che vives- sino sotto *1 re ; giudicando non esser bene difendere la pa-

Nella Romana e nella Testina: possa, F or sechh l'Autore avea srritlo possi.

i9*

222 DEI DISCORSI

tria di coloro che l'avevano di già soUomessa ad altrui. E facii cosa è conoscere donde nasca ne* popoli questa alTozione del vivere libero; perchè si vede per esperienza, le cittadi non avere mai amplialo di domìnio di ricchezza, se non mentre son state in libertà. E veramente meravigliosa cosa è a considerare, a qunnta grandezza venne Atene per ispazio di cento anni, poiché la si liberò dalla tirannide di Pisislralo. Ma sopra tutto meravigliosissima cosa é a consi- derare, a quanta grandezza venne Roma, poiché la si liberò da' suoi Re. La cagione è facile ad intendere; perché non il bene particolare, ma il bene comune è quello che fa grandi le città. E senza dubbio, questo bene comune non é osser- vato se non nelle repubbliche; perché lutto quello che fa a proposito suo, si eseguisce; e quantunque e' torni in danno di questo o quello privato, e' sono tanti quelli per chi detto bene fa, che lo possono tirare innanzi centra alla disposi- zione di quelli pochi che ne fussino oppressi. Al contrario interviene quando vi è uno principe ; dove il più delle volte rqaello che fa per lui, offende la città ; e quello che fa per la città, otfende lui. Dimodoché, subito che nasce una tirannide sopra un viver libero, il manco male che ne resulti a quelle città, è non andare più innanzi, crescere più in potenza 0 in ricchezze; ma il più delle volte, anzi sempre, interviene loro, che le tornano indietro. E se la sorte facesse che vi surgesse un tiranno virtuoso, il quale per animo e per virtù d'arme ampliasse il dominio suo, non ne risulterebbe alcuna utilità a quella repubblica, ma a lui proprio: perché e' non può onorare nessuno di quelli cittadini che siano valenti e buoni, che egli tiranneggia, non volendo avere ad avere so- spetto di loro. Non può ancora le città che egli acquista, sot- tometterle 0 farle tributarie a quella città di che egli è ti- . ranno : perché il farla potente non fa per lui ; ma per lui fa jtenere lo stato disgiunto, e che ciascuna terra e ciascuna [provincia riconosca lui. Talché di suoi acquisti, solo egli ne proGtla, e non la sua patria. E chi volesse confermare quesla oppinione con infinite allre ragioni, legga Senofonte nel suo trattato che fa De Tirannide. Non é meraviglia adunque, che gli antichi popoli con tanto odio perscguitassino 1 tiranni, ed

LIBUO SECONDO. 2f>3

amassino il vivere libero, e che il nome delia libertà fusse tanto slimato da loro : come intervenne quando Girolamo ni- pote di lerone siracusano fu morto in Siracusa, che venendo le novelle della sua morte in nel suo esercito, che non era molto lontano da Siracusa, cominciò prima a tumultuare, e pigliare l'armi contra agli ucciditori di quello; ma come ei senti che in Siracusa si gridava libertà, allettato da quel nome, si quietò tutto, pose giù l'ira contra a' tirannicidi,! e pensò come in quella città si potesse ordinare un viver li-' bero. Non è meraviglia ancora, che i popoli faccino vendette ìstraordinarie centra a quelli che gli hanno occupata la li- bertà. Di che ci sono stati assai esempi, de* quali ne intendo referire solo uno, seguito in Corcira, città di Grecia, ne' tempi della guerra peloponnesiaca ; dove sendo divisa quella pro- vincia in due fazioni, delle quali l'una seguitava gli Ateniesi, r altra gli Spartani, ne nasceva che di molte città, che erano infra loro divise, l'una parte seguiva l'amicizia di Sparta, r altra di Atene : ed essendo occorso che nella delta città pre- yalessino i nobili, e togliessino la libertà al popolo, ì popolari per mezzo degli Ateniesi ripresero le forze, e posto le mani addosso a tutta la nobiltà, gli rinchiusero in una prigione capace di tutti loro ; donde gli traevano ad otto o dieci per volta, sotto titolo di mandargli in esilio in diverse parti, e quelli con molti crudeli essempi facevano morire. Di che sen- dosi quelli che restavano accorti, deliberarono, in quanto era a loro possibile, fuggire quella morte ignominiosa; ed arma» tisi di quello potevano, combattendo con quelli vi volevano entrare, la entrata della prigione difendevano : di modo che il popolo, a questo remore fatto concorso, scoperse la parie superiore di quel luogo, e quelli con quelle rovine suffocor- no. Seguirono ancora in detta provincia molti altri simili casi orrendi e notabili; talché si vede esser vero, che con maggioro impeto si vendica una libertà che ti è suta tolta, che quella che ti è voluta tórre. Pensando dunque donde possa nascere, che in quelli tempi antichi, i popoli fussero più amatori della libertà che in questi; credo nasca da quella medesima cagione che fa ora gli uomini manco forti: la quale credo sia la diversità della educazione nostra dalla antica,

^224 DEI Disconsi

fondata nella divcrsilà della religione nostra dalla antica. Perchè avendoci la nostra religione mostra la verità e la vera via, ci fa slimare meno l'onore del mondo: onde i gentili slimandolo assai, ed avendo posto in quello il sommo bene, erano nelle azioni loro più feroci. Il che si può considerare da molle loro constituzioni, cominciandosi dalia magnificenza de'sacrifìcii loro, alla umilila de' nostri; dove è qualche pompa più dilicata che magnifica, ma nessuna azione feroce o ga- gliarda. Quivi * non mancava la pompa la magnificenza delle cerimonie, ma vi si aggiungeva l'azione del sacrifìcio pieno di sangue e di ferocia, ammazzandovisi moltitudine di animali : il quale aspetto sendo terribile, rendeva gli uo- mini simili a lui. La religione antica, oltre di questo, non beatificava se non gli uomini pieni di mondana gloria ; come erano capitani di eserciti, e principi di repubbliche. La no- stra religione ha glorificalo più gli uomini umili e contem- plativi, che gli attivi. Ha dipoi posto il sommo bene nella umilila, abiezione, nello dispregio delle cose umane: quell'al- tra lo poneva nella grandezza dello animo, nella fortezza del corpo, ed in tulle le altre cose atte a fare gli uomini forlissi- r mi. E se la religione nostra richiede che abbi in le fortezza, jxuole che tu sia atto a patire più che a fare una cosa forte. (Questo modo di vivere, adunque, pare che abbi renduto il mondo debole, e datolo in preda agli uomini scellerati; i quali sicuramente lo possono maneggiare, veggendo come la università 'degli uomini, per andare in paradiso, pensa più a sopportare le sue battiture, che a vendicarle. E benché paia che si sia eCeminalo il mondo, e disarmalo il Cielo, nasce più senza dubbio dalla viltà degli uomini, che hanno intcr- ^ prelato la nostra religione secondo l'ozio, e non secondo la )virtù. Perchè, se considerassino come la permette la esalta- zione e la difesa della patria, vedrebbono come la vuole che noi r amiamo ed onoriamo, e prepariamoci ad esser tali che noi la possiamo difendere. Fanno adunque queste educazioni, e false interpretazioni, che nel mondo non si vede tante repubbliche quante si vedeva anticamente ; né, per conse-

La Romana: Qui.

' Cosi nella Bladiana In lullc le altre: universalità. >

LIBUO SECONDO. 225

guenle, si vede ne' popoli tanlo amore alla libertà quanto allo- ra: ancora che io creda piuUoslo essere cagione di questo, che Io imperio romano con le sue arme e sua grandezza spense tutte le repubbliche e tutti i viveri civili. E benché poi tal im- perio si sia risoluto, non si sono potute le città ancora rimet- tere insieme riordinare alla vita civile, se non in pochissimi luoghi di quello imperio. Pure, comunche si fusse, i Romani in ogni minima parte del mondo trovarono una congiura di repubbliche armatissime, ed ostinatissime alla difesa della libertà loro.TTche mostra che '1 Popolo romano senza una rara ed estrema virtù mai non le arebbe potute superare. E per darne essempio di qualche membro, voglio mi bastilo es- serapio de' Sanniti: i quali pare cosa mirabile, e Tito Livio* lo confessa, che fussero si polenti, e l'arme loro si valide, che potessero infino al tempo di Papirio Cursore consolo, figliuolo del primo Papirio, resistere a' Romani (che fu uno spazio di XLVI anni), dopo tante rotte, rovine di terre, e tante stragi ricevute nel paese loro; massime veduto ora quel paese dove erano tante cittadi e tanti uomini, esser quasi che disabitato; ed allora vi era tanto ordine e tanta forza, ch'egli era insu- perabile, se da una virtù romana non fusse stato assaltato. E facil cosa è considerare donde nasceva quello ordine, e donde proceda questo disordine; perché tutta viene dal viver libero allora, ed ora dal viver servo. Perchè tutte le terre e le Provincie che vivono libere in ogni parte, come di sopra dis- si, fanno i progressi grandissimi. Perchè quivi si vede mag- giori popoli, per essere i matrimoni più liberi, e più deside- rabili dagli uomini: perchè ciascuno procrea volentieri quelli figliuoli che crede potere nutrire, non dubitando che il pa- trimonio gli sia tolto; che e' conosce non solamente che na- scono liberi e non schiavi, ma che possono mediante la virtù loro diventare principi. Veggonvisi le ricchezze multiplicare in maggiore numero, e quelle che vengono dalla cultura quelle che vengono dalle arti. Perchè ciascuno volentieri multiplica in quella cosa, e cerca di acquistare quei beni.

are (

* Slr;ma aller.izione vctlcsi qui nella Testina, e nell'edizione del Pog- giali, che legjjono: l' essempio de' Sanniti , il quale pare cosa mirabile. E 2' ilo Livio ce.

226 Dtl DISCORSI ^

che crede acquislalì potersi godere. Onde ne nasce che gli uomini a gara pensano ai privati ed a' pubblici comodi; e Tuno e r altro viene meravigliosamente a crescere. Il contrario di tutte queste cose segue in quelli paesi che vivono servi ; e tanto più mancano del consueto bene, quanto è più dura In servitù. E di tutte le servitù dure, quella è durissima che ti sottomette ad una repubblica: Tuna, perchè la è più durabile, e manco si può sperare d'uscirne; ' l'altra, perchè il fìne della ' repubblica è enervare ed indebolire, per accrescere il Corpo suo, tutti gli altri corpi. 11 che non fa un principe che ti sottometta, quando quel principe non sia qualche principe barbaro, destrutlore de* paesi, e dissipatore di tutte le civiltà degli uomini, come sono i principi orientali. Ma s'egli ha in ordini umani ed ordinari, il più delle volte ama le città sue soggette egualmente, ed a loro lascia l'arti tutte, e quasi lutti gli ordini antichi. Talché, se le non possono crescerò come libere, elle non rovinano anche come serve ; intenden* dosi della servitù in quale vengono le città servendo ad un forestiero, perchè di quella d'uno loro cittadino ne parlai di sopra. Chi considerrà, adunque, tutto quello che si è detto, non si meraviglierà della potenza che i Sanniti avevano sendo liberi, e della debolezza in che e' vennero poi ser- vendo: e Tito Livio ne fa fede in più luoghi, e massime nella guerra d'Annibale, dove ei mostra che essendo i Sanniti oppressi da una legione d'uomini che era in Nola, mando- rono oratori ad Annibale, a predarlo che gli soccorresse; i quali nel parlar loro dissono, che avevano per cento anni combattuto con i Romani con i propri loro soldati e propri loro capitani, e molte volte avevano sostenuto duoi eserciti consolari e duoi consoli; e che allora a tanta bassezza erano venuti, che non ' si potevano a pena difendere da una piccola legione romana che era in Nola.

* La Romana soltanto : sperarne d' tiscire.

' Dal Biado in fuori , gli editori sopprimono non.

LIDRO SECONDO. 227

Gap. in. Roma divenne grande cillà rovinando le cillà cir- convicine, e ricevendo i foreslieri facilmenle a* suoi onori.

Crescil inlerea Roma Alba: ruinis. Quelli che disegnano che una città faccia grande imperio, si debbono con ogni in- dustria ingegnare di farla piena di abitatori ; perchè senza questa abbondanza di uomini, mai non riuscirà di fare grande una città. Questo si fa in duoi modi; per amore, e per forza. Per amore, tenendole vie aperte e secure a' forestieri che di- segnassero venire ad abitare in quella, acciocché ciascuno vi abiti volentieri: per forza, disfacendo le città vicine, e mandando gli abitatori di quelle ad abitare nella tua città. Il che fu tanto osservato in Roma, che nel tempo del sesto Re in Roma abitavano ottantamila uomini da portare armi. Perchè i Romani voUono fare ad uso del buono cultivatore; il \ quale, perchè una pianta ingrossi, e possa produrre e mata- j rare i frutti suoi, gli taglia i primi rami che la mette, ac- | ciocché, rimasa quella virtù nel piede di quella pianta, possino col tempo nascervi più verdi e più fruttiferi. E che questo modo tenuto per ampliare e fare imperio, fosse necessario e buono, lo dimostra lo essempio di Sparla e di Atene: le quali essendo due repubbliche armalissime, ed ordinale di ottimo leggi, nondimeno non si condussono alla grandezza dello im- perio romano; e Roma pareva più tumultuaria, e non tanto bene ordinata quanto quelle. Di che non se ne può addurre altra cagione, che la preallegala: perchè Roma, per avere ingrossato per quelle due vie il corpo della sua città, potette di già mettere in arme dugentottantamila uomini ; e Sparla ed Atene non passarono mai ventimila per ciascuna. II che nacque, non da essere il sito di Roma più benigno che quello di coloro, ma solamente da diverso modo di procedere. Per- chè Licurgo, fondatore della repubblica spartana, conside- rando nessuna cosa potere più facilmente risolvere le sue leggi che la commistione di nuovi abitatori, fece ogni cosa perchè i forestieri non avessino a conversarvi : ed , oltre al non gli ricevere ne' matrimoni, alla civiltà, ed alle altre conver- sazioni che fanno convenire gli uomini insieme, ordinò che

238 DEI DISCORSI

in quella sua repubblica si spendesse raoncle di cuoio, per lòr via a ciascuno il desiderio di venirvi per portarvi mer- canzie, o portarvi alcuna arie; di qualilà che quella cillà non potette mai ingrossare di abitatori. E perchè tutte le azioni no- stre imitano la natura, non è possibile naturale che uno pedale sottile sostenga un ramo grosso. Però una repubblica piccola non può occupare città regni che siano più validi più grossi di lei; e se pure gli occupa, gì' interviene come a quello albero che avesse più grosso il ramo che 'I piede , che sostenendolo con fatica, ogni piccolo vento lo fiacca: come si vede che intervenne a Sparta, la quale avendo occupate lulte le città di Grecia, non prima se gli ribellò Tebe, che tutte l'altre cittadi se gli ribellarono, e rimase il pedale solo senza rami. Il che non potette intervenire a Roma, avendo il pie si crosso, che qualunque ramo poteva facilmente soste- nere. Questo modo adunque di procedere, insieme con gli altri che di sotto si diranno, fece Roma grande e potentissi* ma. Il che dimostra Tito Livio in due parole, quando disse: Cresca inlerea Roma Alba ruinis.

Gap. IV. Le repuhhìiche hanno tenuti tre modi circa lo ampliare.

Chi ha osservalo le antiche istorie, (ruova come le repub- bliche hanno tre modi circa lo ampliare. L'uno é stato quello che osscrvorono i Toscani antichi, di essere una lega di più repubbliche insieme, dove non sia alcuna che avanzi l'altra di autorità di grado; e nello acquislarc, farsi l'altre città compagne, in simil modo come in questo tempo fanno ì Svizzeri, e come ne' tempi antichi feciono in Grecia gli Achei e gli Etoli. E perché gli Romani feciono assai guerra con i Toscani, per mostrar meglio la qualilà di questo primo modo, mi distenderò in dare notizia di loro particolarmente. In Italia, innanzi allo imperio romano, furono i Toscani per mare e per terra potentissimi: e benché delle cose loro non j ce ne sia particolare istoria, pure c'è qualche poco di me- I moria, e qualche segno della grandezza loro ; e si sa come e' mandarono una colonia in su '1 mare di sopra, la quale

LIBRO SECONDO. 229

chiamarono Adria, che fu nobile, che la dette nome a quel mare che ancora i Latini chiamano Adriatico. Intendesi ancora, come le loro arme furono ubbidite dal Tevere per infino a' pie dell'Alpi , che ora cingono il grosso di Italia ; non ostante che dugenlo anni innanzi che i Romani crescessino in molte forze, delti Toscani perderono lo imperio di quel paese che oggi si chiama la Lombardia; la quale provincia fu occupata da' Franciosi: i quali mossi o da necessità, o dalla dolcezza dei frutti, e massime del vino, vennono in Italia sotto Belloveso loro duce; e rotti e cacciati i provinciali, si posono in quel luogo, dove edificarono di molte cittadi, e quella provincia chiamarono Gallia, dal nome che tenevano allora; la quale tennono fino che da* Romani fussero domi. Vivevano, adunque, i Toscani con quella equalità, e procede- vano nello ampliare in quel primo modo che di sopra si dice: e furono dodici città, tra le quali era Chiusi, Velo, Fiesole, Arezzo, Volterra, e simili: i quali per via di lega governa- vano lo imperio loro; poterono uscir d'Italia con gli acqui- sti; e di quella ancora rimase intatta gran parte, per le ca- gioni che di sotto si diranno. L'altro modo è farsi compagni; non tanto però che non li rimanga il grado del comandare, la sedia dello imperio, ed il titolo delle imprese: il quale modo fu osservato da' Romani. Il terzo modo è farsi immediate sud- diti, e non compagni; come fecero gli Spartani e gli Ateniesi. De' quali tre modi, questo ultimo è al tutto inutile; come e* si vide che fu nelle sopraddette due repubbliche: le quali non rovinarono per altro, se non per avere acquistato quel domi- nio che le non potevano tenere. Perchè, pigliar cura di avere a governare città con violenza, massime quelle che fussono consuete a viver libere, è una cosa difficile e faticosa. E se tu non sei armato, e grosso d'armi, non le puoi coman- dare, né reggere. Ed a voler esser così fatto, è necessario farsi compagni che li aiutino* ingrossare la tua città di po- polo. E perchè queste due città non feciono l'uno l'al- tro, il modo del procedere loro fu inutile. E perchè Roma,

* Male la Testina,, con altr^ edizioni, non però ({uella del 1813, pon- gono 9 (juesto luogo una virgola.

230 DEI DISCORSI.

(ro, però salse a tanta eccessiva potenza. E perchè la è stala sola a vivere cosi , è siala ancora sola a diventar lanlo po- lente: perchè, avendosi ella falli di raolli compasni per lulla Italia, i quali in di molte cose con eguali lesgi vivevano se- co ; e dall' allro canto, come di sopra è dello, sendosi riser- vato sempre la sedia dello imperio ed il tilolodel comandare; questi suoi compasni venivano, che non se ne avvedevano, con le fatiche e con il sangue loro a soggiogar slessi. Per- chè, come cominciorono a uscire con gli eserciti di Italia, e ridarre i resni in provincie, e farsi suggelli coloro che per esser consueti a vivere sotto i Re, non si curavano d'esser soggetti; ed avendo governadori romani, ed essendo stati Vinti da eserciti con il titolo romano;* non riconoscevano per superiore altro che Roma. Di modo che quelli compagni di Roma che erano in Italia, si trovarono in un tratto cinti da' sudditi romani, ed oppressi da una srossissima città come era Roma; e quando e' si avviddono dello inganno sotto il quale erano vissuti, non furono a tempo a rimediarvi: tanta auto- rità aveva presa Roma con le provincie esterne, e tanta forza si trovava in seno, avendo la sua città grossissima ed arma- tìssima. E benché quelli suoi compagni, per vendicarsi delle ingiurie, gli consiurassino contra, furono in poco tempo per- ditori della guerra, peggiorando le loro condizioni ; perchè di compagni, diventarono ancora loro sudditi. Questo modo di procedere, come è detto, è stalo solo osservalo da' Roma- ni: né può tenere allro modo una repubblica che voglia am- pliare; perchè la esperienza non te ne ha mostro nessuno più certo o più vero. Il modo prcallegalo delle leghe, come vi- verono i Toscani, gli Achei e gli Eloli, e come oggi vivono i Svizzeri, é dopo a quello de' Romani il miglior modo; per- chè non si potendo con quello ampliare assai, ne seguitano duoi beni: l'uno, che facilmente non ti tiri guerra addosso; l'altro, che quel tanto che tu pigli, lo tieni facilmente. La cagione del non potere ampliare, è lo essere una repubblica disgiunta, e posta in varie sedi: il che fa che difTicilmenle possono consultare e deliberare. Fa ancora che non sono de- siderosi di dominare: perchè essendo molle comunità a parli-

* Sottintendi , costoro , o codesti regni o popoli.

LIBRO SECONDO. 23 i

cipare di quel dominio, non istimano tanto tale acquisto,! quanto fa una repubblica sola, che spera di goderselo tutto./ Governansi, olirà di questo, per concilio, e conviene che siano più tardi ad ogni deliberazione, che quelli che abitano den- tro ad un medesimo cerchio. Vedesi ancora per esperienza, che simile modo di procedere ha un termine fisso, il quale non ci è essempio che mostri che si sia trapassato: e questo è di aggiugnere a dodici o quattordici comunità; dipoi, non cer- care di andare più avanti : perchè sendo giunti al grado che par loro potersi difendere da ciascuno, non cercano maggiore dominio; si perchè la necessità non gli stringe di avere più potenza; si per non conoscere utile negli acquisti, per le ca- gioni dette di sopra. Perché gli arebbono a fare una delle due cose; o seguitare di farsi compagni, e questa moltitu- dine farebbe confusione; o gli arebbono a farsi sudditi: e perchè e' veggono in questo ditlìcultà, e non molto utile nel tenergli, non lo stimano. Pertanto, quando e' sono venuti a tanto numero che paia loro vivere sicuri, si voltano a due cose: runa a ricevere raccomandati, e pigliare prolezioni ; e per questi mezzi trarre da ogni parte danari, i quali facil- menle intra loro si possono distribuire: 1' altra è militare per/ altrui, e pigliar stipendio da questo e da quello principe chet per sue imprese gli solda ; come si vede che ftinno oggi i\ Svizzeri, e come si legge che facevano i preallegati. Di ch& \ n'è testimone Tito Livio, dove dice che, venendo a parla- mento Filippo re di Macedonia con Tito Quinzio Fiaraminio, e ragionando d' accordo alla presenza d' un pretore degli Etoli; in * venendo a parole detto pretore con Filippo, gli fu da quello rimproveralo la avarizia e la infidelità, dicendo che » gli Etoli non si vergognavano militare con uno, e poi man- j dare loro uomini ancora al servigio del nimico; talché molte volle intra duoi contrari eserciti si vedevano le insegne di Eto- lia. Conoscesi, pertanto, come questo modo di procedere per leghe, è stato sempre simile, ed ha fatto simili etTelti. Vedesi ancora, che quel modo di fare sudditi è stalo sempre debole, ed avere fallo piccoli profitti; e quando pure egli hanno pas- sato il modo, essere rovinati tosto. E se questo modo di fare

* L* edizione del Biado : et.

232 DEI DISCORSI

suddili è inutile nelle repubbliche armate, in quelle che sono r disarmate è inulilissimo: come sono slsfle ne' nostri tempi le repubbliche di Italia. Conoscasi, pertanto, essere vero modo quello che tennono i Romani; il quale è tanto più mirabile, quanto e' non ce n'era innanzi a Roma essempio, e dopo Roma DOD è slato alcuno che gli abbi imitati. E quanto alle leghe, si trovano solo i Svizzeri e la lega di Svevia che gli imita. E, come nel fine di questa materia si dirà, tanti ordini osservati da Ro- ma, cosi pertinenti alle cose di dentro come a quello di fuora, non sono ne' presenti nostri tempi non solamente imitati, ma non n'è tenuto alcuno conto; giudicandoli alcuni non veri, alcuni impossibili, alcuni non a proposito ed inutili; tanto I che standoci con questa ignoranza, siamo preda di qualun- que ha voluto correre questa provincia. E quando la imi- tazione de' Romani paresse dilììcile, non doverrebbe parere cosi quella degli antichi Toscani, massime a' presenti Tosca- ni. Perchè, se quelli non poterono, per le cagioni dette, fare uno imperio simile a quel di Roma, poterono acquistare in Italia quella potenza che quel modo del procedere concesse loro. Il che Tu per un gran tempo securo, con somma gloria d'imperio e d'arme, e massima laude di costumi e di reli- gione. La qual potenza e gloria fu prima diminuita da' Fran- ciosi, dipoi spenta da' Romani; e fu tanto spenta, che ancora che duemila anni fa, la potenza de' Toscani fusse grande, al ^ presente non ce n' è quasi memoria. La qual cosa mi ha fatto pensare donde nasca questa oblivione delle cose : come nel seguente capitolo si discorrerà.

Cip. V.— Che la variazione delle sèlle e delle lingue, infieme con V accidenle de' diluvi o delle pesli, spegne la memoria deUe cose.

A quelli filosofi che hanno voluto che '1 mondo sia stato eterno, credo che si potesse replicare, che se tanta antichità fusse vera, e' sarebbe ragionevole che ci fusse memoria di più che cinque mila anni ; quando e' non si vedesse come . queste memorie de' tempi per diverse cagioni si spengano: delle quali parte vengono dagli uomini » parte dal cielo.

LIBRO SECONDO.

^33

Quelle che vengono dagli uomini, sono le variazioni delle sèlle e delle lingue. Perchè quando surge una sella nuova, cioè una religione nuova, il primo studio suo è, per darsi re- pulazìone, eslinguere la vecchia ; e quando egli occorre che gli ordinatori della nuova sella siano di lingua diversa, la spen- gono facilmente. La qual cosa si conosce considerando i mo- di che ha tenuti la religione cristiana contra alla sella gen- tile; la quale ha cancellali tulli gli ordini, tulle le ceremonie j ^ di quella , e spenta ogni memoria di quella antica teologia. * ^^^r Vero è che non gli è riuscito spegnere in tulio la notizia ù/tti^v^i delle cose fatte dagli uomini eccellenti di quella: il che è nato -/*i> per avere quella mantenuta la lingua Ialina ; il che fecero . forzatamente, avendo a scrivere questa legge nuova con es- ^ v^ sa. Perchè, se l'avessino potuta scrivere con nuova lingua, '.^4'*^ consideralo le altre persecuzioni gli feciono, non ci sarebbe ri- ^ liff-y cordo alcuno delle cose passale. E chi legge i modi tenuti da y^. San Gregorio, e dagli altri capi della religione cristiana, ve- drà con quanta ostinazione e' perseguitarono tulle le memo- rie antiche, ardendo l'opere de' poeti e delti istorici, minan- do le immagini , e guastando ogni altra cosa che rendesse alcun segno della antichità. Talché, se a questa persecuzione egli avessino aggiunto una nuova lingua, si sarebbe veduto in brevissimo tempo ogni cosa dimenticare. È da credere , pertanto, che quello che ha voluto fare la religione cristiana contra alla setta gentile, la gentile abbi fatto centra a quella che era innanzi a lei. E perchè queste sèlle in cinque o in seimila anni variarono due o tre volle, si perde ' la memoria delle cose fatte innanzi a quel tempo. E se pure ne resta al- cun segno, si considera come cosa favolosa, e non è prestalo loro fede: come interviene alla istoria di Diodoro Siculo, che benché e' renda ragione di quaranta o cinquanta mila anni, nondimeno è riputata, come io credo che sia, cosa mendace. Quanto alle cause che vengono dal ci^lp, sono quelle che

^ La Bladianà soltanto: perche queste sette in cinque o sei mila anni variano due o tre volle ^ si perde la inenioria ec. Quando cosi avesse da leggersi, il teorema del Machiavelli s3rebl)e più ar-lilo di tutte le degnila pensate dal Vico : se non che sorge però iinportunamenle il sospetto che il teorema sia ualu da un'abbreviazione m^^iot^s? Q,^a tm acceotQ oi^csso pel manosCiiliQ. ,

234 DÈI DISCORSI

spengono la amana generazione, e ridacono a pochi gli abi- talori di parie del mondo. E questo viene o per peste o per farne o per una inondazione d'acque: e la più importante è questa ultima, perchè la è più universale, si perchè quelli che si salvano sono nomini tutti montanari e rozzi, i quali non avendo notizia di alcuna antichità, non la possono lasciare a' posteri. E se infra loro si salvasse alcuno che ne avesse no- tizia, per farsi riputazione e nome, la nasconde, e la per- verte a suo modo; talché ne resta solo a' successori quanto ei ne ha voluto scrivere, e non altro. E che queste inonda- va \ zioni, pesti e fami vcn^hino, non credo sia da dubitarne; si perchè ne sono piene tutte le istorie, si perchè si vede que- sto effetto della oblivione delle cose, si perchè e' pare rai?io- nevole che sia: perchè la natura, come ne* corpi semplici, quando vi è ragunalo assai materia superflua, muove per medesima molte volle, e fa una purgazione, la qnale è saluto di quel corpo; cosi interviene in questo corpo misto della u- \ mana generazione, che quando tutte le provincie sono ripiene di abitatori, in modo che non possono vivere, possono an- dare altrove, per esser occupati e pieni tutti i luoghi; e quan- do la astuzia e malignità umana è venuta dove la può venire, conviene di necessità che il mondo si purghi per uno de' tre modi; acciocché gli nomini essendo divenuti pochi e battuti, vivano più comodamente, e diventino migliori. Era adunque, come di sopra è detto, già la Toscana potente, piena di re- ligione e di virtù; aveva i suoi costumi e la sua lingua pa- tria: il che tutto è stato spento dalla potenza romana. Tal- ché, come si è dello, di lei oe rimane solo la memoria del nome.

Cap. vi. Come t Romani procedevano nel fare la guerra.

Avendo discorso come i Romani procedevano nello am- pliare, discorreremo ora come e' procedevano nel fare la guer- ra; ed in ogni loro azione si vedrà con quanta prudenza ei di- Yiarono dal modo universale degli altri, per facilitarsi la via a venire a una suprema grandezza. La intenzione di chi fa guerra per elezione) o vero per ambizione, ò acquistare e

LIBRO SECONDO. ^35

ilìanicncre lo acquisiate; e procedere in modo con essa, che l'arricchisca e non impoverisca il paese e la patria sua. È necessario dunque, e nello acquistare e nel mantenere, pen- sare di non spendere ; anzi far ogni cosa con utilità del pub- blico suo. Chi vuol fare tutte queste cose, conviene che ten- ga lo stile e modo romano : il quale fu in prima di fare le guerre, come dicono i Franciosi, corte e grosse; perchè, ve- ,- ' nendo in campagna con eserciti grossi, tutte le guerre eh' e-^il^p gli ebbono co' Latini, Sanniti e Toscani, le espedirono in iaA^^^ brevissimo tempo. E se si noteranno tutte quelle che feciono ^S^ dal principio di Roma infino alla ossidione de' Veienti, tutte si vedranno espedìte, quale in sei, quale in dieci, quale in venti di. Perchè l'uso loro era questo: subito che era scoperta la guerra, egli uscivano fuori con gli eserciti all' incontro del nimico, e subito facevano la giornata. La quale vinta, i nimici, perchè non fosse guasto loro il contado alTatto, venivano alle condizioni ; ed i Romani gli condennavano in terreni: i quali terreni gli convertivano in privati comodi o gli consegnavano ad una colonia; la quale posta in su le frontiere di coloro, ve- niva ad esser guardia de' confini romani, con utile di essi coloni, che avevano quelli campi, e con utile del pubblico di Roma, che senza spesa teneva quella guardia. poteva que- sto modo esser più securo, o più forte, o più utile: perchè mentre che i nimici non erano in su i campi, quella guardia bastava: come e' fussino usciti fuori grossi per opprimere quella colonia, ancora i Romani uscivano fuori grossi, e ve- , nivano a giornata con quelli; e fatta e vinta la giornata, im- I ponendo loro più gravi condizioni, si tornavano in casa. Cosi ' venivano ad acquistare di mano in mano riputazione sopra di loro, e forze in medesimi. E questo modo vennono tenendo infino che mutorno modo di procedere in guerra : il che fa dopo la ossidione de' Veienti ; dove, per potere fare guerra lun- gamente, gli ordinarono di pagare i soldati, che prima, per non essere necessario, essendo le guerre brevi, non gli pa- gavano. E benché i Romani dessino il soldo, e che per virtù di questo ei potessino fare le guerre più lunghe, e per farle più discosto la necessità gli tenesse più in su' campi; nondi- meno non variarono mai dal primo ordine di finirle presto, '

^36 DEI mscoRst

secondo il luogo ed il tempo; variarono mai dal mandare le colonie. Perchè nel primo ordine gli (enne, circa il fare le guerre brevi, olirà il loro naturale uso, l'ambizione de' Consoli; i quali avendo a slare un anno, e di quello anno sei mesi alle stanze, volevano fìnire la guerra per trionfare. Nel mandare le colonie, gli (enne l'utile, e la comodità grande che ne risultava. Variarono bene alquanto circa le prede, delle quali non erano cosi liberali come erano stali prima; si perchè e* non pareva loro tanto necessario, avendo i sol- dati lo slipendio; si perchè essendo le prede mag^iori, dise- gnavano d'ingrassare di quelle in modo il pubblico; che non fussino constretti a fare le imprese con (ribu(i della ci((à. Il quale ordine in poco (empo fece il loro erario ricchissimo. Questi duoi modi, adunque, e circa il distribuire la preda, e circa il mandar le colonie, feciono che Boma arricchiva della guerra; dove gli altri principi e repubbliche non savie ne impoveriscono. E ridusse la cosa in termine, che ad un Con- solo non pareva poter trionfare, se non portava col suo trion- fo assai oro ed argen(o , e d'ogni altra sorte preda, nello erario. Cosi i Romani con i soprascritti termini, e con il fi- nire le guerre preslo, sendo contenti con lunghezza strac- care i nemici, e con rotte e con le scorrerie e con accordi a loro avvantaggi, diventarono sempre più ricchi e più polenti.

Gap. vii. Quanto terreno i Romani davano per colono.

Quanto terreno i Romani distribuissino per colono, credo sia molto diflìcile trovarne la verità. Perchè io credo ne dessino più o manco, secondo i luoghi dove e' mandavano le colonie. E giudicasi che ad ogni modo ed in ogni luogo la distribuzione fusse parca: prima, per poter mandare più uo- mini, sendo quelli dipulati per guardia di quel paese; dipoi perchè vivendo loro poveri a casa, non era ragionevole che volessino che i loro uomini abbondassino troppo fuora. E Tito Livio dice, come pireso Veio e' vi mandorno una colo- nia, e distribuirono a ciascuno tre iugeri e selle once di ter- ra; che sono al modo noslro * Perché,

' JLactina di tulle ]. edùiooi.

ì

LIBRO SECONDO. ^37

oltre alle còse èoprascrille, e* giudicavano che non lo assai terreno, ma il bene colli vaio bastasse. È necessario bene, che tutta la colonia abbi campi pubblici dove ciascuno possa pascere il suo bestiame, e selve dove prendere del legname per ardere ; senza le quali cose non può una colonia ordi- narsi.

Gap. vi ir. La eaqione perchè i popoli si partono da* luoghi palrii, ed inondano il paese allrui.

Poiché di sopra si è ragionato del modo nel procedere della * guerra osservato da' Romani, e come i Toscani furono assaltati da' Franciosi; non mi pare alieno dalla materia dis- correre, come e' si fanno di due generazioni guerre. L'una è fatta per ambizione de' principi o delle repubbliche , che cercano di propagare lo ijnperio; come furono le guerre che fece Alessandro Magno, e quelle che feciono i Romani , e quelle che fanno ciascuno di, l'una ^potenza con l'altra. Le quali guerre sono pericolose , ma non cacciano al lutto gli abitatori d'una provincia; perchè e* basta al vincitore solo la ubbidienza de'popoli, e il più delle volte gli lascia vivere con le loro leggi, e sempre con le loro case, e ne' loro beni. L'al- tra generazione di guerra è, quando un popolo intero con tutte le sue famìglie si lieva d'uno luogo, necessitato o dalla fame o dalla guerra, e va a cercare nuova sede e nuova pro- vincia; non per comandarla, come quelli di sopra, ma per possederla tutta particolarmente, e cacciarne o ammazzare gli abitatori antichi di quella. Questa guerra è crudelissima e paventosissima. E di queste guerre ragiona Saluslio nel fine dell' lugurtino, quando .dice che vinto iugurta, si senti il moto de' Franciosi che venivano in Italia: dove e' dice che '1 Popolo romano con tutte le altre genti combattè solamente per chi dovesse comandare, ma con i Franciosi si combattè sempre per la salute di ciascuno. Perchè ad un principe o una repubblica che assalta una provincia, basta spegnere solo co- loro che comandano; ma a queste populazioni conviene spe-

* L* edizione del Biado : nella.

' Male nella Testina , e nelle moderne cdiaioni : ciascuno deli' una»

23$ DEI DISCORSI

I gnere ciascuno, perchè vogliono vivere di quello che a1(ri vi- veva. I Romani ebbero Ire di quelite guerre pericolosissime. La prima fu quella quando Roma fu presa, la quale fu occu- pala da quei Franciosi che avevano tolto, come di sopra si disse, la Lombardia a' Toscani, e fattone loro sedia; della quale T. Livio ne allega dae cagioni: la prima, come di so- pra si disse, che furono allettati dalla dolcezza delle fruite, e del vino di Italia, delle quali mancavano in Francia; la se- conda che, essendo quel regno francioso moltiplicalo in lauto di uomini, che non vi si potevano più nutrire, giudicarono i principi di quelli luoghi, che fosse necessario che una parie di loro andasse a cercare nuova terra ; e fatta tale delibera- xione, elessono per capitani di quelli che si avevano a par- tire, Belloveso e Sicoveso, duoi re de'Frnnciosi: de' quali Bellovcso venne in Italia, e Sicoveso passò in Ispagna. Dalia- passata del quale Belloveso nacque la occupazione di Lombar- dia, e quindi la guerra che prima i Franciosi fecero a Roma. Dopo questa, fu quella che fecero dopo la prima guerra carta- ginese, quando Ira Piombino e Pisa ammazzarono più che dugenlomila Franciosi. La terza fu quando i Todcschi e Cimbri vennero in Ilalia: i quali avendo vinti più eserciti romani, furono vinti da Mario. Vinsero adunque i Koroani queste tre guerre pericolosissime. era necessario minore virlù a vin- cerle; perchè si vede poi, come la virlù romana mancò, e che quelle arme perderono il loro antico valore, fu quello impe- rio deslrutto da simili popoli: i quali furono Goti, Vandali, e simili, che occuparono tulio lo imperio occidenlale. Escono

\ tali popoli de* paesi loro, come di sopra si disse, cacciali dalla nccessilà : e la necessità nasce o dalla fame, o da una guerra ed oppressione che ne' paesi propri è loro falla ; laiche e' sono consiretti cercare nuove (erre. E questi tali, o e' sono grande numero; ed allora con violenza entrano ne* paesi alimi, ammazzano gli abitatori, posseggono i loro beni, fanno uno nuovo regno, molano il nome della provincia: come fece Moisè, e quelli popoli che occuparono lo imperio romano. Per- chè questi nomi nuovi che sono nella Ilali^a e nelle allre Pro- vincie, non nascono da altro che da essere siale nomale cosi da' nuovi occupalori: come è la Lombardia, che si chia-

LIBRO SECONDO. 239

raava Gallia Cisalpina: la Francia si chiamava Gallia Trans- alpina, ed ora è nominala da' Franchi, che cosi si chiama- vano quelli popoli che la occuparono: la Schiavonia si chia- mava llliria , l'Ungheria Pannonia, l'Inghillerra Brilannia: e molle altre provincie che hanno mutato nome, le quali sa- rebbe tedioso raccontare. Moisè ancora chiamò Giudea quella parte di Soria occupata da lui. E perchè io ho detto di sopra, che qualche volta tali popoli sono cacciati della propria sede per guerra, donde sono constretti cercare nuove terre; ne vo- glio addurre lo essempio de'Maurusii, popoli.anticamente in Soria: i quali, sentendo venire i popoli ebraici, e giudicando non poter loro resistere, pensarono essere meglio salvare loro medesimi, e lasciare il paese proprio, che per volere sal- vare quello, perdere ancora loro; e levatisi con loro famiglie, se ne andarono in Affrica, dove posero la loro sedia, caccian- do via quelli abitatori che in quelli luoghi trovarono. £ così quelli che non avevano potuto difendere il loro paese, po- terono occupare quello d'altrui. E Procopio, che scrive la guerra che fece Belisario co' Vandali occupalori della Affrica, riferisce aver letto lettere scritte in certe colonne ne' luoghi dove questi Maurusii abitavano, le quali dicevano: Nos Mau- rusii, qui fugimus a [ade Jem lalronis filii Navas. Dove ap- parisce la cagione della partila loro di Soria. Sono, pertanto, questi popoli formidolosissimi, sendo cacciati da una ultima necessità; e s'egli non riscontrano buone armi, non saranno mai sostenuti. Ma quando quelli che sono constretli abbando- nare la loro patria non sono molti, non sono pericolosi come quelli popoli di chi si è ragionato; perchè non possono usare tanla violenza , ma conviene loro con arte occupare qualche luogo, e, occupatolo, manlenervisi per via di amici e di confederati: come si vede che fece Enea, Bidone, i Mas- siliesi e simili; i quali lutti, per consentimento de' vicini, dove e' posorno, * poterono manlenervisi. Escono i popoli gros- si, e sono usciti quasi tutti de' paesi di Scizia; * luoghi freddi e poveri: dove, per essere assai uomini, ed il paese di qualità

* Cosi (non posano j colla comune), con giudiaio egregio, l'cdàione del 1813.

* Male nella Bladiana : Soria.

240 ' DEI DISCORSI

da non gli potere nutrire, sono forzali uscire, avendo molte cose che gli cacciano, e nessuna che gli ritenga. E se da cinquecento anni in qua, non è occorso che alcuni di questi popoli abbino inondato alcuno paese, è nato per più cagioni. La prima , la grande evacuazione che fece quel paese nella declinazione dello imperio; donde uscirono più di trenta po- polazioni. La seconda è che la Magna e V Ungheria, * donde ancora uscivano di queste genti, hanno ora il loro paese bo- nificato in modo, che vi possono vivere agiatamente; talché non sono necessitati di mutare luogo. Dall'altra parte, sondo loro uomini bellicosissimi, sono come uno bastione a tenere che gli Sciti, i quali con loro confinano, non presumino di potere vincergli o passargli. E spesse volte occorrono movi- menti grandissimi da' Tartari, che sono dipoi ààuVi Ungheri e da quelli di Polonia sostenuti; e spesso si gloriano, che se non fussino Tarme loro, la Italia e la Chiesa arcbbe molte volle sentilo il peso degli eserciti tartari. E questo voglio ba- sti quanto a' prcfali popoli.

Gap. IX. Quali cagioni comunemente faccino nascere le.guerre intra i polenti.

La cagione che fece nascere guerra intra i Romani ed i Sanniti , che erano stati in lega gran tempo, è una cagione comune che nasce infra tutti i principati polenti. La qual ca- gione o la viene a caso, o la è fatta nascere da colui che desi- dera muovere la guerra. Quella che nacque intra i Romani ed i Sanniti, fu a caso: perchè la intenzione de' Sanniti non fu, muovendo guerra a'Sidicini, e dipoi a' Campani , muoverla ai Romani. Ma sendo i Campani oppressati , e ricorrendo a Roma fuora della oppinione de' Romani e de' Sanniti, furono forzati, dandosi i Campani ai Romani, come cosa loro difen- dergli, e pigliare quella guerra che a loro parve non potere con loro onore fuggire. Perchè e' pareva bene a' Romani ra- gionevole non potere difendere i Campani come amici, con- tra ai Sanniti amici, ma pareva ben loro vergogna non gli difendere come sudditi, ovvero raccomandati; giudicando,

' S nule ^ui pare : ia Inghilterra.

UBIIO SECONDO. 241

quando e' non avessino presa (ai difesa, tórre la via a (ulti quelli che disegnassino venire sotto la potestà loro. Ed avendo Roma per fine lo imperio e la gloria, e non la quiete, non poteva ricusare questa impresa. Questa medesima cagio- ne dette principio alla prima guerra contra a* Cartaginesi, per la difensione che i Romani presono de' Messinesi in Sicilia : la quale fu ancora a caso. Ma non fu già a caso dipoi la se- conda guerra che nacque infra loro ; perchè Annibale capi- tano Cartaginese assaltò i Saguntini amici de' Romani in Ispagna , non per offendere quelli , ma per muovere l' arme ro- mane, ed avere occasione di combatterli, e passare in Italia. Questo modo nello appiccare nuove guerre è stato sempre consueto intra i potenti, e che si hanno e della fede, e d'altro qualche rispetto. Perche, se io voglio fare guerra con uno prin- cipe, ed infra noi siano fermi capitoli per un gran tempo os- servati, con altra giustificazione e con altro colore assalterò io un suo amico che lui proprio; sappiendo massime, che nello assaltare Io amico, o ei si risentirà, ed io arò l'intento mio di fargli guerra ; o non si risentendo, si scuoprirà la debolezza o la infidelità sua di non difendere un suo raccomandato. E l'una e r altra di queste due cose è per tòrgli riputazione, e per fare più facili 1 disegni miei. Debbesi notare, adunque, e per la dedizione de'Campani, circa il muovere guerra, quanto di sopra si è detto; e di più, qual rimedio abbia una città che non si possa per stessa difendere, e veglisi difendere in ogni modo da quel che 1' assalta: il quale è darsi liberamente a quello che tu disegni che ti difenda ; come feciono i Capo- vani ai Romani, ed ì Fiorentini al re Roberto di Napoli: il quale non gli volendo difendere come amici, gli difese poi come sudditi contra alle forze di Caslruccio da Lucca, che gli opprimeva.

Cap. X. I danari non sono il nervo della guerra, secondo che è la comune oppinione.

Perchè ciascuno può cominciare una guerra a sua posta, ma non finirla, debbo uno principe, avanti che prenda una im- presa, misurare le forze sue, e secondo quelle governarsi. M«i

242 DEI DISCORSI

debbe avere (anta prudenza , che delle sue forze ei non s'in- ganni ; ed oc;ni volta s* ingannerà, quando le misuri o dai da- nari , 0 dal sito, o dalla benivolenza degli uomini , mancando dall' altra parte d' arme proprie. Perchè le cose predelle li ac- crescono bene le forze, ma le non le ne danno; e per me- desime sono nulla; e non giovano alcuna cosa senza l'arme fedeli. Perchè i danari assai, non ti bastano senza quelle; non ti giova la fortezza del paese ; e la fede, e benivolenza degli uomini non dura, perchè questi non ti possono essere fedeli, non gli potendo difendere. Ogni monte, ogni Iago, ogni luogo inaccessibile diventa piano, dove i forti difensori mancano. I danari ancora non solo non ti difendono, ma ti fanno predare più presto. può essere più falsa quella comune oppinione che dice che i danari sono il nervo della guerra. La quale sentenza è detta* da Quinto Curzio nella guerra che fu intra Antipatro macedone e il re spartano: dove narra, che per di- fetto di danari il re di Sparta fu necessitato azzuffarsi , e fu rotto; che se ei differiva la zuffa pochi giorni, veniva la nuo- va in Grecia della morte di Alessandro, donde e' sarebbe ri- maso vincitore senza combattere. Ma mancandogli i danari, e dubitando che Io esercito suo per difetto di quelli non lo abbandonasse, fu conslrctto tentare la fortuna della zuffa: tal- ché Quinto Curzio per questa cagione afferma, i danari essere il nervo della guerra. La qual sentenza è allegata ogni gior- no, e da' princìpi non tanto prudenti che basti, seguitata. Per- chè, fondatisi sopra quella, credono che basti loro a difen- dersi avere tesoro assai , e non pensano che se '1 tesoro ba- stasse a vincere, che Dario arebbe vinto Alessandro, i Greci arebbon vinti i Romani; ne' nostri tempi il duca Carlo arebbe vinti i Svizzeri; e pochi giorni sono , il Papa ed i Fiorentini in- sieme non arebbono avuta difficullà in vincere Francesco Maria, nipote di papa Giulio li, nella guerra di Urbino. Ma tutti i soprannominati furono vinti da coloro che non il da- naro, ma i buoni soldati stimano essere il nervo della guerra. Intra le altre cose che Creso re di Lidia mostrò a Solone ate- niese, fu uno tesoro innumerabile; e domandando quel che ali pareva della potenza sua, gli rispose Solone, che per quello

* La Bladiana soltanto : è Hata.

LIBRO SECONDO. 243

non lo giudicava più potente ; perchè la guerra si faceva col ferro e non con V oro, e che poteva venire uno che avesse più ferro di lui, e tòrgfiene. Oltr' a questo, quando, dopo la morte di Alessandro Magno, una moltitudine di Franciosi passò in Grecia, e poi in Asia; e mandando i Franciosi oratoti al re di Macedonia per trattare certo accordo; quel re, per mo- strare la potenza sua e per sbigottirli, mostrò loro oro ed ar- gento assai : donde quelli Franciosi che di già avevano come ferma la pace, la ruppono; tanto desiderio in loro crebbe di iòrgli quell'oro: e cosi fu quel re spogliato per quella cosa che egli aveva per sua difesa accumulata. IVeniziani, pochi anni sono, avendo ancora lo erario loro pieno di tesoro, per- derono lutto lo stato , senza potere essere difesi da quello. Dico pertanto, non l'oro, come grida la comune (opinione, essere il nervo della guerra, ma i buoni soldati : perchè l' oro non è sutfiziente a trovare i buoni soldati, ma i buoni soldati son ben sulTìzienti a trovare 1' oro. Ai Romani, s'egli avessero voluto fare la guerra più con i danari che con il ferro, non sarebbe bastato avere tutto il tesoro del mondo, considerato le grandi imprese che feciono, e le difficultà che vi ebbono dentro. Ma facendo le loro guerre con il ferro, non patirono mai carestia dell'oro; perchè da quelli che li temevano era portato l'oro* infino ne' campi. E se quel re sparlano per carestia di da- nari ebbe a tentare la fortuna della zutTa, intervenne a lui quello, per conto de' danari, che molte volte è intervenuto per altre cagioni: perchè si è veduto che, mancando ad uno esercito le vettovaglie, ed essendo necessitati o a morire di fame o azzuffarsi, si piglia il partito sempre di azzuffarsi, per essere più onorevole, e dove la fortuna ti può in qualche modo favorire. Ancora è intervenuto molte volte, che veg- gendo uno capitano al suo esercito nimico venire soccorso, gli conviene o azzuffarsi con quello e tentare la fortuna della zuffa; o aspettando ch'egli ingrossi, avere a combattere in ogni modo, con mille suoi disavvantaggi. Ancora si è visto (come intervenne ad Asdrubale quando nella Marca fu assal- tato da Claudio Nerone, insieme con l'altro Consolo romano), che un capitano che è necessitalo o a fuggirsi o a combatte-

* L' edizione 'lei Biado ha qui ^OfO.

244 DEI DISCORSI

re, come* sempre elegge il combattere; parendogli in questo partito, ancora che dubbiosissimo, potere vincere; ed in quello altro, avere a perdere in ogni modo. Sono, adunque, molte necessitati che fanno a uno capitano fuor della sua intenzione pigliare partito di azzuflfarsi; intra le quali qualche volta può essere la carestia de'danari: per questo si debbono i danari giudicare essere il nervo della guerra, più che le altre cose che inducono gli uomini a simile necessità. Non è, adunque, replicandolo di nuovo, l'oro il nervo della guerra; ma i buoni soldati. Son bene necessari i danari in secondo luogo, ma é una necessità che i soldati buoni per medesimi la vinco- no; perchè è impossibile che a' buoni soldati manchino i da- nari, come che i danari per loro medesimi truovino i buoni soldati. Mostra questo che noi diciamo essere vero, ogni iBto- ria in mille luoghi; non ostante che Pericle consigliasse gli Ateniesi a fare guerra con lutto il Peloponneso, mostrando che e' poteva^no vincere quella guerra con la industria e con la forza del danaio. E benché in (ale guerra gli Ateniesi prò- sperassino qualche volta, in ultimo la perderono ; e valson più il consiglio e gli buoni soldati di Sparla, che la industria ed il danaio di Alene. Ma Tito Livio è di questa oppinione più vero testimone che alcuno altro, dove discorrendo, se Ales- sandro Magno fusse venuto in Italia , s* cali avesse vinto i Ro- mani, mostra esser tre cose necessarie nella guerra; assai ! soldati e buoni, capitani prudenti, e buona fortuna: dove esa- minando quali o i Romani o Alessandro prevalcssino in que- ste cose, fa dipoi la sua conclusione senza ricordare mai i danari. Doverono i Capovani, quando furono richiesti da' Si- dicini che prendcssino Tarme per loro centra ai Sanniti, mi- surare la potenza loro dai danari, e non dai soldati: perché, preso ch'egli ebbero partito di aiutarli, dopo due rotte furo- no constretli farsi tributari de'Romani, se si vollono salvare.

* La Romana ha : che nn capitano e necessitato o a fuggirsi o a combat- tere ^ et come sempre elegge ec. Potremmo forse creder sincera la mancanza dtl che ma non così l' aggiunta dell' et.

LIBRO SECONDO. 245

Gap. XI. Non è partilo prudente fare amicizia con un principe che abbia più oppinione che forze.

Volendo Tito Livio mostrare Io errore de' Sidicinì a fidarsi dello aiuto de' Campani , e lo errore de' Campani a credere potergli difendere, non lo potrebbe dire con più vive parole, dicendo: Campani magis nomen in auxilium Sidicino- rum, quam vires ad praisidium altulerunt. Dove si debbe no- tare, che le leghe si fanno co' principi che non abbino o comodità di aiutarti per la distanzia del sito, o forze di farlo per suo disordine o altra sua cagione , arrecano più famn che aiuto a coloro che se ne fidano : come intervenne ne' di nostri a' Fiorentini, quando, nel 1479, il papa ed il re di Napoli gli assaltarono ; che essendo amici del re di Francia, -trassono di quella amicizia magis nomen, quam praesidium : come interverrebbe ancora a quel principe, che confidatosi di Massimiliano imperatore, facesse qualche impresa; perchè questa è una di quelle amicizie che arrecherebbe a chi la facesse magis nomen , quam prcesidium, come si dice in que- sto testo che arrecò quella de'Capovani ai Sidicini. Erra- rono, adunque, in questa parte i Capovani, per parere loro avere più forze che non avevano. E cosi fa la poca prudenza delti uomini qualche volta, che non sappiendo potendo difendere medesimi, vogliono prendere imprese di difen- dere altrui : come fecero ancora 1 Tarentini, i quali, sendo gli eserciti romani allo incontro dello esercito de* Sanniti, man- dorono ambasciadori al Consolo romano, a fargli intendere come ei volevano pace intra quelli duoi popoli, e come erano per fare guerra contra a quello che dalla pace si discostas- se; talché il Consolo, ridendosi di questa proposta, alla pre- senza di detti ambasciadori fece sonare a battaglia, ed al suo esercito comandò che andasse a trovare il nimico, mostrando ai Tarentini con l' opera, e non con le parole, di che risposta essi erano degni. Ed avendo nel presente capitolo ragionato dei partiti che pigliano i principi al contrario per la (Jifesa d' altrui, voglio nel seguente parlare di quelli che si pigliano per la difesa propria.

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246 DEI DISCORSI

Gap. XII. S*eglì è meglio, temendo di essere assalUUo, inferire, o aspellart la guerra.

Io ho sentito da aomini assai pratichi nelle cose della guerra qualche volta disputare, se sono daoi principi quasi di eguali forze, se quello più gagliardo abbi bandito la guerra contra a quello altro, quale sia miglior partito per l'altro; o aspettare il nimico dentro ai conBni suoi, o andarlo a tro- vare in casa, ed assaltare lui: e ne ho sentito addurre ra- gioni da ogni parte. E chi difende lo andare assaltare altrui, ne allega il consiglio che Creso dette a Ciro, quando arrivato in su* confini de' Massagcli per fare lor guerra, la lor re- gina Tamiri gli mandò a dire, che eleggesse quale dc'duoi partili volesse; o entrare nel regno suo, dove essa lo aspette- rebbe ; o volesse che ella venisse a trovar lui. E venuta la cosa in disputazione. Creso, contra alla oppinione degli altri, disse che si andasse a trovar lei ; allegando che se egli la vincesse discosto al suo regno, che non gli terrebbe il regno, perchè ella arebbe tempo a rifarsi; ma se la vincesse dentro a' suoi confini , potrebbe seguirla in su la fuga , e non le dando spazio a rifarsi , tórli lo stalo. Allegane ancora il consiglio che dette Annibale ad Antioco, quando quel re disegnava fare guerra ai Romani : dove ei mostrò come i Romani non si potevano vìncere se non in Italia, perchè quivi altri si po- teva valere delle arme e delle ricchezze e degli amici loro ; chi gli combatteva fuora d' Italia, e lasciava loro la Italia li- bera, lasciava loro quella fonte, che mai li mancava * vita a somministrare forze dove bisogna; e conchiuse che ai Romani si poteva prima tórre Roma che lo imperio ; prima la Italia che le altre provincie. Allega ancora Agatocle, che non po- tendo sostenere la guerra di casa, assaltò i Cartaginesi che gliene facevano, e gli ridusse a domandare pace. Allega Sci- pione, che per levare la guerra d' Italia, assaltò la AflTrica. Chi parla al contrario dice, che chi vuole fare capitare male uno nimico, lo discosli da casa. Allegane gli Ateniesi, che mentre che feciono la guerra comoda alla casa loro , resta-

* l* Testifta e T celinone del 181d: manca.

