NE , RIV i N PET) TI / È j ta VISA OA Dl pe” Il DI Si * tal pa: er | X \ hl 1 s a sà il SI 3 . ‘02 VE È Ù TR ì 0 »i a 4 DE. £ Lr, P + : | î v è RO I UTA to: i \ \ i I, ES Ì x ‘ \ \ i RIS, tro do: Ps INISTER 0 DI KÒRICOLTURA, “INDUSTRIA E COMMERCIO PET FORA TO DEL BONIFICAMENTO AGRARIO E DELLA COLONIZZAZIONE CESARE DE CUPIS. a O Du DELL AGRICOLTURA E DELLA ATA NELL'AGRO ROMANO | L'ANNONA DI ROMA GIUSTA MEMORIE, CONSUETUDINI E LEGGI cart | DESUNTE DA DOCUMENTI ANCHE INEDITI. SOMMARIO STORICO. . ROMA TIPOGRAFIA NAZIONALE DI G. BERTERO & C. Via Umbria 1911. p COMMISSIONE DI VIGILANZA per il bonificamento dell'Agro Romano Comm. prof. ing. Trro Pasqui, Direttore generale dell’ agricoltura, Presi- dente. On. prof. AnceLo CeLLI, Direttore del R. Istituto d’igiene nell'Università di Roma e Deputato al Parlamento. Comm. avv. Giovanni ANTONIO VANNI, Consigliere di Stato, rappresen- tante il Comune di Roma. Marchese ALBERTO DeL GaLLo Di RoccaGiOVvINE, rappresentante la Pro- vincia di Roma. Principe D. Luigi BoxcoMmPAGNI LUDOVISI, rappresentante dei proprietari. Principe D. Grovanni TorLonIA, Deputato al Parlamento, rappresentante dei proprietari. Comm. Lurei Venosta, Amministratore generale della Cassa Depositi e Prestiti. Comm. MarcELLo Borra, Direttore generale del Demanio, rappresentante il Ministero delle Finanze. Comm. dott. Aueusto MorTARA, Direttore generale del Debito Pubblico, rappresentante il Ministero del Tesoro. Comm. dott. AnceELO PAVONE, rappresentante il Ministero dell’Interno. Prof. AmiLcaRE FRACCHIA, Direttore della Cattedra ambulante di agricol- tura di Roma. Vast dire e a o Can POE " AGrsee; (8020000, Ingegnere capo dell’ Ufficio pel Tevere. ME rin «atea ZATTINI, Ispettore capo dell’ Ufficio per l’Agro Romano. Cav. Sprdi* *&tt10 BaLppOOtI, Ispettore nell’ Ufficio per l’Agro Romano. Sr ilo GRIS LTURA, INDUSTRIA E COMMERCIO » Gavi DI pira pei Ù ni 3 EL BONIFICAMENTO AGRARIO E DELLA COLONIZZAZIONE — —P———— I AL DELL'AGRICOLIURA E DELLA PASTORIZIA i Miivoni DI ROMA Ja GIUSTA MEMORIE, CONSUETUDINI E LEGGI DESUNTE DA DOCUMENTI ANCHE INEDITI n; si; SOMMARIO STORICO. MICROFORMED BY | PRESERVATION SERVICES DATE... MAY 1.2 .1992. ROMA TIPOGRAFIA NAZIONALE DI G. BERTERO & 0, Via Umbria 1911 INDICE del Sommario storico PARTE I. sat E RI RE ICI SV RAI RIC TOCCO Sx CREO IA NI ATIO Errata-corrige CE 1g E NE a RATTO TA Pe GI An AE Cap. I—- I primi abitanti di Roma - L’epoca dei Re - La Repubblica (Fino all'anno 80 avanti G.C.)............6» » II — Dall'impero di Augusto alla morte di Costantino (dall'anno 60 avanti G. C, all'anno 337 dopo G. C.). . . ........ » Ill — Le invasioni dei barbari - La desolazione della Campagna ro- miana (Arri: 400-741)... i... + gia i » IV — I Pontefici Zaccaria ed Adriano I - La proprietà ecclesiastica nell'Agro romano (Ann. 741-1100). . . . .. RIRLA OI Scade . V — Innocenzo II - Staffa artis agriculturae (Ann. 1130-1407) . . » WE Statut di Roma "(Ann '1960) . . da v# VII — Dal pontificato di Bonifacio IX a Giovanni XXIII - La Cam- pagna rom. nel principio del see. xv (Ann. 1309-1415). . . VIII — Da Martino V alla fine del Medio Evo (Ann. 1417-1499). . «. TX — Dal pontificato di Alessandro VI a Pio IV (Ann. 1492-1565). X —- I luoghi abitati nell’Agro romana ebbero i loro Statuti, gli usi civici nei loro territorì - Lite per la rivendicazione del di- ritto di pascolo, di semina e di legnatico - Da S. Pio V ad Innocenzo IX (Ann. 1566-1591). . . ........... XI — I Pontefici Clemente VIII, Leone XI e Paolo V (Ann. 1292 1621). XII — La Campagna romana dal pontificato di Gregorio XV a quello d'Innocenzo XI (Ann. 1621-1700) . . ........... XIII — Da Clemente XI a Clemente XLV (Ann. 1700-1774) . . . +. + XIV — L’Agro romano durante il pontificato di Pio VI (Ann. 1775-1799). 64 8 £ INDICE DEL SOMMARIO STORICO Cap. XV — La produzione della lana nella Campagna romana e l’arte dei lanaiuoli in Roma dal sec. xIV in poi. + + +. + + +... + » XVI — Sul quarto tomo inedito dell'opera « Memorie leggi ed osserva- zioni sulle campagne e sull’Annona di Roma » di Nicola Maria Nicolai + + + + è + è 0 0 0 0 0 0 0 a» 0 0 0 0 0 » XVII — Dal pontificato di Pio VII fino al terzo periodo di quello di Pio; EX(Ann: 1800-1810) RENI IE » XVIII — L’inizio del bonificamento dell'Agro romano - Conclusione . . Pag. 348 INDICE della Storia dei luoghi già abitati nell’Agro romano, nella zona della bonifica obbligatoria PARTE II. 1. Il Castello di Giovannipoli . . . . . + o 0 e al ele a e «00. « +! Pag ML Vico Alessandrino è . . . +... 00 nadia iatà Se ea seiEmatello dal'Onetani 2800 20 lite tana e » » 4. Roma Vecchia - La Villa dei Quintili. +. +... hate » 5. Il Castello di Castiglione ed il tenimento di Pantano. +. . +. +... +... » 6. Il Castello di Lunghezza . . ........ PA RAGS pal mata I pe E Ca N RARI Pe REA PA PA MARA PRA » sei Onatalio al Gorcolie: o'Goreollo 1 02. ra la ca e dhe ne » WI Castello: di S. Vittorino. +. LL eee ara. IMA » 10. « Domusculta » di S. Cecilia, nel tenimento di Pratolungo . +. . ..... » BERGAMO ATGIONe" +00 atta) let ERP MPS EI TE RI ’ 12. Il Castollo di Monto Gentile e Torricella +. . . . +... c0 000 06 . iuaiGantel Giubileo, + > dii uni ae ti ata IMTRAMIOR O di nz A 14. « Domusculta » di S. Leucio, a Tor di Quinto, . +. 8844 0 0a 15. « Castrum Valcae » salla V. Flaminia. +... .... + . gta) 16. Tor Pignattara -— Tor S. Giovanni e Centocelle . . . ..........+ » Mes. GHoranntrin Camporazio:. (i . » 1, Cola da Rienzo -. .... 487, » 16, Fentile Abbate. ..... 489, >» Ty Verelamnni :». 70/2 ia a 500, 525, » 6,dafrà Giovani ...... (1), Cod. Vat. Lat. 1886... ... ufaUnen 16, al'poveri. ......... » 9, didi quelle terre. ..... CORRIGE patrimonium agriculturao agriculturao Persico 8886 ai poveri esame Freccia e Giacomo Rebuffo Innocenzo VIII ne che alenna s'aggiunse riconducevano poi il bestiame quos Pistores Lavoratori avessero aiuto all'agricoltura Nip. Artigianelli, 1893. Qi 142,800 Cola di Rienzo Gentile Abbate Verclanum di quelle terre da frà Giovanni dai i Meta RECARE tà PIÙ si uk Li " d Pottir leo MRAZ mp” Vi, » PU si Mvghi EI fe dal lla eil * > LE ee rta fr : VII A ref; Vi ae uid AVRA I i Seti Ps IR SR ; | “e: COLLA ata Mae ali NI bo . . 4 è sli IR td: » Ì Ir i mirto ‘ i di Padihodo La LI È * 4 tI PARTE PRIMA SOMMARIO STORICO. - SOMMARIO STORICO sesta ut, quantum ad cognitionem rerum per- tinet, etiam praeteritis saeculis vixisse videamur. © QUINTILIANUS, Instit. orat., XIII, 4. Romanorum vero populum a pastoribus esse or- tum quis non dicit? Varg. II, 2. CapITOLO I. I primi abitanti di Roma — L’epoca dei Re — La Repubblica. (Fino all'anno 38 av. G. C.). Sulle origini di Roma, gli storici discordano nello stabilire a quale popolo abbiano appartenuto i suoi fondatori, ed i più recenti studi ci persuadono invero, che forse non è stata detta ancora l’ultima parola sulla questione. I primi nomini che abitarono questa parte del Lazio, condussero allo inizio una vita nomade, ma poi, lasciandusi guidare dal caso, fecero sosta in luoghi da natura muniti, quivi soffermaronsi vivendo di ladronecci, ed esercitando anche la pastorizia (1). Occuparono dapprima il Palatino ed il Saturnio, che oggi dicesi Campi- doglio. Una gran parte dei campi circostanti, era allora palustre, specialmente quella vicina al sacro lago, che, nella loro lingua, chiamarono Velia (2). Sul principio abitarono i colli sopradetti, recingendoli di mura e di fossati per difesa, e fino ai tempi di Augusto si ravvisarono gli avanzi dei primitivi ricoveri e delle stalle, che avevano servito ai primi pastori e ai primi bifolchi (3). (1) Dronisu HaLicar. Antig. Roman. Lib. IT, cap. 7. (2) Isr., lib. I. cap. 16. (3) Inn Antig. Roman. Lib. IT, cap. 76. 2 CAPITOLO I Di quelli restarono per lungo tempo le tradizioni, gli usi della vita, e, sopra tutto, i cognomi assunti dalle famiglie romane più antiche, come quelle dei Bu- bulci, dei Juvenci, dei Porcii, dei Pisumni, dei Satiri, dei Tauri, dei Vitelli, dei Caprastii, degli Ovini, degli Equizii, e molte altre (1). Romolo divise il primitivo territorio romano in tre parti, assegnandone una a sè stesso, come Re, e per uso del culto; la seconda ai privati, come proprietà; e la terza allo Stato, come demanio. Servio Tullio ratificò la divisione fra le diverse tribù rustiche, ed in quella occasione il territorio di Roma, fu denominato per la prima volta Agro Romano. Allora questo Agro — come dicemmo — era popolato da pastori e da bi- folchi, e gl’innumerevoli armenti costituivano l’unico patrimonio degli abitanti. Le prime feste istituite dai romani, trassero il loro nome dal bestiame, e furono le feste T'aurilie ed Equirie. Gli storici non sono d’accordo fra loro, sull'anno della fondazione di Roma; tutti però convengono, che avvenisse il giorno 21 di aprile, nel quale sì cele- bravano le feste Palilie o Parilie, come asseverano il grammatico Mario Vitto- rino, ed i calendari incisi in pietra (2). In quella circostanza, si eseguiva anche un censimento esatto di tutti i capi di bestiame, di qualsiasi specie. Quelle feste erano state istituite per invocare dagli Dei la prosperità delle greggi, e la fertilità dei campi, e per allontanarne ogni influsso maligno. Fra gli Dei, che proteggevano l’agricoltura, teneva il primato Saturno, il nume delle semente, venerato unitamente a Zua, la Dea che a vicenda o di- strusgeva i seminati, o ne risparmiava le malattie, e poichè i Romani avevano in sommo pregio l’agricoltura, così Saturno era anche adorato, quale distribu- tore di ricchezza e di benessere. \ Conso era venerato dagli agricoltori, come protettore degli animali da fatica, i cavalli. cioè gli asini e i muli, e con le corse appunto, si festeggiavano le Con- sualia, nei giorni 21 agosto e 15 dicembre. Al Dio agricolo era dedicato ‘un al- tare ai piedi del Palatino. (1) TrracueLLUus. De Nobil. Cap. 33, n. 10. (2) KEIL, pag. 25. « Parilia dicuntur, non Palilia ». : Vari autori confermano che le feste delle Parzlie coincidessero colla fondazione di Roma. Ciopro. De divin. II, 47, 98. VaRrRO. De re rustica, II, I, 9. Sii CAPITOLO I 3 Quale Dea dell'abbondanza dei raccolti era adorata Opi, che venne detta anche Consiva. Le feste Opiconsivia ed Opalia si celebravano tre giorni dopo quelle in onore di Conso. bi La prosperità delle greggi era tutelata dal Dio agreste Fauno. Nel principio del mese di maggio, si sacrificava a Maia perchè facesse cre- soere i frutti dei campi. E così per Cerere, che presiedeva all’abbondanza delle messi, nel giorno 19 aprile festeggiavansi le Ceralia. | Pale o Palatua era la dea dei pascoli : ed il nome di Palatino, sembra che possa avere attinenza col nome della Dea pastorale. Flora e Pomona furono ri- spettivamente le Dee dei fiori e dei frutti. n Egli è certo che il popolo romano, composto di ‘forti agricoltori, che con l'opera indefessa sapevano render così fruttifero il suolo della campagna, e pro- euravano di salvarsi dalla malaria, non solo con voti e sacrifici, in onore della | Dea Febre, ma anche con continui lavori diretti al prosciugamento delle acque stagnanti. Coltivavano specialmente il farro, col quale si nutrivano, e l'orzo che serviva per i loro cavalli, ed apparisce che in origine seminassero anche il fru- mento, o per lo meno che lo coltivassero sopra una limitata superficie. Così ci narra Plinio, che il primo cibo nel Lazio, fu il farro... ed è noto che i Romani vissero della polta, e non del pane (1). Di guisa che, il loro nu- trimento si componeva di una specie di polenta, preparata con farro, acqua e sale, che gli stessi Romani mangiavano insieme ai latticini ed erbaggi diversi. Soltanto dopo il mr secolo di Roma, i cittadini romani cominciarono ad usare il pane (2). Seminavano il grano, come nei tempi primitivi, poichè un campo lavora- vasi in un anno, e nel seguente lasciavasi in riposo. In seguito i Romani meglio che dall’agricoltura greca, appresero certo, da quella più diligente dei Cartaginesi, introducendo una rotazione per la quale, i campi erano coltivati per due anni consecutivi, e nel terzo lasciati a riposo: il che in oggi dicesi turno di terzeria. Nè, in quel tempo, i terreni — che per quota di ciascuno erano limitati a sette jugeri, ossiano ettara 1.76 — potevano dare un feddito esuberante a quanto era strettamente necessario per ciascuna (1) PLisnius. Hisfor. Nat, XVIII, 83, « primas antiqui Latii cibus (far)..... pulta autem, non pane vixisse longo tempore Romanos, manifestum est ». (2) Ibi, 62. ni 4 CAPITOLO I famiglia, tenendo conto dell’aratro imperfetto, che usavano, e dello insufficiente concime. \ La base della misura di superficie presso i Romani era. l’actus, ossia la lun- ghezza di un solco tracciato coll’aratro senza interruzione, avente la lunghezza di 120 piedi (m. 35.48). Una superficie quadrata che avesse quella misura per lato (actus quadratus) rappresentava tale una estensione di terreno, che un paio di buoi poteva arare in mezza giornata. Il doppio corrispondente ad un qua- drato, era chiamato jugero, e poteva essere arato da un sol paio di buoi in una giornata intera. Che se all’agricoltore romano mancava allora la cognizione dell’arte agraria, non faceva però difetto la volontà del lavoro; e s'affaticava sempre a solcare con l’aratro il terreno, avendolo prima concimato,» quando era necessario, tal- volta lo irrigava, se lo permettevano le poche sorgenti della campagna. Seguiva pertanto i precetti di Catone, il quale affermando che una buona aratura del campo significasse già una buona coltivazione, consigliava ed inculcava però di eseguire tutti i successivi lavori, previa la concimazione (1). Servio Tullio fu il primo che coniasse moneta — secondo l’ affermazione di Plinio —; ma volle che essa portasse l’impronta della pecora e del due, affinchè s’'intendesse, che la vera fonte del denaro, erano l’agricoltura e la pastorizia, e di conseguenza tali arti fossero tenute nel debito onore. Infatti presso gli an- - tichi romani la pecora fu l’unico ob: del valore delle merci e delle derrate; e dalla pecora appunto trassero il nome di pecunia, la moneta, e quelli di pe- culio, i privati patrimoni. Si dicevano locupletes, ossiano ricchi, tutti coloro, che possedevano molti campi (loci hoc est agri plenos) e pascua si chiamarono nelle Tavole censorie, tutte le rendite del popolo romano (2). i Anche secondo Festo, ogni patrimonio era chiamato peculio, perchè i be- stiami allora formavano la vera ed unica ricchezza. Nella fondazione delle più antiche colonie romane, il territorio destinato alla colonia si divideva in tre parti, la prima delle quali costituiva l’Ager Pu- blicus, ossiano i pascoli destinati all’uso comune di tutti i coloni, che dovevano (1) Caro. De agrieul., 61, 1. (2) Prini. Hisf. Nat., n. XVIII, 3. sto CAPITOLO I 5 | pagare un'imposta (1); la seconda era attribuita e riservata al culto ed al man- tenimento degli edifici pubblici, e la terza parte era divisa fra tutti i coloni, in proporzione — secondo gli antichi tempi — di due iugeri almeno per famiglia, come avvenne già nelle antecedenti assegnazioni fatte da Romolo. nl primitivo Ager Publicus ebbe indubbiamente uno scopo economico, af- finchè ogni famiglia, come ogni associazione, avessero una proprietà, per prov- vedere ai propri bisogni (2). Altri terreni erano detti Pascua Populi romani, per distinguerli da quelli lasciati alle colonie, nelle fatte assegnazioni, e questi, secondo la diversa loro natura, sì distinguevano in pascua, nel vero senso della parola, in prati, in silvae - ed in saltus. Questa specie di pascoli aveva una estensione maggiore di quella degli Agri, ossia dei campi coltivati. Una imposta demaniale, data in appalto, era la cosidetta Scriptura e cioè quel correspettivo. che pagavano coloro, i quali conducevano a pascolare il loro bestiame sui pascoli dello Stato. La spaventevole inondazione dell’anno 632 di Roma, secondo gli storici, distrusse moltissimo bestiame, che pascolava nella Valle del Tevere. Una legge che moderava le norme per la pastorizia, nell’agro pubblico del popolo romano, è giunta fino a noi, e sì appellò Legge Thoria, secondo quanto riferisce Cicerone (3). Una parte delle terre demaniali era riservata allo Stato, perchè ne potesse trarre delle rendite, e tali terre venivano destinate a pascoli pubblici (ager com- pascuus). Ogni cittadino romano aveva il diritto di far pascolare su quelle terre, non più di dieci capi di grosso bestiame (come buoi, cavalli, ecc.) — non sappiamo (1) « Est et pascuorum proprietas pertinens ad fundos, sed in commune, propter quod ea compascua maltis in logis in Italia communia appellantar ». FroNnTINUS. De Contrib. pag. 151. (2) De Ruecero. La Gens in Roma, avanti la formazione del Comune. (3) Questa legge agraria, dell'anno 643 di Roma, è conservata parzialmente nel Museo Nazionale di Napoli, in sette frammenti, che si possono riunire in tre parti di- stinte, separate fra loro da alcune lacune. La porzione inferiore della tavola non si rinvenne. Altri due pezzi trovansi ora a Vienna, un terzo fu smarrito fin dal 1521, e l’ultimo fu disperso, dicono, in Francia. Fulvio Orsini fu il primo a pubblicare tutti i sette frammenti, con le inscrizioni ai due lati. Nell'Ant. August. De legibas ef Scitis. 1583, 6 CAPITOLO I quanti capi di piccolo bestiame — senza pagare alcuna tassa (Scriptura) allo Stato (1). Se quel numero si sorpassava, allora per ogni capo in più, si doveva pa- gare una tassa, che veniva fissata dal Censore. La tassa, però, era pagata pel tempo che i bestiami passavano sui « colles », da un pascolo all’altro, nelle varie stagioni dell’anno. L’uso dei pascoli pubblici, detti « scripiurae » costituiva allora una parte importante dei vectigalia, delle rendite, cioè, che lo Stato ricavava dai privati per l’uso del suolo pubblico. Questo provento importantissimo, mentre da un lato pur rappresentava un diritto, forniva dall’altro allo Stato, un mezzo efficace e perenne per alimentare il pubblico erario. Anche in questo però, come in altri casi, il diritto pubblico romano, non dichiarato ed espresso dottrinariamente dagli antichi stessi, non offre sempre esplicite prove della esistenza dei titoli giuridici generali; il che non impedisce, che studiando la natura delle diverse fonti di proprietà, e ricorrendo alle norme generali del diritto stesso, siffatta esistenza si possa provare. Ora, il primo e più essenziale di tutti codesti diritti, è senza dubbio il di- ritto di proprietà sopra una parte del territorio nazionale, che lo Stato aveva ed esercitava direttamente. Ad easo si connettevano non solo l’ager publicus, e in Italia è nelle provincie, cioè la parte del territorio dello Stato, che questo con- servava ed ammipistrava per sè, ma anche i loca publica, cioè tutti quei luoghi, dei quali lo Stato permetteva l'uso, in senso più o meno determinato, ai pri- vati, mediante un correspettivo, in forma di affitto, di canone, ecc., come le vie, i ponti, i porti, e via dicendo, ed altresì i vectigalia, che erano rappresen- tati dalle scripturae rispetto ai pascoli, vale a dire da un compenso dell’uso con- cesso di quei luoghi (2). In origine la voce ager indicò il territorio d’una città, d’uno Stato e la voce pagus questo territorio medesimo, allorchè fosse in dipendenza di un altro mag- giore. Col tempo però, fuse le diverse genti, e perduta la loro autonomia poli- tica, l’ager significò la proprietà privata di ciascuna di esse, come il fundus, quella delle singole famiglie. Quindi è che si rinviene un ager Pupinius, un ager Papirius, un ager Romilius; e così parimenti un pagus Lemonius, un vicus Oc- (1) E. De Ruccero.. Agrariae leges (lex Thoria). (2) MommsEn. 2, 430. CAPITOLO I 7 tavius, un vicus Cornelius, ed un oppidum Mamilium e via dicendo; territori, che, fin dai primordi della Repubblica, appartenevano alle gentes Papiria, Pu- pinia, Romilia, Lemonia, Octavia, Cornelia, Mamilia (1). La storia, in generale, dimostra come le conquiste, o le spontanee dedi- zioni di nuovi popoli, fossero seguite dalla formazione di nuove colonie romane, e dalle distribuzioni dei terreni ai cittadini. Così, mentre avvenne talora la con- cessione dell'uso, o la vendita a semplice titolo di possesso, di una parte del- l’ager publicus, tal altra invece lo Stato, fatte le dette concessioni, riserbava per sè una parte del territorio, come dlemanio pubblico; e ciò per ragioni e circo. stanze diverse. Spesso, per la difesa dello Stato, era necessaria la istituzione di nuove stazioni militari, talora lungo le coste d’Italia (coloniae civium romanorum), oppure per provvedere ai bisogni dei veterani, si istituivano le coloniae mili- tares. Più spesso ancora era urgente di aiutare le classi miserabili, che si am- mettevano al godimento dei terreni demaniali, sia col titolo di proprietà, sia per semplice uso. Era poi quasi sempre necessario di lasciare ai municipi ed alle co- lonie d’Italia e delle provincie, una parte del loro territorio, come demanio lo- cale; e si rendeva assolutamente indispensabile agli abitanti delle provincie, di non impedir loro ogni uso delle loro terre, nonostante che il suolo della provincia fosse stato dichiarato Ager publicus populi romani (2). Numa appena assunto al regno, trova una parte dell’ Ager publicus, lasciata da Romolo, per essere occupata dai privati, e la divide subito, come proprietà Quiritaria, fra i cittadini più poveri (3). Anco Marzio, avendo esteso le con- quiste lungo il Tevere fino al mare, fonda, su questa parte dell’Ager publicus, la colonia di Ostia, e divide fra i cittadini coloni le terre occupate (4). Anche Servio Tullio fece nuove astognssioni delle terre a coloni più poveri (5). Giulio Cesare, secondo Svetonio, nel suo primo Consolato, divise tutto l’ Agro Campano ed il Campo Stellatino, fra ventimila soldati e cittadini, scelti però trà coloro che avevano tre o più figliuoli. (1) De RuaGeRO EtT. La Gens in Roma avanti la formazione del Comune, a pag. SI. (2) De Ruccero, Ager publicus privatus. (3) « Numa primus agros, quos bello Romulus ceperat, divisit viritim civibus ». Cr- cero. De Re Pubb, 2, 14, 26. (4) Cicero. Ut supra. (5) « Conciliata prins voluntate plebis agro capto ex hostibus viritim diviso, » Tiro Livio. I, 46, aC «— — 8 . CAPITOLO: I Il godimento del pascolo per i bestiami era limitato, affinchè i possessori maggiori non arrecassero danno ai minori. Le leggi Licinie-Sestie dell'anno 387 di Roma, disponevano che, sui pascoli demaniali, ogni cittadino non potesse con- durre un numero superiore a 100 animali bovini. Osservammo già che una gran parte del territorio di Roma fu divisa in tanti lotti, i quali, per mezzo di assegnazioni, furono poi dati in proprietà pri- vata alle famiglie patrizie e plebee. Sopra tali proprietà ripartivasi il tributo. Un’altra parte — la più estesa — costituiva 1’ Ager publicus, che era destinato, in parte, al pascolo, e restava in uso pubblico, mediante una tassa scriptura; e finalmente un’ultima parte, poi, incolta, veniva occupata da chiunque ne volesse intraprendere la coltivazione, non però col diritto di proprietà, ma soltanto di usufrutto precario, pagando allo Stato la decima parte dei raccolti. In principio i soli patrizi furonò quelli, che potevano ripartire l’usufrutto dell’Ager publicus, ma coll’andar del tempo, anche i plebei, in seguito a turbo- lenze avvenute, poterono esercitare il loro diritto, come cittadini (1). La ripartizione delle terre era la conseguenza necessaria dell’ingrandimento del territorid romano, ogni qual volta tale ingrandimento avveniva. Quando però, le conquiste si estesero assai lontano da Roma, allora il territorio di una città conquistata era diviso, una parte fra gli abitatori di essa città, e l’altra fra quei cittadini romani, che ne avessero ottenuto un lotto in proprietà pri- vata; e questi furono detti coloni, ed il loro complesso si disse Colonia. La fon- dazione, dunque, di detta colonia consisteva nel ripartire, per assegnazioni, un territorio lontano, che non era compreso in quello delle tribù. Di conseguenza, l’Agro romano, propriamente detto, non comprendeva « il territorio politicamente ‘dominato, chè tutto l’Impero, sarebbe così stato « Ager romanus: non il territorio effettivamente occupato da cittadini romani, A chè tante volte l’Ager romanus si sarebbe ripetuto, quante furono le colonie : « ma il territorio della Città, della quale formava giuridicamente la continuazione. « Diviso fra cittadini, lasciato ad uso comune, destinato a servizi pubblici, contra- < stato fra patrizi e plebei, esso fu sempre, nelle sue varie condizioni, oggetto 0 « campo del diritto quiritario... (2) ». E Frontino scrive che « in Italia non (1) De RuecrRo, l. e. (2) CaLISSE avv, CARLO. ra Roma e Cerveteri. Roma 1907, a pag. 3, CAPITOLO I 9 « havvi un campo tributario, perchè tutti sono des coloni, o dei Municipi, o di : « qualche Castello, società, od altro » (1). Esteso però il dominio di Roma nelle lontane provincie, per,la continua fortuna delle armi, si cominciò a trascurare l’agricoltura, per la ragione che le provvigioni necessarie al sostentamento dei cittadini provenivano dalle altre lon- CY tane regioni. E tanto invalsero l’ozio, il lusso ed i piaceri, affatto contrari alla vita laboriosa, che l’agricoltura decadde per modo, da riputarsi cosa spregevole l’esercizio di essa. Cicerone, perorando a difesa di Roscio Amerino, e ribattendo le accuse di Eruzio, lo confutò, dicendogli « che sarebbe stato ridicolo se avesse vissuto «nei tempi in cui i cittadini lasciavano l’aratro per assumere il Consolato di « Roma » (2). Nonostante però che l’agricoltura, coll’andar del tempo, fosse così decaduta, tuttavia si conservò sempre l’antica e lodevole consuetudine di distribuire le terre ai soldati ed ai plebei. Ciò fu spesso causa di agitazioni turbolenti, fomen- tate dai Tribuni, che volendo disporre a lor talento della Repubblica, fecero, mediante speciali leggi agrarie, distribuzioni arbitrarie delle terre acquistate, per procacciarsi il favore della maggior parte della plebe. Nei tempi successivi si proseguì a fare così, aggiungendo a ciò copiose elar- gizioni di frumento, fatte da coloro che, per conseguire i loro ambiziosì disegni, volevano mantenersi vivi le grazie ed il plauso della plebe (3). I paesi soggiogati, che si dissero « Provinciae », oltre i vari dazi che paga- vano, detti tributa, portoria, ed anco scripturae, erano obbligati a contribuire con ) una quantità di frumento, ordinariamente fissata nella decima parte dei raccolti; e perciò i terreni tributari furono detti decumani, sebbene talvolta siasi condo- nato tale tributo, come avvenne in Sicilia (4). Tali contribuzioni consistendo per lo più in grani, frumentariae si appella- rono, e fra le provincie soggette si notarono per le contribuzioni, la Sicilia, la Sardegna, la Spagna, la Beozia, la Macedonia, l’Asia, l’Africa, la Siria (5) (1) FrontINUS. De controvers. agrar., 35. (2) Oratio pro Roscio Amerino. (3) De Ruccero. Agrariae Leges, pag. 784. (4) Cicero. Verr., 3. (5) ConraREDUS. De frumentaria largitione, 10 CAPITOLO I e negli ultimi tempi anche l’Egitto, quando Augusto ebbe a dichiararlo Pro- vincia. Che se tali contribuzioni non erano sufficienti alla sussistenza di Roma, il Senato imponeva nuove decime (1); ma in tal caso il pubblico erario ne rim- borsava il prezzo (2). E per altre vie venne anche provvedendosi alle occorrenze annonarie della ognor popolosa e potente città. Così mediante trattato concluso fra i Romani e Cartaginesi l’anno successivo alla espulsione di Tarquinio il Superbo (3), e per la prima volta a spese del pubblico erario, fu trasportata dalla Sicilia in Roma una grande copia di granaglie, che furono riposte nei pubblici magazzini. Ciò . propriamente avvenne sotto il Consolato di M. Minucio. ed Aulo Sempronio, al- lorchè la plebe per un dissidio insorto nella città, abbandonò ogni lavoro agrario, e si ritirò sul Monte Sacro. Anzi tal fatto servì di esempio e di esperienza, in quanto si riconobbe che la scarsezza delle vettovaglie avrebbe potuto arrecare alla Repubblica deplore- voli effetti e quasi trascinarla a ruina, onde in appresso i magistrati curarono sempre di fare provviste abbondanti. A tale scopo istituirono i pubblici Frumen- tarii, ossia negozianti di grano sai quali si esercitava una rigorosa sorveglianza, affinchè non pretendessero un prezzo eccessivo del frumento. In caso di carestia, tutti costoro erano obbligati a vendere l’intera quan- \ tità di grano incettato a modico prezzo (4), e, quando nemmeno ciò fosse stato \ sufficiente, dovevano venderlo al prezzo decretato dal Senato, il quale prezzo se L mediocre, dicevasi media annona, e se ordinario, vale a dire eguale a quello degli anni decorsi, velus annona. Gli ordinari Magistrati dell’Annona furono in principio gli Edili della plebe, e poi gli Edili Curuli, ma più tardi Cesare istituì due deputati speciali, chia- mati Edili Cereali (5). Il Magistrato straordinario era eletto e deputato solo in caso di pubblica calamità, o di guerra imminente, ed allora assumeva il titolo di Prefetto del- (1) Cicero. Verr., cap. 70. « Frumentam Romam advectum est, aut publicum ex vecti» galibus, ant ex Senatus-consnlto cocmptum, Contaren », cap. $. (2) CONTARBDUS, cap. 8. (3) PoLisio, lib. III (4) F. Livir, Dec. I, lib. II, cap. 19, lib. IV, cap. VII. (5) NicoLa: N. M., Memorie, leggi, ete., III, pag. 55. CAPITOLO 1 ul l’Annona. Lucio Minuzio fu il primo che ricuoprisse tale carica a richiesta della plebe la quale, trovandosi in grave dissidio coi patrizi, aveva abbandonato la cultura delle campagne romane; così-seguì fino agli ultimi tempi della Repub- blica, epoca nella quale i primi magistrati ambirono di essere assunti a tale uf- ficio, ed anzi brigarono il favore della plebe per ottenerlo. Ciò che in seguito fece anche Pompeo: e Plutarco riferisce che così facesse Augusto e lo fecero in seguito anche gli altri Cesari, come rileviamo dalle medaglie che recano im- presse le iscrizioni: Ceres Augusta, Annona Augusta. Il tributo che le provincie pagavano annua!mente per il mantenimento della ‘eittà di Roma, chiamavasi: Annua Annona Urbis aeternae, et annuariae frenetiones (1). Anche così si designava quella contribuzione in denaro, che dicevasi Per- nitatio auraria (2), ma che presa nel vero senso designava quelle vettovaglie che si appellavano Canon Urbanus et Urbicarius: Etneca Populi romani (3). Ad ognì modo con tale complesso di voci s'intendeva sempre indicare il canone del frumento, siccome quello che è più necessario alla conservazione della vita. I Romani costantemente provvidero all’opportuno trasporto delle derrate ali- mentari. Al tempo della Repubblica, i cereali erano forniti dalla Sardegna e dalla Si- cilia, tanto che Cicerone onorò quest’ultima del nome « granaio di Roma » Aor- reum Romae, e Valerio Massimo le nobilitò entrambe del titol» di « nutrici cor- tesissime di Roma » benignissimae Romae nutrices. Le leggi agrarie furono spasso chieste dalla plebe, ma il Senato cercò sempre di evitarle. Talvolta, tuttavia, per sedare tumulti, ordinò straordinarie assegna- zioni di terreni conquistati, e formazioni di nuove colonie (4). : Le leggi agrarie dell'antica Roma ebbero sempre un recondito, alto fine politico, quantunque ne apparisse, a primn vista, soltanto quello economico, il che permetteva di soddisfare, coi bardi pubblici relativi, le ambizioni personali, e di meglio conseguire e raggiungere quanto si prefiggevano i promotori di esse leggi, colla loro proposta — rogatio —. Nel loro complesso i molteplici provvedimenti agrari, succedutisi con vece (1) NicoLa1 N. M., Memorie, leggi, ete., III, pag. 58. (2) Ibi. : (3) Lib. III, V, Cod. Teod. de Canon. frument. Lib. XII. Cod, de operib. publ. (4) Lavio, III, cap. 1. ln 12 CAPITOLO I assidua, possono considerarsi tutti — qual più, qual meno — come indice od esponente di un diuturno secolare conflitto fra Patrizi e Plebei. Non vogliamo nè dobbiamo in questo sommario storico, passare in rigorosa rassegna tutte le fasi e le vicende delle varie leggi agrarie dell’antica Roma; chè ciò supererebbe il còmpito, che ci siamo prefissi per il nostro lavoro, ma esporremo piuttosto, in un semplice e breve riassunto, le leggi principali, men- zionandole, secondo il loro svolgersi cronologico. Abbiamo già notato, come i patrizi, essendo considerati essi solo cittadini dello Stato, avessero soli il privilegio del godimento dei beni demaniali, occu- pando così immense estensioni di terre, e servendosi degli stessi plebei per col- tivarle, donde il fomite primo di un don ana dissidio sociale! Il concentramento d’immense possessioni nelle mani di pochi, mentre impe- diva la formazione di piccole proprietà, costituiva anche la rovina degli agri- coltori, ed in generale quella della campagna. Per sollevare da tanta miseria la plebe, e nello stesso tempo per moderare gli sconfinati privilegi dei Patrizi, fu emanata la prima legge agraria, detta « Cassia » da Spurio Cassio, che ne fu autore. Nell'anno 267 di Roma, i Consoli Spurio Cassio e Proculo Virginio, debel- lati avendo gli Ernici, conclusero con essi un trattato, pel quale venivano ce- dute a Roma due parti del territorio di quel popolo vinto. Nel seguente anno, il Console .‘purio Cassio, propose una’ legge per dividere il territorio sopradetto, in modo che una metà ai popoli Latini, i quali, per cpera dello stesso Console, avevano accettato un trattato simile a quello degli ' Ernici, e l’altra metà fosse ripartita fra i plebei romani, aggiungendosi anzi in favore di questi ultimi anche una parte dell’Ager publicus, che fino allora, era stato goduto dai Patrizi (1). Nel perorare la stessa legge, Spurio Cassio sostenne, che le fatiche del po- polo, non poievano essere rimunerate meglio, che dividendo fra il popolo stesso il terreno conquistato, poiche già era quel terreno divenuto pubblico. Il Senato, dopo avere lungamente discussa la proposta — rogatio — deli- berò che soltanto una parte del demanio fosse assegnata alla plebe, e l’altra ri- manesse in possesso dei Patrizi (2). (1) Tiro Livio, lib. II, 41, 1. (2) 15i, VIII, c. 69, 70, 72, 78, | = CAPITOLO I 13 Questo fatto però è molto controverso fra i critici storici, i quali sono di opinione, che tale proposta non divenisse mai legge, ma che piuttosto fosse re- golata con un Senatus consulto, il quale in sostanza non riguardò il possesso, ma riconobbe soltanto a favore della plebe, il diritto di partecipare alla divi- sione delle terre demaniali (1). Sorse un’altra questione agraria, nell'anno 388, secondo ito Livio, per opera di Spurio Mecilio e Spurio Metilio, tribuni della plebe, i quali fecero proposta, che fossero divise per ciascun capo di famiglia, e, personalmente, le terre conquistate ai nemici (2), e che fosse imposta una tassa demaniale sopra i possessi dei Patrizi. Nella discussione però intervenne Appio Claudio, che trasse a favore del Senato alcuno dei Tribuni, e così la proposta fu respinta dai Senatori (3). £ L’agitazione perdurò ancora per un trentennio, fino alla presa della città di Veio, nell’anno 358, e la proposta fu sempre contradetta, e combattuta dal Se- nato, non ostante le continue e successive elezioni dei tribuni della plebe, favo- revoli alle ripartizioni delle terre. Ma, finalmente, nell’anno 361 di Roma, allorchè fu respinta la proposta di far emigrare a Veio, la metà dei Patrizi, e la metà dei plebei, il Senato, lieto per l’ottenuto successo, decretò, che si procedesse all'assegnazione di una parte del territorio Veientano a favore della plebe, disponendo che ad ogni individuo di ciascuna famiglia si assegnassero sette jugeri di terra (4). Le leggi Licinie e Sestie, nell’anno 387, ebbero lo scopo principale di limi- tare il privilegio dei Patrizi sulla occupazione delle terre demaniali, per modo che non fossero superiori a 500 jugeri. In seguito di tempo, Z'iberio Gracco, eletto tribuno della plebe, presentò un progetto di riforma agraria, diretto a stabilire che nessuno potesse conservare più di 500 jugeri di terreno pubblico per sè, e di 250 per ciascuno dei suoi figli maschi; che ogni possessore fosse obbligato ad affidare la coltura della maggior parte de’ suoi campi ad uomini liberi; che lo Stato dovesse dare (1) Vedi Mommsen, De Rucagero, ecc, (2) « ... uf ager ex hostibus captus viritim dividatur ». (8) Trro Livio, lib. IV, 60. (4) « Ut agri Veientani septena jugera dividerentur, nec patribus familiae tantum, sed ut omniaum in domo liberoram capitum ratio haberetur ». Tiro Livio, lib. V, 30, 8. 14 CAPITOLO I ai possessori di terre pubbliche un’ indennità delle spese fatte per il migliora- mento dei poderi, che essi dovevano cedere; ed infine, che le terre ricuperate dallo Stato, si distribuissero in porzioni di 30 jugeri fra poveri, da tre perso- naggi nominati ogni anno. La proposta fu combattuta dai Patrizi, ed il tribuno Ottavio tratto ai loro voleri vi pose il suo veto. Ma in seguito, deposto egli dalla carica, la legge venne finalmente approvata, e per la sua esecuzione, furono scelti Tiberio Gracco, il suo fratello Caio ed Appio Claudio suo cognato. i Il popolo non si contentò sempre della ripartizione delle terre lontane, che lo obbligavano ad emigrare da Roma, preferendo naturalmente quelle che erano gran parte del territorio della città. Alla fine del terzo secolo di Roma, dopo le conquiste fatte dei territorî dei Sabini, degli Equi e dei Volsci, i Romani avevano stabilito in quei luoghi molte colonie; ciò che si potè compiere, dando le terre alla maggior parte degli agri- coltori poveri. Finite le guerre coi Galli, compiuta la sottomissione dei Latini, il territorio di Roma fu esteso in modo, che furono potute aggiungere quindici nuove tribù alle venti, già esistenti all’epoca dei Re. Ma nel quarto secolo di Roma insorsero nuove questioni sociali. Licinio Stolone, che capitanava il movimento, potè ottenere una nuova legge agraria, la quale eguagliava i diritti dei Patrizi a quelli dei Plebei, ed in conseguenza fu fatta la divisione di tutti i terreni, che superavano i 500 jugeri, fra coloro che nulla possedevano (1). I nuovi piccoli possidenti con ciò, non potevano più temere una invasione nemica, attesochè i nemici erano stati debellati; e così la piccola proprietà, potè prosperare vicino a quella dei grandi possidenti, che non ebbero più agio di esercitare la loro prepotenza, frenati dalle istituzioni vigenti. In quei tempi l’agricoltura non era ancora esercitata a mezzo degli schiavi, e, di conseguenza, i ricchi spartivano le loro terre fra i coloni liberi, che ne imprendevano la coltivazione precaria. Fra questi coloni, eranvene taluni tanto esperti, che bene spesso furono inviati a costituire nuove colonie, essendo capaci ed abili nello esercizio dell’agricoltura. Fu quello il periodo più bello, che apportò un incremento nella popolazione (1) Livio. Epif. LVIIT. — ApPian. I, 18. LS e (Sn CAPITOLO I 15 ed una massima produzione agricola, che desta anche oggi meraviglia; e gli scrittori del tempo sono unanimi in siffatto giudizio (1). Ma ben presto, il lusso, i vizi e l’oziv, cominciarono a spargere i tristi germi della dissoluzione, ed una prima causa fu certo l'aver condotto in Italia gli schiavi per coltivare le grandi proprietà. Allora i ricchi non divisero più i grandi tenimenti in piccole colonie, a favore dei coltivatori liberi, ma la cultura in grande fu esercitata da turbe di schiavi (2), sotto la direzione di un villicus. Il Console Appio Claudio Ceco, si valse del diritto censorio a vantaggio delle costruzioni di pubblica utilità, per spendere le somme di denaro del- l’erario. Prima di ogni altra cosa, volle dotare Roma di un’acqua potabile, che fosse più pura e salubre, che non quella del Tevere, e delle altre, sorgive o di pozzo esistenti entro la città. Fece perciò costruire il primo acquedotto romano, che derivava da Salone, in un luogo più alto del punto, ove sono le sorgenti dell’acqua detta Vergine e per mezzo di un grandioso manufatto, condusse in Roma l’acqua, che fu chia- mata Appia, dal nome del Console, dalla distanza di quasi 8 miglia (3). Un’opera anche più celebrata, fu quella dell'apertura della prima grande strada militare compiuta dai Romani, quella che tuttora chiamasi Appia — Re- gina viarum — da Roma a Capua. E sebbene quella via già in parte esistesse, per alcuni tratti, che servivano di comunicazione fra i luoghi abitati, lungo il percorso della via consolare, e in quei tratti fosse coperta di ghiaia, fu allora lastricata da Appio Claudio con grandi poligoni di basalte, muniti lateralmente di crepidini, e riuscì un’opera d’arte senza precedenti, agevolando la comunicazioni fra Roma e la Campania, rese. cosÌ celebre il Console, che l’ebbe costruita. Donde può affermarsi che Appio ha saputo lasciare memoria geniale e pe- renne di sè, con le due sopradette grandiose opere d’arte; meglio forse di altri antichi romani, di cui le tradizioni storiche non ci dicono altro che il nome! (1) VARRONE, 1, 2, III, 4. — COLUMELLA, 1, 3, — PLINIO, XVIII, 4. (2) La introduzione degli schiavi nell’agricoltura fu lenta, e non fatta da pertutto: anche fra quelli vi furono agricoltori peritissimi. (3) Lurst, In Bollett. Arch. Com. XXXI, 1908, pag. 243 &gg. XXXII, 1904, pa- gine 215 sgg. — TomasseTtTI G. Za Campagna romana, ecc. II, 9, e nota 1. 16 CAPITOLO II CAPITOLO II Dall’impero di Augusto alla morte di Costantino. (dall'anno 60 avanti G. C. all'anno 337 dopo G. C.). Debellata la Sicilia, i Romani imitarono i Cartaginesi, che erano in fama di grandi ed esperti produttori ‘di grano. Cominciò quindi la concorrenza per l'enorme quantità di frumento, che ) affluiva a Roma da ogni parte, e ne venne la rovina della classe dei liberi co- ; loni, che non poterono lottare contro la quantità dei raccolti, che si ottenevano i per mezzo di una coltivazione meno dispendiosa, e fatta in grandi proporzioni. Y Questo fatto produsse una inversione nei prodotti agricoli; e mentre dapprima era preferita la coltivazione del frumento, dopo l’affluenza dei prodotti siciliani si dovè ritornare alla industria dei pascoli, come quella che era meno rischiosa (1). Aggiungansi i tributi frumentari, che convenivano a Roma dalle Provincie, e da ciò si avrà la vera ragione della decadenza dell’agricoltura. Al dire di Plinio, e di Aulo Gellio, i Censori furono obbligati, per aumentare la coltivazione, d’in- scrivere nei ruoli dei tributari, quei cittadini, che lasciavano i loro campi a solo pascolo, ovvero li coltivavano male; in quanto, secondo quello, che affermano Catone, Varrone e Columella, appena la sesta parte dell'Agro Romano era col- tivata per la produzione del frumento, perchè tutti preferivano di tenere le terre a pascolo (2). . Un'altra causa dell'abbandono della coltivazione fu data dalle continue elar- \ gizioni, ossia distribuzioni gratuite del grano, che si dicevano /rumentationes. Questo fatto, che in altri tempi fu compiuto con poca spesa dal Governo di i Roma, per sollievo della plebe durante le carestie (3), in seguito, o per ambi- zione dei governanti, o per turbolenza del popolo, si rese eccessivo, fino al punto (1) CorumpLLa. VI. In proem. (2) TournoN. Etadés statistigues sur Rome, ete., lib. II, cap. II, art. IX. (3) Cicaro. De Officiis, lib. II, n. XXI. CAPITOLO II 17 da esaurire lerario (1); e dopo le avvenute elargizioni, facilmente si abbando- nava qualunque lavoro dei campi. Ed appunto per ciò, non appena Augusto fu investito della suprema autorità, colmò di doni i legionari, provvide all’annona del popolo, obbligò tutti ad abbandonare l’ozio (2), e, per evitare le carestie, ripose nei granai dell’Annona il frumento, pagato a modico prezzo (3). Anzi, lo stesso Augusto, appena confermato nello imperio, asserì di aver sempre avuto il fermo pensiero di abolire le pubbliche frumentationes, perchè, nella speranza di conseguirle spesso, si abbandonava la coltivazione dei campi; ma tuttavia, non perseverò nella ilea, pure temendo che siffatte larghezze po- tessero essere rinnovate per causa di ambizione. Però egli moderò le cose in modo, da non turbare gl’interessi degli agricoltori e dei negozianti (4). Ma intanto i costumi dei Romani peggioravano sempre, tanto che le elar- gizioni, furono concesse non solo alle plebi, ma anco ai soldati. Al tempo dell'Impero, allorchè Roma più rigurgitava di abitanti, le gra- naglie s'importarono anche dall'Africa e dall'Egitto; quella obbligata da Caio | Cesare, questo da Augusto, a somministrare larghissime contribuzioni di fru- mento. Per l'Africa, anzi, furono bandite pene severissime contro coloro che aves- . sero danneggiato col fuoco i raccolti; e l'Imperatore Commodo a meglio assicu- rarli a Roma armò una flotta speciale « affricana » e furono emanate provvide discipline, che leggonsi nel Codice, ai titoli De naviculariis et naufragiis: mentre a facilitare tutto ciò che riguardava |a provvisione dell’annona, fornita dall'Egitto, si fecero escavare immensi canali navigabili per addurre i grani in Alessandria, _@ gli Imperatori Teodosio ed Onorio comminarono la pena del fuoco a chiunque avesse osato di deviarne le acque, 0 ne avesse comunque ostacolato od impedito le comunicazioni lungo i canali medesimi (5). Allorquando avvenne la divisione dell'Impero, l'Egitto fu assegnato all’An- nona di Bisanzio, ed all'antica Roma restarono l'Africa, la Gallia e la Ma- cedonia. (1) Cicero. De Offciis, lib. II, n. XXI. (2) Tacito, Ann, I. (3) Svetonio. Vila Augusti, n. XLI. (4) Limp, n. XLII. (5) Lib. I, Cod. Peod. de Nili aggeribus. 18 CAPITOLO II In vari luoghi trovavansi flotte pronte a ricevere il frumento ed ogni specie di vettovaglie, per trasferirle poi a Roma; così quelle di Miseno e di Ravenna. L’uffizio di queste due stazioni navali annonarie fu stabilito da Augusto. Quella di Miseno doveva provvedere al trasporto dei viveri provenienti dalle Gallie, dalla Spagna, dalla Mauritania, dall'Africa, dalla Sardegna e dalla Sicilia. Quella di Ravenna al trasporto delle granaglie derivanti dall’Epiro, Macedonia, Acaia, Ponto ed Epiro (1). A tutela della navigazione, Claudio edificò il Porto di Ostia, innalzandovi un'immensa colonna con un ardente faro, simile a quello Alessandrino (2). I viveri annonari, giunti nel porto d’Ostia, venivano riposti in granai all’uopo ivi fabbricati detti Portuensia condita, horrea Portuensia, e se ne dava avviso al Prefetto dell’Annona, perchè si recasse quivi ad esaminarli, come gl’incombeva per obbligo di ufficio, secondo la legge di Valentiniano (3). I trasporti delle derrate annonarie si eseguivano anche per terra, il che ve- niva disposto dagli esattori dei Tributi, i quali fissavano i luoghi, detti'per legge Mutationes, ed anche Mantiones, ove dovevasi sostare per riposare. Le Mutationes erano pubblici alberghi sulle vie Consolari, ove si fermavano così i pubblici uffi- ciali, per esigere i tributi dell’annona, come gli stessi capi del Governo allorchè avessero occasione di viaggiare. Le Mantiones erano invece luoghi adatti al ri- covero dei cavalli e delle altre bestie da soma, anch’esse addette ai trasporti. Anatolio Console, regolò l'ordine dei trasporti delle derrate alimentarie, se- condo la distanza dei luoghi e la difficoltà delle strade; ciò che fu sanzionato dagli Imperatori Valentiniano e Valente (4). i Per eseguire lo scarico delle granaglie ed altro erano deputati i Saccarîî, ossiano facchini, che stazionavano nei pressi del fiume Tevere, e che l’Impera- tore Valentiniano volle riconoscere con uno speciale privilegio di privativa, sta- bilendo che nessuno potesse servirsi d’altri, se non dei Saccarit, per lo scarico delle derrate (5). Nella prima epoca di Roma avvennero talvolta distribuzioni liberali di fru- (1) SveronIUus in Azgasto, cap. 49. (2) Ibi in Clandio, Cap. II. (3) Lib. II, Cod. Zeod. de canon. frumeni. Urb. Romam. (4) Lib. IX, Cod. Teod. de Ann. et Tribut. (5) Lib. Unic., /bi, de Saccariis. CAPITOLO II 19 mento fatte al popolo, e forse una delle più antiche può ritenersi sia stata quella fatta da Spurio Manlio per propiziarsi il pubblico favore. Similmente talvolta ne «avevano fatte anco i Tribuni della plebe, e più di tutti Publio Clodio con la sua legge detta « Clodiana » colla quale ordinavasi che si dovesse dispensare gratnitamente il frumento al popolo, ogni volta che l'urgenza pubblica lo re-- clamasse. ' Tale disposizione aveva già suscitato le lagnanze dei più saggi repubblicani, compreso lo stesso Cicerone (1); ma nondimeno in seguito, tutti coloro che pre- siedettero al Governo di Roma, e.l anche lo stesso Cesare Augusto, come gli Imperatori che gli succedettero, avendo tutti e ciascuno sempre l’unico scopo personale e ambizioso di assicurarsi l'impero col favore della plebe, seguirono "l'esempio l'uno dell’altro. Nè avrebbero potuto fare altrimenti, specialmente nella occasione delle pubbliche feste, nelle quali doveva apparire manifesta la genero- sità e la prodigalità dell'Imperatore con elargizioni munificentissime e tali non solo da impoverire il pubblico erario, ma da privare talora del necessario per- fino gli stessi Imperatori, e Floro, parlando di Livio Druso, asserisce che questi nulla avrebbe lasciato ai suoi successori per distribuire al popolo, ove i succes- sori stessi non avessero diviso il loto, od il cielo (2) In seguito alla legge di Domiziano sulle elargizioni del frumento, per timore che il grano non venisse a mancare, fu limitata la coltivazione della vite; ed anzi fu ordinato, che in Italia niuno avesse rinnovato le vigne, e che molte ne fossero distrutte nelle provincie, lasciandone appena la metà (3). E sebbene in quel tempo l’Agro Romano fosse pocò coltivato, tuttavia non era tanto abban- donato, come fu in seguito, perchè le principali strade suburbane, erano fian cheggiate da frequenti e numerosi edifici abitati (4). I grandi proprietari intanto, nello intento di accumulare ricchezze per isfog- giare nel lusso, accrebbero le loro proprietà, formando i latifondi. Così i Sena- tori, mossi dall’avidità di possedere, si prevalevano di qualsiasi mezzo e pre- testo, per espellere l’agricoltore libero, oppure per costringerlo a vendere il pic- colo podere, allo scopo di dilatare i confini delle loro proprietà. Anche i piccoli (1) Oratio pro Milone, (2) FLORUS, lib, III, cap. 17. .(8) Svetonio. Cap. VII, (4) Berarer No. Histoire des grands chemins de Empire Romain. rà Abe CAPITOLO IT proprietari, privi di mezzi per coltivare i loro fondi, o per liberarsi dall’obbligo. di lavorarli, piuttosto si dedicavano alle armi, nella speranza di arricchire rapi- damente colle spoglie dei popoli vinti. Ugualmente i grandi proprietari, al fine di attendere in Roma ai pubblici uffici, alle cariche onorifiche, alle feste, e so- .pratutto ai loro vizi, credettero opportuno di affidare la cultura dei latifondi agli schiavi. Ed ecco come quel popolo, che era sorto dall’agricoltura e dalla pastorizia, cessò affatto da quelle abitudini secolari, che avevano formato il vanto e la nobiltà dei primi Romani! Seneca deplorava come « ad alcuni sembrasse angusta una possessione, che < prima alimentava un popolo, e come taluno desiderasse, che fosse divenuta <« proprietà privata quello, che costituiva una intera Provincia (1) ». E Plinio, dopo aver disapprovato che l’agricoltura fosse abbandonata alle cure degli schiavi, aggiunge: « se confessiamo il vero, le grandi riunioni di beni, « hanno rovinato l’Italia ed anco le Provincie (2) ». Prodotto così lo spopolamento dei campi, questo facilitò le prossime inva- sioni dei Barbari, che scesero dal settentrione, l’Agro Romano era divenuto in- colto e disabitato; e laddove già evano sorti più di ventitre luoghi abitati al tempo dei Volsci (3), allora non si rinvenivano, che le insalubri Paludi Pontine, le quali appartenevano anch’esse ai Patrizi romani. Le antiche Città del Lazio erano spopolate in modo da essere considerate Vici (4) e di alcune appena restava il nome. Intorno a Roma, non vagavano che greggi di armenti, e si potevano percorrere molte e molte miglia nella Campagna romana, senza incontrare un abitante (5). In seguito, anche i proprietari avevano tralasciato di far lavorare i loro fondi agli schiavi, allo scopo di risparmiare le spese del lavoro umano, sempre dispendioso, ed in conseguenza avevano lasciato i latifondi a solo pascolo degli armenti. Anche fin dal tempo di Cesare, vi erano molti luoghi spopolati, special- mente nelle Provincie, il che era stato già avvertito da Tacito (6), malgrado le (1) Senkca. Zpisl., 18, 19. (2) PLinIus. Hisf. Nat. Lib. XVIII, cap. VII, parte 3. (3) PLINIiUS. Zisf. Nat. III, 5. Livio, 5, 6. (4) Horat. Zpist, I. « Gabiis desertior atque fidenus vieus ». (5) APPIANO. De bello civili, I, 7. (6) Tacito. Ann., IV, 4 e 27. CAPITOLO Il 21 leggi agrarie, e nonostante le colonie fondate, le quali presto si estinguevano, perchè i veterani non lasciavano prole (1). Lucano ci descrisse uno stato desolante dell’Italia, dicendo: gli edifici che minacciano rovina, se cadranno, non schiacceranno alcuno. Vuote sono le case, nè wi è più alcuno che le custodisca. L’Esperia, dopo tanti anni incolta; si cuopre di selvaggi pruni e di sterpi. Le antiche Città non vedono nelle strade, che qualche raro abitante. Mancano le braccia ai campi, che reclamano lavoro. Un servo inca- tenato coltiva i nostri seminati. Tante generazioni nascono pel mondo, ed intanto le nostre città e campagne sono spopolate (2). Per comprendere quanto fosse stata già fiorente la Campagna Romana nel quarto secolo dell’Era Cristiana, giova leggere la descrizione di una villa di quei | : tempi, tramandataci da un famigliare, coevo di Piniano e di Severo, figli di Va- lerio Severo, nobile romano della famiglia dei Valeri. La villa era abitata dal sopradetto Piniano, e dalla sua sposa, Melania giu- niore, senatrice, nipote di Melania seniore. Quel luogo delizioso, sito in riva al mare, era ammirevole per gli ameni giardini, per i marmorei ninfei, per i bagni, per gli sterminati poderi, per i boschi rigogliosi, dotati d’ogni specie di cacciagione, per i laghetti, per le pe- | schiere, e sopratutto per le sessanta — diciamo sessanta — case coloniche, sparse in quel vasto tenimento, abitate da quattrocento schiavi, che potevano dirsi li- beri, poichè Piniano e Melania essendo cristiani, non ammettevano la schiavitù e di conseguenza tutti i loro servi lavoravano anche più volenterosi quelle terre (3). (1) Tacito. Ann. XIV, 27. (2) Lucano, Pharsalia, IT, 24, VII, 400. (3) « Erat onim possessio nimis praeclara, hahens balneum infra se et natatoriam in « cas ita ut, ex uno latere mare, ex alio silvarum nemora haberentur, in qua diversac « bdestiae, et venationes haberentur ». « Cum igitur lavaret in natatoria, videbat et naves transenntes et venationem in « silva dor AS Habebat enim possessio sexaginta villulas circa se, habentes quadrigentos « servos agrica!tores ». Analecta Bollandiana, vol. VIII. Vita 8. Melaniae Junioris, anctore coevo, ete. Cap. 18, pag. 33. — GRISAR A, Roma alla fine del mondo antico, I, 82. ì ì i 22 CAPITOLO II CapitoLO III. Le invasioni dei barbari — La desolazione della Campagna romana. (Ann. 409-741). Avvenuto il trasferimento della Sede Imperiale a Bisanzio, sulle rive del Bosforo, si affrettò la decadenza di Roma, perchè vennero a mancare quasi del tutto i soccorsi e le distribuzioni gratuite di grano (frumentationes). Infatti, anche i prodotti dell'Egitto si trasportarono a Costantinopoli, e così ancora tutti gli altri generi, che somministravano le altre Provincie tributarie (1). Una lettera di Albino Prefetto di Roma (ann. 414) riferiva all’Imperatore : Onorio, che la consueta misura delle granaglie, da dividersi fra il popolo, era insufficiente, e perciò credeva necessario l'aumento della pubblica Annona (2). In quel tempo, i servi della gleba venivano venduti insieme al fondo, e ciò non potè certo giovare all'agricoltura. La mancanza di popolazione produsse la deficienza di soldati, che potes- sero difendere l'Impero. E così avvenne, nel 409, l'invasione dei Goti, ed il con- seguente saccheggio; quella dei Vandali nel 455; degli Eruli nel 470; e nuova- mente dei Goti nel 493, i quali ultimi restarono in Italia, fino a che il Regno italico, non fu distrutto dai Greci, dal 536 al 552. Seguirono i Longobardi, che si stabilirono in Italia nel 568, e si resero padroni del Ducato di Spoleto, spin- gendosi poi, nel secolo seguente, fino a Narni e Sutri, e saccheggiando anche le vicinanze di Roma (3). Le ville imperiali, come anche quelle numerosissime dei privati, ed in ge- nere tutti gli edificî sparsi nella Campagna romana, divennero facile preda dei barbari invasori, i quali scorrazzando liberamente, vi fecero maggiori danni e de- vastazioni di quel che non potessero in Roma stessa, in quanto fuor della città ebbero maggior agio, di sfogare la loro insana mania di distruggere. (1) CLaupIANUS. De Bello Civil., v. 52. (2) Mione P. Gr. 103, 265, S. (3) MuraroRrI, Amnali, CAPITOLO MI 23 , quella campagna ora deserta, e così grandiosamente melanconica, che i ® - . è Pi . . DI . . . e lungo quei monti e quei colli, era tutta disseminata di fabbricati i; ed i campi con i giardini annessivi, venivano irrigati v dalle acque ti che scaturivano copiose dai sola lungo le numerose valli, ed anche atrice degli innumeri servi della gleba, aveva ridotto la Campagna romana bitabile ed ubertosa. I continui e progressivi lavori compiuti nei passati secoli, sia per aprire Bir strade, sia per altre cause di pubblica utilità, hanno lasciato testimo- l della grande o dei Romani, e della industre esercitata cultura mura, Mai opere di drenaggi sotterranei, vie lastricate con poligoni di basalto; e sopratutto ruderi di case, di palazzi, di bagni e di monumenti, che erano de- | gorati con statue e sculture di pregio inestimabile. La rete delle strade, nella Campagna romana, era intersecata dagli acque- < dotti, che, costruiti in direzione della città, con le loro linee maestose, e con le | solitarie rovine, tuttora attestano la loro grandezza. Ù E pa: Essi si addensavano in :modo speciale nella parte orientale, perchè i CA è mibnti di quella zona davano origine alle sorgenti delle acque, le quali così | ‘meglio potevano scendere verso Roma, dai punti più elevati della Campagna romana. della città capitale dell'Impero. Sopra le arcate, erano costruiti due ed anche tre condotti, uno sopra l’altro, arich’essi in muratura, che adducevano e distribuivano le acque sorgive in più luoghi. » °‘’—’—’Le acque esterne, così condotte in Roma, furono tredici. L’Appia, cioè, —— PAniene, la Marcia, la Tepula, la Giulia, la Vergine, 1’ Alsietina, la Claudia, |’ l’Aniene Nuova, la Traiana, l’Antoniniana, l'Alessandrina e l'Algenziana. Gli acquedotti di Roma, per la loro struttura in peperino, e e per la loro sal it lunga serie di arcovolti in mattoni, costituivano una delle più grandi meraviglie . 24 CAPITOLO III L’Appia fu scoperta, insieme ad altre vene, da C. Plauzio, e fu primiera- mente detta « Venox ». L’acqua dell’Anio Vetus, fu condotta a Roma, 272 anni dopo G. C., ed aveva l’origine sua dalla riva destra dell’Aniene, oltre 20 miglia da Roma, come attesta Frontino. La Marcia. insieme alla T'epula fu unita all’ Antoniniana da Caracalla, sul fi- nire dell’anno 212; ed anzi, con queste due fluiva anche la Giulia. La Vergine sorge nella tenuta di Salone, sulla Via Collatina. L’Alsietina fu presa dal lago di Martignano, nell’Agro Sabatino. L’Aniene Nuova e l’ Aniene Vecchia, che fu aggiunta alla prima, vennero de- rivate dal fiume omonimo, a 62 miglia da Roma sulla via Sublacense. La Traiana, oggi Paola, ha origine dal lago di Bracciano. L'acqua Antoniniana fu allacciata in un luogo poco lungi da Tivoli; ma ora è assolutamente perduta. L’Alessandrina, sulla Via Prenestina, con la riunione di varie sorgenti, ora costituisce l’acqua Felice. L’Algenziana, raccolta dall’Algido, fino a Roma, poi fu abbandonata, ed ora sgorga a Frascati, denominata l’ Angelosia. Nelle « Variarum » di Cassiodoro, sono riportati anche i decreti di Re Y'eo- dorico per la conservazione degli acquedotti romani; e detti documenti furono pubblicati nell’anno 500 dell’Era cristiana, quando appunto quel Principe Goto si recò a Roma, per prenderne il possesso. Da quei documenti possiamo inferire, che l’ufficio del Comes formarum, esi- steva come al tempo dei Cesari, e che ad esso incombeva l’obbligo, di far riparare ai guasti degli acquedotti, ed a provvedere, che le terme, ed i bagni pubblici esistenti, venissero alimentati continuamente dalle acque (1). s L’Agro romano si trovava in quell'epoca nella più infelice condizione. Le magnifiche ville. le possessioni, le massae, furono completamente distrutte dal succedersi di molteplici incursioni di barbari, e ciò che fu risparmiato, o non cadde sotto le mani delle orde di Vitige, di Totila, di 'Teja e di Attila, andò poi in rovina per la venuta dei Longobardi, che, condotti da Agilulfo nel 593, giunsero fino alle porte di Roma, menando la strage e la devastazione. Fra le (1) Cassioporus, Variaram, in Mommsen, 1894, CAPITOLO IH 25 memorie pervenuteci, abbiamo da Paolo Diacono, che in quel tempo furono per — la prima volta portati in Italia i bufali (1), e che tuttora esistono anche nel- l°Agro romano. Giunsero pure a noi le lettere di San Gregorio Magno, che de- scrivono quei tempi calamitosi. 1 campi, privi degli agricoltori indigeni, produ- | sevano messi ingombre di piante parassitarie, essendo tutto all’intoroo abban- donato (2). Paolo Diacono, lo storico longobardo, parla dei poderi deserti, dei campi desolati e delle città distrutte: « la terra esiste in completa solitudine, e miun « proprielario abita nei campi (3). Le belve si rinvengono dove prima abita- « vano gli uomini. I contadini sono fuggiti od uccisi, e le campagne sono in ab- « bandono » (4). Sul finire del secolo v, la Campagna romana aveva le-sue chiese rurali, erette già da Gelasio I, successore di Felice III, e varie di quelle furono altret- tante basiliche. Evidentemente, per rendere più facile alla popolazione rurale l’intervento ai divini uffici, secondo quando rileviamo dal Liber Pontificalis, Papa Gelasio fece costruire a Tivoli, od in quelle vicinanze la basilica di Sant Eufemia mar- tire; quelle dei SS. Nicandro, Eleutero ed Andrea, sulla Via Labicana, ed una chiesa di Santa Marta sulla Via Laurentina, sita in un « fundus de Crispinus ». In quel tempo, esistevano tuttora nella Campagna, romana, parecchi villaggi e grandi colonie (5). La chiesa di San Stefano sulla Via Latina, era sita in un luogo abitato da una popolazione rurale; ma, dall'alto medio evo in poi, non rimane, o non si rinviene di ciò memoria aleuna. fotto il Pontificato di Pelagio I — anno 554 — caduto il regno dei Goti, innumerevoli schiere di Barbari, principalmente Alemanni e Franchi, invasero l’Italia, e distrussero quanto era rimasto salvo nella lotta di esterminio com- battutasi fra i Bizantini ed i Goti. Tanto che Pelagio seriveva a Saputo, vicario della Chiesa presso Chidelberto, re delle Gallie, dicendo, che in Roma era tale L] m_ (1) Pauli Diac. De gesta Longobard,, lib. IV, cap. XI, R. 1, S. Tom. I, pag. 457, (2) ExnopI. Vita Epiphani, pag. 101. " (3) PauLi Dirac. Dialog, IMI, 88. (4) In. Epist. I, 48. (5) Liber Pontificalis, I, 255. Gelasius, n. 74, 26 CAPITOLO HI una povertà e tale una miseria, che perfino le persone di nobile lignaggio si aggiravano per le vie, a guisa di mendicanti. I poderi della Chiesa romana erano presso che deserti, o sottratti al possesso del Pontefice (1). Nei dintorni di Roma, tutta la campagna era squallida e desolata. Ed oggi a ragione ugualmente potrebbe dirsi, che essa tuttora piange il tramonto dell’evo antico, che già le aveva dato tanta vita e splendore!! Come oggi, allora — dopo quelle furie devastatrici — mancarono gli agri- coltori, e, con essi, la mano d’opera, dove anzi urgeva più ancora che altrove. il che rese impossibile, o molto arduo il lavoro delle terre; tanto più che venne a difettare anche l’acqua, per essere diruti, in tutto od in parte, gli antichi acquedotti, e perchè Je loro acque non più disciplinate, si disperderano, o, in- quinandosi formavano spesso vaste paludi, causa di malaria e di febbri! Così, escursioni di barbari, scorrerie di predoni, guerre desolatrici e stragi di popolazioni intere, passate a fil di spada, o ridotte in schiavitù (2), si suc- cedettero per due secoli senza tregua, e senza lasciar tempo agli abitanti di ri- parare le perdite. Si può ben dire, che l’Italia fu allora in preda ad una deso- lazione permanente; e quei barbari, che discendevano dal Settentrione, nessuna pietà sentivano, e nulla risparmiavano: edifici pubblici e case private, città for- tificate e villaggi aperti, tutto era messo a ferro ed a fuoco, e, dopo il pas- saggio degl’invasori, non restava che la solitudine e il deserto ! Procopio, Paolo Diacono e Cassiodoro, ci dànno una relazione esatta delle carestie e delle pestilenze, che seguirono gli eccidi commessi dai barbari, per oltre mezzo secolo, dal 536 al 598. Il Pontefice Gregorio I, era tanto atterrito per le pestilenze, che spopolavano Roma e le città, per i rapidi mutamenti della temperatura, pei cicloni, per le tempeste, per le carestie e pei terremoti (3), che riteneva prossima, senz'altro, la fine del mondo, / misteri di tale profezia — egli scrive — sì sono fatti per noiì più chiari della luce. Vediamo in questa città le mura conquassate, è palazzi alternatt;i le chiese distrutte dai turbini, ed i suoî edifici lassi per lunga età, e diruti per le crescenti rovine (4). LI Nell’anno 589, per le continue e dirotte pioggie, il Tevere straripò con tanto (1) Epist. ad Sapandum. MAnSI, 9, 724, 727. JArrd K. n. 943, 947, ann, 556, 557. (2) GrecorI I, Epist. IV. 32, VII, 13, 23. (3) GreGoRI I. Episk, IX, 226, XI, 37. (4) Gregori I, Dia/oy., II, 15, CAPITOLO TI 27 , che inondò anche i granai della Chiesa, siti ai piedi del Monte Aventino, ello stesso luogo, dove, nei tempi dei pagani, erano in uso le frumentationes (1). Nè minori danni e rovine arrecò la invasione di Totila, che s'impadronì di per due volte successive. Paolo Diacono asserisce, che contrade intiere ‘ono senza abitanti per le stragi commesse dai Longobardi, ed il Pontefice Gregorio I così descrive la loro invasione: Come una spada tratta dalla guaina, o orde selvagge si avveritarono sopra di noi, e gli uomini furono uccisi, come tro stati mietuti dalla falce. Città vennero rase al suolo, villaggi distrutti, lese demolite, conventi saccheggiati. I campi si ridussero come un deserto ; e le terre sono squallide dovunque, perchè manca chi le coltivi (2). Nell'anno 755, Astolfo, re dei Longobardi, violando la fede giurata a re assediò Roma. Papa Stefano III, scrivendo allo stesso Pipino, parla degli rori di quella invasione, dichiarando chei Longobardi portarono l’ultima rovina » campagne, per ogni dove nel suburbano di Roma, distrussero tutti i luoghi i col ferro e col fuoco...... rubarono tutte le cose preziose ed il de- } a quali Minici: tuttavia per la loro prepotenza militare, demolirono quanto fu possibile | — intorno a Roma, e, con impeto selvaggio, distrussero le messi, i foraggi e tutto (4). Nel seguente biennio, avvenne l'invasione dei Saraceni, che compitono la deva- | stazione di tutto, quanto trovavasi all’esterno di Roma, financo quella delle | Chiese degli Apostoli, e condussero innumerevoli persone in schiavitù. Questa fa l’ultima fatalità per le campagne, già tanto deserte ed abbandonate, sia per gli eccidi, sie per la fuga degli agricoltori. (1) Grisar. Roma alla fine del mondo antico, ILI, 27. | (@) Grecon. Dialog. 1, 2. Lib. XXXVIII — Micara, Della Camp. Rom, c. 98, (3) Cod. Carol. et Baronium ad ann. U 114) oi Vita Sergii, IL, 28 CAPITOLO II Esposte così, in modo sommario, le deplorevoli vicende della campagna ro- mana dal quinto all’ottavo secolo, è oramai necessario di procedere allo esame dei provvedimenti, che avevano adottato gli Imperatori a favore dell’agricoltura. Però, in mezzo a tante guerre d’invasione e di distruzione, riesce sommamente difficile la ricerca di fatti relativi alla cultura dei campi. Una memoria remota ci resta, che cioè, se il proprietario di un fondo ne avesse trascurato la coltivazione senza dissodarlo, ed avesse abbandonato le pian- tagion e la vigna, i Censori potevano dichiarare il fondo stesso proprietà del demanio (1). Ciò dicevasi facere aerarium. Di conseguenza, se ne deve dedurre che l'autorità sorvegliava la coltivazione dei fondi. ì Riscontrammo, poi, una legge di sommo interesse, relativa alla coltivazione dell’Ager desertus; legge, che riguarda, e dimostra il caso dell’acquisto della pro- prietà mediante la coltivazione. Le Costituzioni degl’Imperatori Valentiniano, Teodosio ed Arcadio, edite dal 380 fino all'anno 400 nella legge VIII, Lib. XI, Tit. LVITI, stabiliscono che « quando, un proprietario lasciava incolto il proprio fondo, ed altri ne imprendeva la col- tivazione, quest’ultimo aveva diritto, durante un certo tempo, al solo rimborso delle spese fatte, ma trascorso quel periodo, il primo proprietario perdeva affatto il suo diritto, che trasferivasi in colui, che aveva coltivato il fondo ». Provvedimento, codesto legislativo, di grandissima importanza; giacchè costi. tuisce # diritto dell’espropriazione, senza correspettivo, a favore della coltivazione dei terreni. Le stesse leggi, per favorire anche più i coltivatori dei fondi deserti, vollero che non si dovessero pretendere tributi dai nuovi proprietari, se non dal giorno in cui entravano nel reale possesso dei fondi stessi. E perchè si coltivassero con più facilità i fondi deserti, questi si assegnavano in proprietà (tradebantur jure privato) e dopo aver stabilito l’importo dell'imposta (canon) quelìià non poteva essere più aumentata (2). Nè dobbiamo omettere di rammentare qui le vicende subite dagli agricol- tori nei secoli v e vi. I coloni e gli abitanti dei villaggi nelle campagne, op- pressi dagli enormi tributi imposti da coloro, che comandavano le soldatesche, dai Conti, dai Proconsoli, dai Vicarî, dai Prefetti degli imperatori, dai Duchi, dai (1) Auro GELL:0. Nocfes Atticae, Lib. IV, cap. 12. (2) Lex VII et XVI, Cod, Justin, De omni agro deserto, APPIAN., 2. CAPITOLO II 29 Tribuni, e talvolta anche agli addotti alla Curia (secondo quanto apparisce nel codice Teodosiano, al titolo de patrociniis vicorum) fecero per conseguenza appello alla protezione dei potenti, nei luoghi ove dimoravano. Ma ciò riuscì gravoso per gli agricoltori, tanto che gli imperatori Valentiniano e Valente, sancirono con una legge il principio, che il fisco non potesse imporre oltre la metà di quanto, allora pretendevano i proprietari delle campagne (1). Di modo che quei poveri agricoltori si trovavano, come fossero stati fra i marosi, balzati da incessanti procelle, come se un flutto li gettasse contro l’altro, e per scongiurare l’oppres sione dei tributi..... si davano in mano ai potenti, per essere protetti, facendo una completa dedizione di tutto, e consegnando ai difensori ogni loro avere, prima di essere difesi, come i padri, che invocando aiuto, perdono intanto tutta l’ere- dità futura dei propri figli (2). Nel secolo vi, ia proprietà dei fondi nell’Agro romano passò in gran parte alla Chiesa. Costantino fabbricò le varie basiliche dedicate agli Apostoli, quella "detta « Sessoriana », quella « del Salvatore » ed altre; e le dotò della maggior parte dei beni nelle vicinanze di Roma (3). Le molte donazioni di essi fondi, crearono importanti rendite al Pontificato romano, poichè crebbero mano mano quali veri patrimoni. Così i Pontefici po terono esercitare una larga elargizione, e continua beneficenza. Dopo il trasferimento della sede dell'Impero a Bisanzio, il sostentamento dei numerosi poveri, passò gradatamente a carico della Chiesa, che per la sua instituzione a base della carità, non poteva negare l’esercizio di una sì umana funzione. Coll’andar del tempo, anche l’intero sistema delle pubbtiche elargizioni, già fatte dallo Stato, al tempo dell'Impero, cd una grande parte della pubbliea An- nona passò alla Chiesa, Nel secolo stesso riscontriamo, che nei portici dell'antica /rumentatio, avve- nivano le distribuzioni delle elemosine e dei sussidi fatti dal Pontefici pro tempore. La distribuzione del grano per il popolo e per i poveri — antiquae frumenta- tiones — secondo quando scrive Massimiano da Ravenna, nel secolo vi, ascendeva (1) Cod, Tood. Lex II. De patrocinits vicornm. (2) Saviano. Lib. V. De gubernatione Dei. (3) Muratori. R. I. S. Tom. III, parte [. 30 CAPITOLO IM ogni anno a 120,000 staia (Modi) che rappresentava un valore di 2000 solidi d’oro. poichè con un solido, si acquistavano 60 modii (1). L’antica Prefettura dell’Annona che aveva quasi cessato d’esistere, d’allora in pri cominciò ad esplicare nuovamente le sue funzioni con attività. Ai Prefetto dell’Annona venne ripetuto, nel diploma di nomina, che dovesse pacificare il popolo, quando che domandava il pane, facendo per ciò le necessarie provviste di grano, anche dalle lontane provincie, e che curasse sopratutto il lavoro dei panattieri, perchè adempissero diligentemente ai loro doveri, circa la confezione e peso del pane, che vendevano, nè che il Prefetto dimenticasse i venditori delle carni suine, ed altro necessario al vitto (2). Seguirono poscia le istituzioni monastiche, che in breve tempo ascesero in ben 35; e quasi tutte acquistarono o s’ebbero in dono fondi posti nella cam- pagna di Roma (83). Quei latifondi. che già eransi deplorati nella Italia antica, si ricostituirono in quell’epoca, come ci risulta dai documenti storici del tempo (4). In quelli notiamo la varia nomenclatura dei fondi nel suburbio di Roma, e nella Campagna romana. Il fondo, con ristretti confini, continuava tuttora ad essere il fundus. L’unione di vari fondi costituiva una Massa: più Massae, un patrimonium. Il Pairimonium Appiae, comprendeva tutte le terre, ‘a destra della Via Appia, fino al mare; a sinistra lungo le Vie Latina, Ardeatina, Laurentina ed Ostiense. Il Patrimonium Tiburtinum, tutta la zona fra la Prenestina ed il Tevere. V’era poi il Pairimonium Sabinense e quello Labicanum, il primo lungo le Vie Salaria e Nomentana, e l’altro lungo le Vie Labicana, Prenestina e Tu- scolana. Il Patrimonium Tusciae, tutto l’Agro sulla destra del Tevere comprendeva tutti fondi delle Vie Flaminia, Clodia, Cassia ed Aurelia. Si deve poi notare che molti fondi, e le Massae del vi secolo fino al Ix secolo, ritenevano tuttora i (1) Il solido era la settantesima parte di una libbra d’oro e perciò equivarrebbe a grammi 4,62 d’oro. . (2) Cassionporo. Variarnm, 6 n. 18. Diploma al Prefetto dell’Annona, (3) Ann. Benedectin., 604, 1050 Tom. I, IV. (4) Nell’Agro romano, prima di quel tempo, non v’erano i veri latifondi. Quelli di cui parla Plinio, esistevano allora nelle altre regioni d'Italia. mV, bi) La i CAPITOLO INT 31 AA cordo, che ricordavano spesso i nomi più illustri della i “pesa e poi l'abbandono della primitiva vita dei Romani, dedicata all'agricoltura, stata la prima causa dello spopolamento, non solo delle campagne, ma cda p'di Bol , fu riconosciuto eziandio dagli stessi Pontefici romani, che cer- no di delionne ogni studio, ed ogni mezzo loro concesso, per fondare dei rr i, unico mezzo vitalissimo a procurare il sostentamento di tanta P inte ere: possedendo in quei tempi calamitosi, chiusi ad ogni commercio, 0; ra fico, non avrebbe potuto altrimenti ritrarre i mezzi necessari alla E qui giova, per la verità della storia, riconoscere come soltanto i Pon- romani, in riguardo al diritto dell'uomo al lavoro, siano stati gli unici ori dei tempi posteriori ; poichè è innegabile che, se esiste diritto al lavoro, to debba essere esercitato soltanto sulla terra. Qualunque altra teoria sarebbe | nè potrebbe essere facilmente ammessa da qualsiasi legislatore. 32 CAPITOLO IV CapiroLo IV. I Pontefici Zaccaria ed Adriano I. La proprietà eeelesiastiea nell’ Agro romano. (Anno 741-1100). I sommi Pontefici Zaccaria ed Adriano I, nel secolo VIII, istituirono nelle vicinanze di Roma, nove fondazioni agricole « domusculte », e di alcune tratteremo singolarmente nella seconda parte di questo sommario quando esporremo la storia dei luoghi abitati in prossimità delle vie, che s’irradiano intorno a Roma. Tali istituzioni di centri agricoli ebbero certo lo scopo principale di far rivivere l’agricoltura e di riunire i coltivatori, affinchè Ia Campagna romana fosse popo- lata e si formassero da ciò tanti centri agricoli, anche perchè, in progresso di tempo, riuscisse facile di aumentarli, tanto avvicinandosi a Roma, quanto allontanandosene. Questo importante fatto economico avrebbe potuto procurare il miglioramento agrario del territorio circostante come era avvenuto nei secoli passati; e così sarebbe acere- sciuta una popolazione agricola stabile, che aumentando sempre più, avrebbe dato a Roma il sostentamento coi prodotti, e la ricchezza con l'industria campestre. Noi-non ometteremo di straleiare qualche passo dal Libro pontificale, ene parla della fondazione delle domusculte, con semplicità e sincerità. che potevano essere dettate soltanto da un principio umanitario e religioso, avente per fine il benessere futuro dell'agricoltura. Al tempo di Zaccaria papa (741-752) morì un tal T'eodoro, figlio primoge- nito di Megesto Cataxanto, d’origine greca, e lasciò in dono alla Chiesa romana un fondo sito a cinque miglia da Roma, sulla via Tiburtina. Il Pontefice ampliò e decorò l’oratorio di Santa Cecilia, esistente in quel predio, e ne volle esten- dere i confini acquistando i fondi prossimi, convenendone amichevolmente il prezzo dei padroni, e decretò che i fondi e la domusculta, denominata di Santa Cecilia, fossero in perpetuo uniti al patrimonio Tiburtino, spettante alla Chiesa romana. Lo stesso Pontefice inibì ai suoi Successori, ed a qualunque altra per- sona, di alienare quello che costituiva la sopradetta domusculta. fmi i TT e a CAPITOLO IV 33 Il Pontefice Adriano I (772-795), nel fondare la domusculta di Capracoro, stabilì, con privilegio Apostolico, e sotto pena delle più gravi censure, che si mantenesse fermo l'obbligo della conservazione perpetua della sopradetta fondazione agricola, in uso ed in beneficio dei poveri, ch'egli considerava, come fratelli in Cristo. Disponeva quindi che si riponessero nei granai i raccolti diversi, e così il vino ed i legumi, che dovevano essere attentamente conservati nel magazzino. Aggiungeva, che fra tutti gli animali suini allevati, e fatti grassi (inglandati), nei varî casali della sopradetta domusculta, se ne uccidessero cento, e se ne ri. ponesse la carne salata nella dispen:a del Laterano (in paracellario). Di tutte le corrisposte e percezioni varie, raccolte dalle diverse domusculte, i Pontefici ne disponevano per fare elargizioni di elemosine ai poveri di Roma e del suburbio, che giornalmente erano alimentati sotto il portico del Patriarchio del Laterano (1). Dal secolo rx le proprietà nel suburbio di Roma e particolarmente i lati- fondi dell’Agro romano, erano divisi -- fatta eccezione della proprietà privata — tra il Clero delle basiliche, delle chiese, o dei monasteri, e fra i signori, che già ‘+ avevano iniziato la loro dominazione feudale. Faremo per sommi capi una rassegna, nell'intento di dare una idea del come, in quei tempi, la proprietà fosse divisa, in seguito alle continue e gene- rose donazioni, che erano avvenute per la suppoòta fine del mondo (come in quel tempo forse si disse) e che già si vaticinava fissata e stabilita per il Lig cipio del secolo x, sebbene ciò sia sinentito da autorevoli storici. E per notare sommariamente ciò che apparteneva alla prima Chiesa del- l'Orbe — Caput Urbis et Orbis — «San Giovanni in Laterano » rileviamo dai Regesti pontifici, che il Pontefice Alessandro II (1061-1073) donò ai Canonici di quella basilica la metà di tutte le oblazioni; che erano fatte dai fedeli a quella Chiesa, nonchè tutte le case circostanti a quella, e molti altri fondi esistenti in varie città e luoghi (2). Il Pontefice Alessandro IV, nel giorno 19 maggio tell’anno 1154, ad esempio di Leone IX (1049-1054), e di Alessandro II, confermò alla Basilica il possesso dei fondi, annoverando tutti beni, che ne costituivano il patrimonio, Da un breve di Alessandro III, datato da Segni, il giorno 20 agosto del- (1) Anastas. Bib/. Muratori, R. I. S., tom. III, parto I, pag. 188, 190. (2) Joannas Diac., e, VIII: Kenr. P. Reg. Pont. Rom., I, 25. 3 34 CAPITOLO IV l’anno 1179, risulta, che la Chiesa Lateranense, pagava annualmente otto rubbia di grano, altrettante di orzo e quattro salme di mosto, per le terre, e le vigne e le quattro mole, che esistevano nelle varie possessioni del Lago (1). Papa Celestino III, nell’anno 1195, al 31 di luglio, fece consegnare &all’Ar- ciprete e chierici di Santo Stefano al Monte Celio, un tenimento separato dai possessi Tuscolani, ed i confini ne furono stabiliti da Giordano Cardinale del ti- tolo di Santa Pudenziana, da Uguitone ('ardinale del titolo di San Martino, da Gregorio cardinale del Titolo di Santa Maria in Aquiro, e da Pietro di Alessio (2). Così, papa Pasquale I (817-824) dopo aver costruito il Convento di Santa Pras- sede, che affidò alla Congregazione Greca, dotò quella istituzione di varî fondi e possessi rustici ed urbani (3). Sisto III edificò la basilica di Santa Maria Maggiore, che anticamente di- cevasi di Liberio, in vicinanza del macello di Libia! e lo stesso Pontefice costituì il patrimonto di quella Chiesa, con doni e possessi, che vengono annoverati nell’atto di donazione (4). Nell’anno 1130, nel giorno 25 di maggio, Anacleto II Antipapa, nel con- sacrare la Chiesa di San Lorenzo in Lucina, donò a quei Chierici tutte le ren- dite della possessione Massa, ossia della Selva Proba, con patto, che dovessero pagare ogni anno un censo di due marabbottini al Palazzo Lateranense, e che dovessero costruire nel fondo, stato donato, una chiesa dedicata ai Santi Lucia ed Ippolito (5). Urbano II, con una sua Bolla del 28 novembre 1094, deputò tre abbati, due in Roma, ed uno in Rimini, per giudici e conservatori dei Castelli, villaggi e possessioni, spettanti al Monistero di Santa Maria e San Gregorio «in Campo Marzio (6). Il Pontefice Urbano III, in una sua lettera da Verona; sotto la data 14 feb- braio 1186, dichiarò di aver preso sotto la sua protezione la Chiesa di San Lo- renzo in Damaso, e confermò ad essa, oltre il possesso di tutti i fondi, che no- (1) KEHR, 1. c. 29. (2) Ir, 42. (3) Duc®esNE, Zib. Pont., IT, 54, Vita Pascalis I. (4) Isr, II, 232 sg. Vita Xysti III. (5) KEHR, 1. c. (6) HvacintTHUs DE NOBILIBUS, in chronic. DUCHESNE, Lib. Pont. II, 39, not. 47. Lr CAPITOLO IV 35 minò espressamente, anche col titolo di parrocchia, che già quella Chiesa aveva, L'atto fu sottoscritto da 14 cardinali, e rogato da Trasmondo, notaio della Chiesa romana (1). i Alla Chiesa di Sant’Eustachio, — propre templum Agrippae — che era una Diaconia della Chiesa di Roma, il Pontefice Gregorio II (715-731), diede in en- fiteusi perpetua il fondo Clivo, nonche tutti gli altri possessi, che costituivano la Massa Calciana, del patrimonio Labicano, e della Massa Aliana del patri- monio Tiburtino (2). Il Pontefice San Marco nell’anno 336, fondò la Basilica di San Marco (juzta Pallacinis) e la dotò di varî fondi, fra i quali, quello Antoriano sulla via Claudia, l’altro detto Baccanas sulla via Appia, ed il fondo Orrea sulla via Tiburtina; e poscia Celestino III (1143-1144) concesse alla Chiesa stessa una massa di fondi, con censo annuo di 10 solidi (3). Al Monistero dei Santi Alessio e Bonifacio, sul Monte Aventino, Papa Gre- gorio V, nell’anno 996, concesse per privilegio la metà della Porta Ostiense, coi suoi diritti e con tutte le sue pertinenze (4). Astura, che fu un’antica città, ap- parteneva nel secolo x al Monistero sopradetto; che aveva fatto quivi costruire un convento, e dappresso a quello, un piccolo porto sul mare. I luoghi circostanti erano tutti coltivati (5). Papa Pasquale I (817-824) costruì un Monistero in onore delle Sante Agata e Cecilia, in prossimità della Chiesa loro dedicata, nel luogo che dicevasi C'olles jacentes. Per costituirne le rendite, donò varî fondi con casali, 0 masse abitate dai coloni, con le relative abitazioni per le loro famiglie, e per tutti gli altri agricoltori; e tutto ciò fu unito, con regolarità e giustizia — secondo quanto stabilivano le leggi — a quanto già aveva donato il Pontefice predecessore Leone III, cioè campi, vigne, e case anche per i coloni, del che il sopradetto Papa Pasquale I, fece speciale conferma al Monistero sopradetto (6). Una Bolla del Pontefice Gregorio II (716-730) in data 13 novembre, sta- bilì che tutti gli oliveti, il prodotto dei quali servir floveva per le luminarie (1) KEuUR, Il. c., A, (2) KEAR, |. c., 97, (3) DucHesne. Zib. pont., 1,202. KERR, |. c., 100, (4) KERR, 1, c., 116, (5) Cod. Vat. Lat. 8046. Nerini, De femplo et coenobio, ecc., Cap. IX, X. (6) Ducnessne, Zib. Pont. LI, 57. Vita Paschalis, 36 CAPITOLO IV intorno ai sepoleri degli Apostoli Santi Pietro e Paolo, dovessero essere inaliena bili, e sempre mantenuti e coltivati (1). Infatti, la Basilica di San Pietro posse- deva molti tenimenti, e specialmente sulla via Cassia, che uniti insieme avevano una superficie di Ea. 7700 come sì riscontra in una Bolla del Pontefice Leone IX, dell’anno 1053 (2). Papa Pasquale I (817-824) riconfermò al Monistero di San Paolo fuori le mura, il possesso di tutti i beni, e particolarmente della domusculta Galeria, con i coloni e con le mogli di essi, tutto compreso nei suoi confini, eccettuato un piccolo terreno, che era stato riservato al Monistero di San Saba sull’Aven- tino (3). Lo stesso Convento di San Paolo, godeva il dominio e le rendite sopra ettari 18,500 nella campagna romana, come si rileva da una Bolla del Pontefice Gregorio VII, dell’anno 1074, ai 14 di marzo, che conferma tutti i beni del Mo- nistero sopradetto (4). Fra gli altri tenimenti, v’era altresì la' tenuta di Pratica (Patrica), donata nel secolo 1x dal Pontefice Marino I allo stesso Monistero. Da una Bolla di Papa Anastasio IV (1153-54), rileviamo, che la tenuta di Castel Fusano apparteneva al Monistero di Sant’ Anastasio ad Acquas Salvias (5). Il Monistero di Sant'Andrea al Clivo di Scauro, oltre varî fondi, posse- deva anche la Massa Claudiana, della estensione di ettari 9500 (6). Alla proprietà delle Basiliche e dei Monisteri, si deve aggiungere quella della Chiesa Romana, e del Romario Pontefice. San Gregorio Magno, sul finire del se- colo vi, possedeva ben 23 patrimoni, dei quali alcuni vicini a Roma (7). Il Liber Censuum, di Cencio Camerario (poi Onorio III), nel principio del xnI, registra tutti i censi dovuti alle Chiesa romana, e fra questi, diversi gravavano i fondi dell’Agro romano (8). Dopo le chiese, i monasteri, e la Chiesa in generale, si debbono notare i feudatari, che rappresentavano le grandi famiglie, dal secolo xr a quello x, (1) Nel portico della Bas. Vat. è scolpito su dune tavole marmoree. (2) Ball. Bas. Vat. tom. I. 15, 22, 29. (3) GaLLerTI. Del Primicero, 368. KEHR Il. e. 167. (4) Bull. Cass. Tomo II 107, Coppi Doc. stor. del medio evo, doe. n. 23, pag. 209, (5) Cod. Vat. Lat., 5844. (6) Ann, Cam, Tom. IL. App., pag. 196. (7) Vita Gregorii I, lib. II. JoanNIS Draconi, S. Gregoriî Epistolae, lib. XI, 4; lib, X, 5; lib. XII, 9. (8) Ann. HM. E., tom. V. 852, DI CAPITOLO 1V 37 come i Conti del Tuscolo, quelli di Anguillara, i Colonna, gli Orsini, i Frangi pani, i Savelli, gli Stefaneschi, gli Annibaldi, i Caetani, i Venturini, e tante altre famiglie nobili. Nonostante ciò, si deve riflettere che il numero delle grandi famiglie sopradette era molto inferiore a quello dei luoghi indipendenti, che una volta popolavano le terre dell'Agro Romano, Il Governo di Roma, e quello delle Provincie per varî secoli fu fortunoso, e rimarchevole per le varie vicende ca- gionate dalle continue scorrerie dei Saraceni, nonchè dalle lotte costanti fra le famiglie feudali, che, a vicenda, si contrastarono il dominio ed il possesso dei luoghi abitati e delle campagne intorno Roma. Nel principio del secolo x1, la Campagna romana si trovava in uno stato migliore, ciò che è dimostrato da una Bolla di Benedetto VIII, dell’anno 1018, trascritta fedelmente in un’altra di Gregorio IX in data 1° agosto 1228 (1). In quella il Pontefice ‘Benedetto concede ed assegna alla Diocesi di Porto, che al- lora era retta dal vescovo Benedetto, molte vigne e poderi, fra i quali uno, in vocabolo Palmis, con case, vigneti, orti, terreni e pascoli, fino ad un luogo detto l'antico forno di spettanza del vescovado, presso un antico monumento, che era posto al 10° miglio da Roma. Nomina ancora l'Isola Minore, presso l’antico porto Traiano, che pure era coltivata a vigna, con le case dei coloni. Tutti i luoghi nominati con i loro antichi vocaboli di S. Ippoliti, Cardeto, San Lo- renzo, Scaraio, Torre cucuzuta, Bacato, porto di Traiano ed altri molti, posti nel suburbio della città di Porto. Così anche la chiesa di Santa Maria di Galeria, col ponte e rivo dello stesso nome, con orti, case, terre e casali, selve, pantani _ e lo stesso borgo di Galeria, che all’intorno aveva i terreni dotati di alberi frut- tiferi ed infruttiferi, con pozzi, fontane, rivi ed acque perenni, e perfino con una mola. Ugualmente sulla via Portuense fu assegnato un prato colto, e bene esposto dal lato di mezzogiorno (assolatum), al 12° miglio della via sopraddetta, nel luogo, che chiamavasi campo Meruli, a confine da una parte, coi prati caraci, che anch’essi chiamayansi Meruli. Gli altri confini sono designati coi nomi di coloro, che erano proprietari in quell'epoca, o che erano affittuari. Da una Bolla di papa Giovanni XVII (detto anche XIX, dei conti Tusculani, e fratello di papa Benedetto VIII) riportata integralmente in un’altra Bolla di Gregorio IX, in data 24 settembre 1236 (2) vengono confermati al vescovo Portuense e di (1) Arch. Vatic, Regesta Gregori PP. IX, lib. X, fol. 245, n. 5: JAFFÈ, 510, n, 4071, (2) Arch. Vatic. Regesta Gregorii PP. 1X, lib. IX, fol, 241, n. 3, 38 CAPITOLO IV Santa Rufina tutti i fondi, coì loro abitanti, colle Massae, corti, casali, ville, vigne e terre. Vengono menzionate varie colonie, sotto i vocaboli Furcula, Tar- diliano, Martiniano, Solaro, Cortina, Gradulfi, Valle, Fontana, Santo, Coriliano e ‘ Lauro, ecc. In questi vi sono comprese quelle della Massa Cesana, e la colonia di Cesano coì vigneti, casali, ed altro. Nella concessione viene compreso anche il fondo, entro il quale era stata costruita la Basilica dedicata alle Sante Rufina e Seconda, unito all’altro in vo- cabolo Arcione e Monte Gicordani, con le case coloniche, vigne e terreni, boschi, e qualunque altro luogo, colto od incolto, coi servi e domestiche, coi coloni quivi residenti di ambedue i sessi od età (1). Nel periodo dall’xr al xiv secolo, in cui avvennero tante guerre fra i prin- cipali feudatari, che a vicenda si alleavano, per poi tornare a combattere cia- scuno contro quello, che prima eragli amico, fu certamente poco sicuro il godi- mento ed il possesso delle terre appartenenti ai Baroni, e più ancora dubbio, quello spettante alle Chiese ed ai Monisteri. Infatti in quell’epoca, i Signori s'impadronirono con protesto di diritto o di varî titoli dei tanti tenimenti, che alle fondazioni religiose appartenevano per lasciti e donazioni. Spesso i Monisteri, e i dignitari della Chiesa, dopo una violenta usurpazione subìta, si contentavano di un atto di ossequio o di sottomissione di quei prepotenti feudatari, e subito dopo ottenuta l’assoluzione pontificia, li investi- vano del possesso dei luoghi usurpati, mediante un simulato tributo, che spesso era irrisorio. I Conti di Galeria davano tre libbre di cera al Monistero di San Saba all’Aventino per quel feudo (2). Gli Stefaneschi consegnavano un cinghiale per il vastissimo tenimento di Porto (3), e per il Castel di Guido tre solidi d’oro (4), (1) « Fundum in integrum qui appellatur Arcion et Montem Gicordani, cum casis, « vineis et terris, silvis, cultum vel incultum, mna cum servis et ancillis, atgne colonis « ibidem vesidentibus, utrinsque sexus et actatis >. (2) Marini. Papiri diplom., n. XUV, pag. 71. (3) Archivio Capit. Greg. XIV, tom. 52, fol. 101. (4) L’arreus solidus. fu la sola moneta presso gli untichi romani. Più volte variò nel peso e nel valore. Secondo Plinio cominciò ad aver corso in Roma soltante l’anno 203 avanti G. C. Il suo peso allora fu di uno serzpolo — la 24% parte dell’oncia — ed ebbe il valore di 20 sesterzi, o 5 derari — circa lire 4.09, Aumentò poi di peso e per conseguenza di valore nel lungo periodo da Augusto a Costantino. Ebbe allora il valore di 22 dezari, o 100 sesterzi — circa lire 20.38. La lira d'oro era composta da 72 solidi, ossiano settemila sesterzî. — cirea lire 1426,54 — Da ciò facilmente si può conoscere il valore di ciascun solido, CAPITOLO IV 39 e 15 some di legna (1). I Conti Anguillara pagavano due marabottini per il ca- stello di Ceri (2). In quei tempi i Romani più volte tentarono di ristabilire l’antica repubblica, mentre le famiglie feudatarie invece agognavano di dominare Roma, pur com- battendo fra loro e dilaniandosi in varie guise. Le provincie s'erano emancipate e rese indipendenti. I Pontefici emigrarono in Francia dal 1305 al 1477. In un periodo così lungo di vicende sempre più deplorevoli, trascorsero ben due secoli, e la città di Roma ne subì certo le maggiori conseguenze, perchè restò quasi isolata ed abbandonata dagli Imperatori e dai Pontefici. Fu quindi necessario, allora, che i Romani tornassero nuovamente alla vita agricola, per poter sostentarsi coi prodotti delle campagne, che circondavano l’infelice città, divenuta quasi abbandonata, perchè la sua popolazione ascendeva a soli dicias- sette mila abitanti (3): Quanto abbiamo narrato dimostra, quali fossero le condizioni di Roma e del suburbio, nel secolo xIv, dopo la partenza dei Pontefici, che avevano tentato nei passati secoli di far rivivere l’agricoltora, e per dedurre che i romani, sempre angustiati dalle lotte intestine delle famiglie potenti, che fra loro si contende- vano il primato, non solo di Roma, ma più ancora dei vicini castelli, non pote- rono mai ottenere salutari provvedimenti, che valessero a ripristinare la nobile arte dell’agricoltura. In quei tempi, sia per la difesa dei proprietari dei latifondi, sia per quella dei coltivatori dei luoghi, erano stati costruiti numerosi castelli nella campagna romana. Così notiamo il castello dei Caetani sull’Appia, il Castrum Balcae in diocesi Portuensi, ora tenuta di Valchetta sulla Flaminia; e su questa v'era anche il castrum Petrae Pertusae, e più lontano ancora, il vetus castrum Orcianum. A poca distanza da Roma il castello di Cornazzano e quello di Galeria; e sull’Aurelia, quello di Cere e Cerveteri, nonchè Santa Severa, Santa Marinella, Testa di Lepre, Palo e Castel di Guido, Castel Giuliano e Boccea, e nelle vicinanze anche Castel- malnome, che nel secolo xv si dice già diruto. Sulla Ostiense, la città di Ostia, e quella di Porto sulla via Portuense. Nè deve tralasciarsi Ardea, già capitale dei Rutuli, ed i Castelli di Patrica (oggi Pratica di mare), Fusano e Decimo, ed sett. I» (1) Anna]. Cam., tom. II, append., pag. 251 e tom. IV, pag. S5-185. (2) MusatORI, Ann. M. £., tom. V, pag. 852, (3) CancELLIERI, // Tarentismo di Roma e sua Campagna, a pag. 26, 40 CAPITOLO IV il Castrum Sulfuratae, nonchè quello Verposae (oggi Buon Riposo) ed il Castrum S. Petri in formis (Campomorto) et Conchae, nonchè quello di Fossignano. Nel secolo xnI, ci apparisce dai documenti, il Castrum Longhitiae (Lunghezza) ed il Borgo de Osis. Nello stesso secolo si fa menzione del Castello di Castiglione, ed una concordia fatta nel secolo xv, parla del Castrum Leonis. Varî documenti ci dicono del Custello di Sant'Onesto (Marco Simone), come anche del Castrum Ar- chionis. Sulla Salaria, nel secolo sopra detto, si rinveniva il Castrum Massae; e notiamo anche il Castel Giubileo, Torre Marozia, Torricella (oggi Tor Mancina) e molti altri, dei quali tratteremo diffusamente in seguito. Dai documenti, che citeremo, apparirà che molti luoghi, ora tenute, o sem- plici casali dell'Agro romano, non furono per sempre luoghi incolti, nè senza abi- tanti. Questo è confermato da un Motu proprio del Pontefice Pio VII, in data 15 settembre 1802, ove si legge che « parecchi latifondi ridotti alla condizione < di tenute vale a dire ridotti allo stato di spopolazione, ed abbandonati quasi « interamente alla naturale produzione delle erbe, un tempo, ed anche non molto a «noi lontano erano ricchi di prodotti e di abitanti, ciò che si rileva dal nome delle « tenute giurisdizionali, che tuttavia conservano ». CAPITOLO V 41 CaprtoLO V. Innocenzo H — « Statuta Artis Agricolturae ». (Ann. 1130-1407). Gli studiosi della storia e delle cronache del medio evo, sanno quanto mai siano scarse le notizie sull'economia pubblica, specialmente per quanto riguarda la città di Roma. Le continue e pazienti ricerche, hanno messo in luce innume- revoli documenti, che illustrano i fatti storici di quei tempi, ma da essì non ri- sultarono, quasi mai, le desiderate notizie sull'economia pubblica di Roma in quel- l’epoca. Infatti, tutti gli scrittori o cronisti dei secoli di mezzo, si occuparono sempre delle notizie politiche e storiche, lasciando pochi dati sull’economia dello Stato. I continui rivolgimenti politici causati dalle fazioni del medio evo, fecero passare l'’Amministrazione pubblica da un partito all’altro, e per questo motivo le stesse notizie storiche sono giunte fino a noi, in modo così incerto e dubbio, da costringerci a ricostruire il passato, sempre in base ai documenti, e fra questi spesso ne risultano dubbi ed incerti alcuni laconicamente menzionati dai cronisti. Un documento, ci pare meriti di essere segnalato, non solo perchè può essere utile contributo di studio intorno alla pubblica economia di quei tempi, ma perchè ci offre un esemplare di contratti agricoli enfiteutici del secolo xn: da esso possiamo anche farci un’idea generale dei patti colonici di quell’epoca. Nell’anno 1139, e nel giorno 29 settembre, l’abbadessa Agnese del Monistero delle SS. Agnese e Costanza, sulla via Nomentana, col consenso delle monache di quel convento, diede in enfiteusi, ad un certo Piefruccio, ed ai suoi eredi e suc- cessori, un terreno coltivato ad orto, per piantarvi una vigna con albereto, nel luogo detto ad forman de pilo fuori la Porta Nomentana. Il canone annuo, da pagarsi il 13 gennaio di ogni anno, nella festa di San- t'Agnese, venne fissato a /4 solidi di denars Papiensi, ma fintanto che la vigna non avesse prodotto l’uva, il colono avrebbe dovuto pagare oltre due solidi per l'orto, la quarta parte di tutto il vino depurato, nonchè la quarta parte del’ac- 42 CAPITOLO V quato, che fosse stato prodotto in ogni anno nella vigna, oltre un canestro di uva, secondo le convenute dimensioni. N La corrisposta del canestro d’uva, doveva essere data per ciascuna pezza di vigna eseguita. Se nello scasso della vigna, si fosse rinvenuto sotto terra, oro, argento, qual- siasi metallo o pietra che valesse oltre 12 denari, il colono doveva darne la metà al monistero (1). La mancanza delle notizie è riscontrata anche nell’anno 1143, allorchè il popolo romano, ribellatosi al Pontefice Innocenzo II, trasmise la suprema auto- rità ad un consesso di cittadini eletti con pubblico suffragio, perchè intimasse al Pontefice di restitnire al Senato di Roma tutti i diritti sovrani che erano chiamati regalie. Non abbiamo alcuna notizia speciale, che illustri questo fatto storico tanto memorando, ma tuttora oscuro., Soltanto può supporsi, che il Senato eser- citasse la riscossione dei dazi, perchè questi fecero sempre parte delle regalie (2). Fra le più antiche contribuzioni (anzi certo la prima) è il vectigal alabarchiae, tassa sui pascoli, detta già scriptura, come fu menzionato; e ciò indubbiamente derivò dall’uso di tener registrato il numero e la qualità dei bestiami, che erano ammessi nei pascoli. Lo Stato era proprietario dei terreni, ed i proprietari dei bestiami, che na- turalmente dovevano mantenerli coi pascoli, si rivolgevano allo Stato ; pagavano una data somma, e quindi andavano a pascere liberamente con le proprie bestie sui terreni, nel modo stesso come avviene ai giorni nostri tra i mandriani e i proprietari o fittavoli delle montagne. I proprietari infatti pattuiscono coi man- driani la cessione dei pascoli, purchè questi paghino una data somma, che viene stabilita di comune accordo, in ragione della quantità del bestiame e della du- rata del pascolo. E tale contratto, che ora per solito si fa coi privati, nei primi tempi di Roma, ed in alcune provincie, fino all’epoca del basso impero, fu con- suetudinario nelle campagne romane. Nel principio del mediò evo le prestazioni, secondo quante scrive il Mura. (1) Arch. San Pietro ad Vineula, Reg. Mon. Sant'Agnese, n. XIV, pag. 27. (2) « Regalia sunt arimandiae, viae publicae flumina navigabilia,, et ex quibus fiunt navigabilia, portus, ripatica, vectigalia, quae vulgo dicantur telonia, moneta, .maltarum, poenarumque compendia bona vacantia ». Vid, Consuetudines feudorum, II 56, MALA- Testa Siciswonpo. Statuti delle Gabelle di Roma, pag, 20, CAPITOLO V 43 tori, costituivano le pubbliche entrate, ed erano quella del pontaticum, pedagium, portaticum, escaticum, terraticum, glandaticum, herbaticum, plateaticum, ripaticum, palificatum, navalia, telonia, ecc. (1). Roma fu sempre un centro agricolo (2) data la importanza della campagna, che lo circonda per la vastità, e per la feracità della stessa. La giurisdizione del Comune sul districtus Urbis, formava il fondamento del suo essere, ma il na- scente feudalismo, per la sua costituzione, e per la sua natura, fu sempre con- trario e dannoso alla. coltivazione della Campagna romana. Fu quindi sommo interesse del Comune Ngpzi sommamente necessario per esso, ricuperare in ogni momento storico opportuno, la sua giurisdizione per procurare il rifiorimento e la stabilità dell'agricoltura. Il Comune democratico sorto sotto Innocenzo II, nel 1143, come già accennammo, riprese la sua ingerenza nelle cose relative al- l'agricoltura dell’Agro romano, primieramente difendendo i cives romanos contro i Baroni, come si rileva dagli Statuti. ed in secondo luogo, col ripristinare l’agri- coltura, proteggendo i relativi sodalizi. I quali sodalizi furono antichissimi in Roma, e dopo breve interruzione furono nuovamente ricostituiti per associa- zioni volontarie. Una prima causa del loro nuovo essere. fu certo la Religione, avendosi per obbiettivo la protezione dell’arte relativa, e la reciproca beneficenza fra gli associati. Primeggiò fra tutti quello dell’ Ars bobacteriorum, sodalizio unico nella specie, che non ha riscontro in aleun comune d’Italia. Esisteva già fin dal secolo xI, come rilevasi dai documento Farfense dell'anno 1088, allorchè Do- nadeo preposto del Mon. di Farfa, reclamò avanti a Pietro, Prefetto della città, a Gerardo de Melioso di Crescenzo, a Leone figlio di Cencio Fraiapane, a Sar- raceno di Sant’Eustachio, ad Uberto di Taxillo, a Nicola di Cencio Baronci, a Cencio di Cencio Roixonis, ad Enrico di Sant’ Eustachio, tutti consoli della Com- munitatis boum. (bobacteriorum), perchè Rustico di Crescenzo aveva occupato, e riteneva il Castello di Corese, di proprietà del sopradetto Monistero. Tutti i so- prannominati appartenevano a nobili famiglie romane di quel tempo, come si rileva dai nomi citati. : Il sodalizio della Communitas boum (bobacteriorum) a nostro credere, rappre- senta qualche cosa di più che una semplice associazione, e speriamo, che docu- menti ancora inediti e sconosciuti, possano dare ragione a ciò. (1) Murat. Antiquit. Med. Aevi, Dissert. XIX. (2) ViLLari P, // Comune di Roma nel Medio Evo, 44 CAPITOLO V Le persone associate alla Communitas boum (bobacteriorum) erano possidenti, non feudali ma liberi, e poichè la proprietà aveva subìto fin dal Ix secolo un deprezzamento fondiario (che fu l’origine dell’enfiteusi baronale, e del censo reli- gioso) in ragione del valore diminuito della proprietà rustica, aumentava quello del valore del bestiame. Di conseguenza, possidente vero era soltanto colui, che aveva le terre dotate di molto bestiame. Su queste basi rifiorì, in quei tempi, l’agricoltura; ed ecco come la Communitas boum divenne poi la nobilis universitas bobacteriorum Urbis, dalla quale discese la nobilis Ars agricglturae, e quindi è Mer- canti di campagna. Tale sodalizio fu sempre tanto stimato, che i boattieri, col volgere del tempo, ebbero il Governo del comune di Roma. Il 22 di novembre dell’anno 1220, Papa Onorio III approvò le leggi pub- blicate dall'Imperatore Federico II, a tutela dell’agricoltura, secondo le quali si comandava, che nei tempi in cui gli agricoltori erano occupati nei lavori della terra, niuno ardisse di molestarli, o di togliere loro il bestiame, gli strumenti agricoli 6 qualsiasi cosa fosse attinente all’arte agraria. Che, sé per caso, taluno fosse tanto audace o temerario, di trasgredire quanto era ingiunto, e commet- tesse furto di cose agricole, fosse non solo costretto a restituire il mal tolto, ma eziandio a pagare il prezzo per quattro volte (1). I colpevoli poi erano dichia- rati infami, ed incorrevano nello sdegno dell’Imperatore (2). Il Senatore di Roma, Luca Savelli — che, secondo i cronisti del tempo sa- rebbe stato scomunicato da Gregorio IX, nell’anno 1234 — promulgò un editto, rivendicando all’autorità cittadina il diritto di mettere nuove imposte, tanto sui forni quanto sui pascoli (3). Dagl? Statuti dei mercanti abbiamo la notizia del sodalizio degli agricoltori in Roma, poichè da quelli risulta che nell’anno 1262 i Consoli dei Mercanti e dei bovattieri furono incaricati, insieme a ventisei boni wviri, eletti dal popolo, di provvedere alla riforma della Città e delle arti (4). Dall’anno 1300 in poi, le tasse per le contravvenzioni del bestiame venduto o permutato în campo venivano esatte nel luogo detto la Torre del Campanaro (1) « In quadruplum ablata restitual ». (2) Tireiner. Cod. Dipl. Dom. S. S. I. fol. 59, XCHI. (3) G. ViLani, lib. II, cap. XCV, Gregor. IX, Vita. Ex Mss. Card. Aragon. Mu; RATORI R. I. S., Tom. III, 579. { (4) Gatti. Statuti dei Mercanti, cap. 145, pag. 57. Ricci, La Universitas bobacterio- rum Urbis, in Arch, Soc, Rom, XVI, 135, CAPITOLO V i 45 o di Pallara, presso la Colonna di Foca (1); donde rimase a quel luogo la de- nominazione di Campo Vaccino, fino ai giorni nostri, anche perchè quivi si te- neva il mercato del bestiame. Il Pontefice Benedetto XII, nell'anno 1335 ai 21 di luglio, spedisce una let- tera datata — apud Pontem Sorgie — presso Avignone, diretta ai Consoli dei mercanti agli stessi mercanti, et consulibus bobacteriorum, et eisdem bovactertis, perchè si adoperino a comporre le discordie insorte fra i Colonna e gli Orsini (2). Lo stesso Pontefice, nel giorno 30 agosto dell’anno 1335, invia un’altra let- tera ai Consoli dei Mercanti, Consulibus bobacteriorum, ed a quelli delle arti e | mestieri (3). Fin dal principio del secolo xiv in Roma v'erano tredici corporazioni e s0 dalizi diversi; ma le maestranze dei Mercanti, e quelle dei boattieri (bobacterio- rum) come già in antico, così allora erano considerate, come le più impor- tanti (4). Cola di Rienzo, adunato il popolo romano, nel giorno 20 di maggio 1347, espose il risultato della missione avuta presso il Pontefice Clemente VI. In quella circostanza, Cola fu eletto tributo del popolo, e posto in signorìa del Campidoglio. Egli emanò subito gli ordinamenti del buono stato, ed all'articolo settimo pro- scrisse che li denari, li quali vengono da lo facatico e da lo sale e da li porti e da li passaggi e condannazioni, se fora necessario, si dispensino al bono stato (5). Il Pontefice si lagnò di questi provvedimenti, che sebbene fossero saggi, tuttavia ritenne lesivi dei suoi diritti (6). È. Alla seconda metà del secolo XIV, appartiene un manufatto originale, che si conserva in Roma, nel cortile del Palazzo dei Conservatori in Campidoglio. È un cippo marmoreo, proveniente dal Mausoleo d’ Augusto e vi posava l’urna funeraria di Agrippina Seniore, moglie di Germanico, come apparisce chiaramente dalla iscrizione scolpitavi. Questo antico monumento fu adattato a servire per misura legale del grano : e nel medio evo fu chiamato, come appare dalla indicazione incisa sul marmo (1) Re. // Campidoglio, ecc., a pag. 7. MarvccnI. Descriz, del Foro rom., a p. 131. (2) Treixer, op. cit, II, XI, fol. 6. (3) Isi, 1. c., doc. XLVI. (4) Grecorovius. Stor. di Roma, ecc., IX, cap. VII, (5) Axoximo, Vita di Cola da Rienzo, cap. VI, pag. 48. (6) Taener, | c., doc. CUXXXII 6 CLXXXV. 46 CAPITOLO V rugitella de grano. Il cippo sopradetto ci conserva la sola ed unica memoria di quei banderesi o cavalieri, che esercitarono tanto potere nel secolo xIv. Nella parte superiore del cippo, si vede scolpito lo stemma del Comune di Roma, sostenuto da due figure, coperta l’una dello scudo, l’altra armata della balestra, cioè da un pavesatore e da un balestriere. Al disotto si scorgono altri tre stemmi, due dei quali sormontati da banderuole coll’insegna del pavesatore e del balestriere. È certo che i due stemmi, sormontati dalle banderuole, appartengono ai due banderesì in carica, mentre il terzo stemma potrebbe appartenere forse al loro notaio. La ragione poi, per la quale lo stemma sia stato scolpito sulla rugitella, ossia sulla misura del grano, va ricercata soltanto nel fatto, che ai banderesi spettava assolutamente l’amministrazione della finanza comunale. Come alla rugitella de grano servì il cippo sepolerale di Agrippina, così di un consimile cippo di Nerone figlio di Germanico, trovato anch’esso nel Mausoleo di Augusto, si formò un’altra misura per gli aridi. Questo secondo cippo fu veduto da Cola di Rienzo, insieme con quello di di Agrippina in pede Capitolii e fu descritto come ridotto, ed adoperato pre mensuris. Nello stesso palazzo dei Conservatori, sono collocate altre misure del se- colo xiv, che furono assunte come campioni normali, per le vendite dei liquidi e degli aridi, e sono tutte ricavate in grandi blocchi di marmo, che già appar- tennero ad antichi monumenti dell’epoca romana. Sono così conservati due esemplari del Congio del vino, uno ricavato da un cippo, o base quadrangolare, l’altro da un tronco di un’antica colonna scanalata. Nella fronte del primo, sopra l'indicazione della misura, fu scolpito lo stemma dei Caetani, cioè le onde gemellate di azzurro in banda e campo d’oro: indizio forsé, che quei campioni normali per la vendita, siano stati ordinati al tempo di Bonifacio VIII. L’altro fu adornato con quattro teste di leoni simmetrica- mente disposte, ed una quinta simile che serviva a dare scolo al liquido. Il Congio dell'olio è stato ricavato da un antico cippo di marmo affatto si- mile al primo Congio del vino, e porta anch'esso lo stemma dei Caetani. © La misura dello scorzo è scavato in un tronco di colonna, eguale al secondo Congio del vino e fu ornata con teste di leoni. Per maggior chiarezza noteremo, che le misure normali per gli aridi nel medio evo erano: il rubbio (rublum), il mezzo rubbio (rublitella o rugitella), CAPITOLO V 47 poi la quarta, e finalmente lo scorzo che era, come è tuttora, la sedicesima parte del rubbio. Per i liquidi: il Congio, la congitella, cioè la metà del Congio, ed il boccale, che corrispondeva all’ottava parte del Congio (1). Papa Urbano V, nell’anno 1368, nel giorno 9 di agosto, scrivendo al Sena- tore di Roma, Beltrando di Renardo, raccomanda il sodalizio dei bovattieri, ut statum bobacteriorum commendatum habeat (2). La lettera del Pontefice, è un documento di conferma del fatto, che il soda- lizio, in qull’epoca, avesse tanto prestigio politico, che Papa Urbano non disdegnò cli farsi eleggere Console dell’arte dei bovattieri, e di accogliere il censo annuo che gli era dovuto a forma degli Statuti. Nella sopra citata lettera il Pontefice dice di aver ricevuto il sopra detto censo, composto di pepe e di cera, per mezzo dei nobili uomini e domicelli romani, Niccolò dei Tibaldeschi, Antonio Materia (3), il che dimostra come quell’arte o sodalizio, diportandosi lodevol- mente, fosse prediletto dallo stesso Pontefice con speciale benevolenza e come pertanto questi volesse, che il Senatore ne favorisse i singoli membri e gli ufti- ciali, prestando loro aiuto e tutelando i loro diritti. I più notabili dei quali membri sul principio del secolo xv ammontavano a ben quattrocento (4). E riuniti in un sodalizio, ebbero i loro- statuti fin dal- l’anno 1407, che in seguito furono riformati negli anni 1575 e 1647 (5). Il codice più antico dei bovattieri di Roma, che noi abbiamo potuto rin- venire, trovasi nella Biblioteca Vaticana (6). Da quello si rileva, di quanta stima godesse in quel tempo l’Ars bobacte- riorum, perchè in uno dei primi capitoli si stabilisce, che il primo Console del sodalizio, designato dalla sorte, dovesse portare il Gonfalone del popolo romano e presentarlo al Senatore, allorchè veniva in ufficio (7). (1) Re CamiLLo è Gamm Giuseppe. Mostra della Città di Roma all'Espos. della città di Torino nell'anno 1884, a pag. 94 e segg. (2) THRINER, 1. c., doc, COCOXLVII. Urbani V, Reg. ann. VI, secret., fol. 143. (3) « Nobis tanquam Consuli debitum per artem seu statum bovacteriorum de Urbe ». (4) Editto del Card, Stefaneschi, NicoLar N. N. Memorie, leggi, occ., II, pag. 28. (5) Statuti dell'agricoltara. Roma, 1718. (6) È un codice membranaceo, non numerato, in ottavo, del secolo xvi, che ha per titolo « Statuta bobacterioraum Urbis »; nel frontespizio ha una memoria dalla quale appa» risce, cho quel codico appartenne già a Giovannangelo Altemps, Codice Ottobon., 1821, (7) A pag. (non numerata 13). 48 CAPITOLO V In un altro capitolo (1) si determina, che a chiunque era lecito di lavorare coi buoi nelle tenute, e di farli pascere gratuitamente, senza che i proprietari potessero impedirlo (2) purchè il numero dei buoi non eccedesse quello neces- sario per il lavoro. In un capitolo successivo (3) si vieta a chiunque di lavorare nelle tenute altrui, senza aver ottenuto prima il permesso dal proprietario. Chiunque avesse fatto il contrario era condannato a pagare 25 libbre di provisini del Senato, da dividersi metà a beneficio della Camera Apostolica, e metà a favore del proprie- tario della tenuta. Gli Statuti regolano anche i rapporti fra î diversi condomini di una tenuta, nel caso che uno dei proprietari volesse seminare contro la volontà dei condo- mini. In qualunque caso stabilisce che i pascolari restino sempre intatti, e se uno dei comproprietari osasse di romperli contro la volontà degli altri, dovesse essere condannato alla multa sopradetta, da erogarsi nel modo già stabilito di sopra, oltre un dovuto compenso da da:si agli altri condomini. Gli Statuta bobacteriorum Urbis furono approvati nell’anno 1407 ai 20 di novembre dal Cardinal Pietro Stefaneschi, del titolo di Sant'Angelo, e Vicario del Pontefice Gregorio XII. In quel tempo essendosi dimesso da Senatore Pier- francesco de’ Brancaleoni, la carica senatoriale per mandato del Cardinale Vi- cario sopradetto, era esercitata da tre Conservatori, Domenico Paloni, Lello di Cecco Ottaviani e Giovanni di Nucio Velli (4). Gli Statuti furono poi letti e pubblicati in Lovio, ossia nella loggia del soda- lizio al Campidoglio (5), e l’atto della pubblicazione fu rogato dal notaio Antonio (1) A pag. (non numerata 42). ECO sine aligna contradictione dominornm casalinm ». (3) A_ pag. (non numerata 2). (4) ViraLe. Sforia diplom. (5) La Università dei Boattieri, era sita dietro l’antico palazzo Senatorio al Cam- pidoglio, dal lato verso il Foro Romano, in prossimità della via Faba Tosta. Vicino alla Colonna di Foca sorgeva una torre (detta del Campanaro o di Pallara) — come già os- servammo — dove si riscuotevano le tasse sul bestiame, e specialmente quelle sulle pecore, che venivano dalle montagne. (Camillo Re. // Campidoglio e le sue adiacenze, ece., a pag 7). di, Lia Torre che il Fulvio (edizione del 1527) dice « adhne extare ante Porticuam Fan- stinae » (c. 80), fu demolita nel 1536, per la venuta di Carlo V. Appena 53 giorni prima dell'arrivo dell'Imperatore, la Camera Apostolica emise l'ordine della demolizione. (Va- LERI. Rivista d’Italia, 1900, fase. 12, pag. 719). Nell'atto si dice « posita in foro romano, CAPITOLO V 49 . Signorili. Furono stampati soltanto nell’anno 1526 col titolo « Statuta nobilis Artis Bobacteriorum Urbis ». In seguito, essendosi riconosciuto utile di rifor- marli; nell’anno 1568, furono pubblicati dai Consoli dell’Agricoltura Gregorio Serlupi, Lentulo de’ Lentuli, Cesare Muti ed Evangelista Fabi, dopochè il Pon- tefice Pio V, con una sua Bolla del giorno 9 di settembre dell’anno suddetto, li ebbe approvati. Finalmente il Pontefice Innocenzo XI con sua Bolla, del giorno 3 giugno 1639, confermò gli Statuti, inserendo nell’atto i capitoli aggiunti dai Consoli sopradetti. Chiunque ponga a confronto gli Statuti del 1407, editi soltanto nel 1526, e le altre edizioni del 1566, 1573 e del 1627, coll’ultima edizione del 1718, dovrà convenire che gli Statuta bobacteriorum, non sono altro, che. gli Statuta artis agri- culturae; tantochè i paragrafi spesso sono stati copiati, e nell’ultime edizioni non sì parla più di Bobacteri, ma di Agricultores, Ars Agricolturae. Infatti nella pre- fazione degli statuti, editi nel 1718, si dice che « Lo Statuto dell'Agricoltura di « Roma, ebbe la sua prima origine, per. quello che possiamo conghietturare, molto « prima del Pontifixato di Gregorio XII (1406-409), sotto il quale essendo nel me- < desimo molte cose, che più non erano in uso, ed altre affatto super/lue, di maniera « questi si era renduto discutibile (sic) che i Consoli di quel tempo, i quali furono « Cecchino Collemacchi, del rione di Campo Marzio, Giovanni Antonio De Cosciari, e del rione di Parione, Nannolo di Giovanni Petitti, del rione di Trevi, tutti no- e bili Romani, prendendo le facoltà necessarie dal Cardinal Pietro degli Annibali, « detto de’ Stefaneschi, Vicario del Papa... coll’aiuto e consiglio di diversi altri « nobili romani ed intendenti dell’arte, compilarono i nuovi statuti... e questi ? ex apposito ecclesiae S, Laurenti Aromatarioram, ubi exigitur gabella animalinm ». Mar collo Alberini dice « un torraccio, dove si soleva tenere la dogana del bestiame ». (OrANO, in Arch. S. R. di Stor. Pat., tom. XIX, pag. 47). Turris Pallara., Avanti al tempio di Antonino e Faustina — nei pressi dell'arco di Fabiano, così trasformato — sorgeva la « /urris Pallarg ». lvi avevano il loro ufficio i Gabelliori per il dazio del bestiame, ed anco il mercato di quello — Campo Vaccino —. (Tomasserti FraNcESCO. Le forri di Roma). Quando fu demolita la torre — detta dell'Inserra — allora l'ufficio della gabella del bestiame, fu trasferito in altro luogo, che aveva dappresso una torre detta del Cam panaro, in prossimità della Colonna di Foca nel sito occupato dai p/utei marmorei. Il Rosa (Relaz. 1873, pag. 62) dice « i plutei stavano incastrati sotto una torre del Medio Evo, alla quale servivano quasi di fondamento ». (LANncIANI. Boll. Com., 1901, pag. 25, 28). ; 4 50 CAPITOLO V « Statuti sono quegli stessi, che furono pubblicati con le stampe Vanno 1526, con « il titolo: Statuta nobilis artis Bobacteriorum Urbis ». Ma questa indicazione non è esatta integralmente, perchè, come già no- tammo nel nostro Saggio bibliografico degli scritti e delle leggi sull Agro Romano, nella parte seconda, sotto l’anno 1526 menzionammo gli Statuta Bobacteriorum Urbis, Francisco Leno, Evangelista Magdaleno, Capiferro Fausto, Camillo Capra- nicensi, Bernardino Victorio Consulibus (1). In conseguenza di quanto dicemmo, la Universitas Bobacteriorum era quella che rappresentava l’arte dell’agricoltura, e la Communitas boum, era indubbia- mente 1’ Universitas Bobacteriorum (2), in quanto coloro che appartenevano a quel sodalizio erano grandi proprietari di bestiami, per mantenere i quali si procura- vano in affitto proprietà, o vasti tenimenti, come in seguito constateremo con documenti. L’arte veniva designata come nobilis, perchè questa era la tradizione fin dai primi tempi dell’antica Roma, quando i cittadini lasciavano l’aratro per assumere il consolato della città (3). Dai documenti di quell’epoca ci risulta, che la Campagna romana fosse poco coltivata, e per conseguenza fosse tutta destinata al pascolo. Dai secoli x e xI in poi, sorse la nuova classe dei proprietari di bestiami, che fino alla metà del secolo xv, aumentò per numero e per ricchezza, e giustamente venne osservato dal Reumont, che se l’agricoltura era in mano dei Bobacterii, il nome stesso di questi sta ad indicare la prevalenza dell’allevamento del bestiame (4). Ed in Roma il sodalizio dei Bovattieri, fin dal secolo xn, ebbe sempre la preferenza sugli altri, essendo questi menzionati prima dei mercanti, anco negli Statuti di questi ultimi: « Sicut declaratum... fuit per consules bobacteriorum » (5) e negli « Statuta Urbis » pecunia... perveniat ad Consules bobacteriorum et mer- catorum. E così altrove (6). I Consoli venivano retribuiti con un onorario mensile, di cinque libbre di provisini del Senato per ciascuno, oltre le consuete gagia, che probabilmente, (1) Bibl. Casan. 2024 Miscell., in-S°, T. 495. (2) Il testo Farfense dice boum. Evidentemente il segno sopra (+) è l’abbreviatura della parola « dobacterzorum ». (3) Cicero. Oratio pro Roscio Amerino. (4) Gesch. di Stor. Rom., III, p. I, p. 36 sg. (5) Stat. dei mercanti, p. 37. Riccr G. La « Universitas », ecc., 1. e., 151. (6) Lib. III, cap. 70, Ricci, ibi. CAPITOLO V 6l consistevano in cera e pepe, come la regalia presentata al Pontefice Urbano V nell'anno 1368 (1). Per la festa annuale dell'Assunzione, tutti i soci dovevano contribuire alla solennità; quindi ogni bovattiere che possedesse terre ed animali, pagava dieci soldi provisini del Senato : chi avesse soltanto terre od animali, pagava sette soldi provisini: e se più fratelli, avessero comuni gli interessi tra loro, dovevano pagare per una sola persona. Chi non pagava, non poteva ottenere alcun ufficio, nè poteva esercitare l’arte, nè possedere animali (2). Negli Statuta Urbis viene assolutamente inibito ai Consoli di chiedere denaro in prestito ad aleun ebreo per la festa sopradetta (3). Nell'anno 1390 il Senatore e gli officiali, di guerra e di pace del popolo Romano, ingiungono agli officiales, vicariis bulbucorum Siniballo ferraio de Re- gione Sancti Angeli, Cecho Palommelli de Reg. Campitelli, di non esigere nulla per qualsivoglia diritto della loro Curia dai bifolchi e pastori dell'Ospedale di Santo Spirito, nella occasione dei giuochi pubblici da farsi nella festa di Santa Maria nel mese di agosto, nè in qualsiasi altra, e ciò in perpetuo, e sotto la pena di mille ducati d’oro, pro quolibet vestrum, da riscuotersi a beneficio della Camera di Roma (4). Da tutto ciò è facile concludere che quanto poteva produrre l’Agro Romano in quei tempi, era tutto in mano dei bovattieri. Osservammo già, che gli Statuti dell’arte, riformati nell’anno 1402 e stam- pati la prima volta nell'anno 1521, e poi successivamente fino all'anno 1718, non siano altro che gli stessi Statuti Artis Agricol'urae; quindi non sarà opera disutile lo esame di alcuni dei capitoli più importanti, che se variano nella nu- merazione per la prima edizione pubblicata, non per questo sono diversi dal primo Statuto. Il capitolo XX (che diviene XXII nella edizione dell’anno 1718) determina chi debba appartenere al sodalizio, ed essere soggetto alla giurisdizione di quello. Divide gli aventi diritto, in due classi: « quelli che avranno qualche possessione, « casale, ovvero pedica, ovvero monticello di terra valsolam, o selva o bosco, 0 pan- (1) Staf. Bobact., cap. 1. Ibi, cap, 16, 17. (3) Stat. Urbis, II, cap. 247. (4) MaLATESTA, Sfaf. delle Gabelle, documento TV. ApinoLeI. Portic. dî San Pietro, documento 11. 52 CAPITOLO V « tano, 0 prato, o animali quadrupedì per esercizio di detta arte: come anche tutti « quelli i quali impieghino in qualche esercizio della medesima arte il loro tra- « vaglio, come per esempio, in seminare, qualsivoglia sorta di biade, di legumi di « frumenti, o coltivando e lavorando terreni in qualsivoglia modo per le dette cose, « mondando, mietendo, falciando, cooperando, travagliando, portando biada, legumi, « frumenti, tenendo animali e custodendoli, comprando o vendendo i medesimi, o « alcuni di essi, lana, cacio o qualsivoglia altro frutto degli animali, o dei casali, delle « possessioni, 0 facendo qualsivoglia altro esercizio delle medesime cose, o intorno ad « esse, di maniera che tutti, e singoli che in esse, e intorno ad esse, e nella dipendenza « delle stesse cose, si eserciteranno în qualche maniera: come altresì i Bifolchi, i Vaccari, «i Bufalari, i Carrari, è C'ondottieri de’ giumenti, + Gargari, i Pecorari, è Caprari, «i Porcari, i Casinghi, gli Asinari, i Mulattieri, i Butteri, e qualsivoglia altro pa- « store d’animali, e anche i custodi delle tenute, o Guardiani sotto qualsivoglia nome « chiamati, i Monelli, i Sementatori, è Tagliatori di legna, î Magazzimieri di legname, « gli Sterpatori, i Mietitori, gli Adunatori, î Tagliatori, i Forcinari, è Vetturali de’ < frumenti, di biade, e di qualsivoglia sorta. di strame, i Lavoratori delle tenute, «e finalmente. i portatori di grano, che abbiano argasteria, o bòttega, i misuratori «di grano e di legnami, i venditori di orzo al minuto, tutti siano compresi e s°in- « tendano essere dell’arte, e non possano declinare il Foro dell’ Arte, sopra le dette « cose în veruna maniera, anzi s'abbiano per soggetti al Foro e alla Giurisdizione « della Curia dell’ Arte in occasione delle cose suddette, e di ciascuna di esse, non « ostante qualsivoglia Statuto della città di Roma, o delle altre arti di Roma, ne « tampoco ostanti î privilegi conceduti o da concedersi al Doganiere della Dogana « delle pecore o agli affidati da lui ». Il Capitolo XLII sul danno dato nelle erbe di estate autunno o d’inverno, costituisce un documento sull'uso civico di pascere, poichè stabilisce, che il danno sul pascolo possa avvenire soltanto dal giorno dî Sant Angelo di settembre (29 set- tembre) fino a Sant'Angelo di maggio (8 maggio). In conseguenza il pascolo dal giorno 8 di maggio, fino al 29 di settembre, era degli utenti, ossia dei cittadini, fatto che tutt'ora riscontrasi nei Comuni del circondario di Roma. Dallo stesso Capitolo rileviamo, che il proprietario vendeva i pascoli fino alla festa di San Giovanni di giugno (24 giugno), come risulta chiaramente nel caso per la emenda del danno, che fosse stato prodotto dagli animali bufalini. Il capitolo XLIV stabilisce le multe per coloro, che arrecano danno; e così il proprietario del bestiame doveva pagare alla Camera Capitolina due baiocchi CAPITOLO V 53 per ciascuna bestia grossa, un baiorco per ciascun suino, mezzo baiocco per cia- scuna pecora o capra fino al numero di cento, e fino a qualsiasi altro numero, sotto cura di un custode, giuli sei in tutto, e per ciascuna volta. Se il danno avveniva di notte, la pena era duplicata. Nei campi che erano stati seminati, e dopo espor- tate le messi, la multa era duplicata di giorno; di nottetempo poi, quadrupli- cata. Nel caso che il danno fosse stato arrecato col bestiame suino, il padrone di esso era obbligato di acquistare il pascolo della spiga per quell’anno, salvo che il proprietario non avesse voluto venderlo, ed allora doveva essere soltanto compensato del danno. Il Capitolo continua, contemplando i varî casi dei danni campestri. ll passaggio per le tenute altrui, era regolato dal Capitolo LXX, in quanto che nessuno poteva passare per le tenute altrui con bestie; altrimenti era soggetto alla pena di giuli cinque, metà alla Camera Capitolina, e metà al proprietario della tenuta; se con barrozze o carri, era tassato di scudo uno, da dividersi come sopra; e se con armenti, alla stessa pena per ciascun branco, eccetto però qualunque caso fortuito. Nel caso però che il passaggio fosse ne- cessario par il trasporto di grani, di biade, legumi, pomi e qualsiwoglia frutto, legna, fascine strami, se il padrone della tenuta volesse impedire il transito, in tal caso i Consoli, ad istanza. della parte, dovevano inviare due periti dell’arte a stimare il danno, assegnando il luogo del passaggio, e riferirne ai Consoli, che dovevano decidere del prezzo, o compenso da pagarsi al padrone della ‘tenuta; e ciò senza appello o reclamo d’ambo le parti. Era vigente Ja consuetudine, che coloro, che prendevano in affitto i pascoii, oltre il prezzo convenuto, dovessero dare una certa quantità di formaggio. Ad evitare qualsiasi dubbio su quanto dovessero gli affittuari dei pascoli fu prov- veduto col Capitolo LXXVI, che si esprime così: « similmente che quando si fa « la locazione di alcuna tenuta o vendita d'erba, con espressione del prezzo, e lo ‘e cacio, che c'entra, non altrimenti esprimendo la quantità, che il cacio si intende < pagarsi a ragione di venticinque secchie per ciascun centinaro di scudi a giuli « dieci per scudo. La secchia però sia di dodici libbre di cacio pecorino e una ri- « cotta per ciascuna secchia ». Le maggesi e colti che si rinvenivano in una tenuta, al cessare della loca- zione, erano giudicate di proprietà del padrone, senza alcuna rifazione di spese (1). Chiunque imprendeva a lavorare la terra, per corrispondere al padrone della (1) Cap. LXXVII, 54 CAPITOLO V tenuta la quinta o qualsivoglia altra parte dei frutti, era tenuto di eseguire sette arature a tempi debiti ed opportuni, ed era altresì obbligato a coltivare diligen- temente, affinchè non provenisse danno al padrone della tenuta ; in caso con- trario era obbligato alla rifazione dei danni (1). Tutti coloro che avevano istituita una sementa sulle maggesi, erano tenuti a seminare la stessa terra a colto, una terza parte a grano, ed il residuo a biada. Che se avessero mancato a quanto era prescritto, erano obbligati a pa- gare i danni al proprietario della tenuta (2). Il capitolo LXXX c’informa dei patti, per una semina fatta a mezzadria. Chiunque riceveva una quantità di grano, orzo od altra specie di legumi, doveva a sue spese fare tutti i lavori necessari per la semina, e per la custodia della stessa, e quando i prodotti fossero stati mietuti, doveva trasportarli a sue spese nel luogo destinato per l’aja. Quegli poi che aveva anticipato il grano, orzo © legumi doveva provvedere alla mondatura della semina, alla mietitura e trita dei prodotti a tutte sue spese; e dopo che era tolta la risposta del terratico dal- l’intero prodotto, il residuo era diviso a completa metà. Ambedue i soci erano tenuti all’osservanza delle buone regole dell’agricoltura nell’esecuzione dei lavori; altrimenti erano tenuti ai danni, uno verso dell’altro. Erano esenti dalla responsabilità dei danni coloro che davano fuoco alle stoppie dopo il 1° di agosto; chi avesse fatto ciò, prima del giorno suddetto, era sottoposto alla multa di 59 scudi, dei quali tre quarte parti a beneficio della Camera Capitolina, ed il residuo a beneficio del denunziante, oltre la dovuta emenda se avesse causato danni alle tenute di confine (3). Anche il capitolo LXXXII conferma la consuetudine che i terreni erano dati a seminare alla quinta, o a qualsivoglia alira parte per rata de’ frutti da rispondersi al padrone, e stabilisce che nessuno potesse asportare dall’aja i pro- dotti senza la licenza del padrone. Il colono doveva dare al padrone della terra la parte convenuta, e ancora di tutti î spigami e della riscuotitura dell’aja (4); e tutta la paglia era del colono, e le spighe che restavano nelle stoppie, colle stoppie stesse, rimanevano in proprietà del padrone della tenuta (5). (1) Cap. DXXVIII. (2) Cap. DXXIX. (3) Cap. LXXXT. (4) Pulitura dell’aja nettando il grano dalla terra, (5) Cap. LXXXII. CAPITOLO VI n6 CAPITOLO VI. Statuti di Roma. (Anno 1363). Gli Statuti di Roma, copiati nell’anno 1438, certamente da un originale del 1363, che deve aver preso indubbiamente le sue linee fondamentali da un altro Codice più antico, del secolo xmr (come oggi tutti i critici hanno rico- nosciuto) nel paragrafo de arte bobacteriorum dispone « che codesta nobile arte sî mantenga sempre nel suo prestigio e nella sua potenza, per la pace e per la dignità di Roma » (1). È questa una prova evidente, che il sodalizio degli agricoltori era tenuto in somma stima, onde si appellava nobile, costituendo esso un forte e nume- roso elemento cittadino, dal quale dipendevano la tranquillità ed il decoro di Roma. Giova ripetere, che gli Statuti di Roma, sebbene siano stati copiati nel- l’anno 1438, debbono risalire evidentemente ad un originale di data più antica, e ciò interessa anche per la storia del sodalizio degli agricoltori. Infatti alle pagine 144 e 150, si prescrive i] modo col quale si eleggeva il Senatore. Tale elezione fu fatta sempre dai cittadini romani, prima del pontificato di Boni- facio IX (1389-1404) e d’Innocenzo VII (1404-1406), ai quali fu ceduto espres- samente questo diritto. Anche il Pontefice Martino V (1417-31) ed i suoi Predecessori parimenti l’ebbero. In conseguenza di ciò, gli Statuti di Roma sono anteriori al tempo di Bonifacio IX, e molto probabilmente dell’anno 1363, come già dicemmo (2). (1) « ... nobilis ars bobacterioram semper sit in sua robore et firmitate pro pace et dignitate Urbis ». Arch. Vatic., Miscell, Arm. VI, Tom. 96. Sfafutî di Roma, Ed. Re, anno 1880, pag. 81. (2) GarampI. Su/ fiorino. Append. a pag. 68, 88, 89, La Mantia Vito. Storia della Legisl. Ital., pag. 156, 56 CAPITOLO VI Crediamo utile fare un esame dei capitoli degli Statuti di Roma che si riferiscono più particolarmente all’agricoltura ed alla pastorizia, in quanto da essi potremo desumere quali fossero gli ordinamenti, che in quei tempi modera- vano l'esercizio di quella nobile arte. Lib. II, cap. LXXXIII e lib. III, cap. CXLIII (CXL) del testo (1): « La tassa di pascolo dovuta dai proprietari dei bestiami, per quelli che pascolavano nel territorio del Comune di Roma, era fissata nei riguardi dei fora- stieri, ossia di quelli, che abitavano fuori del distretto (Agro Romano ed annessi), ammontando a due fiorini d’oro, per ogni 100 capi di pecore, capre o montoni; per le bestie grosse, la tassa era di quattro ‘solidi provisini a capo. « Non pa- gavano nulla i romani, che conducevano î propri bestiami ai pascoli » (2). Lib. II, cap. CCVII e lib. III, cap. CXKLV (CXLII) parte seconda: « Il diritto di uscita del bestiame dal distretto di Roma, era di otto denari per ciascuna libbra di provisini di valore, se il bestiame apparteneva Li forastieri: di quattro denari poi se spettava ai romani. Per le pecore invece vi era una tassa speciale; quando andavano in montagna, era di dieci solidi provisini per ciascun migliaio di capi, purchè non fossero pecore tosate; la tassa era poi di due denari per ciascuna pecora viscosa (nata da poco), e tre denari per ogni matricina tosata ». È da notarsi, che il forastiere, avente diritto di cittadinanza (cittadinantiae) non poteva godere di tal privilegio, se non aveva casa entro la città di Roma, ed anche una vigna, fino alla distanza di tre miglia dalla città (3). Questa cir- coscrizione fu poi estesa fino a cinque miglia. Lo stesso forastiere doveva poi dimorare in Roma almenc nove mesi dell’anno (4). « Il mercante forastiero era considerato come cittadino, se la maggior parte dei suoi beni esistevano nel territorio di Roma, e se vi abitava con la famiglia. (1) Re CamiLLo. Gli statuti della città di Roma. (2) Statuti, lib. II, cap. LXXXIStI, lib. IIT, CXLIII (CXL). Il prof. Tomassetti dice: « Il pascolo in genere, nella campagna romana, si chiudeva il 29 settembre e si apriva 18 di maggio (Statuti dell'agricoltura, c. 42). Nel tempo in- tormedio tra le due date, era lecito a chiunque far pascolare il bestiame nei campi; ed ai romani, che conducevano bestiame al pascolo, non incombeva il pagamento di alcuna tassa Comunale ». (Za Campagna romana antica, medioevale e moderna, vol. T, 153). (3) Statuti, CXLUTI (CXXXTX). (4) Cod. Vat., I, 121. Adriano VI (1523), III, 250, Min 7 CAPITOLO VI 67 {1 privilegio o franchigia non comprendeva però i soci, che non fossero di sua famiglia od altri » (1). n Lib. I, cap. CXXIV: « Era proibita l'uscita dei suini e dei castrati dal distretto della città ». E tanta importanza ebbero sempre i suini in Roma, che negli Statuti, al libro II, cap. CXXIII, si legge: « Il Senatore, nell’entrare in carica, era obbli- gato ad ordinare la denuncia e l'iscrizione nei registri della Camera dei suini e castrati, che esistevano, per conoscere esattamente il numero dei capi dei bestiami suddetti, e negli stessi statuti si fa menzione dei custodes porcorum » (2). Lib. III, cap. CXLIII (CXL), CXLIV (CXLI) e CXLV (CXLII): « Era prescritto ai proprietari il modo di fare la stabilita iscrizione nei registri della Camera ». Lib. II, de maleficiis, cap. LKXXIII: Tatti. i proprietari dei bestiami forastieri, che li facevano condurre nei pascoli della città, e del suo distretto — in pascuis Urbis et ejus districtu — dovevano pagare alla Camera di Roma due fiorini d’oro, per ogni centinaio di bestiame, e la tassa doveva essere pagata metà nella festa di Natale, e metà nella festa di Pasqua. Se taluno avesse mancato di pagare quello che doveva, era punito con una multa quadrupla. Tutto il bestiame, che non era assegnato, veniva confiscato a beneficio della Camera Capitolina ». Cap. CXLITI (CXL): «I proprietari forastieri, ossia dei luoghi che non pagavano l'imposta del sale, e quella del focatico, e che conducevano le pecore e le capre a pascere nel territorio di Roma, dovevano pagare due fiorini d’oro per ogni centinaio di capi; e questo, metà nella festa di Natale, e l’altra metà nella festa di Pasqua di Risurrezione. Se i bestiami appartenevano ai cittadini romani, dovevamo pagare la stessa tas:a (fida), e per qualsiasi bestia grossa quattro solidi di provisini (1) La Mantra, 1. c., 238. Ste/uti, libro IT, cap. CXXXI, parte I © libro IIJ, cap. CXLII (CXXXIX). (@) Carlo d'Angiò, Re di Sicilia, fu fatto Senatore di Roma, il giorno 17 set- tembro 1267, da durare per 10 anni; © ciò avvenne sotto il Pontefice Clemente IV (1265-68). Essendosi ordinate dal Re suddetto tutte le provisioni occorrenti per il suo real palazzo, oltre le fave, piselli, anguille, capitoni, pesci salati, zuccaro è vino greco, furono spediti al Camarlingo reale yo de Besantio, 1200 suini, che il Re aveva fatto venire da Jenne, per uso della sua cucina! (ViraLe, Stor. diplom., vid., n. 2, in fine), 58 3 CAPITOLO VI sempre per il solo pascolo invernale. Tutti poi erano tenuti a dare l’assegna del numero delle bestie stesse, ed erano obbligati a permetterne la numerazione, nel modo solito e consueto. Viene comminata la pena di cento libbre di provi- sini per ciascun centinaio di animali non denunciati, oltre la perdita del bestiame sopradetto. « In ogni anno, quindici giorni innanzi alla festa di Natale il pubblico banditore a suon di tromba, doveva ad alta voce ripetere nei luoghi soliti, quanto prescrivevano gli Statuti per la denuncia del bestiame ». Nello stesso capitolo, al paragrafo secondo, viene prescritto «che tutte le pecore e bestiami — omnes pecudes, et bestie pecudine — tanto dei cittadini ro- mani, quanto dei forastieri, del territorio e distretto di Roma, ossia di quei luoghi, che non pagano 1’ imposta del sale e del focatico, debbano essere tutte marcate con un sol marco, o nell’orecchio, o nell’unghia, e che i proprietari del bestiame dovessero rendere’noto detto marco nell’atto stesso, che denunciavano il bestiame alla Camera di Roma, che, in caso contrario non avrebbe dovuto riceversi l’assegna del bestiame suddetto (1). « Tutti coloro che non erano romani, ma del distretto, o dei Comuni, do- vevano esibire idonei fidejussori, che attestassero le denuncie esser vere, o che i bestiami fossero di assoluta proprietà dei denuncianti; in caso che risultasse una denuncia falsa, era comminata la pena di cinque libbre di provisini, e la perdita totale del bestiame, che era devoluto a beneficio della Camera di Roma (2). « Le denuncie dovevano esser fatte dai proprietari del bestiame, e mai per parte di alcuno incaricato. (1) Bolletta dell’assegna del bestiame. Anno 1448 die X.XI mensis decembris. Flo- rentius Alzatelli de Regione Columpne assignat cum juramento in Camera Urbis habero snas proprias pecudes et capras et montones numero trecentum cum anricula dextra spontata et cum denanti mustaccio cum hoc marchio videlicet. + P. S. CCC. Item assignat pro Dominicho Riciardi de cazimorto pecudes capras montones albas et nigras numero sexaginta cum auricala sinistra forata et taccata denanti et dextra brancata denanti in vita cum hoc marcho ignis P. + P.S LX. Item assignat pro Petro Caroso de caz/morto pecudes capras et montones, numero septuaginta cum hauricula dextra fixa ot taccata dereto in mustaccio cum hoc marcho ignis, videlicet C. P.S LXX. Item assignat d. familia pecudes numero Sexaginta P.S LX (Arch. di Stato, Roma, A. 1443 fol. X (Cameralia). (2) La Camera di Roma era l’erario del Comune, CAPITOLO VI 59 « Che se il proprietario fosse impedito venire in Campidoglio a ciò fare, in tal caso il Notaio della Camera dovrà recarsi a casa del sopradetto per ricevere la denuncia, ma doveva essere compensato debitamente per detto atto » (1). Al paragrafo terzo si stabiliva, « che tutte le pecore, capre e montoni, ef bestie grosse, che dal distretto di Roma erano condotte nelle montagne, doves- sero essere contate da coloro, che erano a ciò deputati dai Conservatori della Camera di Roma, che nell’epoca si trovavano in ufficio; e la numerazione dei capi dovesse essere fatta a Ponte Mammolo — Mambolum — (2) al ponte No- menteno, od al ponte Salario, in qualunque dei ponti sopradetti, e non altrove. « E dopo che fosse stata eseguita la numerazione, i bestiami proseguissero per la via Tiburtina, ovvero in direzione della Villa di S. Antimo (3), e non per altre strade o parti, verso le montagne. Che se facessero altrimenti, e fos- sero rinvenuti i bestiami, coi loro padroni muniti, o mancanti della bolletta — apodizoe — della Dogana della Camera di Roma, i bestiami stessi dovessero essere tutti sequestrati, e devoluti, tanto fossero grossi, che minuti, alla sopra- detta Camera. Erano tenuti responsabili anche i pubblici ufficiali della Curia del Campidoglio, nel caso che si fosse verificata qualche irregolarità nelle de- nuncie o numerazione dei bestiami. « Quanto non risultasse denunciato alla Camera, doveva essere confiscato. Tuttavia i padroni dei bestiami potevano riscattarli, pagando 25 fiorini d’oro, per ogni centinaio di pecore, e cinque fiorini d’oro per ogni bue, e 4 per una vacca. (1) « ..... Qebeatur ire nd domum cius, cum salario sui viatici competenti ». (2) No!lo Statuto del 1363 (ma di origine anterioro como si è detto) il Ponto Mam- molo viene indiento, come un ponte, sul quale poteva passare il carro sine /raglione, è sì registra la numeratio pecudum fienda ad Pontem Mambulum, Statati CXLIII, CXLVI. Tomasserti G., Arch. stor, patr. (3 La Villa Suncli Antimi fa parte dei tonimento di Monte Maggiore, quale prima chiamavasi Colle de Piro o tennta del Persieo. Nell'anno 1445, nel giorno 17 febbraio le monnche di S. Silvestro in Capite di Roma, vendettero il castello diruto del Colle de Piro a Francosco Orsini, conte di Gravina e Prefetto di Roma, L'istromento fu rogato dlal' notaio Roberto de Bobo do Rubeis. La villa di S. Antimo confinava col colle de Piro. Da un altro Istromento di Paolo di Roberto de Bobo de Rubeis, del giorno 1 ago- sto 1480, risulta che Paolo di Luzio Ceecarelli, già proprietario di bestiame, e del ca- stello della villa di S. Antimo, vendette al Card. Giordano Orsini il castello delle Cam- minate e delli Scalzi, fuori della Porta Salaria, Arch. Vatic. Monterentii Cameralia, fol. 541, Lib. N. Arch. Orsini II, A. XV. 67, II. A. XLI, a pag. 40, ‘60 CAPITOLO VI Tl Senatore di Roma era obbligato a costringere i contravventori al pagamento, od al compenso, nel caso di danni arrecati; e tutto ciò in via sommaria e solle- cita, senza discussione o forma di giudizio ». Al paragrafo quinto si stabiliva « che in ogni anno, si dovessero eleggere dodici onesti cittadini romani od agricoltori, per eseguire la numerazione del bestiame, e quanto altro era stabilito nei precedenti articoli e paragrafi ». Capitolo CXLIX (CXLI): « I proprietari dei bestiami, tanto che fossero cittadini romani, quanto fo- rastieri, dovevano pagare per compenso ai detti contatori, sovrastanti o Com- missari, venti solidi provisini per ciascun migliaio di pecore, o sei denari per ciascuna bestia grossa. «Nel passaggio dei ponti, di sopra menzionati, i padroni dovevano giusti- ficare il nuruero e la qualità dei bestiami con la bolletta — apodira -- del Se- gretario della Camera di Roma, sotto pena della confisca, e perdita dei bestiami medesimi. : « Al cessare dei pascoli per le pecore ed altro bestiame, quando tutti gli armenti erano partiti per le montagne, i Conservatori della Camera di Roma, erano obbligati dal Senatore a fare una diligente inchiesta, ed all’uopo dovevano essere esaminati alcuni di Roma quali testimoni, così altri di Tivoli, di Carsoli, dell'Abbazia di Farfa, nonchè di Palestrina, per investigare se fossero passate pecore non marcate, e dirette verso le montagne, o per altre strade o luoghi. Se fosse stato rinvenuto qualche colpevole di trasgressione agli ordini degli Sta- tuti, doveva essere punito con le pene stabilite. Che se poi il Senatore od i Conservatori avessero trascurato di eseguire quanto sopra, cadevano nella pena di cento libbre di provisini a beneficio della Camera Capitolina ». Cap. CXLV (CXLII): « Che a niuno fosse lecito di assegnare il bestiame designandolo col marchio di un altro proprietario; altrimenti era punito con la multa di cinque libbre di provisini, oltre un giudizio na il falso commesso. Così, inversamente, nessuno potesse denunciare il bestiame dei forastieri col marchio di uno dei cittadini romani, quando i primi scendevano dalle montagne per far pascolare i loro be- stiami nelle tenute del distretto di Roma. In caso di trasgressione v'era la pena sopraddetta ». In questo capitolo si ripetono le tasse di pascolo, che già trovansi determinate nel libro II, capitolo CCVII, e nel libro II, capitolo CKLV (CXLII), parte II. CAPITOLO VI 6l Giova notare però, che nel ripetere la tassa di dieci soldi provisini per un migliaio di pecore, a titolo di compenso della bolletta, viene aggiunto e come fu sempre solito » (prout hactenus est consuetum). « I cittadini romani poi, e gli abitanti del distretto di Roma, non dovevano pagare nulla — aliquid non solvant - ; con ingiunzione al contatore, che nume- rasse le pecore di quelli separatamente dallo pecore dei forastieri, comminando la solita pena di cento libbre di provisini, in caso di trasgressione ». Al