LIBRO SECONDO. 247

rono superiori; e come si discoslarono, ed andarono con gli eserciti in Sicilia, perderono la libertà. Allega le favole poe- tiche, dove si mostra che Anteo, re di Libia, assaltalo da Ercole Egizio, fu insuperabile mentre che lo aspellò dentro a' confini del suo regno; ma come e' se ne discosto per astu- zia di Ercole, perde lo stalo e la vita. Onde è dato luogo alla favola di Anteo, che sondo in terra ripigliava le forze da sua madre che era la Terra ; e che Ercole avvedutosi di questo, lo levò in allo, e discoslollo dalla terra. Allegane an- cora i giudizi moderni. Ciascuno sa come Ferrando re di Napoli fu ne' suoi tempi tenuto uno savissimo principe : e venendola fama, duoi anni avanti la sua morte, come il re di Francia Carlo Vili voleva venire ad assaltarlo , avendo fatte assai preparazioni, ammalò; e venendo a morte, intra gli altri ricordi che lasciò ad Alfonso suo figliuolo, fu che egli aspettasse il nimico dentro al regno ; e per cosa del mondo non traesse forze fuori dello slato suo, ma lo aspettasse den- tro ai suoi confini tutto intero : il che non fu osservato da quello ; ma mandato uno esercito in Romagna, senza com-' battere perde quello, e lo slato. Le ragioni che , oltre alle cose delle, da ogni parte si adducono, sono: che chi assalta viene con maggiore animo che chi aspetta, il che fa più confidente lo esercito: toglie, olirà di questo, molle comodità al nimico di potersi valere delle sue cose , non si polendo valere di quei sudditi che sieno saccheggiati ; e per avere il nimico in casa, è constrelto il signore avere più rispetto a trarre da loro danari ed affaticargli: sicché e' viene a seccare quella fonte, come dice Annibale, che fa che colui può sos- tenere la guerra. Oltre di questo, isuoi soldati, per trovarsi ne' paesi d'altrui, sono più necessitati a combattere; e quella necessilà fa virtù, come più volte abbiamo detto. Dall'altra parte si dice: come aspettando il nimico, si aspetta con assai vantaggio, perchè senza disagio alcuno tu puoi dare a quello molti disagi di vettovaglia, e d'ogni altra cosa che abbia bi- sogno uno esercito: puoi meglio impedirli i disegni suoi, per la notizia del paese che tu hai più di lui : puoi con più forze incontrarlo, per poterle facilmente tutte unire, ma non potere già tutte discostarle da casa: puoi sondo rollo ri-

248 DEI DISCORSI

farli facilmente ; perchè del tuo esercito se ne salverà assai, per avere i lifogì propinqui; si perchè il supplemento non ha a venire discosto : tanto che tu vieni arrischiare tutte le forze, e non tutta la fortuna; e discostandoti, arrischi tutta la fortuna, e non tutte le forze. Ed alcuni sono stati che per indebolire meglio il suo nimico, Io lasciano entrare parecchie giornale in su il paese loro, e pigliare assai terre; acciò che, lasciando i presidii in tutte, indebolisca il suo eser- cito, e possinlo dipoi combattere più facilmente. Ma, per dire ora io quello che io ne intendo, io credo che si abbia a fare questa distinzione: o io ho il mio paese armato, come i Ro- mani, o come hanno i Svizzeri ; o io Tho disarmalo', come avevano i Cartaginesi, o come l'hanno i re di Francia e gli Italiani. In questo caso, si debbe tenere il nimico discosto a casa ; perchè sendo la tua virtù nel danaio e non negli Qomini, qualunque volta ti è impedita la via di quello, tu sci spaccialo ; cosa veruna le lo impedisce quanto la guerra di casa. In essempi ci sono i Cartaginesi ; i quali mentre che ebbero la casa loro libera , poterono con le rendile fare guerra con i Romani; e quando la avevano assaltala, non potevano resistere ad Agalocle. I Fiorentini non avevano rimedio alcuno con Caslruccio signore di Lucca, perchè ei faceva loro la guerra in casa ; tanto che gli ebbero a darsi, per essere difesi, al re Roberto di Napoli. Ma morto Caslruc- cio, quelli medesimi Fiorentini ebbero animo di assaltare il duca di Milano in casa, ed operare di tòrgli il regno: tanta virtù mostrarono nelle guerre longinque, e tanta viltà nelle propinque. Ma quando i regni sono armati, come era armala Roma e come sono i Svizzeri, sono più difficili a vincere quanto più ti appressi loro : perchè questi corpi possono unire più forze a resistere ad uno impelo, che non possono ad assaltare altrui. mi muove in questo caso V autorità di Annibale, perchè la passione e l'utile suo gli faceva cosi dire ad Antioco. Perchè, sei Romani avessino avute in tanto spazio di tempo quelle tre rotte in Francia ch'egli ebbero in Italia da Annibale, senza dubbio erano spacciati: perchè non si sarebbono valuti de' residui degli eserciti, come si valsono in Italia; non arebbono avuto a rifarsi quelle corno-

LIBRO SECONDO. 249

dita; potevano con quelle forze resistere al nimico, che poterono. Non si trova che, per assaltare una provincia, loro^ raandassino mai fuora eserciti che passassino cinquantamila persone; ma per difendere la casa ne misono in arme centra ai Franciosi, dopo la prima guerra punica, diciolto centinaia di migliaia. arebbono potuto poi romper quelli in Lombar- dia, come gli ruppono in Toscana; perchè centra a tanto numero di nimici non arebbono potuto condurre tante forze si discosto, combattergli con quella comodità. 1 Cimbri ruppono uno esercito romano in la Magna, vi ebbono i Romani rimedio. Ma come egli arrivorono in Italia, e che poterono mettere tutte le loro forze insieme, gli spacciarono. 1 Svizzeri è facile vincergli fuori di casa, dove e' non pos- sono mandare più che un trenta o quarantamila uomini; ma vincergli in casa, dove e' ne posspno raccozzare centomila, è difficilissimo. Conchiuggo adunque di nuovo, che quel prin- cipe che ha i suoi popoli armali ed ordinati alla guerra , aspetti sempre in casa una guerra potente e pericolosa, e non la vadia a rincontrare: ma quello che ha i suoi sudditi disar- *- ^ mali, ed il paese inusitato della * guerra, se la discosti sempre . .•

da casa il più che può. E così V uno e l' altro, ciascuno nel ' v-*** suo grado, si difenderà meglio. (>>4-c|*^

Gap. XIII. Che si viene di bassa a gran fortuna più con la f rande, che con la forza.

Io slimo essere cosa verissima, che rado, o non mai, in- ^,$4 tervenga che gli uomini di piccola fortuna venghino a gradi *^'*'**^ grandi, senza la forza e senza la fraude; purché quel grado {^*%^^ al quale altri é pervenuto, non ti sia 0 donato, o lasciato per y ? eredità.Né credo truovi mai che la forza sola basti, ma si ! ' troverà bene che la fraude sola basterà : come chiaro vedrà colui che leggerà la. vita Filippo di Macedonia, quella di Agatocle siciliano, e di molti altri simili, che d'infima ov-

* L' edizione Romana : Non si trova per assaltare una provìncia che /oro j- e quella del Ì813: Non si trova che per assaltare una provincia , che loro.

* Cosi la Romana. Le al» re edizioni: alla. *

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vero di bassa fortuna, sono pervenali o a regno o ad imperi grandissimi. Mostra Senofonte, nella sua vita di Ciro, questa necessità dello ingannare; considerato che la prima {spedi- zione che fa fare a Ciro contra il re di Armenia, è piena di fraude, e come con inganno, e non con forza, gli fa occupare il suo regno ; e non conchiude altro per tale azione, se non che ad un principe che voglia fare gran cose, è necessario imparare a ingannare. Fagli, oltra di questo, ingannare Cias sare, re de'Medi, suo zio materno, in più modi; senza la quale fraude mostra che Ciro non poteva pervenire a quella gran- dezza che venne. credo che si truovi mai alcuno consti- (uito in bassa fortuna, pervenuto a grande imperio solo con la forza aperta ed ingenuamente, ma si bene solo con la frau- de : come fece Giovanni Galeazzo per lòr lo stalo e lo imperio di Lombardia a messcr Bernabò suo zio. E quel che sono ne- cessitati fare i principi ne'principii degli augnmenti loro, sono ancora necessitate a fare le repubbliche, inGno che le sieno diventate potenti, e che basti la forza sola. E perchè Roma (enne in ogni parte, o per sorte o per elezione, tutti i modi necessari a venire a grandezza, non mancò ancora di questo. potè usare, nel principio, il maggiore inganno, che pigliare il modo di sopra discorso da noi, di farsi compagni; perchè sotto questo nome se li fece servi: come furono i Latini, ed al- tri popoli air intorno. Perchè prima si valse dell'arme loro in domare i popoli convicini, e pigliare la riputazione dello stato: dipoi, domatogli, venne in tanto augumento, che la poteva battere ciascuno. Ed i Latini non si avviddono mai di essere al tutto servi, se non poi che viddono dare due rotte ai San- niti, e costrettigli ad accordo. La quale vittoria, come ella ac- crebbe gran riputazione ai Romani coi principi longinqui, che mediante quella sentirono il nome romano e non l' armi; cosi generò invidia e sospetto in quelli che vedevano e sentivano l'armi, intra i quali furono i Latini. E tanto potè questa invi- dia e questo timore, che non solo i Latini, ma le colonie che essi avevano in Lazio, insieme con i Campani, slati pocoin- nanti diTesi, congiurarono contra al nome romano. £ mòssono questa guerra i Latini nel modo che si dice di sopra che si muovono la maggior parte delle guerre, assaltando non

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Romani, ma difendendo i Sidicini centra ai Sanniti; a' quali i Sanniti facevano guerra con licenza de' Romani. E che sia vero che i Latini si movessino per avere conosciuto questo inganno, lo dimostra Tito Livio nella bocca di Annio Setino pretore latino, il quale nel consiglio loro disse queste pa- role: Nam, si eliam nunc sub umbra foìderis cequi servilulem pali possumus eie. Vedasi pertanto i Romani ne' primi augu- raenti loro non essere mancati eziam della fraude; la quale fu sempre necessaria ad usare a coloro che di piccoli. prin- cipii vogliono a sublimi gradi salire : la quale è meno vitu- perabile quanto è più coperta, come fu questa de' Romani.

Gap. XIV. Ingannansi molle volte gli uomini, credendo con la umilila vincere la superbia.

Vedesi molte volte come la umilila non solamente non giova, ma nuoce, massimamente usandola con gli uomini in- solenti, che, o per invidia o per altra cagione, hanno concello odio teco. Di che ne fa fede lo isterico nostro in questa cagione di guerra intra i Romani ed i Latini. Perchè, dolendosi i San- niti con i Romani che i Latini gli avevano assaltati, i Ro- mani non vollono proibire ai Latini tal guerra, desiderando non gli irritare ; il che non solamente non gli irritò, ma gli fece diventare più animosi centra a loro, e si scopersono più presto inimici. Di che ne fanno fede le parole usate dal pre- falo Annio pretore latino nel medesimo concilio, dove dice: Tenlaslis palienliam negando mililem : quis dubitai exarsisse eos ? Perlulerunt tamen hunc dolorem. Exercilus nos parare adversus Samniles faideralos suos audierunt, nec moverunl se ab urbe, linde hoec illis tanta modestia, nisi a conscienlia vi- rium, el noslrarum, et suarum? Conoscesi, pertanto, chiaris- simo per questo testo, quanto la pazienza de' Romani ac- crebbe l'arroganza de' Latini. E però, mai uno principe debbe volere mancare del grado suo , e non debbe mai lasciare alcuna cosa d' accordo, volendola lasciare onore- volmente, se non quando e' la può, o e' si crede che la possa tenere: perchè gli è meglio quasi sempre, sendosi condotta la cosa in termine che tu non la possa lasciare nel

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modo deUo, lasciarsela lòrre con le forze, che con la paura delle forze. Perchè, se la la lasci con la paura, lo fai per levarli la guerra, ed il più delle volle non te la lievi: perchè colui a chi lu arai con una viltà scoperta concesso quella, non starà saldo, ma li vorrà lòrre delle altre cose, e si ac- cenderà «più centra le, stimandoli meno; e dall'altra parie, in tuo favore troverai i difensori più freddi, parendo loro che lu sia o debole, q vile: ma se lu, subilo scoperta la vo- glia dello avversario, prepari le forze, ancoraché le siano inferiori a lui, quello li comincia a stimare; slimanti più gli altri principi allo intorno ; ed a tale viene voglia di aiutarli, sendo in su l'arme, che abbandonandoli non ti aiuterebbe mai. Questo si intende quando tu abbia uno inimico ; ma quando ne avessi più, rendere delle cose che lu possedessi ad alcuno di loro per riguadagnarselo, ancoraché fusse di già scoperta la guerra, e per smembrarlo dagfi altri confederali tuoi ini- mici, fia sempre partilo prudente.

Cap. XV. Gli siali deboli sempre fieno ambigui nel risolversi: e sempre le deliberazioni lente sono nocive.

In questa medesima materia, ed in questi medesimi prin- cipi! di guerra intra i Latini ed ì Romani , si può notare come in ogni consulta è bene venire allo individuo di quello che si ha a deliberare, e non stare sempre in ambiguo, in su lo incerto della cosa. II che si vede manifesto nella consulla che feciono i Latini, quando e' pensavano alienarsi da'Romani. Perchè avendo presentito questo cattivo umore che ne'popoli latini era entrato, i Romani, per certificarsi della cosa, e per vedere se potevano senza mettere mano all'arme riguada- gnarsi quelli popoli, fecero loro intendere, come e'mandasscro a Roma otto cittadini, perchè avevano a consultare con loro. 1 Latini inleso questo, ed avendo conscienza di molte cose falle centra alla voglia de'Romani, feciono consiglio per or- dinare chi dovesse ire a Roma, e dargli commissione di quello ch'egli avesse a dire. E stando nel consiglio in quesla dispula, Annio loro pretore disse queste parole: Ad summam rerum nastrar um perlinere arbilror, ut cogiletis magis, quid

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agendum nobis, quam quid loquendum siL Facile erit, eocpli- calis consiliis, accommodare rebus verba. Sono, senza dubbio, queste parole verissime, e debbono essere da ogni principe e da ogni repubblica gustale: perchè nella ambiguità e nella incertiludine di quello che altri voglia fare, non si sanno accomodare le parole; ma fermo una volta l'animo, e deli- berato quello sia da eseguire, è facil cosa trovarvi le parole. Io ho notato questa parte più volentieri, quanto io ho molte volle conosciuto tale ambiguità avere nociuto alle pubbliche azioni, con danno e con vergogna della repubblica nostra. E sempre mai avverrà, che ne- partiti dubbii, e dove bisogni animo a deliberargli, sarà questa ambiguità, quando abbino ad esser consigliati e deliberati da uomini deboli. Non sono meno nocive ancora le deliberazioni lente e tarde, che am- bigue; massime quelle che si hanno a deliberare in favore alcuno amico : perchè con la lentezza loro non si aiuta persona, e nuocesi a medesimo. Queste deliberazioni cosi fatte precedono o da debolezza di animo e di forze , o da malignità di coloro che hanno a deliberare; i quali, mossi dalla passion propria di volere rovinare lo stato o adempire qualche suo desiderio, non lasciano seguire la deliberazione, ma la impediscono e la attraversano. Perchè i buoni cittadi- ni, ancoraché vegg.iinouna foga popolare voltarsi alla parie perniciosa,* mai impediranno il deliberare , massime di quelle cose che non aspettano tempo. Morto che fu Girolamo tiranno in Siracusa, essendo la guerra grande intra i Cartaginesi ed i llomani, vennono i Siracusani in disputa se dovevano seguire l'amicizia romana o la cartaginese. E tanto era lo ardore delle parti, che la cosa stava ambigua, se ne prendeva alcuno partito; insino a tanto che Apollonide, uno de* primi in Si- racusa, con una sua orazione piena di prudenza, mostrò come non era da biasimate chi teneva Toppinione di aderirsi ai Romani , quelli che volevano seguire la parte cartagi- nese ; ma era bene da detestare quella ambiguità e tardità di pigliare il partilo, perchè vedeva al tutto in tale ambi- guità la rovina della repubblica; ma preso che si fusse il partito, qualunque e'si fusse, si poteva sperare qualche bene.

' Cosi nelle cdiiioiii del 1531 e 18 11^. Nelle ììlrt : pericolosa.

22

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potrebbe mosirare più Tito Livio che si faccia in questa parie, il danno che si (ira dietro lo slare sospeso. Dimostralo ancora in questo caso de' Latini: perchè, sendo i Latini ri> cerchi da loro d'aiuto contra i Romani, differirono tanto a deliberarlo, che quando eglino erano usciti appunto fuora della porla con la gente per dare loro soccorso, venne la nuova i Latini essere rotti. Donde Milonio loro pretore disse: Questo poco della via ci costerà assai col Popolo romano. Perchè, se si deliberavano prima o di aiutare o di non aiu- tare i Latini, non gli aiutando, ei non irritavano i Uomnni; aiutandogli, essendo l'aiuto in tempo, potevano con la ag- giunta delle loro forze fargli vincere: ma differendo, veni- vano a perdere in ogni modo, come intervenne loro. E se i Fiorentini avessino notalo questo testo, non arebbono avuto co' Franciosi tanti danni (ante noie, quante ebbono nella passata del re Luigi di Francia XII, che fece in Italia contra a Lodovico duca di Milano. Perchè, trattando il re tale passata, ricercò i Fiorentini d'accordo: e gli oratori che erano appresso al re, accordarono con lai che gli stessine neutrali, e che il re venendo in Italia gli avesse a mantenere nello stato e ricevere in protezione : e dette tempo un mese alla città a ratificarlo. Fu differita tale ratificazione da chi per poca prudenza favoriva le cose di Lodovico: intanlochè, il re già sendo iti su la vi((oria, e volendo poi i Fiorcnlini ratifi- care, non fu la ratificazione accettata; come quello che co- nobbe i Fiorentini essere venuti forzati, e non voluntari nella amicizia sua. 11 che costò alla città di Firenze assai danari, e fu per perdere lo stalo: come poi altra volta per simile causa li intervenne. E tanto più fu dannabile quel partito, perché non 'si servi ancora il duca Lodovico ; il quale se avesse vinto, arebbe mostri molti più segni di inimicizia centra ai Fiorentini, che non fece il re. E benché del male che nasce alle repubbliche di questa debolezza se ne sia di sopra in uno altro capitolo discorso; nondimeno, avendone di nuovo occasione per un nuovo accidente, ho voluto repli- carne; * parendomi, massime, materia che debba esser dalle repubbliche simili alla nostra notata.

* Bljduna : replicare.

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Gap. XVI. Quanto i soldati ne' nostri tempi si disformino dalli antichi ordini.

La più importanle giornata che fu mai falla in alcuna guerra con alcuna nazione dal Popolo romano, fu questa che ei fece con i popoli latini, nel consolalo di Torquato e di De- cio. Perchè ogni ragione vuole , che cosi come i Latini per averla perduta diventarono servi, così sarebbono stati servì ì Romani, quando non la avessino vinta. E di questa oppinione è Tito Livio ; perchè in ogni parte fa gli eserciti pari di or- dine, di virtù, di ostinazione e di numero: solo vi fa difife- renza, che i capi dello esercito romano furono più virtuosi che quelli dello esercito latino. Vedesi ancora come nel ma- neggio di questa giornata nacquero duoi accidenti non prima nati, e che dipoi hanno rari esempi: che de'duoi Consoli, per tenere fermi gli animi de' soldati, ed ubbidienti al coman- damento loro, e diliberati al combattere, V uno ammazzò slesso, e l'altro il figliuolo. La parità, che Tito Livio dice es- sere in questi eserciti, era che, per avere militato gran tempo insieme, erano pari di lingua, d'ordine e d'arme: perchè nello ordinare la zuffa tenevano uno modo medesimo; e gli or- dini ed i capi degli ordini avevano medesimi* nomi. Era dun- que necessario, sendo di pari forze e di pari virtù, che na- scesse qualche cosa istraordinaria, che fermasse e facesse più ostinali gli animi dell'uno che dell' altro: nella quale ostina- zione consiste, come altre volte si è dello, la vittoria; perchè mentre che la dura ne* petti di quelli che combattono, mai non danno volta gli eserciti. E perchè la durasse più ne'petli de' Romani che de' Latini, parte la sorte, parte la virtù de' Consoli fece nascere, che Torquato ebbe ad ammazzare il figliuolo, e Decio slesso. Mostra Tito Livio, nel mostrare questa parililà^ di forze, lutto l'ordine che tenevano i Romani nelli eserciti e nelle zuffe. Il quale esplicando egli largamen- te, non replicherò altrimenti ; ma solo discorrerò quello che io

* tii'ci'ano i medesimi , è soltanto nell'edizione del 1813. 2 Gli editori del 1813, non avendo trovato nella Crusca questo vocabolo, fi credettero abilitati a riformarlo, e scrissero /JAtr/YÀ.

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vi giudico notabile, e quello che per essere negletto da tutti i capitani di questi tempi, ha fatto negli eserciti e nelle zuOTe di molti disordini. Dico, adunque, che per il testo di Livio si rac- coglie , come lo esercito romano aveva tre divisioni principali, le quali toscanamente si possono chiamare tre schiere; e nomi- navano la prima astati, la seconda principi, la terza triarii: o ciascuna di queste aveva i suoi cavalli. Nello ordinare una zuf- fa, ei mettevano gli astati innanzi; nel secondo luogo, per di- ritto, dietro alle spalle di quelli, ponevano i principi ; nel terzo, pure nel medesimo filo, collocavano i triarii. I cavalli di tutti questi ordini gli ponevano a destra ed a sinistra di queste tre battaglie ; le schiere de' quali cavalli, dalla forma loro e dal luogo, si chiamavano atee, perchè parevano come due alie di quel corpo. Ordinavano la prima schiera delti astati, che era nella fronte, serrala in modo insieme che la potesse spigno- ra e sostenere il nimico. La seconda schiera de' principi , perchè non era la prima a combattere, ma bene le conveniva soccorrere alla prima quando fusse battuta o urtata, non la facevano stretta, ma mantenevano i suoi ordini radi, e di qualità che la potesse ricevere in senza disordinarsi la pri- ma, qualunque volta, spinta dal nimico, fusse necessitata riti- rarsi. La terza schiera de' triarii aveva ancora gli ordini più radi che la seconda, per potere ricevere in sé, bisognando, le due prime schiere de* principi e degli astati. Collocate, dun- que, queste schiere in questa forma, appiccavano la zuffa: e se gli astati erano sforzati o vinti, si ritiravano nella radila degli ordini de' principi ; e tutti insieme uniti, fatto di due schiere nn corpo, rappiccavano la zuffa: se questi ancora erano ributtati e sforzati, si ritiravano tutti nella radila degli ordini de'triarii ; e tutte tre le schiere diventate un corpo, rinnovavano la zuffa : dove essendo superati , per non avere più da rifarsi, perdevano la giornata. E perchè ogni volta che questa ultima schiera de'triarii si adoperava, lo esercito era in pericolo, ne nacque quel proverbio: Resredacla est ad Iriarios; che ad uso toscano vuol dire : Noi abbiamo messo r ultima posta. I capitani dei nostri tempi, come egli hanno abbandonato tutti gli altri ordini, e della antica disciplina ei pon ne osservano parte alcuna, cosi hanno abbandonata questa

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parte, la quale non è di poca importanza: perchè chi si or- dina da* potersi nelle giornate rifare tre volte, ha ad avere tre volte inimica la fortuna a volere perdere, ed ha ad avere per iscontro una virtù che sia atta tre volle a vincerlo. Ma chi non sta se non in su '1 primo urto, come stanno oggi gli eserciti cristiani, può facilmente perdere; perchè ogni disor- dine, ogni mezzana virtù gli può tórre la vittoria. Quello che fa agli eserciti nostri mancare di potersi rifare tre volte, è

10 avere perduto il modo di ricevere V una schiera neir altra.

11 che nasce perchè al presente s' ordinano le giornate con uno di questi duoi disordini: o mettono le loro schiere a spalle runa dell'altra, e fanno la loro battaglia larga per traverso, e sottile per diritto; il che la fa più debole, per aver poco dal petto alle schiene. E quando pure, per farla più forte, ei riducono le schiere per il verso de' Romani, se la prima fronte è rotta, non avendo ordine di essere ricevuta dalla se- conda, s'ingarbugliano insieme tutte, e rompono medesi- me: perchè se quella dinanzi è spinta, ella urta la seconda; se la seconda vuol far innanzi, ella è impedita dalla pri- ma : donde che, urtando la prima la seconda, e la seconda la terza, ne nasce tanta confusione, che spesso uno minimo ac- cidente rovina uno esercito. Gli eserciti spagnuoli e franciosi nella zuCfa di Ravenna, dove mori monsignor de Fois capi- tano delle genti di Francia (la quale fu, secondo i nostri tem- pi, assai bene combattuta giornata), s' ordinarono con uno de' soprascritti modi; cioè che l' uno e l' altro esercito venne con tutte le sue genti ordinate a spalle: in modo che non veni- vano avere 1' uno l'altro se non una fronte, ed erano assai più per il traverso che per il diritto. E questo avviene loro sempre dove egli hanno la campagna grande, come gli avevano a Ravenna: perchè, conoscendo il disordine che fan- no nel ritirarsi, mettendosi per un filo, lo fuggono quando e* possono col fare la fronte larga, com'è detto; ma quando il paese gli ristringe, si stanno nel disordine soprascritto, senza pensare il rimedio. Con questo medesimo disordine cavalcano per il paese inimico, o se e'predano, o se e'fanno altro maneg- gio di guerra. Ed a Santo Regolo in quel di Pisa, ed altrove,

* La Bladiana soltanto : ili.

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dove i Fiorenlini furono rolli da'Pisani ne'lempi della guerra che fu Ira i Fiorenlini e quella cillà, per la sua ribellione dopo la passata di Carlo re di Francia in Italia, non nacque (al rovina d'altronde, che dalla cavalleria amica; la quale sendo davanti e ributtala da'nimici, percosse nella fanteria fiorentina, e quella ruppe: donde lutto il restante delle genti dierono volta: e messer Ciriaco * dal Borgo, capo antico delle fanterie fiorentine, haatrermato alla presenza mia molle vol- te, non essere mai stalo rotto se non dalla cavalleria degli amici. 1 Svizzeri, che sono i maestri delle moderne guerre, quando ei militano coi Franciosi, sopra tulle le cose hanno cura di mettersi in lato, che la cavalleria amica, se fusse ri- buttata, non gli urli. £ benché queste cose paiano facili ad in- tendere, e facilissime a farsi; nondimeno non si è trovato an- cora alcuno de' nostri contemporanei capitani, che gli antichi ordini imiti, e gli moderni corregga. £ benché gli abbino accora loro tripartito lo esercito, chiamando V una parte an- liguardo, l'altra battaglia e l'altra retroguardo; non se ne servono ad allro che a comandargli nelli alloggiamenti : mn nello adoperargli, rade volle è, come di sopra é detto, che a tulli quesU corpi non faccino correre una medesima fortuna. E perché molli, per scusare la ignoranza loro, allegano che la violenza delle artiglierie non patisce che in questi tempi si usino molli ordini de gli antichi, voglio disputare nel seguente capitolo questa materia, ed esaminare se le artiglierie impe- discono che non si possa usare l'antica virtù.

Cip. XVII. Quanlo si debbino slimare dagli eitercili ne' pie - senti tempi le artiglierie; e se quella oppinione, clie se ne ha in universale, è vera.

Considerando io, oltre alle cose soprascritte, quante zuffe campali (chiamate ne* nostri tempi, con vocabolo francioso,

' TuUe le stampe hanno Criaco. Avremmo fatto , anche per mero Luon senso, una si naturale correzione: ma il eh. direttore del Giornale militare to- scano (cav. F. Dragomanni) ci fa pur sapere che il conetlabile Ciriaco del Borgo a S. Sepolcro era della famiglia de' Palamidessi.

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giornate, e dagl'Italiani fatti d'arme) furono fatte dai Romani in diversi tempi; mi è venuto in considerazione la oppinione universale di molti, che vuole che se in quelli tempi fussìno state le artiglierie, non sarebbe stato lecito a' Romani, si facile, pigliare le provincie ; farsi tributari i popoli, come e' feciono;nè arebbono in alcuno modo fatti si gagliardi acquisti. Dicono ancora, che mediante questi instrumenti de' fuochi, gli uomini non possono usare mostrare la virtù loro, come e' potevano anticamente. E soggiungono una terza cosa: che si viene con più diflìcultà alle giornate che non si veniva al- lora, né vi si può tenere dentro quegli ordini di quelli tempi; talché la guerra si ridurrà col tempo in su le artiglierie. £ giudicando non fuora di proposito disputare se tali oppinioni sono vere, e quanto le artiglierie abbino cresciuto o diminuito di forze agli eserciti, e se le tolgano o danno occasione ai buoni capitani di operare virtuosamente ; comincerò a parlare quanto alla prima loro oppinione : che gli eserciti antichi ro- mani non arebbono fatto gli acquisti che feciono, se le arti- glierie fussino state. Sopra che, rispondendo, dico: come e' si fa guerra o per difendersi, o per offendere ; donde si ha pri- ma ad esaminare a quale di questi duoi modi di guerra le faccino più utile, o più danno. E benché sia che dire da ogni parte, nondimeno io credo che senza comparazione faccino più danno a chi si difende, che a chi otTende. La ragione che io ne dico é, che quel che si difende, o egli è dentro a una terra, o egli é in su' campi dentro ad un steccato. S'egli è dentro ad una terra, o questa terra è piccola, come sono la maggior parte delle fortezze, o la è grande : nel primo caso, chi si difende è al tutto perduto, perchè l'impelo delle artiglierie é tale, che non trova muro, ancora- ché grossissimo, che in pochi giorni ei non abbatta; e se chi é dentro non ha buoni spazi da *■ ritirarsi e con fossi e con ripari, si perde; può sostenere l'impeto del nimico che volesse dipoi entrare per la rottura del muro, a questo gli giova artiglieria che avesse: perché questa é una massima, che dove gli uomini in frotta e con impelo possono andare, le artiglierie non gli sostengono. Però i furori oltramontani

< La Romana soltanto : di.

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nella difesa delle terre non sono sostenati : son bene soste- nuti gli assalti italiani, i quali non in frotta, ma spicciolati si conducono alle battaglie, le quali loro, pet nome molto pro- prio, chiamano scaramucce. E questi che vanno con questo disordine e questa freddezza ad una rottura d* un muro dove sia artiglierie, vanno ad una manifesta morte, e contra a loro le artiglierie vagliono : ma quelli che in frotta conden- sati, e che l'uno spinge l'altro, vengono ad una rottura, se non sono sostenuti o da fossi o da ripari, entrano in ogni luogo, e le artiglierie non gli tengono; e se ne muore qual- cane, non possono essere tanti che gì' impedischino la vitto* ria. Questo esser vero, si è conosciuto in molte espugnazioni fatte dagli oltramontani in Italia, e massime in quella Brescia : perchè, sendosi quella terra ribellala da' Franciosi, e lenendosi ancora per il Re di Francia la fortezza, ave- vano i Veneziani, per sostenere l' impelo che da quella po- tesse venire nella terra, munita tutta la strada di artiglie- rie che dalla fortezza alla città scendeva, e postane a fronte e ne' fianchi, ed in ogni altro luogo opportuno. Delle quali monsignor di Fois non fece alcuno conto; anzi quello con il suo squadrone, disceso a piede, passando per il mezzo di quelle, occupò la città, per quelle sentì ch'egli avesse ricevuto alcuno memorabile danno. Talché, chi si difende in una terra piccola, come è detto, e truovisì le mura in terra, e non abbia spazio di ritirarsi con ì ripari e con fossi, ed ab- biasi a fidare in su le artiglierie, si perde subito. Se tu di- fendi una terra grande, e che tu abbia comodità di ritirarti, sono nondimanco senza comparazione più utili le artiglierie a chi è di fuori, che a chi è dentro. Prima, perchè a volere che una artiglieria nuoca a quelli che sono di fuora, tu sei neces- sitato levarti con essa dal piano della terra; perchè, sLnndo in sul piano, ogni poco di argine e di riparo che il nimico faccia, rimane sicuro, e tu non gli puoi nuocere. Tanto che avendoti ad alzare, e tirarti sul corridoio delle mura, o in qualunque modo levarti da terra, tu ti tiri dietro due diflì- cullà: la prima, che non puoi condurvi artiglierìa della gros- sezza e della potenza che può trarre colui di fuora, non si potendo ne' piccoli spazi maneggiare le cose grandi; l'altra,

I

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che quando bene tu ve la potessi condurre, tu non puoi fare quelli ripari fedeli e sicuri, per salvare della arliglieria, che possono fare quelli di fuora, essendo in su '1 terreno, ed avendo quelle comodità e quello spazio che loro medesimi vo- gliono : talmentechè, gli è impossibile a chi difende una terra, tenere le artiglierie ne' luoghi alti, quando quelli che son di fuora abbino assai artiglierie e potenti ; e se egli hanno a venire con essa ne' luoghi bassi, ella diventa in buona parte inutile, come è dello. Talché la difesa della città si ha a ri- durre a difenderla con le braccia, come anticamente si fa- ceva, e con la artiglieria minuta: di che se trae un poco di utilità rispetto a quella arliglieria minuta, se ne cava in- comodità che contrappesa alla comodità della artiglieria; per- che, rispetto a quella, si riducono le mura delle terre, basse e quasi sotterrale ne' fossi: talché, com'è' viene alle batta- glie di mano, o per essere battute le mura o per esser ri- pieni i fossi, ha chi è dentro molti più disavvantaggi che non aveva allora. E però, come di sopra disse, giovano questi instrumenti mollo più a chi campeggia le terre, che a chi è campeggialo. Quanto alla terza cosa, di ridursi in uno campo dentro ad uno steccato per non fare giornata, se non a tua comodità 0 vantaggio; dico che in questa parte tu non hai più rimedio ordinariamente a difenderli di non combattere, che si avessino gli antichi; e qualche volta, per conto delle arti- glierie, hai maggiore disavvantaggio. Perché, se il nimico ti giunge addosso, ed abbia un poco di vantaggio del paese, come può facilmente intervenire; e Iruovisi più allo di te; o che nello arrivare suo tu non abbi ancora fatti i tuoi argini, e copertoti bene con quelli; subilo, e senza che tu abbi alcun rimedio, ti disalloggia, e sei forzato uscire delle fortezze tue, e venire alla zufla. Il che intervenne agli Spagnuoli nella gior- nata di Ravenna; i quali essendosi muniti tra il fìume del Ron- co ed uno argine , per non lo avere tirato tanto alto che bastas- se, e per avere i Franciosi un poco il vantaggio del terreno, furono conslrelti dalle artiglierie uscire delle fortezze loro, e venire alla zutfa. Ma dato, come il più delle volte debbe es- sere, che il luogo che tu avessi preso con il campo fusse più 'eminente che gli altri all'incontro, e che gli argini fussino

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baoni e sicuri, (ale che, medianle il sito e l' allre (uè prepa- razioni, il nimico non ardisse di assaltarli; si verrà in questo caso a quelli modi che anticamente si veniva, quando uno era con il suo esercito in lato da non potere essere otTeso : i quali sono, correre il paese, pigliare o campeggiare le terre lue amiche, impedirti le vettovaglie; tanto che tu sarai for- zalo da qualche necessità a disalloggiare, e venire a gior- nata; dove le artiglierie, come di sotto si dirà, non operano molto. Considerato, adunque, di quali ragioni guerre feciono i Romani, e veggendo come ei feciono quasi tutte le lor guerre per otTendere altrui, e non per difender loro; si vedrà, quando sieno vere le cose dette sopra, come quelli areb- bono avuto più vantaggio, e più presto arebbono fatto i loro acquisti, se le fussino state in quelli tempi. Quanto alla se- conda cosa, che gli uomini non possono mostrare la virtù loro, come ei potevano anticamente, mediante la artiglieria; dico ch'egli è vero, che dove gli uomini spicciolati si hanno a mostrare, eh' e' portano più pericoli che allora, quando avessino a scalare una terra, o fare simili assalti, dove gli uo- mini non ristretti insieme , ma di per l' uno dall' altro aves- sino a comparire. È vero ancora, che gli capitani e capi degli eserciti stanno sottoposti più al pericolo della morte che allo- ra, potendo esser aggiunti con le artiglierie in ogni luogo; giova loro lo essere nelle ultime squadre, e muniti di uomini fortissimi. Nondimeno si vede che l'uno e l'altro di questi duoi pericoli fanno rade volte danni isiraordinari: perchè le terre munite bene non si scalano, si va con assalti de- boli ad assaltarle; ma, a volerle espugnare, si riduce la cosa ad una ossidione, come anticamente si faceva. Ed in quelle che pure per assalto si espugnano, non sono molto * maggiori i pericoli che allora : perchè non mancavano anche in quel tempo a chi difendeva le terre, cose da trarre; le quali se non erano si furiose, facevano, quanto all'ammazzare gli uo- mini, il simile effetto. Quanto alla morte de' capitani e de' con- dottieri, ce ne sono, in ventiquattro anni che sono siate le guerre ne' prossimi tempi in Italia, meno esempi, che non era in dieci anni di tempo appresso agli antichi. Perché, dal

* La Romana : molti.

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conte Lodovico della Mirandola, che morì a Ferrara quando i Veniziani pochi anni sono assaltarono quello stato, ed il Duca di Neniors, che mori alla Cirignuola, in fuori; non è oc- corso che d'artiglierie ne sia morto alcuno; perchè monsignor di Pois a Ravenna morì di ferro, e non di fuoco. Tanto che, se gli uomini non dimostrano particolarmente la loro virtù, na- sce non dalle artiglierie, ma dai cattivi ordini, e dalla de- bolezza degli eserciti; i quali, mancando di virtù nel tutto, non la possono dimostrare nella parte. Quanto alla terza cosa della da costoro, che non si possa venire alle mani, e che la guerra si condorrà tutta in su l'arliglieriei dico questa oppinione essere al tutto falsa ; e cosi Ga sempre tenuta da coloro che secondo l'antica virtù vorranno adoperare gli eserciti loro. Perchè, chi vuole fare uno esercito buono, gli conviene, con esercizi * o finti o veri, assuefare gli uomini suoi ad accostarsi al nimico, e venire con lui al menare della spada, e al pigliarsi per il petto; e si debbe fondare più in su le fanterie che in su' cavagli, per le ragioni che di sotto si diranno. E quando si fondi in su 1 fanti ed in su i modi predetti, diventano al tutto le artiglierie inutili; perchè con più facilità le fanterie nello accostarsi al nimico, possono fug- gire il colpo delle artiglierie, che non potevano anticamente fuggire l'impeto degli elefanti, de' carri falcati, e d'altri riscontri inusitati, che le fanterie romane riscontrarono; contra ai quali sempre trovarono il rimedio: e tanto più fa- cilmente lo arebbono trovato contra a queste, quanto egli è più breve il tempo nel quale le artiglierie li possono nuo- cere, che non era quello nel quale potevano nuocere gli ele- fanti ed i carri. Perchè quelli nel mezzo della zuffa ti dis- ordinavano;^ queste solo innanzi alla zuffa ti 'mpediècono: il quale impedimento facilmente le fanterie fuggono, o con an- dare coperte dalla natura del silo, o con abbassarsi in su la terra quando le tirano. Il che anche per esperienza si è visto non essere necessario, massime per difendersi dalle ar- tiglierie grosse; le quali non si possono in modo bilanciare,

* Male , e con omissione di una lettera', nelle antiche edizioni : eserciti ed esser CI ti,

8 La Testina e le altre: ti disordinano.

264 DEI DISCORSI

0 che se le vanno alle le non ti Iruovino, o che se le vanno basse le non ti arrivino. Venuti poi gli eserciti alle mani, questo è più chiaro che la luce, che le grosse le pic- cole ti possono poi offendere : perchè, se quello che ha 1* ar- tiglierie é davanti, diventa tuo prigione; s'egli è dietro, egli offende prima l'amico che te; a spalle ancora non li può ferire in modo che tu non lo possa ire a trovare, e ne vie- ne a seguitare l' effetto detto. questo ha molta disputa ; perchè se ne è visto l'essempio de'Svizzeri, i quali a Novara, nel 1513, senza artiglierie e senza cavagli, andarono a tro- vare lo esercito francioso munito di artiglierie dentro alle fortezze sue, e lo ruppono senza aver alcuno impedimento da quelle. E la ragione è, oltre alle cose dette di sopra, che l'artiglieria ha bisogno d'essere guardata, a volere che la operi, o da mura o da fossi o da argini; e come gli manca una di queste guardie, ella è prigione, o la diventa inuti- le: come gli interviene quando la si ha a difendere con gli uomini ; il che gli interviene nelle giornate e zuffe campa- li. Per Ganco le non si possono adoperare, se non in quel modo che adoperavano gli antichi gli instrumcnti da trarre ; che gli mettevano fuori delle squadre, perchè ei comhnt- tessino fuori delti ordini ; ed ogni volta che o da cavalleria o da altri erano spinti, il refugio loro era dentro * alle le- gioni. Chi altrimenti ne fa conto, non la intende bene, e fidasi sopra una cosa che facilmente lo può ingannare. E se il Turco, mediante l'artiglieria, centra al Sofi ed il Soldano ha avuto vittoria, è nato non per altra virtù quella, che per lo spavento che lo inusitato remore messe nella caval- leria loro. Conchiuggo pertanto, venendo al fine di questo discorso, l'artiglieria essere utile in uno esercito quando vi sia mescolata l'antica virtù ; ma senza quella, contra a uno esercito virtuoso è inutilissima.

Lir.RO SECONDO. 265

Cap. XVIII. Come per l'aulorìlà de' Romani, e per lo essempio della anlica milizia, si debbe slimare più le fanterie che i cavagli.

E' si può per molte ragioni e per molli essempi dimo- strare chiaramente, quanto i Romani in tutte le militari azioni stimassino più la milizia a pie che a cavallo, e so- pra quella fondassino tutti i disegni delle forze loro: come si vede per molti essempi, ed infra gli altri, quando si azzuffa- rono con i Latini appresso il lago Regillo ; dove già essendo inclinato lo esercito romano, per soccorrere ai suoi fecero discendere degli uomini da cavallo a piede, e per quella via, rinnovata la zulTa, ebbono la vittoria. Dove si vede manife- stamente , i Romani avere più confidato in loro essendo a piede, che mantenendoli a cavallo. Questo medesimo ter- mine usarono in molte altre zuffe, e sempre lo trovarono ottimo rimedio in gli loro pericoli. si opponga a questo la oppinione di Annibale, il quale veggendo in la giornata di Canne, che i Consoli avevano fatto discendere a pie gli loro cavalieri, facendosi beffe di simile partito, disse: Quam malìem vinclos mihi Iraderenl cquiles ; cioè : io arei più caro che me gli dessino legati. La quale oppinione ancoraché la sia stata in bocca d'un uomo eccellentissimo, nondimeno, se si ha a ire dietro alla autorità, si debbe più credere ad una Repubblica romana, e a tanti Capitani eccellentissimi che furono in quella, che ad uno solo Annibale: ancoraché senza le autorità ce ne siano ragioni manifeste. Perchè l'uo- mo a piede può andare in molti luoghi, dove non può an- dare il cavallo; puossi insegnarli servare l'ordine, e tur- bato che fusse, come e' lo abbia a riassumere: a' cavagli è diiTicile fare servare l* ordine , ed impossibile , turbati che sono, riordinargli. Oltra di questo, si trova, come negli uo- mini, de' cavagli che hanno poco animo, e quelli che ne hanno assai: e molte volte interviene che un cavallo ani- moso è cavalcato da uno uomo vile, ed uno cavallo vile da uno animoso; ed in qualunque modo che segua questa dispa rità, ne nasce inutilità e disordine. Possono le fanterie or-

2.?

266 OfiI DiSCOHSl.

dinate facilmente rompere i cavagli, e difficilmente esser rotte da quelli. La quale oppinionc è corroborata, oltre a molti essempì antichi e moderni, dalla autorità di coloro che dan- no delle cose civili regola: dove mostrano come in prima le guerre si cominciarono a fare con i cavagli, perchè non era ancora l'ordine delle fanterie; ma come queste si ordina- rono , si conobbe subito quanto loro erano più utili , che quelli. Non è per questo però che i cavalli non siano neces- sari negli eserciti , e per fare scoperte , e per scorrere a predare i paesi, per seguitare ì nimici quando ei sono in fuga, e per essere ancora in parte una opposizione ai cavagli degli avversari: ma il fondamento e il nervo dello esercito, e quello che si debbe più stimare, debbono essere le fante- rie. Ed infra i peccati de' principi italiani , che hanno fatto Italia serva de' forestieri, non ci è il maggiore, che avere te- nuto poco conto di questo ordine, ed avere vólto tutta la loro cura alla milizia a cavallo. Il quale disordine è nato per la malignità de' capi, e per la ignoranza di coloro che tenevano stato. Perchè essendosi ridotta la milizia italiana , da' ven- ticinque anni indietro, in uomini che non avevano stalo, ma erano come capitani di ventura, pensorono subito come potessino mantenersi la riputazione stando armati loro, e disarmati i principi. E perchè uno numero grosso di fanti non poteva loro essere continuamente pagato, e non avendo sudditi da poter valersene, ed ano piccolo numero non dava loro riputazione, si volsono a tenere cavagli: perchè dugcnlo o trecento cavalli che erano pagati ad uno condottiero, * lo mantenevano riputato; ed il pagamento non era tale, che da- gli uomini che tenevano stato non potesse essere adempiuto. E perchè questo seguisse più facilmente, e per mantenersi più in riputazione, levarono tutta l'atTezione e la riputazione da' fanti, e ridussonla in quelli loro cavalli: e in tanto creb- bono questo disordine, che in qualunque grossissimo eser- cito era una minima parte di fanteria. La quale usanza fece in modo debole, insieme con molti altri disordini che si mescolarono con quella, questa milizia italiana, che questa provincia è stata facilmente calpestata da tutti gli oltraraon-

* La Bla diana t eondoUiert-

LIBRO SECONDO. 267

lani. Mostrasi più apertaraenle questo errore, di stimare più i cavalli che le fanterie, per uno altro essempio romano. Era- no i llomani a campo a Sora, ed essendo usciti fuori della terra una lurma di cavalli per assaltare il campo, se gli fece all'incontro il Maestro de* cavalli romano con la sua cavalleria , e datosi di petto , la sorte dette che nel primo scontro i capi dell'uno e dell'altro esercito morirono; e re- stati gli altri senza governo, e durando nondimeno la zuflTa, i Romani per superare più facilmente Io inimico, scesono a piede, e conslrinsono i cavalieri nimici, se si vollono difen- dere, a fare il simile: e con tutto questo, i Romani ne ri- portarono la vittoria. Non può esser questo essempio mag- giore in dimostrare quanto sia più virtù nelle fanterie che ne' cavagli: perchè se nelle altre fazioni i Consoli facevano discendere i cavalieri romani, era per soccorrere alle fan- terie che pativano, e che avevano bisogno di aiuto; ma in questo luogo e'discesono, non per soccorrere alle fanterie per combattere con uomini a pie de*nimici, ma combat- tendo a cavallo co' cavalli, giudicarono, non potendo supe- rargli a cavallo, potere scendendo più facilmente vincergli. Io voglio adunque conchiudere, che una fanteria ordinata non possa senza grandissima diflìcultà esser superala, se non da una altra fanteria. Crasso e Marc' Antonio romani cor- sono per il dominio de' Parti molte giornate con pochissimi cavalli ed assai fanteria, ed all' incontro avevano innumera- bili cavalli de' Parti. Crasso vi rimase con parte dello eser- cito morto. Marc' Antonio virtuosamente si salvò. Nondi- manco, in queste afflizioni romane si vede quanto le fanterie prevalevano ai cavalli: perchè essendo in un paese largo, dove i monti son radi, ed i fiumi radissimi, le marine lon- ginque, e discosto da ogni comodità; nondimanco Marc* An- tonio, al giudicio de* Parti medesimi, virtuosamente si salvò; mai ebbero * ardire tutla la cavalleria partica tentare gli ordini dello esercito suo. Se Crasso vi rimase, chi leggerà bene le sue azioni, vedrà come e* vi fu piuttosto ingannato

* Lezione della Bladiana, più sincera al mio credere, della sofisticata r ebbe. La stessa osservazione avrei potuto fare poco innanzi alla voce cahcsta^ dove le altre hanno calpestata j ed altre non poche, le quali ometto per brevità.

268 DEI DISCORSI

che forzalo: mai, in tulli i suoi disordini, i Parti ardirono di urtarlo; anzi sempre andando costeggiandolo, * ed impe- dendogli le vettovaglie, promettendogli e non gli osservando, lo condussono ad una estrema miseria. Io crederei avere a durare più fatica in persuadere quanto la virtù delle fan- terie è più potente che quella de' cavalli, se non ci fussino assai moderni essempi che ne rendono testimonianza pienis- sima. E' si è veduto novemila Svizzeri a Novara, da noi di sopra allegata, ' andare ad affrontare diecimila cavalli ed altrettanti fanti, e vincergli: perchè i cavalli, non li pote- vano offendere : i fanti, per esser gente in buona parte gua- scona e male ordinata, stimavano poco. Videsi di poi ven- liseimila Svizzeri andare a trovare sopra Milano Francesco re di Francia, che aveva seco ventimila cavalli, quaranta- mila fanti, e cento carra d'artiglieria; e se non vinsono la giornata come a Novara, combatterono due giorni vir- tuosamente; e dipoi, rotti che furono, la metà di loro si sal- varono. Presunse Marco Regolo Attilio , non solo con la fanteria sua sostenere i cavalli, ma gli elefanti; e se il di- segno non gli riuscì, non fu però che la virtù della sua fanteria non fusse tanta, che ei non confidasse tanto in lei che credesse superare quella dimenila. Replico, pertanto, che a voler superare i fanti ordinati, è necessario opporre loro fanti meglio ordinati di quelli: altrimenti, si va ad una per- dita manifesta. Ne' tempi di Filippo Visconti, duca di Milano, sccsono in Lombardia circa sedicimila Svizzeri : donde il Duca avendo per capitano allora il Garmignuola, lo mandò *con circa mille cavalli e pochi fanti allo incontro loro. Co* stui non sappiendo l'ordine del combatter loro, ne andò ad incontrargli con i suoi cavalli, presumendo poterli' subito rompere. Ma trovatogli immobili, avendo perduti molli do' suoi uomini, si ritirò: ed essendo valentissimo uomo, e sap- piendo negli accidenti nuovi pigliare nuovi parlili, riTaltosi

' CmI tutte le ediiiooi { e la Romana toltanto : eonstringendolo.

' Così nella Bladiana ; e può riferire a Novara , ouia all' esempio delle cose ivi accadute. Cionondimeno , nelle altre edizioni si legge : allegati.

La Romana ha poterlo j che polrebUe, benché noa senza sforzo, rife- rirsi ad ordine.

LIBRO SECONDO. 269

gente gli andò a trovare; e venuto loro all'incontro, fece smontare a pie latte le sue genti d'arme, e fallo testa di quelle alle sue fanterie, andò ad investire i Svizzeri. I quali non ebbono alcun rimedio: perchè, sendo le genti d'arme del Carmignuola a pie e bene armate, poterono facilmente entrare infra gli ordini de' Svizzeri, senza patire alcuna le- sione; ed entrati tra questi, poterono facilmente offendergli: talché di lutto il numero di quelli, ne rimase quella parte viva, che per umanità del Carmignuola fu conservala. Io credo che molti conoschino questa differenza di virtù che è intra l'uno e l'altro di questi ordini: ma è tanta la infe- licità di questi tempi, che gli essempi antichi i mo- derni, né la confessione dello errore é sufficiente a fare che i moderni principi si ravvegghino; e pensino che a volere rendere riputazione alla milizia d' una provincia o d' uno slato, sia necessario risuscitare questi ordini, tenergli ap- presso, dar loro riputazione, dar loro vita, acciocché a lui e vita e riputazione rendino. E come e'diviano da questi modi, cosi diviano dagli altri modi delti di sopra: onde ne nasce che gli acquisti sono a danno, non a grandezza d'uno stato, come di sotto si dirà.

Cai». XIX. Che gli acquisii nelle repubbliche non bene ordì' naie, e che secondo la romana virtù non procedono, sono a rovina, non a esaltazione d'esse.

Queste contrarie oppinioni alla verità, fondale in su'mali essempi che da questi nostri corrotti secoli sono stati intro- dotti, fanno che gli uomini non pensano a diviare dai con- sueti modi. Quando si sarebbe potuto persuadere a uno Ita- liano da trenta anni in dietro, che diecimila fanti polessino assaltare in un piano diecimila cavalli ed altrettanti fanti, e con quelli non solamente combattere, ma vincergli; comesi vede per lo essempio da noi più volle allegalo, a Novara? E benché le istorie ne siano piene, tamen non ci arebbero prestato fede; e se ci a vessino prestalo fede, arebbero dello che in questi tempi s'arma meglio, e che una squadra d'uo- mini d'arme sarebbe atta ad urlare uno scoglio, non che una

23'

270 DEI DISCORSI

fanteria: e cosi con queste false scase corrompevano il giu- dizio loro; arebbero consideralo, che Lucullo con pochi fanti ruppe cento cinquantamila cavalli di Tigrane; e che tra quelli cavalieri era una sorte di cavalleria simile al tutto agli uomini d'arme nostri: e cosi questa fallacia è stata scoperta dallo essempìo delle genti oltramontane. E come e' si vede per quello esser vero, quanto alla fanteria , quello che nelle istorie si narra; cosi doverrebbero credere esser veri ed utili lutti gli altri ordini antichi. E quando questo fnsse credulo, le repubbliche ed i principi errerebbero meno; sariano più forti ad opporsi ad uno impeto che venisse loro addosso; non spererebbero nella fuga; e quelli che avessino nelle mani un vivere civile, lo saperebbero meglio indirizzare, o per la via dello ampliare, o per la via del mantenere; e crederebbero che lo accrescere la città sua d'abitatori, farsi compagni e non sudditi, mandare colonie a guardare i paesi acquistati, fer capitale delle prede, domare il nimico con le scorrerie e con le giornate e non con lo ossidioni, tenere ricco il pub- blico, povero il privalo, mantenere con sommo studio li eser- cizi militari, sono le vie a fare grande una repubblica, ed ac- quistare imperio. E quando questo modo dello ampliare non gli piacesse, penserebbe che gli acquisti per ogni altra via sono la rovina delle repubbliche» e porrebbe freno ad ogni ambizione; regolando bene la sua città dentro con le leggi e co* costumi, proibendogli l'acquistare e solo pensando a di- fendersi, e le difese tenere ordinate bene: come fanno le re- pubbliche della Magna, le quali in questi modi vivono e sono vivute libero un tempo. Nondimeno, come altra volta dissi quando discorsi la differenza che era da ordinarsi per acqui- stare a ordinarsi per mantenere; ò Impossibile che ad una repubblica riesca lo stare quieta, e godersi la sua libertà e gli pochi confini: perchè, se lei non molesterà altrui, sarà moleslata ella; e dallo essere molestata le nascerà la voglia e la necessità dello acquistare; e quando non avesse il ni- mico fuora, lo troverebbe in casa: come pare necessario in- tervenga a lotte le grandi cittadi. E se le repubbliche della Magna possono vivere loro in quel modo, ed hanno potuto durare un tempo; nasce da certe condizioni che sono in quel

LIBRO SECO?\^DO. 271

paese, le quali non sono altrove, senza le quali non potreb- bero tenere sirail modo di vivere. Era quella parte della Ma- gna di che io parlo, sottoposta allo imperio romano come la Francia e la Spagna: ma venuto dipoi in declinazione l' im- perio, e ridottosi il titolo di tale imperio in quella provincia, cominciarono quelle cittadi più potenti, secondo la viltà o necessità degl' imperadori, a farsi libere, ricomperandosi dallo imperio, con riservargli un piccolo censo annuario; tanto che, a poco a poco, tutte quelle cittadi che erano imme- diate dello imperadore, e non erano soggette ad alcuno prin- cipe, si sono in simil modo ricomperate. Occorse in questi medesimi tempi che queste cittadi si ricomperavano, che certe comunità sottoposte al duca d'Austria si ribellarono da lui; tra le quali fu Filiborgo, e Svizzeri, e simili; le quali prosperando nel principio, pigliarono a poco a poco tanto augumento, che, non che e* sieno tornati sotto il giogo d'Au- stria, sono in timore a tutti i loro vicini: e questi sono quelli che si chiamano Svizzeri. È, adunque, questa provincia' com- partita in Svizzeri, repubbliche (che chiamano terre franche), principi, ed imperadore. E la cagione che, intra tante diversità di vivere, non vi nascono, o, se le vi nascono, non vi durano molto le guerre, è quel segno dell' imperadore; il quale, av- venga che non abbi forze, nondimeno ha fra loro tanta ri- putazione, ch'egli è uno loro conciliatore, e con l'autorità sua, interponendosi come mezzano, spegne subito ogni scan- dalo. E le maggiori e le più lunghe guerre vi siano slate, sono quelle che sono seguile intra i Svizzeri ed il duca d'Au- stria: e benché da molti anni in qua io imperadore ed il duca d'Austria sia una cosa medesima, non pertanto non ha mai potuto superare l'audacia dei Svizzeri, dove non è mai stato modo d'accordo, se non per forza. il resto della Magna gli ha pòrti molti aiuti; si perchè le comunità non sanno of- fendere chi vuole vivere libero come loro; si perchè quelli principi, parte non possono per esser poveri, parte non vo- gliono per avere invidia alla potenza sua. Possono vivere, adun- que, quelle comunità contente del piccolo loro dominio, per non avere cagione, rispetto all'autorità imperiale, di diside-

* Cioè r Allcmagna , o Germania.

272 DEI DISCORSI

rark) maggiore: possono vivere onile dentro alle mura loro, per aver il nimico propinquo, e che piglierebbe l'occasione d'occuparle, qualunque volta le discordassino. Che se quella provincia fusse condizionata altrimenti, converrebbe loro cercare d'ampliare e rompere quella loro quiete. E perchè altrove non sono tali condizioni, non si può prendere questo modo di vivere; e bisogna o ampliare per via di leghe, o ampliare come i Romani. E chi si governa altrimenti, cerca non la sua vita, ma la sua morte e rovina: perchè in mille modi e per molte cagioni gli acquisti sono dannosi ; perchè gli sta molto bene insieme ^ acquistare imperio, e non forze; e chi acquista imperio e non forze insieme, conviene che rovini. Non può acquistare forze chi impoverisce nelle guer- re, ancora che sia vittorioso; che ei mette più che non trac degli acquisti: come hanno fatto i Veniziani ed i Fiorentini, i quali sono slati mollo più deboli, quando l'uno aveva la Lom- bardia e l'altro la Toscana, che non erano quando l'uno era conlento del mare, e l'altro di sei miglia di confìni. Perchè lutto è nato da avere voluto acquistare, e non avere saputo pigliare il modo e tanto più meritano biasimo, quanto egli hanno meno scusa, avendo veduto il modo hanno tenuto i Romani, ed avendo potuto seguitare il loro cssempio, quando i Romani, senza alcuno essempio, per la prudenza loro, da loro medesimi lo seppono trovare. Fanno, olirà di questo, gli acquisti qualche volta non mediocre danno ad ogni bene ordi- nata repubblica, quando e'si acquista una città o una provin- cia piena di delizie, dove si può pigliare di quelli costumi per la conversazione che si ha con quelli: come intervenne ado- rna, prima, nello acquisto di Capova; e dipoi, ad Annibale E se Capova fusse slata più longinqua. dalla città, che^ lo errore de' soldati non avesse avuto il rimedio propinquo; o che Roma fusse stata in alcuna parte corrotta; era senza dubbio quello acquisto la rovina della Repubblica romana. E Tito Livio fa fede di questo con queste parole: Jam lune mi-

< Nessuna edizione offre varianti a questo passo; il quale è da intendersi ; molto facilmente vanno insieme queste due cose ; cioè lo acquietare imperio , r non acquistare forze.

* Che ha qui la forza di laiche, sicché: onde invano gli editori della Te- stina ed altri emendarono : e che.

LIBRO SECONDO. 273

nime salubris mililari disciplinas Capua, inslrumenlum omnium voluplalum, delinilos mililum animos averlil a memoria pa- trioe. E veramente, simili cillà o provincie si vendicano con- Ira al vincitore senza zuffa e senza sangue ; perchè, riempien- doli de' suoi tristi costumi, gli espongono ad essere vinti da qualunque gli assalta. E luvenale non potrebbe meglio, nelle sue satire, aver considerata questa parte, dicendo: che nei petti romani per gli acquisti delle terre peregrine erano in- trati i costumi peregrini; ed in cambio di parsimonia e di al- tre eccellentissime virtù, gula et luxuria incubuit, viclumque ulciscilur orbem. Se, adunque, l'acquistare fu per esser per- nizioso ai Romani nei tempi che quelli con tanta prudenza e tanta virtù procedevano, che sarà adunque a quelli che dis- costo dai modi loro procedono? e che, oltre agli altri errori che fanno, di che se ne è di sopra discorso assai, si vagliono dei soldati o mercenari o ausiliari? Donde ne risulta loro spesso quei danni di che nel seguente capitolo si farà men- zione.

Gap. XX. Quale pericolo porli quel principe o quella repub- blica che si vale della milizia ausiliare o mercenaria.

Se io non avessi lungamente trattato in altra mia opera, quanto sia inutile la milizia mercenaria ed ausiliare, e quanto utile la propria, io mi distenderei in questo discorso assai più che non farò; ma avendone altrove parlato a lungo, sarò in questa parte brieve. mi è paruio in tutto da passarla, avendo trovato in Tito Livio, quanto ai soldati ausiliari, largo essempio ; perchè i soldati ausiliari sono quelli che un principe o una repubblica manda, capitanati e pagati da lei, in tuo aiuto. E venendo al testo di Tito Livio,dico che, avendo i Romani, in diversi luoghi, rotti due eserciti de' Sanniti con li eserciti loro, i quali avevano mandati al soccorso de'Ca- povani ; e per questo liberi i Capovani da quella guerra che i Sanniti facevano loro ; e volendo ritornare verso Roma; ed* acciò che i Capovani, spogliati di presidio, non diventassino di nuovo preda dei Sanniti ; lasciarono due legioni nel paese di

* Lezione della Romana. Le altre omettono ed.

274 DEI DISCORSI

Capeva, che gli difendesse. Le quali legioni marcendo nel- l'ozio, cominciarono a duellarsi in quello; lanlo che, dimen- ticala la palria e la riverenza del Senato, pensarono di pren- dere l'armi, ed insignorirsi di quel paese che loro con la loro virtù avevano difeso, parendo loro che gli abitatori non fussino degni di possedere quelli beni che non sapevano di- fendere. La qual cosa presentita, fu dai Romani oppressa e corretta: come, dove noi parleremo delle congiure, largamente si mostrerà. Dico pertanto di nuovo, come di tulle l'altre qualità di soldati, gli ausiliari sono i più dannosi. Perchè in essi quel principe o quella repubblica che gli adopera in suo aiuto, non ha autorità alcuna, ma vi ha solo l'autorilà colui che li manda. Perchè i soldati ausiliari sono quelli che li sono mandati da un principe, come ho detto, sotto suoi ca- pitani, sotto sue insegne e pagati da lui: come fu questo esercito che i Romani mandarono a Capova. Questi tali sol- dati, vinto ch'eglino hanno, il più delle volle predano cosi colui che gli ha condotti, come colui centra a chi e' sono condotti; e lo fanno o per malignità del principe che gli manda, o per ambizion loro. E benché la intenzione de' Ro- mani non fusse di rompere l'accordo e le convenzioni che avevano falle coi Capovani ; nondimeno la facilità che pa- reva a quelli soldati di opprimergli fu tanta, che gli polcKe persuadere a pensare di tórre ai Capovani la terra e lo sla- to. Polrebbesi di questo dare assai essempi ; ma voglio mi basti questo, e quello dei Regini, ai quali fu tolto la vita o la terra da una legione che i Romani vi avevano messa in guar- dia. Debbe, adunque, un principe e una repubblica pigliare prima ogni altro parlilo, che ricorrere a condurre nello slato suo per sua difesa genti ausiliarie, quando ei s'abbia a fidare sopra quelle; perchè ogni patto, ogni convenzione, ancora che dura, ch'egli ara col nemico, gli sarà più leggieri che tal parlilo. E se si leggeranno bene le cose passate, e discor- rerannosi lo presenti, si troverà, per uno che n'abbia avuto buon fìne, intìniti esser rimasi ingannali. Ed uno principe o una repubblica ambiziosa non può avere la maggiore oc- casione di occupare una città o una provincia, che esser richiesto che mandi gli eserciti suoi alla difesa di quella.

LIBRO SECONDO. 275

Pertanto, colui che è tanto ambizioso che, non solamente | per difendersi ma per oCfendere altri, chiama simili, aiuti,' cerca d'acquistare quello che non può tenere, e che da quello che gliene * acquista gli può facilmente esser tolto. Ma l'am- bizione dell'uomo è tanto ^ grande, che per cavarsi una pre- sente voglia, non pensa al male che è in brieve tempo per risultargliene. lo muovono gli antichi essempi, così in questo come nell' altre cose discorse ; perchè, se e' fussino mossi da quelli, vedrebbero come quanto più si mostrala li- beralità coi vicini, e d'essere più alieno da occupargli, tanto più ti si gettano in grembo: come di sotto, per lo essempio de'Capovani, si dirà.

Gap. XXI. Il primo Pretore che i Romani mandarono in alcun luogo, fu a Capova, dopo quatlrocenlo anni che co- minciarono a far guerra.

Quanto i Romani nel modo del procedere loro circa l'acquistare fossero diCferenti da quelli che ne' presenti tempi ampliano la iurisdizione loro, si è assai di sopra discorso; e come e' lasciavano quelle terre, che non disfacevano, vivere con le leggi loro, eziandio quelle che non come compagne, ma come soggette si arrendevano loro ; ed in esse non lascia- vano alcun segno d'imperio per il Popolo romano, ma l'ob- bligavano ad alcune condizioni, le quali osservando, le man- tenevano nello stato e dignità loro. E conoscesi questi modi esser stati osservati infine che gli uscirono d'Italia, e che cominciarono a ridurre i regni e gli stati in provincie. Di questo ne è chiarissimo essempio, che il primo Pretore che fusse mandato da loro in alcun luogo, fu a Capeva : il quale vi mandarono, non per loro ambizione, ma perchè e' ne fu- rono ricerchi dai Capovani ; i quali, essendo intra loro discor- dia, giudicarono esser necessario avere dentro nella città un cittadino romano che gli riordinasse e riunisse. Da questo essempio gli Anziati mossi, e constrelti dalla medesima ne- cessità, domandarono ancora loro un Prefetto ; e Tito Livio

* La Romana , qui e in altri luoghi! gti ne,

La stessa edizion» : tanta.

276 DEI DISCOUSI

dice ìd su questo accidente, ed in su questo nuovo modo d'imperare, quod jam non solum arma, scdjura romana pol- lebanl. Vedesi, pertanto, quanto questo modofacililòraugu- mento romano. Perchè quelle città, massime, che sono use a viver libere, o consuete governarsi per suoi provinciali, con altra quiete stanno contente sotto uno dominio che non veg- gono, ancora ch'egli avesse in qualche gravezza , che sotto quello che veggendo ogni giorno, pare loro che ogni giorno sia rimproverata loro la servitù. Appresso, ne seguita un al- tro bene per il principe: che non avendo i suoi ministri ir mano i giudizi, ed i magistrali che civilmente o criminal- mente rendono ragione in quelle cìttadi, non può nascere mal sentenza con carico o infamia del principe ; e vengono per questa via a mancare molte cagioni di calunnia e d'odio verso di quello. E che questo sia il vero, oltre agli antichi essempi che se ne potrehbono addurre, ce n'é uno esscmpio fresco in Italia. Perchè, come ciascuno sa, sendo Genova stata più volle occupata da' Franciosi, sempre quel re, eccetto che ne' presenti tempi, vi ha mandalo un governatore francioso che in suo nome la governi. Al presente solo, non per ele- zione del re, ma perchè cosi ha ordinato la necessità, ha lascialo governarsi quella città per medesima, e da un governatore genovese. E senza dubbio , chi ricercasse quali di questi duoi modi rechi più sicurtà al re dell'imperio d essa, e più contentezza a quelli popolari, senza dubbio ap- proverebbe questo ultimo modo. Oltra di questo, gli uomini tanto più li si gettano in grembo, quanto più lu pari alieno dallo occupargli ; e tanto meno li temono per conto della loro libertà, quanto più sei umano e domestico con loro. Que- sta dimestichezza e liberalità fece i Capovani correre a chie- dere il Pretore ai Romani : che se dai Romani si fusse mostro una minima voglia di mandarvelo, subito * sarebbono in- gelositi, e si sarebbono discoslali da loro. Ma che bisogna ire per gli essempi a Capeva ed a Roma, avendone in Fi- renze ed in Toscana? Ciascuno sa quanto tempo è che la città di Pistoia venne volontariamente solto l'imperio fioren- lino. Ciascuno ancora sa quanta inimicizia è stata intra i

* Le edizioni posteriori al lò32 aggiungooo, inutilmente, si.

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Fiorentini, ed i Pisani, Lucchesi e Sanesi: e questa diversità d' animo non è naia perchè i Pistoiesi non prezzino la loro libertà come gli altri, e non si giudichino da quanto gli altri; ma per essersi i Fiorentini portati con loro sempre come fra- telli, e con gli altri come nimici. Questo ha fatto che i Pi- stoiesi sono corsi volontari sotto l'imperio loro: gli altri hanno fatto e fanno ogni forza per non vi pervenire. E senza dubbio, i Fiorentini se, o per vie di leghe odi aiuto, avessero dimesticali e non inselvatichiti i suoi vfcini, a quest'ora sa- rebbero signori di Toscana. Non è per questo che io giudichi che non si abbia ad operare l'armi e le forze; ma si debbono riservare in ultimo luogo, dove e quando gli altri modi non bastino.

Gap. XXII. Quanto siano false molte volle le oppinioni degli uomini nel giudicare le cose grandi.

Quanto siano false molte volte le oppinioni degli uomini, r hanno visto e veggono coloro che si trovano testimoni delle loro deliberazioni: le quali molte volte, se non sono deliberate da uomini eccellenti, sono contrarie ad ogni ve- rità. E perchè gli eccellenti uomini nelle repubbliche corrot- te, nei tempi quieti massime, e per invìdia e per altre am- biziose cagioni, sono inimicati ; si va dietro a quello che da uno comune inganno è giudicato bene, o da uomini che più presto vogliono i favori che il bene dell' universale, è messo innanzi. Il quale inganno dipoi si scuopre nei tempi avversi, e per necessità si rifugge a quelli che nei tempi quieti erano come dimenticati: come nel suo luogo in questa parte appieno si discorrerà. Nascono ancora certi accidenti, dove facilmente sono ingannati gli uomini che non hanno grande isperienza delle cose, avendo in quello accidente che nasce molli ve- risimili , atti a far credere quello che gli uomini sopra tal caso si persuadono. Queste cose si sono dette per quello che Numicio pretore, poiché i Latihi furono rolli dai Homani, persuase loro; e per quello che pochi anni sono si credeva per molti, quando Francesco I re di Francia venne all'ac- qsislo di Milano, che era difeso dai Svizzeri. Dico pertanto,

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■^78 DEI dìscobsi

che, essendo modo Lai^i XII, e succedendo nel resno di Francia Francesco d'Ansolem, e desiderando resliluire al regno il ducalo di Milano, sialo pociti anni innanzi occupalo dai Svizzeri mediante il conforto di Papa Giulio II, deside- /^ava aver aiuli in Italia che «li facilitassero V impresa ; ed oltre ai Veniziani, che il re Luisi s'aveva rÌ!:uadasnati, ten- tava i Fiorentini e papa Leone X; parendogli la sua impresa più facile qualunque volta s'avesse rigua<lasnati costoro, per essere le genti dèi re di Spagna in Lombardia, ed altre forze dello iraperadore in Verona. Non cede Papa Leone alle voglie del re, ma fu persuaso da quelli che lo consigliava- no (secondo si disse), si stesse neulrale, mnslrandonli in questo partito consistere la vittoria certa : perchè per la Chiesa non si faceva avere polenti in Italia il re i Sviizeri ; ma volendola ridurre nell'antica libertà, era necessario li- berarla dalla servitù dell' uno e dell' altro. E perchè vincere r uno e l'altro, o di per o lutti due insieme, non era |)os- sibile; conveniva che superassino l'uno l'altro, e che la Chiesa con gli amici suoi urtasse quello poi che rimanesse vincitore. Ed era ira|)0ssihile trovare inisliore occa>ione che la presente, sendo l'uno e l'altro in su' campi, ed avendo il Papa le. sue forze ad ordine da potere ra[>prcsenlarsi in sui confini di Lomhardia , e propinquo all'uno e l'altro esercito, sotto colore di voler guardare le cose sue, e quivi tanto stare che venissero alla giornata ; la quale ragionevol- mente, sendo l'uno e l'altro esercito virtuoso, doverrehhe esser sanguinosa per tulle due le parti, e lasciare in modo debilitato il vincitore, che fosse al Papa fa( ile assaltarlo e romperlo: e cosi verrebbe con sua «loria a rimanere signore di Lombardia, ed arbitro di tutla Italia. E quanto questa oppi- nione fosse falsa, si vide per lo evento della cosa: perchè, sendo dopo una lunga zufTa suti superati i Svizzeri, non che le genti del Papa e di Spa;2na presumessero assaltare i vin- citori, ma si prc{)arar()no alla fuga; la quale ancora non sa- rebbe loro giovata, se non fusse stato o la umanità o la fred- dezza del re, che non cercò la seconda vittoria, ma gli ba^tò fare accordo con la Chiesa. Ha questa opf)inione certe ragioni che discosto paiono vere, ma sono al lutto aliene dalla veri-

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là. Perchè, rade volle accade che '1 vincitore perda assai suoi soldati: perchè de' vincitori rie muore nella zuffa, non nella fuga; e nello ardore del comballere, quando gli uonaini hanno volto il viso l'uno all'altro, ne cade pochi, raassime perchè la dura poco lempo il più delle volle; e quando pur durasse assai tempo, e de' vincitori ne morisse assai, è lanla la riputazione che si tira dietro la vitloria, ed il terrore che la porta seco, che di lunga avanza il danno che per la morie de'suoi soldati avesse sopporlalo. Talché, se uno esercito il qua- le, in su la oppinione che e' fosse debililalo, andasse a tro- varlo, si troverebbe ingannato; se già non fusse l'esercito tale, che d'ogni tempo, e innanli alla vittoria e poi, potesse com- ballerlo. In questo caso e' polrebbe, secondo la sua forluna e virtù, vincere e perdere; ma quello che si lusse azzuffato prima, ed avesse vinto, arebbe piuttosto vantaggio dall' altro. Il che si conosce certo per la esperienza de' Latini, e perla fallacia che Numizio pretore prese, e per il danno che ne ri- portorno quelli popoli che gli crederono: il quale, vinto che i Romani ebbero i Latini, gridava per tutto il paese di La- zio, che allora era tempo assaltare i Romani debilitati per la zuffa avevano fatta con loro ; e che solo appresso i Romani era rimaso il nome della vittoria , ma tutti gli altri danni avevano sopportali come se fussino stali vinti ; e che ogni poco di forza che di nuovo gli assaltasse, era per spacciargli. Donde quelli popoli che gli crederono, fecero nuovo esercito, e subito furono rolli, e patirono quel danno che patiranno sempre coloro che terranno simili oppinioni.*

Cap. XXllI. Quanto i tìomani nel giudicare i suddili per alcuno accidenle che necessitasse lai giudizio, fuggivano la via del mezzo.

Jam Latto is slalus erat rerum ul ncque, pacem, ncque hellum pali possenl. Di tulli gli stati infelici, è infelicissimo quello d' un principe o d' una rejìubblica che è ridotto in ter- mine che non può riq^evere la pace, o sostenere la guerra : a che si riducono quelli che sono dalle condizioni della pace

L'edizione del Biado} simile oppinione.

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DEI DISCORSI

troppo offesi ; e dall' altro canlo, volendo far guerra, convien loro o gillarsi in preda di chi gli aiuti, o rimanere preda del nimico. Ed a lutti questi termini si viene per cattivi consi^^li e cattivi partiti, da non avere misuralo bene le forze sue, come di sopra si disse. Perché quella repubblica o quel prin- cipe che bene le misurasse, con diflScultà si condurrebbe nel termine si condussono i Latini: i quali quando non dovevano accofdare con i Romani, accordarono; e quando non dove- vano rompere loro guerra, la nippono: e cosi seppono fare in modo, che la inimicizia ed amicizia dei Romani fu loro ugualmente dannosa. Erano, adunque, vinti i Latini ed al (ulto afflitti, prima da Manlio Torquato, e dipoi da Camraillo: il quale avendogli costretti a darsi e rimettersi nelle braccia de' Romani, ed avendo messo la guardia per tutte le terre di Lazio, e preso da tulle gli stalichi ; tornalo in Roma, riferì al Senato come tutto Lazio era nelle mani del Popolo romano. E perché questo giudizio è notabile, e merita d'essere os- servalo , per poterlo imitare quando simili occasioni sono date a' principi, io voglio addurre le parole di Livio poste ia bocca di Cammillo ; le quali fanno fede e del modo che i Ro- mani tennono in ampliare, e come ne' giudizi di stato sempre fuggirono la via del mezzo, e si volsono agli estremi: perchè un governo non é altro che tenere in modo i sudditi, che non ti possano o debbano offendere. Questo si fa o con assi- curarsene in tutto, togliendo loro ogni via da nuocerti; o con beneficargli in modo, che non sia ragionevole ch'eglino abbino a desiderare di mutar fortuna. Il che lutto si com- prende, e prima per la proposta di Cammillo, e poi per il giudizio dato 'dd Senato sopra quella. Le parole sue furono queste : Dii immorlales ita voi polenles hujui conùlii feceruni, u( tii Lalium, an non tit , in veslra manu posuerinL Ilaqui pacem vobts, quod ad Lalinoi allinei, parare in perpeluum, tei sctviendo , vel ignoicendo pnleslis. Vullit crudeliler connuìere in dedilos, victosque? licei delere omne Lalium. Vullis, esemplo majorum, ampere rem romarmm, viclos in civilalem accij.irndo? materia crtteendi per summam gloriam suppedital. Certe id firmissimum imperium est, quo obedienles gaudenl. lUorum igilur animot, dum expeciaUone slupenl, teu pana, seu bene-

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fido prcEoccupari oporlet. A questa proposfa successe la deli berazione del Sanalo: la quale fu, secondo le parole del Con- solo,che recatosi innanzi, terra per terra, tulli quelli eh* erano di momento, o gli beneficarono o gli spensono; facendo ai beneficati esenzioni, privilegi, donando loro la città, e da ogni parte assicurandogli; di quelli altri disfecero le terre j raandaronvi colonie, ridussongli in Roma, dissiparongli tal- mente che con l'arme e con il consiglio non potevano più nuo- cere. Né usorno mai la via neutrale in quelli, come ho detto, di momento. Questo giudizio debbono i princìpi imitare. A questo dovevano accostarsi i Fiorentini, quando nel 1502 si ribellò Arezzo, e tutta la Val di Chiana: il che se avessino fat- to, arebbero assicurato l'imperio loro, e fatta grandissima la città di Firenze, e datogli quelli campi che per vivere gli mancano. * Ma loro usarono quella via del mezzo, la quale è perniziosissima nel giudicare gli uomini ; e parie degli Aretini ne conflnarono, parte ne condennarono; a tutti tol- sono gli onori e gli loro antichi gradi nella città; e lasciarono la città intera. £se alcuno cittadino nelle diliberazioni consi- gliava che Arezzo si disfacesse ; a quelli che pareva esser più savi, dicevano come sarebbe poco onore della repubblica disfarla, perchè parrebbe che Firenze mancasse di forze di tenerla. Le quali ragioni sono di quelle che paiono e non sono vere; perchè con questa medesima ragione non si arebbe ad ammazzare uno parricida, uno scellerato e scan- daloso, sendo vergogna di quel principe mostrare di non aver forze da poter frenare uno uomo solo. E non veggono questi tali che hanno simili oppinioni, come gli uomini particolar- mente, ed una città tutta insieme pecca talvolta contra ad uno slato, che per esempio agli altri, per sicurtà di sé, non ha altro rimedio un principe che spengerla. E l'onore con- siste nel sapere e potere castigarla; non nel polere con mille pericoli tenerla: perchè quel principe che non castiga chi erra, in modo che non possa più errare, è tenuto o ignoranta o vile. Questo giudizio che i Romani dettero, quanto sia neces- sario si conferma ancora per la sentenza che dettero de' Pri- *

* Male nelle edizioni del Poggiali e del ISlJi: gli mancavano. Inlcndé ognuno da che avesse origine <][uesta arbitraria correzione.

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282 DEI DISCORSI

vernati. Dove «i debbe, per il (eslo Livio, notare dno coso: runa, quello che di Mpra^i dice, che i sudditi si dehhono o bcncGcare o spensere: TaUra, quanto la senorosilà deir^ni- mo, quanto il parlare il vero cìovi, quando o-li è dello nel con»pello desìi uomini prudenti. Era racnnalo il Sonalo ro- mano per siodicare de' Pri vernati, i quali sondosi rilicllnli, erano di poi per fona ritornali sotto la obhtdienza mtnnnn. Erano mandati dal popolo di Priverno molli cittadini per impetrare perdono dal Senato; ed essendo venuti al con- spello di quello, fa dello ad un di loro da un do' Sonatori, ^iiaai pantam meritot Prirtruaiet cemertL Al quale il Pri- vernale rispose: Eam, quttm merentur qui m liberiali dignnx emamf. Al quale il Consolo replicò: Quid ii pm*>'> mut robU , qualem noi ptetm tvbiicum hmòitumt A che quello rispose : binmm dfderitis, el fid^lrm ei perpc- tuam ; ii mdam, haué éiuturmam. Donde la più savia parte del SeOTto, ancora che nolli te ■*allenissino, disse : a mmdiriur rocem el Ubtri «C wiri ; nte credi poite iUum poputmm, a^ ' minem, denéqmt in ea eondiùnne cujmi emm paniieal, ti- quam meeem tit , mansurum. Ibi paeem e»te fidam , %tìn re luwarii paceiti tinU naqìu «o loco ubi serriiulem etse velini. (idem iperundam €ut. Ed in ta %w»le parole, deliberorno che i Privernati fositro cittadini romani, e de'prìvilegi dell.i civilità rIì onorarono, dicendo: fo« demum qui nihil praler- quam de liberiate cogilant, dijnot tue, qui Romani finnl. Tanto piacque agli animi generosi questa vera e generosa rispeala : perchè ogni altra risposta sarebbe stala bugiarda e vile. K coloro che credono desìi nomini altrimenti, maaaimodi quelli che aono osi o ad essere o a parere loro oMere liberi, ie n' in- gannano; e aolto questo inganno pigliano partiti non boom por sé, e da non aatisfare a loro. Di che nascono le spesse ribel- lioni, e le rovine degli slati. Ila per tornare al discorso no<.iro , conchiodo, e per questo e per quello siudizio dato dai Latini] quando si ha a giudicare cittadi potenti, e che sono oi vivere libere, conviene o spesnerle o carezzarle; altrimenti, ogni giudizio è vano. E debbesi fuggir al tutto la via del mezzo, la quale è pemizìosa, come lo fu a' Sanniti qiiandt avevano rinchiuso i Romani alle forche Caudine; quando noa

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volleno * segoire il parere di quel vecchio, che consigliò che i Romani si lasciassero andare onorali, o che s'ammazzassero tutti ; ma pigliando una via di mezzo disitrmandogli e metten- dogli sotto ii gioqo, gli lasciarono andare pieni d'ignominia e di sdegno. Talché poco dipoi conobbero con lor danno la sentenza di quel vecchio essere stata utile, e la loro dili- berazione dannosa ; come nel suo luogo più appieno si dis- correrà.

Cap. XXIV. Le fortezze generalmente sono molto più dannose che utili.

Parrà forse a questi savi *de*nostri tempi cosa non bene considerata, che i Romani nel volere assicurarsi dei popoli di Lazio e della città di Priverno, non pensassino di edificarvi qualche fortezza, la qual fusse un freno a tenergli in fede; sondo, massime, un detto in Firenze, allegato da' nostri savi, che Pisa e l'altre simili città si debbono tenere con le for- tezze. E veramente, se i Romani fussino stati fatti come loro, egli arebbero pensato di edificarle ; ma perchè egli erano d'altra virtù, d'altro giudizio, d'altra potenza, e* non le edi- ficarono. E mentre che Roma visse libera, e che la segui gli ordini suoi e le sue virtuose constituzioni, mai n'edificò per tenere o città o provincie; ma salvò bene alcune delle edifi- cale. Donde veduto il modo del procedere de' Romani in questa parie, e quello de' principi de' nostri tempi, mi pare da mettere in considerazione, se gli è bene edificare fortezze, se le fanno danno o utile a quello che l'edifica. Debbesi , adunque , considerare come le fortezze si fanno o per di- fendersi da' nimici, o per difendersi da' soggetti. Nel primo caso le non sono necessarie; nel secondo dannose. E comin- ciando a render ragione perchè nel secondo caso le siano dannose, dico che quel principe o quella repubblica che ha paura de' suoi sudditi e della ribellione loro, prima conviene che tal paura nasca da odio che abbiano i suoi sudditi seco; l'odio, da' mali suoi portamenti; i mali portamenti nascono

* Cosi ancora nella Testina.

? Nella edizione del Poggiali , non so il perchè: a questi dotti.

làS-i DEI DISCORSI

o da poler credere (ener<?Ii con forza, o da poca prudenza di chi gli governa : ed una delle cose che fa credere potergli forzare, è l'avere loro addosso le fortezze; perchè i mali Iral- tamenli, che sono cagione dell'odio, nascono in buona parte per avere quel principe, o quella repubblica, le fortezze: le quali, quando sia vero questo, di gran lunga sono più nocive che utili Perchè in prima, come è detto, le ti fanno essere più audace e più violento nei sudditi; dipoi, non ci è quella sicurtà che lo (i |)er8uadi: perchè tutte le forze, tutte le violenze che si usano per tenere un popolo, sono nulla eccetto che due; o che tu abbia sempre da mettere in campagna un buono esercito, come avevano i Romani; o che gli dissipi, spenga, disordini, disgiunga, in modo che non possine convenire ad ofTenderli. Perchè se tu gì' impoverisci, spolialit arma tupersunl: se tu gli disarmi, furor arma mini$lral: se tu ammazzi i capi, e gli altri segui d'ingiuriare, rinascono i capi, come quelli del- l'idra: se tu fai le fortezze, le sono utili ne' tempi di pace, perchè ti danno più animo a far loro male; ma ne' tempi di guerra sono inutilissime, perchè le sono assaltate dal nimico e da'sudditi, è possibile che le faccino resistenza ed all' uno ed all'altro. E se mai furono disutili, sono ne' tempi nostri rispetto alle artiglierie; per il furore delle quali i luoghi pic- coli, e dove altri non si possa ritirare con li ripari, è impos- sibile difendere, come di sopra discorremmo. Io voglio questa materia disputarla più tritamente. 0 tu principe, vuoi con que- ste fortezze tenere in freno il popolo della tua città; o tu prin- cipe, 0 tu repubblica, vuoi frenare una città occupata per guer- ra. Io mi voglio voltare al principe, e gli dico: che tal fortezza per tenere in freno i suoi cittadini non può essere più inutile di quello ch'ella è, per le cagioni dette sopra; perchè la ti fa più pronto e men rispettivo ad oppressargli ; e quella oppressione gli fa esposti alla tua rovina, e gli accende in modo, che quella fortezza che ne è cagione, non ti può poi difendere. Tanto che un principe savio e buono, per mante- nersi buono, per non dare cagione ardire a' figliuoli di diventare tristi, mai non farà fortezza, acciocché quelli non in su le fortezze , ma in su la benivolenza degli uomini si fondino. E se il conte Francesco Sforza, diventato duca di

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Milano, fu riputato savio, e nondimeno fece in Milano una fortezza ; dico che in questo caso ei non fu savio, e l'effetto ha dimostro, come tal fortezza fu a danno, e non a sicurtà de'suoi eredi. Perchè giudicando mediante quella viver sicuri; e potere offendere gli cittadini e sudditi loro, non perdonarono ad alcuna generazione di violenza; talché diventali sopra modo odiosi, perderono quello slato come prima il nimico gli assaltò: quella fortezza gli difese, fece loro nella guerra utile alcuno, e nella pace avea loro fatto danno assai. Per- ché se non avessino avuto quella, e se per poca prudenza avessino maneggiati agramente i loro cittadini , arebbero scoperto il pericolo più presto, e sarebbonsene ritirali; ed arebbero poi potuto più animosamente resistere all'impeto francioso co' sudditi amici senza fortezza, che con quelli inSK mici con la fortezza: le quali non ti giovano in alcuna parte; perchè, o le si perdono per fraudo di chi le guardar, o per violenza di chi l' assalta, o per fame. E se tu vuoi che le li giovino, e ti aiutino a ricuperare uno stato perduto, dove ti sia solo rimase la fortezza; ti conviene avere uno esercito, con il quale tu possa assaltare colui che t'ha cacciato: e quando tu abbia questo. esercito, tu rìaresti lo stato in ogni modo, eziandio che la fortezza non vi fusse; e tanto più facilmente, quanto gli uomini ti lussino più amici che non ti erano aven- dogli mal trattali per l' orgoglio della fortezza. £ per ispe- rienza s'è visto, come questa fortezza di Milano, agli Sfor- zeschi né a'Franciosi, ne'terapi avversi dell'uno e dell'altro, non ha fatto a alcuno di loro utile alcuno; anzr a tutti ha recato danni e rovine assai, non avendo pensato mediante quella a più onesto modo di tenere quello stato. Guido Ubaldo duca di Urbino, figliuolo di Federigo, che fu ne' suoi tempi tanto stimato capitano, sondo cacciato da Cesare Borgia, fi- gliuolo di papa Alessandro VI, dello slato; come dipoi, per uno accidente nato, vi ritornò, fece rovinare tutte le fortezze che erano in quella provincia, giudicandole dannose. Perché, sendo quello amalo dagli uomini, per rispetto di loro non le voleva; e per conto de'nimici, vedeva non !e poter difen- dere, avendo quelle bisogno d'uno esercito in campagna, che le difendesse : talché si volse a rovinarle. Papa lulio,

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cacciati i Bentivoeli di Bologna, fece in quella città una for- tezza; e dipoi faceva assnssinare quel popolo da un suo go- vernatore : talché quel popolo si ribellò, e subilo perde la fortezza; e così non gli giovò la fortezza e T offese, intanto che portandosi altrimenti, gli arebk>e giovato. Niccolò da Ca- stello, padre de* Vitelli, tornato nella sua patria donde era esule, subito disfece due fortezze vi aveva edifìcale papa Sisto IV, gia<licando, non la Tortezza, ma la benivolenza del popolo l'avesse a tenere io quello stato. Ma di tutti gli altri esaempi il più fresco, il più notabile in osni parte, ed atto a mostrare la inutilità dello edificarle e l'utilità del disfarle, ò quello di Genova, seguito ne' prossimi tempi. Ciascuno sa come, nel 1507, Genova si ribellò da Luigi \ll re di Francia, il qoale venne personalmente e con tutte le forze sue a rac- qoistarla; e ricuperata che l'ebbe, fece una fortezza, fortis- sima di tutte l'altre delle quali al presente si avesse notizia: perchè era per sito e per ogni altra circonstanza inespugnabi- le, posta in so ona ponta di colle che si distende nel mare, chiamalo dai Genovesi Codefa; e per que>to batteva tutto il porlo, e gran parte della terra di Genova. Occorse poi, nel 1512, che sendo cacciale le aenli franciose d'Iialia, Genova, iionoatanle la fortezza, si ribellò; e pre«e lo stato di quella Ot- taviano Pregoso, il quale con ogni industria, in termine di sedici mesi, per fame la espugnò. E ciascuno credeva e da molti n' era consigliato, che la conservasse per suo rifugio in ogni accidente; ma esso, come prudentissimo, conoscendo che non le fortezze, ma la volontà denti uomini mantenevano i principi in slato, la rovinò. E cosi, sen/.a fondare lo slato suo In su la fortezza, ma in su la virtù e prudenza sua, lo ha te- noto e tiene. E dove a variare lo sialo di Genova solevano bastare mille fanti, gli avversari suoi 1' hanno assaltato con diecimila, e non l'hanno potuto oflendere. Vedesi adunque per questo, come il disfare la fortezza non ha offeso Ottaviano, ed il farla non difese il re di Francia. Perché, quando e'fmtelte venire in Italia con l' esercito, e' potette ricuperare Genova, non vi avendo fortezza; ma quando e' non palette venire in Italia con l'esercito, e' non poteite tenere Genova, avendovi la fortezza. Fu, adunque, di spesa ai re il farla, e vergognoso

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il perderla; a Oltaviano glorioso il racquìslarìa, ed utile il rovinarla. Ma vegnamo alle repubbliche che fanno le fortezze non nella patria, ma nelle terre che le aoquislano Ed a mo- strare questa fallacia, quando e' non bastasse l'essenapio detto di Francia e di Genova, voglio mi basti Firenze e Pisa: dove i Fiorentini fecero le fortezze per tenere quella città; e non conobbero che una città stata sempre inimica del nome Go- rentino, vissuta libera, e che ha alla ribellione per rifugio la libertà, era necessario, volendola tenere, osservare il modo romano ; o farsela compagna, o disfarla. Perchè la virtù delle fortezze si vidde nella venuta del re Carlo: al quale si dettone o per poca fede di chi le guardava, o per timore di maggior male : dove, se le non fussino state, i Fiorentini non arebbero fondato il potere tenere Pisa sopra quelle, e quel re non areb- be potuto per quella via privare i Fiorentini di quella città; e gli modi con li quali si fussi mantenuta fino a quel tempo, sarebbero slati per avventura sufTìcienti a conservarla, *e senza dubbio non arebbero fallo più cattiva pruova che le fortezze. Conchiudo dunque, che per tenere la patria propria, la for- tezza è dannosa; per tenere le terre che si acquistano, le for- tezze sono inutili: e voglio mi basti l'autorità de' Romani, i quali nelle terre che volevano tenere con violenza, smurava- no, e non muravano. E chi contra quesla oppinione n'allegassi negli antichi tempi Taranto, e ne' moderni Brescia, i quali luoghi mediante le fortezze furono ricuperati dalla ribellione dei sudditi; ris()ondo che alla ricuperazione diTaranlo, in capo d'uno anno, fu mandato Fabio Massimo con tulio Io esercito, il quale sarebbe stato alto a ricuperarlo eziandio se non vi fusse statarla fortezza; e se Fabio usò quella via, quando la non vi fusse slata, n'arebbe usata un' altra, che arebbe fallo il medesimo tffetlo. Ed io non so di che utilità sia una for- tezza che. a renderti la terra, abbia bisogno, per la ricupera- zione d' essa, d' uno esercito consolare, e d' un Fabio Massimo per capilano. E che i Romani l'avessino ripresa in ogni mo- do, si vide per l'esserapio di Capova;dove non era fortezza, e per virtù dello esercito la riacquistarono. Ma vegnamo a Brescia. Dico, come rade volle occorre quello che è occorso

* La Bladiana:*«^cienW conservarla.

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in qoella ribellione, che la forfeiia che rimane nelle forze Ine, sendo rìheilala la lerra, abbia uno esercilo grosso e pro- pinquo, com'era qael de' Franciosi: perchè, essendo monsi- gnor di Fois, capitano del re, con Tesercilo a Bologna, intesa la perdila di Brescia, senza dilTerire ne andò a quella volln, ed in Ire giorni arrivalo a Brescia , per la fortezza riebbe la terra. Ebbe, pertanto, ancora la fortezza di Brescia, a vojere che la giovasse, bisogno d'un monsignor di Fois, e d'un osor- eilo francioso che in Ire di la soccorreste. Si che ressom|>ìn di qaeslo, all'incontro deali esscmpi contrari, non basta: |>er- chè-MMi fortezze sono slate, nelle guerre de' nostri tempi, prete e riprese con la medesima fortuna che si è ripresa e preM la campagna, non solamente in Lombardia* ma in Ro- maina, nel regno Napoli, e per lolle le parli d'Italia. Ma, quanto allo edilìcar fortezze per difendersi da'nimici di fuo* ra, dico che le non sono necessarie a quelli popoli a quelli roani che hanno buoni eserciti ; ed a quelli che non hanno buoni eserciti, anno inutili: perchè i Suoni eserciti genia le fortezze tono soIDcienli a difenderti ; le fortezze aeoià i buoni eserciti non ti possono difendere. E questo si ve4e per isfierienza di quelli che sono slati e nei goYerni e nell'altre cose tenuti eccellenti ; come si vede dei Romani e degli Spartani: che se ì Romani non edificavano fortezze, gli Spartani non solamente si astenevano da quelle, ma non permettevano d'aver mora alla loro città; perchè volevano che la virtù dell'uomo |>articolare, non altro difensivo, gli difendesse. Dondeché, essendo domandalo uno Sparlano da ano Ateniese, se le mura d' Atene gli parevano t>elle, gli rispose: Si, se le fussino abitate da donne. Quel principe, adunque, che abbi buoni eserciti, quando in sulle marine alla fronte dello 'stato suo abbia qualche fortezza che poast qealche di sostenere !• inimico infino che sia a ordine, sa- rebbe qualche volta cosa utile, ma la non è necessaria. Ma quando il principe non ha buono esercito, avere le fortezze per il sao stalo, o alle frontiere, gli sono o dannose o inu- tili: dannose, perchè facilmente le perde, e perdute gli fan- no guerra; o se por le fussino si forti che 'I nimico non le potesse occupare, sono lasciate indietro dallo esercito ni<

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mico, e vensono ad essere di nessuno fruito; perchè i buoni eserciti, quando non hanno gagliardissimo riscontro, entra- no ne'paesi niraici senza rispetto di città o di fortezza che si lascino indietro; come si vede nelle antiche istorie, e come si vede fece Francesco Maria, il quale ne' prossimi tempi per assaltare Urbino si lasciò indietro dieci città niraiche, senza alcuno rispetto. Quel principe, adunque, che può fare buono esercito, può fare senza edificare fortezza; quello che non ha l'esercito buono, non debbe edificare. Debbe bene afforzare la città dove abita, e tenerla munita, e ben d sposti i cittadini di quella, per poter sostenere tanto un im- peto nimico, 0 che accordo, o che aiuto esterno lo liberi. Tutti gli altri disegni sono di spesa ne' tempi di pace, ed inutili ne' tempi di guerra. E così, chi considererà tutlo quello ho detto, conoscerà i Romani, come savi in ogni altro loro or- dine, cosi furono prudenti in questo giudizio dei Latini e de'Privernati; dove, non pensando a fortezze, con più vir» tuosi modi e più savi se ne assicurarono.

Gap. XXV. Che lo assaltare una cillà disunila , per occu- parla mediante la sua disunione ^ è parlilo contrario.

Era tanta disunione nella Repubblica romana intra la Plebe e la Nobiltà, che i Veienti insieme con gli Etrusci, me- diante tale disunione, pensarono potere estinguere il nome romano. Ed avendo fatto esercito, e corso sopra i campi di Roma, mandò il Senato loro contra Gn. Manlio e M. Fabio; ì quali avendo condotto il loro esercito propinquo allo eser- cito de' Veienti, non cessavano i Veienti, e con assalti e con obbrobri, offendere e vituperare il nome romano: e fa tanta la loro temerità ed insolenza, che i Romani di disu- niti diventarono uniti; e venendo alla zuffa, gli ruppono vinsono. Vedesi pertanto, quanto gli uomini s' iniiannano, come di sopra discorremmo, nel pisliare de' partiti; e come molle volte credono guadagnare una cosa, e la perdono. Credettono i Veienti assaltando i Romani disuniti, vincergli; e quello assalto fu casione della unione di quelli, e della rovina loro. Perchè la cagione della disunione delle repub-

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bliche il più delle volte è l'ozio e la pace: la casione della unione è la paura e la guerra. E però, se i Veienli fussino stati savi, eglino arebbono quanto più disunita vedevano Roma, tanto più tenuta da loro la guerra discosto, e con l'arti della pace cerco d'oppressargli. Il modo è cercare di diventare confidente di quella città eh* è disunita; ed infìno che non vengono all'arme, come arbitro, maneggiarsi intra le parti. Venendo all'arme, dare lenti favori alla parte più debole; si per tenergli più in su la guerra, e fargli consu- mare; perchè le assai forze non gii facessero tutti du- bitare che tu volessi opprimergli, e diventar loro principe. E quando questa parte è governata bene, interverrà quasi sempre che l'ara quel Gne che tu hai presupposto. La città di Pistoia, come in altro discorso e ad altro proposilo dissi, non venne alla Repubblica di Firenze con altra arte che con questa; (>erchè, sendo quella divisa, e favorendo i Fio- rentini or r una parte or l'altra, senza carico dell'una e dell'altra, la condussono in termine, che, stracca di quel suo vivere tumultuoso, venne spontaneamente a gittarsi nelle braccia di Firenze. La città di Siena non ha mai mutato slato col favore de' Fiorentini, se non quando i favori sono stati deboli e pochi. Perché, quando e'sono stati assai e ga- gliardi, hanno fatto quella città unita alla difesa di quello stato che regge. Io voglio aggiungere ai soprascritti un altro esscmpio. Filippo Visconti, duca di Milano, più volte mosse guerra ai Fiorentini, fondatosi sopra le disunioni loro, e sempre ne rimase perdente; talché gli ebbe a dire, dolen- dosi delle sue imprese, come le pazzie de'Fiorentini gli ave- vano fatto spendere inutilmente due milioni d'oro. Restaro- no, adunque, come di sopra si dice, ingannati i Veleni i e gli Toscani da questa oppinione, e furono alfine in una giornata superati dai Romani. E cosi per lo avvenire ne resterà in- gannato qualunque per simile via e per simile cagione ere- derà oppressare un popolo.

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S9!

Cap. XXVI. Il vilipendio e V improperio genera odiojconlra a coloro che V usano, senza alcuna loro uUlità.

Io credo che sia una delle grandi prudenze che usino gli uomini, astenersi o dal minacciare, o dallo ingiuriare alcuno con le parole : perchè V una cosa e 1* altra non tolgono forze al nimico; ma l'una lo fa più cauto; l' altra gli fa avere mag- giore odio contra di te, e pensare con maggiore industria di offenderti. Vedesi questo pèrle essempio de*Veienti, de' quali nel capitolo superiore si è discorso ; i quali alla ingiuria della guerra aggiunsono, contra ai Romani, l'obbrobrio delle parole: dal quale ogni capitano prudente debbe fare astenere i suoi soldati; perchè le son cose che infiammano ed accen- dono il nimico alla vendetta, ed in nessuna parte lo impedi- scono, come è detto, alla offesa; tanto che le sono tutte arme che vengono contra a te. Di che ne seguì già uno essempio notabile in Asia : dove Gabade, capitano de' Persi, essendo stato a campo ad Amida più tempo, ed avendo di- liberato, stracco dal tedio della ossidione, partirsi; levandosi già col campo, quelli della terra venuti tutti in su le mura, insuperbiti della vittoria, non perdonarono a nessuna qualità d' ingiuria, vituperando, accusando, rimproverando la viltà e la poltroneria del nimico. Da che Gabade irritato, mutò consi- glio; e ritornato alla ossidione, tanta fu la indegnazione della ingiuria, che in pochi giorni gli prese e saccheggiò. E questo medesimo intervenne a' Veienti : a' quali, com'è detto, non bastando il far guerra a' Romani, ancora con le parole gli vituperarono; ed andando infino in su lo steccato del campo a dir loro ingiuria, gl'irritarono molto più con le parole che con r arme : e quelli soldati che prima combattevano mal volentie- ri, costrinsero i Consoli ad appiccare la zuffa; talché i Veienti portarono la pena, come gli antedelti, della contumacia loro. Hanno adunque i buoni principi di esercito, ed i buoni go- vernatori di repubblica, a far ogni opportuno rimedio, che queste ingiurie e rimproveri non si usino o nella città o nello esercito suo, infra loro, contra al nimico: perchè usali contra al nimico, ne nascono gli inconvenienti sopra-

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scrini; infra loro, farebbono peggio non vi si riparando, come vi hanno * sempre gli oomini prudenti riparato. Avendo le legioni romane stale lasciate a Capova congiorala c*olra a* Capovani, come nel suo luoso si narrerà : ed esMndone di qoe<»la congiara naia una sediiione, la quale fu poi da Vale- n9 Cervino quietala ; intra * all'altre cooalitutìoaì che nella CMVtntione si fecero, ordinarono pen« gravittiae eoloro che improverassino mai ad alcun di qnpili soldati tale aedi- lione. Tiberio Gracco fatto, nella suorra di Annibale, capitano sopra certo numero di serri che i Romani, per carestia d* uo- mini , avevano armati : ordinò, intra le prime cose, pena capi- tale a qualunque rimproverasse la servitù di alcano di loro. Tanto fu slimato dai Romani, come di sopra s*è dello, rosa dannosa il vilipendere sii uomini, ed il rimproverare loro altana vergogna ; perché non è cosa che accenda tanto sii animi loro, seneri Bagfiorc sdegno, o da vero da beffo che ai dica: Kam fàtttim tuiperm, ^mm^b mimUm m mro f, flcrfm tui wiemormm rtlimqumnL

Càr. IIVII. -^ Ai rrineiffi « rrpuhblichi prudenU Mot htt- tlmn vénetn; ptrcàé U pia étlU voUe qmmio mm ktMi, ti

Lo osare parole contra al nimico poco onorevoli, nasce il pia delle volte da una infirma che ti o la vittoria o la falsa speranta della vittoria ; la quale falsa speranta fa ali nomini non solamente errare nel dire, ma ancora nello operare. Perché •qoeela tperania, quando la entra ne' pelli desìi oomini, fa loro potaare il sesno; e perdere il più delle volte quella occasione d' avere on bene certo , sfierando d'avere on mastio incerto. E perché questo é on termine che merita consideraxione, insannandocisi dentro gli uomini molto spesso, e con danno dello stato loro ; e' mi pare da di-

delitfS.^

parUu mh tcriua fm

LlBtlO SECONDO. 203

mostrarlo particolarmente con essempi antichi e moderni, non si potendo con le ragioni così distintamente dimostrare. Annibale, poi ch'egli ebbe rotti i Romani a Canne, mandò suoi oratori a Cartagine a significare la vittoria, e chiedere sussidi. Disputossi nel senato di quello s' avesse a fare. Con- sigliava Annone, un vecchio e prudente cittadino cartagi- nese, che si usasse questa vittoria saviamente in far pace coi Romani, polendola avere con condizioni oneste avendo vinto; e non s'aspettasse d'averla a fare dopo la perdita: perchè la intenzione de' Cartaginesi doveva essere, mostrare ai Romani come e' bastavano a combattergli; ed avendosene avuto vittoria, non si cercasse di perderla per la speranza d'una maggiore. Non fu preso questo parlilo; ma fu bene poi dal senato cartaginese conosciuto savio, quando l'occasione fu perduta. Avendo Alessandro Magno già preso lutto l'orien- te, la repubblica di Tiro, nobile in quelli tempi e potente per avere la loro città in acqua come i Veniziani, veduta la grandezza d'Alessandro, gli mandarono oratori a dirgli, co- me volevano essere suoi buoni servitori e dargli quella ub- bidienza voleva, ma che non erano già per accettare lui le sue genti nella terra; donde sdegnato Alessandro che una città gli volesse chiudere quelle porte che tutto il mondo gli aveva aperte, gli ributtò, e non accettate le condizioni loro, vi mandò a campo. Era la terra in acqua, e benissimo di vettovaglie e d'altre munizioni necessarie alla difesa mu- nita: tanto che Alessandro dopo quattro mesi s'avvide, che una città gli toglieva quel lempo alla sua gloria che non gli avevano tolti molti altri acquisti ; e diliberò di tentare 1' ac- cordo, e concedere loro quello che per loro medesimi ave- vano domandato. Ma quelli di Tiro insuperbiti, non sola- mente non volsero accettare l'accordo, ma amm jzzarono chi venne a praticarlo. Di che Alessandro sdegnato, con tanla forza si mise alla espugnazione, che la prese e disfece, ed ammazzò e fece schiavi gli uomini. Venne, nel 1312, uno eser- cito spagnuolo in su '1 dominio fiorentino per rimettere i Medici in Firenze, e taslìeggiare la città, condotti da* cittadi- ni d'entro,* i quale avevano dato loro speranza, che subilo fus-

* Tutte le edizioni hanno dentro s ma qui è certo da intendersi di quei

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DEI DISCORSI

sero in sa dominio fiorentino, piglierebbono l'arme in loro favore; ed essendo entrali nel piano, e non si scoprendo al- cano, ed avendo carestia di vettovaglie, tentarono raccordo: di che insuperbito il popolo di Firenze, non lo accettò ; donde ne nacque la perdila di Prato, e la rovina di quello slato. Non possono, pertanto, i principi che sono assaltali Tar il roag8Ìorc errore, quando 1* assalto é fatto da uomini di gran lunga più potenti di loro, che ricusare ogni accordo, massime quando gli è otTerto: perchè non sarà mai otTcrto si basso, che non vi sia dentro in qualche parte il bene essere di colui che lo accetta, e ti sarà parte della sua vittoria. Perchè e* doveva bastare al popolo di Tiro, che Alessandro accettasse quelle condizioni che egli aveva prima rifiutate: ed era assai vittoria la loro,quando con Tarmi in mano avevano fatto condescendere un tanto uomo alla voglia loro. Doveva bastare ancora al popolo fiorentino, e gli era assai vittoria, se lo esercito spagnuolo cedeva a qualcuna dejle voglie di quello, e le sue non adem- pieva tutte: perchè la intenzione di quello esercilo era molare lo slato in Firenze, e levarlo dalla devozione di Francia, e trarre da luì danari. Quando di Ire cose e' ne avesse avute due, che aon I* ultime; ed al popolo ne fosse restala una, che era la conservazione dello stalo suo ; ci aveva dentro ciascano qualche onore e qualche satisfazione: si doveva il popolo curare delle due cose, rimanendo vivo; doveva, quando bene egli avesse veduta maggiore vittoria, e quasi certa, voler mettere quella in alcuna parte a discrezione della fortuna, andandone l'ultima posta sua: la quale qua- lunque prudente mai arrischierà se non necessitato. Annibale partito d' Italia, dove era slato sedici anni glorioso, richia- mato da' suoi Cartaginesi a soccorrere la patria, trovò rotto Asdnibale e Siface; trovò perduto 11 regno di Nomidia ; ri- stretta Cartagine intra i termini delle sue mura, alla quale non restava altro rifugio, che esso e l'esercito suo : e cono- scendo come quella era l'ultima posta della sua patria, non volle prima metterla a rischio, ch'egli ebbe tentalo ogni al-

ciiudioi ^t udbt ietOxm «Ih dttk eraao paniali dei Medici; ia coatnppo»(a ed «sgiunu ai loro Mgaici e perdo foonucitL

LlfeRO SECONDO. ^98

Irò rimedio; e non si vergognò di domandare la pace, giu- dicando se alcuno rimedio aveva la sua pàtria, era in quella, e non nella guerra: quale sendogli poi negata, non volle mancare, dovendo perdere, di combattere; giudicando potere pur vincere; o perdendo, perdere gloriosamente. E se Anni- bale, il quale era tanto virtuoso ed aveva il suo esercito intero, cercò prima la pace che la zuffa, quando ei vide che perdendo quella, la sua patria diveniva serva; che debbe fare un altro di manco virtù e di manco isperienza di lui? Ma gli uomini fanno questo errore: che non sanno porre termini alle speranze loro, ed in su quelle fondandosi, senza misurarsi altrimenti, rovinano.

Gap. XXVIII. Quanto sia pericoloso ad una repubblica o ad uno principe non vendicare una ingiuria falla conlra al pubblico, 0 conlra al privato.

Quello che facciano fare agli uomini gli sdegni, facil- m8nte si conosce per quello che avvenne ai Romani, quando e' mandarono i tre Fabì oratori ai Franciosi, che erano venuti ad assaltare la Toscana, ed in particolare Chiusi. Perchè avendo mandato il popolo di Chiusi per aiuto a Roma, i Ro- mani mandarono ambasciadori a' Franciosi, che in nome del Popolo romano significassero a quelli, si astenessino di far guerra ai Toscani. I quali oratori, sendo in su '1 luogo, e più atti a fare che a dire, venendo i Franciosi e i Toscani alla zuffa, si misero intra i primi a combattere centra a quelli: onde ne nacque che essendo conosciuti da loro, tutto Io sde- gno che avevano centra a' Toscani, volsero centra ai Roma- ni. 11 quale sdegno diventò maggiore, perchè avendo i Fran- ciosi per loro ambasciatori fatto querela con il Senato ro- mano di tale ingiuria, e domandalo che in satisfazione del danno fussino dati loro i soprascritti Fabi; non solamenle non furono consegnati loro, o in altro modo castigati; ma venendo i comizi , furono fatti Tribuni con potestà conso- lare. Talché, veggendo i Franciosi quelli onorati che dovevano esser puniti, ripresone tutto esser fatto in loro dispregio ed ignominia; ed accesi d*ira e di sdegno, vennero ad assaltare

. '• DEI DISCORSI

Roma, e qoella presero, eccello il Campidoglio. La quale rovina nacque a' Romani solo per la inosservanza delln gin- stizia; perchè avendo peccalo i loro ambasciatori ' eonira jux genlium, e dovendo esser gaslisati, forono onorali. Però è da considerare quanto 08 ni repubblica ed ogni principe debbo tenere conto di fare simile ingiuria, non solamente conlra ad una ani>crsalilà, ma ancora contra ad uno particolare. Perchè, se ano uomo è offeso grandemente o dal pubblico o dal privato, e noo sia vendicato secondo la salisfaiioiit sm; se e* vive in una repubblica, cerca ancora con la rovina di quella vendicarsi; se e' vive tolto un principe, ed abbia in alcuna generosità, non si acquieta mai, in fino che in qualunque modo si vendichi conlra di lui, ancora che etili vi ^i^redesse dentro il tuo propìo male. Per verificare questo, non ci è il più bello il più vero essempio che quello di Filippo di Macedonia, padre di Alessandro. Aveva costui in la ma carta Paotania, siovine bollo e nobile, del quale era toMMorala Aliala, ano de* primi «lomini che foase pratao a Filippo; ed avendolo più volle ricerco che doveaaa cooaaiilir- gli, e trovandolo alieno da simili cote, deliberò di avara con inganno e per forza quello che per altro verso vedeva non polare avere. * £ fatto un solenaa oaavila, sai nia e Bolli altri nobili baroni convaiiiiera,faee,| fa pieno di vivande e di vino, prendere Pausania; e condot- tolo allo stretto, non aotemeate per fona sfogò la saa Ubidi- ne, ma ancora, per magfiece ignominia. Io fece da aialll degli altri in simile modo vituperare. Della quale ingiuria Paoaa* nia si dolse più volte con Filippo; il quale avendolo tenalo un tempo in sperante di vendicarlo, non solamente non lo vendicò, ma prepose Alialo al governo d'una provincia di Grecia. Donde Pausania, vedendo il suo nimico onorato, e DOS gastigato, volse tutto lo sdegno soo noo contra a quello cbe gli aveva fatto ingiuria, ma contra a Filippo che non r aveva vendicato: ed una mattina solenne, in so le nozze della figliuola di Filippo OBaritala ad Alessandro di Epiro, andando Filippo al tempio a celebrarle, io oteiio di dae

* Malt nella Trstioa e nflla «dmoM ad Pof^i il Itr* ' Le cdinooi aou^cltc tralMÓaM aver».

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Alessandri, genero e figliuolo, l'ammazzò. Il quale essempio è molto simile a quello de' Romani, notabile a qualunque governa: che mai non debba tanto poco stimare un uomo, che e' creda, aggiungendo ingiuria sopra ingiuria, che colui che è ingiurialo non pensi di vendicarsi con ogni suo peri- colo e parlicolar danno.

Cap. XXIX. La fortuna accieca gli animi degli uomini, quando la non vuole che quelli si opponghino a* disegni suoi.

Se e' si considerrà bene come procedono le cose uma- ne, si vedrà molte volle nascere cose e venire accidenti a' quali i cieli al tutto non hanno voluto che si provvegga. E quando questo eh* io dico intervenne a Roma, dove era tanta virtù, tanta religione e tanto ordine; non è meraviglia che gli intervenga molto più spesso in una città o in una provincia che manchi delle cose sopradelle. E perché que- sto luogo è notabile assai a dimostrare la potenza del cielo sopra le cose umane, Tito Livio largamente e con parole elTìcacissime lo dimostra; dicendo come, volendo il cielo a qualche fine , che i Romani conoscessono la potenza sua, fece prima errare quelli Fabi che andarono oratori a' Franciosi, e mediante 1' opera loro gli concitò a far guerra a Roma: di- poi ordinò, che per reprimere quella guerra, non si facesse in Roma cosa alcuna degna del Popolo romano; avendo prima ordinalo che Camillo, il quale poteva essere solo unico rimedio a tanto male, fusse mandato in esilio ad Ardea ; dipoi venen- do ì Franciosi verso Roma, coloro che per rimediare allo im- pelo de' Volsci, ed altri finitimi loro inimici, avevano creato molte volte un Dillalore, venendo i Franciosi non lo crearo- no. Ancora nel fare la elezione de' soldati, la feciono debole, e senza alcuna islraordinaria diligenza; e furono tanto pigri a pigliare l'arme, che a fatica furono a tempo a scontrare i Franciosi sopra il fiume d'Allia, discosto a Roma dieci miglia. Qui i Tribuni posero il loro campo, senza alcuna consueta di- ligenza ; non provvedendo il luogo prima, non si circondando con fossa e con steccalo, non usando alcuno rimedio umano

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o divino; e nello ordinare la zuffa, fecero gli ordini rari e de- boli : in modo che i soldati i capitani fecero cosa degna della romana disciplina. Combattessi poi senza alcuno san- gue; perchè e' fuggirono prima che fussino assaltati, e la maggior parte se ne andò a Velo, l'altra si ritirò a Koma; i quali senza entrare altrimenti nelle case loro, se ne entra- rono in Campidoglio: in modo che il Senato, senza pensare di difender Roma, non chiuse, non che altro, le porle; e parte se ne fuggi, parte con gli altri se ne entrarono in Campidoglio. Pure, nel difender quello usarono qualche or- bine non tumultuario ; perché e' non lo aggravarono di genti inutili ; messonvi lutti i frumenti che poterono, acciocché polessino sopportare l'ossidione; e della turba inutile de^ vec- chi e delle donne e de' fanciulli , la maggior parte se ne fuggi nelle terre circun vicine, il rimanente restò in Uoma in preda de' Franciosi. Talché, chi avesse letto le cose fatte da quel popolo lanli anni innanzi, e leggesse dipoi quelli lem* pi, non potrebbe a nessun modo credere che fusse stalo un medesimo popolo. E detto che Tito Livio ha tutti i soprad- detti disordini, conchiude dicendo: Adeo ohccBcal animos for- luna, cum vim iuam ingruenlem refringi non vuU. può es- sere più vera questa conclusione: onde gli uomini che vivono ordinariamente nelle grandi avversità o prosperità, meritano manco laude o manco biasimo. Perché il più delie volte si vedrà quelli ad una rovina e ad una grandezza esser siali condotti da una comodità erande che gli hanno fatto i cieli, dandogli occasione, o togliendoli di potere operare virtuosa- mente. Fa bene la fortuna questo, che la elegge uno uomo, quando la voglia condurre cose grandi, di tanto spirito e di tanta virtù, che e' conosca quelle occasioni che la gli porge. Cosi medesimamente, quando la voglia condurre grandi rovine, la vi prepone uomini che aiutino quella rovi- na. £ se alcuno fusse che vi potesse ostare, o la lo ammaz- za, o la lo priva di tutte le facultà da potere operare alcun bene. Conoscesi questo' benissimo per questo testo, come la fortuna per far maggiore Koma, e condurla a quella gran-

' Cosi nella BomaiUj ed i lezione, al parer mio, più «incera. Kelle al- tre leggcsi quello, f < » 1 ; > ff

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dezza venne, giudicò fusse necessario batterla (come a lungo nel principio del seguente libro discorreremo), ma non volle già in tutto rovinarla. E per questo si vede che la fece esu- lare, e non morire, Caramillo; fece pigliare Roriia, e non il Campidoglio; ordinò che i Romani, per riparare Roma, non pensassino alcuna cosa buona; per difendere il Campidoglio, non mancarono di alcuno buono ordine. Fece, perchè Roma fusse presa, che la maggior parte de' soldati che furono rotti ad Allia, se n'andarono a Veio; e cosi, per la difesa della città di Roma, tagliò tutte le vie. E nell' ordinar questo, preparò ogni cosa alla sua ricuperazione; avendo condotto uno esercito romano intero a Veio, e Cammillo ad Ardea, da poter fare grossa testa, sotto un capitano non maculato d'al- cuna ignominia per la perdita, ed intero nella sua riputa- zione, per la ricuperazione della patria sua. Sarebbeci da ad- durre in confirmazione delle cose dette qualche essempio mo- derno ; ma per non gli giudicare necessari, potendo questo a qualunque satisfare, gli lascerò indietro. Affermo bene di nuovo, questo essere verissimo, secondo che per tutte 1* isto- rie si vede, che gli uomini possono secondare la fortuna e non opporsegli; possono tessere gli orditi suoi, e non rom- pergli. Debbono bene non si abbandonare mai ; perchè non sappiendo il fine suo, ed andando quella per vie traverse ed incognite, hanno sempre a sperare, e sperando non si ab- bandonare, in qualunque fortuna ed in qualunque travaglio si trovino.