paragrafo V si prescrive: « che, a datare dal primo di aprile di ciascun anno, fosse vietato a chiunque di traslocare le pecore ed i bestiami da un luogo all’altro, dirigendo gli armenti verso le montagne, senza che prima si fosse otte- nuta la bolletta dalla Camera di Roma; e nel caso di trasgressione accertata, tutto il bestiame venisse confiscato, e devoluto a beneficio della Camera stessa per atto del giudice, mentre l'ammontare del prezzo di confisca per tre parti spettava alla Camera di Roma, e per una quarta parte al denunciante » Seguono altri provvedimenti necessari alla esecuzione di quanto era pre- scritto, con aggiunto anche l'ordine che dal 1° di aprile fino all’ « ultimo di maggio, due probi ed onesti servi del Campidoglio, nativi di Vitorchiano, doves- sero restare a custodia dei Ponti prescritti, tanto di giorno che di notte, che gli incaricati a ciò dovessero esibire una garanzia della fedele esecuzione, di quanto fosse comandato in proposito, e che all'occorrenza dovessero essere coadiuvati da coloro, che continuamente custodivano gli stessi fondi per mandato della Camera Capitolina ». Nello studio degli antichi Statuti di Roma, dei quali abbiamo fatto cenno, per mettere in rilievo quanto in essi all'agricoltura S’appartiene, ci avvenne di prendere nota di un'importante pubblicazione, fatta dal chiarissimo Prof. Vito La Mantia, che oltre le due prime sue pubblicazioni, sugli Statuti di Roma, e sulle origini e vicende degli Statuti di Roma, e della storia della legislazione ita- liana, ed altre successive, diede alle stampe anche un pregevole lavoro sugli Statuti di Olevano Romano, del 15 gennaio 1364; i quali avrebbero avuto la stessa epoca d'origine di quelli di Roma. E quello che più importa per il nostro studio; si è che il citato prof. La Mantia, nel suo lavoro, fa un prospetto nu- merico, per una chiara e facile comparazione, dei capitoli degli Statuti di Olevano coi simili o analoghi, degli Statuti di Roma, Civitavecchia, Campagnano, eco. Al capitolo XVI degli Statuti di Olevano è detto: « che tutti i padroni deb- « bano dare alla quarta le terre, per essere lavorate, e cioè i detti padroni siano 62 CAPITOLO VI « obbligati a dare per essere lavorate tutte le terre dei territori e tenimenti di Olevano, « Belvedere e Pusano, alla corrisposta della quarta agli abitanti di Olevano, eccei- « tuati coloro che facevano i manuali presso la Curia, e che rimanevano liberi a dispo- « sizione della stessa. E ciò s'intenda per coloro che esercitano da tempo un mestiere >. Tale capitolo, secondo lo studio compiuto dal La Mantia, ha riscontro esatto col capitolo LXXXIV del libro I degli Statuti di Roma, sotto la rubrica « delle vigne per le quali si deve corrispondere la quarta ». « Se alcuno ha, o tiene una vigna, orto, od un pezzo di terra, al di là dei « luoghi abitati nella città, od altrove fuori di Roma, în seguito a locazione fatta, «od in enfiteusi, o da alcuno a condizione del pagamento di un annuo affito, « perchè lo stesso affittuario, od enfiteuta, la possa subaffittare alla quarta, ovvero «ad un’altra corrisposta, senza il consenso del padrone o del proprietario, restando « fermo il diritto dello stesso padrone o proprietario, per il fatto della sullocazione « l’affittuario od enfiteuta non deve decadere dal diritto dell'affitto, nonostante la « forma della locazione, ed il patto convenuto in contrario. Ciò valga per i passati « contratti, per quelli che sono in corso, e per i futuri. Questo disposto però non « deve avere alcun valore per le case, casaleni, casali, od altro che esistono nella « zona abitata nella città ». Così viene istituito un confronto tra il capitolo XXX dello Statuto di Ole- vano sui pascoli e sulle acque per abbeverare i bestiami, ed il capitolo LXX XIII del libro II e lib. III cap. CXLIII (CXL) degli Statuti di Roma, da noi già riportato antecedentemente. Tale comparazione, a nostro avviso, si riferisce in sostanza, al solo fatto, che per le terre coltivate si corrispondeva soltanto la quarta parte dei loro frutti, come del resto viene maggiormente illustrato da posteriori Costituzioni ponti- ficie, che esamineremo in seguito. Nei primi anni del secolo xv Roma fu agitata da civili discordie, ed occu- pata per tre volte da Ladislao Re di Napoli. In quelle turbolenze si soffrì spesso la fame per la mancanza del grano, ed Antonio di Pietro, nel suo diario, c’in- forma, che nell’anno 1408 il prezzo del grano sia salito a quattro fiorini il rubbio, ossiano a lire 45.40 (1). L’Infessura scrive, che nell’anno 1413 un rubbio di. grano ascese fino a 18 fiorini (lire 204.30). Ragguagliando il peso di un rubbio di decine 64 — kg. 217 — si ha che il grano costava lire 94.10 al quintale! (1) MuratORI R. I. S. Tom. XXIV, col. 988-989. Un fiorino equivale a lire 11.35. CAPITOLO VI 63 E tanto fu il timore della carestia, che quando le schiere di Braccio da Montone, nell’anno 1417, si accamparono nei pressi di Sant'Agnese fuori le mura, i romani accondiscesero subito, che quelle soldatesche entrassero nella città, per il solito timore, che l'imminente raccolta del grano nei dintorni di Roma, non andasse perduta, se la resistenza della città si fosse prolungata. Quella fu certo un'epoca infelice per l’Agro Romano, perchè dobbiamo rico- noscere, che molte castella erette nei secoli vit ed vini e che tuttora esistevano nel x1v, invece in quello seguente erano già dirute o venivano abbandonate per mancanza di abitatori. Quei centri, a guisa degli antichi pagi, del tempo di Servio Tullio, servivano non solo di abitazione, ma eziandio di difesa ai lavo- ratori delle terre ed ai pastori. A questo scopo Leone IV (847.56), con materiali ritratti dalla demolizione delle mura di Civitavecchia, costruì un nuovo villaggio recinto, che chiamò Leopoli, affinchè gli abitanti di quel luogo, per timore delle frequenti incursioni dei Saraceni, non dovessero vivere nascosti nella prossime selve. Che se tanti ricoveri degli agricoltori, non fossero stati distrutti dalla mal vagità di uomini prepotenti e tuttora fossero stati conservati, non v'ha dubbio, che l’Agro Romano non sarebbe ora tanto desolato. Nè potrebbe indursi diver- samente, perchè dai documenti ci risulta che ben centotrentadue erano i centri abitati, sparsi nella campagna di Roma e dintorni (1). E tra questi eranvi: Ostia, Boccea, Castelfusano, Isola Farnese (Veio), Vaccareccia (Maccarese), Malbor- ghetto, Patrica o Pratica di Mare, Monte del Sorbo, Fossignano, Nomento (Men- tana), Corcolle, Monte Gentile, Decimo. Castel'o dell’Osa, Giovannipoli, Lunghezza, Castel del Sasso, Scorano, Solfarata, Laurentum, Castel Romano o Santola, Cam- pomorto, Conca, Marco Simone o Sant Onesio, Palidoro (Castrum Statuae), Porto, Prima Porta Valcae, Molara, Lavinio, San Vittorino, Castel dei Caetani o Capo di Bove, Castel Giubileo, Galeria, Castell’ Arcione, Paola, Santa Severa, Straccia- cappe, Palo, Castel Campanile, Castel di Guido, Castel Giuliano, Castel di Leva, Ceri e Cerveteri, Pantano e Castiglione, Santa Marinella, Castel Savello, Morolo (dei Savelli), Testa di Lepre, Ardea, Castelluccia, Porcigliano, Astura, Castella, Selva Candida o Porcareccia, Carcari, Cornazzano, Luterno, Martignano, Pietra Pertusa, Torrecchia, Sant'Andrea, Verposa o Buon Riposo, ecc. (1) Tomasserti G. Za Campagna Romana, antica, medioevale e moderna. Roma, 1909, I, 156 e seg. 64 CAPITOLO VII CaPITOLO VII. Dal Pontificato di Bonifacio IX a Giovanni XXUI. La Campagna romana nel principio del secolo XV. (1389-1415). Intanto, dobbiamo rilevare, che Papa Bonifacio IX avendo appreso, che già fin da tempi antichi molta gente dagli Abruzzi, e da altre parti conducevano i loro bestiami nei pascoli dell’Agro romano, ed anche nella provincia del Patri- monio, per passare la stagione invernale, con un suo Motu proprio del giorno, 7 settembre 1402, ordinò a tutte le autorità ecclesiastiche e civili di permettere il libero transito di tutti i bestiami, dei pastori e loro robbe, per qualsiasi terri. torio, distretto, o luogo di tutte le città, castella soggette alla Chiesa, in modo che potessero sicuramente e liberamente passare, venire, stare e ritornare, dopo che avessero pagato i dovuti e consueti pedaggi e gabelle (1). Da questo docu- mento rilevasi che la parola < consuetis » indica certo, che già si praticava da tempo anteriore l’ introduzione dei bestiami nell’ Agro romano, con pagamento di pedaggio e di gabella. Probabilmente le greggi dell'Abruzzo non vennero nella campagna romana, prima del secolo xIv. La dogana di Sant'Antimo, a Monte Maggiore, forse non è anteriore al. l'anno 1289 circa (2). Tuttora non abbiamo potuto rinvenire documenti, che ci illuminino sull’ istituzione ed origine delle Dogane, salvo quanto riferiremo, nel riportare alcuni capitoli degli Statuti di Roma. Infatti tuttora non si conosce con sicurezza nè dai latinisti, nè dai giuristi, l’origine del vocabolo Dogana; sia pure che voglia intendersi derivazione da una parola legale, con l’andar del tempo corrotta, e cioè dalla parola « ducenarii », che tali dicevansi coloro, che esigevano i tributi, come se doganieri siano stati poi detti per corrotta pronuncia; a meno che, la parola « Dogana » non tragga (1) « Debitis tamen, et consuetis solutis pedagiis et gabellis ». Arch. Vat. Reg. Bonifatii IX. Tom. IX. fol. 25. TurineR Cod. dipl. doc. dom. tem. S. Sedis, INIL, pag. 121 (2) Secondo le notizie a noi date dalla b. m. del Chiariss. Prof. G. TOMASSETTI. MMM a "—=vs ‘ CAPITOLO VIT 66 la sua origine da qualche parola longobarda o normanna, usata nelle prime Costi - tuzioni dell'antico Regno delle Due Sicilie: poichè nei documenti di quel Regno più spesso ed originalmente si rinviene, avente il significato di « un complesso di tutti i diritti regali ». Tuttavia è molto probabile, che la parola « Dogana » venga dall'arabo « Dovan », che significa Camera (delle riscossioni). Quello però che è certo si è che « Dogana » non significa altro, se non l’antico tributo, che per diritto comune si esigeva nella misura dell’ottava parte di tutte le mer- canzie che s*introducevano nei porti, o nelle città, dicevansi « vectigalia a vehendo », ossia dal trasportare ciò, che dagli studiosi di cose feudali, fu detto con voca- bolo Longobardo — armaudia, seu telonia — (1). Quale poi fosse lo stato non solo della campagna, ma eziandio di Roma stessa in quei tempi, la cronaca di Antonio Pietro, ci narra, che nell’anno 1411, ai 23 di gennaio furono potuti uccidere nel Vaticano 5 grandi lupi (2). Ed, invero, che gli Statuti di Roma fissavano un premio, a colui che ucci- desse i lupi, tanto entro la città, quanto nella campagna, « se alcuno ucciderà un lupo in qualunque modo, se entro la città, avrà dalla Camera Capitolina dieci giulj di premio, se fuori di Roma, nel raggio di 10 miglia avrà cinque giulj » (3). Gli introiti che si verificavano per i pedaggi e per le gabelle, avevano già un'importanza rilevante, come possiamo rilevare da un documento dell’anno 1416, del giorno 16 settembre, quando civò, il Cardinal Isolano, rappresentante il Pontefice Giovanni XXIII, insieme al Senatore di Roma, conclusero una lega col condottiero d’armi Agnolo Tartaglia di Lavello, nominato « capitano et rectore « dello Patrimonio et terre de special commissione per il Concilio di Costanza nel « quale sulla fine si legge, che i primi promettono al Tartaglia di donargli la « quarta parte delle entrate della dovana del bestiame grosso et minuto, che ver- « ranno nel territorio di Roma, e de su contadu forza et destrecto per l’anno pre- « sente (4). Eppure malgrado le tante turbolenze, la poca stabilità del Governo e la (1) De Luca Jon. Barr. Zheatrum veritatis, ecc. Lib, IT, de Regalibus dise, LXV. (2) Muratori. R. I. S. Ant. Petri, a pag. 1023, GreGoROvIUS F. Stor. di Rom. III, lib. XII. Cap. V, nota. 54. (3) Statuta Urbis, I, III, cap. LXX. ‘ (4) Bibl. Vatie. Cod. Barb. XL. 11. In Arch. Soc, Rom. (Livi) IL, 417 è seguenti. ù \ 66 CAPITOLO VII incertezza del possesso della proprietà, per le. continue guerre, dobbiamo inferire che una parte non piccola dell’Agro romano dovesse essere coltivata, perchè allora non perveniva più il grano dall’estero, mentre nessuno più facendo elar- gizioni frumentarie, il popolo era poverissimo. Come già osservammo, verso la metà del secolo xv, furono rovinati e restarono abbandonati tutti quei luoghi dell’ Agro romano, che nei secoli anteriori erano stati abitati, perchè distrutti dai Baroni, sempre in discordia fra loro, o dai condottieri di soldati di ventura, e talvolta anche per opera degli abitanti dei centri più vicini, rimasti popolati, perchè i villaggi deserti ed in parte diruti, crano divenuti ricoveri di banditi, o di genti che vivevano di ladronecci e di rapine. Queste cirecstanze furono causa di una deplorabile conseguenza, perchè gli abitanti già scarsi, disparvero total mente, di modo che l’Agro romano divenne sempre più deserto, e l’agricoltore non potè quasi più trovare un luogo, ove ricoverarsi, specialmente durante la notte. Dato un tale stato di cose, l’agricoltura doveva essere esercitata pochissimo, e dovevano essere incessanti le lagnanze per le carestie, e le gravi turbolenze, mentre i grandi feudatari vivendo nel massimo egoismo, in quei tempi di somma ignoranza, trovavano più utile di lasciare incolti i loro terreni, traendone soltanto erbe da pascolo, invece di farli coltivare per ottenere i prodotti necessari alla vita dell’uomo. Siamo così giunti all’epoca, nella quale l’Agro romano ben poteva conside- rarsi un immenso campo di pastura, abbandonato completamente alla naturale produzione. Dovremo dunque trattare degli ordinamenti, e degli Statuti, che più specialmente alla pastorizia di quell’epoca si riferiscono. E prima di tutto giova di ricordare, che i Romani avevano due specie di bestiame ovino: quello stabulato {tectus) e quello che era custodito allo sco- perto (colonicus). Questo ultimo formava quell’ insieme di bestiame, che dalla | Campagna romana (come dice Varrone) andava nell’estate sui monti romani, (che già notamme) e quindi consideravasi, come bestiame del distretto di Roma, dell'Agro romano, che nell’estate risaliva (aestivabari, dice Varrone) alle monta- gne reatine, ed altrove. Le greggi dagli Abruzzi non vennero probabilmente nelle nostre campagne, che sul principio del secolo XIV, e già accennammo il salva- condotto di Bonifacio IX per gli abitanti degli Abruzzi e di altri parti, che conducevano i loro bestiami nella Campagna romana. Il bestiame grosso indo- mito, si disse brado perchè non domato, non custodito a stalla, ed è precisamente CAPITOLO VII 607 quella tale specie di bestiame, che i nostri antichi agricoltori dicevano colo- micus (1). Fin dal pontificato di Martino V, trovammo i primi documenti, dai quali ci risulta, che il Cardinal Camerlengo, nell’anno 1427 ai 3 di febbraio, affittava la metà delle gabelle della Dogana delle pecore e degli altri bestiami (douanae pecudum) nonchè del latte, del formaggio e delle carni per consumo della città di Roma. La corrisposta dovuta alla Camera Apostolica era fissata a 6500 fiorini d’oro (2). La Camera Apostolica era l’erario pontificio, ossia il Z’esoro pubblico. Nella Biblioteca Vaticana rinvenimmo gli Statuti della dogana dei bestiami e dei pascoli, delle tenute di Roma, di Marittima e di Campagna, pubblicati e composti nell’anno 1452 (l'originale dice « millesimo quadrigentesimosecundo per ordine SS.mi in Christo Patris et D. N. Nicolai dignissimi Papae Quinti) (3). Sì aggiungono poi « gli Statuti del Doganiere della dogana delie pecore, dei « pascoli di Roma, delle tenute e delle parti Marittima e Campagna, pubblicati « fatti ed ordinati, per quello che riguarda la detta dogana, e bestiami, da condursi « in quella, e nelle tenute, come ancora altre cose relative a quelli per ordine di « Papa Nicola V, nell’anno millesimo quadrigentesimoquinquagesimo secundo, sesto « del suo ponteficato ». Dal primo paragrafo di tali Statuti si rileva che il doganiere già esisteva in antico nella città di Roma, nel suo territorio e distretto, nonchè nelle parti Marittima e Campagna, e si appellava il Doganiere dei pascoli e delle tenute di Roma e dei luoghi sopradetti. Esso doveva nominare i suoi ufficiali ; ossia il notaio, il soprastante, i contatori, i cavallari e i grascieri della Città coi relativi stipendi. Nel capitolo « degli affidati » si stabilisce, che il doganiere, in virtù del suo ufficio, possa affidare e garantire (sicurare) tutti e singoli forastieri tanto del Regno delle due Sicilie, quanto degli altri Stati, con tutte le loro bestie ed animali, tanto grosse che minute, in modo che la fida, ossia l'assicurazione di (1) Osservazioni e notizio favoriteci dalla b. m, del Chiariss, Prof, Tomassetti. (2) Arch. Vatic. Divers. Cam. Arm. 29, tom, 11, pag. 3 t. (3) Cod, Vat. Lat. 8886, Cod. Cart. in. f. sec, XVII, Car. 137 e più altre 12 carte * non numerate coll’indice delle materie, Libro Delli Statuti, Bolle Costitutioni, sentenze | decreti Resolutioni, et altre Ordinationi / fatte in vari tempi da Sommi Pontefici, Sigg. Cardinali Camerlenghi, e dalla | Camera Apo- stolica a favore delle Dogafne della’ fida e pascoli di Roma e suo | distretto, Provincia di - campafgna marittima è Patrimonio Append. Doe. I. 68 CAPITOLO VII esso Doganiere, sia come un salvacondotto, e che tutti possano andare e ritor- nare liberi e sicuri, insieme ai loro bestiami, per qualsiasi luogo dipendente dalla Chiesa Romana e chè altresì, niun ufficiale di qualsiasi grado o stato sociale, anche dignitario per qualsiasi causa civile o criminale. possa procedere contro gli affidati ed i loro bestiami, sia pure che fossero state concesse ad alcuno speciali rappresaglie contro di essi, eccetto che non fossero affidati, oppure fos- sero ribelli e nemici del Pontefice e della Chiesa romana. Seguono poi i provvedimenti contro coloro, che commettessero frodi ed inganni a danno degli affidati. Vengono definiti anche il potere e l’autorità del Doganiere; e si dispone che qualsiasi pubblico ufficiale fosse tenuto a coadiuvare l'esecuzione degli ordini del Doganiere; il quale veniva pure autorizzato ad ar- mare sia di giorno che di notte i cavallari e gli ufficiali, senza che fossero sog- getti ad inquisizione. L’ufficio del Doganiere, eletto dalla Caniera Apostolica, durava per un anno. Egli doveva esser nominato con rescritto del Pontefice. Il suo incarico aveva principio dal 1° di agosto, e veniva retribuito con 150 ducati di oro di Camera. Il Doganiere aveva il diritto di avere una regalia (pro honorantia) di dieci soldi provisini, in qualsiasi luogo d’assegna, da chiunque conducesse i bestiami in montagna, nei mesi di aprile e maggio; e detta provvigione restava a bene- ficio soltanto del Doganiere. Anche doveva avere presso di sè un onesto, legale, ed intelligente notaro, che si denominava Notaro della Dogana, l'ufficio del quale durava per un solo anno, allo scadere di quello del Doganiere. Il notaro doveva compilare e scrivere tutti i contratti, tanto delle fide, quanto dei pagamenti e degli affitti dei pascoli delle tenute necessarie non che di quelle, che lasciavansi libere; e di quanto sopra era tenuto a rogare gli atti necessari in forma pubblica, e-darne notizia al Doganiere, come pure a redigere una copia del libro delle as- segne dei signori Conservatori notando parola per parola, per poi passarla al Doganiere. Il notaio doveva essere retribuito a discrezione dello stesso Doganiere. Aveva altresì l’obbliso di tenere al corrente un libro ordinato, che chiamavasi Libro della Dogana simile a quello del Doganiere, ed in quello doveva registrare qualunque introito od esito dei pascoli, come il numero e la quantità del be- stiame grosso o minuto, e segnare tutti i singoli guadagni dei pascoli della detta Dogana, e di tutti gli altri, secondo le assegne, che ognuno doveva dare in modo chiaro e preciso. Il notaio poi doveva risiedere giornalmente nel luogo stesso, ove trovavasi il Doganiere. . CAPITOLO VII 69 Assegna dei bestiamf. Ogni forastiero di qualsiasi grado, condizione o dignità, che conducesse o facesse condurre una certa quantità di bestiame, tanto grosso che minuto, nelle tenute di Roma, Marittima e Campagna (in tenutis Urbis Maritimae et Cam- . panae) a datare dalla festa di S. Angelo del mese di maggio (8) era obbligato a darne l'assegno; e detto bestiame ritenevasi come affidato, a meno che il bestiame stesso non fosse di transito, e la sopradetta denunzia doveva esser fatta entro ‘ il termine di tre giorni, da quello d’ingresso nelle tenute della Campagna romana (a die conductionis in tenimenta Urbis). Segue poi quanto viene disposto nel ca- pitolo 143 (CXL) degli Statuti di Roma per i proprietari forestieri di bestiame che non pagavano l’imposta del sale e del fuocatico. Nello stesso capitolo al paragrafo III viene ripetuto, quasi letteralmente, il disposto del paragrafo II del capitolo CXLIII (CXL) degli Statuti so- pradetti. Era assolutamente proibito che un cittadino romano, od abitante del di- stretto, desse assegna delle bestie spettanti ai forastieri, come se fossero marcate de! proprio marchio. Veniva altresì vietato, che i romani, o quelli del distretto, raccogliessero le bestie dei forastieri senza averne ottenuta licenza. Il capitolo seguente stabilisce, che qualsiasi cittadino romano, forastiere, o del distretto di Roma, che conducesse, o facesse condurre il bestiame dalle pro- vincie sopradette, che non pagavano l’imposta del sale e del focatico, dovesse pagare al Doganiere per ciascun centinaio di capi di bestiame grosso, 17 ducati d’oro di Camera, e per ogni centinaio di capi di bestie minute, cinque ducati e mezzo di Camera, pagandone la metà nella festa di Natale, e l’altra a Pasqua di Risurrezione. Vengono stabilite le penalità per coloro, che non denunziassero: il marchio dei bestiami; e tutti quei capi, che fossero stati rinvenuti in più nella verifica, dovevano essere irremissibilmente confiscati. Durante la fida, niuno poteva trasportare il bestiame da un luogo all’altro. Chiunque avesse avuto una società con altri per bestiame, era tenuto a de- nunziarla. Non poteva farsi aloun atto esecutivo contro gli affidati, se non fosse stato autorizzato dal Doganiere, i 70 CAPITOLO VII Coloro, che erano nativi del Regno (delle due Sicilie), i quali conducessero o facessero condurre a pascere in Roma, nelle tenute del territorio della città (1) dovevano pagare al Doganiere del tempo cinque ducati e mezzo di Ca- mera, per ciascun centinaio di pecore, capre o montoni, da sborsarsi per la festa di Natale. Così ancora, se il bestiame appartenesse ad un cittadino romano, chiunque lo conduceva, avrebbe dovuto pagare la somma sopradetta all’epoca stessa. Per qualunque centinaio di bestie grosse, che fossero state condotte a pascere durante l’inverno, nelle tenute di Roma (2) il proprietario di esse, avrebbe dovuto pagare 17 ducati d’oro di Camera, con l’obbligo di denunziarne il nu- mero al Notaro dei Conservatori, e di permetterne la verifica, nel modo stesso, come praticavasi per le pecore. Gli stessi Statuti decretavano, che i cittadini romani, e coloro che avevano stabile dimora in Roma, e che possedevano bestiami nel distretto e nel territorio della Città (3), qualora avessero voluto spedirli nelle montagne, dovessero pagare al Doganiere tre fiorini d’oro (alla ragione di 47 soldi) per ciascun centinaio di pecore, capre e montoni, e ciò all'atto della partenza per le montagne, ma avreb- bero dovuto pagare egualmente nel caso, che avessero trattenuto il bestiame nella Campagna romana (4). Anche i cittadini romani erano obbligati a dare l’as:egna di tutti i bestiami minuti (5). Vengono poi ripetuti gli ordinamenti stessi per la conta e la numerazione del bestiame, che entrava ed usciva dal distretto di Roma e suo territorio. come già notammo al capitolo CXIII (XL) degli Statuti di Roma, al paragrafo terzo. I luoghi designati al controllo dei bestiami erano sempre i Ponti Mammolo, No- mentano e Salario, e la Villa di Sant’ Antimo (oggi tenuta di M. Maggiore). Venivano comminate le solite pene, in caso di frode, con la perdita del be- stiame, che era devoluto alla Camera Capitolina; e, se l’irregolarità provenisse da pubblici ufficiali, questi erano tenuti in proprio a pagare il valore del be- stiame non denunziato. (1) <.. qui conducent et conduci facerent ipsas Bestias in Roma ad pascna, vel ad partes et territoria Urbis..... >». (2) < qui conducerentur ad pascuandum et hyemandum ad partes Urbis... ». (3) « .... qui haberent sen tenerent în partibus et territorio Urbis, ete.... . ». - (4) Cero et non remictentes ad montaneam similiter solvere teneantur », (a) pecudes capras et montones assignare debeant », CAPITOLO VII 71 Seguono le stesse norme e regole, che già erano state stabilite negli Statuti, per la nomina dei sorveglianti e dei contatori, e per la riscossione delle propine, nd essi dovute per ogni centinaio o migliaio di capi di bestiame. Viene sempre ripetuto, che niuno possa denunziare come suo, il bestiame marcato con marchio diverso dal proprio. Una speciale proibizione era quella, di non poter far uscire dal distretto di Roma gli agnelli (1), nè insieme alle pecore, nè senza queste; e chiunque avesse trasgredito veniva sottoposto alla confisca degli agnelli, il valore dei quali, per tre quarti andava a beneficio della Camera Capitolina, e per un quarto a favore dei sorveglianti e contatori. Ai cittadini romani però, era permesso di condurre, e far passare per i ponti sopraddetti cinque montoni, per ciascun centinaio di pecore, con esenzione da qualsiasi pena (2). Coloro che transitavano coi bestiami, fossero romani o del distretto, erano tenuti a denunciare i bestiami grossi, marcati col proprio marchio, che poi do- veva essere notato anche nell’ufficio della Camera Capitolina. In caso contrario, se fossero state rinvenute delle bestie, con marchio differente da quello denunziato, erano ritenute di proprietà di qualche fora-tiero, e come tali pagavano la dogana (3). Esaminati così gli Statuti detti degli affidati non sarà inutile, nè discaro per gli studiosi della storia della Campagna Romana, esporre ora un riassunto sto- rico brevissimo, dello stato della proprietà nell’Agro Romaro, nella prima metà del secolo xv, limitando le nostre ricerche soltanto a codesto periodo, e per quei luoghi, che in quell'epoca specialmente erano abitati, non tenendo conto di quelli, che illustreremo nella seconda parte di questo lavoro. Ardea, l'antica capitale dei Rutuli, era stata ricuperata dai monaci del Mo- nistero di San Paolo fuori le mura, poichè sulla fine del secolo xIv, il Pontefice Urbano VI, per provvedere alle pubbliche necessità, aveva dovuto permettere la vendita della stessa Ardea a Jacobelio Orsini, per il prezzo di 14 mila fiorini d’oro, come rileviamo da un Breve, spedito dal Pontefice Bonifacio IX (4). (1) <« ».. masculos pecudinos de duobos dentibus, vel ab inde supra..... ». (2). « id ducere el transire per pontes quinque montones pro quolibet centenario, absque aliqua poena ». (3) <..... alias quae reperirentur sine merco proprio habentur pro bestiis forensiam et pro forensibus solvent dohanam ». (4) Arch, Vat. Bonifatii LX, V, 12, fol. 66, Arch. Orsini, IL A. IX, n. 50, 72 CAPITOLO VII In seguito ad istanza del Cardinale Cosimo, del titolo di Santa (Croce in Gerusalemme, e dell’Abate Sante Bonadote, del Monistero di San Paolo, il sud- detto Pontefice Bonifacio IX, nell’anno 1395, nel giorno 17 ottobre, autorizzò la vendita del casale di Trafusa a favore di Maria Orsini, vedova di Giovanni del fu Jacobello, per la somma di 5740 fiorini d’oro, affinchè la detta somma fosse adibita al riscatto del castello di Ardea, e del suo tenimento (1). Nè essendo stato ciò sufficiente, autorizzò, nel giorno 28, dello stesso mese ed anno, la vendita del casale Vallerano, a favore di Onofrio de’ Capizucchi (2). Sappiamo ancora che nell’anno 1404, il Pontefice Innocenzo VII nominò il canonico di San Pietro in Vaticano, d. Giacomo de’ Tedallini, a governatore del castello di Ardea, e della sua Rocca; e che fece ingiunzione a Giorgio, amministra- tore del Monastero di San Paolo, di eseguirne la consegna al sopradetto Onofrio Capizucchi (3). In progresso di tempo, Ardea fu posseduta da Raimondo Orsini, conte di Nola; e da una bolla del Pontefice Martino V, dell’anno 1420, rileviamo, che il Castello d’ Ardea venne concesso — ad benplacitum Sedis Apostolicae — a Pier- giovanni Palozzi de Fuscis de Berta, domicello Romano, perchè il sopradetto Raimondo, lo voleva restituire. Il Pontefice volle poi che Ardea con tutto il territorio fosse affittata per tre anni a Giordano Colonna, che ne prese possesso il giorno 14 maggio dell’anno sopradetto (4). Nell’atto stesso viene dichiarato, che il Castello era di pertinenza del Monistero di San Paolo di Roma, spectans ad monasterium S. Paolo Urbis. Nell'anno 1421 nel giorno 14 maggio, gli abitanti dei Castello di Ardea pre- starono il loro giuramento di vassallaggio a Giordano Colonna che era già di- venuto Signore libero di Ardea, avendola permutata con altri fondi ceduti al Monistero di San Paolo fuori le mura (5). . Nel giorno 1° di marzo dell’anno 1422 Papa Martino V, esentò dalle imposte del sale e del focatico il Comune di Ardea (6), che già apparteneva ai Colonnesi, e nello stesso anno 1422, il Pontefice nel costituire un fidecommesso ai suoi ne- (1) Arch. Vat., ibi. (2) Cod. Vat. Lat. 7927, pag. 291 t. (3) Arch. Vat. Innocentii VII, tom. I. fol, 75 t et. fol. 377, et tom. III, fol. 99. (4) TomassertI G. Za Campagna romana, ece. IT, 452. (5) Arch. Colonna. Istrom. 91, fol. 290, 248, ToMASssETTI, l. c, II, 452, (6) Arch, Colonna, perg. 3, IV, 39, La Vapr è CAPITOLO VII 73 poti Antonio, principe di Salerno, a Prospero ed Odoardo Colonna, conte di Ce- lano e di Alba, nominò singolarmente tutti i castelli, le terre, le rocche ed i luoghi, ed Ardea fu destinata a Prospero Colonna. La Bolla fu datata in Roma, nel palazzo dei SS, Apostoli, ove allora risiedeva il Pontefice (1). Sul vasto tenimento di Campo morto — allora chiamato San Pietro in formis -— vantava dei diritti la nobile famiglia romana degli Arcioni. Leggiamo infatti, nel testamento di Oddone del q. Ceccho di Folco de Arcionibus, fatto nel- l’anno 1400, ai 7 di luglio, in favore del nepote Lorenzo per mano dei notari Antonio di Simone di Bartolo, Paolo di Lello Ponziani, ed Antonio Ponziani, che il testatore cedette alle figlie di Lello del q. Renzo Gandolfi del Rione Pigna, tutte le ragioni, che potessero a lui competere, per il possesso del castello di San Pietro in formis, e della relativa tenuta in castello Sancti Petri in formis, et eius tenimento (2). Da una memoria dell’anno 1408 dei 29 giugno, sappiamo, come il Castrum Sancti Petri in formis appartenesse ai Savelli, che in quell'epoca erano obbligati a pagare le dote a Maria de Savelli, ed a Vannozza figlia del q. Cola de Savelli. In conseguenza di ciò vendettero il Castello di San Pietro in formis a Pietro di Paolo conte di Bellincastri, per il prezzo di 8000 ducati, che furono realmente pagati, e consegnati alle sopradette Maria e Vannozza, e ad altri creditori, fra i quali anche i Gandolfi. La memoria aggiunge, che il conte Bellincastri aveva con ciò ricuperato il Castello di San Pietro, pagandone il prezzo, in momenti di gravi pericoli, causa Ve guerre di quei tempi (3). Tuttavia il Castello di San Pietro in formis nuova- mente tornò in proprietà dei Savelli, perchè il Cardinale Giovanni Vitelleschi, legato pontificio, nella guerra che condusse contro i Savelli, ribellatisi al Pon- tefice Eugenio IV, spogliò Cola Savelli dei castelli e tenimenti di Malborghetto e di San Pietro in formis dando mandato ai Velletrani di demolire la torre S. Petri in formis. Dall’atto risulta che nel tenimento di Campo morto vi fos- sero vigne, luoghi coltivati, molini, selve, case, ecc. (4). E nell’anno 1445, nel giorno 13 di marzo, il sopradetto Pontefice concesse in enfiteusi ambedue i ca- (1) Arch. Vat, Arm. 86, tom. 6, fol. 430 et segg., cod. Vat., Lat. 7995, (2) Arch. del Salvatore, Arm. IV, marzo IX, 42 d, (3) Arch, Vatic. Arm. III, tom. 95, fol, 53 t, (4) TomassettI G., 1. c. 384, m4 CAPITOLO VII stelli e tenimenti a terza generazione di Antonio de Rido, domicello padovano, e condottiero delle armi della Chiesa, in compenso delle spese fatte, ed in premio della fedeltà mantenuta al Pontefice, durante la sua assenza da Roma. Il censo annuo dovuto alla Camera Apostolica dall’enfiteuta de Rido, era stabilito a due libbre di cera, da pagarsi nella festa di Natale. Dalla Bolla d’investitura risulta che, in quel tempo, nel Castello di San Pietro in formis, o formula, come dice l'atto, vi fossero vigne, terreni coltivati e non coltivati, ed alcune mole (1). Siccome però Antonio de Rido, era un capitano di ventura, e come tale sperava di conseguire altrove miglior fortuna, così decise di vendere il castello. Il Capitolo di San Pietro fu quello, che ne fece acquisto, come rilevasi da una Bolla di Papa Nicolò V, dell’anno 1448, nel giorno 11 giugno — che era di dome- nica — e la vendita fu compiuta per il prezzo 9000 ducati d’oro. L’atto stipulato dal notaro Lorenzo di Antonio di Paolo, nella sagrestia minore della Basilica (2). Ciò nonostante, i Savelli non cessarono d’insistere per ricuperare il perduto possesso del Castello di San Pietro in formis; come desumiamo da una procura dell’anno 1450, fatta ad istanza del Capitolo di San Giovanni in Laterano, che anch'esso vantava alcuni diritti sul tenimento, in causa Sancti Petri in formi», adversus Cardinalem de Sabellis, et Capitulum S. Petri (3). Il vicino tenimento di Conca, che apparteneva al Monistero di Grottaferrata, e che anch’esso era abitato, col suo castello fu dato in enfiteusi a Giacomo Cae- tani, con una Bolla del Pontefice Giovanni XXIII, dell’anno 1412, nel giorno 26 settembre, a terza generazione, con l’obbligo di pagare annualmente dieci fio- rini d’oro, al Monistero di Grottaferrata (4). Tale atto fu propriamente una con- ferma di una concessione anteriore a quell’anno. Il Castello di Astura, coll’annesso vastissimo tenimento, dagli Orsini, in se-. guito a donazione fatta da Giordano Orsini, era passato ad Onorato Caetani, nepote del sopradetto. Poi, per le vicende politiche, fu devoluto alla Camera Apostolica, e quindi passò ai Colonna, perchè leggiamo, che nell’anno 1427, il Pontefice Martino V, ne abbia disposto nel suo testamento (5). (1) Arch. Vat. Eugenii IV, tom. V, pag. 155 t. Arch, Bas. Vat. San Petri Caps. 33 fase. 132. Bull. Bas. Vat. II, pag. 105. (2) Arch. della Bas. Vat. Caps. 33, fase. 182. (3) Cod. Vat., Ott. 2553, fol. 19. (4) Arch. Vat. Johannis XXIII, tom, V, pag. 200 t. Miscel. tom. IV, lett. C. (9) Cod. Vat Lat., 7975, CAPITOLO VIT 75 Pratica, già nel territorio di Lavinio, fin dalla metà del secolo xrv appellata Castrum Patricae, nell'anno 1403 Guccio di Nardo di Guccio, del rione Regola, vende cinque seste parti del castello suddetto al nobile uomo Jacovello del q. Branca + di Gianni giudice, per 537 fiorini d’oro (1). E nel 1432 rileviamo come il teni- mento di Patrica appartenesse a Bartolomeo Capranica, ed agli altri della sua famiglia (2). Castel Fusano, sul finire del secolo xrv, apparteneva per la maggior parte al Monistero di Sant Anastasio ad Aquas Salvias (3). Ostia, col suo vasto tenimento, dal Pontefice Bonifacio IX fu assoggettata nel 1398 alla dipendenza della Camera Apostolica (4). ® Nell’anno 1406, Papa Innocenzo VII conferisce il governo d’Ostia a Stefano, Battista e Cristoforo Capodiferro, costituendone un pegno fintantochè non si fos- sero rimborsati di millesessantacinque ducati d’oro, spesi per difenderla, quando ‘essa dipendeva dal Comune di Roma (5). Nell'anno 1411, nel giorno 16 marzo, il Pontefice Giovanni XXIII ordina al Cardinal Pietro di Santa Prassede, suo Vicario generale in Roma, di dare il possesso di Ostia all’abbate P. Francesco del Mon. di San Martino ai Monti, nominato Commissario apostolico (6). In detto Rreve, il Papa comanda, che siano consegnate all'abbate sudd: ‘to la Città d’Ostia, la sua fortezza c relative munizioni, e che lo stesso abbate dovesse ri- cevere tutto, a nome del Pontefice e della Chiesa romana. Nell'anno 1462, il Pontefice Pio II, descrivendo Ostia, chiama triangularis il suo ager, o territorio, dice che è interrato per due miglia; nota le saline, ne ammira gli animali e le erbe, ed aggiunge, che lo stagno si restringe nell’appros- simarsi al mare, e prende la forma di un canale, avendo le sponde rivestite qua e là di alberi, quantunque lo stagno stesso, non si unisse al mare, se non quando, quello ora in tempesta, ed allora le onde sorpassavano le arene, che dividevano il mare dallo stagno, che a quello diveniva quasi unito (7). La tenuta di Castel /tomano, era uno di quei tanti luoghi in quei tempi (1) Arch. di Sant'Angelo in Pescheria. GaLLETTI. Nispy. Dint. dî Roma, II, pag. 231. (2) Arch, Capranica istrum. ann. 1432. TOMASSETTI. Arch. stor. pat., XIX, 329. (3) Arch. Vat. CoxTELORI, lib. 8, pag. 308. (4) Cod. Vat. Ott. 2548 Cod. Vat. Lat. 7933. TOMASSETTI, Arch. stor. patr., 29, 64. (5) Arch. Vat. Innocentii VII, tom. II, pag. 90, 163 t. TOMASSETTI, Ibi. (6) Arch. Vat. Johannis XXIII, tom. III, pag. 170. (7) Pii Secundi Pont. Max. Commentarii. Lib. XI, fol. 555, 76 : CAPITOLO VII abitati dai coltivatori, i quali in codesti castelli trovavano asilo e rifugio, contro le frequenti incursioni dei Corsari, o durante le guerre fra i prepotenti Signori d'allora, e con ciò provvedevano anche a migliorare le proprie condizioni di vita, raccogliendosi in un sol luogo, contro l’inclemenza dell’aria (1). Una gran parte del tenimento Castrì Porcilliani (Castel Porziano) nel se- colo xiv apparteneva al Monistero di San Paolo di Subiaco; ed anche il Convento dei SS. Saba ed Andrea di Roma, possedeva porzione di quel latifondo (2). Il tenimento ed il Castello di Sant'Onesto (oggi Marco Simone) nell’anno 1407, ai 2 di ottobre, per la parte che spettava a Lella, moglie di Nicola Mareri, col consenso del proprio marito, fu venduta a Giacomo Orsini, conte di Tagliacozzo, insieme alla parte del casale, detto Landosa, ed a quello del Castello di Torri- cella, e dei prati di Sant'Onesto. per la somma di tremila fiorini d’oro. L’atto fu redatto dal notaro Domenico Buzio di Angelo di Tivoli (3). La stessa tenuta per tre quarte parti, era stata venduta, nell’anno 1409 ai 28 di aprile, da Paola del fu Enrico di Nardo Plenerii, moglie di Sisto Turribacca, del Rione Trevi. a favore di Nicolò di Pietruccio di Rinaldo, del Rione Regola (4). Una porzione della quarta parte della tenuta, e del castello ‘suddetto, fu venduta da Perna, moglie di T. renzo di Jacobello, detto Pellaro, figlia ed erede di S. di Giacomo de Scrinaciis, nell’anno 1422 ai 24 di aprile, e la vendita fatta a favore di Gia- como Orsini, conte di Tagliacozzo, per 150 fiorini d’oro. La parte di detta te- nuta, venduta come sopra, era gravata dell’annuo canone di rubbia due e mezzo di grano, a favore del Monistero dei SS. Ciriaco e Nicola (5). Il residuo del tenimento del Castello di Sant Onesto, fu venduto nell’anno 1425, agli 8 di ottobre, da Lorenza, figlia ed erede di Pietruccio Thedi di Pietro Ve- tralla, del Rione Pizna, col consenso di Marcello fu Filippo di Nucio Venanzio, del Rione di Sant'Angelo a favore di Giacomo Orsini, conte di Tagliacozzo, per 190 ducati d’oro; con dichiarazione, che l’intero casale, di diretto dominio del Monistero dei Santi Ciriaco e Nicola, corrispondesse a questo l’annuo canone (1) Niconar Nic. M. Proseguimento dei Inoghi nna volta abitati. In dissert. Pont. Acecad. Arch. 2 dicembre 1824. (2) Monast. Sublacen. Arch. di Santa Scolastica, orig. XXXLV, 3. Arch. Vat., Arm, 36, tom, 4°, fol. 548. (3) Arch. Orsini II, A. XI, 15. (4) Ibi, II, A. XII, 23. (5) Ibi, Il, A. XII, n. 50, CAPITOLO VII Li di rubbia dieci di grano (1). E successivamente, nell’anno 1420, ai 23 di febbraio, Antonio s Paolo, del fu Nicola, e Filippo del fu Bartelluzzo Porcari, vendettero al sopradetto Giacomo Orsini tre quarte parti del Castello, già diruto, di Sant'Onesto, per il prezzo di 1000 fiorini d'oro, e per detta porzione si dovevano corrispondere annualmente dieci rubbia di grano allo stesso Monistero dei SS. Ciriaco e Nicola (2). Intorno all'anno 1430 il Monistero di San Paolo comprò il tenimento di San- t'Onesto, dal conte Averso Orsini di Giacomo. Ciò avvenne probabilmente prima della soppressione del convento dei SS. Ciriaco e Nicola (3). ll latifondo di Malborghetto, che allora chiamavasi Borgo di San Nicola del- l'Arco Vergine (4), spettava già fin dalla metà del secolo xrv, alla Busilica Va- ticana. Era questo un castello abitato, perchè da un istromento dell’anno 1278, del giorno 27 maggio, rileviamo che Consolo figlio di Giacomo de Consulo, de regione Caccabariorum, vendette a Giacomo de Utofo e a Pietro Gandolfi, Cano- nici ‘della Basilica di San Pietro in Roma, in rappresentanza di quel Capitolo, il castello, ossia il Borgo di San Nicola de Arcu Virginis, spettante al suddetto Consolo, insieme alle fortificazioni, cioè alle nuove mura, ed a quelle antiche, che esistevano dentro e fuori il Castello, e con una certa fortezza, che chiamavasi « Trullo » insieme al palazzo esistente in quello, e con le case di piccola dimen- sione, che erano nel castello stesso, insieme ai vassalli, ed ugli usi civici spet- tanti a quelli — et iuribus vassallorum — e con tutto il tenimento dello stesso borgo, ossia del castello. Il prezzo della vendita fu stabilito a 5 mila provisini del Senato. L’atto fu rogato da Stefano di Giovanni di Guido serinario di S. R. C. (5). . I latifondo col castello di Scorano, erano posseduti per una terza parte dai fratelli Niccolò e Paolo Conti di Poli; e per le altre parti erano di proprietà degli Orsini. Ma i fratelli Conti, nel giorno 9 decembre 1427, per gli atti di Nardo de Venectini, alienarono la loro parte del tenimento suddetto a favore dei fratelli Prospero ed Odoardo Colonna, per la somma di 1400 fiorini d’oro (6). (1) Ibi, II, A. XITI, n. 22. (2) Arch. Orsini II, A. XII, n. 41. (3) TomassettI, La via Tibartina, 41, (4) Cod. Vat. Lat., 8054, fol. 182. (5) In tab. Bas, Vatic, Transumpta p. Lud. Cecium. Ann. 1200, fol. 110 (6) ConreLORIUS F., Genealogia fam. Comitum, Cod. Vatie, Lat., 2927, pag. 293. Cod. Vat. Lat., 2549, pag. 1481. i 78 CAPITOLO VII Nell'anno 1443 ai 9 di novembre con atto del Cardinale Ludovico Scarampi, Camerlengo di S. R. C. sotto il pontificato di Eugenio IV, si stabilì che una parte del tenimento del Castello di Scorano, fosse. ceduta al Monistero di San Paolo iuori le mura, in ricompensa di una somma di danaro, che i monaci ave- vano dato in prestito alla Sede Apostolica (1). Nello stesso anno, fu fatto un atto di concordia tra il monistero sopradetto, ed Orso Orsini per conciliare la lite insorta fra essi, circa la terminazione dei castelli di Fiano e Scorano (2). Nel seguente anno i monaci e l’Abbate di San Paolo fuori le mura, acquisirono da Prospero Colonna una delle tre parti della tenuta di Scorano, unitamente ad un corso d’acqua, coll’uso dello stesso, per costruire una mola. La vendita venne eseguita per il prezzo di 800 fiorini d’oro (3). Insorse una nuova questione fra Giacomo, Lorenzo Orsini ed il Monistero di San Paolo per la divisione del Castello di Scorano, e fu decisa da una sentenza a favore dei Monaci sopradetti, come risulta da un atto di Niccola Gualberto notaio (4). Per ciò che riguarda il vasto latifondo di Castel di Guido, di diretto do- minio del Monistero dei Santi Andrea e Gregorio, al Clivio di Scauro, fin dal- l’anno 1426, da un atto dell’Abbate Commendatario dello stesso Monistero, Sa- gace dei Conti, risulta, che la tenuta ed il Castello diroccato sopraddetto, da tempo immemorabile appartenevano a quel Convento, e confinavano con gli altri castelli diruti di San Giorgio, della Leprignana, della Paola, di Testa di Lepre e Malagrotta. Gli Abbati predecessori nei passati tempi, avevano concesso in enfiteusi Castel di Guido, al fu Giovanni di Stefano degli Alberteschi, ed ai suoi discens denti, fino a terza generazione, per l’annuo censo di 15 soldi papiensi. Giovanni di Stefano, era morto, senza figli maschi, ma aveva lasciato suoi eredi Pandolfo e Giacomo, Conti di Anguillara, e Signori di Capranica, che erano suoi discen- denti per linea femminile, I suddetti Pandolfo e Giacomo in seguito a domanda, ottennero dai monaci del convento sopraddetto, l’enfiteusi del tenimento di Castel (1) Cod. Vat. Lat., 7927, pag. 296, t. et. 7953, pag. 23. (2) Ibi, pag. 297. (3) Cod. Vat. Lat., 7927, pag. 297. (4) In Arch. S. Calixti. 6 CAPITOLO VII 79 di Guido, per l’annuo censo di 4 rubbia di grano, di un cinghiale, dell’età di un anno, o di 15 paia di palombi, a condizione, che potessero pagare anche dieci fiorini d’oro, invece della corrisposta del grano, e fiorini tre invece del cinghiale e dei palombi. Le successive quietanze dell’anno 1428 al 1447, ‘ci provano, che il canone fu pagato sempre (1). In seguito i Conti Anguillara si resero inadem- pienti ai patti assunti, e perciò l’Abbate ed i monaci di San Paolo, dopo tre sentenze favorevoli, poterono rivendicare nell’anno 152 il possesso del tenimento di Castel Guido (2). Il vasto latifondo di Palidoro (Paritorium), nel secolo xv apparteneva ai Capizucchi Infatti da una decisione della Sacra Rota — Coram Cerro del giorno 2! maggio 1655, rileviamo, che Giacomello dei Capizucchi, nell’anno 1418 ai 21 di gennaio, comprò da Biagio e Giovanni de Tostis l’intera metà dei Ca- stelli di Palidoro e dei Lombardi, coi loro tenimenti, e che a Giacomello succedette la figlia Elisabetta, la quale aveva sposato Valeriano Seniore della famiglia De Mutis, e che la sopradetta, morendo, istituì suoi eredi universali, in proporzioni eguali, Francesco De Mutis, suo figlio, e Giovanni Francesco di Carlo, suo nipote (3). Il Castello di Ceri, con le sue terre, fin dal principio dal secolo xv appar- teneva ai Conti Anguillara. Una sentenza pronunziata, ai 17 maggio 1428, dal Cardinale dei Santi Cosma e Damiano, detto il Cardinale di Novara, circa i confini territoriali dei Castelli di Loterni, T'ragliata, Sassano © Sassanello, nel distretto di Roma, nella diocesi di Porto, afferma, che spettavano alla Basilica di San Pietro, e che il territorio di Cere, col tenimenio di Castiglione, fossero di proprietà di Giovanni, Pandolfo, Giacomo e Felice Conti dell’Anguillara (4). In quel tempo v'era dissidio fra GiovAnni figlio di Francesco, Giacomo di Nicola, e Pandolfo di Angelo, tutti Conti di Anguillara, per ragioni riguardanti la successione alla eredità dei loro genitori, quale era tuttora indivisa fra loro. Per amichevole intervento di Antonio Colonna ed Antonello de’ Savelli, innanzi al Cardinal di Bologna, ai 16 gennaio del 1429, si venne ad un equo componi- (1) Arch. Capit., Cred. XIV, vol. 64-65. Arch. Soc. Stor. Pat., X, 256. *(2) Ann. Camal. Ad Ann, 1452, tom. VII, pag. 325. (3) Docisio COCCLXXXII. S. Rotao Bibl. Casan., T. III, tom. 15, fol, 174. (4) Arch. Bas. Vat., Caps. LXXILI, fase, 164, Perg. Orig. 80 CAPITOLO VII mento, con la divisione dei vari Castelli, e delle varie proprietà. Per quanto si riferiva a quello di Ceri, ed al suo tenimento, una terza parte dello stesso toccò a Giovanni ed a suo figlio Felice, con gli appezzamenti di terreno denominati, Monte Oliveto, Valle C'annetola e Cardeto, insieme alla terza parte dei vassalli, nell’atto singolarmente nominati, insieme all'intero fortilizio, che chiamavasi Rocca Vecchia. Al conte Pandolfo fu assegnato anche un terzo dello stesso teni- mento, coi terreni Lo Prato, La Foresta, Tutte Grotte e Caprili, insieme alla terza parte dei vassalli, che vengono parimenti nominati, con più la metà della Rocca Grande. Il residuo della tenuta toccò a Giacomo Anguillara, con la metà della Rocca sopradetta, e quant'altro, che in quell’atto di transazione viene nominato distintamente (1). L'atto stesso fu approvato dai Conservatori di Roma (2). Ceri era abitato da una sufficiente popolazione, perchè, nell’anno 1433, nel giorno 19 novembre, Francesco Cardinal Camerlengo ordina, che siano spediti nel ter- mine di sei giorni a Bracciano, dieci uomini ben armati, per combattere insieme alle soldatesche fornite dagli altri comuni dello Stato della Chiesa, contro Nic- cola Stella, detto Fortebraccio, nemico della Sede Apostolica (3). Il latifondo di Cerveteri, col suo castello, apparteneva agli Stefaneschi ed ai Venturini. Dal testamento di Paola Stefaneschi, vedova di Giannozzo di Sant’ Eustachio, rileviamo, che essa Paola possedeva la metà di una parte del Castello di Cerveteri, quale erede di Annibale degli Stefaneschi, ed il resto, cioè la maggior parte del Castello e del tenimento, spettava ai Venturini (4). Sotto Paolo II (1464-1471) Cerveteri fu devoluto alla Camera Apostolica (5). Il Castello del Sasso con le sue terre, sulla fine del secolo xiv apparteneva ai Venturini (6). Fu poi di proprietà degli Orsini, ed in seguito anche dell’Ospe- dale di Santo Spirito (7). La tenuta, ed il Castello di Santd Severa, nel principio del secolo xv, spet- tava alla famiglia de Vico, e precisamente a Giacomo de Vico. Ma questi, es- sendosi ribellato alla Chiesa, fu spogliato dei suoi beni, che furono devoluti alla (1) Cod. Vat. Lat., 8461, parte II, fol. 496-503. (2) Arch. Vat. Martini V. Diver. Camer., Ann. 1480-81, tom. 13, fol. 80t. (3) Ibi, Arm. UVIII, tom. 38, pag. 487 (CONTELORIUS). (4) Arch. Colonna, LIV, n. 56. (5) Arch. Capitolino, Cred. XIV, tom. 41, fol. 103. (6) Cod. Vat. Lat., 7930, pag. 78. (7) SAULIER. De cap. S. Spiritus, Parte I, cap. XI, pag. 130 CAPITOLO VII 81 Camera Apostolica. Il Pontefice Eugenio IV, tenuto consiglio a Firenze con molti Cardinali, all'effetto di provvedere alle spese per le continue guerre di quel e; tempo, comandò a Francesco Cardinal Camerlengo del Titolo di San Clemente, | che vendesse il tenimento, ed il castello sopradetto, ad Everso, Conte di An- guillara, domicello romano, per il prezzo di 1750 fiorini d’oro della Camera (1). Il l'ontefice Bonifacio IX aveva concesso in enfiteusi perpetua ad Annibaldo, di Francesco Paolo Stefaneschi, domicello romano, il Castello di Porto, con la «_— Rocca, il Porto Traiano, e lo stagno col tenimento, e quanto s’apparteneva alla ir | Chiesa Portuense; beni, che già lo stesso Stefaneschi, aveva amministrato per | ‘‘un certo tempo. Ogni anno nel giorno di Natale, l’enfiteuta doveva consegnare pi un cinghiale al vescovo Portuense, a titolo di censo. Defunto Annibaldo, il feudo ì fu concesso a Pietro Cardinale del titolo di Sant'Angelo in Pescheria, ed a Lo- ] ‘renzo suo fratello, ambedue figli di Annibaldo, ed a Tanza, vedova dello stesso. Nell'anno 1412, ai 4 di agosto, Papa Giovanni XXIII confermò la sopradetta 1 concessione (2). Ù x Il Pontefice Eugenio IV, nell’anno 1441, comandò a Francesco Orsini, conte di Gravina, che consegnasse il Castello di Palo, con le terre annesse, perchè a p- 1 parteneva alla Camera Apostolica (3). In seguito quel Castello fu posseduto — —dalla stessa famiglia Orsini. Dal testamento di Maria, vedova di Poncello (Napoleone) Orsini, rileviamo, | Casale Paola e quello di Buonricovero. Il testamento fu redatto dal notaio Lo- renzo di Paolo cittadino romano il giorno 22 dicembre dell’anno 1440, e nello stesso leggesi, che la testatrice volle, che le sopradette tenute fossero consegnate « Statim et subito » (sic), dopo la sua morte (4). La Magliana apparteneva, fin dal secolo xir, alla Chiesa di Santa Cecilia in Trastevere, ossia ai monaci Benedettini, che la possedettero fino all'anno 1493 quando successero ad essi i frati Umiliati (5). Dal testamento di Pietruccio Mielis, del rione Colonna, fatto nell’anno 1429, (1) Reg. Vat., 372, fol. 288, Arm. XXXVI, tom. VII, fol, 451. (2) Arch. Vat., Lib. V, ba//. Johannis XXII, fol. 409, Arm. ILI, Tom. 9, pag. bit, et Arm. 58, tom. 41, fol. 160. (3) Ibi, lib. II, divers. Eugenii IV, fol. 67t. (4) Arch. S. Spiritus in Saxia, Istrum., tom.IV, n. 74, pergamen. (5) Tomasserti G. in Arch. Stor, Patr., tom. XXII, pag. 480. 82 CAPITOLO VII nel giorno 15 di febbraio, rileviamo, che esso lasciò erede la sua figlia Maria, vedova di Giovanni di Giacomello Orsini, del rione Ponte; e la sopradetta’ in esecuzione alle disposizioni del proprio padreé, donò all’Ospedale dì Santo Spirito in Sassia l’intera parte di Castel Giuliano, la metà del bosco e del tenimento di Sambuco. L’atto fu stipulato dai notai Nicola dai q. Nunzio di Pietro, e Pietro Paolo di Lorenzo di Lello Paolo (1). Da un atto dell’anno 1427, del giorno 26 di marzo, ei risulta che Pietro Paolo ed Orso, del fu Ugolino Orsini, erano enfiteuti del caste2/o e del tenimento di Galeria, e che nominarono loro procuratori il Cardinale Giordano Orsini, ve- scovo di Albano, d. Luca Ilperini. canonico di San Pietro, Niccolò di Maestro Rinaldo, notaro nel rione Parione, ed altri, per essere difesi in tutte le cause ad essi spettanti, e per pagare l’annuo censo pel castello di Galeria e territorio, ad essi devoluto, per eredità del detto Ugolino, in seguito ad atti promossi dai Monaci del Monistero di Sant'Andrea Apostolo e San Saba detto anche di Cella Nuova in Roma (2). Un atto di procura dell’anno 1433, del giorno 9 luglio, rilasciato da Fran- cesco Orsini, conte di Gravina e Conversano, nella persona di Lorenzo Carbone, del rione Ponte, c’'informa che esso Francesco rinunziò a favore del Cardinale Giordano Orsini, di Orsino, suo fratello, e del nepote Bertoldo, figlio del fu Carlo, ed a favore di Latino, Giovanni, Maddalena, sa altri, i diritti che spet- tavano al sopradetto Francesco, sulle terre di Bracciano, Galeria, Trevignano, Formello, Scrofano, Tenuta del Sorbo, e su tutti i beni posti nei dintorni di Roma, e nelle parti Trasteverine, compresa la rocca Salce, Rocca antica e Casti- glione nelle parti dell’/sofa, sulle case della famiglia Orsini a Monte Giordano in Roma, sui Castelli di Lugnola e Configni, a condizione, che tutti i cessionari cedessero in corrispettivo i loro diritti e ragioni ad esso Francesco, conte di Gravina, sulle terre di Nerola, Scandriglia, Monte Libretti, Villa Sant’ Antimo, Casa Cotta, Monte Maggiore, Castellaccia, Rocca Libretti (sic), tenuta deì Nor- manni e delle Camminate, Ponticelli, nonchè i diritti sopra Rocca Sant’ Agata e Deliceto in Capitanata, ed in Canuzio in terra di Bari (3). Nell'anno 1437, nel giorno 7 di settembre, il Pontefice Eugenio 1V, con un (1) Arch. Hospit. S. Spiritus, tom, IV, n. 54. (2) Arch, Orsini II, A. XIII, 50. (3) Ibi, II, A. XIV, 57. e nn CAPITOLO VII _83 Breve datato da Bologna, concesse a Giordano Orsini, vescovo di Sabina, la facoltà di potere esportare il grano delle sue terre, fra quelle sì menzionano, Bracciano, Galeria è Formello (1). Da un altro Breve dello stosso Pontefice, conosciamo, che il castello di Ga- ‘leria, era tuttora in diretto dominio del Convento dei SS. Andrea e Saba di Roma, perchè a quello venne unita la Chiesa di Santa Maria in Celsano, che è sita nel fenimento di Galeria (2). Un documento dell’anno 1423, del giorno 28 marzo, c’informa, che Matteo de Insula donasse a Giacomo Orsini, signore della città di Nepi, una parte del Castello dell'Isola, e delle sue terre (3). Nell'anno 1445 contro Latino, arcivescovo di Trani, e di Orsini Orsino, fratello di Giordano, vescovo di Sabina, nonchè a carico degli altri fratelli del vescovo suddetto, tutti figli del quondam Carlo Orsini, e suoi eredi, furono pignorate due terze parti della Rocca e Città di Nepi, e dei tenimenti di Monte Rosi e dell’Isola, per la somma di 6633 fiorini d’oro, così anche in danno di Dolce Conte d’Anguillara, un terzo delle proprietà sud- dette, per la somma di 3333 fiorini d’oro. Il Pontefice Eugenio IV confermò l’atto di pegno, e siccome il predetto Dolce Anguillara militava a favore di Francesco Attendolo Sforza, nemico e ribelle della Chiesa Romana, così il Pon- tefice sequestrò la somma e volle, che sì obbligassero in solidum pel pagamento, anche il vescovo di Trani, e Gentile Orsini (4). Nell'anno 1448, Papa Niccolò V spedì Renzo di Nicola di Roma, a pren- dere possesso di Nepi, e dei tenimenti di Monte Rosi e dell'Isola, che erano stati pignorati dal Pontefice predecessore (5). Compiuto così un breve riassunto storico dello stato della proprietà dell'Agro romano, nella prima metà del secolo xv, giova di proseguirne l’esame delle vi- cende, insieme a quello della legislazione vigente in quel tempo. (1) Arch. Vat. Lib., XIX, Eugeni 1V, fol. 189 t. (2) Arcb. Vat. Eugenii IV, VIII, 13 fol. 190. (3) Petrus Paulus Petronns not., fol. 39. (4) Arch. Vat., Eugenii IV, lib. VII, secr. fol. 120 et fol. 118, 119. (5) Ibi, lib. XX, secr. de Curia Nicolai V, fol. 64. 84 CAPITOLO VIII CapPITOLO VIII. Da Martino V alla fine del Medio Evo. (Ann. 1417-1492), Dopo il Concilio di Costanza, ove fu eletto Martino V (1417-31), si cominciò ad affermare il dominio temporale dei Papi in Roma, con tutti gli atti liberi di sua giurisdizione. Una delle principali cure del Pontefice, fu quella di assicu- rare la pubblica Annona, per ragioni della pubblica tranquillità; e per riuscirvi, dovè provvedere all’agricoltura. Finchè il sistema di governo in Roma fu quello stesso vigente all’epoca dell’alto Medio Evo, è indubbio, che i Conservatori del Popolo romano, ebbero la cura e la sopraintendenza dell'agricoltura e della pub- blica Annona, come leggiamo in una Bolla di Gregorio XII (1406-1409) (1). Ma, col tempo sempre più affermatosi il dominio dei Pontefici, fu stabilito, che il Cardinale Camerlengo si occupasse di tutti gli affari, che si riferivano al governo temporale. La carica di Camerlengo di Santa Romana Chiesa, ragguar- devole per la sua autorità e giurisdizione, resa sempre più importante e più ampia dai sommi Pontefici, poteva essere considerata come corrispondente a quella dell'antica Prefettura della città di Roma (2). Ma essendo troppo vasta la molteplicità degli affari, che quell’ufficio doveva trattare, fu istituito un collegio di distinti ecclesiastici, che si chiamarono Ohse- rici di Camera, sul principio in numero indeterminato, ma poscia dal Pontefice Eugenio IV limitato a sette membri (3); ai‘ quali, in seguito, Papa Sisto V (1585-90) volle aggiungerne altri cinque. Così in definitivo, dodici furono sempre i Chierici di Camera. Tale consesso di consulenti amministrativi, può ritenersi, che avesse avuto già un riscontro nell’antico Collegio dei Questori di Roma. I Chierici di (1) « Zieet conservatores in Urbe... habeant quasdam inrisdictiones ... maxime circa annonam ... prout in eorum statutis », ece. (2) ConeLLIUS Jac. De Card. Camer., cap. 39. (3) De Luca Card., De £elut. Rom. Cur., discur., 33, 2. de + e CAPITOLO VITI 85 Camera, avevano gravi ed importanti mansioni da compiere; e prima di ogni cosa, spettava ad essi la cura del pubblico Erario, di tutti gli affari pubblici e del Fisco, e specialmente dell'agricoltura e della pubblica Annona. Di ogni cosa dovevano riferire al Cardinale Camer'engo, che sopra tutti aveva suprema au- torità e giurisdizione, nella stessa forma e guisa, che il Prefetto dell'antica Roma aveva sopra tutti gli ufficiali della Città, e particolarmente sul Prefetto della pubblica Annona (1). Le varie incombenze, od uffici, sul principio di ciascun anno si estraevano a sorte, ed erano divisi fra i dodici Chierici di Ca- mera. In seguito però, i Pontefici, considerando che fosse cosa avventurosa, far decidere dalla sorte la carica di Prefetto dell’Annona, si riservarono il diritto di scegliere la persona, che avessero creduta più adatta a quell’ufficio. Però dob- biamo notare, che sebbene Martino V, nel suo pontificato — secondo quanto dice l'Infessura « mantenne nel suo tempo pace e dovizia, e venne lo grano a soldi quaranta lo rubbio » (2) tuttavia nel seguente Pontificato di Eugenio IV (1431-47), e precisamente nell’anno 1431, il prezzo del grano giunse a sei fiorini e mezzo il rubbio (lire italiane 73.27) (3); e Paolo di Lello, narrando la morte del Car- dinale Vitelleschi, avvenuta nell’anno 1440, aggiunge « che mentre visse (il sud- detto) il grano valse X// carlini i! ruggio; morto che fu, infra quindici dì ap- presso, valse XXII carlini » (4). Il prezzo del grano nell’anno 1455, salì fino a dieci fiorini (L. 113.50) al rubbio (5). Il Pontefice Pio II, con una sua Costituzione dell’anno 1459, del giorno 21 marzo, fece noto che, avendo saputo, come alcuni abitanti tanto del Patri- monio, quanto delle altre provincie, quando conducevano i loro bestiami a pa- scere, sia nelia Dogana dello stesso Patrimonio, sia nei pascoli dei proprietari particolari, si rifiutavano di pagare la dovuta tassa, adducendo delle ragioni più o meno plausibili, ed in consegrenza ricusavano di soddisfare la Dogana, se- condo l’uso e la consuetudine, con gravissimo danno e pregiudizio di quella, vo- lendo, che ciò più non avvenisse, il Pontefice ordinò e comandò, che tutti gli de li (1) « Est quidem Praefoetus Annonne sub dispositione Praefecti Urbis, et uterque annonae civilis unam agit ». Lib. 12 Cod. (2) Muratori. R. I. S., Tom. III, parte IT, col. 1124, (3) Ibi, Tom. III, parte IT, col. 1124. (4) Ibi, Tom. XXIV, col, 1128. (5) Ibi, Tom. XXXIV, col. 1109, 1110, 86 CAPITOLO VIII abitanti del Patrimonio, e quelli delle altre provincie, città e luoghi, allorchè conducevano i loro bestiami, tanto nella Dogana, quanto nei pascoli dei parti - colari, fossero obbligati a pagare la tassa dovuta alla Camera Apostolica, secondo l’uso e la consuetudine, e giusta il bando pubblicato dalla Dogana sopradetta. Comandò poi a tutte le autorità civili, che assistessero gli ufficiali della Dogana, e facessero osservare quanto era prescritto, comminando pene ai contravventori; stabilì inoltre la multa di 1000 ducati d’oro, oltre la perdita dell’ufficio, a quelle persone, che essendo rappresentanti della Camera Apostolica, avessero mancato di fare eseguire. quello, che egli aveva ordinato. La Costituzione accennata, fu pubblicata a Siena nell’anno II del Pontificato. Da questo atto si rileva, che i cittadini romani godevano il privilegio del. l'esenzione da qualsiasi tassa, per il transito dei loro bestiami nelle campagne, tanto nella partenza, quanto nel ritorno alle montagne (1). Un privilegio dello stesso Pontefice Pio II in data del 14 ottobre 1460, esonera dal pagamento della fida tutti i cittadini di Toscanella. Notiamo in quel documento, come quegli abitanti avessero reclamato, che il loro territorio, che pur faceva parte della Dogana dei bestiami della Provincia del Patrimonio, e di quella di Roma (2), per l'affluenza dei bestiami, che colà convenivano, più non bastasse; e che quindi i cittadini di Toscanella erano costretti comprare i pa- scoli in altri territori dei Comuni limitrofi (3), e ciò con gravissimo danno di quella popolazione. Il Pontefice, non potendo disporre altrimenti per il pubblico pascolo, ma volendo in qualche modo aiutare i Toscanesi, decretò che essi fos- sero liberi ed esenti da qualunque tassa, introducendo ed estraendo i loro animali, sia entro i confini delle Dogane dei bestiami, della Provincia del Patrimonio e di quella di Roma, sia fuori dei termini, così nell’entrare come nell’uscire (4). Dal citato Breve Pontificio, abbiamo una nuova e chiara conferma della esistenza di due dogane dei pascoli del bestiame: luna della Provincia del Patri-. monio, l’altra della città di Roma. La proprietà e la esistenza di tali due Dogane, fu sommamente a cuore deì (1) De VeccHIS P. AnpREAS. Collecfio Costitut., ecc., pag. 1. In bull. vet., Tom. Î, (2) 5. intra limites dohnnaram Pecudum Provinciae Patrimonii et Almae Urbis... ». (3), « ..... oporteat continuo pro vestris pascnandis animalibus herbas, spigam et glandes, in alienis emere territoriis..... ». (4) < .... penitus ct omnino eximimus vet fotaliter liberamus », Cod, Vat. 8886, pag. 134, CAPITOLO VIII 87 predetto pontefice Pio //, che pur volle fare nuove prescrizioni a vantaggio dei possidenti di bestiame, con un'altra sua Costituzione, emanata il 5 gennaio del- l’anno 1461. Nella quale, dopo aver premesso, come egli avesse preso cognizione con suo dispiacere, che fossero diminuiti i proventi ed introiti della Dogana del Patrimonio, fra i più importanti della Camera Apostolica, per la ragione spe» ciale che, da un certo tempo, i pascoli di varie tenute esistenti entro i confini della Dogana, erano stati venduti, 0 concessi a persone diverse, e non già al Doga- niere della Provincia del Patrimonio, prescrisse perciò, e comanilò a tutti, nessuno escluso, Comunità, Università agrarie, Baroni e Signori, persone nobili o parti- colari, di qualsiasi grado, condizione, tanto secolari quanto ecclesiastiche, che sotto la pena della scomunica, e la multa di mille fiorini d’oro della Camera, oltre la perdita di tutto il bestiame (quali pene tutte dovessero essere applicato subito, ed esatte immediatamente, e replicate per tante volte, per quante fos- sero incorsi nelle pene) nessuno potesse vendere od alienare in qualsiasi modo, ad alcuno, i pascoli, le tenute e le bandite, spettanti ai singoli proprietari, comprese nel raggio della Dogana; che nessuno potesse introdurvi alcuna specie di bestiame senza l’espressa licenza del Doganiere, e che invece tutti fossero obbligati a ven- dere i pascoli, le tenute e le bandite al Doganiere del tempo, rappresentante della Camera Apostolica; e ciò per uso e vantaggio della Dogana stessa, ed a favore di coloro, che affidayano in quella, secondo i giusti e ragionevoli prezzi (1). Inoltre concesse ampia facoltà al Doganiere di poter procedere contro i con- travventori, applicando le pene comminate; e, per l’esecuzione, volle che si fosse derogato da qualsiasi costituzione, ordine o statuto, e tutto ciò con amplissime clausole (2). A tutela maggiore delle severe prescrizioni, e perchè fossero rispettate tutte le persone, che conducevano il bestiame, ed i bestiami stessi, Papa Pio //, con una nuova Costituzione, volle confermare, quanto già era stato disposto in pro- posito. Con un suo atto, del 23 ottobre 1462, riferì di aver saputo, che alcune Comunità, Università agrarie, Conti, Baroni, Signori e particolari avessero arre- «ato ingiuria alle persone, che conducevano i bestiami, nella Dogana delle tenute (ile etinnsum et utilitatem Dohanae praedietae, ementibus pro justis et rationalibns praeciis ». i (2) De Veconis P. AnpreAS. Collectio, ece., pag. 1. In Bull, Veter., Tom. I, pa- gine 81.83, . 88 CAPITOLO VIII circostanti a Roma (1), e che avessero fatto danno alle persone, ai bestiami, ed alle cose di proprietà privata dei conducenti; per la quale causa moltissimi non volevano più affidare i propri bestiami nella Dogana stessa, e ciò con gran pre- giudizio e danno della Camera Apostolica. Ed affinchè tutto ciò più non suce- cedesse, comandò a tutti, nessuno escluso, che non ardissero recare danno o molestia, od impedimento a coloro che conducevano i bestiami per affidarli nella Dogana, sotto la pena della rifazione dei danni e delle spese, oltre gli interessi, verso le parti lese, ed anche sotto la pena del pagamento del doppio valore dei danni stessi, da restare a beneficio della Camera Apostolica; e decretò ancora, che in dette pene incorrerebbero quelle Comunità, nel cui territorio fosse stato inferto il danno. Accordò poi al Governatore di Roma, ed ai Doganieri amplis- sime facoltà per procedere contro i contravventori; ed affinchè nessuno allegasse ignoranza di ciò, volle. che la Costituzione fosse pubblicata, non solo in Roma, ma eziandio in tutte le Comunità dello Stato Ecclesiastico, e che per siffatta pubblicazione, si dovessero tutti e ciascuno considerare come intimati per l’esatta esecuzione (2). I Commentari di Pio //, ci offrono una descrizione esatta di alcune parti dell'Agro romano in quell’epoca (1458-64). Il Pontefice, sebbene fosse preoccu- pato per la guerra tra gli Angioini e gli Aragonesi a Napoli, e per il pensiero della Nuova Crociata ed anche turbato per la sua cagionevole salute, tuttavia volle visitare i paesi e le campagne che circondano Roma. Prima di tutto si recò a Tivoli, e nel visitare la villa Adriana, egli esclamò: « Ma la vetustà < tutto ha deformato poichè quei muri che un tempo già furon coperti da stoffe « e da aurei drappi, or son dall’edere nascosti. I pruni germogliarono rigo- « gliosi, ove s’assidevano porporati tribuni. e le superbe dimore delle regine sono « ora abitate dalle serpi (3). Così rapida e mutevole è la matura delle cose sibnana: LoVe {(4). i < Fino a questo tempo — la primavera dell’anno 1462 — Pio non « aveva veduto Ostia Tiburtina, nè quel tratto di mare, che lambe il lido « romano, Invitato dunque dal Card. Rotomagense, salì in una nave presso ‘85 [IA NSI9 Dohanae pecudum terraram Almae Urbis ..... ». (2) De VeCccHIS, l. e. pag. 2. In Bull. vet., pag. 87. (3) « ... ef reginarum cubicula serpentes inhabitant.... >. (4) Commentari, Lib. V. pag. 251, alli ei e i e rr ei te __ è __ Toei CAPITOLO VIII 89 « l’Aventino, e con quattro Cardinali, navigando dolcemente vi si condusse. Le « rive del fiume verdeggiavano qua e là, con rigogliosa erba, e fiori variati, che « il mese di maggio aveva fatto germogliare, tranne dove era il vestigio delle « antiche ruine, che in qualche punto stringevano l’alveo del finme, quasi fra è due pareti. Giunti ad Ostia sul lido, furono offerti al Pontefice sette grandi « pesci, che ai nostri tempi, si dicono « Storioni » e che sono di gran prezzo. «*Non potemmo rinvenirne l’antico nome, ma taluno vuole che si chiamas-. « sero @ Lupi tiberini ». Dissero, che il peso di uno dei pesci offerti, fosse di « libbre duecentocinquanta » (1). i Dopo la festa dell'Ascensione, il Pontefice, invitato dal Cardinale di Aqui- leia, andò ad A/bano. « Uscito da Porta Appia, per la via che mena a Napoli, vide molte ruine, e delle quali precipue gli parvero quelle dell’/ppodromo presso San Sebastiano, e CI quelle d’un obelisco spezzato, attorno al quale si eseguivano le corse delle bighe «o quadrighe. Vide poi la tomba pregevole di Cecilia Metella, che ora chiamano « Capo di Bove. Vide molte ville dirute, acquedotti, costruiti sopra altissimi « archi. Presso Albano la Via Appia, fra i boschi, fu trovata costruita con ba- « salte nera e durissima; qua e là sparse, in quella, delle tombe a guisa di torri, « spogliate de’ marmi ..... » (2). «Il Pontefice proseguì il suo viaggio da Albano a Castel Gandolfo, poi al * Lago di Nemi; tornato da Albano, salì a Rocca di Papa, donde volle ascen- e dere al Monte Cave; qui s’assise il Pontefice alquanto, coi Cardinali, e con- < templando la parte marina, da 7'erracina a Monte Argentaro, misurò coil’occhio « tutto il lido, che apparteneva alla Chiesa Romana. Si vedevano le giogaie di « Centocelle, che arricchiscono l'età nostra di nuovo allume, fino al Ponte Ro- « mano, ed alle popolate spiaggie de’ Tusci. Là era Ostia, ed a guisa di serpe, il e Tevere, vagamente tortuoso. Vide inoltre Ardea, la patria di Turno, e, verso il « mare, gli stagni del Zago Numico, presso i quali era solamente permesso libare «a Vesta; e le ruine d’ Ariccia, onde dicesi nata la madre d’Augusto, e Lavinia « posta sopra un colle, detto da Lavinia figlia di Latino, consorte di Enea. « Vide, al lido, Nettuno, edificato sulle ruine di Anzio..... dove prendesi «gran copia di palombi, allorquando questi volendo traversare il mare, prepa; (1) Commentari, lib. IX a pag. 554. (2) Commentari, lib. XI, pag. 562. 90 CAPITOLO VIII « ransi a lasciar l’Italia. Rivolse poi gli occhi anche alle cime ed ai gioghi favolosi « di Monte Circello, all'Isola Ponzia, resa illustre dalla prigionia d’A/fonso, e perfino ea Terracina, che i Volsci direvano Anrur. Vedevasi parimenti il lago di Nemi, « quel d’ Ariccia, quel di Giuturna, d’ Albano, come se si fosse stati sulle loro sponde. < Di là, anzi, potevasi distinguere la grandezza e la forma vera, e gli spazi « frapposti, che, in quel tempo, rigogliose selve e verdeggianti pascoli coprivano, « commisti a variati colori. Sopra tutti più bella appariva la ginestra, che co- < priva gran parte di quei campi. Roma infine si offrì per intiero al suo cospetto, < e il Soratie"e l’ Agro Sabino, e la candida giogaia degli Appennini, e Palombara, « Tivoli e Preneste, e quei luoghi che dicono Campania. « Discernevasi inoltre il Lago Regillo, oggi Palude de’ Grifi. e le ruine di < Tuscolo. I romani distrussero questa città, dopo la sconfitta avuta da Fede- <« rico I (1167). sconfitta massima, secondo la tradizione. Strabone racconta, che < qui v'era una reggia munificentissima, di cui si vedono ancora le fondamenta, « sostenuta da altissimi archi. Vicino, la deserta Molara, Rocca Priora, Lucul- « lano (oggi detto Frascati), Mariano (detto Marino) castello della famiglia Co- «lonua... » (1). A Pio II successe nel Pontificato Paolo II (Pietro Barbo da Venezia, 1464-71) che, nella sua Costituzione, diretta ai Baroni. Governatori, Rettori e Comuni di- pendenti dalla Santa Sede; deplorò di aver saputo, che si compievano gravi ed eccessive esazioni, anche arbitrarie, contro coloro che conducevano i propri be- stiami nelle Dogane di Roma e del Patrimonio di San Pietro in Tuscia; il che ridondava specialmente a danno della Camera Apostolica, perchè i proprietari sì astenevano, per causa delle sopradette esazioni, dal condurre i loro bestiami nelle Dogane degli affidati. Di conseguenza il Pontefice volle rimediare, per modo che i mercanti, e tutti coloro, che affidavano i loro bestiami nei pascoli della Camera, dovessero pagare soltanto la fida, e non fossero costretti ad altre con- tribuzioni. Ordinò quindi, che nessuno ardisse di esigere nulla, sotto qualsiasi pretesto o ricercato colore, per causa del passaggio dei bestiami, tanto nell’an- data, quanto nel ritorno dalle montagne, e che, soltanto, tutti fossero soggetti al controllo della’ bolletta del Doganiere, dalla quale risultasse, che i bestiami avessero pascolato nelle Dogane, e che per ciò, ne fosse stata pagata la fida (2). x (1) Commentari, lib. XI, pag. 567. (2) De VeccHIS P. A. Collectio, ece., pag. 3. In Bull. vet., pag. 87, If CCP 7 Mi, fr CAPITOLO VII 91 Nella riforma degli Statuti di Roma, ordinata dal Pontefice Paolo II (1469), le varie disposizioni precedenti si trovano mantenute nella loro integrità, insiem» ai privilegi a favore dei cittadini romani, in tema di tasse pubbliche, di legei annonarie, e di prescrizioni circa l’assegna dei loro bestiami. Però l’ordinata ri. forma, secondo la Bolla del Pontefice suddetto (1), non avvenne in modo gom- pleto, ma soltanto si compilò una nuova raccolta degli antichi Statuti, pren. dendo a norma tutti i dati e le notizie che si conservavano, facendovi soltanto pochi cambiamenti e ripetendo, talora, errori e qualche contraddizione. Tuttavia fu mantenuta costantemente l’antica legislazione, seguendo lo spirito e le norme disciplinari del diritto r»mano; ciò che più particolarmente può riscontrarsi nelle | disposizioni delle gabelle. In resultanza, gli Statuti redatti sotto Paolo II, pre- sentano qualche lacuna, sebbene appariscano molto dettagliati. Citiamo ad esempio, per la nostra tesi, che essi: non dispongono nulla per l'uscita del bestiame dalla Città e dal suo distreito. Probabilmente si seguì la consuetudine, che stabi- liva doversi pagare otto denari provisini, per ciascuna lita di valore, se gli animali appartenevano ai forastieri, e di soli quattro denari, se appartenevano . ai romani, secondo gli Statuti di Roma, come notammo precedentemente. AI Pontificato di Paolo IT, successe quello di Sisto IV (1471-84), quando appunto la Campagna romana si trovava in uno stato di completo abbandono, tanto che gli abitanti di essa e della città di Roma, da più anni soffrivano per le ca- restie, mancando quasi del sostentamento necessario alla vita. Le civili discordie e le fazioni fra i Signori più nobili e potenti, che si contendevano il possesso delle castella e dei tenimenti, dispersero l’ultirno vestigio dell’agricoltura; e si rese tale la scarsezza degli abitanti delle campagne, che ne avvenne il generale desolamento, d’onde la sterilità di quel suolo, un dì tanto fecondo e produttivo ! Intanto il Pontefice, per soccorrere alla pubblica carestia, contrasse un prestito dal Cardinale di Rohan, vescovo d’Ostia e Camerlengo di Santa Chiesa, per la somma di 25 mila fiorini d'oro della Camera. A garanzia della restituzione di tale somma, in quei tempi certo non lieve, Sisto IV, nell'anno 1476, con patto stipulato in Salviano, diede in pegno al Cardinale suddetto, ed, eventualmente, agli eredi di lui, sei castelli appartenenti alla Camera Apostolica, e cioè: Frascati, Soriano, Corchiano, Gallese, quello di- (1) Trerser. Cod. dipl. S. Sedis, III, n. CCCXVI, pag. 460, 92 CAPITOLO VIII ruto di Alliano e Cerveteri; nonchè cinque tenimenti, e cioè quelli di Vico, Ca- samala, Sasso, Carcari e Santa Severa (1). 5 L’intelletto e l’animo del Pontefice volsero in quel momento, corcordi in un sol pensiero, ed ad un solo scopo, di rimediare ad uno stato di cose deplo- revolissimo che, ove fossero mancati provvedimenti pronti ed efficaci, avrebbero infallantemente indotto i sudditi alla completa ribellione verso la Chiesa — mala suada fames! — per l’assoluta mancanza d’ogni prodotto, atteso l’abbandono completo dell’agricoltura. E dal prestito con pegno, di cui sopra, che fu il rapido provvedimento ini- ziale, come dallo insieme di tutte le disposizioni in seguito emanate, e degli at- tegciamenti assunti al riguardo da Sisto IV, dobbiamo dedurre, in modo affatto incontrovertibile, che quel Pontefice avesse pienissima cognizione — e, parlando di un Sovrano che l’accoglie e la fa propria, possiamo aggiungere profonda convinzione — della legge VIII del Codice degli Imperatori Valentiniano, Teo- dosio ed Arcadio, de omni agro deserto, et quando steriles fertilibus imponuntur, che noi già precedentemente abbiamo esaminato. Sisto IV può a buon diritto considerarsi come il vero riformatore dell’eco- nomia pubblica nel suo secolo. Egli era rimasto profondamente impressionato, che in quei tempi l’agricoltura fosse stata completamente abbandonata; d’onde le continue carestie e lagnanze interminabili, rinnovantisi con perenne minaccia di ribellione dei popoli, i quali vedevano di mal occhio, che i proprietari dei lati- fondi lasciassero incolti i loro terreni, trovando più utile di disporne come pa- scoli. Il potere temporale moderno, iniziato dal Pontefice Martino V (1417-31), sentiva già tutta la propria grave responsabilità, nel permettere che continuasse uno stato di cose ingiusto ed irregolare. Tuttii tentativi di Brancaleone, e quelli di Cola di Rienzo, ed i continui sforzi del Comune di Roma, erano riusciti com- pletamente vani, contro la persistente reazione, e la fiera opposizione dei Signori feudali. Il Comune era ormai impotente al rimedio: naturale quindi, che il Governo del Pontefice — anche per meglio e più sicuramente instaurare e rafforzare sè stesso — intendendo tutto il valore ed il pregio di avocare a sè, e di assumere l’obbligo di difendere il benessere materiale degli agricoltori, e della città di (1) Archivio Vat., Bull. Sisto IV. Ann, VIII. CAPITOLO VIII 93 Roma, richiamasse in vigore diritti ed usi imprescrittibili e storici, ridonando e cerano, con ossi, allo istituto, così socialmente necessario, della pubblica nnona, il mezzo e il modo di esistere. Riconosciuto, nella collettività dei cittadini, un diritto naturale al lavoro, lo scopo unico della conservazione e del mantenimento della vita, ne deriva È> l'obbligo assoluto in qualsiasi possessore di terra, di lasciare che venga soddi- sfatto questo naturale diritto. Ma il proprietario, per ingordigia o per accidia, stendo col tempo disconosciuto il suo obbligo, calpestando il generale diritto, ecco sorgere il Pontefice e richiamare la massima del reddere unicuique suum, e come principe, esso medesimo Pontefice — facendo ciò che far non volevano i proprietari — stabilire, con tutte le più ampie cautele, eque condizioni, affinchè È reale esecuzione di fatto quel diritto naturale, che ‘è acquisito con la AE RE Pa e da Cita di tutti, di lavorare, cioè, per mantenere la vita, facendo conseguire alle terre, alle piante, alle acque, il primo fine, loro destinato da Dio e dalla natura, che è quello soltanto, di somministrare il sostentamento necessario al viver del- l'uomo (1) w * kd il Pontefice Sisto IV, considerando Iddio aver disposto, che l’uomo lavo- x rasse la terra, da cui era stato tratto (2), di suo Motu proprio, bandì in proposito | una Costituzione, in data del 1° marzo dell’anno 1476. hS . Premette in essa, che il primo provvedimento necessario alla vita, sia certo Di; ‘quello del sostentamento e del vitto. Nota quindi gli scarsi raccolti del grano e degli altri cereali, che da più anni si verificavano, con grave danno dei popoli, ni tutto ciò provenire dall’ inclemenza delle stagioni non solo, ma più | ancora dell’ abbandono della coltivazione dei campi, che i padroni lasciavano dl et) ti, affinchè servissero unicamente di pascolo agli animali, invece di colti- i direttamente, o di farli coltivare per trarne alimento a beneficio degli uo- sa mini. Per i che volendo provvedere, come gl’incombeva il dovere dall’altissimo ufficio, e per ragioni di carità paterna, vuole il Pontefice dettare un rimedio opportuno. « E con la sua autorità Apostolica stabilì ed ordinò, che d’allora in | «poi, e nei perpetui futuri tempi, sia lecito a tutti, ed a chiunque voglia arare «e coltivare le campagne del territorio di Roma, e del Patrimonio di S. Pietro in ; Ù «Tuscia, e delle Provincie di Marittima e Campagna, di rompere, arare, e colti- (1) Deus dedit terram hominibus. Sulm. CXVI. (2) /? operaretar terram de qua sumptus est. Lib, Genesi, Cap, TII, 23, d4 CAPITOLO VIII <« vare, secondo i tempi debiti e le consuetudini, la terza parte di quella tenuta, <« che ciascuno avesse scelta per coltivare (1) tanto se le stesse tenute, apparte- « nessero ai Monisteri, ai Capitoli, ossia ad altre Chiese e luoghi pii, quanto ai < privati o particolari, di qualsiasi stato e condizione, chiesta soltanto la licenza «a coloro che ne fossero possessori, sia pure che non l'avessero ottenuta, purchè « intervenga l’assenso delle persone infrascritte, o di alcuna di esse ». Comanda quindi a tutti i proprietari delle tenute, tanto ecclesiastici, quanto secolari, di qualsiasi stato o condizione essi siano, anche se rivestiti di speciale dignità, che senza resistenza alcuna permettano, che tutti, secondo il loro arbitrio o volontà (2) giusta il tenore e la forma del presente decreto e statuto, possano rompere ed arare, e che assolutamente nessun proprietario, servo o ministro, di persona, o per mezzo di altri, possa arrecare impedimento o molestia. Comanda a fratel Lorenzo, patriarca di Antiochia, in quel tempo, ed insieme Governatore di Roma, ed al Precettore (Preceptori) dell’ospedale di S. Spirito in Sassia, ed a Lelio de Fraiapanibus, e Baitista De Saglia, cittadini romani — i quali, se impediti, dovevano essere surrogati dal Governatore e dal Precettore di S. Spirito — « perchè, se richiesti, da coloro che volessero coltivare la terra, « sia anche da due, li assistano nel miglior modo, acciocchè possano godere « liberamente quanto stabilisce in loro favore il presente decreto e statuto ». Autorizza poi le persone. sunnominate a costringere i contravventori e ribelli, qualunque essi saranno, così col mezzo delle censure ecclesiastiche, come con provvedimento di diritto, e con pene d’ imposizione e reale esazione di multe pecuniarie, secondo quanto essi giudicheranno opportuno e necessario. Comanda che tanto per l’epoca adatta alla rompitura delle terre, quanto per la scelta della terza parte di ciascuna tenuta (3) che doveva essere soggetta a coltivazione, come pure per la corrisposta da darsi al proprietario, per la sola parte coltivata — e per qualsiasi differenza o controversia, che potesse insorgere fra i coltivatori e proprietari, e pei danni e gli interessi, che per avventura i proprietari preten- dessero nel primo anno, ovvero gli affittuari delle tenute, per la coltivazione (1) «..... quam eligendam duxerit ...0. >» (2) « ..... ut absque nulla prorsus renitentia sinant omnes et singulos sic colere volen- tes tenutas ipsas, pro eorum arbitrio et voluntate .....». (3) <« ..... quam super electione partis tertiae hujnsmodi tenutaram quae arari de- bebunt ..... », i CAPITOLO VII 95 + "HA, che tutto le parti debbano sottostare al giudicato dei predetti ud ici, che vengono difidati Mi ascoltare, e di dare il loro giudizio sulla con- rersia. Il Pontefice vuole infine, che sia derogato da qualsiasi etatuto, e dalle i studini di Roma e delle provincie, sc le disposizioni in essi contenute o pon munque vigenti, fossero state contrarie a quanto aveva ordinato. Seguono le "clausole derogatorie, con dichiarazione che sarebbe incorso nelle più gravi cen. sure ecclesiastiche e nella scomunica, chiunque si fosse ‘opposto nel presente, come futuro a quanto il Pontefice aveva comandato (1). bi Questo documento, come altresì quello già pubblicato da Eugenio / V (1432, giugno), a favore degli abitanti di Civitavecchia, formano le basi della riforma ria, iniziata dai Pontefici, e sempre propugnata da essi, fino ai nostri giorni. _ Nei tempi passati, ed anche oggidì, si è talora osato di affermare, che la fa- oltà data dal Pontefice fosse da intendersi subordinata al fatto, che ove il “a e del terreno non lo coltivasse, allora soltanto si facesse lecito ad ogni fat | mente abbiamo tradotto con la massima fedeltà e riportiamo integralmente in Appen- dice (3). Ci fu detto fino a josa, che i provvedimenti pontificî, ebbero sempre un persona di occupare il fondo stesso per coltivarlo (2). Ma ciò è assoluta contrario alla verità, come può rilevarsi leggendo il documento, che noi Su fine unico: quello, cioè, dell’Annona. E nessuno, più di noi, lo ammette e ne con- viene. Ma soggiungiamo subito, in base al criterio naturale nostro, come agricol- , che la prima parte dell’Annona sarà stata indubbiamente per coloro, che ; in quanto nessuno potrà convincere noi, ed altri, che gli agricoltori, Noi abbiamo altresì la convinzione profonda, che i Pontefici emanarono quei rovvedimenti in base all’uso e alla consuetudine costante, per i quali nessuno ui aveva contraddetto od impedito agli agricoltori, di lavorare la terra per la ne- à della vita. Tutti i luoghi, che riscontriamo ancora abitati ai nostri giorni, o) Afeh. Vat, Sixti IV, Ball. Div. Ann. I ad ann, X, Arm. 31, Tom, 62, 106, ner, Cod. dipl. Dom. Temp. S. Sedis, III, COCXIV, pag. 491. Append. doc. I. i a MixettTi Petrus. De omni Agro deserto, pag. 53, CaLissE O. Gli usi civici nella prov. di Roma, pag. 92, ed altri scrittori. | @) Doe. LA. . i di erbe per il solo fine di provvedere alla pubblica Annona soltanto! * 96 CAPITOLO VIII si mantennero abitati, per la ragione unica e sola, che fu lecito sempre di coltivare le terre circostanti, data specialmente la condizione di arretrata civiltà che domi- nava in quei tempi, nei quali a nessuno era permesso di recarsi da un luogo all’altro, senza incorrere in qualche pericolo, financo in quello della vita! Le Costituzioni pontificie, che riguardano l’intero Stato della Chiesa in quei tempi, provano luminosamente, che gli Usi Civici vigevano dunque, come consue- tudine incontestata, altrimenti i Signori ei Baroni sarebbero insorti, come un sol uomo, contro il Pontefice, che specialmente nella seconda metà del secolo xv, non avrebbe potuto esercitare l’autorità sua temporale in modo assoluto contro tutti quei prepotenti, non facili al freno. Doveva esserci dunque qualche cosa di più, che li moderasse —- cioè ? Uso Civico, il patto, diremo quasi, NATURALE, che risaliva alle origini prime, e che essi Signori e Baroni per tradizione, fin dalla nascita, volenti o nolenti, sentivano di dover rispettare! Abbiamo già osservato che il provvedimento, come legge agraria, sì riferiva non solo all’Agro romano, ma anche alle provincie di Marittima e Campagna e del Patrimonio ; sortì subito il desiderato effetto, in quanto la penuria del grano avendo causato la carestia, cominciò invece a rifiorire la coltivazione nella Campagna ro- mana, e la classe degli agricoltori ne riebbe sollievo ed aiuto, perchè tutti vol- lero usufruire dell’Uso Civico, richiamato in vigore. Ma i proprietari, che erano feudatari nella maggior parte, escogitarono un mezzo subdolo e prepotente, per impedire che altri venissero a coltivare le terre a loro dispetto, mentre essi trovavano miglior conto a lasciarle per uso di pascolo. Nell’epoca dei raccolti, sia per la mancanza dei mezzi pecuniari ad eseguirne i trasporti, sia per la deficienza delle strade necessarie, ed anche sotto il pretesto, che tuttora non era stata abrogata una precedente legge pontificia, che proibiva di asportare il grano da un luogo all’altro, i proprietari, abusando delle circo- stanze sopradette, convertirono a loro vantaggio, speculazione e lucro, la colti. vazione obbligatoria della terra, traendo modo dall’insieme di tutto ciò di allon- tanare i coloni dalle campagne. Nei luoghi feudali, an base alla Costituzione pontificia, obbligavano prima i loro vassalli a coltivare per forza tutte le terre, poi nell’epoca del raccolto, negando il transito delle derrate, tutti d’accordo nella prepotenza, costringevano i contadini a vendere a vile prezzo ed a loro stessi pa- droni, ques prodotti, che da quei poverelli non potevano essere asportati per le ra- gioni suddette, nò potevano essere consumati intieramente nei luoghi, ove erano CAPITOLO VITI 97 stati raccolti. I feudatari compravano tutto a prezza vilissimo, riponendo i raccolti nei granai; ma non appena v'era difetto di grano nei loro rispettivi luoghi baronali, | pretendevano il prezzo che meglio volevano, provocando così ad arteficio la ca- restia nei luoghi da essi dipendenti. Proveremo più oltre, di aver desunto quanto sopra, non dalle cronache del tempo, ma da documenti pontifici, che furono in quei tempi pubblicati. Il Pontefice Sisto IV proseguì l’opera sua a beneficio anche della pastorizia nella Campagna romana, dando in proposito ordini al Cardinal Camerlengo Gu- glielmo vescovo 'di Ostia, il quale pubblicò un decreto, nel giorno 11 set- tembre 1481, per cui stabilì, che tutti i bestiami che venivano alla Dogana di Roma, o che partivano per le montagne, o per i luoghi fuori delia Dogana, ed in particolare le pecore, fossero esenti dalla tassa di un quattrino a capo, come per lo innanzi si esigeva (1), e nello stesso tempo confermò immuni da qualsiasi gabella le lane, che uscivano dalla città di Roma, sotto qualsiasi forma o modo, e ciò per disposizione giù emanata in proposito. Inoltre fece speciale precetto, secondo norme già esistenti in altri tempi, che il fenimento della città di To- scanella, dovesse servire per ricovero e pascolo di tutti i bestiami, che erano condotti tanto nella Dogana del Patrimonio, quanto in quella della città di Roma (2). I cittadini di Toscanella poi, vennero esonerati dal pagamento straordinarie della gabel'a, allorchè trasferivano i loro bestiami nella Dogana di Roma, pa- gando soltanto il compenso consueto, perchè la predetta tenuta di Toscanella È. doveva servire per uso e pascolo dei bestiami, che erano condotti in una delle __—’—Dogane menzionate. #7 Ed anzi per ciò la Camera Apostolica, dopo un maturo esame ed una rela- RA tiva deliberazione, considerando che ambedue le Dogane, dipendevano dalla Ca- | ‘’mera stessa, aveva deciso, che il tenimento di Toscanella devesse servire in per- e |_petuo per ricovero e pascolo a tutti i bestiami, che sì conducevano tanto nella a Ni Dogana degli affidati del Patrimonio. quanto in quella della città di Roma (3). Vi Meta 1, di (1) « ..... prout hactenns exigebatur..... »» io (2) « — caeteram cum alias ordinalum fuerit tenutam Civitatis Tuscanellae, commune | receptaculum fore animalibus venientibùs ad quamenngqne dohanam >». Sh (3) « .... auctoritate praesentis volumus et harum serie hac perpetua Costitutione or- d NOE dinamus, ut praefata tenuta Tuscanellac tam ad dohanam Patrimonii, quam ad dohanam _ Almae Urbis venientibus commune receptacalum sit et esse debeat ». 98 CAPITOLO VIII Nel decreto seguono le formule derogatorie, contro i Doganieri, sotto le pene ad arbitrio (1). Da questo documento di somma importanza, rileviamo un fatto, che non può essere più controverso, quello cioè che le Dogane degli affidati per i bestiami erano due : quella di Roma, e quella della provincia del Patrimonio. Quella di Roma prima appartenne al Popolo Romano, come si rileva dagli antichi Statuti. Successo Innocenzo VIII (1484-92) a Sisto IV, sebbene non abbiamo potuto rinvenire aleun documento per provvedimenti emanati a favore dell’agricoltura, dobbiamo però riconoscere come egli, animato dall’esempio del'suo Predecessore — secondo quanto ne scrisse in proposito uno storico veritiero — provvide certo all’Annona pubblica, ed in consesuenza prima di ogni cosa al buon andamento dell’agricoltura (2). (1) Cod. Vat. Lat. 8886 a pag. 54 t. (2) Unde toto eius pontificato, et Annona maxima, et ubertas fuit. ONOPHRIUS Pan» vinius, in Vila Imnocentii VILI. CAPITOLO IX 99 CapitoLo IX. Dal pontificato di Alessandro VI a Pio IV. (Ann. 1402.1565), Intanto l’inclemenza delle stagioni, e molto più la prepotenza e l’srbitrio dei Signori feudatari, e dei proprietari delle terre si manifestarono dannose du- rante il pontificato di Alessandro VI (1492-1503); onde avvennero due eccessive carestie, per modo che, fu dovuto provvedere alla pubblica Annona dalla Ca- mera Apostolica, che dovette acquistare il grano in Sicilia. Dagli atti compiuti dal Pontefice Alessandro VI, rileviamo, che egli, nel- l’anno 1493, nel giorno 27 marzo, fece cessione al Card. G. Batt. Savelli, dal titolo di San Nicola in Carcere Tullinno, della metà della tenuta del Sass0, sita entro i confini della Dogana dei bestiami di Roma (1). Ciò costituisce un altro documento dell’esistenza e delle funzioni della Dogana di Roma. | Per confermare le precedenti disposizioni, emanate dai Pontefici predeces- sori, lo stesso Papa Alessandro VI, con un suo Breve, del giorno 16 ottobre dei- l'anno 1493, confermò, che nessuno potesse affidare alcuna specie di animali, od immetterli nei pascoli entro i confini della Dugana, senza aver ottenuto prima espressa licenza dal Doganiere. È questo era stato già disposto dal Pontefice Pio II. Ma ciò che è degno di maggior considerazione, è il fatto, che la dispo. sizione pontificia proibisce la vendita dei pascoli delle tenute, site entro i confini della Dogana (2). Il che era stato confermato dal Pontefice Paolo II, secondo il Breve che citiamo, In conseguenza delle premesse, Papa Alessandro VI approvò e ricon- fermò quanto sopra, dichiarando che era sua espressa volontà, che tutto fosse esattamente osservato. Che anzi decise, che se alcuno di Montalto, non avesse bai _ (1) Arch. Vat. Lib. Vicariat. Alexandri VI et Julii II. pag. 24. (2) < ..... aut pascua ipsa alicui vendere vel concedere sine dohanierorum pro tempore existentium expressa licentia ». 100 CAPITOLO IX avuto. quivi stabile dimora o domicilio, quand’anche avesse posseduto una casa propria in quel luogo, non potesse immettere alcuna specie di bestiame nei pascoli della Dogana, senza il pagamento dovuto. E perchè tutto avesse maggiore efficacia, annullò qualunque lettera Apostolica, o privilegio concesso dalla Camera, che fosse stato contrario a quanto egli aveva disposto in pro- posito. Il Breve è datato dal Palazzo Apostolico, presso San Pietro nell’anno secondo del pontificato (1). Sempre nell’unico intento di favorire il privilegio del pascolo per il benessere degli agricoltori, lo stesso Papa Alessandro VI, con una sua Costituzione, del giorno 17 ottobre dell’anno 1495, riferì e confermò quello, che aveva prescritto il Pontefice Pio II; che cioè tutti dovessero pagare la dovuta fida, e che nes- suno avesse procurato di porre impedimento a coloro, che conducevano i loro bestiami a pascere nelle Dogane, comminando le pene stabilite per .i contrav- ventori. Rammentò che i Pontefici Paolo II, Sisto IV ed Innocenzo VIII, nel- l’intendimento che tutto fosse osservato in perpetuo, approvarono e conferma- rono quanto sopra, ciò che lo stesso Pontefice Alessandro VI aveva replicato in altro Breve in proposito (2). Siccome poi era giunto a sua conoscenza, che vari pascoli, tenute e bandite, erano stati venduti ad altri, che non ai Doga- nieri, contro quanto prescrivevano le Costituzioni apostoliche, così il Pontefice, nell’interesse della Camera Apostolica, che da ciò era stata danneggiata, volle nuovamente insistere per richiamare tutti all’osservanza delle Costituzioni .Apo- stoliche in riguardo ai pascoli. Nello stesso documento osserviamo, che viene riaffermato il fatto, del come la precitata Camera Apostolica, a mezzo dei !)o- ganieri faceva affidare tutti i bestiami entro i confini della Dogana; e coloro, che detta fida accompissero, venivano esonerati da qualsiasi tassa o paganiento per passaggio, o per altro onere, con facoltà, altresì, di potere andare o tornare, attraversando le varie tenute, ed i confini della proprietà della Camera Apo- stolica e della Chiesa Romana, sotto la tutela ed assistenza degli ufficiali pub- blici (3). In conseguenza di tali esenzioni e privilegi veniva affidata entro i confini (1) Bibl. Vat. Cod. Vat. Lat. 8886, pag. 57. (2) Lie Costituzioni di Sisto IV e d’Imnocenzo VIII, non furono pubblicate nei bollari, ma certo furono emanate dai Pontefici, como risulta dal presente documento. (3) « Zaque (animalia) per Nostra ci Romanae Ecclesiae tenimenta et terminos, etiam mediantibus officialibus nostris et dietue Camerae libere ire et redire facit etc. ». CAPITOLO IX 101 della Dognna tale quantità di bestiami, che superava quasi del triplo quella inscritta, per uso dei pascoli stessi, nei tempi antecedenti. Da ciò, i proprietari delle tenute delle bandite e dei pascoli avevano così elevato le loro pretese sull’affitto, che pretendevano dai Doganieri un prezzo molto superiore a quello, che pagavasi prima per consuctudine. Il Pontefice pertanto richiamò al do- vere tutti i proprietari, osservando come fosse giusto ed onesto, che tutti co- loro che ritraeveno guadagno dall’affitto certo dei pascoli, dovessero anch’essi apportare qualche vantaggio all'interesse pubblico, coll’osservare esattamente quanto era stato stabilito con lettere patenti; e ciò anche se vi si fosse mai derogato in tempi anteriori. Confermò quindi tutte le Costituzioni emanate in proposito dai Pontefici predecessori. Fece precetto assoluto a tutti i Comuni, alle Università, agli abitanti dei 'uoghi, ai Baroni, ai Signori, ecc. ed alle per- sone così ecclesiastiche che secolari, e specialmente ai proprietari delle tenute, dei pascoli e delle bandite, tanto di quel tempo, quanto del futuro, che non potessero assolutamente vendere quanto sopra ad altri, se non che al Doganiere, ovvero senza il permesso dallo stesso, e sempre a prezzo ragionevole e secondo il solito, giusto quanto aveva espressamente prescritto il Pontefice Pio II; e ciò specialmente per le tenute di S. Salvatore, così detta Antralt (sic.), l’intero te- nimento della Corqueta, Monte Romano, Campo Maggiore, le due banditelle di Civitella Armena, la strada della Selva Comune, Monte Cani, e quello di S. Ma- ria Magnoratorum i quarti della Cariurella, Arcimonticelli, Saltereno de Monte Dolito, al di là dei Terzi di Montalto, e tutti gli altri pascoli tenute e bandite. Accordò poi a tutti i proprietari dei fondi, se erano possessori di bestiami, che potessero farli pascere in quelli, mà che si avesse ragione dell'ammontare della fida degli stessi bestiami, nel prezzo d’affitto delle tenute; detraendo da quello l'importo del pascolo goduto. i Confermò la proibizione espressa di poter introdurre i bestiami nei pascoli «lella Dogana, senza il dovuto pagamento. Comandò a tutte le Autorità di sostenere e tutelare le ragioni dei Doga- nieri e dei loro ministri. In caso di contravvenzione, comminò le solite pene, e concluse la sua Co- stituzione con le clausole derogatorie in forma amplissima (1). (1) Arch, Vat. Ex. lib. 27 Bull. Alexandri VI, fol. 125. Miscell, Arm, V, tom. 206, pag. 386. De Veccuis P. A. Collectio, ete. a pag. 4 102 CAPITOLO IX Ad avere un’ idea anche più precisa delle funzioni e dei privilezi alle Do- gane assegnati, crediamo opportuno di riportare integralmente alcuni documenti che il Chiariss. Prof. G. Cugnoni ha pubblicato, nel suo pregevole lavoro « Ap- pendice al commento della vita di Agostino Chigi, detto il Magnifico (1). Nota (17). Dopo il n. 2: « Mandatum Alexandri super solutione n (sette. mila) duc. per « Augustinum Chigium super Dohana Patrimonii. Die V. Octo- bris 1496 (scritture « di casa Chigi, Vol. G. pag. 367) — « Declaratio pro Camera contra Agostinum « Chigium Dohanerium (a pagar ducati quattromila dovuti per l'appalto della « Dogana pecudum Patrimonii con fissazione di termine unius « mensis ad producendum et probandum, quidquid voluerit pro recompensa dan- « norum, ecc.) die 23 Maii 1498 » (Ivi pag. 369). «In un fascicolo contenuto nella Miscell. Chig. ms. R. V. e. v'ha una « Protestatio di Agostino Chigi. Dohanerii dohane patrimonii alla Camera Aposto- « lica, pro recompensa dannorum, ecc., in data 27 giugno 1498. Forse questa fu fatta da Agostino, in conseguenza della accennata dichiarazione. Nello stesso fascicolo, hannovi altre stampe e scritture, spettanti all’argo- mento in proposito, delle quali ne daremo il sunto, producendone due integral- mente nell’appendice (2). È Il salvocondotto, che, fin daî tempi antichi, davasi ai possidenti dei bestiami, che li conducevano nelle Dogane dei pascoli, garantiva tutte le persone addette alle masserie, come i pastori, i garzoni, i conducenti dei carri, unitamente a tutti i bestiami, grossi e minuti, affinchè potessero liberamente percorrere le vie, con tutta sicurezza. S’intimava a chiunque di rispettare gli affidati, altrimenti sarebbero incorsi nella penale di mille ducati, che sarebbero dovuti a beneficio della Camera Apostolica. e tutto ciò per la durata della fida, fino al giorno 8 maggio dell’anno susseguente, festa di S. Angelo. Gli affidati non dovevano nè potevano essere molestati durante la fida, per qualsiasi rappresaglia, anche derivante da debiti, che avessero, tanto in proprio, quanto in rappresentanza d’altri. Erano autorizzati a viaggiare armati, sia durante il giorno, sia durante la notte. ea percorrere le strade con lumi o senza, essendo dichiarati immuni da qualsiasi pena. (1) Arch. della Soc. Rom. di Stor, Patr. VI, 155, (2) App. doc. IL IL CAPITOLO IX 109 Potevano acquistare i viveri per loro uso, e per quello dei bestiami, in qualsiasi luogo dello Stato, senza che fossero tenuti a pagare alcuna gabella o "i diritto di passaggio, ed ancorchè esportassero qualunque cosa fuori dello Stato | della Chiesa. r Nel caso di danno, prodotto dai bestiami, erano tenuti a pagare la dovuta . ammenda, in seguito alla stima di due periti eletti dalle parti, e nel caso di discrepanza fra i periti, il Doganiere doveva pronunciarsi. Per causa di danno gli affidati non dovevano pagare alcuna penale. Il Doganiere assumendo l'ufficio «impegnava, ove i sudditi, o le stesse genti d'armi avessero arrecato danno agli affidati, per obbligare i colpevoli alla Il Doganiere soltafto aveva la giurisdizione sugli affidati, eccetto nei giu- dizi di lesa maestà, di altri delitti, che meritassero la pena di morte, nei quali però il Doganiere interveniva, insieme ai giudici competenti. Gli affidati dovevano pagare ventidue ducati d'oro per ciascun centinaio di bestie grosse, e ducati cinque e mezzo d’oro per cento bestie minute. Il pagamento doveva essere fatto prima della partenza, ritirandone la rela- Mi baliettnz ed:in mancanza: di questa, intii i bastia « le robe degli. affidi erano soltoposti a confisca, il cui importo per una metà sarebbe andato a favore della R. Camera, per un quarto al Doganiere, e per l’altro quarto a chiunque avesse fatto la denuncia. L'appaltatore della Dogana dei pascoli, in forza dell'autorità del suo ufficio, faceva precetto ai Baroni, alle Comunità, ai Governatori, ai Castellani, ed a chiunque degno di speciale menzione, perchè curassero l'osservanza del capito- lato d'appalto per le Dogane dei pascoli, e perchè nessuno osasse di molestare gli affidati od i loro bestiami, tanto neli’andata quanto nel ritorno, nè di pre- tendere alcun compenso; che anzi fossero tutti obbligati a prestare aiuto e fa- vore, nel caso che gli affidati avessero bisogno, e ne facessero richiesta. In caso | di trasgressione a quanto sopra, sarebbero incorsi nella penale di 1000 ducati ss d’oro, da pagarsi subito, a beneficio della Camera. È Il bando venne pubblicato in Roma, nell’ufficio della Dogana dei bestiami, | sotto il Pontificato di Alessandro VI nell’anno v (1). (1) Append. dea II, 104 CAPITOLO IX Una relazione fatta da Agostino Chigi, doganiere dei pascoli delle tenute nell’Agro romano — pascuorum Urbis — e di quelli della Prov. del Patrimonio, diretta alla Camera Apost. il 14 marzo 1497, rivela tutti gl’ inconvenienti, le violenze continue, e i furti commessi in danno degli affidati, tanto per parte dei malviventi, quanto per opera dei Baroni, dei Governatori e di altri ministri dello Stato della Chiesa, i quali con subdoli modi, sia con pretesti, taglieggiavano i proprietari, ed i conducenti di bestiami nella Dogana dei pascoli, rubando loro specialmente le pecore, depredandoli delle loro robe, o vettovaglie, e particolar- mente delle cappe, anche più spesso se nuove, specie nel ritorno dalle montagne, all’approssimarsi dell’ inverno. Il Doganiere Chigi narra particolarmente vari fatti truci, commessi da uo- mini malvagi che, usando della prepotenza, specialmente nei luoghi isolati, de- predavano i pastori in mille modi. Così, nel distretto di Spoleto, ben pochi affidati poterono transitare, senza che subissero furti, taluni ne furono perfino assassinati. Che se talora i disgraziati reclamavano, mostrando la bolletta della fida, si giungeva fino a rispendere loro, come il Pontefice non avesse alcun di- ritto di affidare il bestiame altrui nei territorio di Spoleto! Se si faceva ricorso alle Autorità ad al Governatore, tutto era inutile, e quest’ultimo non si curava d’altro che di qualche presente offertogli alla occasione, per propiziarselo nell’atto di render giustizia. Così, ad un tal Giovanni de Titio, da Norcia, furono tolte cento pecore, ed essendosi egli recato presso gli autori del furto, insieme ad una delle guardie a cavallo del Doganiere, per ottenere la restituzione, essi risposero, che non solo non le avrebbero restituite, ma che in seguito, se fossero transitati altri affidati, avrebbero ucciso addirittura tutti è pastori e tutte le pecore; e poichè Giovanni de Titio esibiva la bolletta della fida, quei prepotenti la lacerarono in più pezzi, mentre financo il Governatore si rifiutò di rendere giustizia. E il Chigi aggiunge, che per raccontare tutti i danni e tutti gli assassini perpetrati, non sarebbe sufficiente lo scritto! Nei pressi d’Amelia, in un piccolo castello, ove, dicesi che abitassero gli Schiavi (sic), erano state sottratte in più volte tante pecore, che sarebbe stato necessario costituire quivi una Dogana dei pascoli. Che anzi, ad un tal Pazzaglia, di Monte Leone di Cascia, che attraversava quei luoghi coi bestiami, rubarono tanti ciavarri, che nascosero in un luogo adibito per fornace. E poichè un certo Pampana, garzone del Pazzaglia, si recò dal Governatore CAPITOLO IX 105 di Narni per ottenere la restituzione dei capi ovini suddetti, esibendo la bol- letta di fida, e facendo appello all’autorità dell’ufficio, il Governatore lo fece carcerare, minacciando anche di farlo impiccare! In quel di Soriano, tutti gli affidati subirono violenze, nè vi fu branco di ovini, cui non fosse tolto uno o due capi, e quasi tutte le cappe nuove furono derubate. Così a Vitorchiano ed a Bagnaia, per opera di pochi ladroni, gli affidati furono spogliati, e taluno anche assassinato; nè si potè ottenere giustizia contro quei prepotenti. Egualmente in quel di Viterbo, come negli altri luoghi di quel distretto; onde era lecito ritenere, che nessuno volesse ubbidire ai bandi ed alle ingiunzioni, fatti a nome del Pontefice. La relazione continua ad enumerare altre violenze, furti e danni arrecati agli affidati in Perugia, a Ponte Carnaiola, nei luoghi posti sotto il dominio dei Conti di Marsciano, ad Orvieto, Bagnorea ed altrove, e conclude, che per le ra- gioni suesposte, e per i fatti avvenuti, niun affidato sarebbe più venuto dalla Toscana, e che ciò specialmente era da temersi nel territorio di Perugia, poichè non sarebbe stato più possibile, che i forastieri avessero ancora affidato i loro bestiami nella Dogana dei pascoli (1). Ci risulta poi che la Dogana dei pascoli del Patrimonio, in quel tempo — fin dall'anno 1494 -— era affittata ad Augustino de Chisio de Sena ad tres annos (2). Nell’anno 1503, il giorno 4 marzo, lo stesso Agostino Chigi viene eletto Doganiere dei pascoli dell'Agro romano — pascuorum Urbis — e di quelli della Provincia del Patrimonio (8). Abbiamo voluto riportare i due documenti precedenti, uno dei quali si rife- risce al bando, che pubblicava il Doganiere, affinchè i possidenti dei bestiami li affidassero nelle Dogane dei pascoli, e l’altro ad un reclamo fatto per le violenze ingiurie e furti, che si commettevano in danno degli affidati, come abbiamo già rilevato dalla Costituzione del Pont. Pio //, del giorno 23 ottobre 1462, nonchè da quella di Paolo //, del 1465, specialmente per quanto si riferiva agli affidati nella Dogana delle tenute dell'Agro Romano (4). (0) Arch. della Soc. Rom. di Stor, Latr, VI, 156. Append. Doe, ILI, (2) Aveh. Vat. Ex libr, Insturum. Invocentii VIII ed Aloxandri VI, fol. 141. (8) Extract. ex lib. Notarum, contractuum Alexandri VI. et Julii II. Rom. Pont. fol. 18 collect. et concordat. Honofrius Vigil. Cam, Apost. Not. In Arch. della Soc. Rom, di Stor. Patr. II, 217, Mss. Chig. R. V. d. p. 121. Cugnoni G. (4) « Dohana pecudum terraram Almae Urbis », 106 CAPITOLO IX Nell'anno 1503, e nel giorno 3 ottobre, la Camera Apostolica delegò Giuliano Spinola di Genova e Felice de Fredis, cittadino romano, quali commissari no- minati per l’acquisto del grano da provvedersi per la pubblica Annona di Roma (1). Ma intanto nuove fazioni guerresche, e turbolenze fra i feudatari, arrecarono danni all'agricoltura, specialmente per la. prepotenza dei Baroni e Signori, i quali non permettevano, abusando della loro forza, che i coltivatori delle terre; potessero asportare dai feudi i grani e le biade, per poterli vendere al pubblico specialmente per uso degli abitanti di Roma. Ad Alessandro VI successe Pio III, che durò nel Pontificato soli 27 giorni, e poscia fu eletto Giulio JI, uomo energico, di elevato ingegno e di fermi pro- positi. Nei riguardi dell’agricoltura, questi dovette superare gravissime diffi- coltà, per la opposizione prepotente ed egoista dei proprietari delle terre, che a qualunque patto volevano rendere ‘inefficace l’esecuzione della bolla Sistina, specialmente per quanto si riferiva al diritto accordato in quella, che cioè chiunque potesse liberamente coltivare la «parte di qualsiasi tenimento, ritenuta migliore per la produzione, e ciò secondo l’arbitrio e la volontà di, ciascuno — pro corum arbitrio et voluntate —. Siffatta contrarietà dei padroni delle terre, aumentò anche più le difficoltà agli agricoltori per procurarsi il denaro neces. sario alla: coltivazione delle ‘terre ‘stesse x Quanto abbiamo riferito, lo desumemmo dal contesto dei documenti pontifici: quindi, nessun dubbio può sorgere, che tale non fosse in quei tempi il vero stato dell’agricoltura di Roma. ; Nell’anno 1504, ai 18 di luglio, la Camera Apostolica fece acquistare quin- dicimilacinquecento salme di grano di Sicilia per l’Annona di Roma, e per uso della Curia romana (2). Nello stesso anno, e nel giorno 9 di novembre, venne concessa la facoltà ad Antonio del Monte, di Novara, di confezionare in Roma il pane bianco, basso e leggero, della stessa forma e qualità, che in quel tempo manipolava un tal Giacchetto, fornaio del Pontefice Giulio II (3). (1) Arch. Vat. Ann. 29, tom. 56, pag. 2, et Pii III, Julii II. Divers. Camer. lib. 1, ab ann, 1503 ad 1505. (2) Arch. ‘Vatie., Arm. 29, tom, 56, pag. 120 t. (8) Ibi, Arm, 29, tom, LUVI, pag. 129, t, 134t, CAPITOLO LX 107 — La Camera Apostolica, per il provvedimento dell’Annona pubblica, nell’anno , ai 20 di luglio, stipulò un contratto cum Petro de la Compagnia, del titolo è Biosmpagnia del Bene (sic), che promise obbligarsi di far condurre per mare, dalla provincia della Marca, fino a ipa Romae, quindicimila some di grano, del | peso di 500 libre per soma, secondo il peso di Roma (1). »* : n 1 La stessa Camera, nei giorno 22 ottobre di quell’anno acquistò tremila rubbia, di grano buono e mercantile, a misura romana, venduto da Bernardo de Binis, cittadino e mercante fiorentino, il quale si obbligò di consegnare 800 rubbia, condotte fino a Ripa Grande, entro il mese di novembre, e le resi- duali rubbia 2200 doveva consegnarle entro quattro mesi, a datare dalla stipu- lazione dell’ istromento (2). Per apportare rimedio a tanti mali Papa Giw/io ZI, pubblicò una Costitu- zione, nel giorno 1 di marzo dell’anno. 1508. - Il Pontefice premise in essa, di voler provvedere all’abbondanza, special- mente perchè aveva dovuto constatare, che era riuscita insufficiente l’importa- zione del grano prodotto in Sicilia, nonostante che lo si trovasse liberato dal dazio. In conseguenza, ricordando le disposizioni emanate già dal Pontefice Sisto IV — suo Predecessore, e secondo i vincoli di parentela, suo zio paterno — e pubblicate in favore di coloro, che volevano coltivare le tenute, e le terre, notò come in seguito a quelle norme, moltissimi si erano dedicati all’agricoltura, il che permetteva di largamente provvedere all’urgenza di Roma; ma tuttavia, il Pontefice dichiarava di aver saputo da fonte sicura che i baroni proibivano di trasportare il grano, con danno di tutti gli abitanti, e di quelli addetti alla Curia stessa. In conseguenza il Pontefice, volendo provvedere specialmente ni bisogni dei sudditi, proibiva severamente ai Baroni e Domicelli romam, ed a tutte l- persone tanto ecclesiastiche, quanto secolari, che possedevano castella, terre o tenute, nel raggio di 50 miglia iniorno a Roma, come ancora ai loro sottoposti, di comprare il grano e gli altri prodotti, oltre il loro bisogno personale, e quello - delle loro famiglie, e con obbligo di trasportare i loro prodotti soltanto a Roma; | altrimenti, dovessero ottenere un permesso speciale, rilasciato dal Pontefice, o "dalla Camera Apostolica. Proibiva altresì a chiunque, fosse anche insignito di dignità, stato, ordine sociale o condizione, sia pure che fosse un Cardi- x ( Arch, Vatic., Arm. 29, tom. 62, pag. 112. (2) Ibi, Arm. 29, tom. 62, pag. 97. Julii IL, Ann. 1508 ad 1510, 108 CAPITOLO IX ì nale, di prestare aiuto; di dare consiglio, o di favorire occultamente o pubblica- mente coloro, che volessero contravvenire a quanto veniva comandato. Il Pontefice ordinava pure, che tutti eseguissero la sua volontà, e perciò voleva, che dopo 15 giorni dalla pubblicazione di quella Costituzione, fissati come ultimo e perentorio termine, i Comuni, le Università edi Baroni, dovessero cessare dal fare acquisto del grano, e togliessero la proibizione dell’esportazione; altri- menti, decorsi i quindici giorni anzidetti, i Baroni e tutte le persone dei Comuni ed Università, e coloro, che avessero dato aiuto od appoggio a contradire quello che il Pontefice aveva imposto, sarebbero incorsi nella sentenza della scomu- nica, dalla quale non avrebbero potuto essere assoluti, se non dallo stesso Pon- tefice romano, e ciò soltanto nel punto di morte, e dopo che avessero fatta una speciale ammenda. Se i vescovi o prelati non avessero adempiuto a quanto sopra, sarebbero stati sospesi a divinis. Se poi qualcuno, fra i Baroni, non avesse rinunziato alle sue pretese, entro i termini indicati, sarebbe stato privato del feudo, che verrebbe confiscato a beneficio della Camera Apostolica, e qualunque luogo che possedesse, sarebbe colpito dall’interdetto, che non poteva essere tolto da altri, se non dallo stesso Pontefice, dopo che avesse ottenuto la debita soddisfazione. Se poi i feudatari proseguissero nei loro propositi contrari, e passati i sei mesi dall’intimazione fatta, rifiutassero d’ubbidire, in tal caso, dî pieno diritto sarebbero stati privati della loro autorità e possesso dei feudi ed altro. È per di più diverrebbero incapaci di poterli ricuperare, o di averne altri in cambio di quelli, e ciò in perpetuo. Il Pontefice ordinava poi a Raffaele, vescovo di Porto e Cardinale Camer- lengo della Chiesa Romana, di pubblicare solennemente la surriferita Costitu- zione (1). c Le Bolle anzidette di Sisto IV e di Giulio II, furono rinnovate e confermate anche dal Pontefice Leone X (1513-21). Nei registri Camerali di quel tempo abbiamo rivenuto un bando dal titolo « Patentes super modo seminandi » dell’anno 1519, del giorno 23 marzo. In quello Giovanni Giacomo conte Gambaran — electus Albiganensis — Governatore di Roma, ed il Chierico della Camera Apostolica Giovanni da Viterbo, Prefetto dell’ Annona, esponevano come, in seguito a quanto (1) Arch. Vat., Lib. 808, Bull. Julii IT, pag. 152, arm. XXXVI, tom. 38, pag. 59, CAPITOLO IX 109 \veva ordinato il Pontefice, era stato approvato, che chiunque volesse eser- Ni ‘citare l'agricoltura nel: territorio di Roma, od in altri luoghi (1) ed avesse scelto 3 De coltivare In terza parte di qualsiasi tenuta (2) spettante a qualunque persona, di qulsiasi grado e condizione, tanto secolare che ecclesiastica, a condizione, che I È. ma ne avesse domandato il permesso, ma poi, se anche non lo avesse otte- | nuto (3) potesse rompere il terreno, ararlo e coltivarlo (4). Ciò nonostante per la inosservanza del decreto sopra detto, Roma aveva sofferto penuria di grano, ed | anzi era stato necessario trasportarne da oltre mare, con gravi spese della Camera [Apostolica e sofferenze degli abitanti della città. " Perchè dunque in avvenire, il Popolo romano, e le persone addette alla — Curia, e tutti coloro, che da ogni parte del mondo, si recavano a Roma, non |. soffrissero più danno della mancanza o della insufficienza dell’Annona, per volontà | ed ordine del Pontefice e della Camera Apostolica, il Governatore di Roma, ed il ; Chierico della Camera surricordati, davano ampia facoltà con le loro presenti patenti, a che tutti e singoli, che volessero coltivare la terza parte di qualsiasi tenuta, quale che fosse, e secondo la loro scelta, potessero rompere, arare, semi- nare e raccoglierne i prodotti, ed adoperarli in loro uso (5). Comandavano poi a tutti i Baroni, ai Capitoli delle collegiate, agli Abbati dei conventi, e monisteri di qualsiasi ordine monastico, ed anche ai privati cit- tadini romani, che non impedissero o disturbassero coloro, che volessero colti- vare la terza parte delle tenute, sotto pena della scomunica maggiore, e dell’in- terdetto alle Chiese o Monisteri nonchè sotto l'ammenda di 1000 ducati d’oro, da essere destinati a beneficio della fabbrica della chiesa di San Pietro. E se i proprietari delle tenute avessero voluto coltivarle per loro conto. avrebbero do- vuto cominciare i debiti lavori. alnieno per id giorno 15 di febbraio di ciascun anno, scorso il qual termine non avrebbero potuto impedire, che altri coltivassero le loro tenute. dv (1) « .....in territorio ipisins urbis, et quibusdam aliis locis ..... ». ‘ wi (2) « .....tertiam partem uninscuinsgne Ienimenti, sive tenute, qnam ipsi eligendam dux Mii... » R » (3) « .....petita tantum licet non obtenta, eorum ad quos spectabit licentia.....». his (4) « .....@ere rumperce et colere valerent ». A 6 * .....0mnibus et singulis artem agricaltnrae exercere volentibus tertiam partem | eniuscumque tenntae quam cligendam dnxerint, ut prefertar, rumpendi, arandi et semi- Tin fructusgne ex ca provenientes colligendi, 19 BORUMQUE USUS CONVERTENDI, /enore 1 praocatiam antoritate premissa, facultatem damus et impartimur ». 110 CAPITOLO IX La corrisposta da darsi al proprietario veniva fissata alla quinta parte del raccolto, nelle tenute poste nel raggio di sette miglia da Roma; alla ottava e nona purte del raccolto, per i luoghi non vicini al Tevere, e che erano posti nel raggio da sette a dieci miglia da Roma: per i luoghi prossimi al Tevere, compresi nel raggio sopradetto, attesa la comodità del trasporto per mezzo del fiume, si do- ‘ veva pagare per corrisposta la sesta parte del raccolto. Il bando derogava da qualsiasi privilegio o caso contrario. L’atto fu pub- blicato nella Camera Apostolica l’anno vir, del Pontificato di Leone X (1). Intanto le Comunità e le provincie, mano mano si assoggettavano alla Chiesa, il che induceva un aumento di popolazione anche in Roma, per i con- tinui rapporti di affari ed interessi. Documenti di quel tempo ci provano che gli abitanti di Roma raggiungessero allora la cifra approssimativa di 55,000, nonostante le affermazioni date dal Giovio, che fa salire tale cifra ad 85,000 abitanti (2). Papa Leone X, che promuoveva le lebtere e le arti, Goa trascurò certo l'agricoltura; quantunque in quei tempi fosse prevalso l’uso, in base al torna. conto, di tenere una quantità eccessiva di vacche rosse; donde ne seguì, che la sementa diminuisse in modo eccessivo, e quindi la necessità di acquistare il grano all’estero, con grave spesa della Camera Apostolica, come abbiamo provato col documento superiormente citato nella sua integrità, e con la massima esattezza. Che se il Pontefice, a mezzo del Prefetto dell’Annona, aveva voluto alla Annona stessa provvedere, non volle tralasciare di tutelare anche l’esercizio del pascolo dei bestiami affidati nella Dogana. Con una sua Costituzione, del giorno 11 giugno dell’anno 1519, Papa Leone X, annunziò di aver saputo, in seguito a reclami di affidati e di Doganieri, che i bestiami diretti nella Dogana del Patrimonio per la fida, venivano sequestrati ed impediti in vari luoghi, che i pastori degli stessi bestiami fossero vessati da imposizioni arbitrarie, pedaggi, gabelle ed oneri e di peggio, che le pecore spesso erano uccise, talvolta rubate a viva forza, il che avveniva, non solo con grave danne del Doganiere, ma anche con disprezzo e perdita per la Camera Aposto- (1) Arch. Vat. Leonis X, divers. Cam. Arm, 388, lib. VI, vol. 68, fol. 20 B. (2) ARMELLINI MarIaANO. Un censimento della città di Roma, sotto il Pontificato di Leone X, a pag. 10. GnoL1 D., Censimento di Roma, sotto Clemente VII, Arch. Soc. Rom. Stor. Patr., XVII, 381, 382. x CAPITOLO IX ll d il Pontefice, valendo provvedere a tanta jattura, elesse e deputò un o, che provvedesse contro coloro, che danneggiavano gli affidati. Co- ò inoltre a tutti gli abitanti dei luoghi, rocche, città, castella e terme di spettare coloro, che conducevano i bestiami, non solo sotto pena della scomu- . da «ma altresì della multa di 500 dicati d’oro della Camera, da' restare a be- p della stessa Camera, e dichiarò che nessuno poteva pretendere alcun che e ‘gabella di passo o di transito. Autorizzò poi lo stesso Commissario, ad usare ivoglia rappresaglia contro le persone od i Comuni, che non volessero ub- e fece mandato per la esecuzione della sua Costituzione, con le solite e derogatorie (1). I benessere pubblico, che relativamente si verificò sotto il Ponteficato di e X, anzichè ripetersi dall’agricoltura, fu invece il risultato delle condizioni he dello Stato. Papa Leone era contrario a qualsiasi monopolio, e volle il commercio dei grani, fosse lasciato alla concorrenza, ed alla industria dei Bic: ‘I tica Prefeftura dell’Annona, che da qualche tempo spettava al Cardi- hi le Camerlengo, venne affidata ad uno dei Chierici di Camera, come giù osser- Pa rai mo precedentemente e provammo col bando sull'esecuzione della sementa, ;0 superiormente. na A Leone X, successe Adriano VI (Florent da Utrecht, 1522-23). Durante il re Pontificato di questi, la Dogana dei bestiami di Roma, e del Patrimonio, ‘in affitto a Pietro Del Bene, mercante di Fiorentino, insieme ad alcuni Di soci, per l’annuo canone di ducati 21,000 (2). cio tanto però tutte le disposizioni emanate dai Papi precedenti, erano con- Quan ente deluse e rese inutili.dalla persistente e tenace prepotenza dei feuda- e dei proprietari delle terre. Eletto però al soglio Pontificio Clemente VII, nell’anno 1523, nel giorno io di quell'anno stesso, pubblicò una dotta ed elaborata Costituzione ll’agricoltura, nella quale così si espresse : ne. È Lu molto tempo, da che la felice memoria di Sisto IV, nostro Prede- e , al riflesso, che la campagna, che circonda Roma, per molti anni aveva eno da sa i scarse raccolte di grano, con grave danno e dispiacere degli abitanti, co- i i [ge F =] ti (1) DE Viscoms P. A., Gollete. Cost., pag. 6. In Bull. veteri, tom. I, pag. 232. (A) Co Barb. Lat., 1652, pag. 12, t. Ù 112 CAPITOLO IX < noscendo, come questo fosse causato, non solo per l’inclemenza delle stagioni, « ma più ancora specialmente provenisse dalla mancanza di coltivazione dei e terreni (1), che i proprietari per ragione di un guadagno maggiore lasciavano « incolti (2), per servire di pascolo ai bestiami, anzichè coltivarli, o di permet- « terne la coltivazione, per procurare nutrimento e sostentamento agli uomini (3) « per mezzo «lei suoî decreti ebbe ad ordinare, che d’allora in poi, fosse lecito a 4 ciascuno, che ne avesse la volontà. di coltivare e seminare sopra la terza parte « di ogni tenuta a sua scelta (4) sia che essa appartenesse ai Monisteri, alle « Chiese, ai Capitoli o Luoghi Pii, ovvero a privati di qualunque condizione nel « territorio della città di Roma, nel Patrimonio di San Pietro in Tuscia, e nella « provincia di Marittima e Campagna (5), a condizione però, che colui, che avesse « intenzione di coltivare, ne domandasse, in presenza di magistrati a ciò delegati < il permesso al proprietario, ed anche senza ottenerlo » (6). * Sisto IV, aveva già ordinato, che tutti permettessero quanto sopra, senza arrecare impedimento o molestia, disponevdo, che i magistrati delegati a ciò, componessero qualsiasi differenza fra le parti interessate. 4 Il Pontefice Clemente VII, continuò la sua Costituzione, riportando fedel- mente in quella — de verbo ad verbum — tutte le disposizioni emanate da Sisto IV, il giorno 1° marzo 1476, che noi abbiamo già citata, traducendola alla lettera integralmente. E richiamando in vigore le provvide disposizioni del predecessore Giulio II, che aveva altresì rinnovate quelle di Sisto IV, fece notare come in seguito a tali provvedimenti umanitari adottati, moltissimi si fossero dedicati all’agricol- tura (7) e che in seguito a ciò, si era ottenuta sempre un abbondante raccolto di grano; e di altri prodotti, nel territorio di Roma, ed in quello dei luoghi cir- convicini, ben provvedendosi così alle necessità urgenti delia città. “4 Ma i Baroni, i Domicelli romani, ed i Signori delle castella vicine, e della (1) i... potissime eliam: provenire ex raritate agrorum..... » (2) « .... potins servabantar incuiti..... » (3) « nt essent în pascua animalibus brutis, quam colerentar, aut coli-sinerentur in ali- « mentam et substentationem: hominum... > (4) (6)* <...... petita tamen, licet non obtenta, ad quos spectaret, licentia >. (7) « .... ex provisione sna huismodi plnrimi agricoltare se dedissent..... » CAPITOLO IX 113 maggior parte dei terreni stessi, impedirono il trasporto del grano e delle biade in Roma, obbligando i loro sudditi a vendere loro il’ fratto delle loro fatiche a vile prezzo (1) e rivendendo poi essi signori, lo stesso grano, ad un prezzo ele- vato, con usura gravissima (2). Lo stesso Pontefice, rammentò che il Predecessore Giulio II, aveva pre- seritto, che tutti, fino alla distanza di 50 miglia da Roma (3), dopo aver prov- veduto a quanto era necessario per l’uso delle persone e dei luoghi (4) lascias- sero che il resto fosse tutto trasportato a Roma, intimando ciò anche ai Cardi. nali (5) ed in caso di inobbedienza, minacciando tutti di scomunica, censure e pene fino alla confisca della loro proprietà (8), oltre l'interdetto a tuttii luoghi abitati. Constatò poi, che gli abitanti di Roma erano aumentati, e che quindi si rendeva necessaria una quantità maggiore di grano per la pubblica Annona, ma che invece durante l’ultimo ventennio, l'esercizio dell'agricoltura era diminuito per una metà, e così pure la coltivazione delle terre, giudicandosi più conveniente industria dei bestiami, e specialmente quella delle vacche rosse; tanto che l’agri- coltura era per cessare, e la Città avrebbe sofferto per la penuria del grano (7). Osservò pertanto, che sarebbe stato più opportuno far sì che la terra pro- ducesse per uso ed alimento degli uomini, più di quello che per gli animali; che dall'esercizio di simile agricoltura, gli uomini nati per il lavoro, avrebbero potuto esercitarsi in un'industria onesta, che da ciò, l’aria ed il clima sarebbero addi- venuti più salubri (8) e che, per tal mezzo non solamente si sarebbe provveduto (1) <« .... c/ ab cisdem subditis, qui non sine magnis sudoribus illud recolligerent viti pretio habere....« » (2) « ..... illndque eis cum frumentum aliis charins vendissent persolvere nolebant ». (3) « ..... fu/ra quinquaginta miliaria a dicta urbe possidentes.i... » (4) « .... pro nsu et necessilate cietus domus eorum, etc. » (5) « ..... efiam si cardinalatus honore falgentes forent ». (6) « .... sî non desisterent, dominio dictoraum feudorum omnino et penitas privaveri!, fiscoque Apostolicae Camerae applicaverit. » (7) ..... « nihilominus exercitinm artis agricoltarae, et colendorum agrorum hniusmodi in regione dicetne Urbi finitima, et illins territorio praedietis, ultra medietatem ab eo, gnod ante viginti annos existebat, diminatum fuerit et cnitus exercendac agricolturae huinsmodi, etiam docente experientia, rerum magistra, propter multitudinem vaccarumirubearam, in eodem territorio exislentium in dies praelermittatur, et ars ipsa qgnodammodo pereat, quo fit nt in dieta urbe frumenti penuria invalescat ». (8) « ...... ef quod ex culto agricolturae hniusmodi homines ad laborem nati in exer- citio honesto se poterunt exercere, et aer salubrins redderetar ». 114 CAPITOLO IX agli abitanti di Roma, ma anche a tutti quelli, che abitavano le terre della Chiesa (1). Aggiunse che la parte esuberante dei prodotti avrebbe potuto essere trasportata per mare a rifornire gli Stati limitrofi. Volendo adunque provvedere a ripristinare l’arte dell’agricoltura e specialmente la coltivazione dei campi, în pristinum statum restituere, di suo Motu proprio confermò le Costituzioni dei Pontefici predecessori Sisto IV e Giulio II e cioè che fosse coltivata la terza parte di qualsiasi tenuta posta nel raggio di venti miglia da Roma (2). Dispose, che i proprietari avrebbero potuto coltivare essi stessi le terre, o farle coltivare per proprio conto, a sola condizione che ave=sero trasportato a Roma tutto il prodotto ritrattone, senza innovare nulla nelle loro proprietà. Che se i padroni delle tenute e degli altri fondi rustici, non avessero voluto coltivare per proprio conto, il Pontefice ordinò che fosse lecito agli altri citta- dini o mercanti abitanti in Roma, ed alle altre persone qualsiansi, di seminare la terza parte delle tenute, o dei fondi di ciascuna tenuta, secondo la loro yo- lontà, e dove loro fosse più piaciuto (3), senza che alcuno potesse impedirlo, o proibirlo, sotto la pena dell’ammenda di 500 ducati d’oro, a beneficio della Camera Apostolica; e ciò, per ogni volta che qualche proprietario volesse proi- bire od impedire che si arassero e si coltivassero le tenute. Ordinò inoltre che i coltivatori potessero far pascere gratuitamente i buoi. da lavoro; che i pascoli dovessero essere riguardati dai bestiami fin dal primo giorno di agosto di cia- scun anno; e che la rompitura dei terreni dovesse esser fatta dal primo di gen- naio, o dopo, secondo che riuscisse più comodo ed opportuno agli agricoltori, per eseguire i lavori di rompitura ed aratura dei terreni (4). Aggiunse che non si dovesse pagare nulla, sia in derrate, sia in denaro, per il titolo cosiddetto di (1) « ..... et non solum dictae Urbi, et illius incolis et cnrialibus, ac caeteris. homi- nibns in terris Sanctae Romanae Ecclesiae subiectis de framento necessario provideri ». (23 RARA ita ut iertia pars omnium tenutarum et possessionum et casalinm fam in territorio et Patrimonio ac Campania Maritima praedictis, qnam citra Urbem infra viginti milliaria consistentinm, tam ad Ecclesias, etc. absque ulla exceptione vel prohibitione sin- gulis annis pro frumentis serendis et recolligendis, scindi, arari et coli possif, ete. ». (3) ..... in quolibet casali prout eorum arbitrio, et nbi eis melius videbitur +. è (4) <« ..y.. ita ut culfores ipsi cum dictis possessionibus pasenare pro pascendis bobus laborantibns necessarium habeant, et laboratores illo indigentes, easdem possessiones pro pascularibus reservatas, quolibet anno a principio mensis Augusti custodiri, et cultaras eli- gendas in principio mensis Jannarii, vel post, prout eisdem commodins et opportanius videbitur, rumpi et arari facere possint >». CAPITOLO IX 115 entratura, nec pro intralura; ma che in tutte le tenute e fondi rustici compresi nel raggio di otto miglia da Roma, si dovesse dare ai proprietari la quinta parte dei prodotti raccolti, secondo il parere dei Consoli dell'Arte dell'agricoltura. Per le tenute e fondi rustici oltre la distanza di otto miglia, fino a 15 o 16 miglia da Roma, che si dovesse pagare Za settima parte del grano o prodotti avuti, nel modo e nella forma sopra stabilita. Per le tenute del Lazio e della provincia di Marittima e Campagna, nelle quali riusciva più facile la coltivazione, e gli operai più facilmente potevano rinvenirsi, stabilì che si dovesse dare la quinta parte dei raccolti, secondo la consuetudine sempre osservata fino a quel tempo, et in quibus consuetudo hactenus servari, solita servetur, salvo che, se il lavoro fosse stato fatto in forza della at- tuale Costituzione, contro la volontà dei proprietari, in tal caso la corrisposta dovesse essere della settima parte dei raccolti (1). Per le tenute, oltre la distanza di 16 miglia da Roma, purchè non fossero site nelle pianure del Tevere, nelle quali si doveva dare la corrisposta solita, dummodo non sint loca vicina fluminum (2) Tiberis in quibus consuetudo loci, quoad responsiones servetur, fu disposto che si dovesse dare la decima parte del grano e biade raccolti. Che se i proprietari delle tenute avessero volute coltivarle per loro conto, dovessero essere obbligati a far trasportare i prodotti a Roma, conducendoli anche per mezzo fluviale, dalle foci del Tevere presso Ostia. Ordinò che tanto gli animali, quanto il grano spettanti ai coltivatori non potessero essere soggetti a sequestro, per causa di debiti civili, e che i coltiva- tori godessero del privilegio della tratta di 50 rubbia di prodotti, per ciascun aratro adoperato nei lavori; e ciò quando il prezzo del grano non oltrepassasse il valore di diciotto giulj a rubbio (L. it. 9.67) computato a misura maggiore, come dicevasi allora « a pala battuta » (3). Gli agricoltori dovevano pagare per ciascuna tratta due giulj (L. it. 1.07) dei quali uno e mezzo andava a favore della Camera Apostolica, e l’altro mezzo a beneficio dei Cavalieri di San Pietro, militibus S. Petri. Perchè poi fosse lecito [11 CRE et si contingat illas per aliquos praesentium vigore laborari, responderi debeat modo praemisso ». (2) In quei tempi anche l'Aniene si chiamava Zevere, e per conseguenza si disse « F/u- minum Tiberis » (sic). (O) <..... ad mensaram maiorem pala battuta nuncupatam ». 116 CAPITOLO IX a chiunque tenesse in affitto, anche per lungo tempo, tenute spettanti a chiese, monisteri ed ospedali, di rinunziare agli affitti per sempre, il Pontefice annullò gli effetti derivanti dai ‘contratti, ed in conseguenza gli affittuari non furono ob- bligati a pagare altra somma, se non quella dovuta per il tempo che usufruirono delle tenute, ritraendone il frutto. Vietò inoltre a tutti di tenere vacche rosse, oltre il numero di centoventi- cinque, nel raggio di 10 miglia da Roma. Ad incitare poi i cittadini romani, che esercitassero l’agricoltura nelle tenute, possessioni e casali, prescrisse, che non potessero esercitare detta arte i forastieri, tranne se i proprietari lo aves- sero desiderato, ma più specialmente fossero preferiti i cittadini romani e coloro che abitavano Roma, e che volessero dedicarsi a tale arte, purchè fosse sempre col- tivata la terza parte delle tenute, come era stato prescritto. Proibì severamente a tutti i proprietari delle tenute, tanto laici che ecclesiastici, di qualsiasi stato, ordine o condizione di classe, che non avessero arrecato impedimento o molestia. essi stessi direttamente o per mezzo d’altri, al lavoro degli agricoltori, obbli- gando tutti a permettere la coltivazione delle tenute e possessioni, secondo l’ar- bitrio e la volontà di coloro che volevano seminare (1). Intimò poi ai Baroni, Domicelli romani ed a tutte le persone sia ecclesia- stiche che secolari, di qualsiasi dignità, grado e stato. non esclusi anche i Car- dinali, di non comprare grano e biade dai loro sudditi, oltre quanto potesse loro occorrere, e che non ne impedissero il libero trasporto in Roma; comminando tutte le pene e censure, contenute nelle Costituzioni del predecessore Pontefice Giulio II, e decretando che quanto fosse stato fatto in contrario, sarebbe irrito, nullo e come non avvenuto. i Ingiunse poi ad Antonio vescovo Prenestino, ed al Card. Andrea del titolo di Santa Prisca, perchè insieme a Bernardo, vescovo Cervisinus, che in quel tempo era Governatore di Roma, nonchè a Filippo De Senis, notaro apostolico e Chie- rico di Camera, a Giacomo Frangipane e Giulio Di Pietro Matteo, romani, nonchè a Giacomo Ruccellai fiorentino, e ad altri che fossero stati surrogati dal Gover- natore, in caso d’impedimento personale, di curar tutti quanti, che fosse pub- blicata la presente Costituzione, e prestassero aiuto e consiglio. a coloro che vo- (Tei sed eos absque nulla prorsus resistentia, fenutas et possessiones praedictas pro eorum arbitrio et voluntate, inxta praedictarum, et praesentium literarum tenore rampere et arare permitterent ». 4 CAPITOLO IX 117 levano coltivare, quante volte ne fossero richiesti, procurando che nessuno riu- scisse ad impedirne la esecuzione. Dispose, che la pubblicazione fosse compiuta nelle città, castella e terre, ed in tutti i luoghi di pertinenza della Camera Apo- stolica, omesse tutte le solite formalità del Fisco e, ove del caso, facessero anche appello all'assistenza della forza armata © delle soldatesche, agli stipendi della Chiesa Romana. Concluse comminando multe e pene, anche ad arbitrio degli esecutori, eorum arbitrio imponendas, e ciò con le solite formule derogatorie, prescrivendo la so- lenne pubblicazione in Roma nei luoghi soliti e con la dichiarazione che quanto sopra, valesse in modo, come se ciascuno inibeaimilo. fosse stato personalmente intimato. Aggiunse minacciando le censure ecclesiastiche più gravi, contro gli oppo- sitori o contraddittori delle lettere Apostoliche. La Costituzione fu pubblicata « apud S. Petrum » nell'anno primo del Pon- tificato sotto la data che abbiamo superiormente accennata (1). Una simile legge oramai erasi resa indispensabile, perchè le Costituzioni agrarie emanate da Sisto IV e da Giulio II, erano state deluse dalla prepotenza e dallo arbitrio dei feudatari e dei proprietari delle terre. Ciò rilevasi anche meglio dalla forbita ed eloquente orazione composta da Giambattista Casali (2), erudito e sco- lastico scrittore di quei tempi, che, per mandato certamente avuto dai proprietari delle tenute, compose un magniloquente discorso — che restò, come semplice me- moria rettorica di quell'epoca — allo scopo di persuadere Clemente VII a revocare la sua Costituzione. Il Casali. nella sua orazione intitolata « Contro la legge agraria per la comune utilità e per la tutela della libertà ecclesiastica », osservò che la Costituzione Cle- mentina, dando facoltà ad ognuno di coltivare le terre incolte di altri, coll’ob- bligo di corrispondere al proprietario una porzione dei frutti, avrebbe prodotto (1) Arch, Vat., Regesta Clomentis VIT. NicoLar N. M., Memorie, leggi ed osserva» zioni, ece., II, pag. 30 e segg. (2) G. Battista Casali, di nobile famiglia romana, persona distinta per le funzioni diplomatiche esercitate, le quali, quantunque laico, aveva adempito all’estero, in servizio della Sede Apostolica, e specialmente presso Enrico VIII d'Inghilterra ; ebbe il coraggio di opporsi alla legge agraria di Clemente VII, pubblicandone colla stampa in Roma stessa una orazione per combatterla. Diede a quella una forma oratoria, quasi che la dovesse pronunciare alla presenza dello stesso Pontefice, 118 CAPITOLO IX tale abbondanza di grano, che i granai sarebbero stati insufficienti (1). Dubitò che sarebbe riuscito incerto l’esito, e che per la facoltà accordata, così lar- gamente a tutti, ne potesse avvenire, che i beni della Chiesa sarebbero stati usurpati (2). Osò chiamare scellerata legge quella, che prescriveva la coltivazione della terza parte delle terre, i/lud fertium sceleratae legis caput extet. Menzionò, che in quel tempo il grano vendevasi ventidue giulj al rubbio (L. it. 11.82) e ne ‘volle dedurre, che sarebbe disceso di prezzo, col diritto di esportazione. Ag- giunse altresì, che nel ventennio antecedente, il grano non aveva mai superato il prezzo di quindici giulj (L. it. 8.06). Si permise di esprimere al Pontefice un audace monito; che cioè, se avesse lasciato, che i beni della Chiesa divenissero preda dei malvagi, non avrebbe potuto più ricuperarne neppure la minima parte (3). Aggiunse, ‘che Martin Lutero non macchinava altro, se non che i beni ‘ della Chiesa fossero dati in uso ai ‘privati (4). Asserì, ‘senza dare ialeuna ‘prova di ' fatto, come non fosse vero, che da venti anni la coltivaziona delle terre fosse diminuita, sostenendo che anzi fosse aumentata, specialmente nel territorio Pontino, coll’essiccazione delle Paludi, concessa ai Medici dal Pontefice. Leone X. Contrariamente alle lagnanze pub- bliche perle carestie, affermò che il grano fosse sempre avanzato in Roma (5) Ma tutto ciò è assolutamente contrario ai documenti pontificî, che superiormente abbiamo riferito. L’oratore Casali; credette anche opportuno di convalidare la sua ampollosa orazione; cor una violenta Catilinarià contro i deputati eletti dal Pontefice, per assistere gli agricoltori, che volessero coltivare le terre. Risparmiò soltanto Gia- como Frangipane; che anzi designò distinguersi per nobiltà, prudenza ed onestà. Riprovò la condotta di Giacomo Ruccellai e di Giulio Albertoni, altri deputati. che egli qualificò dedità alla rapina; ad istigazione di un tal Giuliano — del quale non fece; il.cognome — che egli credeva ispiratore della legge nefasta. Descrisse il Ruccellai, come un elegante di quei tempi, ma tuttavia dal sembiante truce | (1) « ..... Rorrea non capient frumenta », (2) \« Ecclesiae bond ad pracdamexponantar », (3) Veneor Bu P.nersi tanta hovnm noquitine atque avilitati fenestram patefeceris, quid tibi post Jiac relignumi futura \sit frusta requiras ». (4) anQaidialind Martinus.sLnterus molitur, nisi ut.gnae Ecelesiarumsunt. ini privatoram usus.cedant?, i (b}carsuta rumenta vero in Urbe Roma semper ad nbertatem superfuerannt>, ag CAPITOLO IX 119 e sfregiato di cicatrici, dai quali segni volle dedurne pessimi i costumi, Dipinse poi l’Albertoni, dai lunghi capelli, dalle ispide sopracciglia, dalla barba promi- nente, vestito sempre di ampia toga, facile a mentire, ed abile ad estorcere de- naro altrui. Continuò la sua diatriba contro Giuliano, che dipinse come agita- tore e mestatore fra le plebi, aggiungendo, che costui si fosse arrogato perfino il diritto d’intervenire impudentemente nei convegni dei Deputati dell’Annona, e di pronunciarvi un violento discorso. Alludendo ai sopradetti, che erano designati quali autori che avessero sug- gerita simile legge, il Casali soggiunge: « Ma vedo, Beatissimo Padre, qual. fine costoro si sono proposti; ma non « mi sfugge cosa celasi, sotto l’annunzio di beneficare Roma. « Essi concordemente procurano, che il grano, il fieno, le carni, i formaggi « ed altre simili derrate, salgano a prezzi esorbitanti: essi poi ne avranno il mo- « nopolio, secondo il solito; e, se tu darai ad essi il permesso, perfino il sole si « faranno pagare in moneta sonante! Imperocchè se i prati si ristringeranno, « dove caveremo il fieno? Se cacceranno le vacche, chi ci somministrerà la carne, « il cacio, il burro? Se l’aratro romperà tutti i terreni, e saranno messi alla « cultura, credi tu, che per ciò debba venire l'abbondanza delle biade ? « Questi novelli Prefetti dell’Annona faranno ovunque incetta del fieno, e « dovremo ricomprarlo da loro: compreranno le vacche e le pecore, che hanno * cacciate dai pascoli, perchè da loro verremo costretti a comprarne le carni. « Quanto di più ce le venderanno ? Il doppio certamente ed anche il triplo, di « quanto le paghiamo adesso! « Forse, tu mi dirai sono uomini onesti, e punto ingordi. Ma io non so con « quanta prudenza possa affidarsi la sussistenza del Popolo Romano a costoro, alle « cui rapine, sembra troppo ristretto l’orbe terraqueo. Giacchè mentre comandano « che sì rompano i prati coll’aratro, e le vacche siano condotte lontano, non » « ad altro intendono, se non a rincarire, mediante la deficienza, i fieni e le carni. « Per certo costoro non. ignorano l'antico, e sempre osservato istituto della « città di Roma, dividersi i poderi in tre parti; in pascoli, prati e campi. I pa- « scoli per gli animali bradi, i prati per le pecore, i campi per il vitto umano. « E così sapientemente distribuiti, diligentemente conservati, furono sempre pronti « nel somministrare i debiti alimenti all'uomo, ed agli animali. Se li diminuisci, « se ne turbi l'andamento, produrrai certo la carestia e la mancanza di vi- « veri, eco. », 120 CAPITOLO IX Il Casali proseguì la sua prolissa orazione, ripetendo gli stessi argomenti, con uno stile sommamente enfatico ed ampolloso. Concluse, affermando che il Pontefice era ingannato da coloro che, simulando di essere favorevoli al popolo, per tutela dell’Annona, in fatto però avevano in animo soltanto di arricchire se stessi e gli amici, in danno di tutti, e specialmente facendo invadere le terre spettanti alla Chiesa ed ai luoghi pii, il che avrebbe prodotto una irreparabile ruina economica (1). Ma le ragioni addotte dal Casali, ed i suoi speciosi argomenti, non valsero a far revocare la legge Clementina; anzi furono emanate altre disposizioni in proposito, e dai diaristi di quel tempo sappiamo, che l’agricoltura fu esercitata da moltissimi, e ciò per molti anni di seguito. Nè in quel tempo furono dimenticate le Dogane dei pascoli; che anzi una lettera del Card. Camerlengo Guid> Ascanio Sforza, in data del 4 ottobre del- l’anno 1523, diretta a Ser Antonio Jannotta da Toscanella, Commissario pontificio, ordinò che tutti gli affidati, che fossero giunti coi loro bestiami, comodamente e per tre giorni di seguito, potessero far pascere quelli, nelle proprietà pubbliche e private, anche lungo le strade e lateralmente a quelle, e per quanto spazio fosse stato loro opportuno, secondo il loro parere (2). Di- spose altresì che tutti i proprietari dei bestiami, unitamente ai pastori, che li custodivano, potessero fornirsi di quanto era loro necessario alla vita in tutti i luoghi soggetti alla Camera Apostolica, secondo i bandi in vigore per gli affidati (3). Da questo documento apparisce chiaro il diritto che vigeva, non solo lungo le strade pubbliche, ma lateralmente anche ad esse, dell'uso civico di pascere, e deve dedursene, che questo diritto civico fosse quasi senza limiti, poichè dalle lettere patenti del Card. Camerlengo sopra citate risulta che i possessori dei bestiami potevano estendere il pascolo di quelli illimitatamente (prout sibi oppor- tunum videbitur). In seguito esamineremo altri documenti a conferma di PS E possiamo aggiungere che anche noî udimmo narrare da vecchi agricoltori, come tutti avessero il diritto di far pascere le loro masserie, lungo le strade, entro (1) NicoLar, Memorie, Leggi, ecc., III, 70 e seguenti, (D) Sntiziina commode per triduum quibuscumque locis pubblicis et privatis pasculare, etiam vias strictas amplianio, prout sibi opportanum videbitur », (3) Bibl. Vatie., Cod, Vatie, Lat. 8886, CAPITOLO 1X 121 À ati, tanto nell’andare, pet nel ritornare dalle montagne (1). #5 Il Pontefice Clemente VII, per esplicare anche più la sua legge agraria, volle con un’altra Costituzione, bandita il primo agosto dell'anno 1524, ripetere | quanto aveva innanzi comandato, anche per confermare la sua decisa volontà ciroa la esecuzione della precedente sua Bolla intorno alla coltivazione, Ram- mentò le cause, che già avevano indotto Sisto IV a prescrivere la coltivazione oh- bligatorin della terza parto dell'Agro romano, ed aggiunse che egli, per le stosse ragioni espresse nel suo Motu proprio, del primo marzo 1523, volle confermare le disposizioni dei Pontefici predecessori, Sisto IV e Giulio II, e tutto ciò che in quelle si conteneva. Trascrisse quindi testualmente quanto aveva comandato, con la citata sua Costituzione, e per evitare qualsiasi frode o controversia nella esdeiziione, esplicò anche i vari casi o circostanze, per meglio regolare tutte le disposizioni emanate nel suo Motu proprio. In conseguenza di ciò, si deve ritenere che la Bolla del 1° agosto 1524, sia il vero e proprio regolamento, che determina l'applicazione della precedente'Co- stituzione. Notiamo, che il permesso della estrazione del grano doveva essere concesso Ù (1) A conferma di quanto asseriamo, vogliamo rammentare — e ne valga anche come tributo e grato ricorilo alla memoria — SALVATORE CAPODACQUA, da Piseiarelli, in «quel di Manziana, prov. di Roma, che fu nostro fattore di campagna ed istitutore delle cose agricole. Egli ci narrò spesso che, mentre ora ministro generale del tenimento di Campomorto che nella prima metà del secolo xix, formava una sola tenuta estesa per rubbia 4300 __ (Ett. 7964) — le strade prossime, che attraversavano la tenuta, ele altre lontane, erano hi strade doganali, e che nel passaggio dei bestiami, sì nell'andata, che nel ritorno dalle mon- | tagne, vi era il diri/fo di pascolo per 20 canne (40 metri circa) tanto sulla’ destra, che sulla | sinistra di quelle. Rammentava le dollezfe, che si rilasciavano perle fide delle Dogane, e per ì uelle dei Larghi, le quali egli, per ragioni del suo ufficio, doveva controllare, E noi tti rinvenimmo documenti provanti che a Campomorto eravi il quarto della Retfo/a, con __lojus pascendi, cho la Dogana dei bestiami era composta dei quarti Crocetta, Quarto di Mezzo, Rio Torto e Quarticciolo sotto strada, per una estensione complessiva di rubbia 1760 circa, è ; che la Dogana dei Buoi, si componeva coi quarti Campo di Pesce, Ficocchia, Largo della Fi. | cocchia, di rubbia 590 circa; e così, tutto complessivamente, rubbia 2350, ett. 4355 circa, di lî doganali. Ciò che abbiamo potuto sapere a memoria d'uomo e che viene confer- | mato da documenti, sia monito a coloro che, senza aver fatto alcuno studio storico delle | mostre campagne © delle consuetudini che vi hanno imperato, ora negano tutto, per fine di » interesse o per deplorevole ignoranza della storia delle cose agricole! Consulta Arch, di | Sito Roma Catasto di Alessandro VI, Porta San Sebastiano, doc. n, 8, 122 CAPITOLO IX soltanto a coloro, che volendo venderlo, non avessero rinvenuto il prezzo fino a 16 giulj per ciascun rubbio (L. 8.80), e dopo che si fosse constatato che i. Roma e nei dintorni di essa, fino a 25 miglia di raggio, restasse il grano neces- sario per il consumo d’un anno (1). ‘ Provvide poi al trasporto. delle derrate attraverso le proprietà altrui, giacchè in quel tempo non v’erano strade, e volle che i periti giudicassero del danno, | se fosse avvenuto. Autorizzò i proprietari delle bestie addette ai trasporti a po- terle abbeverare, fossero anche buffale, come in quel tempo era in uso di adi- birle. Volle che fosse tutelato il lavoro delle terre, nonchè il pascolo per il be- stiame necessario a tale lavoro. Autorizzò i deputati eletti per l’esecuzione, a fare quelle concessioni o convenzioni necessarie all’esecuzione stessa, purchè al. meno un Cardinale fosse stato presente alle deliberazioni. Terminò con le solite formule della scomunica, a chiunque ciò avesse in modo alcuno contraddetto, 0 si fosse opposto a quello che egli aveva comandato (2). Una lettera del Card. Camerlengo Armellini Medici del titolo di Santa Maria in Trastevere e di San Calisto, dell’anno 1525,-il giorno 12 aprile, conferma il diritto, a favore del Doganiere, che gli abitanti di Montalto non potessero pascere coi loro bestiami in quel territorio, nonchè restarvi continuamente con gli stessi, senza pagare la debita tassa. Così ancora, che le associazioni fra i possidenti dei bestiami, domi o indomiti, non potessero far contratti, o farli fare per conto di coloro, che avevano stabile dimora, o che anche possedessero una casa nel Ca- stello di Montalto, senza il pagamento della Dogana, perchè non potevano godere dei privilegi, concessi soltanto ai naturali di quel luogo (3). Una convenzione fatta nell’anno sopradetto, nel giorno 18 dicembre, fra il Card. Camerlengo e la Comunità della Tolfa, per le terre che potevansi semi: nare ogni anno dagli abitanti di detto luogo, c’informa ancora maggiormente circa gli usi e le consuetudini vigenti in quei tempi. T Tolfetani avevano recla- mato contro il Doganiere della Dogana dei Bestiami di Roma e del Patrimonio, perchè non avesse assegnato rubbia 100 per la semina da eseguirsi da quei ter- . (1) « ..... et pretium sexdecim Juliorum pro quolibet-rubro frumenti non repererint, line tractam duri debero mandumusz..