Cap. XXX. Le repubbliche e gli principi verarhente polenti non comperano l amicizie con danari , ma con la virtù e con la riputazione delle forze.

Erano i Romani assediati nel Campidoglio, ed ancoraché gli aspetlassino il soccorso da Veio e da Cammillo, sendo cacciati dalla fame, vennono a composizione con i Franciosi di ricomperarsi certa* quantità d'oro; e sopra tale con- venzione pesandosi di già l'oro, sopravvenne Cammillo con

* Così , colla del Biado , aticorà la Testio^i. iPotst per ainor di cbiarezsa, fu nelle posteriori aggiunto ^ón cbrta Co,

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l'esercito sno: il che fece, dice lo istorico, la foHana, m( Romani auro redempli non vivermi. La qual cosa non sola- rnenle è notabile in questa parte, ma eziana nel processo delle azioni di questa Repubblica; dove si vede che mai acqui- starono terre con danari, mai feciono pace con danari, ina sempre con la virtù delle armi : il che non credo sia mai in- tervenuto ad alcuna altra repubblica. Ed intra gli altri segni per i quali si conosce la potenza d'uno slato, è vedere come e' vive con gli vicini suoi. E quando e' si governa in modo che i vicini, per averlo amico, siano suoi pensionar!, allora è certo segno che quello stato è potente: ma quando detti vici- ni, ancoraché inferiori a lui, trassono da quello danari, allora è segno grande di debolezza di quello. Legshinsi tutte le istorie romane, e vedrete come i Massiliensi, gli Edui, Rodiani, lerone siracusano, Eumene e Massinissa regi, i quali tulli erano vicini ai confini dello imperio romano, per avere l'amicizia di- quello, concorrevano a spese ed a Irilmli ne' bisosnì d'esso, non cercando da lui altro premio che Io essere difesi. Al contrario si vedrà negli slati deboli: e cominciandosi dal nostro di Firenze, ne' tempi passati, nella sua maggior riputazione, non era signorotto in Romagna che non avesse da quello provvisione ; e di più la dava ai Perugini, ai Castellani, e a tutti gli altri suoi vicini. Che se questa città fusse stata armata e gagliarda, sarebbe lutto ilo per contrario ; perchè tutti, per avere la protezione di essa* arebbero dato danari a lei, e cerco non di vendere la loro amicizia, ma di comperare la sua. sono in questa viltà vissuti soli i Fiorentini, ma i Viniziani, ed il re di Francia, il quale, con uno tanto reuno, vive tributario de' Svizzeri, e del re d' Inshillerra. Il che lutto nasce dallo avere disarmati i popoli suoi, ed avere piuttosto voluto, quel re e gli altri pren<»iiiinati. godersi un presente utile di potere saccheggiare i popoli, e fusgire uno immaginalo piuttosto che vero |)eri- colo, che fare cose che gli Hssicunno, e faccino i loro slati felici in perpetuo. Il quale disordine se partorisce qualche tempo qualche quiete, è cagione col tempo di necessità, di danni e rovine irrimediabili. E sarebbe lungo raccontare quante volte i Fiorentini, Veniziaoi, e questo regno, si sono

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ricomperati in su le guerre; e quante volte si sono sotto- messi ad una ignominia, che* i Romani furono una sola volta per sottomettersi. Sarebbe lungo raccontare quante terre i Fiorentini e Veneziani hanno comperate: di che si è veduto poi il disordine, e come le cose che si acquistano con Toro, non si sanno difendere col ferro. Osservarono i Ro- mani questa generosità e questo modo di vivere, mentre che vissono liberi; ma poiché egli entrarono sotto gli imperadori, e che gli imperadori cominciarono ad esser cattivi, ed amare più l'ombra che il sole, cominciarono ancora essi a ricom- perarsi, ora dai Parti, ora dai Germani, ora da altri popoli convicini: il che fu principio della rovina di tanto imperio. Procedevano,pertanto, simili inconvenienti dallo avere disar- mati i suoi popoli : di che ne resulta un altro maggiore, che quanto il nimico più ti s'appressa, tanto ti trova più debole. Perchè chi vive ne' modi detti di sopra, tratta male quelli sudditi che sono dentro all' imperio suo, per avere uomini ben disposti a tenere il nimico discosto. Da questo nasce, che per tenerlo più discosto, ei provvisione a questi signori e popoli che sono propinqui ai confini suoi. Donde nasce che questi stati cosi fatti fanno un poco di resistenza in sui con- fini, ma come il nimico gli ha passati, ei non hanno rime- dio alcuno. E non si avveggono, come questo modo del loro procedere è contra ad ogni buono ordine. Perchè il cuore e le parti vitali d'un corpo si hanno a tenere armale, e non l'estremità d'esso; perchè senza quelle si vive, ed offeso quello si muore : e questi stati tengono il cuore disarmalo, e le mani e li piedi armati. Quello che abbia fatto questo dis- ordine a Firenze, si è veduto, e vedesi ogni di: che come uno esercito passa i confini, e che gli entrano' propinquo al cuore, non ritrova più alcuno rimedio. De' Veneziani si vidde pochi anni sono la medesima pruova; e se la loro città non era fasciata dall'acque, se ne sarebbe veduto il fine. Questa isperienza non si è vista spesso in Francia, per essere

* La sola edizione del Poggiali : a che.

3 Così nella Bladiana ; accordato cioè il plurale entrano, col collettivo «jer- cilo,o sottinteso nemici. Gli editori di schizzinosa grammatica impressero: e eh' egli entra.

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302 DEI DISCORSI

quello SI gran regno, eh* egli ha pochi nimici superiori. Non- dimeno,quando sili Inghilesi, nel 1513, assaltarono quel resno, tremò tutta quella provincia; ed il re medesimo, e ciascuno altro, giudicava che una rolla sola gli potesse tórre lo stato. Ai Romani interveniva il contrario; perchè quanto più il nimico si appressava a Roma, tanto più trovava quella città potente a resìstergli. E si vidde nella venuta d'Annibale in Italia, che dopo (re rotte, e dopo tante morti di capitani e di sol- dati, ci poterono non solo sostenere il nimico, ma vincere la guerra. Tutto nacque dallo avere bene armato il cuore, e delle estremità tenere* poco conto. Perchè il fondamento dello slato suo era il popolo di Roma, il nome latino, e l'altre terre compagne in Italia, e le loro colonie; donde e' traevano tanti soldati, che furono sutTi/.ienli con quelli a combattere, e tenere il mondo. E che sia vero, si vede per la domanda che fere Annone cartaginese a quelli oratori d'Annibale dopo la rotta di Canne: i qnalr avendo maanificato le cose fatte da Annibale, furono domandati da Annone, se del |)opolo romano alcuno era venuto a domandiir pace, e se del nome latino e delle colonie alcuna terra si era ribellata dai Roma- ni ; e negando quelli l'una e l'altra cosa, replicò Annone: Questa guerra è ancora intera come prima. Vedesi, ()ertan(o, e per questo discorso, e per quello che più volle abbiamo altrove detto, quanta diversità sia dal modo del procedere delle repubbliche presenti, a quello delle antiche. Vedesi an- cora per questo ogni di miracolose perdite e miracolosi ac- quisti. Perchè, dove gli uomini hanno poca virtù, la fortuna dimostra assai la potenza sua; e perchè la è varia, variano le repubbliche, egli slati spesso; e varieranno sempre, infino che non sorga qualcuno che sia dell' antichità tanto amatore, che la regoli in modo, che la non abbi cagione di dimostrare ad ogni girare di sole quanto ella puote.

Gap. XXXI. Quanto sia pericoloso credere agli sbandili.

E' non mi pare fuori di proposito ragionare, intra questi altri discorsi, quanto sia cosa pericolosa credere a quelli che

* La Testina e le moderne : tenuto.

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LIBRO SECONDO. 303

sono cacciati della patria sua, essendo cose che ciascuno di si lianno a praticare da coloro che len2;ono slati; polendo, massime, dimostrare qneslo con uno memorabile esserapio detto da Tito Livio nelle sue istorie, ancora che sia fuora di proposito suo. Quando Alessandro Magtìo i)assò con l'eser- cito suo in Asia, Alessandro di Epiro, cognato e zio di quel- lo, venne con genti in Italia, chiamato dagli sbanditi Luca- ni, i quali gli detlono speranza che potrebbe medianti loro occupare tutta quella provincia. Donde che quello, sotto la fede e speranza loro, venuto in Italia, fu morto da quelli; sendo loro promesso la ritornata nella patria dai loro cittadini, se lo ammazzavano. Debbesi considerare pertanto, quanto sia vana e la fede e le promesse di quelli che si trovano privi della loro patria. Perchè, quanto alla fede, si ha ad estimare che qualunque volta possono per altri mezzi che per li tuoi rien- trare nella patria loro, che lasceranno le ed accosterannosi ad altri, nonostante qualunque promessa ti avessino fatta. £ quanto alla vana promessa e speranza, egli è tanta la voglia estrema che è in loro di ritornare in casa, che e'creilono naturalmente molte cose che sono false, e molte ad arte ne aggiungono : talché, tra quello che credono e quello che di- cono di credere, li riempiono di speranza; lalmentechè fon- datoti in su quella, tu fai una spesa in vano, o tu fai una impresa dove tu rovini, lo voijlio peressemjjio mi basti Ales- sandro predetto, e di più Temistocle ateniese; il quale es- sendo fatto ribello, se ne fuggi in Asia a Dario, dove gli pro- misse tanto, quando ei volesse assaltare la Creda, che Dario si volse alia impresa. Le quali promesse non gli potendo poi Temistocle osservare, o per vergogna o per tema di suppli- cio, avvelenò se stesso. E se questo errore fu fatto da Temi- stocle, uomo eccellentissimo, si debbe stimare che tanto più vi errino coloro che, per minor virtù, si lasceranno più tirare dalla voglia e dalla passione loro. Debbe, adunque, un prin- ci|ie andare adagio a pigliare im|)rese sopra la relazione d'un confinalo, perchè il più delle volte se ne resta o con vergo- gna o con danno gravissimo. E perchè ancora rade volto riesce il pialiare le terre di furto, e per intelligenza che-al- tri avesse in quelle, non mi pare fuor di proposilo discorrerne

304 DEI DISCORSI

nel sèguenle capitolo ; aggiungendovi con quanti modi i Ro- mani le acquistavano. *

Gap. XXXII. In quanti modi i Romani occupavano le terre.

Essendo i Romani (ulti vòlti alla guerra, fecero sempre mai quella con ogni vantaggio, e quanto alla spesa , e quanto ad ogni altra cosa clie in essa si ricerca. Da questo nacque che si guardarono dal pigliare le (erre per ossidione; perchè giudicavano questo modo di tanta spesa e di tanto scomodo, che superasse di gran lunga la utilità che dello acquisto si po- tesse trarre: e per questo i^ensarono che fosse meglio e più utile soggiogare le terre per ogni allro modo che assediando- le : donde in tante guerre ed in tanti anni ci sono pochissimi essempi di ossidioni fatte da loro. 1 modi, adunque, con i quali gli acquistavano le città, erano o per espugnazione, o per dedizione. La espugnazione era o per forza e per violenza aperta, o per forza mescolala con fraudo. La violenza aperta era o con assalto, senza percuotere le mìira (il che loro chia- mavano aggredi urbem corona^ perchè con tulio l'esercito circondavano la città, e da tulle le parti la combattevano ; e molte volte riuscì loro che in uno assalto pigliarono una cit- tà, ancora che grossissima, come quando Scipione prese Cartagine nuova in Ispagna): o, quando questo assalto non bastava, si dirizzavano a rompere le mura con arieti, o con altre loro macchine belliche: o e' facevano una cava, e per quella entravano nella città (nel qual modo presono la città de' Veienli) : o, per essere eguali a quelli che difendevano le mura, facevano torri di legname, o facevano argini di terra appoggiati alle mura di fuori, per venire all'altezza di esse ^topra quelli. Contra a questi assalti, chi difendeva le terre, nel primo caso circa lo essere assaltato intorno intorno,' por- tava più subito pericolo, ed avea più dubbi rimedi: perchè bi- sognandoli io ogni loco avere assai difensori, o quelli eh' egli

* Nelle stampe più antiche t i* acquistavano.

' La Teslioa, colle moderne, non ripete l'avverbio, che cosi duplicato dipÌDge la cosa, e risponde assai meglio al liviano termine coroni.

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LIBRO SECONDO. S05

aveva non erano tanti che potessero o supplire per tolto, o cambiarsi; o se potevano, non erano tutti di eguale animo a resistere, e da una parte che fusse inclinata la zuffa, si perde- vano tulli. Però occorse, come io ho dello, che molle volle queslo modo ebbe felice successo. Ma quando non riusciva al primo, non lo rilenlavano mollo, per esser modo pericoloso per lo esercito: perchè difendendosi in tanto spazio, reslava per tulio debile a polere resistere ad una eruzione che quelli di dentro avessino falla, ed anche si disordinavano e strac- cavano i soldati; ma per una volta ed allo improvviso tenta- vano tal modo. Quanto alla rottura delle mura, si oppone- vano, come ne* presenti lempi, con ripari. E per resistere alle cave, facevano una contraccava, e per quella si opponevano al nimico, 0 con le armi o con altri ingegni: intra i quali era queslo, che egli empivano dogli di penne, nelle quali appic- cavano il fuoco, ed accesi gli mettevano nella cava, i quali con il fumo e con il puzzo impedivano l'entrata a' nimici. E se con le torri gli assaltavano, s* ingegnavano con il fuoco rovinarle. E quanto agli argini di terra, rompevano il muro da basso, dove l'argine s'appoggiava, tirando dentro la terra che quelli di fuori vi ammontavano; talché ponendosi di fuori la terra, e levandosi di dentro, veniva a non crescere l'ar- gine. Questi modi di espugnazione non si possono lungamente tentare: ma bisogna o levarsi da campo, e cercare per altri modi vincere la guerra; come fece Scipione, quando entrato in Affrica, avendo assaltato Ulica e non gli riuscendo pi- gliarla, si levò dal campo, e cercò di rompere gli eserciti car- taginesi: ovvero volgersi alla ossidione; come feciono a Veio, Gapova, Cartagine e lerusalem e simili terre, che per os- sidione occuparono. Quanto allo acquistare le terre per vio- lenza furtiva, occorre come intervenne di Palepoli, che per trattato di quelli di dentro 1 Romani la occuparono. Di questa sorte espugnazione dai Romani e da altri ne sono stale tentate molte, e poche ne sono riuscite: la ragione è che ogni minimo impedimento rompe il disegno, e gli impedimenti vengono facilmente. Perchè, o la congiura si scuopre innanzi che si Venga ali* atto: e scuopresi non con molla difflcnllà, si per la infedelilà di coloro con chi la è comunicata, si per la difiì-

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306 1)EI DISCORSI

colla del praticarla, avendo a convenire con nimici, e con chi non ci è lecito, se non sotto qualche colore, parlare. Ma quando la congiura non si scoprisse nel maneggiarla , vi surgono poi nel metterla in atto mille difficullà. Perchè, ose tu vieni innanzi al tempo disegnato, o se tu vieni dopo, si guasta ogni cosa: se si lieva un rumore furtivo, come l' oche del Campidoglio: se si rompe uno online consueto: ogni mi- nimo errore ed ogni minima fallacia che si piulia, rovina la impresa. Asgiungonsi a questo le tenebre della notte; le quali mettono più paura a chi travaglia in quelle rose peri- colose. Ed essendo la maggior pai te degli uomini che si con- ducono a simili imprese, inesperti del sito del paese e de' luoghi, dove ei sono menati, si confondono, inviliscono, ed implicano per ogni minimo e fortuito, accidente; ed ogni im- inazine falsa è per fargli mellere in volla si trovò mai alcuno che fusse più felice in queste espedizioni fraudolente * e notturne, che Aralo Sicioneo; il quale quanto valeva in queste, tanto nelle diurne ed aperte fazioni era pusillanime: il che 8i può giudicare fusse più toslo per una occulta virtù che era in loi, che perchè in quelle naturalmente dovesse essere più felicità. Di questi modi, adunque, se ne praticano assai, pochi se ne conducono alla pruova, e pochissimi ne rie- scono. Quanto allo acquistare le terre per dedizione, o le si danno volontarie, o forzate. La volontà nasce o per qualche necessità estrinseca che gli costringo a rifuggirlisi sotto: come fece Capeva ai Romani ; o per dìsiderio di esser go- vernali bene, sendo allettati dal' governo buono che quel prìncipe tiene in coloro che se gli sono volontari rimessi in grembo; come ferono i Rodiani, i Massilìensi ed altri simili cittadini, che si dettone al Popolo romano. Quanto alla dedi- zione forzala, o tale forza nasce da una lunga ossidione, come di sopra si è detto; o la nasce da una continua oppressione di correrie, depredazioni,' ed altri mali trallamenli, i quali volendo fuggire, una città si arrende. Di tutti i modi detti, i

< La Teslioa e le moderne del 1813 e del Poggiali: fraxidolenU. ' La Romana, con modo fiorentinesco, ed etempio in e*sa non mfrequen- le : da il.

' Fuorché nella del Biado t di predaùonl.

Libro secondo. 3Ò7

Bomani usarono più questo ullinpo che nessuno; ed allesono più che quallrocenlo cinquanta anni a straccare i vicini con le rotte e con le scorrerie, e pigliare mediani! gli accordi riputazione sopra di loro, come altre volte abhiarao discorso. E sopra tal modo si fondarono sempre, ancora che gli len- tassino tulli ; ma negli altri trovarono cose o pericolose o inutili. Perchè nella ossidioneé la lunghezza e la spesa; nella espugnazione, dubbio e pericolo; nelle congiure, la incertilu- dine. E viddono che con una rotta d'esercito inimico acquista- vano un regno in un giorno; e nel pigliare per ossidione una cillà ostinata, consumavano molti anni, «

: ì kìVììii

Gap. XXXIII. -^ Come i Romani davano àgli loro capitani degli esercili le commissioni libere.

Io stimo che sia da considerare, leggendo questa liviana istoria, volendone far profitlo, tulli i modi del procedere dei Popolo e Senato romano. E infra l'altre cose che meritano considerazione, sono: vedere con quale autorità ei manda- vano fuori i loro Consoli, Dittatori ed altri Capitani degli eserciti ; de' quali si vede l' autorità essere stata grandissi- ma, ed il Senato non si riservare altro che l'autorità di muovere nuove guerre, e di confirmare le paci ; e tutte l'al- tre cose rimetteva nell'arbitrio e potestà del Consolo. Perchè, deliberala ch'era dal Popolo e dal Senato una guerra, ver- bigrazia contra ai Latini, lutto il reslo rimeltevano nell'ar- bitrio del Consolo; il quale poteva o fare una giornata o non la fare, e campeggiare questa o quell'altra terra, come a lui pareva. Le quali cose si verificano per molli essempi, e massime per quello che occorse in una {spedizione contra ai Toscani. Perchè, avendo Fabio Consolo vinto quelli presso a Sutri, e disegnando con l'esercito dipoi passare la selva Cimìna, ed andare in Toscana; non solamente non si consi- gliò col Senato, ma non gli ne delle alcuna notizia, ancora che la guerra fosse per aversi a fare in paese nuovo, dubbio e pericoloso. Il che si testifica ancora per la dilibcrazione che all' incontro di questo fu fatta dal Senato: il quale avendo inteso la vittoria che Fabio aveva avuta, e dubitando che

308 DEI DISCORSI

qaello non pigliasse partito di passare per le dette selve in Toscana, giudicando che fosse bene non tentare quella guerra e correre quel pericolo, mandò a Fabio due Legali a fargli intendere non passasse in Toscana ; i quali arrivarono che vi era già passato, ed aveva avuta la vittoria, ed in cambio di impeditori della guerra, tornarono ambasciadori dello ac- quisto e della gloria avuta. E chi considera bene questo ter» mine, io vedrà prudentissimamente usato; perchè, se il Senato avesse voluto che un Consolo procedesse nella guerra di mano in mano, secondo che quello gli commetteva, lo faceva meno circunspetto e più lento; perchè non gli sarebbe parutoche la gloria della vittoria fusse tutta sua, ma che ne participasse il Senato, con il consiglio del quale ei si fusse governato. Oltra di questo, il Senato si obbligava a voler consigliare una cosa che non se ne poteva intendere; perchè, nonostante che in quello fussino tutti uomini esercitatissimi nella guerra, nondimeno non essendo in sul luo^o, e non sappiendo infì- nili particolari che sono necessari sapere a voler consigliar bene, arebbono, consigliando, fatti infiniti errori. E per questo e' volevano che 'l'Consolo per facesse, e che la gloria fusse tutta sua; lo amore della quale giudicavano che fusse freno e regola a farlo operar bene. Questa parte si è più volentieri notata da me, perchè io veggio che le repub* bliche de' presenti tempi, come è la Veneziana e Fiorentina, la intendono altrimenti; e se gli loro capitani, provveditori o commissari hanno a piantare una artiglieria, lo vogliono intendere, e consigliare. Il quale modo merita quella laude che meritano gli altri, i quali tulli insieme l' hanno condoUe ne' termini che al presente si (ruovano.

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UBRO TERZO.

C;^p. I. ^ volere che una setta o una repubblica viva lun- gamente, è necessario ritirarla spesso verso il suo prin- cipio.

Egli è cosa verissima, come tutte le cose del mondo hanno il termine della vita loro. Ma quelle vanno tutto il corso che è loro ordinato dal cielo generalmente, che* non dis- ordinano il corpo loro, ma tengonlo in modo ordinato, o che non altera, o s'egli altera, è a salute, e non a danno suo. E perchè io parlo de* corpi misti, come sono le repubbliche e le sèlle, dico che quelle alterazioni sono a salute, che le riducono verso i principii loro. E però quelle sono meglio or- dinate, ed hanno più lunga vita, che medianti gli ordini suoi si possono spesso rinnovare; ovvero che per accidente, fuori di detto ordine, vengono a detta rinnovazione. Ed è cosa più chiara che la luce, che non si rinnovando questi corpi, non durano. Il modo del rinnovargli è, come è detto, ridurgli verso i principii suoi. Perchè tutti 1 principii delle sètte, e delle repubbliche, e dei regni, conviene che abbino in qual- che bontà, mediante la quale ripiglino la prima riputazione, ed il primo auguraento loro. E perchè nel processo del tempo quella bontà si corrompe, se non interviene cosa che la ri- duca al segno, ammazza di necessità quel corpo. E questi dottori di medicina dicono, parlando dei corpi degli uomini, quod quolidie aggregatur aliquid, qund quandoque indiget cura- liane. Questa riduzione verso il principio, parlando delle re* pubbliche, si fa o per accidente estrinseco, o per prudenza intrinseca. Quanto al primo, si vede come gli era necessa-

* Cioèt vanno generalmente tutto il corso ec. quelle le quali non disor- dinano ec*

310 DEI DISCORSI

rio che Roma fusse presa dai Franciosi, a volere che la ri- nascesse; e rinascendo, ripigliasse nuova vila e nuova virtù; e ripigliasse la osservanza della religione e della giustizia, le quali in lei cominciavano a macularsi. Il che benissimo si comprende per l' istoria di Livio, dove ci mostra che nel (rar fuori l'esercito centra ai Franciosi, e nel creare i Tribuni coA potestà consolare, non osservarono alcuna religiosa cerimo- nia. Cosi medesimamente, non solamente non privarono i tre Fabi i quali conlra jus genlium avevano combattuto contra i Franciosi, ma gli crearono Tribuni. E debbesi facilmente presupporre, che dell'altre constituzioni buone ordinate da Romolo, e da quelli altri principi prudenti, si cominciasse a tenere meno conto che non era ragionetole e necessario a te- nere il vivere libero. Venne, adunque, questa battitura estrin- seca, acciocché lutti gli ordini di quella città ripigliassero; e si mostrasse a quel popolo, non solamente essere necessa- rio mantenere la religione e la giustizia, ma ancora stimare i suoi buoni cittadini, e far più conto della loro virtù, che di quelli comodi che e' paresse loro mancare mediante 1' opere loro. Il che si vede che successe appunto; perchè, subito ri- presa Roma, rinnovarono tutti gli ordini dell'antica religione loro ; punirono quelli Fabi che avevano combattuto conlra jus genlium ; ed appresso stimarono tanto la virtù e bontà di Cammino, che posposto, il Senato e gli altri, ogni invidia, ri- mettevano in lui lutto il pondo di quella Re(iubblica. È ne- cessario adunque, come è detto, che gli uomini che vivono insieme in qualunque ordine, spesso si- riconoschino, o per questi accidenti estrinsechi o per gli intrinsechi. E quanto a questi, conviene che nasca o da una legge la quale spesso rivegga il conto agli uomini che sono in quel corpo; o vera- mente da uno uomo buono che nasca fra loro, il quale con gli suoi essempi e con le sue opere virtuose faccia il medesimo effetto che l'ordine. Surge, adunque, questo bene nelle repub- bliche, o per virtù d'un uomo o per virtù d'uno ordine. E quanto a questo ultimo, gli ordini che ritirarono la Repub- blica romana verso il suo principio, furono i Tribuni della plebe, i (censori, e tutte l'altre leggi che venivano conlra ali' ambizione ed alla insolenza degli uomini. I quali ordini

II

LIBRO TERZO. 311

hanno bisogno d'esser falli vivi dalla virtù d'un cilladino, il quale animosamenle concorra ad eseguirli centra alla po- tenza di quelli che gli trapassano. Delle quali esecuzioni, in- nanzi alla presa di Roma dai Franciósi, furon nolabili, la morte de'fmliuoli di Bruto, la morie de' dieci cittadini, quella di Melio Frumenlario : dopo la presa di Roma, fu la morte di Manlio Capitolino, la morie del figliuolo di Manlio Torquato, la esecuzione di Papirio Cursore centra a Fabio suo maestro de' Cavalieri, la accusa degli Scipioni. Le quali cose, perchè erano eccessive e nolabili, qualunque volta ne nasceva una, facevano uli uomini ritirare verso il segno: e quando le cominciarono ad esser più rare, cominciarono an- cora a dare più spazio agli uomini di corrompersi , e farsi con magiiiore pericolo e più tumulto. Perchè dall' una all'al- tra di simili esecuzioni non vorrebl)e passare, il più, dieci an- ni: perchè, passalo questo tempo, gli uomini cominciano a variare co* cosiumi, e trapassare le leagi; e se non nasce Cosa per la quale si riduca loro a memoria la pena, e ritmo- visi negli animi loro la paura, concorrono tosto tanti delin- quenti, che non si possono più punire senza pericolo. Dice- vano, a questo proposito, quelli che hanno governato lo stato di Firenze dal 1434 infino al 1494, come egli era necessario ripigliare ogni cinque anni lo stato; altrimenti, era diflìcile mantenerlo: e chiamavano ripigliare lo sialo, mettere quel terrore e quella paura negli uomini che vi avevano messo nel pigliarlo, avendo in quel tempo battuti quelli che aveva- no, secondo quel modo di vivere, male operato. Ma come di quella battitura la memoria si spegne , gli uomini prendono ardire di tentare cose nuove, e di dir male; e però è neces- sario provvedervi, ritirando quello verso i suoi principii. Na- sce ancora questo riliramenlo delle repubbliche versò il loro principio dalle semplici ' virtù d'un uomo, senza dipendere da alcuna legge che li stimoli ad alcuna esecuzione: nondi- manco sono di lauta riputazione e di tanto essempio, che gli uomini buoni disiderano imitarle, e gli tristi si vergognano a tenere vita contraria a quelle. Quelli che in Roma partico- larmente feciono questi buoni effetti, furono Orazio Code, I L) }lpmap9 solUoto ; dalla semplice virtù^

3i2 DEI DISCORSI

Scevola, Fabrizio, i duoi Deci, Rejjolo Attilio, ed alcuni al- tri; i quali con i loro essempì rari e virtuosi facevano in Roma quasi il medesimo eflTelto che si facessino le leggi e gli ordi> ni. E se le esecuzioni seprascrille, insieme con questi partico- lari essempi, fussìno almeno seguite ogni dieci anni in quella città, ne seguiva di necessità che la non si sarebbe mai cor- rotta: ma * come e* cominciarono a diradare Tuna e l'altra queste due cose, cominciarono a moltiplicare le corruzioni. Perchè dopo Marco Regolo non vi si vidde alcun simile essem- pio: e benché in Roma surgessino i duoi Catoni, fu tanta di- stanza da quello a loro, ed intra loro dall' uno all' altro, e ri- masono si soli, che non potetlono con ^W essempi buoni fare alcuna buona opera; e massime l'ultimo Catone, il quale trovando in buona parte la città corrotta , non potette con lo essempio suo fare che i cittadini diventassino migliori. E questo basti quanto alle repubbliche. Ma quanto alle sètte, si vede ancora queste rinnovazioni essere necessarie per lo essempio della nostra religione; la quale se non fusse slata ritirala verso il suo principio da San Francesco e da San Do- menico, sarebbe al tutto spenta. Perchè questi, con la pover- tà e con r essempio della vita di Cristo, la ridussono nella mente desìi uomini, che già vi era spenta: e furono si po- tenti gli ordini loro nuovi, ch'ei sono cagione che la diso- nestà de* prelati e de' capi della religione non la rovini; vi- vendo ancora poveramente, ed avendo tanto credilo nelle confessioni con i popoli e nelle predicazioni, che e' danno loro ad intendere come egli è male a dir male del male, e che sia bene vivere sotto l'obbidienza loro, e se fanno er- rori, lasciargli gastigare a Dio: e cosi quelli fanno il peggio che possono, perchè non temono quella punizione che non vesigono e non credono. Ha, adunque, questa rinnovazione mantenuto, e mantiene questa religione. Hanno ancora i re- gni bisogno di rinnovarsi, e ridurre le leggi di quelli verso il suo principio. E si vede quanto buono etfelto fa questa parte nel regno di Francia; il quale regno vive sotto le leggi e sotto gli ordini più che alcuno altro resno. Delle quali leggi ed ordini ne sono mantenitori i parlamenti, e massime quel

* La Testina e l' edixione del Poggiali omettono ma.

LIBRO TERZO. 313

di Parigi : le quali sono da lui rinnovate qualunque volta e'fa una esecuzione contra ad uno principe di quel regno, e che ei condanna il Re nelle'sue sentenze. Ed infino a qui si è man- tenuto per essere slato uno ostinato esecutore contra a quella nobiltà: ma qualunque volta e'ne lasciasse alcuna impunita, e che le venissino a muKiplicare, senza dubbio ne nasce- rebbe o che le si arebbono a correggere con disordine gran- de, o che quel regno si risolverebbe. Conchiudesi, pertanto, non esser cosa più necessaria in un vivere comune, o setta o regno o repubblica che sia, che rendergli quella riputa- zione eh* eoli aveva ne'principii suoi; ed ingegnarsi che siano 0 gli ordini buoni o i buoni uomini che faccino que- sto effetto, e non l'abbia a fare una forza estrinseca. Perchè, ancora che qualche volta la sia ottimo rimedio, come fu a Roma, ella è tanto pericolosa, che non è in modo alcuno da desiderarla. E per dimostrare a qualunque, quanto le azioni degli uomini particolari facessino grande Roma, e causassino in quella città molti buoni effetti, verrò alla narrazione e dis- corso di quelli: intra i termini de'quali questo terzo libro ed ultima parie di questa prima Deca si conchiuderà. E benché le azioni degli Re fussino grandi e notabili, nondimeno, di- chiarandole la istoria diffusamente, le lasceremo indietro; parleremo altrimenti di loro, eccetto che di alcuna cosa che avessino operata appartenente alli loro privati comodi; e co- mincierenci da Rrulo, padre della romana libertà.

Gap. II. Come gli è cosa sapientissima simulare in tempo la pazzia.

Non fu alcuno mai tanto prudente, tanto stimato sa- vio, per alcuna sua egregia operazione, quanto merita d'es- ser tenuto lunio Bruto nella sua simulazione della stullizia. Ed ancora che Tilo Livio non esprima altro che una cagione che lo inducesse a tale simulazione, quale fu di potere più sicuramente vivere, e mantenere il patrimonio suo; nondi- manco, considerato il suo modo di procedere, si può cre- dere che simulasse ancora questo per essere manco osserva- to, ed avere più comodità di opprimere i Re e di liberare

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314 DEI DISCORSI

la saa patria, qaalanqae volta gliene fusse data occasione. E che pensasse a questo, si vide, prima, nello interpretare l'oracolo di Apolline, qaando simulò cadere per baciare la (erra, giudicando per quello aver favorevoli gli Dii ai pen- sieri suoi; e dipoi, quando sopra la morta Lucrezia, intra il padre ed il marito ed altri parenti di lei, ei fu il primo a Irarle il coltello dalla ferita, e far giurare ai circonstanli, che mai sopporterebbono che per lo avvenire alcuno re- gnasse in Roma. Dallo essempio di costui hanno ad impa- rare tatti coloro che sono malcontenti d'uno principe, e debbono prima misurare e pesare le forze loro; e se sono si potenti che possino scoprirsi suoi nimici e fargli aper- tamente guerra, debbono entrare per questa via, come man- co pericolosa e più onorevole. Ma se sono di qualità che a fargli guerra aperta le forze loro non bastino, debbono con ogni industria cercare di farsegli amici; ed a questo effetto, entrare per tutte quelle vie che giudicano esser necessarie, seguendo i piaceri suoi, e pigliando diletto di tutte quelle cose che veggono quello dilettarsi. Questa dimestichezzn, prima, ti fa vivere sicuro; e, senza portare alcun pericolo, ti fa godere la buona fortuna di quel principe insieme con esso lui, e ti arreca ogni comodità di satisfare all'animo tuo. Vero è che alcuni dicono che si vorrebbe con gli prin- cipi non stare si presso che la rovina loro ti coprisse, si discosto che rovinando quelli tu non fussi a tempo a sa- lire sopra la rovina loro: la qual via del mezzo sarebbe la più vera, quando si potesse conservare; ma perchè io credo che sia impossìbile, conviene ridursi ai duoi modi sopra- scritti, cioè di allargarsi o di stringersi con loro. Chi fa altrimenti, e sia uomo per le qualità sue notabile, vive in continovo pericolo. basta dire: io non mi curo d'alcuna cosa, non desidero onori utili, io mi voglio vivere quietamente e senza hriea; perchè queste scuse sono udite e non accettate: possono gli uomini che hanno qualità, eleggere lo starsi, quando bene lo eleggessino veramente e senza alcuna ambizione, perché non è loro creduto; tal- ché se si vogliono star loro, non sono lasciali stare da al- tri. GoQvieo^ ^dup(|ue f9re il pazzo, come Bruto; ed ass^j

LIBRO TERZO. 315

si fa il matto, laudando, parlando, veggendo, faccendo cose centra all'animo tuo, per compiacere al principe. E poiché noi abbiamo parlato della prudenza di questo uomo per ri- cuperare la libertà di Roma, parleremo ora della sua seve- rità in mantenerla.

Gap. III. Come egli è necessario, a voler mantenere una li- bertà acquistala di nuovo, ammazzare i figliuoli di Bruto.

Non fu meno necessaria che utile la severità di Bruto nel mantenere in Roma quella libertà che egli vi aveva acquistala ; la quale è di un essempio raro in tutte le memo- rie delle cose: vedere il padre sedere prò tribunali, e non solamente condennare i suoi Ggliuoli a morte, ma esser presente alla morte loro. E sempre si conoscerà questo per coloro che le cose antiche leggeranno : come dopo una mu- tazione di stato, o da repubblica in tirannide o da tiran- nide in repubblica, è necessaria una esecuzione memorabile conlra a'nimici delle condizioni presenti. E chi piglia una tirannide e non ammazza Bruto, e chi fa uno stato libe- ro e non ammazza i Ggliuoli di Bruto, si mantiene poco tempo. E perchè di sopra è discorso questo luogo largamente, mi rimetto a quello che allora se ne disse : solo ci addurrò uno essempio stato ne' nostri, e nella nostra patria memo- rabile. E questo è Piero Soderini, il quale si credeva con la pazienza e bontà sua superare quello appetito che era ne'tl- gliuoli di Bruto di ritornare sotto un altro governo, e se ne ingannò. E benché quello, per la sua prudenza, conoscesse questa necessità ; e che la sorte e la ambizione di quelli che Io urtavano, gli desse occasione a spegnerli; nondimeno non volse mai l'animo a farlo. Perchè., oltre al credere di potere con la pazienza e con la bontà estinguere ì mali umori, e con i premi verso qualcuno consumare qualche sua inimici- zia ; giudicava (e molte volle ne fece con gli amici fede) che a volere gagliardamente urlare le sue opposizioni, e battere i suoi avversari, gli bisognava pigliare straordinaria auto- rità, e rompere con le leggi la civile equnlità: la qual cosa, ancora che dipoi non fusse da lui usata tirannicamente ^

316 DEI DISCORSI

arebbe tanto sbigottito T universale, che non sarebbe mai poi concorso dopo la morte di quello a rifare un gonfalo- niere a YÌla ; il quale ordine egli giudicava fusse bene augu- mentare e mantenere. Il quale rispetto era savio e buono: nondimeno, e' non si debbo mai lasciare scorrere un male ri- speito ad un bene, quando quel bene facilmente possa es- sere da quel male oppressalo. E doveva credere che, aven- dosi a giudicare l'opere sue e la intenzione sua dal fine, quando la fortuna e la vita lo avesse accompagnato, che po- teva certificare ciascuno, come quello aveva fatto, era per salute della patria, e non per ambizione* sua; e poteva rego- lare le cose in modo, che un suo successore non potesse fare per male quello che egli avesse fatto per bene. Ma Io ingannò la prima oppinione, non conoscendo che la mali- gnità non è doma da tempo, placala da alcun dono. Tanto che, per non sapere somigliare Bruto, ei perde, insieme con la patria sua, lo stalo e la riputazione. E come egli è cosa difficile salvare uno slato libero, cosi è difficile salvarne un regio ; come nel seguente capitolo si mostrerà.

Cap. IV. Non vive sicuro un principe in un principato, mentre vivono coloro che ne sono stali spogliati.

La morte Tarqninio Prisco caasafa dai fìeiiuoli di Anco, e la morte di Servio Tulio causata da Tarquinio Superbo, mostra quanto difficile sia e pericoloso spogliar uno del regno, e quello lasciare vivo, ancora che cercasse con meriti guadagnarselo. E vedesi come Tarquinio Prisco fu ingannalo da parergli possedere quel regno giuridica- mente, essendosli stato dato dal Popolo, e confermato dal Senato: credette che nei figliuoli di Anco potesse tanto lo sdegno, che non avessino a contentarsi di quello che si con- tentava tutta Roma. E Servio Tullio s' ingannò, credendo poiere con nuovi meriti guadagnarsi i figliuoli di Tarquinio. Dimodoché, quanto al primo, si può avvertire ogni principe, che non viva mai sicuro del suo principato, finché vivono

* La Testina e le moderne t e non /f umbUione. Ì/Ult poi la Romana tra* mata il seguente e in et. " "' ''

LIBRO TERZO. 317

coloro che ne sono stati spogliali. Quanto al secondo, si può ricordare ad ogni potente, che mai le ingiurie vecchie non furono cancellale da'benefizii nuovi; e tanto meno, quanto il benefizio nuovo è minore che non è stata l' ingiuria. E senza dubbio, Servio Tullio fu poco prudente a credere che i figliuoli di Tarquinio fussino pazienti ad esser generi di colui di chi e* giudicavano dovere essere re. E questo ap- petito del regnare è tanto grande, che non solamente entra nei petti di coloro a chi s'aspetta il regno, ma di quelli a chi non s'aspetta: come fu nella moglie di Tarquinio gio- vine, figliuola di Servio; la quale, mossa da questa rabbia, centra ogni pietà paterna, mosse il marito centra al padre a tòrgli la vita ed il regno: tanto stimava più essere regina, che figliuola di rei Se, adunque, Tarquinio Prisco e Servio Tulio perdettono il regno per non si sapere assicurare di coloro a chi ei l'avevano usurpalo, Tarquinio Superbo lo perde per non osservare gli ordini degli antichi re: come nel seguente capitolo si mostrerà.

Cap. V. Quello che fa perdere uno regno ad uno re che sia ereditario di quello.

Avendo Tarquinio Superbo morto Servio Tulio, e di lui non rimanendo eredi, veniva a possedere il regno sicura- mente, non avendo a temere di quelle cose che avevano of- feso i suoi antecessori. E benché il modo dell* occupare il re- gno fusse stalo islraordinario ed odioso; nondimeno, quando egli avesse osservalo gli antichi ordini degli altri Re, sarebbe stato comportalo, si sarebbe concitato il Senato e la Plebe centra di lui per tòrgli lo slato. Non fu, adunque, costui cac- ciato per aver Sesto suo figliuolo stuprata Lucrezia, ma per aver rotte le leggi del. regno, e governatolo tirannicamente; avendo tolto al Senato ogni autorità, e ridottola a pro|)rioj e quelle faccende che nei luoghi pubblici con salisfazione del Senato romano si facevano, le ridusse a fare nel palazzo suo con carico ed invidia sua: talché in breve tempo egli spogliò Roma di tutta quella libertà ch'ella aveva sotto gli altri Re mantenuta. gli bastò farsi* nimici y Padri, che si

318 DEI DISCORSt

concitò ancora contra la Plebe, affaticandola in cose mecca- niche, e tutte aliene da quello a che 1' avevano adoperata ' i suoi antecessori: laiche, avendo ripiena Roma di essempi cru- deli e superbi, aveva disposti già gli animi di tutti i Romani alla ribellione, qualunque volta ne avessino occasione. E se Io accidente di Lucrezia non fusse venuto, come prima ne fusse nato un altro, arebbe partorito il medesimo efTetto. Perchè, se Tarquinio fusse vissuto come gli altri Re, e Sesto suo figliuolo avesse fatto quello errore, sarebbero Bruto e Collatino ricorsi a Tarquinio per la vendetta contra a Sesto, e non al Popolo romano. Sappino adunque i principi, come a quella ora e' cominciano a perdere lo stalo, ch'ei comin- ciano a rompere le leggi, e quelli modi e quelle consuetu- dini che sono antiche, e sotto le quali gli uomini lungo tempo sono vìvali. E se privali ch'ei sono dello stalo, e'di- venlassino mai lanlo prudenti, che conoscessino con quanta facilità i principali si lenghino da coloro che saviamente si consigliano; dorrebbe mollo più loro tal perdita, ed a mag- giore pena si condannerebbono, che da altri fussino condan- nati. Perché egli è molto più facile essere amalo da' buoni che dai cattivi, ed ubbidire alle leggi che volere comandare loro. E volendo intendere il modo avessino a tenere a fare questo, noD hanno a durare altra fatica che pigliare per loro specchio la vita dei principi buoni ; come sarebbe Timuleone Corintio, Aralo Sicioneo, e simili: nella vita de' quali ei troveranno tanta sicurità e tanla salisfazione di chi regge e di chi è retto, che doverrebbe venirgli voglia di imitargli, potendo facilmente, per le ragioni dette, farlo. Perché gli uo- mini, quando sono governati bene, non cercano vogliono altra libertà : come intervenne ai popoli governati dai duoi prenominali; che gli costrinsono ad essere principi mentre che vissono, ancora che da quelli più volte fusse tentalo di ridursi in vita privata. E perché in questo, e ne' duoi ante- cedenti capitoli, si é ragionalo degli umori concitati contra a' principi, e delle congiure fatte dai figliuoli di Bruto con- tra alla patria, e di quelle falle centra a Tarquinio Prisco

' Nella Bladiana, eoa offe|a noo del senso ma della forma grammaticale : gli avevano adoperati*

LIBRO TERZO. 5Ì9

ed a Servio Tulio; non mi pare cosa fuori di proposito, nel seguente capitolo, parlarne difTusaraente, sendo materia de- gna di essere notata dai prìncipi e dai privati.

Cap. vi. Delle congiure.

E' non mi è parso da lasciare indietro il ragionare delle congiure, essendo cosa tanto pericolosa ai principi ed ai privali ; perchè si vede per quelle molti più principi aver perduta la vita e Io stato, che per guerra aperta. Perchè il poter fare aperta guerra con un principe, è conceduto a po- chi; il potergli congiurar centra, è conceduto a ciascuno. Dall'altra parte, gli uomini privali non entrano* in impresa più pericolosa più temeraria di questa; perchè la è diflBcile e pericolosissima in ogni sua parte. Donde ne nasce, che molle se ne tentano, e pochissime hanno il fine desiderato. Acciocché, adunque, 1 principi imparino a guardarsi da questi pericoli, e che i privati più timidamente vi si meltino; anzi imparino ad esser contenti a vivere sotto quello imperio che dalla sorte è stato loro preposto ; io ne parlerò dilTusa- mente, non lasciando indietro alcun caso notabile in docu- mento dell'uno e dell' altro. E veramente, quella sentenza di Cornelio Tacito è aurea, che dice: che gli uomini hanno ad onorare le cose passate, ed ubbidire alle presenti ; e deb- bono desiderare ì buoni principi, e comunque si siano fatti tollerargli. E veramente, chi fa altrimenti, il più delle volte rovina sé, e la sua patria. Dobbiamo adunque, entrando nella materia, considerare prima centra a chi si fanno le congiure; e troveremo farsi o centra alla patria, o centra ad uno principe : delle quali due voglio che al presente ra- gioniamo ; perchè di quelle che si fanno per dare una terra ai nimici che la assediano, o che abbino per qualunque ca- gione similitudine con questa, se n* è parlato di sopra a suf- ficienza. E tratteremo in questa prima parte di quelle cen- tra al principe, e prima esamineremo le cagioni di esser le quali sono molte ; ma una ne è importantissima più che tutte l'altre. E questa è l'essere odiato dall'universale; perchè quel principe che si è concitalo questo universale odio, è

< Le edizioni antiche, e il Poggiali: intrano* i-

320 D£l DISCORSI

ragionevole che abbi de* particolari ì qaali da Ini siano stati più offesi, e che desiderino vendicarsi. Questo desiderio é accresciuto loro da quella mala disposizione universale, che vengono essergli concitata centra. Debbo, adunque, un principe fuggire questi carichi pubblici : e come egli abbia a fare a fuggirli, avendone altrove trattato, non ne voglio parlare qui ; perché euardandosi da questo, le semplici offese particolari gli faranno meno guerra. L'ana, perché si ris- contra rade volte in uomini che stimino tanto una ingiu- ria, che 8i meltino a tanto pericolo per vendicarla; l'altra, che quando pur ei fussino d'animo e di potenza da farlo, sono ritenuti da quella henivolenza universale, che veggono avere ad ano principe. Le ingiurie, conviene che siano nella roba, nel sangue, o nell'onore. Di quelle del sangue sono più pericolose le minacce che la esecuzione; anzi, le minacce sono pericolosissime, e nella esecuzione non vi é pericolo alcuno : perché chi è morto, non può pensare alla vendetta; quelli che rimangono vivi, il più delle volte ne lasciano il pensiero al morto. Ma colui che é minaccialo, e che si vede constretto da ona necessità o di fare o di patire, diventa un uomo pericolosissimo per il principe: come nel suo luogo particolarmente diremo. Fuora di queste necessità, la roba e l'onore sono quelle due cose che offendono più gli uomini che alcun' altra offesa, e dalle quali il principe si debbe guar- dare: perché e' non può mai spogliare uno tanto, che non gli resti un coltello da vendicarsi : non può mai tanto dis- onorare uno, che non gli r<ìsti un animo ostinato alla ven- detta. E degli onori che si tolgono agli uomini, quello delle donne importa più : dopo questo, il vilipendio della sua per- sona. Questo armò Pausania centra a Fdippo di Macedonia; questo ha armato molti altri corrtra a molti altri principi : e nei nostri tempi lulio Colanti non si mosse a congiurare centra Pandolfo tiranno di Siena, se non per avergli quello data e poi tolta per moglie una sua figliuola ; come nel suo luogo diremo. La maggior cagione che fece che i Pazzi congiura- rono centra a' Medici, fu l'eredità di Giovanni Bonromei, '

* Questo antico modo di tcrìrere , conservato , per gran maraviglia , in tutte ^'ediùoni, ci dimostra l'origine del cognome Borromeo, o Borromei.

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LIBRO TERZO. 35Ì

la quale fu loro tolta per ordine di quelli. Un'altra cagione ci è, e grandissima, che fa gli uomini congiurare conlra al principe ; la quale è il disiderio di liberare la patria siala da quello occupala. Questa cagione mosse Bruto e Cassio cen- tra a Cesare; questa ha mosso molti altri contro ai Falari, Dionisi, ed altri occupatori della patria loro, può da que- sto umore alcuno tiranno guardarsi, se non con diporre la tirannide. E perchè non si (ruova alcuno che faccia questo, si truovano pochi che non capitino male; donde nacque quel verso di luvenale:

Ad gmerum Cereris sine ccede et vulnere palici Descendunt reges, et sicca morte tiranni.

I pericoli che si portano, come io dissi di sopra, nelle con- giure, sono grandi, portandosi per tutti i tempi ; perché in tali casi corre pericolo nel maneggiarli, nello eseguirli, ed eseguiti che sono. Quelli che congiurano, o e' sono uno, 0 e' sono più. Uno non può dire che sia congiura, ma è una ferma disposizione naia in un uomo d'ammazzare il principe. Questo solo dei tre pericoli che corrono nelle congiure, manca del primo; perchè innanzi alla esecuzione non porta alcun perìcolo, non avendo altri il suo segreto, portando pericolo che torni il disegno suo all'orecchie del principe. Questa diliberazione cosiffatta può cadere in qualunque uomo, di qualunque sorte, piccolo, grande, no- bile, ignobile, famigliare e non famigliare al principe; per- chè ad ognuno è lecito qualche volta parlargli; ed a chi è lecito parlare, è lecito sfogare l'animo suo. Pausania, del quale altre volte si è parlalo, ammazzò Filippo di Macedo- nia che andava al tempio, con mille armati dintorno, ed in mezzo intra il figliuolo ed il genero : ma costui fu nobile o cognito al principe. Uno Spagnuolo povero ed abietto, dette una coltellata in su '1 collo al re Ferrante, re * di Spagna: non fu la ferita mortale, ma per questo si vidde che colui ebbe animo e comodità a farlo. Uno dervis, sacerdote turchese©, trasse d' una scimilarra a Baisit, padre del presente Turco: non lo Teri, ma ebbe pur animo e comodità a volerlo fare. Di

* I moderni, scaiKUleuati della ripetiiùoney correwerot al Ferrando di Spagna,

32Ì DEI DISCORSI

««•

questi animi falli cosi, se ne Iruovano, credo , assai che lo vorrebbono fare, perchè nel volere non è pena pericolo alcuno ; ma pochi che lo faccino. Ma di quelli che lo fanno, pochissimi * 0 nessuno che non siano ammazzali in sul fallo: però non si Iruova chi voglia andare ad una certa morte. Ma lasciamo andare queste uniche volontà, e veniamo alle con- giure intra i più. Dico, trovarsi nelle istorie, tutte le congiure esser fatte da uomini grandi, o famieliarissimi del prini^ipe: perché gli altri, se non sono matti affatto, non possono congiu- rare; perché gli uomini deboli, e non famigliari al principe, mancano lutte quelle speranze e di tutte quelle comodità che si richiede alla esecuzione d*una congiura. Prima, gli uo- mini deboli non possono trovare riscontro di chi tenga lor fede; perchè uno non può consentire alla volontà loro, sotto alcuna di quelle speranze che fa entrare gli uomini ne* peri- coli grandi ; in modo che, come e' si sono allargati in due o in tre persone, e* trovano lo accusatore e rovinano: ma quando pure ei fussino tanto felici che mancassìno questo accusatore, sono nella esecuzione intorniati da tale difTiculià, per non aver l'entrala facile al princi|)e, che rIì è impos- sibile che in essa esecuzione ei non rovinino. Perchè, se gli uomini grandi, e che hanno l'entrata facile, sono op- pressi da quelle ditìlcultà che di sotto si diranno, conviene che in costoro quelle ditììcullà senza fine creschino. Pertanto gli uomini (perchè dove ne va la vita e la roba non sono al tutto insani) quando si veggono deboli, se ne guardano; e quando egli hanno a noia un principe, attendono a biastem- marlo, * ed aspettano che quelli che hanno mai^giore qualità di loro, gli vendichino. E se pure si trovasse che alcuno di questi simili avesse tentato qualche cosa, si debbe laudare in loro la intenzione, e non la prudenza. Vedasi, pertanto, quelli che hanno congiurato, essere slati tutti uomini grandi, o famigliari del principe; de' quali molti hanno congiurato, mossi cosi da' troppi benefìzii, come dalle troppe ingiurie: come fu Perennio centra a Commodo, Plauziano conlra a Severo, Seiano conlra a Tiberio. Costoro tulli furono dai

* Cootinua a reggere il verbo di sopra ; se ne tntovano.

' Cosi nella Bladiana e nella Testina.

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loro imperadori constituiti in tanta ricchezza, onore e grado, che non pareva che mancasse loro alla perfezione della po- tenza altro che l' imperio; e di questo non volendo mancare, si missono a coni;iurare centra al principe : ed ebbono le loro congiure tutte quel fine che meritava la loro ingratitudi- ne; ancora che di queste simili ne* tempi più freschi ne avesse buon fine quella di Iacopo d'Appiano centra a messer Piero Gambacorti, principe di Pisa : il quale Iacopo, allevalo e nu- trito e fatto riputato da luì, gli tolse poi lo stato. Fu di que- ste quella del Coppola, ne' nostri tempi, centra al re Ferrando d'Aragona ; il quale Coppola venuto a tanta grandezza che non gli pareva gli mancasse se non il regno, per volere ancóra quello, perde la vita. E veramente, se alcuna congiura centra a' principi fatta da uomini grandi dovesse avere buon fine, doverrebbe essere questa ; essendo fatta da un altro re, si può dire, e da chi ha tanta comodità di adempire il suo desiderio: ma quella cupidità del dominare che gli accieca, gli accieca ancora nel maneggiare questa impresa; perchè, se sapessino fare questa cattività con prudenza, sarebbe impossibile non riuscisse loro. Debbo, adunque, un principe che si vuole guardare dalle congiure, temere più coloro a chi egli ha fatto troppi piaceri, che quelli a chi gli avesse fatte troppe ingiurie. Perchè questi mancano di comodità, quelli ne abbondano; e la voglia è simile-, perchè gli è così grande o maggiore il disiderio del dominare, che non è quello della vendetta. Debbono, pertanto, dare tanta autorità agli loro amici, che da quella al principato sia qualche in- tervallo, e che vi sia in mezzo qualche cosa da disiderare: altrimenti, sarà cosa rara se non interverrà loro come ai princìpi soprascritti. Ma torniamo all'ordine nostro. Dico, che avendo ad esser quelli che congiurano uomini grandi, e che abbino l'adito facile al prìncipe, si ha a discorrere i successi queste loro imprese quali siano slati, e ve<lere la cagione che gli ha fatti essere felici, ed infelici. E come io dissi di sopra, ci si trovano dentro in tre tempi, pericoli; prima, in su 'l fatto, e poi. Però se ne trovano |)oche che abbiano buono esilo, perchè gli è impossibile quasi pas- §£(rgli tutu fejiceipeate. £ comipclando a discorrere i peri-

SIA DEI DISCORSI

coli di prima, che sono i più importanti ; dico, come e' biso- gna essere mollo prudente, ed avere una gran sorte, che nel maneggiare una congiura la non si scuopra. E si scuoprono o per relazione, o per conietlura. La relazione nasce da tro- vare poca fede, o poca prudenza, negli uomini con chi tu la comunichi. La poca fede si trova facilmente, perchè tu non puoi comunicarla se non eoo tuoi fidali, che per tuo amore si mettino alla morte, o con uomini che siano malcontenti del principe. DeTidati se ne potrebbe trovare uno o due; ma come tu ti distendi io molti, è impossibile gli Iruovi: dif>oi, e' bisogna bene che la benevolenza che ti portano sia grande, a volere che non paia loro maggiore il pericolo e la paura della pena. Dipoi gli uomini s* ingannano il più delle volte dello amore che lo giudichi che on uomo ti porti, te ne puoi mai assicurare, se (o non ne fai esperienza: e farne esperienza in questo è pericolosissimo: e sebbene ne avessi fatto esperienza in qualche altra cosa pericolosa dove e' li fussono stati fedeli, non puoi da quella fede misurare questa, passando questa di gran lunga ogni altra qualità di pericolo. Se misuri la fede dalla mala contentezza che uno abbia del principe, in questo lo ti puoi facilmente ingannare: perché subilo che lo hai manifestato a quel malcontento l'animo tuo, tu gU dai materia di contentarsi, e convien bene o che l'odio sia grande, o che l'autorità tua sia grandissima a mantenerlo in Tede. Di qui nasce che assai ne sono riTeiate, eQ oppresse ne' primi principii loro ; e che quando una è stata infra molti oomini segreta longo tempo, é tenuta cosa Diiracolosa: come fa quella di Pisone centra a Nerone, e ne' nostri tempi quella de' Pazzi centra a Lorenzo e Giuliano de' Medici; delle quali erano consapevoli più che cinquanta nomini, e condussonsi alla esecuzione a scoprirsi. Quanto a scoprirsi per poca prudenza, nasce quando uno congiurato ne parla poco cauto, in modo che un servo o altra terza persona intenda; come intervenne ai fmliuoli di Bruto, che nel ma- neggiare la cosa con i legati di Tarquinìo, furono intesi da un servo, che gli accusò : ovvero quando per leggerezza ti viene comunicata adonna o a fanciullo che tu ami,o a simile leggieri persona; come fece Dinne, uno de' congiurati conFilota centra

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ad AlessandroMagno,ilqualecomunicò la congiura aNìcomaco fanciullo amato da lui, il quale subito lo disse a Ciballìno suo fratello, e Ciballino al re. Quanto a scoprirsi per conieltura, ce n'è in essempio la congiura Pisoniana contra a Nerone; nella qualeScevino, uno de'congiurati, il di dinanzi ch'egli aveva ad ammazzare Nerone, fece testamento, ordinò che Melichio' suo liberto facesse arrotare un suo pugnale vecchio e rugginoso, liberò tutti i suoi servi e dette loro danari, fece ordinare fa- sciature da legare ferite: per le quali conietlure accertatosi Me- lichio della cosa, lo accusò a Nerone. Fu preso Scovino, e con lui Natale, un altro congiurato, i quali erano stati veduti parlare a lungo e di segreto insieme il davanti; e non si accordando del ragionamento avuto, furono forzati a confes- sare il vero; talché la congiura fu scoperta, con rovina di tutti i congiurati. Da queste cagioni dello scoprire le con- giure è impossibile guardarsi, che per malizia, per impru- denza 0 per leggerezza, la non si scuopra, qualunque volta i conscii d'essa passano il numero di tre o di quattro. E come e' ne è preso più che uno, è impossibile non riscon- trarla, perchè due non possono esser convenuti insieme di tutti i ragionamenti loro. Quando e' sia preso solo uno che sia uomo forte, può egli con la fortezza dello animo tacere i congiurati; ma conviene che i congiurati non abbino meno animo di lui a star saldi, e non si scoprire con la fuga: per- che da una parte che l'animo manca, o da chi è sostenuta o da chi è libero, la congiura è scoperta. Ed è raro lo essem- pio addotto da Tito Livio nella congiura fatta contra a Giro- lamo re di Siracusa; dove, sendo Teodoro uno de' congiurati preso, celò con una virtù grande lutti i congiurati, ed ac- cusò gli amici del re; e dall'altra parte, tutti i congiurati confidarono tanto nella virtù di Teodoro, che nessuno si partì di Siracusa, o fece alcuno segno di timore. Passasi, adun- que, per tutti questi pericoli nel maneggiare una congiura innanzi che si venga alla esecuzione d'essa: i quali volendo fuggire, ci sono questi rimedi. 11 primo ed il più vero, ^ anzi

* Le antiche edizioni, qui e di sotto: Milichio.

3 Cosi nella Bladiana e nella Testina. Le del Poggiali e del 1813: Il primo e il più sicuro,

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326 DEI DISCORSI

a dir meglio, onico, è non dare tempo ai congiurati di accu- sarli; e perciò* comunicare loro la cosa quando tu la vuoi fare, e non prima: quelli che hanno fatto cosi, fusgono a\* certo i pericoli che sono nel praticarla, e il più delie volle gli altri; anzi hanno tutte avuto felice fine: e qualunque prudente arebbe comodità di governarsi in questo modo. Io voglio che mi basti addurre due essempi. Neleraalo, non po- tendo sopportare la tirannide di Aristotimo tiranno di Epiro, ragunò in casa sua molti parenti ed amici, e confortatogli a liberare la patria, alcuni di loro chiesono tempo a delibe- rarsi ed ordinarsi; donde Nelemato fece a'suoi servi serrare la casa, ed a quelli che esso aveva chiamati, disse: 0 voi giurerete di andare ora a fare questa esecuzione, o io vi darò tutti prigioni ad Aristotimo. Dalle quali parole mossi coloro, giurarono; ed andati senza intermissione di tempo, felice- menle l'ordine di Nelemato ese^iuirono. Avendo un Mago, per inganno, occupato il regno de' Persi, ed avendo Orla- no, uoo de* grandi uomini dei regno, intesa e scopertala fraude, lo conferì con sei altri principi di quello slato, di- cendo come esli era da vendicare il regno dalla tirannide di quel Mago; e domandando alcuno di loro tempo, * si levò Dario, uno- de'sei chiamati da Orlano, e disse: 0 noi andre- mo ora a far questa esecuzione, o io vi andrò ad accusar tutti. E cosi d'accordo levatisi, senza dar tempo ad alcuno di pen- tirsi, eseguirono felicemente' i disegni loro. Simile a questi duoi essempi ancora è il modo che gli Eloli tennero ad animazzare Nabide, tiranno spartano; i qu;ili mandarono Alessameno loro cittadino, con trenta cavalli e dusenlo fanti, a Nabide, sotto colore di mandargli aiuto; ed il segreto so- lamente comunicarono ad Alessameno; ed asti altri iro(>osnno che lo ubbidis<iino in ogni e qualunque cosa, sotto pena di esilio. Andò costui in S)>arla, e non comunicò mai la com- missione sua se non quando ei la volle eseguire: donde gli riusci d' ammazzarlo. Costoro, adunque, per questi modi hanno fuggiti quelli pericoli che si portano nel maneggiare

* Manca nella Romana perciò, eh' è io tuUe le altre.

* Male nella Te»tina , e nelle moderne edizioni : ii tempo.

' Co^f e meglio , nelU Rowaa^. I<« «lire t)«imo facilmcnti.

LIBRO TERZO. 327

le congiare; e chi imiterà loro, sempre gli fuggirà. E che ciascuno possa fare come loro, io ne voglio jdare Io essempio di Pisone, preallegalo di sopra. Era Pisone grandissimo e ri- pulalissimo uomo, e famigliare di Nerone, e in chi egli con- fidava assai. Andava Nerone ne'suoi orli spesso a mangiare seco. Poteva, adunque, Pisone farsi amici uomini d'animo, di cuore, e di disposizione alti ad una tale esecuzione (il che ad uno uomo grande è facilissimo); e quando Nerone fusse sialo ne'suoi orti, comunicare loro la cosa, e con parole conve- nienti inanimirli a far quello che loro non avevano tempo a ricusare, e che era impossibile che non riuscisse. E cosi, se si esamineranno tutte l'altre, si troverà poche non esser potute contjursi nel medesimo modo: ma gli uomini per lo or- dinario poco, intendenti delle azioni del mondo, spesso fanno errori grandissimi, e tanto maggiori in quelle che hanno più dello istraordinario, come é questa. Debbesi, adunque, non comunicare mai la cosa se non necessitalo ed in sul fatto; e se pure la vuoi comunicare, comunicala ad un solo, del quale abbi fallo lunghissima isperienza, o che sia mosso dalle me- desime cagioni che tu. Trovarne uno cosi fatto è mollo più fa- cile che trovarne più, e per questo vi è meno pericolo; dipoi, quando pure ei ti ingannasse, vi è qualche rimedio a difen- dersi, che non é dove siano congiurali assai: perchè da al- cuno prudente' ho sentito dire che con uno si può parlare ogni cosa, perchè tanto vale, se tu non ti lasci condurre a scrivere di tua mano, il si dell'uno quanto il no dell'altro; e dallo scrivere ciascuno debbe guardarsi come da uno sco- glio, perchè non è cosa che più facilmente ti convinca, che lo scrino di tua mano. Plauziano volendo fare ammazzare Severo imperadore ed Antonino suo figliuolo, commise la cosa a Saturnino tribuno; il quale volendo accusarlo e non ubbidirlo, e dubitando che venendo alla accusa non fusse più creduto a Plauziano che a lui, gli chiese una cedola di sua mano, che facesse fede di questa commissione; la quale Plau- ziano, accecalo dalla ambizione, gli fece: donde segui che fu dal tribuno accusalo e convinto; e senza quella cedola, e

* Cosi nella Bladiana e in quella del 1813 ; ma nelle altre: da alcuni pnt- denti.

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328 DEI DISCORSI

certi altri contrassegni, sarebbe slato Plauziano superiore: tanto audacemente negava. Truovasi, adunque, nella accusa d'uno qualche rimedio, quando tu non puoi esser da una scrittura, o altri contrassegni, convinto: da che uno si debbc guardare. Era nella congiura Pisoniana una femmina chia- mata Epicari, stala per lo addietro amica di Nerone; la quale giudicando che fusse a proposito mettere tra i congiurati uno capitano di alcune triremi che Nerone teneva per sua guar- dia, gli comunicò la congiura, ma non i congiurati. Donde, rompendogli quel capitano la fede ed accusandola a Nerone, fu tanta l'audacia di Epicari nel negarlo, che Nerone, limnso confuso, non la condennò. Sono, adunque, nel comunicare la cosa ad un solo due pericoli: rane, che non ti accusi in pruo- va; l'altro, che non ti accusi convinto e constrctlo dalla pena, sendo egli preso per qualche sospetto o per qualche indizio avuto di lai. Ma nell' ano o nell' altro di questi duoi peri- coli é qualche rimedio, potendosi nesare 1' uno allegandone l'odio che colui avesse leco, e negare l'alti'o allegandone la forza che lo costringesse a dire le bugie. È, adunque, pru- denza non comunicare la cosa a nessuno, ma fare secondo quelli essempi soprascritti; o quando pure la comunichi, non passare uno, dove se è qualche più pericolo, * ve n'é meno assai che comunicarla con molti. Propinquo a questo modo è quando una necessità ti costringa a fare quello al prin- cipe che tu vedi che '1 principe vorrebbe fare a te, la quale sia tanto grande che non ti dia tempo se non a pensare d'as-^ sicurarti. Questa necessità conduce quasi sempre la cosa al fìne desiderato: ed à provarlo voglio bastino duoi essempi. Aveva Commodo, imperadore, Leto ed Eletto, capi de* sol- dati pretoriani, intra i primi amicf^ famigliari suoi, ed aveva Marzia intra le sue prime concubine ed amiche; e perchè egli era da costoro qualche volta ripreso de' modi con i quali maculava la persona sua e lo imperio, deliberò di fargli mo- rire, e scrisse in su una lista: Marzia, Leto ed Eletto, ed alcuni altri che voleva la notte seguente far morire; e questa lista messe sotto il capezzale del suo letto. Ed essendo

Cosi tulle le stampe: ma sembra da correggerti: dovt /*« />«r« qual- che pericolo.

LIBRO TERZO. 3^9

ito a lavarsi, an fanciullo favorito di lui scherzando per ca- mera e su pel letto, gli venne trovata questa lista, ed ascendo fuora con essa in mano, riscontrò Marzia; la quale gliene tolse, e lettola, e veduto il contenuto d'essa, subito mandò per Leto ed Eletto ; e conosciuto tutti tre il pericolo in quale erano, diliherarono prevenire; e, senza metter tempo in mezzo, la notte seguente ammazzarono Coramodo. Era Antonino Caracalla, imperadore, con gli eserciti suoi in Me- sopotamia, ed aveva per suo prefetto Macrino, uomo più ci- vile che armigero ; q, come avviene che i principi non buoni temono sempre che altri non operi centra di loro quello che par loro meritare, scrisse Antonino a Materniano suo amico a Uoma, che inlendesse dagli astrologi, se gli era alcuno che aspirasse allo impefio, e gliene avvisasse. Donde Materniano gli riscrisse, come Macrino era quello che vi aspirava; e pervenuta la lettera, prima alle mani di Macrino che dello imperadore, e per quella conosciuta la necessità o d'ammaz- zare lui prima che nuova lettera venisse da Roma, o di mo- rire, commise a Marziale centurione, suo fidato, ed a chi Antonino aveva morto pochi giorni innanzi un fratello, che lo ammazzasse : il che fu eseguito da lui felicemente. Vedesi, adunque, che questa necessità che non tempo, fa quasi quel medesimo etTelto che '1 modo da me sopraddetto che tenne Nelemato di Epiro. Vedesi ancora quello che io dissi quasi nel principio di questo discorso, come le minacce offendono più gli principi, e sono cagione di più efficaci con- giure che le offese: da che un principe si debbo guardare; perchè gli uomini si hanno o a carezzare, o assicurarsi di loro, e non gli ridurre mai in termine che gli abbino a pen- sare che bisogni loro o morire, o far morire altrui. Quanto ai pericoli che si corrono in su la esecuzione, nascono questi 0 da variare l'ordine, o da mancare l'animo a colui che ese- guisce, 0 da errore che lo esecutore faccia per poca pruden- za, 0 per non dar perfezione alla cosa, rimanendo vivi parte di quelli che si disegnavano ammazzare. Dico, adunque, come e' non è cosa alcuna che faccia tanto sturbo o impedimento a tutte le azioni degli uomini, quanto è in uno instante, senza aver tempo, avere a variare un ordine, e pervertirlo da quelb

SS'

330 DEI Disconst

che si era ordinato prima. E se questa variazione fa disor- dine in cosa alcuna, lo fa nelle cose della guerra, ed in cose simili a quelle di che noi parliamo; perchè in tali azioni non è cosa tanto necessaria a fare, quanto che gli uomini fer- mino gli animi loro ad esesuire quella parie che tocca loro : e se gli uomini hanno vòlto la fantasia per più giorni ad un modo e ad uno ordine, e quello subito varii, è impossibile che non si perturbino tutti, e non rovini ogni cosa; in modo ch'egli è roe;^lio assai eseguire una cosa secondo T ordine dato, ancora che vi si vegga qualche inconveniente, che non è, per voler cancellare quello, entrare in mille inconvenienti. Questo interviene quando e* non si ha tempo a riordinarsi; perché quando si ha lemfio, si può 1* uomo governare a suo modo. La congiura de' Pazzi contra a Lorenzo e Giuliano de' Medici, è nota. L' ordine dato era, che dessino desinare al cardinale di San Giorgio, ed a quel desinare ammazzargli: dove si era distribuito chi aveva a ammazzargli, chi aveva a pigliare il palazzo, e chi correre la città e chiamare il po- polo alla libertà. Accadde* che essendo nella chiesa cattedrale in Firenze i Pazzi, ì Medici ed il Cardinale ad uno otilzio solenne, s'intese come Giuliano la mattina non vi desinava: il che fece chei congiurati s'adunarono insieme, e quello che gli avevano a far in casa i Medici, diliberarono di farlo in chiesa. Il che venne a perturbare lutto l'ordine; perché Giovambalista da Monlesecco non volle concorrere all'omi- cidio, dicendo non lo volere fare in chiesa : talché gli ebbono a mutare nuovi ministri in ogni azione; ì quali, non avendo tempo a fermare l'animo, feciono tali errori, che in essa esecuzione furono oppressi. Manca l'animo a chi eseguisce, o per riverenta, o per propria viltà dello esecutore. È tanta la maestà e la riverenza che si tira dietro la presenza d'uno principe, ch'egli é facil cosa o che mitighi o ch'egli sbigot- tisca uno esecutore. A Mario, essendo preso da'Minturnesi, fu mandato uno servo che lo ammazzasse; il quale spaven- tato dalla presenza di quello uomo e dalla memoria del nome suo, divenuto vile, perde 'ogni forza ad ucciderlo. E seque-

' La Testiiu e 1* edizione del Poggiali , qui e io altri luoghi : Accadi, t Cosi nella Romana. Le altre leggono t dif^entà vUe,eperdi,

sta potenza è in uno uomo legalo e prigione, ed aflfogato in la mala fortuna; quanto si può temere che la sia maggiore in un principe sciolto, con la maestà degli ornamenti, della pompa e della comitiva sua? talché ti può questa pompa spaventare, o vero con qualche graia accoglienza raumiliare. Congiurarono alcuni conlra a Sìlalce re di Tracia ; deputa- rono il della esecuzione; convennono al luogo deputalo, dov'era il principe; nessuno di loro si mosse per offenderlo: tanto che si partirono senza aver tentalo alcuna cosa e senza sapere quello che se gli avesse impediti ; ed incolpavano l'uno l'altro. Caddono in tale errore più volle; tantoché scopertasi la congiura, portarono pena di quel male che poterono e non volleno fare. Congiurarono conlra Alfonso duca di Ferrara due suoi fratelli, ed usarono mezzano Giennes prete e can- tore del duca ; il quale più volte, a loro richiesta, condusse il duca fra loro, talché gli avevano arbitrio di ammazzarlo. Nuiidimeno, mai nessuno di loro non ardi di farlo; tantoché, scoperti, portarono la pena della cattività e poca prudenza loro. Questa negligenza non potette nascere da altro, se non che convenne o che la presenza gli sbigottisse o che qual- che umanità del principe gli umiliasse. Nasce in tali esecu- zioni inconveniente o errore per poca prudenza, o per poco animo ; perché l'una e l'altra di queste due cose ti 'nvasa, e, portalo da quella confusione di cervello, ti fa dire e fare quello che tu non debbi. E che gli uomini invasino e si con- fondino, non Io può meglio dimostrare Tito Livio quando descrive d'AIessameno elolo, quando ei volse ammazzare Nabide spartano, di che abbiamo di sopra parlato ; che, ve- nuto il tempo della esecuzione, scoperto che egli ebbe a'suoi quello che s'aveva a fare, dice Tito Livio queste parole: CoUeijit et ipse animum, confusum lantcB cogilalione rei. Perchè gli è impossibile ch'alcuno, ancora che di animo fermo, ed uso alla morte degli uomini e ad operare il ferro, non si confonda. Però si debbe eleggere uomini sperimentati in tali maneggi, ed a nessun altro credere, ancora che tenuto ani- mosissimo. Perchè, dello animo nelle cose grandi, senza avere fatto isperienza, non sia alcuno che se ne prometta posa certa. Può, adunque, questa confusione o farti cascare

33^ DEI DISCORSI

rarmì di mano, o farli dire cose che faccino il medesimo efiello. F^ucilla, sorella di Commodo ordinò cheQuinziano lo ammazzasse. Costui aspettò Commodo nella entrata dello an- fiteatro, e con un pugnale ignudo accostandosegli» gridò : Que- sto li manda il Senato: le quali parole fecero che fu prima preso ch'egli avesse calato il braccio per ferire. Messer An- tonio da Volterra, diputalo, come di sapra si disse, ad am- mazzare Lorenzo de' Medici, nello accosiarsegli, disse: Ah traditore! la qual voce fu la salute di Lorenzo, e la rovina di quella congiura. Può non si dare perfezione alla cosa, quando si congiura centra ad un capo, per le cagioni dette: ma fa- cilmente non se le perfezione quando si congiura centra a due capi ; anzi è tanto difTlcile, che gli è quasi impossibile che la riesca. Perchè fare una simile azione in un medesimo tempo in diversi luoshi, ó quasi impossibile; perché in di- versi tempi non si può fare, non volendo che l'una guasti l'al- tra. In modo che, se il congiurare conlra ad un principe è cosa dubbia , pericolosa e poco prudente ; congiurare contra a due, è al lutto vana e leggieri. E se non fusse la rive- renza dello isterico, io non crederei mai che fusse possibile quello che Erodiano dice di Plauziano, quando ei commise a Saturnino centurione, che egli solo ammazzasse Severo ed Antonino, abitanti in diversi luoghi : perché la é cosa tanto discosto dal ragionevole, che altro che questa autorità non me lo farebbe credere. Congiurarono certi giovani ateniesi contra a Diocle ed Ippia, tiranni di Atene. Ammazzarono Diocle; ed Ippia che rimase, lo vendicò. Chione e Leonide, eraclensi e discepoli di Piatone, conuiurarono contra a Calcareo e Satiro, tiranni: ammazzarono Clearco; e Satiro che restò vivo, lo vendicò. Ai Pazzi, più volte da noi allegati, non suc- cesse di ammazzare se non Giuliano. In modo che, di simili congiure contra a più capi se ne debbe astenere ciascuno, perché non si fa bene a alla patria ad alcu- no: anzi quelli che rimangono, diventano più insopporta- bili e più acerbi; come sa Firenze, Atene ed Eraclea, state da me preallegate. È vero che la congiura che Pelo- pida fece per liberare Tebe sua patria, ebbe tulle le diflì- cultà; nondimeno ebbe felicissimo fine: perchè Pelopida

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non solamente congiaró contra a due tiranni, ma conlra a dieci ; non solamente non era confidente e non gli era fo- cile l'entrata ai tiranni, ma era ribello: nondimeno ei potè venire in Tebe, aramazzare 1 tiranni, e liberare la patria. Pur nondimeno fece tulio, con V aiuto d* uno Cariote, consi- gliere * de' tiranni, dal quale ebbe l' entrata facile alla esecu- zione sua.Non sia alcuno, nondimeno, che pigli lo esserapio da cosini: perchè cotae la fu impresa impossibile, e cosa mara- vigliosa a riuscire, così fu ed è tenuta dagli scrittori i quali la celebrano, come cosa rara, e quasi senza essempio. Può essere interrotta tale esecuzione da una falsa immaginazio- ne, 0 da uno accidente improvviso che nasca in su 'l fatto. La mattina che Bruto e gli altri congiurati volevano ammazzare Cesare, accadde che quello parlò a lungo con Gneo Popilio Lenate, uno de* congiurati; e vedendo gli altri questo lungo parlamento, dubitarono che detto Popilio non rivelasse a Cesare la congiura. Furono per tentare d'ammazzare Cesare quivi, e non aspettare che fusse in Senato; ed arebbonlo fatto, se non che il ragionamento fini, e visto non fare a Cesare moto alcuno straordinario, si rassicurarono. Sono queste false immaginazioni da considerarle, ed avervi con prudenza rispetto; e tanto più, quanto egli è facile ad aver- le. Perchè chi ha la sua conscienza macchiata, facilmente crede che si parli di lui : puossi sentire una parola delta ad un altro fine, che li faccia perturbare l'animo, e credere che la sia delta sopra il caso tuo; e farli o con la fuga scoprire la congiura da te, o confondere l'azione con accelerarla fuora di tempo. E questo tanto più facilmente nasce, quanto* ei sono molli ad esser conscii della congiura. Quanto agli ac- cidenti, perchè sono insperali, non si può se non con gli essempi mostrargli, e fare gli uomini cauti secondo quelli, lulio Belanti da Siena, del quale di sopra abbiamo fallo menzione, per lo sdegno aveva contra a Pandolfo, che gli aveva tolta la figliuola che prima gli aveva data per mo- glie, deliberò d'ammazzarlo, ed elesse questo tempo. Andava Pandolfo quasi ogni giorno a visitare un suo parente infermo,

* La Bladiana soltanto t con^i^'/Zer/. i^,

3 Inutilmente emendano gli editori del 1813 : quando, •"*■

334 . DEI DISCORSI

e nello andarvi passava dalle case di lulio. Costui adunque veduto questo, ordinò d'avere i suoi congiurali in casa ad ordine per aoimazzare Pandolfo nel passare; e messisi den- tro air uscio armati, teneva uno alla feneslra, che, passando Pandolfo, quando ei fusse stato presso all' uscio, facesse un cenno. Accadde che venendo Pandolfo, ed avendo fatto colui il cenno, riscontrò uno amico che lo Termo; ed alcuni di quelli che erano con lui , vennero a trascorrere innanli, e veduto e sentito il romore d*arme, scopersono Tazguato; in lAodo che Pandolfo si salvò, e lulio coi compagni s' eh- bono a fusgire di Siena. Impedì quello accidente di quello scontro quella azione, e fece a lulio rovinare la sua im- presa. Ai quali accidenti, perché ei sono rari, non si può fare alcuno rimedio. È ben necessario esaminare lutti quelli che possono nascere, e rimediarvi. Restaci, al presente, solo a disputare de' pericoli che si corrono dopo la esecuzione : i quali sono solamente ano; e questo è, quando e' rimane al- cuno che \endichi il principe morto. Possono rimanere, adun- que, suoi fratelli, o suoi fiuliuoli, o altri aderenti, a chi 8* aspetti il principato; e possono rimanere o per tua negli- genza, 0 per le cagioni delle di sopra, che faccino questa vendetta: come intervenne a Giovannandrea da Lampognano, il quale, insieme con i sani congiurati, avendo morto il duca di Milano, ed essendo rimase uno suo figliuolo e due suoi fratelli, furono a tempo a vendicare il morto. E veramente, in questi casi i congiurali sono scusati, perchè non ci hanno rimedio; ma quando ei ne rimane vivo alcuno per poca pru- denza, 0 per loro nesligenza, allora è che non meritano scusa. Ammazzarono alcuni congiurati Forlivesi il conte Girolamo loro signore, presono la moglie, ed i suoi figliuoli, che erano piccoli; e non parendo loro poter vivere sicuri se non si in- signorivano della fortezza, e non volendo il castellano darla loro. Madonna Caterina (che cosi si chiamava la conles.<a) promise a* congiurati, se la lasciavano entrare in quella, di farla consegnare loro, e che ritenessino appresso di loro i suoi figliuoli per islatichi. Costoro scilo questa fede ve la la- sciarono entrare; la quale come fu dentro, dalle mura rim- proverò loro la morte del marito, e minacciògli d' ogni qua-

LIBRO TERZO. 335

lilà di vendetta. E per raoslrare che de' suoi figliuoli non si curava, moslrò loro le membra genitali, dicendo che aveva ancora il modo a rifarne. Così costoro, scarsi di consiglio e tardi avvedutisi del loro errore, con uno perpetuo esilio pati- rono pene della poca prudenza loro. Ma di tutti i pericoli che possono dopo la esecuzione avvenire, non ci è il più cerio, quello che sia più da temere, che quando il popolo è amico del principe che tu bai morto : perchè a questo i congiurati non hanno rimedio alcuno, perchè e' non ne possono mai assicurare. In essempio ci è Cesare, il quale per avere il popolo di Roma amico, fu vendicato da lui; perchè avendo cacciati i congiurati di Roma, fu cagione che furono lutti in vari tempi e in vari luoghi ammazzali. Le congiure che fanno centra alla patria sono meno pericolose per coloro che le fanno, che non sono quelle che si fanno centra ai principi: perchè nel maneggiarle vi- sono meno pericoli che" in quelle; nello eseguirle vi sono quelli medesimi; dopo la esecuzione, non ve n'é alcuno. Nel maneggiarle non vi è pericoli molli: perchè un cittadino può ordinarsi alla potenza senza manifestare l'animo e disegno suo ad alcuno; e se quelli suoi ordini non gli sono ìnlerrolti, seguire felicemente l'impresa sua; se eli sono interrotti con qualche legge, aspettar (empo, ed entrare [ler altra via. Questo s'intende in una repubblica dove è qualche parte di corruzione ; per- chè in una non corrotta, non vi avendo tuono nessuno prin- cipio cattivo, non possono cadere in un suo cittadino questi pensieri. Possono, adunque, i cittadini per molli mezzi e molle vie aspirare al principato, dove non portano peri- colo d'essere oppressi: si perchè le repubbliche sono più tarde che uno principe, dubitano meno, e per questo sono manco caute; si perchè hanno più rispello ai loro cilladini grandi, e per questo quelli sono più audaci, e più animosi a far loro centra. Ciascuno ha letto la congiura di Caldina scritta da Salustio, e sa come poi cbe la congiura fu scoper- ta, Caldina non solamente slette in Roma, ma venne in Senato, e disse villania al Senato ed al i.onsolo: tanto era il rispello che quella cillà aveva ai suoi cittadini. E parlilo che fu di Mowa, e ch'e^jU era di già in su gli eserciti, non

336 DEI DISCORSI.

si sarebbe preso Len(oIo e quelli allri, se non fussero avaJe lellere di lormano che gli accusavano manifeslamente. Annone, grandissimo ciUadino in Cartagine, aspirando alla tirannide, aveva ordinato nelle nozze d* una sua figliuola di avvelenare tutto il Senato, e dipoi farsi principe. Questa cosa intesasi, non vi fece il Senato altra provvisione che d*ona legge, la quale poneva termine alle spese de' con- viti e delle nozze: tanto fu il rispetto che gli ebbero allo qualità sue. È ben vero, cbe nello eseguire una congiura contra alla patria, vi è più ditlìcultà e maggiori pericoli; perché rade volte è che bastino le tue forze proprie conspi- rando contra a tanti ; e ciascuno non è principe d' uno eser- cito, come era Cesare o Agatocle o Cleomene, e simili, che hanno ad un tratto e coI^la forza occupata la patria. Perchò a simili è la via assai facile, ed assai sicura; ma gli altri che non hanno tante aggiunte di forze, conviene che faccino la cosa 0 con incanno ed arte, o con forze forestiere. Quanto alio inganno ed all'arte, avendo Pisistralo ateniese vinti i Mcgarensi, e per questo acquistata grazia nel popolo, usci una mattina fuori ferito, dicendo che la nobiltà per invidia r aveva ingiuriato, e domandò di poter menare armati seco per guardia soa. Da questa autorità facilmente salse a tanta grandezia, che diventò tiranno d'Ateoe. Pandolfo Peirucci tornò con altri fuoruscili in Siena, e gli fu data la guardia della piazza in governo , come cosa meccanica , e che gli altri rifiutarono; nondimanco quelli armali, con il tempo, gli dierono tanta riputazione, che in poco tempo ne diventa principe. Molli altri hanno tenute altre industrie ed altri modi, e con ispazìodi tempo e senza pericolo vi si sono con- dotti. Quelli che con forza loro, o con eserciti esterni, hanno congiurato per occupare la patria, hanno avuti vari eventi, secondo la fortuna. Catilina preallesato vi rovinò sott<^. An- none, di chi di sopra facemmo menzione, non essendo riu- scito il veleno, armò di suoi partigiani molte migliaia di persone, e loro ed eglino furono morti. Alcuni primi cilladini di Tebe per farsi tiranni chiamarono in aiuto uno esercito sparlano, e presono la tirannide di quella città. Tanto che, esaminate tulle le congiure falle contra alla palria, non ne

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LIBRO TERZO. 337

troverai alcnna, o poclie, che nel maneggiarle siano oppres- se; raa tutte o sono riuscite, o sono rovinate nella esecuzio- ne. Eseguite che le sono, ancora non portano altri pericoli , che si porti la natura del principato in : perchè divenuto che uno è tiranno, hai suoi naturali ed ordinari pericoli che gli arreca la tirannide, alli quali non ha altri rimedi che di sopra si siano discorsi. Questo è quanto mi è occorso scri- vere delle congiure ; e se io ho ragionato di quelle che si fanno con il ferro, e non col veleno, nasce che l'hanno tutte un me- desimo ordine. Vero è che quelle del veleno sono più pericolo- se, per esser più incerte : perché non si ha comodità per ognu- no ; e bisogna conferirlo con chi la ha: e questa necessità del conferire ti fa pericolo. Dipoi , per molte cagioni, un beverag- gio di veleno non può* esser mortale: come intervenne a quelli che ammazzarono Commodo, che, avendo quello ribut- tato il veleno che gli avevano dato, furono forzali a strango- larlo, se volleno che morisse. Non hanno, perlarito, i principi il maggiore nimico che la congiura ; perché fatta che è una congiura loro centra, o la gli ammazza, o la gli infama. Per- chè, se la riesce, e' muoiono; se la si scopre, e loro ammaz- zino i congiurati, si crede sempre che la sia stata invenzione di quel principe, per isfogare l'avarizia e la crudellà sua centra al sangue ed alla roba di quelli ch'egli ha morti. Non voglio però mancare di avvertire quel principe o quella re- pubblica conlraa chi fusse congiurato, che abbino avverten- za, quando una congiura si manifesta loro, innanzi che fac- cino impresa di vendicarla, di cercare ed intendere molto bene la qualità di essa, e misurino bene le condizioni de' congiurati e le loro ; e quando la truovino grossa e polente, non la scuoprino mai, infino a tanto che si siano preparati con forze sutTìcienti ad opprimerla : altrimenti facendo, sco- prirebbono la loro rovina. Però debbono con ogni industria dissimularla, perchè i congiurati vegcendosi scoperti, cac- ciati da necessità, operano senza rispetto. In essempio ci sono ì Romani ; ì quali avendo lasciate due legioni di soldati a guardia de'Capovani contra ai Sanniti, come altrove dicem- mo, congiurarono quelli capi delle legioni insieme di oppri-

* Cosi le stampe. Meglio però sarebbe: prtò non essere,

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338 i»EI DISCORSI

merci Capovanirla qiial cosa inlesasi a Roma, commessone a Rulilio nuovo consolo che vi provvedesse; il quale, per addormentare i consiurali , pubblicò come il Senato aveva raffermo le stanze alle legioni capovane. Il che credendosi quelli soldati, e parendo loro aver tempo ad eseguire il di- segno loro, non cercarono di accelerare la cosa; e così stel- lone infino che cominciarono a vedere che il Consolo gli sepa- rava Pano dair altro: la qual cosa generato in loro sospetto, fece che si scopersono, e mandarono ad esecuzione la voglia loro. può essere questo maggiore essem pio nell'una e nel- l'altra parte: perchè per questo si vede, quanto gli uomini sono lenti nelle cose dove ei credono avere tempo; e quanto ei sono presti dove la necessità gli caccia. può uno prin- cipe o una repubblica che vuole differire lo scoprire una congiura a suo vanlaegio, usare termine misliore che ofTe- rire di pros^Troo occasione con ar4e ai congiurati, acciocché aspettando quella, o parendo loro aver tempo, diano tempo a quello o a quella a castigargli. Chi ha fatto altrimenti, ha acceleralo la sua rovina : come fece il duca di Atene, e Guglielmo de' Pazzi. Il duca, diventato (iranno di Firenze, ed inten<lenfio essergli congiurato centra, fece, senza esa- minare altrimenti la cosa, pigliare uno deVoneiurati : il che fece subito pigliare Tarmi asti altri, e lòrgli lo slato. Guglielmo, sendo commessario in Val di Chiana nel 1501, ed avendo inteso come in Arezzo era congiura in favore de' Vi- telli per tórre quella terra ai Fiorentini, subilo se ne andò in quella città, e senza pensare alle forze de* congiurali e alle sue, e senza prepararsi di ' alcuna forza , con il consiglio del Vescovo suo figliuolo, fece piallare uno de'conaiurall : dof»o la qunl presura, gli altri sub te presone l'armi, e tolseno la terra ai Fiorentini; e (iualielmo, di commessario, diventò prigione. Ma quando le congiure sono deboli, si possono e debbono senza ris|)elto op|»rimere. Non è ancora da imitare in alcun modo duci termini usati, quasi contrari l'uno al- l'altro, l'ano dal prenominato duca d'Atene; il quale, per mostrare di credere d'avere la l)enivolenza de'cilladini (io- renlini, fece morire uno che gli manifestò una congiura:

* Men Lene alccrU» k TcsUm C il Poggiali : ad.

LIBRO TERZO. 339

r altro da Dione siracusano; il quale, per tentare Tanimo di alcuno ch'egli aveva a sospetto, consenti a Callippo, nel quale ei confidava , che mostrasse di fargli una congiura contra. E tutti due questi capitarono male: perchè l'uno tolse l'animo agli accusatori, e dettelo a chi volse congiurare: l'altro dette la via facile alla morte sua, anzi fu egli proprio capo della sua congiura; come per isperienza g!i intervenne, perchè Callippo potendo senza rispetto praticare contra a Dione, praticò tanto, che gli tolse lo stato e la vita.

Gap. vii. Donde nasce che le mulazioni dalla libertà alla serviiù, e dalla servitù alla libertà, alcuna n' è senza san- gue , alcuna n' è piena.

Dubiterà forse -alcuno donde nasca che molte mutazioni che si fanno dalla vita libera alla tirannica, e per contrario, alcuna se ne faccia con sangue, alcuna senza ; perche, come per le istorie si comprende, in simili variazioni alcuna volta sono stali morti infiniti uomini, alcuna volta non è stato in* giurialo alcuno : come intervenne nella mutazione che fece Roma dai He ai Consoli, dove non furono cacciati altri che i Tarquini, fuora della offensione di qualunque altro. Il che dipende da questo: perchè quello slato che si muta, nacque con violenza, o non;* e perchè quando e'nasce con violenza, conviene nasca con ingiuria di molti, è necessario poi, nella rovina sua, che gl'ingiuriali si vogliono vendicare; e da que- sto disiderio di vendetta nasce il sangue e la morte degli uomini. Ma quando quello stato è causato da uno comune con*' senso di una universalità che lo ha fatto grande, non ha ca- gione poi, quando rovina detta universalità, offendere al- tri che il capo. E di questa sorte fu lo slato di Roma, e la cacciata de'Tarquini; come fu ancora in Firenze lo slato de* Medici, che poi nelle rovine loro nel l4U4,non furono offesi altri che loro. E cosi tali mutazioni non vengono ad esser molto pericolose : ma son bene pericolosissime quelle che sono fatte da quelli che si hanno a vendicare ; le quali furono sempre mai di sorte, da fare, non che altro, sbigottire chi

* Corregge l'edizione del 13: o no.

340 DEI DISCORSI

le legge. E perchè di questi essempi ne son piene l'Istorie, io le voglio lasciare indietro.

Gap. Vili. Chi vuole alterare una repubblica , debbe considerare il soggello di quella,

E' si è di sopra* discorso, come an tristo citiadino non può male operare in una repubblica che non sia corrotta: la quale conclusione si fortifica, oltre alle ragioni che allora si dis- sono, con l'essempio di Spurio Cassio e di Manlio Capitolino. Il quale Spurio sendo uomo ambizioso, e volendo pigliare autorità islraordinaria in Roma, e guadagnarsi la Plebe con il fargli molti benefìzi , come era di vendergli quelli campi che i Romani avevano tolti alli Ernici; fu scoperta dai Padri questa sua ambizione, ed in tanto recata a sospetto, che par- lando egli al Popolo, ed ofTerendo di dargli quelli danari che 8* erano ritratti de' grani che il pubblico aveva fatti venire di Sicilia, al tutto gli recusò, parendo a quello che Spurio volesse dare loro il pregio della loro libertà. Ma se tal Popolo fusse stato corrotto, non arebbe recusalo detto prezzo, e gli arebbe aperta alla tirannide quella via che gli chiuse. Fa mollo maggiore essempio di questo, Manlio Capitolino; per- ché mediante costui si vede quanta virtù d'animo e di corpo, quante buone opere fatte in favore della patria, cancella di- poi una brutta cupidità di regnare : la quale , come si vede , nacque in costui per la invidia che lui aveva degli onori erano fatti a Cammìllo; evenne in tanta cecità di mente, che non pensando al modo del vivere della città, non esaminando il soggetto quale esso aveva , non atto a ricevere ancora trista forma, si mise a fare tumulti in Roma contra al Senato, e centra alle le2gi patrie. Dove si conosce la perfezione di quella città, e la bontà della materia sua: perchè nel caso suo nes- suno della Nobiltà, ancora che fussino acerrimi difensori l'uno dell'altro, si mos^e a favorirlo ; nessuno de' parenti fece im- presa in suo favore: e con gli allri accusati solevano compa- rire sordidati, vestili nero, tulli mesti, per cattare mise-

* Cosi, colla Bladiau e la del 13, molto meglio che eolla Testina f £" W sopra j o col Poggiali t Essi sopra.

LIBRO TERZO. 341

ricordia in favore dello accusato; e con Manlio non se ne vide alcuno. 1 Tribuni della plebe, che solevano sempre favorire le cose che pareva venissino in benefizio del Popolo; e quanto erano più contra ai Nobili, tanto più le tiravano innanzi; in questo caso si unirono coi Nobili, per opprimere una co- mune peste. Il Popolo di Roma, disiderosissimo dello utile proprio, ed amatore delle cose che venivano conira alla No- biltà, avvenga che facesse a Manlio assai favori; nondimeno, come i Tribuni lo citarono, e che rimessono la causa sua al giudizio del Popolo, quel Popolo, diventato di difensore giu- dice, senza rispetto alcuno lo condennò a morte. Pertanto io non credo che sia essempio in questa istoria più atto a mo- strare la bontà di tutti gli ordini di quella Repubblica, quanto è questo; veggendo che nessuno di quella città si mosse a difendere un cittadino pieno d'ogni virtù, e che pubblica- mente e privatamente aveva fatte moltissime opere laudabili. Perchè in tutti loro potè più T amore della patria, che nes- suno altro rispetto; e considerarono molto più ai pericoli pre- sentì che da lui dipendevano, che ai meriti passati: tanto che con la morte sua e' si liberarono. E Tito Livio dice: Hunc exilum hahuit vir, nisi in libera civilale nalus essel, memora' hilis. Dove sono da considerare due cose: 1' una, che per altri modi s' ha a cercare gloria in una città corrotta, che in una che ancora viva politicamente; l'altra (che è quasi quel me- desimo che la prima), che gli uomini nel proceder loro, e tanto più nelle azioni grandi, debbono considerare i tempi, ed accomodarsi a quelli. E coloro che, per cattiva elezione o per naturale inclinazione, si discordano dai tempi, vivono il più delle volte infelici, ed hanno cattivo esilo l'azioni loro; al contrario 1* hanno quelli che si concordano col tempo. E senza dubbio, per le parole preallegate dello istorico si può conchiudere, che se Manlio fusse nato ne' tempi di Mario e di Siila, dove già la materia era corrotta e dove esso arebbe potuto imprimere la forma dell'ambizione sua, arebbe avuti quelli medesimi séguiti e successi che Mario e Siila, e gli altri poi, che dopo loro alla tirannide aspirarono. Così mede- simamente, se Siila e Mario fussino stali ne'lempi di Manho, sarebbero slati intra le prime loro imprese oppressi. Perchè

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34^ t>E1 DISCORSt

on aomo pnò bene cominciare con snoi modi e con suoi (ri- sii termini a corrompere un popolo di una ciltà, ma gli è impossibile che la vila d'uno basii a corromperla in modo che egli medesimo ne possa Irar frullo: e quando bene e'fusse possibile con lunschézza di tempo che lo facesse, sa- rebbe impossibile quanto al modo del procedere desìi uomi- ni, che sono impazienti, e non possono lungamente dilTetire una loro passione. Appresso, s' incannano nelle cose loro, ed in quelle, massime, che disiderano assai; talché, o per poca pazienza o per incannarsene, entrerebbero in impresa con- tra a tempo, e capiterebbero male. Però è bisogno, a voler pigliare autorità in una repubblica e mettervi (risia forma, trovare la materia disordinala dal tempo, e che a poco a po- co, e di generazione in generazione, si sia condona al disor- dine: la quale vi si conduce di necessità, quan<lo la non sia, come di sopra si discorse, spesso rinfrescata di buoni essem- pi, o con nuove leggi ritirala verso i principii suoi. Sarebbe, adunque, stato Manlio un uomo raro e memorabile, se fusse nato in una città corrotta. E però debbono i cittadini che nelle repubbliche fanno alcuna impresa o in favore della li- bertà o in favore della tirannide, considerare il soggetto che eglino hanno, e giudicare da quello la diflTicultà delle imprese loro. Perchè tanto è dilTIcile e pericoloso voler fare libero un popolo che voglia viver servo, quanto è voler fare servo un popolo che voglia viver libero. E perchè di sopra si dice, che gli uomini nello operare debbono considerare la qualità de' tempi e procedere secondo quelli, ne parleremo a lungo nel segaenle capitolo.

Cap. IX. Come contiene tariare coi tempi, JM, volendo sempre aver buona fortuna. r

lo ho considerato più volte come la cagione della trista e della buona fortuna degli uomini è riscontrare il modo del procedere suo coi tempi: perchè e' si vede che gli uomini nell'opere loro procedono alcuni con impelo, alcuni con ri- spetto e con cauzione. E perchè neli' uno e ncll' altro di que- sti modi si passano i termini convenienti , non si polendo

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tlBRO TERZO. 543

osservare la vera via, nell' uno e nell' altro si erra. Ma quello viene ad .errar meno, ed avere la fortuna prospera, che ris- contra, come io ho dello, con il suo modo il tempo, e sem- pre mai si procede, secondo li sforza la natura. Ciascuno sa come Fabio Massimo procedeva con Io esercito suo rispettiva- mente e cautamente, discosto da ogni impeto e da ogni auda- cia romana : e la buona fortuna fece, che questo suo modo riscontrò bene coi tempi. Perché, sendo venuto Annibale in Italia giovine, e con una fortuna fresca: ed avendo già rotto il popolo romano due volle ; ed essendo quella repub- blica priva quasi della sua buona milizia, e sbigottita; non potette sortire miglior fortuna, che avere un capitano il qnale, con la sua tardil.i e cauzione, tenesse a bada il nimico. ancora Fabio potette riscontrare lem()i più convenienti ai modi suoi: di che nacque che fu slorioso. E. che Fabio facesse questo per natura e non per elezione, si vede, che volendo Scipione passare in Affrica con quelli eserciti per ultimare la guerra, Fabio la conlradisse assai, come quello che non si poteva spiccare dai suoi modi e dalla consuetudine sua; laiche, se fusse stalo a lui, Annibale sarebbe ancora in Italia, come quello che non si avvedeva che gli erano mutali i tempi, e che bisognava mutar modo di guerra. E se Fabio fusse stato re di Roma, poteva facilmente perdere quella guerra; perchè non arebbe saputo variare col procedere suo, secondo che variavano i tempi : ma sendo nato in una repub- blica dove erano diversi cittadini e diversi umori, come la ebbe Fabio, che fu ottimo ne' tempi debili a sostenere la guerra, cosi ebbe poi Scipione ne' tempi alti a vincerla. Di qui nasce, che una repubblica ha maggior vita, ed ha più lungamente buona fortuna, che un principato; perchè la può meglio accomodarsi alla diversità deMemporali, per la di- versità de' cittadini che sono in quella, che non può un prin- cipe. Perchè un uomo che sia consueto a procedere in un modo, non si mula mai, come è detto; e conviene di neces- sità, quando si mutano i tempi disformi a quel suo modo, che rovini. Piero Soderini, altre volte preallegato, procedeva in tulle le cose sue con umanità e pazienza. Prosperò egli e la sua patria mentre che i tempi furono conformi al modo

3i4 DEI blSCORSt

del proceder sao: ma corae vennero dipoi tempi dove bi- sognava rompere la pazienza e T umilila, non lo seppe fare; talché insieme con la sua patria rovinò. Papa lulio il pro- cedette in lotto il tempo del suo pontifìcato con impeto é con furia; e perchè i tempi T accompagnarono bene, gli riusci- rono le sue imprese tutte. Ma se fussero venuti altri tempi che avessero ricerco altro consiglio, di necessità rovinava ; perchè non arebbe mutato modo ordine nel maneg- giarsi. E che noi non ci possiamo mutare, ne sono cagione due cose: 1* una, che noi non ci possiamo opporre a quello a che e' inclina la natura ; V altra , che avendo uno con un modo di procedere prosperalo assai, non è possibile persuadergli che possa far bene a procedere altrimenti : donde ne nasce che in uno uomo la fortuna varia, perché ella varia i tempi, ed egli non varia i modi. Nascene ancora la rovina della città, per non si variare gli ordini delle repubbliche co' tempi ; come lungamente di sopra discorremmo: ma sono pii'i tarde, perché le penano più a variare, perchè bisogna che venghino tempi che commovino tutta la repubblica ; a che on solo col variare il modo del procedere non basta. E perché noi ab- biamo fatto menzione di Fabio Massimo che tenne a bada Annibale, mi pare da discorrere nel capitolo seguente, se un capitano, volendo far la giornata in ogni modo col nimico, può essere impedito da quello, che non la faccia.

,^ Cap. X. Che un capitano non può fuggire la giornata, quando V avversario la vuol fare in ogni modo.

Cneus Suìpiliut Diclalor adversus Gallos bellum Irahe- bai, nolens te fortuna committere adversus hoslem, quem Umpus deleriorem in difs, et locus alienus, faceret. Quando e*seguita * uno errore dove lutti gli uomini o la maggior parte s'ingannino, io non credo che sia male molle volle ripro- varlo. Pertanto, ancora che io abbia di sopra più volle mostro, quanto le azioni circa le cose grandi siano disformi a quelle

' Cosi nella Bladianai e cemlira nascere da un errore della Testina (i se- guito, corretto a penna, nclb copia di che mi serto, segnila) la leiione delle moderne : è seguito.

LIBRO TERZO. 345

degli antichi (empi, nondimeno non mi par superfluo al pre- sente replicarlo. Perchè, se in alcuna parte si devia dagli an- tichi ordini, si devia massime neHe azioni militari, dove al presente non è osservata alcuna di quelle cose che dagli an- tichi erano stimale assai. Ed è nato questo inconveniente, perchè le repubbliche ed i principi hanno imposta questa cu- ra ad altrui; e per fuggire i pericoli, si sono discoslati da que- sto esercizio: e se pure si vede qualche volla un re de'tempi nostri andare in persona, non si crede però, che da lui nascano altri modi che meritino più laude. Perchè quello esercìzio, quando pure Io fanno, lo fanno a pompa, e non per alcuna altra laudabile cagione. Pure, questi fanno minori errori rivedendo i loro eserciti qualche volta in viso, le- nendo appresso di loro il titolo dell' imperio, che non fanno le repubbliche, e massime le italiane; le quali, fidandosi d'altrui, s'intendendo in alcuna cosa di quello che appar- tenga alla guerra; e dall'altro canto, volendo, per parere d'essere loro il principe, diliberare, fanno in tale dilibe- razione mille errori. E benché d' alcuno ne ebbi discorso al- trove, voglio al presente non ne tacere uno importantissimo. Quando questi principi ociosi , o repubbliche effeminate, mandano fuori un loro capitano, la più savia commissione che paia loro darli, è quando gì' impongono, che per alcun modo non ^ venga a giornata, anzi sopra ogni cosa si guardi dalla zuffa; e parendo loro in questo imitare la prudenza di Fabio Massimo, che diCTerendo il combattere salvò lo slato a' Romani, non intendono chela maggiore parte delle volle questa commissione è nulla o è dannosa. Perché si debbe pi- gliare questa conclusione : che un capitano che voglia slare alla campagna, non può fuggire la giornata qualunche volla il nimico la vuole fare in ogni modo. E non è altro questa commissione che dire: fa la giornata a posta del nimico, e non a tua. Perchè a volere slare in campagna, e non far la giornata, non ci è altro rimedio sicuro che porsi cinquanta miglia almeno discosto al nimico; e dipoi tenere buone spie, che venendo quello verso di te, tu abbi tempo a discostarli.

* Manca nella Romana il non: con che il Machiavelli furnirebbcci un duo* vo esempio di alcuno adoperato nel senso di ninno.

346 DEI DISCORSI

Uno altro partito ci è; rinchiudersi in ana città: e Tuno e r altro di questi due parlili è dannosissimo. Nel primo si la- scia in preda il paese suo al nimico; ed uno principe valente vorrà più toslo tentare la Tortuna dolla zufTa, che allungare la guerra con tanto danno de' sudditi. Nel secondo partito è la perdita manifesta ; perché conviene che, riducendoti con uno esercito in una città, tu venga ad essere assedialo, ed in poco tempo patir fame, e venire a dedizione. Talché fuggire la giornata per queste due vie, é dannosissimo. Il modo che (enne Fabio Massimo di stare ne* luoghi forti, é buono quando tu hai virtuoso esercito, che il nimco non abbia ardire di venirti a trovare dentro a' tuoi vantaggi. si può dire che Fabio fuggisse la giornata, ma più (oiito che la volesse fare a suo vantaitgio. Perchè se Annibale fusse ito a trovarlo, Fabio Farebbe aspellalo, e fatto giornata seco: ma Annibale non ardi mai di combattere con lui a modo di quello. Tanto che la giornata fu fognila cosi da Annibale, come da Fabio: ma se uno di loro V avesse voluta fare in ogni modo, l'altro non vi aveva se non uno de* tre rimedi; cioè * i due soprad- detti, o fuguirsi. Che questo eh* io dico sia vero, si vede manifestamente con mille essempi, e massime nella guerra chei Romani fecìonocon Filippo di Macedonia, padre di Per* se: perché Filippo sendo assallatodai Romani, deliberò non venire alla zufTa; e per non vi venire, volle fare prima come aveva fatto Fabio Massimo in Italia ; e si pose col suo eser- cito sopra la sommità d*un monte, dove si alTorzò as'^ai, giu- dicando che i Romani non avessero ardire d'andare a tro- varlo. Ma andativi e combattutolo, lo cacciarono di quel monte; ed egli non potendo resistere, si fuggi con la masuior parte delle genti. E quel che lo salvò, che non fu consumalo in tutto, fu la iniquità del paese, qual fece che i Romani non poterono seguirlo. Filippo, adunque, non volendo azzuf- farsi, ed essendosi posto con il campo presso ai Rutnani, si ebbe a fuggire; ed avendo conosciuto per questa esperienza, come non volendo combattere, non gli bastava stare sopra i monti, e nelle terre non volendo rinchiudersi , diliherò pi- gliare l'aliro modo» di stare discosto molle miglia al campo

* Kella Bbdiaaa manca ei0Ì.

LIBRO TEUZO^ 347

romano. Donde, se i Romani erano in nna provincia, ei se ne- andava nell'altra ; e cosi sempre donde i Romani parti- vano, esso entrava. E veggendo, al fine, come nello allungare la guerra per questa via, le sue condizioni peggioravano, e che i suoi sosgetli ora da lui ora dai nimici erano oppressi, diliberò di tentare la fortuna della zufTa; e cosi venne coi Romani ad una giornata giusta. È utile adunque non cora- baliere, quando gli eserciti hanno queste condizioni che aveva l'esercito di Fabio, e che ora ha quello di Caio Sul- ■pizio : cioè avere uno esercito si buono, che il nimico non ar- disca venirti a trovare dentro alle fortezze tue ; e che il ni- mico sia in casa tua senza avere preso molto pie , dove patisca necessità del vivere. Ed è in questo caso il partito utile, per le ragioni che dice Tito Livio: nolens se foriuncB commitlere adversus hoslem, quem tempus deleriorem in dies, el locus alienusy facerel. Ma in osni altro termine non si può fuggire la giornata, se non con tuo disonore e pericolo. Per- che fuggirsi, come fece Filippo, è come essere rotto ; e con più vergogna, quanto meno s'è fatto prova della tua virtù. E se a lui riusci salvarsi, non riuscirebbe ad un altro che non fusse aiutato dal paese come ei^li. Che Annibale non fusse maestro di guerra, nessuno mai non lo dirà; ed essendo al- lo 'ncontro di Scipione in AlTrica, s'ecli avesse veduto van- taggio in allungare la guerra, ei farebbe fallo; e per avven- tura, sendo lui buon capitano, ed avendo buono esercito, lo arebbe potuto fare , come fece Fabio in Italia : ma non l'avendo fallo, si debhe credere che qualche cagione impor- tante lo movesse. Perchè un principe che abbi uno esercito messo insieme, e vegga che per difetto di danari o di amici ei non può tenere lungamente tale esercito, è mallo al tulio se non lenta la fortuna innanzi che tale esercito si abbia a risolvere: perché aspellando, ei perde al certo; tentando, po- trebbe vincere. Un'altra cosa ci è ancora da stimare assai: la quale è, che si debbo, eziandio perdendo, volere acqui- star gloria; e più gloria si ha ad esser vinto per forza, che per altro inconveniente che t'abbia fatto [lerdere. che An- nibale do\eva essere constretto da queste necessità. E dall'al- tro canto, Scipione, quando Annibale avesse differita [a gior-

348 DEI DISCORSI

nata, e non gli fusse bastato l'animo andarlo a trovare ne' laoghi forti, non f)ativa, per aver di già vinto Siface, e acqui- state tante terre in AtTrica, che vi poteva slare sicuro e con comodità come in Italia. Il che non interveniva ad Annibale, quando era air incontro di Fabio; a questi Franciosi, che erano airincontro di Sulpizio. Tanto meno ancora può fag* gire la giornata colui che con V esercito assalta il paese al- trui ; perchè, se e' vuole entrare nel paese del nimico, gli conviene, quando il nimico se gli facci incontro, azzufTarsi se- co; e se si pone a campo ad una terra, si obbliga tanto più alla zuffa : come ne' tempi nostri intervenne al duca Carlo di Borgogna, che sendo a campo a Moratto, terra de* Sviz- zeri, fu da* Svizzeri assaltato e rotto; e come intervenne al- l'esercito di Francia, che campeggiando Novara» l fu mede* simamente da' Svizzeri rotto.

Cap. XI. Che chi ha a fare con attai, ancora che tia inferiore, purché posta toslenere i primi impeli, vince.

La potenza de' Tribuni della plebe nella città di Roma fa grande, e fu necessaria, come molte volle da noi è stato discorso; perchè altrimenti, non si sarebbe potuto por freno all'ambitione della Nobiltà, la quale areblie mollo tempo innanzi corrotta quella Repubblica, che la non si corruppe. Nondimeno, perchè in ogni cosa, come altre volte si è detto, è nascoso qualche proprio male, che fa surgere nuovi acci- denti, è necessario a questi con nuovi ordini provvedere. Es- sendo, pertanto, divenuta l'autorità tribunizia insolente, e formidabile alla Nobiltà ed a tutta Roma, e' ne sarebbe nato qualche inconveniente dannoso alla libertà romana , se da Appio Claudio non fusse sialo mostro il modo con il quale si avevano a difendere centra all'ambizione de'Triboni : il quale fu che trovarono sempre infra loro qualcuno che fusse o pauroso, o corruttibile, o amatore del comun bene; talmcn- lechè lo disponevano ad opporsi alla volontà di quelli altri , che volessino tirare innanzi alcuna diliberazione centra alla volontà del Senalo. Il quale rimedio fa an grande tempera-

* La comune delle edizioaix a Novara,

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mento a lanla aulorilà, e per molli lampi giovò a Roma. La qual cosa m'ha fallo considerare, che qualunque volta e' sono molli potenti uniti centra ad un altro potente, ancora che lutti insieme siano molto più potenti di quello, nondimanco si debbe sempre sperare più in quello solo e meno gagliardo, che in quelli assai, ancoraché gagliardissimi. Perchè, la- sciando stare tutte quelle cose delle quali uno solo si può più che molli prevalere (che sono inOnite), sempre occorrerà questo: che potrà, usando un poco d'industria, disunire gli assai; e quel corpo ch'era gagliardo, far debole. Io non vo- glio in questo addurre antichi essempì, che ce ne sarebbono assai; ma voglio mi bastino i moderni, seguiti ne' tempi no- stri. Congiurò nel 1484 tutta Italia contra a' Viniziani ; e poiché loro al lutto erano persi, e non potevano slare più con P esercito in campagna, corruppono il signor Lodovico che governava Milano; e per tale corruzione feciono ano ac- cordo, nel quale non solamente riebbono le terre perse, ma usurparono parte dello slato di Ferrara. E così coloro che perdevano nella guerra, restarono superiori nella pace. Po- chi anni sono congiurò contra a Francia tutto il mondo: non- dimeno, avanti che si vedesse il fine della guerra, Spagna si ribellò da' confederali, e fece accordo seco; in modo che gli altri confederali furono costretti poco dipoi ad accordarsi ancora essi. Talché, senza dubbio, si debbe sempre mai fare giudizio, quando e' si vede una guerra mossa da molti contra ad uno, che quello uno abbia a restar superiore, quando sia di tale virtù, che possa sostenere i primi impeti, e col tem- poreggiarsi aspettare tempo. Perché quando e' non fussecosì, porterebbe mille pericoli : come intervenne ai Viniziani nel- l'otto, i quali se avessero potuto temporeggiare con lo eser- cito francioso, ed avere tempo a guadagnarsi alcuni di quelli che gli erano collegati contra, arebbono fuggita quella rovi- na ; ma non avendo virtuose armi da potere temporeggiare il nimico, e per questo non avendo avuto tempo a separarne alcuno, rovinarono. Perchè si viddc che il papa, riavuto ch'egli ebbe le cose sue, si fece loro amico; e così Spagna: e mollo volentieri l'uno e l'altro diquesli due principi arebbono salvalo loro lo slato di Lombardia centra a Francia, per non Io fare si

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350 DEI DISCORSI

grande in Italia» se gli avessino poluto. Potevano, adunqae, i Yiniziani dare parte per salvare il resto : il che se loro aves- sino fatto in tempo che paresse che la non fusse stata necessi- tà, ed innanzi ai moli della guerra, era savissimo partito; ma in su' moli era vituperoso, e per avventura di poco profitto. Ma innanzi a lati moli, pochi in Vinegia de' cittadini pote- vano vedere il pericolo, pochissimi vedere il rimedio, e nes- suno consigliarlo. Ma, per tornare al principio di questo dis- corso,conchiudo:che cosi come ilSenalo romano ebbe rimedio per la salute della palria conlra all'ambizione de' Tribuni, per essere molti; cosi ara rimedio qualunque principe che sia assaltato da molli, qualunque volta ei sappia con prudenza usare termini convenienti a disunirgli.