+.- neque dari debere, nisi constito legitime, quod ww Urhr, ct prope cam, ad vigesimum quintam miliario, romanere frumenta sufficientia ad usum ct alimenta unins anni », (2) Arch. Vat. Arm. XX, lib. 222, fol. 27. Intra Regesta Leonìs X, Lib. 1212, (3) Bibl, Vat, Cod, Vat, Lat, 8886, pag. 86 t, i Ser CAPITOLO TX 123 ®» razzani. Il Card. Camerlengo intervenne nell'atto, per comando verbale del Pon- tefice, e volendo provvedere giustamente, perchè fossero assegnate le terre da la- vorarsi dagli uomini della Comunità sopradetta, dopo una ponderata deliberazione presa dalla Camera Apostolica, che aveva stabilita la pena di 500 ducati d’oro, e la scomunica, a chiunque avesse contraddetto quanto era stato deciso, stabilì che due probi viri, deputati uno dal Doganiere, e l’altro dalla Comunità di Tolfa ogni anno, nel mese di gennaio, dovessero indicare cd assegnare ai Tolfetani rubbia 100 dla seminarsi negli appezzamenti soliti. Se i due deputati non fossero stati con- cordì, in tal caso doveva intervenire un terzo eletto dalla Camera Apostolica. La rompitura per la semina avrebbe dovuto principiare da Valle Cardosa, nei luoghi detti « Quarto delle Carrette e Quarto della Forca », per far quivi le maggesi e poscia seminare quivi nuovamente a colti nel seguente anno « cioè in seconda seminanza ». Le nuove maggesi dovevano essere fatte poi nel quarto del Casale, e in quello di Freddari, e nell'anno appresso dovevano essere seminat: a colti. Ciò costituiva la semina per quattro anni consecutivi, dopo i quali do- vevano essere coltivati i terreni del luogo, detto la Bandita grande, e così suc- cessivamente, per continuare sempre: a condizione espressa, che la rompitura dei terreni dovesse aver principio nel febbraio di ciascun anno e non prima, ed allora soltanto i bestiami degli agricoltori, potessero pascere insieme a quelli degli affidati seguendo il turno sopraindicato. Di conseguenza, ogni qualvolta la Comunità e gli uomini di Tolfa avessero voluto seminare, i Doganieri erano obbligati a far loro consegnare tanta estensione di terreno, compresa in quello le mezzagne, quanta ne sarebbe stata indicata dai Commissari sopra stabiliti, sempre che fosse sufficiente ai bisogni degli agricoltori, e che nelle mezzagne potessero pascere tutti i buoi aratori. Ciascun agricoltore era autorizzato, a tenere a pa- scolo una sola cavalla — sotto la pena della confisca di tutto il bestiame — per ciascuna dozzina di buoi, che nella convenzione furono computati necessari al lavoro e ricambio per ciascun aratro (sic). A garanzia del pagamento di quanto era dovuto ai Doganieri sia per la fida dei bestiami, sia per il terreno seminato, si stabilì che, per la semina a maggese, si dovesse fare un deposito di 200 rubbia di grano, e di 100 rabbia per quella dei colti, che i Doganieri dovessero riporre nei granai o pozzi, entro Tolfa. I lavori di semina dovevano essere ultimati ogni anno, almeno per la festa di Natale. Il pascolo delle mezzagne e delle stoppie, dopo il raccolto, restava a disposizione degli affidati della Dogana e dei Doganieri, 124 e CAPITOLO TX A Nell’epoca del raccolto, chiunque avesse seminato, era obbligato, prima di p È gato, p esportare il prodotto, di avvisare il Ministro o fattore dei Doganieri, che doveva percepire la corrisposta dovuta da ciascuno, in parte proporzionale, per costi- tuire la quantità di grano sopra espressa, e, qualora non avesse dato tale av- viso, era soggetto alla perdita di tutto il grano. Il fattore poi, era tenuto a recarsi personalmente a prendere la corrisposta dal colono, entro tre giorni dal- l'avviso; e, questi decorsi, era permesso agli agricoltori, senza incorrere in alcuna pena, di far trasportare tutto alla casa propria, e quivi i Doganieri avrebbero po- tuto percepire la corrisposta dovuta. L’atto rammentava la concessione fatta ad un tal Giovanni Maria di Tolfa, affinchè potesse fabbricare un albergò, e costruire una mola nelle tenute sopra» dette, e che perciò era obbligato a pagare alla Camera Apostolica, in ogni anno nella festa di S. Angelo di Maggio (8), cinque ducati di carlini, quali dovevano essere riscossi dai Doganieri. Le convenzioni terminano con le clausole comminatorie, e l’atto fu re- datto da Giovanni Antonio notaro, e Canonico di Toscanella, in presenza del Cardinal Filippo Camerlengo della Chiesa Romana e di due Chierici della Ca- mera (1). Durante il Pontificato di Clemente VII, e precisamente nell’anno 1526, fu- rono pubblicati di nuovo, gli Statuta bobacteriorum Urbis, che già abbiamo esa- minati superiormente (2). ì i * Le leggi agrarie, e loro ordinamenti, emanati dal Pontefice Clemente, hanno riscontro esatto, con quelli pubblicati dall’Imperatore Federico II, e confermati da Onorio III, quali noi riportammo integralmente, quando esaminammo il se- colo xt (3). Con quelle si provvide a reprimere la cupidigia insaziabile dei Ba- roni e dei riechi, e le prepotenze, che essi osavano commettere non ostante le severe ingiunzioni, e le minaccie di pene fatte dai Pontefici. Ma dobbiamo riflettere, che; in quei tempi calamitosi, senza i mezzi di comunicazione, i vari paesi erano quasi segregati l’uno dall’altro, anzi impediti a scambiare fra loro qualunque cosa, che vi era difficile financo l’accesso delle persone, che la ignoranza dominava sovrana dovunque, che i pregiudizi e la violenza impera- (1) Bibl. Vaé., Cod. Vat. Lat. 8886, pag. 58. (2) Bibl. Casan. 2024, 495. Miscell., in-8°. (3) TaEINER, Cod. dip. Dom. Temp. S.S. I fol, 59, XCIII, ' CAPITOLO IX 126 vano; e tutto contribuiva a mantenere un deplorabile stato di cose, onde sol- | tanto il tempo ed il progresso hanno avuto ragione. bi Ad evitare l’incetta dei grani, che arbitrariamente era fatta dai Signori, il Pontefice permise agli agricoltori il libero scambio delle derrate, che si disse tratta, accordando anche la esportazione di esse fuori dello Stato, colla tassa di fi: due giulj a favore della Camera Apostolica. Con ciò fu provveduto all’utilità annonaria, éd alla economia dei particolari, per i quali il traffico è di assoluta | necessità per procurarsi i mezzi atti a continuare le industrie. Alcuni storici di quei tempi però ritennero, che da tale provvedimento abbiano avuto origine le varie carestie, che allora travagliarono Roma ed i paesi circonvicini (1). Ciò forse avvenne, perchè le tratte furono concesse troppo largamente, e senza la doverosa precauzione contemplata negli ordini emanati, che cioè, prima di permettere l'esportazione delle derrate, si dovesse tenere un esatto computo di quanto di esse sarebbe stato necessario per la pubblica Annona nello spazio cdi un anno. 1 pubblici disastri e le vicende politiche di quell'età furono cagione di serî danni per lo sviluppo dell'agricoltura. Nell'anno 1526, i Napoletani, uniti ai Colonnesi, invasero Roma, occupando il palazzo Apostolico e le case di alcuni Cardinali, e di altre persone addette alla Curia, nonchè queile di alcuni mercanti, che non erano loro fautori. Tutto fu messo a sacco e rovina, è la stessa Basilica di S. Pietro fu completamente spogliata (2). À _ Nel seguente anno, Roma fu saccheggiata in modo miserando dalle orde del Borbone, ed luna fiera pestilenza, congiunta agli eccidi commessi dalle soldatesche, ridussero la popolazione di un terzo da quella del tempo di Leone X. 14 Nell'anno 1530, una spaventevole inondazione del fiume Te;ere, produsse È: - danni immensi nella città e nelle campagne (3). È A riparare a tante iatture, e più ancora a provvedere alle gravi angustie i del pubblico erario, oramai esausto per le ingentissime taglie imposte dai capi- | tani delle soldatesche imperiali, il Pontefice Clemente VII instituì il Debito Pub- C) (1) Pasviius OsopuRrivs, in Vila Clementis VIL. (2) Arch. Vat., Lib. I, Breo. Clem. VII, fol. 200 @ lib. LI, fol, 88. ° (3) MuratORI. Annali. Ad ann. 1526-1530, 126 CAPITOLO IX blico, fondando tre Monti di credito, che denominò uno Fede, e gli altri due Sale e Macinato; ai quali destinò in garanzia i proventi religiosi e quelli derivanti dalle gabelle e tasse relative al sale ed alla produzione delle farine. Attesa poi la eccessiva scarsezza del denaro in quei tempi calamitosi, il Pontefice do- vette assegnare al danaro un saggio d’interesse esorbitante, che variava dall’otto al dieci per cento. Dalla emissione delle obbligazioni per i detti tre Monti, fu ritratta la somma di scudi 513,800 (lire 2,720,684) (1). Inoltre approvò con Brevi la vendita di molti fondi delle Chiese e Luoghi Pii, per un valore di scudi 192,855 (lire 1,036,595); e fra di essi ben trenta tenuie della Campagna romana, che in complesso avevano l’estensione di ettari 7399 circa (2). Fra quelle eranvi comprese le tenute di Casal Monastero, Castiglione, Santa Rufina e Stracciacappe, ecc. La rapida decadenza dell’agricoltura, aveva avuto per causa varie ragioni intrinseche, dalle quali apparisce che la pastura degli armenti fosse in quei tempi più proficua, che non la semina dei campi; ma indubbiamente alla rila- sciatezza e noncuranza per la coltivazione, si aggiunse il lusso smodato, e più ancora il fatto, che tutti cercavano di ottenere impieghi nella città, per con- durre vita meno disagiata e difficile. E tutto ciò ci rammenta lo stato della cosa pubblica in quei tempi, nei quali, per evitare le conseguenze dell’abbandono dell’agricoltura lo stesso Pontefice insisteva raccomandando nelle sue Costitu- zioni, che è figli degli agricoltori continuassero ad essere agricoltori. Un altro documento ancora potemmo rovistare tra gli inesauribili tesori degli Archivi Vaticani, a provare l’antichissima esistenza delle Dogane per gli affidati. Una lettera del 1° marzo dell’anno 1533, diretta dal Cardinal Camerlengo Niccola Spinola, del titolo di S. Ciriaco in Thermis, al Governatore, ai Priori ed alla Comunità di Terracina, ricorda, che dagli antichi libri del Doganiere, risultava, come fosse stato: sempre solito il pagamento della fida; e come nella numerazione del bestiame grosso, fosse tenuto conto anche degli animali suini e pecorini (3). Nel seguente pontificato di Papa Paolo IIl (1534-49) il Cardinale Camer- (1) De WeLz. Magia del Credito, II, 403, 404. (2) Bibl. Chigiana, Cod. Mss. G., III, 58. (3) Bibl. Vat., Cod. Vat. Lat. 8886, pag. 68. dl A CAPITOLO IX 127 lengo Guido Ascanio Sforza, detto volgarmente de Sancta Flora, bandì un ordine il giorno 16 ottobre dell'anno 1538, che niuno dei sudditi della Santa Sede Apostolica, potesse comprar erba nella dogana de! Patrimonio, senza licenza in scriplis delli presenti Doganieri per causa che le tenute della prefata Camera (Apo- stolica) siano le prime ad esitarsi. Volle poi, che chiunque, suddito o no della Chiesa, che avesse bestiame a fida nelle tenute dei particolari, ne dovesse ottenere licenza scritta dai Doga- nieri, sotto la pena di 200 ducati d'oro, e della perdita di tutto il bestiame, da ripartirsi, per un terzo a beneficio della Camera Apostolica, per una parte ezuale a favore dei Doganieri, e pel residuo al Commissario ed al delatore della con- travvenzione, come era stato a ciò provveduto. Che se, per avventura, alcuno avesse preso in affitto l'erba da pascolo dai particolari, in tal caso qualsiasi contratto s'intendesse rescisso o nullo, e perciò, coloro che avevano preso in affitto i detti pascoli, dovessero denunziare il contratto, ove ravvisassero che i proprietari fossero contrari alla risoluzione dei patti (1). E poichè i possidenti delle tenute, usando ed abusando di qualsissi rag- giro e pretesto, procuravano di sottrarsi all’onere dell'uso civico di pascere, esi- stente sotto la ragione della Dogana degli affidati, di conseguenza, i provvedimenti energici dei Pontefici, e dei Cardinali Camerlenghi di quell'epoca, richiamarono sempre in vigore l’uso e la consuetudine, sanzionata da una legislazione più che secolare. Rinvenimmo un documento, a prova del nostro asserto, allorquando il menzionato Cardinal Sforza, nell’anno 1538, ebbe saputo, che un tal Domenico del fu Domenico Pepi, prendendo a pretesto la esistenza di un certo fossato, scavato a confine del tenimento in Voc. La Uipollara, nel territorio di Viterbo, e sito ad un miglio di distanza, secondo asserivasi, dal confine della Dogana, | pretendeva che detto fossato, fosse il limite per gli affidati, e perciò questi ve- nivano impediti dal libero transito. Il Cardinale Sforza appunto con un suo bando, del giorno 6 settembre dell’anno suddetto, per ordine del Pontefice, co- mandò che quel tenimento, denominato La lipollara, fosse destinato liberamente all'ingresso ed uscita, transito e passaggio dei bestiami tutti degli affidati, ed anche per comodo e necessità dei confinanti e possidenti vicini, e ne stabilì (1) Bibl. Vat,, Cod. Vat. Lat. 1886, pag. 81 t. 128 CAPITOLO IX l’onere perpetuo agli usi sopradetti, secondo il beneplacito del Camerlengo e della Camera Apostolica (1). In ‘conseguenza ordinò, che tutti potessero liberamente passare e pascere, allorchè ne avessero bisogno, attraverso il luogo sopradetto, ossia La Cipollara, e ciò con tutti i loro bestiami, con le loro cose, senza che alcuno potesse im- pedirlo (2). Un altro ordine del sopradetto Cardinale Camerlengo Ascanio Sforza, sotto la data del giorno 31 ottobre dell’anno stesso, rinnovò la prescrizione, che la tassa fida era dovuta, sia per le pecore, come per i castrati o ciavarri, salvo che, entro due mesi dall'ingresso dei bestiami nel territorio di Roma, quelli fos- sero stati venduti al minuto nel luogo a ciò destinato nella città, nel qual caso i bestiami sopradetti erano esenti dal pagamento della fida. Ma, per ovviare le frodi, venne presoritto, che tutti coloro che conducevano i loro bestiami alla fida della Dogana dovessero denunciare al Doganiere il numero esatto dei sopra- detti, e specialmente il giorno dell’arrivo, © quello in cui fosse avvenuta la ven- dita degli anzidetti bestiami (3). Un Bando del Doganiere, pubblicato nel mese di dicembre dell’anno 1541, ci rammenta i vari provvedimenti e norme, che regolavano le funzioni dell’im- portante ufficio della Dogana delle pecore, come possiamo notare. dal seguente documento, che crediamo opportuno di trascrivere nella sua integrità, affinchè si abbia concetto sempre più esatto di un istituto tanto provvidenziale all’ An- nona, ed all'agricoltura romana in quei tempi. « Per parte e comandamento delli Mg.ci signori Alessandro del Bene e « Christoforo Sauli, doganieri generali dell’ Alma città di Roma, e delle Provincie « del Patrimonio Campagna e Marittima e loro distretti si notifica e bandisce, ece. « Che ogni persona di qualunque stato, dignità grado o conditione sì sia, « conducesse o condotti tenesse Bestiami tanto grossi come minuti, segnati di (1) « *..... locnm praedesignatum, La Cipollara nuncupatum, pro ingressu, egressu, iransitn et passagio dictorum affidatorum, et animalium quorameamque eorandem, tanquam caeteris proximioribus optionnm et commodoram elegimus, praemissoque usni perpetuo su- biecimas, ad nostrae, ei praefate Camerae beneplacitum ». (2) Cod. Vat. Lat. 8886, pag. 95 t. (3) « ..... feneantur notificare dictis dohaneriis diem eorum adventus cum dictis ani» malibus in territorio praedieto (Urbis) nec non numerum ipsorum et diem quo ipsa ven- dere contingerit..... >». E CAPITOLO IX 129 < più di un merco nella detta dogana di Roma, Patrimonio Campagna e Marit- « tima e Joro distretti, debba ridurre tutto detto bestiame sotto ad un solo « merco, sotto pena di perditione di quelle bestie, che saranno segnate d’altro « merco che del suo proprio. « Niun romano nel distretto di Roma, debba assegnare bestiami forastieri « con il suo merco, sotto pena di 100 ducati. « Niuna persona debba rimuovere o far rimuovere alcuna sorta di bestiami « nè grossi nè minuti a luogo verso la montagna, senza la licenza o bolletta « delli detti signori Doganieri sotto pena di perditione di esse bestie e di ducati « 25 per ogni centinaio di esse. « Chiunque condurrà in detta Dogana castrati o follati di qualunque sorte « 0 conditione si siano li debbino subito assegnare ai detti Doganieri e loro Ca- « vallari sotto pena di perditione di essi castrati o foZlati. Chiunque terrà in « dette dogane pecore o altri bestiami grossi e minuti di qualunque si siano « forastieri in soccita, a mezzo o altrimente in parte, sia tenuto e debba noti- « ficarli ed assegnare alli detti signori Doganieri ovvero alli Cavallari di essa « Dogana sotto pena di perditione di esse pecore o bestiami. « Le sopradette pene etc. : « Le copie del presente bando ete. . « Dato in Roma nelle Dogane del pecore alli .. di decembre 1541 » (1). A conferire sempre maggiore autorità e prestigio al Doganiere, che vigilava su proventi, così fruttiferi e necessari alla Camera Apostolica, e per conseguenza al pubblico erario di quei tempi, il sopracitato Cardinale Camerlengo Ascanio Sforza, con altro suo ordine, notificò, nel giorno 29 ottobre dell’anno 1543, ai Vicelegati e Governatori della provincia di Roma e del Patrimonio, che non di- sturbassero la giurisdizione del Doganiere, nè s’ingerissero delle cause. civili o criminali fatte contro gli affidati nelle Dogane, e che infine non esercitassero alcuna giurisdizione od autorità sopra il Doganiere, e sopra i ministri e dipen- denti da quello (2). Nè cessavano le ingiunzioni ed i richiami del Cardinale Camerlengo per mantener viva l'osservanza dell'uso civico della Dogana; chè, avendo saputo come, in quel di Civitavecchia, taluno dei proprietari avesse fatto uso dei soliti (1) Bibl. Vat., Cod. Vat. Lat, 8886, pag. 83t. (2) Ibi, pag. 65. 9, 130 CAPITOLO IX raggiri, per non ottemperare alle continue e replicate prescrizioni su quanto vi- geva per antica consuetudine, il sopradetto Cardinale Guido Sforza, con un suo editto del siorno 8 nove :bre 1543, ingiunse ai Podestà, ossia Massari, Comu- nità ed uomini di Civitavecchia, per ordine verbale avuto dal Pontefice Paolo III, che nessuno impedisse l'ammissione ed il pascolo nelle tenute di pertinenza della Dogana, secondo l’aritica consuetudine osservata fino a quel tempo (1). Aggiunse altresì l’inibizione in termini severi, perchè niuno rilasciasse permesso scritto o verbale, per il taglio dei legnami nelle tenute della sopradetta Dogana, e com- minò le solite pene a coloro, che avessero trasgredito l'ordine pubblicato (2). E poichè insorgevano di frequente i pretesti e le prepotenze dei proprietari delle tenute, per contravvenire, ed anzi per sottrarre la loro proprietà all’onere demaniale del vincolo di vendere ai Doganieri il consueto pascolo dei tenimenti, avvenivano per conseguenza frequenti richiami del Camerlengo all'osservanza delle leggi emanate in proposito, e sancite da consuetudini secolari. A conferma di ciò giova ricordare un Bando, del menzionato Cardinale Ascanio Sforza detto di S. Fiora, che, nell’anno 1544 nel giorno 10 ottobre, per ordine verbale del Pon- tefice, in seguito a relazione avuta, fece ingiunzione ai Doganieri della Dogana dei bestiami del Patrimonio ed agli ufficiali di quella, che intimassero ad un tal Giacomo Ermolao, sotto pena delle censure ecclesiastiche e della multa di 500 ducati d’oro, da essere destinati a beneficio della Camera Apostolica, di ces- sare dal molestare gli stessi Doganieri ed ufficiali nel possesso del tenîmento della Chiaruccia, sita nel territorio di Civitavecchia nonchè dallo impedire l’esercizio dei diritti della Dogana, tanto sopra la menzionata tenuta quanto nelle altre che erano gravate dell’onere a favore della Camera Apostolica, come era pro- vato dalla consuetudine usufruita fino a quell’epoca. Comandò quindi agli stessi Doganieri, perchè mantenessero il possesso ed il godimento della tenuta sopra- detta, e delle altre, sia pure prestando soccorso, qualora vi fosse stato bisogno (3) (1) « ..... ne andeatis, sive aliguis vestrum andeat vel presumat affidatos in Pohana praedicta in intrando et immictendo eorum animalia quaecumque in Tenntis, et herbis ipsius territori pertinentiis dictae Dohanae exstentibas, jnxta et secundum consunetudinem hac- fenus observatam circa immissionem animalium huinsmodi impedire, ete. ». (2) Cod. Vat. Lat. 8886, pag. 103 t. {a)lento praecipimus et mandamns praedictis dom. Dohaneriis et officialibas pro manutentione et continnatione eorum possessionis dictae tenntae della Chiarnecia, et aliaram tenutarum Dohanae praefate, faveant et assistant, et anxilinm opportunum quatenus opus sit exhibeant, etc. ». 4, i î CAPITOLO IX 131 @ ciò in conseguenza della prova esibita, che ln tenuta sopradetta, e le sue parti s'appartenevano alla Dogana, per una cessione dei Pontefici e per una causa onerosa da tempo immemorabile (1), nonostante qualsiasi altra ragione contraria, che potesse vantare il sopradetto Gixceomo Ermolao, sia pure quella di una ces- sione posteriormente avvenuta a suo favore. Che se, tanto il nominato, quanto altri si trovasse gravato per ciò, poteva ricorrere alla Camera Apostolica (2). Per facilitare lo studio delle consuetudini e delle funzioni della Dogana dei bestiami, crediamo ora necessario riportare integralmente un Bando del Doga- niere generale della Dogana dei bestiami di Roma, e delle provincie Marittima e Campagna, nonchè di quella del Patrimonio. Anno 1545, 5 maggio. — Bando fatto dal Doganiere del Patrimonio sopra la vendita delle erbe del Patrimonio. « Per parte, commissione ed ordine del Mag.co Messer Cristoforo Sauli Do- « ganiere Generale e particolare della Dogana delle Pecore dell’alma Città di Roma « Marittima Campagna, havendo lui considerato, ete. conciosiachè per li tempi « passati, tra esso Sig. Doganiere e suoi Ministri e gl: affidati compratori della » Dogana annualmente delle Bandite, quali si dicono herba e fida, sia molte volte « nato disparere, dissentione o controversia, alevni compratori, pretendendo dover « esserli fatto buono, alli pagamenti per li Sigg. Doganieri, il prezzo di esse Ban- « dite, compre la metà per la fida sopra lor bestiame condotto, e l’altra metà « per l’ herba, etian: che detta herba con verità non sia sufficiente, e bastante « a tanto numero di bestiame, quanto entrasse per la metà per detta fida, e li « prefati Sigg. Doganieri pretendendo solo doverli far buono alla fida del vero « debito, portano del bestiame poi a pasturare tal Bandita, e per il restante Be- « stiame per il quale detti compratori son costretti comprare, e comprano più « quantità d’erba da diverse altre persone, con farli pagar la debita fida, qual « si dice soprafida. Per il che quelli pretendono voler godere la metà herba, e « per la metà fida, godendosi tal indebita utilità, potriano commettere, e pos- « sono, diverse fraudi in danno così della Rev.nda Camera Apostolica, volendosi < appropriare tal caso comune delli prefati signori Doganieri, appaltatori di detta « Dogana, accettandosi bestiame sotto nome d’altre persone, per empire il nu- (1) <« ..... ex cessione Apostolica, et ex causa onerosa legitime spectare et pertinere ab immemorabile tempore..... ». (2) Cod. Vat. Lat. citato, pag. 69 t. 132 CAPITOLO IX « mero del bestiame suo (sîc) che li manca, sino a detta somma della metà del « prezzo della Bandita compra, accomodandosi fra loro tale indebito guadagno, «ovvero per rinfrancarsi la fida comprando da detti signori Doganieri tant’erba, « quanto per la metà del prezzo Ji entra alla fida, ed il restante erba li manca, « comprandola da altre private persone a loro vantaggio, e così malitiosamente < ne vengano ad essere danneggiati e defraudati essi signori Appaltatori, e con « mal uso in danno della R. Cam. Aplica. E che sia il vero, che non s’intende, « nè si ha da intendere detti prezzi la metà erba, e la metà fida, la soluzione « però e carica della fida, solamente si è dicati cinque di Camera dohanati in « Patrimonio (sic) e ducati cinque e mezzo nella fida di Roma, per centinaio di ani- « mali minuti, di modo che, non potendo pascere la Bandita compera tanto nu- < mero d’animali quanto il compratore di animali conduce di ragione non gli si « deve far buono per la metà herba, e per la metà fida, ma per quella quantità, « che debitamente essa Bandita può per la sola stagione pascuare e comodamente « mantenere, e del restante bestiame devono et hanno da pagare la fida, e tanto « più manifestamente si vede, che così sia, e che gli affidati siano ben trattati da « essi signori Doganieri, che da Romani et altri particolari persone, si vendono « le loro erbe a rata il medesimo prezzo herba, tanto che li signori Doganieri « vendono quella Dohana herba o fida insieme, come da uomini intendenti si può « far paragone. Pertanto per ovviare, reparare e provvedere a tali inconvenienti, «e che li affidati compratori per l'avvenire non possino dire, non essere stati « prima avvertiti, e che si abbino compro con tale intentione, e per questo haver «causa alcuna voler litigare, ne reclamarsi. Si fa intendere manifestamente a <« tutti, che per l'avvenire comprando erbe e bandite, s'intende al pagamento « solo farli buono la fida, del giusto e vero portato di quella bandita, o per < parte da essa Dogana compra o comprata, secondo potrà pastorare tutta sta- i « gione a giuditio di uomini di tal arte esperti, e non più, e del restante bestiame « soprapiù, che haverà s'intende farli pagare, e se li farà pagare la debita fida, < et a causa nessuna possa pretendere de ignorantia, se ha voluto col presente <« bando, far noto per li luoghi pubblici e consueti della Città di Toscanella, « Capo di detta dogana del Patrimonio, in tempo della presente fiera, nella « quale intervengono maggior parte, anzi tutti gli affidati compratori, e tanto si « haverà da osservare, tanto con quelli, che haveranno da comprare tal herbe « per l’avvenire, quanto con quelli che le avessero compro e contrattate per più « anni avvenire, dandoli tempo e termine, a chi avesse compre per gli anni av- CAPITOLO IX 133 a venire, che di ciò si tenesse gravato di quindeci giorni, dopo la pubblicatione © « del presente bandimento, con autorità di renunciare tali herbe compre ad esso « signor Doganiere, quali lui accetta di repigliarseli (sic) renuntiandosi in detto « tempo ». In quorum fidem, ete. Datum Tuscanellae in Dohana Pecudum Patrimonii die quinta maii 1545. Jon, CamiLLus MacEaB. Cancellarius Mand. Subst. (1). Rileviamo ancora una volta da questo Bando, come tuttavia fossero due le Dogane dei pascoli per i bestiami, contrariamente a quanto fu asserito dai con- tradditori circa la natura, istituzione, e funzione della Dogana stessa, che eviden - temente, sotto la forma di un contributo fisso, computato sulla quantità del bestiame, assicurava tutti i poùsidenti dei bestiami stessi, del necessario pascolo ad un prezzo certo, invariabile, senza che fossero stati costretti a sottostare all’ar- bitrio, ed alle pretese dei proprietari, che — come già avviene ai tempi nostri — avrebbero potuto domandare un prezzo di affitto eccessivo per le loro tenute, mettendo così in pericolo l’esercizio dell'agricoltura e l'industria dei bestiami, ad essa attinente e necessaria. Riporiammo il citato documento, affinchè si possa avere un concetto sempre più esatto della Dogana dei pascoli, e quantunque il bando sopra riferito, sia stato dettato in una forma scorrettissima, pure possiamo rilevare da quello uno dei tanti sotterfugi, che in quell'epoca erano posti in opera per eludere il di- sposto delle Costituzioni Pontificie. Le bandite si affittavano annualmente a pa- scolo ad erba, ovvero a fida. Gli acquirenti di quelle, se prendevano in affitto il pascolo, affidavano altresì una parte dei loro bestiami, ed in quel caso preten- devano che dal prezzo convenuto per l’affitto, fosse detratto l’ importo della fida. Il Bando stabiliva che nel caso dell'affitto i periti decidessero se quanto bestiame potesse pascere nelle singole bandite affittate, che però, se dalla stima suddetta fosse risultato, che le bandite potessero mantenere un numero di bestie superiore a quello che era rappresentato dalla somma totale, applicata che fosse la tassa fida, in tal caso gli acquirenti avrebbero dovuto pagare una soprafida, ossia un (1) Cod. Vat. Lat. cit., pag. 84, 134 CAPITOLO IX importo, che rappresentasse la differenza del prezzo tra quello convenuto, e quello della tassa fida applicata a tutto il bestiame, che avesse pascolato nelle singole bandite. Per facilitare maggiormente gli introiti della Dogana dei bestiami in Roma, ed in quella del Patrimonio, il Cardinal Camerlengo Guido Ascanio Sforza, anche quale Vicario del Pontefice, nel giorno 22 marzo 1546, ordinò che, sotto pena della scomunica e della multa di 500 ducati d’oro, d’applicarsi a beneficio della Camera Apostolica, niuno potesse impedire coloro, che avevano affidato il loro bestiame, di vendere in Roma, e nei luoghi, che ad essi fosse piaciuto, il cacio e i prodotti pastorizi, affinchè con la vendita stessa, gli affidati potessero più fa- cilmente pagare la debita fida al Doganiere (1). Un altro Bando del sopradetto Camerlengo, emesso nell’anno 1548, il giorno 12 settembre, e diretto al Governatore della Provincia del Patrimonio, ai priori della città di Toscanella, ed a tutti gli ufficiali pubblici conferma quanto già era stato sanzionato da altri atti, che, cioè, tutti gli affidati avessero la facoltà di restare a pascere coi loro bestiami nel territorio di Z'oscanella, anche più di tre giorni consecutivi, nonostante le lettere patenti, che per avventura fossero state contrarie specialmente quelle che erano state emesse ad istanza di Antonio de Jannotiis di Toscanella; ed in quel Bando si minacciavano severe pene e multe fino a mille ducati d’oro, a coloro che in qualsiasi modo, avessero tentato di inibire agli affidati tale concessa facoltà (2). E poichè di frequente ci avvenne, di dover parlare, sempre in base a docu- menti, tanto del territorio di Civitaverchia, quanto di quello di Corneto e T'oscanella, non riuscirà inopportuno agli studiosi delle consuetudini e degli usi delle cam- pagne, che noi riportiamo integralmente alcune notizie, che a quei territori si riferiscono. Una porzione del territorio di Civitavecchia, consistente in rubbia 1199, era costituita da terreni sottoposti a varie servitù. La Camera aveva il suo jus privativo di far pascere le erbe di inverno da sole pecore, mentre il residuo del pascolo, e per tutto il resto dell’anno, sî godeva interamente dalla Comunità ed i particolari, non vi avevano che il solo diritto di semina, ed ove non venisse esercitato, i pascolo rimaneva a vantaggio della Camera e della Comunità. Da (1) Cod. Vat. Lat. cit., pag. 105. (2) Cod. Vat, Lat. cit., pag. 73 f. e segg. CAPITOLO IX 135 ciò, la conseguenza che la seminagione in quel territorio non sorpassava mai le 200 rubbia, e che tutti i terreni rimanessero privi di miglior coltura, sebbene quella zona fosse fertile e suscettibile di ogni miglioramento agrario. Il territorio di Corneto, che si estende a rubbia 14,471 (Ett. 26,748.19), benchè di natura fertile, trovavasi, ciò nonostante, assolutamente derelitto ed incolto, atteso i grandi latifondi in esso esistenti. La metà del territorio appros- sìimativamente apparteneva a pochi proprietari, fra i quali la Camera Aposto- lica, la Comunità, l'Ospedale di S. Spirito, ed altri Luoghi Pii, in totale per una estensione di rubbia 6255 (Ett. 11,561.74). In tutto il residuo del territorio, per rubbia 7868, il Comune aveva il dominio del godimento dei pascoli e gli abitanti di Corneto il diritto di seminare. Col prezzo ritratto dalle fide, e dagli affitti del pascolo, la Comunità sup- pliva al pagamento dei pesi camerali ed alle spese comunali. Il terntorio di Z'oscanella si estende approssimativamente a rubbia 11,000, delle quali la Camera Apostolica ne possedeva circa 4450, di cui rubbia 1550 circa erano libere, ed il residuo era tutto soggetto ad uso di pascolo; così che su rubbia 1650 circa gli abitanti di Toscanella potevano usufruire dell’erba estiva, e sopra rubbia 1250 circa, esercitare il diritto della semina. Le tenute Pian di Vico, Pantanella e Riserva erano libere da servitù, e sopra rubbia 3100 circa i naturali di Toscanella avevano il diritto di semina, special- mente nel tenimento detto dei Terzi (1). Per mantenere sempre più vive le funzioni della Dogana dei bestiami e per ricordare agli interessati i molteplici ordini emanati a vantaggio dei possidenti . dei bestiami stessi, nonchè quei privilegi ed usi che ab antiguo furono sempre in vigore nelle campagne intorno a Roma, ed in generale nella sua Provincia, il Card. Camerlengo Ascanio Sforza volle con un suo nuovo Bando nell’anno 1549 nel giorno 21 ottobre; diretto a tutti i signori Vicelegati Governatori, Castellani, Baroni, ai Vicari, ai Podestà ed ai Doganieri, ai custodi dei passi e dei ponti, nonchè alle Università, Priori Anziani e Massari, ed a tutti le soldatesche spe- cialmente a quelle dei territori delle diocesi di Montefiascone, d’Orte e di Amelia, ingiungere e notificare a tutti, che, urgendo sommamente il mantenimento delle rendite della Camera Apostolica, ed in particolar modo di quelle, che proveni- } (1) Estratto dal Cod, Vat. Lat, 8447, Bibl, Vat, 136 CAPITOLO IX vano dalle Dogane dei pascoli di Roma, e della provincia di Marittima e Cam- pagna, nonchè da quella del Patrimonio, in quanto esse rendite erano riputate primarie fra le altre, appunto perciò tali rendite si dovevano mantenere e con- servare. E ricordava che in seguito a speciali privilegi dei Pontefici era stato co- mandato, nei tempi in cui gli affidati venivano nella stessa Dogana, o da quella partivano coi loro bestiami, che le strade a quelle conducenti si fossero aperte, e concesse largamente, e con la maggiore ampiezza, attraverso i territori e lungo dette strade gli affidati potessero transitare e pernottare comodamente coi loro bestiami, ed avessero il diritto di venire e tornare dalla detta Do- gana liberi ed immuni da qualsiasi impedimento, coi loro bestiami, coi pro- venti di essi, con le loro robe e cose accedendo, senza altro aggravio, se non quello della debita fida che doveva pagarsi al Doganiere del tempo (1). Malgrado le ingiunzioni dei sommi Pontefici, confermate dai Capitoli e dalle prescrizioni della fida molti si credevano in diritto di restringere sempre più le strade, nonchè di rendere sempre più anguste le bandite, nei luoghi, attraverso i quali, per antica consuetudine, gli affidati erano stati sempre soliti di passare, tanto nell’andare, quanto nel ritornare dalla Dogana; e molti ancora si arbitra- vano di molestare gli affidati, durante il passaggio dei loro animali, compiendo estorsioni in danno dei proprietari, facendo sequestro di loro cose e robe, ed inferendo angherie e violenze d’ogni specie. Il Card. Camerlengo, nella ferma decisione di porre fine a tanta audacia e prepotenza, e per provvedere alla salvezza degli affidati, secondo le prescrizioni dei Pontefici Pio IF, Paolo II e Giulio II, per èrdine verbale avuto dal Pon- tefice Paolo III, e per l'autorità del suo ufficio, come Camerlengo di Santa Chiesa, nonchè per decreto della Camera Apostolica, ordinò sotto la pena della scomu- nica e dell'ammerda di 1000 ducati d’oro, oltre le pene di infliggersi ad arbitrio, a chiunque non avesse ubbidito, che tutti immediatamente appena conosciuto il (1) « ..... Per diversoram S. R. E. Ponlificum privilegia indultnm facrit quod dmn affidati ipsi ad nostram Dohanam praedictam accedunt, et ab ea recedunt, large et patentins viae per vestra territoria praebeantur et dimictantur per quas commode cum eorum anima- libns pertransire et pernoctare ac ad dohanam praedietam Tiberi franchi et immanes venire et redire absque aligno impedimento possint et valeant, quodque ad dictam dohanam, cum eorum animalibus ipsorum animalinm fructibus rebus et bonis accedendo. nihil alin2 quam fidam, quae Camerae sno tempore ewistenti einsdem Dohanae Dohanerio, debitam solvere debeani, ece, ». Cod, Vat. Lat, 8886, 75 t, CAPITOLO IX 137 Bando surrichiamato, permettessero che gli affidati potessero percorrere le strade liberamente coi loro bestiami, ed a loro comodo, andare e ritornare, attraver- sando le vie lungo le proprietà, allargandosi in quelle — latos et diffusos — e “non solamente che niuno ardisse di estorcere agli affidati alcun che della loro roba, ma che se anche prima ciò fosse avvenuto, si dovesse loro restituire tutto integralmente. Che fossero compensati nel loro giusto valore i danni, arrecati nel passaggio del bestiame, e che fossero restituite all'uso ed alla consuetudine pri- mitiva tutte le bandite, che erano state ristrette, in danno e pregiudizio degli affidati. Che in avvenire niuno osasse di estorcere alcuna somma dagli affidati, sotto qualsiasi pretesto, nè pretendere da essi aleuna minima parte del grano © dello biade, od altri generi, che trasportassero per loro uso, ed eziandio, che nes- suno osasse di infliggere ad essi qualsiasi pena per ragione di danno arrecato dai bestiami, ma soltanto, che se ne dovesse pretendere il compenso a stima di due periti eletti dalle parti. Che alcuno non si arrogasse di costituire bandite dei pa- scoli in danno degli affidati stessi, e ciò anche sotto il pretesto di antica con- suetudine. Ed anzi faceva anche esplicito comandamento e precetto, affinchè tutti si adoprassero e permettessero, che fossero lasciate libere, e concesse tutte le vie, e i passi aperti agli affidati, perchè questi potessero passare, e ritornare coi loro bestiami, e perchè ugualmente i medesimi potessero venire, passare, stare e tornare, liberi e franchi ed immuni da qualunque pagamento, estorsione od impedimento qualsiasi (1). In ultimo prescriveva, che il Doganiere esigesse dagli stessi affidati la so- lita fida, ed vosservasse, scrupolosamente fino allo serupolo — ad unguem — quanto era stato concesso a loro favore. Seguivano le solite formole (2). Ma, nella prima metà del secolo xvI, non cessarono le pubbliche calamità nella città di Roma, che appena erasi riavuta dal disastroso sacco delle masnade del Borbone, allorchè avvenne la guerra contro la Spagna; e quando, nel- l’anno 1557, il duca d’Alba s’ impadronì di Ostia, chiudendo assolutamente la (1) «..... quin imo dictas’vias, passus et latos et patentes eisdem affidatis, pro eorum animalibus pertranseundis et redenndis praebere dare et dimictere, ac eosdem francos, li- beros, immunes, et exemptos, absque aligua solutione, extorsione, ullo impedimento, venire pertransire stare et redire, faciatis et permictatis, ecc, (2) Cod. Vat. Lat. cit., pag. 75t, 138 CAPITOLO IX navigazione del Tevere, avvennero a Roma gravi tumulti, per il timore che la carestia, la quale già si verificava ogni giorno di più, divenisse gravissima per tutti. E poichè le precedenti Costituzioni dei Pontefici Sisto IV, Giulio II e Cle- mente VII erano cadute nell’ inosservanza, per la consueta prepotenza dei pa- droni delle terre, dobbiamo rilevare, che il Governo dei susseguenti Pontefici Paolo III, Giulio II e Marcello II si limitò generalmente ai provvedimenti ne- cessari all’Annona, piuttostochè allo sviluppo ed alla tutela dell’agricoltura nelle campagne circostanti a Roma. Avanti di continuare la enumerazione dei susseguenti provvedimenti anno- nari ed agricoli, dobbiamo procedere all’esame di un radicale cambiamento, av- venuto nell’uso dei pascoli. i L'uso civico di pascolo è certo antichissimo; ma sarebbe impossibile il vo- lerne fissare la origine e lo inizio, se ai tempi della Repubblica romana, o a quelli dello Impero, ovvero all’epoca della prima invasione dei barbari, dopo il decadimento dell’ Impero stesso. Può e deve invece logicamente ritenersi, che molteplici coefficienti abbiano concorso — diremo così — a determinarlo perpetuo e inprescrittibile, tanto nella umana convinzione e coscienza, quanto nella pratica della vita. Senza dubbio vi concorse anche il fatto, che le Provincie Italiche, e parti- colarmente la Romana, rimasta più spoglia 2 desolata delle altre per le inva- sioni barbariche, divennero teatro di aspre continue fazioni civili, per le quali, s'instaurò il feudalismo. Fu un’epoca di prepotenza che diede origine allo spo- polamento dei paesi, alla mancanza di mezzi di coltivazione, all’abbandono del- l’agricoltura, e — per naturale logica conseguenza — al diritto del godimento collettivo di tutte le terre. L’uso civico — il più antico di ogni altro — ebbe quindi per suo primo coefficiente, una occupazione vera e propria, divenuta, per la lunga durata e per la costante consuetudine, una vera e propria azione possessoria — distinta e ri- conosciuta con il termine giurilico « de jure civico ». Donde sorse piena libertà d’introdurre, nei terreni abbandonati, i bestiami erranti, e donde si stabilì e si affermò il diritto di poter far: pascere nelle terre aperte. Il lungo, continuato e riconosciuto esercizio di questo diritto di pascolo, ori- ginò a sua volta, il diritto di assoggettare anche tutti gli altri terreni — negli 7-7 , CAPITOLO IX 139 anni di riposo dalla semina — all'uso civico di passere, esteso a tutti i bestiami pertinenti ai cittadini dei singoli luoghi. Un secondo coefficiente dell’uso civico — posteriore in ordine di tempo a quello sopra menzionato — va riscontrato nel fatto, che gli antichi Municipi, oggi detti Comuni, i Baroni, e la Camera Apostolica, essendo proprietari di vastissime estensioni di terreno, al fine di richiamarvi gli agricoltori, e di aumentare la po- polazione nei luoghi abitati in esse compresi, cederono i loro fondi a persone che li coltivassero, riservandosi però il diritto del pascolo, vale a dire la facoltà di poter vendere le erbe di quelle terre, o di poter imporre una tassa sul bestiame, che le avesse pascolate. Il che può, indirettamente, essere considerato come un contratto enfiteutico, in cui la riserva del pascolo rappresenta il canone annuo, e può giuridicamente distinguersi col termine « de jure dominii ». Finalmente, un terzo coefficiente della origine della servitù dei pascoli deriva dalle imposizioni Camerali, e specialmente da quella dell’anno 1543, allorchè il Pontefice Paolo III impose a tutte le Città, a tutti i Castelli e a tutte le terre, da lui dipendenti, un tributo triennale (1). Era la prima volta che veniva imposto un tributo sulla proprietà rustica, ed i proprietari, per esonerarvisi, e per non trovarsi nemmeno esposti alle vessa- zioni eventualmente derivanti dalla necessaria esigenza del nuovo gravame, pre- ferirono cedere ai Municipi il diritto di affittare i pascoli, o d’imporre tasse sui bestiami affidativi, affinchè gli stessi Enti, con tali affitti, soddisfacessero il tri- buto suddetto, e, al caso si giovassero dello eccedente residuo per provvedere alle spese municipali. Siffatta cessione, avvenuta tra Proprietari e Comuni diede origine agli af- fitti dei pascoli, che costituiscono le rendite patrimoniali dei Comuni medesimi; e tale altra modalità di origine del diritto del pascolo è giuridicamente, distinta col termine « de jure cessionis ». In seguito, anche molti altri particolari, possessori di terreni liberi si assog- gettarono alla servitù del pascolo a favore dell’ Ente Comune, perchè questi, allo stesso modo che sopra, pagasse il tributo e provvedesse alle spese co- munali. he (1) Arch. del Bnon Governo. Vatic. Memoria sulla servità dei pascoli, redatta dal Prefetto della Congreg. de’ Catasti. Ann, 1816, 140 ‘CAPITOLO IX Giova però, far qui subito notare che, se i tre coefficienti — e diciamo pure i tre ordini — delle origini dell’uso civico dei pascoli, sono netti e chiari, non è ugualmente agevole nè facile, oggidì, riconoscere a quale di essi ordini appartenga l’origine del diritto di pascolo in ogni singolo territorio — vale a dire se trattisi di jus civicum, di jus dominii, ovvero di jus cessionis. A rendere maggiore, e talvolta insuperabile, la difficoltà di ricerche in pro- posito, sembra che tutto abbia congiurato: i secoli trascorsi, la perdita dei docu- menti, gl’ incendi degli archivi, .la malafede degli uomini, gli usi posteriori invalsi contro la prima istituzione originaria, le modificazioni avvenute, o per svolgersi na- turale di eventi, o per concorde volontà, o per unilaterale interessata malizia di Amministratori Comunali e di Utenti; ragioni tutte codeste che, ripetiamo, ren- dono talvolta addirittura impossibile di stabilire la natura del diritto di pascolo în un territorio. Proseguendo la storia degli avvenimenti, dobbiamo riferire che per la riparti- zione equa del sussidio triennale imposto dal Pontefice Paolo III, come abbiamo detto, furono inviati nelle singole provincie dello Stato altrettanti Chierici della Camera Apostolica, i ‘quali fissarono una quota precisa della tassa, che ciascuna Comunità era obbligata di pagare annualmente all’ Erario, con facoltà agli abi- tanti dei Comuni di provvedere con appositi mezzi, ed a loro arbitrio, al paga- mento della quota del sussidio dovuto. Nelle provincie lontane da Roma furono stabilite dai rispettivi pubblici Consigli, diverse collette, e particolarmente quella dell’ Aes et libram una specie di terratico « sopra la proprietà rustica » allo scopo di poter far fronte alla rata imposta ai singoli Comuni per il sussidio triennale. Nelle provincie più vicine a Roma, fu provveduto altrimenti. In queste vi- gevano, come abbiamo osservato a lungo, le servitù dei pascoli, ed in conse- guenza i proprietari erano soggetti al vincolo di dover lasciare per due o tre anni di seguito, aperti e liberi i loro terreni al pascolo dei bestiami dei citta- dini, avendo pure diritto anch’essi proprietari di far pascolare in quelli i be- stiami propri; e perciò i padroni delle terre non ritraevano altra rendita da esse, se non che una corrisposta di sranaglie, allorquando le terre stesse erano seminate. I proprietari, per esonerarsi dal pagamento del sussidio triennale im- posto dal Pontefice, ravvisarono più conveniente al loro interesse, di cedere ai singoli Comuni, il diritto che avevano di far pascere i propri bestiami, insieme a quelli dei Naturali del luogo; e per ciò i Comuni stessi furono autorizzati a vendere i pascoli suddetti, e col reddit» che ne ritrasvano, provvidero al paga - CAPITOLO IX 14l mento della quota dovuta singolarmente per il sussidio triennale. Di conseguenza della cessione fatta dai proprietari delle terre, cominciò la esistenza delle bandite o ris rve (così forse denominate dai bandi di vendita) che tuttora esistono nei Comuni della Provincia Romana) (1). Nè il successore di Paolo III, che fu il Cardinale Del Monte, assunto al ‘ Pontificato col nome di Giulio III, mancò di replicare i provvedimenti necessari alla tutela della Dogana dei pascoli, perchè con una sua Costituzione, dell’anno 1552, del giorno 9 di settembre, mentre confermò le Costituzioni dei Pontefici prede- cessori Pio II, Alessandro VI e Leone X affinchè tutti rispettassero e tutelas- sero i bestiami di coloro, che li conducevano come affidati nella Dogana del Patrimonio, rammentò ancora, che ta Camera Apostolica aveva concesso agli af- fidati stessi il privilegio di poter far pascere i loro bestiami, tanto nella pro- prietà dei Comuni, quanto anche nelle private, ingiungendo che tutte le vie strette fossero allargate, come era stato provveduto, e come constava evidente- mente dalle Costituzioni di Pio II, Alessandro VI, Leone X, e dalle patenti della Camera Apostolica. Ma, non ostante ciò, il passaggio dei bestiami degli affidati veniva impe- dito, arrecando loro molestie e danni, tanto dalle Università Agrarie, quanto dai Castellani, e specialn:iente dai Gabellieri, e da altre private persone, i quali tutti insolentivano contro gli affidati, in modo, che ad essi impedivano l’uso dei pascoli, rubavano agnelli e ciavarri, ed estorcevano dai proprietari dei be- stiami, e dai pastori Je cose e le loro robe, depredandoli e nascondendo il mal tolto, nè mancavano di aggiungere anche gravi offese, per modo che gli affidati temevano danni maggiori, se avessero continuato a condurre i loro bestiami nelle Dogane; ed, in conseguenza di tali fatti, i proventi della Camera Aposto- lica diminuivano di giorno in giorno. Il Pontefice, ravvisando esser giusto, che fossero osservati e tutelati tutti i privilegi e le immunità concesse agli affidati, che debitamente pagavano la fida, ed osservavano le regole della fida stessa, all’effetto, che nessuno volesse fare ostacolo, per mero debito d’onestà, o almeno per il timore d’incorrere nelle pene minacciate, confermò tutte le Costituzioni dei Pontefici predecessori surrichia- mati, modificando nel tempo stesso quello che ravvisava conveniente (1) Vergani PaoLo. Volo eronomico salla servità dei pascoli, ecc,, pag. 24, 142 CAPITOLO IX Comandò quindi espressamente, che nessuno molestasse gli affidati sotto la pena dell’interdetto, e della multa di 500 ducati d’oro della Camera, d’applicarsi subito ai contravventori, prescrivendo pure, che nessuno potesse pretendere re- gali, od estorcere dagli affidati agnelli, pecore o ciavarri, e quindi che ognuno potesse andare e ritornare liberamente con sicurezza, e potesse far pascere i propri bestiami senza timore di alcuna molestia. Deputò i Chierici, della Camera, nonchè il Doganiere, come esecutori delle sue disposizioni, accordando loro anche la facoltà di poter procedere contro co- loro, che non obbedivano. La denunzia dei danni arrecati dai bestiami degli af- fidati doveva esser fatta con giuramento. Volle che la Costituzione fosse bandita dai Commissari, e che avesse la massima pubblicazione (1). Una delle ragioni più evidenti delle successive carestie, che si verificarono nel secolo xvi, oltre la mancata coltivazione delle terre, per la prepotenza dei proprietari, fu certo quella della sconfinata libertà della esportazione del grano — che allora dicevasi tratta —. Infatti, appena Giulio III fu eletto a Pontefice, dovè verificare, che in Roma eravi tanta scarsità di grano, che, secondo le me- morie di quell’epoca, la quantità esistente poteva ‘bastare appena per 15 giorni. Fu riconosciuto ciò come errore fatalissimo, prodotto dal difetto di previdenza, e dalla troppo larga concessione delle tratte. Il Pontefice volle efticacemente provvedervi alla stessa guisa, che nelle più gravi urgenze avvenne nell’antica Roma, e nominò sopraintendente generale delle vettovaglie Camillo Orsini, com- mettendo ad esso specialmente, il rimedio della prossima e certa carestia. Questi, appena assunto l’ufficio, constatò i sordidi monopolî, e le avare ingordigie alla ombra di cui procedeva la irregolare concessione delle tratte, od esportazione del grano. Volle quindi porvi rimedio pronto ed efficace stabilendo un prezzo ele- vato del grano, ed ordinando, che fosse venduto a Roma a 16 scudi al rubbio (lire it. 86). I ricchi incettatori del grano, allettati da siffatta promessa, spedi- rono sollecitamente a Roma tanta copia di esso, che in breve tempo la Città ne fu largamente provveduta (2). Non possiamo riferire nulla in merito all'agricoltura, durante il brevissimo pontificato, nell’anno 1555, di Papa Marcello II (Marcello Cervino da Monte- pulciano) il cui regno durò appena 22 giorni. A questi successe Paolo IV — (1) Arch. Vat., Arm, 52, tom. II, pag. 1. “. (2) HoroLoci Josepxn. Vita Camilli Ursini, fol. 73. fe Tage CAPITOLO IX 143 Giampietro Caraffa Napolitano — che avendo considerata assai pratica e van- taggiosa ia Deputazione straordinaria, già conferita a Camillo Orsini, stimò ne- cessario delegare l’incarico dell'Annona ad un solo individuo, che nominò Pre- fetto, nella persona di Bartolomeo Camerario, concedendogli tutte le necessarie facoltà nell’anno 1557, come risulta da un Breve relativo (1). La carica sopradetta fu sempre opportuna, specialmente in quei tempi, nei quali l'agricoltura sembrò accennare ad un miglioramento; ciò giovò al com- mercio ed al traffico, e per conseguenza fu necessario, al bene comune dello Stato della Chiesa, di permettere l'esportazione del grano, E, al fine di evitare i tristi effetti delle carestie, si deve riconoscere come riuscisse più opportuno, che l’uf- ficio dell’Annona, fosse moderato da un solo capo, il quale, con la vigilanza ed accorgimento, potesse opporsi ai monopolî, ed alle incettazioni, che prima erano state compiute sempre a scopo e a favore dell’usura. Ma, purtroppo, dati quei tempi nebulosi, per ciò che riguarda la pubblica cosa, prevalse la malizia e la scaltra furberia di alcuni, coadiuvate dall’ardente cupidigia di luero dei ministri del Pontefice e della Camera Apostolica; di guisa che avvenne, che, in seguito nlle eccessive concesse esportazioni, per il grano, dalla sola Ripa Grande in Roma, ne partirono rubbia centomila, con un in- troito da parte dell’erario Ponteficio di scudi 100,000 (lire it. 537,500) (2). Durante il Pontificato di Paolo IV, insorse la guerra tra il Pontefice ed il Re di Spagna, per il diritto sul regno di Napoli. Capitano generale degli Spa- gnoli fu l’Alvarez, duca d'Alba, delle schiere Ponteficie il Cardinale Carlo Carafa. La Campagna romana fu il continuo teatro di quelle fazioni guerresche, combattute lungo tempo senza esito decisivo. La completa disfatta dei Fran- cesi nella battaglia di S. Quintino (10 agosto 1557) obbligò Enrico II di Francia, a richiamare il Duca di Guisa, che egli aveva inviato con dodicimila uomini in soccorso del Pontefice : e allora fu conclusa tra il Papato e la Spagna la pace, così detta di Cave, perchè stipolata in quell'’ameno paesello, il giorno 12 set- tembre dell’anno 1557. . I danni arrecati dalle soldatesche nelle varie zuffe e nelle varie imprese di 4 * (1) Breve di Paolo IV, anno 1557. (Tomo dei bandi per l'Annona). Arch, Vat., tom, I, Arm, V. (2) Scrittura inserita nella Collettanea dell'Annona, Arch, Vat., Arm, XI. 144 CAPITOLO IX guerra combattute nell’Agro romano, furono assai rilevanti (1). Donde lo stato economico delle campagne fu turbato per modo, che nessuno potè attendere ai consueti lavori, ed in conseguenza nessuno potè percepire i frutti del suolo. Il Pontefice, fin dall’inizio delle varie operazioni guerresche volle provve- dere ai reclami che da ogni parte gli venivano inviati dagli agricoltori, i quali così turbati nei loro lavori, sentivano, malgrado tutta la buona volontà, di non poter più adempiere alla esecuzione dei contratti d’affitto, e delle coltivazioni assunte. E però, con suo Breve dell’anno 1550, il Pontefice aveva già nominato una Commissione di Giudici, che esaminasse i contratti di locazione, relativi agli affitti delle tenute della Campagna romana, nonchè quelli delle case, delle vigne e degli altri luoghi, appartenenti al distretto di Roma, e, tenendo conto di tutto, particolarmente dei danni e delle disgrazie, cagionati dalla invasione delle soldatesche Spagnuole, valutasse caso per caso i dovuti compensi e defalchi — come allora si dicevano — al fine di evita. e molteplici cause, o maggiori di- spendi fra gl’interessati; tanto più che quei danni a rebbero potuto avere delle conseguenze anche per gli anni futuri (2). Il Cardinale Camerlengo Guido Ascanio Sforza, si mostrò sempre zelantis- simo della regolarità nel funzionamento della Dogana dei bestiami, perchè, anche nell’anno 1558, nel giorno 6 di luglio, volle con un altro reciso suo bando, mo- derare le eccessive licenze e gli arbitri, ai quali, purtroppo, quell’istituto, così benefico alla pastorizia, era stato sempre soggetto per cause di personale inte- resse, che tendevano ad ostacolarlo nelle sue funzioni. In seguito a reclamo e querela del Doganiere, della Dogana dei pascoli di Roma, di Maremma, del Lazio, di Campagna e del Patrimonio, ece., il Cardinale sopradetto ordinò « che nes- « suno di Roma, o del distretto, non rimovi, o, s’abbi ardire di rimovere bestie « grosse o minute di loco a loco, dalle Calende di gennaio, sino alla fine di « maggio, senza licenza delli doganieri, e se fussero rimosse siano et s’iîntendano « perdute et confiscate alla Camera Apostolica, senza remissione alcuna ipso « facta da toglierseli (sic) et applicarsi secondo la forma dello Statuto » (3). Tale ordinamento disciplinava il godimento dei pascoli, in modo, che a nes- (1) ALESSANDRO AnpREA. Della gnerra di Campagna di Roma, ece., pag. 129. (2) Append. Docum. IV. (3) Arch. Vat., Divers. Pauli IV, tom. 192, pag. 70. CAPITOLO TX 145 suno fosse permesso di poter arbitrariamente cambiar di pascolo, senza neces- sità, e per la ragione potissima, che tutti gli affidati avessero un uso, e un godi- mento eguale dei pascoli stessi, senza pregiudizio gleuno; in quanto, se qualche affidato avesse usato prepotenza, nel precedere gli altri affidati nel godimento dei pascoli, avrebbe usufruito di un indebito beneficio, pascolando sempre le erbe nette, e scegliendo quelle, che sarebbero riuscite maggiormente gradite è reddi- tizie ai propri bestiami. Per fornire un'idea sempre più chiara, circa lo stato dell'Agro romano, e circa le regole, che disciplinavano l’esercizio dell’agrico'tura, nella seconda metà del secolo decimosesto, crediamo opportuno addurre un fedele riassunto di con- tratto per miglioramento agrario, che fu stipulato per una piccola parte del te- nimento di Malagrotta, documento che rinvenimmo nel rovistare con indefessa pazienza, fra le memorie di quei tempi. Nell'anno 1558, un tal Achille Cibo — non sappiamo se fosse oriundo ge- novese — era affittuario della tenuta di Malagrotta — che in quel tempo spet- tava all'Ospedale di S. Spirito per concessione avuta dalla Camera Apostolica. Il detto Cibo diede in subaffitto a Maestro Giovanni del q. Costantino, da Or- vieto, e a Maestro Pietro Oddo, da Lugnano, l’osteria di Malagrotta, con sue possessioni, terreni, alberi, prati e pascoli, per la durata di anni cinque, e per la corrisposta annuale di scudi 200 d’oro. Gli affittuari assunsero il patto di piantare entro il primo biennio tanti oppî e viti, da cuoprire tutta la possessione recinta, prossima all’osteria. Dovevano sostituire centocinquanta oppî, che mancavano, maritandoli con relative viti, le quali dovevano essere scelte di quella qualità e specie, che il cessionario Cibo avesse meglio ceredute opportune, e col patto espresso, che ciascun’albero piantato di nuovo, fosse dotato almeno di tre viti. Fu anche prescritto, che si dovessero cambiare tutte le viti vecchie, o di cattiva specie, sostituendole sempre in numero triplo per albero. Dovevano essere estirpati tutti gli alberi non adatti alla vegetazione, o in- . fetti o fradici, e tutti dovevano essere sostituiti con altre piante diritte, ed in buona condizione di vegetazione. I sopraddetti miglioramenti dovevano essere cominciati ed ultimati entro i primi due anni, ed a spese degli affittaari; i quali assunsero anche obbligo, di espurgare tutto il fosso, che dal Ponte di Malagrotta, va fino a Palidoro, sol- tanto però nella parte, che limitava la possessione annessa all’osteria soprad- 10 : td 146. CAPITOLO IX detta; e ciò sempre a spese loro, e da compiersi in ciascun anno dell’affitto, per una data porzione, fino al totale compimento del lavoro. Che, se gli affittuarj fossero stati inadempienti ai patti suespressi, tanto per le piantagioni, quanto per lo spurgo del fosso, in tal caso, si dovesse com- piere ogni lavoro a spesa e carico dei suddetti. I conduttori erano tenuti a far preparare tutte le fosse, per la piantagione, degli alberi, ed esse dovevano avere una larghezza di palmi 5 — m. 1.25 — per palmi 4 di profondità — m. 1. Era vietato agli stessi affittuari, di con:piere la piantagione, se prima non: fosse stato ispezionato tutto dal locatore. Erano aggiunti alcuni oneri per il mantenimento e custodia di quattro ca- valli, e veniva vietato severamente il pascolo delle bestie vaccine, delle capre e dei suini. nella possessione alberata e dotata di viti. Seguivano le consuete proibizioni di aprire cave, o di produr danni alla proprietà, prescrivendo la diligente custodia di tutto quanto vi fosse annesso 0 compreso. Che, se i locatarj avessero voluto coltivare il terreno, avrebbero do- vuto darne avviso al locatore, perchè questi potesse sorvegliare i lavori, ed ac- certarsi che la proprietà non fosse danneggiata. Era proibita qualsiasi sublocazione, tanto dei terreni, quanto dell’osteria; ed il contratto aveva le solite clausole per il mantenimento dei patti, e delle condizioni convenute fra le parti (1). Un altro provvedimento legislativo emanato dal Cardinale Vitellozzo Vitelli ‘ Camerlengo, in data dell’anno 1560, nel giorno 15 marzo, modera sempre più il funzionamento della Dogana dei bestiami, e l’esercizio del diritto di semina, nelle tenute soggette alla Camera Apostolica. A « Che nessuna persona debba lavorare, nè far lavorare le bandite, altrimenti < che a quarti o terzi, come si lavora a Monte Romano, nè dal 1° settembre « di ogni anno debba persona alcuna entrare in essi con bestiami, attesochè si «è convenuto, che le si comincino a riguardare al. detto giorno, 1° di settembre, «e non a S. Angelo di detto mese, ecc. ece. « Che nessuna persona ardisca mettere nè tenere bestiami di sorta a nessuna « nelle terre della Camera, al tempo delle: spighe, cioè da che sarà levato il (1) Append. Doc. V. x , pre CAPITOLO IX 147 « grano, sino a S. Maria d’agosto, sotto la pena solita e dell’emendatione del « danno, salvo quelli, che le saranno comprate, ecc. ecc. t Che per servitio et commodo delli affidati, debba ogni Comunità, Signore < e persona, a chi appartiene, allargar le strade, come erano anticamente, deside- « randosi, che li detti affidati possino star tre giorni per ogni territorio, non fa- « cendo danno a seminati, vigne e cose simili, come è solito, et facendo danno <« siano tenuti all'emendatione del danno, et non alla pena, et tutti quelli, che « verranno con i suoi bestiarhi grossi e piccoli, che saranno condotti, denun- « ziando li padroni d’essi, e non lo facendo ovvero al tempo, ecc. « Si dichiara, che tutti quelli, che condurranno bestiami nelle dogane, en- « trati che saranno dentro alla stanga, siano tenuti a pagar la fida, ece. « Che nessuna Comunità od altri drento (sir) alla stanga, s'abbia ardire di « far bandite, che siano in pregiuditio delli detti doganieri, nè di vendere le « erbe delle bandite, già fatte per Breve di Sommi Pontefici, nè le erbe di quelle « tenute, che sono di là di Mignone, prima che le Dogane s’abbino vendute « le sue. « Che tutti quelli, quali saranno godute le dogane con porci, e che andranno « con essi alla ianda fuora della stanga, debbano levar la bulletta e pagar la fida « dovuta » (1). Un breve del Pontefice Pio IV, dell’anno 1561, del giorno 28 di maggio, approva la nomina all'ufficio del Doganiere della Dogana dei bestiami di Roma, che era stata fatta dai Conservatori della Città, secondo il privilegio conresso dal Pontefice predecessore Leone X (2). Lo stesso Pontefice Pio IV, vedendone la necessità assoluta, volle, con una sua Costituzione, moderare l’eccessiva esportazione del frumento, in quanto da quella derivava una prima causa delle frequenti carestie in danno dei meno ab- hienti; ed il provvedimento fu dettato con grave rigore verso i contrav ventori (3). A tutela della onestà e della buonafede, necessarie al buon andamento del commercio, il Pontefice Pio IV volle confermare, richiamandolo in vigore, un Motu proprio del suo predecessore Paolo IV, in cui era stato decretato, che "A (1) Arch. Vat., Divers. Cam. 234, pag. 162, Divers. Pii IV. (2) Ibi, Arm. 52, tom. 1. (3) Const. Pii PP. IV, Arch. Vat., Arm. 11, Miscell. 202, 148 CAPITOLO IX tutti i debitori, i quali avessero ottenuto mora o dilazione al pagamento di debiti, contratti nell’esercizio del commercio, fossero obbligati a portar sempre un cappello di color verde (birectum viride teneri, deferre) (1). E così Pio IV, con altro suo speciale Motu proprio, del giorno 27 ottobre 1561, dopo aver premesso esser suo desiderio di dare ogni possibile sicurezza, tanto ai mercanti, quanto alle altre persone dimoranti in Roma, o nello Stato della Chiesi perchè potessero trattare gli affari con fiducia, e perchè fosse impedito ai debitori dei mercanti, o ad altre persone di poter subdolamente sottrarsi al pagamento dei debiti, e di poter defraudare i loro creditori, specialmente quando avessero ottenuto una moratoria per soddisfarli, ricordando quanto già era stato prescritto dal suo Predecessore, Paolo IV, decretò — come si esprime — che, se non per timore verso Iddio, almeno per scongiurare l’ignominia umana, tutti coloro, che avessero ottenuto la mora o dilazione per il pagamento dei debiti, sia pure nella forma stabilita negli Statuti di Roma, dovessero sempre portare il cappello di color verde in pubblico ed in privato, sia nel presentarsi al Luogo- tenente, o vicario di Roma, al Governatore, al Senatore, ai giudici o commis- sarj della Città, e perfino innanzi ai visitatori delle carceri (2). Che se non avessero ubbidito, per la prima volta sarebbero stati fustigati pubblicamente, e in caso di recidiva, condannati alla galera (3). E per soprappiù, tutto ciò doveva essere promesso e giurato di osser- varsi dai debitori stessi, ‘ ed in loro assenza, dai loro leggittimi procura- tori (4). - (1) Ballarium roman. Tom. IV, par. II, Romae, 1745, XLVII, pagina 91 din margine). Giova a questo punto un’osservazione affatto singolare. In quei tempi il cappello di color verde, indicava un uomo debitore, un decottore per fallimento! Oggi invece, il cappello di color verde — detto alla Zirolese — è in voga, e spesso è dato d’imbatterei in persone. notoriamente denarose, cho in ossequio ai capricci di qualche Ardifer Ele gantiaram, cuoprono il loro capo del cappello verde! Da quanto sopra il detto, tuttora in vigore: È ridotto al verde! (2) « ... nisi se prins coram illis dictum bireciam viride gestando praesentaverint, et ipsum birectum viride publice et secrete ». (3) < ... sub fustigatione per Urbem, prima vice, et trireminm pro secunda, qua sine dicto Birecto reperiti fuerint, deferre ». ‘(4) Append. Doc. VI. CAPITOLO X 149 VaprroLo X. I luoghi abitati nell'’Agro romano ebbero i loro Statuti, gli usi civici nei loro territori — Lite per la rivendicazione del diritto di pascolo e semina — Da San Pio Y, ad Innocenzo IX. (Ann, 1566-1591). Al Pontefice Pio IV successe il Cardinale Michele Ghislieri da Bosco, presso Alessandria, che assunse il nome di Pio V. Il suo Pontificato (1506-72) riuscì felice per lo Stato della Chiesa, avuto riguardo ai tempi precedenti, e più ancora, perchè non si appalesò più l'urgenza di fare incettazione dei grani nei paesi fo- restieri, in quanto che la coltivazione delle campagne intorno a Roma fu tale, da poter esuberantemente provvedere alle necessità. Infatti erasi accresciuta la popolazione, anche nei luoghi dapprima giudicati malsani, a cagione delle acque stagnanti, che ne furono tolte con necessari provvedimenti e lavori (1). Per op- porre poi un freno alle fraudolenti incettazioni, e ai monopolî, che nel passato erano stati causa di grandi angustie alla povera gente, il Pontefice rinnovò contro i prepotenti, e contro gli incettatori stessi i rigori e le pene, intimate e stabilite dai Pontefici predecessori. Ed affinchè tali perniciosi negoziati non potessero più «imularsi con subdolo pretesto, che il grano si acquistasse, soltanto per uso e consumo della famiglia e dei servi addetti all'acquirente, il Pontefice decretò che, senza una licenza scritta, dal Prefetto dell’Annona, gli acquisti non potes- sero esser fatti in quantità maggiore di quello, che esigesse il vero e reale bi- sogno degli acquirenti. Durante il Pontificato di San Pio V, furono pubblicati per la prima volta, a mezzo della pubblica stampa, gli « Statuta nobilis artis agricolturae » (2); es- sendo Consoli della nobile arte: Rutilio Alberini, Pietro Paolo De Fabis, Angelo Albertoni e Pompeo Gottifredi. (1) Motu proprio Pii V, Dei nostri Almae Urbis, eto. (2) Bibl. Casan., 2024-295, Miscell, in-8°, 150 CAPIFOLO X Negli Statuti sopradetti sono abrogati ì capitoli che « sia lecito ai lavoranti « delle tenute di far pascere è buoi nei pascolari, e che, niuno possa arare nelle «tenute altrui, senza il permesso del proprietario ». Questo fu, certo, conseguenza necessaria, derivante dalle varie Costituzioni, emanate dai Pontefici predecessori, che sempre più si erano adoperati a facilitare e propagare la coltivazione del- lAgro Romano. E difatti non v’ha dubbio, che l’arte agraria sia stata sempre il mezzo più opportuno e pratico al provvedimento dell’Annona, essendo la stessa agricoltura sorgente unica dell’abbondanza dei viveri, assolutamente necessari alla conservazione della vita; laonde sopra di sè richiamò sempre la vigilanza e le cure dei Pontefici, per renderla ogni ora più feconda, e più proficua all’ottimo istituto e governo dell’Annona. E tanto più essi Pontefici riconobbero la neces- sità di dover tutelare e propagare l’agricoltura, in quanto erano, da secoli, man- cate a Roma le provincie frumentarie, dalle quali nei tempi antichi ritraevansi i tributi dei grani e delle altre vettovaglie. È pur vero però, che, fin dagli an- tichi tempi, per la crescente necessità della pubblica Annona, come esaminammo anteriormente, si era provveduto nel miglior modo possibile alla coltivazione delle terre, ravvisandosi fin d’allora necessaria la istituzione di un Collegio par- ticolare di quattro nobili romani i quali si Aissero Consoli, e che in certo modo, corrispondevano agli antichissimi Edili Curuli (1). E quantunque detti Consoli nei tempi della Repubblica romana, avessero speciale mandato di curare alla provisione Annonaria, e non già alla sorveglianza e cultura dell'Agro Romano, non di meno in seguito, si riconobbe assolutamente necessario, che vigilassero anche l’agricoltura, indispensabile al funzionamento delì’Annona, di modo che, gli stessi Consoli furono specialmente di questa mansione incaricati, Che anzi, mediante l’istituzione di un Tribunale, a ciò destinato, per trattare cioè, e de- finire tutte le questioni, che potessero insorgere relativamente alle operazioni e ai contratti agrari, detto perciò Tribunale dell’ Agricoltura, si provvide con ciò a regolare il buon andamento e la giustizia di quanto appartiene all’arte agraria. Le cause promosse innanzi al Tribunale sopradetto, si regolavano secondo gli Statuti, che già esaminammo anteriormente. L'incarico della osservanza e la tutela di essi Statuti, fu commessa specialmente al Senatore di Roma. (1) Statuti dell'Agricoltura, pag. 10, CAPITOLO X 151 Il Pontefice San Pio V, fu quello che organizzò stabilmente il 7ribunale dell'Agricoltura, con la sua bolla «+ Pia Devotio » pubblicata nell'anno 1566 nel nel giorno 9 settembre, nella quale volle esprimere i motivi principali, che lo indussero a bandirla. Primo tra i quali quello, che coloro che attendevano alla Agricoltura, non dovessero, per causa di lite, essere tradotti per i diversi Tribu- nali, affinchè non fossero troppo distratti dai lavori campestri, ed anche quando assistessero al procedimento, ne riuscisse più facile la risoluzione, in quanto niuno, meglio che l'agricoltore stesso avrebbe potuto conoscere e designare quello che all'arte agraria si riferisce (1). Infatti le regole di procedura, che si usavano innanzi a quel Tribunale, erano semplici e sommarie, dappoichè si procedeva e si giudicava soltanto dopo esaminata la verità dei fatti, (2) e qualsiasi causn campestre era definita in bre- vissimo tempo, prima dai Consoli dell'Agricoltura, quindi, in grado di appello, da coloro, che erano appunto appellati Revisori; e la procedura era così spedita, che entro tre o quattro mesi, veniva pubblicata la sentenza. Aggiungasi, che i Consoli dell'Agricoltura, i Revisori, l'Assessore, il Fiscale ed il notaro, tutti ad- detti a quel Tribunale, non percepivano alcun assegno dal Governo; anzi quello era l'unico Tribunale di Roma, che funzionava senza alcun aggravio o dispendio per l’erario pubblico, perchè le spese necessarie per le accuse erano lievi e ri- strette. Nel giudizio non era affatto necessario il ministero di procuratore, o di avvocato, poichè le parti aventi lite, potevano comparire di persona, e spesso fu veduto il campagnolo od il pastore, vestito di pelli, comparire in Tribunale a trattare la propria causa. Dato un simile metodo di procedura, qualsiasi que- stione agricola veniva definita e giudicata in breve tempo. Il Tribunale dell'Agricoltura aveva giurisdizione mista, ed eravi anche il Procuratore Fiscale, cui spettava la sorveglianza del buon governo dell’Arte Agraria, e della Polizia © Vigilanza rurale. Nella raccolta pregevolissima dei Bandi, Editti, Ordini, ecc., che viene conservata nella Biblioteca Casanatense, potemmo constatare, come vi fossero in quei tempi ordinamenti pratici a con- (1) « Considerantes quod qui Agrorum culturae incumbunt, non debent litibas, et per diversa tribunalia trahi, ne forte a cultura propter lites, dum forum prosegui cupiunt, re- trahantar; ac etiam attendentes, quod de rebus spectantibns, ad artem nullus magis, quam ipsi de,arte cognoscere et terminare valent ». (2) «+... sola facti veritate inspecta... » 152 CAPITOLO X tenere nel dovere e nell’ordine la gente agricola, come altresì a prevenirne, ed all'uopo a punirne i reati. Notammo diversi bandi, editti per i Guardiani cam- pestri, per gli osti nelle campagne, per i Cicoriari, per i pastori delle Capre, per i coltivatori delle vigne, per i Bifolchi e per i mietitori; ed anco provvedimenti, che moderavano la pretesa cattura delle bestie, trovate a recar danno, che sta- bilivano i metodi per incendiare le stoppie dopo il 10 agosto di ciascun anno, come pure ordinamenti a tutela e contro i danni delle staccionate, cancelli, siepi od altri ripari, nonchè leggi per i periti agronomi e per i mediatori dei contratti agrari. La sopra citata Costituzione è un documento della massima importanza, perchè ci rivela lo stato dell’agricoltura dell’Agro Romano, nella seconda metà del secolo xvi, non solo, ma ci dice come ancora si fosse resa migliore l’aria in quei tempi, per la continua coltivazione dei campi. Il Pontefice infatti, vi espone, che nei passati tempi, nella città di Roma erasi lamentata una continua man- canza di grano, nonostante le continue importazioni di oltre mare e le requisi- zioni eseguite in ogni luogo, e che, al contrario, in quell’anno 1566, in Romail grano non "olkmsbiilo era abbondante, ma, quello che più interessava era, che il grano prodotto dalla Campagna romana, poteva essere venduto non soltanto alle vicine popolazioni, ma altresì all’estero, sia per terra, quanto per mare, come già era avvenuto spessissimo, facendo rilevare che il clima della città di Roma, era divenuto più salubre, atteso la continua coltivazione della campagna, e per i diboscamenti delle selve, e per il disseccamento dei luoghi palustri (1). E poichè i Consoli ed il Collegio della nobile ed antica'Arte dell’agricol- tura (2) avevano riformato i loro antichissimi Statuti, secondo l’esigenze dell’uso in quei tempi, ed avevano anche ampliato e modificato vari articoli di quelli, avendone eseguito una diligente revisione, ed un largo esame, per mandato dello stesso Pontefice, come rileviamo dal Motu proprio medesimo, San Pio V, ap- provò e confermò gli Statuti stessi, con la sua autorità apostolica, affinchè po- (eu civitas nostra, quae retfroactis temporibus mari invecto, et undigque perquisito framento indigebat, nostris felicissimis temporibus, non solum frumento abundet, sed etiam, quod plus est, vicinis et exteris, terra marique, jam: Agri Romani frumentaum subministrari possit, pront saepissime subministratum fuit: et quod non minus est, aer. nostrae Almae Urbis, ex assidua agrornin cultura, sylvarnm et nemoram extirpatione, palustrinmque, lo» cornm exiccatione, factus est tatior, clementior et salubrior ». japceha consules et Colleginm nobilis et antiquae arlis agriculturae Urbis... » CAPITOLO X 153 tessero avere un efficace esecuzione a tutela dell'agricoltura. Volle quindi, che tutti coloro, che avessero rapporti od interessi agricoli, chiunque si fossero, di qualsiasi grado o condizione, anche se Chierici, fossero sempre soggetti, per la giurisdizione, ai Consoli dell'Arte dell’agricoltura (1). Stabilì infine, che i giudizi fossero sommari e spediti, da compiersi così dai giudici ordinari, come dai delegati da essi, e che si ritenesse irrito e nullo qua- lunque atto o pretesto, contrario a quanto era ordinato. Prefisse che la Costitu- zione avesse il suo pieno effetto ed esecuzione, non ostante qualsiasi privilegio od indulto, sia per l’intervento di chiunque addetto alla Curia, che dei Doga- nieri di Roma, in riguardo agli affidati che avessero cagionati danni o alle messi o alle tenute poste nel territorio della Città. La Costituzione fu datata dal palazzo di San Marco in Roma, nel giorno sopra riferito (2). | Nè cessava il prelodato Pontefice di bandire altre leggi, per richiamare alla osservanza anche quelle emanate dai suoi Predecessori, a tutela e privilegio del- l’arte dell'agricoltura. x Infatti, nel giorno 11 ottobre, dell’anno sopradetto, in un’altra Costituzione, San Pio V, dichiarava di voler provvedere a che, non si compissero maggiori frodi in danno dell’Annona dai potenti, e dai ricchi proprietari, i quali ripone- vano nei magazzini il grano raccolto nelle loro tenute, e fino a che non fosse aumentato di prezzo, per soddisfare la loro ingordigia, non lo vendevano, cer- cando anzi di accumularne sempre maggiore copia, e pagandone sempre un prezzo vile agli agricoltori, od operai propri, od ai loro fassalli (se si trattava di Baroni) per guisa che i poveri non potendo acquistare il grano da altri, se non dai ricchi, erano costretti a comprarlo a vil prezzo di usura (3). A compiere (1) « ..... volumns et mandamus eosdemque dictis Consulibus eoramque jurisdictiomi pro rebus spectantibus ad Artem suppetimus, subijcimus, et snbmittimus ». (2) Bibl. Casan., ZEditti, Bandi ete. ann. 1566. N (3) « .... divites ipsos ac potentes non modo ipsorum propria frumenta, bladaque, quae în praediis suis, propriaque agricultura colligunt, in horreis recondere, ac conclusa suppri- ere, et donec illoram pretium pro eoram avaritia adauctum conspicéant, ab omni prorsus venditione abstinere, verum etiam a laboratoribus, operariisque propriis, ac etiam subditis (si baromes sinf) illud vili pretio comparare, donec tantam undique tritici copiam cumu- larint, ut pauperes, qui aliunde frumentum venale non reperiunt, necessitate dncti ab eisdem divitibus et baronibus eo pretio emere cogantar: quod venditoram ipsoram avaritia af- puesorerti »., 154 CAPITOLO X più facilmente i loro disegni, quei prepotenti impedivano o ritardavano il tra- sporto del grano a Roma, con danno gravissimo della Città, e di tutti coloro, che quivi convenivano d’ogni parte del mondo; e tutto ciò avveniva malgrado le molteplici disposizioni dei Pontefici predecessori. S. Pio V. perciò ammoniva tanto le persone ricche quanto i Baroni, ad essere tutti più umani verso i poveri, e ad astenersi affatto dal fare incettazione del grano (1) aggiungendo che fossero memori del detto, che « chiunque nasconde il frumento è maledetto dal popolo, mentre è benedetto colui, che vende il grano ». In conseguenza, che non dovessero artificiosamente alterare l'abbondanza dei prodotti delle stagioni, tenendoli nascosti la maggior parte, e sottraendoli al libero acquisto, che altri ne avrebbero fatto. ; Che se procedessero altrimenti, sarebbero incorsi nelle pene decretate dai Pontefici predecessori, e specialmente da Clemente VII, per tutelare l'abbondanza dei cereali, e l’esercizio dell’agricoltura, bandite per mezzo della Costituzione del 23 febbraio 1523; confermando, che rinnovava tutte le disposizioni dei Pon- tefici suoi predecessori. Pertanto rendeva noto a chiunque di qualsiasi condizione sociale, ai Baroni, ai Signori dei luoghi abitati, alle Università, ai Vescovi, ai Metropolitani, ai Patriarchi, ed eziandio ai Cardinali (2) che non incettassero dai loro dipendenti o vassalli. il grano oltre quanto potesse occorrerne per uso delle loro famiglie, nè impedissero, che gli altri trasportassero a Roma le granaglie, ed altre cose necessarie all’Annona pubblica, perchè al contrario sarebbero incorsi nelle pene comminate nella sopràdetta Costituzione del suo Predecessore, Clemente VII, financo nella espropriazione dei loro feudi e possessi, nelio interdetto e nella sco- munica; quali pene esso Pontefice rinnovava, per mezzo del suo Motu proprio, dichiarandolo esplicitamente in quell’atto, ‘Ed affinchè tutti potessero trasportare a Roma le eranaglie od altro, ed ac- cedervi liberamente, volle che fossero esenti da qualsiasi tassa di pedaggio, ga- bella, e da qualsiasi altro onere per l'importazione delle granaglie, che dovevano essere in perpetuo esonerate da ogni imposta. Comandò quindi a tutti i Governatori, ai Rettori, ai Signori tutti soggetti (1) «.... afque ab huinsmodi detestabili frumentario quaestu prorsus abstineant ». (2) « ..... cniscusque stains ant conditionis extiterint, etiam si Episcopali, Metropoli. tana, Patriarchali et Cardinalatus etiam dignitate praefulyeunt ..,.. », So CAPITOLO Xx 155 alla Sede Apostolica, quantunque Cardinali, che avessero rigorosamente osservato, quanto egli aveva decretato. Volle che tutti coloro, che portavano il grano a Roma, fossero liberi ed esenti da qualsiasi atto coattivo, tanto per i debiti, quanto per il mancato pagamento dei dazi camerali, dichiarando irrito e nullo qualsiasi atto legale in proposito, eseguito in danno dei conduttori del grano, od in sequestro delle bestie e robe, che seco portassero, nel venire a Roma; po- tendo quivi dimorare per due giorni, all'effetto di poter vendere, quanto avevano trasportato, in modo, che tale immunità dovesse perdurare, fino al giorno che fossero ritornati alla consueta loro dimora. E comandava agli esecutori, ossia ai ministri della Curia, di eseguire le in- giunzioni suespresse sutto pene, che sarebbero inflitte ad arbitrio del temporaneo Prefetto dell’Annona, N Quindi nel fermo desiderio di favorire tutti coloro, che esercitavano l’arte dell'agricoltura, fino alla distanza di 40 miglia da Roma, prescriveva, che tutti fossero esenti ed immuni da qualsiasi esecuzione o sequestro, tanto nel tempo «della semina, quanto in quello dei raccolti, quand’anche i loro debiti fossero derivanti da un’obbligazione assunta nelle forme volute dalla Camera; speciai- mente nel caso in cui non potessero pagare coi raccolti ottenuti dall’arte agraria (1),. Proibì eziandio, che fossero sequestrati i buoi aratori e tutti gli istrumenti necessari all'agricoltura, dichiarando, che tutto ciò, non poteva essere compreso in qualsiasi garanzia data per qualunque ragione (2) dovendo quelle cose essere considerate, come di prima necessità, e che quindi dovevano godere gli stessi privilegi, che i beni dotali (3). Seguivano le disposizioni relative agli esecutori deputati, le clausole dero- gatorie; è l'ordine di pubblicazione (4). (1) « Zos etiam qui agriculturam ipsam pro communi bono laudabiliter intra XL ab Urbe milliarinm exercent, dignis faroribus et privilegiis prosegui volentes, tam messinm quam seminum tempore, dum scilicet colligendo, vel seminando tritico rerosimiliter occu- pantur, ab omni supradicta execntione, etiam si ex obbligatione in forma Camerae proces- serit, tatos omnino et salvos fore, et esse declaramus, dummodo aliunde, quam ex agri- caltarae fructibus solvere non possint ». (2) «..... in facitis quibuscamque hypothecis a quacumque quavis de causa inductis, praedictos boves, aliaque istrumenta praedicta minime comprehensa fore ..... ». (3) € ..... in summa praedictis rebus agriculturae inservientibus, tamgnam commodatis omnino necessitatis publicae instrumentis, omnia privilegia concedentes, quae bonis dotalibus de jure concessa esse reperiuntur ..... ». (4) Arch. Vat. in lib. II, Signat. Pii V, fol, 118, 156 1 CAPITOLO X La Costituzione che noi riportammo, quasi alla lettera, mette sempre più in rilievo, quanti e quali privilegi fossero stati accordati all'agricoltura, perchè avesse sempre maggiore incremento, e perchè sempre più progredisse, come chia- ramente ci addimostra lo stesso documento, nell’esporre le ragioni per le quali era stato pubblicato. Dal quale possiamo anche constatare, come i contravventori alle leggi agrarie, non fossero soltanto i Baroni ed i Signori, ma eziandio coloro che occupavano un grado eminente nella gerarchia chiesastica; in quanto il Pontefice commi. nando le pene, stabilite dal predecessore Clemente VII, e confermandole anche riguardo ai Vescovi, ai Metropoliti e ai Cardinali, deve dedursene per logica conseguenza, che il provvedimento sia stato necessario anche contro coloro, che per autorità erano più prossimi al Pontefice. È evidente che gli arbitrî, le trasgres- sioni, e talora i delitti, avevano una causale evidente sì, ma non necessaria, nè onesta, quella cioè dell’interesse e della più sordida ingordigia del denaro altrui, carpito con usura vergognosa. I crediti degli agricoltori per la vendita dei loro prodotti e delle Joro der-, rate erano tutelati, nè si ammettevano ai debitori, ripieghi o pretesti forensi, dilazioni quinquennali al pagamento, o cessione dei beni; ma erano invece ob- bligati a soddisfare tutte nel più breve tempo, a ciò costretti dalle norme e dai precetti degli Statuti agrari, come da quelli può rilevarsi (1). Vari erano i privilegi e le modalità, che moderavano i contratti agrari, e ne accenniamo soltanto alcuni, perchè valgano ad esempio. Gli agricoltori rel provvedersi dei necessari operai, dovevano naturalmente trattare con gente povera alla quale anticipavano anche del denaro, come ca- parra per lc assunte obbligazioni. Se gli operai sopradetti non si presentavano al tempo dei lavori, o bruciavano, (come tuttora dicesi in gergo nella Campagna romana) si ricorreva subito al Tribunale dell'Agricoltura, ovvero al Giudice delle mercediì, i quali rilasciavano subito un mandato di cattura — de capiendo — contro chiunque non avesse mantenuto i patti assunti. L’inadempiente al contratto, veniva mantenuto in carcere a spese della pub- blica giustizia. Allorchè un agricoltore avesse subìto sventura nei raccolti, per danno di (1) Statuta Artis Agricolturae, cap. 88. È) pas ti ei CAPITOLO X 157 grandine o di pioggia, o per qualsiasi altra causa, in tal caso si deputava un custode ai raccolti in essere, od ai bestiami, e il debitore non era tenuto a pa- gare alcun compenso al depositario 0 custode. _ Nel caso di danni cagionati, l'agricoltore era obbligato alla rifazione di essi, senza però pagare alcuna penale, salvo il caso che avesse agito per frode, Le persone addette all’agricoltura potevano acquistare il pane ed il sale, occorrente all'uso degli addetti alla lo » azienda, ovunque avessero creduto op- portuno ed tile, senza che fossero sogretti a tasse o multe. Quando i pecorari tornavano dalle montagne, se recavano con loro il formaggio salato, le lane o le pelli delle pecore, avevano facoltà di vendere il tutto liberamente in Roma, senza pagare per ciò gabella alcuna. Nell’intento d’illustrare sempre più le consuetudini e gli usi della Campagna romana, nel secolo xvI, crediamo necessario anche a titolo di curiosità storica, di riportare integralmente una grida ché si riferisce alle bandite, che in quei tempi si formavano, per esercitare la caccia con maggiore profitto e comodità dei Signoriî, i quali naturalmente, sia per i loro intrighi nella Curia e nel Governo, sia per la loro abituale prepotenza in ogni cosa che loro talentasse, riuscivano ad ottenere privative, là, dove per un uso civico, antico quanto il mondo, nessuno mai ardi esercitare arbitrio. 1566, 3 novembre. Bando sopra la caccia. « Per ordine espresso di S. S...... nissuno ardisca nè presuma sotto qual- « sivoglia pretesto andar o intrar a caciar (sic) con schioppi, balestre, cani, « ucelli, rete, laci, etiam nissuna sorte di Cacia (sic) nelle sottoscritte bandite « di Roma nella Trasteverina, cominciando da Ponte Mollo, a man manca, per < la strada, che va a Acqua Traversa, fino alla Sepultura, sequitando alle tre « Capanne, sequitando dalle tre Capanne per la strada a man manca, che va « a Santo Nichola, fino abucea, (Boccea) fino allo fosso di Larone, per lo fosso « di Larone, fino alla marina, confinando dall’altra banda, con il Tevere, sotto ‘« pena di cinquanta scudi, e li patroni siano obligati per li setvitori, e che « nessuno inversatore, ne altra gente, non possa tirare, nè tenere a vinti miglia « schiopi, nella T'ristiberina, sotto pena di tre tratti di corda, ancora che nessuno a procoio di bufali, vache rosse, cavallari, pecorari, et qualunque sorte de be- t stiame et abitante sopra alla ditta bandita, che tengano cani mastini per « guardia delli loro bestiami, non ardiscano andar a cacia, ne lasiarvi (sic) andar 158 CAPITOLO X « loro garzoni, nè di giorno, nè di notte, con lor cani, nè con altri, nè possaro <« andar la notte con la lanterna et lanciatora, nè far nè lasciar far lacci de « sorta alcuna, sotto pena de tre tratti de corda la prima volta, e dopo li tre « tratti di corda la galera, ecc. ecc. « Dato în Palatio, Die 6 de novembre 1566. « Lupovico RustIcuccIo, Capo caccia. <« Revocando ogni sorta di licentia, che fusse data in anti la pubblicatione « del presente bando. « Io Bastiano Trombetta ho fatto il soprascritto Bando per Roma, alli lochi soliti e consueti, a dì 6 novembre 1566. (1) » Il Pontefice S. Pio V, per la tutela del commercio, volle bandire una Co- stiluzione, ai 3 di novembre 1571 intitolandola contro i fraudolenti e i falliti dolosi — contra fraudolentes et dolosos decoctores. In essa rammentando i Motu propri dei Pontefici predecessori, e specialmente quello di Paolo IV, menzionato nel Motu proprio successivo di Pio IV, dispose che tutti coloro, che avessero ottenuta la moratoria o dilazione — sempre a forma degli Statuti di Roma, chè altrimenti non avrebbe dovuto concedersi — fossero sempre obbligati a portare continuamente un cappello di color verde, e ad ottemperare a quanto era stato . prescritto nei sopradetti Motu propri (2). In seguito alle nostre investigazioni, avemmo occasione di poter rinvenire dei documenti tali da togliere qualunque dubbio anche ai più scettici, in- torno all’esistenza degli usi civici, in tutti i luoghi, che furono abitati nelle nostre campagne, fino al termine del medio Evo. La nostra non recente affer- mazione, sebbene avvalorata da documenti pontificî (3), tuttavia ebbe i suoi con- traddittori, che pretesero di affermare contrariamente ai documenti storici, da noi costantemente citati, che « è diritti, relativi al lavoro delle terre, soltanto per este- riori apparenze, possono essere confusi con gli usi ‘civicî, non perchè vi abbiano intimi e veri legami » (4). (1) Bibl. Vatie. Sala delle Consultazioni. Stato Pontificio, Editti 1566-1685. (2) Bullar. Roman. et Arch. Vatic., Bolle e Bandi, Serie IIT, ann. 1422-1571, ad ann. (3) Motu proprio di Pio VII, 15 settembre 1802. (4) CaLisse CarLo. Gli Usi civici nella Prov.. di Roma, a pag. 93. ichbna dine 2, reni lele È i CAPITOLO Xx 159 Ma siccome la storia del Medio Fvo è tuttora molto inesplorata — e lo sarà forse ancora per lunghi anni — così non è da trar meraviglia, se talora un sem- plice agricoltore, come noi, amante dello studio dell'Agro Romano, e per conse- guenza della storia © delle tradizioni di esso, rovistando nei preziosi manoscritti dell'Archivio Vaticano, abbia avuto la ventura di rinvenire un primo codice con- tenente lo Statuto, il regolamento e vari altri documenti, insieme ad un com- pleto processo, sulla esistenza degli usi civici, svoltosi in una delle tenute del- i lPAgro Romano. Noi possiamo per ora pubblicare questa prima serie, relativa- mente breve, di documenti; ma abbiamo ferma la fiducia, che continuando le nostre ricerche e i nostri studi, otterremo risultati anche più fortunati, in quanto i documenti pontificî, affermavamo che « parecchi latifondi ridotti alla condizione di « tenute, valea dire allo stato di spopolazione, ed ablandonati quasi interamente alla e loro naturale produzione delle erbe, un tempo, ed anche non moltoa Noi lontano, « erano ricchi di prodotti e di abitanti, ciò che si rileva anche dal nome delle te- « nute giurisdizionali che tuttavia conservano...... La popolazione si era intro- « dotta e si manteneva in detti fondi, perchè i proprietari, avevano lodevolmente « divisi questi latifondi fra. molti coltivatori, î quali corrispondevano ordinaria- « mente una porzione del fruttato, ecc. » (1). I documenti si riferiscono al tempo del Pontificato di S. Pio V, e precisa- mente dell’anno VI in poi (1569), e giungono fino all’anno 1580. del Pontificato del suo successore, ossia di Papa Gregorio XIII. Gli Statuti del Castrum Porcigliani (oggi Castel Porziano) del quale si tratta, datano dall’anno 1489, ai 24 di novembre, sotto il Pontificato di Papa Inno- cenzo VIII; ma dallo insieme dei documenti apparisce chiaro, che tali Statuti in quell’epoca furono soltanto rinnovati ed accresciuti, e che per conseguenza debbono rimontare ad epoca assai più remota. La Communità e gli abitanti, del Castello di Porcigliano, ebbero i loro Sta- tuti e privilegi propri da tempo immemorabile, come già dicemmo, e che nel- l’anno 1499, il Cardinale Piccolomini, del titolo di S. Eustachio, detto anche il Cardinale Senense, che era in quel tempo Commendatario del Convento dei SS. Sabba ed Andrea in Roma, a cui apparteneva il Castello di Porcigliano, non solo rinnovò, ma confermò eziandio gli Statuti sopraddetti, che poi sul (4 (1) Dal Motr proprio di Pio VII, citato. Vedi anche Append, Doc. VI. A. 160 CAPITOLO X principio del secolo xvi furono ampliati dal Cardinale Giovanni Colonna, figlio di Antonio Principe di Salerno, il quale in seguito registrò i capitoli delle Costitu- zioni del Castello di Porcigliano, nel libro degli Statuti esistenti in detto Comune (1). Ci piace qui far notare, con giustificata soddisfazione. un fatto alquanto singolare, quello cioè, che noi agricoltori e studiosi delle cose della Campagna romana, per î primi rendiamo di pubblica ragione Statuti inediti, che riguardano uno dei tanti luoghi abitati nell’Agro romano. Ma già dettagliatamente abbiamo in precedenza osservato, come un tempo ne esistessero, di cotali luoghi, oltre sessantaquattro il cui territorio, a noi risultante dai dati desunti da un docu- mento ineccepibile (2), ammontava a circa Ettarì ottantacinquemila, ed in con- seguenza rappresentava due quinti dell’intero agro romano, calcolato approssima- tivamente ad Ea. 211,000 circa. Riputiamo quindi utile e necessario, per questo nostro lavoro, di riportare il sunto di quegli Statuti, ma riporteremo integralmente gli Statuti stessi in appendice (3). ; Ma prima, crediamo opportuno di far precedere alcune note storiche, tratte da documenti, che valgano ad illustrare il Castello di Porcigliano. Abbiamo già posto in rilievo l’esistenza degli Statuti e delle Costituzioni, che furono dapprima rinnovati e confermati dal Cardinale Senense Francesco Piccolomini, e poscia approvati nuovamente dal Cardinale Giovanni Solonna, e ciò nei secoli xv e xVI, come diremo più diffusamente in seguito. Nell’anno 1518, il tenimento del Castello di Porcigliano, fu compreso nella bandita riservata per la caccia, che comprendeva il territorio di Velletri, Ci- sterna, Campomorto, Nettuno, Ardea, Pratica di mare, Rocca di Papa, Marino, Castel Gandolfo, Albano, Ariccia e Genzano, con tutto il Lazio, e fu deputato a commissario Prospero Colonna, duca della Marsica, per la esecuzione del bando, che proibiva a chiunque di cacciare coi fucili, quali armi erano allora in uso da poco tempo, in quanto si reputasse, che la caccia degli animali quadrupedi e dei volatili, fatta con le armi da fuoco, dovesse essere riservata soltanto ai nobili (4). (1) Arch. Vat., Monferentii Cameralia, Arm. XXXVI, tom. IV, pag, 561. (2) Allegato .i della relazione della Comm. incaricata dello studio sulla eircoseri- zione dell'Agro romano (1885). (3) Append. Doc. VII. (4) cum dignum sit quod huiusmodi venaliones (cum sclopis et sclopetis) viris nobilibus reserventar ..... » Arch. Vat., Brew. Min., tom. 300, n. 300. » è CAPITOLO Xx 101 Nell'anno 1561, nel giorno 2 di gennaio, il Pontefice Pio IV, deliberò a fa- vore della Camera Apostolica il Casale di Decimo ed il Castello di Porcigliano, siti nella diocesi di Ostia (1). Nello stesso anno, ai 18 di marzo, il Pontefice suddetto unì i beni del Mo. nistero dei SS. Andrea e Saba all'Ospedale di S. Spirito in Sassia, eccettuati i due tenimenti sopraddetti assegnati alla Camera Apostolica nel giorno 11 marzo 1562, che più tardì li vendè all'Ospedale suddetto per scudi centomila. Il Pon- tefice, in seguito a tale cessione fondò il Monte detto di S. Spirito, col capitale di scudi centomila, garantendone i frutti sopra le rendite di Decimo e Porci- liano, e di altre proprietà dell'Ospedale sopraddetto, decretando che il reddito fosse stabilito, in ragione dell’otto per cento, per poter sopperire con ciò alle spese necessarie a proseguire il Concilio di Trento, e a combattere gli eretici (2). L’anno 1562, nel giorno 25 di gennaio, gli abitanti del Castello di Porci- gliano, prestarono giuramento di fedeltà al rappresentante della Camera Aposto- liea, e fu preso possesso di tutto il tenimento che formava il territorio del luogo sopraddetto (3). N Cardinale Guido Ascanio Sforza, denominato anche il Cardinale di Santa Fiora, nello stesso anno ai 25 di marzo, vendè in nome della Camera Aposto- lica all'Ospedale di S. Spirito in Sassia di Roma, i tenimenti e castelli di De- cimo e Porcigliano, che confinavano col territorio di Castel Fusano, col casale della Capocotta, allora appartenente ai signori Capranica, col casale di Monte Olevano, di proprietà del Cardinale de Cesis. con quello di Monte Migliore, degli eredi di Tiberio Nari, e col casale di Perna dei signori Lante, nonchè cogli altri di Trigoria e Trafusa. L’atto fu rogato in Roma da Girolamo de Tarano, no- taro della Camera Apostolica (4). L’Ospedale di S. Spirito, avuta l’autorizzazione dal Pontefice Pio V, nel- l’anno 1568, nel giorno 16° febbraio, procedette alla vendita del Castello di Por- cigliano e del casale di Decimo, in favore del barone Agostino del Nero, di Tom- maso, suo figlio, nobili fiorentini, e di Tommaso Guidacei, cittadino e mercante di Firenze, nonchè di Gundisalvo Alvaro, cittadino romano «del rione di Trevi. (1) Ibi: Bul//ae secr. Piî IV, Ann, 1561, n. 20, fol. 140, (2) Arch. Vat., 2a//. secr. Pii IV, anno 1561-62, fol. 107. (3) Ibi. Contelorius Hist. Cam., Index. 113, fol, 298. (4) Arch. Vat., Arm, 34, tom. 43, /s/rum. Camer., fol. 1. ll 162 CAPITOLO X L’atto fu rogato dal notaio Capitolino Curzio Saccocci in solidum con Ga- spare Raidetti R. P. D. Uditore della Camera Apostolica (1). Seguono tutti i documenti ed atti, dei quali daremo più ampia notizia in appresso. Il Pontefice Alessandro VII, nell’anno 1661, nel giorno 6 di aprile, pub- blicò un Breve di concessione ai figli del fu Alessandro del Nero da Firenze, che possedevano la metà del Castello di Porcigliano, di potere dimorare all’estero sei mesi di ciascun anno, in quanto le Costituzioni pontificie vietavano a, chiunque, non risiedesse nello Stato ecclesiastico, di potervi possedere (2). Gli atti della sacra Rota c’informano in seguito sulle vicende di Porcigliano, ed infatti una Decisione dell’anno 1751 — coram Lancetta — ci fa sapere, che nell’anno 1678 agli 11 di gennaio, sebbene il Barone Luigi Maria del Nero avesse ottenuto, in seguito ad una sentenza, d’aver la prelazione nell’acquisto della metà del castello e del tenimento di Porcigliano, messi in vendita, in quel giorno, ad istanza dei creditori del Barone Carlo Ventura, ed altri della fami- glia del Nero, anche per autorizzazione rilasciata dalla Congregazione dei Ba- roni, tuttavia la metà del castello e della tenuta di Porcigliano veniva delibe- rata a favore del Barone Carlo Gavotti, per il prezzo di scudi 71,500. Però nonostante tale deliberazione di vendita, e che il Barone Angelo Gavotti avesse già sborsato il prezzo, fin dal giorno 6 luglio dell’anno antecedente, tuttavia per il diritto di prelazione spettante al Barone Luigi Maria del Nero, il barone Gavotti dovè rinunciare all’acquisto sopradetto (3). o Esposto così brevemente un sommario storico delle vicende del Castello di Porcigliano, per ciò che riguarda i passaggi di proprietà, riferiamo il transunto dello Statuto di quel luogo, come lo abbiamo desunto dall’Archivio Vaticano. Lo Statuto del Castello di Porcigliano, nélla sua prima parte costituisce il Codice penale del luogo. La prima disposizione, è quella di comminare la pena di 20 solidi provisini contro i blasfemi, i quali se fossero stati.insolventi, dovevano essere legati ad un palo ad uso forcina, per subire Za perforazione delle orecchie. (1) 1bi. De '‘Rabeis, tom. 8, pag. 1285 t. et Monterentiù Camer. IV, pag. 552, et Arch. Cap., Saccoccius Cartius, fol. 230. (2) Arch. Vat., Arm. 43, tom. 20, pag. 81. (3) Decis. S. Rotae, 2 decembre 1699, Coram Cyriaco Lancetta, et 13 Maii 1701. CAPITOLO X 163 ‘ I beni dell’omicida dovevano essere sequestrati a favore dell’erario pubblico del Castello. Chiunque avesse osato recidere alcun membro ad altra persona, oltre la rifazione del danno, doveva pagare all'autorità 25 libbre di provisini. Alla multa di quaranta solidi, e ad un mese di carcere veniva dannato chiunque, per ingiuria, avesse preso per i capelli un suo similo. Altre pene pecuniarie venivano stabilite contro i detentori del coltello, con aumento della pena stessa, se avessero ferito alcuno coll'arma. Più gravi ancora erano le penalità a tutela dell'onore della donna, ed oltre alla dovuta dotazione nel caso di violenza, i rei dovevano sottostare sempre a multe pecuniarie. : Così, nel caso di furto commesso sulle vie pubbliche, tutte le robe del ladro venivano confiscate a favore dell’erario. Le pene pecuniarie variavano, ed au- mentavano se il furto fosse stato commesso di notte. Vi si notano le pene comminate per tutte le specie di furti campestri, l’abi- geato, le rapine di qualsiasi genere, e viene fatta una minuta e speciale menzione deì singoli casi. in modo che, specie la prima parte di esso Statuto, rappre- senta, come dicemmo, un vero e proprio Codice penale. Seguono dettagliate norme per reprimere e prevenire qualsiasi danneggia- mento. Che se alcuno avesse commesso un delitto, previsto nello Statuto, doveva essere punito ad arbitrio del Signore del Castello; sempre rigorosamente, secondo la forma stabilita dal Codice. Nel caso poi che taluno avesse osato di compiere un delitto, in danno del Signore o di alcun ufficiale pubblico del Castello, la pena-doveva essere dupli- cata, e se il delitto fosse stato compiuto con premeditazione, il reo doveva essere condannato aila forca; e ciò in ambedue i casi sopraespressi. Venivano comminate gravi pene pecuniarie a coloro, che avessero fatte in- giuria al Castellano ed ai suoi ufficiali. V’era stabilita una multa di 20 solidi provisini contro chiunque avesse osato di aprire la porta del Castello, ove l'autorità l'avesse fatta chiudere. Segue l’enumerazione dei casi per i danneggiamenti apportati nelle vigne, che vengono repressi con pene pecuniarie fino a cento solidi provisini. Ai venditori di vino vengono prescritte le misure, munite del suggello del Signore del Castello, o del Governatore di quello, e le misure stesse vengono designate coi nomi di quel tempo. 164 CAPITOLO X Gravi e rigorose disposizioni sono emanate per regolare il buon funziona- mento dello spaccio delle carni, il cui prezzo doveva essere stabilito da quattro Massari del Castello. Gli stessi Massari dovevano far chiudere di notte le porte del luogo, ed anche di giorno, allorchè fosse stato opportuno. Il Signore del Castello, aveva la facoltà di comandare a tutti, secondo la propria volontà, ed il proprio arbitrio, potendo anche inviare chiunque dei sot- toposti ove avesse voluto, con patto però di mercede e di pagamento ; e se taluno si fosse rifiutato, doveva essere multato. Chiunque avesse voluto fissare la sua dimora nel Castello, doveva prestare giuramento di vassallaggio per cinque anni, e se vi si fosse ricusato, i suoi beni dovevano essere a disposizione del Padrone del Castello. Dopo il quinquennio, prima di partire, doveva il vassallo domandarne li- cenza al Signore, per tre volte consecutive, e con intervallo di tre giorni. Coloro poi che venivano ad abitare nel Castello per la prima volta, dove- vano prestare una cauzione ad libitum del Padrone, obbligandosi di condurre una vita quieta e pacifica; e ciò doveva aver vigore anche per i disonesti e per gli scandalosi. | La moglie adultera doveva perdere la dote, che veniva divisa fra il marito ed il Signore del Castello in parti eguali, e secondo il diritto, la stessa donna doveva divenire la serva dello stesso Signore. Si stabiliva che, se gli Statuti fossero deficienti per la mancanza di qualche capitolo necessario, tanto per cagione di diritto che di fatto, al Signore del Ca- stello fosse riservata la facoltà di comandare qualsiasi cosa in proposito, e che tutti fossero tenuti ad obbedire, non ostante qualunque altro capitolo della legge civile e canonica. Per chiunque morisse intestato, e senza un erede legittimo, l’erario pub- blico del Castello dovesse succedere nella eredità, e tutti fossero tenuti a fare il testamento, ripetendo in esso per tre volte « lascio al mio Signore XII denari » e che il testamento soltanto dovesse aver valore per succedere nell’eredità. Che se gli eredi morissero in età minore, l’erario pubblico dovesse succedere nei beni. Le spese tutte per la manutenzione del forno (pubblico) dovessero essere a carico del Signore, e la fornaia dovesse trasportare il pane tanto crudo, quanto cotto, e dovesse corrispondere al Signore del Castello un pane, per qualunqué quantità di pane fatto cuocere. CAPITOLO X 165 Se taluno avesse uselb. sa cinghiale, o suino selvatico, nel tenimento del Castello, al Signore dovesse spettare la parte anteriore, comprese nove costole, ed i piedi anteriori; e così pure se fosse stato un cervo, o qualsiasi altro animale. Nella festività di S. Andrea, tutti coloro, che avessero posseduto una casa nel Castello, dovessero pagare dodici denari ogni anno, e così tutti quelli, che avessero posseduto un orto, dovevano nella stessa ricorrenza pagare sei denari. Se alcuno avesse voluto fabbricare una casa, il Signore a sua volta avrebbe dovuto provvederlo dei legnami necessari. Per le vigne si doveva corrispondere la sesta parte del mosto, Se alcuno avesse voluto scassare la terra, per costituire la vigna, nei primi cinque anni non doveva pagare corrisposta, ma dopo quel termine fosse tenuto a pagare la sesta. Chiunque avesse una casa, od una capanna, entro o fuori del Castello, do- vesse corrispondere una gallina, ben nutrita, nella festività di S. Saba, e pari- menti un paio di polli nel dì dell'Assunta. I possessori di case, di vigne e di orti, quando avessero voluto emigrare da Porcigliano, o quando avessero il presentimento di morire, dovevano interpellare il Signore del Castello, se volesse fare acquisto della loro proprietà, e, nel caso affermativo, la vendita doveva es:ere compiuta con la diminuzione di 12 solidi provisini, su quello che avrebbe pagato un altro. E se il Signore non avesse voluto comperare, in tal caso patevano libe- ramente vendere ad altri, sempre però coll’osservanza delle norme contenute negli Statuti, dando un tributo di cinque solidi al Signore per ogni casa o pezza di vigna. Traseredendo siffatto tributo i beni erano devoluti a beneficio del pub- blico erario. Quando alcuno, essendo infermo, avesse fatto testamento, e poscia si fosse fatto trasportare a Roma per esservi curato, e poi riacquistasse la salute, il te- stamento stesso sarebbe stato ritenuto valido; ma se invece l’infermo fosse stato trasferito in altro luogo, le sue disposizioni testamentarie non dovessero aver valore alcuno se non per volontà del Signore. Vi era stabilito che il Governatore del luogo dovesse essere romano, e non altrimenti: Tutti coloro che erano dediti alla caccia, dovevano essere tenuti, in un giorno dell’anno a cacciare per il Signore, dandogli tutto ciò che avessero preso od ucciso, 166. CAPITOLO X Ciascun produttore di formaggio era obbligato di dare al Signore un for- maggio, una volta la settimana, e nel caso che avendo un socio, avesse pro- dotto due formaggi al giorno, avrebbe dovuto darne al Signore, due in ogni settimana. Nella ricorrenza di Pasqua si doveva offrire al Signore un capretto, e, se il bestiame fosse in proprietà con un socio, sì dovevano offrirne due. - Che se taluno dovesse avere giustizia, verso il Signore o' verso un altro abitante, e non potesse sostenere la causa, per difetto di un avvocato, qualora si trattasse d’un fatto semplice e chiaro, si dovesse far appello al parere degli altri abitanti del Castello. Se un abitante di Porcigliano avesse pescato nel mare uno storione, un delfino, o una lombrina, li avrebbe dovuti Offrire al suo Signore, ed ove questi li rifiutasse, allora soltanto avrebbe potuto venderli. Degli altri pesci, la miglior parte spettava al pena tore, ed il Signore ne poteva prelevare uno a sua scelta. Se invece chi avesse pescato fosse un fora- stiero, era tenuto a dare al Signore l’ottava parte. Tutti coloro che possedevano un giumento od asino, erano obbligati a dare ogni mese, una soma di legna al Signore del Castello, ed un’altra soma nella festa del Natale; ma tutti erano autorizzati ad esportare qualsiasi specie di lesna, ovunque avessero voluto, in un numero eguale di bestie, per il quale erano tassati. Seguono alcune altre disposizioni, per le aggressioni’ personali, per la no- mina dell’usciere giudiziario, per il precetto di prestare aiuto all’Auditore e Vi- cario, ed alcune prescrizioni agli abitanti del Castello, perchè rispettino gli officiali pubblici, ed in caso di mancanza erano applicate severissime pene, anco della perdita dei beni, della fustigazione fino a sangue, e financo del taglio della testa Gli Statuti di Porcigliano contengono alcune riforme ed aggiunte fatte dal Cardinale Giovanni Colonna, del titolo di S. Maria in Aquiro, che in quel tempo era Commendatario del Monist. dei SS. Saba ed Andrea, al quale allora appar- tenevano il Castello e tenimento di Porcigliano. Le anzidette aggiunte sono del tenore seguente: « Ordiniamo e comandiamo, che tutti gli uomini di Porcigliano, che avranno dimora nél tenimento del Castello suddetto, debbano corrispondere al Signore la sesta parte del raccolto sull’aia; che se negassero di fare ciò, sia lecito al Signore di sequestrare tutto il grano, o la biada che rinverrà sull’aia ». E conelude; \'igg La . hi w \V& Le ” * DI CAPITOLO X 167 fr 4 Bandiamo questa Costituzione per la ragione che così si praticava ai tempi del Cardinale Giovanni di Siena, che fu l’autore di queste Costituzioni, « Ordiniamo poi che tutti gli abitanti di Porcigliano possano far pascere libe- ramente, e senza aloun pagamento, ciascuno otto bestie grosse, per la rompi- tura del terreno, per seminare, e per far condurre i barocci. 4 Inoltre che ciascun abitante possa tenere 6 far pascere 50 capre, senza pa- gamento, e così faccia pascolare e mantenga gratuitamente dieci capi suini, per uso di famiglia » (1). Riassunti così gli Statuti del Castello di Porcigliano, diamo ora un som- mario storico delle vicende subìte dai suoi abitanti, come le potemmo desumere da varî documenti, che formarono il sommario della causa agitatasi per gli usi civici; quali documenti, però. abbiamo dovnto constatare, come non siano stati riportati seguendo l'ordine cronologico, ma che siano stati copiati soltanto per conservarne la memoria. E noi abbiamo mantenuto la stesso ordine. Tradu- cemmo letteralmente la narrazione introduttiva della causa, svoltasi avanti al Tribunale della Camera Apostolica. La Comunità e gli abitanti del Castello di Porcigliano, da tempo immemo- rabile, ebbero loro speciali Costituzioni, Statuti e privilegi, che furono poi rin- novati e confermati. Nell'anno 1489 dal Card. Francesco Piccolomini, detto il Card. Senense, (‘ommendatario perpetuo del Monistero dei Santi Saba ed Andrea di Roma, al quale s’apparteneva il detto castello, ed in progresso di fempo, nel secolo xvr, il Card. Giovanni della Colonna, Commendatario del Mon. sopradetto, rinno- vando i detti Statuti, volle fargli delle aggiunte, come risulta dal libro degli Statuti e privilegi, che era conservato dal Barone dei castello, ed esistente presso dello stesso, che apparisce conforme a quello che abbiamo riferito. E tali Statuti debitamente fatti osservare tanto dal Card. Cybo, quanto dal Card. de Monte, successivi Commendatari del Monistero dei Santi Saba ed Andrea, anche furono rispettati dal Commendatario «dell'ospedale di Santo Spirito in Sassia, che aveva acquistato il castello di Porcigliano dalla R. Camera Apostolica, e lo stesso ba- rone Agostino del Nero, successivo proprietario, li fece ugualmente osservare nei primi due anni dall'acquisto fatto (2). (1) Append. Doc. VII. (2) Arch. Vat., Monferentii, Arm. XXXVI, tom. IV, pag. 548, 168 CAVITOLO X Fra le predette Costituzioni, sono compresi anche i privilegi, mediante i quali gli abitanti di Porcigliano furono sempre mantenuti nel diritto e nel pos- sesso di poter fare la legna nei boschi e nella tenuta del Castello suddetto, di potere asportare giornalmente tre salme di qualsiasi qualità e specie di legna, adoperando ciascun vassallo tre bestie, e di poter trasportare detta legna ovunque avesse voluto; e tutto ciò, gratis (1). ; Inoltre, di poter seminare nei varî appezzamenti di terreno del tenimento nella parte fertile, dando al proprietario sull’aia la corrisposta della sesta parte dei raccolti (2). Di poter tenere e far pascere liberamente, e senza alcun pagamento, in detta tenuta otto bestie grosse per arare e seminare, e per il trasporto delle barrozze (3). Come pure di poter far pascere cinquanta capre per ciascun vassallo, senza alcun pagamento. E così ancora di poter far pascolare dieci capi di suini, ciascuno per uso della propria famiglia; ma tale patto, all’epoca del Pontefice Giulio*III (1550-55) con l’annuenza del Commendatario Card. Del Monte e della Comunità, fu com- mutato coll’autorizzazione che, invece dei suini, ciascuno potesse far pascere altri quattro capi di bestiame grosso, in modo che ognuno potesse godere del pascolo, per 12 bestie grosse, come sempre infatti avevano usufruito, e come sempre avevano potuto far pascere. Ma invece, dopo due anni, ossia nel 1570, dopo che il barone Agostino del Nero aveva comprato le tenute ed il Castello di Porcigliano, d’un tratto volle privare gli abitanti del diritto di far pascere i loro bestiami, dapprima in uno dei quarti, detto la Banditella, che era di proprietà della Comunità, e poscia in altri appezzamenti di terreno, che abitualmente venivano assegnati per pascolo dei buoi aratori (4). E tutto ciò fu compiuto, affinchè quei terrazzani non te- (1) « Dicti homines fuerant semper in jare et possessione lignandi în silvis et tenntis dicti Castri, et exinde cxportare tres salmas lignorum uniuscuiusque generis, dielîm cum tribns bestiis, pro quolibet vassallo gratis, quo ipsi homines voluissent ». (Ibi). (2) « /fem seminare in tenutis et tenimento fertile dicti Castri cnm responsione Do- mino in area sextae partis frnctunm ». (3) « Item retinere et pasculare in dicto tenimento, libere sine aliqua solutione, octo bostias grossas pro usa arandi, seminandi et conducendi carrotias ». (A)oet de facto Communitetem praedictam in primis quadam Banditella, sen tenuta propria et particulari eiusdem Communitatis, et quaedam alia, qnae pro animatibas arato- riis assiguata habebant snoliavit ». (Ibi), e “ CAPITOLO X 169 nessero più bufali, di loro proprietà — bubalos ne retinerent —. Fu proibito altresì di seminare in altri luoghi, all'infuori di quelli, che venivano assegnati dal pro- prietario, ovvero dai suoi ministri (1). Lo stesso Agostino del Nero ordinò, quindi, che, in seguito, la Comunità non potesse eleggere i suoi ufficiali e massari, mevtre per consuetudine, erano stati sempre eletti dagli abitanti, fece occupare alcune piccole terre, in parte coltivate a vigne dai particolari (2) e tolse al Comune il libro dei Privilegi e Statuti, imponendo molti gravami, ed esercitando sevizie. Gli abitanti di Porcigliano, vollero tentare di liberarsene, per riconquistare tutto ciò, che era stato loro arbitrariamente mal tolto, in conseguenza fecero pervenire, nell'anno 1572, al Pontefice un ricorso del seguente tenore: Beatissimo Padre, « La Comunità ed uomini di Porcigliano, devoti oratori della S. V., finchè « furono sotto l'immediata giurisdizione della Sede Apostolica, e quindi dell’Ospe- « dale di San Spirito in Sassia, ossia del relativo Commendatario pro tempore, « videro sempre esattamente osservati i privilegi, le esenzioni e gli Statuti del « luogo; ma dappoichè Agostino del Nero, a quanto dicesi, ha acquistato il te- « nimento e i casali, coi diritti di vassallaggio di detta terra, spogliò subito e « di fatto la Comunità della Bandita, che serviva di pascolo al bestiame caval- « lino, e di altri terreni dei quali già si usufruiva, e si ritenevano per mante- « nimento delle bestie aratorie. Ha vietato di legnare, affinchè non si possa nep- « pure vendere la legna stessa, come dapprima era solito. Pretende, che non si « posseggano più animali bufalini. Vuole che non si possano seminare altri luoghi, « se non quelli, che egli od i suoi ministri destinano, e non sono altro che ter- « reni sterili (3). « Ha ordinato e vuole, che non si possano più eleggere i pubblici Officiali, « detti anche Massari, che al contrario sempre furono eletti e scelti dagli abi- « tanti. Ha violato gli Statuti della terra e del castello, imponendo molti gra- « vami ed esercitando sevizie d’ogni genere. (1) « .... de loca quae ab ipso et suis ministris assignarentar seminare proibuit ». (Ubi). (2) « ..... et quasdam ferrulas cum eorum particnlarium vineîs annexas occupavit.,... ». (B)"e.dc. et bubalos non retinere, nec loca, nisi quae ab ipso, sive eins ministris as- signantar, quae nonnisi sterilia sunt, seminare », 1,70 CAPITOLO X « Da tutto ciò, volendo la Comunità ed i supplicanti liberarsi. in base al « diritto, e volendo restituiti i loro beni, supplicano umilmente la Santità Vostra « perchè si degni di esaminare la causa, la ragione di spoglio avvenuta nei pre « detti tenimenti, e la gravità dei danni arrecati per quanto è avvenuto, in- « sieme a tutti gli incidenti derivatine, o che possano derivarne, per il solo « principio della verità dei fatti verificatisi giornalmente in questi luoghi, con- « trariamente ai doveri verso Iddio, e quindi la S. V. voglia decidere, che tutto « abbia un fine giusto, degnandosi di raccomandare la causa stessa a qualche « giudice della Curia Romana, e se più piace alla S. V. di commettere ed ordi. < nare ai Chierici e Presidenti della Camera Apostolica, perchè con la dovuta CS facoltà, possano constatare i fatti, in base a testimonianze, per quanto lo ere- « dano necessario, e perchè risulti, che i supplicanti sono stati spogliati delle « sopradette tenute o di una parte di esse ». Seguono le formule legali, con la domanda di poter citare Agostino del Nero e di procedere in via giudiziaria, nonostante le Costituzioni e gli ordini apostolici, ece. A tergo della istanza si legge: « Per ordine di N. S., che s’interpellino i « Presidenti, ed i Chierici di Camera, perchè constatata la verità, di quanto fu « asserillo, citino, e ristabiliscano tutto, e procedano in via sommaria, secondo « la domanda, ecc. » (1). Mentre s’agitava la causa avanti il Giudice de Matteis, deputato in seguito al decreto della Camera Apostolica, Sigismondo Giotti, agente generale di Ago- stino del Nero per evitare una sentenza, chiamò a sè di nascosto alcuni vassalli, separatamente l'uno dall'altro, e, li interpellò insistentemente per sapere, se ai- cuno di loro avesse rilasciato alcuna procura o mandato per muovere la lite, con la relativa domanda di esser prosciolti dal giuramento, e dalla giurisdizione da Agostino del Nero. Avutane risposta, tanto insistè presso di essi, che li per- suase a desistere dalla lite, e a dichiarare, che se loro fosse concesso alcunchè per vivere, tutto ciò avrebbero dovuto ascrivere a grazia e a favore singolaris- simo, in quanto, essendo stati riconosciuti come vassalli, soltanto per privilegio il loro bestiame cavallino aveva pascolato nella Banditella, con la facoltà di tenere ciascun abitante quattro bestie aratorie, ed in ciascun anno di poter seminare (1) « De mandato D' N. Papae andiantur Praesidentes, et Clerici Camerae citent, et . constito de assertis, restitnant, procedant summarie, nt petitur, et jus, ete. ». Arch, Vat., Monterentit Cam., Avm. 36, tom. LV, fol. 550, KI b - #, ” re, . CAPITOLO X 171 » nel terreno assegnato dal fattore, anche coll’autorizzazione di poter vendere il pane ed il vino; ma tutto ciò, sempre a beneplacito di Agostino del Nero, o dei suoi agenti. Il Giotti ripetè queste domande, e rinnovò tali suggestioni a varî abitanti del luogo, aggiungendo più e più volte, affinchè desistessoro dalla lite, e non movessero simili questioni contro il loro Padrone, dal quale, in seguito, avreb- bero potuto conseguire molto più, di quanto allora domandavano; al riflesso, diceva, che alcuni già avevano acconsentito, mentre invece dagli atti della causa, per gli esami cià avvenuti, risultò, poi, che alcuni lo avevano fatto per timore di incorrere in mali maggiori (1). Finalmente, mediante i servili uffici del Parroco di Porcigliano, tal don An- tonio Panasilico (2), fu potuto estorcere il seguente memoriale, seritto in forma scorrettissima, in data 5 giugno 1569, per tentar di provare, che la lite insorta, non si conduceva avanti per volontà o nell'interesse di tutti (3). Ill.mo sig. Padrone mio ossequiandissimo, « Li massari, huomini, vassalli fedelissimi, servitori di V. S. Illustrissima, « alla quale ricorrono, come fonte di misericordia, et benigno signore, et pa- « drone, al quale, per amor di Dio, le siamo raccomandati (sic) per misericordia « et per elemosina, et non per giustizia, per essere molti poveri infermi et in « luogo molto pestifero, et sospetto d’infedeli (4), quale gran concessione et ele- « mosine, sia per amor di Dio, delle cose sottoscritte per tanto tempo volontà « et arbitrio, come a V. S. Ill.ma sarà grato et piacere di concederli tal gratia <« et elemosina, non per la consuetudine passata habbino raggione, nè tampoco « giustizia, ma conoscendo che SS. Ill.ma sia signore et padrone di tutti huo- « mini et beni del luogo, et il quale si concede da V. S. Ill.ma se riceve per « benignità misericordia et elemosina di S. Signoria IIustrissima, nonchè la giu- « stizia così dovessero, volesse, quanto delle sottoscritte domande, come del- « l’altro, ma si adimanda per gratia e per amor di Dio per tanto tempo et be- « neplacito et in luogo ove piacerà a S. Signoria Ill,ma et commodo, oltre si (1) Ibi pag. 549, Li (2) A.endas Dom. Antonius Panasilicus de Giffone Acerrensis Dioecesis, rector Ecclesiae S. Mariae Castri Porcigliani, eto. Acta Gasparis Raidetti, 25 feb, ann, 1568, Arch. di Stato, Roma. . ‘ (3) Arch. Vatic, Arm. 36, tom. TV. 549. (4) Si allude alle incursioni dei Corsari, ge 172 CAPITOLO X + < riceverà da tutti poveri vassalli, et ‘per gratia concessa et per amor di Dio « anco non si mancarà di pregar la sua somma misericordia per la salute, di < S. Signoria Illma, la quale Cristo N. S. mantenghi felice et in maggiore stato < come desidera. «I. Im primis si adimanda da sementar i luoghi convenienti, dove a $. Si- « gnoria Ill.ma piacerà, et li sarà comodo giuntamente (sic), col pascolo per li < bovi, quali fanno maese per tutto l’anno, acciò si possano mantenere secondo < la quantità de bovi, acciò anche dove si fa la recoltura, sia il commodo pa- « sculo a beneplacito di S. Signoria Illma. « II. Si domanda per amor di Dio per il pascolo delle bestie da soma, et «da basto, essendo per grato la Banditella, o dove a V. S. Illma piacerà, et « per tanto tempo et commodo gli sarà a grato. « III. Si domanda la legna, per amor di Dio, secondo si è raggionato con « il Magn.° Maestro Mattheo di una soma il dì, per portar a Roma per posser (sic) « vivere in alcune case di Roma con quella comodità, et quelle possano cavar « secondo il comodo si trovaranno, et tutto insieme secondo tempo e comodi « di 30 some il mese, più o meno, et tanto tempo che S. Signoria piacerà. « IV. Item essendo stata gran tempo la Banditella goduta dalla Comunità, «ingiustamente, quantunque sian posti li frutti in benefitio della Comunit), « voglia per amor di Dio, quello da detta Banditella, sì com'era, alli anni futuri « resti per benefitio della Comunità, come sia da accomodar fonti, forno, mu- « raglie, et guardia alla marina, per esser detti vassalli molto poveri, a bene- « placito, comodo et tempo che a S. Signoria Ill.ma piacerà, come già l’altri « padroni per il passato han concesso per misericordia. « V. Item si domanda gratia, che detti vassalli ricogliendo vino grano et altro, « lo possono distribuir in grosso o minuto, come sia in Roma, o nel Castello di « Porcigliano: occiò si possano aiutare alle loro occorrenza alli tempi di necessità. « VI, Item si dimanda gratia et misericordia delle chiuse, a ciò havendo < altro bestiame, levando bufali, le possano tenere altro bestiame in dette chiuse, «a ciò non dannino ad altri, dove hanno quelle da basto, con patto che non « possano vendere, nè farne altra mercantia. « VII. Si dimanda gratia se alcuno avesse bestiame grosso, levando bufali, « delli quali non si raggiona, ma delli altri, se ne addimanda misericordia per «l'amor di Dio, che da 12 anni in giù possano pascolare in Dogana, in quei « luoghi et tempo, che a S. Signoria Ill.:ma piacerà et sarà grato, È N DI pr Lf Velo . Ù CAPITOLO X 173 -« VIII, Si dimanda, per gratia et misericordia, et per amor di Dio, che « s'alcuna persona cascasse ammalata, tanto piccioli quanto grandi, possano an- « dor o menar a Roma per lor governo, per insin che saranno sani et guariti, per « esser detto luogo distante da Roma, di molto incomodo di medici et spetiali, « et altri, delle qual cose non sono meritevoli per giustizia et consuetudine (sic), « ma si ricevono dette gratie per misericordia et limosina di V. Signoria Ill.ma. « Presenti a questa supplica, et assentienti, per conseglio fatto nel palazzo « solito della Giustizia, avanti il sig. Vicario Messer Francesco Broncone, et te- « stibus Gentile Retale, Berardo Massari, Martin Ponzano, Sante de Luca, Savo « Corso, Filippo Columbeta, Cesare di Figliara, Donato Soldatino, Giacomo Bal- « dini, Alessandro Colon, Gasparo di Pietro, Jacopo Lombardo, Camillo di Nera, « Giaco Pistolese, Bernardo Bamaleo, Gio. Paulo Schiavone, Agostin di Civita e di Chieti, Bernardo Trasatto, Perusino Alessio di Donnalucia, Attilio de Cesi, « Bertocordo Comodo, magnifico Maestro Francesco alias Copula, et ego Anto- « nius Panasilicus de mandato praedicta rogavi coram et praesentibus testibus « manu propria. « Il signore havendo visto et considerato le sopradette domande, volendo « far gratia, et gratificarsi acciò loro, come buon vassalli, s’ inanimiscano a viver « da buoni cristiani, quel che per l’addieiro non han fatto se .fa, 1’ infrascritto « presente a suo beneplacito. La prima, si concede licentia di poter tenere <« quattro bovi per foco, per fare il lavorerio in detto terreno, li quali possano « pascolar nei luoghi, che dal medesimo Vicario li sarà assegnato. « IT. Si fa gratia di poter pascolare le dette bestie nelli medesimi luoghi. « III. Per foco se li concede poter cavar una soma di legna al fuoco, come « ne la domanda si contiene. « IV. Per giusta et raggionevole in tutto si concede. « V. Se gli concede, ma che abbino la licentia, in scriptis dal med. Vicario. « VI. Se li responde, che si osservi il bando, et che le chiuse si arrol- « lino (sic). - « VII. Si da licentia per bestie sopradette, et non per altro senza pagar « il fitto. il « VIII. Si concede quel che domandano, pigliando fede del male dal nostro « Vicario, et lassando in casa per difensione del nostro castello, un’ huomo. « Sigismundus Jottus de mandato, etc. « Illustris. et P.ne Osserv. Havendosi ricevuta gratia et memoria delle cose 174 CAPITOLO X « dimandate, secondo il tenor et dimanda nelle cose sopradette, et conoscendo < esser immeritevoli di tanta gratia di elemosina infinita concessa, assai restano « contenti et soddisfatti, et massime essendosi ricevuto più di quel, che nostro « desiderio desiderava (sic) già si è cesso, e*si cede per la benignità. < Seguono le dichiarazioni di fedeltà e di vassallaggio. « Di Porcigliano il dì 5 giugno 1569. « Di V. S. Illma Schiavi fedelissimi et vassalli li Massari, Comunità sopra- « detta di Porcigliano. « Ego Ant. Cortesius de Firmo publ. et imp. auct. notarius omnia et singula « scribere feci, per dom. Johann. Baptam. Mirtellum de Firmo, etc. « Locus Signi (1). In seguito, poichè si persisteva nel commettere maggiori angherie e mag- giori sorprusi, che ogni giorno più si aggravavano, gli abitanti di Porcigliano ricorsero nuovamente al Pontefice, il quale in una riunione’ generale del tribu- nale della Segnatura, comandò che si deferisse la questione relativa al poveri particolari ed alla Communità sopradetta. : Intanto, nell’anno 1583, era stato fatto al Commissario della R. C. A. il seguente ricorso: « Ecc.mo sig. Padrone Osserv. « Li uomini di Porcigliano in ricompensa di star soggetti all’aere ‘contagioso < et all’incursione dei Pirati, da immemorabile tempo fa hanno avuto i lori pri- « vilegi confirmati dal Cardinal di Siena Commendatario l’anno 1469, e dopo «renovati et aggiunti dal Cardinal Colonna, di quel tempo, et registrati nel « volume di Statuti di detto luogo, attualmente occupato dal sig. Nero Neri, e « dal Mag.co Giov. Battista Altoviti, affittuario, e Governatore di detto castello « di che però, se ne ha copia. « Fra i quali privilegi si dà facultà di legnare et portar. via per ciascun < vassallo tre some di ligna al giorno, che importano almeno per ogni vassallo « scudi 6 il che fanno l’anno scudi 72. « E di pascere e ritenere in detto tenimento dodeci bestie grosse aratorie et « per seminare et condurre carrozze (sic) che importano l’anno per uno seudi 24. (1) Arch. Vat., Monterentii Cam., Arm. XXXVI, tom. 4, pag. 570 t. CAPITOLO X 175 __« E di pascere 50 capre per ciascuno che vale ogni anno seudi X per uno. « Et per vigore di detti statuti e privilegi hanno facoltà di seminare nelle « tenute e tonimento fertile di detto Castello, con la resposta della sesta parte al « Signore nell’ara, ma da quattro anni qua sono stati proibiti di seminare che « gli importa scudi..... Di più hanno una tenuta detta la Banditella della Co- « munità, che hoggi la possedono in quanto all’herba, ma la foglia che si ven- * dea ogni anno scudi 50, che si prendeano ad uso e necessità loro in comune, « lì detti adversarii gli l'hanno de fatto tolta scudi..... « E gli hanno anco levati certi terreni, dette le chiuse, incorporate colle lor e vigne, di che i poverelli ne havevano qualche po’ di legna e pascolo di valore « di scudi..... « Quali tutte e singole cose sempre l’hanno pacificamente godute da cento « anni in quà, et anco dopo che la R. €. l’'hebbe venduta al Commendatario di « S. Spirito, anzi lo spatio di doi anni, poi che il q. Sig. Agostino Del Nero «lo comprò da S. Spirito, dall’hora in quà ne sono stati spogliati, dopochè il « Sig. Gio: Batt. Altovito, pigliò detto affitto non bastandogli di cavar di detto « Castello tanta entrata ogni anno, che tengono i lor denaro più che a dodici « per cento. « Hora che dopo longa lite per spatio di un anno i poveri huomini non » hanno potuto manco ottenere che gli siano ammessi gli articoli, sebben d’or- « dine di Nostro Signore, riferito in piena Camera da V. S. R.ma, fusse che si <« admettessero i detti adversarii hanno messo ne i ceppi i principali, che man- « tenevano detta lite, et dopo lunga tortura prigionia et stratii, trovatosi però « innocenti dalle calunniose imputationi, che se li davano da detti adversarii, « essendosene il loro Massaro morto, poco di poi che se ne uscì di prigione sono « risoluti quei pochi, che vi sono rimasti spatriare, havendo dato memoriale a « Nostro Signore, che gli costrenga a pagare il prezzo delle loro robbe, per quel < che saranno stimate, insieme al valore dei danni patiti, conforme al conto so- < pra espresso, poi di dette loro ragionìi, che importano ogni anno d’entrata da « ..... scudi come sopra si vede, ne fanno libero dono alla Reverenda Camera, «ovvero a chi più piacerà alla Santità di Nostro Signore. « (A tergo). Al Molto Mag.co et Eccell. Sig. Padrone osservand. Il Sig. Com» « missario della R. C. A. Per li huomini di Porcilliano (1). (1) Art. Vat., Arm. XXXVI, Tom. IV., pag. 501. 176 CAPITOLO X In seguito ottenuta l'assoluzione da giuramento di fedeltà, nell’anno 1579, e nel giorno 11 decembre, la causa fu proposta avanti la Camera Apostolica fra la Comunità, per mezzo del suo procuratore, ed il Barone Del Nero, rappresen- tato anch’esso dal suo procuratore si domandò che fosse sostituito al De Matteis, un altro Giudice, che proseguisse la causa sugli usi civici, secondo il diritto, e l’in- tenzione che aveva manifestato il Pontefice, come risulta dagli atti, conforme il decreto della Camera suddetta, e perciò fu nominato il rev. De Cesis. Infatti, innanzi al sopraddetto, furono affermati tutti i diritti al Comune, e rinnovata la domanda giudiziale. Prodotti gli atti, e più ancora, presentati i testimoni, a provare tutti i gravami sopra espressi, gl’ impedimenti interposti al godimento degli usi civici, la spoliazione compiuta, s’insistè per l’ammissione della prova, con esamo testimoniale. Gli avversari produssero la pretesa dichiarazione di cessazione della lite, ossia una transazione simulata, per far cessare gli atti, e la decisione della causa che già riferimmo superiormente. Da ciò sorse il dubbio, se il sopraddetto atto impedisse alla Comunità di proseguire il corso della causa. Ma la pretesa dichiarazione, ‘e tutto ciò che da essa ne conseguì, fu estorto da due persone particolari, senza che ne avessero un mandato esplicito, per decreto della Ca- mera Apostolica, e senza le dovute solennità, che si richiedevano, come neces- sarissime, nella rinuncia emessa per i diritti della Università degli agricoltori. Anzi l’atto stesso fu compiuto alla chetichella, e non già in un pubblico e ge- nerale Comizio, nè per parte della Università agraria, e neppure in Roma, avanti al Giudice, presso cui discutevasi la causa, nè avanti il consesso della Camera Apostolica, alla quale il Pontefice aveva chiesto nuove della causa stessa. Invece tutto si fece nello interno del Castello, sotto il dominio dell’ im- pressione prodotta dagli avversari, dal proprietario e dai suoi ‘officiali, con mezzi indiretti, per via di minaccie, di false promesse, di premi, e mediante una dichiarazione scritta, con frasi affettuosissime, anzi insolite, che mascheravano l'inganno e la frode, e, quello che è peggio anche l’enormissima lesione (1). Tale conclusione fu proposta dal Procuratore Antonio Marassi, che rappre- sentava la Comunità e gli uomini del Castello di Porcigliano, come risulta dagli atti; e contro di essa si oppose Rainerio Tonti, procuratore di Agostino del Nero, e dei suoi ministri. (1) Ibi, a pag. 549, CAPITOLO X 177 La causa fu discussa, come dicemmo, nel giorno 11 dicembre 1579, avanti il R.mo Giudice della Camera Apostolica De Cesis. Nelle memorie trascritte, rinvenimmo altresì l’àtto di procura, stipolato nei giorni 16, e 13 ottobre, dell’anno 1579, avanti il notaio Vello de Vellis, col quale furono nominati procuratori Antonio Marassi, Giulio della Morea e Filippo Orso, e tutti gli intervenuti promisero e convennero « di stare a quello di bene et male che si farà col Signore di Porcilliano, et di contribuire ognuno alle spese, che occorreranno fare, per utile et comodo di esso huomini et vassalli ». E questa obbligazione fu assunta in solidum specialmente per la causa, che avevano mossa di loro volontà contro il Signore del Castello di Porcilliano (1). Crediamo necessario, per illustrare sempre più una candizione di cose, tanto degna di considerazione, di riportare integralmente una informazione spedita al Pontefice Gregorio XIII, dalla quale gli studiosi della storia della Campagna Romana, potranno rilevare, come anche in quei tempi, l’intrigo negli affari pubblici e la mala fede per. l'’amministrazione dei beni, che spettavano alle Opere Pie, non fosse dissimile a ciò che purtroppo deploriamo anche nei nostri giorni. « Santissimo Padre, .« Ii Procuratore ed il Provveditore del Collegio Germanico, andorno coll’or- « dine della S. V. dal sig. Commissario, e li diedero ragguaglio della lesione fat- « tasi alla Chiesa, nella alienatione de” Casali di Porciliano, che già erano del. « l’abbatia de S. Sabba; et loro fu risposto accortamente, che tal lesione non « apparteneva a quel Collegio, ma all’Hospedale de S. Spirito, quale alienò quelli « beni, dopo averli comprati per scudi 100 mila dalla Camera Apostolica, alla « quale furono. applicati, et dismembrati da S. Sabba, dalla b. m. di Pio IV. « Ma perchè l’Hospedale di poi gli vendete (sic) per altri 100 scudi, si rappre- « senta tuttavia alla S. V. che la predetta et original lesione, è stata fatta alla « Camera Apostolica. « Per il che si giudica sarà servigio di Dio, sig. N., et della S. V., raggua- « gliarla particolarmente, poichè con questa occasione potrebbe V. R. non solo « assicurare le coscienze di coloro, che comprorno detti beni, ma restituirli alla « Chiesa, in comune è fine di stabilire qualcuno di questi altri collegi, tanto (1) Ibi, a pag. 562. 