Gap. XII. Come un capitano prudente dehbe imporre ogni neetuilà M eombaltere ai tuoi soldati , e a quelli delti ni- mici tórlo.

Altre volte abbiamo discorso quanto sia utile alle ama- ne azioni la necessità, ed a qual gloria siano sutc condotte da quella; e come da alcuni morali filosofi è stalo scritto, le mani e la lingua degli uomini, due nobilissimi inslrumcnti a nobilitarlo, non arcbbero operato perfettamente, con- dotte l'opere umane a quella altezza si veggono condotte, se dalla necessità non fusscro spinte. Sendo conosciuto, adunque, dagli antichi capitani degli eserciti la virlù di tal necessità, e quanto per quella gli animi de' soldati diven- tavano ostinali al combattere ; facevano ogni* opera perchè i soldati loro fussino costretti da quella. E dall'altra parte, usa- vano ogni industria, perchè gli nimici se ne liberassino: e per questo molle volle apersono al nimico quella via che loro gli potevano chiudere; ed a' suoi soldati propri chiusono quella che potevano lasciare aperta. Quello, adunque, che di- sidera o che una città si difenda ostinatamente, o che uno esercilo in campagna oslinalaraenle combalta, debbo, sopra ogni altra cosa, ingegnarsi di mettere ne' pelli di chi ha a combattere, tale necessità. Onde, un capitano prudente, che avesse ad andare ad una espugnazione d'una citta, debbe

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misurare la facilità o la difficollà dell'espugnarla dal cono- scere e considerare quale necessità costrìnga gli abitatori di quella a difendersi: e quando vi trovi assai necessità che gli costringa alia difesa, giudichi la ispugnazione difficile; al- trimenti, la giudichi facile. Di qui nasce che le terre dopo la ribellione sono più difficili ad acquistare, che le non sono nel primo acquisto : perchè nel principio non avendo cagione di temer di pena, per non avere offeso, si arrendono facil- mente; ma parendo loro, sendosi dipoi ribellate, avere offeso, e per questo temendo la pena, diventano difficili ad essere ispugnate. Nasce ancora tale ostinazione dai naturali odii che hanno i principi vicini e repubbliche vicine 1* uno con l'altro: il che procede da ambizione di dominare, e gelosia del loro stato, massimamente se le sono repubbliche, come interviene in Toscana ; la quale gara e contenzione ha fatto e farà sempre difficile la espugnazione l'una dell'altra. Pertanto, chi considerrà bene i vicini della città di Firenze ed i vi- cini della città di Vinegia, non si meraviglierà, come molti fanno, che Firenze abbia più speso nelle guerre, ed acqui- stato meno di Vinegia: perchè lutto nasce da non avere avuto i Viniziani le terre vicine si ostinate alla difesa, quanto ha avuto Firenze ; per esser state tutte le ciltadi finitime a Vi- negia use a vivere sotto un principe, e non libere ; e quelli che sono consueti a servire, stimano molte volte poco il mutare padrone, anzi molte volte lo desiderano. Talché Vinegia, benché abbia avuti i vicini più potenti che Firen- ze, per avere trovate le terre meno ostinate, le ha potute più tosto vincere, che non ha fatto quella sendo circundata da tutte città libere. Debbo adunque un capitano, per tornare al primo discorso, quando egli assalta una terra, con ogni diligenza ingegnarsi di levare a' difensori di quella tale ne- cessità, e per conseguenza tale ostinazione; promettendo perdono, se gli hanno paura della pena;»e se gli avessino paura della libertà, mostrare di non andare contra al co- mune bene, ma contra a pochi ambiziosi della città : la quale cosa molte volte ha facilitato l'imprese e l'espugnazioni delle terre. E benché simili colori siano facilmente conosciuti, e massime dagli uomini prudenti; nondimeno vi sono spesso

3o2 DEI DISCORSI

ingannati i popoli, i quali, copidi della presente pace, chiug- gono gli occhi a qualunque altro laccio che sotto le larghe promesse si tendesse. E per questa via infinite città sono di- ventate serve: come intervenne a Firenze nei prossimi tem- pi ; e come intervenne a Crasso ed allo esercito suo, il quale ancora che conoscesse le vane promesse de' Parti, le quali erano fatte per tòr via la necessità ai suoi soldati del difen- dersi, nondimanco non potette tenerli ostinati, accecati dalle otTerte della pace che erano fatte loro dai loro nimìci : come si vede particolarmente leggendo la vita di quello. Dico per- tanto, che avendo i Sanniti, fuora della convenzione dello accordo, per l'ambizione di pochi corso e predato sopra i campi de* confederati Romani ; ed avendo dipoi mandati ambasciadori a Roma a chieder pace, oflTercndo di restituire le cose predale, e di dare prigioni gli autori de' tumulti e della preda ; furono ributtati dai Romani : e ritornati a Snn- nio senza speranza d'accordo, Claudio Ponzio, capitano al- lora dello esercito de' Sanniti, con una sua notabile orazione mostrò, come i Romani volevano in ogni modo guerra ; e benché per loro si desiderasse la pace, la necessità gli faceva seguire la guerra ; dicendo queste parole : Juslum est bellum ; quibus ncccssarium, et pia arma, quihus nisi in armis spa est : sopra la qual necessità egli fondò con gli suoi soldati la spe- ranza della vittoria. Eper non avere a tornare più sopra questa materia, mi pare da addurviquelliessempi romani che sono più degni d'annotazione. EraCaioManilio con lo esercito all'incon- tro dei Veienti; ed essendo parte dello esercito veicntano en- trato dentro agli steccati di Manilio, corse Manilio con una banda al soccorso di quelli ; e perchè i Veienti non potessino salvarsi, occupò tutti gli aditi del campo : donde veggendosi i Veienti rinchiusi, cominciarono a combattere con tanta rabbia, ch'egli ammazzarono Manilio; ed arebbcro tutto il resto dei Romani oppressi, se dalla prudenza d'uno Tribuno non fosse stato loro aperta la via ad andarsene. Dove si ve- de, come mentre la necessità costrinse i Veienti a combat- tere, e* combatterono ferocissimamente; ma quando videro aperta la via, pensarono più a fuggire che a combattere. Erano entrali i Volsci e gli Equi con gli eserciti loro ne' con-

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fini romani. Mandossi loro airincontro i Consoli. Talché, nel travagliare la zuffa, Io esercito dei Volsci, del quale era capo Vetlio Mescio, si trovò ad un tratto rinchiuso intra gli stec- cati suoi occupati dai Romani, e l'altro esercito romano; e veggendo come gli bisognava o morire, o farsi la via col ferro, disse ai suoi soldati queste parole: Ile mecum; non murus nec valium, armali armalis ohslant; virlule pares, qucB uUimum ac maximum lelum esl^ necessitale superiores esiis. che questa necessità è chiamata da Tito Livio uUi- mum ac maximum telum. Caramillo, prudentissimo di tutti i Capitani romani, sendo già dentro nella città dei Veienti con il suo esercito, per facilitare il pigliare quella, e tórre ai nimici una ultima necessità di difendersi, comandò, in modo che i Veienti udirono, che nessuno oCfendesse quelli che fussino disarmati; talché, gittate l'armi in terra, si prese quella città quasi senza sangue. Il quale modo fu dipoi da molti capitani osservalo.

Cap. XIII. Dove sia più da confidare, o in uno buono capi- tano che abbia V esercito debole, o in uno buono esercito che abbia il capitano debole.

Essendo diventato Coriolano esule di Roma, se ne andò ai Volsci, dove contratto uno essercito per vendicarsi contra ai suoi cittadini, se ne venne a Roma ; donde dipoi si partì, più per pietà della sua madre, che per le forze dei Romani. Sopra il quale luogo Tito Livio dice, essersi per questo cono- sciuto, come la Repubblica romana crebbe più per la virtù dei Capitani, che de* soldati; considerato come i Volsci per lo addietro erano stati vinti, e solo poi avevano vinto che Coriolano fu loro Capitano. E benché Livio tenga tale oppi- nione, nondimeno si vede in molti luoghi della sua istoria la virtù de' soldati senza capitano aver fatto meravigliose pruo- ve, ed esser stati più ordinati e più feroci dopo la morte de' Consoli loro, che innanzi che morissino: come occorse nello esercito* che i Romani avevano in Ispagna sotto gli Scipioni; il quale j morti i duoi capitani, potè con la virtù sua non solamente salvare stesso, ma vincere il nimico,

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354 E>E^l DISCORSI

e conservare quella provincia alla Repubblica. Talché, discor- rendo tulio, si Iroverà molli essempi, dove solo la virlù dei soldali ara vinto la giornata; e molli altri, dove solo la virlù dei capitani ara fallo il medesimo efletlo : in modo che si può giudicare, V uno abbia bisogno dell' altro, e 1* altro del- l'uno. Èccì bene da considerare prima, qual sia più da te- mere, o d' ano buono esercito male capitanalo, o d'uno buono capitano accompagnalo da cattivo esercito. E seguendo in questo Toppinione di Cesare, si debbo stimare poco l'uno e r altro. Perchè andando egli in Ispagna contra ad Afra- nio e Pelreio, che avevano un buono esercito, disse che gli stimava poco quia ibal ad exercilum sine ducet mo- strando la debolezza dei capitani. Al contrario, quando andò in Tessaglia contra Pompeo, disse: Vado ad duccm sine exercilu. Puossi considerare un' altra cosa : a quale è più fa- cile, 0 ad uno buono capitano fare un buono esercito, o ad uno buono esercito fare un buono capitano. Sopra che dico, che (ale questione pare decisa; perchè più facilmente molti buoni troveranno o instruiranno uno, tanto che diventi buono, che non Tara uno molli. Lucullo, quando fu mandato contra a Mitridate, era al tutto inesperto della guerra; nondimanco quel buono esercito, dove erano assai ottimi capi, lo feciono tosto un buon capitano. Armarono i Romani, per difello d' uomini, assai servi, e gli dierono ad esercitare a Sempro- nio Gracco, il quale in poco tempo fece un buon esercito. Pelopida ed Epaminonda, come altrove dicemmo, poich' egli ebbero tratta Tebe loro patria della servitù degli Spartani, in poco tempo feciono de' contadini lebani soldati ottimi, che poterono non solamente sostenere la milizia spartana, ma vìncerla. Si che la cosa è pari, perchè 1' uno buono può tro- vare r altro. Nondimeno un esercito buono senza capo buono suole diventare insolente e pericoloso; come diventò l'eser- cito di Macedonia dopo la morte di Alessandro, e come erano i soldati veterani nelle guerre civili. Tanto che io credo che sia più da conGdare assai in uno capitano che abbi tempo a instruirte uomini e comodità di armargli, che in uno eser- cito insolente, con uno capo tumultuario fallo da lui. Però è da duplicare la gloria e la laude a quelli rapiiani che non

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LIBRO TRRZO. 355

solamente hanno avolo a vincere il nimico, ma prima che venghino alle mani con quello, è convenuto loro inslruire l'esercito loro, e farlo buono: perchè in questi si mostra doppia virtù, e tanto rara, che se tale fatica fusse stata data a molti, ne sarebbero stimati e riputati meno assai jche non sono.

Gap. XIV. Le invenzioni nuove che appariscono nel mezzo della zuffa, e le voci nuove che si odono, * quali e/felli faccino.

Di quanto momento sia ne' conflitti e nelle zuffe un nuo- vo accidente che nasca per cosa che di nuovo si vegga o oda, si dimostra in assai luoghi, e massime per questo essem- pio che occorse nella zuffa che i Romani fecero coi Volsci; dove Quinzio veggendo inclinare uno de' corni del suo eser- cito, cominciò a gridare forte, che gli stessine saldi, perchè l'altro corno dello esercito era vittorioso: con la qual parola, avendo dato animo a' suoi e sbigottimento a'nimici, vinse. E &e tali voci in uno esercito bene ordinato fanno effelti grandi, in uno tumultuario e male ordinato gli fanno gran- dissimi, perchè al lutto è mosso da simil vento. Ione voglio addurre uno essempio notabile occorso ne' nostri tempi. Era la città di Perugia pochi anni sono divisa in due parti, Oddi e Baglioni. Questi regnavano; quelli altri erano esuli: i quali avendo, medianti loro amici, ragunato esercito, e ridottisi in alcuna loro terra propinqua a Perugia con il favore della parte; una notte entrarono in quella città, e senza essere scoperti, se ne venivano per pigliare la piazza. E perchè quella città in su tutti i canti delle vie ha catene che la ten- gono sbarrala, avevano le genti oddesche davanti uno che con una mazza ferrata rompeva i serrami di quelle, accioc- ché i cavalli potessero passare; e restandogli a rompere solo quella che sboccava in piazza, ed essendo già levalo il re- more all'armi, ed essendo colui che rompeva oppresso dalla turba che gli veniva dietro, polendo per questo alzare bene le braccia per rompere, per potersi maneg-

* La Romana soltanlo : odino.

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giare, gli venne dello: Fatevi indietro: la qual voce an- dando di grado in grado dicendo addietro, cominciò a far fuggire gli ultimi, e di mano in mano gli altri, con tanta furia, che per loro medesimi si ruppono ; e cosi restò vano il disegno degli Oddi, per cagione di si debole acci- dente. Dove è da considerare, che non tanto gli ordini in uno esercito sono necessari per potere ordinatamente com- battere, quanto perchè ogni minimo accidente non ti disor- dini. Perchè, non per altro le moltitudini popolari sono disu- tili per la guerra, se non perchè ogni rumore, ogni voce, ogni strepito gli altera, e fagli fuggire. E però un buon capitano intra gli altri suoi ordini debbe ordinare chi sono quelli che abbino a pigliare la sua voce e rimetterla ad altri, ed assuefare i suoi soldati che non credino se non a quelli suoi capì, che non dichino se non quel che da lui è com- messo ; perchè non osservala bene questa parte, si è visto molle volte avere falli disordini grandissimi. Quanto al ve- dere cose nuove, debbe ogni capitano ingegnarsi di farne apparire alcuna, mentre che gli eserciti sono alle mani, che dia animo agli suoi e tolgalo agli nimici; perchè intra gli. ac- cidenti che ti diano la vittoria, questo è etlìcacissimo. Di che se ne può addurre per testimone Caio Sulpizio dittatore ro- mano ; il quale venendo a giornata con ì Franciosi, armò tulli i saccomanni e gente vile del campo ; e quelli falli sa- lire sopra i muli ed altri somieri con armi ed insegne da pa- rere gente a cavallo , gli mise dietro a un colle, e comandò che ad un segno dato, nel tempo che la zuffa fusse più ga- gliarda, si scoprissero e mostrassinsi a' nimici. La qual cosa cosi ordinala e fatta, delle tanto terrore ai Franciosi, che perderono la giornata. E però un buon capitano debbe fare due cose: V una di vedere con alcune di queste nuove inven- zioni di sbigottire il nimico; l'altra distare preparalo che es- sendo falle dal nimico centra di lui, le possa scoprire, e far- gliene tornar vane : come fece il re d' India a Semiramis; la quale veggendo come quel re aveva buon numero d'elefanti, per sbigottirlo, e per mostrargli che ancora essa n'era co- piosa, ne formò assai con cuoia di bufali e vacche, e quelli messi sopra i cammelli, gli mandò davanti; ma cono-

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scìuto dal re* l'inganno, gli tornò non solanaente quel suo disegno vano, ma dannoso. Era Mamerco dittatore centra a'Fidenati, i quali, per isbigoltire lo esercito romano, ordi- narono che in sull'ardore della zufla uscisse fuora di Fidene numero di soldati con fuochi in sulle lance, acciocché i Ro- mani occupali dalla novità della cosa, rompessino intra loro gli ordini. Sopra che è da notare, che quando tali invenzioni hanno più del vero che del finto, si può bene allora rappre- sentarle agli uomini, perchè avendo assai del gagliardo, non si può scoprire cosi presto la debolezza loro: ma quando l'hanno più del finto che del vero, è bene o non le fare, o facendole tenerle discosto, di qualità che le non possine es- sere così presto scoperte; come fece Caio Sulpizio de'mulat- lieri. Perchè quando vi è dentro debolezza, appressandosi, le si scuoprono tosto, e ti fanno danno, e non favore; come feciono gli elefanti a Semiramis, e a'Fidenati i fuochi: i quali benché nel princìpio turbassino un poco l'esercito; nondi- meno come e' sopravvenne il Dittatore, e cominciò a sgri- dargli, dicendo che non si vergognavano a fuggire il fumo come le pecchie, e che dovessino rivoltarsi a loro, gridando: Suis flammis delele Fidenas, quas veslris beneficiis placare non poluisHs; tornò quello trovato ai Fidenati inutile, e restarono perditori della zuCfa.

^AP. XV. Come uno e non molli siano preposti ad uno esercito, e come i più comandatori offendono.

Essendosi ribellati i Fidenati, ed avendo morto quella colonia che i Romani avevano mandata in Fidene, crearono i Romani, per rimediare a questo insulle, quattro Tribuni con poleslà consolare; de' quali lasciatone uno alla guardia di Roma, ne mandarono tre centra ai Fidenati ed i Veienti: i quali per esser divisi intra loro e disuniti, ne riportarono disonore, e non danno. Perchè del disonore, ne furono ca- gione loro; del non ricevere danno, ne fu cagione la virtù de'soldati. Donde i Romani, veggendo questo disordine, ricor-

* La Bladiaua : i cameli , e: da il re j romanismo il primo, vcrisimilmente inlrodolto dallo stampatore; e l'altro (come altrove avvertimmo) fiorentinismo.

358 DEI DISCORSI

83no alla creazione del Dittatore, acciocché un solo riordi- nasse quello che tre avevano disordinato. Donde si conosce la inutilità di molti comandatori in uno esercito, o in una terra che s'abbia a difendere; e Tito Livio non lo può più chiaramente dire che con le infrascritte parole: Trcs Tribuni poieslale consulari documento fuere, quam plurium imperium bello inulUe essel; lendendo ad sua quisque contilia, cum alii aliud viderelurj aperuerunl ad occasionem locum hosli. E ben- ché questo sia assai essempio a provare il disordine che fanno nella guerra i più comandatori, ne voglio addurre alcuno altro, e moderno ed antico, per maggiore dichiarazione. Nel 1500, dopo la ripresa che fece il re di Francia Luigi XII di Milano, mandò le sue genti a Pisa per restituirla ai Fio- rentini; dove furono mandali commessari Giovambatista Ri- dolfi e Luca d'Antonio degli Albizi.B perchè Giovambatista era aomo di riputazione, é di più tempo, Luca lasciava al lutto governare ogni cosa a lui: e se egli non dimostrava la sua ambizione con opporsegli, la dimostrava col tacere, e con lo stracurarc e vilipendere ogni cosa in modo, che non aiutava le azioni del campo coli' opere col consiglio, come se fusse slato uomo di nessuno momento. Ma si vidde poi lutto il contrario quando Giovambatista, per certo acci- dente seguito, se n'ebbe a tornare a Firenze; dove Luca, ri- masto solo, dimostrò quanto con l'animo, con la industria e con il consiglio valeva: le quali tutte cose mentre vi fu la compagnia erano perdute. Voglio di nuovo addurre in con- fìrmazione di questo le parole di Tito Livio; il quale refe- rendo come essendo mandato dai Romani conlra agli Equi Quinzio ed Agrippa suo collega , Agrippa volle che tutta l'amministrazione della guerra fusse appresso a Quinzio, e' ^ dice: Saluberrimum in adminislralione magnarum rerum est, summam imperii apud unum esse. Il che è contrario a quello che oggi fanno queste nostre repubbliche e principi, di man- dare ne' luoghi, per ministrargli meglio, più d'un corames- sario, e più d'un capo: il che fa una inestimabile confusione. E se si cercasse la cagione della rovina degli eserciti italiani

* TaUe le eduiooi qoi haano l' e coogiuntiva. La qaal confessione facciami perdonare l'arLitrio.

LIBRO TERZO. 359

e franciosi ne' nostri tempi, si troverebbe la polissinaa ca- gione esssere stata questa. E puossi conchiudere veramente, come gli è meglio mandare in una espedizione un uomo solo di comunale prudenza, che duoi valentissimi uomini in- sieme tìon la medesima autorità.

Cap. XVI. Che la vera virlù si va ne* tempi diffìcili a tro- vare; e ne' tempi facili non gli uomini virtuosi, ma quelli che per ricchezze o per parentado prevagliono, hanno più grazia.

Egli fu sempre, e sempre sarà, che gli uomini grandi e rari in una repubblica nei tempi pacifichi sono negletti; per- chè per la invidia che s' ha tirato dietro la riputazione che la virtù d' essi ha dato loro, si truova in tali tempi assai citta- dini che vogliono, non che esser loro eguali, ma esser loro superiori. E di questo n'è un luogo buono in Tucidide islo- rico greco; il quale mostra come sondo la repubblica ateniese rimasa superiore in la guerra peloponnesiaca, ed avendo frenato r orgoglio degli Spartani, e quasi sottomessa tutta la Grecia, salse in tanta riputazione, che la disegnò d' occupare la Sicilia. Venne questa impresa in disputa in Atene. Alci- biade e qualche altro cittadino consigliavano che la si faces- se, come quelli che pensando poco al bene pubblico, pensa- vano ali* onor loro, disegnando esser capi di tale impresa. Ma Nicia, che era il primo intra i riputati d'Atene, la dissua- deva ; e la maggior ragione che nel concionare al popolo, perchè gli fusse prestato fede, adducesse, fu questa: che consigliando esso che non si facesse questa guerra, ei con- sigliava cosa che non faceva per lui ; perchè stando Atene in pace, sapeva come v'erano infiniti cittadini che gli vole- vano andare innanzi ; ma facendosi guerra, sapeva che nes- suno cittadino gli sarebbe superiore, o eguale. Vedesi, pertan- to, come nelle repubbliche è questo disordine, di fare poca stima de' valentuomini ne' tempi quieti. La qual cosa gli fa indegnare in due modi : 1' uno pei* vedersi mancar del grado loro; l'altro per vedersi fare compagni e superiori uomini indegni, e di manco sufficienza di loro. Il quale disordine nelle repubbliche ha causato di molle rovine ; perchè quelli

360 DEI DISCORSI

cilladini che immerilamente ves;gono sprezzare, e cono- scono che e' ne sono cagione i lempi facili e non pericolosi, s' ingegnano di turbargli, movendo nuove guerre in pregiudi- zio della repubblica. E pensando quali potessino essere i rimedi , ce ne trovo due : 1' uno , manlenere i cittadini jfeveri, acciocché con le ricchezze senza virtù non potessino corrom- pere né loro altri ; 1* altro , di ordinarsi in modo alla guerra, che sempre potesse far guerra, e sempre s'avesse bisogno di cittadini riputati, come Roma ne' suoi primi tempi. Perchè tenendo fuori quella città sempre eserciti, sempre v' era luogo alla virtù degli uomini ; si poteva tórre il grado ad uno che lo meritasse, e darlo ad uno altro che non lo meritasse. Perchè se pure lo faceva qualche volta per errore, o per provare, oe seguiva tosto tanto suo disordine e pericolo, che la ritornava subito nella vera via. Ma le altre repubbliche che non sono ordinate come quella, e che fanno solo guerra quando la necessità le conslringe, non si possono difendere da lale inconveniente: anzi sempre vi correranno dentro; e sempre ne nascerà disordine, quando quel cittadino negletto e virtuoso, sia vendicativo, ed abbia nella città qualche ripu- tazione e aderenza.' E se la città di Roma un tempo se ne difeso, a quella ancora, poiché la ebbe vinto Cartagine ed Antioco (come altrove si disse), non temendo più di guerra, pareva poter commettere gli eserciti a qualunque la voleva; non riguardando tanto alla virtù, quanto alle altre qualità che gli dessino grazia nel popolo. Perchè si vede che Paulo Emilio ebbe più volte la repulsa nel consolato, fu prima fatto Consolo che surgesse la guerra macedonica ; la quale giudicandosi pericolosa, di consenso di tutta la città fu com- messa a lui. Sendo nella città nostra di Firenze seguile dopo il 1494 di molte guerre, ed avendo fatto i cittadini fiorentini tutti una cattiva pruova, si riscontrò la città, a sorte, in uno che mostrò in che maniera s'aveva a comandare agli eserciti; il quale fu Antonio Giacomìni : e mentre che si ebbe a far guerre pericolose, tutta 1' ambizione degli altri cittadini ces-

La Romana a questo luogo e malamente viziala per omisiione di una pa- rola, e difetti di puntuazione, leggendo: et adherenta, et la città di lioma un tempo se ne difese. A quella ce.

LIBRO TliUZO. 361

SO, e nella elezione del Comoiessario e capo degli eserciti non aveva competitore alcuno; raa come s'ebbe a fare una guerra dove non era dubbio alcuno, ed assai onore e grado, ci vi trovò tanti competitori, che avendosi ad eleggere tre Commessari per campeggiar Pisa, fu lascialo indietro. E benché e' non si vedesse evidentemente che male ne seguisse al pubblico per non v'avere mandato Antonio, nondimeno se ne potette fare facilissima coniettura ; perchè non avendo più i Pisani da difendersi da vivere, se vi fusse stato An- tonio, sarebbero slati tanto innanzi stretti, che si sarebbero dati a discrezione de' Fiorentini. Ma sendo loro assediali da capi che non sapevano stringerli sforzarli, furono tanto intrattenuti, che la città di Firenze gli comperò, dove la gli poteva avere a forza. Convenne che tale sdegno potesse assai in Antonio; e bisognava che fusse bene paziente e buono, a non disiderare di vendicarsene o con la rovina della città, potendo, o con l'ingiuria d'alcuno particolare cittadino: da. che si debbe una repubblica guardare ; come nel seguente capitolo si discorrerà.

Gap. XVII. Che non si offenda uno, e poi quel medesimo si mandi in amminislrazione e governo d'importanza.

Debbe una repubblica assai considerare di non preporre alcuno ad alcuna importante amministrazione, al quale sia stato fallo da altri alcuna notabile ingiuria. Claudio Nerone, il quale si parli dallo esercito che lui aveva a fronte ad An- nibale, e con parte d' esso n' andò nella Marca a trovare r altro Consolo per combattere con Asdrubale avanti che si congiungesse con Annibale ; s' era trovato per Io addietro in Ispagna a fronte d.' Asdrubale, ed avendolo serrato in luogo con lo esercito, che bisognava o che Asdrubale com- battesse con suo disavvantaggio 0 si morisse di fame, fu da Asdrubale astutamente tanto intrattenuto con certe pra- tiche d'accordo, che gli usci di sotto, e tolsegli quella oc- casione d'oppressarlo. La qual cosa saputa a Roma, gli delle carico grande appresso al Senato ed al Popolo, e di lui fu parlato inonestamente per tutta quella città, non senza suo

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362 DEI DISCORSI

grande disonore ed isdegno. Ma sendo poi fililo Consolo, e mandato all' incontro d'Annibale, prese il soprascrillo par- tilo: il quale fu pericolosissimo; talmente che Roma stello tutta dubbia e sollevata, infìno a tanto che vennono le nuove della rolla d' Asdrubale. Ed essendo domandalo poi Claudio per qual cagione avesse preso si pericoloso parlilo, dove senza una estrema necessità egli aveva giocata ' quasi la li- bertà di Roma; rispose che T aveva fallo perchè sapeva ohe, se gli riusciva, riacquistava quella gloria che s'aveva perduta in Ispagna ; e se non gli riusciva, e che ' questo suo partito avesse avuto contrario fìne, sapeva come ei si ven- dicava contra a quella città ed a quelli cittadini che l'ave- vano tanto ingratamente ed indiscretamente olTeso. E quando queste passioni di tali oflTese possono tanto in an cittadino romano, e in quelli tempi che Roma ancora era incorrotta, si debbo pensare quanto elle possino in un cittadino d' una pitta che non sia fatta come era allora quella. E perchè a si- mili disordini che nascono nelle repubbliche non si può d.irc certo rimedio, ne seguila che gli è impossibile ordinare una repubblica perpetua, perchè per mille inopinate vie si causa la sua rovina.

Cap. XVIII. Nessuna cosa è più degna d' un capUano, che prf sentire i parlili del nimico.

Diceva Epaminonda tebano, nessuna cosa esser più ne- cessaria e più utile ad un capitano, che conoscere le dili- berazioni e partiti del nimico. E perchè tale cognizione è diflTicile, merita tanto più laude quello che adopera in modo che le coniellura. E non tanto è diffìcile intendere gli dise- gni del nimico, ch'egli è qualche volta diffìcile intendere le azioni sue ; e non tanto le azioni sue che per lui si fanno discosto, quantt) le presenti e le propinque. Perchè molle volte è accaduto, che sendo durata una zulTa infìno a notte,

' La Bladiana, con forma del tempo, giucata; ma gli editori della Tetti- na, essendo il secolo più innoìlralo , correggevano giocata.

3 Così la Romana e 1* edizione del 1813. Inutilmente fu per altri emenda- to : ì se.

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chi ha vinto crede aver perduto, e chi ha perduto crede aver vinto. 11 quale errore ha fatto diliberare cose contrarie alla salute di colui che ha diliberato : come intervenne a Bruto e Cassio, i quali per questo errore perderono la guerra ; perchè, avendo vinto Bruto dal corno suo, credette Cassio che aveva perduto, che tutto l'esercito fusse rotto; e dispe- ratosi per questo errore della salute, amnaazzò se stesso. Nei nostri tempi, nella giornata che fece in Lombardia a Santa Cecilia Francesco re di Francia con i Svizzeri, soprav- venendo la notte, credetteno quella parte dei Svizzeri che erano rimasti interi aver vinto, non sappiendo di quelli che erano stati rotti e morti : il quale errore fece che loro medesimi non si salvarono, aspettando di ricombattere * la mattina con tanto loro disavvantaggio ; e fecero ancora er- rare, e per tale errore presso che rovinare, l'esercito del papa e di Spagna, il quale in su la falsa nuova della vittoria passò il Po, e se procedeva troppo innanzi, restava prigione de' Franciosi che erano vittoriosi. Questo simile errore oc- corse ne' campi romani e in quelli delli Equi. Dove, sendo Sempronio consolo con l'esercito all'incontro degli nimici, ed appiccandosi la zuffa, si travagliò quella giornata infino a sera con varia fortuna dell'uno e dell'altro: e venula la notte, sendo l'uno e l'altro esercito mezzo rotto, non ri- tornò alcuno di loro ne' suoi alloggiamenti ; anzi ciascuno si ritrasse ne' prossimi colli, dove credevano esser più sicuri; e l'esercito romano si divise in due parti : 1' una n' andò col Consolo, l'altra con un Tempanio centurione, per la virtù del quale l' esercito romano quel giorno non era stalo rotto interamente. Venuta la mattina, il Consolo romano senza intendere altro de' nimici si tirò verso Roma ; il simile fece l'esercito degli Equi: perchè ciascuno di questi credeva che il nimico avesse vinto, e però ciascuno si ritrasse senza cu- rare di lasciare i suoi alloggiamenti in preda. Accadde che Tempanio, ch'era col resto dello esercito romano, ritiran- dosi ancora esso, intese da certi feriti degli Equi, come i capitani loro s'erano partili, ed avevano abbandonali gli al-

* Così , molto a proposito , nella Romana e in quella del i3 j ne so perchè

nelle altre leggasi cowArt</ere. .' *

364 DRi Disconsi

loggiamenti : donde che egli, in sa questa nuova, se ne enirù negli alloggiamenli romani, e salvògli : e dipoi saccheggiò quelli degli Equi, e se ne tornò a Roma vittorioso. La qual Tittoria,come si vede, consistè solo in chi prima di loro in- lete i disordini del nimico. Dove « debbe considerare, come e' poò spesso occorrere che i dooi esercili cbe siano a fronte r ano deir «Uro, siano nel medesimo disordine, e patischino le medesime necessità ; e cbe quello resti poi vincitore che ò il primo a intendere le necessità dell* altro, lo voglio dare di qoestoonoessempio domestico e moderno. Nel 1498, quando i Fiorentini avevano ono esercito grosso in quel di Pisa, e slringevaoo forte quella città ; della quale * avendo prtM i Vi- niziaoi la protezione, non vnfgendo altro nodo a salvarla, dillberarono di divertire qnallt Sterra, asMilando da un'al- tra banda il dominio di Firenze; e fatto onn ateraito potente, entrarono per la Val di La mona , ed oecoparono il borgo di llarradi, ed assediarono la ròcca di Castiglione, che è in ani eolie di anpra. 11 che sentendo i Fiorentini , diliberarono ■otaafur llarradi, e non diminuire le foree avevano in quel di Pisa; e fatte nuove fanterie, ed ordinate nuove genti a cavallo, le mandarono a quella volta: delle qoali ne fa- reno capi' Iacopo quarto d* Appiano signore di Piombino, ed il conte Rinoccio da Marciano. 8endosi, adunque, condotte queste genti in sol colle aopra llarradi, si levarono i ni- Bici di 'ntorno a Castiglione, e ridossonsi tulli nel borgo: ed essendo stalo Tono e l'altro di questi due eserciti a fronte qualche giorno, pativa l'uno e l'altro assai di vetto- vaglie, e d'ogni altra cosa necessaria: e non avendo ardire l'uno d'affrontare l'altro, sappiendo i disordini l'uno dell* altro , diliberarono in una sera medesima 1* uno e l' al- tro * di levare gli alloggiamenti la mattina vegnente, e ri- tirarsi in dietro; il Vioiziano verso Berzighella e Faenza, il Fiorentino verso Casaglia e il 11 ugello. Venula adunque la mattina, ed avendo ciascuno de'campi cominciato ad avviare i suoi impedimenti ; a caso una donna si parti dal borgo di

< E qui pare deìfm qnmU , la Ttcc cbe di esim , di qnellm. ' Queste parole in tma strm medesimm t nm» « /' mttrt , ■ella Testina e in altre edicioai; rimcske io «jaclla d«J It^lS.

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LIBRO TERZO. 3G5

Marradi, e venne verso il campo fiorentino, secura perla vecchiezza e per la povertà, disiderosa di vedere certi suoi che erano in quel campo: dalla quale intendendo i capitani delle genti fiorentine, come il campo viniziano partiva, si fecero in su questa nuova gagliardi; e mutato consiglio, come se gli avessino disalloggiati i nimici, ne andarono so- pra di loro, e scrissero a Firenze avergli ributtati, e vinta la guerra. La quel vittoria non nacque da altro, che dallo avere inteso prima dei nemici come e' se ne andavano: la quale notizia se fusse prima venuta dall'altra parte, arebbe fatto centra ai nostri il medesimo effetto.

Cap. XIX. Se a reggere una moUiludine è più necessario lo ossequio che la pena.

Era la Repubblica romana sollevata per le inimicizie de'Nobili e deTlebei: nondimeno, soprastando loro la guerra, mandarono fuori con gli eserciti Quinzio ed Appio Claudio. Appio, per essere crudele e rozzo nel comandare, fu male ubbidito da' suoi ; tanto che quasi rotto si fuggi della sua pro- vincia. Quinzio, per esser benigno e di umano ingegno, ebbe i suoi soldati ubbidienti, e riportonne la vittoria. Donde e' pare che sia meglio, a governare una moltitudine, essere umano che superbo, pietoso che crudele. Nondimeno, Corne- lio Tacito, al quale molti altri scrittori acconsentono, in una sua sentenza conchiude il contrario, quando dice: * In mullù ludine regendà plus poena, quam ohsequium valel. E conside- rando come si possa salvare 1* una e l' altra di queste oppi- nioni, dico: o che tu hai a reggere uomini che ti sono per ror<linario compagni,© uomini che ti sono sempre soggetti. Quando ti sono compagni, non si può interamente usare la pena, quella severità di che ragiona Cornelio: e perchè la Plebe romana aveva in Roma eguale imperio con la No- biltà, non poteva uno che ne diventava principe a tempo, con crudeltà e rozzezza maneggiarla. E molte volte si vide che miglior frutto feciono i Capitani romani che si facevano

* Mone sbaglio di tipografo, ne arLitrio (s'io men conosco) di editore, quel che qui leggesi nella Bladiana : quando ait,

3i*

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amare dagli eserciti, e che con ossequio gli maneggiavano, che quelli che si facevano straordinariamente temere ; se già e' non erano accompagnali da una eccessiva virtù, come fu Manlio Torquato. Ma chi comanda ai sudditi, de' quali ragiona Cornelio, acciocché non diventino insolenti, e che per troppa tua facilità non li calpestino, debbo volgersi più tosto alla pena che allo ossequio. Ma questa ancora debbo esser in modo moderata, che si fugga l'odio; perchè farsi odiare non torna mai bene ad alcuno principe. Il modo del fuggirlo è lasciar stare la roba de' sudditi: perchè del san- gue, quando non vi sia sotto ascosa la rapina, nessuno prin- cipe ne è disideroso se non necessitato, e questa necessità viene rare volte; ma sendovi mescolata la rapina, viene sempre, mancano mai le cagioni ed il disiderio di spar^ gerle : come in altro trattato sopra questa materia s' è larga- mente discorso. Meritò, adunque, più laude Quinzio che Ap- pio ; e la sentenza di Cornelio dentro ai termini suoi, e non ne' casi osservati da Appio, merita d'essere approvata. E perchè noi abbiamo parlato della pena e dello ossequio, non mi pare superfluo mostrare, come uno essempio d' umanità potè appresso ai Faliscì più che l'armi.

Gap. XX. Uno essempio d' umanilà appresso ai Falisci polene più d' ogni forza romana.

Essendo Cammillo con Tesercito intorno alia città de'Fa- lisci, e quella assediando, un maestro di scuola de' più no- bili fanciulli di quella città, pensando di gratificarsi Cam- millo ed il Popolo romano, sotto colore di esercizio uscendo con quelli fuora della ciltà, gli condusse tutti nel campo innanzi a Cammillo, e, presentatigli, disse, come medianli loro quella terra si darebbe nelle sue mani. Il quale presente non solamente non fu accettato da Cammillo, ma fatto spo- gliare quel maestro, e legatogli le mani di dietro, e dato a ciascuno di quelli fanciulli una verga in mano, lo fece da quelli con di molle battiture accompagnare nella terra. La qual cosa inlesa da quelli cittadini, piacque tanto loro 1' umanità ed integrità di Cammillo^ che senza voler più difendersi, di-

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liberarono di dargli la terra. Dove *■ è da considerare, con questo vero essempio, quanto qualche volta possa più nelli animi degli uomini un alto umano e pieno di carità, che un atto feroce e violento ; e come molle volle quelle Pro- vincie e quelle città che le armi, grinstrumenti bellici ed ogni altra umana forza non ha potuto aprire, uno essempio di umanità e di pietà, di castilà o liberalità, ha aperte. Di che ne sono nelle istorie, olire a questo, molti altri essempi. E vedesi come 1' armi romane non potevano cacciare Pirro d'Italia, e ne lo cacciò la liberalità di Fabrizio, quando li manifestò l' olTerta che aveva falla ai Romani quel suo fami- gliare, d' avvelenarlo. Vedesi ancora, come a Scipione Affri- cano non delle tanta riputazione in Ispagna la espugnazione di Cartagine nuova, quanto gli delle quello essempio di ca- stilà, d'aver rendula la moglie giovine, bella, ed intatta al suo marito ; la fama della quale azione gli fece amica tutta r Ispagna.^ Vedesi ancora, questa parte quanto la sia disi- derata dai popoli negli uomini grandi, e quanto sia laudata dagli scrittori ; e da quelli che descrivono la vita dei prin- cipi, e da quelli che ordinano come debbono vivere. Intra i quali Senofonte s* aflTalica assai in dimostrare quanti onori, quante vittorie, ' quanta buona fama arrecasse a Ciro l'essere umano ed affabile; e non dare alcun essempio di di su- perbo, né di crudele, di lussurioso, di nessuno altro vizio che macchi la vita degli uomini. Pur nondimeno, veg- gendo Annibale con modi contrari a questi avere conseguilo gran fama e grandi vittorie, mi pare da discorrere nel se- guente capitolo, donde questo nacque.

(-AP. XXI. Donde nacque che Annibale con diverso modo di procedere da Scipione, fece quelli medesimi effelli in Italia che quello in Ispagna.

Io stimo che alcuni si potrebbono meravigliare veg- gendo qualche capitano, nonostante ch'egli abbia tenuta

* La Testina e il Poggiali: Donde.

2 Così ancora nella Testina ; ma nelle moderne : la Spagna,

' La Bladiana soltanto: quanta vittoria.

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contraria ?ia, aver nondimeno falli simili eflelli a coloro che sono tìssuIì nel modo soprascritto: (alche pare che hi cagione delle vittorie non dipenda dalle predelle cause; anzi pare che quelli modi non ti rechino più forza più fortana, potendosi per contrari modi acquistare gloria e ri- putazione. E per non mi partire dagli uomini soprascritti, e per chiarir meglio quello che io ho voluto dire ; dico come e' si vede Scipione entrare in Ispagna, e con quella sua umanità e pietà subito farti amica quella provincia, e ado- rare ed ammirare dai popoli. Vedesi, all'incontro, entrare An- nibale in Italia, e con modi (otti contrari, cioè con violenza e crudeltà e rapina ed ogni ragione d'infedeltà, fare il me- desimo efletlo che aveva fatto Scipione in Ispagoa; perchè ad Annibale si rìbellarooo tutte le città d'ItaUa, tatti i popoli lo seguirono. E pensando donde questa cosa possa nascere, ci si veggono dentro più ragioni. La prima è, che gli uomini sono disiderosì di cose nuove ; in tanto che cosi desiderano il pia delle volle novità quelli che stanno bene, come quelli che stanno male : perchè, come altra volta si disM, ed è il vero, eli uomini si stuccano nel bene, e nel male s'afflig- gono. Fa, adunque, questo disiderio aprire le porte a ciascuno che in una provincia si fa capo d' una innovazione ; e s' egli è forestiero, gli eorrono dietro; s*egli è provinciale, gli sono intorno, augumcntanlo e iavorìaeoalo: lalnenlechè, in qua- lunque modo che egli proceda, gli rietee il far* pregressi grandi in quelli luoghi. Oltre a questo, gli uomini sono s; riti da due cose principali; o dallo amore, o dal timore: t.iti ii< eosl gli comanda chi si fa amare, come colui che si fa te- mere; anzi, il più delle volte è seguito ed ubbidito più chi si fa temere , che chi si fa amare. Importa , pertanto , poco ad un capitano, per qualunche di queste vìe ei si cammini, pur- ché sia uomo virtuoso, e che quella virtù lo faccia riputato intra gli uomini. Perchè, quando la è grande, come la fu in Annibale ed in Scipione, ella cancella tutti quelli errori che si fanno per farsi troppo amare, o per farsi troppo te- mere. Perchè dell' uno e dell' altro di questi duoi modi pos- sono nascere inconvenienti grandi, ed atti a far rovinare un principe: perchè colui che troppo disidera esser amato.

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Ogni poco che si parie dalla vera via, diventa disprezza- bile: quell'altro cha disidera troppo d'esser temuto, ogni poco ch'egli eccede il modo, diventa odioso. E tenere la via del mezzo, non si può appunto, perchè la nostra natura non ce !o consente: ma è necessario queste cose che ecce- dono mitigare con una eccessiva viriù, come faceva Anni- bale e Scipione. Nondimeno si vede* come l'uno e l'altro furono otTesi da questi loro modi * di vivere , e cosi furono essaltati. La essaltazione di lutti due s'è detta. La offesa quanto a Scipione fu, che gli suoi soldati in Ispagna se gli ribellarono', insieme «on parie degli suoi amici: la qual cosa non nacque da altro che da non lo temere; perchè gli uomini sono tanto inquieti, che ogni poco di porla che si apra loro all'ambi- zione, dimenticano subito ogni amore ch'egli avessero po- sto al principe per la umanità sua; come fecero i soldati ed amici predetti: tanto che Scipione, per rimediare a questo inconveniente, fu conslrelto usare parte di quella crudeltà che egli aveva fuggita. Quanto ad Annibale, non ci è essem- pio alcuno particolare, dove quella sua crudeltà e poca fede gli nocesse : ma si può bene presupporre che Napoli, e molte altre terre che stettero in fede del Popolo romano , stessero per paura di quella. Vedesi bene questo, che quel suo modo di vivere impio, lo fece più odioso al Popolo romano, che al- cuno altro nimico che avesse mai quella Repubblica: in modo che dove a Pirro, mentre che egli era con Io esercito in Ita- lia, manifestarono quello che lo voleva avvelenare, ad An- nibale mai, ancora che disarmalo e disperso, perdonarono, tanto che lo feciono morire. Nacquero, dunque, ad Annibale per essere tenuto impio erompitore di fede e crudele queste incomodità; ma gliene risultò all'incontro una comodità grandissima, la quale è ammirata da tulli gli scrittori: che nel suo esercito, ancoraché composto di varie generazioni d'uomini, non nacque mai alcuna dissensione, infra loro medesimi , coiitra di lui. Il che non potette derivare da altro, che dal terrore che nasceva dalla persona sua: il quale era tanto grande , mescolato con la riputazione che

* La Romana r si vide.

* Le altre : da questo toro modo.

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gli dava la sua Tìrlù, che teneva gli Moi soldati quieti ed uniti. Conchiodo, adanqae, come e* non importa molto in qoal modo an capitano ai proceda , parche in caao sia virtù grasde, che condisca bene l'ooo e V altro modo di vivere: perchè, coom è dello. Dell'ano e nell'altro è difetto e peri- colo, qoaado da ana virtà ialraordinaria non sia corretto. E •• Annibale e Scipione, Tono con cose laodabili, l'altro con dclMtahili , feciono il medesimo effetto ; non mi pare da la- •ciM' iodielro il discorrere ancora di daoi cittadini romani, cIm MMtfairoBo eoo diversi modi, ma latti duo! laudabili , ana MedMima gloria.

Cap XXII.— Com* In durtsm et èhnH^ IVprfw iff , Vmmmmi* éi r«lcr«i CorriNo acqminà timemm ftl «MÌMImi flirto.

B* tofoao in Roma in •« medesimo tempo dot capìlani eccellenti, Manlio Torquato Valtfto GorviM« i ^attt di pari virlò, di pari trioni e gloria, tlmaa ia lli«a; a ala- aeano di lora, in quinto s* appartaMTa al aHaico, eoa pari ?inà r arqai«l«ronn : ma quanto a* appartanava af li atardli ad agi* intratienimenli de' soldati, divenlMimaaaata piaga» deroBo: perchè Manlio con ogni generationa di tavarìlò, santa ioIsroMilara ai saoi soldali o fatica a paaa , gli c^ naodava : Valafio, daQ' altra parla, aaa agal aadaalanutoa MMaa, a péeaa d' una famigliare dimaslichatta ff latralla- ■an. farahè ai vede, che per aver l'ubbidieata dai aaMali, r aaa aaMaattò il figliuolo , e l' altro non offese mai alenna NoadisMno, in tanta diversilA di procedere, ciascaae faca il medesimo frutto, a eoaira a'aiaiiei, ed in fa vare della llapiib» Miaà a aao. Perchè nessaao saldato non mal a daltaMé la talli, a si ribellò da loro, o f a ia alcuna parta dlaaMpasla dalla voRlia di qnelli : quantunque gì* imperii di Maaia ÉM* sino si aspri , che lutti gli altri imperli cIm imsJataaa II moda, erano chiamati oMniMiM iwtperia. Dove è da csaside» rare prima, donde nacque cha MaaKa fa eastratla ptaaa- dere si rigidamente ; 1* altro , daada avvanae aha Vaiarlo potette procedere si ooMnameote; 1* altro, qual cagioaa che questi diversi modi facesfero il madesirao effeila; ad in

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ultimo, quale sia di loro meglio e più utile imitare. Se al- cuno considera bene la natura di Manlio dall'ora che Tito Livio ne comincia a far menzione, Io vedrà uomo fortis- simo, pietoso verso il padre e verso la patria, e reverentis- simo a' suoi maggiori. Queste cose si conoscono dalla morte di quel Francioso; dalia difesa del padre contra al Tribuno; e come avanti ch'egli andasse alla zutfa del Francioso, ei n' andò al Consolo con queste parole : Injusm tuo adversus linslem nunquam pngnabOy non si cerlam vicloriam vìdeam. Venendo, adunque, un uomo così fatto a grado che comandi, desidera trovare tutti gli uomini simili a sé; e l'animo suo forte gli fa comandare cose forti ; e quel medesimo, coman- date che le sono, vuole si osservino. Ed è una regola veris- sima, che quando si comanda cose aspre, conviene con asprezza farle osservare ; altrimenti , te ne troveresti in- gannato. Dove è da notare, che a voler essere ubbidito, è necessario saper comandare: e coloro sanno comandare, che fanno comparazione della qualità loro a quelle chi ha a ubbidire; e quando vi vegghino proporzione, allora coman- dino; quando sproporzione, se ne astenghino. E però diceva un uomo prudente, che a tenere una repubblica con violenza, conveniva fusse proporzione da chi sforzava a quel ch'era sforzato. E qualunque volta questa proporzione v'era, si poteva credere che quella violenza fusse durabile: ma quando il violentato era più forte del violentante, si poteva dubitare che ogni giorno quella violenza cessasse. Ma tornando al discorso nostro, dico che a comandare le cose forti, conviene esser forte; e quello che è di questa fortezza e che le coman- da, non può poi con dolcezza farle osservare. Ma chi non é di questa fortezza d'animo, si debbe guardare dagl' imperii istraordinari, e negli ordinari può usare la sua umanità : perché le punizioni ordinarie non sono imputate al prin- cipe, ma alle leggi ed agli ordini. Debbesi, adunque, credere che Manlio fosse costretto procedere si rigidamente dagli istraordinari suoi imperii, ai quali lo inclinava la sua natura: i quali sono utili in una repubblica , perchè e' riducono gli ordini di quella verso il principio loro, e nella sua antica virtù. E se una repubblica fusse si felice , eh' ella avesse

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spesso, come di sopra dicemmo, chi con lo essempio suo le rinnovasse le leggi ; e non solo la ritenesse che.la non cor- resse alla rovina, ma la ritirasse* indietro; la sarebbe per- petua. Sì che Manlio fu uno di quelli che con 1* asprezza de' suoi impcrii ritenne la disciplina militare in Roma, con- stretto prima dalla natura sua, dipoi dal desiderio che aveva s' osservasse quello che il suo naturale appetito gli aveva fatto ordinare. Dall'altro canto, Valerio potette procedere umanamente, come colui a cui bastava s'osservassino lo cose consuete osservarsi negli eserciti romani. La qual con- suetudine, perchè era buona, bastava ad onorarlo, e non era faticosa ad osservarla, e non necessitava Valerio a pu- nire i transgressori : si perché e' non ve n'erano; si perchè quando e' ve ne fussino stati, imputavano, come è dello, la punizione loro agli ordini, e non alla crudeltà del principe. In modo che, Valerio poteva famascere da lui ogni umanità, dalla quale ei potesse acquistare grado con i soldati , e la contentezza loro. Donde nacque, che avendo V uno e l'altro la medesima ubbidienza, poterono, diversamente operando, fare il medesimo effetto. Possono quelli che volessero imitar costoro, cadere in quelli vìzi di dispregio e d'odio che io dico sopra d'Annibale e di Scipione : il che si fugge con una virtù eccessiva che sia in te, e non altrimenti. Resta ora considerare quale di questi modi procedere sia più laudabile. 11 che credo sia disputabile, perchè gli scrittori lodano 1' un modo e l' altro. Nondimeno, quelli che scrivono come un principe s'abbia a governare, si accostano più a Valerio che a Manlio; e Senofonte, preallegato da me, dando di molti essempi della umanità Ciro, si conforma assai con quello che dice di Valerio Tito Livio. Perchè, sendo fatto Consolo contra i Sanniti , e venendo il che doveva com- battere, parlò ai suoi soldati con quella umanità con la quale si governava ; e dopo tal parlare , Tito Livio dice queste parole : Non alias milili familiarior dux full, inler in- fimos milUum omnia haud gravale munia obeundo. In ludo pralerea mililari, cum vclocilalis viriumque inler se aquales cerlamina ineunt, comiler facilis vincere ac vinci, vullu eodem;

* La TestÌDa e le moderne : ritraesse.

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LIBFxO TERZO. 373

nec quemquam aspernari parem qui se offerrel; faclis benignus prò re; diclis, haud minus liberlalis aliencB, quam sucb digni- latis memor ; et (quo nihil popularius est) quibus arlibus pe- tierat magislralus , iisdem gerebat. Parla medesimamente di Manlio Tito Livio onorevolmente, mostrando che la sua se- verità nella morte del figliuolo fece tanto ubbidiente 1' eser- cito al Consolo, che fu cagione della vittoria che il Popolc romano ebbe contra ai Latini; ed in tanto procede in lau- darlo, che dopo tal vittoria, descritto ch'egli ha tutto l'ordine di quella zuffa, e mostri tutti i pericoli che '1 Popolo romano vi corse, e le dilTicuItà che vi furono a vincere, fa questa conclusione : che solo la virtù di Manlio dette quella vittoria ai Romani. E facendo comparazione delle forze dell' uno e dell' altro esercito , afferma come quella parte arebbe vinto che avesse avuto per Consolo Manlio ; talché , considerato lutto quello che gli scrittori ne parlano, sarebbe difficile giu- dicarne. Nondimeno, per non lasciare questa parte indecisa, dico, come in un cittadino che viva sotto le leggi d' una re- pubblica, credo sia più laudabile e meno pericoloso il proce- dere di Manlio : perché questo modo tutto è in favore del pubblico, e non risguarda in alcuna parte all'ambizione privata ; perchè per tale modo non si può acquistare parti- giani, mostrandosi sempre aspro a ciascuno, ed amando solo il ben comune; perchè chi fa questo, non s'acquista particolari amici , quali noi chiamiamo , come di sopra si disse, partigiani. Talmentechè, simil modo di procedere non può esser più utile più desiderabile * in una repubblica ; non mancando in quello 1' utilità pubblica, e non vi potendo essere alcun sospetto della potenza privala. Ma nel modo di procedere di Valerio è il contrario : perché se bene in quanto al pubblico si fanno i medesimi elTetti, nondimeno vi surgono molte dubitazioni , per la particolar benivolenza che colui s'acquista con i soldati, da fare in un lungo im- perio cattivi effetli contra alla libertà. E se in Publicola questi cattivi effetti non nacquero, ne fu cagione non essere ancora gli animi dei Romani corrotti, e quello non esser

' Cosi la Bladiana. Le altre hanno, con significazione cb* io confesso di noo ^ intendere , in aulore del 500 : considerabile,

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374 DEI Disconsi

stato tantamente e conlino?amente al governo loro. Ma se noi abbiamo a considerare un principe, come considera Se- Dofonle, noi ci accosteremo al tolto a Valerio, e lasce- remo Manlio ; perchè on principe debbe cercare nei soldati e Dei saddiU 1* abbidienxa e 1* amore. L* ubbidienza gli lo essere 08fer?atore degli ordini, Tesser tenuto virtuoso: lo amore gli di Tatrabilità, l'umanità, la pietà, e quell'al- tre parti che erano in Valerio, e che Senofonte scrive essere stale in Ciro. Perché lo essere un principe ben voluto par- ticolarmente, ed avere lo esercito suo partigiano, si conforma con tutte r altre parti dello stalo suo : ma in un cittadino che abbia l'esercito suo partigiano, non si conforma già questa parte con V altre sue parti, che 1* hanno a far vivere sotto le leggi, ed ubbidire ai magistrali. Leggesi intra le cose antiche della Repubblica vinitiana , come essendo le galee vinitiane (ornate in Vinegia, e venendo certa diflerenta in- tra quelli delle galee ed il popolo, donde si venne al tumulto ed air armi ; si potendo la cosa quietare ni per forza di ministri, ni per reverenza de* cittadini, ni timore di maf(i- fttrati ; subito che a quelli marinari apparve innanzi on gentil- uomo * che era Tanno davanti stato Capitano loro, per amore di quello si partirono, e lasciarono la tulTa. La quel obbi- dienza generò (anta sospizione al Senato, che poco tempo dipoi i Viniziani, o per prigione o per morte, se ne assicu- rarono. Conchiudo pertanto, il procedere di Valerio essere utile in uno principe, e pernizioso io un cittadino; non sola- roenle alla patria, ma a si: a lei, perchò quelli modi prepa- rano la via alla tirannide; a si, perchè in sospettando* la sua città del modo del procedere suo, i costretta assicurarsene con suo danno. E così, per il contrario, atTcrmoil procc<lcro di Manlio in un principe esser dannoso, ed in uno cittadino utile, e massime alla patria: ed ancora rare volte oflrcn<!e; se già questo odio che ti (ira dietro la tua severità , non è ac- cresciuto da sospetto che l'altre tue virtù per la gran riputa- zione ti arrecassino : come di sotto di Cammillo si discorrerà.

< L* rsempUrc cIm mi i pret^iHc «l«Ik Testina, ba «rnUo a pcMM lul margine: M. Ptetr» Lvrtémm:

* AcUa Bladiaaa e «crillo mm

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Gap. XXIII. Per qual cagione Cammillo fusse caccialo di Roma.

Noi abbianao conchiuso di sopra, come* procedendo come Valerio, si nuoce alla patria ed a sé; e procedendo come Manlio, si giova alla patria, e nuocesi qualche volta a sé. 11 che si pruova assai bene per lo essempio di Cammillo, il quale nel procedere suo simigliava più tosto Manlio che Valerio. Donde Tito Livio,'parlando di lui, dice, come ejus virlulem mi- liles oderanl, el mirabanlur. Quello che lo faceva tenere me- raviglioso, era la sollicitudine, la prudenza, la grandezza del- l'animo, il buon ordine che lui servava nello adoperarsi, e nel comandare agli eserciti: quello che lo faceva odiare, era essere più severo nel gastigargli, che liberale nel rimunerar- gli. E Tito Livio ne adduce di questo odio queste cagioni: la prima , che i danari che si trassero de* beni dei Veienti che si venderono, esso gli applicò al pubblico, e non gli divise con la preda: l'altra, che nel trionfo ei fece tirare il suo carro trionfale da quattro cavagli bianchi, dove essi dissero che per superbia ei s'era voluto agguagliare al Sole: la terza, che fece voto di dare ad Apolline la decima parte della preda dei Veienti, la quale, volendo satisfare al voto, s'aveva a trarre dalle mani dei soldati che V avevano di già occupata. Dove si notano bene e facilmente quelle cose che fanno un prin- cipe odioso appresso il popolo; delle quali la principale è pri- varlo d' uno utile. La qual cosa è di importanza assai ; perchè le cose che hanno in utilità, quando l'uomo n' è privo, non le dimentica mai, ed ogni minima necessità te ne fa ri- cordare; e perché le necessità vengono ogni giorno, tu tene ricordi ogni giorno. L'altra cosa è lo apparire superbo ed en- fiato; il che non può essere più odioso ai popoli, e massime ai liberi. E benché da quella superbia e da quel fasto non ne nascesse loro alcuna incomodità, nondimeno hanno in odio chi r usa: da che un principe si debbo guardare come da uno

* Cosila Bladiana; onde sembra correzione di schizzinosi, per la prossimilk di altri come, il che supplito nelle altre edizioni.

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scoglio ; perchè tirarsi odio addosso senza suo proOUo, è al tulio parlilo temerario e poco prudente. ^

Gap. XXIV. La prolungasione degV imperii fece serva Roma.

Se si considera bene il procedere della Repubblica romana* si vedrà due cose essere sfate cagione della resoluzione di quella Repubblica :r una furono le contenzioni che nacquero dalla legge agraria; l'altra la prolungazione degli impcrii: le quali cose se fussino state conosciute bene da principio, e fallivi debili rimedi, sarebbe sialo il viver libero più lun- go, e per avventura più quieto. E benché, quanto alla pro- lungazione dello imperio, non si vegga che in Roma nascesse mai alcuno tumulto; nondimeno si vedde in fallo,quanto noce alla città quella autorità che i cittadini per tali diliberazioni presono. £ se gli altri cittadini a chi era prorogato il magi strato, russino stati savi e buoni come fu Lucio Quinzio, non si sarebbe incorso in questo inconveniente. La bontà del quale è d'ano essempio notabile; perchè, sendosi fatto intra la IMcbe ed il Senato convenzione d'accordo, ed avendo la Plebe prolungato io ano anno l'imperio ai Tribuni, giudicandogli atti a poter resistere airambizione dei Nobili, volle il Senato, per gara della Plebe e per non parere da meno di lei, pro- lungare il consolato a Lucio Quinzio : il qoale al tutto negò questa dilibcrazionc, dicendo che i cattivi cssempi si volevano cercare di spegnergli, non di accrescergli con uno altro più cattivo essempio; e volle si facessino nuovi Consoli. La qunl bontà e prudenza se fusse stala in lutti i cittadini romani, non arebbe lasciala introdurre quella consuetudine di pro- lungare i magistrati, e da quella non si sarebbe venuto alla prolungazione delti imperii : la qual cosa, col tempo, rovinò quella Repubblica. Il primo a chi fu prorogato l'imperio, fu Publio Filone; il quale essendo a campo alla città di Palcpo- li, e venendo la Gne del suo consolato, e parendo al Senato ch'egli avesse in mano quella vittoria, non gli mandarono il successore, ma lo fecero Proconsolo ; talché fu il primo

* Malamente errò la Testina stampando et prudenlt : sbaglio cbt il Pog* fiali volle forse emendare scrivendo ed imprudente.

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Proconsolo. La qual cosa, ancora che mossa dal Senato per iilililà pubblica, fu quella che con il tempo fece serva Roma. Perchè, quanto più i Romani si discostaron con le armi, tanto più pareva loro tale prorogazione necessaria, e più r usarono. La qual cosa fece due inconvenienti : 1* uno che meno numero <li uomini si esercitarono negl' imperii ; e si venne per questo a ristringere la reputazione in pochi: l'al- tro, che stando un cittadino assai tempo comandatore d'uno esercito, se lo guadagnava, e facevaselo partigiano; perchè quello esercito col tempo dimenticava il Senato, e ricono- sceva quello capo. Per questo Siila e Mario poterono trovare soldati che centra al bene pubblico gli seguitassino : per que- sto Cesare potette occupare la patria. Che se mai i Romani non avessino prolungati i magistrati e gli imperii, se non ve- nivano sì tosto a tanta potenza, e se russino stati più tardi gli acquisti loro, sarebbero ancora venuti più tardi nella servitù.

Gap. XXV. Della povertà di Cincinnato, e di molli cittadini romani.

Noi abbiamo ragionato altrove, come la più ulil cosa che si ordini in un viver libero è che si mantenghino 1 cittadini poveri. E benché in Roma non apparisca quale ordine fusse quello che facesse questo eflfetto, avendo, massime, la legge agraria avuta tanta oppugnazione; nondimeno per esperienza si vidde, che dopo quattrocento anni che Roma era stata edifi- cata, v'era una grandissima povertà; si può credere che al- tro ordine maggiore facesse questo effetto, che vedere come perla povertà non t'era impedita la via a qualunque grado ed a qualunque onore, e come s* andava a trovare la virtù in qualunque casa l'abitasse. Il qual modo di vivere faceva manco disiderabili le ricchezze. Questo si vede manifesto; perchè essendo Minuzie consolo assediato con lo esercito suo dagli Equi, si empiè di paura Roma, che quello esercito non si perdesse; tanto che ricorsero a creare il Dittatore, ultimo rimedio nelle loro cose aflQilte. E crearono Lucio Quinzio Cincinnato, il quale allora si trovava nella sua piccola villa, la quale lavorava di sua mano. La ^ual cosa con parole au-

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ree è celebrala da Tito Livio, dicendo: Opera precium esl audire, qui omnia prce diviUis humana spernunl, neqtie honori magno locum, ncque virluli pulanl esse, nisi effuse afjluanl opcs. Arava Cincinnalo la sua piccola villa, la quale non trapas- sava il termine di quattro iugeri, quando da Roma vennero i Legati del Senato a signifìcarli la elezione delia sua ditta- tara, ed a mostrarli in quale pericolo si trovava la romana Repubblica. Egli, presa la sua toga, venuto in Roma e ragù- nato ano esercito, n'andò a liberar Minuiio ; ed avendo rotti e spogliali i nimici, e liberato quello, non volle che T eser- cito assedialo fusse partecipe delia preda, dicendogli queste parole : Io non voglio che tu participi della preda di coloro de' quali lu sei sialo per essere preda i— e privò Minaiio del consolalo, e fecelo Legalo, dicendogli : Starai tanlo in que- sto grado, che ta impari a sapere essere Consolo. Aveva fallo soo Maestro de* cavalli Lucio Tarquinio, il quale per la po- vertà militava a piede. Notasi, come é detto, 1* onore che si faceva in Roma alla povertà ; e come ad uno uomo buono e valente, quale era CiocioDato, quattro iugeri di terra basta- vano a Dolrirlo. La quale povertà si vede come era ancora nei tempi di Marco Regolo; forche seiido in Affrica con gli eserciti, domandò licenzia al Senato per poter tornare a cu- stodire la soa villa, la quale gli era guasta da* suoi lavora- tori. Dove ti vede due cose notabilissime : l' ona, la povertà, e come vi ilavaoo dentro contenti, e come bastava a quelli cittadini trarre della guerra onore, e 1* utile tutto lasciavano al pubblico. Perchè, s'egli avessero pensato d'arricchire della guerra, gli sarebbe dato poca briga' che i suoi campi fussino stati guasti. L'altra é, considerare la generosità dell'animo di quelli cittadini, i quali preposti ad ano esercito, saliva la grandezza dell'animo loro sopra ogni principe; non slima- ?ano i re, non le repubbliche; non gli sbigottiva spaven- tava cosa alcuna ; e tornati dipoi privati, diventavano parchi, umili, curatori delle piccole facoltà loro, ubbidienti ai magi- strati, reverenti alli loro maggiori: talché pare impossibile che ano medesimo animo patisca tanta mutazione. Durò

' Modo a coktmire insolito, nu non ismentito da vetiioa delle cootulute ediùooL For«c però rAotorc «Tcra «criUo hmrebbe diUo ce

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questa povertà ancora insino ai tempi di Paulo Emilio, che furono quasi gli ultimi felici tempi di quella Repubblica, dove un cittadino che col trionfo suo arricchì Roma, nondimeno mantenne povero sé. E cotanto si stimava ancora la povertà, che Paulo nell' onorare chi s'era portato bene nella guerra, donò a un suo genero una tazza d' ariento, il quale fu il pri- mo ariento che fusse nella sua casa. E potrebbesi con un lungo parlare mostrare quanti migliori frutti produca la po- vertà che la ricchezza, e come l' una ha onorato le città, le Provincie, le sètte; e l'altra 1' ha rovinate; se questa male- ria non fusse stala molle volte da altri uomini celebrata.

Gap. XXVI. Come per cagione di femmine si rovina uno stalo.

Nacque nella città d'Ardea intra i patrizi e i plebei una sedizione per cagione d' un parentado, dove avendosi a ma- ritare una femmina erede, la domandarono parimente un plebeo ed un nobile; e non avendo quella padre, i tutori la volevano congiugnere al plebeo, la madre al nobile: di che nacque tanto tumulto, che si venne all'armi ; dove tutta la Nobiltà s'armò in favore del nobile, e tutta la Plebe in favore del plebeo. Talché essendo superata la Plebe, s'uscì d'Ardea, e mandò ai Volsci per aiuto : i Nobili mandarono a Roma. Furono prima i Volsci, e giunti intorno ad Ardea, s'accam- parono. Sopravvennero i Romani, e rinchiusono i Volsci infra la terra e loro ; tanto che gli costrinsono, essendo stretti dalla fame, a darsi a discrezione. Ed entrati i Romani in Ardea, e morti tutti 1 capi della sedizione, composono le cose di quella città. Sono in questo testo più cose da notare. Prima si vede, come le donne sono stale cagioni di molte rovine, ed hanno fatti gran danni a quelli che governano una città, ed hanno causato di molte divisioni in quella: e, come si è veduto in questa nostra istoria, l' eccesso fallo contra a Lucrezia tolse lo stato ai Tarquini ; queir altro fatto centra a Virginia privò i Dieci dell'autorità loro. Ed Aristotele intra le prime cose che mette della rovina dei tiranni, é V avere ingiuriato altrui per conto di donne, o con stuprarle, o con violarle, o corrom- pere ì matrimoni; come di questa parte, nel capitolo dove noi

380 DEI DISCORSI

(rattammo delle congiure, largamente si parlò. Dico adun- que, come i principi assoluti ed i governatori delle repub- bliche non hanno a tenere poco conto di questa parte; ma debbono considerare i disordini che per tale accidente pos- sono nascere, e rimediarvi in tempo che il rimedio non sia con danno e vituperio dello slato loro o della loro repubbli- ca: come intervenne agli Ardeali, i quali per avere lascialo crescere quella gara intra i loro cittadini, si condussono a di- vidersi infra loro; e volendo riunirsi, ebbono a mandare per soccorsi esterni : il che è un gran principio d' una propinqua servitù. Ma vegniamo all'altro notabile del modo deP riunire le città, del quale nel futuro capitolo parleremo.

Cap. XX vii. Come e* it ha a unire una cUlà divisa ; e come quella oppinione non è vera, che a tenere le città bisogna tenerle disunite.

Per lo essempio dei Consoli romani che riconciliarono insieme gli Ardeati, si nota il modo come si debbe comporre una città divisa : il quale non è altro, altrimenti si debbe medicare, che ammazzare i capi de' tumulti. Perchè gli è necessario pigliare uno de' tre modi : o ammazzargli, come fecero costoro; o rimuovergli della città; o far loro far pace insieme, sotto obblighi di non si offendere. Di questi tre modi, questo ultimo è più dannoso, men certo, e più inutile. Per- chè gli è impossibile, dove sia corso assai sangue, o altre simili ingiurie, che una pace fatta per forza duri, riveggen- dosi ogni di insieme in viso ; ed è diflìcile che si astenghino dallo ingiuriare l'uno l'altro, potendo nascere inTra loro ogni di, per la conversazione, nuove cagioni di querele. Sopra che non si può dare il migliore essempio che la città di Pi- sloia. Era divisa quella città, come è ancora, quindici anni sono, in Panciatichi e Cancellieri; ma allora era in sull'ar- me, ed oggi rha posate. E dopo molle dispule infra loro, ven- nero al sangue, alla rovina delle case, al predarsi la roba, e ad ogni altro termine di nimico. Ed i Fiorentini, che gli avevano a comporre , sempre vi usarono quel terzo modo ; e

* La Testina , colle moderae: di.

LIBRO TERZO. 381

sempre ne nacquero maggiori tumuUì, e maggiori scandali: tanto che, stracchi, si venne al secondo modo, di rimuovere i capi delle parti; de* quali alcuni messono in prigione, alcuni altri confinarono in vari luoghi: tanto che l'accordo fatto potette stare, ed è stato infino a oggi. Ma" senza dubbio più sicuro saria stato il primo. Ma perchè simili esecuzioni hanno il grande ed il generoso, una repubblica debole non le sa fa- re, ed ènne tanto discosto, che a fatica la si conduce al ri- medio secondo. E questi sono di quelli errori che io dissi nel principio, che fanno i principi dei nostri tempi, che hanno a giudicare le cose grandi; perchè doverebbono voler vedere, come sono governati coloro che hanno avuto a giudicare anticamente simili casi. Ma la debolezza de* presenti uomini, causata dalla debole educazione loro e dalla poca notizia delle cose, fa che si giudichino * i giudizi antichi parte inu- mani , parte impossibili. Ed hanno certe loro moderne oppi- nioni discoste al tutto dal vero ; com' è quella che dicevano i savi della nostra città, un tempo è : che bisognava tener Pi- sloia con le parli, e Pisa con le forlezze; e non s' avveggono, quanto 1' una e 1' altra di queste due cose è inutile. Io vo- glio lasciare le fortezze, perchè di sopra ne parlammo a lun- go ; e voglio discorrere la inutilità che si trae dal tenere le terre, che tu hai in governo, divise. In prima, è impossibile che tu ti mantenga tutte due quelle parti amiche ^ o principe o repubblica che le governi. Perchè dalla natura è dato agli uomini pigliar parte in qualunque cosa divisa, e piacergli più questa che quella. Talché, avendo una parte di quella terra malconlenta, fa che la prima guerra che viene, tu la perdi ; ^ perchè gli è impossibile guardare una città che ab- bia i nimici fuori e dentro. Se la è una repubblica che la governi, non ci è il più bel modo a far cattivi i tuoi cittadi- ni ed a far dividere la tua città, che avere in governo una città divisa ; perchè ciascuna parte cerca d'aver favori, cia- scuna si fa amici con varie corruttele: talché ne nasce due

* La Bladiana : gttidìcano.

3 Male la Romana, colla Testina: antiche} e nella seconda, aggiungendo all' ertore l' arbitrio ! in quelle ec.

5 Le suddette edizioni : te la perdi.

382 DEI DISCOBSI

grandissimi inconvenicnd ; Tuno, che lu non le gli fai mai amici, per non gli poter governar bene, variando il governo spesso, ora con l'uno, ora con T altro amore; l'altro, che tale stadio parte divide di necessitala taa repubblica. Ed il Bion- do, parlando dei Fiorentini e de'PistoIesi, ne fa fede, dicendo: Mentre che t Fiorentini disegnavano di riunir Pistoia, divùiono ti medesimi. Pertanto, si può facilmente considerare il male che da questa divisione nasca. Nel 1501, qaando si perde ; Arezzo, e tatto Val di Tevere e Val di Chiana, occupatoci dai Vitelli e dal duca Valentino, venne un monsi(;nor di Lant, mandato dal re di Francia a fare restituire ai Fioren- tini tutte quelle terre perdute; e trovando Lant io ogni ca- stello uomini che, nel visitarlo» dicevano che erano della parte di Marzocco, biasimò assai questa divisiooe: dicendo» che so io Francia ono di quelli sudditi del re dicesse d'essere iMla parte del re, sarebbe gastigato, perchè tal voce non signifi- cherebbe altro, se non che in quella terra fusse gente nimica del re; e quel re Tuole che le terre tutte siano sue amiche, unite, e sema parli. Ma tutti questi mo<li e queste oppinioni diverse dalla verità, nascono dalla debolezza di chi sono si- goorì; i quali, veggendo di non poter tenere gli stati con forza e eoo virtù, si voltano a simili industrie : le quali qualche volta nei tempi quieti giovano qualche cosa; ma come e* vengono l'avversità ed i tempi forti, le mostrano la fallacia loro.

Ckf. XXVIIl. Che ti debbe por menU alU open de* citta- dini, perchè molle volte tolto un'opera pia ti neueonde un principio di tirannide.

Essendo la città di Roma aggravata dalla fame, e noa bastando le provvisioni pubbliche a cessarla, pre<^c animo UDO Spurio Melio, essendo assai ricco.secondo quelli tempi, di far provvisione di frumento privatamente, e pascerne con suo grado la Plebe. Per la qual cosa egli ebbe tanlo con- corso di popolo in suo favore, che 'I Senato pensando all'io- conveniente che di quella sua liberalità poteva nascere, per opprimerla avanti che la fiigliasse più forze, gli creò nn Dit- tatore addosso, e fecelo morire. Qui è da notare, come molle

LIBRO TERÌiO. 383

volte r opere che paiono pie e da non le potere ragionevol- mente dannare, diventano crudeli, e per una repubblica sono pericolosissime, quando non siano a buon'ora corrette. E per discorrere questa cosa più particolarmente, dico che una repubblica senza cittadini riputali non può stare, può governarsi in alcun modo bene. Dall' altro canto, la riputa- zione de' cittadini è cagione della tirannide delle repubbliche. E volendo regolare questa cosa, bisogna talmente ordinarsi, che i cittadini sieno riputati di riputazione che giovi, e non nuoca, alia città ed alla libertà di quella. E però si debbo esaminare i modF con i quali ei pigliano riputazione ; che sono in effetto due: o pubblici o privati. I modi pubblici sono, quando uno consigliando bene, e operando meglio in benefi- zio comune, acquista riputazione. A questo onore si debbe aprire la via ai cittadini, e proporre premi ed ai consigli ed all'opere, talché se n'abbino ad onorare e satisfare. E quando queste riputazioni prese per queste vie, siano schiette e semplici, non saranno mai pericolose: ma quando le sono prese per vie private, che è l'alljo modo preallegato, sono pericolosissime ed in tutto nocive. Le vie private sono, fa- cendo benefìzio a questo ed a quell'altro privato, con pre- stargli danari, maritargli le figliuole, difendendolo dai ma- gistrati, e facendogli simili privati favori, 1 quali si fanno gli uomini partigiani, e danno animo a chi è cosi favorito di poter corrompere il pubblico, e sforzar le leggi. Debbe, per- tanto, una repubblica bene ordinata aprire le vie, come è detto, a chi cerca favori per vie pubbliche , e chiuderle a chi li cerca per vie private ; come si vede che fece Roma perchè in premio di chi operava bene per il pubblico, ordinò i trionfi, e tutti gli altri onori che la dava ai suoi cittadini; ed in danno di chi sotto vari colori per vie private cercava di farsi grande, ordinò l'accuse; e quando queste non ba- stassero, per essere accecato il popolo da una spezie di falso bene , ordinò il Dittatore, il quale con il braccio regio facesse tornare dentro al segno chi ne fusse uscito, come la fece per punir Spurio Melio. Ed una che di queste cose si lasci im- punita, é atta a rovinare una repubblica; perchè difficilmente con quello essempio si riduce dipoi in la vera via.

38i DEI. DISCORSI

Gap. XXIX. Che gli peccali dei pt^U nascono dai principL

Non si dolghino ì principi d* alcuno peccalo che faccino i popoli ch'egli abbiano in governo; perchè lali peccali conviene che naschino o per sua negligenza, o per esser ini macchiato * di simili errori. E chi discorrerà i popoli che nei nostri tempi sono stati tenati pieni di ruberie e di simili peccali, vedrà che sarà al lutto nato da quelli che gli gover- navano, che erano di simile natura. La Romagna, innanzi che in quella fossero spenti da papa Alessandro VI quelli signori che la comaodavano, era uno e^sempio d*ogni sc' il(>- ratissima vita, perchè quivi si vedeva per ogni leggiere < .1 giooe tegaireoccisioni e rapine grandissime. Il che nascevi dalla IrìsUzia quei prìncipi; non dalla natura trista degli uomioi, come loro dicevano. Perchè sendo quelli principi poveri, e volendo vivere da ricchi, erano forzati volgerai a molle rapine, e quelle per vari modi usare. Ed intra I* altre disoneste vie che e* tenevano, facevano leggi, e proibivano alcona azione ; dipoi erano i primi che davano cagione della inosservanza d*eaie, mai punivano gli inosservanti, se non poi quando cedevano esser incorsi assai in ainile pregiudizio ; ed allora si voltavano alla punizione , non per zelo della legge fatta, ma per cupidità di riscuoter la pena. Donde nascevano molti inconvenienti , e sopra tutto que- sto: che i popoli si impoverivano, e non si correggeva- no ; e quelli che erano impoverìli , a' ingegnavano con- tra ai meno polenti di loro prevalersi. Donde sorgevano tutti questi mali che di sopra si dicono, de' quali era ra- gione il principe. E che questo sia vero , lo mostra Tilo Livio quando ei narra che portando i Legati romani il dono della preda dei Veienli ad Apolline, furono presi dai corsari di Lipari in Sicilia, e condotti in quella terra: ed inteso Ti- masiteo loro principe che dono era questo, dove egli ar: e chi lo mandava, si portò, quantunque nato a Lipari, '

* Coti DclU migliMi ■«■■■■i. QBdb tolUDlo M PaggUtf il miti ài cor. reggere : per Ur* megUgm»ut0 0 ptr 9sser lor* mmcchimU,

LIBRO TERZO. 385

uomo romano, e mostrò al popolo quanto era impio occupare simll dono; lanlo che, con il consenso dell'universale, ne la- sciò andare i Legati con tutte le cose loro. E le parole dello islorico sono queste: TimasUheus muUitudinem religione im- flevil, qucB semper regenli est similìs. E Lorenzo dei Medici, a confirmazione di questa sentenza, dice:

E quel che fa il signor, fanno poi molli j Che nel signor son tutti gli occhi vólti.

Gap. XXX. Ad uno ciltadino che voglia nella sua repub- blica far di sua autorità alcuna opera buona, è necessario prima spegnere l* invidia: e come, venendo il nimico, s'ha a ordinare la difesa rf' una cillà.

Intendendo il Senato romano come la Toscana tutta aveva fatto nuovo deletto per venire a' danni di Roma ; e come i Latini e gli Ernici, stati per lo addietro amici del Popolo romano, s'erano accostati coi Volsci , perpetui ni- mici di Roma ; giudicò questa guerra dovere esser perico- losa. E trovandosi Ciammillo tribuno di potestà consolare , pensò che si potesse fare senza creare il Dittatore, quando gli altri Tribuni suoi colleghi ^ volessino cedergli la somma dello imperio. Il che delti Tribuni fecero volontariamente : Nec quicquam (dice Tito Livio) de majeslale sua delraclum credebant, quod majeslali ejus concessissenl. Onde Gammillo, presa a parole questa ubbidienza, comandò che si scrives- sino tre eserciti. Del primo volse esser capo lui, per ire contra 1 Toscani. Del secondo fece capo Quinto Servilio , il quale volle stesse propinquo a Roma, per ostare ai Latini ed agli Ernici, se si movessino. Al terzo esercito prepose Lucio Quinzio, il quale ^ scrisse per tenere guardata la città, e difese le porte e la curia, in ogni caso che nascesse. Oltre a questo ordinò che Orazio, uno de' suoi colleghi, provve- desse l'arme, ed il frumento, e l'altre cose che richieggono i tempi della guerra. Prepose Cornelio, ancora suo collega, al Senato ed al pubblico consiglio, acciocché potesse censir

* La Romana soltanto , qui e dodici righe appresso : collegi. - Cioè , il quale esercito.

33

386 DEI BISCORSI

gliare le azioni che giornalmente s* avevano a fare ed ese- guire. In questo modo furono quelli Tribuni, in quelli temi»i, per la salute della patria disposti a comandare e ad ubbi- dire. Notasi per questo lesto, quello che faccia uno uomo buono è savio, e di quanto bene sia cagione, e quanto utile ci possi fare alla sua patria, quando, mediante la sua bontà e virtù, egli ha spenta T invidia; la quale è molle volle ca- gione che gli uomini non possono operar bene , non per- mettendo delta invidia che gli abbino quella autorità la quale è necessaria avere nelle cose d'importanza. Spegnesì questa invidia in duoi modi : o per qualche accidente forte e difTicile, dove ciascuno veggendosi perire, posposta ogni ambizione, corre volontariamente ad ubbidire a colui che crede che con la sua virtù lo possa liberare: come inter- venne a (^amraillo; il quale avendo dato di tanti saggi d* uomo eccellentissimo, ed essendo slato (re volte Ditta- tore, ed avendo amministralo sempre quel grado ad utile pubblico, e non a propria utilità, aveva fallo che gli uomini non temevano della grandezza sua; e per esser tanto grande e tanto riputato, non slimavano cosa vergognosa essere in- feriore ' a lui. E però dice Tito Livio saviamente quelle pa- role: Kee quicquam ec. In un altro modo si spegne l'invidia, quando o per violenza o per ordine naturale muoiono coloro che sona stati tuoi concorrenti nel venire a qualche ripula- zione ed a qualche grandezza; i quali veggendoti riputato più di loro, è impossibile che mai acquieschino, e stiano pa- zienti. £ quando sono uomini che siano usi a vivere in una città corrotta , dove la educazione non abbia fatto in loro alcuna bontà, è impossibile che per accidente alcuno mai si ridichino; e per ottenere la voglia loro, e satisfare alla loro perversità d'animo, sarebbero contenti vedere la rovina della loro patria. A vincer questa invidia non ci è altro rimedio che la morie di coloro che l'hanno; e quando la fortuna è tanto propizia a quell'uomo virtuoso, che si muoiano ordinariamente , diventa senza scandalo glorioso, quando senza ostacolo e senza offesa ei può mostrare la sua virtù : ma quando ei non abbi questa ventura, gli conviene

* L'edizione del 1813 è sola a correggere: inferiori.

UDRÒ TERZO. ^87.

pensare per ogni via lòrsegli dinanzi; e prima che ei facci cosa alcuna, gli bisogna tenere modi eh' éi vinca questa dif- ficullà. E chi legge la Bibbia sensatamente, vedrà Moisè es- sere stalo sforzato, a volere che le sue leggi e gli suoi ordini andassero innanzi, ad ammazzare infiniti uomini, i quali, non mossi da altro che da invidia, si opponevano a' disegni suoi. Questa necessità conosceva benissimo frale Girolamo Savonarola; conoscevala ancora Pietro Soderini, gonfaloniere di Firenze. L'uno non potette vincerla, per non avere auto- rità a poterlo fare (che fu il frate), e per non essere inteso bene da coloro che lo seguitavano, che ne arebbono avuto autorità. Nondimeno per lui non rimase, e le sue prediche sono piene d'accuse dei savi del mondo, e di invettive con- tro a loro; perchè chiamava così questi invidi, e quelli che si opponevano agli ordini suoi. Quell'altro credeva col tempo, con la bontà, con la fortuna sua, con beneficarne alcuno, spe- gner questa invidia; vedendosi d'assai fresca età, e con tanti nuovi favori che gli arrecava il modo del suo proce- dere , che credeva poter superare quelli tanti che per invi- dia se gli opponevano, senza alcuno scandalo, violenza e tumulto: e non sapeva che '1 tempo non si può aspettare, la bontà non basta, la fortuna varia, e la malignità non trova dono che la plachi. Tanto che V uno e l' altro di questi duo rovinarono, e la rovina loro fu causata da non aver sapulo o potuto vincere questa invidia. L'altro notabile è l'ordine che Cammino dette dentro e fuori per la salute di Roma. E veramente, non senza cagione gli istorici buoni, com'è que- sto nostro, mettono particolarmente e distintamente certi casi , acciocché i posteri imparino come gli abbino in si- mili accidenti a difendersi. E debbesi in questo testo notare, che non è la più pericolosa la più inutile difesa , che quella che si fa lumuUuariamente e senza ordine. E questo si mostra per quello terzo esercito che Cammillo fece seri* vere per lasciarlo in Roma a guardia della città : perché molti arebbono giudicalo e giudicberebbono questa parie su- perflua, sendo quel popolo per l'ordinario armalo e belli- coso; e per questo, che non gli bisognasse di scriverlo altri- mente, ma bastasse furio armare quando il bisogno venisse.

388 DEI DISCORSI

Ma Cammillo, e qoalunche fusse savio come era osso, la giudica altrimenle ; perchè non permeile mai che una moUi- tudine pigli l'arme, se non con certo ordine e cerio modo. E però, in sa questo esseropio, uno ohe sia preposto a guar- dia d'ana città, debhe fuggire come uno scoglio il fare ar- mare gli nomini tumulluosamente ; ma debbe prima avere scrini e scelti quelli che voglia s'armino, chi gli abbino a ubbidire^ dove a convenire, dove andare: ed a quelli che non sono scrini , comandate che stiano ciascuno alle case sue a guardia di quelle. Coloro che terranno questo ordine in una città assaltata, facilmente si potranno difendere: chi farà altrimenti, non imiterà Cammillo, e non si difenderà.

Cap. XXXf. Le Pfpubbliehe forti e gli uomini eccelìmli ritengono in ojni fortuna il medesimo animo e la loro me- desima dignità.

Inlra Tallrc magnifiche cose che il nostro istorico fa dire e fare a Cammillo, per mostrare come debbe esser fatto un nomo eccellente, gli mette in bocca queste parole: AVr mihi diclntura animos fedi, nee exilium ademil. Per le quali parole vede, come gli uomini grandi sono sempre in ogni fortuna quelli medesimi; e se la varia, ora con esaltargli ora con opprimergli, quelli non variano, ma tengono sem- pre l'animo fermo, ed in tal modo congiunto eoo il modo del vivere loro, che facilmente si conosce per ciascuno, la fortuna non aver potenza sopra di loro. Altrimenti si gover- nano gli uomini deboli; perche invaniscono ed inebriano ttella buona fortuna, attribuendo lutto il bene che gli hanno a quelle virtù che non conobbero mai. D' onde nasce che diventano insopportabili ed odiosi a tulli coloro che gli hanno intorno. Da che poi dipende la subila variazione della sorte ; la quale come veggono in viso, caggiono subito nell'altro di* fello, e diventano vili ed abietti. Di qui nasce che i prìncipi cosi fatti pensano nella avversità più a fuggirsi che a difen- dersi , come quelli che per aver male usala la buona for- tuna, sono ad ogni difesa impreparati. Questa virtù, e que- sto vizio, ch'io dico trovarsi in uno uomo solo, si trova

LIBRO TERZO. 389

ancora in una repubblica : ed in essempìo ci sono i Romani, ed i Viniziani. Quelli primi, nessuna cattiva sorte gli fece mai divenire abietti, nessuna buona fortuna gli fece mai es- sere insolenti ; come si vidde manifestamente dopo la rotta ch'egli ebbono a Canne, e dopo la vittoria ch'egli ebbono centra ad Antioco; perchè per quella rotta, ancora che gra- vissima per esser stata la terza, non invilirono mai; e mandarono fuori eserciti ; non volleno riscattare i loro pri- gioni centra agli ordini loro; non mandarono ad Annibale 0 a Cartagine a chiedere pace : ma, lasciate stare tutte queste cose abiette indietro, pensarono sempre alla guerra; ar- mando, per carestia d'uomini, i vecchi ed i servi loro. La qual cosa conosciuta da Annone cartaginese, come di sopra si disse, mostrò a quel Senato quanto poco conto s'aveva a tenere della rotta di Canne. E così si vidde come i tempi dif- ficili non gli sbigottirono, gli renderono umili. Dall'altra parie, i tempi prosperi non gli fecero insolenti : perché man- dando Antioco oratori a Scipione a chiedere accordo, avanti che fussino venuti alla giornata, e ch'egH avesse perduto, Scipione gli dette certe condizioni della pace; quali erano che si ritirasse dentro alla Siria, ed il resto lasciasse nello arbitrio de* Romani. Il quale accordo ricusando Antioco, e venendo alla giornata, e perdendola, rimandò ambasciadori a Scipione, con commissione che pigliassero tutte quelle condizioni erano date loro dal vincitore: ai quali non pro- pose altri patti che quelli s'avesse oiTerti innanzi che vin- cesse; soggiungendo queste parole: Quod Romani, si vm- cunlur, non minuunlur animis ; nec si vincunt , insolescere solent. Al contrario appunto di questo s' è veduto fare ai Vi- niziani : i quali nella buona fortuna, parendo loro aversela guadagnata con quella virtù che non avevano, erano venuti a tanta insolenza, che chiamavano il re di Francia figliuolo di San Marco ; non stimavano la Chiesa ; non capivano in modo alcuno in Italia; e avevansi presupposto nell'animo d'aver a fare una monarchia simile alla romana. Dipoi, come la buona sorte gli abbandonò, e ch'egli ebbero una mezza rotta a Vaila dal re di Francia, perderono non solamente tutto lo stato loro per ribellione, ma buona parte ne dettero

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300 DEI DISCORSI

ed al papa eii al re di Spagna per TÌUà ed abiezione d' ani- mo; ed in (an(o invilirono, che mandarono amhasciadorì al- lo imperadore a farsi Iribalari ; e scrissono al papa IcUcrc piene di viUà, e di sommissione per muoverlo a compassione. Alla quale infelicilà pervennero in quattro giorni, e dopo una metta rotta : perchè avendo combattuto il loro esercito, nel ritirarsi venne a combattere ed essere oppresso circa la metà; in modo che, T noo de* provveditori che si salvò, ar- rivò a Verona eoo più di venticinqaemila aoldali, intra piò e cavallo. ' Talmenlechè, se a Vinegia e negli ordini loro fussa stata alcuna qualità di virtù, facilmente si potevano rifare, e dimostrare di nuovo il viso alla fortuna ed essere a tempo o a vincere, o a perdere pia gloriotamente, o ad avere ac- corda più onorevole. Ma la viltà dell'animo loro, caasata dalla qualità de' loro ordioi eoa buoni nelle cose della guer- ra, gli fece ad un trailo perdere lo stato e 1* animo. E sem* pre iolenrerrà eeal a qealenqee ti geteroi come loro. Pefobò divealare teeelenle mUa beane fortuna ed ebielle celUfe» Mtee dal mo(Ìp del proceder tuo, e delle ede- ceiieoe nelle feele la sei nudrìto : la quale quando è debole ?eoa, li rende simile e sé: quando è siala altrimenti , li rende ancora d* un* altra sorte; e fecendoii migliore conosci- tore del mondo, li fa meno rallegrale del bene, e nene rei- tristare del mele. E quello che si dice d* un solo, si dice di molti che vivono in una repubblica medesima; i quali si fanno di quella perfctiooe, che ba il modo del vivere di quella. E benché altra volta si sia detto, come il fondamenta di tutti gli stati è la buona miliiia ; e come dove non é questa, non possono oasere leggi buone alcuna altra cosa buona ; non mi paresnperflee replicarlo: perchè ad ogni punto nel leggere questa istoria si vedo apparire questa necessilà ; e si vede come la militia non puole esaere buona, ee la non è eeercitata ; e come la non si può esercitare, se la non è com- posta di luoi sudditi. Perchè sempre non si sta in guerra, si può slarvi; però conviene pelerle esercitare a tempo di pace : e con altri che con suddili non si può fare questo eser- cizio, rispetto alla spesa. Era CaamiUo andato, come di sopra

' Sole il Poetali : Irm pit e « cmfmif:

LIBRO TERZO. 391

dicemmo, con 1' esercito contra ai Toscani ; ed avendo i suoi soldati veduto la grandezza dello esercito dei nimici, s'erano tutti sbigottiti, parendo loro essere tanto inferiori da non poter sostenere l'impelo di quelli. E pervenendo questa mala disposizione del campo agli orecchi di Cammillo, si mostrò t'uora, ed andando parlando per il campo a questi ed a quelli soldati, trasse loro del capo quella oppinione ; e nell'ultimo, senza ordinare altrimenti il campo, disse: Quod quisque di- dicil, aul consuevU, faciet. E chi considererà bene questo termine, e le parole disse loro, per inanimarli a ire contro ai nimici, considererà conie e' non si poteva dire far fare alcuna di quelle cose ad uno esercito che prima non fusse stato ordinalo ed esercitato ed in pace ed in guerra. Perchè di quelli soldati che non hanno imparato a far cosa alcuna, non può un capitano fidarsi, e credere che faccino alcuna cosa che stia bene; e se gli comandasse un nuovo An- nibale, vi rovinerebbe sotto. Perchè, non polendo un capi- tano essere mentre si fa la giornata in ogni parte, se non ha prima in ogni parte ordinato di potere avere uomini che ab- bino lo spirito suo, e bene gli ordini ed i modi * del procedere suo, conviene di necessità che ci rovini. Se, adunque, una città sarà armata ed ordinala come Roma ; e che ogni di ai suoi cittadini, ed in particolare ed in pubblico, tocchi a fare isperienza e della virtù loro, e della potenza della fortuna; interverrà sempre che in ogni condizione di lempo e' siano del medesimo animo, e manterranno la medesima loro de- gnila : ma quando e' siano ^ disarmali, e che si appoggeranno solo alli impeti della fortuna, e non alla propria virtù, varie- ranno col variare di quella, e daranno sempre di loro quello essempio che hanno dato i Viniziani,

Gap. XXXII. Quali modi hanno tenuti alcuni a turbare una pace.

Essendosi ribellate dal Popolo romano Circei e Velilre, due sue colonie, sotto speranza d'esser difese dai Latini; ed essendo dipoi vinli i Latini, C! mancando di quelle speranze;

* La Testina colle moderne: e il modo. 2 LaRomana sollanlo:^rtno.

3D2 DEI DISCORSI

consigliavano assai cilladini che si dovesse mandare a Roma oratori a raccomandarsi al Senato: il qual partito fu turbalo da coloro che erano stati autori della ribellione, i quali te- mevano che tutta la pena non si voltasse sopra le teste loro. E per tòr via ogni ragionamento di pace, incitarono la mol- titudine ad armarsi, ed a correr sopra i confini romani. E veramente, quando alcuno vuole o che uno popolo o un prin- cipe levi al tutto r animo da on accordo, non ci è altro modo più vero più stabile, che fargli usare qualche grave scel- leratezza contra a colui con il quale tu non vuoi che l'ac- cordo si faccia : perchè sempre lo terrà discosto quella paura di quella pena che a lui parrà per Io errore commesso aver meritala. Dopo la prima guerra che i Cartaginesi ebbono coi Romani, quelli soldati qhe dai Cartaginesi erano stati ado- perati in quella guerra in Sicilia ed in Sardigna, fatta che fu la pace, se ne andarono in AflTrica ; dove non essendo sa- tisfatti del loro stipendio, mossono l'armi contra ai Cartagi- nesi; e fatti di loro due capi. Malo e S|>endio, occuparono molte terre ai Cartaginesi, e molte ne saccheggiarono. I Car- taginesi, per tentare prima ogni altra via che la zuffa, man- darono a quelli ambasciadore Asdrubale loro cittadino, il quale pensavano avesse alcuna autorità con quelli, essendo slato per lo addietro lor capitano. Ed arrivato costui, e vo- lendo Spendio e Mato obbligare tutti quelli soldati a non sperare d'aver mai più pace coi Cartaginesi, e per questo obbligarli alla guerra; persuadono loro, ch'egli era meglio ammazzare costui, con tutti i cittadini cartaginesi, quali erano appresso loro prigioni. Donde, non solamente gli ammazza- rono, ma con mille supplizi in prima gli straziarono; ag- giungendo a questa scelleratézza uno editto, che tutti i Car- taginesi che per lo avvenire si pigliassino, si dovessino in simil modo occidere. La qual diliberazione ed esecuzione fece quello esercito crudele ed ostinato contra ai Cartaginesi.

Gap. XXX ih. Egli è necessario, a voler vincere una giornata, fare C esercito confidente ed infra loro, e con il capitano.

A volere che uno esercito vinca una giornata , è necessa- rio farlo conlìdcnle, in modo che creda dovere in ogni modo

LIBRO TERZO. 393

vincere. Le cose che lo fanno confidente sono : che sia arnaalo ed ordinalo bene; conoschinsi l'uno l'altro. può nascer questa confidenza o questo ordine, se non in quelli soldati che sono nati e vissuti insieme. Conviene che '1 capitano sia slimato, di qualità che confidino nella prudenza sua: e sem- pre confideranno, quando lo vegghino ordinalo, sollecito ed animoso, e che tenga bene e con riputazione la maestà del grado suo: e sempre la manterrà, quando gli punisca degli errori, e non gli affalichi invano; osservi loro le promesse ; mostri facile la via del vincere ; quelle cose che discosto po- lessino mostrare i pericoli, le nasconda, le alleggerisca. Le quali cose osservate bene, sono cagione grande che l'esercito confida, e confidando vince. Usavano i Romani di far pigliare agli eserciti loro questa confidenza per via di religione; donde nasceva, che con gli augurii ed auspizii creavano i Consoli, facevano il deletlo, partivano con li eserciti, e venivano alla giornata : e senza aver fatto alcuna di queste cose, non mai arebbe un buon capitano e savio tentata alcuna fazione, giu- dicando d'averla potuta perdere facilmente, se i suoi soldati non avessero prima inteso gli dii essere dalla parte loro. E quando alcuno Consolo, o altro loro capitano, avesse combat- tuto conlra agli auspizii, Farebbero punito ; come e* punirono Claudio Fulcro. E benché questa parte in tulle l' istorie ro- mane si conosca, nondimeno si pruova più certo per le parole che Livio usa nella bocca di A ppio Claudio ; il quale, dolendosi col popolo della insolenza de' Tribuni della plebe, e mostrando che medianti quelli, gli auspizii e l'altre cose pertinenti alla religione si corrompevano, dice così: Eludant nunc licei re- Ugionem. Quid enim interest, si pulii non pascenlur, si ex ca- vea lardius exierìnl, si occinuerit avis? Parva sunt hcec ; sed parva isla non conlemnendo, majores nostri, maximam hanc Rempublicam fecerunt. Perchè in queste cose piccole è quella forza di tenere uniti e confidenti i soldati : la qual cosa è prima cagione d'ogni vittoria. Nondimanco, conviene con queste cose sia accompagnala la virtù : altrimenti, le non vagliono. I Prenestini, avendo contra ai Romani fuori il loro esercito, se n'andarono ad alloggiare in sul fiume d'Allia, luogo dove i Romani furono vinti da' Franciosi ; il

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che fecero per meder fidocia nei loro soldati, e s1>igoUire i Romani per la Torlana del luogo. E benciiè questo loro par- lilo russe probabile, per quelle ragioni che di sopra sono discorse ; nientedimeno il fine delU cosa mostrò, che U vera virtù non leme ogni minimo accid— le. 11 che V istorico be- nissimo dice con qoeata parole, io bocca poale «lei Dillalore, che parla cosi al aoellaealro de* cavagli : Vidn Uè, fortuna i7/os frtlot ad Àlliam conudUu; al (m, frelut armis an(mi$qm9,ifUmit acùuu Perchè ana vera virtù, nn ordine buono, una presa da tante vittorie, non si può con cose di poco

Ito apesnere ; aoa cosa vana la Jor pamra» uu disordine gli offende : cene si vede ' certe, che eaaeode due Manli! consoli centra ai Volsci, per aver mandalo temeraria- roenle parte del campo a predare, ne segai che io un tempo e qnelii che erano iti, e quelli che erano rimaati, si trovarono aaaediati ; dal quel pericolo non la prodenta dei Conaoli, ma la virtù de' propri aoldaii gli liberò. Dove Tito Livio dice f «eale parole : ÈtUUutn, eiiam iint rettore, iiabUù virlu» Imlaln esl. Ken veglio lasciare iodici ro uo lernine osalo da Fabio,

entralo di Aoevo con T esercito in Toscaoa, per farlo giudicando quella lai fidansa esser più neccssa- fia per averlo condotto in paese Beove, centra a oiroici nuovi: c!ie,p4r!abdo acanti la tuffa ai soldati, e detto cb' ebbe molle ragioni, roedianle le quali e* potevano sperare la vil- loria, disse che potrebbe ancora loro dire certe cose booM, e dove e* vedrcbbooo la vittoria certa, se non fusse perieolMo il isanifeslarle. Ilqual modo come fu saviamenle oaalOi eosà merita d' essere imitalo.

Csr. X\HV. » QuaU fmma toee o oppimkme fm 9k$ U popofo cnmineia a farorire un eillédino : e te ei Hitlrlbui' magUlrati con magjior prudenza che un principe.

Altra volta parlammo come Tito Manlio, che fu poi dello Torquato, salvò Lucio Manlio sno padre da ona accosa ebc eli aveva f^lla Marco Pomponio Iribnno dalli plebe. E ben che il modo del sslvarlo fosse alqnanf vialenio od isira i i

* Aììntiuioni. Piét.oHéJe.

LIBRO TERZO. 395

nario, nondimeno quella filiale pietà verso del padre fa tanto grata all'universale, che non solamente non ne fu ripreso, ma avendosi a fare i Tribuni delle legioni, fu fatto Tito Manlio nel secondo luogo. Per il quale successo, credo che sia bene considerare il modo che tiene il popolo a giudicare gli uomini nelle distribuzioni sue; e che per quello noi veggiamo, s*» egli è vero quanto di sopra si conchiase, che il popolo sia migliore distributore che un principe. Dico, adunque, come il popolo nel suo distribuire va dietro a quello che si dice d'uno per pubblica voce e fama, quando per sue opere note non lo conosce altrimenti; o per presunzione o oppinione che s* ha di lui. Le quali due cose sono causate o dai padri di quelli tali, che per esser stati grandi uomini e valenti nelle città, si crede che i figliuoli debbino esser simili a loro, infino a tanto che per l' opere di quelli non s' intende il contrario ; o la è causala dai modi che tiene quello di chi si parla. I modi migliori che si possono tenere, sono: avere compagnia d'uo- mini gravi, di buoni costumi, e riputati savi da ciascuno. E perchè nessuno indizio si può aver maggiore d'un uomo, cho le compagnie con quali egli usa; meritamente uno che usa con compagnia onesta, acquista buon nome, perchè è im- possibile che non abbia qualche similitudine con quella. * O veramente s'acquista questa pubblica fama per qualche azione istraordinaria e notabile, ancora che privata, la quale ti sia riuscita onorevolmente. E di tutte tre queste cose che danno nel principio buona riputazione ad uno, nessuna la maggiore che questa ultima : perchè quella prima de' parenti e de' padri è si fallace, che gli uomini vi vanno a rilento; ed in poco si consuma", quando la virtù propria di colui che ha ad essere giudicalo non l'accompagna. La seconda che ti fa conoscere per via delle pratiche lue, è miglior della pri- ma, ma è molto inferiore alla terza ; perchè, infino a tanto che non si vede qualche segno che nasca da te, sta la ripu- tazione tua fondata in su l' oppinione, la quale è facilissima a cancellarla. Ma quella terza, essendo principiata e fondata in su l'opere lue, li nel principio tanto nome, che bisogna

1 L' dizione del LI.kIo : (7«c//c.

396 DEI DISCORSI

bene che tu operi poi molte cose contrarie a questo, ' volendo annullarla. Debbono, adunque, gli uomini che nascono in una repubblica pigliare questo verso, ed ingegnarsi con qualche operazione istraordinaria cominciare a rilevarsi. 11 che molli a Roma in gioventù feciono o con il promulgare una legge che venisse in comune utilità ; o con accusare qualche po- tente cittadino come trasgressore delle leggi ; o col fare simili cose notabili e nuove, di che s'avesse a parlare. sola- mente sono necessarie simili cose per cominciare a darsi ri- putazione, ma sono ancora necessarie per mantenerla ed accrescerla. Ed a voler fare questo, bisogna rinnovarle; come per lutto il tempo della sua vita fece Tito Manlio: perchè, di- feso ch'egli ebbe il padre tanto virtuosamente e straordina- riamente, e per questa azione presa la prima reputazione sua, dopo certi anni combatto con quel Francioso, e morto gli trasse quella collana d*oro che gli dette il nome di Torquato. Non bastò questo, che dipoi, già in età matura, ammazzò il figliuolo per aver combattuto senza licenza, ancora ch'egli avesse su- perato il nimico. Le quali Ire azioni allora gli dellono più nome e per tutti i secoli lo fanno più celebre, che non lo fece alcuno Irìonfo, alcuna vittoria, di che egli fu ornalo quanto alcuno altro Romano. E la cagione è perchè in quelle vittorie Manlio ebbe moltissimi simili ; in queste particolari azioni n'ebbe o pochissimi o nessuno. A Scipione maijgiore non arrecarono tanta gloria tutti i suoi trionfi, quanto gli dette l'avere, ancora giovinetto, in sul Tesino difeso il padre; e l'aver, dopo la rotta di Canne, animosamente con la spada sguainata fatto giurare più gioveni romani, che ei non ab- bandonerebbono Italia, comedi già intra loro avevano dilibe- ralo : le quali due azioni furono princìpio alla riputazione sua, e gli fecero scala ai trionfi della Spagna e dell' Affrica. La quale oppinione da lui fu ancora accresciuta, quando ei ri- mandò la figliuola al padre e la moglie al marito in Ispagna. Questo modo del procedere non è necessario solamente a quelli cittadini che vogliono acquistar fama per ottenere gli onori nella loro repubblica, ma è ancora necessario ai principi per mantenersi la riputazione nel principato loro:

* La nede&ima : nntsU,

LIBRO TIÌUZO. 307

perchè nessuna cosa 2;^ ^> tanto stimare, quanto dare di rari eserapi con qualche fatto o detlo raro, conforme al bene comune, il quale mostri il signore 0 magnanimo o liberale o giusto, e che sia tale che si riduca come in proverbio intra i suoi soggetti. Ma, per tornare donde noi cominciammo que- sto discorso, dico come il popolo quando ei comincia a dare un grado ad un suo cilladino, fondandosi sopra quelle tre cagioni soprascritte, non si fonda male; ma quando poi gli assai esserapi de' buoni portamenti d' uno lo fanno più noto, si fonda meglio, perchè in tal caso non può essere che quasi mai s' inganni. Io parlo solamente di quelli gradi che si danno agli uomini nel principio, avanti che per ferma ispe- rienza siano conosciuti, o che passano da una azione ad unaltra dissimile: dove, e quanto alla falsa oppinione, e quanto alla corruzione, sempre fanno minori errori che i principi. E perchè e' può essere che i popoli s'ingannerebbono della fama, della oppinione e delle opere d'uno uomo, stimandole maggiori che in verità non sono ; il che non interverrebbe ad uno principe, perchè gli sarebbe detto, e sarebbe avver- tilo da chi lo consigliasse ; perchè ancora i popoli non man- chino di questi consigli, i buoni ordinatori delle repubbliche hanno ordinato, che, avendosi a creare i supremi gradi nelle ciltà, dove fusse pericoloso mettervi uomini insuffizienti, e veggendosi la voglia popolare esser diritta a creare alcuna che fusse insuffizienle, sia lecito ad ogni cittadino, e gli sia imputato a gloria, di pubblicare nelle concioni i difetti di quello, acciocché il popolo, non mancando della sua cono- scenza, possa meglio giudicare. E che questo si usasse a Roma, ne rende testimonio la orazione di Fabio Massimo, la quale ei fece al Popolo nella seconda guerra punica, quando nella creazione dei Consoli i favori si volgevano a creare Tito Oltacilio; e giudicandolo Fabio insuflìziente a governare in quelli tempi il consolato, gli parlò contra, mostrando la insulTizienza sua; tantoché gli tolse quel grado, e volse i fa- vori del Popolo a chi più lo meritava che lui. Giudicano, adun- que, i popoli nella elezione a' magistrati secondo quei con- trassegni che degli uomini si possono aver più veri; e quando ei possono esser consigliati come i principi, errano meno

34

398 DK» DISCORSI.

che i principi : e qacl cidadino che voglia cominciare ad avere i favori del popolo, debbe con qualche fallo notabile, come fece Tito Manlio, guadagnarseli.

CàP. XXXV. Quali pencoli si portino nel farsi capo a con- sigliare una cosa; e quanto ella ha più dello straordinario, maggiori pericoli vi si corrono.

Quanto sia cosa pericolosa farsi capo d' una cosa nuova che appartenga a molti, e quanto sia difTìcile a trattarla ed a condurla; e condotta, a mantenerla, sarebbe troppo lunga e troppo alta materia a discorrerla: però, riserbandolo a luogo più conveniente, parlerò solo di quelli pericoli che portano i cittadini, o quelli che consigliano uno principe a farsi capo d' una deliberazione grave ed importante, in modo che tutto il consiglio d'essa sia imputalo a lui. Perchè, giudicando gli uomini le cose dal Cne, tutto il male che ne risulta, s'imputa all'autore del consiglio; e se ne risulta bene, ne è commen- dalo: ma di lunga il premio non contrappcsa il danno. 11 pre- sente Sultan Sali, detto Gran Turco, essendosi preparato (secondo che ne riferiscono alcuni che vengono de' suoi paesi) di fare l'impresa di Seria e di Egitto, fu confortato da un suo Bascià, quale ei teneva ai confini di Persia, d'andare centra al Soft: dal quale consiglio mosso, andò con esercito grossissi- mo a quella impresa; ed arrivando in paese larghissimo, dove sono assai deserti e le fiumare rade,' e trovandovi quelle dif- (ìcultà che già fecero rovinare molli eserciti romani, fu in modo oppressalo da quelle, che vi perde per fame e per pe- ste, ancora che nella guerra fusse superiore, gran parte delle sue genti: talché irato contro all'autore del consiglio, l'am- mazzò. Leggesi, assai cittadini stati confortatori d'una impre- sa, e per avere avuto quella tristo fine, essere stali mandati in esilio. Fecionsi capi alcani cittadini romani , che si facesse, in Roma il Consolo plebeo. Occorse che il primo che usci fuori con gli eserciti, fu rotto ; onde a quelli consigliatori sa- rebbe avvenuto qualche danno, se non fusse slata tanto ga- gliarda quella parte, in onore della quale tale diliberazionc

* Credo errore nella Bladiana , per iicarabio di lettere :Jìunia(e rare.

LIBRO TERZO. 399

era venuta. È cosa adunque certissima, che quelli che con- sigliano una repubblica, e quelli che consigliano un principe, sono posti intra queste angustie, che se non consigliano le cose che paiono loro utili, o per la città o per il principe, senza rispetto, ei mancano dell' ufTizio loro; se le consigliano, egli entrano nel pericolo della vita e dello stato : essendo tutti gli uomini in questo ciechi, di giudicare i buoni e cattivi consi- gli dal fine. E pensando in che modo ei polessino fuggire o questa infamia o questo pericolo, non ci veggo altra via che pigliar le cose moderatamente, e non ne prendere al- cuna per sua impresa, e dire l'oppinione sua senza passione, e senza passione con modestia difenderla: in modo che, se la città 0 il principe la segue, che la segua volontario,' e non paia che vi venga tirato dalla tua importunità. Quando tu faccia così, non è ragionevole che un principe ed un popolo del tuo consiglio ti voglia male, non essendo seguito centra alla voglia di molti: perchè quivi si porta pericolo dove molti hanno contradetto, i quali poi nello infelice fine concorrono a farti rovinare. E se in questo caso si manca di quella glo- ria che si acquista nell' esser solo centra molti a consigliare una cosa, quando ella sortisce buon fine, ci sono al rincon- tro due beni : il primo, di mancare del pericolo; il secondo, che se tu consigli una cosa modestamente, e per la contra- dìzione il tuo consiglio non sia preso, e per il consiglio d'al- trui ne seguiti qualche rovina, ne risulta a te grandissima gloria. E benché la gloria che s'acquista de' mali che abbia o la tua città o il tuo principe, non si possa godere, nondi- meno è da tenerne qualche conto. Altro consiglio non credo si possa dare agli uomini in questa parte: perchè consiglian- dogli che lacessino, e non dicessino l'oppinione loro, sarebbe cosa inutile alla repubblica o ai loro principi, e non fuggi» rebbono il pericolo ; perchè in poco tempo diventerebbono sospetti : e ancora potrebbe loro intervenire come a quelli amici di Perse re dei Macedoni, il quale essendo stato rotto da Paulo Emilio, e fuggendosi con pochi amici, accadde che nel replicar le cose passate, uno di loro cominciò a dire a Terse molti errori fatti da lui , che erano stali cagione della

* L* eiUzione del Poggiali i volontariamente.

400 DEI Disconsr.

sua rovina: al quale Per^e rivòllosi, disse: Traditore, si che (u hai indugiato a dirmelo ora eh' io non ho più rimedio ; e sopra queste parole, di sua mano l'ammazzò. E così colui portò la pena d' essere stalo cheto quando ei doveva parla- re, e d'aver parlato quando ei doveva tacere; fuggi il pe- rìcolo per non avere dato il consiglio. Però credo che sia da tenere ed osservare i termini soprascritti.

Gap. XXXVI. La cagione perchè i Francioai sono siali e sono ancora giudicali nelle zuffe da principio più che uo- mini, e dipoi meno che femmine,

La ferocità di quel Francioso che provocava qualunque Romano appresso al fiume Aniene a combatter seco, dipoi la zuffa fatta intra lui e Tito Manlio, mi fa ricordare di quello che Tito Livio più volte dice, che i Franciosi sono nel principio della zutTa più che uomini, e nel successo di combaitcre rie- scono poi meno che femmine. E pensando donde questo na- sca, si crede per molli che sia la natura loro cosi fatta: il che credo sia vero; ma non è per questo, che questa loro na- tura che gli fa feroci nel principio, non si potesse in modo con l'arte ordinare, che la gli mantenesse feroci infino nel- r ultimo. Ed a voler provare questo, dico come e* sono di Ire ragioni eserciti : V uno dove è furore ed ordine; perchè dall'ordine nasce il furore e la virtù» come era quello dei Ro- mani : perchè si vede in tutte l'istorie, che in quello esercito era uno ordine buono, che v' aveva introdotto una disciplina militare per luiigo tempo. Perchè in uno esercito bene ordi- nalo, nessuno debl)C fare alcuna opera se non regolato : e si troverà per questo, che nello esercito romano, dal quale, avendo egli vinto il mondo, debbono prendere essempio lutti gli altri eserciti, non si mangiava, non si dormiva, non si roercalava, non si faceva alcuna azione o militare o dome- stica senza l'ordine del consolo. Perchè quelli eserciti che fanno altrimenti, non sono veri eserciti; e se* fanno al- cuna pruova, la fanno per furore e per impeto, non per virtù. Ma dove è la virtù ordinata , usa il furore suo coi modi e

* Qui tulle le edizioni , all' infuori «Iella Rom.ina , tramcllono ne.