12 * 178 CAPITOLO X « utili e necessari alla Cristianità. A quali perchè la cosa è odiosa non sta bene ». (2) « ..... ita în horreis et foveis recondunt, ac conclusa sopprimunt, ut quam Dei be- nignitas aliquando populis fertilitatem anni concedit, ipsi avare et sordide perturbare et vitiare non erubescunt..... >». CAPITOLO XI 213 N Pontefice soggiungeva, che alcuni per meglio potere eludere le disposi- zioni, contenute nella Constituzione della fel. mem. di Gregorio XIII, e dei Pon- tefici predecessori, che avevano inflitto pene severe ai contravventori, preso pre- testo dalla devastazione avvenuta di alcune saline — per la quale i ministri dello Stato, a ciò delegati, erano stati costretti a provvedere sale dall'estero per fornirne i sudditi a sufficienza — avessero comprato essi pure direttamente altro sale, fuori dello Stato, allo scopo di rivenderlo, con patente contravvenzione, e con danno grave della Camera Apostolica. Clemente VIII volendo svellere il male fin dalle radici dopo aver piuttosto con benevolenza che con severità procurato indarno di contenere lo sdegno suo, e la severità delle leggi e dei magistrati, senza che la giustizia avesse avuto pieno corso con le debite pene per costringere i contravventori all'osservanza delle leggi, volle con questa sua Costituzione, da vigere in perpetuo, approvare. di sua certa scienza tutte le singole Costituzioni, pubblicate da Gregorio XIII, Pio V, Clemente VII e dagli altri Pontefici romani, e le volle confermare cor questo suo atto, come se vi fossero inserite parola per parola. E lo fece bandire, perchè in ogni tempo fosse conservata e mantenuta l’Annona, fosse proibita l'esportazione del grano, delle biade, dei legumi e di qualsiasi specie di comme- stibili, e fosse impedito il mercato del sale comprato all'Estero (1). Confermò al- tresì la pena dell’espropriazione dei feudi, e della confisca di tutti i beni, per ciò che «i riferiva ai Baroni, e loro figli (2). Per quanto poi riguardava coloro che facevano commercio di grano, se avessero contravvenuto a quanto era stato co- mandato, sarebbero incorsi nella perdita del frumento, delle biade, del sale, degli animali adibiti al trasporto, nonchè alla pena di scudi 5 per ciascuna salma di grano, e di due scudi per ciascun capo di bestiame, confiscandosi insieme tutto ciò che fosse contenuto nel carieo dei generi, salvo però tutto quello del quale non trattava la presente Costituzione. Inoltre confermava, che tutti sarebbero ineorsi nella scomunica, comminata anche a chiunque comprasse il grano ed altro, in più di quello necessario per sè e per la propria famiglia, unendo a tutto ciò anche altre disposizioni. » (1) « ..... editis super manntentione Annonae, contra extrahentes frumenta, blada, le- gumina, et omnia alia cuinsvis generis commeatus ». (2) « ..... poenasque etiam privationis fendorum et confiscationis alioram quorumcumque bonorum, quond Domicellos et Barones », . ‘ n A — kid 214 CAPITOLO XI Tali cose il Pontefice proibiva a tutti indistintamente, ammonendo, che in caso contrario sarebbero incorsi nel suo sdegno e nelle pene sopradette, e di più, che i Baroni e i loro figli, i feudatari e tutti i sudditi, ancorchè rivestiti del titolo di Duchi, avrebbero perduto i loro feudi: sarebbero stati inoltre loro con- fiscati i beni ed altre cose qualsiansi. Per quanto poi si riferiva ad altre persone di qualsiasi stato, grado, ordine sociale e condizione, ferma la perdita del grano, delle biade, dei lesumi e degli animali, che avessero adibiti al trasporto in qua- lunque maniera, sarebbero incorsi altresì nella pena di scudi 5 per ogni salma di grano e di due scudi per ogni capo di bestiame, oltre la condanna a diecì anni di galera, per la prima volta, e se recidivi, all’estremo supplizio mediante il taglio della’ testa, ed all'immediata confisca di tutti i beni, senza necessità di altra clausola, per incorrere in simili pene (1). Volle poi che il grano, l'orzo, i legumi e qualsiasi altra specie di biade e di granaglie, come pure gli animali prodotti e mantenuti nei beni ecclesiastici, nelle terre e luoghi dello Stato della Chiesa, non fossero esportati, nè fatti espor- tare, nè fossero venduti a coloro che li avessero potuto condurre all’estero, senza una espressa licenza e permesso scritto di mano propria del Pontefice e suoi successori. Come altresì che nessuno ardisse di negoziare, ritenere, traspor- tare e vendere il sale, prodotto all’estero, entro i confini del dominio della Santa Sede. Stabiliva poi e decretava che neppure i Baroni, i Duchi e i loro figli, nè per mezzo di loro sudditi o per altra interposta persona, potessero comprare grano, biade o legumi, oltre il proprio bisogno e quello delle loro famiglie, per un anno solo, sotto la comminatoria delle pene sopradette, compresa quella della morte (2). La Costituzione terminava, deputando il Cardinale Camerlengo, ed il Prefetto dell’Annona, a sorvegliare e mantenere la rigorosa esecuzione di quanto vi era (1) « ..... quo vero ad alias privatas personas, cuiascumque status, gradus, ordinis et conditionis, ultra amissionem frumentorum, bladorum, legaminum et animalium illa quomo- dolibet deferentinm nec non quingne scutorum pro qualibet salma, et dnoram scentoram pro quolibet capite animalis, trireminm prima vice ad decenninm, ac deinde sub eapitis, sive extremi supplicii et confiscationis omnium bonorum ipso facto, et absqne alia. declaratione incurrendis poenis ». 4 (2) « Baronibus antem, Ducibns aut domicellis praedictis, ne ab corum subditis per se ipsos, vel per interpositam personam, frumenta, et blada vel lequmina, praeterguam pro suo, suarzmqQue familiaram, unins dumfawat anni usa eman!, sub jam dictis ommibus et etiam capitis poena statuimus atque decernimus », En CAPITOLO XI 215 stato disposto. Seguiva poi la solita clausola derogatoria (1). Tale Costituzione fu emanata dal palazzo di S. Marco. | Dopo pochi anni il Pontefice ravvisando come la incetta del grano e la esportazione di quello non potesse essere l’unica e vera causa delle frequenti e consuete penurie e carestie, e come poco o nulla avessero giovato i provvedi- menti dei Pontefici precedenti, i quali avevano rivolta la loro suprema autorità, soltanto a frenare la esportazione, riconobbe finalmente, che la vera precipua causa di cotanto male derivava dalla trascuranza e dall'abbandono in che era tenuta l'agricoltura nello Stato della Chiesa. Proprio in quel torno, il Pontefice era stato costretto a fare acquistare una grande quantità di grano dalla Sicilia. dalla Sardegna e dalla Spagna, e com- prendeva chiaramente egli stesso come ogni sno provvedimento contro la fame in Roma, dipendeva oramai dall’arbitrio dei venti, per i trasporti marittimi. Volendo quindi ovviare con più sicuri rimedi.n tanta jattura pubblica, papa Glomente VIII, nel giorno 4 decembre dell’anno 1600, bandì un’altra Costituzione, nella quela. permise agli agricoltori la estrazione del grano, soltanto a date con- dizioni, e prescrisse norme spcciali rispetto all'arte agraria. Considerò primieramente, come fosse suo primo dovere di far sì che la città di Roma, sede del Principe degli Apostoli, e patria comune di tutti i fedeli, ove convenivano le genti d’ogni nazione, fosse dotata di ogni comodità, ammettendo e riconoscendo invece che fino allora la città soffrisse non solo per la deficienza del grano, ma eziandio per la mancanza quasi assoluta dei prodotti più necessari, - quando, al contrario, la fertile eampagna dell’ Agro romano avrebbe potuto a ciò largamente bastare (2). Ciren le gravi difficoltà, per provvedere all’Annona, come da più anni avve- niva, e specialmente in quell’anno, in cui erasi tentato di rimediare con gravis- simo dispendio del Pontefice e della Camera Apostolica, dichiarava doversi però ravvisare, come tutto ciò provenisse non tanto dalla scarsa produzione, e dalle altre cause su espresse, quanto da colpa e da negligenza degli uomini. Difatti il Pontefice, aveva riconosciuto, che l’esercizio dell’agricoitura nel territorio della Città, nel distretto e nei luoghi finitimi erasi trascurato, 0, meglio, affatto abbandonato, mentre prima non solo producevasi il grano necessario alla (1) NicoLa1 N. Maria. Memorie, Leggi ed Osservazioni, etc, II, pag. 48. (2) «000. quando quidem illins agri ubertas id praestare potest...., », 216 CAPITOLO XI città, ma ne avanzava fino al punto da esportarne alle nazioni estere, con grande guadagno dei privati, e con vantaggio considerevole della Camera Apostolica (1). In quel tempo invece, essendo cessata la coltivazione (2), si era costretti com- prare all’Estero il grano a gran prezzo e con difficoltà ed aspettarne l’arrivo dalle vie del mare, il che spesso per la contrarietà dei venti dava a temere la fame, in danno di Roma, con grave disdoro, e con più grave pericolo della città. In conseguenza di ciò, volendo provvedere per quanto era possibile a ripri- stinare, e rinnovare la nobile e produttiva arte dell’agricoltura nell’Agro ro- mano (3) ed affinchè tutti i proprietari delle tenute, e tutti gii agricoltori fossero allettati a coltivare e seminare con speranza di guadagno, ad esempio e secondo i principî dei Papi predecessori Sisto IV, Giulio II, Clemente VII, Pio V ed altri, nella pienezza della sua scienza, e dell’apostolico potere, il Pontefice Cle- mente VIII volle confermare, e replicare le lettere patenti in favore dell’agrieol- tura, e della coltivazione, il cui:tenore dispose avesse ad esser identico a quelle lettere stesse, come se vi fossero state inserite parola per parola, perchè appunto meglio concordassero coll’attuale Costituzione, e meglio tendessero allo scopo per il quale furono emanate, di modo che i proprietari delle tenute e casali doves- sero disporne, senza essere costretti ad affittarli in tutto od in parte. Stabilì quindi ed ordinò, che tutti i cittadini, tanto i forastieri agricoltori, quanto i mercanti e coloni, che avessero coltivato, e fatta la sementa nei ter- reni propri od altrui, o nelle terre prese in affitto. nelle tenute, nelle possessioni e nei casali, siti ed esistenti nel territorio e distretto di Roma ed altresì nel Lazio, nelle Provincie di Campagna e Marittima; in ciascun anno, in cui il prezzo del grano, non superasse i 60 giulj, per ogni rubbio (lire 32.50), potessero ven- dere altrove la quarta parte del grano raccolto, dedotto però da quella quan- tità il seme, con facoltà di esportare il grano stesso così per mare, come per terra, eccettuati i luoghi abitati dagli infedeli o nemici della Chiesa. i Ciò doveva intendersi anche per la quota del raccolto, che i proprietari esi- gevano dai coltivatori come corrisposta, nel caso che le tenute fossero state (1) <..... non modo ipsi Urbi necessarium frumentum suppetebat, veram etiam ad externas nationes ingenti privatoram Inero, et non modico Camerae nostrae emolnmento transmittebatnr ». (AAA cultivatione cessante ..... ». s (3) < 0... et nobilem et fructuosam Agricultarae aviem in Agro romano restituere ac renovare cupientes... ». CAPITOLO XI 217 affittate con lo staglio a grano, purchè non eccedesse la quarta parte. Del pri- vilegio della esportazione non potevano usufruire coloro che avessero affittate le tenute in modo diverso (1). L'esportazione del grano doveva essero concessa per il mese di marzo, e non prima, in seguito a lettere patenti del Cardinale Camerlengo, e dopo che fosse stato pagato un tributo di giulj tre, per ciascun rubbio. Se però, per una circostanza qualsiasi, l’esportazione sopradetta non potesse concedersi, in tal caso la Camera Apostolica, avrebbe dovuto pagare agli agri. coltori, o proprietari delle tenute, quale compenso del divieto, la quota di giuli sei per ciascun rubbio, e ciò senza alcuna osservazione; a sola condizione però, che eglino dovessero trasportare a Roma, per la vendita, tutti i loro pro- dotti, salvo che avessero ottenuto di trasportarli altrove, sempre col patto di riportarli poi a Roma, e di dichiarare intanto la quantità del grano ed il luogo ove fosse stato riposto. £ Che tutti gli agricoltori e coloni fossero obbligati, dopo un mese dalla semina compiuta, a denunciare con atto del Notaio dell’Annona, la giusta superficie seminatà e la ubicazione, sotto pena di perdere qualsiasi beneficio concesso dalla Costituzione. Perchè poi fosse libero a tutti l'esercizio dell’agricoltura, ed il numero degli agricoltori e dei coltivatori non solo non diminuisse ma piuttosto aumentasse (2), il Pontefice stabilì ed ordinò, che i sudditi e vassalli di tutti i Baroni, Principi e loro figli, soggetti alla Chiesa, potessero lavorare, coltivare e seminare tutte le terre, fondi rustici, possessioni e tenute, poste eziandio lontano dai domini dei loro Signori, e ciò a loro piacere (3). (1) « ..... e/ hoc etiam intelligi rolumns de frumento, quod domini et locatores tenn- larum a condnctoribns receperint, et exigerint pro quota responsione; quatenns tamen dictas |, tenutas, terras et casalia ad quotam framenti ex his recolligendi, et non alias locaverint: dammodo tamen dicta quota quartam partem non excedat. Locatores vero, qui aliter, quam ad quotam terras locaverint, extractionis beneficio pro frumento per eos exigenda frni mi- nime possint..... ». (2) « ..... et nt agricolturae exercitinm omnibus liberam sit, et agricultorum et colo norum numeras non modo non diminnatur, sed potius aungeatur..... ». (3) « ..... sfatuimas et ordinamas quod omnes et singuli Baronum, Principum et domicellorum quorumenmque S. R. E. subiectoram subditi, et vassalli, quascumqne terras, praedia, possessiones et casalia, eis bene visa, etiam extra statum et territorinm eoraumdem dominoram per se, vel alios colere, laborare et seminare », 918 CAPITOLO XI Autorizzava poi gli stessi agricoltori, e coltivatori, a prestare la loro opera anche agli altri, per coltivare e seminare, ed affinchè potessero esercitare libera- mente l’arte dell’agricoltura, dava ad essi diritto di ottenere le terre, le posses- sioni e i casali — ossia tenute — per coltivarli e seminarli alle condizioni suespresse, e ad altre diverse (1). Ingiungeva poi a tutti. niuno eccettuato — etiamsi S. R. E. Cardinales fuerini —, di permettere che chiunque coltivasse le terre sccondo quanto il Pontefice aveva prescritto, ed in caso di ostacolo od impedimento, minacciava i contravventori della privazione e della perdita dei feudi, o degli Stati, oltre le pene, da inflizgersi ad arbitrio di esso Pontefice o suoi Successori (2). E così ugualmente, che non potessero neppure impedire, o vietare agli agricoltori e coloni di lavorare per conto altrui coi propri buoi ed animali, anche sotto specioso pretesto di privilegi, statuti; ordini, usi e consuetudini, eziandio antichissime, o di giuramento dei vassalli, che tutto od in parte, avesse ancora vigore nelle castella, città e terre soggette ai medesimi Baroni e Signori. ‘ Anzi a tale scopo il Pentefice abrogò ed annullò per ragioni di pubblica . utilità qualsiasi disposizione contraria (3), sciogliendo i vassalli da qualsiasi vin- colo di giuramento prestato all’uopo. i Disponeva pure, che si dovessero osservare i patti e le convenzioni, inter- ceduti fra i proprietari ed i vassalli, nella consegna ed assegnazione delle terre, . purchè fossero giusti, e reciprocamente convenienti e senza clausole onerose; quali documenti i proprietari dovevano esser obbligati a presentare alla Camera Apostolica, entro lo spazio di un mese dalla presente Costituzione (4). (hrc dictasgne ferras, possessiones, ct casalia ad efectum colendi et seminanti ad guotam, ut supra, sen alias conducere, et în cis anfeni ii). castuae exercere libere gt licite valeant. , (2) « Nullusque cw diclis buronibusy dymicellis, e! alii corum vassallos, sublitos e! colonos, gnavis causa directe vel indi > per se vel alios, sub amissionis et privationis fendorum et Statuum, aliîsque nostro et Successoram nostrorum arbitrio infligendis poenis aundeat vel presumat cogere, impedire vel prohibere, etc. >». (3) « ..... quae omnia tanquam contra publicam utilitatem inducta tollimns ...+0. 8. (4) « Conventiones antem et pacta quae inter ipsos dominos et vassallos, in consigna- fione, sen assegnatione terrarum interesserant, dammodo justa sint, et reciproca, et ex cansa vere onerosa, quae ipsi domini in Camera Apostolica deducere, et exhibere teneantar infra mensem a die publicationis praesentiam, observari debeant », CAPITOLO XI 219 Ordinava poi ai Baroni e Signori di esibire al Cardinale Camerlengo tutti gli Lditti, Bandi, Ordini emanati da essi, che si riferissero all’ Annona ed all’agri- coltura, aggiungendo il divieto' espresso che in seguito eglino potessero più farne, sotto pena di nullità. Stabiliva, che i Chierici potessero esercitare l’arte dell'agricoltura nelle tenute proprie, che non conducevano per proprio conto, e potessero coltivarl» o direttamente, o farle coltivare da altri; senza che per ciò la Camera Apo- stolica od i suoi Ministri potessero obbiettare in contrario od imputarli di aver compiuto atti di commercio illecito, nè che per ciò fossero soggetti essi od i loro' eredi ad alcuna azione di espropriazione, secondo le leggi canoniche, poichè il Pontefice dichiarava che l’esercizio dell’arte agricola fosse lecito anche agli stessi Chierici nelle loro tenute (1). Siccome poi l’arte dell’ agricoltura era stata negletta ed era caduta in disuso (2), onde ‘mancavano i buoi, sommamente necessari alla coltivazione, così perchè se ne aumentasse e s’accrescesse il numero sollecitamente, il Ponte- fice voleva e comandava, che chiunque possedesse mandrie di vacche dovesse allevare, o fare allevare la terza parte dei vitelli, nati nei mesi di marzo, aprile o maggio di ciascun anno, tanto se maschi o femmine, in eguale porzione. Ordinava ai macellai, che non potessero uccidere i giovenchi ed i buoi aratorj, tuttora atti al lavoro, e neppure le vacche, se non quelle vecchie e da scarto, le quali fin d’allora, già si nomavano le Caccsatore (3). Che se alcuno avesse trasgredito a tali ordini, sarebbe stato soggetto alla perdita delle bestie comprate, o del loro prezzo, oltre le pene da infliggersi ad arbilrio del Cardi- nale Camerlengo e del Prefetto dell’Annona. Se poi i macellai avesssero acquistato dei buoi vecchi, ritenendoli non atti al lavoro, e tuttavia se alcuno pensasse altrimenti, e volesse adibirli all’aratro, fosse in facoltà di chiunque lo acquistarli, ed i macellai dovessero cederli allo stesso prezzo per cui li avevano comprati. I Doganieri non dovevano riscuotere la gabella nè per i buoi, nè per le vacche sopradette, sotto la pena di rifornirne il pagamento, e di altre pene ad arbitrio, come sopra si disse. (1) « ..... declarantes dictam artem agriculturae etiam ipsis Clericis in eorum casa- libns licitam et permissam. (2) « ..... propter artis Agriculturae prabfatae intermissionem et desuetadinem ..,.. ». (3) « ..... guas valgo Cacciatore nuncupantur », 220 CAPITOLO XI Vietava poi altresì l'esportazione dei buoi e dei giovenchi, anche di quelli bufalini, fuori del territorio e distretto di Rcma, salvo speciale licenza ottenuti tane, e sotto la pena della perdita del bestiame in qualunque occasione. Volle che nessun giudicato e nessun giudice, avessero potuto contraddire simili dispo- sizioni. Concludeva, dando esplicito ordine al Cardinale Camerlengo ed al Prefetto dell’Annona, perchè fosse vigilata la esatta esecuzione della Costituzione sopra- detta, che fu bandita nei soliti luoghi, e specialmente a Campo di Fiori (1). Il chiarissimo Minetti Pietro, avvocato Concistoriale, commentando tale documento, conchiude: « Tanto ci volle per liberare l'agricoltura oppressa dalla prepotenza dei Signori, e quasi schiacciata! » (2). In quel tempo il Cardinale Camerlengo, Pietro Aldobrandino, del titolo di S. Nicola in Carcere, bandiva un Editto nel giorno 21 decembre dell’anno 1599, contro le fraudi che si*commettevano dagli affidati nelle Dogane dei pascoli. Infatti per consueta ed inveterata malizia molti padroni e pastori dei bestiami, riuscivano a trasferire gli animali da una tenuta all’altra, nel giorno stesso in cui i Contatori ne verificavano il numero, riconducevano il bestiame stesso nelle tenute, ove abitualmente pascolava, appena i Contatori avevano sbrigato il loro compito. Dal Bando sopracitato, rileviamo come la numerazione dei bestiami avve- nisse dal primo di gennaio al 20 di febbraio di ciascun anno; e con ciò le fraudì si rendevano anco più facili, in quanto tutti coloro che volevano defrau- dare l’appaltatore della Dogana, potevano riuscire nel loro intento, profittando di tale larghezza di termini. Ad evitare quindi le continue frodi, il Cardinale Camerlenzo comminava col suo Bando la pena di venticinque bajocchi per ciascuna bestia minuta, e di uno scudo per qualsiasi bestia crossa che fosse stata tra- slocata da una tenuta all’altra, senza la debita licenza, durante il periodo della numerazione del bestiame. Tutto ciò che si sarebbe ritratto dalle penali sopra specificate, doveva essere ripartito, per una metà a favore della Camera Apostolica e per l’altra (1) NrcoLar N. M. Memorie, leggi, ete., tom. II, 50, n. 9. (2) « Tantae molis erat, potentinm vi detentam, ac pene obrutam extricare agrical. taram! ». MineTTI PeTRUS, Disserfatio, ete., pag. 55, CAPITOLO XI 221 metà fra l’esecutore e l'accubatore, garantendo a quest'ultimo che ne sarebbe stato conservato il segreto (1). Ai provvedimonti di Clemente VIII, seguirono le provvide cure del Pontefice Paolo V, che successe a Leone XI, vissuto pochi giorni nel Pontificato. Nel principio del suo regno, anche lapa Paolo V pensò, che i disordini delle carestie, avessero origine dalle incettazioni ed esportazioni del grano; e per evitarle fece pubblicare un Bando, col quale proibiva, che niuno, prima dei raccolti, potesse accaparrare il grano, e vietando tutti i segreti trasporti del frumento, che si compievano lungo le spiaggie del Mediterraneo, inibiva eziandio, che le barche vuote, sotio pretesto di pesca, si appressassero alla riva. Ma poco dopo il Pontefice riconobbe, come tutto ciò non fosse la sola ed unica causa della penuria pubblica; imperocchè, ad onta di tutte le vigilanze e precaùzioni usate da Papa Clemente, suo Predecessore, dovè constatare essere molto trascurata l'agricoltura nelle campagne, tanto che l’Agro Cornetano, il quale prima costituiva uno dei granai di Roma (2) di quel tempo, invece restava assolutamente incolto ed adibito soltanto a pascolo di animali. In conseguenza, ritenendo indispensabile di far rifiorire l'agricoltura, volle instituire una Commissione di Prelati (3), coll’incarico di esaminare e riformare gli Statuti dell'agricoltura nell’Agro Cornetano, e di dettarne anche dei nuovi se fosse apparso opportuno. Il che fu eseguito, dopo maturo ed esatto studio, inteso anche il parere dei primi agricoltori di quei luoghi, insieme a quello di alcuni deputati della città di Corneto, che, tutti uniti, dopo una matura discussione, compilarono i seguenti Statuti, poscia approvati da Papa Paolo V, con sua Costituzione pubbli- cata il giorno 8 ottobre dell’anno 1608, che, per l'osservanza ebbe vigore di legge. Gli Statuti consideravano primieramente che la Comunità di Corneto non doveva essere privata delle sue entrate, e specialmente di quella proveniente dagli affitti delle erbe, tanto sulla destra, che sulla sinistra del fiume Marta, secondo la consuetudine, e stabilivano le norme seguenti: Tutti gli acquirenti dei pascoli a norma degli Statuti, non dovevano tenere nè affidare le pecore dei forastieri per qualsiasi ragione o pretesto; e ciò sotto " (1) Append., docum. XII. (2) « ..... qui prius horreum Urbis existere ..... », (3) « ..... nonnallorum Prelatorum Congregationem elegimns ..... ». 229 CAPITOLO XÎ pena della confisca delle pecore stesse e di scudi 300 di multa a chi avesse dato ir affitto il pascolo, e di scudi 100 a chi lo avesse acquistato. Il Prefetto dell’Annona doveva prescrivere il giuramento, nella forma che egli stabilisse, da darsi dai proprietari dei pascoli, prima che le pecore vi entrassero. Niuno poteva rivendere i pascoli già usufruiti, neppure agli altri acquirenti , del territorio, nè poteva affidarvi bestiami di sorta alcuna, sotto le pene della perdita del bestiame e di scudi 300 al compratore, e di scudi 500 al ven- ditore. Le pecore non potevano pascere nei luoghi sopradetti prima del 29 di set- tembre, e dovevano uscire dai prati al primo di marzo di ciascun anno, e dal rimanente del territorio Cornetano il giorno 8 di maggio, ovvero dopo 15 giorni, setondo come avverrà la stagione, e udito il parere del Prefetto dell’ Annona. Nei pascoli situati sulla destra della via Aurelia non si poteva entrare coi bestiami prima del 15 ottobre, e in quelli sulla sinistra, non prima del 30 no- vembre di ogni anno. x E, poichè in quel tempo pendeva una lite per il diritto del pascolo sulla tenuta di Pantano fra Alessandro degl'Atti, che ne era proprietario e la Comu- nità di Corneto, fu stabilito che in tutta la pianura non si conducessero a pa- scere oltre 6000 pecore. Che se la causa fosse stata decisa in favore di Ales- sandro degl’Atti, il numero delle pecore depascenti doveva essere ridotto in proporzione della superficie della tenuta. Furono anche prefisse varie norme per il godimento dei pascoli, affinchè nessuno si permettesse di trasgredire quanto erasi deciso in proposito. Era lecito di far pascere con le pecore soltanto cinque cavalle per « mas- seria ». E con le pecore potevano altresì pascolare i buoi aratorj, ed una bestia da soma. I giovenchi, di 30 mesi, potevano pascere nell'intero territorio di Corneto eccetto che nei piani. Erano esclusi dal pascolo i suini e gli animali bufalini, per i quali si doveva ottenere uno speciale permesso dal Prefetto dell’Annona, nel caso fossero oc- corsi per uso del pubblico macello. Il bestiame grosso doveva pascere soltanto nelle tre grandi bandite: « Sel- vaccia », « Roccaccia » e « Ponton di forca di Palma ». Ciascun cittadino origi- nario di Corneto poteva immettere nel pascolo 100 vacche; gli abitanti tem- poranei la metà; i forastieri, ayenti abitazione e dimora nel Comune, 25. j ì Se CAPITOLO XI 223 A tutti era lecito sostituire le cavalle alle vacche nel pascolo, riducendone però il numero in guisa che ogni due cavalle corrispondessero a tre vacche. alla Una Commissione doveva fissare il numero e la quantità del bestinme che poteva pascolare nelle bandite, e all’occasione dovevasi ridurre per ciascun utente il numero, in proporzione della quantità complessiva del bestiame che avesse potuto essere accolto nei pascoli. L'Associazione degli utenti del pascolo, doveva pagare seudi 500 annui alla Comunità, mediante riparto della spesa fra gli utenti stessi, che dovevano essere moderati da un Presidente eletto. Le tenute di S. Pantaleo, al di là del fiume Marta, e quella di Monterozzi o Cocumoletti, confinante cui terreni ristretti, dovevano essere riservate esclusi- vamente ai buoi aratori che lavoravano nel territorio. L’inizio del pascolo era fissato per il 24 decembre di ogni anno e don prima. Z'utti potevano fur pascere gratuitamente i loro buoi, per ristorarii dalle fatiche sostenute per la semina. Nei terreni ristretti parimenti dovevano pascolare i soli buoi aratori, sai vi lavoravano, ed era concesso che vi pascessero anche 500 castrati, per la forni- tura del. macello; ma il pascolo di questi ultimi doveva aver luogo soltanto dopo raccolte le ulive. La tenuta di Ancarano, sulla quale il Comune di Corneto aveva il diritto di pascere e di seminare, era esclusa dall'uso pubblico e doveva essere affittata alle condizioni migliori, perchè si potesse provvedere alla estinzione dei debiti. Secondo quanto disponevano gli Statuti, a niuno era lecito di ristringere i terreni, recingendoli con fossati o siepi, in modo da impedire il pascolo ai buoi, ed in caso contrario erano comminate delle pene. Per disposizione statutaria, era permesso soltanto di poter chiudere con siepe od altrimenti, un piccolo appezzamento di terreno — due some di terra — per le necessarie chiudende dei bestiami. Non potevasi dar fuoco alle stoppie, se prima non fosse stato pubblicato il bando relativo. Tutti coloro che avessero immesso il bestiame grosso a pascolare nelle ban- dite e nei pascoli sopradetti, se cittadini originari ed abitanti di Corneto, «d avessero posseduto 100 vacche, erano obbligati a tenere sei aratri coi buoi in azione per le sementi; se abitanti temporanei, ed avessero avuto 50 vacche, dovevano far disporre tre aratri coi relativi bugi, per il lavoro; e finalmente, 294 CAPITOLO XI se forastieri, un aratro per ciascuno. In caso contrario, dovevano essere obbli- gati a pagare uno scudo per ciascuna bestia affidata, oltre la quota della fida, secondo il riparto. Anche i proprietari delle pecore, che acquisivano i pascoli dal Comune, erano tenuti a disporre un aratro coi buoi per ogni 400 pecore possedute, ed in caso contrario dovevano pagare al Comune un giulio — lire 0.53 — per ciascuna bestia (1). Riferiti integralmente i singoli capitoli degli Statuti per l’agricoltura, la Bolla di Papa Paolo V conclude col disporre che gli ordini ed i singoli articoli di quelli fossero validi ed avessero forza di legge (2) e che, per conseguenza, fos- sero da tutti rispettati, nella ferma fiducia che, rigorosamente osservati, l’arte dell'agricoltura sarebbe stata ristabilita e migliorata non soltanto nell’Agro Cor- netano, ma che l’esempio ne sarebbe stato imitato in tutte le regioni e cam- pagne circostanti a Roma (3). E perciò, il Pontefice nella coscienza della sua autorità, approvava lo Statuto sopradetto, affinchè avesse esecuzione e vigore in perpetuo, come fosse una legge (4). Volendo poi incoraggiare e promuovere l’arte agraria per quanto più era possibile, e riconoscendo come fosse sommamente indispensabile di procurare, che gli agricoltori potessero esitare i loro raccolti in ciascun anno, così il Pon- tefice, in conformità delle disposizioni, già emanate dai suoi Predecessori, accordò a tutti gli agricoltori, purchè, dall’epoca della raccolta fino al mese di marzo successivo, il prezzo del grano non eccedesse quello di giuli 60 — ossiano di L. 32.50 al rubbio — la libertà di esportare liberamente per terra o per mare tanto grano, quanto ne avessero impiegato come seme, nei lavori fatti per la coltivazione, pagando soltanto agli amministratori dell’Annona tre paoli per ciascun rubbio — L. 1.61 — ed ottenendone però speciale licenza dal Prefetto dell’Annona, durante il mese di marzo. Che se detta esportazione, o tratta, fosse stata ritardata, perchè il grano secondo i patti, dovesse essere portato in Roma, ovvero perchè si dovesse tenere in riserbo in luoghi fuori di (1) Append., docum, XIII. (2) « ..... capitala suprascripta valida semper fore, ac vim legis habere et obtinere >... ala (3) « ..... sed alios ad eamdem artem in caeteris locis Urbis Regionibus excolendam tali exemplo imitari >». (4) <« ..... et perpetnae firmitatis robar adjicimus ac vim legis habere ». * CAPITOLO XI 226 Roma, secondo la licenza avuta dal Prefetto suddetto, per poi trasportarlo nella Città, quando ne fosse sorta l’urgenza, in tali casi, la Camera Apostolica do. vesse essere obbligata a pagare sette paoli -- L. 2.76 al rubbio ai proprie- tari del grano (1). Fu anche disposto, che gli agricoltori, un mese dopo compiuti i lavori della semina, dovessero in ciascun anno denunciare al Prefetto dell’Annona la esatta superficie seminata, ed il luogo ove esistesse (2), altrimenti chi vi avesse con- travvenuto non avrebbe potuto usufruire dei privilegi concessi dalla presente Bolla. Il Pontefice, per tutelare vieppiù il buon andamento e la esecuzione di quanto egli aveva ordinato, ebbe pure a disporre che gli agricoltori, in tutto il tempo in cui si fossero trattenuti nel territorio di Corneto, non pòtessero essere molestati da alcuno per i loro debiti civili, nè aggravati di spese, così nella persona, come nelle cose loro (3). Lo stesso privilegio volle riservato a coloro che avessero debiti civili con tratti prima di cominciare ad esercitare l’agricoltura nel territorio di Corneto, e ciò fino a che non fosse compiuto un triennio dall'esercizio iniziatvne in quei luoghi. Fu fatta eccezione per coloro che avessero commesse truffe, o che pub- blicamente fossero riconosciuti nullatenenti, purchè tuttavia compissero i lavori agrari con due aratri soltanto (4). Fu disposto che i buoi aratori, gli strumenti rurali ed il grano destinato ad uso di seme, non potessero cadere sotto esecuzione, secondo quanto già aveva disposto il Pontefice S. Pio V (5). (1) «..... Quodque talis extractio quovis praetexta minimo impediri valeat, et quatenns Annonae Urbis necessitate cogente, vel sundente impediri contingant, Cameram nostram, ab eisdem Jnlios septem, pro quolibet rubro frumenti, at praefertar, extrahi concesso, et impe- ilito, resarciendum et solvendum teneri et obligatam esse volumus », ete. , (2) « ..... veram quantitatem et locum sementis ..... >» (3) « ..... guod ipsi pro quibusvis debitis ctiam quantumois privilegiatis extra Statum Fcclesiastienm per cos quomodolibet contractis realiter vel personaliter, qnamdiu praedictam Artem ibi exercnerint ibidemque permanserint, gravari vel molestari non possint ». (4) « ..... dummodo fraudolenti, vel pabblici decoctores non sint, et laborerium, saltem cum dnobus aratris conficiant ». (5) « ..... Boves aratorii, aliague instramenta omnia ad agricalturam necessaria, Juxta formam aliaram literarum apostolicaram fel, rec. Più Papae V, predecessoris nostri, alias editarum, ac etiam ea pars frumenti quae ad usum seminis pro qualitate loci fuerit necessaria et destinata, adeo eis privilegio!a et immunia semper maneant », etc. 15 226 | CAPITOLO XÈ ‘ La Bolla dichiarava immuni gli agricoltori, durante il tempo della sementa e della mietitura, perfino disponendo che non potessero essere carcerati per debiti civili. Ed affinchè cotanto saggi ordinamenti avessero la fedele osservanza ed una continua tutela, ne affidò la cura al Prefetto dell’Annona (1) conferendogli piena facoltà ed autorità di potere, a suo giudizio, punire i trasgressori, e rimuovere dall’ufficio anche gli ufficiali dell’Annona, come pure di fare osservare, di esplicare e di moderare, secondo le speciali circostanze, tutti i capitoli degli” Statuti sopra riferiti, nonchè di escludere tutto quello che ‘per il buon regola- mento dell’agricoltura non fosse ritenuto da lui buono espediente 2): Lo stesso Pontefice Paolo V, con altra sua Costituzione, del 23 dicembre dell’anno 1605, aveva già confermato la proibizione della esportazione del grano, secondo quanto avevano prescritto i Pontefici predecessori Pio V, Gregorio XIII e Clemente VIII. Per provvedere anche maggiormente alla pubblica Annona, la Congregazione omonima stabilì una tariffa di proporzione fra il prezzo del grano, ed il peso del pane da vendersi a Roma. Posta la base, che da un rubbio di grano del peso di 640 libbre (kg. 217) si formino 500 libbre — kg. 165.500 — di pane, fu quindi ordinato che, se il prezzo del urano fosse stato di cinque scudi — L.'26.87 — a rubbio, per un baiocco — L. 0.053 — si dovessero dare oncie 12 di pane — kg. 0.333 —. Se il prezzo del grano fosse stato di scudi 10 — L. 53.75 — e per un baiocco — L. 0.053 — se ne vendessero'oncie sei — kg. 0.156 — (3). Perchè poi l'agricoltura non mancasse dei mezzi necessari alla coltivazione della terra, il Card. Camerlengo Pietro Aldobrandini, emanò un Bando, nel giorno 12 settem. dell’anno 1611, col quale fece obbligo a tutti i proprietari delle masserie delle Vacche bianche di daro l'assegna di quante ne possedevano, con obbligo tassativo per tutti di far allevare ogni anno la quarta parte di tutti i vitelli nati, ò che potessero nascere, nei mesi di marzo, aprile o maggio di ciascun anno ; e chiunque fosse stato contravventore, avrebbe subìto la confisca di tutto il bestiame, e l’ammenda di scudi cinquecento. (1) « Magistram Jacobum Serram, Camerae nostrae. Apostolicae Clericum moder- nun ». (2) Arch. Vat., Arm. 37. tom. 32, fol. 407. Bolle e Bandi, serie III, ann. 1601-1626. (3) NicoLa N. M., 1. c. IT, pag. 53-57. } CAPITOLO XT 227 : Il Rando proibiva altresì a chiunque di comprare o vendere per uso dei hy macelli di, Roma, o di altro luogo, i buoi aratori tanto se atti ad arare, come se giovenchi ancora indomiti, e si comminavano pene gravi in caso d'inobe- dI dienza, fra le quali anche la fustigazione, ad arbitrio del Prefetto dell’Annona. È ..W’era anche ingiunto il divieto di esportare dal territorio e distretto di Roma “i buoi, aratori, e soltanto era lecito la compra -- vendita dei così detti Came- | ronî — camarri, buoi vecchi, che non erano più atti ad arare (1). 4 Il Pontefice, sempre nell'unico intento di provvedere alla pubblica Annona, volle sanzionare quanto sopra con un suo Motu proprio del giorno 19 ottobre dell’anno 1611; e detta disposizione non ebbe altro fine, se non quello di assi- / curare un sollievo generale ai poveri agricoltori. Papa Paolo V, premettendo che il suo ufficio di Pastore Sommo, lo ammo. niva a vigilare anche sulla conservazione dell’Annona e del vitto della Città di Roma, ove accorreva' giornalmente tanta moltitudine di gente, dichiarava di dover provvedere prima di tutto a che nell’Agro romano, e nei luoghi circon- vicini non si trascurasse l’arte dell’agricoltura. Deplorava che tutti i provvedimenti adottati dai Pontefici predecessori per colpa degli uomini si fossero resi inutili. | Di conseguenza Egli, quale padre di famiglia, volendo rimediare in tempo ai tanti inconvenienti, e destare gli agricoltori che dormivano — come si espresse il Pontefice — e desiderando che l'agricoltura fosse esercitata più largamente, e vi fosse più abbondanza di prodotti nello Stato della Chiesa, ove, per causa di ‘cattive stagioni ve ne fosse stata deficienza, intendeva che alcuni uomini saggi, a ciò delegati, rimediassero con solleciti provvedimenti. Instituiva perciò una Commissione di Prelati e di officiali e di altri uomini esperti nominandone a far parte il Tesoriere generale, il Prefetto dell’Annona, il Presidente della Gra- : scia, ed il Commissario generale della Camera Apostolica, e comprendendovi anche Gio. Batt. Costaguti di Genova, appartenente alla Corte Pontificia. | Il Pontefice volle che la Commissione si adunasse due volte al mese, per | trattare ed esaminare quanto meglio avesse giovato a far rifiorire l’agricoltura | —’—‘ea propagarla, dividendo, e rend.ndo lavorativi i terreni ed i pascoli, ed occu- —pandosi dello stato dell’Annona e della Grascia. dh (1) App. doc, XIV. 228 CAPITOLO XI La Commissione doveva poi riferire subito al Pontefice, perchè questi pu- tesse provvedere in proposito. Riconoscendo poi quanto fossero necessari i buoi aratori per la coltivazione dei campi, comandava a tutti, nessuno escluso, ancorchè fosse eminente per grado ecclesiastico o civile, che non dovessero comprare o vendere i buoi ara- tori, od atti al lavoro, quando anche non fossero domati, specialmente se fos- sero d’età inferiore a 10 anni, per consumo dei macelli di Roma e delle altre città o luoghi dello Stato della Chiesa, e tutto ciò sotto pena della perdita dei buoi e della multa di scudi cinquecento a beneficio deila Camera Apo- stolica. — Ingiungeva poi severamente ai macellai e beccai di non uccidere i buoi, che aravano o che fossero atti al lavoro, sotto la minaccia delle stesse pene, oltre quella della fustigazione, che doveva essere comminata ad arbitrio del Pre- fetto dell’ Annona. Comandava poi a tutti i mercanti ed a tutti quelli che possedevano man- drie di vacche bianche, che dovessero allevare ogni anno 25 giovenchi, per cia- scun centinaio di vacche, e ciò esclusivamente per i lavori dell’arte agricola. Al principio di ogni anno i mercanti dovevano dar l’assegna al Prefetto dell’Annona del vero numero di tali vacche da essi possedute, e ciò sotto l’am- menda di scudi cinquecento. All’effetto poi, che l’esercizio dell’arte dell’asricoltura si estendesse sg giormente, e si formasse un ingentissimo numero di agricoltori e di coltivatori, che non dovesse diminuire, il Pontefice approvava e confermava quanto già aveva concesso il Predecessore Clemente VIII. Voleva perciò che tutti i vassalli e sudditi dei Duchi, dei Baroni. dei Signori, dei Principi, ed anco dei Cardinali, o di altre persone di qualsiasi dignità, potessero andare a lavorare e coltivare i campi, dovunque ad essi meglio fosse piaciuto, anche coi loro buoi ed animali, senza che quelli stessi vassalli o sudditi fossero costretti a lavorare anche i ter- reni di tutti i Signori sopra indicati. Gli agenti, fattori o ministri dei proprie- tari non dovevano nè direttamente, nè indirettamente impedire agli agricoltori di poter lavorare, sotto la pena della confisca dei feudi, ed anche della scomu- nica maggiore, benchè godessero di qualsiasi beneficio. Il Pontefice poi confermava tutti i favori e privilegi, già concessi ai mer- canti di campagna, ed a tutti gli agricoltori, affinchè prendessero a cuore l’arte dell’agricoltura, e si occupassero della coltivazione dei campi. CAPITOLO XI 229 Tutti coloro che esercitavano l’arte agricola, e che avevano eseguita la sementa di grano, tanto nell’Agro romano, quanto altrove, sì nelle terre proprie, che in quelle altrui, erano autorizzati ad esportare in qualsiasi luogo la quinta parte del prodotto dell’anno in corso, eccettuata però la parte occorrente pet il seme; e tutto ciò alla sola condizione che, fino al 1° marzo di ciascun anno il prezzo del grano non oltrepassasse quello di giulj cinquantacinque al rubbio — L. 13.60 al quint. — Di tale concessione il Pontefice intendeva, che usufruissero soltanto coloro, che affittavano le tenute a sola corrisposta di grano, e sempre che non eccedesse la quinta parte del prodotto totale. Coloro poi che avessero dato in affitto le tenute a condizioni diverse, non potevano godere del beneficio dell’esportazione per la parte del grano che esi- gevano dagli affittuari. Il permesso per quanto sopra, doveva essere dato da una Commissione, a ciò delegata, ma non prima del mese di marzo dell’anno in corso. La esportazione era gravata del dazio di giulj cinque per ciascun rubbio — L. 2.687. — Che, se la eccessiva distanza dal mare, o dalle vie pubbliche, avesse reso difficile ai produttori la esportazione, in tal caso chiunque avesse già ottenuta la licenza della esportazione del grano, avrebbe potuto cederla ad altri, che potesse eseguirla, sempre alla condizione della tassa imposta. E se, per ragioni di penuria o di carestia, il Pontefice e suoi Successori, 0 la Camera Apostolica e il Prefetto dell'Annona, avessero creduto necessario di vietare la esportazione del grano, in tale evenienza, la Camera sarebbe stata tenuta a pagare agli agricoltori giulj sei per ciascun rubbio — L. 3.225 — e tutto ciò senza eccezione alcuna, ma al solo patto, che i sopradetti trasportas- sero a Roma tutto il grano che avessero, dando la denuncia della quantità, e del luogo ove lo avrebbero riposto. Il Pontefice, nel desiderio di provvedere ai bisogni degli agricoltori, e di tutti coloro, che s'erano dedicati all'arte agraria, affinchè eglino avessero aiuto e sovvenzione, e potessero meglio attendere all’arte suddetta, e procurarsi anche il denaro necessario con minore usura possibile, comandava col suo Motu pro- prio ai Provveditori del Sacro Monte di Pietà in Roma, che dovessero dare un prestito a ciascun agricoltore, fino alla somma di scudi mille — L. 5375 — ov- vero fino ad altra somma, che fosse ordinato dal Prefetto dell’Annona, a con- 230 CAPITOLO XI dizione che si dovesse pagare non più del due per cento ad anno d°’interesse, come già si pagava per consuetudine, e soltanto a compenso delle spese. Doveva però essere costituito un pegno conveniente e proporzionato, secondo le leggi e re- golamenti del Monte di Pietà. Il Prefetto dell’Annona, poi, prima di accordare il prestito avrebbe dovuto informarsi della importanza del lavoro agricolo da eseguitsi, e delle qualità mo- rali della persona, accordando siffatti mutui agrari di favore. nei tempi più op- portuni per l’uso e l’impiego del denaro. La Commissione per l’Annona veniva anzi autorizzata ad aumentare il pre- stito per i lavori agricoli suddetti fino alla somma di scudi duemila — L. 10,750 — sempre però tenuto conto delle qualità morali dell’agricoltore, e della impor- tanza della sementa (1). i Papa Paolo V volendo premunire Roma dalle penurie, che tanto spesso eransi manifestate negli anni antecedenti, e che purtroppo potevano temersi ancora, attesochè l’agricoltura tuttavia non rifioriva completamente, ordinò che .si costruisse nella piazza delle Terme un nuovo edificio, ove si potesse riunire e conservare una maggiore quantità di grano. Con tali provvide misure, e con tante saggie circospezioni, sia per il pro- gresso dell’agricoltura, sia per il vantaggio del commercio, sebbene la cosa pub- blica, per qualche spazio di tempo procedesse in buona regola, tuttavia noù durò a lungo, che, mancando di costanza i moderatori della pubblica ammini. strazione, dati anche i tanti pregiudizi di quel tempo, pur troppo mano mano tutto decadde, con danno gravissimo dello Stato. L’ istituzione de’ Luoghi de’ Monti e dei Vacabili, congiurava continuamente contro l’industria ed il traffico, e, dopo aver assorbito tutto il denaro, strumento quanto mai necessario ai negozi, ne avvenne che la gente ebbe perduta l’inclinazione ed il genio per industriarsi e per produrre (2). en o . «CR È Accennammo già come la’ peste ‘avesse spopolato le città, le terre e le (1) Append. Doe. XV. G (2) Luoghi di Monte, eva il credito di una somma determinata. I Luoghi di Monte, erano detti Vacadili, se la loro estinzione era fissata ad ‘un termine stabilito; erano r0r vacabili, se perpetui. Montista era colui, che possedeva i titoli nei Luoghi di Monte. Furono già instituiti da Papa Olomente VII, per far fronte alle spese di guorra, a soceérso di Carlo V, nell’anno 1523, contro Solimano 10 Imp. de’ Turchi, ki) CAPITOLO XI 231 lla, © mentre l'agricoltura era già destituita per mancanza assoluta del de- , necessario all'esercizio di essa, ne avvenne in seguito !a totale ruina per- per succedentisi epidemie, venne a mancare un altro aiuto ugualmente ne- io, quello cioè dell'opera dell'uomo. Notammo intanto, come i Pontefici avessero sempre opinato, che il danno maggiore avvenisse specialmente per le incette. ed esportazioni del grano, e . come per conseguenza sempre avessero rivolto le loro cure a porre un riparo a queste due cose soltanto. Ma il Pontefice Paolo V non tralasciò di preoccuparsi eziandio di quanto era necessario, per provvedere alla navigazione del Tevere, essendo questo stato sempre il mezzo più facile e diretto per approvvigionare Roma, da luoghi lon- tani, e da regioni estere. In una Bolla, pubblicata nell’anno 1613 il giorno 20 marzo, Papa Paolo V asseriva che la navigazione del Tevere fosse sommamente ‘ opportuna, per la città di Roma, specialmente per mantenere l’abbondanza del. l’Annona. È perciò i Pontefici predecessori avevano procurato e fatto dei ten- tativi per rendere sicura e facile la stessa navigazione, in quanto ln foce del Tevere si presentasse incomoda e pericolosa alle navi, e quindi fosse necessario di provvedere, perchè riuscisse di sicuro e facile accesso. Purtuttavia, più volte fu tentato indarno, e con ingenti spese, perchè i lavori escogitati ed eseguiti sempre riuscirono inutili (1). | | Pontefice in seguito ad informazioni e relazioni di periti, aveva dovuto convincersi, che se dalla parte del ramo destro del fiume, nomato Fiumicino. si fosse escavato un canale nuovo, in direzione di ponente verso il mare, con questo mezzo l'ingresso nel fiume, si sarebbe reso più facile e sicuro per le navi, che dovevano imboccare nel Tevere, e navigarvi a ritroso. Di conseguenza, per non tralasciare di tentare qualsiasi mezzo, nè guardando a spese, comandò, che si escavasse un canale, e che la foce ne fosse munita con palizzate bene pian- tate ed, elevate sul pelo delle acque, lungo ambedue le rive, e che anzi la stessa palizzata si prolungasse in alto mare, perchè così il braccio destro del Tevere, sarebbe riuscito più adatto e comodo alla navigazione. Inoltre volendo prov- vedere agli interessi dei Mercanti, ed allo sviluppo della navigazione, e mag- giormente alla pubblica utilità di Roma, abolì varie tasse, che gravavano l’impor- (1) « ..... cam vero non semel frustra tentatam fuerit magnoque sumpta et opera perierint. ...., » 232 CAPITOLO XI tazione del vino, e di altri generi e merci, che giungevano a Roma per mezzo fluviale. Impose soltanto la tassa di un giulio e mezzo, per ciascuna misura — in singulas cupas — e ciò, sia per il vino, sia per qualsiasi altra cosa o merce, come da apposito Chirografo o Motu proprio, che fece pubblicare in proposito (1). I lavori del canale di Fiumicino furono studiati e diretti dall’architetto Carlo Maderno (2). In seguito ad istanza fatta da un tal Felice Antonio Biancano il Pontefice Paolo V, concesse nell’anno 1614 e nel giorno 18 novembre con un suo Chiro- grafo al suddetto, la privativa di poter bruciare nella campagna di Roma i fusti delle piante delle fave, e le scorze di quelle, per ridurle in cenere, essendo quella atta a far sapone, et vetri in loco della soda o cenere (sic), con proibizione a chiunque di bruciare i fusti delle fave, sotto la pena di scudi 1000 d’oro (8). Nè dal Pontefice Paolo V fu trascurato di dare opportuni provvedimenti, per la tutela del secolare istituto delle Dogane dei pascoli, infatti notiamo che il Cardinal Camerlengo Pietro Aldobrandino, col suo Bando pubblicato nel- l’anno 1617 il giorno 1° di aprile, volle provvedere al buon andamento delle tenute e dei pascoli del Patrimonio. Crediamo qui opportuno ed utile, per la conoscenza delle vicende della Cam- pagna romana, di riassumere un documento — che integralmente alleghiamo in appendice — allo scopo di far notare, come anche al principio del secolo XVIII, allo stesso modo che nel secolo precedente, e sotto il Pontificato di Gregorio XIII, le tenute notate nel bando, fossero destinate all’uso civico di pascere, il che con- tribuiva potentemente a che fosse mantenuto in vigore ed uso il provvido isti- tuto della Dogana dei pascoli per gli affidati. Il Card. Camerlengo, per ordine del Pont. Paolo V, volendo provvedere ai tanti abusi ed inconvenienti, che si commettevano per l’affitto dei pascoli delle tenute e delle bandite nel Patrimonio, e perchè fossero osservate tutte le dispo- sizioni Pontificie emanate in proposito, comandava a tutte le Comunità, ai (1) Arch. Vat., Arm. V., Miscell. 205, tom. L., 261. (2) Ibi 263. (3) Arch. Vatie., Bolle e bandi. Serie III, Ann, 1601-1626. ad ann. Un Breve del Pont. Urbano VIII del 12 deeemb. 1628 richiama il sopradetto Chirografo. Un editto del 16 maggio 1630 cita quanto sopra. L'altro del 153 Inglio 1632 menziona il Breve del 12 dicem, 1628, o e CAPITOLO XI 233 Signori, ai Baroni, e ai nobili di qualsiasi grado ecclesiastico o secolare, che von ardissero di vendere od affittare in modo alcuno i pascoli, le tenute o le ban- dite, nè d’affidarvi alcuna specie di bestiame sotto qualsiasi pretesto o ragione, e che prima di compiere atti contrari a tutto ciò, ne avessero dovuto ottenere l’espressa licenza e permesso dai Doganieri appaltatori dei pascoli. L’ordine veniva bandito in modo tassativo, e tale da escludere qualsiasi diritto o concessione in contrario, in quanto tutte le bandite, le tenute ed i pa- scoli, menzionati nel bando, erano stati vincolati dal Motu proprio del Pont. Gre- gorio XIII, non ostante qualsiasi vendita, cessione od altro atto di trapasso della proprietà. E per togliere ogni dubbio o questione in proposito il Card. Ca- merlengo pubblicò un elenco esatto di tutte le tenute, le bandite, i ristretti, le possessioni od altro con lo stesso ordine, con la stessa norma e la stessa pre- cisione, coi quali furono notate nella Costituzione di Papa Gregorio XIII del giorno primo di febbraio dell’anno 1580. Nel bando si faceva noto altresì che, se alcuno dei proprietari delle tenute e delle altre proprietà menzionatevi, avesse voluto eseguire la sementa del grano, o permetterla ad altri, potesse ciò fare, soltanto nelle tenute proprie per la sola quarta parte, ed anche per la metà di quelle in ciascun anno, senza chiederne licenza. Inoltre, se i proprietari dei fondi menzionati avessero voluto alienarli in qualsiasi modo, fossero obbligati a darne prima notifica alla Camera Apostolica, che aveva diritto alla prelazione nell’acquisto (1). Dello stesso Card. Aldobrandini, notammo un documento di speciale impor- tanza, per la concessione di privativa, fatta ai 28 giugno dell’anno 1617, ad un tal Giovanni Vespa, d'Ungheria, ed a Bartolomeo Pancrazi, di Roma, di confe- zionare il sapone e vetro con le ceneri di speciali erbe della Campagna romana, ossiano i Riscoli, tanto coltivati, quanto selvatici, i fusti delle piante dei Lupini, i Cardi di qualsiasi specie, la Giariga o Turina, la Sosa, la Felce, la Vinaccia d’uva e la Bariglia. I concessionari di detta industria vennero autorizzati a raccogliere dette specie di piante, ovunque le avessero rinvenute, ed anche a seminarle in qual- siasi luogo « con pagar, però, alli padroni delli terreni quello che sarà giusto ». (1) Append. Doc. XVI, E fu proibito a tutti di raccogliere, TIA vendere o piante sarldatia) o’ le ceneri di si Poni nlicite licenza ed il con impedire ai ide ia stessi ai i. rmccoglierle e di striato in, tag luogo, sotto l'ammenda di scudi Mille doro per ciascun contravventi ciascuna volta, con le solite clausole, eee. (1). v x I ti (1) Append. Doe. XVII. CAPITOLO XII 295 CaprtoLo XII. La campagua romana dal Pont. di Gregorio XV a quello di Innocenzo XIL. (Ann, 1621-1700). Come già notammo, l'agricoltura della Campagna romana, atteso la deficienza dei capitali, e più ancora la negligenza dei proprietari delle fenute, che ravvisa- vano più utile agli interessi loro di collocare i loro capitali piuttosto nei Luoghi de’ Monti e dei Vacabili, che non-di destinarli all’esercizio dell’arte dei campi, subì un grave decadimento, e quasi l'abbandono totale, j Gregorio XV — Alessandro Ludovisi da Bologna — successe, nell’anno 1621, al defunto Paolo V. Una delle sue prime cure fu quella di provvedere all’Annona, in quanto, essendo trascurata la coltivazione, ne conseguiva una grandissima pe- nuria di grano. Dopo ponderate riflessioni e maturi studi, il Pontefice Gregorio, risolvè di bandire un suo Motu proprio, nell’anno primo del suo péntificato, il giorno primo di dicembre; e con esso volle fondare il Monte dell’Annona Vaca- bile. ma con privilegio, che non si prtessè estinguere nei primi quattro anni. In quel documento, narra il Pontefice di aver già ordinato al Card. Camerlengo — che, in quel tempo, era il Card. Ludovico Ludovisi, dal tit. di $. Maria in Traspon- . tina, nepote dello stesso Pontefice (1) — di acquistare il grano in qualunque parte del mondo, senza badare a spese (2) e di provvedere alle urgenze dei sud- dliti e particolarmente a quelle degli abitanti di Roma. Avendo però computato come occorressero almeno 300 mila scudi, nè avendo denaro pronto, per tale necessità, dopo aver discusso vari modi di provvedere, aveva deliberato d’ isti- tuire un nuovo Morite dell’Annona, composto di 3000 Luoghi Vacabili, alla estin- zione dei quali, destinava il residuo del prodotto delle gabelle sulla carne, e la tassa sugli studi in Roma, che in parte era già stata destinata aila estinzione dei Monti non Vacabili. La istituzione, ad esempio, degli altri luoghi, doveva (1) «..... secandam carnem ex fratre germano nepote ..... >», (2) «..... nalla expensaram habita ratione ,..., »» 236 CAPITOLO XII stabilirsi coi frutti, nella ragione dell’otto per cento per ciascun luogo, ad anno, e per il pagamento dei frutti, il Pontefice assegnava la somma di scudi 24,000, che avanzavano dal predotto della gabella e delle tasse sopradette. In conseguenza, per suo Motu proprio, e per certa scienza, nella pienezza della sua autorità apostolica, erigeva e stabiliva di nuovo un nuovo Monte, che doveva intitolarsi dell’ Annona, ed essere costituito da tre mila Luoghi Vacabili (azioni di 100 scudi ciascuna) col godimento degli interessi, dal 1° gennaio 1622, e con la rendita di scudi 8 per ciascun luogo od azione, da pagarsi ai futuri pos- sessori e creditori, in ciascun trimestre posticipato, nella città di Roma libera- mente, e senza alcuna eccezione (1). Senza alcun assenso dei Conservatori e del Priore o dei Capi Rioni di Roma, e del Popolo romano, o dell’affittuario delle Gabelle, ovvero dei Ministri di Roma, separò dall'importo totale delle imposte per la carne, e delle tasse per gli studi, la sopradetta somma di scudi 24,000, disponendo, che fosse destinata al pagamento dei possessori delle azioni dell’epoca, ed all'effetto del pagamento della somma, sospese l’altro, destinato a soddisfare e distinguere i Monti non vacabili del Popolo romano. Assegnò però i risparmi, che si sarebbero verificati al pagamento dei Monti non vacabili. | Comandò al Card. Camerlengo Ludovico Ludovisi, sopradetto, che vendesse gli anzidetti tremila luoghi di Monti, ossiano azioni, oppure ne desse il mandato a persone dabbene, e per il prezzo reperibile, stabilendo, che la vendita si ef- fettuasse in una o più volte, che il prezzo ritratto fosse posto nel banco del de- posito del Monte sopradetto, e che il denaro non dovesse essere destinato ad altro, tranne che a beneficio dell’ Annona. Autorizzò chiunque, ancorchè minoré di età, o donna, ad acquistare i detti luoghi di Monte, che volle altresì fossero immuni, e noti soggetti a sequestro, iè per il capitale, nè per i frutti, ancorchè ne avesse fatta In domanda la stessa Camera Apostolica (2). ci (1) « Erigimus, constitnimus, et de nogo creamus unum Montem Annonae nunenpandanm, lrium millinm locoram vacabilium cum fructibas a Kal. Janarit anni Dom. millesimi*sex- centesimi vigesimi sccnindi, cam qedditu annuo ocio scentorum monette. pro quolibet loco sol- vendis pro tempore futuris Montistis et Creditoribus, quolibet trimestri, et in fine cniuslibet trimestris, hic Romae libere et absque aliqua prorsus exceptione ». (2) «..... minusve fructas praefati qualibet praetexti ad instantiam cuisvis personae, etiam nostrae Camerae Apostolicae sequestrari possint..,i. > CAPITOLO XII 237 Decretò inoltre, che il Monte dell'Annona, godesse gli stessi privilegi che avevano i Monti Vacabili della stessa Camera. Statuì altresì, che le fedi delle parti dello stesso Mopte, non dovessero es- sere estinte per qualsiasi ragione o causa, anche nel caso di morte del posses- sore, ma che fossero durature per un intero quadriennio, dopo del quale fossero rese vacabili, in seguito alla morte «i alcuni dei possessori. Ordinò al Card. Ca- merlengo, che deputasse un banchiere in Roma, idoneo per mezzi e per onestà, e di soddisfazione dello stesso Camerlengo, ad assumere l'obbligo di pagare i frutti trimestrali, anche nel taso, che non avesse esatto dall’appaltatore e depo- sitario delle tasse sopra indicate, la somma stabilita di scudi 24 mila, o parte di essa. Seguivano altre saggie disposizioni, per l’estinzione dei Monti non Vacabili, del Comune di Roma. Per provvedere alla regolare funzione del nuovo istituto volle che il Cardi- nale Camerlengo del tempo, presiedesse, quale protettore, l’amministrazione del Monte Annonario, conferendogli tutte le facoltà necessarie, in forma amplissima, designando anche le cariche per quell’amministrazione, con i relativi emolumenti, ed esonerando però i possessori delle fedi del Monte Annonario stesso, dal paga- mento di due giulj a favore dell'Abbondanza, ossia della pubblica Annona, ed anche dal pagamento di un giulio a beneficio dell’Associazione della Pietà per i carcerati; e ciò, perchè fu intenzione del Pontefice, che i possessori dei luoghi dei Monti fossero completamente esonerati da qualsiasi aggravio (1). Continuavano tutte le speciali clausole, perchè fosse in ogni tempo osservato e mantenuto quanto era stato stabilito, derogando altresì delle Costituzioni apo- stoliche dei Pontefici predecessori, Simmaco (498 514), Paolo II, Paolo IV, ri- guardanti la inalienabilità dei beni ecclesiastici ed il ricupero di essi, la istitu- tuzione della gabella delle carni, e della tassa degli studi, nonchè gli altri de- creti dei Pontefici Paolo V, Sisto V, ecc. La Bolla terminava, comminando le più severe censure ecclesiastiche e la scomunica contro coloro che avessero esato di contradire od opporsi a quanto era stato ordinato e prescritto. Nella Camera Apostolica, fu presentato il docu- (1) «..... e/ ita mandamus quod dieti Montistae hoc privilegio particalari et exemptione, duranie dicto Monte, omnino gaudeant ». 238 CAPITOLO XI mento il giorno 10 decembre dell’anno 1621, e tutto fu approvato con relativo decreto (1). Nè s’arrestò l’operosità del Pontefice Gregorio a questo unico provvedimento, per favorire l'agricoltura; che anzi per vieppiù incoraggiarla, dopo mature rifles- sioni, edotto dalla esperienza, credette assolutamente necessario di revocare la Costituzione pubblicata dal Pontefice predecessore Paolo V, il quale aveva»con- fermato quelle di S. Pio V, Gregorio XIII e Clemente VIII, relative alla proibi- | zione della esportazione del grano, e nelle quali era fatta riserva per coloro, che godevano tale privilegio, coll’obbligo di esibirlo al Commissario della Camera A.; donde ne conseguiva che qualsiasi esportazione di grano non potesse essere con- cessa, se non mediante un Chirografo. Papa Gregorio XV, invece, con un suo Motu proprio, del giorno 30 luglio dell’anno 1622, volle che coloro, i quali, in date circostanze, esportavano il grano ed altri generi dell’Annona, non incorressero più nella scomunica e nelle altre censure ecclesiastiche. Sn tale suo atto, il Pontefice premise, come prudenza voglia, che talora per ragione dei tempi e dell’esperienza delle cose, si debbano mutare provvedimenti già adottati. Ricordò, che la felice memoria del suo Predecessore Paolo V, in altri tempi, nel 1605, nel giorno 23 decembre, avesse pubblicato una Costituzione che, nel Motu proprio, viene riferita — de verbo ad verbum — parola per parola; e che, già noi abbiamo riportata, fedelmente tradotta. Il Pontefice Gregorio soggiunse, nel suo Motu proprio che, nonostante quanto” avesse già ordinato espressamente il Pontefice predecessore, tuttavia fosse insorto qualche dubbio sulla esportazione del grano stata proibita. e come perciò un nuovo atto di Paolo V meglio avesse esplicato quanto era stato prescritto. Nulladimeno avvertiva Papa Gregorio come, avendo saputo che si conti- nuava il commercio e la esportazione del frumento da molte persone dello Stato della Chiesa, abusando della vicinanza di un luogo all’altro, per cui molti incor- revano nelle censure ecclesiastiche, voleva secondo la sua apostolica autorità, e secondo il suo potere, rime liare alla cosa; perciò decretava e stabiliva, che coloro, i quali avessero trasportato il grano, od altro genere simile, che non po- teva esportarsi, da un luogo all’altro dello Stato ecclesiastico, tanto se diretta- (1) Arch. Vatie., in Libro I, Signaf Gregorii. XV, fol. 239. Td SIE PE I, o del . Li CAPITOLO XII 239 fo 0 indirettamente soggetto alla Chiesa, purchè fosse in quantità tale, da era mico anno ul sostentamento della famiglia di colui che esportava, fat- tor : Ses fino al nuovo raccolto, nonchè i poveri, che avessero radunati cin i le spighe cadute nei campi, dopo il lavoro di un intero giorno, e ciò Fed alimento e bisogno a loro stessi (1); e similmente i religiosi mendicanti, che Pi no grano, legumi ed altro, per elemosina ricevuta 6 per il vitto comune dn loro monaci, i contadini èd operai poveri, che ricevevano la loro mercede ui nto in grano od in altri generi dell’Annona, quelli che trasportavano ai mer- | cati i polli, le uova, i frutti od altre cose simili in piccola quantità, e ricevevano È in bio e prezzo di quelle cose, pane, farina e simili, per uso di loro stessi e delle loro famiglie, che tutti fossero autorizzati a trasportare lecose suddette dai hi soggetti immediatamente alla Chiesa, in quelli che lo erano indiretta- nte, purchè non vi fosse frode od inganno, od atto di mercato, e che perciò sarebbero incorsi nelle censure ecclesiastiche: si, Il Motu proprio terminava con le solite clausole derogatorie, e con le pre- | erizion rigorose, per la osservanza di quanto era stato comandato. - Fu pubblicato presso la Basilita di S. Maria Maggiore (ossia dal Quirinale) l’anno ll del Pontificato (2). | Nonostante i precitati provvedimenti, adottati per ovviare alla penuria del ano , Roma e lo Stato della Chiesa furono oppressi da una grave carestia, a » alla quale, fu necessario che il Pontefice facesse acquistare il frumento mi estere; e tanta era la iniseria, che il Pontefice dovette ordinare il o fosse venduto ad un prezzo inferiore a quello di costo, donde derivò una \ giore decadenza dell’arte agraria (3). s) DA Papa Gregorio successe il Cardinal Mafico Barberini, da Firenze, che fu i p al Pontificato, col nome di Urbano VIII, il giorno 6 agosto 1623. + Sua prima cura fu quella di procurare il rifiorimento dell’agricoltura, col so- (4) «..... Necuon quod pauperes, qui fasciculos spitaraum, in agris relietarum, unius î labore collectos, pro victu ct necessitate tontum sua dinraa . », (2) Nr 1 N. M. Memorie, leggi, ete. IT, pag. 64. 4 . I Pontefice, allorchè emanava le sue Bolle, Motu propri ete. è le datava, dicendo, " Lode S. Mariam Maiorem «, che era ln Basilica più vicina al palazzo apostolico, si do- h9 veva intendere che erano pubblicate dal Palazzo del Quirinale. Dobbiamo questa notizia alla cortesia della b, m. del prof. Giuseppe Tomnssetti. (8) Cracconius in Vita Gregori XV, Urbem Romam, ete, 240 CAPITOLO XII lito avviso dei suoi predecessori di limitare cioè le esportazioni del frumento fuori dello Stato (1). Il Bando dei Maestri Giustizieri, pubblicato nell’anno 1624, ai 20 di gennaio, adottava tutti i provvedimenti possibili a tutelare l'ordine, la conservazione ed il buon andamento dell'agricoltura nella Campagna romana. i Vi furono infatti enumerati tutti i casi possibili, e tutti i danni eventuali, che persone malevoli e disoneste avrebbero potuto arrecare, tagliando alberi, espor- tando i termini dei confini, immettendo bestiami a pascere nelle tenute altrui, o scavando fossi lungo i confini di esse. E furono decretati provvedimenti contro coloro, che entravano nelle proprietà degli altri, e si permettevano, senza alcun diritto o licenza, di vendemmiare anche le vigne; come pure contro guardiani, ortolani e vignaioli che vendevano frutti senza il permesso del proprietario, e che talvolta davano anche ricetto a gente che, schiva di onesto lavoro, vivac- . chiava facendo danni nelle campagne. Così ancora, contro quei proprietari, che occupavano, o ristringevano le strade, i vicoli, ed i fossi di confine, e contro coloro che rubavano l’erba nei prati e nei pascoli. * Dava severe ingiunzioni ai custodi delle porte di Roma, che non ardissero di dar ricetto ai ladri di campagna, e che invigilassero e indagassero se i frutti e gli erbaggi, introdotti in Roma per la vendita, avessero provenienza furtiva. Era fatto eguale precetto ai fruttivendoli, prima che acquistassero i prodotti. All’art. 24, si adottavano energici provvedimenti contro i caprari che aves- sero commessi arbitrî per far pascolare le capre, non rispettando le vigne, (1) A titolo di curiosità citiamo un Bando del Cardinal Garzia Millini, Vice Gerente del Pontefice, e Giudice ordinario della Curia, nell’anno 1623, ai 27 di ottobre, pubblicò una « dichiaratione di quello, che viene proibito e tollerato da poter farsi ne î giorni di festa ». « Li frutti, erbaggi merangole e cose simili, si possano vendere, tenendo solamente « una parte della bottega aperta, capace per entrare et uscire, e sì possa anco tener « fuori delle botteghe in terra, ovvero sopra una tavola un filaro di canestre, e quelli « che non hanno bottega, possano spanderli in terra nelle piazze e nei luoghi soliti ete. ete. « Quelli che partono da Roma, c'hanno portato il giorno avanti vino, grano e altre « robbe, non si molestino, se partiranno da Roma nella festa, pur che vadino con li « carri e bestie scariche. « Quelli portano robbe da magnare (sic) a Casali, Ville o Procoi non si mole- « stino etc. etc. ». Arch, Vatic, Arm. V, Miscell, 203, tom. 1, 257. 4 CAPITOLO XI 241 nè i canneti, nè altre possessioni, a solo scopo di procurarsi un pascolo abu- sivo (1). Anche il Cardinale Camerlengo, Ippolito Aldobrandini, fece pubblicare un bando, il 17 maggio dell'anno 1624, per tutelare una delle lavorazioni più im- | portanti dell'agricoltura, quella cioè dell’aia, affinchè il bestiame cavallino adibi- tovi, e gli animali destinati al trasporto del grano in Roma, non fossero sog- getti a sequestro, o a rappresaglie per danni cagionati, ordinando che il giudizio relativo dovesse compiersi avanti Mons. Presidente dell’ Annona. Il provvedimento fu determinato dai continui reclami degli agricoltori, che subivano atti arbitrari e violenze d'ogni sorta nei tempi in cui le cavalle e le altre bestie da trasporto erano maggiormente necessarie, per il solo pretesto che tali bestiami avessero prodotto danno ai raccolti ed altrove. Arbitrî e violenze che giungevano fino al punto di arrestare i proprietari delle cavalle, onde restava affatto sospesa la battitura del grano, con danno immenso degli agricoltori, che dovevano sottostare a violenti imposizioni ed a pretese esorbitanti per soddisfazione dei danni, spesso minimi ed irrisorî. Ad evitare tanta iattura ai poveri agricoltori il Card. Camerlengo ordinò severamente che, in caso di danno prodotto, nessuno potesse essere soggetto a rappresaglia, nè condotto avanti la Corte del luogo ove era stato commesso il danno, e che neppure si potesse arrestare il proprietario del bestiame, nè i con- duttori, nè i garzoni, ma che invece gli ufficiali, addetti a simili atti, dovessero limitarsi a ricevere in pegno un oggetto qualsiasi, con obbligo in forma Camerae, contratto dal padrone del bestiame, o dai conduttori v garzoni, di sottostare a quanto avrebbe deciso in proposito Mons. Prefetto dell’ Annona. A facilitare poi l’esecuzione della battitura del grano, il Card. Camerlengo, per ordine espresso avutone dal Pontefice, concesse a tutti gli agricoltori la fa- coltà di poter far pascolare ed abbeverare liberamente le cavalle, e gli altri animali addetti ai lavori dell’aia, e ciò senza alcuna molestia od impedimento, nella stessa tenuta e territorio ove battessero il grano, o in altro luogo più acconcio. Due periti poi avrebbero potuto giudicare sul prezzo del pascolo, e sulla entità dei danni eventualmente prodotti. In caso di diseordanza, un terzo perito eletto dal Prefetto dell’Annona, dovesse pronunziare un laudo definitivo in pro- posito. ' (1) Append. doc, XVIII. 16 242 bi CAPITOLO XII Il Bando comminava pene severissime contro i contravventori, fino alla con- fisca della proprietà, ordinando anche ai pubblici ufficiali la esecuzione di quanto sopra, e minacciandoli di pene corporali e pecuniarie ad arbitrio, in caso d’ina- dempienza. E terminava colle seguenti parole: « però che ogn’uno si guardi, perchè non si portarà rispetto ad alcuno » (1). Ù Fra gli avvenimenti che interessano lo svolgersi dell’arte agraria, dobbiamo anche notare un fatto singolare, avvenuto nel secondo anno del Pontificato di Urbano VIII. Un tal Felice Antonio Biancani, in seguito ad esperienze, aveva escogitato un modo pratico, per cui seminando un solo rubbio di grano, questo ne avrebbe reso tanto, quanto ne avrebbero reso due rubbia seminate, o meglio avrebbe reso il doppio di ciò che avrebbe dato la sementa di un rubbia di terreno. Però il Biancani non voleva palesare la sua invenzione, nel timore che altri guadagnasse in sua perdita. Ad evitare che ciò avvenisse, fece istanza a Papa Urbano, affinchè volesse accordargli la privativa della sua invenzione, e lo auto- rizzasse a poter tassare l’esercizio e la industria della privativa in ragione di - uno scudo in di lui favore per ciascun rubbio di sementa, con patto che la quarta parte di detto contributo andasse a beneficio della Camera Apostolica. Il Pontefice con un suo breve diretto a Mons. Zacchia, lo autorizzò a con- cedere quanto sopra al Biancani, dopo che però ne fosse stata fatta esperienza in modo indiscutibile; e riuscita che fosse, il sopradetto Mons. Zacchia aveva facoltà di rilasciare lettere patenti a favore del Biancani, e di stipulare un istro- mento per la partecipazione della Camera Apostolica nell’affare, alle condizioni suespresse (2). È disgrazia che le memorie di quel tempo, non ostante le nostre più attive ricerche, non ci abbiano rassicurato sulla riuscita dello interessante esperimento, e molto meno del modo con cui avrebbe dovuto praticarsi il metodo escogitato dal Biancani, che potrebbe essere anche stato un precursore dell’uso dei concimi chimici. è Ma forse, per la ignoranza di quei tempi, e per i dubbi, insuperabili degli agricoltori, la cosa non ebbe seguito, e la coltivazione del grano fu continuata come nei tempi anteriori alla concessione della privativa menzionata. ' (1) Append. doc. XIX, (2) Append. doe. XX. ) CAPITOLO XII 243 Nell'anno TI del suo pontificato, Urbano VIII, sempre più impressionato . delle frequenti penurie del grano, volle con una sua Bolla, emanata il giorno 21 ottobre dell'anno 1624, revocare tutte le licenze, concesse per la estrazione del frumento dallo Stato della Chiesa. Tale proibizione fu compresa nella Bolla, che complessivamente riguarda la revoca della concessione dei diversi uffici, dei privilegi, esenzioni, grazie ed indulti, che furono in quel tempo ravvisati come dannosi alla S. Sede ed alla Camera Apostolica. MN Pontefice, in primo luogo, faceva considerare le massime strettezze del- l’Erario pontificio, cagionate per debiti contratti, onde la Camera Apostolien tro- vavasi in difetto di danaro (1) e dichiarava di voler provvedere, a che si conser- vasse in essere una notevole quantità di rano, ed altre cose necessarie alla vita, sia per Roma, e sia per lo Stato della Chiesa (2). Rammentava le disposizioni dei precedenti Pontefici, massimamente quella più recente di Papa Paolo V, e quella successiva circa la proibizione della espor- tazione del grano e di qualsiasi genere commestibile, e finalmente la terza Costi- | tuzione, pubblicata nell’anno 1606, ai 26 di agosto, per derimere qualsiasi dubbio fosse insorto sulla interpretazione della Rolla precedente: ma aggiungeva che, no- nostante tutte le disposizioni anteriori, aveva dovuto riconoscere, per informa- zioni avute, come molte persone, Comunità, Università ed altre associazioni, non soltanto avessero fatta domanda, ed ottenuto il permesso di esportare quanto sopra, ma che eziandio fossero giunti all’eccesso di estorcere tale licenza (3). Proseguiva il Pontefice a trattare dei vari privilegi, esenzioni e concessioni dei pubblici affari ed uffici, soggiunzendo quindi, che a tutela della conserva- zione di quanto si riferiva alle indennità della Camera Apostolica, e a tutela dell'abbondanza dell’annona e grascia, sì in Roma che in tutto lo Stato della Chiesa, pur facendo adesione ai principî ed alle massime contenuti nelle Costi- tuzioni del Pontefice Paolo V, e degli altri Pontefici predecessori, di suo Motu proprio, scienza e podestà, revocava ed abrogava tutte e singole le immunità ed esenzioni, dal pagamento del sussidio triennale, da quello della tassa del quat. ” (1) +... .. in maxinas reddilunm et peenniarum, angustias incidisse comperimus, et...» (2) «..... framentorum, ac aliarnm rerum, ad communem vitae usum pertinentinn. copia in hac Urbe nostra, et religno Statu Ecclesiastico conservetnr et vigeat ». (3) «..... mon modo sibi dari et concedi impetrasse et obtinnisse, sed potius cxlor- sisse ». 244 CAPITOLO XII trino per la carne macellata, e dall’altra per i cavalli, da quelle dette ta/learum, dei censi d’archivio, dalla imposta detta della foglietta, per le galee ed utensili, nonchè delle Dbgane, Gabelle e Dazi, dalla tassa per il porto d’Ancona, quatre- norum, delle tratte e delle altre imposte, ed oneri Camerali, delle tasse imposte dalle Comunità ed Università per il pagamento degli stessi oneri Camerali, per l'ammissione ai pubblici uffici, e per la costruzione e manutenzione delle strade e ponti, e che fossero soliti ad essere esatti, doafermando l’obbligo di ricevere ed ospitare i militari, gli ufficiali della Sede Apostolica, i bargelli, gli uscieri, e gli altri ministri alla giustizia, e di fornire loro utensili, ed altre cose necessarie alla vita, mantenendo così qualsiasi altro aggravio, tanto reale che personale, ed anche misto, sia ordinario che straordinario. La Bolla comprendeva altresì qualunque altro privilegio, ancorchè specia- lissimo, che si riferisse ai luoghi, alle città, ai governi temporali, compreso Avi- gnone, Bologna, Ferrara e Benevento, e qualunque altro luogo, anche privile- giato, e degno di singolare menzione — eccetto Roma e il suo distretto — purchè non si trattasse di cosa contraria alla Costituzione del Pontefice Paolo V, ema- nata e favore delle persone addette alla Curia e degli abitanti di Roma, la quale Costituzione Papa Urbano VIII, voleva fosse mantenuta e conservata nel suo pieno vigore, stabilendo perciò, che tutto s’ intendesse compreso nel provvedi- mento di abolizione suespresso. Seguiva l’enumerazione e la distinzione di qualsiasi dignità e grado sociale, di tutti coloro, che direttamente od indirettamente, avevano o potevano avere rapporti fra loro, e tutto ciò, con tanto e minuto dettaglio, che, deve riconoscersi come quelle prescrizioni e quei minuziosi particolari fossero opera di un paziente ed elaborato studio, affinchè niuna persona o cosa fosse omessa o dimenticata nella precisa e sottile analisi. La Costituzione rammentava quelle già pubblicate dai Pontefici predecessori Paolo ITT, Giulio III, Pio V, Sisto V, Clemente VIII e Gregorio XIII. Terminava, comminando le pene ecclesiastiche della scomunica e delle altre censure, contro chiunque si fosse opposto dalle prescrizioni fatte. i La Bolla fu datata presso S. Maria Maggiore, — ossia dal Quirinale — nel- l’anno secondo del Pontificato (1). (1) NicoLar N. M. Memorie, leggi, ete. TI, pag. 62. È riportato il Sunto. Consultare invece la copia edita, « ex 7ypog. R. C. A. 1624 ». Arch. Vatie. Bollo e Bandi, Serie ILL Ann. 1624. CAPITOLO XIT 245 3 di sapone in Roma, la facoltà e privativa di raccogliere e bruciare certe specie d’erbe, delle quali si allegava nel bando stesso una distinta, all'effetto, che con In conseguenza di tale concessione s'inibiva a chiunque di raccogliere o bru- ciare le erbe designate, sotto l'ammenda di scudi mille d’oro da ripartirsi, pet un terzo a beneficio della Camera Apostolica, ed un’egual parte da dividersi fra il giudice esecutore ed il notaro delegato per la causa, ed il residuo agli appalta- | tori ed all’accusatore. Seguiva la nota delle varie erbe e materie (sic) concesse agli appaltatori in privativa rispetto agli altri, e negate a qualsivoglia persona (1). 4 Le continue frodi commesse da mercanti disonesti, o compiute da coloro che assumevano incarico di trasportare i grani in Roma, per le provviste della pub- blica Annona, provocarono un rigoroso provvedimento preventivo, bandito dal Card. Camerlengo Ippolito Aldobrandini, nell’anno 1631, nel giorno primo giugno. f Risultava, infatti, nelle continue consegne «el grano, che quello proveniente - È da Corneto, Civita Vecchia, Terracina, Nettuno ed altri luoghi, lungo la spiaggia del mare Meditérraneo, era sempre mescolato a lolla o pula in modo eccessivo. E poichè le consegne del frumento, secondo la consuetudine di quei tempi, 7 venivano effettuate in base a misura, si verificavano perciò sottrazioni continue di "W | grano; che era sostituito dalla pula, o « cama », per consueto sottratta a sua volta dalle vie prossime al littorale del mare. Il Card. Camerlengo inibì primieramente a tutti di tenere barche, liuti, od |_—‘@ltri mezzi da trasporto per acqua, lungo la spiaggia, fosse anche sotto pretesto te della pesca di coralli, o di pesce. Ordinò poi a tutti coloro, che eseguivano la sementa del ‘grano — che hanno faito o faranno per l'avvenire arte di campo — nei territori di Corneto, Civita (1) Ruta Caprara, Turina, Cardi selvatici, Perola, Felce, Cieuta, Fusti di ceci, Fusti di lupini, Fusti di ramoracce, Fusti di carciofi selvatici, Fusti d’Erby ed altre selva. tiche (sic), Sofa, Bariglia, Ortica, Riscoli selvatici o seminati, Borda, Malva, Feccia di yino, Noccioli d'olive, Vinaccia, Append, doc. XXI, 246 CAPITOLO XII Vecchia, Terracina, Nettuno ed altri luoghi, lungo ia spiaggia, fino alla distanza di tre miglia da esso, che non appena avessero ultimato i lavori dell’aia, doves- sero far bruciare tutta la pula o «< cama » sotto la pena di un'ammenda di du- cati 500, da ripartirsi, per una metà a favore della Camera Apostolica, e l’altra metà fra il giudice esecutore e l’accusatore, che sarebbe tenuto segreto. Niuno poi avrebbe potuto conservare, riporre, vendere o donare la pula, o « cama », sotto la pena della confisca dei beni, ed anco della galera perpetua! E nella stessa pena sarebbero incorsi tutti coloro, che, senza aver ottenuta una licenza scritta dal Prefetto dell’Annona, avessero venduto conciatura d’aia, orzo, avena o paglia ai marinari, barcaroli ed altri, che adducevano il grano a Roma; e che anzi, sotto pena della vita e della confisca delle barche, scafi, ete. ardissero in qualsiasi modo di esportare dalle aie la « cama », pula, ete. per me- scolarla nei grani da consegnarsi. Ugualmenté sarebbero stati puniti tutti coloro che avessero bagnato con acqua il grano. intro il termine di tre giorni, tutti i proprietari delle barche, leuti, scafi od altro aruese addetto alla pesca dei coralli e del pesce, dovevano allontanare detto materiale dalla spiaggia sopradetta, sotto la pena della galera a vita. Chiunque avesse voluto esercitare la pesca, doveva domandarne licenza al Prefetto dell’Annona, e presentare un’ idonea sicurtà (1). Fra i documenti relativi al Pontificato di Urbano VIII, che interessano più specialmente il nostro sommario storico, rinvenimmo una sentenza del Presidente delle Dogane dei Pascoli, Monsignore Antonio Serra, Chierico della C. A., la quale si riferisce alla seguente questione. Nell’anno 1633, le Comunità ed abitanti di Bracciano, Anguillara, Trevi- gnano, Campagnano, Cesano, Scrofano, Formello, Galeria. Cerveteri, Oriolo, Mon- tarano, Viano (oggi Veiano), Rota e gli altri luoghi e terre, che formavano il Ducato di Bracciano, al Doganiere d’allora, Bernardino Capponi — che aveva assunto l’appalto delle Dogane dei pascoli della Prov. del Patrimonio — rifiu- tavano di pagare la dovuta fida. Esaurita la causa, dopo alcuni rinvii, il Presidente delle Dogane, nella udienza del giorno 3 ottobre dell’anno predetto, sentenziò, che tutte e singole le suddette Comunità, e gli abitanti di esse, costituenti il Ducato di Bracciano, (1) Append, doc, XXI, CAPITOLO XII 247 Ds ero tenuti ed obbligati a pagare la dovuta e consueta fida al Doganiere del ‘atrimonio, per il pascolo che qualsiasi specie di animali avesse goduto nelle proprietà altrui, anche site fuori del territorio del proprio luogo nativo, od in p della loro terra e luogo (1). Che anzi la sentenza disponeva, dovessero pagare anche la fida per il pas- o, del che il Presidente rilasciava mandato esecutivo (2). Un documento di quell’anno stesso (1633), ci dà notizia, che lo appalto " delle Dogane e della Tesoreria del Patrimonio, fu concesso dalla R. C. A. ad - Alessandro Orfini e Giovanni Grilli Genovese, per la corrisposta annua di ot- Per disciplinare ognora più il funzionamento della pubblica Annona, e per | porre una remora ai continui abusi, che si commettevano in danno di essa, il Mioridionio Camerlengo Aldobrandini pubblicò un editto, il 6 marzo 1635, sul modo di misurare i grani e le biade. E poichè avveniva che, contrariamente agli ordini del Prefetto dell’Annona il grano e la biada, non si misuravano re- : golarmente, secondo quanto era prescritto dalla consuetudine, e non si adope- ravano le misure legali, identiche alla Matrice, esistente nella Dogana, il Car- . cinale Camerlengo ordinò che, nel misurare il grano o la biada, il compratore | potesse, anzi dovesse battere, o jar battere la misura, quanto volesse, e che il ven- tante, ossia di tata rendere eguale © piana nella superficie, lungo l'estremità - superiore della misura. Ordinò ugualmente che i facchini, i misuratori, i fornai o i compratori, non | potessero ingerirsi di pareggiarè la superficie del grano nella misura, ma dopo che questa fosse empita, potessero battervi sopra con pale, lasciando che i ven-" | ditori soltanto potessero radere la misura stessa, In caso d’inadempienza dovessero essere sottoposti a tre tratti di corda, | esposti@alla Berlina, e tassati della multa di scudi cento, da ripartirsi, per due | terze parti alla Camera A. ed un terzo al denunciante, che non sarebbe stato (1) «... pro quibuscunque eorum animalibus pascentibus in pascuis alienis, et extra | proprinm territorium corum propriae terrae et loci in territorio dd. aliarum et locorum 1 orig a nesiaa Brachiani, teneri et obbligatos esse, solvere fidam solitam Ilmo Doha- (2) Arch. Val Arm. V, Miscell, 206, doc, 219, Bibl. Vut Cod. Vat. Lat. 8886, pag. 125. (3) Arch. Vat., Ibi, pag. 286 e 301, Ibi, Zo//e, Bandi. Serie 1LI. Ann, 1627-4640, 248 CAPITOLO, XII mai rivelato, e che anzi, se fosse stato responsabile di qualche delitto, sarebbe rimasto anco impunito (1). Un bando dei Consoli dell'Agricoltura, pubblicato il 20 giugno dell’anno 1645, rammentando tutte le disposizioni delle leggi, e le Costituzioni pontificie, dispo- neva che non si potesse compiere alcun pignoramento sopra i buoi aratori, per qualsivoglia causa, in ogni tempo, e tuttociò appunto perchè alcuni avevano osato agire in contrario. I Consoli, per adempiere al loro dovere, inibivano a tutti gli esecutori o ministri di giustizia, che, sotto la multa di scudi cento d’oro, da ripartirsi fra la Camera A. e quella dell'Agricoltura, oltre la pena di tre tratti di corda — da darseglìi ipso facto (sic) — e della perdita dell’ufficio od altro, non ardissero, per qualsiasi pretesto o mandato, di fare alcun pignoramento sopra i buoi ara- tori, ed in caso d’inadempienza con la tassativa prescrizione, che chiunque avesse ottenuto il pignoramento vietato. fosse eziandio multato della somma di scudi duecento d’oro, se non avesse fatto restituire immediatamente i buoi se- questrati agli agricoltori. Col Bando venivano prevenuti anco i notai, esecutori e conducenti osterie ed albervhi, tanto in Roma, quanto nell’Agro romano, con la clausola che dovessero restare ferme tutte le disposizioni degli Statuti della Agricoltura, e particolarmente quelle del Cap. XLI (2). Nell'anno 1643, il popolo romano volle coadiuvare Papa Urbano VIII nella guerra, che in quell’epoca, Egli sosteneva contro i Farnesi, e perciò offrì al Pon- tefice un annuo sussidio di scudi 600,000. Per ottenere che si pagasse tal somma, Urbano VIII, pubblicò il 28 novembre dell’anno 1643, un suo Chirografo, nel quale, facendo menzione della decisione segreta e.pubblica del Consiglio, tenuto dai rappresentanti del Pop. Rom. affinchè il pagamento del contributo fosse cominciato con opportuna celerità, concesse licenza e facoltà ai Conservatori della Cam. Ap. ed al Priore de’ Capo Rioni e del Popolo Romano « di poter imporre il deito sussidio o Gabella di 12 giulj, sopra ciascun rubbio di grano, che si macinasse in Roma, da pagarsi dal Popolo durante i bisogni della guerra da tutte le singole persone, ecc. (3). Fortunatamente però la guerra contro i Farnesi cessò nel seguente anno 1644, ed il dazio imposto sopra il macinato, (1) Append. doc. XXIII. (2) Append. doc. XXIV. (3) NicoLar N, M. Memorie, Leggi, cce., II, a pag. 65, CAPITOLO XI 249 d fu ridotto a giulj 4 a rubbio per il frumento, e a gialj 2 per i grani mi- SL muti (1). —_—Nell’occasione dell'offerta fatta dal Popolo Romano, per sussidio di guerra | incominciata, come sopra narrammo, il Pontefice volle, con suo Breve dello +9 stesso anno, erigere un Monte Vacabile, detto del Macinato, coll’annuo frutto | dell’otto per cento, da non estinguersi, se non dopo un quinquennio. Per prov- vedere al pagamento dell’annuo interesse di scudi centoquarantatremila, autorizzò la vendita del suddetto Luogo di Monte a Francesco di Ravenna, che, in quel tempo, era locatario della tassa « Macinato ». Volle che gli interessi fossero pa- È gati a datare dal 1° gennaio dell’anno 1644 (2). p" Poichè le circostanze di quei tempi non permettevano alcun rimedio più ‘adatto allo sviluppo dell’agricoltura, il Pontefice rivolse ogni sua cura, a mi- gliorare il sistema della pubblica Annona, ed a stabilire meglio la giurisdizione | © l'autorità del Tribunale di essa. Seguendo perciò le norme della polizia della antica Roma, giusta le quali il Collegio dei fornari, dipendeva dal Prefetto della pubblica Annona, così il Pontefice volle, che anche ai tempi suoi, lo stesso Pre- | fetto avesse piena ed illimitata giurisdizione sopra i fornai stessi, e stabilì che | mne fosse il vero e legittimo giudice in tutte le contingenze di cause o liti, che i chiunque, anche di grado sociale elevato, potesse ad esso promuovere per ragione | dell’arte dei fornari (3). Decretò altresì, che i crediti, spettanti ai fornai, fossero pri- Da, vilegiati contro gli altri, che pur ne avessero, in riguardo allo stesso mestiere (4). Ordinò egualmente, che tutti i fornai o mugnai — che oggi distinguonsi tra i loro per il mestiere che esercitano, ma che in antico, erano designati promiscua- L mente col titolo di Pistores — dipendessero senza alcuna preferenza dalla sud- detta Prefettura, insieme anche a tutti gli altri esercenti, che avevano relazione È’ coll’Annona (5). E poichè era urgente, in quei tempi, che maggiormente si fa- cesse provvisione di grano per il consumo di Roma, il Pontefice fece erigere nella | Piazza delle Terme un terzo granaio, simile agli altri due, che già menzionammo, essere stati costruiti dai precedenti Pontefici, e che fu non meno grandioso e ma- 1 y gnifico, per accogliecvi il frumento e custodirlo, per averlo pronto al bisogno. ) (1) Muratori, Ann. 1644. Corpi, Disc. sull'Agricol., pag. 43. (2) Arch. Vat., Arm. V, Miscell. 263, tom. 1, 87. (3) Pistoribas eorumque haeredibus, ete. (4) Praeterea quod dicti Pistores, etc, (5) Aftendentes molitoram operam, ete, 250 CAPITOLO XII intanto, mentre Papa Urbano VIII spendeva ingenti somme di danaro per i pubblici lavori, G. Batt. Donj gli dedicava un libro Sul modo di restituire la salubrità all’Agro romano. In quell’opera il Donj propose di ristabilire nella Campagna romana la popolazione, e formò eziandio il modello dei castelli, che avrebbero dovuto costruirvisi. In quel tempo stesso, uno dei maggiori proprietari dei latifondi, Giambat- tista Sacchetti, che possedeva. una vasta tenuta nel distretto di Ostia, volendo migliorarla e ridurla a coltivazione intensiva, chiamò il quel tenimento alcuni contadini dalla Toscana, fondando colà una piccola colonia. Ma poichè tale opera | di bonificamento, ju iniziata isolatamente, per modo, che quei pochi contadini erano i soli abitanti di quei luoghi, in breve furono colpiti da infezioni malariche, e quasi tutti perirono. Donde il Donj trasse la conseguenza, che ciò fosse stato per la temerità d’aver condotto quivi i.coltivatori di altre regioni! (1). Il successore di Papa Urbano, fu Pontefice Innocenzo X, che nel secondo anno del suo Pontificato, ai 27 di novembre 1645, pubblicò una Bolla, con la quale confermò le Costituzioni dei Pontefici predecessori, Paolo IMI, Giulio III, Pio V, Clemente VIII, nonchè quelle di Paolo V e di Urbano VIII, rinnovando tutte le censure e pene contro gli esportatori del grano, riferendo le stesse Co- stituzioni, con le solite espressioni clausole e censure ecclesiastiche, compresa quella della scomunica. Tale Bolla racchiude sommariamente tutti i provvedi. menti pubblicati dai prelodati Pontefici per il governo dello Stato, ed il Pon- tefice, che la emanò, volle anche limitare ed in parte annullare alcune conces- sioni che erano state fatte per dispensare dall’osservanza di quelle disposizioni (2). Rovistando i documenti di quel tempo, rinvenimmo anche il seguente, circa i provvedimenti minuti, che allora si adottavano per il riposo festivo, e che agli agricoltori specialmente si riferivano. Ann. 1646, 20 decem. Editto sopra l’osservanza delle feste. « Martius Mis. « Div. tit. S. Petri ad Vincula S. R. E. Praesb. Curd. Ginnettus, S. D. N. Papae « Vic. Gener. « Acciocchè li giorni di festa istituiti per dar honore a Dio siano os- « servati, etc. (1) JoHAN BatTA. Doxny, De restituenda salubritate agri rom. ete., pag. 178. (2) Bulla. E?fsi ea, guae pluribus Romanornm Pontificam, ete. Romae ex typogr. Cam. Apost, 1646, 3 CAPITOLO XII 251 si - < Espressamente s'ordina a tutti padroni, et affittatori di Casali, Vigne, ed « altri territorii, che non conducano in giorno di feste lavoranti, sotto le mede- | «sîme pene — di carcere et altre pene pecuniarie et corporali, ad arbitrio no. «estro — le quali s’esseguiranno contro di loro e loro contadini irremissibilmente. « Et in caso di necessità di Vendemmie o raccolta gli si concederà da Noi, o « dal nostro Vice-Gerente licenza proportionata al bisogno, etc. « Quel che si tolera (sic) nelli giorni di festa, | «A Marcadanti, ecc. N, « Li contadini o vetturali, che hanno portato in Roma, grani, biade et altri «frutti, potranno ritornarsene con li loro animali, dopochè haveranno udito la « Messa, purchè ritornino con li animali scharichi. Il simile dovranno far co- vi Nè al tempo d’Innocenzo X, fu trascurato di mantener in vigore l’istituto della Dogana dei pascoli, in quanto sempre fu riconosciuto necessario all’inere | mento e al rifiorire della pastorizia, che, specialmente allora aveva preso no- vello vigore nelle Campagne romane; e tutti i proprietari od affittuari dei te- nimenti vieppiù l'industria armentizia, che non la vera agricoltura, credevano utile e rimunerativa. Il riassunto del documento, che riportiamo, ci fornisce i dati e le ionaia: | onde, in quei tempi si moderava la Dogana dei pascoli. Nell’anno 1647, ai 26 di aprile, il Card. Federico Sforza, pro Camerlengo, Mi deputato dal Pontefice Innocenzo X, pubblicava un Bando sopra gli affidati e - loro privilegi. —Ordinava in esso, che per comodo ed uso degli affidati, tutte le Comunità e Signori dovessero allargare le strade doganali, almeno di 20 canne — met. 40 — bh - dovunque « com'erano e sono state ordinate anticamente ». Che gli affidati, durante il viaggio, tanto nell’andata, quanto nel ritorno, potessero restare coi loro bestiami per tre giorni di seguito, in ogni territorio senza pagamento alcuno, salvo nel caso che avessero prodotto danni nei semi- nati, vigne, eco. , Per affidati si dovessero ritenere tutti coloro, che conducono i loro be- stiami nello Stato della Chiesa, per farli pascere nella Dogana del Patri- monio, ed in tutti gli altri luoghi compresi e sottoposti a detta Dogana, © dentro i confini di essa, il che anche allora dicevasi « dentro la stanga ». (1) Arch. Vat., Arm. V, Miscell, 208, tom. 1, 259, 252 È CAPITOLO XII - Per i forastieri si dovevano osservare tutti i privilegi concessi per la fida in ogni luogo e tempo. E che altresì si dovessero considerare come affidati tutti quelli dello Stato della Chiesa, che conducevano i loro bestiami nella Dogana dei pascoli, anche se abitassero con loro famiglie di consueto in qualche luogo compreso nella Do- gana stessa; e questi egualmente dovessero godere degli stessi privilegi, non solo durante la fida, ma anche quando ne fossero tornati, ed avessero ricondotto i bestiami nelle loro terre, prossime alle case loro, tanto dentro quanto fuori della Dogana di Roma, o di quella del Patrimonio. Coloro poi che non facevano uscire i loro bestiami dal pascolo delle terre proprie, quand’anche avessero affidato gli stessi bestiami, non potevano godere i privilegi concessi, poichè questi erano stati accordati soltanto per servitù delle Dogane, e degli affidati che ne usavano, e non già perchè se ne dovesse abusare in modo disonesto (1). Riassumiamo anche il Capitolato d’appalto per gli affidati, che darà maggior chiarimento intorno allo sviluppo sempre crescente che aveva avuto la Do- gana dei pascoli, in quanto tutti i possessori dei bestiami, in essa ravvisavano la sicura difesa della loro industria, ond’eran salvi dall’andar raminghi per le campagne, conducendo i loro bestiami, senza la certezza di trovare un sicuro rifugio a buone condizioni; mentre, se non fosse esistito quel provvido Istituto, sarebbero rimasti alla mercè di moltissimi ingordi speculatori, i quali non cu- rando altro che il proprio interesse, avrebbero costretto, in seguito all'imman- cabile disastro finanziario, gli stessi proprietari dei bestiami, a farne loro ces- sione, in quanto quei proprietari, non avrebbéro potuto prendere in affitto i tenimenti, a condizioni possibili, per l’esercizio dell’industria armentizia. Il Capitolato d’appalto delle Dogane dei pascoli fu convenuto fra la Ca- mera Ap., per mezzo del suo rappresentante, ed i fratelli Giacomo e Leone de Bettis, nel giorno 12 febbraio dell’anno 1653, Dopo le consuete premesse sull’affitto della Dogana del Patrimonio, sulle esazioni da iarsi per detto appalto, e sulle modalità e facoltà di esse, si stabiliva che i doganieri fossero obbligati a dare le consuete regalie, ogni anno anticipa- tamente, di un ducato e mezzo per ogni centinaio di scudi di moneta, che essi avrebbero esatto. (1) Append. Docum. XXV, CAPITOLO XII 253 | gli Appaltatori potevano far eseguire lo sterpamento, e far dicioccare tutto lo erpame, i cespugli infruttiferi, e gli spini, che impedivano il dissodamento lle terre, eccetto che nella tenuta detta Ferrara concessa dalla Sede Apo- agli abitanti di Civita Vecchia, salvo quanto fu in essa riservato a fa- vore della Camera. Seguivano altri patti relativi alle tenute di S. Spirito, ossia Tarquinia e onte Romano. «Qualsiasi guadagno o danno spettava ai Doganieri, che non potevano pren- | dere, nè darè in affitto alcuna specie di bestiami. Nessun negoziante di pelli poteva acquistarle, se non direttamente dai pro- i dei bestiami, per evitare fraudi in proposito. —Niuno poteva inviare i bestiami a pascolare Yuori dello Stato della Chiesa. genza il permesso dei Doganieri, e sotto pena della perdita dei bestiami. 4 Tutte le tenute dovevano essere coltivate, a turno di quarteria o terzeria, nel modo come era in uso a Monte Romano. Gli uomini del Comune di Civita Vecchia non dovevano avere il godi- I bestinmi dovevano essere immessi a pascolare nei Inoghi ove fu già seminato, nto il giorno 15 agosto di ciascun avno, e non prima. Nessuno dei pubblici ufficiali poteva arrecare gravame agli affidati. i tes proprietari dei bestiami, in qualsiasi stagione dell’anno, non potevano l inviarli fuori del territorio, ove abitavano di consueto, secondo quanto era tas- È sativamente prescritto da una sentenza cella Camera Apostolica in data 3 ot- Gli affidati, dopo il 24 giugno dell’anno in corso, dovevano pagare la fida | d’estate, come era solito. Durante il viaggio e trasferimento dei bestiami, era lecito agli affidati, di | poter far pascere in tutti i territori, dei paesi che percorrevano, e ciò per lo — spazio di tre giorni, purchè non arrecassero danno alle sementi o vigne, altri. ti avrebbero dovuto soddisfarlo, senza alcuna penalità. Entro il termine di 15 giorni dall’ arrivo, dovevano dare la denuncia 3 di tuttc il bestiame grosso o minuto, che avessero condotto, indicando i re- spettivi proprietari, e nel caso di mancanza, o che non avessero denunziato il 254 CAPITOLO XII numero esatto, incorrevano nella perdita del bestiame, che veniva 7enduto, e la metà del prezzo spettava alla' Camera. Apostolica e l’altra metà doveva es- sere divisa fra i Doganieri e l’accusatore. L’appaltatore della Dogana era però obbligato a pubblicare i necessari Bandi anche perchè nessuno potesse inviare i bestiami nei pascoli estivi delle montagne, senza la bolletta che testimoniasse il pagamento della fida, e chiunque ne fosse stato privo, allorchè arrivava coi bestiami alla stanga di confine, sarebbe stato soggetto alla confisca di tutto. Secondo la Costituzione di Gregorio XIII, niuno era esente dalla fida, nè libero dalla Dogana, se non fosse stato cittadino originario di Roma. Tutti coloro che avevano numerosa figliolanza — non meno di 12 nati — dovevano godere della esenzione della tassa della Dogana, secondo quanto era stato ordinato dal Pontefice Pio IV, e secondo il disposto della decisione della Camera Apostolica in quanto ciò rappresentava un sussidio per provvedere al vitto e vestito della numerosa famiglia, © non per altro fine. Per tutti i proprietari dei bestviami, che fossero forastieri, doveva essere mantenuta in vigore l’antica fida, con tutti i privilegi ad essa inerenti e senza aggravi. La fiera di Toscanella doveva essere libera specialmente per la vendita degli agnelli, e per la facoltà in tutti di poter vendere la terza parte degli agnelli vernareccì, sempre che di tali agnelli però non vi fosse bisogno per l’An- nona di Roma. Secondo la Costituzione di Gregorio XIII del giorno 18 febbraio dell’anno 1577, tutti gli affidati forestieri e delle provincie dovevano fruire dei privilegi e delle facoltà concesse nell’atto menzionato. Era lecito agli affidati di esportare o vendere gli animali fuori dello Stato della Chiesa. Chiunque avesse immesso bestiame nei pascoli della Dogana, era obbligato a pagare la fida, quand’anche avesse venduto detto bestiame in qualsiasi modo o tempo. I Doganieri potevano prendere i grani e le biade per soddisfazione dei loro crediti. Agli appaltatori delle Dogane veniva concesso il permesso di acquistare duemila rubbia di grano, occorrenti per fornire il seme ai coltivatori di Mon- talto, e per altri usi dell’amministrazione della Dogana. CAPITOLO XII 265 | Siccome a Montalto v'era difetto di lavoranti, specialmente nell'estate, così la Camera Apostolica, per provvedere, dichiarò quel luogo immune, promet- endo che nessuno che avrebbe servito la Dogana, sarebbe stato molestato per ‘causa di debiti, © che i banditi dai luoghi dello Stato Ecclesiastico, e quelli avevano commesso delitti enormi ed atroci (sic) e dei quali fossero stati C. nyvinti e confessi, sarebbero rimasti liberi, soltanto però dal primo maggio al trenta settembre di ciascun anno. Seguivano altre disposizioni di ordine transitorio e che si riferivano alla | condizione dell'appalto delle Dogane dei pascoli. «Entro confini della Dogana, non era permesso ad alcuna Comunità o per- Trona di qualsiasi grado, di costituire bandite per bestiami, ed in quelle già ip Pesistenti per concessione avuta dai Pontefici si dovevano osservare le norme Nella Provincia del Patrimonio, e nelle terre che avevano l'onere dema- miale della Dogana dei pascoli, niuno poteva affittare o concedere i pascoli delle tenuto, se non per uso dei proprì bestiami; per i particolari poi la facoltà del ascolo per i bestiami era concessa fino al 31 decembre di ciascun anno, ‘sempre con la dovuta licenza del Doganiere, ed in caso. d’inosservanza i pro- ietari sarebbero decaduti dal diritto di proprietà per le tenute o bandite d ate in affitto, le quali sarebbero state devolute a beneficio della Camera Apo- — Se fosse stato necessario al Doganiere di prendere in affitto per uso della )ogana dei pascoli, qualche tenuta o bandita di alcuna Comunità, o di altri irticolari o Signori, che per consueto l'avessero affittata ad altri, i proprietari \ ano essere obbligati ad affittarla al Doganiere per il prezzo da stabilirsi due periti nno per parte e, nel caso di controversia, da un terzo, eligendo î la Monsignore T:soriere Gen. In tal caso si doveva dichiarare rescisso qualsiasi pedente contratto di affitto. Se un proprietario di tenute avesse fatto opposizione, decadeva dal diritto di usufrutto della proprietà per un arcuri e la rendita'di essa veniva devo- a io «lella Camera Apostolica, che doveva autorizzare il Doganiere d SOA immissione nel possesso della tenuta soggetta a controversia, lu «I Doganieri erano nutorizzati a seminare non solo nelle tenute e nei ter- i della Camera Apostolica, ma eziandio in quelli di altri proprietari, che nel derli in fitto, dovevano sempre dare ai Doganieri il diritto di prelazione. 256 CAPITOLO XII Gli stessi erano egualmente autorizzati ad incettare duemila rubbia di fave e legumi, e a farne l’esportazione dai Comuni di Piperno, Terracina, Sezze, Ci- sterna e Nettuno. Potevano altresì esportare 5000 rubbia di grano dai Comuni suddetti, e così anco il grano e i legumi che ritraevano dalle corrisposte a' Montalto. Si faceva una riserva per le tratte e per l’esportazione fuori dello Stato, e, nel caso opportuno, se ne prescrivevano le norme. i Varie Comunità del Patrimonio e specialmente Viterbo, Toscanella, Corneto, Tolfa, Bieda, Nepi, Civita Castellana, Bagnorea, Monte Fiascone, Vetralla, Sutri, Capranica ed altre possedevano molte tenute e bandite, che affittavano a lunga scadenza: se però i Doganieri ne avessero avuto bisogno per l’esercizio della Dogana, in tal caso, dovevano essere preferiti a chiunque “altro, per lo stesso prezzo da pagarsi al relativo Comune proprietario, e se fosse esistito un affitto in corso, questo per concessione Pontificia, doveva essere rescisso e risoluto. Seguivano le norme per la esecuzione della semina a Toscanella e Mon- talto. Il taglio dei boschi delle tenute di Monte Castagna, Pantanelle, Pozzo di ferro, Monte S. Caterina e Freddara, era riservato alla Camera Apostolica per le fabbriche dell’ Allume. In caso di guerra, la Camera doveva indennizzare gli appaltatori di tutti i danni che avessero ricevuto, e così eziandio in caso di peste, d’invasione, di locuste, di grandine, e di mortalità rilevante del bestiame. Ai Doganieri erano accordati vari privilegi per titoli diversi. Tutti i possidenti dei suini, e che li conducevano a pascere oltre î confini della Dogana — fuori della stanga — dovevano pagare la fida, e ritirare la bolletta; altrimenti sarebbe stato confiscato tutto il bestiame. Anche i castrati dovevano pagare la tassa fida. Chiunque avesse smarrito uno o più capi di bestiame, dovea farne denunzia ai Doganieri. Facevano seguito altre norme relative all’esigenza delle rendite del Patri- monio, alla consegna dei bestiami necessari al servizio del Doganiere, agli stigli di quello antecessore, alla quantità delle semente per l’anno in corso, ed al prezzo del terratico, che veniva fissato in scudi sei e mezzo, da pagarsi subito dopo il raccolto. QAPITOLO XI 257 |_——Nella Dogana dei pascoli vengono comprese le tenute della Castrica, Cam. poroso © parte di Prato Cipolloso, giù alienate dal Pontefice Urbano VIII, ma poi riacquistate dalla Camera Apostolica. i * Qualsiasi controversia doveva essere decisa dal Tesoriere. I capitolato d'appalto doveva essere approvato da un Motu proprio Pon- | tificio (1). Al surriferito capitolato per l'appalto delle Dogane dei pascoli faceva so- guito un Bando dei Doganieri generali dell’A/ma Città di Roma, Marittima € . Campagna, e loro distretti, e della /’rovincia del Patrimonio. Con tale Bando si dichiarava la franchigia e la garanzia per tutti coloro, i che avessero condotto i loro bestiami nella Dogana dei Pascoli, in modo che | fossero liberi nel venire, nello stare, e nel tornare franchi e sicuri. fi Che se alcuno avesse ciò impedito, incorreva nella pena di ducati mille, a | ragione di giulj dodici per ducato, la di cui metà sarebbe stata a beneficio della | Camera Apostolica. ; : La fida bandivasi duratura a tutto settembre dell’anno 1653. i Gli affidati dovevano pagare nella Dogana di Roma ducati diciassette d’oro di Camera, in ragione di giulj dodici per ducato — L. 109.65 — per ogni cen- tinaio di bestie grosse, e ducati cinque e mezzo, in ragione come sopra — L. 35.47 + | per ogni centinaio di bestie minute. Nella Dogana invece del Patrimonio gli affidati dovevano pagare ducati venti d'oro di Camera, in ragione di givlj dodici l'uno — L: 129 — per ciascun cen- . tinaio di bestie grosse, e cinque ducati d’oro — L. 32.45 — per ciascun centi- naio di bestie minute. Gli affidati dovevano ubbidire agli ordini del Doganiere, nè dovevano par- dalla Dogana, se prima, non avessero soddisfatto a qualsiasi loro debito; , per una metà, della Camera rici e per l’altra metà fra il Do- » e l’accusatore (2). Bi, È Conservatori Capitolini, Agostino Maffei, Jacovacci Domenico e Massimi é Fabio, per la tutela degli operai, e specialmente di quelli, d'età minore, vol. | garmer i Monelli i quali tutti — come è anche attualmente — erano adibiti (1) Append. Doe. XXVI. —_— (@ Append. doc. XXVII. 258 CAPITOLO XII nei lavori campestri dell’Agro romano, pubblicarono un editto, il 15 agosto dell’anno 1651, nel quale dichiaravano che, essendo venuti a cognizione del come i Caporali, ed altre persone, che presielevano ai lavori agricoli, vendes- sero commestibili, a prezzi alterati, e anche di cattiva qualità, e per soprappiù li spacciassero senza peso o misura arbitrariamente contro gli ordini e bandi, replicatamente pubblicati, ad evitare tanti abusi comandarono che in avvenire nessuno potesse vendere commestibili ai monelli ed operai della campagna, se non fossero di buona qualità, se non adoperando misure e pesi bollati e rico- nosciuti, con minaccia che sarebbero incorsi nelle pene comminate dai bandi pubblicati, quand’anche fossero Padroni o fattori nelle tenute; ed anche sareb- bero stati puniti con altre pene, oltre tre tratti di corda, ed esilio dal distretto di Roma. In tal caso il giudizio, e il relativo procedimento sarebbero stati fatti in via sommaria, anche per semplice giuramento della persona danneggiata, su parere non solo «dei Conservatori, ma anche dell’ Abbate Ottavio Sacchi, deputato speciale del Pontefice per la Campagna romana, e per il pagamento delle mer- cedi degli operai. L’editto doveva essere pubblicato dovunque, sotto l'ammenda di seudi cinque, con ammonizione ai proprietari delle tenute e dei campi di procurare che gli operai o monelli non venissero aggravati nè maltrattati dai loro caporali, fat- tori o ministri di campagna (1). Per l’andamento economico dell'Agro Romano, in quei tempi, non v’erano soltanto le difficoltà sopra accerinate, per la mancata coltivazione e per la op- posizione dei proprietari delle tenute a che le terre restassero disponibili per la coltura dei cereali e per il pascolo degli affidati, ma purtroppo si aggiunsero altre calamità, siccome quella di una spaventevole invasione di cavallette, A dare un’idea esatta di quanto avvenne per tale jattura, gioverà di riferire integralmente una relazione di quell'epoca, scritta nella forma che allora si praticava. « Che modo si dovrebbe tenere per liberarsi dai danni, che' vanno facendo « li grilli, per le campagne di Roma ed altri luoghi. « Questi nell’anno 1653 hanno mangiati circa 10 mila rubbia di grano, e nel- « l’anno 1654, circa 20 mila rubbia, senza fare menzione delle erbe e computare « il grano, che hanno mangiato dopo la mietitura, per li mucchi, e nelli barconi, (1) Append. doc. XXVIII. cin id = LL a CAPITOLO XIT 259 «© per li soli dell’are, nelle quali are, io per quel che ho visto, stimo, che al a sicuro mangiassero rubbia 100 di «rano fra tutti, e ne fo di ciò lo argomento. - % Una mattina, circa un'ora di sole, stavo in Cerveteri, terra del serenissimo «signor Duca di Bracciano, e per alcuni miei affari, andai all’ara del signor Ar- « ciprete, alla Madonna dei Canneti, ed ivi trovai due uomini, che facevano col. A «lazione (sic) Alli quali io dissi : così per tempo mangiate ? Ed essi mi risposero: . Noi mangiamo e beviamo prima c'entri la polvere in corpo, perchè vogliamo |. « scopare il suolo di questa ara, che ci aveva tritato un forastiero; e così finito « che ebbero di mangiare, presero le scope per scopare, e quando volsero comin - «ciare a scopare, videro, che li grilli, avevano in quel poco di tempo mangiato | «tutto il grano, senza averne lascito neppure un vago, e so sicuro che doveva | «essere più di un rubbio, ora se in meno d’un’ora, in un’ara sola mangiorno un « rubbio di grano, che dovevano fare in più di 100 are? Sicchè se ne andarono i (je » casa sbigottiti; e questo accadè li 16 di luglio 133 ». > L'autore di siffatta relazione, dopo alcune riflessioni sui danni immensi, che | possono derivare all’agricoltura, suggerisce un modo pratico, second» il suo parere, per la distruzione delle cavallette. Il rimedio proposto sarebbe quello, di racco- | gliere le nova deposte dalle cavallette, obblizando a ciò tutti e e ciascuno di essi 4 facilmente li puol cavare, e che li artigiani, ciascheduno di'essi ne facci cavare 4 venti libbre, e li gentiluomini, o che li faccino cavare, o che diano per cia- * echeduna 10 bajocchi, inoltre, che quelli, che tengono pecore, per ogni venti pecore una libra, ogni vacca una libra. Quelli, che hanno semente per ogni « rubbio, una libra, per quelli, che hanno le tenute, e tirano le risposte, per ogni cen bio di risposta una libra, © se vi resta qualche cosa, quando nascono, che l eli signori Commissari comandino alli padroni de’ porci, che mandino ili porci «a mangiarli, e perchè non si commetta fraude, che li signori Commissari fac. | Abbiamo voluto riportare anche quanto fu soritto, in quel tempo, su questo rgomento, affinchè s’abbia un’idea chiara di ciò che eventualmente poteva nv- veni nelle, nostre campagne e più ancora della semplicità dei mezzi, che si evano allora, per combattere un'invasione di cavallette. 260 CAPITOLO XII Il Pontefice Innocenzo X, volle rinnovare le pene contro gli esportatori del grano dallo Stato della Chiesa (1); ma ciò nonostante in quell’anno, la carestia giunse a tale, che fu necessario provvedervi con l’acquisto di considerevole quan- tità di grano, che fu comprato in Polonia (2). In quella contingenza il Pontefice, diè prova evidente della sua sovrana munificenza, facendo sovvènire largamente i sudditi poveri, che in quell’anno furono vittime non solo della carestia, ma eziandio dei danni cagionati da una spaventevole alluvione del Tevere (3). Ma simili provvedimenti poco contribuirono alla stabile abbondanza dell’An- nona pubblica; in quanto l’agricoltura era lasciata quasi in abbandono, anzi pregiudicata da quegli stessi mezzi, coi quali si giudicava di poter porre rimedio alla carestia. Infatti il libero commercio, era stato impedito con provvedimenti eccessivi e di un estremo rigore, perchè era stata proibita assolutamente l’esportazione di qualsiasi quantità di frumento; ed avendo tutti perduta la speranza di qual- siasi lucro derivante dalla coltivazione delle terre, queste erano state lasciate in tale abbandono, che il Pontefice fu quasi astretto ad allettare i proprietari in vari modi, affinchè volessero ripristinare l’antica cultura di esse. A questo effetto con vari editti ed ordini furono promessi premi ed aiuti importanti, a coloro che avessero nuovamente impreso a coltivare le tenute (4). Ma poichè tutto questo riusciva vano e senza alcun risultato, fu poscia or- dinato che venissero denunziati al Prefetto dell’Annona tutti i proprietari delle tenute che non volessero eseguire semente per conto proprio, affinchè lo stesso Prefetto le potesse ripartire fra altri lavoratori. Ciò fu eseguito, non senza qualche serio inconveniente, perché molte terre restarono incolte, quantunque a mezzo di pubblici bandi fossero offerte a chiunque ne volesse intraprendere la colti. vazione (5). î i Tale era in quel tempo lo stato deplorevole dell'agricoltura, allorchè nel- l’anno 1655 fu assunto al Pontificato Alessandro VII — Fabio Chigi da Siena — ed allora appunto sopravvenne una fierissima pestilenza, che non solo mietè le (1) Nella Costituzione pubblicata il 27 novembre 1644, (2) Chirografo d’Innocenzo X. (3) <« Cum enim multa egenorum millia ». (4) E perchè non si ritardi quest'opera, ece, (5) Arch. Vat., Arm, XI, Miscell. 202, pag. 89. n CAPITOLO XII 261 vittime a Roma, ma più ancora nelle campagne, donde per l’assolata man- di operai l'agricoltura venne totalmente abbandonata, e la penuria del grano si suocedette sempre più aspra da un anno all'altro Furono quindi ne. 7 fi grandi acquisti di grano all’estero, e perfino dai Paesi Bassi. Si tentò iche un rimedio, che poscia si convertì piuttosto in grave pregiudizio, e cioè, she l’ufficio dell'Annoha soltanto distribuisse ai forhai il grano, ma lo fece in tale e tanta eccessiva quantità, che i fornai stessi se ne lugnarono; il che recò nidio un gravissimo danno agli agricoltori, che per ciò non poterono vendere a chicchessia il grano di loro pertinenza. Tutto ciò contribuì ancora in più a 800 ggiare chiunque avesse voluto imprendere la coltivazione delle terre, che, cin tal guisa, esponeva a sicuri danni per la mancata vendita dei prodotti, ri- x soltanto all’Annona, come osservammo (1). | —’Nell’anno 1655 il raccolto del grano fu così scatso nell’Agro romano; da | provocare seri provvedimenti a tutela della pubblica Annona per l’anno seguente. Il Pontefice diè ordine a' Cardinale Camerlengo di pubblicare un editto, nel gio no 18 settembre per la esecuzione delle future sementi. Im esso editto si | ftceva menzione del come Alessandro VII avesse dato ordini precisi per l'acquisto de grano all’estero; e tuttociò con grave dispendio del pubblico Erario. Quindi allo scopo di provvedere alla esecuzione della semente nella Campagna te. ‘ rom Dna; s'ingiungeva a tutti coloro chie avesséto eseguite le maggesi, o che di- LE spo: essero di terreni da seminarsi a colto, che si dedicassero con ogni sollecitu- 4 dir e alla esecuzione delle sernine; e a tal fine avrebbero avuto immediatamente Ù a Prefetto dell’Annona la dovuta licenza per provvedersi del grano da seme nelie fuori di Roma, ed avrebbero usufruito di tutte le facilitazioni così per il ct aspo po, come per qualsiasi altra ragione, Che anzi dovendo pervenire al porto di Civitavecchia una parte del grano acquistato, chiunque avesse voluto, avrebbe pot ito colà provvedersene. Ad ottenere quanto sopra, tutti coloro che avevano le inaggesi o i colti prepatati è pronti, e che per deficienza di mezzi, o per qualsiasi altra causa, non potevamo seminare tutto od in parte, erano obbligati, non più tardi del A ottobre futuro, a dentinciare al Prefetto dell’Annona, e per esso al notaio la Camera Apostolica Lucarelli, se avrebbero 0 meno seminato tutta la su- (1) Arch, Vatio, Arm. XI, Miscell. 209, pag. 90, 262 CAPITOLO XII perficie di terreno preparata come sopra, affinchè, in caso negativo, il Prefetto dell’Annona potesse assegnare ad altri le terre che non venivano seminate. Che, ove non fosse stata fatta la prescritta denuncia, in tal caso, il Prefetto ne avrebbe fatta liberamente la concessione ad altri, coll’onere di pagare soltanto la meià della corrisposta a favore dell’Annona di Roma, senza alcun diritto al proprietario o al lavoratore di poter pretendere nulla nè per la corrisposta, nè per altro titolo ; ed anzi il lavoratore dovesse essere condannato a pagare all’Annona la corrisposta che era tenuto di pagare al proprietario, nella stessa guisa che se l'obbligo di pagamento fosse stato assunto a favore della Camera Apostolica. Nessuna molestia poteva essere inferita a colui che avesse coltivato le terre concesse dal Prefetto dell’Annona. i Nella sopraddetta penale sarebbero incorsi tutti coloro che non avessero cominciata la sementa nel futuro ottobre, ovvero che, dopo cominciatala, non l'avessero proseguita. Nel caso che il proprietario od il lavoratore avessero denunciato di non po- tere o di non volere lavorare tutto o parte del terreno, il Prefetto dell’Annona ne avrèbbe fatto la distribuzione ad altri agricoltori, con la condizione di pagare al proprietario soltanto la metà della corrisposta, ed il lavoratore sarebbe stato li- berato da qualsiasi onere, non ostante qualunque patto contrario, ecc. (1). Tale editto fu bandito dalla Camera Apostolica, e fu anco rinnovato per il sevuente anno 1656, nel giorno 8 del mese di novembre. A conferma del privilegio, sempre goduto dai cittadini romani che esercita- vano l’agricoltura e e l'industria armentizia, dobbiamo riferire il sunto di una sentenza, che il Cardinale Caracciolo emise nel giorno 21 ottobre dell’anno 1656 in favore degli agricoltori, nella causa intentata dagli appaltatori della Dogana dei pascoli contro Carlo Gavotti, Giovanni e Bernardino de Turellis ed altri, | I doganieri pretendevano il pagamento della fida del bestiame trasferito da una tenuta all’altra, ed anche da diverso” territorio. La sentenza decretò che i sopraddetti agricoltori dovessero essere mantenuti e rispettati nel loro diritto d’inviare i loro bestiami a pascere, in qualsiasi stagione dell’anno da un luogo all’altro, e da un territorio all’altro, compresi nel distretto di Roma, cioè nel raggio di quaranta miglia ; e tutto ciò senza pagamento di alcuna fida, ma a condizione però che i bestiami non fossero stati già affidati altrove di spontanea volontà. (1) Append, doc. XXVIII, CAPITOLO XI 263 Ì E dalla stessa sentenza veniva decretato che i sopraddetti agricoltori abi- tanti di Roma, e mercanti di campagna, non fossero obbligati a pagare la fida i loro buoi aratori, nè per le bestie cavalline, che venivano adibite ai lavori Sall'aratura e della battitura del grano nelle tenute; e ciò per riguardo al pa- scolo per detti bestiami goduto da una tenuta all’altra, e in diverso territorio (1). A tutela dell'ordine, e per la sicurezza delle campagne fu pubblicato nel- ‘anno 1656, il giorno 1° di febbraio, un Bando del Cardinale Camerlengo, dal uale abbiamo creduto interessante estrarre soltanto i due seguenti capitoli: Lì _ « Art. 39, — RP nella medesima pena della forca, incorreranno quelli, che in i * qualsivoglia modo, ruberanno nelle strade pubbliche, o scortatore (accorcia Jp °toie) frequentate in campagna, etiam per una sola volta, e senza offesa, me- "4 diante il rubamento sia sopra cinque scudi; e se sarà somma minore, concor- « rendovi offesa anche leggiera, e che non toccasse attualmente la persona entri «la medesima pena, e se non vi sarà offesa in modo alcuno, incorrà la pena «della galera perpetua, e per la seconda volta la pena della forca (sic). « Ancorchè per la prima fosse stato punito o gratiato, o indultato, con im- | «punità, et haverà lo stesso effetto nel modo di procedere contro esso, anche | « nel genere dei tormenti, come se fosse reo di un furto, come sopra, eccedente «scudi 5. Chi poi farà rubaria o rapina, fuori delle strade pubbliche, o scorta- | € tore come sopra, in campagna, sì in casa come fuori di essa, se sarà sotto | € cinque, nella pena della forca, anche per la prima volta come sopra. Dal .* Art. 87. — Di più ordina S. S. IHl.ma che tutti e singoli caporali, che pi- 0 « gliano, o pigliaranno per l'avvenire cottimi e faccende da fare in campagna, e | «distretto di Roma, tanto di mietiture, cioccature, falciature, fosse, strade e qual- ] yi « sivoglia altra opera, devino liberamente pagare n ciascuno degli operaii, per «la sua rata tutto il danaro, che haveranno ricevuto da Padroni, che gli have- di vano dato a fare detti cottimi e faccende, altrimenti, tutto quello che tira- l’havere e da, nè Nasino tenerli vin privi di libertà, sotto le pene pe- cuniarie e corporali, ad arbitrio di S. S. Illma. Nelle quali pene incorreranno «anco li caporali cottimaroli, ed altre persone, che con losinghe e male arti, in s9 ‘qualunque modo fraudolentemente, pigliaranno per operarii i pellegrini e quetli __« che vengono a Roma per loro devotione, e condurranno in campagna a lavorare » (2). (1) Append. doc. XXIX. | (®) Arch, Vatie,, Arm. V, Miscoll, 210, tom. XII, pag. 6, t. 10%, « 264 CAPITOLO XII E lo stesso Cardinale Camerlengo per una più rigida e severa funzionalità della Dogana dei pascoli, volle anche bandire il seguente Editto nel giorno 28 agosto dell’anno 1660, che riesce opportuno a far conoscere le varie frodi ed artificî che, di quei tempi, gli ingordi speculatori, si permettevano di compiere, . in danno della Dogana dei bestiami, a scopo di lucro. < Essendo stato dagli affidati della R. C. rappresentato alla S. di N. S., « l'abuso, che da qualche tempo in quà, molti per ingordigia hanno introdotto « di far manopolii dell’ herbe d’inverno, con comprarne assai maggior quantità del loro bisogno, per rivenderle poi con loro avantaggio, e guadagno ai mede- simi affidati, i quali per la suddetta cagione si potrebbero ritenere dal venire « nel solito numero, dentro alla stanga delia Dogana del Patrimonio, e ciò resul- <« tando in grave pregiudizio della R. C. dell'abbondanza della grascia di questa «alma Città, e de’ padroni de’ casali, volendo S. S. ecc. Ordiniamo a tutte e « singole persone ecc. che per l’avvenire, non ardiscano, sotto qualsiasi titolo © « pretesto, comprare erba d’inverno, se non per servitio dei propri animali, è in «non maggiore quantità di quella, che fa loro bisogno, per un anno solamente, «e volendo alcuno comprare l’erbe delle medesime tenute, per più anni, debba « darne nota per gli atti dell’infrascritto notaro, ed ottenerne licenza da Mons. « Pres. della Grascia, la quale se gli concederà gratis ubique, e senza paga- « mento ece. Inoltre vogliamo e comandiamo, che chi avesse comprate fin d’ora « herbe per la stagione prossima d’inverno, debba darne nota negli atti del me- < desimo notaro, dentro al termine di giorni quindici, prossimi futuri, ed ivi 4 GS « dichiarare col giuramento quella quantità, che vuol ritenere per servitio dei « propri animali, e quella quantità d’herbe, che gli sopravvanzerà, oltre al bi- « sogno, sia tenuto dentro al termine di altri quindici giorni, dopo la nota da- ‘« tale in actis, rivendere e concedere ad altri per il medesimo prezzo, e senza « aleun utile, o regalo, etiandio spontaneo, e con licenza del detto Mons. Pres. « Annullando noi per l’autorità ete. E di più in caso, che l’erbe fussero com- « prate da persone, che vogliono rivenderle per mercantarvi (sic) sopra, conce- < diamo licenza ai padroni dei casali, che possano, nonostante detti istromenti, «apoche o contratti, vendere di nuovo le medesime erbe a quelli che effettiva- « mente vogliono comprarle per servitio de’ loro animali, al medesimo prezzo « che già l’avevano vendute. « Ma perchè nella retrovendita dell’erbe, che si dovranno fare, come sopra, « potrebbero i primi compratori commettere delle fraudi, con fare apparire nel- « l’istromento della retrovendita, il medesimo prezzo della prima compera, e poi « estorcere sotto mano qualche somma di danaro, da quelli, che li ricomprano, . « sotto pretesto di cortesia, paraguanto, o buona uscita o simile, e pertanto ad « effetto che questi monopoli non restino impuniti per mancanza di prove, vo- « gliamo, che sopra di ciò si possa procedere per inquisitione, e che sì debba i « credere pienamente ad un sol testimone degno di fede, anzi vogliamo, che si caPItoLO xît 265 «dia piena fede alla deposizione giurata di quello istesso, che avrà sotto detti « pretesti pagato sotto mano il danaro, purchè sia amminiculata, altronde nd «arbitrio dello stesso Mons. Presidente « Et havendo l’esperienza dimostrato, che i suddetti abusi e corruttele, ven- ‘“«gono per più cagionati dalli sensali, che per estorcere qualche illecito guadagno, «e molte volte per averci qualche partecipatione, procurano di concludere simili | «contratti: pertanto inherendo agli altri bandi sopra ciò pubblicati, comandiamo | «et ordiniamo a qualsivoglia persona, di qualsiasi grado, stato, conditione, che \ « non possa in dd. vendite d’erbe in modo alcuno ingerirsi, e farvi senzarie, nè « prendere emolumento, o regalo aleuno, ancorchè spontaneo, ma vogliamo, che « si lascino trattare le dd. vendite e comprè ai padroni dei casali, e loro fattori, «e legittimi procuratori, e respettivamente ai padroni degli animali, loro ver- fl egaro, o legittimi procuratori, ordinando che ai sensali predetti sopra detti con- « tratti, non si debba prestar fede alcuna, nè in giudizio, nè fuori. Dichiarando. « che i trasgressori del presente editto, incorreranno nella pena di scudi due, | € per ciascun rubbio comprato, d’applicarsi la metà alla R. C. un quarto all’ac- | 4 cusatore, il quale sarà tenuto segreto, è l’altro quarto all’esecutore, et incltre | « pene corporali, secondo la contingenza di casi, ad arbitrio di detto Mons. Pre- « sidente (1) ». Nella seconda metà del secolo xvi, alcuni stranieri, avidi speculatori nel commercio del legname, avevano concluso straordinari contratti per il taglio di di vascelli e per altri scopi industriali. Il Pontefice Alessandro VII considerando, che un così soverchio impoverimento delle selve, specialmente di quelle di Net- | tuno, Terracina e Conca, prodotto da tagli eccessivi e disordinati, se avesse con- | tinuato, avrebbe portato la conseguenza che non si sarebbero potute più appro- | vigionare le fortezze o le ròcche dello Stato del necessario, e particolarmente del legname atto a far le ruote, le casse, le tavole di qualsiasi dimensione e gli altri congegni necessari agli affusti dei cannoni, fece bandire dal Card. Camer- - lengo Antonio Barberini un editto, il 29 gennaio dell’anno 1659, inibendo a tutti "il taglio degli olmi, o di altri alberi d'alto fusto, di qualsiasi genere, atti a for- |. Ciò specialmente comandò per le selve di Nettuno, Terracina e Conca, e più an- cora per gli alberi secolari che in quei luoghi esistevano. Fu comminata l'ammenda di scudi cinquanta per ciascun albero tagliato, MA (1) Arch, Vat., Miscell, Arm, V, tom. 206, pag. 309, 266 CAPITOLO XII della quale una metà sarebbe stata a beneficio della Camera Apost. e l’altra metà, da dividersi fra l’esecutore e l’accusatore. L’editto doveva essere affisso non solo a Campo di Fiore, e nei luoghi soliti, ma anche alie colonne della Basilica di San Pietro (1). Necessità urgenti di provvedere al commercio per le variate condizioni eco-. nomiche dello Stato, indussero il Pontefice a pubblicare un suo Breve, nel- l'anno 1660, ai 22 di maggio, per stabilire un rapporto fra le antiche monete di Bologna, e qualle delle altre parti dello Stato della Chiesa. Nel Breve Alessandrino si prescrive l’abolizione della lira e dei bolognini. La lira doveva ‘essere convertita in giulj e baiocchi nella ragione tale che cinque lire e mezza equivalessero a cento faiocchi papali, ossiano dieci giulj. Undici bolognini valevano dieci bazocchi, ossia un giulio. Ciascun daiocco quattrini sei, dello stesso peso e valore di quelli di Bologna; un quattrino poi valeva due denari (2). Nell’anno sopraddetto la Congregazione della Sacra Visita Apostolica fu co- stretta ad emettere un severo decreto per far cessare un abuso vergognoso che. aveva invalso nelle tenute comprese nella diocesi di Porto, poichè i caporali ad- detti ai lavori campestri reclutavano molti giovanetti in Roma e nelle campagne circostanti, e con promesse o mezzi subdoli li conducevano nelle tenute per far loro compiere i lavori di mondatura del grano dai cattivi semi, obbligandoli con violenza a dimorare in quei luoghi per vari mesi, sebbene ciò avvenisse contro la volontà d: quelli; trattandoli quasi come servi in schiavitù, e sempre con du- rezza ed inumanità (3) facendoli mancare del necessario alla vita non solo, ma neppure provvedendo per essi ad alcuna pratica religiosa, che anzi, per sommo obbrobrio, venivano costretti ad atti contro il buon costume con grande scan- dalo di moltissimi (4). La Sacra Congregazione della Visita Apostolica detestando grandemente tuttociò, anche per espresso comando del Pontefice, emanò un rigoroso precetto, il giorno 28 ottobre dell’anno 1660, a tutti i proprietari delle tenute, od affit- (1) Append. doc. XXX. (2) Arch. Vatie., Bolle e Bandi, serie TIT. Ann. 1657-62 ad ann. (3) « ..... ibique multos menses detineantur, inviti ac reluetantes, et quasi servi poene in captivitate, dure inhumaniterque tractentur », ete. (ATO quin etiam — quod horribilius est — per vim cogantur ad gravia pec- cata, cum magna Dei offensa, christiani nominis nota et scandalo plurimorum », CAPITOLO XI 267 nari nel distretto della Diocesi Portuense, qualunque essi fossero, che in avve- ire non potessero condurre i giovanetti a mondare le semente, se non quelli che nente e liberamente avessero voluto, i quali in seguito potessero vo- mente andare e tornare, e che di conseguenza, non si conducessero più elli, se non col patto, che allora dicevasi « alla montanara » (!). Che se o uno avesse coutradetto e violato un ordine tanto imperioso, non solo sarebbe incorso nelle pene comminate dagli editti del Governatore, ma eziandio nella î scomunica, dalla quale non sarebbe stato assoluto se non dallo stesso Pontefice | romano, e nel solo caso di pericolo di vita. Nelle stesse pene incorrevano tutti coloro che sarebbero stati complici di quanto sopra (2). Pochi giorni prima della morte del Pontefice Alessandro VII, nel giorno 6 maggio dell’anno 1666, il Card. Camerlengo Antonio Barberini pubblicò un bando, col quale comandò che in qualsiasi luogo della Campagna romana non $ sì potesse consumare se non il pane manipolato a Roma. La ragione di tale provvedimento fiscale derivava dal fatto, che il Pontefice aveva concesso l'appalto del grano e del granturco a Zenobio Baldinotti, per un le canone in ragione di giul) otto per ogni rubbio di grano, e di giulj due per il i granturco. Le necessità finanziarie della Camera Apostolica avevano indotto il ; Pontefice ad in;porre la gabella del macinato, che prima di quel’ tempo non era mai esistita. | Gli appaltatori del nuovo dazio reclamarono dolendosi che molte ;ersone ‘consumassero nella Campagna romana pane non manipolato in Roma, ma nei Be isoghi cireonvicini, poichè nelle mole della città ed in quelle del suburbio si N . doveva macinare il grano » granturco, tanto per uso di Roma, quanto della Do (1) Le compagnie degli operai per i lavori di zappa, venivano reclutate nei paesi N aalla Sabina, Marittima e Campagna. | —’‘(2 Append, doc, XXXI. 268 CAPITOLO XII quello manipolato a Roma. Che, se alcuno avesse maticato di ubbidire, non solo avrebbe perduto il pane acquistato e le farine, ma anco le bestie adibite al trasporto dei geneti suddetti, oltre le pene comminate nei consueti batidi, te- nendo conto the il pidrone età obbligato per il garzone, senza che potessè es- sere ammessa alcuna ragione a scusa. Si faceva precetto poi ai fornari dei luoghi vicini, perchè non inviassero faritie o pane nella cainpagna di Roma, altrimenti sarebbero incorsi helle pene sopradette, oltre la perdita dei generi e delle bestie che avessero eseguitò i tra- sporti (1). Per ordine del Pontefice Alessandro VII, G. Battista Cingolari, da Pergola, delineò la topovrafia geometrica, è fece la pianta dell'Agro fomano, che, in se- guito unitamente ad una descrizione fatta dal P. Eschinardi, della Compagnia di Gesù, fu pubblicata; ciò che però avvenne soltanto nell’anno 1692. Secondo i dati forniti da quellà piantà, le vigne, che ciicondivno Roma, avevano un’estensione di rubbia 4839 = Ea. S944.40, e le tenute dell’Agro ro- mano sommavano a rubbia 109,039 — Ea. 201,575.41 (2). La superficie fu così calcolata dallo stesso Cingolani: Terreni lavorativi. . . . . . .. circarubbia 80,200 Td; iboschivi:. «Re » » 11,967 Prati ul » » 5,250 Pascoli fiati ia » » 11,637 Rubbia 109,054 Tl numero delle tenta sommava allora a 411. Eletto Pontefice Clemente TX, fél iiese di siugno del 1667, volle ridurre il dazio del Macinàtò, a giulj 3 sul frumento, è ad un giulio sopta gralti mi- nùti; e poichè nell’anno 1668 svvenine una raccolta molto abbondante, il Pòon- teficè volle ché il peso del pane aumènt:isse fino a oficie 9 15 (srammi 236.15). La diminuzione del dazio màeinato, per le solè provincie, importò seudi 65,800 (lire 353,685) (3). (1) Append. doc. XXXII, (2) EscHINARDI. Descriz. di Roma e dell'Agro Romano. (3) Editti del tesoriere Bonaccorsi, 25 giugno e 1° luglio 1668, CAPITOLO XII 269 Fu allora creduto conveniente, di permettere il libero commercio del grano, dell'olio, nell'interno dello Stato, e fu permessa la esportazione del vino (1). Ma non per questo l’arte agraria ebbe migliore fortuna; e, sia per le pub- dispendio per l' Erario pubblico. Nel primo anno del Pontificato d’ Innocenzo IX, il Governatore di Roma, Mons. Federico Borromeo, anche come Vice-Camerlengo, non dimenticò di repli- care un Bando disciplinare della caccia, a tutela della conservazione dei volatili e dei quadrupedi delle nostre campagne, tanto necessari all'agricoltura, al fine di evitarne la distruzione, che si tentava di compiere con ogni mezzo adatto per colpire gli animali. Un ordine precettivo del Governatore, bandito nel giorno 9 luglio dell’anno 1661, gio, reti, lanterne od altra qualunque specie d'istromenti, nella parte della mpagna romana che venne designata per bandita riservata — come già riferimmo uperiormente in riguardo ad altra zona dell'Agro romano sulla destra del 7'e- e — comprendente tutte le tenute esistenti fra sinistra del fiume suddetto, e la destra dell'Aniene che anticamente si chiamava in parlibus Insulae — nelle parti de l'Isola — dalle rive dei fiumi suddetti, e dal Ponte Salario, ai Ponti Nomentano x PA Editto del Card. Camerlengo 19 settembre 1667. 270 CAPITOLO XII Si faceva poi anche precetto che nessuno tenesse nascosta alcuna specie di armi, «d’istromenti da caccia, o di ordigni adatti a ciò, nelle case, nei casali, nelle torri, nei procoi, nelle osterie, nelle capanne, nelle grotte, negli stazzi od altri luoghi, poichè i ricettatori sarebbero incorsi nelle stesse pene, ed era proibito di offrire alloggi ai così detti ‘@nversatori, cioè a coloro che esercitavano l’arte della caccia. Chiunque per ragioni d’interesse avesse dovuto attraversare le tenute indi- cate, essendo armato di fucile, od accompagnato: da cani, dovesse percorrere sempre le strade maestre, altrimenti sarebbe incorso nella contravvenzione. I guardiani delle tenute erano incaricati, sotto la loro responsabilità perso- nale, d’invigilare per la osservanza del bando, con obbligo dell’immediata de- nuncia, e del sequestro degli istromenti da caccia. L’atto concludeva che si sarebbe proceduto rigorosamente, senza ammettere alcuna ragione o scusa, anche per i minorenni. senza riguardo a privilegi, at- tinenze di parentela o licenze, quali .liime specialmente venivano dichiarate nulle (1). n Nel secondo anno del Pontificato di Clemente IX (1618), il Card. Camer- lengo Antonio Barberini, sempre assiduo e vigile custode delle Dogane dei pa- scoli, emise un bando ai 6 di novembre, col quale rinnovava tutte le precedenti disposizioni in merito al buon andamento di quell’istituzione, ed in esso, fra le altre cose, prescriveva: « Che nessuna persona sottoposta alla Chiesa, ecc. ece., possa mandar il « bestiame a pascolare fuori dello Stato Ecclesiastico, senza licenza del Doga- « niere, ecc. ecc., sotto pena di perdere il bestiame ». È Al Pontefice Clemente IX, successe il Cardinale Emilio Altieri, romano, nel- ‘ l’anno 1670, che assunse il nome di Clemente X. Anche sotto il suo Pontificato, nonostante che l’agricoltura avesse dato ot- timi risultati, con discreta abbandanza di raccolti, tuttavia il Prefetto dell’ An- nona, per mandato avuto dal Pontefice, fu costretto ad acquistare il grano in regioni estere. À E poichè le cose dell’agricoltura cerano pervenute a così miserando stato, che per quanto i raccolti fossero abbondanti tuttavia non erano mai sufficienti alla provvisione della Pubblica Annona, ne conseguiva la necessità assoluta che (1) Append, doe, XXXIII. tà det int CAPITOLO XII 271 Pontefice dovesse rimediare alla penuria, spesso minacciante la pubblica tran- uillità, con lo adottare provvedimenti a sollievo della pubblica miseria. scoli, e perciò emise un Bando nell'anno 1670 sini in vigore quanto già | era stato disposto e rinnovato, con pubblici manifesti; che cioè nessuno presu- messe od ardisse di sequestrare i bestiami degli affidati, sia pure che avessero danneggiato i i pascoli d'inverno, o quelli riguardati nella stagione estiva, o già i pascolati, ed anco le semente stesse e le vigne, in qualunque territorio o tenuta, bandita, ecc. (1). i A facilitare poi gli affitti dei pascoli in qualsiasi stagione, come anche la vendita della lana, il Card. Camerlengo, con un suo Editto, pubblicato il giorno 14 ottobre dell’anno 1670, vietò che gli affitti sopradetti si compiessero col mezzo dei pubblici mediatori o sensali, e proibì a costoro di procurare le case o | luoghi in affitto, per riporvi le lane delle masserie. Bb. si pascoli d'inverno non potevano esser conclusi per contratto che durasse oltre un anno, senza avere ottenuto una licenza espressa dal Presidente della | Grascia. | le Tutti erano obbligati a dare la denuncia dei pascoli di cui potevano disporre ar la stagione invernale. Si concesse il permesso ai proprietari delle tenute di poter affittare i pascoli, 4 » coloro che li avessero richiesti per uso dei loro bestiami, al prezzo che aves- ‘ rinvenuto, senza incorrere per ciò in alenna pena. Nell'Editto si fa menzione degli Statuti dell’arte della lana, pubblicati al t I po di Urbano VIII, e dei bandi relativi dell’anno 1664 (2). Da una lettera del sopracitato Card. Barberini diretta agli Abbati, Priori, ecc. rileviamo con esattezza quali fossero i luoghi, ove risiedevano i Gabellieri, o i per controllar i bestiami che si conducevano a pascere nella Dogana, e sì notiamo: il Gabelliere e custole a Castel Sant'Elia, al Borghetto, ossia a (I) e arno datoram, sca forsan în posteram iaferendoram in herbis hyema- 7 aestivis recentibus et requardatis, vel pasciticiis ac seminatis et vineis, gnorumris rritorinm, sen tenimentoram, tenatarum, casalium, bannitarunm, et aliorum quorumcamque + », sec. Arch, Vatie., Miscell., Tom. V, n. 206, fol. 137. n°) Arch. Vatie. Bo/le e Bandi. Serie III, ann. 1689-70, 24 aunam, 272 Ì CAPITOLO XIT Ponte Felice, un ministro, capo sopra gli uomini a cavallo, e revisore per la nu- merazione degli animali affidati nella Dogana del Patrimonio, residente nel Ca- | stello sopradetto di Borghetto — Burghum San Leonardi — il custode del fiume Tevere e del Porto della città d’Orte, il Gabelliere di San Gemini e quello Z'errae Porcariae, ossia nel Borgo e nella strada Flaminia, il custode del fiume e del Porto di Ponzano, quello del Porto di Filacciano, l’altro di Fiano, il Gabelliere del Passo di Corese, il custode del passo di Nerola, il Gabelliere al transito della Piora. a Castel Vecchio, ed il custode del passo a Tivoli ed altri (1) Lo stesso Card. Camerlengo pubblicava un altro suo Bando, nell’anno 1671 ai 22 di maggio, per resolare sempre più l’imporiante istituto delle Dogane dei pascoli di Roma, nonchè delle tenute della Provincia del Patrimonio, che è del seguente tenore: « Essendo per nove anni da cominciare al 1° del mese di giugno, prossimo « avv. con autorizzazione di S. Beatitudine, sia stato deputato Doganiere gen. « delle Dogane de’ pascoli di Roma, campagna marittima e Patrimonio, il « sig. Giuliano Bernardino Butii romano, come consta dagli atti dell’infrascr. « notaro nostro e della Cam. Ap. ete. etc. « Item che nessuna persona debba lavorare, o far lavorare le Bandite, al- trimenti che a quarti, e a terzi, come si lavora a M. Romano, e che si riguar- « dino al 1° sett. tutti li campi che vogliono lavorare, delli quali etiandio, che dipoi non si lavorassero, se ne paghino li Terratici, e che nessuno entri a la- A A « vorare, Senza licenza o bolettino del Doganiere, nè possano quelli che lavo. rano, levare li grani dall’ara prima, che sia soddisfatto detto Doganiere del « suo terratico etc. etc. e simile si osservi da Cittadini de’ luoghi, quali hanno « nelle tenute di detta Camera il jus laborandi o di seminare, con lavorarli or- « dinariamente, cioè a quarti di tutta la tenuta intiera, e nona beneplacito dei « Padroni, ma secondo il ripartimento fatto, o da farsi dal Doganiere, e che si « cominci a lavorare da quel quarto, dove saranno più pezzi di terra incolti, e « così si vada di anno in anno seguitamente ecc. « Item, che nessuna persona ardischi mettere, o tener bestiame di conii al- « cuna, nelle tenute della ‘ Camera, al tempo delle spighe, cioè, che sarà levato « il grano fino a S. Maria di, Agosto, sotta la pena solita etc. ete. « Item per servitio e commodo degli affidati debba ogni Comunità, signore « e persona, a chi appartiene allargare le strade almeno venti canne, che erano « anticamente, dichiarandosi, che li detti affidati possono stare tre giorni, per « ogni territorio, non facendo danni ai seminati vigne e cose simili, come solito, CS (1) Arch. Vatie., Arm. IV, Tom. 37, fog. 380. CAPITOLO XII 273 i facendo danno, siano tonuti nll'emenda del danno, e non alla pena, tanto lina to nel venire a detta Dogana, stare e tornare, quanto nneo, mentre sta- ranno nelle loro terre e case proprie, in qualsivoglia terra e luoghi dello Stato Eoslesiastico, per tutto il tempo della loro fida, conforme alli privilegi antichi Pea al Breve di Gregorio XIII etc. etc. «Item si dichiara che tutti quelli che condarranno bestinme nelle Dogane, « entrati che suranno entro alla s'anga, siano tenuti di pagare la fida, che de. « vono, ancorchè, dopo che fossero entrati, vendessero bestiame a persona di « minor fida. * Item, che nessuna comunità, abbia ardite di far bandite, che siano in pre- « giuditio di detto Doganiere, nè vendere l’erbe delle bandite, già fatte per « Breve de' Sommi Pontefici, nell’erbe (sio) delle tenute, che sono al di tà dal @ Mignone, prima che lè Dogane abbiano vendute le sue, senza licenza in scriptis « di detto Doganiere, anco dopo, che si avrà finita di vendere la sua, sotto la 4 pena di scudi 500, tanto al compratore, quanto al venditore, oltre alla per- 4 dita di dette herbe. — « Item, si dichiara, che tutti quelli, che avranno privilegi d’esser franchi di « fida, debbano tra sei mesi haverli prodotti in Camera, negli atti di esso infra- Peggio notaro di essa Camera, a ciò che essa Camera, fra altri sei mesi, possa ‘ sano, e debbano essere costretti a pagare tutta la fida. « Item, che tutti quelli, che avranno codute le Dogane con Porci, e che ndranno con essi alla 9 fuori della stanga, debbano levare la bolletta, _ Item, perchè folk godono i citbritizi della fida, e poi sottu dieta colori, Am pagare la fida. Si dichiara, che tutti quelli che goderanno e «i servi- | « ranno in qualsivoglia mod» di detti privilggi, siano tenuti pagare a detto Do- : ganiere la fida dovuta, ancorchè avessero pascolato con il loro bestiame, in Isivoglia luogo franco di fida ecc. ecc. « Item, per ovviare, che gli garzoni degli affidati, non possono defraudare i pro padroni, si proibisce pa: ordina, che nessun pelliociaio od altra qualsiasi ficio, 0 ctu acquistassero nel tempo del presente appalto, si osserverà la ida antica, e privilegi contenuti in essa, et agli affidati dello Stato Ecclesia- : stico, s’osserverà la fiera di Toscanella, libera come solito, con l’estrattione « della terza parte degli Agnelli Vernaregchi, non essendovene bisogno per Roma, ' 274 . CAPITOLO XII « qualsivoglia Comunità, sotto pretesto di dar l’assegna de’ loro animali, od altra, salvo in caso, che macellassero per vendere li loro animali, nonostante qualsivoglia cosa, ecc. ecc. « Item, che nessuna comunità, nè Collegio, nè Chiesa, nè prelati, nè qualsi- voglia altra persona di qualunque stato, grado e conditione si sia, nelle terre soggette a dette Dogane, possa vendere, nè sotto altro titolo concedere l’erbe delle sue bandite e pascoli per uso di altri animali (che delli suoi propri), quanto alli particolari, se non nel fine del mese di decembre, et all’hora, e non prima, che avranno ottenuta la licenza în scriptis da detto Doganiere, nè quelle ripartire tra cittadini, nè meno vendere e ripartire l’herbe delle recalate, sotto pena di perdere le tenute, et bandite, quali s’intendano applicate alla R. Camera, nonostante qualsivoglia privilegio et ordine, che tosg stato dato in contrario, ecc., ecc. » (1). Ma poichè il Bando surriferito dava luogo a molteplici interpretazioni e sot- terfugi, per ischivare quanto in esso s’ordinava, lo stesso Cardinal Camerlengo, Antonio Barberini, emanò il giorno 3 giugno dell’anno 1671, un’altra disposi- zione che esplicava quanto aveva primieramente disposto e quasi formava il re- golamento necessario all’applicazione degli ordini pubblicati : fa Aa A A A £’ a < Se bene con il Bando generale, intitolato: ‘“ Bando sopra le Dogane e Pascoli di Roma, e tenute della Provincia del Patrimonio di Santa Chiesa ,, pubblicato sotto il 22 maggio 1671, è stato sufficientemente previsto, a quanto occorreva, per il pagamento della fida dei bestiami, che si tengono, o sì con- ducono in dette Dogane, non di meno, perchè detto bando génerale contiene molti e diversi ordini, acciò per la molteplicità dei capitoli, in esso contenuti, alcun degli obbligati al pagamento di detta fida, non possa allegare ‘ignoranza di tre capitoli, che principalmente dispongono di detto pagamento, senza al- terare la disposizione di detto bando generale, si notifica: « Che nessuna persona sottoposta alla Santa Chiesa, tanto privilegiata, come quelli che sono esenti per fida, debba affi lare, nè mandare il suo bestiame a « pascolare fuori dello Stato Ecclesiastico, senza licenza del Doganiere, dal quale < € o non da altri debba pigliarla, sotto pena di perdere il bestiame, d’applicarsi per metà alla Camera, ed il resto al Doganiere, et accusatore, nonostante altri più privilegi, che fussero in contrario, che tutti s’intendino rivocati. < Item, che persona alcuna abbia hardire di cavar bestiame nè d’estate, nè d’inverno, fuori del territorio suo, per mandarlo in quello d’altri, senza saputa del detto Dogariere, a ciò si paghi la fida dovuta, in qualsivoglia tempo, et il territorio di ciascuno, s’intenda quello del luogo, dove abita la maggior (1) Arch. Vatie., Miscell, Arm. V, 206, pagg. 140,*376, 389. CAPITOLO XII . 275 | o 1633. Dichiarandosi, che liimeta È S. Giovanni di Giugno, s’intenda, che DI a debba pigliare la fida dell'estate, come solito + ‘ ‘elle n nessun Castellano o gabelliere, Comunità, Signori, Prefetti, So- « prastanti, o altri ufficiali di qualsiveglia Stato, grado o conditione, mediate 0 _« immediate soggetti a S. Chiesa, possi aggravare gli affidati ne’ loro bestiami « di pagamento alcuno, nè pigliare da essi affidati, garzoni e ministri, agnelli, LA ti, denari o alkra cosa, nonostante qualunque abuso fusso introdotto di # pigliarli sotto nome di cortesia, o per altro quesito colore, etiam sponte dantibus, « sotto pena della perdita degli offitii, et altre pene, ad arbitrio di detto Do- ganiere, et. anco le pene contenute, nel Breve della f. m. di Gregorio XIII, pplicarsi come sopra, ma essi affidati e Ministri, siano franchi d’ogni cosa ar servitio delle massarie, conformi alle patenti delle fide solite. «Item, che tutti quelli, che verranno coi suvi bestiami, dove sì paga fida, « debbano fra quindici doppo, che saranno arrivati, assegnare al Doganiere tutta IE la quantità dei bestiami grossi e piccoli, che haveranno condotta, denunciando li Padroni di essi, e non lo facendo, o vero al tempo che si conterranno, tro- « vandosi più numero di quello, che havessero assegnato, caschino in pena della « perdita dei bestiami d’applicarsi come sopra, nè debba alcuno avviare bestiame « dalli luoghi, dove si troveranno, verso la montagna, senza la bolletta del Do- ganiere, e chi l’avviarà, et arrivarà alla stanga senza tal bolletta, caschi nella « pena della perdita del bestiame, come sopra, con questo però, che il Doganiere | debba darne notitia a gli affidati nella loro Patente e fida, e nelle medeme « pene incorreranno anco quelli, li quali, benchè non eschino dalla stanga, mo- « prima assegnarli al detto Doganiore, e pigliarne da esso licenza. « Item, si dichiara, che tutti quelli, che condurranno bestiame nelle doganò, | «entrati, che saranno dentro la stanga, siano tenuti a pagare la fida, che de- | vono, ancorchè dopo, che fossero entrati, vendessero tali bestiami a persona + di minor fida. __—«@ Volendo e decretando, che il presente Bando affisso, e pubblicato nei luo- « ghi soliti di Roma, astringa ogn’uno, come se li fosse stato personalmente « intimato. « In fede, ecc. dato in ‘Roma nella Camera Apostolica » (1). ; «Il Pontefice Clemente X, con un suo Chirografo, sotto la data del 22 lu- glio 1671, concesse al Duca d. Flavio Orsini e suoi successori la facoltà di poter vendere e far pascere, tanto coi propri bestiami, quanto di altri, l’erbe e soli dei luoghi e territori di Viano, Oriolo, Monterano, Monte Virgilio 6 Rota, (1) Arch. Vat, Arm, V, Mfiscell. 206, tom. VIII, doc. n. 141, 306, 276 ' CAPITOLO XII liberandoli in perpetuo da qualsivoglia soggezione e peso alla Dogane del Pa- trimonio, o alle Costituzioni Apostoliche. La concessione suddetta fu fatta per il prezzo di scudi 3000, investiti in luoghi de’ Monti Camerali, con obbligo del pagamento dei frutti annui a favore del Doganiere Camerale del Patrimonio, in ricompensa del jus e ragioni, che aveva detta Dogana, di non lasciar. vendere, nè pascolare dette erbe, prima della fine di decembre, ed allora se non con li- cenza del Doganiere. Siccome il Duca Orsini, e suoi fratelli, avevano venduto i luoghi sopra- detti Oriolo, ecc., et anco il jus redimendi, di detto castello di Rota, all’Eminen- tissimo Card. Altieri, e Principi d. Gaspare e d. Angelo, così questi supplica- rono il Pontefice a rinnovare il Breve suddetto, ingiungendo alle Comunità e particolari persone, chiese. collegi, ecc., che non potessero vendere, nè far pascere le loro erbe, prima della fine di decembre, e dopo, se non con licenza dei Pun: cipi Altieri, successi ai Duchi Orsini; ciò che concesse il Pontefice, con un suo Breve in data 24 agosto 1671 (1). 1 Nello stesso anno, essendo urgentissimi i provvedimenti per la verificatasi penuria generale del grano, il Pontefice Clemente X, fu costretto ad accrescere il Debito Pubblico di scudi 315,000 -- L. 1,593,125 — allo scopo di supplire ai gravissimi bisogni dell’Annona frumentaria (2). A coadiuvare lo incremento dell’agricoltura si continuavano a fare dei pre- stiti tanto con denaro quanto con grano, dagli uffici della Rev. Camera, e da quello dell’Annona; ed anzi, per favorire il pubblico benessere, si anticipavano anche somme di denaro per incettare grani, affinchè non ve ne fosse deficienza in Roma. i Però simili anticipazioni subivano molte difficoltà, e davan luoge a liti con i creditori dei mercanti di campagna, all’epoca delle restituzioni, o dei paga- menti, di modo che, spesso, ‘nel riparto e nel concorso creditorio, la Camera Apostolica o l’Annona restavano scoperte del loro ‘avere, e per conseguenza defraudate nei loro crediti. i Il Pontefice Clemente X, nell'intento unico di voler continuare a sussidiare l'agricoltura, con suo Chirografo del giorno 26 giugno dell’anno 1672, reso di pubblica ragione col manifesto del Card. Camerlengo Paluzzo Altieri, il 23 luglio (1) Cod. Vat. 8886, pag. 128 t. (2) De WeLz. Magia del credito. Vol. II, pag. 409, bid Age ir sifcnnncregitti CAPITOLO XII 277° o etesso anno, decretò che nel ri.uborso dei prestiti, tanto in denaro, quanto grano, fatti o da farsi in avvenire, cume anche nelle anticipazioni per le a oni dei grani stessi, la Camera Apostolica, dovesse avere il privilegio i qualsiasi somma, sopra i lavori, le sementi i grani iu essere ed i bestiami, che appartenessero ai Mercanti sussidiati come sopra, e ciò di fronte a tutti i :redi tori, qualunque essi fossero, e nella forina più ampia, come chiaramente aL a dal Chirografo sopradetto (1). i | Da un bando del precitato Card. Camerlengo, in data del 18 marzo 1673, în ordine all'obbligo col quale erano tenuti i proprietari delle pecore, di condurre cioè a Roma un numero determinato di agnelli, per provvedere ai bisogni della tittà di Roma, rileviamo che venvero rinnovati i consueti ordini precettivi, che 7 è tutti dovessero somministrare ad ogni richiesta d 1 Presidente della Grascia, ovino, sotto pena della perdita dell'intera masseria, e dell'ammenda di scudi 200. numero prescritto degli agnelli, ripartito per tutti i possidenti di bestiame { In conseguenza di ciò, tutte le pecore che fossero state condotte a pascere nelle purti cello Stato, non soggette immediatamente alla Chiesa, ossia nei luoghi barenali, dovevano essere ricondotte, nel termine di dieci giorni, nelle parti di- denti assolutamente dalla Sede Apostolica, ed, in caso di mancanza, si sa- bbe proceduto alla confisca del bestiame e ad altre pene corporali, anche ad rbitrio del Camerlengo. | All'effetto poi che le masserie non potessero uscire dalla Dogana dei pa- scoli, senz: aver prima ottemperato al''obbligo della somministrazione degli Ù ’ agnelli, come sopra, i ministri e ufficiali dalle Dogane venivano intimati, sotto * la penale di scudi 50, che non rilasciassero la bolletta d’uscita per le ,masserie, ed altri bestiami, senza averne pria una speciale autorizzazione del Presidente lella Grascia. = — ln «Al bando fa seguito un elenco dettagliato di tutti i proprietari delle pecore nel distretto di Roma, che sommavano a n. 136, c che furono obbligati a som- istrare per il mercato di. Roma, 53470 agnelli. Quelli di Marittima e Cam- pagna in n. 19, dovevano dare 3600 agnelli. I proprietari delle pecore nella Pro pincia del Palrimonio erano 57 e dovevano dare 22520 agnelli. si I signori Romani che sommavano a 40, dovevano somministrare 28200 n P (1) Append. doc, XXXIV, VA 278 CAPITOLO XII agnelli e così tutti i proprietari delle pecore portavano al mercato di Roma, 107690 agnelli. Fra i signori proprietari delle masserie leggiamo, il Card. Chigi, il Cardinal Boncompagni, il Duca Mattei, il Conte Francesco Cenci, il Duca di Paganica, il Duca di Acquasparta, il Marchese Sacchetti, il Principe Agostino Chigi, il Duca Orsini di Bracciano, Paolo Francesco F alconieri, il Duca Cesarini, il Prin- cipe Panfilj, il Principe Borghese, il Principe Giustiniani, il Marchese Tiberio Astalli, il Contestabile Colonna, il Duca di Bassanello, il Principe di Palestrina, Fabrizio Massimi, il Duca Salviati, il Marchese Patrizi, il Marchese Caffarelli, il Marchese Sacchetti e il Marchese Maria Serlupi de Torres, etc. (1). i Con altro bando del 15 gennaio dell’anno 1674 veniva prescritto, che tutti gli agnelli dovessero essere condotti in Roma a Campo Vaccino, settimana per settimana, secondo l’ordine che sarebbesi impartito ai proprietari delle pecore. Nessuno poi, lungo le vie che conducevano a Roma, poteva vendere gli agnelli ai macellai, alle persone particolari, o alle Comunità sotto l'ammenda di scudi cento e la perdita di tutti gli agnelli. A Nel seguente anno 1673, il Card. Camerlengo, Paluzzo Altieri, pubblicò un suo Bando, che, gioverà esaminare in alcune sue parti, per maggiore intelligenza e più completo studio, di quanto alle Dogane dei Pascoli si riferisce. « Circa il capitolo XIV, dove si dice, che tutti li campi che si vogliono « lavorare, si riguardino dal 1° di settembre, si debba invece intendere per una <« pretesa osservanza, fino al giorno di Sant'Angelo, che è alli 29 di settembre. « Circa il medesimo capitolo XIV, mentre si dice, che si paghino i terra- < tici, etiamdio che. di poi li campi non si lavorassero, s'aggiunga per maggior « dichiaratione, che i terratici debbano pagarsi, ancorchè i terreni non fossero «rotti, purchè siano stati impresati, o segnati con li arati (sic), ete. Circa al Capitolo XXIII il Doganiere (Andrea Mauro) dia nota de’luoghi, «ov’è necessario allargare le strade, e dove sono state fatte bandite nuove, o «murate le doganelle, et confini delle tenute in pregiuditio del Doganiere, che « sì procederà, ecc. : ipa (1) Append. Doe. XXXV. Nella collezione è Bolle Bandi», Serie III, del’ Arch. Vatie. in ciascun anno, si leggono i bandi relativi al numero degli agnelli per uso della città di Roma, ed in quei docunrenti sono sempre riportati i nomi dei proprietari del bestiame ovino, che pasceva nell’Agro romano, e nella Provincia del Patrimonio, TO 7, Pe E E en CAPITOLO XII 279 « Ciron il capitolo XXIV, che nessuno sia esente di fida, nè franco di Do- sotto colore d’essere cittadino romano, se non sarà romano originario, nforme alle Costitutioni della f. m. di Papa Gregorio XITI, nel qual caso « dovrà pagare solamente la fida piccola, conforme il solito. Et alcuno non i ; possa godere, se non quella sola franchezza, che gli concede la cittadinanza, « di quel luogo dove habita, talchè se uno fosse cittadino, 0 di T'oscanella o di «altro luogo, goda solo Fesenzione del luogo, dove habita con la fameglia, la maggior parte dell’anno. Che si oesorvi il Capitolo, et Mons. Presid. delle ‘« Dogane, debba provvedere, che nessuno goda più d'una cittadinanza, cioè i quella, dove habita la maggior parte dell’anno. «Circa il Capitolo XXXVIII, dove si dispone, che nessuno possa, sotto qualsivogha titolo, concedere Vherbe delle sue tenute, o bandite, o pascoli per uso d’altri animali, che delli propri. quanto alli particolari, se non nel fine * del mese di decembre, di ciascun anno, et all’hora et non prima che haverà * ottenuto licenza in scritto dal Doganiere, sotto pena della perdita delle dette tenute, o bandite, s'aggiunge per pena al compratore la perdita del bestiame, si che comporta detta herba, e nel resto sì osservi detto Capitolo, ete. etc. < Dato in Roma in Camera Ap., etc. Questo dì 31 maggio 1673 (1)». Un altro documento di “vel tempo è pervenuto fino a noi, e da quello pos- - siamo aver un concetto esatto dei provvedimenti, che il governo del Pontefice | adottare a tutela dei campagnoli, che cadevano malati nell’Agro romano, e la loro lap in esso, gdr lia l’Editto, bandito nel- “ Convenendo che la carità cristiana, ecc., vedendo, che frequentemente nel * dishabitato di questa campagna di Roma gli operai, condotti alle faccende di . medesimi, non possano, nè debbono mandarlo via dalle loro Compagnie, nè « lasciarlo in abbandono, ma imamnediatamente debbano consegnarlo all’hosteria : più vicinay non però capanna o frascata, ove non sia comodità di letti, facen- dolo condurre con le robbe e denari, lasciando al detto hoste un bollettino, 280 CAPITOLO XII A in cui il caporale noti il nome, cognome e patria dell’infermo, tenuta dove « parte, e robbe consegnate di quello, il qual caporale sarà rimborsato nel modo, «che di sotto si esprimerà, di tutta la spesa per detta condotta, et anco del pagamento dell’operario, che a ciò s° impiegasse. E tutto ciò debbano i detti caporali eseguire, sotto pena di scudi 25, da incorrersi per qualsivoglia tra- <« sgressione irremessibilmente, ed applicarsi, per un terzo, a chi darà la denunzia, «e per il resto a benefizio dei medesimi ammalati. E. perchè successivamente si « devo provvedere, anco alla sicurezza, che lì medesimi infermi poi dagli hosti < siano trasportati con ogni diligenza negli ospedali di Roma: perciò sotto le « medesime pene, si ordina a tutti gli hosti, di qualsivoglia hosteria della 4 & « Campagna di Roma, che senza nessuna replica, od altra eccetione, siano te- «nuti et obbligati ricevere prontamente e con carità, tutti quegli infermi, che «da qualsivoglia tenuta gli saranno trasmessi dalli Caporali, delle medesime « Tenute, e che saranno consegnati a loro, con il sopradetto bollettino e deseri- « tione, e quelli debbano ristorare e custodire con ogni diligenza, e carità nelle « loro hosterie; e se saranno in stato di poter essere trasportati a Roma, senza « il pericolo di morire per strada, siano tenuti et obbligati a condurli, o farli «condurre in Roma, in quell’ospedale, che sarà più comodo a quelle porte di <« dove entreranno, et al Priore, od altro ministro dell’ospedale, consegnare il « detto infermo, assieme con il bollettino e robba, che gli sarà stato lasciato, o « mandato dal Caporale, e per la spesa, che avranno fatto, tanto per il vitto « dell’infermo, quanto per la conduttura (sîc), saranno reintegrati prontamente «da Mons. Elemosiniere di S. Santità, con ordine segnato, e sottoscritto da « Noi, o da Mons. nostro Vice-gerente. Se poi i’ infermo, non fosse in stato di « essere trasportato in Roma, in tal caso il medesimo hoste sia: tenuto, et obbli- « gato sotto le medesime pene, ritenerlo nella sua hosteria, et ivi custodirlo, e « governarlo con carità, fino a che sarà in stato di poter essere trasportato, « delle quali spese sarà parimenti rimborsato come sopra. Ma prima d’ogni altra «cosa, se gli incarica precisamente, e precettivamente comanda, che debba « usare ogni diligenza \ossibile, per chiamar il Parroco se sarà possibile, o altro « Sacerdote, tanto secolare, quanto regolare, di qualsiasi ordine, istituto e com- « pagnia, che godesse qualsiasi privilegio et esentione; eziandio che ricercasse « farne special mentione, che àbitasse nella medesima tenuta o più vicina ad «essa, volendo, che alla semplice richiesta del Caporale, prontamente ammini « strino i Sacramenti, et in caso di morte, dargli ancora la sepoltura; che tale <è mente di N. S., avvertendosi, che contro li trasgressori, si procederà alle « suddette pene, d’applicarsi rome sopra, e rispetto ai regolari alla privatione « della voce attiva e passiva, et altre pene a nostro arbitrio. E morendo nelle < hosterie accennate, l’hoste parimenti portando giustificationi necessarie di « quello, che haverà somministrato all’ infermo, ne sarà reintegrato. « Incarichiamo dunque tanto li detti Caporali, Guardiani, hosti, e qualsi- voglia altra persona, che adempischino con ogni carità quanto si contiene nel « presente Editto: Et alli Ministri degli ospedali, che senz’altra replica, pronta- A POI n CAPITOLO XII i 281 ‘mente li ricevino. Volendo tutti gli hosti, fuori delle porte di Roma, debbano tenero affisso nella loro hosteria, in luogo che si possa pubblicamente vedere, 1e leggere il pres. Bando e che li padroni delle Tenute ne mandino anche copia i d'affiggersi e da pubblicarsi ne'luoghi ove si lavori. Intendendo che il pres. Editto « affisso che sarà nei luoghi soliti della città di Roma, et alle porte di essa, ob * blighi, estringa all'osservanza del medesimo, come se fosse stato personalmente < presentato ». | Datum Romae ex aedibus nostris hac die 5 junii 1675 (1). Innocenzo XI che successe al precedente, fu un Pontefice sommamente . dledito alla pubblica carità, e, per quanto potè meglio, si adoperò dal canto suo a provvedere al pubblico benessere e specialmente a quello dei poveri. | Fin dal principio del suo Pontificato promulgò varie ordinazioni in proposito. Volle dettare un calmiere del prezzo dei grani in proporzione della loro scar- sezza, e della distanza dei luoghi, donde provenivano, in modo che il frumento ‘che fosse stato trasportato in Roma da luoghi, che da quella distavano fra le 12 o 20 miglia, dovesse costare scudi 6 e mezzo al rubbio (lire 25.19). Se poi | provenisse da paesi più lontani, da 20 a 40 miglia da Roma, si dovesse vendere scudi 7, lire (37.87). Poco dopo ne fu fissato il prezzo a scudi 8, e per la miglior qualità anche a scudi 8 e mezzo. | Ma simili provvedimenti non furono bastevoli a riordinare l’Istituto della Annona, che trovavasi nel massimo disordine, come non furono sufficienti a di- ‘rimere le infauste cagioni per le quali l’agricoltura trovavasi in quel tempo nella più deplorabile decadenza, mentre da essa unicamente derivava la pubblica uria in cui lo Stato sempre si trovava. Di conseguenza era indispensabile provvedere il frumento dall'Estero, il che cagionava un continuo impoverimento del pubblico erario, che doveva provvedere agli acquisti del grano a prezzi ele- vati, mentre poi il grano stesso era rivenduto a poco prezzo. Da ciò anche aveva una deficienza continua di denaro nelle casse dello Stato, in quanto che le compere incessanti di grano, che si facevano nei paesi esteri, si dove- spedire ingenti somme d’oro e d’argento (2). . Alcuni scrittori, testimoni oculari di quanto avveniva in quel tempo, ci o che allora si seminava approssimativamente soltanto ln decima parte | (1) Arch. Vat., Miscell., Arm. V, 207, doc. 138. |. (® Arch. Vat., Arm. XI, Miscell. 802, pag. 91 è ag. ssa | CAPITOLO XII dell'Agro Romano. Gli agricoltori e mercanti di campagna, per provvedere alle. spese di coltivazione, erano costretti a contrarre prestiti di ingenti somme, ma. poi non potendo vendere il grano ad un prezzo proporzionato alle spese incon- trate, subivano perdite rilevanti, tanto che molti di essi fallirono. Costoro do-- vettero abbandonare l'agricoltura, ed attesa l'avvenuta ‘rovina loro, dissua- sero altre persone dall’applicarsi all'arte dei campi. Ciò obbligò ancora di più lo Stato a compiere immense provvisioni di grano all'Estero (1). Nel primo anno del Pontificato d’Innocenzo XI (1676) i Conservatori di Roma pubblicarono nel giorno 12 decembre, un Bando per frenare gli arbitrî e le pre. potenze, che si commettevano da coloro, che avevano l’appalto delle Depositerie del bestiame, ossia di quei luoghi, ove si ricoveravano le bestie smarrite, rubate, o trovate a far danno nelle proprietà altrui. Da quell’atto rileviamo le tante e speciali consuetudini, e gli usi vigenti in quell’epoca, che erano adottati per il buon andamento dell'industria armentizia, s la quale oramai aveva preso tanto visore e preponderanza nell'Agro Romano, fino al punto che nove decimi di esso, erano destinati alla pastorizia, come osser- vammo superiormente. « Volendo lIllmi et Ecc.mi signori Conservatori di Roma provvedere per «i Mercanti et altri, che hanno bestiame non venghino aggravati dalli. Padroni < delle Rimesse, per il presente pubblico Bando, comandano che sotto pena di i « scudi 25 d’applicarsi al Solito del Campidoglio e di tre tratti di corda da dar- <« segli irremessibilmente (sic) debbano osservare gli infrascritti capitoli, cioè: « Che essendo rimesse vacche e bufale, bovi, cavalli et somari nelle rimesse | « scoperte di Roma, per danno e perdita, non possino quegli delle rimesse farsi « pagare se non bajocchi S e mezzo per bestia tra giorno e notte dandosegli però < il fieno, e se non li daranno fieno, non possino pretendere più di due bajocchi | « per bestia, tra le rimesse e guardia. Dichiarando anche che nessuno possa « far manopoli di Rimesse in pigliare (sic) per allocarle ad altri, sotto le dette <« pene et altre maggiori, ad arbitrio delle SS. LL. .}ì ui. Che essendo rimessa | « aleuna sorte del sopradetto bestiame per esecutione, o sperso © trovato a far x « danno, nelle rimesse di Roma, e Depositaria al coperto in forma di stalla con «la magnatora, dandogli il fieno possino farsi pagare fra giorno e notte ba- « jocchi 21 per bestia, e nelle rimesse di campagna, per danno o perdita, bajocchi 14 < per bestia, dandogli ìl fieno, e se le bestie vi staranno un giorno solo fino a_ < mezz’hora di notte, non possino farsi pagare se non la metà delli suddetti prezzi : (1) Zauri, Ad Statat. Faventiae rub. XLI, lib, IV, n. 291, Cosrant., Ad Statuta Urbis, — LX, n. 16-21. x CAPITOLO XII 283 4 per ciascuna bestia havendogli però dato il fieno, et non dandogli il fieno «non possino prendere più di bajocchi due per bestia, come sopra. «Che il bestiame della sopradetta qualità, rimesso spontaneamente dalli « padroni, non debba pagare se non un bajocco per bestia tra giorno e notte, et ‘8e havranno 1 figli lattanti sotto le madri, paghino tre per un paro, et il me- # desio riguardo si doverà anco havere nel bestiame simile, che sarà rimesso < per danno, perdita o esecutione o perdita (sic), cioè che li figli vadino tre per («un paro sotto le madri come sopra. « Che il bestiame minuto, cioè agnelli, castrati, pecore, capre, porci e simili « rimessi spontaneamente dalli padroni non li debba pagare, se non bajocchi uno (« per paro, e se saranno rimesse per dànno, perdita o esecutione dovranno pa- « gare bajocchi tre il paro, tra la rimessa e guardia, intendendosi sempre, che li | « figliuoli lattanti, vadino franchi sotto le madri. «Che quando sarà rimesso nelle rimesse di Roma alcuna sorte di bestiame, « che sia perso o trovato a far danno (a ciò il padrone ne possa havere .notitia) «il padrone delle rimesse sia tenuto, in termine di 24 hore, dar nota nell’offitio ; dell'IIl.mi et Ecc.mi signori ‘Conservatori, et alli Trombetti di Campidoglio, «delle bestie smarrite in Roma, che saranno state rimesse nella sua rimessa, et «di quelle smarrite e trovate a far danno fuori di Roma, darne nota al Notaro # dell'Agricoltura, con notificare la quantità, il merco ed il pelame delle bestie « rimesse. Et se occorrerà che siano state rimesse fuor di Roma, sia tenuto il « padrone della rimessa di darne il medesimo conto al sopradetto offitio in ter- .« mine di giorni due, e facendo altrimenti, oltre la pena contenuta nel primo ca « pitolo, non possa il padrone della rimessa pretendere pagamento di niuna sorte per qualsivoglia tempo, che l’averà tenuto. «Che li padroni delle rimesse, tanto dentro €he fuori di Roma debbano te- « nere il pres. Bando attaccato alle porte delle loro rimesse, in luogo che da « tatti possa essere comodamente letto. Avvertendo che oltre alle diligenze che sì faranno dagli straordinarii, per ritrovar le fraude e contravvenzioni, alle a quali sì presterà fede conforme alli altri Bandi, si procederà anco per relatione 4 delli padroni de' bestiami et altri interessati, alli quali si darà fede con il solo giuramento, nelle fraudi e contravventioni che si faranno dalli padroni o gar- «« zoni delle rimesse, che si troveranno in campagna, e da quelli che sono in « Roma, con il loro giuramento, ed un testimonio, e si procederà all’esecutione * delle sopradette pene con ogni rigore, e sarà tenuto il padrgne per il garzone, ‘ed un compagno per l’altro alla pecuniaria (sic) conforme al solito. « Dato dal nostro Campidoglio, il dì 12 decembre 1676. Î, « Achille Maffei,, Conservatore. i « G. B. Verospi, Conservatore. _ «Io G. B. Inviti, Trombetta del Campidoglio, abbiamo pubblicato il pre- sente Bando di Roma alli luoghi soliti e consueti » (1). 284 CAPITOLO XII Un’ordinanza del Cardinale Camerlengo Paluzzo Altieri, emessa l’anno 1677 ai 25 di giugno, rinnovava le prescrizioni secolari sancite dalla Camera Apostolica, | perchè nella vigilia della festa del Principe degli Apostoli, si pagassero, come ' per consueto, gli innumerevoli canoni, î censi e le risposte dovute per le molte - plici enfiteusi che tanti Signori, in quei tempi, dovevano pagare alla stessa Ca. mera, come recognizione del dominio, che la Sede Apostolica S'aveva su tante terre, castelli e tenimenli ed altro, il che meglio rilevasi dal documento che | riportiamo. « Con il presente pubblico Editto si notifica a tutti li Fendatari et altri, che « devono pagar censi, canoni, livelli, risposte o altro, alla R. C. A., nella vigilia < o festa dei SS. Pietro e Paolo Apostoli. come nel presente anno 1677. nei « giorni 28 e 29 del corrente mese di giugno, vigilia e festa delli gloriosi « SS. Apostoli Pietro e Paolo, si farà la Camera per ricevere conforma il solito « li pagamenti di detti censi, livelli, canoni, risposte, et altri pagamenti e reco- « gnitioni per Regni, Ducati, Città, Terre, Castelli, Ville, Tenute, Casali, Laghi, « Selve, Proprietà, Dignità, Benefici, Offici, Essentioni, Immunità, et altri qualsi- _ « voglia beni e ragioni che avesse in censo, feudo, enfiteusi, vicariato, governo, « gunorazione, nominatione, o sotto altro titolo nel Palazzo A pesano di San « Pietro în Vaticano nel luogo solito. i Però d’ordine di N. S. datoci a bocca, e per l'autorità del nostro ufficio di « Camerlengato, notifichiamo, ordiniamo e comandiamo alli medesimi Feudatari «et altri suddetti, che per detto pagamento debbano per loro stessi o loro legiù- « timi procuratori comparire Nelli detti giorni di vigilia è festa in detta Camera « all’hore solite, altrimenti contro quelli, che mancheranno si procederà come « contra venienti, e morosi alla dichiaratione della devolutione dei feudi et altro, conforme alle Bolle, et ordini dei Sommi Pontefici, nè s'ammetterà scusa alcuna « d’ignoranza od altro, nonostante qualsivoglia cosa, che s’allegasse in contrario. « Dato in Roma vella Camera Apostolica, li 25 giugno 1677 » (1). CÒ Come già notammo, continuava anche allora la distribuzione del grano, che È era fatta ai fornai direttamente dall’ufficio dell’Annona. Dai documenti di quel- À l’Istituto, rileviamo che nel solo mese di marzo dell’anno 1679, furono sommini- strate ai fornai decinanti e bajoccanti, rubbia 8206 (quintali 17,807) (2). Nel seguente mese però si notificava ai fornai stessi che, secondo l’Editto pub- blicato nell'anno 1665, ai 22 di decembre, tutti dovessero pagare l’importo del (1) Arch. Vatic., Miscell. Arm. V, 205, tom. IV, doc. 156. ‘ (2) Ibi, Arm. V, Miscell. 208, tom. X, 52. CAPITOLO XI 285 E poichè non si trascurava di mantener l'ordine e la sicurezza nelle cam- pagne, che erano vigilate da guardie speciali, allora dette sbirri, così fu neces- , che il Cardinale Cibo, emanasse un ordine nello stesso anno 1676, e pre. is mente nel giorno 5 ottobre, per moderare l’esigenze e le petulanze degli osti , che pretendevano 20 bajocchi (lire 1.07) per ciascuno sbirro, e ciò nto per limitate somministrazioni, come risulta dal documento seguente: «Essendosi stimato necessario di prendere qualche espediente per provvedere agli abusi introdotti dagli Osti, che somministrano gli utensili ai sbirri, di «campagna, cioè pagliaccio oglio e aceto (sic) per insalata, un lume per la notte, 1@ fieno per i cavalli, con farsi pagare dalle Comunità a ragione di doj giulj per ogni sbirro, che alloggiano. Si è però risoluto dalla Sacra Congregazione .« del Buon Governo, con partecipatione di Mons. di Roma di commettere, per fare osservare lo stile antico, che ciascheduno Oste, che darà alloggio non « possa in avvenire prendere se non dodici bajocchi e mezzo per sbirro, che per- notterà nell’osteria, e bajocchi cinque per rinfresco, avvertendo alle medesime : Communità, di non far buona maggior somma, che fosse pagata, perchè dovrà soccombere per proprio chi ne spedirà l'ordine » (2). Il Cardinale Camerlengo, Paluzzo Altieri, d'accordo col Prefetto della e della Grascia, nell’anno 1680 e nel giorno 31 marzo, pubblicò il ente Bando, perchè tutti i possessori di bestiame ovino non mancassero ai « Volendo Noi e Mons. Illo Presidente della‘ Grascia provvedere alli bi- gni della città di Roman, et anco allo Stato Ecclesiastico, a ciò li padroni «degli agnelli sappino quelli, che hanno da dare per uso di Roma, e quelli de’ quali possono disporre a loro arbitrio, con licenza però di Mons. Presidente « della Grascia, come sì dirà di sotto, in servitio dello Stato Ecclesiastico, senza terne estrarre alcuno fuori di detto Stato. l’ertanto d’ordine di N. S. datoci bocca, e per l’autorità del nostro offitio di Camerlengato si comanda, che 286 CAPITOLO XII < ciascuno degli infrascritti debba terera ad istanza della Camera Apostolica e «di Mons. Illmo Presidente della Grascia il numero infrascritto degli agnelli «e delle qualità infrascritte, e quelli condurre in Roma in Campo, come, e « quando li sarà comandato dal suddetto Presidente, sotto pena della perdita « delle Massarie, e di scudi 209 per ciascuno, et altre pene etiam corporali ad « arbitrio nostro, e Gi detto Mons. Presidente. « E le pecore con gli agnelli, che fossero stati mandati ad herbare, o pa- « scere in Stati mediate soggetti, debbano ricondursi da’ padroni di essi nello « Stato immediate soggetto, fra il termine di dieci giorni, sotto pena della con- « fiscatione di tutti gli animali, et altre pene etiam corporali, ad arbitrio nostro, «o di Mons. Presidente della Grascia. « Et a ciò la Camera sia sicura di avere da ciascheduno questa quantità e « qualità d’agnelli, nel modo sopradetto, si proibisce espressamente alli Signori « Doganieri di ioma et Patrimonio, ed a ciascheduno dei loro ministri et offi- « tiali, sotto pena di scudi 50, d’applicarsi alla Camera Apostolica, et altre a « nostro arbitrio, che non sbollettino o licentiino le pecore ed animali degli in- « frascritti od altri pecorari, non descritti come di sopra, senz’ordine di detto « Mons. Presidente. " « Dichiarando inoltre, che il presente Bando, dopo la pubblicatione di esso « fatto in Roma nelli soliti luoghi, astringa talmente ciascuno degli infraseritti « et altri, a chi appartiene, come se personalmente fosse contro di loro, o loro « garzonî od agenti intimato, e si procederà alle pene irremissibilmente » (1). In appendice al Bando surriferito si legge, che nell’anno 1680 ben 228 erano i proprietari delle masserie delle pecore che pascolavano nell’Agro Romano, e che, in seguito agli ordini impartiti tassativamente a ciascun proprietario del bestiame ovino, ripartendo ad ogni singolo una quota, essi in complesso dove- vano portare a Roma ben 93237 agnelli per il mercato di Roma, sotto le pene di sopra comminate. Ò Nell'elenco dei proprietari delle pecore, notiamo fra i nobili ròmani il Prin- cipe Borghese, Orsini, allora Duca di Bracciano, Cesarini, Caffarelli, Salviati, i Marchesi Astalli, Sacchetti e Patrizi, ed i notabili Falconieri, Massimi, Narducci, Amici, Ferri e Cruciani, oltre l'Ospedale di S. Spirito; nè possiamo omettere di far menzione, che fra i duecento ventotto possessori degli ovini, havvi financo un Menico Silio de Visso (2). Pur troppo, però; le trasgressioni, ì frequenti disordini, e più ancora gli ar- (1) Arch. Vat., Arm. V, Miscell. 208, tom, X., 47. (2) Arch. Vat., Atm. V, Miscell. 208, tom. X, 47. “i. “db et ti mt dci LIL nto NI e DA LL diano di CAPITOLO XIT 287 trî turbavano il buon andamento dell'Istituto della Dogana dei pascoli, come ù volte dovemmo notare, in modo che si rese spesso necessario di rinnovare i Bandi e gli ordini per mantenere in vigore e rispetto le disposizioni previdenti lanate dai Pontefici e dai Camerlenghi, a tutela ed immunità della provvida instituzione, che ossicurava non soltanto il rifugio, ma più ancora i pascoli a buon mercato, ed in una misura e ragione fissa, a tante migliaia di capi di be- ù ami che in quei tempi valevano per provvedere alla pubblica Annona ad alla \scia, non soltanto di Roma, ma di tutto lo Stato della Chiesa. Nell'anno 1681, il Commissario Apostolico Bacci Domenico, che era Commis- p della Provincia del Patrimonio e risiedeva in Viterbo, pubblicò questo Bando: « Ancorchè agli affidati della Dogana del Patrimonio, invigore della Costitu- * zione di Gregorio XIII, capitoli Doganali, bandi fatti, ecc., sia permesso nel « venire in Maremme, e ritornare in montagna con le loro massarie e bestiami, « di liberamente pernottare e pascere con dette massarie, solo per tre giorni per « cinscun territorio, di qualsivoglia città castello, luogo, per dove gli occorrerà 4 passare et pernottare. Et essendoci pervenuto a notitia, che molte volte abu- Eppndoni gli affidati di detta permissione, si trattenghino più di detti tre giorni r territorio, con pregiudizio de' padroni di quelli pascoli, ove si fermano, e Foo ciò proceda per il più ad intuitu e persuasione di quelli che li fanno i tenere per far gli stabbiati. Per il che sono nati, e sogliono nascere molti ricorsi, che causano danni ed inquietudini, e volendo per quanto sia possibile i provvedere a detti disordini, e che gli affidati proseguischino il loro viaggio, e non stiino più di tre giorni per ciascun territorio, o altra persona ardisca farli ì trattenere di vantaggio, nè per far stabbiati, nè sotto altro pretesto. Con il ! P sente Bando inherendo alla detta Costituzione, capitoli e bandi, e per l’au- torità del nostro offitio di Doganiere Generale, ordininmo et espressamente comaadiamo a tutti e singoli Vergari e peeorari, e loro garzoni, butteri e pa- « stori, et altri affidati nella Dogana, che nel’ venire in Maremma e nel ritor- « nare in Montagna con le massarie de’ bestiami, non possino, nè debbano sotto qualsivoglia pretesto o quesito colore trattenersi e dimorare ne’ territori di qualsivoglia città, castello e luogo per dove passano con li loro bestiami più detti tre giorni, permessegli per ciaschedun territorio, e questa dimora farla « nei luoghi soliti e destinati per la posata di ciascuno delli detti tre giorni, ‘sotto le pene contenute nelle dette Costituzioni, capitoli e bandi di Dogana, ' e suoi assessori, possino procedere ad istanza delle parti, che ne richiamassero, endo tale giurisdizione privativa della Dogana, in conformità delle Costitu- poni Apost. e del Motu proprio del N.S. confermatorio del nostro appalto (1) ». 0 - (1) Cod, Vat. 8886, pag. 136. " 288 CAPITOLO XIT Da un Editto, pubblicato l’anno 1686 il 27 novembre, rileviamo, che tutti gli alberi e le piante arboree esistenti lungo ambedue le rive dell’Aniene, da Ponte Lucano fino al punto di confluenza col Tevere, spettavano all’ Ammini- strazione della Fabbrica di S. Pietro in Vaticano, in seguito ad un Motu proprio di Papa Paolo III, emesso nell’anno V del suo Pontificato. Infatti i Cardinali della Congregazione per la Fabbrica di S. Pietro ne bandirono l'appalto per il taglio al migliore oblatore, mediante offerta suggellata, da consegnarsi al notaio rappresentante l’ufficio suddetto, con i patti e le condizioni necessarie allo scopo (1). Intanto il Pontefice Alessandro VIII volendo porre un rimedio efficace alla persistente penuria del srano, diè ascolto alle continue lagnanze dei mercanti di frumento, che frequentemente levavano alta la loro voce contro le pregiudizie- voli negoziazioni del Prefetto dell’Annona, reclamando che questi faceva com- piere eccessivi acquisti di erano, da rivendere direttamente ai fornari. Un tale sistema ostruiva completamente la libertà del commercio, specialmente quella dei proprietari delle tenute, e degli aftittuari di esse, allontanando sempre più gli agricoltori dal lavoro della terra, in quanto non era rimunerativo, anzi cagio- nava danno e rovina. Il Pontefice, volendo provvedere contro tanta jattura, elesse una Commis- sione di Cardinali e di Prelati, che si riunì nel giorno 26 novembre 1689, adot- tando le seguenti deliberazioni (2). Che in avvenire l’ufficio dell’Annona si astenesse dai cennati acquisti, e per conseguenza dalle vendite, affinchè con questo provvedimento ad ognuno sì re- restituisse la libertà della compera-vendita del grano, e per ciò la franchigia del commercio (3). - All’effetto poi, che il Tribunale dell’Annona potesse far fronte alle spese proprie, senza aggiungere ulteriore aggravio ai contribuenti, fu imposto ai fornai, che vendevano il pane all'ingrosso, di pagare all’Annona una tassa di giulj 5 per ciascun rubbio (4). Siccome poi nei granai della pubblica Annona, esistevano in quel tempo (1) Append. doc. XXXVI, (2) « Cum SSmus Dom. Noster ». (5) Quod Trib. Annonae debeat, ete. x (4) Quos Pisotres decinantes, ete. 6 CAPITOLO XIT 289 Jen Doe rmbbia di grano — quintali 65,100 — la Commissione deliberò che a tutela dell'abbondanza di Roma, ne fossero tenute in riserva soltanto rub- bin 20,000 - quintali 43,400 (1) ». I fornai poi fossero obbligati a rinnovare con altrettanto grano buono, quella quantità che, a giudizio del Prefetto del Ù Migone, fosse stato necessario, di provvedere in ciascun anno (2). La differenza delle rubbia 10,000 — quintali 21,700 — si dovesse vendere, portando il grano fuori dello Stato, in tante tratte, e con la somma che si be ricavata, il Prefetto dell'Annona, avrebbe dovuto sovvenire gli agricol- ori, specialmente quelli più poveri, facendo loro pagare soltanto il due per cento d se, sempre con un’idonea e sufficiente garanzia (3), restando a cura del Ri rfetto stesso d’impiegare con profitto Je somme ritratte dagli utili, sia aumen- tando i prestiti e le sovvenzioni agli agricoltori, sia rinvestendo in Luoghi di Me sempre a beneficio dell’Annona, avendo specialmente di mira le urgenze presumibil: per l’avvenire (4). La Commissione riconoscendo finalmente la importantissima necessità di porgere un aiuto alla depressa arte dell'agricoltura, e seguendo le norme dei provvedimenti che nel passato erano stati sperimentati tanto efficaci, stimò ppo uno, previo l'assenso del Pontefice, che secondo le disposizioni di Papa Clemente VIII, sia in Roma, come nel suo distretto, e nei territori di Corneto ® Toscanella, se il prezzo del grano non oltrepassasse quello di seudi sei al rub- bio — L 32.50.«- e ciò per tutto il mese di dicembre di ciascun anno, fosse ‘concessa la facoltà di potere esportare tanto per terra quanto per mare la parte di tutto il grano che fosse raccolto nello stesso anno, sempre de- tta la quantità del seme necessario per la semina, e allorchè il prezzo non pcedesse scudi 4 e mezzo (L. 24.18) il rubbio, la concessione fosse estésa a tutto o Stato della Chiesa (5). Simili ponderate decisioni prese dalla Commissione furono pienamente ap- ovate dal Pontefice Alessandro VIII con una sua Costituzione, ed anzi per influire maggiormente all’incremento e sviluppo dell’arte agraria, facilitò l’espor- Pi (1) Quod Piadina. +. oxistent, oto, ad (2) Iniuneta Pistoribus obligatione, ete. (3) Quod reliqua rubra decem millia, ete. (4) Totum id quod solutis expensis, ete. 10 (5) Ob eamdem rationem promovendi, ete. 0, 290 CAPITOLO XII tazione del grano, riducendo i diritti della tassa a soli giulj sei per ciascun rub- — bio (1). Affinchè poi i poveri risentissero beneficio da simili provvedimenti, il Pontefice volle che i fornai vendessero il pane a libbre, in ragione di once. dodici per ciascuna pagnotta (2). 1 Tali provvedimenti emanati a vantaggio dei poveri, nonchè dell’agricoltura, allo scopo di renderla più gradita e rimunerativa valsero al Pontefice il titolo di « Ristoratore dell'Arte Agraria » (3). Che i provvedimenti, presi dal Pontefice Alessandro VIII, fossero utili, ben lo sperimentò praticamente il suo successore Innocenzo XII — Antonio Pigna- telli da Napoli 1691-1700 —, che non ebbe altro proposito se non quello di dare esecuzione esatta alle leggi bandite dai suoi Predecessori, senza che esso ne facesse delle nuove, favorendo in ogni occasione la libert* del commercio, e più specialmente gli agricoltori, che ebbero così il mezzo di vendere il grano senza ulteriori proibizioni, che vietassero la libera contrattazione dei prodotti agricoli. Nell'anno 1690 avvenne una invasione infinita di topi nella Campagna ro- mana, tantochè ne restarono completamente distrutte quasi tutte le sementi, in modo che si ebbe scarsissima raccolta, che fu cagione di un’estrema penuria in Roma. La moltitudine dei roditori fu tale, che destò in taluno tanta impressione, fino al punto da scrivere una dissertazione in proposito che, sebbene dettata in quei tempi, pure fa dubitare seriamente non sia stata scritta con soverchia esa- gerazione (4). i A scongiurare i conseguenti danni nel successivo anno, il Card. Ottoboni sopraintendente, insieme ai Consoli dell’agricoltura, bandirono un editto nel (1) Taxare dignetur in julis sex, ete. (2) Ordiniamo ai fornai,... che siano, ete. : (3) In una moneta coniata in quei tempi. Rodolfo Venuti riferisce: Re framentaria restitata CIOIOCXC. Exprimitur hic vigilantia Pontificis in ubertate Romae procuranda.Is enim murium Ssilvestrium ingentem copiam exterminavit, qui ayros infestabant; ‘rem agra- riam exactionibus et mala administratione poene obrautam optimis editis constitutionibas resti» tuit. Inre igitar merito in ejusdem aureis et argenteis nummis duo boves insceulpii sunt cam ephigrafe : Re frumentaria restituta CIDIOCXC. Nnmismatam Roman. Pontific. praestantiora a Martino V ad Benedictum XIV, per Rodulphinm Venuti. Romae MDCCXLIV, pag. 312. (4) Lettera del Dottore Fran. M. Nigrisoli nella quale si considera l'invasione fatta da Topi nella Campagna di Roma l’anno MDCXO, e particolarmente quella strana loro fecondità, per cui si viddero i Topi ancor non nati, pregnanti nel ventre delle loro Madri (sic). In Ferrara, MDCOXCIII, pag. 47. gl no 6 di gennaio 1691, nel quale richiamarono in vigore l’Editto bandito nel no 8 dicembre dell’anno precedente, affinchè tutti proprietari delle tenute, e, Vigne, macchie, ete., avessero provveduto alla distruzione dei topi sia con ti o mezzi adatti a raggiungere lo scopo. E poichè tutto ciò non era stato guito colla dovuta diligenza e solerzia nell'anno 1690, perciò s'inculcava a utti, nessuno escluso, che entro 6 giorni dalla pubblicazione dell’Editto, doves- ero por mano alla distruzione dei topi, altrimenti si sarebbe proceduto subito mano regia alla esecuzione delle pene comminate contro gl'inadempienti. | L'Editto prescriveva, che il peso e cura di espurgare dovesse essere dei pa- pmi, € non già degli affittuari e coloni, quali però dovevano pagare gli operai letti alla distruzione, e tutto ciò che fosse stato necessario per conseguirla, ed in eguenza le spese dovevano essere ripartite fra i proprietari ed i lavoratori e terre delle tenute, restando però fisso. che chiunque avesse voluto volon- iamente espurgare i terreni dai sorci, sarebbe stato premiato colla retribuzione a sacd tre per ciascun migliaio di sorci, che avesse distrutto (1). ATI 292 CAPITOLO XIII CaprtoLo XIII. Da Clemente XI a Clemente XIV. (Ann. 1700-1774). I primi anni del Pontificato di Papa Clemente IX furono turbati da pub- bliche calamità come terremoti, pestilenze, inondazioni, e grandissime mortalità di bestiame, ed in conseguenza nuovamente sopravvenne la penuria del grano, attesochè le semine nell’Asro Romano furono sommamente limitate. Il Pontefice non omise di far replicare i consueti Bandi, rinnovando le so- lite promesse di aiuti agli agricoltori, e stimolandoli* con ciò, d voler esercitare l’agricoltura. Ma siccome essi rimasero indifferenti alle offerte, mostrandosi anzi restii e contrari, così fu giudicato necessario di provvedere per vie coattive, ordinando al Prefetto dell’Annona, che fossero denunziati tutti i proprietari ne- gligenti, che non coltivavano, affinchè quelle terre fossero assegnate ai coltivatori volonterosi. Ma anche ciò, essendo riuscito inutile, per le consuete brighe, e per i soliti raggiri, così, d’ordine del Pontefice, fu istituita una Commissione, per rin- novare e pubblicare tutti i provvedimenti, che erano stati stabiliti, ed ordinati dai Pontefici predecessori, e specialmente da Papa Paolo V. I Commissari proposero primieramente, per facilitare il libero commercio con la concessione gratuita della esportazione della quinta parte dei raccolti dell’anno in corso, nonchè di un prestito in denaro, perchè gli agricoltori potessero acqui- stare i buoi necessari ai lavori d’aratro. Il Pontefice accolse con molto favore le fatte proposte, e le sanzionò, con un suo Motu proprio, destinando all’uopo la somma di scudi 100,000 (1). Però malgrado tali provvedimenti, non sappiamo, per quale infausta cagione, l’agricoltura piuttosto che migliorare, o almeno mantenersi in vigore, com'era av- venuto al tempo dei due precedenti Pontefici Alessandro VIII ed Innocenzo XII, non solo languì, ma quasi decadde. (1) Are. Vatie., Miscell. 202, pag. 96, nou fl salle CAPITOLO XII 293 Nè, in quei tempi fu tralasciato di sorvegliare il miglioramento della Dogana pascoli, poichè da un Bando, pubblicato il 24 agosto del 1712, rileviamo, il Card. Camerlengo abbia insistito per la osservanza del Breve di Gre- gorio XIII; che, cioè, qualsiasi Comunità, o proprietario di fondi rustici, avesse dovuto allargare le strade, almeno di 20 canne -— m. 40 — come lo erano negli antichi tempi, rammentando altresì, che i bestiami degli affidati potevano pa- | scere în qualsiasi territorio per tre giorni continui, purchè non facessero danni «ai seminati, alle vigne o ad altro, e che, per conseguenza, i proprietari dei be- | stiami fossero tenuti alla sola emenda dei danni, e non ad alcuna altra ponalità | e ciò, anche allorquando avessero tenuto i bestiami nelle loro terre, in qualsiasi | provincia del'o Stato della Chiesa, e durante tutto il tempo della fida convenuta | col doganiere. All'articolo 24 del Bando suddetto, si prescriveva a tutti i proprietari dei bestiami affidati che non ardiesero di far muovere o partire i bestiami suddetti dal luogo, ove si trovavano a pascolare, dal giorno primo di gennaio a tutto | il giorno venti di febbraio di ciascun anno, affinchè i contatori della Dogana . dei pascoli potessero controllare con esattezza il numero e la qualità del bestiame | affidato; e chiunque non avesse osservato tale prescrizione fosse soggetto alla multa di bajocchi 25 per ciascun capo di bestiame minuto, e di scudo uno a capo per quello grosso (1). | Anche i Consoli dell'agricoltura, nello stesso anno 1712, provvidero alla tu- i tela ed alla sicurezza delle tenute nella Campagna romana, specialmente per la | protezione dei raccolti delle derrate. i Era allora invalso l’uso che chiunque aveva compiuto tutti i lavori neces- | sari a conseguire i raccolti, si facesse poi lecito di fare incendiare le stoppie, | senza avere alcun riguardo per i proprietari od affittuari delle tenute limitrofe, badandn se costoro avessero finito i lavori dell'aja, e riposto tutti i cereali Per frenare tali arbitrî, i Consoli dell'agricoltura, avvalendosi di quanto di- ponevano gli Statuti dell’agricoltura stessa, al capitolo 81, ed anche della co- nte cons dine, vollero stabilire con pubblico Bando, che, soltanto nel 294 i CAPITOLO XMI Tale disposizione, in seguito di tempo, fu modificata, stabilendosi, il giorno 10 agosto, come termine fisso per incendiare dette stoppie. Nel Bando si commi- navano severe pene contro i contravventori, oltre la dovuta rifazione dei danni, avvertendo che îì proprietari od affittuari erano obbligati e tenuti pei loro mi- nistri e garzoni, e che anche un sol testimonio avrebbe potuto far fede contro il colpevole (1). Papa Clemente XI, per provvedere alla penuria pubblica seguì i suoi doveri di padre, chè il suo cuore, e la sua munificenza, assai largamente, si manifesta- rono nella occasione di una carestia, che si verificò di quei tempi, ed anzi, a prevenirne le tristi conseguenze, nel principio del suo Pontificato volle, che nella piazza delle Terme, sorgesse il quarto granajo dell’Annona, dal quale, approviggionata che fosse, Roma potesse trarre pronto rimedio alla pubblica calamità. i Intanto, con un suo Motu proprio, del 23 settembre dell’anno 1716, volle richiamare in vigore la Costituzione emanata da Alessandro VIII, per offrire un provvedimento alle lagnanze mosse dagli agricoltori, che non potevano più ven- dere il grano, attesochè l’ufficio dell’Annona acquistava direttamente il frumento. per venderlo ai fornari, dei quali, coloro che vendevano il pane all’ingrosso, dovevano pagare cinque giuli, per ogni rubbio di grano, che avessero macinato. quale reddito serviva per l'andamento dell’ufficio dell’Annona. Il Pontefice, avendo risaputo, che la predetta tassa era riuscita sommamente gravosa ai fornari, che vendevano il pane all'ingrosso, per modo che da ventidue che erano dapprima, ne erano rimasti soltanto sei, e la tassa aveva reso nel primo anno, scudi 3995 — lire 21,473.12 — riconobbe, che i fornai non potevano sostenere una tassa cotanto gravosa. Volle quindi provvedere, ordinando, che ciascun fornaio, il quale vendesse pane in gran quantità, dovesse pagare soltanto tre giulj, per macinare il grano. ed i fornai, che vendevano al minuto, pagas- sero quindici bajocchi, per ciascun rubbio di grano macinato. L’importo di tali dazi, doveva servire per il mantenimento dei ministri dell’Annona. Aggiungeva altri ordini, in merito alla confezione e alla forma del pane, raccomandando, ed ingiungendo l’esatta osservanza di tutto (2). Ma intanto, come avviene sovente nelle umane vicende, che sono sempre (1) Append, Doc. XXXIX. (2) NicoLa1 N. N. Memorie, leggi, ece., II, pag. 66, CAPITOLO XII 295 vendersi, ad un prezzo proporzionato alle spese di coltivazione, gli stessi icoltori domandarono, nell'anno 1719, ed ottennero, che l’amministrazione ’Annona comprasse la terza parte del grano prodotto nella Campagna romana, ad un prezzo non inferiore a scudi sei al rubbio -- lire 32.20 —. Infatti, un Chirografo di Papa Clemente XI, pubblicato il giorno 2 aprile 1719, dopo avere espresso le ragioni sopraddette e per la copiosa raccol'a avvenuta, ordinava che, fin tanto che durasse l'abbondanza del grano, l’amministrazione dell’Annona | potesse comprarlo in ragione di scudi sei al rubbio, per una quantità estensibile alla terza parte di quella raccolta nell’Agro Romano, e nei luoghi circonvicini, avendo però, particolare riguardo agli agricoltori dell'Agro Romano, affinchè, ” simile provvedimento, i mercanti ed i coltivatori potessero supplire ai loro bisogni, lasciando libertà ai medesimi, di poter vendere il residuo del loro grano anoho ad un prezzo inferiore, a scudi sei il rubbio, (purchè non lo vendessero ai fornai, ed agli altri commercianti al prezzo di scudi cinque). Aumentò però «dazio del. macinato, da pagarsi dai fornai, che vendevano pane in grande quantità, e da quelli che lo vendevano al minuto, preserivendo inoltre che, di e in mese la tassa ritratta, fosse versata nella Depositeria generale della Apostolica, per far fronte alle angustie finanziarie, nelle quali versava. Per ultimo volle che, in avvenire, prima che fosse permessa la esportazione Ì grano fuori dello Stato, la Commissione dell’Annona e quella Camerale, aves- espresso in proposito il loro avviso, affinchè fosse provveduto sempre alla bbondanza (1). Anche un altro provvedimento, di somma nino: fu preso durante il ice al POORDIRA salini Mons. della Molare, il 2 aprile dell’anno 1719 ; — già menzionato — volie rendere di pubblica ragione con apposita Notificazione, d giorno 1} maggio nell’anno suddetto, la volontà sovrana del Pontefice. Quell’atto ci conferma, che nell’anno antecedente, i raccolti dei cereali furono così abbondanti, che i mercanti ed agricoltori, nel mese di aprile del- l’anno 1719, non avevano potuto ancora vendere i loro prodotti, e mentre ap- (1) NicoLa1 N. N. Memorie, leggi, ecc. II, pag. 67, 296 CAPITOLO XIII punto perciò si trovavano impossibilitati a far fronte alle spese dei futuri rac- colti, non potevano nemmeno soddisfare i loro creditori, sebbene costrettivi con atti giudiziari. Il Pontefice, per ovviare a tanta jattura dell’arte agraria, auto- rizzò il Vice-prefeito dell’Annona ad acquistare la terza parte dei grani, da quei mercanti di campagna, che avessero voluto vendere spontaneamente, pagan- done l’importo nella ragione di scudi 6 al rubbio — lire 14.97 al quintale — con facoltà ai mercanti stessi di potere alienare la residuale parte del grano, ad un prezzo, che non fosse inferiore a scudi 5 — lire 26.87 — ogni rubbio; e ciò nello scopo di mantenere un prezzo ragionevole, a vantaggio degli stessi mercanti, con beneficio anche della pubblica Annona. Dallo stesso documento sappiamo, che Clemente XI, con altro suo Chirografo, - del giorno 10 agosto, diretto al Vice-Tesoriere generale, indottovi dalla conside- . razione che i mercanti di campagna esponevano la loro vita e le loro sostanze. . all’inclemenza dell’aria e dei tempi, volle che si emetiessero altri mille Luoghi di Monti Camerali per farne vendita a chiunque avesse voluto acquistarli, pa- gandone il relativo interesse ai detentori, ed estinguendoli gradualmente, affinchè col denaro ritratto si potessero sovvenire tuttii mercanti, che tuttora non aves- sero venduto i loro prodotti; e tutto ciò si facesse gratuitamente senza che i mercanti pagassero alcun frutto per il denaro loro anticipato. Gli stessi, però, avrebbero dovuto restituire le somme avute a prestito non appena avessero fatto le vendite dei loro grani, sempre a condizione, che il credito dell'Annona, fosse privilegiato, di fronte a qualsiasi creditore anche ipotecario, come risultava dal Chirografo sopra citato. Che anzi, in quella circostanza lo stesso Pontefice Clemente XI volle istituire un’altra branca della pubblica Annona, a similitudine di quella frumenitaria, e cioè quello della provvista olearia; a tutela dei poveri della città di Roma. Volle quindi che fossero accumulati gli interessi, che si ritraevano dall’Annona frumen- taria fino alla somma di scudi 20,000 — lire 107,500 — affinchè nelle stagioni abbondanti, si acquistasse una rilevante quantità d’olio, che dovesse essere con- servato nei luoghi appositamente ridotti, nei locali dei granai pubblici delle Terme Diocleziane. affinchè, in caso di penuria d’olio, fosse distribuito e venduto, ad un prezzo conveniente, per beneficio pubblico, e specialmente per quello dei poveri (1). (1) Append, Doe, XL. after ide CAPITOLO XNI 297 Ma nell'anno 1721, dopo l'assunzione al trono Pontificio di Papa Innocenzo XIII tironsi maggiori danni per la languente arte dell'agricoltura, a causa non solo delle provvigioni ritardate dal grano, ma altresì a causa dei provvedimenti | tardivi, che furono adottati in quelle strette contingenze; ed in tale occasione | chiaramente apparì, quanto e quale detrimento avesse arrecato all'agricoltura, | “una male regolata amministrazione dell’Annona, mentre dall’Annona soltanto, uno Stato può trarre un vero beneficio, quando sia condotta con previdenza, e sappia assumere in tempo, a favore degli agricoltori, i necessari provvedimenti. In conse- | guenza il Pontefice Innocenzò XIII, con un suo Chirografo, del 27 settembre dell’anno sopraddetto, volle confermare le varie decisioni deliberate dalla Com- | missione delegata, in seguito alle istanze degli agricoltori, perchè essi fossero | liberi nel compiere la vendita del grano, e ne fosse permessa una parziale espor- e o | tazione. Da quel documento rileviamo, come l’anno 1719, era stato sommamente . fatale per l'agricoltura, in quanto molti agricoltori furono costretti, a cedere ai , proprietari delle tenute, tutte le sementi eseguite, con la perdita totale delle Bo fatte. E poichè i raccolti dell'anno precedente 1718, erano stati abbon- danti, fu anche difficile l’esito dei prodotti in quell’anno, ed in conseguenza di ] ciò, fu molto diminuita la quantità delle maugesi, d'onde ne avvenne maggiore penuria di grano, specialmente in Roma. La Commissione aveva deliberato, di tenere quanto aveva disposto il Pontefice Alessandro VIII, che aveva proibito ‘all'Annona, di comprare il grano per distribuirlo ai fornai, restituendo a questi il libero commercio, e la piena libertà di acquisto, a loro vantaggio. La esportazione fu concessa soltanto, in ragione di due rubbia di grano, per ciascun rubbio seminato a colto. Riunitasi la Commissione, nel giorno 18 settembre dell’anno 1721, per fis- sare il prezzo corrente del grano, fu stabilito di diminuire quattro giulj (lire 2.14) per ciascuno rubbio, sul grano, che allora chiamavasi forte, e che ora dicesi grano duro, prescrivendo che, tanto allora, quanto in seguito il rubbio romano | dovesse pesare decine 64 — kg. 217 —,e che il peso dovesse easere controllato all'ufficio della misura. Per quanto si riferiva all'appalto della Ruggiatella (1), ciò che costituiva al piccolo mercato del grano, il provvedimento sopra espresso riguardava i particolari, che non esercitavano negoziato di grano, ai quali (1) « ...9gr0ad appaltum Rabbiatellae,, », 298 CAPITOLO XIII ‘era riservata la facoltà di comprare e vendere il frumento a misura, ed ali prezzo, che fosse ad essi piaciuto (1). Siccome poi la stessa Commissione non potè decidere il prezzo fisso del grano, essendo riuscita pari la votazione, così il Pontefice Innocenzo stesso determinò il prezzo del frumento, a scudi sei e bajocchi sessanta, per ciascun rubbio — lire 35.47 —. Il Chirografo pontificio terminava con utili disposizioni per la osser- vanza di quanto era stato ordinato (2). \ A provvedere anche alle urgenze dell’arte agricola il Pontefice, riflettendo che i produttori del grano non potevano sempre vendere tutti i loro prodotti, diede ordine all’amministrazione dell’Annona che somministrasse annualmente un prestito di scudi tre — lire 16.12 — per ciascun rubbio di grano invenduto che residuasse nel granaio degli agricoltori (3). Ma tali provvedimenti furono appena bastevoli e non far cadere l’agricol- tura nell’assoluto abbandono, senza che però potessero scongiurare in seguito le solite penurie. Nel principio poi del pontificato di Benedetto XIII, successore a Innocenzo XIII, sorse una gravissima questione per parte di tutti i possessori di bestiame,"i quali,.a causa della straordinaria siccità dell’anno 1725, reclamarono al Pontefice, affinchè volesse riparare agli immensi danni da essi subìti, in quanto sebbene avessero antecedentemente preso in affitto i pascoli a prezzo altissimo ed ecces- sivo, tuttavia l’assoluta mancanza delle erbe aveva prodotto una incessante mortalità del bestiame stesso, per modo che non era stato possibile ritrarre aleun utile e alcun frutto dalle masserie. Eglino quindi fecero istanza perchè fossero riconosciute tutte le tenute soggette ai pascoli delle masserie, 1 fine di potere ottenere una diminuzione del prezzo di affitto dei pascoli. Il Pontefice accolse il reclamo, e, con un suo rescritto, decise che i ricor- renti avessero usato del loro diritto (4). In conseguenza di quanto ebbe così deciso Papa Benedetto XIII, il Cardi- (1) ...exceptis tanium particalaribus personibus mercimonium non excercentibus, quibus reservata sit facultas emendi, et vendendi frumentum etiam ad mensnram, et pro pretto eisdem beneviso ». (2) NicoLa1 N. M. Memorie, Leggi, ecc. II, pag. 70. (3) Chirogr. d’Innocenzo XIII. (4) « Oratores utantur jure suo ». i I CAPITOLO XIII 209 o Camerlengo, Annibale Albani, Carlo Collicola Tesoriere generale, e Niccola Negroni Presidente della Grascia, bandirono un Editto di citazione, con invito a chiunque avesse creduto di avervi interesse, di presentarsi alla Deputazione dei giudici, nominata dal Pontefice per esaminare il ricorso e le ragioni dei possi- denti dei bestiami, e più specialmente con ingiunzione ai proprietari delle tenute, che avevano tenuto così alto il fitto delle erbe, di comparire avanti la stessa - Commissione nel termine di giorni dieci, e di dedurre quivi le loro ragioni (1) ‘» ‘La Commissione delegata dal Pontefice, — che in seguito appellossi « dei defalchi », — dopo maturo esame, sentenziò che i proprietari diminwissero la | corrisposta per affitto delle tenute, e dessero altresì una dilazione congrua, affinchè gli affittuari dei pascoli potessero corrispondere agli impegni assunti, tenendo conto della riduzione degli affitti. Il Pontefice, nel desiderio di provvedere alla pubblica cosa, volse l'animo suo a ricercare un pronto rimedio per uno stato di cose, che ogni dì più po- teva cagionare la roviva dell’agricoltura. E, dopo maturo consiglio, chiesto in proposito ad uomini esperti della cosa pubblica, fu riconosciuto che la prima cagione dell’abbandono dell’agricoltura consisteva nel fatto che l’Annona re- in il libero commercio del grano. A causa di ciò i mercanti e gli agri- i , quando Ad avevano fatto trasportare il cc) a Roma, si trovavano aveva lucerato l’ingente somma di scudi 395,249 (lire 2,125,000) (2). | Per simili ragioni gli stessi fornai e gli agricoltori reclamarono energica- mente contro l’Amministrazione dell’Annona, dichiarandosi aggravati oltre le proprie forze, ed oppressi da provvedimenti coereitivi per la loro industria. ggiungasi, che i ministri della stessa Annona, facevano illeciti negozi, dappoichè i mercanti di campagna, per esitare il loro grano, erano costretti a dar loro re- ie in denaro, al fine di goderne la preferenza sopra altri venditori (3). Da ciò derivava ai mercanti stessi un sommo danno; infatti eglino dovevano s all’Annona il grano ad un prezzo determinato, mentre poi l’Annona lo rivendeva ai fornai ad un prezzo maggiore, secondo le circostanze delle (1) Append. doc. XLI. (2) Constituzione di Benedetto XIII, 15 ottobre 1728, (3) Mercatoribus una voce conquerentibus, ecc. Tb, 300 CAPITOLO XITI stagioni. e così i mercanti venivano privati del frutto delle loro fatiche e del rimborso’ delle grandi spese fatte tanto per la coltivazione, quanto per i tra- sporti, senza che da ciò il popolo risentisse alcun beneficio, ma tutto risultava a vantaggio e cuadagno soltanto dell’ Amministrazione dell’ Annona (1). Per tali ragioni, le campagne rimanevano incolte e quasi abbandonate (2), con evidente pericolo dello Stato, per la mancanza delle derrate necessarie al- l’alimento dei popoli. E che, tale fosse il vero stato delle cose, lo dice chiaramente lo stesso Pon- tefice Benedetto XIII nel suo Chirografo del giorno 15 ottobre dell’anno 1725, col quale volle prescrivere le norme ed i regolamenti relativi alla provvista del grano, che doveva fare l’amministrazione .dell’Annona ed anche ai prestiti che si dovevano concedere agli agricoltori. Il Pontefice, dopo le considerazioni che abbiamo già premesse, lamentò che l’agricoltura oramai fosse caduta in deperimento, e che, quasi abbandonata ge- neralmente, fosse per cessare del tutto; temeva che ciò potesse costituire un pericolo per la vita, dato che pochissimi si rinvenissero ancora disposti ad ese- guire la semina sia nell’Agro Romano, sia nel distretto di Roma, e ad arrecare qualche utile ai proprietari delle tenute ed ai coltivatori delle terre, atteso le gravi spese necessarie all’uopo, e la difficoltà somma nel vendere o nel collocare il grano raccolto (3). Im conseguenza il Pontefice ordinò che nei granai dell’Annona sì tenessero in serbo soltanto trentamila rubbia di grano, che si prevedeva potessero essere sufficienti alle urgenze di Roma. Che i ministri dell’Annona, non dovessero più comprare nè vendere il grano, e che quella quantità di frumento, tenuta in serbo, dovesse essere provveduta dai fornai a condizione che, in caso di penuria l’approvvigionamento del grano, dovesse essere fatto a volontà del Prefetto dell’Annona. (1) Maximan lueri partem, ecc. Ib. (2) Aut maiori ex piurte destinuta intereat, vece. ib. (3) «... et /andatissima omnitim arlinm agrienitara... jam tandem penitus labefacta corruat, aut maiori cx parte destituta intereat, urgente praeterea interitas periculo (a), quod pauci admodum in agro romano aut în Urbis districtu campi aratro ad sementem scissi reperiantur, qui fundorum dominis agrorumque culioribus aliguam ajferant utititatem, ob graves impensas hac in re necessarias, sammamgque reddendae ac distrahendae framen- tariae messis difficaltatem ». (a) Sembra che il Pontefice attribuisca la malaria alla scarsa coltivazione del grano, CAPITOLO XIII 301 | Nel tempo normale poi, la provvista pel rinnovo delle 30 mila rubbia, di Ù dovesse essere fatta dai fornai, la quarta parte ogni tre mesi, secondo le prime prescritte dal Chirografo di Papa Alessandro VIII I Consoli poi dell’arte fornai, dovessero ispezionare ogni settimana i granai dell’Annona, e doves- o denunziare subito al Prefetto déll’Annona stessa, se il grano non si man- in buona condizione, o se deperisse, affinchè si potesse provvedere al innovo, acquistando altra quantità. Ogni qualvolta che si acquistasse il frumento, Pi » essere vagliato nei granai dei mercanti di campagna, a volontà del Pre- letto, e giammai nei granai dell’Annona. Volle poi il Pontefice, che il marchese Girolamo Teodoli, riferisse sullo stato nziario dell'’Annona non solo, ma altresì esprimesse il suo parere circa i pre- t ti da farsi agli agricoltori, cioè se dovessero essere fatti in denaro, ovvero in grano, ed in quale misura, e se ai proprietari soltanto, e con quali cautele. Lo stato finanziario dell’Annona aveva allora una consistenza di 562,457.09 cudi, dalla qual somma detratti sîudi 168,254 85, rappresentanti il valore del grano conservato nei granai di /'oma e di Civitavecchia, e che erano stati co st liti per l'’Annona, tenendo conto anche del valore di*un forno di proprietà i ’Annona, ne derivava un utile che ammontava a scudi 394,202.24, dalla qual mma detratti scudi 22,614.84, per frutti dovuti ai possessori delle azioni del lonte Annonario, la residual somma di scudi 371,587.40 — lire 1,997,802.27 — Îmaneva a disposizione e volontà del Pontefice, che la destinò, ripartendola, come viene detto in seguito, in sussidio ed aumento dell’arte dell'agricoltura (1). Stabilì poi che i prestiti per gli agricoltori, fossero fatti col denaro e non col grano, e che ne usufruissero tanto i coltivatori, quanto i proprietari delle tenute e gli affittuari di quelle, poste nell'Agro Romano e nel distretto alla città. | Peri prestiti fatti alle persone del distretto, si dovesse pagare il due per to d’interesse, che doveva servire a saldare gli stipendi dei Commissari, i uali dovevano assumere le informazioni sulla solvibilità di coloro che doman- x no i prestiti. Decretò poi che fusse proibito ai P’anettieri, Vermicellai e Ciambellai di poter 4 si Ma (1) « ..... quam summam in agrariae artis subsidinm et augmentum, inque populorum b iure Sancti Petri existentium beneficium, provida dispositione impendere cupientes, etc. » Costituzione cit. Vi x . e. ì 4 a 302 CAPITOLO XIII acquistare il grano del Mercato a Campo di Fiori, per uso del loro mestiere, disponendo che neppure potessero esercitare l’arte agraria, affinchè sotto tale pretesto, in tempo della raccolta, non incettassero il grano con danno del pub- blico (1). E volle altresì che simili proibizioni fossero fatte ai misuratori — ad pon- deratores — e agli altri ministri dell’ Annona. Nello stesso tempo instituì una Commissione composta del Tesoriere gene- rale e del Prefetto dell’Annona, chiamando a farne parte per rappresentanza di Roma e suo Distretto, Alessandro degli Abbati, referendario in ambedue le Se- gnature, il marchese Girolamo Teodoli e Tiberio Cenci, per l'Umbria e le Marche l'Arcivescovo di Damiata Marco Antonio, per Bologna Alessandro Tanara, refe- rendario in ambedue le Segnature, per Ferrara Carlo Calcagnini, giudice nelle cause de’ Sacri Palazzi Apostolici, per la Romagna Anselmo i Dandini, referen- dario in ambedue lè Segnature, ed insieme Ponziano Fargna, assessore del di- ritto pontificio, e consultore imperiale. Tuttiri sopradetti commissari dovevano riunirsi ogni quindici giorni per deliberare quanto fosse più atto a ripristinare, ristabilire ed aumentare l’agricoltura, occupandosene con zelo, conferendo insieme, consultandosi reciprocamente e riferendo poi tutto al Pontefice stesso, affinchè questi potesse provvedere. Tuttavia doveva restare sempre in carica ed in fun- zione la Cammissione dei Cardinali istituita secondo la Constituzione del Prede- cessore Papa Paolo V, sotto la data 19 ottobre dell’anno 1611. Il Pontefice soggiungeva, nel suo atto, suggerimenti e disposizioni a tutela dell’agricoltura e del buon andamento di essa, affinchè fossero evitati tutti gli inconvenienti gravi che si erano verificati precedentemente. Volle che tutti i Governatori e Presidenti delle provincie dello Stato, pre- stassero somma obbedienza alle decisioni della Commissione particolare instituita per gli affari annonari, e che fosse data esecuzione con sollecitudine a tutte le deliberazioni che essa avrebbe adottato. i Circa le modalità e le cautele con le quali l’Annona avrebbe potuto fare i prestiti agli agricoltori ed ai proprietari dei fondi e mercanti di campagna nel- — (1) «..... quod ad tollenda mercimonia pistorum..... valgoque dicuntar Vermicellari et Ciambellari, renovari debeant edicta..... prohibentia tritici emptionem in acie Campi Florae, ex eo, quod propterea congeritar, nt pluris vendatar, et valgo dicitar « incettare » »,... interdicentia eiusmodi framentariis exercitium artis agrariae, ne hoc praetextn fra- mentum viliori praetio emant, atque hinc impediantar agricolis venandationes ». / CAPITOLO XII 303 l’Agro romano o nel distretto di Roma, il Pontefice volle che qualsiasi delibe- razione in proposito, fosse riservata unicamente alla Commissione prelatizia ed agli altri che erano stati chiamati n farne parte, come abbiamo superiormente indicato. i Per ciò poi che riguardava ln misura, o piuttosto la ragione dei mutui da farsi agli agli agricoltori, il Pontefice, considerando di avere disponibile una — somma di seudi 371,587.40, ripartì tale somma, in quanto a scudi 210,000 per l'acquisto di rubbia 30,000 di grano, da tenersi in serbo nei granai dell’Annona, come aveva superiormente comandato; della residuale somma poi di 161,587,109 scudi, stabilì che dovessero essere fatti in ogni anno dei prestiti: e cioè per scudi 60,000 — lire 325,000 — agli agricoltori e padroni dei fondi e mercanti nell’Agro romano, senza che per detta somma il presidente dell’Annona dovesse pretendere alcun frutto 0 compenso, sotto qualsiasi forma. Volle poi il Pontefice destinare anche la somma di scudi 50,000 in favore degli agricoltori possessori e mercanti del distretto di Roma, i quali, però, avrebbero dovuto corrispondere il due per cento, per le spese d’amministrazione. Il residuo della somma totale di scudi 51.587.40, unendovi l’esazione, che doveva farsi presso tutti i debitori verso l’Annona, oltre il ricavato dalla vendita del grano eccedente le 30,000 rubbia, che dovevano tenersi sempre a disposizione dell’Annona, volle che fosse rinvestito in tanti Luoghi di Monte della Camera che però non fossero wvaca- bili (1). I frutti e gli utili ritrattine, dovevano essere annualmente rinvestiti nel modo sopradetto. Tutto ciò avrebbe dovuto servire a formare una somma sempre disponibile, per provvedere a qualunque penuria o carestia, che avve- nisse in futuro. Il Pontefice affidava la fedele esecuzione dei provvedimenti emessi alla Commissione soprannominaia, ordinando che fossero tutti osservati da qualsiasi persona di qualunque grado o stato. Concludeva la Constituzione abrogando ogni altra disposizione in contrario, precedentemente vigente. La Constituzione fu emanata presso Santa Maria Maggiore, ossia dal Qui- rinale (2). (1) I Luoghi di Monte erano i crediti di una somma determinata facenti parte di un monte, Dicevansi vacabili, se la loro ostinzione era circoscritta ad un tempo, won vacabili, se perpetui. (2) NicoLa1 N. M Memorie, leggi, ecc. II, pag. 72. 304 . CAPITOLO XIII Sembra però che i provvedimenti presi riuscissero del tutto inefficaci, poichè il grano rincariva sempre più, ed i fornai si lagnavano che rimanessero fisse le tasse del macinato, e così i prezzi obbligatori per la vendita del pane. Intanto, per ordine di Benedetto XIII, il Cardinale Albani Annibale, Ca- m>rlengo, pubblicò, nel giorno 30 luglio 1720, un Bando, perchè nessun Principe, Duca, Marchese, Barone o Signore, nè altri di qualsiasi grado o condizione so- ciale, impedisse a chiunque suddito o non suddito, di essi nominati, di poter libe- ramente condurre o mandare a Roma grano e qualsiasi specie di vettovaglie; e ciò conforme ai Bandi generali del 25 settembre 1677, 19 agosto 1693, 5 set- tembre 1701, 14 giugno 1702 e 13 settembre 1713, i quali tutti venivano rinnovati. Coloro che avrebbero trasgredito, sarebbero incorsi nelle censure ecclesiastiche per ragione di lesa maestà — lesae maiestatis — oltre a subire la privazione dei loro feudi e la confisca dei loro beni, secondo quanto prescriveva la Bolla «in Coena Domini » ed altre Constituzioni dei Pontefici. I ministri © rappre- sentanti dei sopradetti Signori, sarebbero incorsi nella pena di diecì anni di galera, mentre coloro che avessero rilevato o denunciato i trasgressori avreb- bero avuto in premio la quarta parte delle pene pecuniarie e si sarebbe conser- vato segreto il nome dei delatori (1). A facilitare l’approvvigionamento della pubblica Annona, il Cardinale Ca- merlengo sopradetto, nello stesso giorno del Bando sopraindicato, ne pubblicò altro consimile, nel quale esprimeva che, essendo a cognizione sua come iî pa- droni del grano, degli orzi e dei legumi, raccolti nello stesso anno nei propri terreni, tenessero tutto riposto nei casali di campagna, nelle tenute, o nei luoghi a quelle vicine, nonostante i reiterati Bandi pubblicati, perciò ordinava che chiunque, fosse anche di condizione sociale elevata, ecclesiastica o secolare, avente domicilio o che abitasse entro Roma, e possedesse grani e legumi raccolti nella stazione attuale o nella precedente, e li conservasse nel raggio di 30 miglia da Roma, e chiunque li avesse anche alla distanza di 40 miglia, ordinava, ripe- tiamo, che i primi dovessero condurre tutto a Roma entro il mese di agosto e gli altri entro il successivo settembre, e quelli ancora più lontani che facevano il trasporto delle derrate sia per fiume, sia per mare, eseguissero l’ordine nella forma come sopra entro il mese di ottobre; e tutto ciò senza alcun pretesto per mancata esecuzione del Bando. In caso contrario incorrerebbero nella pena della (1) Dalla stamperia della R. C. A., 1729. ta Li CAPITOLO XII 205 perdita dei generi, oltre una multa di scudi 10 per ciascun rubbio di grano © granaglie che sarebbe stato rinvenuto nei luoghi tutti, compresi nel Bando. Che se aleuno, per qualsiasi ragione, prorogasse il trasporto, sarebbe stato soggetto alle stesse pene « ed anco maggiori ed afflittive del corpo (sic) ad arbitrio di Mon- signor Prefetto dell’Annona » (1). Tuttavia le raccolte del grano e degli altri generi, si succedevano sempre più scarse, come rileviuamo da un Chirografo del menzionato Pontefice del giorno 14 settembre 1729, nel quale si deplora la penuria non solo di quell’anno, ma al- tresì dei due precedenti. In conseguenza di tale deficienza la Università dei fornai presentò una domanda perchè fosse diminuita la tassa del macinato, dichiarando che altrimenti sarebbe riuscito impossibile ad essi fornari di continuare la loro industria. Il Pontefice annuendo alla giusta domanda e seguendo le disposizioni precedenti dell’antecessore Pontefice Clemente XI, ridusse la tassa della metà tanto ai fornai che vendevano il pane in quantità grande, quanto a quelli che lo spacciavano al minuto. Il Pontefice successore a Benedetto XIII fu il Cardinale Lorenzo Corsini da Roma, che assunse nel pontificato il nome di Clemente XII. Anche nell’anno 1731 l’Università degli affidati diresse una supplica al ?'on- tefice, esponendo come nel trascorso autunno si fosse verificato un completo difetto di erbe da pascolo per la continua siccità, e come la stessa deficienza fosse continuata nell’inverno, in quanto alle pioggie avessero succeduto nevi e geli incessanti. Tutto ciò aveva cagionato non solo una grave perdita nel frutto delle pecore, ma altresì una grande mortalità del bestiame, ed inoltre vgnuno era stato costretto ad acquistare una estensione più rilevante di pascoli per provvedere al sostentamento del bestiame stesso. Queste ricerche di erbe avevano fatto elevare in modo eccessivo il prezzo dei pascoli, che viceversa difettavano per la assoluta mancanza delle erbe stesse. Tale stato di cose, così grave in danno della pastorizia, impensieriva tutti i componenti l’Università degli affidati i quali avevano quasi perduto la speranza di poter riparare alla sventura, che ogni giorno più aumentava per le perdite sempre crescenti, per le spese dei salari e vitto dei garzoni, e per il pagamento della fida alla Dogana del Pa- trimonio. Ad evitare l’ultima iattura quando, cioè, avrebbero dovuto corri- spondere ai proprietari od affittuari delle tenute il pagamento dei pascoli, che (1) Stamperia della R, C. A., 1729. 20 306 CAPITOLO XIIT in caso di mancanza li avrebbe esposti a gravi spese giudiziarie e alla perdita totale delle masserie, supplicavano il Pontefice di voler prendere un provvedi- mento in tempo utile, anche facendo considerare che, passata la “stagione, cer- tamente nell’anno appresso, per la mancanza rilevante dei bestiami, non avreb- bero potuto ritornare nei pascoli della Campagna romana; e nella supplica si aggiungeva che da tanti Sommi Pontefici sono stati privilegiati (gli affidati) per goderne il pascolo in aumento del popolo, e della stessa Rev. Camera per gli utili annui, che la Dogana del Patrimonio ne ricavava scudi ottantamila. Si faceva poi menzione dell’ingente perdita della lana, in quanto le pecore, per l'assoluta mancanza del pascolo, ne erano rimaste quasi prive del tutto — denu- date — e ciò costituiva uno dei maggiori danni, poichè la lana fu sempre uno dei più rilevanti redditi delle masserie. I supplicanti facevano appello ai provvedimenti adottati dal Pontefice Innocenzo XITI nell’anno 1694, e da Benedetto XIII nel 1725. Concludevano domandando un congruo defalco — diminuzione di affitti — ed una dilazione per evitare atti esecutivi, affinchè i proprietari dei bestiami potessero scongiurare l’ultima rovina (1). E allora a seguito di un rescritto santissimo, il Cardinale Annibale Albani Camerlengo, insieme al Tesoriere generale Carlo Maria Sacripanti ed Antonio Ruffo Presidente della Grascia, nonchè Nicola Lana commissario della Camera Apostolica, bandirono, il 31 marzo dell’anno 1731, un Editto citatorio con inibi- zione a favore dell’Università degli Affidati, per decretare una dilazione e una diminuzione al pagamento delle erbe dei pascoli, riconosciutane la gravissima penuria. La Commissione adottò i provvedimenti già assunti nell’anno’ 1725, durante il pontificato di Benedetto XIII, da noi già riportati anteceden- temente. Per parere emesso da una Congregazione o Commissione, specialmente no- minata dal Pontefice, sopra le cose Camerali, composta dal Cardinale Camer- lengo, nonchè dai Cardipali Imperiali e Corsini, dal Tesoriere generale Sacripanti, da Monsignor Ricci, Chierico e Decano della Camera Apostolica, da Monsignor Valenti, avvocato fiscale e da Monsignor Lana, Commissario generale della Ca- mera, fu deciso, nell’adunanza tenuta il giorno 16 aprile 1731, che dovesse rista- bilirsi il pagamento della tassa dovuta dai fornai, seco» - i Chirografo di Cle- (1) Append, doc. XLII. CAPITOLO XITI 307 mente XI e, da quel tempo in poi, che il grano da somministrarsi dall’Annona fosse pagato in ragione di scudi 6.50 per ciascun rubbio — lire 34.93 (1). In conseguenza di ciò, il Pontefice, con un suo Chirografo del giorno 9 maggio 1731, diretto a Monsignor Guido Del Palazzo, Chierico di Camera e Pre- fetto dell'Annona, volle che dai fornai cosidetti decinanti, ossia da quelli che ven- devano il pane in grande quantità, fosse pagato il dazio dì giulj 6 — lire 3,25 — per ciascun rubbio di grano macinato, e dai fornai che vendevano il pane in piccola quantità, detti baioccanti, dai Ciambellonari, Ciambellari e Vermicellari (sic), il dazio fosse di giulj 5 per ogni rubbio, e che il grano da distribuirsi dall’ An- nona fosse valutato in ragione di scudi 6 e mezzo, come sopra fu detto. * Il Chirografo fu spedito dal Palazzo Apostolico di Monte Cavallo (2). n seguito a quanto aveva ottenuto l'Università degli Affidati nel precedente mese di marzo dalla Congregazione dei Defalchi, gli affittuari delle tenute del l'’Agro romano diressero anch'essi una istanza al Pontefice Clemente XII, ed esposero la loro triste condizione, a causa degli scarsi raccolti avvenuti nelle tre stagioni successive degli anniì 1727, 1728 e 1729. I mercanti misero in rilievo la perdita gravissima subìta, poichè la Congregazione sopradetta aveva accordato a tutti i lavoratori delle terre di pagare soltanto la metà delle corrisposte ai mercanti stessi, mentre al contrario questi non avevano avuto alcun compenso nè aleuno sgravio delle corrisposte dai proprietari delle tenute. A tutto ciò s'era aggiunta un’altra sventura, quella cioè dell’assoluta mancanza dei pascoli, in danno dei buoi da lavoro, delle vacche bianche, delle cavalle da razza e dei cavalli adibiti per trasporti: e per conseguenza aumentò oltre ogni dire il consumo del fieno, fino al punto da doverlo trasportare dai luoghi prossimi a Roma in parti lontane dalla campagna. A ciò si aggiunse il necessario aumento dei garzoni, che furono dovuti assumere in più del consueto. La Università dei pecorari ed Affidati aveva altresì ottenuto il defalco e la diminuzione del prezzo dei pascoli, in seguito ad istanza fattane. Anche i cavallari addetti al trasporto del carbone avevano avuta eguale grazia. (1) e... fuit resolutum esse reintesrandam solntionom contribntionis per Pistores faciendar, ad formam Chirographi S. M. “es XI, et pro nunc in distributionibus faciendis per Annonam pretinm frumentoram solvatur ad rationem scatoram sex et obl. quin- quaginta pro quolibet Rubro ». (2) NicoLa1 N. M., 1. c., II, pag. 86. 308 CAPITOLO XITI Per tutti codesti fatti suesposti i mercanti reclamarono al Pontefice, facendo rilevare come tutti i defalchi o ribassi concessìi risultassero in danno gravissimo dei mercanti stessi, e conseguentemente per ragioni di equità chiesero le stesse condizioni a loro favore veîso i proprietari delle tenute, tenendo conto di quanto era stato concesso nel triennio così alla Università degli Affidati, come ai lavo- ratori delle terre e ai conduttori del carbone. La Congregazione deputata, in seguito al rescritto del Pontefice, accordò anche ai mercanti î dovuti compensi (1). A tutela del regolare funzionamento della pubblica Annona, il Cardinale Ca- merlengo Annibale Albani, con suo Bando del giorno 9 agosto dell’anno 1735, prescrisse che tutte e singole le persone, tanto laiche quanto ecclesiastiche, nes- suna eccettuata, ancorchè appartenesse alla Congregazione dei Cardinali, doves- sero per il giorno 25 dello stesso mese dare un'esatta nota ed assegna di tutto il grano, farina, orzo o biadle, ed altri cereali, vecchi o nuovi, che essi tenes- sero riposti nei loro granai od in qualsivoglia altro luogo, così in Roma, che nel suo distretto e nelle provincie del Patrimonio, Marittima e Campagna. In caso di trasgressione si sarebbe proceduto all’applicazione della multa in ragione di scudi 25 -- lire 127.50 — per ciascun rubbio di generi non denunziati od infedelmente denunziati, oltre alla perdita totale dei generi stessi, ed altre pene ad arbitrio del Camerlengo o del Prefetto dell’Annona, con anche lo ar- resto personale e la pena della galera per cinque anni, da aumentarsi secondo i casi e la qualità sociale delle persone. Il Cardinale Camerlengo volle che si ot- temperasse a quanto egli prescriveva, perchè corrispondeva alla precisa volontà del Pontefice. Autorizzava quindi i Governatori locali a procedere etiam per in- quisitionem ex ufficio, riservando la sua azione personale contro i trasgressori in Roma e nell’Agro romano. Il Bando fu dato nella Camera Apostolica (2). Abbiamo voluto riferire. con qualche dettaglio, questo documento, affinchè gli studiosi prendano nota degli estremi rigori che in quei tempi si adoperavano a tutela della pubblica Annona, anche per il fine del benessere e dell’ordine pubblico Per rendere facili e pronte le provviste necessarie a mantenere sempre for- nito e copioso il mercato Annonario di Roma. il Prefetto G. B. Mesmeri, insieme (1) Append, doc. XLIII. (2) Nella stamperia della R. C. A., 1735. CAPITOLO XII 309 al Commissario generale Giuliano Rubini, n»l giorno 8 luglio 1740, pubblicarono un Bando che è la copia fedele di quello fatto il giorno 30 luglio 1729 dal Cardinale Camerlengo, è che noi superiormente abbiamo riferito. Vi aggiunsero soltanto la prescrizione che i padroni delle tenute o terreni, gli agricoltori e la- voratori dovessero indicare, in apposita nota, la quantità dei terreni rotti a mag- gesi e che volessero rincoltare o biscoltare, riservando anche la quantità di grano necessaria per lo spiano de’ forni nelle suddette tenute, casali o luoghi a quelli vicini, purchè la licenza fosse chiesta nei mesi d’agosto o settembre; in caso contrario si sarebbe proceduto contro i trasgressori (1). Durante il Conclave, dopo la morte di Clemente XII, il Cardinale Camer- lengo Annibale Albani, preso consiglio e licenza dai Cardinali capi d’Ordine, volle provvedere, con un Bando del giorno 10 agosto. dell’anno 1740, perchè fosse permessa la esportazione e il libero commercio dei grani ed altro, dal mese suddetto fino a tutto maggio dell’anno seguente, a condizione che la cosidetta tratta fosse eseguita soltanto prendenlo le vie terrestri, da luogo a luogo, senza obbligo di dare alcuna denuncia, salvo il pagamento della solita tassa dovuta ai tesorieri delle Provincie ed agli appaltatori Camerali. Volle però che fossero esclusi dalla licenza sopradetta’ il distretto di Roma, tutta la provincia di Sa- binu, Civitavecchia, con i luoghi a quella soggetti, nonchè Viterbo e la provincia del Patrimonio. 7 L’editto fu datato dal Conclave Apostolico nel giorno sopradetto (2). Da una memoria storica sull’Annona, rileviamo come nell'anno 1740 fossero state seminato a grano nell’Agro romano, sole rubbia undici mila di terreno — et- tari 20,332.40 (3). Il Cardinal Prospero Lambertini da Bologna fu creato Pontefice il giorno 16 agosto dell’anno sopradetto, ed assunse il nome di Benedetto XIV. Uno dei suoi primi atti fu la Bolla emanata nel giovedì santo — in Coena Domini — il giorno 30 marzo dell’anno 1741, con la quale richiamò in vigore le censure ecclesiastiche contro coloro che trasgredissero le prescrizioni dei Pon- tefici predecessori, ed in conseguenza anche contro chiunque impedisse od osta- colasse quelli che conducevano vettovaglie in Roma od altre cose necessarie alla (1) Nolla stamporia R. €, A., anno 1740. Arch. Vat. Bolle e Bandi. Serie III, » (2) Raccolta sopradetta, anno suddetto. (3) Arch, Vat, XI, Miscell, 202, pag. 115. 310 CAPITOLO XIII pubblica Annona, anche per uso di tutti coloro che erano addetti alla Curia Romana. Il Pontefice comminò le censure ecclesiastiche a chiunque ancorchè appartenesse al ramo Cardinalizio, Principesco, o ad altra dignità (1). In quell’anno stesso il Pontefice, villeggiando a Castel Gandolfo ,nel mese di giugno, un giorno fu attorniato da poveri contadini che ad alta voce si que- relavano perchè era loro stato impedito di spigolare dopo raccolte le messi. Fu uno spettacolo commovente quello di un vegliardo Pontefice che nell’aperta cam- pagna, circondato dai diseredati dalla fortuna, ascoltò quei lamenti, che reclama- vano un uso civico antico quanto il mondo! La Bibbia narra di Booz, che ve- dendo la povera vedova Ruth spigolare nel suo campo, ordinasse ai mietitori di lasciar cadere qualche spiga di più dalle mannate, perchè la poveretta potesse raccoglierne in maggior copia, senza che alcuno avesse ardito di muoverle rim- provero. È E così il venerando Pontefice emise una sua Costituzione del 22 maggio dell’anno 1742, in cui considera « che sebbene la legge Mosaica, confrontata con «quella del Vangelo, sia una legge di severità e di timore, tuttavia in questa « si scorge più umanità che non si riscontra in altre. legislazioni umane. E, fra «le altre cose, in quella Costituzione si legge ‘questo brano che riportiamo: « Quando, fatta la raccolta nel tuo campo, vi avrai dimenticato una manna, non « ritornerai indietro per riprenderla; questa sarà per “il forastiero, per l’orfano, « per la vedova, affinchè 1’ Eterno Dio tuo ti benedica sulle opere tutte di tua «mano. Quando avrai scosso il tuo olivo, non vi ritornerai più dopo; que] che « vi restò, sarà per ? forastiero, per l’orfano, per la vedova. Quando avrai ven- «demmiato la tua vigna, non vi ripasserai; ciò sarà pel forastiero, per l’orfano, « per la vedova. Quando farai la mietitura della terra, non raccoglierai da tutti «i canti del tuo campo, nè raccoglierai le spighe sparse, ma lascerai tutto ciò « per èl povero e per il forastiero ». Benedetto XIV seguì il principio di richiamare nella legislazione moderna, quello spirito cristiano che già era stato distrutto dalla tradizione pagana. Pu quello un atto nobile, che ben presto però divenne inosservato, attesa la pre- ponderante potenza e l’indifferenza dei Signori! | Il Pontefice poi ravvisando equo, in seguito a reclamo dei fornai, stretti da serie angustie per la penuria e per il caro prezzo del grano, che si esaminasse ” (1) Ex Typographia R. CO. A., 1741, Arch. Vatie, Raccolta cit, CAPITOLO XII 311 se convenisse di sospendere o no, per qualche tempo, il pagamento della tassa di giulj 5 per la macinazione di ogni rubbio di grano, dopo maturo esame, in seguito ad una relazione fatta dal Marchese Teodoli e dal Prefetto dell’Annona, volle, su parere della Commissione, che « dei denari esistenti in credito della ‘4 Camera Apostolica nel Monte di Pietà, in conto a parte, e provenienti da] « soprappiù del prezzo dei Luoghi del Monte San Pietro, ultimamente aggiunti, « sì facesse passare la somma di scudi 7000 — lire 37,500 - in credito e a di- « sposizione del Prefetto dell’Annona, per essere distribuiti ai fornari, vermirel- « lari, ciambellari, ed altri sottoposti alla spesa della contribuzione, proporzio- «nalmente per la rata’ del macinato da farsi da ciascuno di essi nel ter- « mine di sei mesi, cioè da marzo a tutto agosto p. f., a tenore della risolu- « zione, ecc. ». Il Chivografo fu pubblicato dal Palazzo Apostolico del Quirinale il giorno 530 marzo 174} (1). E poichè i fornai nuovamente suppliearono il Pontefice affinchè accordasse loro simile sovvenzione anco per l’anno seguente, papa Benedetto XIV, con altro suo Chirografo del giorno 5 maggio 1743, ordinò al Prefetto dell’Annona che facesse somministrare una egual somma di scudi 7000 a beneficio dei fornai, da ripartirsi in proporzione della quantità delle farine che avrebbero macinato (2). E sempre più animato a procurare lo sviluppo del commercio, volle con una sua elaborata Costituzione, pubblicata il giorno 29 giugno dell’anno 1748, dal Palazzo Apostolico di Monte Cuvallo, autorizzare il libero e scambievole com- mercio fra le Provincie, città e luoghi dello Stato della Chiesa. Benedetto XIV, in quel documento, considerava primieramente che la proi- bizione del commercio, sebbene sembrasse un’apparente tutela affinchè le pro- vincie non restassero prive di grano e degli altri generi che in essi erano stati prodotti, tutto ciò che riusciva dannoso per le altre provincie, ove i raccolti fos- sero stati meno abbondanti. E nonostante che spesso fosse stato concesso il li- . bero commercio fra una provincia e l’altra, tuttavia, per ragioni varie, ciò era rimasto in modo che sia per i provvedimenti e per gli ordini trasmessi con ri- tardo, sia per le altre irregolarità, degenerò in dànno, ed anzi talvolta la proi- bizione del libero scambio fu eseguita con tale asprezza che una buona parte dei (i) NicoLar, |. c., II, pag. 82. (2) Ibi, pag. 83. 312 CAPITOLO XIII possidenti coloni e contadini furono anche, per via d’inquisizione, sottoposti ai prov- vedimenti e pene gravissime colla totale rovina delle povere loro famiglie. In conseguenza, il Pontefice, di suo Motu proprio, concesse in perpetuo ampia, anzi amplissima libertà, che ciascuno a suo arbitrio e piacere potesse contrattare ed asportare, non solo da un luogo all’altro, ma ancora da Provincia a Provincia, da una Legazione all’altra dello Stato Ecclesiastico — purchè non si asportasse fuori di quello — sia grano che biada, il granturco, i legumi, gli ani- mali, la legna da lavoro e da fuoco, ed ogni altra cosa ehe in qualsiasi modo si chiamasse, ancorchè servisse per l’Annona o Grascia e per qualunque uso dell’uomo. Escluse da tale libero commercio lo Stato dì Avignone, il Ducato di Benevento; il Distretto di Roma, la Provincia di Sabina, quella del Patrimonio, insieme a Civitavecchia con la città e i luoghi a quelli sottoposti, ed in genere tutti i luoghi che servivano all’Annona e Grascia. di Roma e che erano soggetti alla giurisdizione del Prefetto dell’Annona e del Presidente della Grascia. La facoltà di esportazione, concessa come sopra, per il grano venne stabilita dal 1° di settembre dell’anno della raccolta fino al 81 maggio dell’anno seguente a quella; per il granturco e pei legumi poi, dal 1° di ottobre dell’anno in cui fu- rono raccolti fino al 30 giugno dell’anno successivo. La proibizione della espor- tazione fuori dello Stato o da una Provincia all’altra, secondo anche i principî de] predecessore Pontefice Gregorio XV, non riguardava i poveri che raccoglie- vano la spiga caduta ai mietitori, per quella poca quantità che potevano radu- nare con l’opera loro e con le loro fatiche, come ancora venivano esclusi i con- tadini e gli operai che per la loro quotidiana mercede, o in conto di quella, ricevevano il pane o piccola quantità di grano, granturco od altri generi. Erano anche eccettuati i religiosi mendicanti, i quali cercavano e raccoglievano per elemosina e per il vitto comune dei loro Conventi il grano od altro, intenden- dosi concesso però quanto sopra sempre a condizione che fosse in una quantità discreta. La citata Costituzione fu confermata dallo stesso Benedetto XIV con un suo Motu proprio pubblicato il giorno 8 luglio dell’anno sopradetto e datato da Santa Maria Maggiore — ossia dal Quirinale — nell’anno VIII del suo Pon- teficato (1). i Nella metà del secolo xvnI, il Card. Camerlengo, Silvio Valenti, e più pre- (1) Ex Trpographia R, C. A., 1748. Race; cit, OAPITOLO XIII 313 cisamente il 17 settembre 1749, pubblicò un Editto, sopra gli affitti dei pascoli d'inverno e d’estate, impropriamente detti compra-vendita delle erbe. Era invalsa, giù da molto tempo, una consuetudine di speculare sui pascoli, incettandone una quantità ragguardevole, della quale poi in parte gli incettatori ne usufruivano coi propri bestiami e poi ne eseguivano la rivendita ad un prezzo superiore al valore intrinseco, ovvero per quello stesso prezzo che essi avevano pagato, sebbene le erbe fossero state già più o meno consumate dal pascolo precedutovi, e tutto ciò in opposizione a quanto stabilivano gli Statuti dell’agricoltura ed i Bandi emanati in proposito. A far cessare un mercimonio, così dannoso alla pastorizia, il Pontefice or- dinò al Cardinal Camerlengo di bandire un Editto contro le compre-vendite delle erbe dettando validi provvedimenti contro le stesse, ciò che il Camerlengo stesso eseguì, prescrivendo a tutti, di qualsiasi grado, condizione o dignità, ed anche agli stessi Affidati della Dogana, o senti A qualsiasi specie di bestiami, che, in avvenire non ardissero di eseguire la rivendita nè in tutto, nè in parte dei pascoli d'inverno o d’estate, per un prezzo maggiore, quand’anche tal prezzo dovesse superare per una-cifra minima quello che essi avevano pa- gato per lo affitto al proprietario, anche nel caso che si trattasse di pascoli da essere usufruiti per lungo tempo; e nel caso di contravvenzione a tale ordinanza fosse comminata la multa di uno scudo per ciascun rubbio, da ripartirsi per una metà a favore della Camera Apostolica, per una quarta parte all’esecutore e per il residuo a chi ne avesse data l’accusa, a cui sarebbe stato prestato fede, senza rivelarlo, essendo sufficiente un solo teste. Alla multa sarebbero state ag- giunte anco le pene corporali, ad arbitrio del Camerlengo e del Presidente della Grascia. E poichè si prevedeva che gli incettatori dei pascoli, nel dubbio di es- sere scoperti, ne avrebbero occultamente eseguito le rivendita senza l’intervento di persone estranee, come avevano già fatto spesso, così in questo caso si sa- rebbe prestata piena fede ai giuramento dell’affittuario del pascolo. Le prescri- | zioni sopradette riguardavano anche coloro, che fossero conduttori di una o più tenute per lunga durata, i quali perciò erano diffidati a farne cessione, per un prezzo maggiore di quello che era stato fissato per l’affitto, senza tener conto del rischio della maggiore o minore fertilità, come dell’assoluta sterilità che in ciascun anno avesse potuto verificarsi. S'ingiungeva altresì a qualsiasi affittuario di tenute o di casali, di qualsivoglia città dello Stato, di non poter rivendere tutti o parte dei pascoli d’inverno o d’estate ad un prezzo maggiore di quello 314 CAPITOLO XIII che esso avesso pagato, fosse anche in base ad un riparto fra l’erbe da falce, quelle d’estate e d’ inverno ed i prodotti delle semine. Che se qualsiasi condut- tore di tenute si fosse credutc gravato, dovesse farne appello ad uno dei giu- dici competenti, entro il termine di due mesi, e domandasse la nomina di uno o due periti dell’arte, affinchè si potesse stabilire il prezzo ripartito delle erbe nelle singole stagioni, e ciò dovesse aver luogo per i contratti già conclusi in proposito. È Alcuni poi, come era avvenuto nel passato, si eran fatto lecito d’incettar pasco i invernali ed estivi, trattando direttamente con i proprietari e, dopo avervi prima fatto pascere i loro bestiami, ne rivendevano l’erba, come se fosse stata «erba netta » per lo stesso prezzo da essi pagato per l’affitto dei pascoli e talvolta anzi anche superiore di tre, quattro o cinque giulj al rubbio, sebbene gli Statuti della Agricoltura prescrivessero che i pascoli, consumati nel primo o nel secondo mese cene stagione, si dovessero valutare soltanto la metà del loro prezzo iniziale. Così pure avevano praticato alcuni degli stessi Affidati Laonde il Card. Camerlengo decretò che il compratore di un pascolo già consumato non fosse tenuto a pagare altro che la metà del prezzo, ovvero quanto fosse stato. fissato dai periti dell’arte. E poichè in dette retrovendite dei pascoli si sarebbero potuto compiere simulazioni e fraudi molteplici, così il Camerlengo, non volendo che tali mono- polî pregiudicanti la pubblica utilità restassero impuniti per mancanze di prove, dispose, che fosse data piena fede alla deposizione giurata di colui che avesse rilasciato obblighi per pagamenti, sotto altro fittizio titolo, o che avesse già pagato « sotto mano » una qualsiasi somma di danaro. Contro i trasgressori poi, oltre la dichiarata nullità degli obblighi accettati in fraude, si sarebbe proceduto applicando le pene e multe stabilite. L’Editto concludeva con le solite clausole e comminatorie all’effetto che fosse rigorosamente osservato. Fu pubblicato nella Camera Apostolica (1). Nello stesso anno, ai 23 di settembre, il menzionato Card. Camerlengo Silvio Valenti, pubblicò un bando relativo alle Dogane della Fida dei Pascoli di Roma, Marittima, Campagna e Patrimonio, ed in esso dichiarò « che la citta- dinanza di Roma, per il pagamento della Fida Romana e di Toscanella, per Ve- senzione della medesima, dovessero solamente goderla (sic) î Romani ed i Tosca- (1) Append. doc. XLIV, CAPITOLO XIII 315 nellesi originari, sto. », ossia che dalla Fida ne fossero esenti i soli Romani e quei di Toscanella (1). I seguito ai reclami fatti dai mercanti di campagna riguardo all’Editto sopra menzionato, che era stato pubblicato il giorno 17 settembre dell’anno 1749, poichè le disposizioni ne potevano essere considerate come proibitive, anche per gli stessi mercanti di campagna, circa l’esercizio della loro industria, sulla com - pra-vendita dei pascoli, così il, Card. Camerlengo con un suo Editto declarativo, del mese di ottobre susseguente, volle spiegar meglio la vera intenzione del Pontefice, che cioè, nelle proibizioni e pene espresse nel surriferito Editto del 12 settembre 1749, non s'intendessero compresi gli affittuari, e i mercanti di cam- pagna, che prendevano in affitto le tenute dai luoghi ecclesiastici, o dai particolari; e ciò in considerazione del rischio e dello impiego dei grandi capitali necessari a quella industria, ed anco dei pericoli personali, ai quali restavano esposti. Fu quindi stabilito invece, che eglino dovessero essere completamente liberi di eserci- tare il negoziato della compra-vendita dei pascoli, come facevano prima, restando però fermo quanto erasi disposto contro il monopolio delle erbe da pascolo, per chi ne facesse incettazione, comprandole ad un prezzo, per rivenderle ad uno superiore, oppure sottoponendole al pascolo dei bestiami, per poi cederle allo stesso prezzo d’acquisto (2). i L'altra Costituzione Pontificia, che superiormente abbiamo riferita colla data del 22 maggio 1742, non essendo stata osservata, atteso la prepotenza e l'egoismo dei proprietari dei fondi rustici, i quali non potevano tollerare di' buon animo che il Pontefice avesse fatto rivivere un uso civico, antico quanto il mondo — come già dicemmo — quello cioè che il povero potesse spigolare in tutti i campi dello Stato della Chiesa, fu perciò confermata da Benedetto XIV, con una nuova Co- stituzione, per ribadire così tutto quello che aveva prescritto nella precedente. Certamente, da quel documento risulta in modo evidente, che l’uso civico di spigolare, è un diritto da mantenersi in forma collettiva, e da usufruirsi sotto date norme e regolamenti. . Il Pontefice riferì nell’esordio come, mosso dalle preghiere e dalle lagnanze dei poveri, avesse ingiunto a tutti — fraltandosi di una causa della povertà — . che permettessero «i meno abbienti di raccogliere le spighe cadute per terra, o _—_._ (1) Arch. Vatic., Bo/le e Bandi, Serie ILL, Ann, 1748-49, (2) Append. doc. XLV, 316 CAPITOLO XIII lasciate dai mietitori, e tutto ciò, dopo che fosse stata compiuta la mietitura (1), aggiungendo che l’ordine fosse eseguito non solo noi luoghi dove vigeva simile consuetudine, ma che lo fosse altresì in quelli dove non vi fosse stata per il tempo passato, e che anzi si procurasse d’introdurre simile uso con tutta pre- mura (2). Ma purtroppo era avvenuto che in alcune località non si era ubbidito alla ingiunzione, per l’animo tristamente indurito di alcuni, che si? commovevano poco o nulla della miseria del loro prossimo, ovvero anche per le difficoltà insorte nell'esecuzione stessa dell'ordine (3). Oltre di che, molti avevano sospettato che, petmettendo il libero ingresso ai poveri nei loro fondi, ne avvenisse un danno serio alla loro proprietà. In conseguenza, rendevasi necessaria una nuova Costi- tuzione che moderasse l’uso e l’esercizio di quanto era stato decretato a sol- lievo dei poveri, N Il Pontefice aveva saputo, che in vari Stati e dominî, secondo le leggi, si comandava e s'’ingiungeva a tutti, che fosse libero l’accesso ai poveri nei fondi, per raccogliere le spighe, e che ciascuno era autorizzato a portarle nelia propria casa (4). j In conseguenza di ciò, con la sua Costituzione, che doveva avere valore in perpetuo, comandò ed impose che, a cominciare dall’anno in corso e così di se- guito in futuro, in tutto lo Stato della Chiesa, compiuta che fosse la raccolta, tutti i proprietari dei fondi dovessero permettere il libero spicatico ai poveri, per modo chv essi potessero senza alcun impedimento raccogliere le spighe ca- dute al suolo, o tralasciate dai mietitori, e portarle con sè alle loro case (5). Infatti reputava una cosa indegna ed affatto indecorosa, che negli altri Stati si fosse provveduto con leggi statutarie alle necessità e alle deficienze del po- (1) <«.... messe facta pauperes et egeni praediorum aditu ad colligendas spicas, vel in lerva velictas, vel a messoribus praeteritas ...u ». (2) « ..... 2OÎ vero non adhue “esset, omni studio introduci curaretar ..... »» (3) «.... 00 aliquornm animi duritiem qui nullo, aut modico miseriam proximi sui sensa tanguniur ..... ». (4) «..... cognitaum atque intellectam fuerit, in quibusdam Principatibus ac Domintis, lege data, iuberi et praecipi, ut liber pauperibus in praedia relinguatar aditus, ad legendas, quae post messem reliquae sunt spicas, casque ad proprias domos ferendas ..... ». (9) <«.—.... messe facta a dominis praediorum liberum omnina spicilegiam panperibus permittatur, ita ut sine ullo impedimento spicas, vel solo dispersas, vel a messoribus prae- teritas, legere, casque familiis suis, domos importare possint se »+ CAPITOLO XII 317 voro, mentre invece nello Stato della Chiesa niuna legge 0 bando ciò prescrivesse: e poichè con i modi ragionevoli non aveva ciò ottenuto in tutti i Inoghi, repu- tava quindi necesserio di provvedere contro coloro, che soltanto per pravità dell'animo, e per principio di avarizia, da non tollerarsi, si erano resi contu- maci nel negare aiuto ai poveri (1). i E poichè molti avevano negato il libero ingresso nei loro fondi ai poveri dopo compiuta la raccolta, avendo temuto che non avvenisse loro da ciò qualche danno, il Pontefice, udito l'avviso di alcuni periti nell’arte agraria, stabilì al- cune regole, uniformandosi alle quali, veniva escluso qualsiasi pericolo di danno. Prima norma, quella, che a nessuno fosse lecito di entrare nei fondi altrui, o nella riunione di essi, che volgarmente designavasi col nome di quarti, nel tempo in cui si eseguiva la mietitura, nè, che ciò fosse permesso se non quando fossero tolti dal terreno i cumuli dei covoni, che volgarmente chiamavansi ca- sole, e che fossero state portate nel cumulo grande, che volgarmente dicevasi « Barcone » (2). Tale provvedimento era necessario affinchè non avvenissero abusi, nè che i ‘mietitori, durante il lavoro, lasciassero a bella posta cadere le spighe dalle loro mani, perchè fossero raccolte da coloro che li avrebbero seguiti, od anche perchè i poveri, non contenti delle sole spighe cadute fortuitamente o lasciate dai mie- titori, non avessero ardito toglierle dai cumuli dei covoni. Altra regola dovesse essere quella, che cioè appéna tolte le casole dal fondo o dal quarto ove si era compiuta la mietitura, e non appena i covoni fossero stati trasportati al barcone, restasse libero l’ingresso ai poveri, per dieci giorni, al fine di poter raccogliere le spighe cadute al suolo; e, durante tale spazio di tempo, nè i proprietari, nè coloro, che avessero comprato il pascolo delle spighe stesso, potessero impedire lo spigatico, nè potessero immettere a pascere nei poderi o quarti, nei quali era stata fatta la raccolta, i loro buoi od altri animali. Trascorsi poi i dieci giorni, che fosse lecito ai proprietari ovvero ai compra- tori della spiga, d’introdurre nei quarti gli animali che avessero voluto, secondo (1) «...../neundam esse putavimus contra cos, qui sola animi duritie et araritia non fe- renda, in sublevandis panperibus, contumaces se praebnerunt ..... ». (2) «..... nemini ingredi liceat praedia, sen praedioram regiones, vulgo Quarti, abi se- getes metuntur, neque cuiquam aditus ad ea liber sit, nisi postea quam manipoloram acervi, valgo « le Casole », e solo sublati, et in nubilarium, italice « il Barcone » translati fuerint. 318 CAPITOLO XII i patti convenuti nell’acquisto, fra i quali il Pontefice volle che fosse sempre compreso e riservato il diritto ai poveri di poter raccogliere le spighe per dieci giorni consecutivi, e che anzi ciò si fosse ben chiarito ed osservato. Volle, che quanto egli aveva prescritto fosse osservato nell’intero Stato della Chiesa, senza eccezione di luoghi o di persone che ne fossero proprietari, disponendo che nes- suno si esimesse da simile disposizione e comando, e che anzi vi fossero com- prese le Comunità, i Duchi, i Principi, i Marchesi, i Conti, i Cavalieri e qual- siasi personaggio, ancorchè preminente per onori, per prerogative o per dignità. Comandò poi a tutte le Autorità Ecclesiastiche e civili, che facessero rigo- rosamente osservare quello che aveva ordinato, ed inoltre, che fossero pmuniti i trasgressori, qualunque essi fossero, costringendoli a pagare l'ammenda di scudi 89, da esigersi con atto di Mano Regia: che fossero multati per tante volte, quanti erano i latifondi, possessi o quarti di proprietà dei contravventori, donde fossero stati espulsi i poveri, e ciò per ogni volta che avessero commesso il delitto — così appellato nella stessa Costituzione — « di trasgressione all’ordine del Pontefice ». Fece espresso precetto agli esecutori di eseguire la volontà del Pontefice con tutta diligenza, e volle altresì che l’importo delle multe, detratte le spese ne- cessarie, fosse distribuito fra i poveri dei luoghi ove fosse stata rilevata la con- trav venzione. Terminava comminando le censure ecclesiastiche contro coloro che non aves- sero osservato fedelmente quello che era stato comandato. L’atto ha la data del 17 maggio 1751, e fu pubblicato presso Santa Maria Maggiore ossia dal Quirinale — nell’undecimo anno del Pontificato (1). Da una relazione del Prefetto dell’ Annona rileviamo che, nell’anno 1750, si ebbe una scarsa raccolta di grano nell’Agro romano, in quanto si erano seminate sol- tanto 14,000 rubbia di terreno. Ma il prodotto avuto non potè essere sufficiente alle necessità di Roma, perchè allora la città per il suo consumo annuale aveva bi- sogno di rubbia 130,000 di grano — quintali 282,100 — ed anzi, tenendo conto, che per il mantenimento degli operai della Campagna romana, occorressero al- meno rubbia 10,000 — quintali 21,700 di grano — e calcolata anche una prov- vista per riserva, e per il seme della futura sementa, sarebbe stato indispensa- bile di raccogliere almeno rubbia 15 8,000 — quintali 342,860 di grano (2). (1) ARDANT G. Papi e Contadini, pag. 165. Arch. Vatie., Race. cit. (2) Arch. Vat., Arm, XI, Miscell. 205, pag. 118, 119, CAPITOLO XIIT 319 In quell'anno stesso fu aumentata la semina del granturco, che in quei tempi dicevasi Grano Siciliano (1). j | Il successore di Benedetto XIV, fu il Card. Rezzonico Carlo, da Venezia, che fu assunto al Pontificato col nome di Clemente XIII. da Tn quel tempo, era Camerlengo della S. R. C. il Card, Girolamo Colonna che, nel giorno 10 «decembre dell'anno 1759, pubblicò un suo Bando contro gli incettatori o frecconi rivenduglioli di legumi ed altro, — i quali facevano continui monopolî sui generi annonari (2). .Da documenti posteriori alla metà del secolo xvitr, rileviamo come la ci!tà d’Ostia, fosse tuttora abitata in quell'epoca, poichè il Card. Ranieri d'Elci, ve- scovo titolare di quell’antica città e Decano del Sacro Collegio, con un suo Bando, pubblicato il 27 ottobre dell'anno 1757, rese noto a tutti coloro i quali possedevano case e terreni in Ostia, o, nel suo territorio che dovessero esibire ( nel termine di due mesi, al Castellano d’Ostia i documenti d’investitura o con- A cessione delle proprietà accennate, o dichiarassero essere disposti a domandarla di nuovo, in quanto sarebbe stata facilmente accordata, previo sempre il paga- mento del consueto laudemio (3). E poco appresso, nel giorno 24 gennaio dell’anno 1759, il Card. Decano so- pradetto bandì un altro Editto, invitando i proprietari di case e terreni ad ese- guire quanto aveva ordinato precedentemente (4). La straordinaria siccità dell’anno 1763, produsse una deplorabile carestia in tutta Italia, e più specialmente in Roma e nella provincia. » La fame costrinse un considerevole numero di contadini a recarsi a Roma per trovare lavoro o sussidi, Alcuni diaristi di quel tempo,.li fanno ascendere ad oltre 25,000 (5). (1) Arch. Vat.. Arm. XI, Miscell. 205, pagg. 118, 119 (2) Stamp. delia R. C. A., 1759. (3) Arch. Vatie., Bolle è Bandi, sevio TIL, ann. 1756-1758. (4) Thi. I (5) Providentin Optimi Principis Clementis XIII. Pont. Max. + Puleis ad conservalionem olei effossis Annonam oleariam constitnit. Ann. MDCCLXIIII. Pont, VII. Si logge sulla porta maestosa dell’antico olinrio nella Piazza delle Terme fra l’in- gresso della chiesa della Madonna degli Angeli e quello della Scuola normale femmi- nile Vittoria Colonna. 320 CAPITOLO XIII Nella primavera dell’anno 1764 caddero pioggie continue, che impedirono i lavori campestri, per modo che quei lavoranti agricoli, rimasti forzatamente in ozio. divennero talvolta pericolosi. Furono allora provvisoriamente adibiti varii edifici per ospizi e che dapprima erano destinati a fienili, e cioè in Borgo e presso S. Teodoro al Foro Romano ed alle Terme. In questi luoghi furono rac- colte e mantenute varie migliaia di quei contadini, nei mesi di aprile e maggio di quell’anno (1). Nell’Agro romano erano state seminate, nell’anno 1763, soltanto rubbia 5465 in superficie, dalle quali erano state raccolte rubbia 63,600 di grano. Da tale quantità, deducendo rubbia 15,816 per seme occorrente per l’anno 1765, resta- rono a consumo della città di Roma sole rubbia 47,784. Invece furono consumate rubbia 146,825 — quintali 318,610 — con una eccedenza di rubbia 16,000 in più dell’ordinario consumo, dal che si verificò una mancanza di rubbia 99,041 — quintali 214,918 — (2). Atteso lo scarso raccolto generale, le Provincie poterono somministrare ben poco per il bisogno, ed anzi molti Comuni vicini a Roma furono dovuti prov- vedere del pane: fu quindi .necessario di comprare il grano all’estero e perciò l’ufficio dell’Annona, dovè impiegare Ja somma di scudi 900,000 — L. 4,837,500 — per acquisto del frumento, di cui quintali 217,000 furono comprati fuori dello Stato. Tuttavia il Prefetto dell’Annona, per ordine del Pontefice, volle che il prezzo del pane bianco fosse mantenuto per ciascuna libbra soltanto a due baiocchi — L. 0.107 — e quello di seconda qualità, detto casareccio, ad un baiocco e mezzo — L. 0.08 la libbra — per grammi 333 — (3). Per far fronte ai sussidî distribuiti ed alle molteplici spese incontrate, si prelevò dal Tesoro, riposto da Sisto V entro Castel Sant'Angelo, la somma di scudi 500,000 — L. 2,687,500 — (4) e s’impiegarono anche scudi 400,000 del Monte Annonario. A provvedere che tali somme potessero poi nuovamente es- sere depositate, fu imposta una tassa straordinaria, sia in Roma che nel suo distretto (5). (1) Editti del Card. Vicario, 4 aprile e 16 maggio 1764. (2) NicoLar N. M. Memorie Leggi, ece., III, 144-145. (3) Editto del Card. Camerlengo, 22 marzo 1764. (4) Allocuzione Concistoriale 9 aprile 1764. (5) Editto del Card. Segret. di Stato 31 agosto 1764. NicoLar. Memorie, leggi, ece., III, pag. 126, 156. CAPITOLO XII 321 if: Card: Camerlengo, Carlo Rezzonico, ravvisando che l’Ellitto già pubbli- cato il giorno 23 settembre dell’anno 1765, per aumentare l’industria della se- menta nell’Agro romano non aveva prodotto il desiderato effetto, dopo aver in- ‘teso il parere e il Consiglio della Commissione particolare dei Cardinali e previo l'ordine verbale del Pontefice, pubblicò un Editto che doveva aver vigore ed esecuzione non solo nella Campagna od Agro Romano, ma eziandio in tutti i paesi che dipendevano dall'Annona di Roma. Dopo alcune disposizioni d’indole generale, che si riferivano all'esportazione, nonchè ai sussidi ed ai prestiti da «Iarsi agli agricoltori e dopo alcuni provve» dimenti per la vendita del grano, concludeva l’Editto stesso con le seguenti pa- role: « Finalmente volendo N. S. dar riparo all’inconveniente cui si era riser- « bato di provvedere col menzionato Editto del 23 settembre citato, e per togliere « quei legami, dai quali restano impediti, non di rado gli agricoltori di rompere « i terreni di miglior qualità, che, dando loro un maggior frutto, li animareb- « bero a maggiormente dilatarsi nell'impegno delle semente, si ordina e comanda « che nessun padrone proprietario, ecc,, di tenute, casali, campi, pediche © terre « lavorative. dell'Agro Romano e .di qualunque altro luogo compreso sotto la « Prefettura o Commissione dell’Annona di qualunque condizione sia, ancorchè « la Camera Apostolica, Signori, Cardinali, ecc., ed altri in qualsivoglia modo « privilegiati, dei quali per comprendersi, fosse necessario di fare speciale ed « individua menzione negli affitti che si faranno da oggi in avvenire o, che si « intenderanno rinnovati per le sole convenzioni apposte negli istromenti o è apoche degli affitti precedenti dello suddette tenute, casali, ecc., terre lavora- <« tive a tutto frutto, possa proibire agli affittuari di rompere e seminare in « terzeria o quarleria, e di rincoltare a riserva dei quarti per quella quantità « però che dà l’Arte Agraria, in proporzione dei terreni lavorativi di ogni te- « nuta e se in alcuna tenuta vi fossero dei prati in quantità maggiore, potrà « l’affittuario romperli e seminarli col solo obbligo di restituirli al padrone, in « fine dell’affitto puliti e spianati e ridotti nuovamente a prato con espressa di- « chiarazione, che se mai negli istromenti o apoche di affitti a tutto frutto da < farsi in futuro, si apponesse qualunque patto, in qualsivoglia maniera con- « trario al pres, ordine, non solo sarà ipso jure nullo e di niun valore, e si « avrà cnme se apposto non fosse, ma il notaro che avrà rogato tali istromenti, <« o avrò legalizzate tali apoche, incorrerà nella pena di 100 scudi d’oro per ogni « volta e resterà sospeso dall’esercizio del suo uffizio, per il tempo a nostro « arbitrio. « Dato in Camera Apost. 11 marzo 1766 (1). in (1) Bibl. Casan.. Persorlici Estinti 18, 07, anno 1766, n. 77, 21 v 322 CAPITOLO XII Nonostante le grandi previdenze usate per fare aumentare le sementi nella campagna romana e nelle Provincie del Patrimonio, Marittima e Campagna, tuttavia in quei tempi non si potè raggiungere lo scopo desiderato, che cioè la pubblica Annona fosse posta in grado di serbare sempre una provvista sufficiente: di frumento, specialmente per la città di Roma, perchè, come abbiamo osservato, aveva dovuto adibire ingenti somme di denaro per l’acquisto di una grandissima quantità di grano anche a prezzi elevati e da luoghi lontani; a tutto ciò si aggiunga che dalie sementi eseguite sopra una limitata superficie si ebbero scarsi raccolti, il che aumentò lo pubblica penuria e di conseguenza la deficienza all’ Annona. Il Pontefice Clemente XIII, volendo provvedere in qualunque modo a tale difetto, dispose che il Card. Camerlengo rinnovasse l’Editto già pubblicato nello anno 1765, da noi superiormente riferito e lo stesso Card. Rezzonico, nel giorno 30 luglio dell’anno 1766, autorizzò con pubblica ordinanza tutti gli affit- tuari, i coloni, gli agricoltori e i campieri delle tenute e delle pediche dell’Agro Romano e delle Provincie a coltivare nuovamente quelle stesse terre, ove ave- vano già eseguito la raccolta del grano, e ciò nonostante qualunque patto in contrario, fosse stato convenuto e che veniva dichiarato nullo (1). E poichè voci sparse arteficiosamente avevano gettato nell’animo degli agri- coltori il dubbio che malgrado quanto si prescriveva nei Bandi pubblicati, tut- tavia i proprietari delle tenute avrebbero poi costretto giudizialmente i lavoratori stessi a pagare una corrisposta di terratico per quei campi che i lavoratori stessi avessero coltivato di nuovo, come era avvenuto nell’anno antecedente, il Cardi- nale Camerlengo, in seguito ad ordine espresso dal Pontefice nel giorno 22 agosto dello stesso anno, dichiarò che nessuno sarebbe tenuto nè obbligato a pagare qualsiasi terratico per la coltivazione dei terreni sopra i quali era stato com- piuto il raccolto nell’anno antecedente (2). In seguito alla deficienza dei raccolti, che si succedeva da qualche anno, Papa Clemente XIII, commosso per la indigenza sempre crescente, specialmente nella classe degli agricoltori, volle che fosse richiamato in vigore quanto aveva in proposito stabilito il suo Predecessore, Papa Benedetto XIV, con una Bolla pubblicata il 17 maggio 1751, relativa al diritto deilo spicilegio nei campi dopo compiuta la raccolta, qual Bolla noi riportammo integralmente. (1) Append. doè. XLVI (2) Append. doc. XLVII. CAPITOLO XITI 323 Ed il Card. Camerlengo, per ordine verbale avuto dal Pontefice, pubblicò il 15 giugno dell’anno 1767 un Fditto, nel quale, premessa la considerazione già fatta dallo stesso Clemente XIII, che cioè il provwedimento adottato dal suo Predecessore, fosse conforme alle leggi divine ed umane, stabiliva che niuno ar- disse di impedire ai poveri la raccolta delle spighe del grano disperse nei campi, o tralasciate dai mietitori. Che anzi, in seguito ai vo'eri del Pontefice, decretò che la prescrizione stessa dovesse essere osservata non soltanto nell’Agro Ro- mano, Provincia del Patrimonio, Marittima e Campagna, ma altresì in tutto lo Stato della Chiesa, comprese le Legazioni di Bologna, Ferrara, Romagna e lo Stato di Urbino. E qui ci vien fatto di constatare per la prima volta, durante la esposizione di questo Sommario storico, un provvedimento legislativo d’indole agricola, che si estese per l’intero Stato ecclesiastico. In conseguenza dell’espressa volontà del Pontefice, si faceva noto a chiunque di qualsiasi grado e stato, laico od . eccle- siastico, regolare o secolare, di qualunque ordine, ancorchè appartenesse alle undici Congregazioni od alla Compagnia di Gesù, che non fosse impedito in alcun luogo, ove fosse stata compiuta la raccolta del grano, che î poveri potessero liberamente entrare e raccogliere le spighe cadute e disperse in terra o trala- sciate dai mietitori. Ai contravventori veniva comminata la pena di scudi 50, specialmente se fattori, guardiani od altrimenti addetti al servizio dei padroni, o degli affittuari o dei lavoratori dei campi, Che anzi, alle disposizioni già ema- nate dal Pontefice Benedetto XIV, altra ne fu aggiunta, che, cioè per lo spazio di dieci giorni, decorribile da quello in cui sarebbesi compiuto il lavoro di riu- nire i manipoli del grano nel luogo ove si doveva battere il grano, nessuno avesse osato d’introdurre o fare introdurre nei campi mietuti, buoi, ovvero be- stiami di qualsiasi specie, affinchè non consumassero le spighe cadute, in danno dei poveri che avessero voluto raccoglierle. E se alcuno avesse contravvenuto, sarebbe caduto nella pena di scudi 50, tanto se fosse stato proprietario del grano mietuto, quanto se possessore dei bestiami introdotti nel pascolo del campo ove era stato raccolto il grano. Le ammende sopradette, in qualunque caso, do- vevano essere devolute per una metà a favore della Camera Apostolica, per una quarta parte all’accusatore, che sarebbe stato tenuto segreto, e per il residuo al Giudice esecutore degli atti necessari. (1). (1) Append. doc. XLVII 324 CAPITOLO XIII In quei tempi, una decisione del Tribunale della Camera Apostolica, dei giorno 30 settembre dell’anno 1767, confermò quanto era stato decretato da tante Costituzioni Pontificie, che cioè gli Affidati nelle Dogane dei pascoli erano liberi e godevano l'immunità, tanto come proprietari quanto in riguardo ai loro garzoni ed inservienti, ed ugualmente in riguardo ai loro bestiami, cose, robe e frutti ritratti dalla loro industria, così nell’andare, come nel soggiornare, ed an- che nel ritornare ai paesi donde provenivano, e che altresì godevano immunità da qualsiasi gabella, dazio o penale per danni, o per rifazione di danni; il che appariva chiaramente dalle Bolle di tanti Pontefici, e specialmente dalle sen- tenze pubblicate dallo stesso Tribunale della Camera Apostolica, nel giorno 10 ottobre 1646, contro il defunto Michelangelo Muti, Duca di Rignano, da quella del giorno 20 agosto dell’anno 1617, pronunciata dalla chiar. mem. di Lazzaro Pallavicini, Presidente delle Dogane, contro i defunti Duca Paolo Giordano Or- sini, Principe Taddeo Barberini, e Duca Girolamo Mattei, dall’altra sentenza del giorno 27 febbraio 1657, contro Zenobio Baldinotti, Dogaaiere generale di Roma, “da quella del giorno 19 novembre dell’anno 1701 contro il Comune di Viterbo, approvata in piena Camera Apostolica il 9 giugno dell’anno seguente, dalla sen- tenza pubblicata nell’anno 1705, contro gli affittuari delle Gabelle alle Porte di Roma, da quella altresì pronunciata contro il Comune di Civitavecchia dal Te- soriere, il 1° luglio 1707, e confermata a pieni voti dal Tribunale della Camera Apostolica, ai 6 febbraio del 1708, e finalmente da quella del Presidente della: Grascia, letta nel giorno 6 febbraio dell’anno sopradetto, ed approvata dalla Ca- mera suddetta nel giorno 4 luglio dell’anno stesso, contro il Comune di Velle-. tri. E tutto ciò risultava poi anche meglio in vigore dai Motu propri di Urba- ‘no VIII nell’anno 1644, di Innocenzo XI nell’ anno 1631, di Alessandro VIII nel 1690, di Clemente XII nell’anno 1639, e finalmente del Pontefice Clemente XIII nell’anno 1767 (1). Di più, in quell’anno stesso, il Card. Camerlengo, per tutelare i privilegi degli Affidati nelle Dogane dei pascoli, rinnovava uno dei soliti Bandi, nel giorno 30 settembre, prescrivendo che niuno potesse arrecare molestie od impedimenti agli Affidati, durante il loro viaggio nell’ andare, nel tornare, o nello stare in qualche luogo, e che anzi si dovesse loro prestare qualsiasi aiuto o favore; e ciò, in osservanza ai privilegi e ai patti contenuti nelle patenti e nelle fide rilasciate (1) Append. Doc. XLIX. dl CAPITOLO XIII 3265 dal Doganiere. Frano pure dichiarati esenti da qualsiasi gabella nel passaggio con lo masserizie, robe e grascie, Ed erano bensì tenuti a soddisfare qualsiasi danno avessero arrecato, ma non ad altra pena, e durante il viaggio potevano far pascolare il loro bestiame in qualsiasi territorio, senza obbligo di pagamento. Venivano permessi agli affidati la prelevazione e lo acquisto del sale e del pane, senza obbligo di averne licenza, come ancora avevano la facoltà di poter con- fezionare il pane casareccio, soltanto per loro uso, in qualsiasi luogo. Le strade doganali dovevano essere mantenute per una larghezza di venti canne, come lo erano anticamente, per il libero transito delle masserizie. Niuno avrebbe potuto acquisire le pelli del bestiame morto, che spesso arbitrariamente erano vendute dai garzoni delle masserizie. Tutti gli affidati erano autorizzati a portare armi per propria difesa, ed erano soggetti per le loro cause private soltanto al foro Camerale, di guisa che nessun giudice avrebbe potuto pronunciare sentenze o decisioni contro di essi, essendo ciò d’assoluta pertinenza del Cardinal Camer- lengo, del Tribunale della Camera Apostolica, e della Segnatura di Grazia. E durante lo svolgersi di qualsiasi controversia, era stabilito doversi eseguire i provvadimenti decretati. Veniva ordinato a chiunque di prestare aiuto ed assi- stenza agli affidati, e ciò più specialmente veniva prescritto ai pubblici uffi- ciali (1). } Durante il Pontificato di Clemente XIV, successo a Clemente XIII, il Car- dinale Rezzonico, Camerlengo, volle rinnovare un Bando contro gl’incettatori del grano, delle biade, dei legumi e del granturco, preserivendo quello, che già antecedentemente, era stano pubblicato fin dal 31 maggio 1669, 19 aprile 1687, 14 giugno 1702, 3 luglio 1754 ed 11 marzo 1766, affinchè nessuno accaparrasse od incettasse quello che era necessario alla pubblica Annona, ma soltanto fosse - lecito a chiunque di poter comprare quello che occorreva per uso proprio e della famiglia durante l’anno. Per ordine espresso del Pontefice, proibì ai signori Ba- roni e Duchi, e a tutti indistintamente, che non pretendessero o presumessero d’impedire alcuno di condurre o mandare a Roma quello che era necessario alla pubblica Annona, e di conseguenza che nessuno ardisse di emettere bandi od. ordini contrari a quanto era stato prescritto. Per facilitare poi il commercio del grano, ed affinchè gli agricoltori non fos- sero costretti a vendere i loro prodotti ai Commissari dell’Annona, dispose che (1) Arch, Vatic. Bolle e Bandi, Serie III, anno 1767, 326. CAPITOLO XIII gli agricoltori stessi avrebbero potuto a loro piacere, trasportare il genere a Roma, dove sarebbe stato comprato dall’Amministrazione dell’Annona stessa, in ragione di scudi 6,50 al rubbio, fino al 31 dicembre di quell’arno, purchè il grano fosse stata conciato ad uso mercantile, e pesasse decine 64 a rubbio (Kg. 217). Frattanto, allo scopo d’incoraggiare l’agricoltura, erano stati fatti impor- tanti prestiti in danaro; ma, poichè in seguito alle Costituzioni Apostoliche, re- stavano in deposito i grani raccolti, mentre per la cultura e la sementa di essi era stato appunto somministrato il danaro; così fu ordinato che nessun agri- coltore vendesse il grano se prima non avesse soddisfatto il debito annonario, oppure non avesse ottenuta licenza dalio stesso Prefetto dell’Annona, o dal Com- missario dal quale avesse ricevuto il prestito in danaro. L’atto fu pubblicato in Camera Apostolica il 29 luglio 1772 (1). A provvedere sempre più al buon andamento dell’agricoltura, nonchè allo approvvigionamento dell’Annona pubblica, il Card. Camerlengo, con altro Bando del giorno 4 agosto 1773, ordinò si facesse un’assegna, ossia una denuncia del grano e degli altri generi riposti, tanto a Roma come nei casali, terre o castelli del suo distretto, e negli altri luoghi della Provincia del Patrimonio, Marittima e Campagna. Ciò anche doveva essere seguito per i generi venduti od obbligati a vendersi, e dovevano perciò denunziarsi le persone in favore delle quali fosse stato contratto l’obbligo di vendita, ovvero fosse stata eseguita, nonchè dichia- rarsene il prezzo pattuito. In conseguenza tutti erano intimati a compiere quello che era stato prescritto; « avvertendo che tutti i grani raccolti nella Campagna « od Agro Romano, dovevano essere trasportati a Roma, e se per ovviare alle < spese dei trasporti, fosse occorso ad alcuno di conservare nei magazzini o ca- « sali di campagna il grano che doveva servirgli per seme nella futura sementa, <« e per ia panatica dei forni nella detta campagna, oppure qualche quantità, « che per ragione di vetture, non potesse subito trasportarsi in Roma, dovesse « in ciascuno di detti tre casi, darsi nota precisa a Mons. Prefetto della quan- « tità che dovesse servire tanto per seme, quanto per la punatica, per ottenerne « da lui licenza, în scriptis, che sarebbe stata concessa gratis, come ancora gli « si sarebbe concessa per quel grano che non potrebbe essere trasportato a « Roma, fatto però obbligo di portarlo ad ogni ordine dello stesso Mons. Prefetto. (1) Stamp. della R, C. A., 1772. Arch, Vatie, Bo/ie, ete., Serie III, CAPITOLO XII 327 < E se dopo tale assegna si trovasse riposta, da chi l’avesse data, in quantità « maggiore di quella espressa nella licenza, in tal caso tutto il grano che si < trovasse più di quello specificato nella medesima, sarebbe caduto in.fraude, « da applicarsi per un terzo all’Annona, ed il residuo agli esecutori ». Tutti poi erano altresì tenuti a denunziare il grano occorrente per la semina delle maggesi fatte, quanto dei colti e biscolti, che dovevano essere lavorati nella seguente stagione autunnale, per la raccolta dell’anno 1774; e tutto ciò sotto la pena di scudi 25 per ciascun rubbio non denunziato, oltre la perdita dei generi che sarebbero stati confiscati ed erogati nel modo sopra espresso. Anco i fornai baioccanti e decinanti, nonchè i wermicellai, gli orzaroli e i pasticcieri, erano tenuti a denunziare i grani o farine che avessero acquistato, dichiarando i luoghi ove li tenessero riposti e sempre sotto le pene men- zionate. : L’Editto fu affisso e pubblicato in Campo de’ Fiori, e negli altri luoghi con- sueti (1). . , La grande economia e parsimonia del Pontefice sostenne la pubblica finanza dello Stato tanto, che durante il lustro che durò il suo Ponteficato, Roma non soffrì penuria di vettovaglie. Per l’approvvigionamento del grano, specialmente nelle provincie annonarie, Papa Clemente, volle affidare incarico speciale al Patrizio Tiburtino Nicolò Bischi, per diminuire così le cure eccessive del Prefetto dell’Annona, perchè fosse tolto qualche abuso generato talora dalle urgenze di quell’ufficio, e anche nella speranza di giovare all’arte dell’agricoltura, in quanto per tal modo scemassero le obbligazioni dei coltivatori e dei mercanti di cam- pagna, di dover fornire il grano alla pubblica Annona. Il Pontefice partiva dalla idea che fosse utile, non solo alla economia do- mestica delle famiglie, ma anche all'Amministrazione dell’ Annonaria il facilitare @ lo agevolare l’uso del pane casalingo. Volle pertanto abolito il dazio del ma- cinato sul grano che si macinava per uso delle famiglie determinate. In quel tempo non si giudicò utile che l’Annona somministrasse il grano ai fornai, non già a contanti, ma il più spesso, come allora dicevasi, « a rinnovo » ossia con l’obbligo di restituire eguale quantità e qualità di grano, dopo il raccolto del- l’anno seguente a quello in eni avevano ricevuto il prestito. Una simile norma, mentre preservava l’Annona dalle perdite e faceva mantenere a vantaggio del (1) Stamp. della R. O, A., 1773, Arch. Vatic., Bolle e Bandi. Serie IMI, ann. 1773, 328 CAPITOLO XIII popolo una buona qualità di pane, permetteva ai fornai di lucrarte maggiormente col danaro del prestito, che dovevano restituire in principio della stagione sus- seguente in altrettanto grano, ovvero in contante, a ragione di scudi 7 al rubbio (lire 37.50). Tale sistema formava il vero calmiere dell’Annona, in quanto, all’epoca del raccolto, se i mercanti di campagna avessero voluto vendere più di scudi sette al rubbio, l’Annona non obbligava i fornai a pagar subito il loro debito, ed anzi ove ne avessero avuto bisogno, faceva ad essi altre somministrazioni @ rinnovo od a contanti, sempre al prezzo di scudi 7; nè così avevasi. penuria di pane. I mercanti di campagna, non potendo vendere altrimenti, stretti dall’obbliga- zione assunta verso l’ Amministrazione dell’Annona di dover restituire nel mese di agosto le prestanze avute per la sementa e per la mietitura, erano obbligati a vendere il grano al prezzo di scudi sette, e questo prezzo cra come la norma e la regola fissa per îl preventivo delle spese e per il prezzo dell’affitto che ciascuno di essi imprendeva a condurre. kù Tuttavia, in quell’epoca, i fornai, i vermicellai e simili, non cessarono dalle loro querimonie, dolendosi delle gravissime remissioni e perdite subìte nei pas: sali anni attesi i prezzi elevati, come essi affermavano, del grano, e facendo appello a quanto aveva disposto in proposito Clemente XI nell’anno 1719, che aveva fatto diminuire il prezzo del grano somministrato dall’Annona fino a scudi cinque il rubbio (lire 27.50). In seguito alle istanze fatte dall’ Università dei fornai, il Pontefice deputò una Commissione speciale perchè esaminasse lo stato delle cose o deliberasse un provvedimento. Dopo mature discussioni tenute nelle varie adunanze, la Commissione comunicò al Pontefice le decisioni adottate e quegli, con suo Chiregrafo del mese di novembre dell’anno 1773, dopo d’aver riferito fedelmente quanto era avvenuto in proposito, deliberò che la Cassa del- l’Annona, a mezzo del Prefetto della stessa, facesse pagare e ripartire propor-' zionalmente ai fornai la somma di scudi 30,000 (lire 261,250) sopra la rata del Macinato eseguito dai medesimi fornai e da ciascuno di essi dal 1° luglio 1772 al 30 giugno 1773. 4 Il Chirografo fu pubblicato dal Palazzo Apostolico del Quirinale, nell’anno e nel mese sopradetti (1). Nell'anno seguente, ai 10 di agosto, il Card. Camerlengo Pietro Rezzonico (1) NicoLa1 N, M, Memorie, leggi, ete, II, pag. 84: CAPITOLO XUI 329 pubblicò un altro Bando sopra l’assegna dei grani, delle biade e dei cereali di. versi, nel quale disponeva specialmente « che tutto' il grano raccolto nell’Agro romano », detratto il seme © la panatica — ossia quella quantità per confezionare il pane agli operai in campagna — doveva essere trasportato in Roma entro il mese di settembre futuro, Che se, per mancanza di vetture, fosse occorso di conservare nei granari o casali di campagna qualunque fosse quantità di grano, in tal caso fosse necessario farne subito domanda al Pontefice, che sarebbe stata accordata, limitando il termine per il trasporto a Roma. Venivano altresì pre- soritte le norme per dare le denuncie delle future semine nell’anno 1775, come già erano state date negli anni precedenti (1). Durante lo stesso Pontificato fu creduto utile fosse abolita la proibizione della esportazione del grano ed altro; ed infatti il Card. Camerlengo, con un suo editto del 26 agosto 1773, aveva già pubblicato che ognuno fosse autorizzato ad ssercitare il libero commercio delle granaglie (2). : Le memorie di quei tempi ci narrano come fin d’allora incominciasse la con- correnza dei mercanti di campagna nel prendere in affitto le tenute, e come da ciò gli affitti stessi soverchiamente aumentassero di prezzo; donde i mercanti stessi, per ricoprirsi degli affitti e delle spese, e, nella speranza di lucro, accrebbero ogni giorno più il prezzo dei generi, il che e tutto l'insieme contribuì alla deca- denza dell'agricoltura, la quale per tal modo, soggetta a frequenti mutamenti contrari © dannosi alla sua prosperità, non potè mai costituire la vera e neces- saria base dell’approvvigionamento di Roma, mentre se le cose agricole fossero | state guidate con costanza e con ordine, la Campagna romana sarebbe stata suffi- ciente al necessario provvedimento dell’ Annona della Città. (1) Stamp. della R. C. A., 1774. Arch, Vatic., Zolle e Bandi, Serio ILL (2) Ihi, Anno 1773. 330 CAPITOLO XIV CapitoLo XIV. L’Agro romano durante il Pontificato di Pio VI. (Ann. 1775-1799). Il Card. Angelo Braschi, da Cesena, successe al Pontefice Clemente XIV, as- sumendo il nome di Pio VI. Fu questi tal uomo proprio nato per le opere grandi; e Roma e molti luoghi dello Stato già Ecclesiastico, mostrano anche oggi monumenti ad attestare la somma attività di lui, che si esplicava sopra tutto quanto riflettesse l’interesse pubblico. Forse egli non tenne sempre conto dei mezzi pecuniari dei quali lo Stato poteva disporre: ma, per la verità della storia, deve riconoscersi che le sole vicende politiche causarono al Pontefice lo rovina assoluta del potere tem. porale, già fondato da Martino V. Papa Braschi vagheggiò il suo progetto favorito del prosciugamento delle Paludi Pontine — opera degna in tutto degli antichi Romani — e, sebbene non potesse compierla, ciò sta ugualmente a dimostrare non solo il geniale ardimento dell’uomo, ma ‘anche la predilezione di lui per l’agricoltura, in quei tempi spe- cialmente, nei quali l’arte agraria aveva estremo bisogno di sollecite cure per . rinnovarsi e rigenerarsi. Uno dei primi provvedimenti che il Pontefice fece assumere dal Card. Ca- merlengo Rezzonico, fu quello di emettere il consueto Bando sull’obbligo spet- tante a tutti coloro che avessero raccolto grano, biade, orzo e legumi nei luoghi lontani da Roma, oltre le 40 miglia, di doverli trasportare a Roma in varie epoche, secondo le distanze, comminando, in caso d’inobbedienza, gravi pene ed ammende e la perdita dei generi. L'atto fu emanato dalla Camera Apostolica li 30 giugno 1775 (1). “Da Nel seguente mese di agosto lo stesso Card. Camerlengo con un altro Bando significò come il Pontefice avesse specialmente rivolto il pensiero all’abbondanza (1) Stamp. della R, C, A., 1775. Arch. Vat., Bolle e Bandi, Serie III, 1774-75. CAPITOLO XIV 331 dell’Annona di Roma e come, per rendere sicuri i suoi sudditi in un Vittuale di tanta importanza, volesse essere informato dei raccolti di grano, biade, orzo e legumi che si erano verificati nell’anno 1775, e di quanto ne restassero inconsunti della passata stagione agraria. L'atto fu pubblicato ad Valvas Curiae Innocentiane — alle porte dell’at- tuale palazzo di Montecitorio — ed in Campo di Fiori (1). La raccolta del grano e degli altri generi, nell’anno 1779, fu tanto scarsa che causò la penuria, in quanto la sementa essendo stata fatta sopra una su- perficie di rubbia 14,808, delle quali 3500 erano colti, tutto insieme rese appena rubbia 45,645 di grano, cioè a dire il terzo di reddito, in modo che il prezzo del grano ascese subito da scudi 7 a scudi 9 e baiocchi 90 (lire 53.21 al rubbio). In conseguenza di ciò il Pontefice pubblicò un suo Chirografo, in data del 29 agosto 1781, diretto a Mons. Giuseppe Albani, Prefetto dell’Annona, nel quale deplorò la scarsa rarcolta avvenuta e volle provvedere in qualche modo all’ur- genza, diminuendo la tassa del macinato a tutti i fornai, senza distinzione, co- sicchè tutti dovessero pagare soltanto giulj 5 per ciascun rubbio di grano ma- cinato, restando ferma la condizione che i fornai confezionassero il pane talmente, che il peso di esso potesse differire soltanto di mezz’oncia per pagnotta, tanto su quelle di pane bianco, di oncie 10 ciascuna, quanto su quelle di pane detto a baiocco, che dovevano essere di oncie 8 ciascuna (2). Siffatto provvedimento dimostra fino all’evidenza quanto mai il Pontefice prendesse a cuore la vendita del pane, e più specialmente di quello per il povero. Nè il Pontefice volle dimenticati i poveri agricoltori, nel momento appunto in cui essi avevano estremo bisogno d’aiuto, per gli scarsi raccolti che si succe- devano. Poichè, fin dall’aprile di quell’anno 1781, aveva ordinato al Card. Ca- merlengo di pubblicare un muovo editto sullo Spicilegio, essendo giunto a sua notizia che in vari paesi erano nati dei dissensi e delle dispute sull’interpreta- zione della Costituzione di Benedetto XIV e dell’Fditto pubblicato per ordine del Pontefice Clemente XIII, nell’anno 1767, e più ancora intorno ad una risoluzione di una Congregazione particolare, tenuta in Roma nell’anno 1766, nella quale èra stato riconosciuto non «ssere contraria alla Costituzione Benedettina la con- (1) Stamp. della R. C. A., 1775. Arch, Vat., Bolle e Bandi, Serie III, 1774-75. (2) NicoLar N. M. Memorie, leggi, ete., IL, pag. 86. Arch. Vat., Bolle e Bandi, Serie IIL Aun. 1781-1782. 