LIBRO TEBZO. 401

co'lempi ; diflìcuUà veruna lo invilisce, gli fa mancare r animo : perchè gli ordini buoni gli rinfrescano T animo ed il furore, nutriti dalla speranza del vincere; la quale mai non manca, infino a tanto che gli ordini stanno saldi. Al contra- rio interviene in quelli eserciti dove è furore e non ordine,, come erano i franciosi : i quali tuttavia nel combattere man- cavano; perchè non riuscendo loro col primo impeto vince- re, e non essendo sostenuto da una virtù ordinata quello loro furore nel quale egli speravano, avendo fuori di quello cosa in la quale ei confidassino, come quello era raffreddo, mancavano. Al contrario i Romani , dubitando meno dei pe- ricoli per gli ordini loro buoni, non diffidando della vittoria, fermi ed ostinati combattevano col medesimo animo e con la medesima virtù nel fine che nel principio : anzi, agitati dal- l'arme, sempre s'accendevano. La terza qualità d'eserciti è, dove non è furore naturale, ordine accidentale: come sono gli eserciti nostri italiani de' nostri tempi, i quali sono al lutto inutili ; e se non si abbattono ad uno esercito che per \ qualche accidente si fugga, mai non vinceranno. E senza ad- durne altri esseropi , si vede ciascuno di come ei fanno proove di non avere alcuna virtù. E perchè con il testimonio di Tito Livio ciascuno intenda come debbe esser fatta la buona milizia, e come è fatta la rea; io voglio addurre le parole di Papirio Cursore, quando ei voleva punire Fabio maestro de' cavalli, quando disse: Nemo hominum, nemo Deorum verecun- diam habeat; non edicla imperatorum, non auspicia observen- tur : Bine commealu, vagì mililes in pacalo, in hoslico errent; immcmores sacramenli, se ubi velint exauclorcnt ; infrequenlia deseranl signa; ncque conveniant ad ediclum^ nec discernanl interdiu, nocle ; ocquo, iniquo loco, jussu, injussu imperaloris pugnenl ; et non signa , non ordines scrvent : lalrocìnii modo, ccBca et forluila, prò solemni el sacrala mililià sii. Puossi per questo testo, adunque, facilmente vedere, se la milizia de' no- stri tempi è cieca e fortuita, o sacrata e solenne; e quanto le manca ad esser simile a quella che si può chiamar milizir ; e quanto ella è discosto da essere furiosa ed ordinata come la romana, o furiosa solo come la franciosa.

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402 DEI DISCORSI.

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Gap. XXXVII. Se le piccole ballaglie innanzi alla giornata sono necessarie^ e come si debbe fare a conoscere un nimico nuovo, volendo fuggire quelle.

£' pare che nelle azioni degli aoroìni, come altre volle * abbiamo discorso, si Iruovi , olire all' allre didìcullà, nel voler condurre la cosa alla sua perfezione, che sempre propinquo al bene sia qualche male, il quale con quel bene facilmente nasce, che pare impossibile poter mancare dell'uno volendo r altro. E questo si vede in tutte le cose che gli uomini ope- rano. £ però s'acquista il bene con ditlìcultà, se dalla fortuna tu non se' aiutalo in modo, che ella con la sua forza vinca questo ordinario e naturale inconveniente. Di questo mi ha fatto ricordare la zuOa di Manlio Torquato e del Francioso, dove Tito Livio dice: Tanti ea dimicalio ad universi belli even- lum momenti fuit, ut Gallorum exercitus, relictis trepide ca- slris, in Tiburtem agrum, mox in Campaniam transieril. Perché io considero dall' on canto, che od buon capitano debbe fuggire al lutto di operare alcuna cosa che, essendo di poco momento, possa fare caltivi etTetti nel suo esercito: per- chè cominciare una zufla dove non si operino tutte le forze e vi si arrischi tutta la fortuna, è cosa al tutto temeraria; come io dissi di sopra, quando io dannai il guardare de' pas- si. Dall'altra parte, io considero come i capitani savi, quando ei vengono all' incontro d'un nuovo nimico, e che sia ripu- talo, ei sono necessitali, prima che venghino alla giornata, far provare con leggieri zutTc ai loro soldati tali nimici ; ac- ciocché cominciandogli a conoscere e maneggiare, pcrdino quel terrore che la fama e la riputazione aveva dato loro. £ questa parte in un capitano é importantissima; perchè ella ha in quasi una necessità che li costringe a farla, parendoti andare ad una manifesta perdita, senza aver prima fatto con piccole isperienze deporre ai tuoi soldati <}aelIo terrore che la riputazione del nimico aveva messo negli animi loro. Fu Valerio Corvino mandato dai Romani con gli eserciti con- Ira ai Sanniti, nuovi nimici, e che per lo addietro mai non

' L* cdizìoDe del Bludo : altra volta.

ì

LIBRO TERZO. 403

avevano provale Tarme l'ano dell' allro; dove dice Tito Li- vio , che Valerio fece fare ai Romani coi Sanniti alcune leggieri zuffe : Ne eos novum bellum, ne novus hoslis lerrerel. Nondimeno è pericolo grandissimo, che restando i tuoi soIt dati in quelle battaglie vinti, la paura e la viltà non cresca loro, e ne conseguitino contrari eflelti ai disegni tuoi ; cioè che tu gli sbigottisca, avendo disegnato d'assicurarli: tanto che questa è una di quelle cose che ha il male si propinquo al bene, e tanto sono congiunti insieme, che gli è facil cosa prendere l'uno credendo pigliar l'altro. Sopra che io dico, che un buon capitano debbe osservare con ogni diligenza, che non surga alcuna cosa che per alcuno accidente possa tórre r animo all' esercito suo. Quello che gli può tórre 1' animo è cominciare a perdere ; e però si debbe guardare dalle zutfe piccole, e non le permettere se non con grandissimo van- taggio, e con certa speranza di vittoria: non debbe fare im- presa di guardar passi, dove non possa tenere lutto l'esercito suo: non debbe guardare terre, se non quelle che perdendole di necessità ne seguisse la rovina sua ; e quelle che guarda, ordinarsi in modo, e con le guardie d'esse e con l'esercito, che trattandosi della espugnazione di esse, ei possa adope* rare tulle le forze sue ; l' altre debbe lasciare indifese. Per- chè ogni volta che si perde una cosa che si abbandoni, e l'esercito sia ancora insieme, e' non si perde la riputazione della guerra, la speranza di vincerla: ma quando si perde una tosa che tu hai disegnala difendere, e ciascuno crede che tu la difenda, allora è il danno e la perdita; ed hai quasi, come i Franciosi, con una cosa di piccolo momento perduta la guerra. Filippo di Macedonia padre di Perse, uomo militare e di gran condizione ne' tempi suoi, essendo assaltato dai Romani, assai de' suoi paesi, ì quali ei giudicava non po- tere guardare, abbandonò e guastò: come quello che, per es- sere prudente, giudicava più pernizioso perdere la riputazione col non potere difendere quello che si metteva a difendere, che lasciandolo in preda al nimico, perderlo come cosa ne- gletta. I Komani, quando dopo la rotta di Canne le cose loro erano afflitte, negarono a molti loro raccomandali e sudditi li aiuti, commellendo loro che si difendessino il meglio pò-

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lessino. I quali parlili sono migliori assai, che pigliare dife- se, e poi non le difendere: perchè in questo parlilo si perde amici e forze; in quello, amici solo. Ma tornando alle piccole zuffe, dico che se pure un capitano è coslrello per la novità del nimico far qualche zuffa, dehhe farla con tanto suo van- taggio, che non vi sia alcun pericolo di perderla : o vera- mente far come Mario (il che è migliore partilo), il quale andando conlra ai Cimbri, popoli ferocissimi, che venivano a predare Italia, e venendo con ano spavento grande per la ferocità e moltitudine loro, e per avere di già vinto uno eser- cito romano; giudicò Mario esser necessario, innanzi che venisse alla zuffa, operare alcuna cosa per la quale l'eser- cito suo deponesse quel terrore che la paura del nimico ali aveva dato; e, come prudentissimo capitano, più che una volta collocò l'esercito suo in luoso donde i Cimbri con l'esercito loro dovessino passare. E cosi, dentro alle fortezze del suo campo, volle che i suoi soldati gli vedessino, ed assuefaces- sino gli occhi alla vista di quello nimico ; acciocché, vedendo una mollitudine inordinata, piena di impedimenti, con arme inolili, e parte disarmati, si rassicarassino, e diventassino disidcrosi delia zuffa. Il quale parlilo come fu da Mario sa- viamente preso, cosi dagli altri debbo essere diligentemente imitalo, per non incorrere in quelli pericoli che io di sopra dico, e non avere a fare come i Franciosi, qui ob rem parvi ponderis trepidi, in Tiburlem agrum et in Campaniam trans- ierunt. E perchè noi abbiamo allegato in questo discorso Valerio Corvino, voglio, medianli le parole sue, nel seguente capitolo, come debbo esser fatto un capitano dimostrare.

Gap. XXXVIII. Come dcbhe eaer fallo un capitano nel quale i' e$ercilo tuo possa confidare.

Era, come di sopra dicemmo, Valerio Corvino con l'eser- cito centra ai Sanniti , nuovi nimici del Popolo romano : donde che, per assicurare i suoi soldati, e per fargli conoscere i ni mici, fece fare ai suoi certe legì^ieri zuffe; gli bastando questo, volle avanti alla giornata parlar loro, e mostrò con ogni efficacia , quanto e* dovevano stimare poco tali nimici,

LIBRO TERZO. 40?)

allegando la virtù de' suoi soldali, e la propria. Dove si può notare, per le parole che Livio gli fa dire, come debbe essere fatto un capitano in chi l'esercito abbia a confidare; le quali parole sono queste: Tum eliam inlueri cujus duclu auspicioque ineunda pugna sii : ulrum qui audiendus damlaxal magnificus adhorlalor sii, verhis lanlum ferox, operum mililarium expers; an qui, el ipse tela Iractare, procedere anle signa, versari me- dia in mole pugnce sciai. Facla mea, non dicla vos milites se- qui volo; nec disciplinam modo, sed exemplum eliam a me pe- tere, qui hac dexlra mihi Ires consulalus, summam'que laudem peperL Le quali parole considerate bene, insegnano a qualun- que, come ei debbe procedere a voler tenere il grado del capi- tano : e quello che sarà fatto altrimenti, troverà, con il tempo, quel grado, quando per fortuna o per ambizione vi sia condot- to, tórgli e non dargli riputazione; perchè non i titoli illustrano gli uomini, ma gli uomini i titoli. Debbesi ancora dal prin- cipio di questo discorso considerare, che se i capitani grandi hanno usato termini istraordinari a fermare gli animi d' uno esercito veterano quando coi niraici inconsueti debbe affron- tarsi ; quanto maggiormente si abbia ad usare V industria quando si comandi uno esercito nuovo, che non abbia mai ve- duto il nimico in viso. Perchè, se lo inusiialo nimico allo eser- cito vecchio terrore, tanto magqiormente lo debbe dare ogni nimico ad uno esercito nuovo. Pure, s* è veduto molte volte dai buoni capitani tutte queste dilTicultà con somma pru- denza esser vinte : come fece quel Gracco romano, ed Epa- minonda tebano, de' quali altra volta abbiamo parlato, che con eserciti nuovi vinsOno eserciti veterani ed esercitatissi- mi. I modi che tenevano, erano: parecchi mesi esercitargli in battaglie finte; assuefargli alla ubbidienza ed all'ordine: e da quelli dipoi, con massima confidenza, nella vera zulTa gli ado- peravano. Non si debbe, adunque, diffidare alcuno uomo mili- tare di non poter fare buoni eserciti, quando non gli manchi uomini; perchè quel principe che abbonda d'uomini e manca di soldati, debbe solamente, non della viltà degli uomini, ma della sua pigrizia e poca prudenza dolersi.

406 DEI DISCORSI

Gap. XXXIX. Che un capitano debbe esser conoscUore dei sili.

Intra V allre cose che sono necessarie ad un capilano d' eserciti, é la cognizione dei siti e de' paesi ; perchè senza quesla cognizione generale e particolare, un capilano d' eser- citi non può bene operare alcuna cosa. E perchè tulle le scienze vogliono pratica a voler perfetlamenle possederle, questa è una che ricerca pratica grandissima. Quesla prati- ca, ovvero questa particolare cognizione, s'acquista più me- dianti le cacce, che per verun altro esercizio. Però gli anti- chi scrittori dicono, che quelli eroi che governarono nel loro tempo il mondo, si nutrirono nelle selve e nelle cacce; per- chè la caccia, oltre a questa cognizione, li insegna infinito cose che sono nella guerra necessarie. E Senoronte, nella vita di Ciro, mostra che andando Ciro ad assaltare il re d'Arme- nia, nel divisare quella fazione, ricordò a quelli suoi, che quesla non era altro che una di quello cacce le quali molte volle avevano fatte seco. E ricordava a quelli che mandava in aguato in su i monti, che gli erano simili a quelli ch'an- davano a tendere le reti in su i gioghi ; ed a quelli che scor- revano per il piano, che erano simili a quelli che andavano a levare dal suo covile la fera, acciocché, cacciata, desse nelle reti. Questo si dice per mostrare come le cacce, secondo che Senofonte appruova, sono una immagine d' una guerra: e per Questo agli uomini grandi tale eserci&io è onorevole e neces- sario. Non si può ancora imparare questa cognizione de' paesi in altro comodo modo, che per via di caccia ; perchè la cac- cia fa a colui che l'usa, sapere come sta parlicolarraenlo quel paese dove ei l'esercita. E fatto che uno s'è familiare bene una regione, con facilità comprende poi tulli i paesi nuovi ; perchè ogni paese ed ogni membro di quelli hanno insieme qualche conformila, in modo che dalla cognizione d'uno facilmente si passa alla cognizione dell'altro. Ma chi non ne ha ancora bene pratico uno, con di(ricollà,anzi non mai se non con un lungo tempo, può conoscer l'altro. E chi ha questa pratica, in un voltar d'occhio sa come giace quel pia- no, come surge quel monte, dove arriva quella valle, e tulle

LIBRO TERZO. 407

l'altre simili cose, di che ei ha per lo addietro fallo una fer- ma scienza. E che queslo sia vero, ce Io moslra Tilo Livio con lo essempio di Publio Decio;il quale essendo Tribuno de' soldati nello esercito che Cornelio consolo conduceva centra ai Sanniti, ed essendosi il Consolo ridotto in una valle, dove l'esercito dei Romani poteva dai Sanniti esser rinchiuso, e vedendosi in tanto pericolo, disse al Consolo: Vides (u, Àule Co'rneli, cacumen illud supra hoslem ? arx illa est sjpei salutis- que noslroB, si eam {quoniam cosci reliquere Samniles) impigre capimus. Ed innanzi a queste parole dette da Decio, Tito Li- vio dice : Publius Decius , Iribunus mililum , unum edilum in sallu collem, imminenlem hoslium caslris, adilu arduum impe- dito agmini, expedilis haud difficilem. Donde, essendo stalo mandato sopra esso dal Consolo con tremila soldati, ed avendo salvo l'esercito romano; e disegnando, venendo la notte, di partirsi, e salvare ancora ed i suoi soldati, gli fa djre que- ste parole: Ile mecum, ut dum lucis aliquid superest, quibus locis hostes prcesidia ponant, qua pateal hinc exilus, explore- mus. Hcec omnia sagulo militari amiclus, ne ducem circuire hostes notarent y perluslravit. Chi considererà, adunque, tutto questo testo, vedrà quanto sia utile e necessario ad un capitano sapere la natura de' paesi : perchè se Decio non gli avesse sapuli e conosciuti, non arebbe potuto giudicare qual utile faceva pigliare quel colle allo esercito Romano ; arebbe potuto conoscere di discosto, se quel colle era accessibile o no; e condotto che si fu poi sopra esso, volendosene partire per ritornare al Consolo, avendo inimici intorno, non arebbe dal discosto potuto speculare le vie dello andarsene, e li luoghi guardati dai nimici. Tanto che, necessità conveniva, che Decio avesse tale cognizione perfetta: la qual fece che con il pigliare quel colle, ei salvò l'esercito romano; dipoi seppe, sendo assedialo , trovare la via a salvare , e quelli che erano stali seco.

Cap. XL. Come usare la fraude nel maneggiare I(i guerra è cosa gloriosa.

Ancoraché usare la fraude in ogni azione sia detestabi- le, nondiraanco nel maneggiar la guerra è cosa laudabile e

408 DEI Disconsi >

gloriosa ; e parimente è laudato colui che con fraude supera il nimico, come quello che M supera con le forze. E vedasi questo per il (giudizio che ne fanno coloro che scrivono lo vite degli uomini grandi, i quali lodano Annibale, e gli altri che sono stali notabilissimi in simili modi di procedere. Di che per leggersi assai essempi, non ne replicherò alcuno. Dirò solo questo, che io non intendo quella fraude essere gloriosa, che ti fa rompere la fede data ed i patti falli ; perchè que- sta, ancora che la li acquisti qualche volta slato e regno, come di sopra si discorse, la non li acquisterà mai gloria. Ma parlo di quella fraude che si usa con quel nimico che non si fida di te, e che consìste proprio nel manesgiare la guerra: come fu quella d'Annibale, quando in sul lago di Perugia simulò la fuga per rinchiudere il Consolo e lo esercito romano; e quando, per uscire di mano di Fabio Massimo, ac- cese le.corna dello armento suo. Alle quali fraudi fu simile questa che usò Ponzio capitano dei Sanniti, per rinchiudere l'esercilo romano dentro alle forche Caudine: il quale avendo messo lo esercito suo a ridosso dei monti, mandò più suoi •oldali sotto vesti di pastori con assai armento per il piano ; i quali sendo presi dai Romani, e domandali dove era l'eser- cilo dei Sanniti, convennero lotti, secondo l* ordine dato da Ponzio, a dire come egli era allo assedio di Nocera. La qual cosa creduta dai Consoli, fece ch'ei si rinchiusero dentro ai balzi caudini ; dove entrali, furono subito assediati dni San- niti. E sarebbe stala questa vittoria, avuta per fraude, glorio- sissima a Ponzio, se egli avesse seguitali i consigli del padre; il quale voleva che i Romani o si salvassino liberamente, o si aromazzassino tulli, e che non si pigliasse la via del mcz- fo, qua neque amieos parai, neque inimicot lollU. La qual via fu sempre perniziosa nelle cose di slato ; come di sopra in allro luogo si discorse.

Cap. XLL Che la palria si debbe difendere o con ignominia 0 con gloria; ed in qualunque modo è ben difesa.

Era, come di sopra s'è detto, il Consolo e l' esercito ro- mano assedialo dai Sanniti : i quali avendo proposto ai Ro-

LIBRO TERZO. 400

mani condizioni ignominiosissime; come era , volergli met- tere soUo il giogo, e disarmali mandargli a Roma: e per questo stando i Consoli come attoniti, e tutto l'esercito di- sperato; Lucio Lentolo legato romano disse, che non gli pareva che fusse da fuggire qualunque partito per salvare la patria: perchè, consistendo la vita di Roma nella vita di quello esercito, gli pareva da salvarlo in ogni modo; e che la pa- tria è ben difesa in qualunque modo la si difende, o con ignominia o con gloria: perchè salvandosi quello esercito, Roma era a tempo a cancellare l'ignominia; non si sal- vando, ancora che gloriosamente morisse, era perduta Roma e la libertà sua. E cosi fu seguitato il suo consiglio. La qual cosa merita d'esser notata ed osservala da qualunque citta- dino si Iruova a consigliare la patria sua: perchè dove si di- libera al tutto della salute della patria, non vi debbe cadere alcuna considerazione di giusto di ingiusto, di pie- toso, né di crudele, di laudabile, di ignominioso; anzi, posposto ogni altro rispetto, seguire al lutto quel partito che li salvi la vita, e mantenghile la libertà. La qualcosa è imitata con i detti e con ì fatti dai Franciosi, per difendere la maestà del loro re e la potenza del loro regno; perchè nes- suna voce odono più impazientemente che quella che dicesse: il tal partilo è ignominioso per il re ; perché dicono che il loro re non può patire vergogna in qualunque sua dilibera- zione, 0 in buona o in avversa fortuna: perchè se perde o se vince, lutto dicono esser cosa da re.

Gap. XLIL Che le promesse falle per forza, non, si debbono osservare.

Tornati i Consoli con l'esercito disarmato e con la ri- levuta ignominia a Roma, il primo che in Senato disse che la pace fatta a Caudo non si doveva osservare, fu il consolo Spurio Postumio; dicendo, come il Popolo romano non era obbligato, ma ch'egli era bene obbligalo esso, e gli altri che avevano promessola pace: e però il Popolo volendosi li- berare da ogni obbligo, aveva a dar prigione nelle mani dei Sanniti lui, e tutti gli altri che l'avevano promessa. E con

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410 DEI DISCORSI

lanla ostinazione (enne questa conclusione, che il Sonalo ne fu contento; e mandando prigioni lui e gli altri in San- nio, protestarono ai Sanniti, la pace non valere. £ tanto fu in questo caso a Postumio favorevole la fortuna, che i Siin- nili non lo ritennero; e ritornato in Roma, fu Postumio ap- presso ai Romani più glorioso per a\ere perduto, che non fu Ponzio appresso ai Sanniti per aver vinto. Dove sono da notare due cose: Tuna, che in qualunque azione si può ac- quistar gloria , perchè nella vittoria s'acquista ordinaria- mente; nella perdita s'acquista o col mostrare tal perdila non esser venula per tua colpa, o per far subito qualche azione virtuosa che la cancelli: V altra è, che non è vergo- gnoso non osservare quelle promesse che li sono slate falle promettere per forza ; e sempre le promesse forzate che riguardano * il pubblico, quando e* manchi la forza , si rom- peranno, e Ga senza vergogna di chi le rompe. Di che si leggono in tutte T istorie vari cssempi,c ciascuno di nc'pro- scnli tempi se ne veggono. E non solamcnle non si osser- vano inlra i principi le promesse forzate, quando c'manca la forza; ma non si osservano ancora tulle Tallre promesse, quando e' mancano le cagioni che Io fanno promcUere.il che se è cosa laudabile o no , o se da un principe si debbono osservare simili modi o no, largamente è dispulalo da noi nel nostro trattalo del Principe: però al presente lo taceremo.

Gap. XLIII. Che gli uomini che nascono in una provincia, m osietxano per tulli i lempi quasi quella medesima nalura.

Sogliono dire gli uomini prudenti, e non a caso ìm- mcritamenlc, che chi vuol veder quello che ha ad essere, consideri quello che è stalo ; perchè tulle le cose del mondo, in ogni tempo, hanno il proprio riscontro con gli antichi tempi. Il che nasce perchè essendo quelle operale dagli uo- mini, che hanno ed ebbero sempre le medesime passioni, conviene di necessità che le sorlìschino il medesimo elTclto. Vero è, che le sono l'opere loro ora in questa provincia più

< Erroneamente la Bladiana: rtggumrdmndoj pare ioditio dir l'Autore scrivesse raggiiardano. , *

LIBRO TERZO. , 411

virtuose che in quella, ed in quella più che in questa , se- condo la forma delia educazione nella quale quelli popoli hanno preso il modo del viver loro. Fa ancora facililà il conoscere le cose future per le passate; vedere una nazione lungo tempo tonerei medesimi costumi, essendo oconlinova- raente avara, o continovamente fraudolenta, o avere alcun al- tro simile vizio o virtù. E chi leggerà le cose passate della nostra città di Firenze, e considererà ancora quelle che sono ne' prossimi tempi occorse, troverà i popoli tedeschi e fran- ciosi pieni d'avarizia, di superbia, di ferocia e di infedelità; perchè tutte queste quattro cose in diversi tempi hanno of- feso molto la nostra città. E quanto alla poca fede, ognuno sa quante volte si delle danari al re Carlo Vili, ed egli pro- metteva rendere le fortezze di Pisa, e non mai le rendè. In che quel re mostrò la poca fede, e la assai avarizia sua. Ma lasciamo andare queste cose fresche. Ciascuno può avere in- teso quello che segui nella guerra che fece il popolo fioren- tino centra ai Visconti duchi di Milano; che essendo Firenze privo degli altri espedienti, pensò di condurre l'imperadore in Italia, il quale con la riputazione e forze sue assaltasse la Lombardia. Promise l' imperadore venire con assai gente, e far quella guerra contra ai Visconti, e difendere Firenze dalla potenza loro, quando i Fiorentini glidcssino centomila ducali per levarsi, e centomila poi che fusse in Italia. Ai quali patti consentirono i Fiorentini; e pagatogli i primi da- nari, e dipoi i secondi, giunto che fu a Verona, se ne tornò indietro senza operare alcuna cosa, causando esser restato da quelli che non avevano osservato le convenzioni erano fra loro. In modo che, se Firenze non fusse stata o constretla dalla necessità o vinta dalla passione , ed avesse letti e co- nosciuti gli antichi costumi de' barbari, non sarebbe stata questa molle altre volte ingannata da loro; essendo loro stali sempre a un modo , ed avendo in ogni parte e con ognuno usati i medesimi termini. Come e* si vede eh' e' fecero anticamente ai Toscani ; i quali essendo oppressi dai Romani , per essere stati da loro più volte messi in fuga e rotti; e veggendomedianli lelor forze non poter resistere al- l' impeto di quelli; convennero con i Franciosi che di qua dal-

412 nn Disconsi

r Alpi abilavano in Ilalia, di dar loro somma di danari, e clic tassino obbligati congiognere gli eserciti con loro . a] andare conlra ai Romani: donde ne segui che i Franri* ì da

nari, non volleno dipoi pigliare l'arme per loro. iverli

avoli non per far guerra coi loro nimici, ma perchè s'aste* neMÌoo di predare il paese toscano. E così i popoli toscani, per raftrixia e poca fede dei Franciosi, rimasono ad un tratto privi de* loro danari, e degli «ioti che gli speravano da quel- li. Talché si vede per qvedoessempio dei Toscani antichi, e per quello de' Fiorentini, I Franciosi avere usati i medesimi termini; e per queslo facilmente si può conietlarare, qaanto I principi si posaooo ftdaft di loro.

Caf. XLIV. B'ttonifne con Vimptlo t con t audacie molto tolte quello che con modi ordinari non ti oUerrehbe mai,

Batendo i Sanniti assaltali dallo esercito di Roma , e B0« polendo con V esercito loro alare alla canpegna a petto ai BooMoi, diliberarono, laiciale foardaìe le terre in San- nio, di passare rnn tulio l'esercito loro in Toscana, la quale era in (riegoa coi Romani ; e vedere per tal passala , se ci potevano con la pre<cnza dello esercito loro indurre i To- acani a ripigliar 1* arme ; il che avevano negato ai loro aro- tasciadori. B sei parlare che feciono i Sanniti ai Toscani, nel mostrar, massime, qual cagione gli aveva indotti a pi> gliar renne, usarono un termine notabile, dove dissono: BMIma, f«otf pax terrienlibut grarior, quam liberii bellitm essai. B cosi, parte con le persuasioni, parte con la presenza dello esercito loro, gli indussooo a pigliar 1* arine. Dove è da notare, che quando un principe disidera d'ottenere una cosa da un altro, dcbbe, se l'occasione lo patisce, non gli dare spatio a dilibcrarsi, e fare in modo ch'ei vegga la ne- cessiti della presta diliberazione ; la quale é quando colui che è domandato vede che dal negare o dal differire ne na- sca una subita e pericolosa indegnazlone. Questo termine a'é veduto bene osare nei nostri tempi da papa folio con i Franciosi, e da monsignor di Fois capitano del re di Francia col marchese di Mantova: perchè papa lulio volendo cac-

LIBRO TEPiZO. 413

ciare ì Benlìvogli di Bologna, e giudicando per questo aver bisogno delle forze franciose, e che i Viniziani slessino neu- trali; ed avendone ricerco l'uno el'allro, e traendo da loro risposta dubbia e varia; diliberò col non dare lor tempo far venire 1' uno e l' altro nella sentenza sua: e partitosi da Roma con quelle tante genti ch*ei potò raccozzare, n'andò verso Bologna, ed a'Viniziani mandò a dire che stessino neutrali, ed al re di Francia che gli mandasse le forze. Talché, rima- nendo tulli ristretti dal poco spazio di tempo, e veggendo come nel papa doveva nascere una manifcsla imlegnazione dilTerendo o negando, cederono alle voglie sue; ed il re gli mandò aiuto, ed i Viniziani si stettono neutrali. Monsignor di Fois, ancora, essendo con l'esercito in Bologna, ed avendo inlesa la ribellione di Brescia, e volendo ire alla ricupera- zione di qtiella, aveva due vie; I' una per il dominio del re, lunga e tediosa; l'altra brieve per il dominio di Mantova: e non solamente era necessitalo passare per il dominio di quel marchese, ma gli conveniva entrare per certe chiuse intra paludi e laghi, di che è piena quella regione, le quali con fortezze ed altri modi erano serrale e guardate da lui. Onde che Fois, diliberalo d'andare per la più corta, e per vincere ogni dilTicullà dar tempo al marchese a dilibcrarsi, ad un trailo mòsse le sue genti per quella via, ed al marchese signiGcò gli mandasse le chiavi di quel passo. Talché il mar- chese, occupato da questa subila diliberazione, gli mandò le chiavi: le quali mai gli arebbe mandale se Fais più lepida- mente si fusse governalo, essendo quel marchese in lega col papa e coi Viniziani, ed avendo un suo figliuolo nelle mani del papa; le quali cose gli davano molle oneste scuse a negarle. ' Ma assalalo dal subilo parlilo, per le cagioni che di sopra si dicopo, le concesse. Così feciono i Toscani coi Sanniti, avendo per la presenza dell'esercito di Sannio preso quelle arme che gli * avevano negalo per altri tempi pi- gliare.

* Il Poggiali e l'eilizione del 4813: fl «eg'ar^.

2 J^'ediiioiii anledcUe: eh' eg/inojh Testina: ch'egli.

35'

414 DO DISCORSI

Gap. XLY. Qual sia migìiitr piuiUo neUe giornale, o toslr- neri V imptf éf NÓRÙrt ; « «o«(cfiM(o iirf«rytf, MMp éop- prima ctm ^«rM mml\ar(ji\\. ^

é

Erano Decio e Fabio, consoli romani, con due escrcili air incontro degli eaercili dei Sanniti e dei Toscani; e ve- nendo alla toffa ed alla giornata inaiene, è da Miare in lai faiione, qoaie di doe diversi nmli di procedere tenuti dai » dnt e— tnli fH ailliirt. Perché Perlo con ogni impelo e CM ogai ano Um» «mllò il nimico; Fabio solamonte !• aos- tenne, giudicando rataflto ItdWeaatre pia ntlle, riserbando r impelo Mo Mirollimo, qoando il nimico «vcMe perdilo il primo artfift del combattere, e cooio noi dieioao, In «m foga. Doto ii Todo, por il socaaiao d4|| coM, cbo a FoMo rioacl Bollo Meglio lldiatgno cbo a Ooelo: il qoalo ti tlraecò nei primi impeti; in modo cbe, vedendo la banda ava piollo* sto in volta cbe altrimenti, per acquistare eoo la Mori gloria alla quale con la vittoria non aveva pelalo gore, ad imitacione del padre tacfiOcd ae alette per le ro. mane legioni. La qoal coea ialeaa da Fabio, per non acqui - ftlarc manco onoro vivendo, elM t'avesse il suo collafi acquistato morcn«1o, epioM* innanii tolte quelle foqpe clio s'aveva a tale gKetsitA flaervate; «iondc no riporl* ooa ftlicissima vittoria. Di qui al vede che 'I modo del procedere di Fabio é più sicuro e piò irnHabile.

Càp. XI. VI. Dondi naacf ck» unm fami j tu m una cuia tìem «n frmpe I widfrtail cottumi.

E* pare che non aolamenle l' ona città dall' allra ahhi certi mo<Ji ed instituti diversi, e procrei uomini o piA duri o pia eOeminati, ma nella medesima citti ti vede tal diflérenia etser nelle famiglie 1' una dall* altra. 11 che si riscontra et- 8ere vero io ogni città, e nella città di Roma te no lafgoso assai essempi: perché e' ti vede i Maolii eft<>ere alati dori ed ostinati, i Publicoli uomini l>eni^ni ed amalorì del popolo, gli Appli ambiziosi e nimlci della Plebe: e cosi molle altre

LIBRO TERZO. 415

famiglie avere avute ciascuna le qualità sue spartite dall' al- tre. La qual cosa non può nascere solamente dal sangue, perchè e* conviene ch'eivarii mediante la diversità dei ma- trimonii; ma è necessario venga dalla diversa educazione che ha una famiglia dall' altra. Perchè gì' importa assai che un giovanetto dai teneri anni cominci a sentir dire bene o male d'una cosa; perchè conviene che di necessità ne faccia im- pressione, e da quella poi regoli il modo del procedere in tutti i tempi della vita sua. E se questo non fosse, sarebbe impossibile che tutti gli Appli avessino avuto la medesima voglia, e fussino stati agitati dalle medesime passioni, come nota Tito Livio in molti di loro: e per ultimo, essendo uno di loro falto Censore, ed avendo il suo collega alla fine de' diciotto mesi, come ne disponeva la legge, deposto il magi- strato. Appio non lo volle deporre, dicendo che lo poteva tenere cinque anni secondo la prima legge ordinata dai Cen- sori. E benché sopra questo se ne facessero assai concioni , e se ne generassino assai tumulti, non pertanto ci fu mai rimedio che volesse deporlo, centra alla volontà del Popolo e della maggior parte del Senato. E chi leggerà 1' orazione che gli fece centra Publio Sempronio tribuno della plebe, vi noterà tutte V insolenze appiane, e tutte le bontà ed umanità usate da infiniti cittadini per ubbidire alle leggi ed agli au- spicii della loro patria.

Gap. XLVIL Che un buon ciltadino per amor della patria debbe dimenlicare V ingiurie privale.

Era Manlio consolo con l'esercito centra ai Sanniti; ed essendo stato in una zuDTa ferito, e per questo portando le genti sue pericolo, giudicò il Senato esser necessario man- darvi Papirio Cursore dittatore, per supplire* ai difetti del Consolo. Ed essendo necessario che '1 Dittatore fusse nomi- nato da Fabio, il quale era con gli eserciti in Toscana; e dubitando, per essergli nimico, che non volesse nominarlo; gli mandarono i Senatori due ambasciadori a pregarlo, che, posti da parte gli privati odii, dovesse per benefizio pubblico

* Cosi ucUa Bladiana e nella Testina.

416 l»t( DtM^unsi

nominarlo. Il che Fabio fece, mosso dalla carità della palrin;

ancora che col lacere e con molli altri modi facesse scialo

' - '-!o «omioazione gli prtMMne. Dai qvaledtèbono pigliare

io ludi quelli, diie €creaa« d*ctteft ItnuU buoni

, uUadioi.

Cap. XLVIILr- Qtitmio «i rtét fmn «no errort fremii td •u ìdmieà, fi MW crtéen rW vi tm toU^

BfltMido rimato Polfio Legato oello ctercilo cIm i im- mani a?e?ano te Tofeaaa, per eeacr ite il CoMote peralewie cerimonie a Roma; i Tosca oi, per vedere m potevano tTere quello alla tratta, paaani nn afnato propteqoo ai campi ro- mani, e maniaroao alcnni tnldali eoa vnalo di paateri con assai armento, e ali fectaiM taiiira alla vi«ia dello esor ti > romano: i qoali cosi InifMlili ai acco«laronn slloaleetalo !• i n «adt il Infiala eNrafigliandoai di qnesta loro pre- MS fH ptfMdo f»fi«Mvate» Uano modo eh* agli te Dramte; aaal raalè il diaan» ^' Toaeani rollo. Q«i ai p«è comodamcate notare, cIm m capiteM di aaereiii noa deMm prealar teda ad «no crrara cka aridealeiBante si %esga fare al nimiro: perchè «ampra vi sarà aotto frafMte. non aeodo ragionavate ehe gli nomini aiano tanto. incauti. Ila spamn il daahtarla dal t incere accaca gli animi degli uo- mini, che non vcaeono aHro eha quello pare facci per tero. I Vrancioti adendo vinti i loaaai ad Allia, a vaatada a Roma, e trovando le porte aperte q. senta guardia, aletlern lutto qoel giorno e la notte tenia entrarvi, temendo di frau- de, e aoa potendo cradara thè fcaaa tenia viltà e tenia poco coaaiflte aa' palli rooMai, che sii abbandonas«ino la palria. Qaaada aal fiat a*aadè per gli Fiorentini a Pita a campo, Alteaao del Mutolo, cittadino pisano, si trovava prifiaaa dei Piataalini, e promise che s* eali era libero, darebbe aaa parla di Pisa air esercito fiorenlioo. Fo costui libero. Dipoi, per pralicara te coaa, venne molle Tolte a partera coi a|aadali de*co«mittan; a veniva aoa di aaaaatte, tcapartet ad accompagnato dt* Pisani ; i quali bsctava da perle, qaaadn parlava coi Fiorcntiol Taimcniechè ti ledeva contellararc

LIDRO TERZO. 417

il SUO animo doppio; perchè non era ragionevole, se la pra- tica fusse stala fedele, ch'egli l'avesse trattala alla scoper- ta. Ma il disiderio che s'aveva d'aver Pisa, accecò in modo i Fiorentini , che condottisi con l' ordine suo alla porta a Luc- ca, vi lasciarono più loro capi ed altre genti con disonore loro, per il tradimento doppio che fece detto Alfonso.

Gap. XLIX. Una repubblica, a volerla manlenere libera, ha ciascuno di bisogno di nuovi provvedimenti ; e per quali merili Quinto Fabio fu chiamalo Massimo.

Edi necessità, come altre volte s*é dello, che ciascuno in una città grande naschino accidenti che abbino biso- gno del medico; e secondo che gli importano più, conviene trovare il medico più savio. E se in alcune città nacquero mai simili accidenti, nacquero in Roma e slrani ed insperati; come fu quello quando e' parve che tutte le donne romane avessino congiuralo contra ai loro mariti d'ammazzargli: tante se ne trovò che gli avevano avvelenati , e tante eh' ave- vano preparato il veleno per avvelenargli. Come fu ancora quella congiura de' Baccanali, che si scoprì nel tempo della guerra macedonica, dove erano già inviluppati molti* mi- gliaia d'uomini e di donne; e se la non si scopriva, sarebbe stata pericolosa per quella città; o seppure i Romani non fussino stati consueti a gasligare le moltitudini degli uomini erranti: perchè, quando e' non si vedesse per altri infiniti segni la grandezza di quella Repubblica, e la potenza delle esecuzioni sue, si vede per la qualità della pena che la im- poneva a chi errava. dubitò far morire per via di giusti- zia una legione intera per volta, ed una città tutla; e di confinare otto o diecimila uomini con condizioni straordina- rie, da non essere osservate da un solo, non che da tanti: come intervenne a quelli soldati che infelicemenle avevano combattuto a Canne, i quali confinò in Sicilia, e impose loro che non albergassino in terre, e che mangiassino ritti. Ma di tulle l'altre esecuzioni era terribile il decimare gli eser-

* Cosi nella Bladiana e nella Testina. Nelle moilerue sollanlo è la Hcsiucuza femminile inyiliqypate molte.

41S I>^I DISCORSI

citi, dove a sorte da tulio uno escrcilo era morlo d'ogni dieci uno. si polcva a gasligare una molliludine trovare più spaventevole punizione di questa. Perchè quando una molli- ludine erra, dove non sia l'autore certo, tulli non si possono gastfgare, per esser troppi; punirne parte e parte lasciare impuniti, si farebbe torto a quelli che si puniésino, e gli im- puniti arebbono animo di errare un'altra volta. Ma ammaz- zare la decima parte a sorte, quando tulli la meritano, chi è punito si duole della sòrte; chi non è punito, ha paura che un'altra volta non tocchi a lai, e guardasi di errare. Fu- rono punite, adunque, le venefiche e le baccanali secondo che meritavano i peccati loro. R benché questi morbi in una repubblica faccino cattivi elTctti, non sono a morte, perché sempre quasi s* ha tempo a correggerli: ma non s' ha già tempo in quelli che riguardano lo stato, i quali se non sono da un prudente corretti, rovinano la città. Erano in Roma, per la liberalità che i Romani usavano di donare la civilità a' forestieri , nate tante genti nuove, che le cominciavano avere tanta parte ne'sulTragi, che '1 governo cominciava a variare, e partivasi da quelle cose e da quelli uomini dove era consueto andare. che accorgendosi Quinto Fabio che era Censore, mr^ssc tutto queste genti nuove da chi dipen- deva questo disordine sotto quattro Tribù, acciocché non polcssino, ridotle in si piccioli spati,* corrompere tutta Roma. Fu questa cosa ben conosciula da Fabio, e postovi senza «Iterazione conveniente rimedio; il quale fu tanlo ac- cetto a quella civilità,* che meritò d'esser chiamalo Mas- simo.

' La Tellina, colle moderne : ti picco!» tpazio.

' Nel nostro esemplare della Teslioa, è tcriUo a penna qui dirimpcUo: città.

FL^fi.

419 irVDICK DEL VOLIJIE.

Avvcrliniento tlell'Edilore Pag. v

Sul Libro del Principe, Considerazioni del prof. Andrea Zimbelli. . . . vii-lxi

IL. PIUMCIPE.

Niccolò Macliiavelli al Magnifico Lorenzo di Piero de' Medici. 3

Capitolo I. Quante siano le specie de' principati , e con quali modi si

acquistino. 5

IL- De' principati ereditari ivi

HI. De' principati misti G

IV. Perchè il regno di Dario da Alessandro occupato, non si ri- bellò dalli successori di Alessandro dopo la morte sua. . . 43

V. In che modo siano da governare le città o principati, quali,

prima che occupati fussino , vivevano con le loro leggi. . . i5

VI. De'principati nnovi, che con le proprie armi e virtù s'acqui-

stano -IG

VII. De'principati nuovi, che con forze d'altri e per fortuna

s'acquistano id

Vili. Di quelli che per scelleratezze sono pervenuti al principato. 25

IX. Del principato civile 29

X. In che modo le forze di tutti i principali si delibino nìisurare. 32

Xf. De'principati ecclesiastici 3't

XII. Quante siano le spezie della milizia, e de' soldati mercenari. . 36

XIII De' soldati ausiliari, misti e propri 40

XIV. Quello che al Principe si appartenga circa la milizia 43

XV. Delle cose mediante le quali gli uomini, e massimamente i

Principi , sono laudali o vituperati Ah

XVI. Della liberalità e miseria.' 47

XVII. Della crudeltà e clemcuzia, e s'egli è meglio essere amato

o temuto 49

XVIII. In che modo i Principi delrbiano, osservare la ftie 51

XIX. Che si debbe fuggire lo essere disprezzalo e odiato 64

XX. Se le fortezze, e molte altre cose che spesse volte i Principi

fanno, sono utili o dannose 62

XXI. Come si debba governare un Principe per acquistarsi riputa-

zione 66

XXII DcUi segretari de' Piincipi 61)

XXIII. Come si debbino fuggire gli adulatori 70

XXIV. Perchè i Principi d'Italia abbino perduto i loro stati 72

XXV. Quanto possa nelle umane cose la fortuna , e in chq modo se

gli possa ostare jt /, . , 73

XXVI. Esortazione a liberare l' Italia «'>' barbari 76

420 KNDICE.

DI TITO LIVIO.

Kicrolù MachuTclli a Zanobi Booodelmonti a Cosimo Rucelhi salute. Pag S3 LIBRO rniMo.

Caf. I. Quali siano siati aniversalmeDle i friocipii di qualunque città,

e quale foste quello di Roma. 87

II. Di quante sptsie tono le rrpuMilirlie , e di quale fu la 'Rrpuli- «

blira Romana 90

III. Quali accidenti racessino creare in Roma i Tri Inini' della plebe;

il che fece la Repubblica più perfetta t ^^

IV. Che la disunione della Plebe e del Senato rodano fece libera e

potente quella Repubblica. 97

V. Dove più seruramente si ponga la guardia della fllttrtà, 9 nel

Popolo o ne* Grandi j t quali hanno maggiore cagione di tumultuare, o chi vuole acquistare o chi vuole mantenere. . . 90

VI. Se in Roma ti poteva ordinare uno ttato che toglieue «ia le

inimicitie intra il Popolo ed il Senato ^ . 101

VII. Quanto siano necessarie in una repubblica le accuse per man-

tenere la libertà 100

VIII. Quanto le accuse sono ulilt alle repubbliche, tanto aono

pernitiose le calunnie 100

IX. Come egli è neceuario esser solo a Tolerc ordinare una repul»-

blica di nuovo, o al tulio fuqfi dclli antichi suoi ordini riformarhl. 1 II

"X. Quanto sono laudabili i fondatori d' una repubblica o d' uno

regno, tanto quelli d'una tirannide sono vituperabili. . . 114

"Xl. Della religione de* Romani ' 117

XII. Di quanta importanca sia tenere conto della religione, e coma

la Italia per esserne mancata mediante la Chiesa romana, è roxinata 131

XIII. Come i Romani si servirono della religione per ordinare la cillii,

e perseguire le loro imprese e fermare i tumulti 131

XIV. I Romani Interpretavano gli auspicii secondo la necessità, e con

la prudenca mostravano di osservare la religione, quando fonati no* 1* ostervavano ; e se alcuno temerariamente la dispregiava. Io punivano 126

XV. Come i Sanniti, per estremo rimedio alle cose loro afflitte, ri-

corsono alla religione 138

XVI. Un popolo uso a vivere sotto un principe, te per qualche acci-

dente diventa libero, con dilHcuUà mantiene la libertà 129

INDICE. 421

Cap. XVII. Uno popolo corrotto , venuto in liberta , si può con difficoltà

grandissima mantenere libero Pag. 133

XVIII. In che modo nelle città corrotte si potesse mantenere uno stato

libero , essendovi; o non essendovi , ordinarvelo i3;>

XIX. Dopo un eccellente principe si può mantenere un principe

debole; ma dopo un debole, non si può con un altro debole mantenere alcun regno 138

XX. Due continove successioni di principi virtuosi fanno grandi ef-

fetti ; e come le repubbliche bene ordinate hanno di ne- cessità virtuose successioni : e però gli acquisti ed augu- menti loro sono grandi 14C'

XXI. Quanto biasimo meriti quel principe e quella repubblica che

. manca d'armi proprie 141

XXII. Quello che sia da notare nel caso dei tre Orazi romani, e dei

tre Curiazi albani i'iìi

XXIII. Che non si debbe mettere a pericolo tutta la fortuna e non tutte

le forze ; e per questo , spesso il guardare i passi è dan- noso 143

XXIV. Le repubbliche bene ordinate constituiscono premii e pene a'

loro cittadini , ne compensano mai V uno con l'altro. . . 145

XXV. Chi vuole riformare uno stato antico in una città libera, riten-

ga almeno 1' ombra de' modi antichi 146

XXVI. Un principe nuovo, in una città o provincia presa da lui, debbe

fare ogni cosa nuova 147

XXVII. Sanno rarissime volte gli uomini essere al tutto tristi o al tutto

buoni ■. . 14S

XXVIII. Per qual cagione i Romani furono meno ingrati agli loro citta-

dini che gli Ateniesi 44y

XXIX. Quale sia più ingrato, o un popolo , o un principe 150

XXX. Quali modi debbe usare un principe o una repubblica per fug-

gire questo vizio della ingratitudine ; e quali quel capitano

o quel cittadino per non essere oppresso da quella. . . . 153

XXXI. Che i capitani romani per errore commesso non furono mai

islraordinariamente puniti; ne furono mai ancora puniti quando , per la ignoranza loro o tristi partiti presi da loro , ne fussino segniti danni alla repubblica 455

XXXII. Una repubblica o un principe non debbe differire a beneficare

gli uomini nelle sue necessitati Ì5G

XXXIII. Quando uno inconveniente è cresciuto o in uno stato o contra

ad uno stato , è più salutifero partito temporeggiarlo che urtarlo 158

XXXIV. L'autorità dittatoria fece bene, e non danno, alla repub-

blica romana : e come le autorità che i cittadini si tol- gono, non quelle che sono loro dai suffragi liberi date, sono alla vita civile perniciose 100

XXXV. La cagione perchè in Roma la creazione del decemvirato fu

nociva alla libertà-di quella repubblica, non ostante che fosse creato per suffragi pubblichi e liberi 163

XXXVI. Non debbono i cittadini che hanno avuti i m,iggiori onori,

sdegnarsi de' minori 1G4

3G

432 ixoiCK.

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k iiMililiiii|-|i tif! 163

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XLVII. Oli MàM, «««ta «te tilif ■■ ii t'filiiill. Ma p«IÀ.

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Ift

INDICE. 4-23

Gap. LVI. lunauzi che seguino i grandi accidenti in una città o in una pro- vincia , vengono segni che gli pronosticano , o uomini che

gli predicono Pag. 203

. LVII La plebe insieme è gagliarda, di per se è debole 204

LVIII. La moltitudine è più savia, e più costante che vai principe.. . . 205 LIX. Di quali confederazioni , o lega , altri si può più fidare; o di

quella fatta con una repubblica, o di quella fatta con uno principe 210

LX, Come il consolato e qualunque altro magistrato in Roma si dava

fcnza rispetto di età 212

£.inBO (SECONDO.

Cap. L Quale fu più cagione dello imperio che acquistorono i Romani,

o la virtù, o la fortuna 217

II. Con quali popoli i Romani ebbero a combattere, e come ostina-

tamente quelli difendevano la loro libertà 221

IIL Roma divenne grande città rovinando le città circonvicine , e

ricevendo i forestieri facilmente a' suoi onori 227

IV. Le repubbliche hanno tenuti tre modi circa lo ampliare 22S

V. Che la variazione delle sètte e delle lingue, insieme con l'acci-

dente de' diluvi o delle pesti, spegne la memoria delle cose. 232

VI. Come i Romani procedevano nel fare la guerra 234

VII. Quanto terreno i Romani davano per colono 236

Vili. La cagione perchè i popoli si partono da' luoghi palrii, ed inon-

dano il paese altrui 237

.— IX. Quali cagioni comunemente faccino nascere le guerre intra i

potenti 240

X. I danari non sono il nervo della guerra , secondo che è la co-

mune oppinione 241

XI. Non è partito prudente Care amicizia con un priqcipe che abbia

più oppinione che forze 245

XII. S'egli è meglio, temendo di essere assaltato, inferire, o aspettare

la guerra 246

XIII. Che si viene di bassa a gran fortuna più con la fraude , che eoa

la forza . 249

XIV. Ingannansi molte volte gli uomini , credendo con la umiltà vin-

cere la superbia 251

XV. Gli slati deboli sempre fieno ambigui nel risolversi : e sempre

le deliberazioni lente sono nocive 252

' XVI. Quanto i soldati de' nostri tempi si disformino dalli antichi or- dini 255

XVII. Quanto si debbino stimare dagli eserciti ne'presenti tempi le ar-

tiglierie; e se quella oppinione, che se ne ha in univer- sale, è vera 258

XVIII. Come per l'autorità de' Romani, e per lo essempio della antica

milizia, si debbe stimare più le fanterie che i cavagli. . . '. 265

XIX. Che gli acquisti nelle repubbliche non bene ordinate, e che se-

condo la romana virtù non procedono, sono a rovina, non

a esaltazione d'esse 269

424 INDICE.

Gap. XX. Quale' pericolo porli quel principe o quella rcpuLLlica che »i

vale della milizia ausiliare o merceoaria Pag. 273

XXI. Il primo Pretore che i Romani mandarono in alcun luogo, fu

a Capova , dopo quattrocento anni che cominciarono far guerra 275

XXII. Quanto siano false molle volte le oppinioni degli uomini nel

giudicare le cose grandi 577

> XXUI. Quanto i Romani nel giudicare i sudditi per alcuno accidente

che necessitaue tal giudizio , fuggivano la via del metto. . 379

XXIV. Le fortette generalmente sono molto più dannose che utili. . . 2S3

XXV. Cbc lo assaltare una città disunita , per occuparla mediaott la

sua disunione , è partito contrario 980

XXVI. Il vilipendio e l'improperio genera odio contra a coloro che

l'usano, senta alcuna loro utilità Udì

XXVII. Ai principi e repubbliche prudenti debbe Lattari vincere; per-

chè il più delle volte quando non basti, si perde. S9t

XXVIII. Quanto sia pericoloso ad una repubblica o ad uno principe non

vendicare una ingiuria fatta cootra al pubblico « o eoo* ira al privato S95

XXIX. La fortuna accieca gli animi degli uomini, quando la non mole

che quelli si oppooghino a' disegni suoi. S97

XXX. Le repubbliche e gli principi veramente potenti non compe-

rano l'amicitie con danari, ma con la virtù e con la ri* putatiooc delle forte. 29i>

XXXI. Quanto sia pericoloso credere agli sbanditi 'ÒOi

XXXII. In quanti modi i Romani occupavano le terre 304

XXXIII. Come i Romani davano agli loro capitani degli eserciti le

commissioni libere , 807

LIBRO TESSO.

CAriToLo I. A volA-e che una tetta o una repobblica viva luogimeote , è

necessario ritirarla spesso verso il suo principio 309

il. Come gli è cosa sapientissima simulare in tempo la pattia. . . . 313

III. Come egli è necessario, a voler mantenere una libertà acqui-

stata di nuo%-o, ammazzare i figliuoli di Bruto 315

IV. Non vive sicuro un principe in un principato, mentre vivono

coloro che ne sono stati spogliati 316

V. Quello che fa perdere uno regno ad uno re che aia ereditsrio

di quello 317

VL Delle congiure 3iU

~ VII. Donde nasce che le mutazioni dalla libertà alla servitù, e dalia

servitù alla liliertà , alcuna n'è senza sangue, alcuna n'è

piena 339

•y ; VIII. Chi vuole alterare una repubblica, debbe considerare il soggetto

di quella 340

IX. Come conviene variare coi tempi , volendo sempre aver buona

fortuna 343

X. Che un capitano non può fuggire la giornata, quando l'avver-

sario la vuol fare in ogni modo 344

INDICE. 425

Gap. XI. Che chi La a fare con assai, ancora che sia inferiore, purché

possa sostenere i primi impeti, vince Pag. 348

XII. Come un capitano prudente debbe imporre ogni necessità di

combattere ai supi soldati, e a quelli delli nimici tórla . . 350

XIII. Dove sia più da con6dare, o in uno buono capitano che abbia

l'esercito debole, o in uno buono esercito che abbia il ca- ]^itano debole 353

XIV. Le invenzioni nuove che appariscono nel mezzo della zuffa, e

le voci nuove che si odono, quali effetti faccino 355

XV. Come uno e non molti siano preposti ad uno esercito , e come i

più comandatori offendono 357

XVI. Che la vera virtù si va ne' tempi difficili a trovare ; e ne' tempi

facili non gli uomini virtuosi , ma quelli che per ricchezze

o per parentado prevagliono, hanno più grazia. . ..... 359

XVII. Che non si offenda uno, e poi quel medesimo si mandi in

amministrazione e governo d' importanza 361

XVIII. Nessuna cosa è più degna d' un capitano, che presentire i par-

titi del nimico 362

XIX. Se a reggere una moltitudine è più necessario lo ossequio che

la pena 865

XX. Uno essempio d'umanità appresso ai Falisci potette più d'ogni

forza romana 366

XXI, Donde nacque che Annibale con diverso modo di procedere da

Scipione, fece quelli medesimi effetti in Italia che quello in Ispagna 367

XXII. Come la durezza di Manlio Torquato , e l' umanità di Valerio

Corvino acquistò a ciascuno la medesima gloria 370

XXIII. Per quale cagione Cammillo fusse cacciato di Roma 375

XXIV. La prolungazione degl* imperii fece serva Roma 376

XXV. Della povertà di Cincinnato , e di molli cittadini romani. . . . 377

XXVI. Come per cagione di femmine si rovina uno stato. 379

XXVII. Come e' si ha a unire una città divisa; e come quella oppi-

nione non è vera, che a tenere le città bisogna tenerle

^ disunite 380

XXVIII. Che si debbe por mente alle opere de' cittadini , perchè rrtolte volte sotto un'opera pia si nasconde un principio di ti* rannide 382

XXIX. Che gli peccati dei popoli nascono dai principi 384

XXX. Ad uno cittadino che voglia nella sua repubblica far di sua auto-

rità alcuna opera buona, è necessario prima spegnere l'in- vidia: e come, venendo il nimico, s'ha a ordinare la difesa d'una città 3S5

XXXI. Le repubbliche forti e gli uomini eccellenti ritengono in ogni

fortuna il medesimo animo e la loro medesima dignità. . . 388

XXXII. Quali modi hanno tenuti alcuni a turbare una pace 31)1

XXXIII. Egli è necessario, a voler vincere una giornata, fare l'esercito

conBdente ed infra loro, e con il capitano 302

XXXIV. Quale fama o voce o oppinione fa che il popolo comincia a fa-

vorire un cittadino : e se ei distribuisce i magistrati con maggiore prudenza che un principe 394

426 INDICE.

Cap. XXXV. Quali pericoli &i portino nel tarii cjpo a consigliare una cosa; e quanto ella ha più dello straordinario, mag- giori pericoli ri si corrono Pag. 398

XXXVI. La cagione perchè i Franciosi sono stali e sono ancora giu-

dicati nelle tufle da principio più che uomini, e di- poi meno che femmine, 400

XXXVII. Se le piccole battaglie innanzi alla gioroala sono uecestarie,

e come si debbe fare a coooscere uo nimico nuovo, volendo fuggire quelle 403

XXXVIII. Come debbe esser fatto un capitano nel quale Tesercito tuo

possa confidare 404

XXXIX. Che un capitano debbe esser conoscitore dei siti 406

XL. Coaie usare la fraude nel maneggiare la guerra è cosa glo-

riosa 407

XLI. Che ]a patria si debbe dilendcre o con ignominia o con glo-

ria : ed in qualunque modo e beo difesa 408

XLII. Che le promesse fatte per fona , non si debbono osservare. . . 409 - XLIir. Che gli uomini che nascono in una provincia, osservano per

tutti i tempi quasi quella medesima natura 410

XLIV. E' ti ottiene con 1* impeto e con l'audacia molte volle quello

che con modi ordinari non si otterrebbe mai 412

XLV. Qual sia miglior partito nelle giornate, o sostenere V impeto

de'nimici, e sostenuto urtargli; ovvero dapprima con furia assaltargli 414

XLVI. Donde nasce che una famiglia in una città tiene un tempo

i medesimi costumi ivi

-^ XLVII. Che un buon cittadino per amore della patria debbe di- menticare l'ingiurie private 415

XLVIII. Quando si vede fare uno errore grande ad un nimico , si

debbe credere che vi sia sotto inganno 416

•» XLIX. Una repubblica , a volerla mantenere libera , ha ciascuno di bisogno di nuovi provvedimenti ; e per quali meriti Quinto Fabio fu chiamato Massimo 417

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