332 CAPITOLO XIV suetudine, già invalsa in più luoghi, di permettere ai poveri di seguire i mieti- tori durante il loro lavoro, e di raccogliere immediatamente le spighe abbando- nate, all'effetto che i possidenti dei bestiami avessero potuto liberamente intro- durre i bestiami stessi nei campi mietuti e li avessero subito fatti pascolare, senza aver bisogno di attendere il termine di dieci giorni, prescritti dalla sopra- detta Costituzione, Il Pontefice Pio VI, ravvisando come tutto ciò fosse utile ai poveri, senza che arrecasse danno alcuno alla pastorizia, volle, a mezzo del Card. Camerlengo, che fosse nota la sua volontà, ordinando che in tutti i luoghi dello Stato della Chiesa ove si fosse già introdotta e stabilita simile consuetu- dine dovesse restare nel suo pieno vigore e nella sua osservanza, senza che alcuno potesse impedirlo. Negli altri luoghi però, ove non fosse invalso tale uso, decise che si dovess» mantenere quello che aveva stabilito la Costituzione di Benedetto XIV e, per conseguenza, che nessuno avesse potuto introdurre il bestiame nei pascoli dei campi mietuti, prima dei dieci giorni fissati. L’Editto terminava con le solite penali contro i trasgressori degli ordini (1). Che Pio VI volesse provvedere seriamente alla pubblica Annona, e special- mente a quella del povero, vale anche a provarlo l’esame del seguente Editto, pubblicato dal Card. Camerlengo il giorno 16 settembre dell’anno 1782. Dichiarava prima di tutto lo stesso Cardinale, che il Pontefice desiderava e vo'eva che si prendesse un provvedimento valido a riparare parzialmente ie gravissime perdite subìte dalla Cassa Annonaria, in seguito alle continue penurie del grano, e più particolarmente anche ad offrire un aiuto dell'agricoltura ed all'arte dei fornai, che erano quasi decadute, per la stessa ragione delle scarse rac- colte, soggiungendo inoltre che il provvedimento da adottarsi, non solo non do- vesse riuscire gravoso, ma anzi utile al popolo. Di conseguenza si permetteva a chiunque lo aprire forni, acquistando il grano direttamente dai mercanti di campagna, e di vendere qualsiasi qualità di pane, ad eccezione di quello cosiddetto a baiocco, che i soli fornai dell’Annona — il numero dei quali era oramai limitato — potevano esitare al pubblico. L’Annona poi avrebbe aperto altri forni normali, nei quali si sarebbe confezio- nato anche il pane di qualità superiore, al fine di fare concorrenza agli altrf forni pubblici. (1) Append. Doc, LI, ; E E ES II CAPITOLO XIW 193 I pane dei forni liberi poteva essere venduto anche da altri rivenditori, come quelli detti Artebianca, Vermiceltai, Maccaronari, ecc., ed in qualunque altro luogo, dietro permesso del Prefetto dell’Annona. I forni posti nell’Agro romano non erano compresi nel Bando. L'Editto doveva restare continuamente affisso nei forni della Città (1). Simile provvedimento procurò che l’Annona non fosse più tenuta a fare grandi provviste di grano per la sussistenza del popolo, e così fu anche dato modo di giovare all'agricoltura, offrendo ai mercanti di campagna ed ai colti- vatori un mezzo pronto e pratico per esitare il grano prodotto. In quel tempo la popolazione di Roma oscillava tra i 163,000 e i 164,000 abitanti. Dai dati statistici raccolti presso |’ Ufficio dell’Annona di quell'epoca, risulta come occorressero non meno di 130,000 rubbia di grano per l’approvvi gionamento di Roma (2). E le 130,000 rubbia, equivalenti a quintali 282,100 di grano, dìnno una quota di quintali 1.66 per abitante. Da un riassunto dei risultati ottenuti dalle sementi seguìte nel corso di anni 78 (anui 1720-1797), si ha che le raccolte sormmarono complessivamente rubbia di grano 6,568,639, mentre il consumo verificatosi a Roma ascese a rubbia di grano 9,940,770, il che produsse una deficienza di rubbia 3,372,081, ossiano oltre rubbia 43,221 in ogni anno, pari a quintali 93,811 (3). Come già dicemmo, il Pontefice Pio VI, avendo in animo di esplicare le sue idee grandiose, nel precipuo scopo d’incoraggiare l'agricoltura nell’Agro romano, decise la formazione del Catasto speciale di quella zona, per così conoscerne esattamente la estensione insieme alla qualità e alla natura delle varie tenute che lo compongono, e poscia stabilire un nuovo metodo di coltivazione. Al tempo del Pontefice Alessandro VII (1655-67) era stato iniziato, come già notammo, il Catasto dell’Agro Romano, compiuto però soltanto nell’anno 1692 dall’ Eschinardi. Il territorio componente la città di Roma fu valutato rubbia 844 (Ea. 1460). Le vigne del suburbio rubbia 4839 e le tenute in totale rubbia 109,054 (Ea. 201,575.41). . Il Pontefice, in un suo Motu proprio del 25 gennaio 1783, considerava come, (1) NicoLai N. M. Memorie, leggi, ece., II, pag. 88. (2) /0ig1II, pag. 163, (3) /bi, pag. 146. Possiamo notare che in base alla popolazione odierna di oltre 550,000 abitanti occorrono a Roma almeno 913,000 quintali di grano all'anno! 334 CAPITOLO XIV in seguito agli esempi dei Pontefici predecessori, egli dovesse provvedere alla conservazione dell’arte dell'agricoltura, a scopo specialmente dell’abbondanza di Roma. Ma, poichè vedeva che le campagne, specialmente quelle dell’Asro Ro- mano, erano assai meno coltivate di quanto avrebbero potuto essere per la loro ampiezza e per la loro naturale fertilità, appunto perciò aveva deliberato di ten- tare una sì interessante intrapresa, limitando in quel tempo la sua opera alla coltivazione dell’Agro romano. Prima d’ogni altra cosa considerava ed esaminava i molteplici provvyedi- menti emanati dai Pontefici predecessori, dalle lettere di Sisto IV fino al pre- decessore Clemente XIII che, con Editto speciale emanato, si era studiato di ampliare l’esercizio dell’arte agricola, disponendo, dietro il parere di una Com- missione di Cardinali e Prelati che, previo l’aunullamento dei contratti che co- munque impedissero la libera coltivazione delle terre, fosse lecito a tutti gli agri- coltori di rîncoltare le terre stesse a lor piacimento, e che con tali disposizioni il Pontefice aveva creduto utile di regolare le nuove deliberazioni sulla coltivazione dell'Agro Romano. Esaminava quindi le varie norme ed i precetti impartiti dal Pontefice Cle- mente VII, in merito alla semina obbligatoria delle tenute. Di conseguenza, or- dinava a Mons. Prefetto dell’Annona che, con la scelta di più persone perite nell’arte agraria e pratiche della coltivazione dell'Agro Romano, e previa una esatta istruzione a ben condurre una cotanto interessante operazione, facesse vi- sitare tutte le tenute dell'Agro Romano per istabilire in ciascuna di esse, qualora occorresse, un nuovo metodo da doversi osservare per coltivarle, dividendo i quarti da seminarsi in terzeria o in quarteria, secondo la natura e l’attività dei terreni, separando il terreno sterile dal fruttifero, assegnando i necessari pascoli per i buoi aratori & per la provvista dei fieni, e lasciando altresì tutti i pascoli necessari; facendo in una parola tutto ciò che da essi forse creduto opportuno per la buona economia e per il migliore regolamento di ciascuna tenuta. Dopo che il Pontefice si fu reso sicuro della perfetta esecuzione dei suoi voleri, dichiarò essere sua intenzione che il Catasto fosse in ogni sua parte costante- mente eseguito. In conseguenza, di suo Motu proprio. e nella pienezza e certa scienza della sua autorità Pontificia, approvava e confermava il predetto Catasto e quanto in esso sì conteneva, ordinando e comandando a tutti di qualsiasi grado o condizione sociale, anche specialissima, sia ecclesiastica che secolare, e degna di speciale menzione, che appena fosse stato esibito il detto Catasto, dal CAPITOLO XIW 1365 Prefetto dell’Annona, per gli atti di uno dei Segretari della Camera e nell’ Uf- ficio dell'Agricoltura si dovesse sempro osservare il metodo ed il regolamento in esso contenuti, a cominciare dalla rompitura del mese di marzo dell’anno 1783 e che, ogni anno, si dovesse rompere e maggesare in ogni tenuta quella quan- tità di terreno che veniva prescritta dal Catasto. Non doveva poi alcuno, senza licenza scritta dal Prefetto dell'’Annona, tralasciare dall’eseguire la sementa or- dinata, nè poteva variare il turno e l'ordine in ogni singola tenuta, nè cambiare luogo e divisione dei quarti. x Fra prescritta la conservazione dei prati, specialmente per il pascolo dei buoi aratori, come era stato tassativamente fissato e sanzionato nel Catasto. Seguendo poi le norme sancite dal Pontefice predecessore, Clemente XIII, volle che tutti seminassero quella parte di colti, che venivano prescritti in turno di quarteria, ed autorizzò gli agricoltori e conduttori delle tenute, a rincoltare i terreni, che si seminavano in ‘urno di terzeria, come ancora a biscoltare quelli, che seguivano il turno della quarteria, e ciò per tutta la quantità di terreno, che loro fosse piaciuto, purcpè simili semine di colti o biscclti, non cadessero nell’ultimo anno dell’affitto della tenuta, che conducevano, poichè quei terreni, quali avrebbe dovuto maggesare il nuovo affittuario, 0 colono, dovevano essere lasciati in riposo, almeno per un anno, affinchè il nuovo affittuario, potesse ritrarre un compenso equivalente alle spese fatte per ese- guire il maggese. Che se qualche proprietario, desiderando ridurre a miglior coltura, ed ese- guire piantagioni e bonificamenti, avesse dovuto variare il metodo di coltivazione prescritto. il Pontefice ordinò, ne dovesse prima dare regolare denuncia al Pre- fetto dell’Annona, dichiarando le innovazioni che intendeva di fare, e, se alcuno avesse mancato di eseguire la debita denunzia, si comminava la pena della caducità del possesso e dominio dei fondi medesimi. Nel caso di approvazione delle boni- fiche proposte, studiate ed esaminate da persone esperte dell’arte agraria, sarebbe stato variato il metodo di cultura in quelle tenute, facendone analoga annotazione nel Catasto. Per l’esatta osservanza delle norme e dei lavori prescritti per ogni anno, alla fine del mese di marzo, il Prefetto dell’Annova doveva inviare persone oneste ed abili nell'arte dell'agricoltura, le quali, con la scorta del Catasto approvato, dovevano constatare sul luogo se in ciascuna tenuta fosse stata intrapresa la rompitura, per la quantità e nei luoghi stabiliti. 2396 CAPITOLO XIV Nel caso poi, che alcuno non avesse eseguito gli ordini, il Prefetto dell’ An- nona doveva fare stimare, secondo l’arte, il frutto, che presuntivamente avrebbe potuto ritrarsi dal terreno non coltivato, e, diffalcate le spese necessarie, quel valore, secondo la perizia, si doveva pagare dal proprietario, affittuario o colono della tenuta, i quali, nel caso, dovevano essere tutti coobbligati: quel denaro doveva essere ripartito fra gli agricoltori più bisognosi, che avessero ottemperato esattamente agli ordini avuti nell'eseguire la prescritta sementa. Per la esecu- zione pronta il Pontefice autorizzò l’uso degli atti di mano regia, del sequestro, e d’ogni altro metodo, coattivo, che fosse più efficace e più sbrigativo. All’effetto poi, che si eseguisse esattamente tutta la quantità di seminagione prescritta în ciascuna tenuta, e secondo quanto veniva ingiunto dalla Costituzione di Clemente VII (20 febbraio 1523), ordinò che, mancando qualunque agricol- tore, affittuario o colono, in tutto od in parte, alla sua obbligazione, fosse | lecito e potesse qualsiasi altra persona, di qualunque qualità, grado e condizione, ancorchè forestiero, e non abitante nel dominio pontificio, maggesare e seminare quel quarto e porzione di quarto che, secondo il metodo del Catasto, doveva essere dissodato, e che fosse stato lasciato in abbandono. _ E tutto ciò potevasi eseguire, senza pagamento alcuno di corrisposta, nè in grano, nè in danaro. Il proprietario, affittuario o colono della tenuta, doveva essere obbligato a prestare gratis il pascolo sufficiente, per la cultura del terreno, nonchè i co- modi dei casali e granari. Inoltre ancora in quel luogo, dove fosse stato fatto il maggese, ed a quella persona che lo avesse fatto, era reso anche lecito, l’anno susseguente, di fare il colto, parimente senza pagamento alcuno di risposta. Ad evitare qualsiasi dubbio sulla esatta interpretazione di quanto il Pon- tefice aveva comandato, aggiunse che qualora i proprietari od affittuari delle tenute, al termine del mese di febbraio di ciascun anno, non avessero comin- ciato il maggese prescritto, fosse lecito ad ognuno di interpellare i suddetti giudi- zialmente, se eglino volessero o no maggesare e seminare il quario di turno, la quale interrogazione doveva anche essere riprodotta, nel termine di tre giorni, avanti il Prefetto dell’Annona. Che se gli interpellati non avessero risposto affer- mativamente e avessero dichiarato di non volere eseguire le prescritte lavora- zioni, in tal caso, il Prefetto avrebbe dovuto dichiarare il diritto di maggesare e seminare quel quarto, in favore di chi avesse fatta la ‘interpellanza, esonerandolo . dal pagamento di qualsiasi risposta. CAPITOLO XIV 337 Mancando poi il nuovo assuntore dei lavori, all'esatto adempimento dei patti di seminare il quarto, fosse tenuto ed obbligato a pagare il prezzo corri- spondente al prodotto, da ripartirsi, come sopra fu ripetuto, e con facoltà di agire contro lo stesso, anch» es:cutando il prezzo del pascolo del quarto stesso. Ad ottenere un’esatta e Jeale obbedienza di quanto aveva prescritto il Pontefice, agyiunse, anche un’altra ingiunzione, che cioè nessuno potesse, nel- l'avvenire, fare alcun contratto di locazione, colonia od altro, dettando patti, che in modo alcuno contraddicessero quanto era stato comandato dalla volontà sovrana del Pontefice — e ciò, sotto pena di caducità dal possesso e dominio dei rispettivi fondi e terreni — dichiarando quindi, che qualsiasi convenzione, © patto in contrario s’intendessero irriti e nulli, e se rogati fossero da un notaio, costui s’intendesse ipso facto incorso nella multa di 100 scudi d’oro e nella sospensione dell'ufficio suo. Volle poi che si derogasse anche dai patti già in vigore per contratti esi- stenti, e che quelle condizioni, che per avventura si opponessero a quanto era stato ingiunto, s’intendessero, come non espresse in quanto la esecuzione dei con- tratti si dovesse conformare pienamente alle disposizioni emanate dal Pontefice. Se poi nascesse da ciò differenza, o sorgesse diritto a compensi, volle, che le parti interessate, nel termine di quindici giorni. deducessero avanti il Pre- fetto dell’Annona, a ciò debitamente autorizzato, la questione, e questi, in via sommaria e stragiudiziaria, avrebbe dovuto risolvere tutto, per comporre le parti, e, qualora fosse stato necessario, avrebbe potuto anche rescindere i con- tratti, o prendere qualsiasi provvedimento che avesse creduto più equo ed opportuno, senza diritto alle parti di reclamare, fuorchè direttamente al Pontefice. Pio VI autorizzava nel modo più ampio il Prefetto dell’Annona ad ese- guire gli ordini sovrani surriportati* conferendogli le più estese facoltà. Conela- deva esprimendo la sua ferma e decisa volontà che si fosse ottemperato a quanto egli aveva ingiunto, nonostante ogni altra precedente disposizione dei Pontefici predecessori, e derogando da qualsiasi uso e consuetudine in vigore, anche per ragioni di diritto. L'atto fu datato dal Palazzo Apostolico del Vaticano, “il giorno e l’anno sopra espresso (1). b (1) NicoLai. Memorie, leggi ecc., vol. I, pag. 306. Arch. Vatic. Bolle e Bandi, Serie Ii Anni 1788-84. E] 338 CAPITOLO XIV In seguito al surriferito Motu proprio del Pontefice, il Card. Camerlengo pubblicò, nel giorno 17 febbraio dell’anno 1783, un suo editto, che formava il regolamento per la esecuzione pratica di quanto aveva prescritto Pio VI. In cotesto editto, il Camerlengo riassume la storia economica dei fatti, svoltisi fin dal pontificato di Clemente VII che, con la sua Costituzione aboliva e proibiva tutti i patti contrari, che dai proprietari dei terreni potevano essere opposti, per impedire ia libera coltivazione delle terre, e per eseguire il rincolto delle stesse, il che, in seguito ad una provvida decisione di una Commissione di Cardinali e Prelati, fu confermato, dappri:na con ordine verbale del Pontefice Clemente XIII, e poscia per mezzo di un E litto pubblicato il giorno 11 marzo 1766. Tali provvedimenti però non avevano ottenuto il risuitato desiderato, perchè allora le campagne erano meno coltivate di quello, che sarebbe stato possibile, sia nei riguardi della loro estensione, sia nei riguardi della loro ferti- lità. Se ne volle indagare la causa prima, e questa fu specialmente riferita al fatto, che la sopracitata legge di Clemente VII sulla coltivazione della terza parte fosse troppo generica e mancante di. quei criteri che debbonsi avere circa i terreni in generale, come sopra ciascun terreno in particolare. Infatti è sommamente necessario separare i terreni non adatti alla cultura, lasciando una conveniente superficie per pascolo e per la produzione del fieno, ed esa- minare le varie circostanze specifiche di ogni terreno e di ogni singola tenuta. Tutto ciò essendo stato trascurato ed omesso, gli agricoltori avevano tro- vato più facile motivo di giustificare il perchè non avessero adempito alla sementa prescritta, ed i proprietari potevano anch’essi rendere un’ apparente ragione delle loro coercizioni e dei patti ostacolanti, che, purtroppo, erano stabi dettati nei contratti d’affitto, affinchè non fossero coltivati neppure i migliori terreni. È Il Pontefice, volendo prima di tutto provvedere all’Agro Romano, fece * ispezionare da più persone esperte nell’ arte agraria tutte le tenute, perchè rifenissero sul metodo di coltivazione più razionale, da adottarsi per ciascuna di esse, tenuto però conto della natura e della qualità dei terreni che le com- ponevano. Ciò essendo stato eseguito, ne fu fatta debita relazione in iscritto, e fu notificato ai proprietari ed affittuari l’accesso sopra luogo, e fu data comuni- cazione ai medesimi delle rispettiva relazioni, affinchè tutti potessero fare le proprie osservazioni in contrario. Quelle relazioni approvate e sottoscritte dai CAPITOLO XIV 139 periti, furono esibite al l'ontefice dal Prefetto dell’Annona, il quale le aveva riunite, formandone un esatto catasto, che il Pontefice approvò, ordinandone la precisa osservanza. Pertanto, in esecuzione del Motu proprio del Pontefice, del giorno 25 gen- naio di quello stesso anno, e per gli ordini verbali, che lo stesso Pontefice aveva impartito, il Card. Camerlengo ordinava e comandava a tutti, nessuno escluso, fosse anche degno di menzione speciale, di osservare e dare esecuzione a quanto prescriveva il Catasto esibito, secondo gli ordini del Pontefice, dal Prefetto dell’Annona, tanto per gli atti del Mariotti, segretario della C. A., quanto per l'Ufficio dell'Agricoltura, ai 15 di febbraio di quell’anno. Per maggior comodo degli aventi interesse, quel Catasto sarebbe poi stato pubblicato a stampa, come fn eseguito (1). Che, per ciò, ugni anno, si d.vesse rompere e maggesare in ciascuna tenuta quella quantità o porzione di terreno che veniva prescritto nel Catasto, senza che fosse lecito ad alcuno di fare altrimenti e di variare in modo veruno gli ordini emanati, senza una licenza in iscritto rilasciata dal Prefetto dell’ Annona. E tutto ciò veniva ingiunto, riservando sempre ai proprietari ed agli affit- tuari o coloni di poter aumentare la sementa, il che sarebbe stato sempre lecito. Che se qualche proprietarie, avesse voluto bonificare la sua proprietà, l’Editto ripeteva quanto giù aveva. ordinato il Motu proprio del Pontefice, con tutte le altre seguenti disposizioni, le quali vennero esplicate ed ampliate, per modo che il documento costituì un vero e proprio regolamento delle norme e dei precetti banditi da Pio VI. Ad incoraggiare gli agricoltori, per la esecuzione dei sovrani voleri, il Cardi- nale Camerle\go terminava l’Edittò suo, promettendo che, ove si fosse verificata un'abbondante raccolta di grano, il Pontefice aveva. già espressa la volontà che, dopo averne esaurientemente approvigionata Roma, tanto di una quantità per l’ordinario consumo, quanto di un’altra discreta quantità per riserva, avrebbe subito concessa la esportazione, il cui permesso, affinchè riuscisse di premio in- distintamente a tutti gli agricoltori dell'Agro romano e fosse anche di stimolo —___*_--.. » (1) Catastro (sie) dello tenute dell'Agro romano formato per ordine di N. S. Papa Pio Sesto da Mons, Giuseppe Albani, ete. In Roma nella Stamperia della R. C. A., 1788, pag. 622. 340 CAPITOLO XIV a continuare la coltivazione delle terre, e tutto ciò sarebbe stato concesso, ripar- tendolo in proporzione alla superficie seminata dagli agricoltori. L’atto fu bandito dalla Camera Apostolica (1). Tuttavia l'ordine di Pio VI non tu osservato. Infatti, nell’anno 1783 fu se- minata la superficie di sole rubbia 13,678, e nel seguente anno rubbia 14,646. con una eccedenza appena di rubbia 968, nel solo Agro romano; mentre nel distretto, nel primo anno fu seminata la superficie di rubbia 26,232. ma nel secondo si ebbero seminate rubbia 43,188, quindi una quantità superiore in estensione di rubbia 16,956 (2). Per la maggior semina eseguita, i proprietari vollero che gli a/fittuari pagas- sero una corrisposta di rubbia due di grano, in corrispettivo di ogni rubbio di ter- reno coltivato, oltre quanto concedevano î contratti a affitto! (3). Eseguito il Catasto dell'Agro Romano, risultò, che il territorio comprendeva un’estensione di rubbia 111,106 (Ea. 205,368.33), vale a dire circa 945 ‘miglia qua- drate (4). Detto territorio era diviso in 862 tenute. (entotredici proprietari secolari ne possedevano 234, le quali tutte avevano una estensione complessiva di rub- bia 69,196. Primi fra questi erano il Principe Borghese. per rubbia 12,038: il Duca Sforza Cesarini per rubbia 5638; il Marchese Patrizi per rubbia 3125; il Prin- cipe Chigi per 2922, ecc. I Monisteri, le chiese, i luoghi pii e le associazioni chiesastiche, in numero di sessantaquatitro, possedevano le residuali rubbia 41,906, che erano suddivise in 128 tenimenti. E così il Capitolo di S. Pietro, possedeva rubbia 10,958; l’Ospe- dale di S. Spirito 8321; il Sant’ Uffizio rubbia 3214; il Capitolo di S. Giovanni in Laterano rubbia 2012; quello di S. Maria Maggiore 1030, ece., ecc. Secondo il catasto del 1783 e le prescrizioni del Motu proprio del Pontefice, in data 25 gennaio dell’anno suddetto, in ciascun anno dovevano essere seminate rubbia 23,140 (Ea. 42,771.97), per modo che, se la legge fosse stata puntualmente eseguita, ogni anno sarebbero state raccolte circa 185,120 rubbia di grano (quin- (1) NicoLar, l. e. Arch. Vatie., Bolle e Bandi. Serie III. Ann. 1783-84. (2) Ibi, vol. III, pag. 144. (3) ArpanT G. Papi e Contadini, T1. (4) NicoLar, II, pag. 223. CAPITOLO XIV 341 tali 401,710) calcolando il reddito di rubbia 8 per ciascun rubbio di terreno se- minato. Al contrario, dall'anno 1783 al 1797, furono seminate annualmente »ol- tanto rubbia 13,726, le quali produssero soltanto rubbia 96,758, da cui detratta la quantità del seme necessaria alla produzione, in ragione di rubbia ! e mezzo, per ciascun rubbio di superficie, sì ebbe un residuo netto di sole rubbia 76,144, ossiano quintali 165,449 (1). E tutto ciò fu cagionato dalla ostinata contrarietà dei propr.etari dev latijondi, i quali, sempre mai avversi a qualsiasi regolamento, che moderasse l'agricoltura, avevano già reso vane tutte le precedenti leygi ponti- ficie, e la storia dei fatti ha sempre dimostrato, che i proprietari non avrebbero neppur permesso che fosse coltivata una piccola porzione dei loro latifondi, se non fossero stati obbligati a ciò fare per profitto della pastorizia. Infatti è noto come i pascoli abbiano bisogno di essere rinnovati, avvicendandoli con la coltiva- zione dei cereali (2). Pubblicato il Catasto, cheaveva l’unico scopo di accrescere l'agricoltura della Campagna romana, Mons. Gi. Frane. Maria Cacherano di Bricherasio propose al Pontefice un progetto per introdurre ed assicurare stabilmente la coltivazione e la popolazione dell'Agro Romano, A tale effetto, nell’anno 1795, pubblicò un suo seritto nel quale espose le vicende del'’agricoltura nell’Agro Romano, dai tempi antichi fino al secolo xvi. Asserì poi, che gli avvenimenti politici e militari fu- rono la causa della deficiente cultura e della scarsezza della popolazione. Propose (1) NicoLar, li, pag. 223. (2) Abbiamo notato precedentemente, ‘come la città di Ostia fosse tuttora abitata nella seconda motà del secolo. xvi, ma dobbiamo anche aggiungere, che da una Noti. ficazione banditavi, nell'anno 1784, ai 4 di agosto, ci risulta che uno dei vescovi di quella città, il Card. Domonico Giunasi, avesse quivi fondato un ospedale per coloro, che vonirano colpiti da febbri malariche. Le tavole di fondazione di quel pio Istituto prescrivevano, che si dovessero rice- vere i malati, ma, che uppena fosse possibile, fossero subito trasportati negli ospedali di Roma, « cura e spesa di quell'Opera pia. Simile disposizione riguardava però i soli malati poveri, AI contrario era invalso l'abuso, che qualunque malato, accolto nell'ospe- dale, quando veniva trasferito a Roma, si rifiutava poi di andare negli ospedali della città e pretendeva essere portato alla propria casa, o dovunque meglio gli fosso pia- ciuto. Donde l’Ospizio Ginnasi veniva gravato di soverchie spese, contro la volontà del fondatore, con danno evidente dei poveri. Per evitare tali abusi, fu ordinato che, quando un malato si fosse presentato all'Ospedale di Ostia, dovesse esibire la fede di povertà, ® dovesse 0i sottostare a tutto ciò che ordinavano le tavole di fondazione (a). (a) Append, Doe. LII. 312 CAPITOLO XIV quindi di popolare la parte dell'Agro Romano, site fra le vie Appia e Claudia, che egli stimò ascendere a circa rubbia 40,000 (Ea. 73,936) stabilendovi da prin- cipio 1900 famiglie — che calcolò in complesso a 9500 persone — le divise in 20 tribù per le quali, ammettendo una spesa di scudi 2,196,250 (lire 11,807,531.25), presuppose che col lavoro avrebbero dato una rendita di scudi 459,210 (lire 2,419,878.75). E così pure fece proposta di aggiungere altre 26 tribù nelle altre tenute, che sono site verso la spiaggia del mare (1). Esaminò le grandi difficoltà che s° incontravano nella esecuzione, ed avvisò i mezzi più sicuri per raggiungere lo scopo. Terminò proponendo alcuni articoli di _ legislazione agraria, che egli credeva potessero assicurare l’avvenire delle colonie agrarie, sostenendo utile lo introdurle a poco a poco nell’Agro Romano. Tale progetto non fu preso in considerazione. A tutelare maggiormente la produzione del grano, il Pontefice ordinò al Card. Camerlengo di rinnovare, il giorno 22 agosto 1788, l’Editto consueto sopra il libero commercio del grano, delle biade, dei legumi, e degli altri generi, e ciò in qualunque luogo e da una provincia all’altra, senza alcuna licenza (2). Nello stesso anno, ‘e nel giorno 21 aprile, il Tesoriere generale, Mons. Fabrizio Ruffo, per ordine avutone dal Pontefice, pubblicò un Bando, col quale promise il premio di un paolo — 0.53 — per ciascun albero d’olivo che fosse stato piantato nello Stato. Invero ne furono piantati oltre 200,000 in vari luoghi, ma pochissimi nel- Agro Romano (3). Intanto gravi avvenimenti politici cominciarono a turbare lo Stato, e vicende di Francia ne furono la prima cagione. ‘Il Pontefice fu costretto, nell’anno 1793, a porre in armi un esercito, per op- porsi possibilmente ai Francesi, che minacciavano l’ invasione dello Stato. In quelle difficilissime contingenze, il Governo dovette imporre nuove tasse, e spe- cialmente la tassa fondiaria sull’ Agro Romano. Sulle vigne fu stabilita una dativa reale, di uno scudo e baiocchi 40 a rubbio (lire 7.52). Nelle tenute, i terreni se- minativi e prativi furono tassati con baj. 60 a rubbio (lire 3.22) e quelli pa- scolivi e boschivi a baj. 30 (lire 1.66) (4). , (1) CacHERANO G., Franc. B., Dei mezzi per introdurre, ece., art. TV, pag. 230-406. (2) Stamp. della R. C. A., 1788. Arch. Vatic. Bolle e Bandi, Serie III, ann. 1788. (3) NicoLar, ]. e., tom. TII, 204. (4) Editti del Card, Camerlengo, 11 giugno, 8 agosto 1703. bi. Ann. sud, CAPITOLO XIV 343 Intanto il Pontefice, attese le politiche vicissitudini che turbavano lo Stato, intuì, che per quanto ubertose fossero le raccolte dei generi più necessari al so- stentamento umano, non mancavano tuttavia coloro che, spinti dall’ insazia- bile ingordigia del lucro, si dedicavano al monopolio ed all’incettazione, aspor- tando clandestinamente all’estero i grani, ed altro; il che generava rincaro nei prezzi, e, peggio ancora, rendeva più difficile il sostentamente dei poveri, e più facile ln generale penuria. In seguito di che, ordinò al Card. Camerlengo, Carlo Rezzonico, di pubblicare un Editto contro la esportazione dolosa del grano, e di altri generi frumentari fuori dello Stato della Chiesa, nonchè contro le assegne dei cereali che fossero date contrarie alla verità. Infatti, lo stesso Card. Camerlengo, con suo Editto, del giorno 9 agosto dal- l’anno 1793, ordinava, che niuna persona secolare od ecclesiastica, anche degna di speciale menzione, ardisse nè potesse senza le dovute patenti delle tratte, da essere rilasciate da esso Camerlengo stesso, o con precedente Chirografo, 0 per re- scritto de! Pontefice, di esportare o fare esportare da qualsivoglia luogo, sog- getto alla Sede Apostolica, fuori dello Stato ecclesiastico, per maré o per terra, grano, orzo, ecc., sotto la pena della perdita degli stessi generi, delia multa di scudi 5) al rubbio, per i cereali, e di scudi 25 per gli altri generi. .Rinnovava quindi il severo monito, sulle assegne da darsi circa la quantità dei generi rac- colti, affinchè si potesse provvedere in tempo alle urgenze della pubblica An- nona (1). , Tutto ciò veniva prescritto nelle forme consuete, che spesso abbiamo ripor- tato integralmente, o che, con copiosi riassunti, abbiamo rammentato in questo sommario. Nello stesso anno, ai 24 di ottobre, per ordine verbale, dato cioè, come ge- neralmente viene espresso, « col vivo oracolo del Pontefice » lo stesso Card. Ca- merlengo rinnovò il consueto Editto relativo al commercio ed al trasporto del grano, della biada, dei legumi e del granturco, per gli interessati nel distretto di Roma e nelle provincie annonarie (2). Frattanto, il dazio del macinato nell’Agro romano, era già salito, fin dal- l’anno 1779, a baj. 83 il rubbio (lire 4.46) (3). In Roma poi, per coloro che fab- (1) Arch. Vatic, Bolle e Bandi, Serie ILL, anno 1793. @) Ibi. (3) Editto del tesoriere, 2 gennaio 1779, Arch, sud, 344 CAPITOLO XIV bricavano il pane a casa propria :-— dal che si disse casareccio — il dazio maci- nato fu aumentato fino a baj. 50 (lire 2.68), al rubbio, e per i fornai fu elevato a scudi 3 (lire 16.25). Ma le tasse imposte furono insufficienti alle grandi urgenze dello Stato, co- sicchè si aumentò annualmente il Debito Pubblico, che in breve raggiunse la enorme somma di lire 53,750,900, mentre la popolazione totale soggetta alla Sede Apostolica ammontava appena ad un 1,700,000 abitanti (1). Giunta la cosa pubblica a tale situazione, riusciva assolutamente impossi- bile di poter soddisfare gli impegni assunti con i mezzi ordinari. In conseguenza, il Governo dovette vendere molti beni demaniali, e fra di essi anche alcune te- nute dell'Agro romano. Così Roma vecchia fu venduta per scudi 153,755, e la tenuta di Porto, che fu acquistata da Panfilo di Pietro per scudi 120,000 (2). La tenuta dell’/sola Sacra, fu ceduta a Carlo Giorgi per scudi 80,000 (3). Il Pontefice, nell’unico intento di diminuire il Debito pubblico, mise in ven- dita anche la quinta parte dei beni ecclesiastici dello Stato (4) e, fra questi, circa 50 tenute dell'Agro Romano. Quei tenimenti avevano la estensione di rubbia 8523, Ea. 15,753 .91 ed il loro valore catastale ammontava a scudi 1,116,576 (lire 6,001,596) (5). Ed infatti fu venduta una parte, e cioè le tenute di Acqua Acetosa, Casal dei Pazzi, Palazzo Morgano, Saccoccia, Settebagni e Torre Carbone, dalle quali fu ritratta la somma di scudi 138,370. Nello stesso anno 1797, la raccolta del grano fu scarsa sommamente, in quanto erano state seminate rubbia 13,576 in superficie nell’Agro Romano, e se ne ricavarono soltanto rubbia 18,817 (6). Il prezzo del grano ascese a scudi 30 al rubbio, lire 74.30 al quintale (7). L’Amministrazione dell’ Annona pubblica, divenuta impotente per provvedere» ad un tanto disastro economico, non poteva più nemmeno soccorrere la pubblica indigenza, secondo l’antico metodo; e le perdite subìte dall'anno 1766 in poi, furono tali e tante, che l’ Annona dovette cessare dalle sue funzioni nell’anno 1798, (1) Coppr. Annali d'Italia, 1798, paragr. 41-43. (2) Arch. di Stato, Roma, Arch. Cam. Ostia. (3) Ibi. (4) Coppr, 1. e. 1797, parag. 92. (5) Elitto de! Cardinal Camerlengo, 28 novembre 1797. (6) NicoLAr, I. e. vol. III, 144. (7) Coppi. Aznali d'Italia, 1798. Paragr. 43-46. Id., anno 1799, paragr. 79, CAPITOLO XIV 3465 con un enorme fallimento, che raggiunse la somma di scudi 3,293,865.85, (lire 17,704,528.94) (1). Giova però osservare, che le perdite rilevantissime dal 1794, derivarono in gran parte dalla cattura fatta dai Corsari, di rubbia 12,000 di grano, dal prezzo di rubbia 6000 di biada, che fu somministrata all’esercito austriaco, per ordine del Pontefice, dall'importo di molte e molte migliaia di rubbia di grano, somministrate alle Comunità dello Stato, ad un prezzo infe- riore a quello dell'acquisto fattone, e finalmente dall’aggio dovuto pagare per ridurre in moneta le Cedole, il che, negli ultimi anni, cagionò una perdita del 35 per cento. Le Cedole derivarono dai grandi prestiti fatti all’ Annona dal Monte di Pietà, e dal Banco di S. Spirito, che emettevano dei buoni o Cedole, che dovevano scontarsi per ricavare il denaro! Intanto gli eserciti stranieri avevano invaso l’ Italia, e financo lo Stato della Chiesa. Il Pontafice Pio VI fu condotto prigioniero in Francia, dapprima a Briangon, poscia, per Gap e Grenoble, a Valenza, ove giunse il 15 luglio dell’anno 1799. Appena quattro giorni dopo si voleva condurlo a Digione, ma poichè era caduto malato, anche per l'avanzata età sua, così fu fatto restare a Valenza. F quivi, consunto dal male, che si era reso ogni giorno più grave, si spense sere- namente ai 19 di agosto, nella tarda età di circa 82 anni. Visse nel Ponteficato 24 anni, 8 mesi e giorni 14, quanto cioè fino allora, nessuno, fra i 256 suoi Predecessori, aveva mai durato sul soglio Pontificio. Prima di por termine al periodo storico del Pontificato di Pio VI, non vo- gliamo tralasciare di aggiungere poche parole sulla grandiosa impresa compiuta da quel Pontefice per il bonificamento dell’ Agro Pontino; e riteniamo che debba riuscire utile agli studiosi, conoscerla per sommi capi perchè 1’ Agro Pontino con- fina coll’Agro Romano. Non appena il Pontefice fu eletto al Pontificato, nell’anno 1775, si ebbe varie offerte da imprenditori lombardi e francesi per compiere il prosciugamento delle Paludi Pontine: ma Pio VI le respinse tutte, volendo, che l'impresa fosse assunta direttamente dalla Camera Apostolica, dopo che aveva fatto compiere studi ed esami in proposito. Primieramente dilatò la circoscrizione territoriale, che era stata stabilita al tempo di Clemente XIII, incorporando alla proprietà della Camera Apostolica (1) NicoLar, |. e., vol. HI, 156 e segg. 346 CAPITOLO XIV tutti i terreni già prosciugati. Da ciò ebbe origine il Circondario Camerale Pon- tino, che raggiungeva la superficie di 83 miglia quadrate; e quindi l’anno 1777, ai 14 di gennaio, pubblicò il suo Motu proprio sulla bonificazione delle Paludi Pontine (1). A direttore della bonifica fu eletto Gaetano Rappini, ingegnere idraulico da Bologna. Per iniziativa del Pontefice Pio VI, fu stabilito che un canale maestro escavato lungo la via Appia, riunisse e convogliasse tutte le acque della bassa pianura, per avviarle al mare. Quel canale fu designato col nome di Linea Pia, e, posto com'è nell’asse centrale dei luoghi paludosi, ha pendenza sufficiente per scaricare le acque nel mare, raccogliendole dalle singole fosse miliarie, che furono tutte escavate normali al canale maestro. parallelamente fra loro, e quasi equi- distanti, anche per inalveare i maggiori corsi d’acqua provenienti dai luoghi montani, che cireondano l’Agro Pontino; quali corsi sono: la Botte, la Schiazza, il Ninfa, la Cavata, la Cavatella, VUfente, l Amaseno ed altri di minor conto; ond’è che il canale maestro forma l’arteria principale di tutta la rete dei con- fluenti, e, raccogliendo tutte le acque impaludanti quella vasta regione, e for- manti un notevole volume di acque, con proporzionale velocità, tutte le con- voglia nel Portatore di Badino, e quindi nel mare. E giova, per la storia, ripetere che tale idea fu genialmente ispirata dal Pontefice, che ebbe valenti e studiosi esecutori idraulici, nelle persone di Rap- pini, di Scaccia e di Astolfi. Una parte della zona era cresciuta naturalmente a bosco e si utilizzava por- zione a taglio di legna, da ridursi in carbone, e porzione a taglio di legname da costruzione di navi. Su quella parte poi, che si manteneva in uno stato di impaludamento permanente,.gli abitanti dei paesi limitrofi, abusando della rilas- satezza del pubblico regime, avevano artificialmente preparato e disposto degli stagni adatti alla pesca, tanto che quei luoghi fino ab antiqguo, erano stati de- signati col nome di peschiere. Il Pontefice rivendicò tutto alla Camera Apostolica, ordinò il disboscamento di gran parte di quelle terre, abolì quelle peschiere; e tutto ciò, con ardimento e con meritato successo. Pio VI si recò spesso in quei luoghi, ad ispezionarvi il progresso dei lavori, nei quali furono impiegati oltre 3500 uomini; e fin dal principio, cioè nell’anno 1780, furono conquistati alle acque oltre 1475 Za. Ma (1) NicoLa: N, M. De' bonificamenti delle terre Pontine, ecc., a pag. 160. CAPITOLO XIV 347 le spese complessive superarono quelle previste dal Rappini, poichè raggiunsero la somma di scudi 1,621,963 (lire 8,718,056.12). Il Pontefice restaurò la via Appia, abbellendola di alberature continue, e concesse anche in enfiteusi i terreni dell’Agro Pontino bonificato. I risultati ottenuti da un'impresa simile, in tutto degna dell'antica Roma, furono non pochi. La viabilità ripristinata sulla storica regina delle strade, l'Appia, una comoda navigazione lungo la strada stessa, per cui si rendeva più pronto e più facile il trasporto delle derrate e dei prodotti agricoli, l'aumento di su- perficie coltivabile di terra, assai fertile per l'esercizio dell’arte agricola, i pascoli migliorati e resi più sani per tutto il bestiame, specialmente per quello vaccino, cavallino e bufalino, la conseguente abbondanza dei viveri per l'agricoltura più largamente esercitata, e quindi da tutto codesto insieme di cose, la popolazione fu sempre più crescente, in luoghi ove prima erano acque morte, malaria, ed abbandono completo! Dobbiamo però deplorare, che la grande solerzia e la vigile operosità del Pontefice Pio VI, non abbiano servito di esempio alle genti del secolo x1x, e che fino ad oggi, tuttora restino come un semplice voto i molteplici e vari progetti escogitati da molti ed illustri ingegneri idraulici, che avrebbero dato le norme per liberare, dalle acque morte, tante e così belle campagne sommerse nell’Agro Pontino. Abbandono indegno codesto, dopo la gloriosa iniziativa di quel Pontefice, e sommamente indecoroso per noi, della terza Italia!! 348 CAPITOLO XY CapitoLo XV. La produzione della lana nella Campagna Romana e l'arte dei lanaiuofi in Roma, dal secolo xiv in poi. Una storica narrazione intorno alla produzione lanifica nell’Agro Romano, è certamente ardua impresa, anche allorquando sia stata preceduta da diligenti ed accurate ricerche — come noi abbiamo pur cercato di compiere — e ci ri. sulta, infatti, che niuno, fin qui, abbia trattato simile argomento, preparan- dovisi innanzi con una severa e matura disamina di storici documenti (1). Ma pure è innegabile, che la produzione della lana debba avere avuto, nei secoli passati, una seria importanza, per la speciale ragione, fra le altre, che la importazione dei tessuti laniferi in Roma, provenienti dall’estero, fu sempre sommamente scarsa, mentre è naturale il supporre e il ritenere, che sia stata sempre stragrande la necessità di provvederne, non solo la popolazione in genere, ma più specialmente la immensa congerie delle Corporazioni religiose, e dei varî ordini ecclesiastici, onde Roma era già centro per tutto l’Orbe cattolico. Confessiamo, quindi, tutta la nostra trepidanza nell’accingerei a tessere niente altro che un brevissimo sunto storico su questo tema così importante, e ci sia tenuto conto almeno della buona volontà e della pazienza che usammno nello assumer dati e nel raccoglier notizie — gli uni e gli altri racimolati a bri- ciole or qua or là — non potendo seguire altra norma che quell. più comune, la cronologica, il che farà ravvisare numerose lacune in questo nostro modesto lavoro. È Ma ci auguriamo che altri, più adatto, e meglio nodrito agli studi, — e, ci si lasci dire — anche più fortunato di noi, nel rovistare gl’innumeri documenti degli Archivi, riesca a completare, in ogni sua parte, una « Storia della lana dell'Agro Romano », tenendoci ben soddisfatti con questo nostro informe tentativo di (1) Vedasi: Stevenson Enrico. Statuti delle arti dei merciai e della lana di Roma, Roma 1893, CAPITOLO XV 349 offrire un sunto, che invoglierà alcuno alla piena trattazione dell'importante soggetto. Nell'anno 1315, il Senatore Gerardo Spinola, di Loculo, vicario in Roma per il Re Roberto di Napoli, confermò gli Statuti dei mercanti dei drappi di lana, Statuti, che due anni dopo, nel 1317, furono redatti in buona forma, du- rante il Senatorato di Rinaldo di Beletto, anch'esso Vicario di Re Roberto. Nell'anno 1322, il 12 gennaio, i Senatori di Roma Annibaldo Annibaldi, e Riccardo Fortebraccio, anch'essi confermarono gli Statuti sopradetti, che furono anche approvati dal loro successore, Stefano Conti, nel giorno 1 settem- bre dell'anno suddetto. Rinvenimmo memorie attestanti, che, anco nell’anno 1331, e precisamente nel giorno 1 settembre, i Senatori Nicolò di Stefano Conti, e Stefano Colonna quali Vicari del Re Roberto, confermarono i soli i Statuti dei lanari. E nuovamente, nell’anno 1346 i Senatori, e giudici palatini, Bartolomeo Varani ed Andrea de’ Massimi, apposero la loro approvazione, per la conferma dei detti Statuti. ; Anche Cola di Rienzo, che s’appellava severo e clemente tribuno di libertà, pace e giustizia, e liberatore della Sacra Romana Repubblica, nell’anno 1347, ai 27 di giugno, nel palazzo Capitolino, approvò i capitoli degli Statuti dei inafcanti della lana. . Anzi lo stesso Cola di Rienzo, nel giorno 11 luglio dell’anno 1354, al tempo del Pontefice Innocenzo VI, rinnovò la conferma, che fu replicata dai Senatori Giovanni di Paolo Conti e Raimondo Tolomei da Siena, il giorno 9 gennaio dell’anno 1358. Nel British Museum, si conserva il .Wss. 8464, che contiene gli Statuti dei morecanti della lana, onde apparisce, che nell’anno 1371, e nel giorno 2 ottobre, i tre Conservatori in carica, confermarono gli Statuti. nei quali venne ‘aggiunta la condizione. che i Consoli dell’arte dei lanari, dovessero risiedere, per rendere giustizia nella Z'orre del Mercato, dalla parte del Campidoglio verso il Foro, secondo quanto era stato stabilito dai nuovi Statuti di Roma, approvati il giorno 9 agosto, dello stesso anno 1371 (1). Nei capitoli di essi Statuti, si leggono varie utili indicazioni, sulle condizioni (1) «... in furre Mercati, versus Capitolium, et per totum Forum, secundum formam novorum Statutorum Urbis ». 350 CAPITOLO XV del lavoro in Roma, in quell’epoca lontana, e quella specialissima — assai rara negli Statuti di altre corporazioni — di fare cioè la guardia, con l’obbligo del giuramento, di difendere i privilegi del Popolo romano, ed insieme il divieto d’impiegare la lana, già adibita per i materassi degli ospedali, al fine di evitare cause e pericoli d’infezione. Precetto codesto invero rarissimo, in quanto, di quei tempi erano completamente misconoscinti ed ignorati i precetti d’igiene (1). Dall'esame degli articoli del manoscritto conservato nel British Museum, si può rilevare che la prima parte ne fu redatta certo anteriormente al 1390, poichè vi si cita, la conferma del Senatore Malatesta dei Malatesti, e che alcuni articoli relativi alla competenza dei Consoli, in materia giudiziaria, sembrano meglio appartenere all’anno 1388, ed apparisce chiaro, che tutti siano poi stati inserti letteralmente negli Statuti dell’arte della lana, pubblicati ed approvati nel- l’anno 1406. Questi, come gia accennammo, sono conservati nel British Mu- seum, ed hanno per titolo « Statuta mercatorum artis pannorum lanae in Urbe Roma » (2). Le due prime pagine ‘trattano di una modificazione dello Statuto, a cui fa seguito l’indice degli articoli — pag. 3° a 6° — e poi viene il testo dello Sta- . _tuto, fino all’art. LKXXIV — a pag. 38. Nella prima conferma, fattane dal Senato di Roma, nell’anno 1322, come dicemmo, è riportato un articolo aggiunto — il numero LXXXIII — equivocato, e leggonsi poscia le altre conferme, fino alla pag. 75, ove sono aggiunti quattro nuovi articoli. La pag. 112, contiene una nuova modifica dello Statuto, sotto la data dell’anno 1470, ed in appresso appaiono le ulteriori varianti, in data degli anni 1525, 1532, 1553, 1567, e che seguono interpolatamente fino al l’anno 1634. Gli Statuti dei Lanari dell’anno 1406, differiscono ben poco da quelli del- l’anno 1758, ma in essi viene ripetuto e confermato, come il sodalizio abbia esistito fin dal secolo xIv. Gli ordinamenti dell’antico Collegio Artis Lanitiae Urbis prescrivevano che, in ogni anno, si nominassero i revisori a visitare i fondachi e le fabbriche dei panni di lana, affinchè i lavori vi fossero eseguiti senza frodi. (1) Obbligo per i fabbricanti dei tessuti. (2) Il manoscritto è in-8° su carta, di pagine 125, di caratteri del secolo xv1, e porta nel frontespizio l’ex lbris di G, Garampi. O. PITOLO XW 351 Nelle ispezioni si esaminavano i drappi, poichè le Inne vecchie dovevano essere escluse dai lavori, e gli stessi mercanti patentati erano vincolati da un giuramento di esercitare il commercio della lann senza frode, Era prescritto l'esame delle bilancie, e delle misure perchè fossero giuste. A codeste ispezioni ed a co- desto esame intervenivano i Consoli dell'Arte, il Camerlengo ed il Procuratore della Università, che, nel caso di trasgressione, applicavano multe e penali. Nella occasione di visite straordinarie alle fabbriche della lana, il Collegio dell'Arte, soleva fare un dono ai Consoli ed al Camerlengo, offrendo a ciascuno di essi mezza libbra di cannella, cd una libbra di pepe. Se uno dei soci del So- dalizio fosse caduto infermo, veniva visitato a nome del Collegio, e per una | volta soltanto, gli venivano donate tre libbre di zuccaro. I figli ed i fratelli dei mercanti, che lavorassero nelle fabbriche, botteghe o fondachi dei propri genitori, o fratelli germani, non dovevano pagare alcuna tassa al sodalizio. Chiunque non avesse conseguito il diritto ad ottenere la patente, o matri- cola, non poteva possedere cardi di ferro, valche, o gualchiere edifizî atti a fab- bricare panni, o macchine mosse da forze idrauliche, o che comunque fossero atte a pestare e sodare il panno (1). A nessuno dei mercanti dei panni di lana, era permesso di tener aperto più di un fondaco.. (ili Statuti comprendevano le norme e le regole che disciplinavano l’esercizio e le attribuzioni dei singoli addetti all'arte della lana, ossia dei tessitori, valca- tori, orditori, cimatori, soppressatori, tintori e tiratorari. Erano stabiliti i prezzi dei singoli lavori della lana. Niuno, che avesse fallito, poteva aprire di nuovo un fondaco o bottega, se prima non avesse pagate le mercedì a tutti i suoi precedenti operai. - Il Pontefice Martino V emanò una Bolla, l’anno 1421, il giorno 3 di maggio, con la quale accrebbe il prestigio del sodalizio dell’arte della lana, accordando a quei Consoli la facoltà di poter citare, avanti al loro Tribunale, qualsiasi (1) In quei tempi verano due specie di gua/chiere, coi magli, o coi pestelli, che ale lora dicevasi « «d uso d'Olanda ». In conseguenza, dicevasi gualeheraio colui ehe era specialmente a ldetto alla sodatura del panno, ma comuuemente si chiamavano così, anche tatti i concialori, rovesciatori, tintori, soppressatori o cardatori del panno stesso, 62 CAPITOLO XV cittadino romano, ancorchè non appartenesse al sodalizio, e che i membri di questo potessero produrre in giudizio i loro libri di scrittura, a prova di qual- siasi credito non superiore a 20 ducati d’oro (1). In seguito, gli Statuti dei lanari subirono varie modificazioni, siccome quelle apportate l’anno 1472, il giorno. 28 maggio, l’anno 1478, il giorno 17 gennaio, l’anno 1520, il giorno 2 giugno, ed altre, che appresso noteremo. Verso l’anno 1493 l'Ordine dei frati Umiliati, ebbe in Roma la cura della chiesa di Santa Cecilia in Trastevere, che più tardi fu concessa, insieme a quel monistero, alle monache dette Umiliate, dello stesso Ordine. La principale occupazione degli Umiliati fu quella di esercitare l’arte della lana, e le relative manifatture, tingendo ed eseguendo la sodatura dei panni nelle gualchiere. Così anche le monache Umiliate lavoravano assiduamente la lana ed il lino, filando anche col fuso. Altre riforme furono compiute negli Statuti dell’arte della lana l’anno 1532, il giorno 21 di aprile, ed in seguito anche nell’anno 1553, nel giorno 3 di luglio. Il Pontefice Pio IV volle ampliare i privilegi già concessi al sodalizio dal Pontefice Martino V, e perciò con sua Bolla del giorno 15 gennaio 1561, conce- dette ai Consoli dell’arte il diritto di poter citare avanti al loro Tribunale chiunque fosse debitore di uno dei soci, fino alla somma di 30 ducati. In quei tempi, però, sembra, che l’arte della lana fosse in decadimento, ed alcuni industriali sì offersero di ravvivarla e di farla rifiorire, a condizione che fossero loro accordati gli stessi privilegi che già godevano i fabbricanti dei velluti. La civica Rappresentanza, alla quale fu diretta la proposta, emise voto fa- vorevole, inviandolo poi al Pontefice, perchè l’approvasse, come ci risulta dal verbale di una riunione tenuta il giorno 15 giugno 1567 (2). Il Pontefice S. Pio V, accolse il progetto, e nell’anno 1567, elargì anche una (1) Ballarium roman., Tom. ILL, pars. IL, fogl. 439. (2) « Ann. 1557 17 Kal. Julii. Consilium publicam convocatum per mandatarios pu- blicos, ete.: j -Semo anche sollecitati da certi, li quali vorrebbero introdur l’arte della lana in questa città, et similmente alcuni i quali vorrebbero introdurci la tinta di guado et colori fermi et dimandano alcune essentioni secondo have quello delli velluti, se pare a VV. SS. che noi ne parliamo al Papa si degneranno ordinarlo, che non mancheremo d’eseguirlo. Ex S. C. viva voce decretum fuit, quod Illmi Dui Consules et Prior intercedant pro eis apud suam Beatitudinem, ubi erit necesse, ad publicam utilitatem ». Arch, Stor., Capit., Cred. I, vol. XXI, pag. 183. CAPITONO xv 353 somma di scudi mille, per fondare un opificio atto al lavaggio delle lane, nelle vicinanze della Fontana di Trevi (1). Dalla Bolla, del giorno 5 settembre 1567 rileviamo che l’arte della lana fos:e în decadenza, poichè il Pontefice S. Pio V constatava con dispiacere come in quei tempi l’arte fiorisse più a Milano, Napoli e Firenze che non a Roma, ove era quasi del tutto cessata. î E sembra che la decadenza dipendesse in quei tempi, specialmente dal fatto che i detenuti nelle carceri erano obbligati a cardare ed a tessere le lane, ed anco nei conventi lavoravano i novizi degli Ordini religiosi. Il Pontefice S. Pio V con la Bolla sopradetta « Ut ad &rtis lande » rinnovò i privilegi accordati ai lanari, e aumentò i poteri giudiziari dei Consoli dell’arte, ingiungendo a tutti i magistrati, giudici e doganieri, di non molestare in modo alcuno i membri del Sodalizio dell’arte della Jana, sotto la pena di mille ducati d’oro (2). Anche in quell’anho 1567, ai 16 di gennaio, furono modificati gli Statuti dell’arte della lana. I privilegi accordati al Collegio dei lanari,sfurono confermati dal Pontefice successore a S. Pio V, Gregorio XIII. Nell'anno 1582 notiamo i nuovi Statuti, riformati completamente, ed intito- Inti: « Statuti Universit. laborent. Nobili et antica art. lan. Urb. » (3). ll Pontefice ed i Conservatori di Roma approvarono i nuovi Statuti, rifor- mati il giorno 18 febbraio dell’anno sopradetto. Quelli contengono 129 articoli, (1) « Ann, 1567 IV Il. Dec. Consilium ordinarium convocatum, ete. Semo stati richiesti dalli Consoli delli lanaroli, che n beneficio dell'arte della lana per la quale la Santità di N, S. ha dati mille scudi da spender in certi edificii per purgar li panni, vogliamo conceder lor licenza di forar il condotto dell’acqua di Treio, per intrometterci un eondotto di marmo, che conduca le acque lorde del detto purgà- torio, il che — come dicono — non è per far danno alcuno a detto condotto, ma solo s'interterrà l'acqua per quattro giorni, l'abbiamo voluto proporre in questo consiglio, acciò le SS. VV. determinino quel che si abbia a far. Px eodem S. O. decretum fuit, quod inspiciatur loens, et deinde referatur ad aliud Consilium ». . Arch. Stor, Capit., Cred. I, vol. XXIII, pag. 133. (2) Ballar. roman., INI, pag. 396. (3) Sono contenuti in un manoscritto in foglio di pag. 114 con lo stemma del Pon- tefice Gregorio XIII, ornato con disegni del titolo eseguiti a penna sulla prima pagina, e, nella seconda « /ncipiunt Statuta Mercatorum Artis lanae ». È una copia Mss, Cod, Bar- berini, XXVIII, 26, ora nella Bibliot. Vatic. 23 354 CAPITOLO XV che poco differiscono dai precedenti, dei quali anzi molti furono riprodotti inte- gralmente. Il Sodalizio dell’arte della lana, nell’anno 1406, contava 47 soci, ed altrettanti nell’anno 1582. Il numero dei protettori dell’arte, e che avevano diritto al voto nell’anno 1478, erano 19, e nell’anno 1553 erano 17. Nel 1585 il Pontefice Sisto V, seguendo il principio assai in voga in quell’epoca volle creare il monopolio delle industrie, anche nell’intento di provvedere lavoro e i mezzi di vita a tanti uomini e donne, che in quel tempo erano disoccupati in Roma. A questo effetto fece concedere dalla Camera Apostolica un prestito di dodi- cimila scudi ad Alessandro Capocefalo e Fenicio Alfano, ambedue mercanti di lana, ponendo l’obbligo di restituire la somma in dieci annualità. Il Pontefice anzi aggiunse un altro sussidio di scudi ducmila, affinchè i due mercanti soprad- detti, potessero avere i mezzi sufficienti così per l’acquisto dei bastimenti ne- cessari al trasporto delle lane, come per l'acquisto degli attrezzi, e delle macchine necessarie all'esercizio In correspettivo, i due mercanti si obbligarono a far tessere in 10 anni una determinata quantità di stoffe diverse, che fossero di una data qualità pre- stabilita. i Il Pontefice concesse inoltre ai suddetti mercanti la privativa della tintoria delle lane, col diritto esclusivo dell’esercizio per tale industria. La Bolla del Pontefice Sisto V, emanat. il giorno 18 dicembre, dell’anno 1585 — Cum alias considerantes — concesse il diritto di esazione con privilegio dei crediti dei soci dell’arte della lana, riconoscendo la giurisdizione dei Consoli stessi, confermandone i molteplici privilegi, e disponendo altresì, che anche gli Israeliti fossero sottoposti all’autorità dei Consoli dell’Arte, per quanto si rife- risse a quel commercio (1). Il Pontefice volle anche, che i sopradetti Capocefalo ed Alfano completas- sero, e ponessero in assetto migliore la fabbrica dei panni, già iniziata dal Pre- decessore S. Pio V, la quale esisteva dietro la fontana di Trevi, nel luogo detto « lo Purgo » poichè quivi si purgavano le lane, prima di sottoporle al lavoro. Papa Sisto V incaricò il Card. Prospero Santacroce da Roma, perchè pre- siedesse al buon ordinamento di tutto, e perchè fossero provvisti gli attrezzi, le (1) Ballur. Roman., tom. IV, parte IV, fol. 171. CAPITOLO XV 365 macchine, e quant'altro fosse necessario al lavoro delle lane, ed alla tiatoria relativa. A proposito di quanto abbiamo narrato, leggiamo la seguente epigrafe, che tuttora si conserva murata, sopra una delle pareti della sala detta dei Pensionati, nel pianterreno dell'Ufficio IV del comune di Roma, nell’edificio dietro la fontana di Trevi. Sixtus V. Pont. Maz. Lanariae Arti et Fullonicae Urbis commoditati paupertatique Sublevandae aedificavit. Ann. MDLXXXVI. Pont. II. ll giorno 11 di luglio, dell’anno 1587, in un’adunanza segreta, tenuta dai Conservatori in Campidoglio, fu letta una domanda presentata dai Mercanti del- l’arte della lana, che avevano fatta richiesta di un luogo, nei pressi del Campi. doglio, per uso ed esercizio dell’arte loro, con patto di lasciarlo poi libero, ogni- qualvolta la civica rappresentanza del Popolo Romano lo avesse voluto. Fu dato incarico a Marcello Negri e Girolamo Altieri, consiglieri, perchè, insieme al Priore, esaminassero la domanda, visitassero il luogo, e riferissero su tutto, nella prima adunanza dei Consiglio (1). In una nuova tornata del Consiglio, avvenuta il giorno 13 del mese sud- detto, fu approvato, quanto era stito stabilito nell'adunanza segreta (2). E finalmente nella riunione plenaria del Consiglio, tenuta il 20 luglio del- l’anno medesimo, fu fatta la relazione dai Commissari Negri ed Altieri, e fu de- cretato che fosse concesso il luogo richiesto dalla Università dell’arte della lana, con patto espresso che il luogo fosse restituito al comune di Roma ad ogni richiesta (3). Nell'anno 1590, il Pontefice Sisto V, allo scopo di fondare, con facilità e minor spesa possibile, un opificio che valesse a sollevare i poveri disoccupati, ebbe in animo di trasformare il Colosseo in un ‘vasto lanificio, che servisse anche per abitazione dei numerosi lavoranti, che avrebbe potuto accogliere. (1) Arch. Stor. Capit., Cred. I, vol. XXIX, pag. 89, (2) Ibi, pag. 91 t. (3) Ibi, pag. M. 356 CAPITOLO XV E infatti ne diede mandato all’architetto Domenico Fontana, che ne eseguì il progetto, restaurando il monumento nell'antica sua forma circolare, con quattro ingressi ed altrettante scale. Nel centro dell’anfiteatro doveva sorgere una grandiosa fontana; le loggie od arcate esterne sarebbero restate aperte e negli ampi corridoi circolari si sa- rebbero costruiti vasti lanifici, mentre alcune delle arcate stesse avrebbero do- vuto essere trasformate in botteghe, oppure in altrettante stanze per abitazione. Ma non erasi peranco compiuta la livellazione del terreno esterno, allorchè nel giorno 27 del mese di agosto dell’anno sopradetto, il Pontefice morì e quel progetto non ebbe più esecuzione (1). Nell'esercizio dell'arte della lana, nonostante gli Statuti riformati più volte ed i continui Bandi pubblici emanati per la tutela e per il rigoroso esercizio di quella, sembra, che perla impellente necessità del lavoro per la vita, nonchè per l’urgenza e la richiesta dei prodotti delle lane indispensabili alla vita stessa avessero avuto origine varî disordini, e peggio ancora, che molti o malpratici, o addirittura inscienti dell’arte e delle sue regole, avessero aperto fondachi per esercitare il mestiere con grave danno della produzione altrui. Di guisa che nell’anno 1632, e propriamente ai 12 di ottobre, fu tenuta una riunione ordinaria nei soliti locali della Chiesa di S. Lucia nella contrada delle Botteghe Oscure (2) e nell'adunanza fu deciso di aggiungere alcuni nuovi capitoli agli Statuti, e cioè: che primieramente nessun mercante, matricolato nell’arte, la esercitasse o no, potesse far mettere il suo marchio o segno nei panni, nelle coperte ol in altro qualsiasi lavoro in lana, che fosse stato compiuto da altri, non provvisto di matricola. Inoltre fu stabilito che nessuna persona potesse lavorare o far lavorare la lana, e cioè filare, cardare, iessere, valcare, garzare, cimare e fare altra qualsiasi lavorazione all’arte inerente, nè alcuno potesse tener deposito di lana filata o lavorata di qualsiasi specie, nè pannine, nè coperte, nè altro tessuto di lana; senza aver prima ottenuto la dovuta licenza dai Consoli dell’arte, e che chiunque avesse contravvenuto dovesse sottostare alla multa di scudi dieci. E nella stessa (1) Moroni G. Dizion. stor, XV,23; FonTANA. Alcune fabbriche fatte in Roma da Sisto V, tom. II; MaBILLON. Itinerario d'Italia, pag. 76, n. 29. (2) I lanari ed i fabbricanti di tessuti si riunivano prima a 8. Maria sopra Minerva {Statuto dell’anno 1582, art, LV), ma poi in seguito tennero le loro adunanze nei locali di S. Lucia, nella via delle Botteghe Oscure. ® rave CAPITOLO XV 357 pena dovessero incorrere tutti coloro che avessero cardato, filato, tessuto, val- cato, garzato, tinto o lavorato la lana in qualsiasi maniera, senza che fossero matricolati nell'arte e senza che fossero muniti della licenza dei Consoli. Fu altresì deliberato che nessun Carzotto (1) che tenesse bottega di Carzaria, non potesse ritenere presso di sè cardi di ferro, o comunque lavorare cun essi, sotto l'ammenda di scudi dieci, poichè invece dovesse lavorare coi mezzi ed ordigni allora in uso. E finalmente, che tutti i Camerlenghi del tempo, fossero tenuti ad esigere gl’introiti, i proventi e gli emolumenti dell’arte, ed ove non avessero esatto, fos- sero obbligati a provare di aver compiute tutte le diligenze possibili per conse- guire l’esazione; o altrimenti, che fossero tenuti a pagare del loro proprio, e che al termine dell’ufficio del Camerlengato, fossero obbligati a dar conto della loro gestione (2). \ In un’altra deliberazione presa dalla Università dei lanari nel seguente anno 1633 ai 14 di giugno, dopo aver fatto rilevare come l'Associazione avesse fondato una T'inta — tintoria — vicino alla fontana di Trevi, preponendovi uno speciale direttore, il che risultava da un atto pubblico redatto dal notaio Felice Antonio de Alexandris, fu decretato che per il benessere dell’arte tutti i mer- canti di coperte e di panni fabbricati a Roma — detti perciò romaneschi — dovessero farli tingere nella sopradetta tintoria, quando auche avessero già contratto obbligo con altre tintorie, ed in caso d’inosservanza, cadessero nella ammenda di scudi cinque. In quell’adunanza fu ammesso come socio, un tal maestro Venanzio Aspro da Camerino, e crediamo metta conto di notarlo, per la formola con la quale il socio veniva ascritto nella Università; coll’obbligo, cioè, di osservare i privilegi e Statuti dell’arte della lana e di pagare la matricola conforme avevano pagato . tutti gli altri mercanti del Sodalizio (3). Frattanto i lanari si lagnavano sempre che l’importazione dei tessuti, spe- cialmente di quelli comuni che pervenivano dall'estero, li danneggiasse seria- mente per i prezzi più bassi. Ed il Pontefice per proteggere la produzione dello Stato della Chiesa, proibì (1) Carzolto, o cimatore ora quello che adoperava il cardo per cavare il pelo al panno. (2) Arch. Capit., F. Franceschini Protonot, del senatore. Atti anni 1649-58, pag. 771. (3) Ibi, pag. 779 t, 358 | CAPITOLO XV assolutamente l’introduzione dei tessuti di Francia, di Fiandra, d’Inghilterra e financo di quelli che si operavano a Milano e Venezia. Soltanto in considerazione dell’uso e della necessità del Clero e della Curia, furono ammesse all'introduzione nello Stato le saie di Fiandra e di Milano, in- sieme ad alcuni speciali tessuti di Olanda (1). Ma tutto ciò non produsse alcun effetto, poichè le maestranze e gli operai stessi trascurarono l’arte, fino al punto da essere imnestieri di minacciarli, che se non avessero dato opera al lavoro sarebbe stato tolto il divieto dell’impor- tazione. Papa Clemente IX, con suo Chirografo del 4 aprile 1669, stimò opportuno «i conformare gli Statuti dei lanari ed uno speciale Editto del Camerlengo in data del giorno 18 del mese stesso, ordinò un censimento esatto di tutti i fon- È dachi o magazzini dei lanari confermando quanto era stato stabilito, che cioè l'ammissione di un socio dovesse essere preceduta da un esame sull’esercizio dell’arte. In quell’atto pubblico venne precisata la speciale competenza dei Consoli della Corporazione. In seguito furono anche bandite le norme ed i metodi tassativi per l’eser- cizio dell’arte della lana, escludendo i m:zzi ed ordigni, che fino allora erano stati in uso. Nella Biblioteca Corsiniana rinvenimmo un Codice degli Statuti dell’arte della lana, tradotto in italiano nell’anno 1679 (2). Verso la fine del secolo xvir dobbiamo di nuovo constatare che l'industria della lana fosse in decadenza, poichè, da una Notificazione del giorno î7 marzo dell’anno 1684, rileviamo che gli Ordini monastici in quel tempo elargivano un sussidio pecuniario alla Università dei lanari, forse per incoraggiare i mercanti ed i produttori alla confezione dei tessuti di lana, necessari al vestito dei com- ponenti gli Ordini religiosi (3). Nel secolo xv, allorquando i lanifici di Roma non producevano altro che panno per i contadini, fu vietato di far incetta delle lane ed anche l’acquisto di quelle dette maggioline fino ad un tempo stabilito. (1) Colle=. Elitti, Bandi, ece., Bibl. Casanatense, tom. 10. Editto 21 febb. 1667. (2) Cod. Corsinian. 1318, 34, A. 18, n. 3. (3) Collezione Banti, Editti, cec. Bibliot, Casanat., tom. XV, anno 1667, oi Paci lt CAPITOLO XV 359 I provvedimenti, che abbiamo menzionato superiormente, non giovarono però a far rifiorire l’arte della lana come nei secoli passati; cosicchè per vari Editti susseguentisi si continuò a proibire l'introduzione dei tesauti di Francia di qua- lità comune, specialmente di quelli che allora si dicevano di Carcassonne ed anche di altri, che fino allora erano stati ammessi, come quelli di Germania e di Bristol, il che abbiamo potuto rilevare dall’Editto del 18 dicembre 1719 (1). Una nuova Notificazione del Card. Camerlengo A. A!bani, in data del 5 ago- sto 1720, tratta della specie dei panni di lana forestieri e ne conferma la proi- bizione per l'introduzione, richiamando gli Editti dei giorni 7 agosto e 18 di- cembre 1719 (2). Ed un’altra consimile ordinanza, che comprenduva anche i drappi di seta, fabbricati fuori dello Stato, venne bandita dal sopradetto Card. Camerlengo nell’anno 1721 ai 28 di giugno, riassumendo quanto era stato ordinato con gli Editti dell’anno 1719 e con quelli dei giorni 9 di luglio, 5 e 12 di agosto del- l’anno 1720 (3). Da una causa agitatasi fra il Collegio dell’arte della lana e l’Università degli Affidati, avanti al 'fribunale della S. Rota nell’anno 1756 e nel giorno 2 di giugno, ci fu dato desumere i dati precisi per poter stabilire quali siano stati i «prezzi delle lane un decennio prima dello svolgimento della causa stessa. Nell'anno 1745, 15 settembre la lana fu venduta a L. 0.35 la libbra Id. 1748, 19 giugno id. » 0.44 » Id. 1748, 22 agosto id. » 0.45 » Id. 1749, 20 maggio id. » 0.56 » Id. 1749, 22 maggio id. » 0.48 » Id. 1750, 13 maggio id. » 0.33 (4). » Dalle cifre sopradette rileviamo che il prezzo medio delle lane in un ses- sennio fu di lire 0.435 per ogni libbra, vale a dire circa lire 130.50 al quintale. Furono in seguito confermati gli Editti precedenti che vietavano l’incetta (1) Ibi, tom. XXVI. (2) Arch. Vatic. Zo//e e Bandi, serie ITT, ann. 1720. (8) Ibi, serie III. Ann. 1720-1721. Ad ann. (4) ASTE, di Stato, Roma. Arch. Cam. Arti e Mestieri (sic). Busta I, anno 1756. Coram de Ilcio, Romana pro nob, Collegio Artis' Lanae Urbis contra Univers. Affidatorum, 360, CAPIDOLO XV delle lane, come ci risulta da, quelli in data 1° maggio 1754, 13 aprile 1755, 11 maggio 1630, 23 luglio 1699, 30 aprile 1726 e con la Notificazione del 19 mag- gio dell’anno 1753. Intanto un altro Editio del Camerlengo, sotto la data del gioruo 21 giu- gno 1721, aveva ridotto l’importazione permessa per i tessuti di lana ad un valore minimo di quattro scudi per tesa (1). Un severo Bando del giorno 13 maggio dell'anno 1770, proibiva assolutamente ai produttori della lana di vendere il loro prodotto ad altri che non fossero i lanari di Roma, allo scopo soltanto che questi potessero comprarla a buon prezzo (2). È Benedetto XIV, durante il suo Pontificato — 1740-1758 — ordinò che sì fa cesse una parziale prova d’inerociamento di pecore nostrane con Arieti spagnoli, che lo stesso Pontefice aveva, donato, all'’Amministrazione dell'Ospedale di Santo Spirito in Sassia, la quale allora faceva condurre in economia la masseria di Castel di Guido. La produzione della lana in quella tenuta, non ostante la im- perizia e l’abituale ignavia dei pastori, conservò sempre un grado di preferenza sulle altre lane mercantili dell’Agro Romano (3). Intanto i vecchi Statuti dell’Arte della lana, approvati fin. dall’ anno 1582, non s’addicevano più agli usi del secolo xviI, e molto meno al processo di fab: bricazione dei tessuti vigente in quell’epoca. L’assemblea del Sodalizio dei lanari, dopo una lunga e tenace opposizione, deliberò un nuovo Statuto che il Pontefice Clemente XIII approvò, riportandolo integralmente nella sua Bolla « Ad pasto- (1) Collezione Casanatense. Bolle e Bandi, ecc., tom. 27. (2) Ivi, tom. 56 e 71. (3) Giova rammentare come l'Europa debba indubbiamente la perfezione delle lane prodotte dalla industria ovina, a Marco Columella, che fn zio di Columella L. Giunio Moderato, celebre Geoponico. Quegli stando a Cadice nella Spagna, trovossi presente allo sbarco di alcuni montoni selvaggi, provenienti dall'Africa, che dovevano servire per gli, spettacoli nel pubblico anfiteatro. Marco Columella restò preso, ed.ammirato della loro bellezza, specialmente dalla candida e lucida lana che avevano, e subito si adoprò in modo che potè procurarsene alcuni capi, quali con somma diligenza ed espa- rienza dell’arte armentizia, riuscì a fare accoppiare con pecore indigene (a). Da questo innesto s'ebbe origine la celebre lana. delle meriros, che tuttora primeggia fra le pro- duzioni lanarie. (a) ROZIER. Cours complet d'agriculture. Tom. VI, Laine, CARLIER M. Traité des bétes à laine, CAPITOLO XY 361 ralia dignitatis » pubblionta il giorno 15 settembre dell’ anno 1758. Lo Statuto così approvato differisce però ben poco nella sostanza da quello dell’anno 1582. Osservammo già, come, verso la fine del secolo xvir.— e lo rilevammo da una Notificazione — gli Ordini religiosi, davano un sussidio pecuniario alla Uni- versità dei Lanari, per incoraggiarla a produrre quanto era necessario alla for- nitura degli Ordini stessi. Ma da un Editto bandito da Mons. Paolo Giordano Manassei, Presidente delle strade, il 2 ottobre dall'anno 1770, sappiamo che fossero gravi i danni ai quali erano sottoposti tanto i possidenti dei prati e dei terreni della tenuta della Caffarella, a confine di quella detta Acquasanta, quanto la Valca, fuori la porta S. Sebastiano che era di proprietà dell’Ordine dei Cappuccini, attesochè il corso della « marrana » di Acquataccio — antico Almone — era ingombro di arene ed altro, che ostacolavano, il libero corso delle acque, rendendole stagnanti, e causa quindi di malaria nella località. Così anche nella Valca, sita in adiacenza della « marrana » suddetta, per ragione delle acque morte e dell’ostruzione dell’alveo, non si poteva compiere il solito libero lavoro, .per va/care e spurgare i panni di lana, specialmente nelle stagioni di primavera ed estate — atteso che, in quei tempi soltanto, le acque fossero limpide — e ciò con grave pregiudizio della necessaria confezione dei panni per i sopradetti religiosi, Ciò avveniva anche per la ragione che i possessori dei terreni lungo il corso del fosso, eseguivano frequenti derivazioni, mediante incastri od altro per adacquare le terre, ed in conseguenza le acque stagnavano, specialmente nel ritrecine della Valca sopradetta. ; Ad evitare tali danni, il Presidente delle acque e strade, ordinò lo spurgo della « marrana » dal confine della tenuta della Caffarella fino alla Moletta, fuori la Porta S. Paolo (1). Un regolamento, emanato nel febbraio dell’anno 1777, moderò con date norme l'acquisto delle lane, fissando anche i luoghi ove i fabbricanti dei panni potes- sero riporle, affinchè anche i lagifici sussidiati dallo Stato potessero aver mezzo di procurarsi una continua provvisione, delle lane, necessarie. Fu anche. prescritto che, tutta la lana fosse venduta, esclusivamente ai fabbri - canti di panmi in Roma; ed anzi. i proprietari, delle. masserie delle pecore furono obbligati tassativamente a depositare i saggi delle diverse qualità delle loro lane (1) Append. Doe, L, 362 CAPITOLO XV negli uffici dei Segretari della Camera Apostolica, ed il Presidente della Graséia fu deputato arbitro dei prezzi delle lane. L’ Fditto, del 18 maggio 1777, prescrisse che la Università degli Affidati fosse obbligata a tassare, secondo un riparto, tutti coloro i quali avessero venduta la loro lana all’estero, con maggior lucro che non avessero avuto i mercanti di campagna; e che la somma derivante dal riparto sopradetto dovesse essere di- stribuita proporzionalmente fra gli stessi mercanti di campagna, in quanto per legge fossero stati obbligati a vendere la lana ai fabbricanti dei panni romani — ciò che avveniva sempre ad un prezzo inferiore a quello dei mercati esteri. Dai documenti di quell’epoca rileviamo che la lana moretta costava scudi 8 — lire 438 — per ogni 100 libbre, pari a lire 130 il quintale. Le lane pugliesi e montagnole valevano invece scudi 11 al centinaio di libbre — lire 179 al quin- tale —. Quelle vissane e sopravissane si pagavano scudi 15 ogni centinaio di libbre, ossia lire 244.30 al quintale. Nell’anno 1792 la Camera Apostolica aveva concesso in enfiteusi all’agricol- tore Abbate Adorni la tenuta di Campo di: Pescia in quel di Montalto, e nello istromento rogatone, all’ari. 6 si legge: « che sarà, dalla Rev.da Camera conse- «gnato all’enfiteuta il branco delle pecore di Spagna, coll’ obbligo di moltipli- « carlo, e di non mischiarlo con pecore di altra razza, e non gli sarà permesso, « senza espressa licenza di Mons. Tesoriere, di macellarne alcuna di qualunque « sesso, e co» legge, che volendone vender porzione di qualunque sesso od età, « debba la Rev. Camera esser sempre preferita, pagandone un dieci per cento « di più, che le comuni pecore valgano della stessa età di quelle che vorranno « acquistarsi, siano maschi o femmine » (1). Notisi che quella masseria di pecore era composta di ben cinquemila capi e che manteneva il pregio della lana delle merinos salvo qualche capo di tipo pecorino scadente, il che derivava dalla abituale negligenza dei pecorari, e nel complesso dava una lana fine, corta, ricciuta e folta, come venne sperimentato nella tessitura dei panni, operata nelle fabbriche a S. Pietro Montorio. La Camera Apostolica, col patto sopraespresso, convenuto coll’Abate Adorni, si prefisse lo scopo di cedere gli agnelli da essa acquistati, a favore dei proprie- tari delle masserie di pecore nell’Agro Romano, affinchè questi fossero indotti (1) Atti Gregori, not, A. C, 15 settembre 1792. CAPITOLO Xv 363 anche in vista del tenue prezzo degli agnelli stessi, a sostituire le pecore spa- gnole alle razze indigene od incrociate che essi possetlevano. Così le pecore di Campo di Pescia dettero origine alle masserie di lana Ibero-Spagnola. Nel principio del secolo xrx le principali fabbriche dei tessuti di lana esi- stenti in Roma, erano quelle dell’Ospizio Apostolico di 8. Michele, l’altra del Conservatorio Pio e quella delle Monache mendicanti; le quali fabbriche in com- plesso, producevano annualmente 2230 pezze di panno. 4 Eranvi poi 54 fabbriche e laboratorii di minor conto che insieme tessevano 8300 pezze di panno, lavorando tutte esclusivamente le lane prodotte dalle masserie delle pecore dell'Agro romano. Il prodotto totale delle lane tessute per la prima qualtà dava una produ- zione di 2260 pezze di panno, quali pezze pesate in ragione di libbre 50 per ciascuna pezza, per la totale produzione di quelle, erano necessarie libbre cento- tredicimila di lana. Per le altre qualità di tessuti che allora si dicevano borgonzoni, droghetti ed altro, la produzione media era di 8260 pezze di panno, che computate cia- scuna a libbre 100, occorrevano 826,900 libbre di lana, e così un totale di libbre 939,000, pari a quintali 313,000, che rappresentavano approssimativamente una gran parte della lana prodotta dalle pecore depascenti nell’Agro Romano. Deve poi tenersi conto che nel principio del secolo xrx anche le fabbriche di Alatri, Perugia, Foligno, Narni, Fabriano, Osimo, Matelica, Pergola, Ronci- glione, Subiaco, Cingoli, Norcia, ed altre ancora, lavoravano lane provenienti dalla Campagna romana. Gli operai addetti in Roma ai laboratorii della lana nell'epoca sopradetta ammontavano a dodicimila; e dapprincipio nel Rione Trastevere, e poscia nel Rione Monti, erano ben rare le donne che non si occupassero a vicenda dei molteplici lavori necessari alla tessitura della lana (1). (1) Nell'anno 1800, Roma aveva 153,004 abitanti: el in conseguenza il 12.75 per cento della popolazione era occupata dell'arte della lana. Moroni G. Dizionario Ernd. Stor. Eccl., Tom. 56, pag. 164. Annuario Statistico di Roma. Anno primo, MDOCCLXXXV, pubblicato dal Com. di Roma nel 1886 a pag. 23. Arch. del Buon Governo. Vaticano. Relazione del Pres. della Camera di Com- mercio în Roma, 10 marzo 1835, diretta al Card, Galleffi, Camerlengo. N. 90627 di po- sizione, 364 CAPITOLO XV Per ragioni amministrative, in seguito agli eventi politici dell’anno 1801, il Sodalizio dei lanari fu nominalmente soppresso. Tuttavia potemmo raccogliere alcuni dati sopra i prezzi delle lane nel- l’anno 1802. Quelle morette o bigie furono vendute scudi 13 ogni centinaio di libbre, ossia lire 209.62 al quintale. Le pugliesi e le montagnole scudi 15, cioè lire 241.87 al quintale, e le vis- sane e sopravissane da scudi 20-25 a scudi 35 ogni centinaio di libbre, e perciò da lire 326.52 a lire 564.36 al quintale, secondo la qualità ed il tiglio delle lane stesse, vale a dire la fibra che avessero avuto. In quello stesso anno l’enfiteuta di Campo di Pescia, l'Abate Adorni, rifiutò lire 2.67 a libra per Ja lana prodotta dalla sua masseria delle merinos, prezzo corrispondente a lire 801 al quintale, mentre gli altri mercanti avevano venduto ai prezzi che già abbiamo notato. Nell'anno 1820, la vendita di libbre 639,616 di lana ascese a scudi 134,940, che corrisponde a lire 332.71 a quintale. La relazione presentata dal Card. Camerlengo alla Congregazione Economica nell’anno 1821, contiene il catalogo officiale di cinquantasei lanifici esistenti.in Roma e di altri duecento nello Stato della Chiesa. Nell'anno 1830, circa due milioni di pecore esistevano, o accedevano nei pascoli dello Stato Pontificio, ed un;terzo 10 poco meno, pascolavano nel solo Agro Romano. Il prodotto totale della lana era di quasi quattr> milioni di libbre, pari a circa tonnellate millequattrocento, Nella prima metà del secolo xIx la produzione più pregiata fu quella. delle lane ibero-spagnole, simi!e a quelle delle provincie di Castiglia ed Aragona in Spagna, e a quelle del mezzogiorno della Francia, Venivano subito dopo le lane chiamate bastarde-spagnole, prodotte cioè dal- l’inerociamento dei montoni merinos* con le migliori pecore indigene. Seguivano le lane vissane e sopravissane, prodotte dalle pecore originarie di Visso, regione ove l’ industria armentizia ebbe sempre il primato, come rile- vammo dagli innumeri bandi, editti pubblicati dai Cardinali Camerlenghi pro tempore, e diretti a tutelare l’approvvigionamento dell’Annona di Roma. Da quei documenti risulta come a Visso e nei luoghi abitati, appodiati a: quello, vi siano stati fin dai tempi antichi molti e molti proprietari di bestiame ovino, a preferenza degli altri luoghi della Provincia di Roma e degli Abruzzi, CAPITOLO XV 365 Le inferiori fra le lane bianche si dicevano in commercio quelle Filettinesi, Pugliesi e montagnole, le quali in generale erano, e sono prodotte dalle mandrie sparse in vari luoghi. L'ultima classe della lana era: quella bigia 0 moretta — ora quasi scom- parsa — che veniva prodotta dalle pecore originarie degli Appennini. Pecore queste che un tempo erano più numerose delle altre, ed il prodotto della lana serviva in grandissima quantità per il vestito degli innumeri ecclesiastici rego- lari e secolari, e dei religiosi di ambo i sessi. In seguito però i proprietari diminuirono pian piano la specie moretta, sosti- tuendola con quella di razza bianca che era di maggior pregio e valore, e quindi più rimunerativa per essi. Nell'anno 1830, libbre 1,178,260 di lana furono pagate scudi 235,653, ossiano quintali 3927 di lana lire 1,266,644.82, il che corrisponde a lire 322.54 al quintale. In quell'epoca un chilogrammo di lana grezza del prezzo iniziale di lire 3.22, lavorato e tessuto che fosse, produceva metri due di panno, onde per il tratta- mento speciale dell’arte, acquistava il valore di lire 53.75. Tanto era allora il guadagno dei lanari! E vogliamo chiadere annotando che nell’anno 1840 libbre 1,424,693 di lana furono pagate scudi 283,005, ossiano lire 321.64 al quintale, e nell’anno 1866, libbre 2,717,345 di lana furono vendute a scudi 32 per ogni centinaio, donde un prezzo medio di lire 571 al quintale. Cifre codeste, che se da un lato recano conforto, dall’ altro ravvivano un dispiacere indicibile. Infatti se recano il conforto di sapere e di sentire che noi, qui attorno a Roma, e quasi alla portata delle mani nostre, potremmo anche oggi trarre una fiorita messe di ricchezza per una bene intesa industria agraria che in tutto il suo complesso offrisse a noi, come già ai nòstri avi, una sicura fonte di lucro, non solo con una razionale agricoltura, ma anche per la produzione e lavoro della lana, oggi tanto rimunerativa, in quanto il migliorato tecenicismo di ogni arte, dovrebbe metterci in grado di poter produrre stoffe nazionali — e diremmo addirittura romane - che non temessero paragoni con quelle straniere; ravvi- vano però il dispiacere di vedere tuttora così abbandonata e completamente negletta l’ampia distesa di questo nostro Agro, pur così celebre per la sua storia e per tante tradizioni! 366 CAPITOLO XVI CapiroLo XVI. Sul quarto tomo inedito dell’opera « Memorie, leggi ed osservazioni sulle campagne e sull’Annona di Roma » di Nicola Maria Nicolai. Poichè spesso abbiamo ricordato nel nostro. Sommario il Nicolai, non yvo- gliamo omettere di rendergli un doveroso tributo di ammirazione e di lode, tanto più che avemmo anche la fortuna di scoprire un suo prezioso manoscritto, dal titolo « Dei mezzi più idonei per rendere coltivato le terre comprese nell’odierno ter- ritorio dell’ Agro Romano » quale scritto, tuttora inedito, non dubitiamo che verrà pubblicato quanto prima dal Ministero di Agricoltura che lo possiede. L’opera, copiata da un amanuense, è di pagine 542: essa è preziosa per le aggiunte, le postille e le correzioni, tutte di mano del Nicolai, come potemmo constatare, confrontandole con gli autografi dell'autore, che si conservano nello Archivio di Stato, in Roma (1). Il manoscritto suddetto costituisce il quarto tomo dell’opera edita dal NI- COLAI, pei tipi del Paglierini, nell’anno 1803, intitolata : « Memorie, leggi ed osser- vazioni sulle Campagne e sull’Annona di Roma ». L’Autore, nel proemio di codesto IV tomo dichiara modestamente, che l’opera ‘stessa debba considerarsi non già un lavoro finito e perfetto, ma un preliminare apparecchio di utili materiali per compierlo, dicendo perfino, che mancava ancora il capo dell’opera medesima cioè di potere indicare qual migliore sistema potesse idearsi ed adottarsi, con la scorta dei fatti, dei documenti, dei calcoli e di tutto ciò che già era stato trattato nei precedenti tre tomi. Dapprima il Nicolai vi esamina la natura delle terre, ricercandone quale ne sia il sottosuolo, la esposizione ed il clima. Si estende poi in lunghe considerazioni, e cita l’opinione di autorevoli scrit- tori che si occuparono dall’argomento. (1) Arch. Camerale. Pamiglie, NICOLAI. CAPITOLO XVI 367 Dimostra come nei secoli passati, queste nostre campagne siano state abi. tate e coltivate, il che risulta dagli storici, dalle memorie e dai documenti, ed espone le ragioni per le quali, in seguito, sotto gl’Imperatori romani ne co- minciò quella lenta decadenza, che mutossi in desolazione assoluta nei secoli successivi. Indaga le cause dell'abbandono in cui fu lasciata la Campagna ro- mana, per quasi 20 secoli, e narra la storia di quanto fecero i Pontefici, per tentare di far coltivare le terre, dal secolo xv a quello xv. Principia da Sisto IV (Francesco della Rovere da Savona nel 1471-84) che, volendo provvedere all’Annona pubblica, emanò la Costituzione del 1° marzo 1476, che noi riportiamo integralmente in questo sommario storico. Segue con Giulio II (Giuliano della Rovere da Savona, 1501-13, nipote del precedente), che comminò severe pene a quei Baroni, che avessero impedito il trasporto del grano a Roma; con Clemente VII (Giulio de’ Medici da Firenze, 1523-34), che confermò le Co- stituzioni di Sisto IV e di Giulio II, recandovi qualche innovazione; con Pio IV (Giovannangelo Medici da Milano, 1559-65), che proibì l’esportazione del grano; e San Pio V (Michele Ghislieri da Bosco, presso Alessandria, 1566-72), che ebbe a confermare tutte le costituzioni dei Pontefici predecessori, accordando insieme altri privilegi agli agricoltori. I Pontefici, che succedettero ai precedenti, approvarono anch’essi quanto era stato già stabilito; ma, tuttavia, la osservanza dei precetti e dei regolamenti agrari, man mano, fu trascurata tanto, che, dopo un secolo appena, tutto si ridusse allo stato di negligenza, verificatosi anteriormente all’anno 1476. Seguitando a noverare i varî provvedimenti adottati dai Pontefici succes- sori fino a Pio VI (Angelo Braschi da Cesena, 1775-99), il Nicolai espone poi il nuovo metodo di coltivazione dell'Agro Romano, che fu iniziato sotto il pon- tificato di Pio VII (Barnaba Chiaramonti da Cesena, 1800-23). E l’autore discute, anche quale sia il progetto preferibile per ripristinare la cultura ed il migliora- mento della Campagna romana, conchiudendo, dopo un maturo e ponderato esame dei varî metodi a quel tempo proposti, che, convenga attenersi al sistema della colonia; ed invero questo metodo fu sanzionato da una Costituzione di Pio VII. Reputa il Nicolai, che il maggiore ostacolo per il bonificamento e per la cultera, sia quello della soverchia ampiezza delle tenute, ma non disconosce anche altre cagioni, che parimenti espone ed esamina minutamente. Accetta la opinione degli economisti e degli statisti eminenti dell’epoca, tutti di parere 368 CAPITOLO XVI concorde, per l’abolizione dei fidecommissi, diretti soltanto ad ostacolare la divi- sione della proprietà; e ciò, secondo i principî informatori della Costituzione di Pio VII, in data 15 settembre 1802, nella quale il Pontefice così si espresse: « che, în vista dell'importante oggetto del pubblico bene, giudicò di abolire, come vi derogò, colla pienezza della suprema potestà, a qualunque più effrenata disposizione testamentaria sulle tenute dell'Agro Romano, e permise che i possessori dei suddetti latifondi soggetti a primogeniture, fidecommissi ed altra qualsivoglia sostituzione o legato, potessero dare in enfiteusi, o dividere in colonia, od anche totalmente alienare quelle terre, che il Pontefice destinò al miglioramento ». Nel proseguire ad esporre il proprio progetto di bonificamento, l’autore af- ferma e dimostra, con validi argomenti, come altro, fra i mezzi opportuni per la coltivazione dell'Agro Romano, sia certamente quello di dare in enfiteusi tutte le tenute appartenenti alle Opere pie, Congregazioni ed Enti ecclesiastici. Dichiara di rendersi conto di tutte le difficoltà, per ridurre ogni tenuta a miglior coltura, attesa la vastità di ciascuna e propone all’uopo un rimedio, suggerendo, che per l'avvenire si stabilisca con apposita legge, che le proprietà divise per il bonificamento non possano più essere riunite nuovamente in la- tifondi. Esamina quale sia il înezzo più opportuno a scongiurare le conseguenze della malaria, in danno degli abitanti dell'Agro romano, asserendo altresì la ne- cessità, che si debba avere la massima cura anco deeli animali, necessarî non di meno degli uomini, all'esercizio ed allo sviluppo dell’agricoltura. In un lungo capitolo quindi enumera e compendia tutti i mezzi e gli espe- dienti necessari a raggiungere il bonificamento, la coltivazione, e l’aumento della popolazione nella campagna romana. Chiusa così la prima sezione dell’opera, l’Autore tratta dei mezzi necessari per il regolare funzionamento dell’Annona. i Il Nicolai fa la storia dell’Annona, fin dagli antichi tempi, riassumendo fe- delmente la materia, già trattata nei tre precedenti tomi, tratteggiando in ispecie, quanto avvenne sotto il vario succedersi dei governi, e segnalando le diverse vicende agrarie dall'anno 313 di Roma in poi. Procede ad un riepilogo di tutte le leggi e di tutti i regolamenti annonari, dal secolo xi a quello xvrti; e così rammenta i provvedimenti di Martino V (Ottone Colonna da Roma, 1417-31), di Sisto IV, di Giulio IT, di Gregorio XIMI (Ugo Boncompagni da Bologna, 1572-85), di Sisto V (Felice Peretti da Mon- CAPITOLO XVI 369 talto, 1585-90), di Paolo V (Camillo Borghese da Roma, 1605-21), di Urbano VIII (Maffeo Barberini da Firenze, 1623-44), di Alessandro VIII (Pietro Ottoboni da Venezia, 1689-91), di Clemente XI (Giovan Francesco Albani da Urbino, 1700-21), d’Innocenzo XIII (Michelangelo Conti da Roma, 1721-24), ed in ultimo di Cle- mente XIII (Carlo Rezzonico da Venezia, 1758-69). Enumera i frequenti e molteplici sussidi in denaro accordati dai sommi Pon- tefici all'’amministrazione dell’Annona. Ricerca le varie cause, per le quali decadde l’antico sistema annonario, e dimostra, che la libertà di commercio potrebbe supplire, nei riguardi dell’An- nona, a qualsiasi provvedimento, traendone la prova dalla legislazione del suo tempo, informata a codesto principio, che non danneggiava certamente l’&vve- nîre dell’Annona stessa. Esamina anche se possa riuscire efficace la istituzione dei forni normali. Suggerisce quindi un rimedio pratico per l’Annona; che, cioè, si tenga sempre nei pubblici granai una provvista «li frumento da vendersi al prezzo di costo, soltanto nel caso, che ne aumentasse il prezzo. Aggiunge di reputare indispen- sabile alla pubblica economia, che gli agricoltori possano ottenere prestiti anti- cipati dall’Annona, offrendo così all’Annona medesima modo e un mezzo efficace per riunire il grano necessario al provvedimento innanzi proposto. In ultimo esamina la questione del reddito, indagando se il guadagno ri- tratto dal pascolo, possa compensare quello della raccolta del grano, specialmente nel caso che tale raccolta riesca scarsa, e pone in evidenza che, nonostante le ragioni addotte in contrario, per dimostrare che la pastorizia sia più rimunera- tiva della sementa, non manchino invece seri argomenti, desunti dai fatti, per provare che la cultura della Campagna Romana sia da prejerirsi assolutamente all'industria della pastorizia. Quanto abbiamo qui succintamente riportato, non ofire che una sbiadita ìmmagine dell'importante scritto «del Nicolai; ma ci sarebbe stato difficile, per non dire impossibile, poter compendiare in una brevissima recensione tutto ciò che sì addensa nel copioso volume, in cui il preclaro Autore riassume le idee, i principî, le massime e le memorie, trattate ed esposte negli altri tre tomi della poderosa sua opera. è» 379 CAPITOLO XVII CapitoLo XVII. Dal Pontificato di Pio VIE fino al terzo periodo di quello di Pio IX. (Ann. 1800-1870). Il Cardinal Barnaba Chiaramonti da Cesena fu eletto a successore di Pio VI, il giorno 14 marzo 1800, nella città di Venezia, ed in memoria del suo Prede- cessore, per sentimento di riverenza e gratitudine, assunse il nome di Pio VII. In quell’anno stesso fu nuovamente instaurato in Roma il Governo Ponti- ficio; ma in seguito al trattato di Tolentino, le Legazioni di Bologna e Ferrara, non fecero più parte dello Stato della Chiesa. L’esperienza della pubblica amministrazione dall’anno 1800 al 1809, dimostrò chiaramente come Roma non avrebbe potuto provvedere alle necessità della pub- blica Annona, senza il concorso delle altre Provincie, e come fosse stata sempre in pericolo di un’eventuale carestia, restando a discrezione degli Stati confinanti, che avrebbero potuto liberamente interdire la esportazione dei generi ali- mentari. Nell’anno in cui il Pontefice fece i! suo ritorno in Roma, il grano già si vendeva da 15 a 20 scudi il rubbio — lire 49.53 al Quint. — edin quell'epoca il pubblico Tesoro esausto per le passate vicende politiche, non potè provvedere a ricostituire l’antica cassa dell'Annona. Quale fosse lo stato della pubblica cosa sul principio del secolo xrx, ci viene rivelato dal Motu Proprio, pubblicato dal Pontefice, nel giorno 2 settembre 1800, allo scopo di prescrivere un nuovo sistema annonario; Motu Proprio che per- metteva altresì il libero commercio del grano. In quel documento Pio VII os- servava che, se le politiche vicende passate erano state dannose a tutti i rami della pubblica amministrazione, indubbiamente erano riuscite anco più funeste alla pubblica Annona, in quanto, essendo quasi ‘cessato il concorso degli uomini che si dedicassero all'agricoltura, e, stante il fabbisogno per gli innumeri mezzi di trasporto reclamati dalla suerra, e lo strardinario consumo dei generi, erano venuti a mancare gli uomini e gli animali necessari al lavoro della terra, di CAPITOLO XVII 371 guisa che gli stessi agricoltori di giù scoraggiati per la perdita subita delle loro sostanze, erano pur rimasti senza i mezzi necessari alla loro industria; onde la diminuzione notevole della coltura della Campagna romana, non senza aggiungere che per la mancanza assoluta della popolazione, erano occorse maggiori spese straordinarie per la coltivazione, senza tuttavia che si fosse potuto conseguire un lavoro perfetto, che offrisse risultati soddisfacenti agli agricoltori. Il Pontefice quindi per provvedere alla libertà del commercio, abolì qualsiasi legge anteriore che avesse obbligato gli agricoltori a vendere i loro prodotti alla pubblica Annona, e loro concesse invece la facoltà di poter vendere il grano ed altro in qualsiasi luogo dello Stato, vietando soltanto la esportazione fuori del dominio pontificio, Ordinò che tutti i granai pubblici restassero a disposizione di chiunque avesse voluto introdurre il grano in Roma, accordando anche un premio di 6 paoli per ciascun rubbio di grano, a chiunque ne avesse condotto in Roma, fino al 31 dicembre 1800, La vendita del pane era soggetta ad un calmiere, regolato in base al prezzo del grano. Vennero accordate generose gratificazioni, e congrui premî a quei fornai che avessero prodotto e venduta una qualità di pane ben confezionato, sano, e più adatto al consumo della classe povera e bisognosa della città. Il Motu Proprio Piano provvide al: che le persone ricche concorressero in qualche modo.a soccorrere il pubblico Erario, per sostenere la spesa delle gra- tificazioni e dei premi suindicati, che ridondavano a vantaggio dei meno ab- bienti Di conseguenza il dazio del macinato fu fissato a scudi 3 per ciascun rubbio di grano. in correspettivo della facoltà della vendita e della relativa pri- vativa, che fu conservata a favore dei fornai, questi vennero obbligati a tenere continuamente una provvista di grano, duratura almeno per 2 mesi consecutivi, e fu stabilito che i forni dovessero essere continuamente provveduti di pane, specialmente della qualità più conveniente al consumo della classe povera. Fu permesso eziandio ai fornai cosidetti « del pane bianco » di poter comporre il pane di qualità inferiore. Perchè poi i fornai, costituiti in sodalizio, non potessero impedire od osta colare i provvedimenti adottati a sollievo della classe bisognosa, il Pontefice or- dinò, che la Università dei Fornai fosse sciolta, e si ritenesse come giammai esistita, comminando pene a chiunque si fosse opposto alla sua sovrana decisione. La esecuzione della legge annonaria venne commessa ad una speciale Depu- tazione, con le debite necessarie facoltà per comporre qualsiasi controversia, 372 CAPITOLO XVII che doveva essere risoluta, attenendosi strettamente alla lettera dei contratti conchiusi (1). E la Deputazione annonaria con una sua Notificazione, nello stesso anno, provvedeva a reprimere le clandestine esportazioni del grano fuori dello Stato, che si compievano fraudolentemente lungo il littorale, sempre nello scopo di raggiungere illeciti guadagni di fronte al prezzo disciplinato del mercato. S’era pertanto iniziata la riforma della pubblica amministrazione, e sì pro- curava di mantenere l’equilibrio fra le spese e le entrate dello Stato. Fu istituito ed approvato il Codice di commercio per il dominio pontificio. Fu decretata la uniformità giudiziaria in tutti i tribunali, ed î magistrati vennero retribuiti con onorari fissi, invece delle antiche propine. Ad accrescere la libertà del commercio sopra menzionata, furono soppressi tutti i dazi della piazza, del mercato o del transito, restando in vigore soltanto il contributo per il consumo nell’interno dello Stato, e i diritti delle dogane ai confini. La Costituzione del giorno 31 ottobre dell’anno 1800 « Post diuturnas » riformò l’Amministrazione, la Legislazione, la Giustizia, l’ Agricoltura e Commercio, e la Pubblica Sicurezza dello Stato. E parve allora che un nuovo impulso spingesse gli uomini a cercare nella cultura della terra e nel libero commercio una via migliore e più diritta ad esplicare tutte le magnifiche forze "della produttività umana. "Il Motu Proprio del giorno 19 marzo 1801 stabilì un nuovo regolamento «del sistema daziario, e fissò l’imposta della Dativa Reale sopra i fondi rustici, se- condo il progetto e la descrizione fattane dai geometri Ricci e Sardi. In quel documento il Pontefice mosse vive lagnanze contro il passato Governo Francese, deplorando, che le notorie vicenda» dei tempi, avessero lasciato il Pubblico Erario esausto e scemo di forze e di mezzi onde raccoglier denaro; annientate le stesse arti fondamentali e primitive, esaurite le sorgenti di prosperità e di ricchezza, e indotto ristagno nel commercio, ed avvilimento in qualsiasi specie d’industria, quasi estinti gli utili fondi delle finanze, senza di che non era possibile stabilità di Governo, nè sicurtà nè gloria nel Principato. Tali le espressioni di Pio VII nell’esordio del sopracitato Motu Proprio. I provvedimenti già presi mediante la Costituzione del giorno 2 settem- bre 1800, ebbero il loro utile effetto; poichè mentre nelle altre Provincie dello (1) NicoLar N. M., Memorie, Leggi, ece., II. 91. CAPITOLO XVI 373 Stato della Chiesa, non solo, ma anche in altre regioni d’Italia, vi era deficienza di grano, Roma invece non ne mancò, e vi fu sempre venduto ad un prezzo inferiore a quello degli altri Stati. Laonde il l’ontefice credette opportuno di esten- dere anche alle altre Provincie dello Stato Ecclesiastico, gli stessi ordinamenti le- gislativi con suo Chirografo del giorno 9 aprile 1801. Il che contribuì anche ad au mentare l’annua produzione, che necessariamente formava l’unica base della pub- blica Annona, e serviva di calmiere per i prezzi delle derrate alimentarie, L’abo- lizione, pertanto, «li tutte le restrizioni, che vincolavano il commercio delle gra- naglie e simili, rese più vantaggiosa la condizione degli agricoltori. Pio VII, nel desiderio, di raggiungere il completo rifiorimento dell’agricol- tura, volle pubblicare un’altra Costituzione, nel giorno 4 novembre dell’anno 1801. Dettò in essa provvedimenti diversi a prevenire la clandestina esportazione delle derrate alimentari, la quale era agevolata dalla libertà del commercio nell’in- terno, poichè il grano e gli altri generi con maggiore facilità potendosi far cir- colare, sotto il pretesto di volerli esportare legalmente, si conducevano invece liberamente in prossimità dei confini dello Stato. E sebbene il Motu Proprio del 2 settembre 1800, superiormente accennato, avesse dichiarato, che era volontà espressa del Pontefice, continuassero ad essere nel loro pieno vigore le proibi- zioni e le leggi della Tratia, e sebbene venisse anche ripetuto esplicitamente nel- l'articolo X.XIV dello stesso atto, pur tuttavia il Papa vi aggiunse essere sua intenzione che fosse dato seguito a tutti i provvedimenti e giudizi penali, contro coloro che avessero osato defraudare la legge del piccolo commercio. Tuttociò fu anche confermato nel Chirografo pontificio del giorno 9 aprile 1801 col quale fu estesa la libertà commerciale a tutta la Dizione pontificia. Il Pontefice però, nel dubbio si fosse opinato, che egli avesse voluto dero- gare dai provvedimenti dei Pontefici predecessori contro la fraudolenta espor- tazione dei generi annonari, volle rendere di pubblica ragione un regolamento che ribadisse tutte le prescrizioni, che già esistevano, e ne riaffermasse la validità. Comandò quindi che chiunque avesse contravvenuto, fosse soggetto non s0.0 alla perdita di tutti i generi, e dei mezzi di trasporto, ma che fosse anche punito con una multa ad arbitrio, quale non dovesse essere mai inferiore a scudi 300, e che fosse poi condannato, senza speranza di grazia, alla galera per 10 anni, ed in caso di recidiva alla galera perpetua. Seguivano varî articoli specificanti i casi diversi, e le varie circostanze per l'applicazione delle pene com ninate, ed all'articolo IX stabilivasi che il prodotto 374 CAPITOLO XVII delle penali dovesse essere suddiviso fra il denunciante, gli esecutori ed i ministri incaricati di istruire e svolgere il processo. Nella seconda parte della sua Costituzione, il Pontefice Pio VII provvide anche, con un lungo e dettagliato regolamento, affinchè, ove per aumento di col- tivazione, o per più abbondanti raccolti si fosse verificata una tal quantità di grano da eccedere il fabbisogno del consumo, tutti i coltivatori avessero potuto spedire all’estero il superfluo. Nel regolamento stesso furono inserte due ta- belle della Tariffa tassativa dei generi frumentarî e leguminosi, da servire di norma moderatrice per la esportazione all’estero. Per invogliare poi gli agricoltori a scegliere stanza e dimora tissa nello Stato della Chiesa, al fine di conseguirne sempre più l'aumento ed il migliora- mento della coltivazione delle terre, il Pontefice dispose, che tutti, o sudditi, o stranieri, dopo il primo anno di domicilio nelle campagne godessero indistintamente ogni ‘prerogativa ed ogni privilegio spettanti ai naturali, ed agli abitanti dei luoghi entro lo Stato, purchè non fossero persone incriminate. Così tutte le doti che in qualunque parte dello Stato della Chiesa soleano distribuirsi ogni anno, ec- cetto quelle che per disposizione espressa dei testatori od istitutori fossero de- stinate ad una classe speciale di persone, dovessero per sempre attribuirsi a figlie di agricoltori. Con altro regolamento, compreso nella stessa Costituzione, il Pontefice, vo- lendo provvedere al benessere ed al miglioramento dell’agricoltura, aumentò il rigore celle leggi contro coloro che commettevano danni nelie campagne, e com- minò maggiori pene, di quelle stabilite dai precedenti diversi siatuti, per infre- nare i danneggiatori. Al progredire dell’agricoltura Pio VII riconobbe altresì necessario, che il de- naro fosse somministrato ed anticipato col minore interesse possibile, ed affinchè i sovventori fossero maggiormente sicuri della sorte dei loro capitali, volle fosse istituito un Ufficio di conservazione delle ipoteche, che allora si disse Uffizio d’in- tavolazione come già era stato introdotto negli altri Stati. Vi volle aggiunto l'ufficio del Registro, onde fossero maggiormente affermati ogni contratto ed ogni obbligazione conclusi in materia commerciale, stabilendo che il nuovo uf- fizio delle Ipoteche dei terreni cominciasse a funzionarè il giorno 1° di gen» naio 1802. Desiderando poi il Pontefice che venisse eseguita Ja coltivazione obbligatoria delle campagne e che prevalesse sopra il pascolo degli animali, nuovamente ri- CAPITOLO XVII 375 chiamò in vigore le prescrizioni stabilite a questo effetto; nè tralasciò di com- minare pene contro i trasgressori, ed anzi nella considerazione che i terreni più adatti alla coltura erano lasciati a sè per la produzione naturale delle erbe, tanto nell’Agro Romano e nell’Agro Pontino, quanto in quella parte del dominio pontificio allora detta Stato di Castro, territorî di Montalto e di Corneto nonchè di Toscanella, comandò che, a datare dal seguente anno 1802, ai proprietari dei terreni fosse imposto un nuovo tributo da ripartirsi poi a beneficio di coloro, che avessero ottemperato alla coltivazione obbligatoria voluta dal Pontefice. E così pure prescrisse che i terreni esistenti nell’Agro Romano e negli altri sopradetti luoghi, quando fossero suscettibili di coltivazione, ma tuttavia restas- sero abbandonati alla naturale produzione delle erbe, fossero in seguito gravati, oltre della Dativa reale, di un annua sopratassa di puoli 4 per rubbio — lire 2.148 — da imporsi secondo la misura catastale desumibile dal catasto del giorno 26 gennaio dell’anno 1783, relativo all’Agro Romano. Chiunque poi avesse coltivato le terre lasciate soltanto al pascolo, doveva essere retribuito con un premio di paoli 8 al rubbio — lire 4.296 — purchè, entro il mese di aprile, avesse esibito l’assegna esatta della superficie, che avesse seminato a grano, granturco, legumi od altro. I necessari pascolari dovevano essere esenti «lalla so- pratassa suddetta di paoli 4 al rubbio. Coloro che non eseguissero la prescritta sementa, erano obbligati a pagare la suddetta sopratassa, entro il mese di giugno di ciascun anno, alla cassa della Deputazione annonaria in Roma. Si doveva fare eccezione per quei terreni che, in forza dei contratti di affitto, dovessero essere lasciati in riposo, od a pascolo, secondo i documenti da esibirsi alla Deputazione annonaria, ed in tal caso l’onere del pagamento della sopratassa doveva essere a totale carico dei proprietari; ed il premio di paoli 8 al rubbio doveva essere distribuito dalla Deputazione annonaria, entro il mese di giugno, a favore di coloro che avessero coltivato i terreni, e doveva essere pagato nel luogo mede- simo della dimora degli agricoltori. Chiunque avesse tentato qualsiasi atto, in frode a quanto erasi stabilito doveva essere punito col pagamento del doppio della tassa di 4 paoli. La Costituzione fu data dal palazzo Apostolico del Quirinale nell’anno so: pradetto (1). :(1) Append. Doc, LUI, 376 CAPITOLO XVII La Deputazione annonaria, in conformità ai provvedimenti prescritti col Motu Proprio surriferito, volendo anch’essa incoraggiare e promuovere l’agricol- tura nello Stato della Chiesa, pur confermando l’assegnazione del premio di paoli 8 a rubbio, promessa dall’atto Sovrano per l’anno 1802, volle altresì con sua Notificazione del giorno 27 marzo dello stesso anno spiegare come, nella ese- cuzione di quanto era stato prescritto, che cioè tutti coloro che avessero semi- nato i terreni entro il giorno 21 del mese di aprile di quell’anno dovessero dare l’assegna relativa alle diverse specie di coltivazioni attuate, e che forse sarebbe surto l’inconveniente che alla Deputazione annonaria sarebbe mancato il tempo bastevole al necessario controllo delle assegne ricevute, per cui entro il mese di giugno successivo, la Deputazione stessa non avrebbe potuto pagare la promessa elargizione; il che sarebbe stato contro l’intenzione del Pontefice. Ad evitare tuttociò, si ordinò ai possidenti ed agli agricoltori, che già avessero terminato le sementi, specialmente del granturco, per la raccolta dell’anno in corso, di dare subito le necessarie assegne, almeno dei terreni seminati a grano. Nella stessa Notificazione, la Deputazione annonaria dichiarò che il Ponte- fice per dare un maggiore incitamento agli agricoltori e ai possidenti di aumen- tare la loro industria campestre, aveva ordinato, che il premio già stabilito fosse aumentato del doppio, nel futuro anno 1893, cosiechè sarebbe stato elargito, un premio di paoli 16 per ciascun rubbio seminato —lire 8.592. Anche la sopratassa a carico di coloro che avessero lasciati i terreni incolti veniva raddoppiata fino a paoli 8 al rubbio — lire 4.296. La Notificazione replicava anche le prescrizioni della Costituzione Pontificia nel 4 novembre 1801, specialmente, per quanto si riferiva all’Agro Romano sulle norme dell’ applicazione della tassa, in base al Catasto del giorno 23 gen- naio 1783. Si confermavano poi tutte le ordinanze pontificie per ciò che si riferiva alla sementa eseguita, e dai terreni lasciati incolti nella zona dello Stato della Chiesa, descritta dal Motu Proprio del giorno 4 novembre 1802 (1). In seguito alle disposizioni pubblicate come sopra, un tal Basilio Salvi, da ‘Roma, ed il Conte Monaldo Leopardi, da Recanati, si associarono per bonificare e colonizzare il tenimento della Casetta Mattei, sulla Portuense, alla distanza di (1) NicoLai N. M,, Memorie, Leggi, ece., IT, a pag. 160, Append. Doc. LIV, CAPITOLO XVII 377 chilometri $S da Roma. I due soci condussero in quel luogo 70 lavoratori dalle Marche, e con essi convennero patti colonici indubbiamente molto più vantag giosi di quelli che i medesimi marchegiani avessero avuto coi loro padroni, nella loro regione. Ma, purtroppo, quei contadini non riuscirono a bonificare quel tenimento, allora deserto, poichè ben presto furono vittime della malaria e delle febbri, onde alcuni morirono, e gli altri vollero ritornare nei loro paesi nativi. Indubbiamente fu grave errore quello di voler creare un’oasi in mezzo al deserto circostante, poichè essendo allora una località malarica non poteva dive nire salubre, sol perchè venne occupata da un certo numero di abitanti (1). Aboliti i vincoli, che si frapponevano alla contrattazione dei grani e delle altre derrate, e che ne rendevano difficile la compra-vendita, provveduto anche all'aumento del commercio coll’estero, permettendo la esportazione di quella parte di generi esuberante alle necessità della pubblica Annona, si studiò in seguito, a ridurre, o meglio trasformare l’onere civico del pascolo, che impediva il miglioramento dei terreni. Frattanto, l'Ufficio d’intavolazione (delle ipoteche) e quello del registro giù funzionavano entrambi concordi per la sicurezza dei capitali, garantita dalla proprietà privata. E quasi tutto ciò non bastasse, il Pontefice, dopo tali e tanti provvedimenti, con altro suo Motu Proprio del giorno 15 settembre dell’anno 1802, si accinse a risolvere funditus il problema del bo- nificamento agrario della Campagna romana, rimuovendo prima d’ogni altra cosa gli ostacoli ed impedimenti, che avrebbero contrastato la sua grandiosa e ma- gnifica idea. Nella sopradetta Costituzione — che resterà sempre quale monumento aere perennius di una bene intesa legislazione — e che fa testimonianza della mente illuminata del Card. Ercole Consalvi, che la ispirò, il Pontefice Pio VII dapprima riassunse tutti i provvedimenti legislativi, già presi per preparare la esecuzione del suo Motu Proprio. Innanzi tutto rilevò lo stato delle altre Provincie, nelle quali l’agricoltura compendiava tutte le diverse coltivazioni dei generi necessari alla vita, e dove oltre il grano e le altre derrate, erano coltivati la vite, l’olivo, i legumi, il gelso, la canape, il lino ed altro. Prodotti diversi che maturavano in epoca diversa; per cui l'inclemenza delle stagioni non avrebbe potuto quasi mai farli tutti perire, e di conseguenza l'abbondanza di uno o più generi avrebbe (1) Coppr A. Discorso sopra aleuni stabilimenti e miglioramenti agrari, a pag. 5, 378 CAPITOLO XVII compensato la scarsità e !a mancanza degli altri. Invece nella Campagna romana tutto si restringeva alla sola coltivazione del grano e del granturco, che se avesse fallito per un anno, e peggio per due successivi, od anche di più, avrebbe senza meno prodotto la ruina completa degli agricoltori. Il Pontefice quindi deduceva che non si sarebbe mai potuto conseguire il miglioramento dell’agricoltura del- l’Agro romano, fino a che i coltivatori non avessero avuto stabile :«limora nelle tenute stesse. La mancanza degli operai riusciva di maggior dispendio alle col- tivazioni e le rendeva anco più limitate. Non si nascondeva del resto le difficoltà di poter formare una popolazione stabile in una zona così vasta, ma lo confortava il pensiero che se i latifondi deserti ed incolti potessero venir suddivisi in molteplici frazionati possessi, la bisogna sarebbe stata più agevole. Si preoccupava però del fatto che una legge la quale vi provvedesse direttamente, nonchè violenta sarebbe ingiustissima, e forse sarebbe riuscita anco più dannosa che non la tolleranza stessa dei latifondi, posseduti da pochi; ma pur sperava di conseguire lo scopo, a mezzo di leggi e di provvedimenti indiretti, senza ricorrere alla violenza, e senza ledere il diritto della proprietà. E precipuamente con assoggettare tutti quelli che possedevano terreni, oltre una data quantità, ad una sovratassa annua e duratura, da ces- sare soltanto allorchè i terreni fossero stati suddivisi, ovvero quando i proprie- tarî si decidessero ad introdurvi la coltura, che si cercava di ottenere colla suddivisione dei latifondi, la quale necessariamente esigeva la stabile dimora dei coltivatori nei fondi stessi. Insisteva pertanto sulla necessità; che non solo fossero instituite nella Cam- pagna romana le colonie agricole, che vi si esercitasse quella stessa coltura che costituiva la prosperità delle altre terre, e specialmente della provincia delle Marche. Perchè sebbene si notassero anche in detta provincia grandi proprietà pertinenti a pochi, tuttavia esse offrivano un aspetto assolutamente diverso da quello della Campagna romana, in quanto per la copia dei lavoratori, le stesse terre restavano divise fra le diverse famiglie coloniche, ciascuna delle quali prendeva cura di coltivare con tutta assiduità la porzione destinatale. Segnalava per ciò, che la moltiplicità o il ristretto numero dei possidenti fosse affatto in- differente; ma riconosceva soltanto come indispensabile la presenza costante nei singoli luoghi di numerosi coltivatori. Tl Pontefice, d’altronde, convinto che l’applicazione della sovratassa non avrebbe potuto produrre sollecitamente il miglioramento delle campagne, poichè CAPITOLO XVII 379 tutte le grandi imprese si compiono a gradi e coll’opera del tempo, non volle nemmeno aggravare tutti i proprietari coll’ applicazione della detta sovra- tassa. E perciò decretava che vi fossero soggetti soltanto coloro che possedevano in vicinanza dei luoghi già ridotti a cultura e popolati, lasciando che più tardi sì prc vvedesse alle tenuto limitrofe. Ciò avrebbe scongiurato il pericolo della malaria, poichè i lavoratori non sarebbero stati costretti sul principio a soggior- nare fissamente nei luoghi che avrebbero impreso a coltivare, ma avrebbero po- tuto, per qualche tempo ancora, continuare a dimorare specis Imente nella notte nei prossimi luoghi abitati, donde a così breve distanza avrebbero potuto nello svolgersi della giornata, da mane a sera compiere i necessari lavori e poi riti- rarsi. E tanto più perchè l'abbandono della Campagna romana doveva dipendere dal fatto che i coltivatori eransi ritirati nei luoghi abitati, e più specialmente montuosi. E così il Pontefice ne deduceva che non sarebbe stato possibile rinno- vare la popolazione se non con movimento inverso, partendo cioè dai luoghi abitati per ripopolare le vicine campagne. Il Pontefice aggiungeva poi una rifles- sione della massima importanza storica, che egli consacrava in quel documento con le seguenti testuali parole: « Una funesta esperienza ci conferma purtroppo - < in tale persuasione giacchè sopratutto nell’Agro romano, noi vediamo parecchi < latifondi ridotti alla condizione di tenute, vale a dire ridotti allo stato di spo- e polazione ed abbandonati quasi interamente alla naturale produzione delle « erbe, che un tempo ed anche non molto a noi lontano erano ricchi di prodotti, « e di abitanti, ciò chè, sì rileva ancora dal nome di tenute giurisdizionali, che « tuttavia conservano; la popolazione si era introdotta, e si manteneva in detti « latifondi, perchè i proprietari avevano lodevolmente divisi questi latifondi fra «i coltivatori, li quali corrispondevano ordinariamente una porzione del frut- » tato... » S'intuisce fucilmente che il Pontefice volle alludere con ciò, ai tempi degli Imperatori romani, e forse anche ai principî dell’Evo moderno, allorchè i pro- prietari dei latifondi concedevano le terre per seminare a coloni temporanbi, specialmente in seguito alle Costituzioni pontificie, da Sisto IV in poi, come ab- biamo precedentemente narrato in questo Sommario. Infatti, a meglio chiarire il suo pensiero, aggiunse che i grandi proprietari, al predetto lodevole metodo della divisione delle terre fra i coloni, sostituirono quello di riunire i loro terreni in un solo affitto, mentre vedevano che soltanto questi grossi conduttori sarebbero stati in grado di somministrar loro quelle sicure 380 CAPITOLO XVII e fisse risposte, che potessero far loro condurre una vita comoda, ed atta a mantenerli, senza sollecitudini nel lusso inoperoso e nella mollezza. Questi affit- tuari poi, siccome era naturale, trattandosi di locazione di breve durata, cercarono di togliersi dagli imbarazzi di una minuta esazione di canoni, e di risposte, in luogo di favorire e di accogliere nuovi coloni. preferirono 1’ industria delle erbe, e bene spesso maltrattarono i coloni, che esistevano, o per lo meno ne per- misero la ruina non aiutandoli, nè sostenendoli nelle scarse annate, e nel tempo delle loro infermità, siccome dappertutto si praticava, ove la vera cultura delle terre era conosciuta ed era in pregio. Diminuirono gli affittuari, così facendo le loro spese, e si confermarono in tale metodo, perchè la mano d’opera cominciò a di- ventare di maggior prezzo, e allontanando vieppiù i coloni, e non impiegandoli nel lavoro, si rese ancora più cara l’opera degli uomini di mano in mano che il numero di essi diminuiva nei luoghi abitati, ed il Pontefice soggiunse « che se «non vi si pone un saldo riparo, in breve parecchie terre abitate si ridurranno < anch'esse alla condizione di semplici tenute ». Continuava il Pontefice ad esporre che la sovratassa di migliorazione sarebbe stata applicata al principio dell’anno 1804; e tale intervallo di tempo sarebbe stato frapposto, affinchè i proprietari dei latifondi potessero disporre con mi- gliore agio e mezzi e quant'altro fosse stato necessario ai coltivatori per dare esecuzione al bonificamento della Campagna romana, o eseguendone la desiderata suddivisione, mediante enfiteusi o colonie, ovvero promuovendo essi proprietari un miglior sistema di cultura. \ A corollario di quanto aveva premesso, il Pontefice Pio VII, di suo Motu Proprio e con tutta la pienezza della sua Suprema potestà, volle chein tutta la estensione dell'Agro romino, e nelle provincie di Marittima e Campagna, com- preso l’Agro Pontino, il Lazio, la Sabina e il Patrimonio, con lo Stato di Castro e Rénciglione, Tenute di Montalto, il Contado d’Orvieto e in ogni altro luogo e provincia, ove esistessero latifondi incolti, i proprietari tutti, d’ogni condizione, nessuno eccettuato, incominciando dal giorno 1° gennaio dell’anno 1804 fossero soggetti ai regolamenti e alle disposizioni singolarmente specificati e descritti nel Motu Proprio. Che laonde tutti i terreni in qualunque modo coltivabili, nell’Agro romano, siti in prossimità del suburbio e delle vigne di Roma, e compresi nella estensione di un miglio, da computarsi sempre dal punto in cui per qualunque parte del suburbio terminava l’ultimo terreno vignato, alberato o coltivato, in ogni anno, oltre la tassa della Dativa reale già imposta col Motu Proprio del ili ai CAPITOLO XVII 381 4 dicembre 1801, e con la notificazione relativa, rimanessero stabilmente soggetti al pagamento annuo del tributo di paoli 5a) rubbio — lire 2.685 — da cessare soltanto allorchè venissero ridotti a miglior cultura. Alla stessa tassa sarebbero stati soggetti anche tutti i terreni siti ai confini dell'Agro romano, che fossero compresi nella estensione di un miglio dal confine, ove terminava il territorio coltivato dei diversi Comuni limitrofi allo stesso Agro romano. La stessa disposizione doveva essere osservata per le provincie del Lazio, della Sabina, di Marittima e Campagna, dell’Agro Pontino, del Patrimonio, degli Stati di Castro e Ronciglione, di Orvieto, e per ogni altra località dove esistes- sero latifondi incolti; di modo che tutti i terreni, in qualunque modo coltiva- bili, nel raggio di un miglio, a partire dai confini ove terminano i terreni colti- vati ed alberati, dovevano essere soggetti alla sopradetta tassa di migliorazione di paoli 5 al rubbio. Le Deputazione annonaria avrebbe dovuto far determinare e rendere noti al pubblico i confini delle singole zone di terra soggette alla tassa. Le proprietà in cui fosse compresa qualche zona di terreno sodo o prativo, nor superante l’ottava parte delle proprietà stesse, e quelle in cui esistessero macchie cedue, ovvero piante di alto fusto, sarebbero state esenti dalla tassa sopradetta, per quelle date zone. La tassa sarebbe stata gradualmente ridotta e sarebbe assolta del tutto, appena che i proprietari avessero ottemperato al- l'obbligo di una migliore cultura. Venivano quindi prescritte minute e diligenti norme, per disciplinare la graduale riduzione o la totale esenzione della tassa stessa. : ; Il pagamento della tassi doveva essere eseguito nel mese di settembre di ciascun anno, con la ingiunzione di applicare anche la mano regia contro i mo- rosi, essendo volere del Pontefice che niuno potesse sfuggire agli obblighi di legge, trattandosi di una disposizione diretta soltanto al pubblico bene. Oltre il premio di paoli 5 per la coltivazione di ogni rubbio di terra incolta, veniîva concesso per sei anni consecutivi il premio di 16 paoli — lire 8.69 — per ciascun rubbio di quelle terre, che fossero state ridotte ad una cultura annuale, preferendole, se dotate di albereti con viti. I contratti di affitto che avessero ostacolato l'esecuzione del miglioramento delle terre dovevano considerarsi annullati, e dichiarati di nessun effetto, secondo norme e modalità che vennero fissate. 382 CAPITOLO XVII I beni dei fidecommissi, le primogeniture e simili furono svincolati, ed i proprietari furono autorizzati a suddividere i fondi, tanto col mezzo delle enfi- teusi, quanto delle colonie, eseguendo le dovute norme al riguardo per la esecu- zione degli ordini emanati. Anche i Mopnisteri, i Conventi, i luoghi Pii, e qualsiasi altra istituzione ecclesiastica, furono autorizzati a concedere in enfiteusi, a canone o livello, tanto a terza generazione, quanto per un tempo determinato, però mai supe- riore ad un secolo, tutti i terreni soggetti alla nuova tassa di migliorazione, a patto della constatata regolarità dei contratti, e previe tutte le cautele che ga- rantissero ed assicurassero gli interessi delle singole istituzioni. Qualora poi si stimasse più utile di eseguire i miglioramenti in economia per conto delle sopraddette Congregazioni ecclesiastiche, in tal caso i Cardinali Prefetti della Congregazione dei Regolari avrebbero potuto autorizzare le istitu- zioni stesse anche alla creazione di mutui, per procurarsi il denaro necessario alla esecuzione. Il Motu Proprio Pontificio regolava anche i rapporti fra il direttario e l’uti- lista, nel caso che sì fosse trattato di fondi enfiteutici. In tutti i terreni, ove venisse eseguita una migliore cultura, doveva cessare di fatto la servitù di pascolo, che però doveva essere compensata a chiunque fosse stato in diritto del godimento dell’uso sopradetto. Fu disposto pure a che fossero esplorate e raccolte tutte le sorgenti delle acque sparse nella Campagna romana, e fu prescritto che la Deputazione anno- naria in particolare vigilasse, dopo eseguita la suddivisione dei terreni, e dopo avvenuto l’aumento della popolazione, che niuno impedisse ad altri l’uso delle acque per qualsiasi pretesto; e, nel caso di difetto delle sorgive, che fossero scavati i pozzi necessari. Si dispose altresì la piantagione degli alberi, tanto per il miglioramento dei fondi, tanto per provvedere alla salubrità dell’aria. Si doveva ugualmente provvedere a regolare lo scolo delle acque, sia pluviali che sorgive, con tutte le necessarie cure e ì migliori provvedimenti. Il Pontefice, inoltre, credeva urgen- tissimo di dover riparare alle conseguenze malariche, prodotte dal ristagno mal- sano delle acque, nelle varie parti della Campagna romana. Additava perciò i criteri, coi quali si dovesse raggiungere lo scopo, e comprendendo che i grandi lavori a ciò necessarî avrebbero importato ingenti spese, stabilì che la Camera Apostolica concorresse per una quinta parte alle spese. CAPITOLO XVII 383 Nello stesso Motu Proprio vennero prese tutte le disposizioni opportune per la erezione di nuove Chiese Parrocchiali, a misura che la popolazione fosse au- mentata e sparsa nei luoghi lontani. Furono anche stabiliti premi in denaro a tutti quelli, che avessero fabbricato case coloniche, e la Deputazione annonaria . doveva stabilire i luoghi più opportuni ove si potessero fondare centri agricoli, che, nel primo loro sorgere non dovevano essere distanti dalla prossima par- rocchia più di 4 miglia, nè si negava il permesso di fabbricare case coloniche, capanne od altro ricovero, che valesse a poter migliorare lo stato attuale delle cose. La Deputazione annonaria doveva anche prendere le opportune misure per fornire i mezzi necessari all'assistenza sanitaria, con la residenza stabile del me- dico. E avrebbe dovuto altresì provvedere perchè nei luoghi abitati risiedessero gli artigiani più necessari, tanto per gli utensili e gli strumenti agrari, quanto per tutto ciò che eventualmente potesse occorrere alle famiglie dei nuovi coloni. Tutte le doti, tanto a Roma quanto nelle provincie suburbane, che so- levano distribuirsi senza essere destinate ad una speciale classe di persone, sarebbero in avvenire distribuite alle figlie dei coloni. Il Pontefice inoltre volle che gli stessi coloni, qualora ne avessero fatta richiesta potessero ot- tenere dall’ Archiospedale di S. Spirito un proielto per ciascuna famiglia, oppure un fanciullo orfano, allo scopo di educarli e di istruirli nell'arte agra- ria, per poi conseguirne aiuto nei lavori campestri. Ai coloni furono accor- dati privilegi, per la risoluzione delle cause, specialmente con la speciale istitu- zione del Giudice delle mercedi. Furono stabiliti i premi perJa piantagione degli olivi, degli olmi, dei pioppi, delle quercie e degli oppi, atti a sostenere le viti. All’ucpo furono date opportune disposizioni perchè fossero formati i vivai di ciascuna delle suddette specie di piante e di arbusti in modo da poterli sommi- nistrare gratuitamente per fare le piantagioni nei latifondi, e così dei pini e dei cipressi e degli elei che prosperano lungo le spiagge del Mediterraneo. E fu stabilito un premio di baiocchi dieci — lire 0.53 — per ciascun albero che fosse stato piantato lungo la zona sopiadetta. p Per la tassa di migliorazione il Povtefice decretò, che se ne tenesse un conto ed una cassa separata da qualsiasi altra gestione, e che la Deputazione anno- naria prepostavi ne rendesse una esatta e precisa giustificazione due volte in ciascun anno, alla fine del giugno e :ilel dicembre, presentando all'uopo una rela- zione ed un bilancio in scritto, al pieno Tribunale della Camera Apostolica, af- 384 CAPITOLO XVII finchè il Pontefice potesse essere sicuro che il denaro fosse stato erogato nel modo da lui decretato. Il Motu Proprio fu dato dal palazzo Apostolico del Quirinale, nel giorno 15 settembre dell’anno 1802, come accennammo superior- mente (1). Il documento che abbiamo per sommi capi riassunto pone in evidenza il vero stato della Campagna romana al principio del secolo xrx, e chiaramente delinea in pochi tratti come la vera causa dell’abbandono dell’agricoltura si do- vesse alla mancanza della popolazione. Ma non può negarsi che anche anche vi concorresse la smania ambiziosa — allora molto in voga — di accumulare cioè nella stessa persona, per il solo desiderio effrenato di prepotere, affitti di molte- plici e varî tenimenti; tanto che, di quel tempo, tre soli mercanti di campagna riunivanò in sè, ed amministravano essi soli, quasi la quinta parte dell’Agro romano !! Di essi infatti, tal Canori Giov. Battista conduceva ben 19 tenute, estese complessivamente rubbia 6664: un tul Giorgi Andrea oltre 11, per una esten- sione di rubbia 6074, e finalmente i fratelli Truzzi erano affittuari di 7 vastis- sime tenute, comprendenti insieme rubbia 6393; donde un totale di rubbia 19,131 — pari ad ettari 22,020 — corrispondenti come dicemmo alla quinta parte circa della Campagna romana (2). Frattanto il Cardinal Segretario di Stato e pro Camerlengo di Santa Chiesa dirigeva una lettera d’ufficio, in data 24 settembre 1802, al Cardinal Prefetto della Congregazione dei Vescovi e Regolari, e gii comunicava come, col Motu Proprio del 15 settembre dell’anno suddetto, il Pontefice avesse preso diversi provvedimenti utili ed efficaci, per animare ed accrescere in modo utile e stabile l’agricoltura della Campagna romana, e nelle provincie limitrofe; come a facili- tarne la esecuzione, per quanto si riferiva alle proprietà ecclesiastiche, il Ponte- fice avesse concesso facoltà straordinarie ai Prefetti pro-tempore della Sacra Con- gregazione dei Vescovi e Regolari; e che di conseguenza il Cardinal Camerlengo, sì faceva un dovere d’inviare al Cardinal Prefetto della Congregazione due esem- plari del sopradetto Motu Proprio, affinchè ne prendesse cognizione (3). Un successivo Motu Proprio del Pontefice Pio VII, pubblicato il giorno (1) Append. Doc. LV. (2) NicoLar N. M. Memorie, Leggi, ece., II, 231. (3) Arch. del Buon Governo, Vatie. CAPITOLO XVII 385 24 marzo 1804, confermava i principî ed i concetti dai quali egli era stato in- dotto a formulare la precedente Costituzione del 15 settembre 1802, nel fine di ottenere una'maggiore divisione dei latifondi, è di attiugere così il migliore e più sicuro mezzo per restituire la Campagna romana a quel florido stato di col- tivazione di un tempo, come appunto si verificava nelle altre provincie dello Stato Pontificio, dove i possessi fondiarî erano stati divisi in diverse colonie. Nell’atto del Pontefice seguivano varie disposizioni dirette a conseguire quello che fu prescritto, specialmente per quanto si riferiva a questo fatto spe- ciale: cioè se il proprietario di terreno avesse potuto costringere altri confinante, a cedere la sua proprietà. A ciò evitare, veniva annullato il diritto di prelazione, in quanto il Pontefice era animato dal solo desiderio di vedere estesa e perfe- zionata l'agricoltura, come viene espresso nello stesso Motu proprio (1). Il Cardinal G. Doria Pamphili, prp-Camerlengo, con una sua Notificazione, bandita il giorno 6 aprile 1804, dedusse a notizia del pubblico il Motu Proprio sopradetto del Pontefice, diretto ad ulteriore favore ed aumento dell’agricoltura nell’Agro romano, e nelle provincie suburbane di Marittima e Campagna, nel Lazio, nella Sabina e nel Pairimonio. In quell’atto citavasi il Motu Proprio dello stesso Pontefice, del 15 settembre 1802 la Costituzione di Papa Gregorio XIII, del giorno 3. ottobre 1574, la Bolla di Pio IV De registrandis e la regola della Cancelleria Apostolica de jure quaesito non tollendo; e riconfermavasi quanto il Pontefice aveva disposto, che cioè non sarebbe mai permesso a qualsiasi pro- prietario di fondi rustici di costringere il possessore di un fondo vicino a ce- derglielo, e che, ove il possessore intendesse, o in tutto, o in parte alienarlo, al proprietario confinante non avrebbe mai potuto competere il diritto di prela- zione, poichè tanto nel primo che nel secondo caso si sarebbe operato contro lo spirito della legge pontificia, direttx specialmente’ alla divisione dei latifondi. Perciò, anzi, il Papa aveva espressamente dichiarato di derogare da qualsiasi disposizione dei Pontefici predecessori, e specialmente da quella di Gregorio XIII, già menzionata, riferibile al Retratto sopra i predî rustici (2). Il giorno 11 giugno 1804 il Cardinal pro-Camerlengo Doria Famphili emise un Bando circa le Dogane della fida e dei pascoli di Roma, di Marittima e Cam- pagna, e del Patrimonio di Santa Chiesa, richiamando in vigore la Costituzione (1) Bibl. Casan., Periodici, 18-108, ann. 1804, 128, Ù (2) Arch. Vat., Bo//e e Bandi, Serie ILL, ann, 1804, 20 386 CAPITOLO XVII di Gregorio XIII, e tutto ciò che aveva già preparato il Pontefice Pio VI nel $ VIII del suo Motu Proprio del 16 settembre 1795, nonchè le Costituzioni Pon- tificie del 4 novembre 1801 e 9 maggio 1804, e l’editto del giorno 30 settem- bre 1797. Tale documento venne allegato altresì ai capitoli di fida che esamine- remo in seguito (1). Un successivo Editto dello stesso Card. pro-Camerlengo comminava severe pene contro coloro che arrecavano danni nelle campagne (2). E poichè ogni dì crescevano lamenti per danni subìti, e più ancora per me- nomata o manchevole sicurezza delle strade, i Consoli Camerlenghi ed altri mem- del Collegio degli Argentieri ed Orafi di Roma mossero reclamo al Presidente del Tribunale delle Strade, F. Locatelli Orsini, ed ottennero che emettesse un Bando col quale veniva proibito a tutti macellari, vaccinari, bufalari, capovaccari ed altri conducenti bestie vaccine o buffaline, sotto .la pena di scudi 25 ed altre pene a suo arbitrio, non ardissero più di far passare nè allora nè mai il bestiame suddetto lungo la via del Pellegrino (3). Nello stesso Bando venne pure citato il rescritto del Pontefice Pio VII in data 23 luglio 1804, e gli editti e bandi del 5 giugno 1648, 4 maggio 1653, 20 settembre 1681 e 28 luglio 1763 (4). Di seguito alla pestilenza, che, nell’anno 1804, aveva desolato: una parte parte dello Stato Pontificio, non esclusa la città di Roma e la Campagna ro- mana, Papa Pio VII ordinò al Prefetto della Sacra Consulta, il Card. Ercole Consalvi, che disponesse con urgenza la formazione di un corpo di uomini a cavallo, composto specialmente di gente di campagna, per essere destinato a guardia del littorale Mediterraneo, allo scopo d’impedire assolutamente l’ ingresso dalla spiaggia marittima a qualsiasi persona, ed anche perchè non fosse impor- tata roba clandestinamente, per rendere così anco più rigorosi i provvedimenti adottati contro la peste. Ed il Card. Consalvi, con suo Editto del giorno 15 dicembre dell’anno stesso, (1) Arch. Vat., Bolle e Bandi, Serie III, ann. 1804. (2) Ibi, come sopra. (3) Nel principio del secolo xIx fino quasi alla fine dello stesso secolo, esistevano moltissim hoiteghe di argentieri e di orafi nella Via del Pellegrino, tantochè da ciò derivò il detto al riguardo di mn oggetto dorato, e si disse: « Passato per il Pellegrino » poichè era falso. (4) Arch. Vat., Bolle e Bandi, Serie ILL, ann. 1804. CAPITOLO XVII 387 prescrisse che tutti i proprietari dei latifondi, delle tenute, delle terre è dei fondi adiacenti al littorale Mediterraneo, nel termine di 8 giorni, dovessero for- nire il contingente di uomini e di cavalli. Gli affittuari avrebbero dovuto somministrare una metà, restando l’altra a carico dei proprietari, gli enfiteuti invece erano tenuti a fornirli totalmente. Nell’Editto vennero designati i pubblici ufficiali, ai quali si dovevano pre- sentare tutti gli uomini come sopra, che dovevano essere abili a montare a ca- vallo, co: baionetta e 12 cariche. Ciascun cavallo, poi, doveva essere domo per sella, e fornito di bardatura e finimento alla vaccareceia. La Camera Apostolica avrebbe dovuto provvedere al mantenimento dei cavalli ed a ‘somministrare il soldo giornaliero agli uomini. Seguivano altre disposizioni di minore impor- tanza (1). L’Editto sopradetto conteneva un elenco di tutti coloro che dovevano con- correre alla prestazione degli uomini e dei cavalli, e gioverà di esaminarlo, se non per altro, per avere una notizia dei mercanti di campagna di allora, lungo la spiaggia del Mediterraneo. Comune di 'l’erracina: Duca Braschi per l’aftitto delle Paludi Pontine — Maceroni ed Eredi Tartaglioni per il tratto da Torre Olevola a Torre del Fisco - Sartori, enfiteuta di S. Felice — De Bonis, affittuario Camerale del Lago di Paola — Panfilo di Pietro, per le macchie e terreni di Cisterna e tenute di San Lorenzo, Salzare e lorto — Cimarroni, per l'affitto Camerale delle macchie di Nettuno, e per i terreni da Torre Materna a Torre S. Lorenzo — Comunità di Nettuno, lungo il suo territorio — Simonetti, affittuario del Principe Corsini, per il territorio da Porto d’Anzio a ‘lorre Materna -—- Duca Cesarini, per Campo Jemini e Fossa — Principe Borghese, per Capocotta e Campo Ascolano — Barone del Nero, per la tenuta di l’orcigliano (Castel Porziano) — Principe Chigi, per Castel Fusano — Paolini, per l’affitto d’Ostia — Eredi di Carlo Giorgi, per l'Isola Sacra — Principe Rospigliosi, per Maccarese — Liberti Marco, per l’affitto di Palidoro — Duca di Bracciano, per Palo — Calzaroni, per l’affitto di Campo Mare e Sasso — Giovanni Galassi, per Zàmbra e Monte Tosto — Galassi Giuseppe, per Santa Severa — Alibrandi; per Santa Marinella e Torre Chiaruccia — Comune di Civitavecchia, per il suo territorio — Valdam- (1) Arch. Vat., Zolle e Bandi, Serie IL, ann. 1804, 388 CAPITOLO XVII brini, per la tenuta di Carcarella -— Corneto, per il suo territorio — Marchese ‘Sacchetti, per Pian d’Arcione — Capitolo di S. Pietro, per la tenuta della Sel- vaccia — Candelori, enfiteuta Camerale di Campo Scala — Arrigoni, enfiteuta della tenuta di Campo Morto di Castro — Conte. Negroni, enfiteuta per la tenuta di S. Agostino — Abate Adorni, enfiteuta di Campo di Pescia. Il suddetto Abate Adorni, intelligente agricoltore, possedeva, nel sopradetto tenimento eufiteutico, una masseria di 4 o 5 mila pecore Merinos tutte prodotte dalla razza speciale che il Pontefice Pio VI aveva acquistato nella Spagna allo scopo di miglicrare Ja produzione della lana nello Stato, come già riferimmo in uno dei precedenti capitoli. | Un Chirografo, segnato dal suddetto Pontefice nel giorno 29 agosto 1792, e dirette al Cardinal Ruffo, Tesoriere Generale, disponeva che la Camera Apo- stolica affidasse la custodia delle pecore spernole all’Abate Adorni e che spet- tavano alla Camera suddetta, con obbligo di mantenerle, ed allevarle per mol- tiplicarle, affinchè la loro riproduzione potesse in avvenire somministrare la quantità di agnelli niaschi necessaria a migliorare le altre masserie dello Stato. 11:20 dicembre dell’anno 1804, Alessandro Lante, allora Tesoriere Generale, pubblicò una Notificazi. ne per rendere di pubblica ragione come la sopradetta masseria si fosse moltiplicata in modo da fornire buoni riproduttori alle altre masserie, e che ciò avrebbe seguito ugualmente anche negli anni successivi, Il Tesoriere Generale spiegava pure come, accoppiando le pecore nostrali coi ripro- duttori spagnoli, gli agnelli sarebbero nati con lanaggio uguale a quello dei ri- produttori stessi, e come replicando poi l'accoppiamento fino alla terza genera- razione, gli agnelli sarebbero riusciti con lanaggio sempre più fino, come quello dei montoni Merinos. Aggiungeva, che la esperienza, fatta per 14 anni consecu- tivi, aveva dimostrato che il lanaggio Meriros non s' imbastardisse nella Cam- pagna romana, come il prodotto della lana delle pecore spagnole avesse il doppio peso di quelle nostrane, ed inoltre come valore del lanaggio Merinos fosse supe- riore a quello delle pecore indigene. Il Tesoriere Generale invitava quindi tutti i proprietari delle masserie di pecore indigene che volessero migliorare le loro razze, a dirigersi per l’acquisto dei montoni allo stesso Abate Adorni, in Roma, ovvero al Vergaro della di lui masseria, dimorante nel Comune di Montalto (1). (1) Arch. Vat., Bolle e Bandi, Serie III, ann. 1804. È MED CAPITOLO XVII 389 E, noi abbiamo potuto leggere come in brevi anni da tali riproduzioni, che i nati dai montoni Merinos accoppiati con pecore nostrali, ammontassero nel- l'’Agro romano da 30 a 40 mila capi (1). A tutela dei boschi, e più ancora delle piante di alto fusto, il Card. Ercole Consalvi, Segretario di Stato, pubblicò un Editto l’anno 1805 ai 27 di novembre, nel quale rammentava come i sommi Pontefici non avessero trascurato le più acconcie misure e i più efficaci provvedimenti per !a conservazione delle selve o macchie, e delle piantagioni di alberi da frutto, e di alberi da lavoro, ossia di alto fusto. Clemente XIII e Pio VI si erano distinti fra gli altri, il primo con un suo editto emanato per mezzo del Segretario di Stato nell’anno 1765, e avesse proibito qualsiasi taglio di alberi da costruzione nei boschi Camerali e Comunali, senza il permesso e l’approvazione Sovrana; ed il secondo con un editto consi- mile, pubblicato nell’anno 1789 aveva ampliato la stessa disposizione estenden- dola alle macchie e alle piantaggioni dei particolari, per infrenare i continui abusi che si commettevano in danno dell'economia dello Stato, e della pubblica igiene. Con l’andar del tempo però, si erano ripresi e continuati gli arbitrî, e si eseguivano anche tagli più estesi, senza alcun permesso od autorizzazione. Laonde per provvedere alla conservazione dei boschi e delle piante di alto fusto, il Pon- tefice dopo aver interpellato il parere della Sacra Consulta, magistrato supremo di sanità, comandò che fosse pubblicato un Editto col quale si proibiva a chiun- que il taglio degli alberi di qualsiasi specie nella provincia dell’ Umbria, nel Pa- trimonio, nello Stato di Castro, di Ronciglione, di Marittima e Campagna, nel Lazio e nella Sabina, come in tutta la estensione dell’Agro Romano. Seguivano varie e molteplici disposizioni, che regolavano l'esecuzione di quanto veniva co- mandato, e moderavano altresì i permessi e le licenze che, eventualmente, sareb- bero stati permessi per il taglio necessario di tutte le piante mature atte a lavori di costruzione (2). Per dare un’ idea sempre più esatta dello stato della Campagna romana, e del come se ne svolgesse tutto il meccanismo delle funzioni amministrativa ed economica specialmente in rapporto alla produzione, riferiamo alcuni dati stati- stici, che un notissimo mercante di campagna, sul principio del secolo xIx, diede in proposito a richieste fattegli. Notiamo che la Ditta Fratelli Truzzi, fin dal- (1) De Tournon CamiLLe. Éfudes Statistigues sur Rome, Tom, I, pag. 21, (2) Append. Doc, LVI, 390 i CAPITOLO XVII l’anno 1803, conduceva in amministrazione, per affitto, le tenute Gogna e S. Ap- ‘ petito, Campo di Carne, Campo Morto, S. Gennaro, Casetta Casal Perfetto, che insieme formavano la superficie complessiva di rubbia 6393.2 (ettari 11!817.74) come accennammo (1). In quei tempi il tenimento di Campo Morto comprendeva le quattro tenute attuali, Presciano, Carrano, Torre del Padiglione e Campo Morto, con una superficie complessiva di rubbia 4309. La Ditta Truzzi pagava per detta super- ficie scudi 22,000 — lire 118,500 — e detta somma divisa per il terreno colti- vabile — circa rubbia 3000 — importava per conseguenza scudi 7 al rubbio — lire 37.62 — non computato il residuo, costituito dai boschi. Del" intera super- ficie rubbia 300 si coltivavano a cereali; sopra 2700 rubbia pascolava una masseria di 4000 pecore, 200 buoi da lavoro e 400 capi cavallini; e finalmente nel residuale rubbia 1300, costituite dai boschi, come fu detto, pascevano 700 vacche, soltanto riproduttrici, e 2000 suini. In complesso, quindi, 1300 capi grossi e 6000 capi di bestiame minuto. Nell’anno 1813 v’erano in Roma cinquantaquattro Mercanti di Campagna, e forse un doppio numero se ne contava nella provincia. Ed una così limitata corporazione di agricoltori coltivava l’immensa plaga, che costituisce l’Agro Romano e l’Agro Pontino, che va dai confini della provincia dell’Umbria, fino a quelli della Terra di Lavoro. In quel tempo i principali Mercanti di Campagna rispondevano ai nomi di Truzzi, Calzaroni, Giorgi, Cleter, Valentini, Vanni, Marco Liberti, ecc. Alcuni proprietari di Tenute amministravano per proprio conto i loro fondi. I Mer- canti denarosi preferivano condurre aziende vaste, come già accennammo, ese- guendo la sementa sopra una superficie perfino di ettari 2000; e gli affitti talora avevano una estensione complessiva da 10 a 12,000 ettari, come dicemmo. Tuttociò li esponeva più facilmente a disastri per le scarse raccolte, che spesso si verificavano, e allora essi per adempiere gli impegni assunti sì affi. davano ad ingordi usurai, che di sovente fecero espiare a molti di quei Mercanti la vana ambizione di volerne assumere e condurre la coltivazione di tante terre! (2). L’anno 1813, il Governo Francese, che di quei tempi dominava anche in (1) NicoLar N. M. Memorie, Leggi, ece., II, 237. (2) De Tovurnon CamiLLo, E/zdes Statistigues sur Rome. Tom, I, pag, 314, CAPITOLO XVIT . 391 Roma, allo scopo di rinnovare la razza delle pecore Merinos, provvide 230 capi di riproduttori scelti fra le masserie di Perpignano, quali furono affidati ad un intelligénte Mercante di Campagna. Si ritenne che si sarebbero ottenuti migliori prodotti ovini, che non quelli francesi, in quanto fra le due regioni, l’Italia e la Spagna, corre molta analogia sia per il clima che per i pascoli, e la somiglianza stessa dei montoni dimostra quasi l'eguaglianza delle due razze ovine (1). Nel seguente anno 1814, ristabilito il Governo Pontificio nello Stato della Chiesa, la Presidenza provvisoria della Grascia bandì una circolare ai 13 di giu- gno, dirigendola agli agricoltori per animarli ed esortarli a rinnovare il provve- dimento dell’anno precedente, di costituire cioè una Cassa sussidiaria fra di loro, per il pagamento di premi a favore degli uccisori di lupi; il che, nel l'anno 1813, aveva prodotto un benefico effetto, in quanto detti animali, di cui negli anni anteriori erasi trascurata la caccia, per la esiguità dei premi banditi, e più ancora per lo indugio a riscuoterli, insidiati da molti cacciatori, recarono danni assai men gravi e rilevanti (2). In quell’anno medesimo, il Cardinale Camerlengo Bartolomeo Pacca volle ristabilire alcuni diritti e regalie, a favore dei Canonici regolari di San Pietro in Vineula. Lo stesso Cardinale in seguito ad un rescritto del Pontefice, ema- nato il 17 settembre dell’anno 1814, ed esibito per istromento pubblico in atti del notaio Nardi, segretario della Camera Apostolica, il giorno 28 dello stesso mese, ordinò che i Canonici di San Pietro in Vincula fossero reintegrati nel diritto del Passo del Ponte de la Mentana — Ponte Nomentano — e Porta Pia, come n’erano già stati in godimento e possesso in tempi anteriori (3). Fra i documenti rinvenuti, merita speciale considerazione un Capitolato d’appalto della Dogana della Fida e pascoli di Roma, delle Provincie del Patri- monio, di Marittima e Campagna. Riportiamo il transunto del documento non per altro, se non perchè il detto Capitolato, stipulato l’anno 1814 agli 8 di ottobre stabilì ultimo appalto della Dogana dei pascoli, chè dopo tanti se- coli di esistanza del benefico Istituto, venne poscia abolito come appresso esporremo, n (1) De Tourxnon CaMmiLLo. Etudes Statistignes sur Rome. Tomo I, pag. 21. (2) Arch. Vatic., Bo/le e Bandi, Serie III, ann. 1814. (3) Arch. Vatic., Bolle e Bandi. Serie III, ann. 1814, 392 3 CAPITOLO XVII L’atto fu firmato da Mons. Luigi Ercolani, Tesoriere Generale; ma poichè è soltanto un Capitolato a stampa, non risulta da esso chi fosse rimasto delibe- ratario dello appalto, nè ci fu dato di rinvenire il contratto autentico. od almeno una copia. L’affitto doveva aver la durata di anni 9, dal primo ottobre 1814 al giorno 8 maggio 1823, e comprendeva le Dogane della Fida e dei pascoli di Roma, della provincia del Patrimonio, di Marittima e Campagna. La corrisposta era fissata nella somma di scudi 15,000, da pagarsi a rate bimestrali posticipate. : Tutti i proprietari che avessero fatto pascolare i loro bestiami nelle tenute della Dogana secondo la Costituzione di Gregorio XIII, sarebbero stati obbli- gati al pagamento della fida, e così ancora chiunque avesse fatto pascere il bestiame nelle tenute dello Stato di Castro; eccettuati i' bestiami dei naturali di quei luoghi, a forma delle sentenze relative. Dal pagamento della fida erano esclusi i buoi aratorî e le cavalle addette ai lavori dell’aja. Niuno avrebbe potuto esportare i bestiami, nè d’estate, nè d’inverno, fuori del territorio ove dimorava, nel condurlo in altro territorio senza darne l’assegna alla Dogana, ed in caso d’inosservanza tutto il bestiame sarebbe stato seque- strato e dichiarato di proprietà del Doganiere. L’anno doganale cominciava il giorno 9 maggio, e terminava il giorno & maggio dell’anno successivo. Il termine della percezione del diritto di fila a favore del Doganiere, si chiudeva il giorno 8 maggio 1823, ma ai riguardi della Dogana di Viterbo, si doveva mantenere l’uso secondo la consuetudine sempre osservata per le assegne ec le fide. Si stabiliva che, ogni anno, decorso il 24 di giugno, si dovesse pagare la fida d’estate, secondo il*consueto; e gli abitanti della provincia del Patrimo- nio, avrebbero dovuto pagarla alla Dogana di Viterbo. Prescrivevansi norme, per le quali nessuno potesse essere esonerato dal pagamento della fida, se non fosse stato cittadino originario di Roma. Tutti coloro che fossero oriundi, o che dimorassero all'Estero e avessero condotto i loro bestiami nei luoghi soggetti alla fida, erano obbligati a denunciare il bestiame di loro proprietà: in caso di rifiuto o di irregolarità nella denuncia, tutto il bestiame sarebbe stato seque- strato e venduto, metà a favore della Camera Apostolica, e metà a vantaggio del Doganiere e di chi avesse rilevato o fatto rilevare tale mancanza. Nella stessa pena sarebbe incorso chiunque avesse fatto partire i proprî bestiami per CAPITOLO XVII 393 le montagne, senza il permesso e la bolletta, rilasciati dal Doganiere, Le strade doganali erano precisate e determinate, perchè non avvenissero frodi. Tutti co- loro che avessero condotto il bestiame di loro proprietà nelle Dogane dei pa- scoli, erano tenuti al pagamento della fida, non ostante qualsiasi cessione, vendita o convenzione relativa al bestiame stesso, essendo stato tutto previsto da analoghe disposizioni. Nel caso di affitto o di soccida dei bestiami, o di altro contratto consimile l’ importo della fida doveva essere pagato dal socio maggiore, ossia da colui che avesse fornito il bestiame per la soccida, e veni- vano pure contemplati i diversi altri casi di contratti pattuiti sia per lo alleva- mento, che per la soccida dei bestiami, al fine di assicurare il doyuto pagamento della fida. Erano soggetti al pagamento tutti i castrati e i ciavarri condotti dai mercanti Aquilani. Nel caso di vendita delle suddette bestie, quando fosse avve- nuta entro i tre mesi dall’assegna datale, sarebbe stato restituito l'importo della fida pagata. In caso, però, di contravvenzione per mancata denuncia, tutto il bestiame sarebbe stato sequestrato e venduto, ed il prezzo diviso in parti a quel modo che fu detto superiormente. Tutti i proprietari che avessero voluto condurre i loro suini a pascere la ghianda, oltre i confini della Dogana, sì per via di terra che per via di acqua, erano obbligati a ritirare dal Doganiere la bolletta, pagando innanzi la fida solita; altrimenti cadevano nella perdita del bestiame. A nessuno era permesso di poter inviare il bestiame a pascere fuori dello Stato della Chiesa senza il permesso del Doganiere. I capo-famiglia di 12 figli erano esenti dal pagamento della tassa, solamente per quei capi di bestiame, di specie diversa, necessari alt’uso della famiglia. Gli affidati forastieri erano obbligati a pagare la fida antica, pur godendo dei nuovi privilegi concessi. Tutte le masserie composte interamente, od altueno la metà, di pecore Merinos, nate da riproduttori spagnoli, quando fossero dotate da 19 montoni per ogni 100 pecore, dovevano pagare la fida di scudo 1 e bajocchi 25 per ciascun cen- tinaio, a condizione però che il proprietario nel darne l’assegna denunciasse quante erano le pecore nostrali, e quante quelle di razza spagnola. In caso d’inosservanza a quanto sopra, il proprietario avrebbe dovuto pagare l’intera fida, oltre le spese di contravvenzione e altre eventuali. Qualsiasi convenzione fra Comune e Comune non avrebbe importato mai l'esonero dal pagamento della fida, e qualsiasi diritto alla Camera Apostolica era ceduto senz’altro al nuovo Doganiere. Quel proprietario che avesse smarrito uno o più capi di bestiame era obbligato di denunciarne la perdita al Doganiere, e per converso chiunque 394 CAPITOLO XVII avesse rinvenuto uno o più capi di bestiame doveva consegnarli allo stesso, con la penale di scudi 25 per ciascun capo non denunciato o non consegnato. Sol- tanto gli Assessori Camerali avrebbero potuto esercitare giurisdizione sopra il bestiame. Il Doganiere che avesse posseduto bestiame aveva facoltà, per privilegio, di poterlo far pascere in qualsiasi territorio, come se egli fosse stato il primo cittadino del luogo, secondo la Costituzione di Benedetto XIII. Aveva altresì facoltà di conceder licenza per la formazione di nuovi Bandi, e per fare eseguire la vendita dei pascoli. Erano esclusi dall’onere suindicato stabilito per ottenere licenze, tutti gli enfiteuti della R. C. A. In conseguenza di quanto sopra, nessuna Comunità o Chiesa o persona di qualsivoglia stato o titolo o condizione, poteva affittare i pascoli nelle provin- cie, terro e luoghi soggetti all’appalto della Dogana, senza averne prima ottenuta, in iscritto, licenza dal Doganiere. In caso di contravvenzione, le tenute e le bandite sarebbero’ state devolute a beneficio e proprietà della Camera Apostolica, e gli acquirenti, poi, dei pascoli sarebbero incorsi nella perdita dei bestiami ed altro di loro spettanza. I proprietari delle tenute o delle bandite. soggette alla Dogana, potevano farvi pascolare i propri bestiami, senza alcuna licenza del Doganiere. Qualsiasi contratto di affitto dei pascoli, per il quale sì fosse otte- nuta la debita licenza, doveva aver principio con la fine del mese di dicembre di ciascun anno. Il Doganiere doveva essere sempre preferito a ogni altro acqui- rente dei pascoli, per il prezzo che fosse di ragione. In caso di discrepanza doveva il prezzo stesso essere stabilito da due periti, ed ove non si fosse rag- giunto l’accordo, la questione doveva essere risoluta da un periziore eletto da Mons. Tesoriere. Seguivano norme ed altre condizioni, che disciplinavano l'appalto delle Dogane dei pascoli, e alle quali doveva dare esecuzione il nuovo Doganiere (1). Dopo il ritorno in Roma del Pontefice Pio VII, in seguito alla restaurazione del Governo Pontificio, l’agricoltura dell’Agro romano sì mantenne nel suo pri- miero stato senza cioè miglioramento alcuno. Di quei tempi v'era poca sicurezza sulle strade campestri. E non ostante i provvedimenti energici presi d’ordine del Card. Consalvi, fu necessario adottare in seguito estreme misure di rigore per il completo sterminio dei malviventi che infestavano la Campagna Romana, (1) Append. Doc, LVII, DAPITOLO XVII 395 Perchè nè la sovratassa detta di migliorazione già imposta sopra i terreni già coltivati, nè i vari premi promessi agli agricoltori che avessero esplicato la loro operosità nel coltivare le Campagne, nè tutti gli altri provvedimenti che abbiamo esaminato superiormente, giovarono allo scopo. Nell'anno 1815 l’Agro Romano venne gravato di una tassa fondiaria di soudi 73,875 — lire 397,088,12 — e l’anno dopo ebbero principio i lavori del muovo Catasto per tutto lo Stato Pontificio, secondo il Motu Proprio del giorno 6 luglio 1816. L’Agro romano fu circoscritto nella superficie di rubbia 106,910 — ettari 197,672. 44 per un valore fondiario di scudi 11,692,888. La città di Roma allora occupava una superficie di rubbia 774 — ettari 1430.66 — delle quali rubbia 467 — ettari 863.20 — costituivano le ville, i giardini, gli orti e le vigne, mentre soltanto rubbia 307 — ettari 567.45 — erano occupate da fabbricati, dalle vie e piazze pubbliche. L’esecuzione però del nuovo Catasto presentò varie difficoltà, specie per ciò che, in generale, si riferiva alle proprietò site fuori della Campagna Romana, in quanto essendo gravate dagli usi civici, le singole partite di estimo furono dovute diminuire del valore degli usi civici stessi, intestando la rata proporzionale ad ogni singolo Ente che percepisse il prodotto attivo degli usi medesimi. Il Card. Bartolomeo Pacca, Camerlengo, nel giorno 4 del mese di giugno dell'anno 1816, pubblicò un bando circa lo « Spicilegio ». Cominciava col deplo- rare come sebbene tutte le leggi divine ed umane insorgessero contro chi osasse impedire ai poveri la raccolta delle spighe di grano disperse nei campi e trala- sciate dai mietitori durante il raccolto, tuttavia pur vi fossero uomini così inumani e sordi a ogni pietà, che preferissero lasciare le stesse in pascolo degli animali anzichè concederle a sollievo dei poveri. Rammentava poscia la Costitu- zione di Benedetto XIV del giorno 17 maggio 1751, e gli ordini emanati in proposito da Clemente XIII il 17 giugno 1767, e da Pio VI il 24 aprile 1781. D’ordine del Pontefice Pio VII, comandava quindi che i poveri”non potes- sero entrare nelle tenute, nei campi e nei terreni ove si mietesse il grano, se non dopo compiuta la mietitura e dopo che fossero riuniti ed ammucchiati in- sieme i manipoli, e trasportate le cosidette Casole ai barconi, sotto pena dell’ar- resto personale e di altre pene. Ma compiuto il trasporto dei manipoli, disponeva che si lasciasse ai poveri indistintamente, libero l'ingresso senza restrizione, nè di numero, nè di qualità per la raccolta delle spighe; e ciò per il decorso di 10 giorni continui prescritti 396 CAPITOLO XVII dalla citata Costituzione Benedettina, durante i quali nessuno potesse proibire, nè impedire ai poveri lo esercizio del diritto di spicilegio, pena l'ammenda di scudi 100, ed altri castighi corporali, ad arbitrio del Card. Camerlengo. E nes- suno avrebbe potuto pretendere per tale liberalità alcun compenso. Scaduti i prefissi 10 giorni, era fatto lecito ai padroni, e a chiunque altro vi avesse diritto, d’ introdurre bestiami nei fondi. Le disposizioni del Bando dovevano essere estese per l'osservanza più rigorosa, in tutto lo Stato della Chiesa. Nei luoghi e nei paesi poi, ove già esisteva la consuetudine che i poveri seguissero i mietitori durante il lavoro, per raccogliere le spighe man mano cadenti, si disponeva che la consuetudine fosse mantenuta, allo stesso modo che precedentemente era stato deciso da una Congregazione particolare, tenuta nel 1766, al tempo del Pontifi- cato di Clemente XIII e allo stesso modo che era stato confermato da un Editto, pubblicato il 24 aprile 1781, per ordine del Pontefice Pio VI. Nel Bando stesso seguivano anche norme e disposizioni più dettagliate ten- denti ad assicurarne l’esatta osservanza e ad evitare che si potessero, o si ten tassero eludere le disposizioni emanate circa l’esercizio dell’uso civico dello « Spicilegio » (1). In seguito alla disposizione data dal Pontefice Pio VII, affinchè la tassa sul bollo fosse in avvenire applicata e amministrata dalla Camera Apostolica, il Card. Camerlengo Bartolomeo Pacca, con altro Editto del 16 giugno 1818, volle provvedere a meglio garantire la pubblica buona fede, sull’applicazione del bollo nei pesi, e nelle misure, per ogni e qualsiasi specie o materia commerciabile, e così anche per i metalli preziosi, nonchè nelle misure e nei pesi dei liquidi e solidi, che si vendevano appunto a misura o peso, così in Roma come nell’ Agro Romano. In quell’Editto ci ordinava a chiunque esercitasse un’arte 9 professione qual. siasi, e che fosse solito di vendere o comprare, in qualunque modo © forma, adoperando pesi o misure, tanto in Roma, quanto nella Campagna romana, 0 in altri luoghi, sia in pubblico che in privato, di non far uso di misure o pesi, se prima non fossero stati verificati e distinti col bollo Camerale dellà Dogana di Roma; e si aggiungeva obbligo che tuttociò fosse controllato di tempo in tempo. Anzi si stabiliva chei barili, i quartaroli e le coppelle, da vino o d’altro, (1) Raccolta delle Leggi e disposizioni, cit., Vol. IX, Append., pag. 14, POI QI E, o I n i CAPITOLO XVII 397 dovessero controllarsi nei mesi di novembre e dicembre di ogni anno, e che si tutti gli altri pesi e le altre misure, comprese le mastelle è cognatelle da olio, fossero verificati due volte all'anno, nei mesi cioè di gennaio e luglio, e sempre è dietro pagamento della determinata gabella (1). Fra gli altri provvedimenti assunti a tutela delle opere pubbliche dal Pontefice Pio VII, dobbiamo notare quello deliberato per il mantenimento di tre grandi manufatti di capitale importanza, vale a dire dei tre grandiosi acque- dotti delle acque « Vergine, Felice e Paola » di cui già facemmo menzione. Tali acquedotti avevano urgente bisogno di riparazioni, ma ne difettavano i mezzi, essendo state distratte in altri usi le somme all’uopo predisposte dai prec-denti Pontefici. | L'acquedotto dell'Acqua Vergine, un tempo, era stato conservato e mante- si nuto dalla Camera Capitolina con le rendite assegnute a tale scopo dal Ponte- | | fice Leone X. Agli altri due acquedotti, poi, si era provveduto coi frutti di tanti Luoghi di Monte, acciò destinati dai Pontefici Sisto V e Paolo V; frutti r che in seguito erano stati anco sussidiati dal prezzo ritratto dalle parziali ven- di | dite delle acque stesse. Ma con l’anda: dal tempo, causa le reiterate pubbliche n pe “ calamità, tutto era venuto a mancare. ip Ond’è che il Pontefice Pio VII, con suo Motu Proprio del giorno 2 dicem- n bre 1818 provvide a che per l’avvenire tutte le spese necessarie alla ordinaria manutenzione, ed anche alla migliore decorazione dei tre acquedotti fossero Fipartite fra tutti gli utenti, destinandovi inoltre la tassa dell'Acqua Vergine ‘allora in vigore, disponendo che il tutto fosse amministrato da Mons. Tesoriere i Generale, il quale doveva far eseguire un annuo riparto delle spese stesse, avendo egli stesso tutte le facoltà più opportune per la dovuta esazione (2). tali Crediamo qui assolutamente necessario di riassumere un ordine circolare circa le disposizioni per le masserie, bandito dal Delegato Apostolico della Pro- J vincia del Patrimonio il 12 maggio 1822. + In tale atto si premetteva come il benessere della popolazione e lo incre- n:ento del pubblico erario imponessero indeclinabilmente al Governo di facilitare, garantire e proteggere, alle masserie affidate nei pascoli della Dogana, tanto l’arrivo, qualito la permanenza ed il ritorno dalla Stanga del Patrimonio; man- | «(1) Acccolte delle Leggi e disposizioni, cit., Vol. III, Append., pag. 484, < (® Ivi, cit, Vol, IV, 546, 398, CAPITOLO XVII tenendo per esse tutti i privilegi e le esenzioni già concessi, che, dopo tutto, potevano considerarsi come un certo corrispettivo ed un tal quale compenso delle tasse che le masserie stesse pagavano. Rammentava che, mediante una serie non interrotta di Costituzioni Apostoliche, i varî Pontefici, da Gregorio XIII a Pio VI, il quale ultimo aveva emanato a tale scopo il Motu proprio del 16 set- tembre 1795, fino al Pontefice allora regnante, che vi aveva provveduto con altro Motu Proprio del 9 maggio 1804, tutti avevano sempre riconfermato quei privilegi e quelle esenzioni, a ‘favore degli affidati. Ne deduceva, pertanto, essere assolutamente necessario rimuovere ognì osta- colo al pacifico godimento di tali privilegi e di tali esenzioni, siccome era stato replicatamente ordinato da innumeri Statuti, Editti, Ordini e Bandi pubbhcati dal Camerlengato nei passati secoli; e più specialmente ne ricordava l’ultimo, del giorno 16 giugno 1816, diretto ai proprietari delle tenute e terreni ristretti col quale era stato stabilito che, durante il transito delle masserie affidate nella Dogana, fossero lasciate aperte le ser/arole, od altri ripari, che ne impedissero l'ingresso, onde le stesse masserie potessero godere del pascolo privilegiato delle 20 canne — metri 40 — adiacenti alle strade Doganali. Nell'articolo III prescrive- vasi a qualsiasi persona, e più »espressamente ai:guardiani delle tenute e dei terreni, per i quali avrebbero dovuto passare le masserie degli affidati, che non ardissero di estorcere la menoma somma di denaro, nè di ricevere dai pecorai delle stesse masserie, agnelli, capretti, formaggio o qualsiasi altra cosa, non . tollerando ogni e qualunque abuso contrario, compreso quello della cosidetta « cortesia ». Veniva ordinato altresì a tutte le autorità dei singoli luoghi di tutelare tali replicate prescrizioni, rimuovendo qualsiasi impedimento, ed anche eseguendo l’ar- resto personale dei contravventori, facendone poi analoga relazione, giusta l’art. 11 del citato Editto, mentre sarebbe stata bastevole prova la sola deposizione e il solo giuramento degli stessi affidati, o dei loro pastori. Su di ciò, anzi, le pre- scrizioni erano anche più severe, in quanto risultasse da continui reclami, che i proprietari o i guardiani non ubbidissero alle emanate disposizioni, usando tal- volta, nell’opporvisi, perfino la violenza, e deploravasi anche che in alcuni casi, ai giusti lamenti degli affidati, i Governatori e le altre autorità locali, avessero risposto, approvando, piuttosto che punendo, }’operato dei trasgressori. Il Delegato Apostolico considerava quindi che il danno arrecato alle mas- serie affidate, col vietar loro il pascolo necessario lungo la zona delle venti canne POLI] e ale cs seni a H Bee [= CAPITOLO XVII 399 sulle vie Doganali, concesso per privilegio e provocato dall’assoluta necessità delle cose, fosse tale da produrre oltrechè pubblici disordini, anche l’allontana- mento delle masserie dai pascoli della Dogana. Laonde richiamava tutte le autorità all'osservanza esatta e precisa di quanto era stato prescritto; e per meglio tutelarn» la esscuzione, disponeva che tutte le brigate dei carabinieri, coadiuvate dalle guardie campestri, durante il transito delle masserie affidate, il quale soleva avvenire, come tuttora, dal giorno 15 maggio al 24 giugno, e dal 15 ottobre al 15 novembre, o poco più oltre, dovessero dar mano a proteggere e persone e bestiami dalle violenze e dalle angarie (1). Ma un triste fato incombeva sulla benefica istituzione della Dogana e dei Pascoli, poichè, fin dagli ultimi anni del Pontificato di Pio VII, non soltanto i proprietari delle tenute, ma gli stessi Comuni non cessavano più dallo insistere presso il Pontefice per l’abolizione completa dell'Istituto. Nelle nostre continue e laboriose ricerche in proposito, rinvenimmo una let. | tera, com firma autografa del Card. Ercole Consalvi, in data del 27 luglio 1823, diretta a Mona. Nicola M. Nicolai, segret. della Congregazione Economica, con cui il Card. Segretario di Stato avverte Monsignore, che atteso lo stato di salute del Pontefice, riteneva opportuno di rinviare l'adunanza, indetta per la seguente sera del 28 luglio, allo scopo di deliberare sulla abolizione dei pascoli (2). Il Pontefice Pio VII morì infatti il 20 agosto successivo, nel suo ottantu- nesimo anno di età, e dopo 23 anni di Pontificato; termine raggiunto sol- tanto da due suoi predecessori, Silvestro I — ann. 314-336 — ed Adriano I — ann. 772-795 —. Non appena innalzato al Pontificato il Card. della Genga da Spoleto, che - ebbe assunto il nome di Leone XII, il Senatore di Roma presentò al Pontefice un istanza firmata da 12 Nobili Romani, che domandavano la completa aboli- zione dei pascoli. Leone XII emise nello stesso anno il suo rescritto a Mons. Se- gretario della Congregazione Economica, ordinando che fra due mesi al più tardi, proponesse la causa nella Congregazione medesima « Zeo PP. XII » (3). E così, purtroppo dopo secoli di esistenza, inal veduto e combattuto da tutti ——_____-—— (1) Append. Doe. LVIIT. (2) Arch. del Buon Governo. Cong. Feon. Pascoli. (3) Giorn. del Pont. Istit. Statistico Agrario d'incoragg., ann. 1847, fasce. 2 e 5, pag. 108, 181. 400 CAPITOLO XVII coloro, che ad altro non miravano che al loro privato interesse, cadde e fu abo- lito per sempre l istituto delle Dogane per la fida e per i pascoli! E noi, che ne seguimmo con tanto amore e tanto studio le vicende, e che avremmo voluto almeno, se non persuaderci, essere edotti degli argomenti, dei motivi e delle ra- gioni con cui sì fosse tentato di giustificare la misura radicale dell’abolizione, dobbiamo confessare che indarno rovistammo pazientemente tra le polverose buste cartacee dell’ Archivio del Buon Governo, e inutilmente facemmo pazienti ricerche nell'Archivio di Stato in Roma, per rinvenire una qualche Relazione motivata intorno a tale ingrato provvedimento. Purtroppo dovemmo desistere disillusi ! l Ci risultò soltanto un Editto a stampa, pubblicato dal Card. Giulio Maria della Somaglia, Decano del Sacro Collegio e Cancelliere di Santa Chiesa, il giorno 4 ottobre 1823. Il Card. della Somaglia vi premetteva, come il Pontefice Leone XII, testè innalzato al Soglio Pontificio, volgendo l’animo al maggior benessere dei suoi sudditi, avesse subito rilevato la gravezza delle tasse pubbliche, e la neces- sità quindi di procedere alla diminuzione di talune imposte ed anche all’aboli- zione di talune altre, proponendosi di supplire ai minori proventi nei riguardi del pubblico erario con la massima economia nelle pubbliche spese. E soggiungeva, come, pertanto il Pontefice avesse ordinato di fare le seguenti riduzioni delle pubbliche imposte: Che il contributo necessario per le spese del censimento pubblico, fosse ri- . dotto in tutte le Provincie ad un solo ventesimo, ossia di della metà. Che il diritto di privativa per la fabbricazione delle polveri e del nitro fosse abolito. i Che fossero abolite le Dogane per la fida e dei pascoli, e di conseguenza anche le tasse che se ne esigevano, come correspettivo. Che chiunque fosse fornito di licenza per ispacciare in sale, avesse potuto prelevarlo ovunque avesse creduto opportuno, mentre prima era obbligatorio di farlo presso le Delegazioni dello Stato in Ancona, Macerata, Fermo, Ascoli e Camerino. Che il dazio forense venisse diminuito di un sesto. Che la tassa per il restauro e il mantenimento delle strade della città di Roma fosse ridotta a baj. 20, per ogni 100 scudi d’estimo. Che fosse abolita la tassa delle vetture, dei carri e dei cavalli, eccetto quella dei veicoli e cocchi di lusso. E finalmente che le disposizioni sopradette doves- Cotti nm a OAPITOLO XVII 401 sero aver vigore ed esecuzione dal 1° di gennaio «dell'anno 1824, tranne quelle riferibili ai cavalli ed ai carri, le quali dovevano avere effetto immediato (1). Questo Editto però non mancò di suscitar dubbi e discussioni intorno alla esecuzione di quanto era stato ordinato, a proposito dell’abolizione della fida dei bestiami e cella. corrispondente tassa. Onde il Card. Camerlengo Bartolomeo Pacca. con una sua Notificazione, pubblicata il 17 dicembre dello stesso anno 1823, volle esplicare gli ordini sovrini, formulando un regolamento che offrisse norme sicure circa l'applicazione delle emanate disposizioni. Comandò quindi che tutti ì proprietari continuassero a dare le assegne rispettive dei propri bestiami, con che però fossero obbligati a pagare la fida, soltanto per il mese di dicembre, e non oltre in quanto la tassa dovesse cessare nel giorno 1° gennaio dell’anno 1824. E ciò, senza pregiudizio degli atti giudiziali, iniziati v da iniziarsi, contro coloro che avessero mancato di dare le dovute assegne o che le avessero ritardate. Tutti poi erano obbligati a pagare la tassa stessa entro i mesi di gennaio e di febbraio dell’anno sopradetto; decorso il qual termine, gli appaltatori della Camera erano autorizzati a procedere d’ufficio come nel passato, ed a forma dei privilegi che godevano per la pronta esazione dei loro crediti. Durante il periodo suddetto, gli appaltatori potevano procedere a qualsiasi verifica delle assegne date. Do- veva essere conservato, in avvenire e per sempre, ai proprietari delle masserie, e ai pastori addettivi, il diritto di far pascere i loro bestiami per la estensione di canne 20, nei terreni adiacenti alle strade, cosidette doganali, purchè quei terreni non fossero seminati, o ridotti a miglior coltura; e tale diritto sussistesse tanto nell’andata, quanto nel ritorno dalle montagne, come durante il recarsi da un luogo all’altro, secondo l’occorrenza dei pascoli necessari e sempre col diritto di trattenersi nei singoli terreni soltanto due giorni. Era vietato ai proprietari dei fondi adiacenti alle strade medesime di opporre alcuno ostacolo all'esercizio dell’uso di pascolo, e anzi erano obbligati a tenere aperti anco i cancelli o le scalarole delle staccionate, che recingessero i singoli fondi. I proprietari o pastori dei bestiami dovevano essere esenti da qualsiasi pena per i danni arrecati dai loro animali durante il transito sulle strade Doganali, e ciò tanto nell’andare, quanto nel ritornare dalle montagne, o nel cambiare il pascolo da un luogo all’altro. Nel solo caso di danni studiosi, arrecati alle vigne, ai seminati e ad altre coltivazioni, alla rifazione del danno sarebbe stata aggiunta la pena comminata (1) Arcù. Vatie., Bolle e Bandi, S.vie ILL, ann. 1823, Append, Doe, LIX. 20 402 CAPITOLO XVII dalle leggi. Se, per causa di danni procurati, si fosse proceduto dll’arresto per- sonale dei dauneggiatori, ovvero al sequestro del bestiame. le persone ed il be- stiame stesso dovevano essere rilasciati in libertà, appena venisse esibita una cauzione, che garantisse la parte danneggiata. I proprietarî ed i pastori dei be- stiami erano esonerati dallo eseguire qualsiasi pagamento di tassa o di regalìa, chiunque ne fosse il richiedente; poichè il transito e il iovimenta delle masserie doveva essere assolutamente libero e facoltativo lungo le strade Doganali. Ogni questione civile o criminale doveva essere di esclusiva competenza ed attribuzione degli Assessori Camerali, dei Governatori o dei Vice-Governatori, sempre nei limiti delle respettive facoltà. Non ostante la decretata abolizione della Dogana, della fida e della tassa relativa, restavano sempre in vigore, ed anzi s’intendevano confermati nella loro piena efficacia tutti i regolamenti della Finanza e della Dogana di confine, in ordine allo accesso ed al regresso delle masserie e dei bestiami nello Stato, come ancora tutte le prescrizioni sanitarie stabilite dall’Editto del giorno 7 giu- gno 1817 (1). A completare lo studio di quanto si riferisce alla legislazione agraria vi- gente nello Stato pontificio, gioverà anche di riportare un sunto dell’Editto pub- blicato dal Card. Pier Francesco Galleffi, Camerlengo della S. R. C., il giorno 10 luglio 1826, per ciò che riguardava lo esercizio della caccia. Il Card. Camer- lengo dopo avere in esso rilevato come fosse già diminuita ognè specie di qua- drupedìi e di voletili nelle campagne, per i modi irrazionali e distruttivi che si usavano nel cacciare, e come anche il dilettevole ed industre esercizio della caccia di frequente desse occasione a litigi e risse, dichiarava che il Pontefice Leone XII aveva disposto che, d’ora innanzi fossero regolate con opportuni prov- vedimenti, tutte le caccie nello Stato. E lo stesso Card. Camerlengo appunto per ordine espresso di T.eone XII, pubblicò un regolamento generale, che doveva essere osservato da tutti. Ù L'esercizio della caccia, così dei quadrupedì che dei volatili, era permesso nello Stato pontificio, ma sempre però nei tempi, luoghi e modi prescritti nel detto regolamento. Dal 1° marzo al 1° agosto di ciascun anno era vietata la caccia; tranne quella degli uccelli di palude, i quali non nidificano nello Stato. (1) Append. Doc. LX. CAPITOLO XVII 403 Dal 1° dicembre di ogni anno, sino all'arrivo delle quaglie nelle regioni sog gette allo Stato, era proibita la caccia delle stesse; ed anzi, all'epoca del loro arrivo, la caccia doveva essere esercitata soltanto lungo la spiaggia del mare. Nei tempi sopra indicati, era assolutamente proibita la vendita e la com- pera della cacciagione di qualsiasi specie, salvo quella degli uccelli di palude, e delle quaglie nell'epoca dell’arrivo. Era poi assolutamente vietato in ogni tempo di danneggiare i nidi, le cove e le nova, o di uccidere i piccoli nati di qualsiasi animale quadrupede o volatile. Nella stagione invernile, quando fosse caduta la neve, era vietato di cacciare lepri, caprioli, starne, pernici ed altri volatili e quadrupedì. Nessuno poteva mai appropriarsi, uccidere colombi domestici, od allevati in .colombaie in campagna, o che comunque fossero di proprietà privata. Per ordine espresso e speciale dlel Pontefice, fu prescritto a quei proprietari che avessero voleto costituire la caccia riservata nei loro fondi di ottemperare all’articolo 150 del Motu Proprio, emanato dallo stesso Pontefice Leone XII, il giorno 5 ottobre dell'anno 1824, con cui stabilivasi che le siepi, le staccionate ed ogni altro riparo dovessero essere costruiti in modo da impedire realmente ed efficacemente l’ingresso nei fondi, non soltanto ai bestiami, ma anco alle persone. Chiunque avesse voluto costituire la « Caccia riserva » avrebbe dovuto farne domanda diretta al Card. Camerlengo, e se nelle Legazioni ugualmente per il tramite dei Card. Legati, e dei I'relati delegati. Avutone ii permesso l’istante era obbligato a porre tabelle fisse, alla distanza di 109 passi l’una dall’altra, con la scritta a grandi caratteri — Riserva —. Nessuno avrebbe potuto entrare . in detti recinti con il pretesto di cacciarvi. Neguivano poi tutte le norme che regolavano le caccie sia con le reti, sia col fucile; e tutto era disciplinato da disposizioni minute e dettagliate, come lo studioso potrà meglio rilevare dal do- cumento che riportiamo nell’Appendice (1). Anche un altro documento, crediamo utile di esaminare per la conoscenza esatta della Campagna romana e delle consuetudini che vi si conservavano. A conseguire l’utilissimo scopo che cioè l’Agro romano fosse nuovamente abitato, e di conserva meglio coltivato, vari Pontefici vollero dichiarare alcuni luoghi (1) Append. Doc. LXI, 404 CAPITOLO XVII « immuni », nel senso che potessero servir quasi di rifugio, a tutti coloro, che avendo commesso reati lievi, avrebbero dovuto soggiacere alle pene sancite dalle leggi. Per tal modo, pur restando soggetti alla giurisdizione delle Congre- gazioni locali, essi certamente sfuggivano a pene più gravi. Nelle nostre ricerche potemmo rinvenire documenti che ci confermano quanto sopra, ma che si rife- riscono soltanto ai due tenimenti di Conca. ed a quello confinante di lampo morto. Infatti una lettera apostolica, in forma di Breve, spedita dal Pontefice Leone XII, ai 15 di settembre dell’anno 1826, riferisce come già fin dall’anno 1566, S. Pio V, con una sua Bolla del giorno % aprile, avesse provveduto che la tenuta denominata Conca, venisse separata dai beni della Camera Apostolica, ed assegnata alla Congregazione della Inquisizione Suprema, detta del S. Uffizio — con che tutte le rendite di quel tenimento fossero destinate alle spese dello stesso S. Uffizio, le quali erano prima sostenuta dal pubblico Erario. Così la Congregazione della Inquisizione Suprema, fu investita non solo del possesso del citato tenimento, ma altresì di tutti i privilegi e diritti fiscali che già s'appartenevano alla Camera Apostolica. Di guisa che anche le persone addette a quella proprietà seguitarono ad usufruire degli stessi diritti e privi- legi, dappoichè, per la donazione fattane al S. Uffizio, non cessò quella tenuta di essere sotto il dominio della S. Sede, come appunto viene dichiarato nella Bolla sopracitata, e come Benedetto XIV confermò nell’ altra pubblicata l’anno 1745, la quale comincia con le parole: « Ad supremum justitiae solium » Ond’è che la Congregazione Suprema non pretermise mai di esercitare la sua giurisdizione, nei giudizi civili e criminali, sia sulla tenuta, sia sugli opifici delle Ferriere, che da molto tempo vi esistevano. nonchè sugli operai e sulle famiglie che abitavano in quei luoghi. Ciò risulta da vari decreti, e particolarmente da quello di Clemente VIII del giorno 4 maggio 1595, nonchè dall’altro della Suprema Congregazione, in data 10 giugno dell’anno stesso. Dai quali atti ri- sulta che la giurisdizione era esercitata sempre dal S. Uffizio, e come nessuno altro magistrato si fosse mai ingerito dei giudizi, contro i colpevoli anche di gravissimi delitti. Tuttavia siccome il Pontefice Pio VII, con un suo Motu Proprio del 6 luglio 1816, aveva decretato, che tutti i diritti di simile natura e privilegio, fossero abrogati e dichiarati nulli nell’intero Stato, ed era sorto il dubbio, se anche il tenimento di Conca, dovesse intendersi compreso in tale provvedimento, così il Pontefice Leone XII, con la sua lettera apostolica sopra. citata, deliberò di restituire alla Congregazione Suprema quei privilegi, dei quali CAPITOLO XVIT 406 era stata già in possesso per la tenuta di Conca. Giudicò quindi, che tale deli. berazione sarebbe stata utile allo Stato, in quanto la esperienza aveva dimo- strato che, ove si abolissero simili asili d'immunità, coloro che avevano prima commesso reati lievi, e volevano sottrarsi alla giustizia, non trovando facilmente scampo altrove, si rifugiavano in quel tenimento, e non trascorrevano poi a delitti più gravi. E considerando quindi, che la Inquisizione Suprema, fin dal secolo xvi, aveva sempre esercitato la propria giurisdizione nella sopraddetta tenuta, e che i delinquenti ivi ricoveratisi si avessero goduto il diritto di asilo, ravvisava essere cosa non solo utile, ma eziandio conveniente, che la tenuta denominata Conca venisse restituita a tutti i primitivi diritti e privilegi, sia ancora d’immunità © di asilo, e confermava tutto quanto già esisteva, non ostante la disposizione del predecessore Pio VII (1). Nello stesso giorno 15 settembre dell’anno 1826, Papa Leone XII, volle anche riconfermare con sua lettera apostolica, in forma di Breve, a favore del Capitolo Vaticano, la giurisdizione che i Canonici godevano nel fenimento di Campo morto. Quella tenuta, un tempo chiamossi « Castello di S. Pietro in formis », forse dalle numerose « forme » di scolo, che tuttora esistono e fun- zionano nella parte valliva di quel tenimento. Il Capitolo Vaticano godeva in questo luogo pieno diritto giurisdizionale, tanto civile quanto criminale. Chiunque avesse temuto per la sua libertà personale, in seguito allo aver commesso un delitto, trovava un sicuro rifugio a Campo morto. Tale diritto d’immunità, con- servato da lunghi anni, era vantaggioso anche ai Canonici, pvichè non ostante la insalubrità dell’aria, riuscivano così a procacciarsi i coltivatori sufficienti per la tenuta, senza che ne avvenisse alcun danno alla pubblica sicurezza, restando sempre in facoltà del Capitolo di far mettere in prigione i rei, qualora si fossero resi indegni del beneficio dell’asilo. Anche il Pontefice Benedetto XIV, fra gli altri privilegi, confermò con la sua Bolla « Ad hRonorandam », pubblicata il 27 aprile 1752, al Capitolo stesso, il privilegio di esercitare la propria giurisdi- zione in quel tenimento, ed in conseguenza i Canonici, secondo il permesso loro concesso in detta Bolla nominarono sempre il Governatore di quel luogo; quale Governatore però risiedeva a Velletri, attesa la malaria che dominava a Campo morto, e weniva retribuito sempre di un onorario annuale. (1) Arch. Vatic., Bolle e Bandi. Serie ITI, anno 1826. 406 CAPITOLO XVII E poichè, per il Motu Proprio Piano, superiormente menzionato, anche per quella tenuta era stata abolita la giurisdizione civile, il Pontefice Leone, volendo addimostrare la sua benevolenza e predilezione al Capitolo della Basilica Vati- cana, riconosciutene le speciali benemerenze verso la Chiesa, volle con sue lettere apostoliche riconfermare il suespresso privilegio, munendolo di forme amplissime per l'esercizio della giurisdizione nel tenimento di Campo morto; e, col consenso del Vescovo perpetuo, Governatore di Ostia e Velletri, accordò al Capitolo il permesso di potersi servire in avvenire delle pubbliche carceri di Velletri, af- finchè i detenuti fossero quivi custoditi ad arbitrio del Governatore di Campo morto. come già era in uso nei tempi passati (1). Nè in quel tempo fu omesso di provvedere all’avvenire della pubblica An- nona, poichè il Prefetto Mons. Domenico de Simone, con una sua Notificazione, pubblicata il giorno 15 decembre 1826, ordinò a tutti i proprietarî delle tenute dell'Agro romano, di fare la denuncia dei cambiamenti avvenuti nelle loro pro- prietà, ed ai coltivatori di dare l’assegna dei terreni coltivati, o lasciati incolti. Anzi non avendo avuto mai esecuzione l’Editto bandito il 29 gennuio 1783, la Deputazione annonaria ordinò, che qualsiasi proprietario di alcuna delle tenute dell'Agro romano, o di qualsiasi porzione delle stesse, dovesse esibire all’ufficio dell’ Annona (2) una dichiarazione scritta, contenente la distinta della estensione della tenuta, o della parte posseduta, e vi si dovesse specificare se era coltivata in economia, ovvero in società, oppure fosse condotta col sistema della colonia parziaria, indicando all'uopo i nomi delle persone interessate nella conduzione del fondo. In caso di concessione enfiteutica, doveva essere indicato il nome dell’enfi- teuta. Se poi l’enfiteusi fosse stata ceduta, ovvero se la tenuta fosse stata data in subaffitto, doveva sempre essere dichiarato il nome dell’attuale conduttore. Chiunque avesse mancato di esibire tale prescritta dichiarazione, decorso il termine di un mese, sarebbe incorso nella penalità di scudi dieci, e si aggiun- gevano poi altre disposizioni, contro la mancata esecuzione della denuncia (3). Nell’anno 1828 un tal Lillard, quale rappresentante di banchieri francesi, | sottopose all'esame del Pontefice Leone XII un progetto per il bonificamento (1) Arch. Vatie., Bolle e Bandi. Serie III, anno 1826. (2) In quel tempo l’Ufficio annonario era sito nel palazzo in via dell'Anima, n. 10. (3) Raccolta delle leggi e disposizioni di Pubblica amministrazione dello. Stato Pons tific'o, vol, II, 234, CAPITOLO XVII 407 e per la ripopolazione colonica della Campagna romana. Domandava cioè l’an- torizzazione di poter concludere una enfiteusi della durata di un secolo e mezzo su tutte le proprietà ecclesiastiche e dei luoghi pii, per modo che i contadini potessero avere domicilio stabile nella Campagna romana. La Società avrebbe compiuto tutti i lavori necessari al bonificamento delle tenute, fondandovi co- lonie miste d’italiani e di stranieri insieme. Il Pontefice volle che tale progetto fosse esaminato da una Commissione di Cardinali, la quale dopo mature riflessioni, giudicando impossibile l'adempimento degl’impegni, che avrebbe assunto la Società, specialmente in considerazione dei mezzi incalcolabili necessarî della grandiosa impresa, non credette oppor- tuna la concessione enfiteutica richiesta per centocinquanta anni. Onde nel- l’ultima adunanza della stessa Commissione, avvenuta la sera del 30 gennaio dell'anno suddetto, il progetto di cui sopra fu respinto alla unanimità. Di quel tempo stesso certo Bufalini Giuseppe presentò al Pontefice una relazione diretta a fondare un’istituto agrario, che accogliesse ed educasse i fanciulli poveri, gli orfani ed esposti. All’uopo chiese che gli fosse concesso in enfiteusi il tenimento di S. Severa, sulla via Aurelia, a 50 km. da Roma, della superficie di Ett. 4454, e di proprietà dell’ospedale di S. Spirito in Sassia. Erane allora affittuario un tal Calabrini, che, da lunghi anni era amico personale di Leone XII. Il Pontefice in seguito alle raccomandazioni avute, accolse favorevolmente i! progetto, e lo propose all'esame della Commissione amministratrice degli ospedali. Ma quel consesso respinse la proposta ritenendola rischiosa, specialmente per la parte finanziaria, in quanto che il Bufalini avesse offerto un canone inferiore a quello dell’affitto in corso, forse non avendo tenuto conto dell'ammontare delle tasse, che, secondo il disposto della legge, dovevano restare a carico dell’enfiteuta. Tuttavia il Pontefice avrebbe desiderato somma- mente, che l’affare fosse stato conciliato, e, probabilmente ciò sarebbe anche avvenuto, se la morte non avesse colto il Pontefice ai 10 di febbraio del- l’anno 1829. A meglio tutelare la conservazione dei bestiami, ed in particolare quella degli ovini, per le perdite avvenute in seguito alle frequenti invasioni dei lupi, fu necessaria la costituzione di un fondo speciale per pagare i premi stabiliti a favore degli uccisori dei lupi stessi. Fu decretato quindi, che per quanto si riferiva all’Agro romano, le somme necessario venissero costituite, come già nel passato, col pagamento cioè di un centesimo di aumento sulla Dativa reale, 408 CAPITOLO XVII gravante i fondi rustici, con facoltà ai proprietarî, del diritto di rivalsa verso i rispettivi affittuari. La sopratassa anzidetta doveva essere imposta nel primo anno, e non doveva essere replicata se non quando i fondi raccolti allo scopo fossero stati esauriti (1). Ad incoraggiare una miglior cultura delle terre, il Tesoriere generale Mons. Mario Mattei, con una sua Notificazione del 4 agosto 1830, bandì un premio di lire 0. 53 per ogni pianta d’ulivo, che fosse stata immessa in qualsiasi luogo o podere dello Stato Pontificio, e fissò parimenti un premio di lire 0. 40 per ogni pianta di gelso; avvertendo che simile disposizione avrebbe avuto suo pieno vigore a tutto l’anno 1840 (2). I proprietarî delle tenute e dei fondi corrisposero a siffatto benefico inco- raggiamento, e, nel decennio 1830-1840, furono piantati 308,555 ulivi, e 205,283 gelsi, ed i premi elargiti dallo Stato raggiunsero la somma di scudi 46,283, lire 248,771. 12. Il Presidente dell’Annona e della Grascia, con una Notificazione bandita il 6 gennaio 1832, volle rinnovare gli ordini già emanati altre volte, coi quali i proprietari delle tenute nell’Agro romano, erano obbligati di notificare i cam- biamenti di proprietà, avvenuti nel corso dell’anno, e i conduttori delle tenute stesse dovevano dare l’assegna di tutti i terreni coltivati o lasciati incolti. Si ripetevano le prescrizioni già fatte nella Notificazione del 15 dicembre 1826 dal Prefetto dell’ Annona, con ingiunzione di ottemperare a quanto si ordinava, prima del termine del mese di gennaio. Le assegne dei terreni coltivati a granturco o legumi diversi, da seminarsi in primavera, dovevano essere esibite prima della fine del mese di maggio. La semina dei così detti secondi granturchi, doveva essere denunciata non più tardi del mese di agosto. La coltivazione del riso doveva essere assegnata nel mese di giugno. Le singole dichiarazioni dovevano essere esibite in iscritto e firmate da chi ne avesse la facoltà. | L’ufficio dell’Annona, per provvedere anche alla incolumità del bestiame pascolante nell’Agro romano, prescriveva a tutti i proprietarî, enfiteuti, affittuarî (1) Raccolta, citata, vol. VI. 475. (2) Edittodel Tesoriere generale, 4 agosto 1830. CAPITOLO XVII 409 o subaffittuarî delle tenute, di dichiarare altresì la specie delle mandrie dei bestiami che pascolavano nelle rispettive tenute, con indicazione precisa dei proprietari degli stessi, nonchè del quarto o dei quarti delle tenute stesse, de- stinati a pascolo per gli animali. Nel caso d’inobbedienza il contravventore sarebbe stato condannato al triplo della spesa, che la Presidenza dell’Annona avesse dovuto fare per la necessaria verifica (1). Dopo l’alluvione dell'Aniene, avvenuta in quel di Tivoli, ai 16 novembre 1826, il Pontefice Leone XII, aveva fatto erigere un monumentale muraglione, col quale, sarebbe stato anche mantenuto il corso delle fonti, e conservato il sin- golare spettacolo delle famose cadute delle acque; ma le gravi difficoltà incon- trate per innalzare le acque dall’antico livello non rassicuravano ancora da nuovi eventuali danni nel caso di affluenza soverchia delle acque stesse. Infatti, secondo il parere di una Commissione speciale, emesso fin dal. l’anno 1829, non poteva considerarsi scongiurato del tutto un fortuito sinistro stante la poca solidità della roccia costituente le sponde del fiume e l’abbassa- mento dell’alveo avvenutone in brevi anni. Di più anche il pilone di sostegno, eretto per consolidamento della grotta di Nettuno e del Monte Catilio, faceva seriamente dubitare della sua solidità, e dava adito a temere che potesse rin- novarsi il disastro dell’anno 1826. A scongiurare un probabile pericolo, il Pontefice Gregorio XVI, con un suo Chirografo, del 9 giugno 1832, diretto al Card. Prefetto della Congreg. delle acque, delle Chiane e Paludi Pontine, comandò che fosse eseguito il progetto della Commissione speciale, circa la diversione del fiume Aniene dal corso e dalla cascata, che aveva in quell'epoca, e che lo stesso corso fosse rivolto a destra sotto il Monte Catillo, sulla vigna Lolli, a metri 51 sopra il diversivo della stipa, ove fosse escavato un alveo sotterraneo, nelle viscere del detto Monte Catillo, per la lunghezza di metri 294, a due cunicoli, ciascuno dei quali avesse nell'imbocco — posto col ciglio all'altezza della chiusa d’allora — la larghezza di metri 10, la cui sezione fosse costituita da un rettangolo alto due metri, sormontato da un arco gotico, formato da due archi circolari del raggio di metri 11. 50. Così per mezzo di un largo e declive sbocco, il fiume avrebbe de- corso sull’opposto fianco del monte verso la strada di Quintiliolo, donde avrebbe poi formato la caduta nell’alveo inferiore, al di là della Grotta della Sirena. (1) Raccolta, citata, vol, II, 41, 410 CAPITOLO XVII La spesa complessiva venne calcolata a scudi 48,000 — lire 258,000 — che fu ripartita per cinque decimi a carico di tutti i possidenti dello Stato, per due decimi del Comune di Tivoli, e per i residuali tre decimi a carico del pubblico Erario (1). Una Notificazione del Tesoriere generale Antonio Tosti, pubblicata il giorno 20 febbraio 1834, partecipava agli agricoltori, come venisse accordato il per- messo di coltivare il tabacco in. aleuni determinati territori dello Stato, sotto le norme di un regolamento composta di 14 articoli, a tutela delle finanze dello Stato. Seguiva una nota dei territori e delle quantità di rubbia di terreno e del numero delle piante, assegnata a ciascun distretto. Roma e l’Agro romano, Frascati e Grotta Ferrata vi figuravano per un rubbio di terreno, con 32,000 piante di tabacco (2). Lo stesso pro-Tesoriere generale, con altra sua Notificazione, bandita il 14 marzo dell’anno stesso, prescrisse le norme da osservarsi dai proprietarî dei boschi cedui soggetti alla Presidenza delle Ripe, nonchè degli assuatori dei tagli degli stessi boschi, che erano obbligati a dare l’assegna delle qualità della superficie, e delle condizioni varie dei boschi medesimi. Anzi a disciplinare ancora più la esecuzione e la gestione dei tagli delle macchie, lo stesso pro-Te- soriere pubblicò un’altra sua Notificazione, il 10 maggio 1834. nella quale fu ordinato che qualunque proprietario di boschi sottoposti al regime, e alla di- pendenza della Presidenza delle Ripe, non potesse estirpare le macchie, cesarle, cioccarle e coltivarle, riducendo il prodotto della legna a fascina o carbone, senza aver prima ottenuto licenza in scritto dalla detta Presidenza. Qualsiasi taglio doveva essere eseguito quando la legna da ricavarsene non avesse supe- rato 10 anni di età, c dovesse essere iniziato il taglio per la metà del mese di novembre, ed ultimato per il giorno 15 del mese successivo; in caso di man- canza, il prodotto della legna era devoluto alla Presidenza delle Ripe, che ne poteva disporre secondo la legge. La legna da « passo » doveva essere recisa nelle dimensioni e nei modi prescritti dal regolamento del giorno 28 aprile 1807, e la riunione ed « impas- satura » dovevano essere eseguite, secondo le norme. Anche il taglio della legna (1) Raccolta, citata, vol. IV, 77. (:) Raccolta, citata, vol, I, 265, CAPITOLO XVII 411 da ridursi a carbone, quanto quella della fascina ed altro, doveva essere com- piuto colle regole stabilite. I proprietarî dei boschi erano obbligati a riguardarli dal pascolo del be- stiame dopo eseguito il taglio; non vi era permessa l'introduzione del bestiame vaccino 0 caprino per tre anni consecutivi, e per il bestiame cavallino poi dovevano essere osservati i regolamenti in vigore (1). A] provvedimento sopraccennato seguì, il 10 . novembre dello stesso anno, un Motu Proprio del Pontefice Gregorio XVI, d'ordine legislativo e giudiziario. In esso all'art. II, il Papa richiamò i sudditi alla esatta osservanza di tutti gli statuti locali, e delle consuetudini negli affari agricoli. Volle mantenuto l’e- sonero dalle tasse sui vigneti, e quello sui fondi coltivati intensivamente nella Campagna romana, e prescrisse che si continuassero a premiare tutti coloro che eseguissero piantagioni di ulivi, di alberi da frutto qualsiasi, e di piante per legnami atti a lavoro (2). Un reclamo fatto pervenire al Pontefice dai fabbricanti di panni di lana in Roma, il 10 marzo 1835, deplorava che nella fabbrica di panni di G. B. Gu- glielmi si facesse uso di macchine, e il Presidente della Camera di Commercio replicò, asserendo come la deficienza del lavoro procedesse dalla soprabbondante introduzione dei panni esteri, assai facilitata dal ribasso del dazio, stabilito dalla Tariffa del 16 febbraio 1831. Difatti sotto il Pontificato di Pio VIII, e nei primi anpi di quello di Leone XII, allorchè, cioè, le manifatture romane erano protette, da un dazio equamente proporzionato, e venivano incoraggiate da continui premi, esistevano più fabbricanti e più macchine che non ve ne fossero nell’anno 1835, ed era certo che allora vivessero coll’industria lanifica ben dodici- mila lanaioli, mentre al contrario in quell’anno 1835 appena duemila erano dedicati alla medesima industria (3). Fin dalla prima metà del secolo xrx intanto avevano incominciato a sorgere dubbî e discussioni sulla circoscrizione territoriale dell'Agro romano, che veni- vano risoluti con provvedimenti precari, rinviandone sempre la soluzione normale ad una decisione definitiva. fica. (1) Raccolta, citata, vol. I, 881. (2) Tomasserti Gius. Za Campagna romana, I, 238. (3) Arch. del Buon Governo, Vaticano. Relazione del Presidente della Camera di Commercio di Roma G. B. Coaovo, diretta al Card. Galetti, Camerlengo. Prot, u, 90527, i 412 CAPITOLO XVII Un ordine circolare di mons. A. Tosti tesoriere generale, promulgato il giorno 9 maggio dell’anno 1838, ricordava che la periferia dell’Agro romano, per quanto sì riferiva all’Annona di Romaed alla riscossione dei dazi, fu sempre considerata tal quale trovasi designata nella pianta di G. B. Cingolani dell’anno 1704, adot- tata colle opportune correzioni introdottevi in seguito al Catasto annonario, com- pilato per ordine del Pont. Pio VI, ed approvato con Motu Proprio del giorno 25 gennaio 1783, come già a suo luogo riferimmo. In seguito però a riparti ter- ritoriali indicati nel Motu Proprio del Pont. Leone XII del giorno 21 dicembre 1827, alcuni contribuenti avevano pagato il dazio macinato ad appaltatori diversi che non a quello dell’Agro romano: onde erano sorte contestazioni. Ad evitare ulte- riori inconvenienti, il Tesoriere gen. prescrisse che tutti i proprietari affittuari, coloni ed abitanti nelle tenute comprese nella indicata pianta del Cingolani, ri- formata dal catasto sopraddetto dovessero considerarsi soggetti al dazio del ma- cinato vigente per l’Agro romano, e che perciò dovessero pagare l’importo del suddetto all’appaltatore camerale. Però si faceva eccezione, per tratto di speciale condiscendenza, fino a tutto l’anno 1840, a favor di coloro che fossero proprietarî, affittuarî, coloni od abi- tanti delle tenute e terre di Palo, Ceri, Santa Severa, Santa Marinella, Sasso e Villa del Sasso, Cerveteri, Spanoro e Terra di Liti; i quali tutti sopraddetti avrebbero dovuto pagare il dazio macinato all’appaltatore per la Comarca e Delegazioni di Viterbo e Civitavecchia. Trascorso l’anno 1840, tutti avrebbero dovuto indistintamente pagare il dazio all’appaltatore di Roma e dell'Agro romano (1). Giova qui esaminare il riassunto del segnente documento, che vale ad illu- strare sempre più la topografia di una zona della Campagna romana; zona che anticamente fu certo la più: popolata nei dintorni di Roma. Una disposizione emanata dalla Segreteria di Stato ai 16 di marzo del- l’anno 1832, riuniva in un solo territorio Ostia, Porto e Fiumicino e stabiliva, in quest'ultimo luogo, la sede di una giusdicenza civile e criminale. In quel tempo non esisteva altra comunicazione fra Ostia e Fiumicino, se non quella che si esercitava col mezzo di una scafa, di proprietà camerale, varata sulla fiumara grande, presso la Torre di Bovacciano; ma, non potendosi accedere alla torre, senza attraversare la tenuta intermedia dell’Isoza Sacra, era stato introdotto in (1) Raccolta citata, anno 1838, pag. 298, CAPITOLO XVII 413 questa un diritto di passaggio, che dapprima veniva facilitato con un’altra srafa, la quale poi venne sostituita con un ponte di barche sul canale grande presso Porto; il che si mantenne in uso per lo spazio di oltre 20 anni. Avvenuta la vendita del tenimento dell’/sola Sacra, il nuovo proprietario tentò d’impedire ìl transito sopraddetto; ma il tesoriere generale, con sua ordi- nanza del 26 settembre 1835, prescrisse che il passaggio fosse mantenuto libero e fosse rimosso qualsiasi impedimento. Se non che il proprietario ricusandosi di ottemperare, il Tesoriere, udita la volontà del Pontefice, confermò quanto erasi già prescritto nell’anno 1835, ordinando l’apposizione dei termini lungo la via, e riservando soltanto al proprietario della tenuta il diritto di chiedere un giusto compenso, nel caso che gli fosse dovuto. Se fosse continuata la opposizione del proprietario, il tesoriere autorizzava financo i mezzi coattivi e l’uso della forza armata, per la esecuzione della vo- lontà del Pontefice (1). Riuscirà anche utile di riportare alcuni dati statistici, che desumemmo dal- l'opera di Angelo Galli (2). La superficie dell'Agro romano nella prima metà del secolo xix era ripar- tita nel modo seguente: Terreni semplicemente lavorativi. . . . .. . Rubbia 53,643 idmsalberati ‘e vitata. e » di Id. pascolivi e prativi. . . . . viper ps ce » 7,819 MMMMETORITA RI do pinatsa! uU stoardà Trent Ta 0 frtevtizi casto Esa gol idr atti i b uymol. ds pri id + tig e serbi vfurniatoi a dna) il t101 ERA spit att e Saggi ‘stfiorino ‘è vpi beati ns inazertag Io ninatgi Il 300 YI sai ati: onto MI egrlaetadito fia "fab i È l Re e aa ROMA VECCHIA - TA VILLA DEI QUISTILI 459 di Maestro Simone (1). Il Pontefice Pio VI, con un Chirografo in data 15 lu- glio 1797, ratificò l'acquisto della tenuta Arco Travert'no, fatta dal Contestabile Filippo Colonna, per scudi 13,521 (2). : All’altro fondo, che fa parte di Roma Vecchia, denominato Settebassi, voca- bolo, derivato forse dal Console Settimio Basso, si riferisce una Bolla di Papa Giovanni XII, dell’anno 962, con la quale conferma a Teofilatto, abate, da esso nominato, del Monsstero dei SS. Stefano, Dionisio e Silvestro, il possesso dei beni, fra i quali è menzionato anche il fondo Septem Vassi (3). Nel 1392, il casale di Septevassi apparteneva, per una metà, alla chiesa dei SS. Giovanni e Paolo, quale parte in quell’anno fu venduta dal Cardinale di S. Marcello e S. Susanna, a Giovanni Lello di Andrea de Rubeis, mentre, in quello stesso tempo, Tommaso di Bartelluzo, ossia Bartolomeo Obicione, era proprietario del- l’altra metà, che fu poi da esso venduta, nel 1395, a Tuzio di Lello dei Ca- ranzoni. i La parte di Giovanni Lello de Rubeis, nel 1397 fu comperata per 3500 fio- rini d'oro, dall’Ospedale di SS. Sanctorum. Nel 1433, Paluzzo degli Astalli, del rione Pigna, facendo la permuta con . altri beni del Monistero di S. Maria Nuova, sì rese proprietario di una metà della tenuta Settebassi, mentre l'Ospedale sopra citato, era in possesso dell’altra metà (4). Nel 1406, il monsstero di Santa Maria Nuova fece un istromento di con- cordia con Paradisa vedova di Tuzio di Lello dei Caranzoni, anche come tu- trice della propria figlia Rita; e da quell’atto risulta che la sopradetta Paradisa lasciò al Monistero la metà del casale Settebassi (5). In seguito, Domenico e Lo- renzo, figli di Pietro de Astallis, vendettero all'Ospedale Lateranense, nel 1463, ai due di marzo, la metà del casale chiamato Settebassi, sito fuori la Porta La- teranense (6). Dall’archivio Vaticano si rileva che nel 1421, venne approvata la permuta fatta da Mattia de Astallis della metà del casale Settebassi, con alcune case ] i (1) ApINOLFI, loc, cit. (2) Arch. Colonna INI, BB. XIX, 46, (3) ToMASSETTI, loc. cit. FeberIci V. Regesto del Mon. di S. Silvestro in Capite, doc. IV. (4) TOMASSETTI, loc. cit. ADINOLFI, Roma nell'età di mezzo, T, 37. (5) TOMASSETTI, loc. cit. Cod. Vat. Lat. 7487, f. mod, 54. (8) Cod. Ottob. 2548, pag. 894. TOMASSETTI, loc. cit. 460 ROMA VECCHIA - LA VILLA DEI QUINTILI poste in Roma, di pertinenza del monistero di S. Maria Nuova (1). La tenuta Settevassi confinava, da un lato, col casale Bonrecuvero, e da un altro con quello di S. Lorenzo Panisperna. pe Un altro tenimento, che fa parte dell'immenso latifondo « Roma Vecchia », è quello dello Statuario, attraversato dalla via Appia, circa al quarto miglio da Roma. Da un atto del 1310, si rileva, che Stefano, Giuseppe e Mario, figli di Pietro Matteo De Albertibus, vendettero all’Ospedale di SS. Sanctorum, una parte del Casale Statuario (2). Verso la fine del secolo xIv, e precisamente nel 1389, ai 20 di gennaio, Pietro di Lorenzo Sarragoni, del rione Pigna, vendette a Pietro del q. Matteuzzo di Nicola de Rubeis, la metà del casale, che in antico dicevasi « lo Scacovaro », e poscia Casale de Rubeis, sito fuori la porta Appia, nelle parti del Lazio, avente per confini la tenuta di Giovanni Lello de Rubeis, l’altra di Matteo Giudice di Angelo, ed il Casale Rotondo del Monistero di San Sisto in Roma. La vendita fu fatta per DCC fiorini d’oro (3). Sembra che poi passasse interamente in possesso della nchile famiglia dei Sanguigni, poichè nel- l’anno 1393, Riccardo, Buzio e Pietro, figli Brancolucii de Sanguineis, vendettero al monistero di S. Maria Nuova, parte del casale e del tenimento dello Statuario, che già aveva appartenuto ai de Rubeis ed a Pietro Saragone, cum turri de Schiac- ‘ cis, ecc. (4). Un'altra parte dello Statuario, forse quella intermedia, fra la via Appia Nuova e la via Latina, nell’anno 1510 al 26 novembre, fu venduta all'Ospedale di SS. Sanctorum, da Stefano, Giulio e Mario, figli di Pietro Matteo de Alber- tibus (5). Lo stesso Ospedale poi, nell’anno 1594, ai 24 di settembre, ratificò l'acquisto di una piccola parte della stessa tenuta, che aveva fatto da Gaspare Garzoni (6). Il quarto, in voce. Z'orre Spaccata (sopramenzionato) che apparteneva alla famiglia Celsi, nell’anno 1621, fu venduto da Celsi Ortensio al Principe Borghese, per il prezzo di scudi 26,160 (7). I (1) Arch. Vatie. A. B. Martini V, VILI, 6, pag. 27 ot VI, 13, fol. 319, (2) Cod. Ottob. 2550, pag. 88. Coppi. Mem. di alcune tenute ece., a pag. 146. (3) Ant. Laurentius Stephanelli notar. Cod. Vatie. Lat. 7930. GALLETTI, a pag. 105. (4) TOMASSETTI, loc. cit. ADINOLFI, loc. cit. 44. (5) Sudd., loc. cit. NicoLar N. M. Proemio alla storia dei Inoghi, ece., pag. 574. Cod. Ottob. 2550, a pag. 88. (6) Arch. Hospit. Later., Nic. Thomasinus de M. S. Martini notar, (7) Arch. Borghese. Zorre Spaccata, tom. I, doc, I. }) (VROCHIA - LA VILLA DEI QUINTILI | 461 ed alle angustie dell’erario pontificio, le i , Settebassi, Capo di Bove e porzione di ni IONE i) price nell’anno 1797, ai 21 di marzo, » a presa Torlonia per scudi 93,775. Il Pontefice Pio VI eresse, A tutta quanta la tenuta in marchesato, e ne diede l’investi- ni Ma i a Lan, LI "i Mora ì 462 IL CASTELLO DI CASTIGLIONE, ED Il. TENIMENTO DI PANTANO V. Il Castello di Castiglione, ed il tenimento di Pantano. Dionisio d’Alicarnasso e Strabone, sono concordi nel raccontare, che l’antica città di Gabij, fosse sita a 12 miglia da Roma, sulla via, che conduce a Pre- neste (1). La località designata dalla storia, confermata dagli scavi, eseguitivi in varie epoche, è compresa nel teniîmento di Pantano e Castiglione, che poi fu abi- tato anche nel medio evo. Dai molteplici ruderi, che tuttora si riscontrano in quei luoghi, si può stabilire che l’antica città fosse sita lungo la zona che, da una parte, dominava il lago, ora prosciugato, e dall’altra, il tenimento di Pantano. Abbiamo creduto utile, per la storia dci luoghi, di citare in ordine eronolo- gico i varî documenti che si riferiscono e a Pantano e a Castiglione. Gabij, ed il suo territorio, nel principio del secolo vit, costituivano la Massa Galli o Gallorum (2). In una iscrizione greca (ora deplorabilmente perduta) dei beni donati dal Pontefice Adeodato II (672-675) al Monistero di S. Erasmo sul Celio, sono indi- cati i due nomi separati « Pantanon » ad fundum Grifis (3). Papa Zaccaria, nell’anno 741, affitta a Cristoforo (Militi) la massa Gallis, ed il fondo Digitorum, e quello Gabijs cum lacu, il fondo Metiorum, ece., siti in Bursano territorio Gabinate, che facevano parte del patrimonio Labicano (4). Da questo documento rileviamo, come l’antica Gabi), e tutti i latifondi, che a quella erano circostanti, nel secolo vir, già fossero ridotti allo stesso stato di un teni- mento attuale della campagna romana, e sappiamo pure che, fin da quel tempo, tutti i luoghi del territorio Gabinio appartenevano alla Chiesa romana, In seguito apparisce, che i fondi siano stati venduti, perchè un istromento dell’anno 1030, (1) DronIs. ALICAR., lib. IV, e. LIII. STRABONE, lib. V, c. III. (2) NisBy, Dintorni di Roma, II, 87. (3) TomasseTTI, /llustr. della Via Labic. e Prenest., pag. 153. Arch. di Stor. Patria, XXVIII, p. 265 e sgg. CAMoBRECO, F. Z/ monastero di Sanf Erasmo sul Celio. (4) KeABR, Regesta Pont. Rom. II, pag. 7. NiBBy, l. c., [I, 88.0 seg. TOMASSETTI, Ì. c., XXIX, 68 IL CASTELLO DI CASTIGLIOX%, ED IL TENIMEMTO DI PANTANO 463 ai 15 ottobre, proveniente dall'archivio di Santa Prassede in Roma, riferisce che Giovanni di Giorgio e Bona, sua moglie, donarono all’abbate Lioto la chiesa dei SS. Primitivo o Nicolò, presso il lago di Burrano, perchè fosse costruito quivi un monistero. « /n /ocum qui vocatur Gabis, prope lacu, qui vocatur Burrano » (1). La donazione venne fatta, concedendo anche la metà d’un molino, e col di- ritto di tenere una piccola barca nel lago sopradetto. Ma da un altro atto, pro- veniente dallo stesso archivio, s'induce, che il Monistero non sia stato edificato in quel luogo, poichè Giovanni, Arcicanonico della Chiesa di S. Giovanni a Porta Latina, nell'anno 1060, ai 14 febbraio, concesse in enfiteusi perpetua a Luca, Abbate dî S. Maria a Grottaferrata, la sopradetta Chiesa di S. Primitivo, con case e terreno « cum domibus vero, et cellis suis vineis autem et hortis, et cum omni ornatuipsius, cum diversis pomatis sivearboribus fructiferis vel infructiferis », ecc., insieme alla metà del lago Burrano, fuori della Porta Maggiore, nel fondo chia- mato Burranum et Pastoricio Q) Nell'anno 1074, Papa Gregorio VII (1073-1088), confermò il: monistero di S. Paolo fuori le mura, nel possesso di tutti i beni, che già erano stati altre volte confermati dai pontefici Gregorio I, Leone IV, Marino II, Silvestro II, Leone IX ed Agapito II, e vi unì la metà del lago di Burrano (3). Nel 1148, insorta lite fra |’ Abbazia di Grottaferrata, le chiese di S.Giovanni avanti la Porta Latina, e quella di $S. Prassede, perchè l’Abbazia sopradetta | godeva ingiustamente il possesso di due parti dei beni spettanti alla chiesa di S. Primitivo o Primo, il Casale di Valle bona, quello di Valle Colomba e l’altro de Rubea, il Card. Corrado, Vicario del Pontefice Eugenio III (1145-1153), pro- nunciò una sentenza comandando, mentre teneva con la mano una verga (per virgam ‘quam in manu tenebat), che l'Abdazia di Grottaferrata restituisse quello che indebitamente possedeva (4). Pirla!» . In quel documento, il luogo, già nominato Gabij, non è menzionato. Per definire poi, ogni e qualunque vertenza, nell’anno 1153, ai 29 di agosto, PAb- bate di Grottaferrata Niccolò, in presenza di Papa Anastasio IV, e di sei Car- » (1) Nispy, |. c., 79. FepeLe, 7abularium S. Praxedis, n. V. TOMASSETTI, |. c. //- lustr. Vie Lat. e Prenest., 159. (2) Nissy, l. c., 79. FEDELE, |. c., VIII. ToMASSETTI, l. c. (3) Nissy, l. e., 91. KEAR, l. c., I, 168, (4) Cod. Vat. Lat. 7926, pag. 243 (GALLETTI). 464 IL CASTELLO DI CASTIGLIONE, ED IL TENIMENTO DI PANTANO dinali, concesse ad Ubaldo, Cardinale del titolo di S. Prassede, la terza parte spettante all'Abbazia, del teniîmento di S. Primo, posto fuori la Porta Maggiore «in locis que vocantur Grifi, et Cursano, et lacu Burrano, etc. » (1). Tale concordia fu eseguita soltanto ai 20 di marzo 1187, da Gerardo, rettore della Chiesa di S. Giovanni a Porta Latina, consenzienti Biagio, prete della chiesa suddetta, e Giovanni, Priore della Basilica del Salvatore al Laterano, onde fu stipolato un istromento d’enfiteusi perpetuo, con Gualtiero Priore, e rettore di S. Prassede, della residual parte del tenimento di S. Primo (2). In quell’atto, si fa menzione della terza parte del tenimento, e della pro- prietà di S. Primo, sito fuori la Porta Maggiore, o quella di S. Lorenzo, nei luoghi, che chiamavansi Grotta Curlana e lago Burrano, nei suoi confini, che ven- gono descritti (3). Probabilmente fu con tale locazione perpetua che la Chiesa di S. Prassede ebbe da quella Lateranense una parte dei beni della concessione fatta da Costantino Imperatore. Poco tempo dopo, in quella località, fu edificato il Castello di Castiglione, come rilevasi da un atto del 23 febbraio 1225, col quale Girolamo, Abbate di S. Prassede, acquista una RI nel Castello sopradetto da Santoro de Conteres, per 22 libbre di provisini del Senato (4). Nell’anno 1243, ai 5 di marzo, Innocenzo Papa IV (1243-1254), asseenò il Casale di Pantano, sito nelle vicinanze di Frascati, nella diocesi Tusculana, al rettore pro tempore della chiesa di S. Eusebio in Monte Esquilino, comprendendo nella dotazione fatta tutte le case, edifici, possessioni, colte ed incolte, vigne, prati e pascoli, ece. (5). Da una lapide esistente nel chiostro di S. Prassede sì rileva che, nell’anno 1259, fu eretta una torre in Castiglione, sulle rovine dell’acropoli Gabina, e lì d’in- torno si costituì il Castrum Castellionis, come viene menzionato in una Bolla di Papa Bonifacio VIII (1294-1803), allorchè questi, nell’anno 1301, conferma ai monaci di Vallombrosa il possesso del menzionato tenimento (6). Quel luogo doveva essere divenuto importante, per molte ragioni, ed invero l’anonimo au- (1) FEDELE, l. c., n. XXVI. TOMASSRTTI, l. c., 159. (2) NrsBy, l. c., pag. 80, n. 3. (3) NicoLar. Dissertaz. ecc., Cod. Ottob. 2148, pag. SI. (4) Nic., 1. e. pag. 52. FEDELE P., 7abul. S. Praxedis. Arch. Stor. Patr., XXVIII, 91. (5) Ex libro existente in guardarobba (sic) Ss.mîi, Bullarum Urbani, Bonifacii, Johannis, Martini et Innocentii IV, fol. 183, Arch. Vatic., Arm. 36, tom. 6, fol. 261. (6) NIsBr, l. c., pag. 81. - IL CASTELLO DI CASTIGLIONI, ED IL TENIMENTO DI PANTANO 405 tore «ella vita di Cola di Rienzo, narra, che nell’anno 1353, il Tribuno, « mosse « la Fanteria forastiera, mosse tutta soa Cavallaria, è lo puopolo de Tivoli con 4 grascia, ed arnese ad hoste, e gione n Castiglione, de santa Preseta. Là passo « doi dì. Là se adunno la jente tuttr. Puoi si mosse la sequente die, è jò soprà Pa- « lestrina con tutto sio sforzo » (1). Essetido insortà una lite fra il Monistero di 8. Prassede da una parte, e Sciarra Colonna dall’altra, nonchè gli eredi di Matteo di Giacomo Giordano Co- lonna, il giurista Francesco da Fabriano, nell’anno 1360, ai 14 di marzo, pro- ‘ muncia il suo lodo, come arbitro elutto dalle parti, ed è favorevole al Monistero, circa la proprietà del lavo di Castiglione (notaio Paladino Paolo Smanto) (2). Forse, in seguito a discordie o ribellioni, Papa Bonifacio IX, nel 1401, or- dinò la demolizione di una parte della Torre di Castiglione, ed in quella osca- sione venne smantellato anche il Custello, orde Castiglione, fu ridotto allo stato di un casale (8). Il Pontefice Innocenzo VII, nell’anno 1404, concesse al Cardinal Vescovo di Sabina, Francesco Tomacelli, il Casale di Pantano, che era di pertinenza della chiesa di S. Eusebio di Roma (4). Seguono le vicende del Castello di Castiglione, che, da un documentò del- l’anno 1422, apparisce fosse di pertinenza dei Conti di Angnill»ra, poichè Lorenzo, di quella famiglia, vende la metà di Custiglione a Caradonna Annibaldi dela Molara, moglie di Bonifacio Caetani (5). E che la famiglia Angaillara possedesse Castiglione, si rileva anche da una sentenza emanuta dal Carditiale dei SS. Cosma e Damiano, Arduino della Porta, detto il Cardinale di Novara, del 17 maygiò 1428. per stabilire i confini territo- riali dei castelli di Zoterno, Tagliata, Sassano e Sassanello, nel distretto di Roma e diocesi di Porto, quali tutti spett=vano alla basilica di San Pietro. In quella sentenza furono precisati i confini del territorin di Cere e quelli del tenimento di Castiglione quali ambedue erano di proprietà dei fratelli Gio- vanni, Giacomo, Pandolfo e Felice Conti dell’Anguillara (6). (1) Lib, IV, Cap. XX, A. M., tom. IIL pag. 527, Nicoral, I. c., "pag. 52. (2) FepeL®R P., | c, LX.XXFX. Tomasserti, Le... 161. (3) Perrini. Memorie Prenbstine, pug. 439. Niany, 1, e. pag. 81. (4) Arch. Vat. /umocentii VII, tom. I, pag. 201 t. et Bonifatii IX, ton. 10, pag. 182 (6) Arch. Vatie.,, Arm. III, tom. 95, fol. 67 t. (6) Tabul. della Bas. Vutic., Caps. LXXIII, fase, 104 orig. perg. 30 466 IL CASTELLO DI CASTIGLIONE, &D IL TENIMENTO DI PANTANO Il Cardinale Vitelleschi nella guerra contro i Colonna di Paliano, nel 1438, si accampò colle sue soldatesche a Pantano de Griffis (sic.). Da quel luogo da- tava le sue lettere scritte ai Priori di Rieti (1). Una sentenza del 24 agosto 1450, avversa al Monistero di S. Prassede di Roma, accoglie la domanda del Monistero di S. Paolo fuori le mura e stabilisce i confini del Casale di Castiglione, S. Giuliano, S. Digma ed Osa nel territorio di Lunghezza (2). Nell’inventario dei beni lasciati da Francesco de Porcariis, al proprio figlio minorenne Giulio, si nota la metà del casale ed il tenimenio di Castiglione indi- viso tra il sopradetto e Vincenzino, figlio del q. Prospero de Porcariis (3). I 26 aprile 1498, Marta degli Astalli, tutrice e curatrice del proprio figlio Guido De’ Porcari, vendè a Laura, moglie di Tommaso Sassi, il Casale di Casti- glione per il prezzo di 404 ducati (4). Restò in proprietà dei Monaci una parte di Castiglione fino all’anno 1527, ed in quell’epoca fu compreso nella vendita di molti beni ecclesiastici ordinata dal Pontefice Clemente VII (1523-1534), per provvedere al pagamento della tassa di guerra, imposta dalle soldatesche degli imperiali di Carlo V. Così i Monaci di S. Pras- sede, vendettero a Luigi Gaddi i Casali di Mompeo e Castiglione, per scudi 7500 (5). Il Pontefice Paolo III (1534-1549), concesse il tenimento di Pantano ad Andrea e Lorenzo de Cybo, e loro eredi, con espressa condizione che non po- tesse essere posseduto da altri, estranei alla famiglia Cybo (6). Il lago di Castiglione o di S. Prassede che prima chiamavasi de Burrano, rimase in pieno dominio dei Monaci fino all’anno 1541, quando fu da essì con- cesso in enfiteusi perpetua a Pietro, Lorenzo e itoberto Strozzi. In seguito Leone Strozzi nell’anno 1578, ai 17 dicembre, cedette il tenimento con il lago a Mar- cantonio Colonna per 3000 ducati (7). (1) MicHaBLi, Mem. Stor. di Rieti, 1898, III, pag. 339. TOMASSETTI, l. e., 194. (2) Cod. Vatic. Lat. 7927, fol. 298 t. GaLLettI. Zabul Mon. S. Panli extra muros. (3) Arch. del Salvatore, Arm. V, mazzo VIII, n. 13, F. Laurentius q. Gregorii de Bertonibus not. (4) Arch. Lateranense. (5) Ni8By, I. c., pag. 81. Bibl. Chig. Mss. G. III, 58. (8) Vid. Decis. in Perusina, anno 1662. De RuseIs, VII, 55-103. Arch. Vatic., Mi. scell. VI, fol. 367. (7) NisBy, loe. cit., pag. 92. TOMASSETTI, l. e., 162. Arch. Borghese, Pantazo, Tom. 1, doc. 26, IL CASTELLO DI CASTIGLIONE, EN IL TENIMENTO DI PANTANO 467 Il sopradetto l’rincipe Colonna, dopo sette anni dall'acquisto fatto, convenve col Cardinale Scipione Borghese «li vendergli la /enuta di Pantano. Ma prima di concludere detta vendita, aveva stipolato un atto di cessione a favore del Po- polo romano, dell’acqua che sorgeva nella tenuta con la condizione però, che - fosse lasciata a Pantano tutta l'acqua necessaria perchè potesse agire la mola vecchia, e se ne potesse costruire una nuova, al che erano necessarie 3200 oncie di acqua. Il prezzo fu stabilito in scudi 25,000. Il venditore si riservò 10 oncie d’acqua, che dovevano essergli somministrate in Roma, a suo piacere (1). Nello stesso anno, ai 28 di mazgio, il Pontefice Sisto V (1585 1590) approvò la vendita dell'acqua, chiamata poscia Felice, secondo l’istromento fatto con Marzio Colonna, duca di Zagarolo (2). Nel Motu proprio di Paolo V del 1605 viene riferito che Pierfrancesco Colo:ina avesse venduto vari fondi fra i quali il tenimento denominato Pantano insieme al Casale di Monte Falcone, e tutte le terre unite a quello, per il prezzo di scudi 230,000 (3). Sembra però che per al- cune difficoltà sorte, forse riguardo al prezzo, l’acquisto fosse compiuto qualche tempo dopo. Infatti, soltanto al 30 di maggio del 1614, viene fatta la vendita sopradetta, come risulta da un istromento, in atti Felice do Totis, per la somma di scudi 346,000 (4); e nel giorno 5 successivo fu compiuto l'atto di possesso di Pantano de’ Grifi, del Casale del Lago, e del procoio (5). Un Chirografo di Papa Paolo V, in data 15 novembre del suddetto anno, permette a Pierfran- cesco Colonna, di vendere al Cardinale Scipione Borghese, le mole di Pantano ed i terreni annessi (6). te Un Breve pontiticio dello stesso anno, liberò la tenuta di Castiglione del lago dall’annuo canone di dieci libbre di cera che sì pagava a S. Prassede, ed ordinò che il capitale di scudi 240, fosse investito nei luoghi di Monte Fede (7). Poco dopo, e cioè nel giorno 21 gennaio 1616, fu stipolato un istromento di af- fitto della tenuta di Pantano e dei due laghi, detti uno di 8. Prassede, e l’altro (1) Arch. Borgheso, Pantano, tom. II. doc, 110. (2) Areb. Vat. Arm. VIII, caps. 6, n. 27, TomassetTI, l. o, pug. 155. (3) Arch. Colonna, Miscell. LI, A. 4, pag. 238. Tomassetti, l. e. (4) Arch. Colonna, Perg. XXVIII, 64. (5) Arch. Borghose, Pantano, tom. I, doc. 49. (9) L. c., doc. 50. (7) L. c., tom. TI, doc. 1283, 468 IL CASTELLO Di CASTIGLION®, ED IL TENIMENTO DI PANTANO di Monte Falcone e del procoio, che venne coneluso con Orazio del Bufalo (1). Un Motu Proprio del Pontefice Paolo V, sotto il giorno 23 aprile 1616, approva la permuta convenuta fra il Cardinale Scipione Borghese e l’Abbate di S. An- tonio, per i casali di Poterano e Torre di Mastroddo, per un compenso di 320 rubbia (2). Fu poi necessario un nuovo Breve ponteficio, in data 19 dicembre sempre dell’anno sopradetto, per porre fine ad una causa sorta fra i Beneficiati del Ca- pitolo di S. Maria Maggiore ed i monaci di S. Antonio per la permuta conclusa, come fu innanzi riferito (3). L’affitto della tenuta di Pantano, già compiuto colla Casa del Bufalo, fu concesso poi a Matteo Persiani nell’anno 1626 (4). Nella formazione del Catasto insorse questione, che cioè una parte rilevante per rubbia 684, fosse compresa nel territorio di Monte Porzio Catone, ed infatti nell’anno 1725, una fede nota- rile asserisce che la tenuta di Pantano fosse sotto la giurisdizione del Comune sopradetto (5). Anche testimoniali autentiche fatte nel giorno 12 luglio 1735, provano l’asserto (6). Dopo una lunga controversia fra il Principe Pallavicini, e la Casa Borghese, finalmente il 9 maggio 1747 si stipulò un istromento di terminazione di confini, con apposizione dei termini relativi, lungo quelli di Pan- tano e la tenuta di Corsano (7). Il Casale di Castiglione, con il circostante tenimento dalla famiglia Gaddi, passò in quella Odescalchi e da questa agli Azzolini di Fermo che nel 1822 lo vendettero ai Mencacci, dai quali ultimi poco appresso fu ceduto alla famiglia Borghese. Poco prima della metà del secolo passato, il Principe Francesco Bor- ghese fece prosciugare il lago di Pantano e di Castiglione, facendone deviare ed immettere le acque nel fiume Osa. (1) L. £., tom. I, doc. 30. (2) Arch. Borghese, tom. I, doc. 5, 21. (3) L. c., tom. I, doc. 38 e 42. (4) L. c., doc. 3. (5) L. c., doc. 27. NicoLar N. M. Memorie, !eqgi ed osservazioni. ece., vol. I, pag. 243. Catasto Albani, 498. NisBy, II, pag. 89. (6) Arch. Borghese, tom. I, doc. 46. (7) Atti Not. Filippo Passavanti. Arch. Borghese, tom. II, doc. 80. IL CASTELLO DI LUNGHEZZA 469 \L° Il Castello di Lunghezza. Sulla via Collatina, in prossimità del luogo ove il torrente Osa confluisce nel- l’Aniene, sul piano di un colle in forma oblunga, donde forse la derivazione del nome, sorge un grandioso palazzo costruito dalla famiglia Strozzi, ora posseduto insieme al tenimento, esteso per 1960 ettari, dal Duca Grazioli. Il palazzo fab- bricato con magnificenza, ha un portone decorato di grosse bugne, con lo stemma d’Innocenzo XIII, con una iscrizione che ricorda la visita del luogo fatta da quel Pontefice. Negli architravi delle finestre disegnate, con lo stile. del Sangallo ad arco tondo, ricorrono le mezze lune araldiche di Casa Strozzi, In origine le torri esistenti nel recinto erano quattro; ma una però fu demolita (1). Il primo documento che rinveniamo relativo a Lunghezza è del secolo vi, allorchè Teudone monaco Monistero di S. Salvatorg in Sabina (presso Rocca Si- nibalda) vende al Monistero di Farfa per il prezzo di libbre 20 d’argento, il Casale di Lunghezza, dal quale documento rileviamo come fin dall'anno 752 iu cui avviene detta vendita, il casale fosse abitato, che vi erano intorno vigne ed oliveti e che servi ed ancelle vi dovevano prestare la loro opera. In quel luogo abitavano Felix et Alo, che dall'atto di vendita non possiamo rilevare chi fos- sero (2). Pochi anni appresso, nell’anno 757, Felice, colono del Monistero di Farfa, dona al Monistero stesso la sua porzione di terra nel tenimento di Lunghezza, riserbandosi però l’usufrutto, fino al tempo della sua morte. In quel fondo no- tiamo che v’erano case, vigne ed oliveti, oltre varie persone della famiglia co- lonica, che vengono citate per nome (3). Dal patrimonio della Abbazia Farfense, Lunghezza passò in quello del Monistero di S. Paolo in Roma. Infatti nell’antico catalogo dei beni del Monistero di S. Paolo fuori le mura, che il Galletti giu- se “n (1) TomassertI G., Za Via Prenestina, 151. (2) Giorgi o Barzani, // Regesto di Farfa, II, doc. 33, pag. 43. TOMASSETTI, I, c., 146. (3) Suddetti, |. c., doc. 39, pag. 47. 470 IL CASTELLO DI 1 UNGHEZZA dica compilato da Gregorio di Tuscolo, circa l’anno 960, viene annoverato anche il Castello di Lunghezza con tutte le sue pertinenze (1). E Papa Gregorio VII quando nell’anno 1074 conferma al Monistero sopra- detto il possesso di tutti i beni, dice che concede anche il Castello di Longhezza con tutte le sue pertinenze, descrivendone : singoli confini; onde, fin dal secolo 1x si può constatare l’ampiezza di quel tenimento (2). Nell'anno 1203, anche Inno- cenzo III replica quanto aveva confermato il Pontefice Gregorjo VI! (3). Sembra che, in seguito, una parte ne fosse smembrata a favore della chiesa di S. Tomaso în formis, sul Monte Celio, perchè il Pontefice Onorio III, nella sua Bolla del 25 febbraio 1217 a favore del Monistero sopradetto, fra gli altri fondi, annovera tre dodicesime parti del casale Longhezza, con tutte le perti- nenze di questa frazione « tres uncias Casalis, quod dicitur Longueza, cum omnibus pertinentiis suis > (4). Ù Lo stesso Pontefice, nel seguente anno 1218, ai 15 maggio, volendo addi- mostrare la sua devozione all’apostolo S. Paolo, come esso si esprime, confermò con una sua Bolla tutti i privilegi e beni della Basilica e del Monistero, men- zionando fra questi il castello di Longhezza, insieme a quello dell’Osa e di S, Giu- liano (5). Quest'ultimo è un castello diruto, sito a quattro chilometri da Lon- ghezza, e quella parte della tenuta, tuttora chiamasi di S. Giuliano o Ca- stellaccio. Nell’ istromento d’investitura del Castello di Marcellino, fatto da Giovanni, Abate del monistero di S. Paolo in Roma, coll’intervento del cardinale Stefano, del titolo di S. Maria in Trastevere, e col consenso dei monaci, a favore dei fratelli Romano ed Archione de Archionibus. nell’anno 1229, ai ?5. gennaio, risulta, che il primo aveva avuto in feudo da! Monistero sopradetto una parte del tenimento di Longhezza. Infatti, dopo la enumerazione di tutti e singoli i patti, per l’enfiteusi del castello di Marcellino, a favore di amedue i fratelli sopranominati, l’istromento, così si esprime: « Tu poi, o Romano, rinnova l’atto di fedeltà a noi ed al monistero nostro, per il Castello di Longhezza, che tieni (1) Cod. Vat. Lat. 7980, pag. 141 e segg. TOMASSETTI, ]. c., 146. (2) Coppi, Atti Ace. rom. di Archeol. XV, 212-213. TomasseETTI, l. c., 146. Nr- coLa1 N. M., Disserf. 5 luglio 1832, pag. 69. (3) MARGARINI, Bull. Cassin., I, ad ann. TOMASSETTI, l. c., 147. (4) NiBBy. Dint. dî Roma, IL, 276. GALLETTI, Capena, ete., 39. Bullar, Bas, Vatic. I, 100. (5) MARGARINI. Brl/, Cass., I, 3i, Cod. Vat, Lat. 8259, pag. 387. IL CASTELLO DI LUNGHEZZA 471 in feudo, ed i tuoi eredi e successori che perverranno alla eredità dello stesso fondo, dovranno conservare sempre fedeltà al nostro monistero » (1). Una nuova Bolla del Pontefice Gregorio IX, del 25 febbraio 1236, conferma quanto aveva già approvato Onorio III nel 1218, superiormente accerinato (2). Nell'anno 1241, il castello di Longhezza fu invaso dalle soldatesche Viterbesi, che lo danneggiarono e poscia lo distrussero, il che avvenne nel mese di luglio, quando, essendo i Viterbesi « alleati dei Romani contro Tivoli, andarono in as- « sedio nel terreno di Roma et stettero XIIII del mese di luglio et guastarono « due castelli, l'uno chiamato Lona, l’altro Longhezza », come dice Anzilotto Viterbese (3). Verso la fine del secolo xm, il Castello di Longhezza fu occupato dai Conti, famiglia potente romana. Infatti Pietro Conti, fratello c'i Stefano, quivi abitava, e vi si rifugiarono nell’anno 1297, anche il cardinale Giacomo Colonna e Pietro Colonna, che, nel giorno 10 maggio dell’anno sopradetto, nella casn stessa di Pietro Conti — die veneris, in aurora ante solis ortum — attesochè il Pontefice Boni- facio VIII li aveva scomunicati, formularono una celebre protesta di appello, per il futuro Concilio da convocarsi; e l'atto fu compiuto alla presenza di nove teologi e frati, fra i quali Fra Jacopo da Todi, il mistico poeta. L'atto fu com- piuto dal notaio Domenico Leonardi da Palestrina (4). Notammo superiormente come nell’anno 1229, Romano de Archionibus, avesse rinnovato l’atto di fedeltà al Monistero di S. Paolo, quale enfiteuta di una parte del tenimento di Longhezza. Infatti rileviamo dal testamento di Gia- como Antonio del q. Nicola de Archionibus, in data 10 luglio 1369, che egli lascia alla Cappella di S. Sebastiano, nella Chiesa di S. Maria Maggiore, tutta la parte che gli spettava nel Casale detto + lo quarto » e nel tenimento, nonchè un pezzo di terra di rubbia 8, la metà lelle quali esso Giacomo, aveva avuto dal suo nepote Leonardo, figlio di Egi.lio Archione, nel tenimento del Castello di Longhezza: e detto p:z0 di terra anch'esso era posto nella suddetta tenuta « de quarto » (5). (1) Arch, Orsini, II, A. I, n. 19. (2) Marcarini. Bull. Cass., Tom, I. ‘ () Period. Buonarroti, serie ITI, vol. III, quad. XI. TOMASSETTI, |]. c., 147. (4) Corpre. Histoire da différend, ete., Paris, pag. 55. Arch. Vatie., Miscell., tom, 12, foglio 19. Cod. Vatic. Lat. 8259, 388 t. TUMASSETTI, |. e., 148, NICOLAI, 1. c., 71. COPPI, |, e. 235, (5) Arch, Basil. Liberianae, D. II, 64. , 472 IL CASTELLO DI LUNGHEZZA Nella occupazione compiuta da Pietro Conti sembra che non fosse compreso tutto il tenimento di Longhezza, come apparisce da una lettera di Giovanni XXII, dell’anno 1317 (1). In altra memoria dei regesti pontifici dello stesso anno, si fa menzione di Stefano, fratello di Pietro e di Nicola Conti (2). La occupazione dei Conti sembra .durasse vari anni, perchè il menzionato Pontefice Giovanni XXII, nell’anno 1325, scrive ai Vicari di Roma, affinchè costringano Nicola Conti a restituire al Mo- mistero di S. Paolo la parte del Castello di Longhezza, che esso aveva occupata, come già esso Pontefice aveva ordinato nel secondo anno del sno pontificato (3). Intanto Gregorio, Abate del Monistero di S. Paolo, continuava ad insistere per ottenere la restituzione di tutto il tenimento di Longhezza, muoveadone lagnanze dirette al Pontefice che allora risiedeva in Avignone. E Giovanni X.XII, il giorno 1° aprile del 1326, scrisse direttamente a Nicola Conti, dolendosi perchè il padre di lui, Stefano, avesse occupato ingiustamente una certa parte di Longhezza e del tenimento annessovi, spettante di pieno diritto al Monistero di S. Paolo, e mostrandosi dispiacente, che esso Nicola, successore al padre, continuasse nella ingiusta occupazione. L’esoriava quindi a restituire la terza parte del tenimento e de! castello all’Abate e al Monistero di S. Paolo (4). Contemporaneamente il Pontefice diè notizia anche ad Angelo, vescovo di Viterbo, vicario Pontificio in Roma, informandolo di aver scritto a Nicola Conti, perchè eseguisse la restituzione di Longhezza, e di avere altresì scritto lettere speciali ai vicari di Roma, ed a Roberto Re di Sicilia, il quale esercitava nella città l’ufficio illustre di Senatore, affinchè tutti costringessero il predetto Nicola a restituire senza ostacoli quanto sopra. Siccome poi lo stesso Pontefice era stato informato dall’Abbate o dai monaci del Monistero di S. Paolo, che Stefano, padre di Nicola, avesse costruito nel castelio sopradetto, una casa ben munita e fortificata, e che avesse aperto una nuova porta nella cinta, il Pontefice coman- dava che il sopradetto Nicola fosse obbligato non solo a restituire tutto, ma a demolire anche la casa, ovvero a ridurla nel pristino stato, nonchè a murare (1) Avch. Vat. Joltannes PP. XXII, X pars, TI epist., 1538-39,Id., secret. X, 1884. 33. (2) Arch. Vat. Johannes PP. XXJ!, lib. 9-10, anno II, 110 fol. 312, 313. (5) ConteLORIVS F. Genealogia fam. Comit. roman., ann. 1650, a pag. 16, (4) Bull. Cassin, T. II, CCLIX. Il. CASTELLO DI } UNGHEZZA 73 anche la porta arbitrariamente aperta, Che se il detto Nicola non avesse obbe- dito, si fosse provveduta l'esecuzione per mezzo della giustizia, non omettendo la censura ecclesiastica per gli oppositori (1). Rinvenimmo un documento dell’anno 1331, 22 di luglio, dal quale ci risulta che Giovanni de Fuscis de Berta acquista i beni delle monache di S. Sisto in Roma, nel territorio Palazzetti, ed in quello di Longhezza (2). Giovanni Villani comprò nell’anno 1334, al 1° novembre, i beni di Pietro De Villanis, nel territorio Palazzettinae et S. Dignae, in prossimità del tenimento di Lon- ghezza (3). Gregorio De Fuscis, nell’anno 1341, ai 27 di febbraio, donò i suoi beni, nel territorio di S. Digna, in vicinanza di Longhezza, parte al Monistero di S. Paolo, nel territorio di Longhezza, ed un'altra parte a Biagio e ad altri congiunti tra loro, della famiglia de Fuscis (4). Sembra che codesta donazione sia stata dopo contestata al Monistero sopra- detto, perchè una sentenza del 20 giugno 1367 conferma le donazione fatta da Gregorio de Fuscis a favore del Convento di S. Paolo, nel territorio di S. Digna, presso Longhezza (5). Ed infatti, il 22 luglio dello stesso anno, l’Abbate del Monistero citato, prese il possessb dei beni provenienti in seguito alla dona- zione (6). Insorte poi varie differenze con alcuni abitanti di Tivoli, fu deciso un arbi- trato, che emise un lodo a favore del Monistero di S. Paolo; e per la conci- liazione, fu stipulato un compromesso fra l’Abbate e i monaci da una parte, e ì possidenti particolari di Tivoli dall'altra (7). Nell'anno 1363, ni 16 di giugno, il Monastero sopradetto concesse in. enfi- teusi a terza generazione legittima e mascolina di Buzio di Giacomo Oddone e Pietro Marangonis alcuni beni nei territori di Longhezza, Corcollo, Passerano è Valle Giove e detta enfiteusi fu confermata (8). (1) Buli. Cassia. OCUXX, Cod. Vat. Lut. 7027, 287 t. TemassETTI, i. c., 148, (2) Cod. Vat. Lat. cit. fol. id. TOMASSETTI. |. e. (3) Cod. Vat. Lat. ut, supra TOMASSETTI, l. e. _ (4) Cod. Vat. Lat. 7927, 288. TOMASSETTI, |. c., 148. (5) Cod. Vat. Lat. 7927, 290. (6) Ibi, I. c., 290. TOMASSETTI, |, c., 149. (7) Cod. Vat. Lat. 7927, 290. (8) Ibi, 290 t. TOMASSETTI, |. c., 140, 474 IL CASTELLO DI LUNGHEZZA Agata de Ciceronibus donò a Tuscio de Fuscis i beni enfiteutici a favore del Monistero di S. Paolo, che essa possedeva nel territorio di Longhezza (1). Dopo tante pratiche ad intimazioni del Pontefice Giovanni XXII, sembra però, che Nicola Conti non restituisse la terza parte del tenimento di Longhezza ai monaci di S. Paolo, ovvero che, dopo una transazione, ne fosse egli divenuto l’enfiteuta, perchè da un atto del notaio de Venectinis dell’anno 1301. ai 24 feb- braio, Nicola, figlio di Stefano di Nicola Conti, vendette il casale di Longhezza a Giovan Pietro Cerrori o Cerroni (?) (2). Per tante discordie o traversie subìte nei secolo xiv, il Monistero di San Paolo dovette sostenere delle spese, anche per il ricupero della rocca di Passerano, dalle mani di Lella de Lenis, ed in un istromento dell’anno 1398, ai 25 di marzo, leggiamo una confessione di debito per duemila fiorini d’oro a favore di Raimondo de Tartaris, con la obbligazione di garanzia sopra la metà del tenimento di Longhezza, a favore del suddetto Raimondo (8). Questo pegno durò fino all’anno 1411, ai 6 di gennaio, allorchè Maddalena, pupilla, figlia ed erede di Raimondo de Tartaris, col consenso di Niccolò de Sanguigni suo tutore, restituì al Monistero di S. Paolo la metà del tenimento di Zonghezza, che era stata ceduta a garanzia, come dagli atti del notaio Roberto de Pubeis (4). Nell'anno 1442 il Pontefice Eugenio IV (1431- 1447) conferma il Breve dell’antecessore Onorio III, in data 18 giugno 1218, per il possesso di tutti i fondi a favore del Monistero di S. Paolo (5). Accesasi lite tra Stefano Colonna ed i Monaci di S. Paolo, per i confini fra Corcollo, S. Giuliano e Longhezza, ne uscì una sentenza che li determinava, con giudicato del î7 maggio 1450 (6). Nello stesso anno, ai 24 di agosto, un’altra’ sentenza, ‘ avversa al Monsitero di S. Prassede di Roma ed a favore di quello di S. Paolo fuori le mura, determinava i confini del Casale di Castiglione, S. Giuliano, S. Digna ed Osa nel tenimento di Longhezza (7). L’Abbate del Monistero di S. Paolo, nell’anno 1513, con atto notarile di Ascanio Marzi, concesse in efiteusi perpetua (1) Cod. Vat. Lat. 7927, 290 t. TOMASSBTTI, |. c., 149. (2) Arch. Capit., de Venectinis not., fot. 52. TOMASSETTI, I. c., 149. (3) Cod. Vat. Lat. 7927, pag. 291 t. (4) Corpi. Doc. sfor., ete., 307. TOMASSETTI, I. c., 149. Arch. del Salvatore, Arm. VILL, marz. VII, n. 53 A. ADINOLFI, Roma, ece., I, 127. (5) Cod. Vat. Lat. 8259, pag. 387, TOMASSETTI, l. e., 150. (6) Cod. Vat. Lat. 7937, fol. 298 t. TOMASSETTI, ibi. (7) Cod. Vat. Lat. cit.. ibi. TOMASSETTI, ibi. IL CASTELLO DI LUNGHEZZA 475 Mi Albi Ontal, vedova di Fletro dei Medici è rvadre di Giarico de' Medici, nipote di Leone X, tutta la possessione, ossia tutta la tenuta del Monistero di Ss. Paolo, che chiamavasi volgarmente il castello diruto Longhezza, e S. Giuliano et la Chiose, invece di Ose, per l’annuo ceuso di 1000 ducati d'oro (1). Un breve di Leone X, dello stesso anno, agli 11 di febbraio, ratifica e conferma la sopra- detta congessione enfiteutica di Longhezza, S. Giuliuno et Alose (sic) (2). Alfonsina de Medici lasciò erede il l'ontefice (Mlemente VII, che poi ne dispose per testa- mento, a favore di Caterina de Medici, figlia di Lorenzo, duca di Urbino (3). Ma quando però Caterina divenne Regina di Francia, allora Papa Clemente, come zio e tutore di Caterina de Medici, vendette la proprietà enfiteutica a Cla- rice di Pietro de Medici, moglie di Filippo Strozzi, il 16 gennaio 1527 (4). Nell'anno 1529, al 1° di maggio, la sopradetta Alfonsina de Medici nffrancò il casale di Longhezza e quello di S. Giuliano, per la somma di scudi mille in mandalu; e ciò s' induce dal fatto, che la sopradetta Alfonsina comprò dal Con- vento di S, Paolo il Casale di Longhezza e S. Giuliano (5). Il vasto tenimento, dalla Casa Strozzi passò in proprietà dei duchi Grazioli. (1) NicoLar. Disser/. dell'antica Collazia, TA. Domassetti, 1. e. Corpi, Doc. Stor.. p. 235, Cod. Vat. Lat. 8259, pag. 397 t. (2) Arch. Vat. Dirers, Cam., fol. 83. Reg. Leonis X, Aoc. 6758. CascioLI. Mem. di Poli, 32. i) NicoLal, 1. c., 74. TOMASSETTI, |. c. (4) Arch. Orsini I. A. Prot. XL, 40. TOMASSETTI, |]. c. (5) Arch. Vat, Arm. 29, tom. 82, pag. 21 t. 476 CASTELLO DELL’OSA VII. Castello dell’Osa. A poca distanza dal Casale di Longhezza, entro il suo stesso tenimento e sulla destra dell’Osa, esistono le rovine di un Castello, già denominato dell’Osa, che era stato edificato sopra una rupe di lava basaltica e nella località attual- mente chiamata <« il castellaccio ». Il castello forse fu già fondato sulle rovine dell’antica Collazia, e ne farebbe fede il nome della via che menava a quella città, celebre un tempo nei fasti dell'antica Roma. La fondazione del nuovo castello è spiegata da un atto, conservato nel Monistero Sublacense fra i documenti di S. Scolastica, sotto la data del 31 de- cembre 984, dal quale risulta che l’antipapa Bonifazio VII concesse a Pietro prete, e ad altri; alcune rovine antiche e beni attigui, per edificarvi una chiesa a S. Benedetto, presso il rivo Osa (1). Il Pontefice Gregorio VII, nella sua Bolla dell’anno 1074, a favore del Monistero di S. Paolo, fa menzione del castello del- l’Osa, per una metà di pertinenza al convento sopradetto — medietatem castelli novi cum sui pertinentiis —; e tra i confini di esso viene ricordato il ponte delle Sante Digna e Merita ed una via antica (sylicem) che sembra certo, allu- desse alla Collatina (2). Da un documento del regesto Sublacense del secolo x1I, rileviamo che.la chiesa, già dedicata a S Benedetto nel castello dell’Osa, allora chiamavasi Santa Croce (3). Il Pontefice Onorio III, confermando quello, che aveva già approvato il suo antecessore Gregorio VII, con una sua Bolla, del 15 maggio 1218, fra i beni di S. Paolo, menzionava anche il castello dell’Osa (4). (1) In Regest Sublac., c. 209 B. e segg. (2) Coppi, Docam. Storici, ecc., 213. (3) Regest. Sublac., doc. 183. CascroLi, Mem. di Poli, 34. ' (4) Cod. Vat. Lat. 8259, pag. 387 rs CASTELLO DELL'OSA 477 Nel mese di luglio 1241 il castello dell’Osa subì gravi danni dalle soldatesche Viterbesi (1). I figli di Pietro Rosso, de Petro Judice, Lorenzo e Cello, fecero cessione, il 27 maggio 1260, ad Egidio Alessio e Palmerio, figli del q. Petri Quartacio e ad altri, di due parti dei beni, che loro spettavano nel borgo del castello del- l'Osa (2). Da un atto dell’anno 1267, ai 22 di maggio, ricaviamo che Siniorilis, figlio del q. Paolo Nicola de Papa, vendè ad Alessio Quartacie tutta la sua porzione dei beni, a S. Digna e nel borgo del castello dell’Osa, per XIII libre di provisini del Senato (3). Il Pontefice Eugenio IV, nel 1442, in una sua Bolla, a favore del Convento di S. Paolo, menzionava il castello di Osa, come appartenente a quei monaci (4). La sentenza, del 24 agosto 1450, favorevole al Monistero sopradetto, e con- traria a quello di S. Prassede in Roma, stabiliva i confini, anche del tenimento dell’Osa compreso in quello di Longhezza (5). Il castello dell’Osa era compreso nell’enfiteusi di tutto il latifondo concesso dai monaci di S. Paolo, nell’anno 1514, ad Alfonsina Orsini, vedova di Pietro de Medici (8). (1) Buonarroti cit. serie ILL, vol. LL, quad. XI. TOMASSETTI, |. c., 147. (2) Col. Vat. Lat. 8066, Corri, Mem. Storie., 249. (3) Ibi. Corpi 1, c.. 256, (4) Cod. Vat. Lat. 8259, pag. 387. (5) Cod. Vut. Lat. 7927, fol. 298 t. (fi) NicoLar, Dissert dell'antica Collazia, 74. 478 IL CASTELLO DI CORCOLLE 9 CORCOLLO VII. Il castello di Corcolle o Corcollo. L’antico castello di Corcolle, è sito a poca distanza sella via di Poli, che sì dirama da quella Prenestina. Corcolle sorge sul luogo stesso, dell'antica Querquetula o Corcotula, ricordata da Plinio, come abitata dai Querquetulani, uno dei tanti popoli estinti nel Lazio (1). Sorse nel secolo xI, in mezzo ad un tenimento di oltre 780 Ea. Fu eretto sopra un colle di tufo, tagliato a picco, e fortificato siccome usavasi nel medio evo. i Il Regesto di Papa Zaccaria (741-752;, ne fa menzione (2). « Curcorulum » è annoverato tra i casali del patrimonio del Monistero di Subiaco, nel diploma dell'Imperatore Ottone I, dell’anno 967 11 gennaio, quando questi confermò i beni e i diritti del Sub/acense (3). Nella susseguente conferma, fatta dal Pontefice Benedetto VII, nell’anno 978 alia chiesa Tiburtina, dei beni da essa posseduti, si legge: fundum Corconi in integrum (4). I Pontefici Giovahni XV, nel 993, e Giovanni XIX nel 1029, confermano essi pure quanto sopra (5). Nell'anno 1049, ai 15 Ai gennaio, un tal Giovanni Di Giorgio illustre romano, insieme a Bona, illustrissima donna, ed a Giovanni suo figlio, uniti ad altri, nello stesso atto nominati, donarono ad Attone, Abbate del monastero di Subiaco, una porzione, che a loro spettava, del Castello S. Angelo — în Valle Arcese — ed in quell’atto si afferma anche, come Giovanni, figlio, abitasse nel castello chiamato Corcorulo, il che secondo la maniera in uso di quei tempi, voleva dire che egli ne fosse l’enfiteuta o il feudatario (6). Nel se- colo xI, il castello passò in proprietà del Monistero di S. Paolo, come risulta (1) PLINIO. III, c. V, parag. IX. Nispy II, 668. TomassertTI. Via Prenestina, 173, (2) TOMASSETTI, l. c. (3) Copia sec. XI, in Reg. Sub!. e. I, B. segg. TOMASSETTI, l. c., 174. (4) Peg. Subl., V. (5) L. c., VII, XI. (6) Copia see. XI in ey. Subl., c. 81 B. e segg. TOMASSETTI, ]. e., 174. NiBBy, II, 669. IL CASTELLO DI CORCOLLE 0 CORCOLLO 179 dalla Bolla del Pontefice Gregorio VII, in data 14 marzo 1074, quando rinnovò la conferma al Monistero suddetto, di tutto il suo patrimonio, che venne acore- sciuto di molti castelli della zona Prenestina — /Itemque totum castellum quod vocatur Curcurulum, cum Curto S. Primi — (1). L'Imperatore Enrico III, con un suo diploma dell’anno 1089, fece cessione, a favore del Monfstero di S. Paolo e del Vescovo di Parma, di tutti i suoi di- ritti, beni e castelli di Corcolle, Passerano, Fiano ed altri luoghi (2). Nell'anno 1111, l'Imperatore Enrico V di Germania venne in Roma per farsi incoronare dal Pontefice Pasquale II (1099-1118); ma, non essendosi tro- vati di accordo fra loro, circa la nomina di alcuni Vescovi, avvennero serî tumulti in Roma. L'Imperatore fece prigioniero il Pontefice, e lo condusse, in- sieme a due Vescovi e a quattro Cardinali, nel castello Trebicum, mentre tutti gli altri Cardinali furono rinchiusi a Corcolle (3). Nè sembra, che l'Imperatore si riconciliasse del tutto col Pontefice, perchè da altri documenti rileviamo, come egli nel seguente anno 1112, tutt’ora tenesse occupati Corcolle, ed altri luoghi e città soggette al Pontefice (4). Una bolla di Papa Innocenzo III (1198-1216), per la conferma dei beni del *Monistero di S. Paolo fuori le mura, nell’anno 1203, fa menzione di Corcolle come castello (5). Anche nel principio del secolo xrv, durava il possesso di Corcolle, a favore dei Monaci di S. Paolo, perchè nell'anno 1312, agli 8 di ‘agosto, il Pontefice Clemente V (1305.1314), con una sua lettera diretta all’Abbate del Monastero sepradetto, gli die facoltà di poter concedere Corcolle in feudo, a persona laica, con tutte le sue pertinenze e diritti, dopo che fosse avvenuta la morte di un tal Todino Giovanni, figlio di Todino, dimorante a Corcollo (6). Non abbiamo rinvenuto alcuna memoria che ci abbia provato la concessione di Corcollo in feudo, prima dell’anno 1378, e precisamente ai 16 di giugno; epoca, (1) Tomasserti |. è., 174, Nispy, li, 669. Copri. Doc. slo. del M. E., in Pont. Acci, R. di Arch., XV, 214. (2) Bibl. Vat., Cod. Lat. 7927, fol. 277 t. (Galletti). (3) « Pontifex antem cum duobus Episc, Saviniensi, videlicet et Portuensi et Cardina- libus quatuor apud Castellum Trebicum. caeteri vero Cardinales apud Corcodilum in. cu- todia tenebantar » Cod. Vatie. n. 1984. CascioLi G. Mem. Stor. di Poli, 37, (4) Cod. Vatic. Lat. 10552, a pag. 22. (STEVENSON). () Ninsy, IL, 669. (8) CascioLi, |. c., pag. 36. TOMASSETTI, l. c,, 174, Cod. Vat, Lat. 7927, fol. 286 t, 480 IL CASTELLO DI CORCOLLE 0 CORCOLLO nella quale il Monistero di S. Paolo concesse il detto luogo in feudo a terza ge- nerazione mascolina e legittima, a favore Buciî Jacobi Oddonis et Peiri Maran- gonis. Detto istromento fu approvato, comprendendo nell’enfiteusi anche Longhezza, Passarano e Valle Giove (1). Sembra però, che detta concessione abbia continuato fino al principio del secolo xv; ed infatti riellanno 1411, il Pontefice Giovanni XXIII (1410-1415), dopo avere assolto dai delitti commessi «Giovanni e Niccolò Colonna, concesse al primo il castello di Passarano con la sua rocca, ed i feudi di Corcollo e di S. Vettorino per 14 anni, oltre Frascati, Civita Lavinia e Genzano per anni 6, con la condizione che si corrispondesse un censo di 45 fiorini d’oro, da pagarsi nel giorno di Natale di N. S. (2). In quell’atto si dice che alcuni dei castelli sono disabitati, certo a causa delle continue guerre e lotte tra le potenti famiglie. Perdurando questo stato miseraudo di cose, i Colonnesi caddero in disgrazia del Pontefice Eugenio IV (1431-1447), e furono perciò probabilmente privati dei loro beni. Infatti, il suddetto Pontefice, co suo Breve, datato da Firenze, ai 17 mag- gio 1441, conferma quanto aveva precedentemente stabilito il Cardinale Giovanni Vitelleschi, del titolo di S. Lorenzo in Lucina, legato apostolico nello Stato della Chiesa, il quale aveva concesso a Roberto de Montella, per compensarlo dei servigi militari prestati, il tenimento del Castello di Corcollo, nelle parti del Lazio, i e fuori la porta S. Lorenzo, e la metà del Castello di S. Vittorino, luogo posto nella stessa regione. Però essendo avvenuta la morte del Cardinal Vitelleschi, non ebbe luogo la consegna dei beni menzionati, che fu compiuta invece per ordine del Cardinale Lorenzo, del titolo di S. Lorenzo in Damaso, legato del Pontefice, che mantenne la concessione sopradetta per Roberto de Montella, e suoi discendenti legittimi (3). i Nell’anno 1448, avvenne la divisione del patrimonio fra Stefano e Lorenzo Colonna di Palestrina, ed il Castello di Corcollo, toccò al primo. La divisione fu confermata da una Bolla di Niccolò V, in data 11 giugno dell’anno sud- detto (4). (1) Cod. Vat. Lat. 7927, fol. 290 t. (Galletti). È (2) Index infendationam, 1411. Coppi Mem. Colon., 155. TOMASSATTI, l. c., 174. CASCIOLI, 1. c., 35. (3) Cod. Vat. Lat. 2706, 88. Cascio, 1. c., 35. (4) Coppi. Mem. Colon., 208. ToMASSETTI, l. c., 174. PETRINI. Mem. Prenest. mon, 8, pag. 458. IL CASTELLO DI CORCOLLE 0 CORCOLLO 481 Poco dopo insorse unn questione fra Stefano Colonna, ed il Monistero di ‘8. Paolo fuori le mura, per In divisione dei confini di Corcollo, S. Giuliano e Longhezza (1) Il Castello di Corcollo, nella prima metà del XVIII, aveva tutt’ora il suo castellano, che nell’anno 1629 era un tal Pietro Panacchioni, di Castel S. Pietro (2). Francesco Colonna, essendo oppresso dai debiti, nel 1530 ai 11 gennaio, vendè a Carlo Barberini, la città di Palestrina, colle tenute Mezzaselva e Corcollo per il prezzo di scudi 750,000 (3). Dopo oltre un secolo, ossia nell'anno 1743, Cornelia Costanza e Giulio Ce- sare Barberini restaurarono il castello per comodo dei coloni, come rilevasi da una lapide ivi esistente (4). In seguito ad un atto di concordia del 2 luglio 1811, fra Maffeo, primo- genito di Urbano Barberini, e suo zio Carlo, il Castello di Corcollo toccò a que- st'ultimo, insieme a molti altri feudi e beni (5). La famiglia Barberini anche oggi possiede quel luogo col suo tenimento. (1) Cod. Vat. Lat. 7937, fol. 298 t, (2) Arch. di Poli, CascioLi, I. c., 36. (3) Atti Fontia not. A. C. Coppi, Mem. Colon., 370. TomassettI, |. c., 174. CASCIOLI, 1. c., 37. (4) Nispy. Analisi dei dint. di Roma, LI, 669. CascioLi, l. c., 37. (5) Coppi, 1], c., 405. BI 492 IL CASTELLO DI S. VITTORINO IX. Il Castello di S. Vittorino. Sulla via di Poli, oltrepassate le rovine del Castel! dell’Osa, superiormente alle Capannelle, e dalla parte sinistra, sopra la rupe di tufo, che sorge in forma quasi rotonda circondata da un fosso, è situato il Castello di S. Vittorino. Fu edificato dagli Equi, e poscia fu convertito in villa Romana, L’ Impe- ratore Adriano in seguito lo unì al suo fondo, come apparisce dall’acquedotto che, scendendo dai colli superiori, attraversa S. Vittorino, per fornire di acque la Villa Adriana (1). Una prima memoria del medio evo, che rinveniamo, è quella di un diploma dell’imperatore Ottone III, quando questi, nell’anno 996, ai 81 di maggio, con- cesse e confermò al Monistero dei SS. Alessio e Bonifacio, sull’ Aventino in Roma, tutti i beni, compresi anche quelli fuori della citta, fra i quali si nota il Casale di S. Vittorino con tutto il suo tenimento (2). In seguito il possesso di S. Vittorino passò al Monistero di S. Paolo fuori le mura, come rilevasi da un diploma di Enrico II dell’anno 1014, col quale viene restituito il Castello di S. Vittorino ai monaci di S. Paolo, insieme ad altri luoghi vicini (3). Ciò viene anche confermato nell’anno 1074, ai 28 di marzo, da una Bolla di papa Gregorio VII (1073-1085), che approva, in favore del Mo- nistero sopradetto il possesso di tutti i beni che aveva, menzionando fra questi il Castello di S. Vittorino con quanto a quello s’ apparteneva (4). Dall’esemplare di un vetusto catalogo dei beni del Monistero di S. Paolo, che il Galletti reputa essere stato scritto al tempo di Gregorio di Tuscolo, ap- parisce che fra i fondi spettanti a quei monaci v'era anche il Castello di S. Vit- torino con tutti gli annessi (5). (1) TomassetTI G. Za via Prenestina, 175. (2) NERINI F. De femplo et coenobio SS. Alexii et Bonifacii, 376, App. doc. l. op. cit. (3) CascroLi G. Memorie stor. di Poli, pag. 35. (4) Coppi A. Doc. sfor. del M. E. relativi a Roma, ece., doc. 23, pag. 209. Arch, Mon. S. Pauli extra urbem T. 2. (5) Arch. S. Pauli de Urbe, vol. 241, pag. 4. Cod. Vat. Lat., 7930, 141 (GALLETTI). IL CASTELLO DI 8. VITTORINO 483 Nell'anno 1130, ai 27 di marzo, papa Anacleto II, con una sua Bolla diretta all'abbate Anastasio del Monistero di S. Paolo, dice che, ad esempio dei suoi predecessori, e specialmente di Alessandro II, conferma il possesso di tutti i beni, e li nomina, nonchè tutti i privilegi accordati dai pontefici Gregorio I, Silvestro Il, Marino II, Leone lV, Stefano IX ed Alessandro II. Una tal Polla fu sottoscritta da 13 Cardinali e datata dal Laterano, e nel pontificio docu- mento è rammentato il Castello di S. Vittorino, e confermato il possesso dello stesso, insieme a tanti altri (1). Anche Onorio III protesse il Monistero di S. Paolo allo stesso modo del predecessore Innocenzo III, e, con una sua Bolla del 15 maggio 1218, stabilì che in quel luogo si osservasse la regola di S. Benedetto, confermando tutti i privilegi ed il possesso dei beni che formavano il ricco patrimonio di quel con- vento, e fra gli altri è menzionato anche S. Vittorino che, da oltre un secolo, faceva parte della massa patrimoniale del Monistero di S. Paolo (2). Nell'anno 1410 i Colonna seguivano la parte del Re Ladislao e dell’anti- papa Benedetto XII, ma il Pontefice Giovanni XXII (1410-1415) procurò di conchiudere subito un accordo coi Colonnesi, e vi riuscì, perchè nell’anno sopra- detto, ai 23 di agosto (secondo il diario di Antonio di Pietro), fu segnata la pace fra la Chiesa, il popolo romano e Giovanni Colonna (3). Da un Breve del Pontefice sopradetto, pubblicato nel seguente anno, ap- prendiamo che S. Vittorino era stato venduto e separato dal patrimonio del Monistero di S. Paolo, perchè venne concesso in feudo a Giovanni Colonna insieme ad altri luoghi (4). Nell'anno 1441, i Colonna, essendo caduti in disgrazia del Pontefice Eu- genio IV, furono privati dei loro beni, e quindi anche il Castello di S. Vittorino ‘ fu devoluto alla Camera Apostolica. Il cardinale Giovanni Vitelleschi lo con- cesse in feudo, unitamente a quello di Corcolto, a Roberto de Montella, in ricompensa del servizio militare prestato alla Chiesa (5). Il Castello di S. Vittorino passò alla famiglia Barberini, e da questa, nel (1) Kar P. Regesta rom. pont., I, pag. 169, doc. 19. (2) MargariNnI. 2u//. Cassin., Ons. I, B1. A (3) A. /. S., tom. XXIV, col. 1019, 1020. Coppi. Memorie Colonnesi; 154 è segg. (4) Cod. Vatic, Mss., 6052 e 7920. Copri, 1. c., 155. (5) Cod. Vat. Lat., 2706, 8S. 484 IL CASTELLO DI S. VITTORINO mese di novembre 1693, a Giuseppe Lotario, duca di Poli, che poi nuovamente lo cedette ai Barberini, i quali tuttora lo posseggono (1). Il Cardinale Francesco Barberini restaurò il Castello, derivandovi l’acqua a scopo di pubblica utilità. (1) CascioLi G. Mem. di Poli, 35. LA & DOMUSCULTA DI S. CECILIA » NEL TENIMENTO DI PRATOLUNGO 485 X. La « Domusculta di S. Creilia » nel tenimento di Pratolungo. Oltrepassato il ponte Mammolo sull’Aniene, lungo la via Tiburtina e dopo il quarto miglio, trovasi, sulla sinistra, un antico diverticolo che ora serve di confine al fenimento della Rebibbia. Sulla parte destra si rinvengono molte rovine e ruderi, rivelanti la primitiva esistenza di grandiosi monumenti, fra i quali havvene uno in forma rotonda, circondato da un muro esterno, con con- trafforti interni, che forse doveva essere rivestito da un cumulo di terra, come può talora riscontrarsi in alcuno degli antichi sepoleri. Il Libro Pontificale, nella vita di Zaccaria Papa (741 752), narra come in quei tempi morisse un tal Teodoro, figlio maggiore di Megesto Cataxanto (forse d’origine greca) il quale, per ottenere da Dio il perdono dei suo falli, lasciò in dono a S. Pietro, e per conseguenza alla Chiesa romana, un fondo esteso. che egli possedeva per eredità paterna, situato a cinque miglia circa lungi da Roma sulla via Tibur- tina, nel luogo ove di quei tempi esisteva un oratorio sacro a Santa Cecilia. Il Pontefice Zaccaria ampliò l'oratorio, lo decorò con pitture e costrusse sul luogo grandiosi edifici. Volle ancora estendere i confini di quel predio, al qual fine, usando con i padroni dei vicini fondi, come si conveniva ad un padre, tutta la possibile condiscendenza, convenne con essi un prezzo amiche- vole per acquistare i fondi stessi. In una parte di quell’'esteso tenimento in- nalzò casali con altre fabbriche per abitazione dei coloni, i quali coltivavano i terreni, e formò la «e domusculta di S. Cecilia » che così chiamossi per molti secoli, ed il Pontefice unì quel latifondo al patrimonio Tiburtino del Beato Pietro. La domusculta di S. Cecilia è una delle più vicine a Roma, e recentemente si è scoperto che il suolo fu già ocenpato da uno degli antichi pagi suburbani, floridissimi prima dell’età imperiale (1). La domusculta di S. Cecilia nell'anno 1074 apparteneva al Monistero di S. Paolo fuori le mura, ed il Pontefice Gregorio VII, nella Bolla emessa in (1) Stevenson E. In Boll, Archeol. Com., 1878, 226. TomasseTTI G. / centri abi- tati, occ., 20, 486 LA & DOMUSOCULTA DI S. CECILIA » NEL TENIMENTO DI PRATOLUNGO quell’anno, confermando i possessi della Basilica Ostiense, annoverava fra gli altri fondi « Curtem Sanctae Ceciliae, quae vocatur de Mega, cum omnibus suis pertinentiis, sitam foris Portam S. Laurenti, hiis finibus terminatam ». Da un lato il fiume Tevere (perchè in quei tempi così chiamavasi l’ Aniene, poi volgarmente detto Teverone); da un altro il rivo Mega (poi Magulanus, che allora dava il nome alla Corte) lungo lo stesso rivo, risalendo fino al fondo di S. Lucia de Renati, si giungeva fino alla strada pubblica (la Tiburtina), che chiamavasi di S. Valentino, per poi discendere, attraverso i fossati di scolo, fino al sopra- detto fiume Tevere (Aniene) (1). Da questo documento rileviamo che nel secolo xI lo aggregato di 8. Cecilia non s’appellava più domusculta ma Curtis, e da ciò si rileva che la fondazione dovesse aver subìto qualche smembramento e qualche delimitazione. Infatti da due documenti, che ci pervengono dall’ Archivio di S. Maria in Via Lata, ap- prendiamo che una parte del tenimento di Pratolungo (ove in seguito prove- remo come dapprima sorgessse l’antica domusculta di S. Cecilia) appartenesse al monistero sopradetto. E di vero, nell’anno 1027, ai 23 di novembre, Ermen- garda, abbadessa del monistero dei SS. Ciriaco e Nicola, nella regione in Via Lata. affittava per anni 19 un prato insieme ad un’altra quantità di terreno attigua, a due fanciulle sorelle, Georgia e Stefania, figlie di Bernigerio. La parte di terreno, fu limitata dal castaldo Ardoino, e tutto l’ insieme era posto fuori la porta Nomentana, alla distanza di sei miglia da Roma, nel luogo detto Pratolungo. Aveva per confini un prato, che spettava ad Azzo di Giovanni Ruscio e i suoi parenti, da un altro lato un terreno per seminare, di proprietà delle sorelle sopradette, ma ritenuto da Landolfo de Primocerius Defensore, e finalmente da un altro il rivo Magugliano (Magliano). L’atto fu redatto dallo scrinario Crescenzio (2). Con altro atto la stessa abbadessa Ermenegarda, nell’anno 1030, il giorno 1° marzo, affittò per anni 19 a Beno e Giovanni di Martino, fratelli, e mansio- nari della Basilica di San Pietro, un prato poco discosto dal. Ponte Mammolo (Ponte Mammi) nel luogo detto Pratolungo, in prossimità dell’altro fondo sopra menzionato (3). (1) STEVENSON, l. c., 227. (2) Cod. Vatie. Lat. 8048, I, 81. NiBBy, II, 661. (3) Cod. Vat. Lat, 8048, I, 83. NiBBr, l. c, LA € DOMUSCULTA DI S. CECILIA » NEL TENIMENTO DI PRATOLUNGO 487 Dalla Bolla di Gregorio VII, sopra citata, rileviamo che la Qui: di S. Ce- cilia, corrisponde alla domusculta del Pontefice Zaccaria. Infatti uno dei confini è l'Aniene, l’altro è il rivus Megae. I due documenti degli anni 1027 e 1030, pon- gono i medesimi confini, e le identiche vicinanze. Il Maguglianus, che attraversa la via Tiburtina al sesto miglio, non è altro che il fosso di Magliano, e per conseguenza la domosculta di S. Cecilia era sita tra la via Nomentana e la via Tiburtina, ove appunto trovasi il tenimento di Pratolungo (1). Anche in una pergamena inedita, che riguarda l’anno 1040, si fa menzione di un terreno del Mon. dei SS. Ciriaco e Niccola, sito fuori la porta di S. Lo- renzo Martire, a sei miglia circa da Roma, e confinante col rivo Magugliano (2). Una bolla del Pontefice Onorio III, dell’anno 1217, confermò alla chiesa di S. Tommaso in formis, tutti fondi; che la stessa possedeva a Pratolungo (3). La domusculta di S. Cecilia. insieme ad altri centri agricoli, non sappiamo come passassero poscia in proprietà del Monistero dei Ss. Stefano, Dionisio e Silvestro, cata Pauli, sive inter duos hortos (oggi S. Silvestro in Capite); ma nel. l'anno 1249, ai 27 di aprile, Fentile, Abbate del Monistero sopradetto, insieme ai monaci ed a Castorio scrinario e procuratore di quel convento, in presenza di Pietro di Nicola Bonifazio, concessero in enfiteusi perpetua al conte Giovanni di Polì l'intero tenimento, colto ed incolto, cum Cripta Maria, con le vigne, gli orti, le quali cose tutte erano poste dappresso al Ponte Mammolo, a confine della proprietà del Convento di S. Lorenzo fuori le mura, di quella degli eredi di Pietro Grisocti, e di quella dello stesso Giovanni di Poli da una parte, e dal- l’altra il rivo Magliano, e la via Tiburtina, fino al luogo detto Leone. Il conte Riccardo, padre di Giovanni, ne ottenne parte in concessione da alcuni, che l’ebbero in enfiteusi dallo stesso Monistero, per il canone annuo di 12 denari e due candele di cera di un libbra ciascuna. L'enfiteusi con Giovanni di Poli fu convenuto, dietro esborso per una volta di 50 libbre di provisini del Senato, e con l’annuv cacone di 12 provisini del Senato, e 12 denari, per valore corrispondente delle due candele di cera; e l’atto i fu stipulato da Giacomo di Ranuccio, notaro (4). (1) Stevenson, |. c. (2) Sudd., 1. e. (%) Ball. Bas. Vat., I, 102, NicoLa1, Memorie dei Inoghi, ecc., 239. (4) Feoerici. V. Reg. di S, Stlo. in Capite. Arch, della Soc, rom, di St, Pat., XXLLI, 84, TOMASSETTI, | c., 30, 483 LA € DOMUSCULTA DI S. CECILIA » NEL TENIMENTO DI PRATOLUNGO Questa concessione enfiteutica riuscì dannosa all’agricoltura, che in quel tempo era floridissima, specialmente sulla via Tiburtina, come rilevasi dai docu- menti di quei tempi (1). | In seguito il tenimento di Pratolungo, fu devoluto alla Camera Apostolica, che nell’anno 1479 vendè la stessa tenuta al Capitolo di S. Giovanni in Late- rano (2). Infatti da quell’archivio rileviamo, che nell’anno 1496, quel Capitolo affittò il tenimento sopradetto a Niccola De Lottis (3) Nell’anno 1527, dopo il sacco di Roma, quattro Cardinali, deputati a rifor- nire l’erario pubblico, esausto per la contribuzione di guerra, pagata alle solda- tesche dell'Imperatore Carlo V, vendettero fra le tante tenute, anche due piccole pediche, che già facevano parte del tenimento di Pratolungo, le quali furono comprate da Girolamo del Poggio, per la somma di scudi 487 d’oro (4). Sembra poi che ne sia stato cessionario un certo Girolamo Giustini, che avendo acquistato il Casale di Pratolungo il 13 giugno 1542, nel giorno 4 luglio rinunciò alla vendita; e la Camera Apostolica acceltando detta rinuncia, restituì la tenuta al Capitolo Lateranense, che ne mantenne il possesso fino ai nostri giorni (5). (1) POMASSETTI G., ]. c. (2) Cod. Vat. Lat. 8048, I, 83. NiBBY, l. e. (3) Arch, Lateran, Bernamlus de Caputgallis not. (4) Bibl. Chiciana, Ms. G. TIT, 58. Copri, Mem. sforiche, pag. 267. (5) Arch. Vatie., lib. XV, pars. IL, /strum.. Cam., fol. 145, Armad. 58, tom. 40, fol. 637. CASTELL'ARCIONE 489 XI. A Castell’Arcione. Attualmente sono due le tenute, denominate Castell’ Arcione, divise fra loro, e che prima formarono un solo latifondo. La più vicina a Roma, confina coi tenimenti di Marco Simone e Cavaliere; l'altra confina con la sopradetta, con Torre de’ Sordi, Marco Simone, Monte del Sorbo e Castell’ Arcione. Rinveniamo le prime memorie del luogo nel secolo vm, nel registro di Cencio Camerario, allorchè Gregorio Papa I! (715-731), concesse in enfiteusi ad Anna religiosa, e ad altre persone varî fondi Argenti, Verelanum, Collivercorum, e Toleranum, per due soldi d’oro, nonchè 7'uci, Trasis Senanum et Possessionanum, per 50 bisanti d’oro. Tutti i fondi sopra.letti appartenevano alla Massa del Pa- trimonio Tiburtino (1). Nell anno 1207, la famiglia dei Capocci, che poi risultano parenti degli Ar- cioni, acquistò i tenimenti di Mentana, Grotta Marozza, S. Angelo in Capoccia e Castellarcione (2). Nel secolo xt sembra che i Conti di Poli abbiano avuto il posssesso di quel tenimento, e che quivi costruissero un castello (3). Da un documento dell'Archivio Vaticano, ci risulta, che il Pontefice Boni- facio VIII, nell’anno 1301, desse ordine espresso ai Colonna, perchè restituissero subito Castell’Arcione a Giovanni de Caputinis (4). Da un altro documento, dell’anno 1343, apparisce, che il tenimento di Castell’Arcione, tuttorà apparteneva ai figli di Fiorenzo Capucie de Capo- cinis (5). (1) Nispv. Dintorni di Roma, \. MT. Coppi. Dissert. Castell'Arcione, 221. KenR. Reg. Pont. Rom., I, 97. ì (2) Muratori. £#. /. $S., tom, ILL, parte II, p. 848. Nispy, |. c., 141, 418. (3) Tomasserti G. / cenfri abitati, occ. pag. 30 (4) Arch. Vat. Bonifatiî VIII, VI, 122. Miscellan., tom. II, 137, La famiglia Capocci, nel medio evo, era chiamata Capucie de Caputinis, Capuccinis. (5) Arch. di S, Angelo in Pescherin, Cod, Vat, Lat, 7954. Coppi. Diss. Castell'Ar- cione, 222. Nispy, |. c., I, 418, 490 CASTELL’ ARCIONE In seguito ad una causa insorta fra le chiese di S. Maria Maggiore, unita a quella di S. Prassede, e gli eredi Capucie de Capocinis, gli arbitri eletti dalle parti, Sante di Pietro Berte e Nardo di Puccio Venectini, nell’anno 1387, ai 30 di settembre, emisero un lodo a favore delle chiese menzionate, per l’avve- nuta donazione del Castel? Arcione, fatta da Giovanni Capucie de Capoccinis. Da quell’atto conosciamo, che Processo, di Giacomo Processo, Capocie de Ca- poccinis, stipolò col suo fratello Giovanni una reciproca donazione, in caso di morte (come da atto del notaro Gentile di Giacomo, di Mentana, del giorno 7 agosto 1381) per la quarta parte di Castell’ Arcione. Contro questa donazione, dopo la morte di Giovanni, insorsero Fiorenzo, Lucia e Francesca in età minore, tutti figli di Processo, del q. Processo Capucie de Capoccinis, insieme a Buzio, . tutore dei sopradetti (1). : A corollario del lodo sopramenzionato, una sentenza, del 31 ottobre 1388, ordinava che il Capitolo ed i Canonici di S. Maria Maggiore, ed il Monastero di S. Prassede, fossero immesssi al possesso del Castello Arcione, nonchè del te- nimento, e della pedica, che chiamavasi, come ora, S. Sinfarosa, facente parte della tenuta suddetta (2). Nell'anno 1400, ai+27 di giugno Fiorenzo di Processo di Giacomo Processo de Capuccinis, essendo proprietario di Castell’Arcione, fece il suo testamento, disponendo, di essere sepolto in Santa Maria Nuova a Roma legando alla stessa chiesa 209 fiorini d’oro, garantiti sulla quarta parte di Castell’ Arcione (3). Nel diario di Antonio di Pietro si narra come nell’anno 1406, un tal Cec- colino, capobanda, insieme a varî suoi seguaci, s’impadronisse del Castello e continuamente vessasse i viandanti lungo la via Tiburtina (4). In seguito ci risulta che quel luogo abbia appartenuto, per la quarta parte a Paola, vedova di Giovanni di Palombara, perclè da un documento del- l’anno 1409, ai 17 di settembre, Giacomo Orsini, conte di Tagliacozzo, nomina suo procuratore un tal Giacomo de Priscianis, da Canemorto, per trattare con (1) Arch. della Bas. Lib., Perg. Orig. D. II, 100. Ferri G., Arch. Soc. Rom. Stor. Patr., XXX, 151. (2) ApinoLrI P., Roma nell'età di mezzo. 1, 116, n. 2, Arch. Capit. Adinolfi Mss. Mazzo 7, pag. 237. (3) Arch. S. Mariao Novae, tab. VII. Coppi, Doc. stor. Agr. rom., doc. 139. (4) Mur\toRI, P. I. S. tom. XXIV, pag. 979, Coppi. Marco Simone e Castell'Ar- cione, 222. Nippy, I, 418. TRO E CASTELL'ARCIONE 491 Cecca di Moricone, figlia della sopradetta Paola, col Canonico di Sant’ Eustacchio, Giacomo Pascucci, con Tuzio Bellini e con un’altra Cecca, vedova di Cola di Pa- lombara, l'acquisto della quarta parte di Castell’ Arcione, per il prezzo di 1230 fio- rini d'oro (1). Sotto il Pontificato di Giovanni XXIII (1410-1415) la Camera Apostolica diede autorizzazione, che fossero venduti nell’anno 1412, a Lello de Capoccinis, domicello romano, tutti i diritti sopra la quarta parte di Castell’Arcione, che erano di pertinenza di alcuni, per vincolo di legato pio, fatto da* Fiorenzo e Mabilia de Capocinis (2). Sembra che poscia continuassero le incursioni dei malviventi in quella lo- calità, perchè ci narra lo Zappi, nella storia manoscritta di Tivoli, che i Tibur- tini, stanchi forse per tante vessazioni e ladronecci, s'impadronirono del Castello e in gran parte lo demolirono nell’anno 1420 (3). Tuttavia apparisce chiaro come quel luogo continuasse ad essere abitato ed appartenesse alla Camera Apostolica, perchè il pontefice Eugenio IV, nell’anno 1432, condonò a molti luoghi abitati il contributo solito del sale e del fuocatico, che allora pagavansi alla Camera Apostolica; e fra quei luoghi è menzionato il Castel- P'Arcione (4). Ciò rilevasi anche dalla Bolla, con la quale il sopradetto Pontefice, l'anno 1435 ai 16 ottobre, conferì il vicariato di Castell’ Arcione e Monte Gentile, a Giannantonio Orsini, conte di Tagliacozzo ed al suo fratello Rinaldo, loro vita naturale durante, a condizione che ogni annn dessero alla Camera Apostolica un cane da caccia ed una rete come censo; © ciò per compensarli dei servigi pre- stati contro i nemici della Chiesa, ed in premio dei pericoli e delle fatiche da essi sostenuti, e perchè presiedessero al governo e alla custodia di quei castelli ‘e luoghi e dei coloni ed abitanti (ad gubernationem regimen et liberam custodiam castrorum predictorum, et locorum et colonorum et habitatorum) (5). Non sappiamo però per quale ragione Giovanni Antonio Orsini procurasse di vendere la sua porzione di Castell’ Arcione e Monte Gentile perchè nell’anno 1450, ai 24 ottobre, nominò suo procuratore Tommaso di Antonio de Justo, per dare (1) Arch. Orsini II, A. XI, n. 26. (2) Arch. Vat., Reg. Johannis XXIII, tom. V, pag. 107 t. (3) Nrssy, I, 418. Coppi, |. c., 222. (4) Arch. Vat., lib. I, Divers Eugeniî IV, fol. 191 ot lib. II, fol. 208, t. (5) Ut sup. Anno V, Eugenii IV offic., fol. 270 et tom, XXII, fol. 270. Arch. Or- sini, II, A. XIV, n. 66, 492 CASTELL’ARCIONE in pegno î beni sopradetti, comprese anche le case in Roma, e per vendere a dirittura il tutto, per quel prezzo avesse trovato più conveniente (1). Causa probabile di ciò può ritenersi che fosse il dissidio insorto colla Co- munità di Tivoli, circa i confini di Castel? Arcione; a dirimere il quale furono eletti due arbitri Giovanni de Grassis e Luca Tozzoli, che nel giorno 27 settem- bre 1451 sentenziarono, mediante lodo, che i confini fossero posti lungo l’antica via Tiburtina, tra una imagine ove era disegnata una croce, sita presso una sor- gente d’acqua, fino all’ Aniene e dalla immagine suddetta in direzione del Casale dei Sordi, stabilendo che lo spazio di terreno, compreso entro quei confini, ap- partenesse al Castello Arcione (2). "Una convenzione avvenuta fra i componenti la famiglia Orsini, nel giorno 4 agosto 1477, per atto del notaro Francesco di Lino di Castello, regola la sue- cessione ereditaria futura dei Castelli di Torri, Seleî, Rocca Antica, Castiglione, Fianello, dell'Isola, Vicovaro, S. Gregorio, S. Polo, S. Angelo e del tenimento di Castell’ Arcione (3). Dall’atto medesimo sembra che la tenuta sopradetta toccasse in parte a Na- poleone Orsini conte di Tagliacozzo, perchè il suo figlio Virginio, nel 1480 al 9 novembre, la vende a Gabriele Cesarini, a Stefano di Francesco Crescenzi (che non era presente all’atto) ed a Mariano di Lello, nonchè a Paolo de Lenis, per il prezzo di 3009 ducati da soldi 65 l’uno. Dall’atto, stipulato dai due notari Francesco Prostoli dà Turrita, e Pietro de Meriliis di Roma, risulta che in quel tempo il castello era diruto (4). Un’altra porzione della tenuta sopradetta era toccata a Gentile Virginio Orsini ed alla di lui sorella Bartolomea, che prestò il suo proprio consenso, af- affinchè Gentile potesse vendere, col patto di riscatto, la detta porzione della tenuta di Castell’ Arcione a Paolo Oricellari, ed al suo figlio Giacomo, ambedue mercanti fiorentini, per dimissione di passività, contratte dagli Orsini con gli acquirenti stessi e con altri. L’atto fu rogato a Bracciano dai notari Francesco de Pagnis e Rocchi Antonio (5). Nè gli Orsini riscattarono il fondo venduto, (1) Arch, Orsini, II, A. XVI, n. 19. (IMOLA DEVI; n 82 (3) Arch. Vat., Libro D. MONTE, fol. 434. (Contelorius). (4) Niepy, I, 419. Coppi, Doc. Stor. Agr. Rom., 204. Arch, Capitol., Petrus de Me- riliis not. (5) Arch. Orsini, II, A. XIX, 70, 72, CASTELLI’ ARCIONE 493 perchè Paolo Oricellari, il giorno 5 gennaio 1499, vendè il tenimento ad Achille Maffei (1). Nell'anno 1538, leggiamo, che avvenne un’altra controversia per i confini tra Castell'Arcione e Casale nuovo, il quale ultimo era posseduto indiviso da Antonio e fratelli de Militibus, mentre il primo era posseduto indiviso da An- tonio de Paluzzellis ed altri, nonchè da Girolamo Maffei. Per conciliare la ver- tenza fu stipulata una convenzione per atti del notaio Stefano de Amannis (2). La famiglia Maffei continuò a posserlere il tenimento perchè quando Lau- dimia di Girolamo Maffei andò sposa a Ludovico Lante, il dì 19 maggio 1550, e s'ebbe in dote 5000 ducati di carlini, Girolamo ipotecò ed obbligò il Casale Arcione fintanto che non avesse compiuto il pagamento dell'intera somma, per” la quale lo sposo Ludovico Lante doveva comperare tanti beni stabili (3). La stessa famiglia Maffei ne vendè una porzione ai Grazioli, nel principio del secolo xix, ed un’altra parte alla famiglia Borghese che tuttora la possiede. (1) Arch. Capit. Gabriel. de Meriliis in lib. VIII, fol. 1. Coppi, Doc. Stor., n. 217. Nispy, I, 419. ‘ (2) Arch. Capit., Stephanus de Amannis not., fol. 888, Cod. Vat. Lat. 2651. (3) Ib. Mariano Scalibastro not. 4094 IL CASTELLO DI MONTE GENTILE, O FONTANA DI PAPA, E TORRICELLA XII. Il Castello di Monte Gentile, o Fontana di Papa, e Torricella. Sul colle, che dicesi Monte Gentile, all’undicesimo miglio della via Nomen- tana, e sulla destra di questa, tuttora si rinvengono le rovine di un antico ca- stello, costruito dagli Orsini nel secolo xII, come da tante memorie che diremo in seguito. Il Castello, detto di Monte Gentile, dì nome ad un tenimento che chiamasi anche Fontana di Papa. Forse chiamossi Gentile dal nome di uno degli Orsini, ed annesso a quella tenuta v'è anche il fondo di T'orricella. Narreremo le vicende varie di quei luoghi, che ora costituiscono un solo la- tifondo. Una prima memoria la rinveniamo nel codice di Cencio Camerario ove rac- contasi che Gregorio III (731-751) locò a Leonzio Milite i fondi Aunias et Spa- tianum per l’annua corrisposta di solidi 11 (1). Nell’anno 1141, il Monistero di S. Ciriaco in via Lata in Roma affittò al dapifero Hyacinto l’acqua del rivo Magugliano, per costruire una mola... per utile del molinaro... al di là del ponte Nomentano; e fra i confinanti si notano il Monistero ed il Monte spettante a quello (2). Il Magugliano (ora fos:o di Pratolongo) forma il confine da una parte del tenimento che nei documenti è designato, come altri, in partibus Insulae. Dai fiumi Tevere ed Aniene, dal fosso di Correse e quello di Magugliano (ora fosso di Pratolongo) viene circondata una vastissima plaga contenente molte tenute che nel medio evo, si chiamò « Insula ». Nell’anno 1263, ai 29 di ottobre, Giovanni Capocci, detto Mezzopane, donò ‘alla Chiesa di S. Maria Maggiore dieci vigne nel suburbio di Roma, nonchè venti rubbia di grano di buona qualità, da riscuotersi dalle terre e dalle possessioni di sua proprietà nel Castello di Monte Gentile, fuori la porta Nomentana, dando (1) Coppi. Ficalea Dissert., 249. ToMASSETTI, in Arch. Soc. Rom. St. pat., XIV, 89. (2) Cod. Vat. Lat., 8044, f. mod. 17. TOMASSETTI, ]. c., 90. e 2 gv. si nali IL CASTELLO DI MONTE GENTI E 0 FONTANA DI PAPA, E TORRICELLA 493 tutte le facoltà necessarie affinchè la detta annua corrisposta fosse pagata non oltre otto giorni dopo il 15 agosto di ogni anno (1). Giovanni del fu Pietro de’ Cardinali che ebbe in moglie Adelasia, figlia di Alberto de Normanni (2), nelle sue disposizioni testamentarie del 23 dicem- bre 1285, ordina che sia costruito un monistero per i monaci Cistercensi sul Monte Albarone; quale convento dovrà essere soggetto a quello di S. Anastasio ad Aquae Salvias di Roma, per dotazione del monistero, da costruirsi, lascia il Castello di Torricella (3). Nell'anno .1303, Processo, figlio di Fiorello De Capocci, sposò Vinia de Cre- scenzi, e nel suo testamento dispone che il Castello di Monte Gentile e quello di Torricella siano di Celso, suo fratello, e di Giovanni, figlio del suddetto (4). Annibale de Annibalis (Annibaldi) e Ludovica di Lello Buzio Capocci, nel- l’anno 1319, il giorno di giovedì 11 aprile, vendettero a Giordano Colonna, prin- cipe di Salerno, i Castelli di Monte Gentile, Torricella, Monte Lupara (Torre Lu- para) e tre quarti di Custell’Arcione, con istrumento di Matteo de Bondionibus di Spoleto, notaro (5). Buecio figlio del q. Paolo Capuciae de Capoceinis, nell'anno 1370 ai 3 di luglio vendette a Perna, moglie di Pietro Bobone de Bovescis, del rione Campi- telli in Roma, il castello ossia il casale della Torricella (con palazzi, torre, e do- minio sui vassalli) posto fuori la porta Domine ed il Ponte Nomentano, per il prezzo di 1500 fiorini d’oro per atti di Lorenzo di Stefanello de’ Scambi no taro (6). . Nell'anno 1374, ai 7 di febbraio Giovanni figlio del fu Cesso, o Processo, Ca- puciae de Capoccinis promise a Giovanna, sorella di Buccio figlio del q. Giordano di Poncello Orsini, e sua futura sposa, l'intera metà del Castello di Monte Gen- tile, unita con l’altra metà che apparteneva agli eredi di Giacomo Cesso Capuciae, suo fratello; . e detto tenimento, sito fuori la porta Nomentana, era confinante (1) TomassETTI, |. c., pag. 91, dice, che l'atto sia dell'anno 1309; ma invece, in quello è scritto millesimo ducentesimo sexagesimo tertio. (2) Tabul. Bas. Vat. Caps. LXXII, fasc. CLXIV. (3) Arch, Ors. IT, A. II, 15. (4) Cod. Wat. 7984. Historia della Gente Capoccina, ecc, TOMASSETTI, l. c., 91. (5) Arch. Colonna, III, BB. XVII, 126. . (8) Cod. Vat. Lat. 7972, 87. NicoLar, in atti Accad. Arch. V, 253. Coppi, |. ce. To- MASSETTI, l. c., 91. 496 IL CASTELLO DI MONTE GENTILE, O FONTANA DI PAPA, E TORRICELLA col Castello della Torricella e col casale Porenno (forse Ferronea) del Monistero di S. Lorenzo fuori le mura, promise anche la metà del Castello dî Nomento, in- divisa con l’altra metà dello stesso fratello Giovanni, oltre la dote 2500 fiorini d’oro (1). Nell’anno 1377, ai 10 di novembre, Giovanni Cessi Capuciae de Capoccinis insieme alla propria moglie Giovanna, figlia del q. Giordano de Ursinis, costi- tuiscono tutore ed amministratore dei loro figli Pietro di Bobone de Bovescis, al quale dànno mandato di conservare ai suddetti, dopo la morte dei genitori, il Castello e la Rocca di Nomento. In seguito viene disposto che si venda la metà del Castello della Torricella, nonchè la metà del Casale della Torre di Pietro Sasso e così anche la metà del Casale di S. Onesto (Marco Simone) (2). i Giovanni di Celso Capocci de Capoccinis, del rione dei Monti, fece testamento, nell’anno 1377 ai 10 di novembre ed istituì eredi i suoi figli Processo e Luigi lasciando ad essi il Castello di Nomento, e stabilendo, uve morissero senza figli, che dovesse ad essi sostituirsi, come erede, l'Ospedale di S. Spirito in Sassia, a condizione che questo Istituto consegnasse l’intero Casale detto de Buccamatiis, fuori di porta Maggiore, alle sorelle del testatore, a Perna, cioè, moglie di Pietro di Bobone de Bovescis, e Giovanna. Che se l'Ospedale sopradetto avesse ciò rifiutato, in tal caso la Basilica di S. Maria Maggiore dovesse ereditare il Castello di Nomento, col patto di consegnare alle sopradette Perna e Giovanna il Casale di S. Basilio fuori la porta Domine. (1) Cod. Vat. Lat. 7930, pag. 81, t. TOMASSRTTI, I. c., 92. (2) Cod. Vat. Lat. 7930, pag. 91 t. Ad intender meglio quanto è stato nurrato, conviene aggiungere il seguente schema genealogico. Celso Capooci | Frs Orsini | | Giovanni Celso Capocci marito a Giovanna Buccio Orsini i uni ci Buccio fig naturale Processo Lalgi N.]l'enro 1274. quando Fuccio Orsini fece sposare Ja propria sorella Giovanna a Giovanni Celso Capocci, era già nato il figlio naturale Buccio, che fu riconosciuto per quelle nozze, e che nell’anno 1377, deputava Pietro de Bovescis allo ufficio di tutore ed amministratore dei propri figli. sc. Sen IL CASTELLO DI MONTE GENTILE, O FONTANA DI PAPA, 8 TORRICELLA 197 Nel caso poi che i detti suoi figli Processo e Luigi non avessero figli, la- sciava la metà del Castello di Monte Gentile, a Celso e Giovanni Fratelli, © figli di Gincomo Celso, suo fratello germano (Antonio de Scambiis, notaro) (1). Un laudo, pronunciato nell’anno 1387, il giorno 30 settembre, da Sante di Pietro Berte, del rione Colonna, è da Nardo di Puccio Venectini, del rione Monti, compositori amichevoli in una vertenza circa la donazione fatta da Giovanni Capocci, insorta fra le Chiese di S. Maria Maggiore © S. Prassede e Buccio di Paolo Capocci de Capoccinis, c'informa che Cesso, o Processo, di Jacopo Celso Capocci de Capoccinis, aveva donato in vita, a suo fratello Giovanni, la quarta parte del Castello Arcione, conchiudendo poi con lo stesso un’enfiteusi perpetua per quella parte che aveva «onato, insieme ad una quarta parte del Monte Gen- tile, con il suo tenimento, con la Rocca e recinto del castello suddetto, le terre circostanti a quello, con i vassalli e con ì diritti spettanti a quelli — vassallis et juribus vassallorum — cori la quarta parte di Torricella, e della sua tenuta, con i vassalli e i diritti di quelli e di tutto il tenimento — cum vassallis et juribusa vassallorum et totius sui tenimenti. — E così ancora con la quarta parte del Casale di S. Onesto (oggi Marco Simone) e del tenimenfo relativo. Aggiunse eziandio una sedicesima parte del già nominato Castello di Monte Gentile e della sua tenuta, che spettavagli come porzione ereditaria dei suoi beni patrimoniali. L'atto fu stipolato dal notaro Pietro di Niccola Andrea Si- gnorili (2). Il giorno 31 ottobre 1388, una sentenza contro Giovanni Celso, zio di Buccio, Fiorenzo, Lucia e Ceccola, suoi pupilli, e figli del quondam Cesso, o Processo, di Jacopo, ordinò che il Capitolo e i canonici di Santa Maria Maggiore, ed il Con- vento di Santa Prassede, fossero investiti del possesso del Castello di Monte Gen- » tile, e che i sopradetti pupilli restassero in possesso del Castello Arcione, con la condanna al pagamento di 200 fiorini d’oro (3). Madonna Paola de Stephanescis, vedova di Jannozzo di Sant’ Eustachio, ava materna di Buccio, Lorenzo, Lucia e Ceccola, tutti figli del quondam Cesso, o Processo, di Jacopo de Capoccinis, donò ai suddetti suoi nipoti ed a Giovanni VSRIZIONOE: 1 (1) Cod. Vat. Lat., 730, 91, TomassettI, |. c., 93, Copri, 1. c., 250. (2) Arch. Basil. Liber., Perg. D. II, 100. TomasseTTI, |. c., 93. (3) Arch. Not. Capit. Mss. Adinolii P. Mazzo VII, pag. 237. TOMASSETTI, |). c., 98. 498 IL CASTELLO DI MONTE GENTILE, U FONTANA DI PAPA, E TORRICELLA di Cola de Marerio, l’intera metà del Castello dî Monte Gentile, come risulta da un atto del notaio Nardo de Venectinis, del giorno 15 ottobre 1403 (1). Poco tempo appresso, la stessa Paola Stefaneschi, nel giorno 8 ottobre del- l’annu 1406, vendette tutti i diritti, che aveva sopra i beni degli eredi del fu Luigi de Capoccinis, e particolarmente sulla metà del Castello di Monte Gentile e sul castello attiguo, detto la Torricella, presso T'ivolî, a forma del laudo pro- nunziato a favore della stessa Paola, e detta vendita fu eseguita dalla sopra- detta, a favore di Giovanni di Cola Mareri, per il prezzo di 1600 fiorini d’oro, a soldi 47 di provisini del Senato per ciascun fiorino. L’atto fu stipulato dal notaro Antonio de Gualtiero (2). Nel seguente anno, il giorno 2 ottobre, Giacomo Orsini vendette a donna Lella de Capoccinis i diritti, che esso aveva sopra il Casale di Landosa, a Tor- ricella e prati di Sant'Onesto, nel territorio Ci Roma verso Mentana (3). Lo stesso Giacomo Orsini, nell’anno 1407, rilasciò una procura per comprare dall’Abbadessa e dalle monache del Monistero di Sani’ Agnese fuori le mura di Roma, la quarta parte del Castello di Monte Gentile, nelle parti dell’Isola, che confinava «ol tenimento del castel di Nomento, Castel Potisano e Casale di Santo Onesto (4). E nel seguente anno, l’Orsini rinnova la sua procura, in persona di Cola di Pietruccio Rainaldi, affinchè questi si recasse in Roma, per trattare con l’Abba- . dessa del Monistero di Sant’ Agnese l'acquisto della quarta parte del Castello di Monte Gentile. La procura fu redatta dal notaio Pietro de Conducto, di Ta. gliacozzo (5). Giacomo Orsini, che cercava sempre di accrescere la sua possidenza com- perando la proprietà dei confinanti, come già provammo, continuò ancora nel- l’anno 1409; ed infatti nel giorno 24 maggio di detto anno, fece una procura a Francesco di Tagliacozzo, per acquistare altra parte di Torricella, del Castello e tenimento di Monte Gentile (8). (1) Arch. Capit. Atti de Venectinis, c. 97. Cod. Ottob. 2551, lett. M, c. 401. Tomas- SETTI, l. c., 93. (2) Arch. Orsini II. B. XI, n. 7, Coppi, ]. e.. 250. TOMASSETTI, l. c.. 93. \ (3) Arch, Orsini IL, A. XXXVIII, pag. 31. (4) Ibi. Volume XI, pergam. n. 20. (5) Ibi, II, A. XI, n. 23. TOMASSETTI, l. c., 94. NiBBy, II, 342. Coppi, l. e., 251. (6) Ibi, II, A. XXXVIII, pag. 53, IL CASTELLO DI MONTE GENTILE, O FONTANA DI PAPA, K TORRICELLA 499 Nell'occasione del matrimonio e degli sponsali fra Annibale del fu Lorenzo Annibaldi de Stephanescis, e Ludovica del fu Lello Capocci da Capoccinis, av- venuti il giorno 30 ottobre 1415, una parte del Castello di Monte Gentile ne costituì la dote, e fu data eziandio ipoteca svl Castello di Porto, a garanzia reciproca (1). Il Cardinale Giovanni Vitelleschi, nell'anno 1435, condusse le soldatesche pon- tificie contro i Baroni del Lazio e della Sabina e contro Tivoli, perchè tutti si erano ribellati al Pontefice Fugenio IV. In quella occasione furono occupate tutte le Rocche e i castelli di quella regione dallo stesso Cardinal Vitelleschi. Nel mese di marzo di quell’anno stesso fu conclusa la pace fra il Vitelleschi e Giacomo Orsini di Monte Rotondo. Siccome però Giovanni Antonio Orsini e suo fratello Rinaldo, avevano partecipato per la Chiesa, così il giorno 16 ot- | tobre dell’anno suddetto, il Pontefico VLugenio IV, concesse ai due soprannomi- nati il vicariato, loro vita naturale durante, ilel Castello di Monte Gentile è di Castell'Arcione, con l’annvo censo di un cane da caccia e di una rete, per com- pensarli delle fatiche e dei servigi prestati alla Camera Apostolica (2). Esponemmo già in una precedente silloge sopra Castell’ Arcione, che non avevamo potuto sapere, per quale motivo Giovanni Antonio Orsini avesse pro- curato di vendere la sva parte di Castell’Arcione e di Monte Gentile e la notizia è confermata dall'Archivio Orsini, che cioè, nell’anno 1450 ai 24 di ottobre Giovanni Antonio abbia nominato a suo procuratore Tomasso Antonio de Justo (de Trevio?) per dare in pegno i beni sopradetti, o per vendere a dirittura il tutto a, quel prezzo che avesse trovato più conveniente (2). E le trattative riu- scirono, perchè infatti, nell’anno 1454, Napoleone Roberto ed il Cardinal Latino Orsini comprarono la parte del Castello e del tenimento di Monte Gentile spet- tante al conte di Tagliacozzo, Giovanni Antonio Orsini (4). Il Pontefice Nicola V nell’anno suddetto concesse a Napoleone e Roberto Orsini l'investitura enfiteutica, ossia il Vicariato a terza generazione, sopra la parte e territorio del Castello già diruto di Monte Gentile, che i sopradetti ave- (1) Tabùl. Bas. Vat,, S. Petri, Caps. XXXV, fase, CXXXIX. (2) Arch. Vat. Engenii IV, ann. V, lib. I. Offic. fol. 270. Coppr, 1. c. 251, NiBBy, 343, TOMASSETTI, |. c,, 94. (3) Arch. Orsini, II, A. XVI, n. 19. (4) Nissy, IL, 343. Coppi, 1. e., 251 Sud. Doc, Agr. rom, n. 187. TOMASSETTI, 1. c., 95, 500 IL CASTELLO DI MONTE GENTILE, O FONTANA DI PAPA, E YORRICELLA vano comprato da Giovanni Antonio Orsini, Conte di Tagliacozzo, con patto espresso del pagamento del consueto canone di « un cane da caccia e di una rete » (1). Due anni dopo anche Francesco Orsini volle vendere la sua porzione di Monte Gentile, ed a tale effetto, deputò nell’anno 1456 ai 4 di ottobre, a suò procuratore Angelo de Operariis (2). La Camera Apostolica nell’anno 1472 decretò che fossero restituiti a Paolo del fu Niccolò Orsini di Gallese i frutti e le rendite del porto di Gallese, sul fiume Tevere, e i proventi delle gabelle di di quelle terre e delle tenute di A4/- liano, Bagnolo, Pascolo e Torricella, nonchè quanto esisteva nel tenimento e ter- ritorio di Corchiano (3). Nell'anno 1485 avvenne la guerra tra Renato, ultimo degli Anjou, ed Al- fonso d’Aragona, per il Regno di Napoli e Sicilia. Gli Orsini sostennero l’Ara- i gonese; per Renato parteggiò il Pontefice Innocenzo VIII. In quell’anno, si combattè tra Roberto Sanseverino, condottiero delle soldatesche pontificie, e gli Orsini, lungo la via Nomertana e specialmente al Ponte Nomentano e quindi fu assalito e devastato anco Monte Gentile, con preda di molto legname da parte di Roberto Sanseverino, che si accampò colà; e nel gennaio 1486 seguì la resa di Mentana e Monterotondo, allo stesso capitano (4). Da un documento dell’archivio Cesarini ci perviene la memoria che, nel- l’anno 1489, agli 8 di febbraio, Gabriele Cesarini pagò a Cecco Aloisi ducati 57 in ragione di 10 carlini per ducato, a saldo del prezzo della porzione del Ca- stello della Torricella, che l’Aloisi aveva venduto al Cesarini (5). Dal regesto del Pontefice Giulio II (1503-1513) sappiamo che Pietro Angelo, figlio naturale ma legittimato di Pierfrancesco Orsini, detto Vicino, mentre pen- deva lite al alla successione, invase il Castello di Torricella. Il Pontefice, nel giorno 27 gennaio dell’anno 1505, scrisse al suddetto Pietro Angelo, perchè restituisse tutto nel pristino stato, ed attendesse la fine della causa (6). (1) Arch. Vat., lib. 47 Bull. de Curia Nicolai PP. V., fol. 212. (2) Arch. Orsini II, A. XXXVIII, pag. 71. TOMASSETTI, l. c., 95. (3) Arch. Vat. Lib. I. Diver. Sixti IV, fol. 96 t. (4) Nisey, II, 343. Coppi, l. c., 252. TOMASSETTI, I. e., 95. (5) CaLanI E. Ze pergam., ece., n. XCIII. Arch. Soc. Rom. stor. Pat., XV, 246. (6) Arch. Vat., Lib. III, Brev. Julii II, fol. 61 t. IL CASTELLO DI MONTE GENTILE, © FONTANA DI PAPA, È TORRICELLA 501 Troi!o, anch'esso figlio naturale, ma legittimato di Pierfrancesco Orsini, detto Vicino, nell'anno 1497, insieme alla sua sorella Margherita, e col fratello Pieran- gelo, anche a rischio che tutti fossero esclusi dalla successione dei feudi dipen- | denti dalla Chiesa, e contro l'ordine de! Pontefice, mantennero l'occupazione del Castello di Torricella. Nell'anno 1508 il detto Troilo aveva una fiera inimicizia contro il prete Bernardo da Monteleone, ed in un momento d'ira, lo assali mentre celebrava la messa, lo percosse nel capo col calice, gettando in terra l'ostia consacrata, c poi afferratolo per il collo, lo trascinò nella rocca della so- pradetta Torricella. Il Pontefice Giulio II scrisse subito al prepotente che, sotto pena d'essere «dichiarato ribelle, rilasciasse libero il prete Bernardo, e ciò nel termine di un giorno (1). Seguono le vicende, per trapasso dall'uno all’altro, delle varie porzioni del tenimento di Monte Gentile e, nell'anno 1589 ai 20 di dicembro, Giovanni Ago- stino Pinelli acquista le porzioni di quella tenuta spettanti a Fabio e Virginio Orsini, figli ed eredi di Latino (2). Il latifondo Monte Gentile assunse il nome di Ponte di Papa forse per l’in- cameramento a cui questo fondo fu assoggettato (3). Nel secolo xvIn fu acquistato da Maffeo Barberini, e verso il 1750 l’ebbe il Marchese Abbati (4). In un documento dell’anno 1774, fra i confini di Monte Gentile è annove- rato il Castello di Torricella (5). La Torricella, poi, fino all'anno 1566, appartenne agli Astalli, che in quel- l’anno la vendettero a Marcantonio Borghese. Il tenimento di Monte Gentile nel secolo scorso passò in proprietà del Mo- mistero di Santa Caterina di Città Ducale, e poi della Congregazione di Carità in Roma, alla quale tuttora appartiene (6). (1) Arch. Vat., Lib. VIII Brev. Juli II, fol. 211, t. 212. Litta, le famiglie, ecc. Orsini di Camporese è Foglia, tav. XIII. (2) Arch. Capit. Prospero Campana, not. lib. instr., fol. 532, (3) TOMASSETTI, }. c., 95. (4) Corpr, 1. c., 252. TOMASSETTI, ibi. (5) Coppr, |. e.. 258, (6) Coprr, 1. c., 253, TOMASSETTI, |, 0,, 96, 502 CASTEL GIUBILEO XIII. Castel Giubileo. Lungo il sesto e settimo miglio della via Salaria, fra questa ed il fiume Tevere, s'erge una collina isolata, sulla quale fu l’antica Fidene, che aveva la sua rocca sulla rupe, a destra della via attuale, ed in conseguenza la stessa città era divisa in due parti. Le prime notizie di Fidene, dopo G. C. risalgono alla prima metà del se- colo Iv, ai tempi di San Silvestro I Papa (314-336) allorchè l'Imperatore Costan- tino donò alla chiesa di Sant'Agnese fuori le mura tutte le terre che erano in- torno a Fidene (1). Nel principio del vi secolo Gerenzio. vescovo di Fidene, assistè al Concilio romano, indetto dal Pontefice Simmaco nell’anno 502 (2). Secolo vir-vitt « La Chiesa più antica presso Roma, dedicata all’ Arcangelo San Michele, era posta fra il sesto ed settimo miglio della Salaria. Il Pontefice Leone III (725-816) dotò la detta Basilica (posta al settimo miglio) di sacre suppellettili (3). Il Monte Fidenate ebbe nel medio evo, nome di Mons Sancti Angeli, come risulterà in seguito » (4). Da un atto pubblico dell’anno 1281 rileviamo la divisione del Casale de- nominato Grotta rotonda posto al di là del ponte Salario, nonchè della metà dei terreni compresi nella contrada detta Sacco verso il Castello di Riccardo di Pietro Giaquinto, chiamato altrimenti Castel Giubileo, e la divisione fu compiuta da Gagliardo de Ibernis, da Biagio del fu Angelo Pietro di Guido, per quanto si riferiva al Casale di Grotta Scura, detto già Casale di Mattia de Mutis, in pros- simità di Castel Giubileo (5). (1) Nigpy, II, d7. (2) Ibi. TOMASSETTI, l. e. 117, (3) De Rossi, Roma sotterranea, I, 176. Bollettino 1871, pag. 146. TomasserTI G. Arch. St. Pat., XIV, 118. (4) TOMASSETTI, ibi. (5) Arch. Cap. Vat., Caps. LXXIV, fasc. CCCXXVI, È dll et, CASTEL GIUBILEO 503 Da un documento del Monistero di San Ciriaco, in data 1° dicembre 1281 apparisce questo luogo specificato, prima con un nome antico, Mons S. Angeli, _@ poscia con un nome posteriore che, essendo abraso, non si può leggere. Il fondo confinava con quello che spettava a Pietro di Riccardo Pietro Saquineti (1). Lo stesso Monistero di San Ciriaco sulla via Lata in Roma, nell’anno 1297 ai 3 di dicembre, diè in enfiteusi a Francesco del q. Romano de Cintiis ed a Giacomo del q. Angelo Cincii il castello, seu castellarium con una torre, e col tenimento annesso al Monte di Sant'Angelo, entro i confini della proprietà di Giovanni di Francesco Maronis, Casale Radiciole (tenuta Redicicoli de’ Ricci) e dei Casale Settebagni, insieme alla metà di un terreno, che nomavasi Monte Mag- giore, e tutto venne concesso per l’annuo canone di 27 solidi provisini del Senato (2). Sotto il ‘Pontificato di Urbano VI (1378-1389), Pietruccio di Puccio Giubileo, del rione Pigna, nel giorno 24 settembre dell’anno 1381, cede a Lello Maddaleno la metà dell’ utile dominio del Castello, ossia del Casale Monte S. Angelo, vol- garmente chiamato Castel Giubileo, che era di proprietà del Monistero dei SS. Ci- riaco e Nicola sulla via Lata, e la cessione viene fatta per il prezzo di 3000 fiorini d’oro. L’atto fu stipulato nel castello, o casale posto nel tenimento sud- detto (3). Nello stesso anno, il giorno 21 novembre, l’abbadessa e le monache del Mo- nistero predetto affittarono a Pietruccio di Buccio Giubilei ed a Lello Maddaleno l’altra metà del Castello Monte Sant'Angelo che allora volgarmente chiamavasi Castel Giubileo, dominiî Petruccii e che era sito nei dintorni di Roma, fuori della porta ed al di là del Ponte Salario a confine del Casale de Marronibus e del Casale Settebagni e dell’altro di Tuzio di Buccio Pandolfo de Radiciola, nonchè del tenimento del Casale di S. Silvestro in Capite e di quello Radicioli Natoli Cosarii e della famiglia de Paparonibus e lungo il corso del fiume 7evere. L'atto fu rogato dai notari Buccio di Paolo Buccio Angelo e da Giovanni Nilloli di Paolo Stefano (4°. x (1) Cod. Vat. 8050, f. ant. 69, Copri, doc. stor., n. 77. TOMASSETTI, l. c., 118. (2) CodaNat. Lat. 8050, f. 186. Coppi. Fidene Diss. 260, Niky, II, 58. TOMASSRTTI, I. c., 118. (3) Tabul. Bas. Vat., Caps. LXXIV, fasc. CXLVI, Coppi, Doc. stor., n. 129. Nispy, II, 59. TOMASSETTI, l. c., 119, (4) Tabul, Bas, Vat,, 7raus, authen, Istrum. Casalinm ab anno 1200, f. 171, 504 CASTEL GIUBILEO Nell’ archivio della Basilica Vaticana si lege un istromento dell’anno 1381 relativo al consenso dato dall’abbadessa ed al Monistero dei SS. Ciriaco e Niccola nella via Lata a Lello Maddaleni, che aveva comprato una quarta parte del dominio diretto del Cusale di Castel Giubileo, con riserva del censo perpetuo e di altri patti e condizioni (1). In esecuzione dei patti convenuti, rinveniamo che, sempre sotto il pontifi- cato di Urbano VI e nella XI Indizione, ai 24 di ottobre, Lello Maddaleno pagò a Pietruccio di Buccio Giubilei cento fiorini d’oro, oltre a 409 che aveva già pagato in conto di quanto doveva, per l’acquisto della metà dell’utile dominio del castello o Casale del Monte S. Angelo detto Castel Giubileo, sito fuori la porta Salaria (2). Nell'anno 1406 le soldatesche del re Ladislao occuparono Castel Giubileo. Le milizie del Pontefice Innocenzo VII, condotte da Paolo Orsini e da Ludovico Migliorati, nepote del Papa, si accamparono prima presso il Monistero di S. Ana- stasio alle Acque Salvie e nel giorno 5 maggio assalirono Castel Giubileo di- struggendone le mura con le bombarde. Nella notte i difensori lo abbandonarono lasciando colà soltanto i massari colle loro famiglie. Gli assedianti, occupandolo, vi trovarono una grande quantità di grano che trasportarono a Roma, e fra le altre cose, anche /e campane della chiesa dedicata a S. Michele Arcangelo; una delle quali fu donata da Innocenzo VII alla chiesa di S. Maria in Aracceli, e poco dopo venne rotta per l’incuria e per la furia usata nel suonarla dai frati di quella Chiesa (3). Una bolla di Eugenio IV dell’ anno 1435, nel giorno 19 marzo, datata da Firenze, concede al Monistero di S. Ciriaco in via Lata, fra gli altri beni, anche il dominio diretto di Castel Giubileo in favore della Chiesa di S. Maria in via Lata (4). i L’abbadessa e le monache del Monistero dei SS. Ciriaco e Niccola, nell’anno 1446 ai 24 di decembre, rinnovarono l’ enfiteusi perpetua dell’ ottava parte del tenimento del Castello Giubileo a favore di Lello de Cerronibus del rione Monti; (1) Tabul. Bas. Vat., Caps. LX.XIV, fase. 146. (2) Ibi. (3) A. pI Pietro Diar. in MuratoRI, XXIV, 978, 979. Coppr,. ]. e., 262. Ni8By, II, 60. TOMASSETTI, l. c., 120. (4) MARTINELLI, Primo trofeo, ecc., p. 154, TOMASSETTI, l. c,, 121, ge' CASTEL GIUBILEO 505 ‘ed a Riccardo de Sanguineis del rione Ponte, In metà della stessa tenuta che viene designata come casale o Castello di Sant'Angelo, altrimenti detto Castel Giubileo, «ito fuori la porta e al di là del Ponte Salario avente per confini il casale che fu già di Giacomello Martoni, e che allora era posseduto da Lorenzo Muti, il tenimento del Casale di S. Silvestro in Capite, quello di Settebagni, la tenuta del Casale Radiciola di Giovanni Palombelli, allora condotto da Angelo Del Bufalo e dall’orede di Giacomo Rufini, il tenimento del Casale di Pietro Muzio da Rieti e finalmente il fiume 7'evere. L'atto fu stipulato dal notaio Mariano di Giovanni Scalibastri ad gratas ferreas, del Monistero dei SS, Ciriaco e Niccolò nella via Lata (1). Il Pontefice Niccolò V restaurò la chiesa quasi cadente di S. Stefano sul Monte Celio, e quivi fondò un convento, assegnandogli una dotazione di diversi fondi con un suo Breve del giorno 11 agosto 1454, e specialmente l’ investitura del Casale Giubileo posto nell'Isola e nel distretto di Roma, nonchè una grande casa con altre tre riunite fra loro e poste nella contrada di S. Maria in Posterula di Roma nella regione di Ponte. Volle però che nell’atto d’investitura si facesse speciale menzione del come i beni donati non si dovessero vendere a nessun patto ed, in caso contrario, che fossero devoluti di pieno diritto alla Basilica Vaticana (2). Nello stesso arino, i Canonici ed il Capitolo di Santa Maria in Via Lata, fecero cessione al Monistero di S. Stefano al Celio di tutti i diritti che even- tualmente potessero spettare al Capitolo suddetto, sopra il Casale di Castel Giu- bileo; e questo atto fu compiuto per ossequio e per fare cosa grata al vivente Pontefice Niccolò V che aveva unito detto casale alla dotazione della chiesa di 8. Stefano (3). Gli eremiti di S. Stefano sul monte Celio, nel giorno 16.decembre 1458, ven- dettero ai Canonici ed al Capitolo di S. Pietro in Vaticano il Castello Giubileo per il prezzo di tremila ducati d’oro di Camera. L'atto fu rogato dal uotaio Lorenzo Di Paolo che v’inserì il beneplacito apostolico per la vendita suddetta, all'effetto che il prezzo ritratto fosse rinvestito in altri beni a beneficio del Monistero. I! (1) Tabul. Basil. Vat., Caps. LXXIV, fase, CXLVI, (2) Arch. Vatic. /n reg. dir. Bull., Arm. 85, tom. 86, fol, 276 t, et Arm. 58, tom. 3, fol. 52. (3) Tabul, Bas, Vat., Caps. LXXIV, fase. OXLVI, 506 CASTEL GIUBILEO fondo è designato Castello diruto 0 Seti one dicesi volgarmente Castel Jubilleo cum castellario, sito fuori la porta Pinciana e Salaria, nelle parti dell’/sola, fra i confini del fiume Tevere, del Casale di S. Silvestro che volgarmente dicevasi Casale Nuovo, da quello di Settebagni, che aveva appartenuto al q. Niccolò de Bondiis. ‘VR L’istromento fu stipulato nella regione di Ponte, in Lovio (loggia) sita dap- presso alla camera dei paramenti del Card. D’Estouteville, del titolo di San Martino ai Monti, e che comunemente chiamavasi il Card. Rotomagense, nel di lui palazzo, posto vicino alla Chiesa di S. Apollinare in Roma (1). Angelo del Bufalo de Cancellariis, che vedemmo già conduttore del Casale di Radiciola (ora Redicicoli Accoramboni) mosse lite contro il Capitolo della Ba- silica di S. Pietro e nell’anno 1459 una sentenza del Rev. Gebbardo, giu- dice e commissario della Camera Apostolica si pronunziò in favore del Capitolo sud- detto, imponendo allo stesso Angelo del Bufalo la desistenza dalle molestie e dagli atti, con ordine di consegnare ai Canonici ed al Capitolo la corrisposta del grano e delle altre messi seminate nel ienimento di Castel Giubileo che do- veva essere rilasciato libero al Capitolo, condannando alle spese il soccombente Angelo del Bufalo. Nell'archivio della Basilica sudde*ta esiste 1’ originale della sentenza munito di suggello in cera (2). Nell'anno 1462, ai 20 di dicembre, il Capitolo" di S. Pietro in Vaticano, af fittò, vita naturale durante, a Francesco di Benedetto di Borgo San Sepolero, scrittore e famigliare di Pio II, il Castel Giubileo, ossia il tenimento che viene designato fuori la porta del Popolo (!) nel distretto di Roma e nelle parti della. Isola per l’annuo canone di 125 fiorini d’oro. Il Pontefice Pio IT confermò l’af- fitto derogando dalla Costituzione di Bonifacio IX con la quale veniva inibito ai Capitoli di affittare i beni oltre il triennio (3) Il Pontefice Pio II, partito da Roma il 19 giugno 1464 per organizzare la crociata contro i Turchi, s° imbarcò sul Tevere a Ponte Milvio, passò la prima notte a Castel Giubileo perchè aveva molto sofferto durante quel breve viaggio, attesa la sua malferma salute — che anzi poco dopo morì — e tale fu lo spos- (1) Tabul. Bas. Vat. Caps. LXXIV, fase, CXLIV. (2) Ibi, caps. C., fase. CCOXXVI. (3) Arch. Vat., Zx did. Vicar. Nicolai V. Calixti ILI et Pii II, fol. 134 et arm, 58, tom, 3, fol. 53, TOMASSETTI, l. c., 121, . x ene vv CASTEL GIUBILEO 507 samento delle sue forze che non potè nemmeno scendere a terra e dovette pas- sare la notte nella barca (1). i Nella guerra fra Sisto IV ed il re di Napoli, ci narra il Nantiporto nel suo diario dell'anno 1482 come: « ai 7 (novembre) vennero 200 fanti di Palombara « di quelli del re e pigliarono Castel Jubileo di San Pietro, il quale tiene il Car- « dinal di Roano e saccheggiaro ogni cosa, fecero preda di bestiame de’ cit- « tadini e pigliarono un burchio di grano carico, il quale era di Santo Spirito, « che veniva per fiume. E perchè non si può sapere puntualmente ogni cosa, « ben vero è che saccheggiarono Castel Giubileo, ma non lo tennero; e il bestiame « dei cittadini che pigliarono, non lo menarono, perchè si smarrirono nei pantani « di Monte Rotondo; e certi di Lamentana ne lo tolsero » (2). j L’anno seguente, nel giorno 22 novembre, il Capitolo ed i Canonici di San Pietro affittarono il Casale Giubileo al Card. Girolamo del titolo di S. Gregorio, sua vita durante, per l’annuo canone di 250 ducati d’oro della Camera. Il Pon- tefice Sisto IV con un suo Breve, confermò l’enfiteusi (3). E lo stesso Cardinale, detto anche Recanatense, nel giorno 1° novembre, per mezzo dei mercatanti de Camminis, aveva fatto sborsare la metà della somma pattuita come canore deli’enfiteusi a vita, per il tenimento del Castel Giubileo (4). Nel giorno 15 aprile dell’anno 1484 pagò la seconda rata a saldo della prima annualità (5). Crediamo che l’ Infessura abbia errato nella data, quando narra che nello stesso anno 1484, il giorno 12 agbsto, essendo Caste! Giubileo affittato a Caterina Sforza moglie di Girolamo Riario, nipote di Sisto IV, di quei giorni defunto ed odiato dal popolo, questo insorse specialmente nel Rione Trastevere; molti popolani si recarono a Castel Giubileo e rubarono cento vacche, altrettante capre, molti maiali, oche, galline, formaggi rotondi parmegiani, vini greci in gran copia e quanto trovarono in quel casale (6). Nell'archivio del Capitolo di San Pietro, rinvenemmo anche l’istromento di affitto, a terza generazione, della Osteria detta del Pidocchio, esistente nei pressi (1) Nispy, II, 60. TomassettI, l. c., 122. (2) NantiPorTO, in MuratORI, LI, pag. 1079. Ni8sy, 1. c., 60. TOMASSETTI, 1. c,, 122. (3) Arch. Vat. Lib. S8 Au//ar. Sixti IV, fol. 123. (4) Bibl. Vittorio Emanuele, Roma, Cod, Mss, segn. G., 116. (5) Ivi. (6) Inressura edit. O, Tomassini, p. 161-62. Ni5y, 1, c, TOMASSETTI, ). c., 122. 508 CASTEL GIUBILEO di Castel Giubileo, fatta a Bartolomeo del q. Martino de Villa, e nell'atto vi è inserita la pianta dei prati aunessi a quell’Osteria (1). Abbiamo memorie che ci dicono come nel secolo xvi la tenuta e special- mente il colle di Castel Giubileo fosse coltivato con cura, e che il vino quivi pro- dotto non fosse privo di pregio (2). Il Capitolo Vaticano possedè Castel Giubileo fino all’ anno 1872, allorchè in esecuzione alla legge per l'Asse Ecclesiastico, fu venduto all’ asta pubblica e ne furono acquirenti i signori fratelli Giovanni Battista, Costantino e Saverio Bianchi per la somma di lire 232,000, che tuttora ne sono i possessori. (1) Tabul. Bas, Vat., Caps. LXXIV, fasc. CCOXXVI. (2) MexGarINI P. Za viticaltura e l’enologia nel Lazio, p. 37. TomassETTI, l. c., 120, * LA DOMUSCULTA » 8, LEUCTIO, NEL TENIMENTO DI TOR DI QUINTO 509 » 13 a «La Domusculta » S. Leucio, nel tenimento di Tor di Quinto. Varia è la opinione degli storici, sulla origine del nome Quinto, imperocchè alcuni vogliono derivi dalla distanza da Roma, che misura appunto cinque mi- glia dal sito, ove s’apriva l’antica porta Ratumena (1); ed altri lo deducono in- vece, da Quinto Cincinnato, dittatore, che quivi abitò con la sua moglie Racilia, coltivando una parte di quel fondo (2). Ora il nome di Quinto, è dato ai ruderi di una torre, sulla destra della Flaminia, la quale un tempo ebbe una impor- tanza, perchè servì di difesa, tanto sulla Via Consolare, quanto di guardia sul Tevere, che scorre a poca distanza. 11 chiarissimo prof. Tomassetti invece, re- puta che essa sia una costruzione del secolo undecimo (3). Fin dalla fine del secolo vi, e precisamente al tempo del Pontefice Gre- . gorio I (590-604), della nobile famiglia romana degli Anicii, esisteva a Quinto una chiesa dedicata a S. Leucio ed un monistero annesso, ed il menzionato Pontefice ne nominò abbate il monaco Oportunus (4). Sul principio del pontificato di Adriano I (772-795) morì Mastalo, primicerio della Chiesa Romana, lasciando in eredità allo stesso Pontefice, per beneficio dei poveri, tutta la sua parte ereditaria, che, per comune consenso di tutti gli eredi, fu consegnata al Padre dei fedeli, e consisteva in fondi con relativi casali, in- sieme alla Chiesa dedicata a S. Leucio, sita al quinto miglio circa, sulla via Fla- minia, oltre una somma di duecento mo.iete d’oro, E Gregorio, secondicerio, in onore alla memoria del defunto primicerio, donò anche la sua porzione, che gli apparteneva, sui fondi di S. Leucio. Il Pontefice Adriano restaurò la Chiesa so- pradetta, che minacciava rovina ed era all’intorno ingombra di rovi e sterpeti, e quivi dappresso, fondò una colomia (domusculta) di meravigliosa grandezza, dedicandola in perpetuo al Principe degli Apostoli S. Pietro. Aumentò anche il . (1) Nissy, analisi II, 662. TomasseTTI, Arch. Stor. Patr., VII, 185. (2) T. Livio, Decad. I, Lib. DI. (3) Tomassetti, |. c., 186. (4) Reg. Greg., I, lib. XI, ep. 57, 510 « LA DOMUSCULTA »è S. LEUOIO, NEL TENIMENTO DÌ TOR DI QUINTO latifondo, tanto con l'eredità di un certo Pasquale, quanto con permute di diversi fondi, che potè compiere, con gli eredi di una certa Lucia e Giovanni primicerio (1). e Dopo il secolo ottavo, dobbiamo risalire fin oltre alla metà del secolo nono per rinvenire altre notizie della Chiesa di S. Leucio, e le rincontriamo nello stesso Libro Ponteficale, allorquando i Conti Bernardo ed Adalberto, legati di Ludovico II, vengono in Roma a giudicare della elezione di Benedetto III (855-858). I detti Conti, provenienti da Orte, si congiunsero consi messi dell’antipapa Anastasio, nei pressi della Basilica di S. Leucio Martire, ove erano arrivati (2). In quel luogo convennero anche gl’inviati del Pontefice Benedetto III; ma poscia essendo nato un gravissimo dissenso, il Pontefice sopradetto fu deposto, e sol- tanto fu nuovamente riconosciuto come capo della Chiesa dopo una sommossa popolare. Della chiesa di S. Leucio, si fa speciale menzione in quella circostanza, pro- babilmente anche per la razione che qucl luogo era considerato tuttora come una prima stazione sulla Flaminia, da Roma, e perciò quella Chiesa, eretta con magnificenza di Basilica, era tanto importante da designare il nome ad un. borgo (3). « Dopo tre anni, cioè nell’anno 858, appena eletto il nuovo Pontefice Ni- « colò I, fu visitato in Roma dall’Imperatore Ludovico II, che partitosi poi dalla « città, sedem (dice il biografo papale) în loco, qui Quintus dicitur, conlocavit, e « — secondo il Codice Vaticano 1340 — quem beatissimus praesul prosecutus ubi « hospitabatur venit; il che fa supporre che l’Imperatore si fermasse nella domo- « culta, e vi alloggiasse alquanto. Infatti, esso è un luogo, troppo vicino alla «< città, per immaginare, che l’esercito vi si accampasse, come dopo una tappa « militare. Il biografo segue, notando il cerimoniale dell’incontro, il reggere che « Ludovico fece il freno del cavallo pontificio, e la grande alacrità, con la quale « gli Augusti Alleati fecero onore alla mensa apparecchiata : mensisque epulis pe- «rornatis... cibum speciali sumpserumi alacritate satiati scilicet », etc. (4). (1) Lib. Pontif. Ediz. DUCHESNE, I, 509, TOMASSETTI, l. e., 187. KEHR. Reg. Pont. Rom. Toe (2) Lib. Pontific. in Bened, III, n. 9, TOMASSETTI, l. c., 188. (8) Ivi, ediz. Duchesne, IL, 141, 142. (4) TOMASSETTI, l. c., 188. = 4LA DOMUSCULTA » S. I EUCIO, NEL TENIMENTO DI TOR DI QUINTO 511 Sembra, che in seguito quella domoculta, soffrisse devastazioni, come tutti | centri agricoli della campagna romana (1). Infatti nell'anno 990, nel diploma. di Ottone III, a favore del Mon. dei SS. Alessio e Bonifacio, per la conferma del possesso dei beni, quel luogo è nominato « Casale de Quinto » è considerato come una tenuta, al pari delle altre circonvicine (2). Quella popolazione rurale, emigrò forse più lontano sulla stessa via, ove esistevano altri centri popolari, ed in quel luogo restò appena la C4/Qiesu, della quale ravvisiamo tuttora le mura dirute, Anche il Pontefice Gregorio VII, nell’anno 1074, menziona S. Leucio, come confine del Casale Falconis, ed aggiunge ‘otum Quintum (3). Dopo quell'epoca avvenne per la domoculta di S. Leucio, quello stesso spo- polamento, che si verificò nelle altre fondazioni del genere. Infatti, la Via Fla- minia, diveniva come la Cassia, sempre più pericolosa, perchè soggetta a continue invasioni (4). Le memorie di S. Leucio, oramai divenuto Casale, divengono sempre più rare, fino alla prima metà del secolo sedicesimo, finchè nell’anno 1525, il giorno 25 febbraio, Domenico de Militibus, che non sappiamo ancora come fosse pro- prietario di una parte di quel luogo, ne fece vendita ad Emilia, vedova di Mario Bonaventura (5). Tuttavia, sembra che la famiglia del q. Giacomo de Militibus, ne possedesse anche una porzione, perchè nell’anno 1566, ai 18 di maggio, Bar- tolomeo, Bernardo e Pietro Paolo, fratelli e figli del sopradetto Giacomo, divi- dono fra loro i casali di Cornazzano e quello di Quinto (6). Anche Orazio Massimi ne possedeva una porzione, perchè nell’anno 1567, ne costituisce tre enfiteusi separate, una a favore di Lorenzo Gualtiero, altra a Pietro di Paolo Gedda, e la terza a Pistro di Paolo Moranzani (7). Riveniamo anche la memoria, che lo stesso Massimi, nell’anno 1570, conce- (1) KeuRr, Reg. Pont. Rom. 1, 157. TomaSssETTI, |. c., 188.89. (2) Nerini. De femplo et coenobio, ete., 375, Coppi. Settepagi, dissert. 316, TOMASSETTI, I. c., 189. (3) Deont ErretTI. Memorie, ecc. 96. Coppi, 1. c., 316. TOMASSETTI, |. c., 189. (4) Tomassetti. / centri abitati, ecc, 29. (5) Arch. Capit., Pavificus Nardus, not., fol. 161. (6) Ivi, Curtius Saccoccius, not.. fol., 146. (7) Ivi, fol. 989, 1086, 1101, 512 «LA DOMUSCULTA » S. LEUCIO, NEL TENIMENTO DI TOR DI QUINTO deva in enfiteusi altri terreni, del Casale di Quinto a Giulio de Marzutello da Terni, ed a Pietro de Benzi, pescivendolo a Roma (1). I prati di Tor di Quinto, fin dal Medio Evo, appartennero al Capitolo di S. Pietro e, nell’anno 1607, Papa Paolo V confermò un’enfiteusi perpetua di nove rubbia del Casale Quinto, fatta dal Capitolo Vaticano. Il luogo viene desi. gnato come interposto fra la via che, dal ponte Milvio, prosegue verso Prima Porta, l’altra strada, che dicevasi Acqua Traversa, ed un’altra parte dello stesso Casale di Quinto, nei pressi dei fondi degli eredi Crescenzii, ossia nel tenimento « La Crescenza » di oggi (2). E Lo stesso Pontefice, nell’anno 1610, il giorno 24 settembre, concesse facoltà al Capitolo Vaticano perchè dèsse in enfiteusi 10 pezze del casale di Quinto a condizione che il canone fosse pagato annualmente (3). Nell'anno 1612, il Principe Marco Antonio Borghese, nepote del Pontefice sopradetto, acquistò da Danieli Domenico, col consenso anche di Domenico Fran- cesco Cavalieri, i prati e la tenuta di Tor di Quinto, per la somma di scudi 24,000 (4). Dal catasto, detto di Alessandro VII, in data del 31 marzo 1660, apparisee, è che una parte del tenimento, in contrada or di Quinto, appartenesse alla fa- miglia Marescotti, per una estensione di rubbia 26 e mezzo. Î confini vengono notati tra il fiume Tevere, i prati del Principe Borghese ed il Fosso di Acqua Traversa (5). (1) Ivi, ann. 1570, 26 gennaio, fol. 214, 5 marzo. 234. (2) Arch. Vatie., ey. Bull. Pauli V, lib. 8, ann. IL fol. 560. Tomassetti, l. e., 190, nota. (3) Arch. Vat., Reg. Bull. Pauli V, lib. 8, ann. V, f. 43. (4) Arch. Borghese. 7or di Quinto, tom. I, doc. 5, 11. (5) Arch. di Stato, Roma, Catasto di Alessandro VII, doc. n. 32. Porta Flaminia, VALCA O VALCHETTA (CASTRUM VALCAE), SULLA VIA FLAMINIA 513 XV. Valca o Valchetta (Castrum Valeae), sulla Via Flaminia. Discendendo il Monte di Tor di Quinto, la via Flaminia attraversa il Fosso di Acqua Traversa, che serve di confine al tenimento detto « Valea o Valchetta » fino al rivo omonimo, il quale corrisponde allo storico fiume Cremera dei Fabi, in prossimità di Prima Porta. L'attuale tenuta comprende varî fondi, che nel Medio Evo erano divisi fra loro, e si chiamavano « Valca Valehetta, Casale Boccamazzi e Casale Tre Colonne ». Di quest’ultimo, appunto, rinve vimmo un primo documento dell’anno 1277, del giorno 20 gennaio, quando i fratelli Giacomo e Paolo, figli ed eredi del q. Ste- fano Bargellonae, donarono a Gentile del fu Obicione de Cervinaria, l'ottava parte della torre e del Casale Tre Colonne, che era indivisa, con le altre parti, spettanti ad altri comproprietarî, compresi i fondi del tenimento del casale sud- detto, cioò la metà delle terre per seminare, e dei prati e pantani, che erano uniti, con un’altra metà spettante a Niccolò Pocppe (sic) ed a Giacoma, moglie di Deodato di Mattia Giovanni Parentii. Nell’atto sono descritti i confini, e cioè da una parte il rivo (Crescenza) e la proprietà dei figli del q. Leonardo di Pietro Riccii, lungo la Via Flaminia; da un altro lato gli eredi del fu Gentile de Cervinaria, percorrendo la strada sud- detta, e dal terzo lato la proprietà di Angelo di Romano Bactaglierii, detto jaja (sic) e quello di Bartaglerius (1). I fondi sopradetti avevano i vocaboli Mons de ferulis, montes trium Colum- narum, et Balsolus, quod dicitur, Spinacetum, et alter, balsolus cum duobus arena- riis, sul monte de Ferulis, e prossimi ad un pantano. Il Casale Tre Colonne confinava con la Valea, e questa con quello detto il Trullo de’ Boccamazzi. La Gualca o Valca, nell’anno 1279, apparteneva alla no- bile famiglia di S. Eustachio, e nello stesso anno, Oddone di Angelo di s. Eu- stachio, ne vendeva metà al proprio fratello Paolo (2). (1) Tabul. Bas. Vat., Caps. XXXVII, fase. CXLVIII. (2) Ball. Vat., tom. I, pag. 233. ApixoLer P., Roma nell'Età di mezzo, I. 88. 23 514 VALCA O VALOHETTA (CASTRUM VALCA®), SULLA VIA FLAMINIA Nell’anno 1300, nel giorno 14 gennaio, il sopradetto Oddone di S. Eustachio vendette al Pontefice Bonifacio VIII, per la Basilica di S. Pietro di Roma, il castello Valce, col suo tenimento, per il prezzo di 15 mila fiorini d’oro secondo l’istromento rogato dal notaio Niccolò de Vico (1). Il Chierico di Camera, Maestro Pietro da Genazzano, fu incaricato dal Pon- tefice di prendere il possesso della tenuta sopradetta; ed il venditore Oddone lo immise anche nel possesso del latifondo di S. Maria Rubee, che era sito lungo la Via Flaminia, fino al Tevere ed altri confini. L’atto della presa di possesso fu stipolato dal notaio Giovanni di Bartolomeo (2). Il Pontefice sopradetto, con una Bolla, senza il consueto suggello di piombo, nell’anno 1301, confermò gli ordinamenti e gli Statuti, che moderavano l’istitu- zione dei Canonici della basilica di S. Pietro in Roma, e nello stesso atto men- zionò i munificientissimi doni, che aveva elargito alla sopradetta, specialmente per il culto divino e per il servizio della cappella che aveva eretto nella Chiesa di S. Pietro, con l’istituzione e aumento di otto Canonici e venti Beneficiati, donando altresì vari casali, posti nel tertitorio Amerino, oltre il castello di Valca, il casale detto Trullo dei Boccamazzi e l’altro del fu Bartolomeo Bobone di Cor- nazzano, siti tutti nel distretto di Roma, e comprati dal Pontefice sopradetto per la somma di 27,490 fiorini d’oro. Aggiunse poi il decreto per la destinazione di altri 9600 fiorini d’oro, che dovevano essere erogati nell’acquisto di altri fondi (3). A tante elargizioni fatte a beneficio della Basilica di S. Pietro, Papa Boni- facio IX ne aggiunse ancora un’altra, quando nell’anno 1303, nel giorno 10 di marzo, avendo acquistato da Orso de filiis Ursi (fratello del Cardinal Matteo, del titolo di S. Maria in Portico ed Arciprete della Basilica sopradetta) il tenò- mento detto le Tre Colonne, ne fece subito dono alla stessa Chiesa. Il detto la- tifondo fu pagato 6000 fiorini d’oro (4). Dal libro degli anniversarî della Basilica, risulta, che il sopradetto Orso de filiis Ursi conchiuse la vendita sopradetta nell’intendimento di contribuire anche (1) Tabul. Bas. Vat., Caps. XXXVIII, fase. COCXXII. (2) Ibi, transunt, authen. Istr. Casal, Bas. S. Petri, p. Ludov. Cecium not. fol. 97. : (3) Ibi, caps. III, fasc. VII. TomassetTI G. Arch, Stor. Patr., VII, 194.95. (4) Ibi, Caps. XXXVIII, fase. CXLVIII. VALCA O VALOHETTA (CASTRUM VALOCAE), SULLA VIA FLAMINIA 515 egli, a quanto aveva in animo il Pontefice, per maggior decoro del culto, giacchè il latifondo venduto poteva valere oltre 15 mila fiorini d’oro (1). Il Pontefice Eugenio IV, nell'anno 1436, con un suo Breve speciale, in se- guito ad istanza di Giuliano Cardinale di S. Sabina, arciprete della Basilica, nonchè del Capitolo, stabilì che le rendite del Casale della Valchetta, fossero de- stinate a beneficio dell’Arciprete suddetto, con l'onere che dovesse mantenere agli studi, un giovane Chierico a sua scelta (2). Da un documento dell'archivio di S. Maria in via Lata, sappiamo che il « quarto », oggi detto del Castellaccio, formava nell'anno 1369, un tenimento distinto dalla Valchetta « tenimentum quod dicitur Castellacia » (3). 1) Castello di Valca, conteneva molti edifizi, come si rileva dalla Bolla di. Bonifacio VIII in cui si legge « il castello di Valca, colla torre, palazzo, case e pertinenze sue » (4). Da un documento dell’anno 1300, del giorno 14 gennaio, per la vendita del Casale Tre Colonne, confinante col tenimento di Valca © dal Pon- tefice donato al Capitolo Vaticano, si rileva che il nome indica per certo gli avanzi di antichi monumenti (5). Nell’anno 1439 il Pontefice Eugenio IV, unì ai beni del Capitolo Vaticano, quelli del Monastero di S. Biagio in Cantu secuto, che prima dicevasi « della Pagnotta ». Fra i fondi di quel Monastero, v’era anche il Casale della Valchetta, le cui rendite furono assegnate dal Pontefice al mantenimento di quei giovani, che si fossero dedicati agli studi (6). Nell'anno 1447, Papa Niccolò V, revocando le disposizioni del predetto Pon. tefice, che aveva riunito coi beni capitolari della Basilica Vaticana, quelli del Monastero di S. Biagio, fra i quali il Casale della Valchetta, stabilì dietro istanza del Capitolo, che l’arciprete di quel tempo, Giuliano Cardinale di S. Sabina, po- tesse affittare il Casale Valchetta ad una o più persone, e che potesse scegliere un Chierico della basilica, oriundo romano, che volesse dedicarsi agli studi; ed in seguito fossero mantenuti con le rendite del Casale suddetto, i successivi stu- (1) Ibi, Necrologinm, fol, 48. (2) Arch. Vatic. A, B., Eugenii IV, vol. 4, fol. 193, Ibi, Chiese di Roma, tom. II, fol, 144, (3) Cod, Vat. Lat. 8050. Nispy, III, 364. TOMASSETTI, 1, c., 195.96. (4) Bull. Vat.,, I, pag. 232, TOMASSETTI, |. c., 195. (5) Cod. Vat. Lat. 7946, f. ant. 285. (6) Tabul. Bas, Vat., Caps. XXXVIII, fase, COCXXVII, 516 VALCA O VALOHETTA (CASTRUM VALCAR), SULLA VIA FLAMINIA denti di filosofia, teologia e diritto canonico, fino al conseguimento della laurea di dottori. Ed in considerazione che gli studi sopradetti fiorivano allora special- mente in Roma, così quel Pontefice credette utile il provvedimento sopradetto, coll’unire le rendite del tenimento della Valchetta, a quelle della mensa capito- lare con i patti suespressi (1). Il Pontefice Calisto III autorizzò il Cardinal Domenico, del titolo di S. Croce in Gerusalemme, penitenziere maggiore e Precettore dell’Ospedale di S. Spirito in Sassia, a vendere varî tenimenti di proprietà dell’ospedale predetto, ed in specie una parte del Casale di Boccamazzi, a condizione che il prezzo di tutta la proprietà venduta raggiungesse la somma di 12.000 ducati (2). E nello stesso anno, il giorno 5 agosto, il sopradetto casale fu venduto al Cardinal Domenico Capranica per tremila fiorini d’oro, come fu confermato da una Bolla del Pontefice surrichiamato nell’anno 1457 (3). P Il Cardinal Capranica suddetto, nel suo testamento dell’anno 1458, nel giorno 14 agosto, volle che i due tenimenti casale Boccamazzi, e l’altro Monumento, uni- tamente a tutte le sue case, in prossimità di S. Agostino con le due torri, co- stituissero la rendita di un collegio di studenti, da fondarsi a suo nome; e detta fondazione tuttora esiste in Roma nella Piazza detta degli Orfani (4). Abbiamo particolare notizia come negli anni 1483 e 1484, Pietro de Cosciari avesse preso in affitto il pascolo del tenimento della Valchetta (5). Il Capitolo Vaticano, nell’anno 1507 ai 28 di giugno, locò a Pietro Sabba- tariis, 11 tenimento del Casale Boccamazzi (6). Tl Pontefice Giulio III, nell’anno 1555 il giorno 15 febbraio, con un suo | Motu proprio, confermò l’affitto per nove anni delle tenute Valca, Valchetta, Grotta Rossa, Tragliata e Civitella, a favore del Vescovo Farrattino (?) e Cristo- (1) Tabul. Bas. Vat., Caps. XXXVIII, fase. CCCXXVII. (2) Arch. Vat., Lib. 1X, 2u//. Calisti III et libro V. Bullar., fol. 126. Monterentii Cameralia, tom. IV, 264 t. (3) Ibi, Culixti ITI, Bullar., tom. XIII, fol. 126, tom. IX. 205 t., 223 t. (4) « Item etiam dimisit dictus R.mus Cardinalis dicto Collegio Scholarium duo casalia per ipsum empta, vocata videlitet unum Boccamazzi, et aliud vocatum Monimento, cum jn- ribus et pertinentiis suis, terris et jurisdictionibus, pront emit per manus Antonii not. pabl, Antonius Simeonis Bartoli civ. rom. not, » Arch. del Salv., Arm. X, mazzo III, n. 2, copia. (5) ADINOLFI. Roma nell'età di mezzo. I, a pag. 88. (6) Arch, Capit., Sabbas Vannutius not., fu]. 109. VALOA O VALOHETTA (CASTRUM VALOAE), SULLA VIA PLAMINIA 517 foro Cenci, ambedue Canonici della basilica di S. Pietro, derogando dalle Costi- tuzioni dei Pontefici Sisto IV, Clemente VII e Paolo ITI, contrarie alla facoltà di concedere gli affitti della proprietà della Basilica agli stessi Canonici (1). I Canonici Camerlenghi maggiori, in ossequio al Motu proprio del Pontefice Alessandro VII, per la formazione del Catasto dell'Agro romano nell’anno 1690, ordinarono ad Orazio Torriani di eseguire la pianta delle tenute Valca e Val- chetta, che furono rinvenute essere della superficie di rubbia 732 e confinanti col fiume Tevere, col Casale della Crescenza, con quello che anticamente era dei Mu- tini e degli eredi del Principe Borghese, con l’altro dei Mattei, con il Casgle di S. Agostino di Bracciano, con la strada che conduce a Formello, con i Casali di Tor Vergata e di Prima Porta, e finalmente con. quello spettante a S. Maria nella via Lata, fino al fosso della Valchetta (anticamente Cremera). Da quel documento si rileva che i prati di Resacco, di Grotta Rossa, Valle del Vescovo, quello prossimo al canneto dell’Osteria, di Grotta Rossa, ed altri tre prati, anche essi senza un vocabolo distinto, tutti posti nelle tenute Valca e Val- chetta, si facevano falciare dalla Reverenda Camera, per uso e servizio delle stalle del Palazzo Pontificio, e tutti gli altri prati erano liberi del Capitolo Va- ticano (2). Abbiamo rinvenuto anche un documento dal quale ci consta che il Capitolo Vaticano abbia provveduto |erchè si eseguisse qualche ‘opera di bonificamento nella tenuta. Infatti. il Pontefice Innocenzo XI, con una sua lettera in forma di Breve, spedita nell’anno 1678, il giorno 25 febbraio, approvò il rinnovo del- l'affitto del Casale la Valchetta fatto al Conte Orazio Buongiovanni, per la du- rata di nove anni, con la corrisposta annuale di 3600 scudi e col patto che co- struisse, a sue spese, un ricovero per il bestiame pecorino, nonchè una Cappella per la celebrazione della Messa, e che facesse anche espurgare tutti i fossi del tenimento, oltre gii altri patti espressi (3). Una memoria proveniente dall'archivio Borghese, ci fa sapere che nel- l’anno 1797, la tenuta della Valchetta appartenne in condominio al Principe Bor- ghese ed al Marchese Serlupi (4). (1) Tabul. Bas, Vat., Caps. XII, fasc. XX. (2) Arch. di Stato in Roma. Catasto di Alessandro VII, doc, n. 39. Porta Flaminia. (3) Tabul. Bas. Vat,, Caps. XVIII, fase. ccon. (4) Arch. Borghese, Valchetta, tom. I, doc, n. 16, 518 VALCA O VALCHETTA (CASTRUM VATLCAE), SULLA VIA FLAMINIA In esecuzione della legge relativa all’Asse ecclesiastico di Roma, per gli Enti conservati, le tenute Valca e Valchetta, della superficie di ettari 1293.33, nel- l’anno 1876, furono concesse in enfiteusi a Piacentini Francesco, per l’annuo canone di lire 48,800, con patto espresso che si dovessero eseguire lire 195,000 di bonificamenti (1). (1) CaxevaRrI RAFF. App. alla Carta agronom., p. 46, 47. TOR PIGNATTARA E TOR S. GIOVANNI O CENTOCELLE 619 XVI. Tor Pignattara e Tor S. Giovanni o Centocelle. Fuori la porta Maggiore, fra il 2° ed il 3° miglio della Via Labicana, im- propriamente oggi detta Casilina, a sinistra di questa, trovasi un antico monu- mento, di forma rotonda, at*ribuito ad Elena Imperatrice, madre di Costantino; e quel rudero, chiamasi volgarmente Tor Pignattara, perchè conserva commessi entro le mura laterali ed anche nella vòlta olle e vasi di terra cotta. I varî giardini è tutti i fondi, che dall’Anfiteatro Castrense, presso la porta Maggiore, si estendevano oltre il 3° miglio, lungo la via Labicana, nel quarto ‘secolo, formavano un immenso latifondo del Patrimonio Imperiale, che sì disse Subaugusta (1). Quella località fu prediletta dalla Imperatrice Elena, che la destinò per suo sepolero, ed ottenne eziandio, che quivi fosse stabilita una Sede vescovile. La Villa Imperiale era sita propriamente nel luogo detto « ad duos lauros » e sap- piamo che gl’ Imperatori, da Alessandro Severo, fino a Valentiniano III, vi di- morarono spesso, ed anzi quest’ultimo vi fu ucciso dai suoi uffiziali Optila e Traustila (2). Merita una speciale menzione la esistenza in quel luogo, del sepolcreto degli Equites singulares, i quali sostituiti ai custodi della sacra persona dell’ Impera- tore (custodes corporis Augusti), venivano sempre reclutati tra i sudditi delle provincie straniere, prestavano servizio per 27 anni continui, la loru nomina era fatta dall'Imperatore, ed occupavano ll primo rango dopo i Pretoriani (3). La Massa imperiale Subaugusta sì estendeva, secondo quanto dicemmo, anche nel prossimo latifondo, che dicesi Tor 8. Giovanni, di ettari 182. La frequente residenza imperiale, diede occasione favorevole a che tutta quella zona si popolasse, tanto che, secondo la tradizione, l’Imperatrice Elena, (1) TomassertI G. /Wustraz, delle vie Labicana e Prenestina, 24, (2) Ibi, 1. c., 28, (3) TomassEtTI Gy l. c,, 25, 520 TOR PIGNATTARA E TOR S, GIOVANNI O CENTOCELLE ripetiamo, ottenne che quivi fosse eretto un Vescovato che presiedesse a quella Diocesi, la quale fu detta anch’essa Subaugusta (1). Infatti il Colelli nelle sue annotazioni sull’Italia Sacra dell’Ughelli, nomina un vescovo Crispiano che fu presente al Concilio romano nell’anno 464, sotto il pontificato d’Ilaro od Ilario, nativo di Cagliari. Fa menzione del Vescovo Pietro che assistè al Concilio convocato da Felice III (Anicio romano) nel 487, nonchè del Vescovo Massimiliano, che*sottoscrisse nel Concilio dell’anno 502 tenuto dal Pontefice Simmaco, ed eziandio del quarto Vescovo, nominato Giocondo, vivente sotto il sopradetto Pontefice (2). Fra le rovine che si riscontrano in quel luogo si veggono i ruderi della tri- buna della Chiesa ed otto finestre; e la costruzione di quell’edificio rimonta al secolo iv. La piccola Chiesa dedicata ai SS. Pietro e Marcellino, sita a sinistra della via, rammenta il luogo ove fu il mausoleo dell’Imperatrice Elena (3). Il Pontefice Onorio I (625-638), restaurò la basilica ed il cimitero (4); nè si hanno poi più notizie di quella chiesa, che forse sparì in seguito alle distruzioni cagionate dalle guerre Gotiche e dall’ invasione Longobarda (5). Nel medio evo tutto il latifondo restò in possesso della Chiesa, secondo la donazione Costantiniana; ma, poichè venne soppressa la diocesi Subaugusta, i beni di questa furono uniti a quelli della Basilica Lateranense. Questo ci risulta da un Breve del Pontefice Onorio III dell’anno 1217, del giorno 3 giugno, che è certo un atto di conferma, col quale fu rinnovato il testo di un privilegio più antico e probabilmente del secolo duodecimo (6). In quello si legge: fuori la poria Labicana, ossia Maggiore (confermiamo il possesso) di tutto il tenimento, che chiamasi T'abernulo, presso la forma..... et vassaria e lungo la strada che passa fra la cancellata vecchia e quella nuova, per la via Labicana, e detto tenimento è posseduto dalla Basilica Lateranense, invece del vostro Monistero (7). ” (1) DucHesne L. Ze sedi cpisc. nell'antico ducato di Roma. Arch. Stor. Patr., XV, 497. ‘ (2) UGHELLI. /falia Sarra, tom. X, pag. 166. NiBBy. Dintorni di Roma, TII, 119. (3) ToMASSETTI, l. c., 28. (4) Ibi. (5) DUCHESNE, ]. c. (6) KeHR P. Regesta Pont. Rom., I, 115. Î (7) NeRrINI F, De Templo et Coenobio, ete., pag. 234. TOMASSETTI, l. c., 29, TOR PIGNATTARA E TOR S. GIOVANNI O CENTOCELLE 521 La losalità indicata con le parole « Z'abernulo jurta formam » è indubbia. mente Torre Pignattara, posseduta dal Capitolo Lateranense, ove tuttora esistono i ruderi dell'acquedotto Alessandrino, che allora chiamavansi forme. Il vocabolo T'aternulo, ci rivela lo stato in cui allora era ridotto quel luogo, un giorno fu tanto splendido, che chiamavasi Villa [Imperiale dei Lauri; ed il vo- cabolo comitatus fu quello dato a questa contrada nelle indicazioni dei santuari cristiani (1). Non rinvenimmo altri documenti, che c'informino del latifondo dopo il se- colo x1II, per quanto continuasse ad essere posseduto dalla Basilica Lateranense. Soltanto sul finire del secolo xv, e precisamente nell’anno 1494, rinveniamo negli atti Cupitolari, che il tenimento chiamavasi allora Torre S. Giovanni (forse dal nome del santo titolare della basilica) e che in quell’anno veniva affittato ad Evangelista de Rubeis per la corrisposta di 160 carlini (2). : Nell’anno 1496, venne locato a Francesco de Lenis, per 90 ducati e sessan- tadue rubbia di grano (3). Nello stesso anno viene conchiuso un affitto del medesimo iatifondo, forse per l’anno seguente, a favore di Giovanni Battista degli Astalli, con aumento della corrisposta, per 205 ducati, e 100 rubbia di grano (4); e nel secolo xvi il Capitolo Lateranense, aumenta sempre più la sna rendita, coll’affitto del teni- mento di Centoce'le, poichè lo concede nell'anno 1523, a Camillo Capranica, che pagava per corrisposta 250 ducati d’oro di Camera, ma fu: autorizzato a servirsi dell’acqua del fosso « come potesse meglio usarne » (5). Nè cessarono gli aumenti dell’affitto perchè nell’anno 1546, G. Giovanni Bat- tista Petroni, pagò 473 scudi di corrisposta (6). Giungiamo così alla metà del secolo xvir, quando il Pontefice Alessandro VII, fece redigere il Catasto dell'Agro Romano, dal quale apprendiamo, che nel te- mimento di Tor S. Giovanni, vi fossero anche vigne e canneti, e che avesse una superficie di Ea 285. (1) Tomassetti, |. c., 26, (2) Arch, Capit. S. Johann. Later., Bernardus de Caputgallis not,, fol. 12, (3) Ibi, fol. 75. (4) Arch. Capit. S. Johann Later., Bernardus de Caputgallis not., fol. 83, (5) Ibi, G, Latinus Cesis not. (6) Ibi, Savus Perelli not., fol, 74, 522 TOR PIGNATTARA E TOR S. GIOVANNI O CENTOCELLE Aveva per confini la via Labicana, la tenuta di Acqua Bullicante, le pro- prietà di Boccapaduli e del Capitolo di S. Maria Maggiore, le vigne del suburbio di Roma, il Monte del Grano, la pedica di S. Andrea e quella di S. Maura (1). Nella pianta si nota, la Torre di Centocelle, con grande antemurale recinto, a varî gruppi di rovine, e di ruderi, che un dì costituivano sontuosi edifici di un grande sobborgo di Roma, con residenza imperiale, in que] grandioso latifondo, che abbiamo esaminato. (1) Arch. di Stato, Roma. Cufusto di Aless. VII. Porta Maggiore, doc. n. 3, 8. GIOVANNI IN CAMPORAZIO 523 XVII. S. Giovanni In Camporazio. Sulla via di Poli, alla distanza di km. 30 da Roma, trovasi il tenimento di S. Giovanni in Camporazio, della estensione di Ea. 680 circa. Nell’antichissimo catalogo dei beni del Monistero di S. Paolo fuori le mura, trascritto dal Galletti, che lo giudica dell’epoca di Gregorio di Tuscolo (1) (anno 960 circa), si legge La Rocca di S. Giovanni, che chiamasi Coratii, con tutte le sue pertinenze. In conseguenza, fin dal secolo x, il Castello di S. Giovanni in Cam- porazio, apparteneva ai Monaci di S. Paolo. Nell'anno 970 il Pontefice Giovanni XIII (965-972) diede in feudo a Ste- fania Senatrice, la città di Palestrina, e fra i confini di quella città, viene in- dicata vallis de Camporatia, tra l’acqua alta e il mons de Foliani (2). La valle Camporatia è un vallone della tenuta di S. Giovanni in Camporazio, attraversato da Ponte Lupo (3). Nel giorno di 21 di dicembre, dell’anno 978, il Pontefice Benedetto VII (974-983), confermando alla Chiesa di Tivoli, il possesso di tutti i suoi beni, menziona il fondo Camporazio, e la massa dei casali intorno (4). Nello stesso secolo x troviamo, che un tale Stefano, signore di Poli e di S. Gio- vanni, pentito, forse, di aver compiuta una delle solite invasioni (chè in quei tempi i signori si facevano lecito d'occupare i beni dei monisteri), trovandosi in punto di morte, fece il suo testamento, donando la metà di tutto il suo vasto patrimonio al Monistero dei SS. Andrea e Gregorio, al Clivo di Scauro in Roma. Oltre il castello Arnario con la villa Corfulano, la villa Stabla, il Lago Paparano, il fondo Galoiano, posti nel territorio di Sutri e Nepi, oltre altri beni nel territorio di Ariccia, ed altri in Roma, donò anche la metà del Castello di Poli, di quello (1) Cod. Vat. Lat. 7930, f. mod. 141 e segg. (2) PeTRINI avv. Pierro A. Memorie Prenestine, p. 394, da Cencio Camerario. (3) Ivi, 103. (4) Regesto Tibartino, doc. V. CascioLI. Mem. di Poli, pag. 88. 524 S. GIOVANNI IN CAMPORAZIO che chiamasi S. Giovanni, con metà delle mole, e degli altri fondi, e /oro casali, con le vigne terre e selve e con tutte le loro pertinenze (1). Sembra che, in seguito, il Monistero dei SS. Andrea e Gregorio, venisse in possesso di ambeduo i sopradetti castelli, perchè da un documento dell’anno 1051, ci apparisce, che l’Abbate Benedetto, autorizzato da quei Monaci, concesse in enfiteusi a terza generazione, ed a miglioramento a Giovanni, nobilissimo Conte, (non si merizione a quale famiglia appartenesse) l’intero Castello di Poli, e quello vicino di S. Giovanni, con patto che l’enfiteuta, in riconoscimento della conces- sione, dovesse offrire nella festa di S. Andrea Apostolo, titolare del monastero, un canone di sei monete d’oro. L'enfiteusi, estinta che fosse la terza generazione, cessava del tutto, ed il dominio diretto tornava al Monastero. Da quell’atto rileviamo, che il luogo era abitato e coltivato. Eranvi case, vigne, poderi, selve, campi, pascoli, fondi e casali, ville e mole; il tutto con le relative pertinenze, come particolarmente risultava dai documenti, che possedeva il Monastero (2). Nell’anno 1201, Giordano ed Oddone di Palestrina possedevano la tenuta di S. Giovanni in Camporazio, che allora era abitata (3). Da un atto di concordia, del giorno 7 febbraio 1252, rileviamo, che Pietro Colonna, figlio del fu Oddone, anche come padre di Landolfo, Oddone, Pietro, Leone e Fortebraccio, cedette ad Oddone Colonna, figlio del fu Giordano, suo cugino, nonchè ai suoi eredi e successori, tutta la sua porzione della proprietà, che possedeva nella città, monte e Rocca di Palestrina, e nel territorio della stessa, ossia nel suo tenimento e nei castelli di Zagarolo, Colonna, Capranica, nonchè della metà del castello di Prata Porci, e i territori o tenimenti dei sud- detti, nonchè le fortezze Augustae et Montis Acceptorii (Mausoleo di Auguste e Monte Citorio di Roma); quale metà dei beni sopradetti, era unita ed indivisa con la porzione di Oddone. Nell’atto si fa speciale promessa del godimento pa- rifico dei tenimènti, e proprietà della città di Palestrina, con i vassalli e gli usi degli stessi, nonchè dei castelli di Zagarolo, Colonna e Capranica, con le loro rocche e territori, unitamente ai vassalli, e agli usi di quelli. Nella cessione sono compresi anche tutti i diritti sopra i castelli di S. Vito, di Monte Manno, (1) Marini. Papiri dipl, n. CVI. Nipsy, II, 106. CascroLi, 1, c., 294. (2) Ann. Camal., tom. IV, app. Il, tom. VI. CascioLi, I. e. 297 (3) PETRINI, l. c., 132, S. GIOVANNI IN CAMPORAZIO 525 Castel Nuovo è Pisciano. Pietro Colonna ebbe in compenso da Oddone sopra- detto, e, per titolo di finale transazione, i Castelli di Gallicano, quello di 8. Gio. vanni in Camporazio e S. Cesareo, con i loro tenimenti e con tutte le condizioni e clausole sopra riportate, le quali risultano (come si dice nell'atto) dagl’istro- menti ed atti conservati dal sopradetto Pietro, nonchè dal laudo arbitrale pro- nunciato dafrà Giovanni Colonna, domenicano, ece. L'atto fu rogato dal notaro Giovanni di Nicola (1). l’ietro Colonna, figlio del fu Pietro, e Cappellano Pontificio, nel suo testa- mento del 18 luglio 1290, lasciò in legato al suo nipote Giovanni, figlio del fu Landolfo Colonna, la sua porzione del Cast: Zlo di Gallicano, con patto, che non potesse venirne in possesso, se non dope che avesse consegnato agli esecutori testamentari millecinquecento fiorini d’oro; della qual somma volle, che dieci fiorini si dessero alla Chiesa di S. Giovanni in Campo Oratii, ed altrettanti a ciascuna delle chiese, del Castello di Gallicano e di S. Cesareo. Istituì poi il Monistero di S. Silvestro in Capite in Roma, come erede universale di tutti i suoi beni, e così del Castello di S. Giovanni in Campo Oratii (sic) con la rocca, il territorio e il tenimento, con tutti i diritti e pertinenze spettanti a quello nonchè del Casale di Pantano, che era sito nella tenuta del Castello di Gallicano; quale Castello di S. Giovanni, era pervenuto in proprietà di Pietro Colonna, per la divisione fatta fra il testatore ed i suoi nipoti, ai quali toccò il Castello di S. Cesareo. Dispose ancora che fossero dati 10 fiorini d’oro al castellano di S. Giovanni in Camporazio. Agli abitanti dei Castelli di Gallicano e di S. Gio- vanni sopradetto, lasciò 150 fiorini d’oro, da dividersi fra tutti in eguale porzione. L’atto fu compiuto nel Castello di Gallicano, nel palazzo del suddetto Pietro Colonna, e fu rogato da Nicolò del 4. ‘Annibaldo, notaro di Palestrina (2). Il Mon. di S. Silvestro restò in possesso del tenimento di S. Giovanni in Camporazio, per oltre 346 anni, fino a che, nell’anno 1633, ai 26 di aprile, D. Taddeo Barberini, principe di Palestrina e nipote d’Urbano VIII, fece una permuta col Monistero suddetto, cedendo il casale, ed il tenimento di Cornazza- nello, posto fuori la porta del Popolo, e confinante con quello di Castel Galera (3). (1) PetRrINI avv. Ant. Memorie Prenestine, pag. 411. Arch. Col., perg. LVII, 41. Copri. Mem. Colonn., 59. (2) PerRINI, l. c., 415. Arch. di S. Silv. in Capite, mazzo G., arm. A, parte 2, pri Atti Dom. Fonthia not. Capit., 1633, 26 aprile, 526 S. GIOVANNI IN CAMPORAZIO Siccome poi Lotario Conti, duca di Poli, vantava dei diritti sopra la tenuta di S. Giovanni, tuttavia in seguito ad amichevoli pratiche, rinunciò nel giorno 12 agosto 1633, in favore del principe di Palestrina a qualsiasi diritto e ragione, anche in nome dei propri figli (1). Il Pontefice Urbano VIII, con suo Breve, in data 9 agosto dell’anno suddetto, sanzionò la rinuncia, dando al Duca di Poli tutte le facoltà necessarie, nonostante qualunque diritto di fidecommisso. La Casa Barberini tuttora è in possesso del tenimento di S. Giovanni, il di cui castello però, era stato già distrutto, nelle varie guerre tra la Chiesa ed i Colonnesi (2). (1) Atti Taddeo Bonini not. di Poli. CascIoLI, l. e., pag. 29. (2) CascioLI, l. c., 30. IL € CASTELLUM », E LA BASILICA DI S, LORENZO + BXTRA MUROS » 527 XVIII. Il « Castellum », è la Basilica di S. Lorenzo « extra muros ». Un grandioso portico monumentale, come quello che conduceva alla Basi- lica di S. Paolo sull’Ostiense, dalla porta Tiburtina, del recinto Aureliano, giun- geva fino alla basilica dedicata a S. Lorenzo, nell’Agro Verano. Questo luogo è certamente il più importante di quel suburbio : trasse il suo nome dall’Impera- tore Lucio Vero, cui forse appartenne, e poscia fece parte indubbiamente del Patrimonio Imperiale, perchè da Costantino fu donato alla Chiesa Romana (1). Oggidì non resta vestigio aleuno del portico menzionato, e soltanto se ne conserva qualche memoria, come verremo esponendo. Fu costruito dall'Imperatore Costantino, o poco tempo dopo il suo regno, nè fu opera edificata dal Pontefice Adriano I, perchè leggiamo nel libro Ponte- ficale, che Gregorio II (715-31), per il restauro delle mura Roma, fece co- struire le calcare in prossimità del luogo ove principiava il portico di .S. Lo- renzo (2). Intorno alla Basilica Costantiniana, sul primitivo sepolero di S. Lorenzo, furono costruiti diversi oratorii con edifici minori e case di abitazione, per modo che quel luogo, sebbene in proporzioni più piccole, poteva rassomigliare ai borghi, siti intorno alla Basilica di S. Pietro, ed a quella di S. Paolo fuori le mura. Presso la Basilica Costantiniana, detta Speciosa eravi un’altra Basilica Mator eretta da Sisto III (432-40), la quale più tardi dal Pontefice Onorio III (1216-27), fu incorporata alla prima. Intorno a queste eranvi gli oratorii di S. Agapito, di S. Stefano, di S. Cassiano, di S. Ippolito, di S. Barbara, nonchè quello di S. Gen- naro, del quale parla S. Gregorio Magno nei suoi dialoghi. Nella vita di Adriano I (772-95), a conferma si legge « nella basilica maggiore, che è dedicata alla Madre di Dio, e che è congiunta colla basilica di S. Lorenzo Martire (3) ». In quel (1) Zib. Pontif. nell'Elenco Costant., I, 181. TomassertI. Via Tibartina, 14. (2) Ibi, pag. 396. TOMASSETTI, |. c., 12. (3) Zib. Pont. Vita Adriani, parag. 61. 528 IL « CASTELLUM >, E LA BASILICA DI S. LORENZO «€ EXTRA MUROS è luogo fu eretto un grande edificio, ove erano accolti gratuitamente tutti i poveri, come già avveniva nelle maggiori basiliche (1). Un epigramma, trascritto dai raccoglitori di epigrafi, dedicato al Ponte- fice Pelagio II (578 90), ci informa, come fra gli altri lavori da lui compiuti nella basilica di S. Lorenzo, facesse eseguire anche il taglio di gran parte della collina che sovrastava alla basilica, e che minacciava di sotterrare il piccolo edificio sottostante; il che fu evitato coll’eseguito isolamento. I Campo Verano, fin dal secolo x, spettò ai Monaci Benedettini, come risulta dall’antichissimo inventario dei beni del Monistero di San Paolo fuori le mura, trascritto dal Galletti, che lo giudica redatto da Gregorio di Tuscolo, intorno all'anno 960 circa, come già dicemmo. In quello si legge: « Confermiamo il possesso di tutto il Campo Verano, ove è sita la Chiesa di San Lorenzo Mar- tire », quale fondo fu già donato (alla Chiesa) da Costantino, in tali condizioni, che poteva rendere ogni anno 350 solidi (2). Nel lato a ponente della Basilica, e precisamente nell’ottava finestra chiusa della nave maggiore, verso la facciata, adoperata come transenna, esiste tuttora una iscrizione che dice: « In Nome di Dio. Al tempo di Celestino III ed Inno- « cenzo III, Pontefici Romani, l Abbate di San Lorenzo, Paolo, costruì questo « castello con l’opera di Matteo, prelato dell'ordine di San Benedetto » (3). Questa è la prova positiva della esistenza di una cinta fortificata, che, egualmente come nelle Basiliche di San Pietro e di San Paolo, muniva contro qualunque incursione la Chiesa. di San Lorenzo, in quei tempi calamitosi del medio evo, difendendola poscia, dalle rappresaglie continue dei Longobardi e dalle successive scorrerie dei Saraceni. Si afferma in una memoria più recente di quella cinta, in un documento del xviI, redatto nell’occasione della S. Visita, sotto Urbano VIII, là dove così parlasi della Chiesa di San Lorenzo: « Basilicam olim tectam muro, ad instar <« castri circundatam, fuisse argumento, equidem muri reliquiae quarum pars « magna, viam T'iburtinam attingens, adhuc superest » (4). (1) Idem. « ad Petrum et. b. Paulum apostolos, et ad S. Laurentium martyrem pau- peribus habitacula construxit ». ARMELLINI. Okiese, ecc., 865. (2) Arch. di San Paolo. Cod. Vat. Lat. 7930, pag. 141 e segg. (3) In Nuovo Bullett. di Arch Crist., anno 1903, pag. 126. (4) ARMELLINI. Ze Chiese di Roma, pag. 865. Dice di averlo letto nell’ Arch. Vatie. senza dare indicazione alcuna. Consultammo il tom. VI dell’Arm. VII. Rovistammo poi i Il, € CASTELLUM è», E LA BASILICA DI S, LORENZO ® RXTRA MUROS » 529 Dalla iscrizione surriferita risulta, che una fortificazione, intorno agli edi- fici vari, fu principiata sotto il Pontefice Celestino III (1191-98), e che fu ter- minata sotto il suo successore Innocenzo {II (1198-1216), i quali entrambi fu- rono immediati predecessori di Onorio III. Non dobbiamo trascurare di menzionare la vasta fabbrica che già esisteva sulla collina, a sinistra della Basilica, perchè il chiarissimo De Rossi, in una sua lettera parla « di rovine di un gran palazzo a sinistra della Basilica, e sulla collina » (1). Il Pontefice Onorio II, unì fra loro le due Basiliche e Speciosa », e quella detta « Maior », e del medesimo Pontefice fu opera il portico esteriore alla * Basilica, che tuttora esiste, perchè vi si riconosce lo stile di quel tempo, e vi sì ammira in musaico l’immagine dello stesso Onorio III, che, nell’anno secondo del suo pontificato, volle coronare nella stessa Basilica, come imperatore latino a Costantinopoli, Pietro di Courtenay, conte di Auxerre e nipote di Luigi il Grosso (2). Un documento prezioso ci perviene dall'Archivio di Soriano nel Cimino, e c’informa di una Bolla d’Innocenzo IV, secondo la quale, nell’anno 1244, nel giorno 5 maggio, quel Pontefice prese sotto la .sua protezione apostolica il Monistero di S. Lorenzo nel Campo Verano, e gli confermò il possesso di tutti i beni a quello spettanti. Da quella Bolla apparisce, che avanti la porta di quel Monistero si estea- deva una valle, che dicevasi anche allora Campo Verano e Valle dei Pioppi, la vicina collina de Pilellis e l’altra del Monte Incantato presso la Vallata di S. Ginesio, ove già esistevano le catacombe di 8. /ppolito, site nella parte si- nistra della via Tiburtina, luogo attualmente occupato dal casale della vigna Gori, costruito sull’Oratorio di S. Ginesio (3). V'era poi il Fondo Baceuli, il * Monte di S. Ippolito, con la valle de Scrinariis, e con le vigne nei pressi della Torre Castello. Si menziona il casale detto Pitilianum, la Torre del Ponte Mam- molo, cum monumento, forse alludente ad una fortificazione sul ponte stesso, il poderoso Codice cartaceo, tom. LXXIX «dello stesso Armadio (di pag. 1920, Cod, Mss. 0.37 x 0.50) Alla pag. 676 rinvenimmo l'inventario dei beni della Basilica di San Lo- renzo, ma non già la notizia sopra citata. (1) De Rossi. Roma sotterranea, ILL, pag. 532. Lettera del 4 aprile 1892. (2) Niepy. / dintorni di Roma, 1I, 252. (3) TomassertI G. Za via Tiburtina, pag. 15. da 530 IL « CASTELLUM », E LA BASILICA DI S. LORENZO € EXTRA MUROS > ovvero ai ruderi di una qualche antica opera ‘distrutta. V’era poi la Torre Cervara (oggi Cervaro) col molino e la valle de Melutelo, nonchè il fondo di Severino sito presso il Ponte Nuovo, col casale de Grufi o Grifi, e le sue perti- nenze. Viene nominata la Villa di Poterano con la Chiesa di S. Angelo e la Villa de Archione, il casale Magugliano ed il fondo Buccones. Seguono la chiesa di S. Benedetto ed i fondi nel territorio tiburtino. Si aggiungono quelli del ter- ritorio di Civita Castellana con S. Maria di Fuseniano e le chiese di S. Giorgio e di S. Egidio con la Grotta di S. Famiano e le possessioni di Castel Paterno (1). Anche il Castello di Soriano, con quello detto Bulciniano e la chiesa di S. Maria di Luco, quella di S. Eutizio e l’altra di S. Andrea con tutte le loro pertinenze e fondi. Nel territorio di Sutri la chiesa di $S. Benedetto col borgo | annesso, con le terre, vigne, mole, nonchè la chiesa di S. Marco, posta lungo la via Cassia, che conduce a Sutri. A Ronciglione, la chiesa di $S. Leonardo, con le vigne, poderi e pertinenze varie. Nel Castello di Capranica, le case, le terre e le vigne con le loro attinenze. In quello di Giuliano, la chiesa di S. Erasmo e quella di S. Maria con la mola annessa. Il fondo Pratalia con l'oratorio di S. Vittore, dappresso al castello suddetto e le sue pertinenze. Il Castello Petronille con la chiesa di S. Maria, sita in quello, e l’oratorio di S. Angelo con i suoi tenimenti circostanti. Nel Castello d’ Ariccia la chiesa di S. Cecilia nonchè unam curtem e le altre case, con quattro mole, site lungo il rivo de campo. I due fondi Piscine con quelio di Monte Giove et Tunnie Apu- . liane e l’altro del Leone, con la metà del Castello di S. Angelo, del Monte del Lauro e la Selva Pincina, con la metà del tenimento di quel Castello. Nella tenuta della Colonna, la chiesa di S. Agata e le sue pertinenze. Nel distretto Ripe la chiesa di S. Aga'a con l'ospedale annesso e con la mola. La chiesa di S. Bartolomeo de Lanzano, il Castello di Grotta Pensile, con le chiese di S. Maria e di S. Pietro e le loro pertinenze. Prosegue la conferma di altri vari fondi, le cui designazioni, fatte per vocaboli di quel tempo, senza avere dato precisi confini, non renderebbero agevol cosa lo indicarli (2). (1) Castel Paterno, sito nel territorio di Stabia (oggi Faleria). Quivi avvenne la morte di Ottone III di Germania, ai 23 gennaio 1002. GreGoRrovIus F. Storia della città di Roma nel Medio Evo, II, pag. 133-146, ediz. 1900. (2) F. Savio. Simeotto Orsini. Bollett. della Soc. Umbra di Storia Patria, vol I, fase. III, n. 3. veg» A Pg. — Il. € CASTELLUM », E LA BASILICA DI 8, LORENZO « BXTRA MUROS» — 631 Nell'anno 1347, il Monistero di S. Lorenzo, possedeva tre quarte parti del Castello e del territorio di Civita Lavinia, allorchè Antonio e Gorio, figli del q. Pietro Frangipane, compirono una delle solite invasioni, che commettevano in quei tempi i Signori in danno dei Monisteri e dei luoghi pii, nè paghi della prepotente occupazione fattane, devastarono anche varie parti del Castello sud- detto. La invasione durò per sei mesi continui, e gli usurpatori si appropriarono tutte le rendite è i proventi del tenimento, che spettavano per tre quarte parti al Monistero sopraddetto. Così violentemente percepirono dai coloni 100 rubbia di grano e 50 di orzo, ed altrettante some di vino, nonchè 20 coppelle di olio, depredaudo quanto rinvennero nel Castello, le armi. i materassi, la biancheria, it grano e le provviste di carne secca ed altro, financo le noci e le ghiande; in modo che, i danni sofferti dal Monistero poterono valutarsi oltre 5000 fiorini d’oro, somma molto elevata in quei tempi, nei quali non si esercitava il com- mercio. La proprietà del Monistero era dotata anche di casali per gli agricoltori, come risulta dal decreto emesso da « Guido De Patriciis de Insula » per la presa di possesso autorizzato per il sequestro della parte spettante ad Antonio e Gorio Frangipane, in emenda dei danni arrecati al Movistero (1). Un altro avveniment. storico venne ad illustrare la Basilica di S. Lorenzo, nell’anno 1355, quando cioè Carlo IV di Boemia venne a Roma per farsi inco- ronare Imperatore. Nel giorno primo aprile di quell’anno egli pose il suo campo nei prati di Nerone, poichè aveva stabilito di non entrare in Roma, che nel dì medesimo della sua coronazione. Questa avvenne nel giorno di Pasqua, che in quell’anno. fu il 5 aprile, e Re Carlo fu coronato da Egidio d’Albornoz, Cardi- nale di S. Clemente, alla presenza di Francesco di Giordano de’ filiia Ursi, Prefetto della città. In quello stesso giorno, appena furono levate le mense al Laterano, ove era avvenuta l'incoronazione dell’Imperatore, questi annunciò che lasciava Roma per una partita di caccia. Infatti, subitamente deposta la porpora, montò cavallo, ed uscendo per la porta prossima della città, s'avviò verso la via Ti- burtina; ma, siccome annottava, chiese ricovero ai monaci Cluniacensi di (1) Ecipi P. Due documenti per la storia di San Lorenzo fnori le mura. Arch. di Storia Patria, XXX, pag. 472 o segg. 532 IL & CASTELLUM >», E LA BASILICA DI S. LORENZO € EXTRA MUROS » S. Lorenzo fuori le mura, che sebbene sorpresi della domanda improvvisa, lo ospitarono in quel cenobio, come meglio riuscì possibile (1). Un’altra memoria della chiesa e dei monaci di S. Lorenzo rinvenimmo negli atti di Sacra Visita di quel Monastero, sotto il Pontificato di Urbano VIII. In quelli risulta, che nel giorno 21 gennaio 1578, fu stipulato un istrumento enfiteutico dall’Abate di quel Monastero con la famiglia Lante (che all’epoca di Urbano VIII, era rappresentata dal marchese Marcantonio Lante), e fu con- cesso in enfiteusi il tenimento di Pietra Lata, detto anche Paliano, fino a terza generazione, e per l’annuo canone di scudi 180, come da atto del notaro Luca Renerio (2). Nei tempi antichi, la Basilica di S. Lorenzo fu officiata da chierici e da preti; poi dai monaci col rispettivo Abate, ma siccome costoro commisero delle irregolarità, in seguito a reclamo di Alberico, principe dei Romani, il Pontefice Agapito II (946-55) affidò la Basilica alla nuova Congregazione Cluniacense, che rimase quivi per qualche secolo. In seguito, per mancanza di monaci dell’Ordine suddetto, sotto il Pontefice Giulio II, nell’anno 1511, nel giorno 7 novembre, i Canonici regolari di S. Salvatore di Bologna, detti volgarmente Scopetini, occu- parono quel Monistero per custodia della Basilica. Dopo la metà del secolo xtx a quelli successero i frati Cappuccini, che tuttora ivi risiedono. L’Archivio della chiesa di S. Lorenzo è conservato oggi nella Biblioteca ed Archivio generale dei Canonici regolari di S. Pietro in Vincoli; ma i documenti più antichi andarono deplorabilmente perduti (3). o J (1) GrecoroviIus. Storia della città di Roma nel medio evo, III, 28 ediz, 1901, pag. 459. TOMASSETTI, ]. c., 17. (2) Arch. Vatie., Arm. VII, tom. 79, pag. 677. (3) KEeHk P. Regesta Rom. Pont., I, 160. LA BASILICA DI 8, SEHBASTIANO SULLA VIA APPIA 63R XIX. La Basilica di S. Sebastiano « ad catacumbas » sulla via Appia. AI terzo miglio circa della via Appia, sulla crypta sepolcrale degli Apostoli SS. Pietro e Paolo, il Pontefice Damaso I (366-84), eresse una chiesa, dedican- done la platonia (1) agli stessi Apostoli. In quel luogo stesso fu sepolto il mar- tire S. Sebastiano. A destra della porta maggiore della Basilica leggevasi un frammento d'’epi- grafe in membria sepolerale d'un Victor Praefectus Annonae, quale epigrafe è ora ripetuta integralmente su lapide marmorea, affissa nella parte sinistra della stessa porta. Le ‘lettere sono del quinto secolo, oppure del principio del sesto. Il Prefetto Vittore resse l’Annona urbana, entrò poi nel Senato, e passò in seguito nella Corte Imperiale. Ebbe ufficio di esigere e verificare il canone delle varie specie alimentari che erano pagate come tributo dalla provincia (2). Fin dal secolo 1v intorno alla Basilica furono edificati molti cubicoli, celle, oratorii e mausolei, i ruderi dei quali esistono ancora nella prossima vigna, anzi secondo il Panvinio, nel secolo xvi rimanevano tuttora in piedi importanti avanzi di quegli edifici, che ora sono assolutamente scomparsi (3). In vicinanza della Basilica dedicata agli Apostoli, il Pontefice Sisto Iil (432-40), istituì un Monistero che fu detto ad Catacumbas (4) — monasterium instituit. — Fu questo il primo caso di monisteri fondati fuori delle mura di Roma presso le Basiliche suburbane, allo scopo, che gli uffici religiosi fossero compiuti assiduamente e con regolarità. In conseguenza, il luogo « ad catacumbas » comprendeva due santuari importanti, la Basilica cioè, che racchiudeva la tomba degli Apostoli SS. Pietro e Paolo, nel luogo ove erano stati deposti dall'anno 258, fino alla fondazione delle rispettive Basiliche Costantiniane, e la (1) Ducnesne. Lib. Pont., I, 84-85, 212, (2) ArMELLINI M. Gli antichi cimiteri cristiani, pag. 429 e segg. (3) Cod. Vat. Lat., 6780. ArMELLINI M. Gli antichi cimiteri cristiani, pag. 429 e segg. (4) Ducuesne, Lib. Pont., I, 284. 534 LA BASILICA DI S. SEBASTIANO SULLA VIA APPIA chiesa colla tomba del martire S. Sebastiano; quali ambedue erano assistiti da religiosi, atteso la continua frequenza dei fedeli. i Papa Adriano I (772-95) restaurò completamente quella chiesa, che minac- ciava rovina, come si rileva dal libro pontificale (1). Anche il Pontefice Nic- colò I (858-67) compì nuovi restauri in quella chiesa, che da molti anni era quasi deperita (2); costruì un nuovo monistero — monasterium condit —, e quivi stabilì i monaci, retti da un Abate, dando disposizioni perchè fossero forniti del necessario per la vita (3). Nell’alto medio evo, e specialmente dopo il secolo I1x, la maggior parte dei cimiteri cristiani del suburbio di Roma era caduta in oblio, compreso anche quello celeberrimo detto « di Calisto ». Invece, però, la Basilica di S. Sebastiano raccolse la eredità della storia religiosa e di tante tradizioni, mantenendosi sempre una mèta illustre di continui e devoti pellegrinaggi. I libri indulgentiarum, le guide del medio evo, dopo le maggiori Basiliche degli Apostoli notano subito quella di S. Sebastiano e del suo cimiterio, ossiano le catacombe, ove, come dicemmo, i pellegrini facevano stazione di giorno e di notte (4). Nell’anno 1161, il giorno 30 di settembre, il Pontefice Alessandro III, con un suo Breve datato da Terracina, concesse la Basilica di S. Sebastiano ad Ugo, priore, ed ai frati di S. Maria Nuova, perchè ne avessero il possesso e la custodissero, assegnando ad essi tutti i beni e le loro pertinenze. Il Breve sud- detto fu emanato dopo che ì frati ebbero deciso di accettare l’ufficio. L'atto fu sottoscritto da sette Cardinali e comincia con le parole: « /njuncti nobis » (5). Nell'anno 1174 o 1175, lo stesso Pontefice diè mandato al Priore Latera- nense (o forse di S. Quirico) e a Primo prete, nonchè ad Uberto suddiacono, di giudicare una -causa vertente fra Giordano Priore e i Canonici di S. Maria Nuova da una parte, e dall’altra l’ Abate e î Monaci di S. Sebastiano in Cata- cumba, circa il possesso di una mola, e sul diritto o meno di conservare gli sistromenti del Monistero di S. Sebastiano. nell’ Archivio di quello di S. Maria n (1) Ibi, BOS. (2) earn quod multis ab annis vruerat, meliori illud fabrica renovans ...,. » (3) Ducnesne, II, 161. È (1) ARMELLINI M. Ze Chiese di Roma, 896. (5) KeHR P. Regesta Pont. Rom., I. 67, LA BASILICA DI 8. SEBASTIANO SULLA VIA APPIA 535 Nuova (1). Una lettera dello stesso Pontefice datata da Ferentino, in quel tempo, ai 9 di ottobre, e diretta all'’Abate e frati di S. Sebastiano, ordina che ubbidi- scano alla sentenza pronunciata dai giudici sopra nominati, non ostante che altri possa avere interesse nella causa. Comanda, che consegnino gli istromenti al Priore e frati di S. M. Nuova, e che, in presenza dei giudici, compiano quello che fu deciso per giustizia (2). 1 Una seguente lettera datata da Anagni, nel giorno 1° dicembre 1175, e scritta da Papa Alessandro III, conferma quanto venne stabilito nell’istromento pubblico redatto dallo scrinario Andrea, sulla concessione fatta della chiesa di S. Sebastiano (3). Alcuni terreni che erano nei pressi di S. Sebastiano, sulla sinistra della via Appia, e di fronte a quella Basilica, appartennero già alla Badia di S. Maria Nuova, e da questa passarono al Convento di S. Sebastiano in seguito al Breve di Alessandro III, del giorno 30 settembre 1161 (4). Una lettera del Pontefice Gregorio IX, in data 9 aprile 1249, conferma la permuta di certi beni fatta dal Monistero; ed una successiva del giorno 20 marzo 1241, stabilisce l'unione del Monistero di S. Cosma di Vicovaro, del- l’ordine di S. Benedetto, con tutti i fondi e pertinenze, a quello di S. Seba- stiano ad Catacumbas (5). Sotto il pontificato di Eugenio IV (1431-47 fu restaurata la Basilica di S. Sebastiano, che per incuria, ed anche per vetustà, era quasi fatiscente (6). Anche Giovan Paolo Bosio, Abate di quel Monastero, vi compì importan- tissimi restauri (7). Il Pontefice S. Pio V (1566 72), soleva bene spesso trattenersi nella Basilica e nel Monmistero di S. Sebastiano (8). Nelle varie carte relative alle Sette Chiese di Roma, durante il Giubileo (1) Kenr P. Regesta Pont. Rom., I, 87. (2) Ibi. (3) Ibi. 68. (4) ToMassETTI. Arch. Soc. rom., Il, 186, che afferma quanto sopra colla data del- l'anno 1167. (5) Bosio A. Roma sotter., pag. 178. (6) BLoxpus. Roma instanr., lib, 3, pag. 65. (7) Bosio A. Roma sotter., pug. 179. (8) Bibl, Casan. Miscell., in-8°, n. 14, pag. 80, 536 LA BASILICA DI S. SEBASTIANO SULLA VIA APPIA dell’anno 1575, sotto il pontificato di Gregorio XIII, si descrive S. Sebastiano col portico cinto di mura all’intorno. Finalmente, il Pontefice Gregorio XVI, concesse la Basilica (che era stata restaurata dal Card. Scipione Borghese, e che viene annoverata fra le Sette Basiliche maggiori di Roma) ai frati Minori Osservanti, che tuttora la officiano. Secondo quanto scrive il chiarissimo prof. Kehr, fino ad oggi mon si potè avere alcuna notizia dell’ Archivio di quella Basilica ; ma giova notare, che nel- l’anno 1614 furono rinvenute alcune pergamene antiche in una cassa marmorea, e che tuttavia non furono potute leggere, come riferisce l’ Armellini, riportando le schede del Suarez. Furono raccolti vari documenti relativi alle indulgenze da Andrea Jacovacci nell’anno 1521; e Giovanni De Albericis, nel compendio della storia della chiesa di S. Maria del Popolo (a pag. 79) fa merzione di un certo libro del Monistero di S. Sebastiano, nel quale furono trascritte alcune lettere apostoliche e privilegi, per opera di vari notari pubblici; delle quali cose l’Armellini fa una recensione, non omettendo il dubbio sulla loro autenticità. Molti decumenti però si possono desumere dall’ Archivio di S. Maria Nuova (1). Il cimitero (di Pretestato) giace lungo la via Appia ad oriente: chi dalla Basilica di S. Sebastiano si conduce alla chiesa di S. Urbano, lo ha alla sua sinistra. Egli vede delinearsi, via via nell’orizzonte, i ridenti poggi di Albano: a diritta si eleva la colossale rotonda pagana del sepolcro di Cecilia Metella; nell’avvallamento si estende il Circo, tuttavia conservato, dell'Imperatore Mas- senzio, colle sue interminabili mura di cinta, e vicinissimo s’innalza l’ Heroon, un bell’edificio in memoria del suo figliuolo Romolo, che forma un incantevole sfondo d-lla scena. La chiesa di S. Urbano, che dal coile dirimpetto guarda giù alla tranquilla superficie del cimitero, è del pari una costruzione antica, e non originariamente cristiana. i Era una delle pertinenze delle vaste fabbriche che quivi si estendevano di Erode Attico, il tempio o forse il mausoleo di Annia Regilla moglie di Erode. Erode Attico fu uno dei precettori di Marco Aurelio e Lucio Vero. La villa da lui costruita su questo territorio stava in comunicazione col pagus Triopius, piccola colonia di agricoltori. La villa coi suoì ricchi fabbricati si teneva più a (1) KenRr P. Reg. Pont. Rom., I, 162. LA BASILICA DI S. SEBASTIANO SULLA VIA APPIA 537 diritta, ed era immediatamente confinata dalla via Appia, dove una serie stu- penda di colonne di mgrmo cipollino ne formava il lembo estremo. Più a manca verso Roma, e nella direzione dell'’amena valletta della Caf- farella, si trovava il centro delle tombe sotterranee dei cristiani, le catacombe. AI fantastico rivo che percorre la valle, fu dato per l’addietro il nome di « Almo », e ad un'antica grotta ben conservata quello di « Grotta della ninfa Egeria ». Sul colle, che pittorescamente incoronato di grandi elci, fronteggia la chiesa di S. Urbano, fu collocato un « bosco sacro +, ed il sepolcro a setten- trione, di classica costruzione a mattoni, assunse il nome di « Tempio del Deus Redicolus ». Queste denominazioni, se anche storicamente insostenibili, decorano tuttavia questo luogo attraente, tanto per i suoi monumenti © ricordi, quanto per le bellezze naturali (1). (1) Estratto dal Grisar Hart. /0oma alla fine del mondo antico, pag. 672, u. 428. 538 LA BASILICA ED II MONISTERO DI S, AGNESH SULLA VIA NOMENTANA XX, La Basilica ed il Monistero di S. Agnese e Costanza sulla via Nomentana. La Via Nomentana, dopo quell’ Appia, fu certamente la più importante per i sepolereti e per le ville delle principali famiglie romane, i di cui avanzi sono stati danneggiati per opera dei successivi proprietari, sebbene fino alla prima metà del passato secolo ve n’erano alcuni ancora imponenti presso S. Agnese, come nei fondi contigui, conosciuti col nome d’/ppodromo di S. Costanza (1). La chiesa dedicata alla martire S. Agnese fu costruita sulla tomba della suddetta, a preghiera di Costanza, figlia dell’imperatore Costantino (2). Lo stesso Imperatore per la manutenzione della Basilica suddetta e per il culto di quella, nonchè per il sostentamento dei sacri ministri, donò tutto il fenimento vicino alla citta di Figlina, che aveva un annuo reddito di solidi 160, tutto il campo che sì estendeva dalla Via Salaria, in contrada sub Paretinas, fino alla nuova Basilica, dell’annuo reddito di solidi 105, nonchè il campo Mucio, che rendeva annualmente solidi 80, la possessione di Vico Pisore, che rendeva ogni anno solidi 250, e final- mente il Campo che appellavasi Casulas, della rendita di solidi 100 (3). Verso la fine dell’anno 355, il Pontefice Liberio fu deportato in esilio per ordine di Costanzo Augusto, perchè non aveva voluto aderire alla eresia Ariana, e per tre anni fu relegato, a Beroam, nell’antica Tracia (oggi parte della Ro- mania). In seguito ad istanza dei preti Ursacio e Valente, fautori delle eresia Ariana, professata da Costanzo, questi permise il ritorno del Pontefice Liberio, che ritornando a Roma, prima dell’autunno dell’anno 358, volle abitare nel ci- miterio — in Coemeterio — di S. Agnese, presso la sorella dell’Imperatore Co- stanzo Augusto (4). Il Coemeterium di cui si fa menzione, era costituito dalle fabbriche imperiali annesse alla Basilica di S. Agnese, ed in quelle dimorò per (1) TomassetTI G. In Arch. Stor. Pat., XII, 58. (2) DucHEsne. Lib. Pont., pag. 180. (3) Anastasius bibl. /n vita «Silvestri. DucHESNE. Lib. Pont, I, 180. (4) DucHesNne, Lib. Pont, 207 e segg. ERI 14 LA BASTLICA ED IL MONISTERO DI S, AGNESE SULLA VIA NOMENTANA 539 qualche tempo il,Pontefice (1). In seguito Papa Liberio, ornò di lastre di marmo ‘il sepoloro della Martire cristiana (2). Nell'anno 418, il Pontefice Bonafacio I dovette celebrare la Pasqua in quella Basilica, invece che ne! Laterano, atteso lo scisma per il quale lo Antipapa Eulalio, favorito dal Prefetto di Roma, trovavasi in possesso del Laterano (3). I) Pontefice Simmaco (498-514) rinnovò l’abside, e restaurò tutta la Basilica (4). Anche sotto Teodorico, re degli Ostrogoti (493-526), fu per ordine da lui datone riparato il tetto della Basilica di S. Agnese, come dalle lettere, che egli scrive a Cassiodoro, nelle quali menziona i restauri da esso compiuti tanto nei tempî pagani, quanto in quelli cristiani. Infatti nei secoli posteriori. furono rin- venute molte embrici e tegole di quel tetto, che portavano il sigillo noto del re suddetto (regnante d. n. T'heodorico- Felix-Roma, ovvero, Bonc-Romae) (5). Il Pontefice Onorio I (6025-40) costruì la nuoya abside dalla Basilica, deco- randola con splendidi mvsaici, e facendo molti doni alla chiesa stessa (6). Non sappiamo con precisione in quale epoca sia stato istituito e fabbricato il Monistero di SS. Agnese e Costanza, nonchè quello di S. Emerenziana, annesso al primo; ma fin dall'anno 740 si trovano memorie di monache basiliane del- l'Ordine di S. Benedetto, che abitarono il Monistero di S. Agnese, e forse, ve- nute a mancare le prive religiose per le invasioni dei barbari, è a ritenersi pro- babilmente che i Pontefici Gregorio II, o Gregorio III, o Zaccaria, abbiano af- fidato la custodia della basilica alle monache greche di S. Basilio, specialmente anche per la ragione che in quel tempo molte religiose pervenivano dall'Oriente in seguito alla persecuzione di Leone Isaurico e Costantino Copronimo (7). Verso la fine del secolo vi, Adriano I (772-95) fece nuovi restauri alla chiesa, e nella vita del suo successore Leone II (795-816) si fa menzione del Monistero e delle monache dell’Ordine Benedettino, che l’abitarono per prime (8), durante il Pontificato, del succedutogli Pasquale I (817-24). |’ (1) AnseLLini M, // Cimit, di S. Agnese, occ, pag. 371. (2) Ducnesne. Lib. Pont., 208. (3) Ibi. Vite Boni/., pag. 227. (4) Ibi, 263. (5) Cramrini De Sacris aed., c. 9, pag. 123. ARMELLINI. // Cim. di S. Agn., pag. 376. (5) Duonesxne, Lib. Ponl. Vit. Honor, pag. 323, (7) Kenr. Regest Pont. Rom, 1., 158, BarTOLINI, Affi del mart. di S, Agnese, pay. 109, (8) KERR, |, e, 540 LA BASILICA ED IL MONISTERO DI S. AGNESE SULLA VIA NOMENTANA Dai documenti di quell’epoca in poi, ci pista che la porta Nomentana era detta porta Domnae o Dominae, nome relativo alla martire S. Agnese. Infatti i martiri furono appellati per onore Domini e Domni. Anche tutto il tratto della via, dalla porta fino al ponte sull’ Aniene, ebbe la denominazione di S. Agnese. Che anzi il pedaggio di questo ponte, e ‘quello della porta sopraddetta, appar- tenne al Monistero ed alla Basilica della Santa, di cui sopra (1). Più tardi il Pontefice Pio IV (1559-65) concesse il pedaggio menzionato al conte Rainerio da Terni, suo cameriere segreto, ed ai suoi eredi successori, con l'obbligo di dare però un compenso in denaro alla Basilica, come si legge nel Breve relativo, nel quale si dice, che il Pontefice ignorava il diritto sopra men- zionato (2). Dall’archivio di S. Agnese, che è conservato in quello di S. Pietro in Vincoli, ove sono raccolti tutti gli atti che si riferiscono al Canonici regolari lateranensi, ci pervengono nuovi documenti, che verremo citando in ordine cronologico, de- sumendoli dal codice di quel monistero, e che ha per titolo Registro del Moni- stero di S. Agnese. È Dal primo documento, dell’anno 982, del giorno 16 di gennaio, rilevasi che Amizo, vescovo di 7'ivolî, insieme alla propria sorella Benedetta, donarono al Monistero di SS. Agnese e Costanza in Agello sulla Via Nomentana, un terreno con un corso d’acqua, sito in un luogo detto Castru Betere (Castel Vecchio), nel territorio di Tivoli, presso la Chiesa di S. Martino, ed altri confini, che sono menzionati nell’atto. La donazione venne fatta con la formola consueta in quel tempo, per causa, cioè della salute dell’anima; e l’istromento fu rogato da Ma- dilberto, notaio della Chiesa Tiburtina (3). Nell’anno 1013, il giorno 8 di aprile, l’Abbate del Monistero delle SS. Agnese e Costanza, chiamato Ildizo, autorizzato dalla Congregazione dei monaci del so- predetto Monica concesse in enfiteusi a Giovanni prete. ad un altro Giovanni Germano ed a Leone una quarta parte di una mola con tutti i suoi annessi, sita nel luogo detto 7rulge (4). (1) BARTOLINI, l. c., 119. ARMELLINI, l. c., 5. (2) Arch. Vat. Contelori, Lib. XXVI, pag. 355. Indice, 678, pag. 1507. (3) Arch. S. Petri ad Vincula, Arm, E, doc. 1. FepELE P., in Mélanges, XXVI, anno 1906, pag. 174. (4) Ibi. Doc, II. LA BASILICA ED IL MONISTERO DI S, AGNESE SULLA VIA NOMENTANA bl Il Pontefice Pasquale II, con una sua Bolla, data dal [Laterano l'anno 1112, il giorno 11 maggio, avendo ravvisato, che i monaci e chierici dimoranti nel Monistero di S. Agnese non vivessero secondo le discipline monastiche — minus religiose vivebant — volendo riparare lo scandalo, affidò invece alla Abbadessa Adelasia, ed alle monache da quella dipendenti, il Monistero sopradetto, affinchè fosse custodito coll’osservanza perpetua delle discipline dell'ordine monastico. De- cretò inoltre, che nessuno ardisse di recare molestia alle religiose, specia]mente nei beni che ad esse spettavano, ed al Menistero. La Bolla fu redatta da Giovanni, Cardinale bibliotecario, e notaro del Sacro Palazzo, e fu sottoscritta da 17 Cardi- nali, abbati e suddiaconi (1). Nel citato registro rinvenimmo un atto, dell’anno 1114, del giorno 2 feb- braio, col quale Stefano e Cintio, figli del fu Gregorio Cintio de Paparonibus, ri- nunciarono avanti l'avvocato Pietro Stefano de Cencio, a qualunque causa per la restituzione di due parti di tredici libbre di provisini, costituenti la metà delle 26 libbre che il detto Gregorio Cintio de Paparonibus aveva dato a prestito al Monistero di S. Agnese, il quale iri garanzia aveva dato un terreno presso formam Cornollae e due pezzi di vigna nel luogo detto ad Saturninum (2). Guido di Stefano, anche col consenso di Teodora, sua moglie, nell’anno 1127, nel giorno 15 di aprile, donò all’Abbadessa Agnese ed alle monache di quel Mo- nistero, la metà del corso d’acqua, che esso Guido possedeva già in comune col Monistero, autorizzando a costruire una mola entro la sua proprietà, che era sita nel luogo detto Pelaiano e dichiarando di fare tale concessione anche a nome dei propri figli Leone e Guida (sic) (3). . La suddetta Abbadessa Agnese, col consenso e con la volontà espressa dalle monache del Monistero, diede in enfiteusi, nell'anno 1139 e nel giorno 29 set- tembre, a Pietruccio ed ai suoi eredi e successori, un pezzo di terreno coltivato ad orto, per piantarvi una vigna con alberoto, fuori la Porta Nomentana, nel luogo detto ad formam de pilo, Il canone annuo, che prima pagavasi il giorno 13 gennaio nella festa di S. Agnese, era fissato a 14 solidi di denari papiensi, ma, fintanto che la vigna non avesse prodotto l’uva, il colono avrebbe dovuto pa- © gare due solidi per l’orto, e 12 denari per il resto. In seguito poi, dovesse pagare (1) Ibi. Doc. V a pag. 13, KEnR p. Rey. Pont. R., pag. 159, (2) Arch. S. Pietro in Vinc., doc, XI, pag. 22. (83) Ibi, doc, VI, pag. 15. 542 LA BASILICA ED IL MONISTERO DI S. AGNESE SULLA VIA NOMENTANA due solidi per l’orto, più in ogni anno, la quarta parte di tutto il vino depurato, nonchè la quarta parte dell’acquato che fusse stato prodotto dalla vigna, oltre un canestro d’uva; del quale canestro vengono stabilite le dimensioni e questo per ogni pezzo di vigna. Se nello scasso della vigna si fosse rinvenuto sutto terra oro, argento, o qualsiasi metallo o pietra, che valesse oltre 12 denari, il colono doveva darne la metà al Monistero. Questo documento è di somma importanza per l’agricoltura, perchè forma un esemplare dei contratti enfiteutici del secolo xIi, e perciò dà un’idea esatta dei patti colonici di quell’epoca (1). Adriano IV, nell’anno 1154, diede mandato al Cardinal Giulio, del ti- tolo di S. Marcello, di riferire sulla causa insorta fra il Convento di S. Maria in Monistero e quello delle SS. Agnese e Costanza circa il possesso dei due fondi nella località detta Muro Malo e del prato presso un bosco nello stesso sito (2). Nell’anno seguente, il giorno 11 aprile, per comando di Papa Adriano, alla pre- senza di Gregorio, Vescovo di Sabina, del Cardinale Giulio del titolo di S. Mar- cello; di Gerardo, Cardinale del titolo di Stefano al Monte Celio e di Giovanni di Pietro Leone, Console dei Romani, fu pronunziata una sentenza da Gregorio Secondicero, da Gregorio Arcario e da altri giudici, in favore di Emerenziana, Abbadessa del Monistero di S. Agnese, contro Romano, economo del Convento di S. Maria in Monistero. Per ordine espresso del Pontefice Adriano IV, la sentenza fu redatta in forma pubblica da Ottone, Serinario della Chiesa Ro- mana (3). L’Abbadessa Elisabetta, la sua vicaria Sclabana, e Guido, economo del Mo- nistero di S. Agnese, nell’anno 1199, nel giorno 12 di maggio, affittarono per il termine di 19 anni a Cencio e Guido figli di Pietro Mancini per una metà, e per l'altra a Giovanni e fratelli, figli di Cerro, ed a Nicolò di Pietro Sartois, la proprietà che il Monistero possedeva nel territorio di S. Oreste, nei vocaboli Val'icella, Pratoscelli et montis de Furse et Aquatiolus (4). I restauri fatti, nel medio evo, alla Basilica Costantiniana di S. Agnese, 3 (1) Arch, S. Pietro ad Vincula, eg. del Mon. di 8. Agnese, doc. XIV, pag. 27. 2) Arch, S. Pietro ad Vineula, doc. XIII, pag. 25. (3) KeHR. /ndicatum jussu Adriani IV, ab Ottone Scrin. S. R, E. pubblicis litteris exaratum. (4) Arch, di S. Pietro in Vincula, Reg. del Mon. di S. Agnese, doc. XITI, pag. 2. rr nd <@ LA BASILICA ED IL MONISTERO Dì! $s AGNESE SULLA VIA NOMENTANA 543 hanno danneggiato tutte le memorie storiche che esistevano in quell'epoca. Recentemente sono state rinvenute nel pavimento della scala, sculture e lapidi tta le quali una relativa alla consacrazione della chiesa di S. Costanza (1). Il Pontefice Alessandro IV, nell'anno 1256, restaurò la Basilica erigendovi tre altari nuovi, e ne fece la consacrazione in presenza di vari Cardinali e ve- scovi, mentre in quel tempo Lucia era abbadessa del Monistero, Teodora prio- rissa è Jacoba monaca e sacrista, e nel convento v'erano varie monache (2). Da un istromento dell'anno 1286 del giorno 16 decembre, ci risulta che i fratelli Nicolò e.Pietro figli del q. Bartolomeo Partimedalia, vendettero a Nie- colò Saxonis e a Camiliano, procuratore, delegato speciale dell’Abbadessa del Monistero di S. Agnese, e dell’abazia e del convento, l’intera metà di tutto il casale e del suo tenimento che chiamavasi S. Stefano dei Partimedalia, in pros- simità del castello di Poterano, al di là del ponte Nomentano, mentre l’altra metà del casale sopradetto restava in proprietà dei fratelli Niccolò e Pietro menzionati. Per una speciale elargizione fatta dal ‘Pontefice Onorio IV (1285-87) a favore del Convento di S. Agnese, furono sborsati milleseicento fiorini d'oro, come prezzo d'acquisto della metà del tenimento sopradetto, con patto espresso che in futuro nè l’Abbadessa nè le monache di quel Monistero avessero alienato il fondo acquistato, ma che dovesse restare in proprietà perpetua del convento. L’atto fu redatto dal notaro Giovanni Bonzellotti, che nello stesso giorno sti- polò sei istromenti relativi al consenso e alle facoltà necessario accordate dai vari interessati (3). Un altro istromento dell’anno 1296, del giorno 29 giugno, ci informa che l’Abbadessa Costanza e le monache del Monistero (che vengono menzionate in- dividualmente nel numero di trentaquattro, di cui alcune appartenenti alle primarie famiglie di Roma, come ad esempio quelle di Giovanni Rubei, di Ni- cola Saxonis, Romani, de Surdis, Caputgallis, de Arcionibus, ecc.), avendo eletto a loro procuratori Stefano Moncarello del Rione Pigna, rinunciano, a favore dell’Abbadessa, e del Monistero di S. Silvestro in Capite, ad alcuni affitti antichi nel tenimento di S. Stefano, facendone permuta con sei pezzi di vigna, spettante allo stesso Monistero di S. Agnese, siti fuori la Porta Salaria, in Monte Domi- —T +»_ (1) Tomasserti G, In Arch. Stor, Pat,, XII, 87, i (2) Lapide sulla scala laterale della Bas, BARTOLINI, |. è., pag. 109, (8) Arch, di S. Pietro in Vincula, eg. del Mon. di S. Agnese, doc, OXCI, pag. 296. 544 LA BASILICA ED IL MONISTERO DI S, AGNESE SULLA VIA NOMENTANA narum; quali vigne corrispondevano ogni anno la quarta parte del raccolto. L’atto fu rogato da Nicolò de’ Cerini (1). Una successiva sentenza, dell’anno 1348, del giorno 21 febbraio, assolve l’Abbadessa e le monache del convento di S. Agnese, dall’accusa mossa contro di esse dai chierici e dal Capitolo di S. Maria in Monisterio, di avere cioè usurpato ed occupato illegalmente una pedica di terra in vocabolo Monte della Questione, ossia Pedica della Questione, e la sentenza stessa fa appello a Bertoldo de filiis Ursi, conte Palatino, nonchè a Luca Savelli, che in quel tempo erano Senatori di Roma, affinchè l’atto sia eseguito senza ulteriore opposizione. L’atto fu redatto dal notaro Niccolò di Pietro Sante (2). Nell'ultimo suo testamento dell’anno 1372, nel giorno 19 dicembre, Rinaldo del q. Orso Orsini, fra le altre disposizioni ordina al suo nipote Giordano, suo erede universale, di consegnare all’Abbadessa del Monistero 1000 fiorini d’oro, per suffragare con preci l’anima sua. Che se il sopradetto Giordano non volesse pagare detta somma, allora dovesse consegnare al Monistero sopradetto la metà del Casale dî Mezza Via libero e franco: e per l'esecuzione di quanto sopra ne fa un precetto formale (3). Nell'anno 1373, il Pontefice Gregorio XI scrive da Avignone a Luca, ve- scovo di Nocera e suo vicario in Roma perchè assista alla consegna da farsi nella Basilica di S. Agnese, dei vari doni inviati da re Carlo IV di Francia, il quale, insieme agli oggetti preziosi, aveva altresì donato 300 ducati d’oro, da rinvestirsi a favore di quel Monistero (4). Nel secolo xv Sisto IV (1471-84) unì il Monistero di S. Agnese alla chiesa di S. Pietro în Vincoli (5). Un atto pubblico di quell’epoca, cioè dell’anno 1480 del giorno 18 marzo, c’informa che Ludovico Pietrasanta da Milano, Generale e rettore dell’ Ordine di S. Ambrogio ad Nemus extra muros Mediolani, congregò solennemente tutti i canonici regolari del Convento di S. Pietro in Vincoli, ai quali partecipò che il Cardinale Giuliano, vescovo di Sabina, volgarmente detto di S. Pietro ad Vincula, oltre i tanti benefici ed elargizioni fatti all'Ordine dei (1) Arch. di S. Pietro in Vine. Reg. Mon. S. Agnese, doc. CXCI, pag. 287. (2) Ibi. Doe, CCXVI, pag. 350. (3) Ibi. Doc. CCXXIII, pag. 388. (4) BaronIUS. Annales ad Ann. 1373. (5) KnHR P. Reg. Pont. Rom., I, 158. LA BASILICA ED TI, MONISTERO DI 8, AGNESE SULLA VIA NOMENTANA 545 Canonici regolari, aveva anche compiuto i restauri del Monistero, con grandi spese sostenute a suo carico, nonchè quelli della chiesa di S. Pietro in Vincoli, e del convento che un giorno spettava alle monache di S. Agnese fuori le mura, alle quali monache aveva fatto restituzione di tutte le doti, e di più aveva sborsato somme rilevanti, specialmente perchè le monache sopradette erano state disciolte dalla Congregazione dietro certi motivi espressi per ordine del Pontefice. In conseguenza di quanto sopra tutti i Canonici regolari, concordemente appro- vanti, concessero ed affittarono al sopradetto Cardinale sua vita naturale du- rante, i proventi ed il pedaggio del Ponte Nomentano, e la porta di S. Agnese, spettanti al Monistero di S. Agnese, nonchè tutti i fondi e possessioni che erano di proprietà del Convento suddetto, siti tra il fiume Aniene (Flumen) ed il Ponte Nomentano nonchè tutte le corrisposte delle vigne che erano del Monistero. L’atto fu rogato da Lorenzo de Mnis, da Vetralla, notaro (1). Il Pontefice Innocenzo VIII, nell’anno 1489, il giorno 13 di agosto, eresse in Abbazia la chiesa di S. Agnese, e confermò in quella i Canonici regolari dell’Or- dine di S. Agostino (2). Il Pontefice Leone X (1513-21) trasferì a questa Basilica il titolo Presbi- teriale, che già Innocenzo X aveva concesso alla chiesa di S. Agnese in Agone (3). I Canonici regolari lateranensi tuttora ritengono la Basilica ed il Monistero di S. Agnese, che, da quanto fu esposto, deve ritenersi sl più antico di Roma, poichè ebbe la sua origine fin dal secolo Iv. (1) Arch. S. Pietro in Vincoli, Reg. del Mon. di S. Agnese, doc. XLVI, tom. II, pag. 187. (2) KEHR, loc. cit., 158, (8) Ibi. a mie i pesta LI Ù % i TRUE SO ri: ptizid@ ; lia si pf 1: POLL darà MITO su Di pe; si speso e. (1140 IRR Lr RT: ia si Le ta do. sti Pegi GAI vinti <4de iti ANO! Ret | REVO ju rali - Di iis sita gi fai jéh CENT E CGavajas pri, i; TI LA da di gr data de ae se at METTO tira ALII da site dh rai Ano Ae Re ati tata tppecsina E Fendi PE tane - DA Î DAT FL LI Pag UÈ cretese rt # Mera: sl AA Agno Cai ì ‘ll F x ] OI * Toi DEV e PR LL 7 : 4 EA ne avro BA s Lai a 1 Ha ui Lal: up I Art ted Aa IRSA Alte det AGRA ARI de : Podi x LE spartito prada 4 Re Hi (4) RE VAR IRTTTO ì fa dg st bid e muti 6 RR PA enar CELA. ù Li na, PRG: DIP MIRFATVISSO GIGLI III OIRCO DI SCIE RTVOSC ORTA TI CP AE starti”. AA : ca Da LIE NI dif ti dp dae 141041796 Leslie x k (gra ; ui i = \ Ti dice bal (0A 100 sd t ; È “da ri i » su Bi “À n AMO AT ‘% la 44 1 n.) «e . Pd 4 + % del (e) ) * up ? Ds id T] - f i ' } N * 4 DOCUMENTO I. Libro | delli Statuti, Bolle, Costitutioni, Sentenze, | Decreti, Resolutioni, et altre Ordinationi | fatte in varij tempi da Sommi Pontefi | ci, sig. Cardinali e dalla | Camera Apostolica a favore della Doga | na della fida e pascoli di Roma, e suo | Distretto, Provincia di Campa | gna Marittima e Patrim. Inseripta sunt Statuta Dohanae pecorum pascuorum tenimentorum Urbis Maritimae et Campaneae edita et composita sub-anno Domini Millesimoquadrin- gentesimo secundo (sic) de mandato SS.mi in Christo Patris et D. N. Nicolai dignissimi Papae Quinti. In gloria et laudem etc. infrascripta sunt Statuta Dohanerii Dohanae pe- corum pascuoram Urbisque tenimentorum ac Maritimae et Campaneae edita facta et ordinata super dictam Dohanam et pecoribus in ea et tenimentis prae- fatis conducendis ac aliis in praesenti volumine Statutorum deductis re, mandato et commissione praefati SS.mi D.ni N. PP. Nicolai Quinti sub anno a Nativitate D. N. Jesu Christi millesimo quadringentesimo quinquagesimo secundo Pontif. einsdem Sanctitatis anno eius sexto, ET PRIMO. In primis statuimus et ordinamus quod ex nunc in antea et de cetero in Alma Urbe eiusque territorio et districtu ac etiam in partibus Maritimae et Campanene sit et esse debeat unus officialis qui nuncupetur Dohanerius pascuorum et tenimentorum dictae Urbis et aliorum locorum supra expressorum, qui sit et esse debeat principalis in capite, et habeat virtute dicti sui officii plenariam fa- cultatem, in potestatem eligendi et deputandi quoscumque officiales eidem in et pro dicto officio necessarios et opportunos, videlicet Notarium, Superstites, Nu- meratores, Caballarios et Grasserios in Urbe et extra alias quoscumque officiales pro dieta Dohana expedientes et necessarios cum salariis et provisionibus ordi- nandis et statuendis per ipsum Dohanerium juxta ipsius discretionem. 550 DOCUMENTO I DE Fipatis. Item statuimus et ordinamus quod dictus Dohanerius qui nune est, et per tempora erit, possit et virtute dicti officii fidare et sicurare omnes et singulos forenses tam Regni, quam alioram quorumeumque locorum cum omnibus eorum Bestiis et animalibus tam grossis quam minutis ita et taliter quod ipsius Doha- nerii fida, sive securitas sit et esse debeat sic fidata plenissimus salvusconductus, cuius vigore possint et valeant venire et redire franchi et securi, ac liberi cum eorum animalibus per cunctas terras et loca mediate vel immediate SS.mo D.N.Sacrosanctae Romanae Ecclesiae subiecta, itaque nullus officialis cuiuscumque status, gradus praeminentiae, sive dignitatis existat, et quavis causa tam civili quam criminali possit, sive valeat contradictus sic ut praedicitur fidatos, quovis modo procedere, sive eisdem aliquam noxiam sive molestiam realem, aut, perso- nalem inferre, non obstantibus quibuscumque represaliis contra eos, sive ipsos, Communitates ac speciales personas ipsarum concessis, sive in posterum conce- dendis ac maleficiis et delictis per eos tunc forsitan commissis, excepto tamen quod ipsi sic ut praedicitur, fidati, sive eorum alter non essent rebelles et inimici, sive rebellis et inimicus SS.mi D. N. ac S. Rom. Ecclesiae. DE COMMICTENTIBUS MALEFICIUM. (Sumpitum). Iurisdietio Dohanerii in affidatis delinquentibus tempore fidae, exceptis homicidio, furto et prodimento et crimine lesae Maiestatis. DE ARBITRIO ET POTESTATE DOHANERII, etc. Quop QUILIBET OFFICIALIS TENEATUR AD REQUISITIONEM DICTI DoHa- NERII FACERE EXECUTIONEM, etc. Quon DOHANERIUS POSSIT MITTERE CABALLARIOS ET ALIOS OFFICIALES DIE NOCTUQUE CUM ARMIS IMPUNE, etc. DE SALARIO DOHANERII. (Sumptum). Officium sit et esse debeat pro uno anno. Debeat deputari per SS.mo D. N. Officium debeat incipere die primo mensis Augusti et finire ut se- quitur (sic) pro quo anno debeat habere centum et quinquaginta ducatos auri de Camera pro suo salario a Camera praelibato. DE SOLIDORUM DEOEM PRO POSTA PRO HONORANTIA, (Sumptum). Dohanerius habeat pro honorantia a quibuscumque personis bestias conducentibus, quae ascenderent in Montaneam solidos provisinorum de- cem pro qualibet Posta assignationum dictarum bestiarum in tempore quo ipsae bestiae ascenderent, sive redirent in Montaneam de mensibus Aprilis et Maii, qui decem solidi sint liberi ipsius Dohanerii, et non alicuius alterius personae. De oFFICIO ET SALARIO NOTARIT DOHANAP. Item statuimus et ordinamus quod Dohanerius praedictus debeat habere unum probum legalem et sufficientem Notarium, qui nuncupetur Notarius Dohanae, cuius officium similiter duret per annum prout durat officium ipsiu: Dohanerii, qui incipiat et finiat prout incipit et finit officium Dohanerii praelibati, qui te- neatur et debeat describere et facere omnes et singulos contractus tam fidarum quam solutionum et emptionum tenutarum, et herbarum necessariarum, ac etiam refutationum quarumcumque de quibus omnibus debeat ipse rogari, et rogatos illos in publica forma notare dicto Dohanerio, et ultra praedicta teneatur et debeat facere unam copiam libri assignationem dominorum Conservatorum de verbo ad verbum Dohanerio praedicto, qui pro eius salario habeat et habere debeat illud quod discretio praefati Dohanerii qui nune est, et per tempora erit dictaverit et ordinaverit. DE EODEM, etc. DE EODEM. Item statuimus et ordinamus quod dictus notarius qui nunc et per tempora erit, teneatur et debeat facere, retinere et habere unum librum ordinatum, qui sit et nuncupetur Liber Dohanae, ad similitudinem libri dicti Dohanerii, et in eo debeat omnem introitum et exitum herbaticorum, ac etiam omnem collectam, sive raccoltam tam bestiarum grossarum quam minutarum, ac etiam notare omnia et singula lucra herbarum dictae dohanae, ac omnium aliorum, quae in dieto officio describere cuius scripturae sint et esse debeant delucide dare et publice (sie) qui Notarius ultra praedicta teneat et teneatur et debeat de die facere residentiam in eodem loco, ubi illam faceret Dohanerius praelibatus, DE sINDACATU DoHANERII ET NOTARI] eto, » 502 DOCUMENTO I DE ASSIGNATIONE ANIMALIUM. Item statuimus et. ordinamus quod omnes et singulae personae forenses cuiuscumque stutus gradus conditionis sive praeminentiae esistant, quae condu- cerent seu conduci facerent aliquam quantitatem bestiarum tam grossarum quam minutarum in tenutis Urbis, Maritimae et Campaneae, incipiendo a festo S. An- geli de mense Maii, assignare teneantur, quae bestiae intelligantur fidatae esse, excepto quod ipsae non conducerentur pro passu, et ista assignatio teneatur facere intra terminum trium dierum, a die condutionis in tenimenta Urbis per eam, sive alteram eorum factae. DE EODEM. Item statuimus et ordinamus quod omnes et singuli forenses, videlicet il- larum terrarum, quae non solvunt sal et focaticum, qui conducerent bestias ‘in dictis provinciis ad pascuandum et hyemandum, teneantur et debeant dictas bestias assignare in Camera Urbis, videlicet Notario D D. Conservatorum infra terminum unius mensis, incipiendo a die conductionis per eos faciendae, quae assignationes Domini et Patroni teneantur dare in scriptis supradicto notario Conservatorum sub poena perditionis bestiarum Camerae praedictae applicandarum. DE EODEM. Item statuimus et ordinamus, quod omnes et singuli tam cives romani, quam distrectuales Urbis, qui conducerent bestias in tenimentis Urbis tam grossas quam minutas, tam eorum quam aliorum, teneantur et debeant praefato Notario Conservatorum assignare usque ad festum D. N. Jesu Christi sub poena perdi- tionis bestiarum, quae bestiae sint et esse debeant mercatae uno merco tantum, et si pluries mercorum mercatae essent teneantur reducere ad unum mercum, videlicet de auricula et igne, quae merca teneantur assignare, quando faciunt dictam assignationem in scriptis ad poenam XXV ducatorum auri de Camera pro quo quolibet centenario, applicandorum Camerae praefatae, et dictus No. tarius Conservatorum non possit nec debeat ipsam assignationem recipere, si prius non habeat idoneam fideiussionem, quod dictae bestiae per eos conductae non recedent de dictis Dohana et provinciis, nisi primo solvant id quod tenentur Camerae solvere, et de omnibus aliis rebus pertinertibus ad Dohanam, et quod DOCUMENTO I 553 Distriotuales Urbis teneantur et debeant »ufficiertes fideiussiones dare Notario Conservatorum, quod bestiae quas ipsi assignant sint eorum, et si assignaverint bestias alienas pro suis, condemnare per Dohanerium in ducatis Centum pro quolibet contrafaciente, applicanda dicta poena pro tertia ;} arte Camerae, pro alia tertia parte Dohanerio, et pro alia tertia parte inventori et accusatori nec non perditioni bestiarum praedictarum. Quop nuLLUs Romanus, NEC DISTRECTHALIS DEBEAT RECOLLIGERE BESTIAS FORENSIUM SINE LICENTIA, etc. DE SOLUTIONE QUARUMOUMQUE BESTIARUM PRO QUOLIBET CENTENARIO, Item statuimus et ordinamus quod quilibet Civis Romanus forensis, vel distrietus Urbis, qui conduceret bestias in dictis provinciis, videlicet illarum ter- rarum et locorum, quae non solvunt sal et focaticum, sive impositam salis et focatici, teneatur et debeat solvere Dohanerio pro quolibet centenario bestiarum grossarum ducatos decem et septem auri de Camera, et pro quolibet centenario bestinrum minutarum Romanorum ducatum unum cum dimidio de Camera, quorum denariorum teneantur solvere medietatem in festo Paschae Resurrectiunis eiusdem. DE NON ASSIGNANTIBUS MERCA, etc. Quop oMmNIS BESTIA SUPRA ANNUM NUMERETUR, eto. Quop OMNES BESTIAE INVENTAE ULTRA ASSIGNATIONEM, SUPERFLUAE SINT DEPERDITAE, eto. QUOD NULLUS DEBEAT REMIVERE BESTIAS DE UNO LOCO AD ALIUM, etc, QUOD SI QUIS HABEAT SOCCITAM IN TENUTIS URRIS, DEBEAT ILLAM AS- SIGNARE, etc. Quon NULLMS FIDATUS LITIGANS POSSIT COSTRINGI PER ALIUM JUDICEM NISI PER DOHANERIUM, eto. De RESTIIS REGNI QUAE NON SOLVUNT SAL ET FOCATICUM. Item statuimus et ordinamus quod patroni et domini bestiarum pecudi- narum et caprinarum forensium, videlicet de Regno, et illarum terrarum quae 554 DOCUMENTO I non solvunt sal et focaticum, sive impositam salis et focatici Camerae Urbis qui conducent et conduci facerent ipsas bestias in Roma ad pascuandum, vel ad pascua, ad partes et territoria Urbis, teneantur et debeant solvere de pecudibus Capris et Montonibus Dohanerio, qui nune est et pro tempore erit ducatos quinque cum dimidio de Camera pro quolibet centenario videlicet in festo Na- tivitatis D. N. Jesu Christi. Si vero dictae bestiae vel aliquae ipsarum condu- centur seu conducerentur ad pascua et partes Urbis ad gubernandum, pascuandum, hyemandum per aliquem civem romanum, vel quamcumque aliam personam, ipsi conductores pro quolibet centenario bestiarum grossarum, qui conducerentur ad pascuandum et hyemandum ad partes Urbis, Domini seu Patroni aut conductores eorum solvant, et solvere teneantur supradicto Dohanerìo ducatos decem et septem auri de Camera pro quolibet centenario, et debeant ipsas bestias assignare notario DD. Conservatorum, ac numerum ipsarlum, eas numerare et numerari facere, eo modo et forma quibus pecudes numerantur. DE SOLUTIONE BESTIARUM TERRARUM IMPERII. Item statuimus et ordinamus quod Patroni et Domini bestiarum pecudi- narum, videlicet illarum Terrarum de Imperio, quae solvunt sal et focaticum Camerae Urbis qui conducent, et conduci facient ipsas bestias in Romam ad pascuandum, vel ad pascua et territoria Urbis teneantur et debeant solvere de pecudibus, Capris et Montonibus Dohanerio supradieto Ducatos duos auri pa- pales pro quolibet centenario, videlicet medietatem in festo Nativitatis D. N. J. Xpti, et aliam medietatem in festo Paschae Resurrectionis ejusdem D. N. Si vero d. Bestiae vel aliquae ipsarum conducerentur ad Pascua et partes Urbis ad hyemandum per aliquem Civem romanum, vel quameumque aliam personam, ipsi Conductores solvant et solvere teneantur pro quolibet centenario ipsarum bestiarum duos Ducatos auri papales d°. Dohanerio in terminis supradictis prout superius est expressum. Pro qualibet vero Bestia grossa, quae conduceretur ad pa- scuandum, seu hyemandum ad partes Urbis, Domini seu Patroni, aut Conductores earum solvant, et solvere teneantur d°. Dohanerio solidos duos provisinorum pro qualibet bestia grossa pro Contatura, et teneantur ipsas Bestias Notario DD. Conservatorum assignare cum propriis eorum merchis, et eas numerare et; numerari facere, DE SOLUTIONE PECUDUM ROMANORUM. Item statuimus et ordinpamus quod cives Romani et continui habitatores Urbis qui haberent seu tenerent in partibus et territorio Urbis Pecudes, Capras et Montones volentes cas in aestate remictere ad partes montaneas, teneantur et debeant solvere de Pecudibus, Capris et Montonibus Dohanerio supradicto florenos tres currentes ad rationem XLVII solidorum pro quolibet centenario videlicet in ascentione pecudum ad montaneam, et non remictentes ad monta- neam similiter solvere teneantur. DE ASSIGNATIONE PECUDUM. (Sumptum). Pro civibus Romanis et habitatoribus Urbis qui tenerent Pe- cudes Capras et Montones, ipsi debeant assignare. De EODEM, etc. DE NUMERATIONE BESTIARUM AD PoxnTES. Iten: statuimus et ordinamus quod omnes Pecudes Caprae et Montones ac bestiae grossae quae reverterentur seu reducerentur de Urbe, seu de Urbis di- strictu ad partes Montaneae, debeant numertri per numeratores ad id deputatos, seu deputandos per DD. Conservatores et Dohanerium Urbis, qui fuerint per tempora, ad Pontem Mammolum, Pontem Nomentanum, Pontem Salarium, seu ad alterum dictorum pontium, et non in alio loco, et postquam erunt numeratae vadant seu ducantur per Viam seu Stratam Tiburtinam, vel Villam S. Antimi, et non per aliam viam, seu alias partes versus Montaneam, et si per aliam Viam irent, aut ire et transire inventae fuerint cum apodissa, vel sine apodissa Do- hanae Camerae Urbis, perdan'ur et perditae sint ipsae bestiae, et ipsae Camerae applicentur tam bestiae grossae quam minutae, et idem intelligatur si pervenerit ad notitiam Camerae Capitolii, vel officialium Camerae Urbis, et qui eas nume- raverint, seu scripserint ad dictos Pontes, vel aliquem ipsorum, teneantur et de- beant ipsas bestias in Camera Urbis assignare vel Dchanerio ad poenam valoris ipsarum bestiarum de eorum proprio Camerae Urbis applicandum. Quop BESTIAE SUPERFLUAE PERDANTUR ET REDIMI POSSINT PER PA- TRONES, etc, 556 DOCUMENTO I DE SUPRASTANTIBUS ET NUMERATORIBUS FACIENDIS, ete. DE SOLUTIONE FACIENDA SUPRASTANTIBUS ET NUMERATORIBUS PRO MI- LIARIO VEL CENTENARIO, ete. De rODEM, ete. DE EODEM, ete. De EODEM, ete. QUOD NULLUS ASSIGNET MEROUM acri PRO SUO, ete. DE EODEM, etc, © DE PECUDIBUS LANUTIS SOLVENDAS PRO LANUTO (sic). Item statuimus et ordinamus quod omnibus pecudibus lanutis, quae condu- cerentur seu reverterentur Lanutae in Montaneam, et partes Montaneas domini seu Patroni vel conductores eoruin solvant, et solvere teneantur in Camera Urbis denarios quatuor Provisinorum pro quolibet pecude lanuta, et dohanerius Ca- merae dictos denarios pro dicta Camera exigere et recipere teneatur. DE SOLUTIONE APODISSAE PECUDUM, etc. DE BESTIIS NON MOVENDIS DE LOCO AD LOCUM ABSQUE LICENTIA, etc. DE EODEM, etc. DE CASTRATIS ET PECUDINIS DE DUOBUS DENTIBUS NON EXTRAHENDIS. Item statuimus et ordinamus quod nullus andeat vel presumat transire, du- cere, vel duci facere cum pecudibus vel sine pecudibus rer pontes supradietos tempore numerationis pecudum aliquos mascolos pecudinos de duobus dentibus, vel ab inde supra, et qui contrafecerit per dictas bestias Urbis Camerae appli- centur et confiscentur pro tribus partibus dictae Camerae, et quarta parte su- prastantibus et numeratoribus praedictis. Liceat tamen Civibus ducere et tran- sire per Pontes quinque montones pro quolibet centenario pecudum absque aliqua poena. De cusrtopIBUS PontIUM, etc. Ci QUILIBET ROMANUS ET DISTREOTUALIS DEBEAT ASSIONARE BESTIA8 GROSSAS 5 CUM MERCO PROPRIO, Item statuimus et ordinamus quod quilibet Romanus civis, et in Urbe re- sidens ac distrectualis Urbis, debeat omnes et singulas bestias grossas ipsius mer- care eius solito et proprio merco, et cum merco ipsius assignare in Camera Urbis, alias quae Pg dui sine merco proprio, habentur pro bestiis forensium, et -_—‘(‘ Bibl. Vatic, Cod. Vat, 8886, Cart. in f. Secolo XVIII, cart. 137, e più altre 12 | carte in fine, non numerate. In fine del titolo sopra riferito, si Pa queste parole: « Comprato da me Cano- nico Angolo Battaglini per baiocchi cinque ad un banchetto, ossia muricciolo al Palazzo de." patente dancin 55x DOCUMENTO I-A DOCUMENTO I.A. Ann. 1476, 1 mart. Bulla qua conceditur, ut ad frumentum uberius com- parandum omnibus stb certis conditionibus liceat agros etiam alienos arare et colere in districtu Urbis, quamvis ab eorum dominis licentiam non obtinuerint etc. Costitutio Sixti PP. IV. Sixtus ad perpetuam rei memoriam. Inducit Nos humanitatis cum omnibus hominibus communicatio, ut omnium consiliorum ea ducamus potiora et prae ceteris capiamus quae sustentationi et victui hominum magis conducere videan- tur. Ideo attendentes quod a pluribus annis citra omnis regio nostre Alme Urbi finitima frequenter habuit steriles frumenti et bladorum proventus cum gravi populorum in ea degentium jactura et afflictione. Considerantesque id preter et ultra celi naturalem cursum et cdispositionem potissime etiam pro- venire, ex raritate culture agrorum, qui propter aliquam forte maiorem utilita- tem inde provenientem, eorum dominis potius sinuntur inculti, ut sint in pascua animalibus brutis, quam colantur aut coli sinantur in alimentum et sustenta- tionem hominum, et volentes, prout nostro incumbit officio, tanto errori obviare, ac predictis populis quorum incommodo paterna Nos caritas commovet et sollicitat de opportuno remedio providere: auctoritate apostolica, harum serie, statuimus et ordinamus, quod deinceps perpetuis futuris temporibus liceat omni- bus et singulis agros arare et colere volentibus in predicte Nostre Urbis ter- ritorio et Patrimonii B. Petri in Tuscia ac Campanie et Maritime provinciis, rumpere et arare ac colere, alias debitis et consuetis temporibus, tertiam partem uniuscuiusque tenimenti, seu tenute quam eligendum duxerit, tam ad qua- vis Monasteria, Capitula seu alias Ecclesias et pia Loca, quam ad quasvis pri- vatas et particulares personas cuiusvis status et conditionis spectantis seu per- tinentis petita tantum, licet non obtenta eorum ad quos spectabit, licentia: dum- modo infrascriptorum judicium aut alicuius eorum auctoritas interveniat. Mandantes propterea omnibus et singulis tenimentorum seu tenutarum huius- modi dominis tam ecclesiasticis quam secularibus cuiusvis status vel conditionis exisiant, et quavis dignitate prefulgeant: ut absque ulla prorsus renitentia sinant DOCUMENTO I-A 550 omnes et singulos sic colere volentes tenutas ipsas pro eorum arbitrio et voluntate, fuzta nostri praesentis Decreti et Statuti tenorem et formam, rumpere et arare, mullum omnino eis aut alicui eorum, seu ipsorum famulis et mimistris, per se aut alios, impedimentum aut molestiam inferentes. Et nichilominus Venerabili fratri Laurentio Patriarche Antiocheno moderno, et pro tempore existenti diote Urbis Gubernatori, ac dilectis filiis Preceptori hospitalis Saneti Spiritus in Saxia eiusdem Urbis, et Lellio de Fraiapanibus ac Baptistae de Saglia civibus Romanis, et, illis deficientibus, per eosdem Guber- natorem et Preceptorem eorum loco surrogandis, per apostolica scripta manda- mus, quatenus quotiens a dictis colere volentibus aut duo eorum fuerint requi- siti, eis efficacis favoris presidio assistentes faciant eos huiusmodi decreti et statuti nostri libera fruitione gaudere. Contradictores et rebelles, si qui fuerint, tam per censuram ecclesiasticam, et alia juris remedia, quam per impositionem et realem exactionem poenarum pecuniarum, prout eis placuerit visumque fuerit expedire, compescendo. Volumus tamen quod tam super tempore rumpendi quam super electione partis tertie huiusmodi tenutarum que arari debebunt, ac responsione pro arata et culta parte, dominis facienda, et super aliis quibuscunque differentiis et con- troversiis, si forte aliquas dillerentias seu controversias super his quovis modo oriri contigerit inter eos qui arare et colere volent, et quorum tenute arabuntur: precipue vero super damnis et interesse, si qua forte hoc primo anno preten- dere possent predicti domini tenutarum seu eorum conductores se ex insperata earum cultura pati, utraque pars, praefatorum judicum, aut duorum ex eis judicio et determinationi stare ac acquiescere teneantur; nec possint aut debeant se mutuo super huiusmodi aut quibusvis aliis difierentiis ex huiusmodi nostri de- creti et statuti tenore quovis modo provenientibus coram quibusvis aliis judici- bus convenire, aut judices ipsi quacunque etiam potestate et auctoritate fun- gantur, eos audire vel se de controversiis impedire. Et si secus forsan actum fuerit, id totum irritum et inane ac nullius roboris vel momenti fore et esse decernimus, Statutis et consuetudinibus dictam Urbis et provinciarum ac locorum in eis existentium, caeterisque in forsan contrarium facientibus, quibus, in quantum premissorum effectni contraria sint, eadem auctori- tate specialiter et expresse derogamus, ipsis tamen alias in suo robore perman- suris, (non obstantibus) contrariis quibuscumque. Et ne quemquam de premissis hesitare, aut ignorantiam allegare forsan in posterum contingat, volumus pariter 560 DOCUMENTO I-A et decernimus quod ‘presentium litterarum tenor per omnia loca publica dicte Nostre Urbis solemniter publicari ac preconizari debeat, et sic publicatus ac preconizatus a die qua publicatus fuerit, preinde artet omnes, quos concernit, ac si singulis eorum personaliter intimutas extitisset. Nulli ergo ete. nostrae ordinationis, statuti, mandati, decreti, derogationis, constitutionis et voluntatis infringere ete. Si quis autem etc. Datum Romae, apud S. Petrum, anno Incarn. Domin. millesimo quadringen- tesimo septuagesimo sexto, Kal. Martii, Pont. Nostri anno sexto. Arch. Vatic. Sixlî PP. IV Bullae divers. Ann. I'ad ann. X. Arm. XXXI. Tom. 62. Bull. 106. Boll. divers. cod. membran. fol. 145. THEINER Avo. Codex Dipl. Dominii temp. S. Sedis, tom. III. Ann. 1389-1793, pag. 491. DOCUMENTO II 561 DOCUMENTO II. (Ann. 1496). « Forma Salvi conducti antiquitus fidatis dare soliti (1) « Augustino: Chisci: da: Siena: « Noi della prouincia di Patrimonio generali Dohaneri perla sanctita del nostro signore et de sancta Chiesia Affidemo, assecuremo, et Affranchemo (2) con tutti e singuli (3) Gargari Pastori Garzoni et fanti con loro Bestiame grosso et menuto et arnese oportuno conducendolo o facendolo condure in le Dobane de la prefata sanctita che possano venire: stare: et tornare: franchi et securi. « Notificando ad tutti/e singuli mediate vel immediate subgetti della pre- fata sanctita et sancta Chiesa prosumisseno impedire ditta sicurità (4) che in- currerano in pena de ducati milli da applicarse alla Camera Apostolica durante lo tempo della presente fida: la quale sia duratura fine ad Scto Anglo de magio px° dauenire. « Et più li assecuremo et affranchemo de ogne Represaglia comessa (5) et de commetterse et per debiti generali et particulari durante lo tempo della pre- sente fida. e Et di più li promettemo che porrano portare Arme de die de nocte (6) con lume et senza lume senza pagarne pena non obstante ogne altra cosa in contrario ordinata. « Et promettemoli che porranno cauare de tutte le terre dela chiesa vit- tualia per bisogni loro et de loro bestiame senza pagarne gabella ne passo non portandola fuor dele terre della chiesa. (1) È una scrittura a stampa riempita qua e là ed annotata in margine a ponna. (2) Lacuna nello stampato, (3) Tlem. * (4) « Sanctos de Morra fuit ceptus in terra ducis urbini », (Nota marginale ms.). (5) « In petro mar...0 de nursia hoe non fuit servatum ». (Nota id.). (5) « Itom in moricone de troni qui in viterbio fuit captus » (Nota id.). 36 562 DOCUMENTO II « Et più li promettemo che facendo danno alchuno con loro bestiame ve- « nendo staendo: et tornado non possono essere costretti ad pagarne pena: ma « solo ad emendare lo danno da estimarse per doi homini communamete electi « perle parti: quali no essendo de accordo li promettemo noi o nostri mandati « estimarli et accordarli. « Et più li promettemo che recepedo dano alchuno loro o in loro (1) be- « stiame da gente darme c da altri subditi dela prefata Sanctita et Sancta Chiesa « emendarlilo o farlilo emedare alle spese de quelli che lo facessino. « Et promettemoli che nisuno officiale mediate vel immediate subdito dela « prefata sanctita et saneta Chiesa hauera jurisdictione alchuna sopra de essi « fidati eccepto noi alli quali fidati administraremo giusticia in ogne differentia « che li oceurressi et per ogne altra cosa: eccepto Crimelese maiestatis, Domi- « cidio et furto et ogne altro delicto che de ragione ne andassi la vita: quali « delitti se debbiano punire loro ludici competenti una insieme con noi Doha- « neri. « Li sopraditti sei capituli cominciando da quello che contiene (2) Repres- « saglie in li quali non se fa mentione de pena volemo che chi presumissi de « nolli obseruare et cotra la continetia de essi venire che per ciaschuno et per « quante volte contrafacessino incurrerano in pena de ducati vinticinque da de- « fatto tollerse et applicarse perla terza parte alla camera apostolica: la terza « p'® a noi Dohaneri: et laltra terza parte allo denuntiatore: o vero accu- « satore: et niente de meno alla satisfactione de danni et interesse che percio « ditti fidati incurrissino. « Et li supraditti fidati siano tenuti et debiano pagare ad noi Dohaneri « per noms dela Camera per ciaschun cetinaro de bestie grosse ducati vinti dua « doro: et per ciaschun cetinaro de bestie menute nute (sic) ducati cinque et « mezo simili. « Et debiano li sopraditti fidati ubedire ad tutti nostri comandmenti (sic) « et no se partire dela Dohana se prima non hanno integramente satisfacto « tanto debiti de Camera quanto de officiali de Dohana ad quanto serranno obli- « gati et senza nostra bolleta de passagio alla pena et sotto la pena de perdi- (1) « Nullus fuit affidatus, qui non passus fuerit ». (Nota id.). (2) « Li sopradetti sei capitoli a nisciuno: et a nisciuno di essi è stato observato » (Nota marginale ms.). “- -_ = DOCUMENTO Il 563 tioe de quello bestiame che senza bolleta passassino cofiscatioe de loro beni et delo albitrio (sic) nostro: la mita dela qual pena da applicarse alla Camera apostolica; un quarto ad noi Dohaneri: et latro quarto allo inuentore o vero accusatore. « Et per auctorita del nostro officio comandemo ad tutti et singuli Signori Baroni Cita Comunita Terre Castelli Gouernatori Castellani Potesta Vicary et Conduotori di genti darme da cauallo et da pie et a Gabellieri Passagieri et altri officiali et luochi mediate vel immediate subtecti (sic) della prefata Sanotita et sancta chiesa che tutti et singuli sopradicti capituli debiamo to- taliter et cum effectu obseruare et fare obseruare et che nullo ardisca ne pre- suma tollere ne adomadare alchuna quatità de dinari o bestiame ne citra (sic) cosa per passo o vero gabella de destiame (sir) et de fructi descedenti de pe- cora li sopra dicti fidati in venire stare et tornare: ma che gli debiano dare aiuto et fauore tate volte quate li bisognassi et da loro fosseno rechiesti in modo che loro et loro bestiame (1) vengano steano et tornino franchi securi como de sopra per eoi (sic) selli promette alla pena de ducati milli d’oro da de fatto tollerse ad qualunque cotrafacessi et applicare alla Camera aposto- liea. Datu Rome in Dohana Pecudum sub anno dni Millesimo, CCCC.LXXX.XVI. Pontificatus Sanctissimi domini nostri Alexandri diuina prouidentia pape Sexti Indietione XIIII mensis die Pontificatus eiusdem Anno quinto. « Secundianus Cance.s de man.to... (2). (1) « In hane penam malte... et alq inciderunt ». (Nota id.). (2) Qui il manoseritto è corroso. Bibl. Chigiana. Miscell. Chig. ms. R.V. G. CuGnoni. Agostino Chigi il Magnifico. Arch. della Soc, Rom. di Stor. Patr. IV. 156. 564 DOCUMENTO HI ‘» (al Cal a *» » ‘’ DOCUMENTO III « Lre aug. ad Camera p. quas significat dapna et coitates et alios dapnu dantes cu denoiatie eor. q. dapna receperut q. apparet pntate. « R& Patri: eltra lessar annata gi tucta la dohana In puglia cotra il bani de V. S. ce e qstaltro rstoro: Ft prima. « In ql de Spoleti per tueti li lochi done passa la dohana no stimate ch ci sia passato fidato nisciuno ch In Grandissima quantita de loro bestiame no sia stato assassinati: et mostrando le fide le stato dto chl papa no po fidar nel loro: et uoluto sopra cio farei prouisione habiamo mandato ala Coita et al Gouprnator el qale ha acteso apigliarsi qualch prsente et gsta e la prouisione et la rposta ch ci ha mandata. « In quel de tode per eer Gente Cortese no ce passa nisciuno ch no piglino a brancho de pecor: et e lecito ad omne mendico annar al fidato: et domandar la Carne con dir ch la uole voglia o no et a dispecto de la fida et del papa: - et maximamente ad un Castello chiamato lu ‘quatro ch si dice ppr de qsti da Canale. Passando un Giuuanni de titio da Norscia li tolsero circa cento pecor: doue annando el dto Giuuanni co uno de nrì Cauallari per racquistarle li fu resposto ch no obstante de rendarle: ma per tucti l’altri ch ce passariano compzariano amazzar el pecoraro et poi tucte le pecor et lu patrone: et mo- strandoli la fida glela stracciaro et fecerone milli pezi: et uolendo far rcurso per altre uolte al Gouernator: rsponde ch ha più aucta ch el dohaniere nun e sopto posto ad esso: et no li uolesser schiano: volendo... (1) lochi Contar tucti li dampni et assassinamenti no bastariano dece fogli. « In qllo damelia In uno Castello de ch hitano li schiaui hanno tolte tante pecor fra volta e volta: ch horamai per modo de dir porriano da loro mede- simi far una dohana. Et Vltimamete pass:ndoci Pazaglia da monte leone ne empiro una fornace piena di ciauarri per la qual cosa recor... (2) un Gar- (1) Quì il manoscritto è corroso. (2) Idem, - - DOCUMENTO IMI 565 zone chinmato pampans per rouperarli: al Gouernatore de nargne: et mostran- doli la fida et l’auctorita de) officio: El fauor ch li fe: lu mise in una pscione: et menacciollo de impicharlo et anchora erdo ch ce stii. « In quello de suriano:Non ce passato fidato nisciuno, ch chi no glela do- nato le stato sforzato et Robato uno o dui bestie per brancho: et no sola- mente hanno acteso a questo quando ce passata qualche bella Cappa no lanno lassata annare « Simile in glio de viturchiano et de bagnaia: tucto qsto passo dela dohana ce sono stati septe uo octo latroncelli ch no ce passato aleuno ch no habino assassinato et volendo aciò proueder: habiamo scritto ale Coita de dti lochi et le resposte loro sonno no poterci proueder perch sonno soldati et allegano no esserli superiori etc. Ù « In ql de viterbo ch maj si intese più di questo anno per no pterir el costume del altre Terre: hanno voluto in qualch cosa la parte loro in mo ch ne cocludemo ch per tucte le Terre de nro Signor doue passa la dohana no ce obedientia alchuna. « Anchora ve facemo intendar ch el Mag. Signor hercule soldato de N. S. et le sue genti in cambio de favorir la dohana come sonno obbligati: ad Saneto hiemino: ad Pampana et Pazaglia de mote leone tolsero circa cento castronj: et ad Robato et piacente dauissi li tolsero circa quaranta pecor: Et ad Giuuanbaptista da Noscia nel Confino damelia li tolsero vinti bestie: et a Giuuanaglo de Caterino da norscia li tolsero circa quaranta pecor: Ad Giu- uanni de titio nel Confini de Tode et damelia tolsero circa Trenta pecor: ad Pietro de Coli alla Caprafica li tolsero septe bestie: et ad altri molti altri ch saria longo lo scriuar in modo ch infra tucti stimano per.trecento bestie hanno tolte senza le cappe et mectar aroba le masseritie et l'altre cose indebite ch hanno facte i « Per le qual cose ne successo ch molte pecor et altri animali ch erano re- misti in casci in monte leone: in monte del monaco in Vissi et in molti altri lochi li quali per hauer inteso tal portamti se deuiaro: et annaro nela marcha et in altri lochi: Et piu psto uogliono scortichar ch mectarli in bocha di qsti latroni. « Da laltra Banna donde viene la dohana fagiolana e fiorentina « In quel de peruscia in tucte le terre loro dove passa la dohana e assas- sinata et robata: non solamete da Contadini et altri Ribaldi; ma da proprii 566 DOCUMENTO III « ceptadini et Gentilominj de peroscia: et maximante Ala fracta et al ponte « lanese (?) et a Capo Cauallo ce sonno certi Castellani latroncellj ch non passa « massaritia ch non ne uoglia qualch bestia per brancho: Et no bastando qsto « scarcano le Caualle et tollano tutte le massaritie doue casualmte in una de « decte some ce trouaro certo caso ch secudo se dice era bono: et annado el « cauallaro per recuperare dce robe li fu rsposto ch se annasse co dio ch inten- « diua ch no cene passasse ch no fusse scarcata perch il caso era bono. Et uo- « lendoui scriuar tucte le Rebalderie et dampnj ch rcepe la dohana in gllo de « peruscia: et la poca ruerentia ch si psta ala fida sarbe troppo longo: « Unauolta ‘ve facciamo intendar la minor parte: la minor parte: donde « nasce ch no ce piu dohana: et si uolete piu dohana fateue unaltra de nouo. « Nela montagna dela piglia per li Conti de marciano: no ce passa fidato « ch non voglino dece bestie per masseritie oltra le Cappe et le Caualle et altre « cose: et qn le possano togliar non gliele lassano: Et perch li Garzoni et soldati « loro no errino in pocho ce vanno personalmte « Ai ponte Carnaiola ce sonno certi latroncelli ch se dicano eer soldati « de Nro Signor apocho apocho robanno: hanno più pecor ch no hauemo noi. « El Castellano doruieto: quanti branchi ce passano indete voler una bestia « per brancho et cussì la fa robar: Et per no errar de hauer la peggio piglia « qlia ch guida Jaltra Et mostrandoli la fida et lauctorita del dohanieri sela « mecte sul capo et dice ch ha più auctorità de luj et ch li po commandar « A Bagnorea hanno una certa patente ch mai piu se vide una simile et « quando el fidato pteisce una hora li uogliono far pagar la gabella et la pena. « Per la qualcosa intendendo qsto el fagiolani et altri affidati fiorentini ch aui- < vano promesso venir sene sonno annatiin quello de Siena It ve facemo in- <« tendare ch per qsti rspecti et per Peroscia maxime nò ce venera più Bestiame « furestiero. < Lect. in Cam.8 Ap. die lune XIIII Nouemb. 1497. (Di fuori) « P° Aug®° de Chisiis ». (1). (1) Bibl. Chigiana. Miscell, Chig. ms. R. V. G. CuexonI. Agostino Chigi il Magnifico, Arch. della Soc, Rom, di Stor. Patr, IV, pag. 158, DOCUMENTO IV 567 DOCUMENTO IV. Ann, 1555. S, D. N. D. Pauli PP. IV. Deputatio judicum super locationibus Casalium etc, damnis datis occasione invasionis per milites Hispanos factae. Motu proprio etc. Cum ob invasionem nonnullorum castrorum et locorum Nobis et Rom. Eccles. subieoctorum nuper a Militibus Hispanis, seu Regis aut Proregis Neapolitan. factam multae lites et differentiae inter diversas, tam sae- culares, quam ecclesiasticas, et diversarum ordinum religiosas, utriusque sexus, personas super locationibus, conductionibus sublocationibus, pensionibus etc. ac affictis casalium, domorum, vinearum, aliorumque locorum et pertinentium in ipsa Urbe, illiusque distrietu et territorio consistentium, sub certis praetiis, ac etiam ad longum tempus, ac censum etiam perpetuum ac alias diversimode concessorum factis oriri possent, et forsan exortae fuerint: Nos considerantes diversa damna et calamitates, propter invasionem huiusmodi per quamplures passa esse, ut dictae Urbis habitatores, in pace et quiete vivere possint, et ut lites et dif- ferentiae ipsae sine tutela judiciaria decidantur et terminentur, ac sumptibus et expensis obvietur omnes et singulas lites et causa» inter personas privatas, etiam quomodolibet, et qualitercumque privilegiatas, coram Curiae Causarum ©. A. auditorem, seu locumtenentem, et aliis quibusviis etiam specialiter deputatis or- dinariis vel extraordinariis judicibus delegatis et commissariis ac etiam S. R. E. Cardinalibus, et Rotae auditoribus, super locationibus conductionibus etc. pa- scuis, laboreriis, herbagiis, silvis, nemoribus, illorumque et lignorum incisio- nibus, etc. etiam ratione melioramentorum, damnis, et deteriorationibus, affictis ac Casalium etc. ob non solutionem censuum, etc. devolutione, ac illorum occa- sione seu ratione, super quibusviis aliis aliis rebus sc bonis, et pecuniarum summis seu aliis dummodo ex supradicta causa invasionis et belli vertentis, et pendentis, in quibus suis instantiis etiamsi in eis censurae seu etiam mandata executiva, vigore obligationum, et in forma Camerae Aplicae, a die ipsius invasionis citra concessa, seu etiam relaxata aut deposita, metu simi- lium censurarum et mandatorum, in vim eorumdem obligationum et decre- torum facta fuerint, ad nos penitus advocamus ipsisque judicibus etc. ne in illis 568 DOCUMENTO 1V ulteriora procedant, seu exequantur inhibimus, ac irritum etc. decernimus Nec non dil. fil. nr. Fabium tituli S. Silvestri Mignanellum, et Johannem tituli S. Johannis ante Portam Latinam Reomanum, (sic) nuncupatos, praesbiteros Cardinales dictarum differentiarum et litium judices constituimus, designamus, et deputamus etc. illisgue omnes et singulas causas etc. in quibus ad praesens reperiuntur, nec non quas in futurum dicta occasione moveri de novo contigerit, tam active, quam passive, etiam per praefatas personas, seu earum quamlibet, et contra quascumque alias personas, collegia etc. ac aliorum praemissorum in totum, vel in partem, tam pro praeteritis, a die ipsius invasionis, quam pro fu- turis temporibus, remissionibus et defalcis etc. Volumus autem praesentium solam signaturam sufficere, et ubicumque etiam absque illarum registratione, fidem facere. Placet Motu proprio I. Arch. Vatic. Bolle e Bandi. Serie III, 1425 ad 1571. Paolo P. P. IV. Motu proprio (ad annum). DOCUMENTO v 569 DOCUMENTO V. Ann. 1558, 7 magg. Achille Cibo loca e concede a M.ro Giovanni del q. Co- stantino da Orvieto e M.ro Pietro Oddo da Lugnano, in solidum, l’hostaria di Malagrotta nelle parti della Trasteverina con le sue possessioni, terreni, arbori, prati e pascui et con altre sue iurisdictioni etc. che Sua Signoria ha col Ven. Ospedale di S. Spirito per tutto il territorio et iurisdictione di Malagrotta et particolarmente di poter pasculare et legnare con sei cavalli ogni giorno, come appare per il privilegio etc. E questo per anni cinque pross. da venire e da in- cominciarsi il dì decimo del soprascritto et pross. mese di Maggio, et da for- nirse el dì X pur di Maggio dell’anno 1563 per il prezzo e nome di prezzo di seudi 200 d’oro, che però di moneta scudi 220 de giuli dieci per scudo ogni anno da pagarsi etc. Che li detti affittuari soprannominati debbiano et siano obbligati fra il termine di doi anni prossimi da venire riempire tutta la possessione chiusa co l’hostaria sudetta, d’arbori da vite cioè oppii o sian stucchi (sic) osservando l’or- dine et compartimento delli altri arbori vecchi che al presente vi sono in essere. Idem che detti affittuari debbiano et siano tenuti piantar nella suddetta possessione oltre li suddetti che ci mancano sino al numero «i 150 arbori pur da vite della suddetta medesima sorte dico d’intorno essa possessione dove da lui gli sarà ordinato o da altri in luogho suo da lui a tale effettc eletto et de- putato qui in Roma. Idem che li detti affittuari debbano e siano tenuti mantenere detta posses- sione arborata et piena de viti ch’ad arbori sia solito et si conve ighi di quella medesima sorte de vitami ch'a detto S." Achille piacerà eleggere in detta pos- sessione cioè tre viti per arboro a tutti l’arbori nuovi, et alli vecchi che non haranno niuna. Ma all’altri, arbori veochi che ne haranno, non se gli habbi da mettere altra, eccetto che se le fussino vecchie et di breve durata o di cattiva sorte di vitazne che in tal caso a tutti quelli che anchora se gli habbiano da mutare, et metterci tre viti per arbore come a tutti gli altri sudetti, 570 DOCUMENTO V Et di più che li detti affittuari debbino et sian tenuti rimovere et deradi- care tutti quelli arbori che mostrassino di breve durata o che fussino magagnati et simili, et nel medesimo luogo loro rimetterci della suddetta medesima sorte d’arbori, quali arbori tutti generalmente habbino d’esser dritti, schietti et bene conditionati et non altrimenti. Quali tutti soprascritti miglioramenti li detti affittuari sian tenuti et obbli- gati haverli fatti per tutto il tempo et termine d’anni doi prossimi da comin- ciarsi il dì X del mese pres. di maggio et da fornire il dì X di maggio delli 1550 ad ogni loro proprie spese et che alla fine di questa pres. locatione essi sopra- nominati miglioramenti siano in buon’essere, atti e sicuri a rendere il debito frutto loro tanto l’arbori come ancho le viti dette et come di sopra. Idem che fra tutto il tempo et termine della pres. locatione li detti affit- tuari sian tenuti et obbligati d’aver fornito di nettare et spurgare tutto il fosso che comincia lì al ponte che va a Palidoro, fin quanto dura per tutto il con- torno della detta possessione ad ogni lor proprie spese et ogni anno una parte pro rata finchè sia fornito quel fosso s’habbi da far quanto più dritto et uguale si posa et a maggior profitto e giovamento di essa antedetta possessione. Et che mancando li detti di osservar, dico li detti affittuari sopranominati, quanto qui sopra è scritto tanto della piantata e qualità d’arbori et viti, come anco del predetto fosso che’l detto affittatore possa et sia licito far fare ogni cosa come di sopra ad ogni lor proprie spese, ct ad ogni lor danni et interesse. Idem che li detti affittuari debbiano et siano tenuti fare et preparare tutte le fosse per li sopradetti arbori et vite di palmi cinque di quadro larghi et fondi di palmi quattro, et che in esse fosse non si possino mettere arbori nè viti che prima il detto S." Acchille non ci sia chiamato o chi sarà in suo luogo acciò lui possa vedere et ordinare ciò che facci a maggior profitto et giovamento del luogo dico d’essa possessione locata. Idem che detto affittatore possa mandare ogni anno quattro cavalli di ri- spetto all’ herba gratis in ditta Hostaria durante dicta locatione per li quali quattro cavalli li detti affittuari non possino nè debbano vietare ? herba o ne- garla in conto niuno et la stalla bisognando per vinti giorni, come si costuma, et. al debito tempo di dar 1’ herba et con quel debito riguardo che si deve ai cavalli di rispetto. Idem che detti affittuari non possino nè debbino per niun conto tenere ne » lassar o far pascere nè praticare nella suddetta possessione arborata et aviznata DOCUMENTO YV 571 come di sopra, niuna di queste sorte di animali cioè capre porci e vaccine et l’altri animali ci possino praticare ma con ogni debita discretione, et in modo che non possino causare alcun danno, o detrimento del luogho dove sarà posti (sic) altrimenti che li suddetti affittuari sian tenuti ad ogni danni, et mancamenti d’essa possessione. Idem che'l detto S. Affittatore possa in ogni tempo et beneplacito suo et a sue spese proprie fare o far fare in dettà Hostaria et possessione arborata ogni et qual si voglia sorte di meglioramenti et bonificamenti tanto in fabriche come anco in piantar arbori senza nisuna sorte d’impedimento, o contraditione in contrario di essi prefati affittuari. i Idem che detti affittuari in tutta la sop.t4 locatione tanto nell’ Hostaria propria come anche nella detta possessione et ogni altri terreni in essa compresi non ci possino nè ci debbiano fare niuna sorte de’ danni ne cenvarci in niun modo senza la saputa et espressa licenza et consenso di «etto affittatore qual habbia d’apparir in soriptis. Idem che detti affittuari debbiano et sian tenuti dal principio della prente locazione sino alla fine de tenere et mantenire ogni pfati et soprati megliora- menti tanto fatti come da farsi sempre bene attesi et custoditi d'ogni bisogno et dover loro con quella maggior diligenza che farà a più giovamento «’ogni p. miglioramenti secondo il solito et costume de Roma altrimenti che il p.to 8 Achille possa apprezzare e fare apprezzare ogni danno et interesse, et il tutto alle proprie spese d’essi predetti affittuarii in solido ete. Idem che li detti affittuari debbiano e sian tenuti quanto e tutt’accolta che vorranno cultivare, o far cultivare potare et custodire ogni soprascritti luoghi compresi et inclusi nella presente locatione farlo nanzi tempo sapere et intendere al detto affittatore o qual altro sarà per lui in suo luogho qui in Roma acciò lui po-sa andare, o mandare a vedere et ordinare quanto sia per maggior giova- mento del luogho. Idem che li detti affittuari non possino nè debbin» autorità potestà o balia di sublocare ‘detta Hostaria con quanto di sopra è detto, o parte ad altri per detto tempo durante la presente locazione senza espressa licenza saputa et con- senso suo qual’ habbi parimenti d’apparir in scriptis. Idem che detti affittuari debbiano e sian tenuti l’ultimo giorno della pres. et infr.ta locazione che sarà el dì X di maggio dell’anno 1563 liberamente resti- tuire e realmente consignare al detto S.' Achille la sud. Hostaria di Malagrotta 572 DOCUMENTO V con tutti i suoi membri nel pres. scritto nominati et tutti quelli bonificamenti et miglioramenti che per il passato segli saran fatti in quel buon’essere che in tal tempo debba et possa essere ogni altra ben tenuta possessione et finalmente bene attesa et custodita d’ogni bisogno, et debito suo et come a huomini da bene fedeli et reali si spettaria, senza un minimo danno d’esso luogo non ostante qualsivoglia decreto camerale fatto o da farsi in favore di inquilini o condottori, alle quali tutti detti affitt. in solido rinunciano con questa però dichiaratione che tutti li bonificamenti et miglioramenti di qualsivoglia sorte et spese che li sudetti affitt. haranno fatti o fatti fare fra il detto termine et tempo di detta locatione in detta hostaria et possessione et terreni come di sopra, restino et restar debbino alla fine del detto tempo liberi et netti a detto S." Achille et suoi Heredi senza niuna sua spesa et gravezza di qualsivoglia sorte ma in ogni miglior modo liberi e franchi et spediti unitamente col’altri infrati beni come È di sopra locali. Idem detto S." Affittatore promette liberamente mantenere li detti mastro Giovanni et mastro Pietro affittuari infrati in possessione per il detto et stabi- lito tempo d’ogni qui s. et infrate cose (sic) et di pigliar sopra di lui ogni lite che per tal conto li ne potesse avvenire con i suoi avvocati et procuri (sic) ed ogni sue proprie spese et parimenti co la ragione a tutte sue spese promette alli detti affitt. far levar via del tutto un certo riparo d’acqua fatto da pochi mesi o siano anni in qua in pregiuditio di detta hostaria et poss.ne arborata et come di sopra locata. Dichiarandosi anchora che tutta volta che lì pred.ti affittuari nen possino godere l’infrate legnare et pasculare con sei cavalle come nella pres. locatione s'e promesso che in tal caso loro non sian tenuti pagare per tutto l’integro fitto et locatione se no scudi centosettanta di moneta ogni anno da pagar sotto l’or- dine et come di sopra, et detto, eccetto che resteranno a scudi quarantadni e mezzo di moneta per ciascheduna pagha di trè in trè mesi come sopra. Arch. di Stato, Roma, Acta Raidetti not. vol. 6176, pag. 33.” DOCUMENTO VI , 573 DOCUMENTO VI. Ann. 1561, 27 oct. De Bireto viridi. Pius Papa IV. Motu propio. Cupientes Mercatoribus et aliis personis tam Almae Urbis nostrae Civibus, quam Forensibus in ipsa Urbis cum quibusvis personis contrahendi omnem pos- sibilem securitatem concedere, et omnem viam, ac etiam omnes dilationes per quas Mercatorum et aliarum personarum debitores a debitorum solutione sub- terfugere, seu se quoquo modo subtrahere et creditores eorum creditis defraudare, aut supplantare possent, de medio tollere, ac remedium opportunum praemissa ne fiant adhibere, et ut debitores ipsi a praemissis, si non Dei Omnipotentis, saltem humanae ignominiae timore abstineant, et si eorundem Mercatorum, et personarum firmitati providere volentes, et considerantes Motum proprium fel. recor. Paulo Papa IV, Praedec. nostro, quod ex tune de caetero Alternativae (sic) significationes et dilationes quaecumque nisi juxta juris dispositionem, ac formam statutorum ipsius Urbis concedi nullatenus possent, et qui illas obtinuissent et ex tune in futurum obtinerent, semper Biretum Viride portare tenerentur ema- natum, Circa ipsorum debitorum malitiam, seu malos homines non sufficere, Cum ipsum Biretum Viride nisi postquam ad Alternativam, vel alias dilationes admissi fuerint portare non teneantur, et sic beneficio temporis in grave credi- torum praejuditium et jacturam gaudeant, Nos igitur Motu simili ete. Per prae- sentes perpetuo statuimus et ordinamus quod de caetero quicunque debitores, seu in forma Camerae, aut alias quomodolibet obligati quamcunque Alternativam, Significationem, vel aliam quamcunque dilationem etiam secundum Capitulum Pervenit (sic) vel Odoardus, seu imhibitionem aliquam a Curiae causarum Ca- merae Apostolicae Auditore, seu elus Locumtenente, aut almae Urbis Vicario, vel Gubernatore, vel Senatore, seu aliis ipsius Urbis judicibus etiam Commissariis, aut etiam Carcerum Urbis visitatoribus petere non possint, nisi se prius coram illis dietum Biretum viride gestando praesentaverint, et ipsum Biretum viride publice et secrete sub fustigatione per Urbem prima vice, et Triremium pro secunda, qua sine dicto Bireto reperiti fuerint deferre, per se, vel per suos le- gitimos Procuratores ipsis absentibus promiserint, et medio juramento aftirma- 574 ‘DOCUMENTO VI verint ac aliter a praedictis, et aliis quibusuis Judicibus etiam vigore specialis commissionis nostra aut successorum nostrorum manu signatae, vel signandae obtentae, et obtinenda Alternativae et significationes aut dilationes quaecumque, etiam secundum Juris formam nullae sint, et ipsis debitoribus etiam si Clerici existant nullatenus suffragentur, Mandantes eidem Auditori Camerae ut hujusmodi constitutionem et ordinationem perpetuo et inviolabiliter etiam in quibuscunque litibus et causis hactenus motis observari faciat et mandet, contra omnes et singulas praemissas in aliquo contravenientes per censuras et poenas ac etiam pecuniarias, et alia remedia opportuna sibi visa etiam Manu Regia procedendo, Praemissis ac quibuscunque constitutionibus et ordinationibus Apostolicis ae ipsius Urbis statutis et reformationibus, caeterisque contrariis non obstantibus quibuscunque. Volumusque quod praesentium sola nostra signatura sufficiat, et ubique fidem faciat in judicio et extra quacumque Regula contraria non obstante Placet Motu Proprio I Anno a Nativitate millesimoquingentesimo sexagesimo primo Indictione quarta die vigesima septima Mensis octob. Pont. SS.mi in Christo Patris et. D. N. D. Pii divina prov. Papae Quarti, anno secundo, Retroscriptae literae aplicae affixae et pubblicatae fuerunt in valvis Prince. Apost. de Urbe, Canceller. Apost. et in acie Campi Florae, ut moris est, per nos Bernardinum Andreutium, et Joham. Gherardi Cursores Aplicos. Julius Parinus Magister Cursorum. Arch. Vatic., Bolle e Bandi, serie III, ann. 1425-1571 (ad annum). DOCUMENTO VI-A 575 DOCUMENTO VI.A. TRANSUNTO. Ann, 1044 6 Julii. Marcus Ant. Burghesius Prince. Sulmon. locavit Francisco Cino filio q. Cini de Sancto Marcello, Pistorien. dioec. Castrum Praticae, situm in partibus Latii, extra Portam S. Panli, vid. territorium dicti Castri, illiusque sylvas, vineas, molendina, furnum, hospitium, salsamentariam, tinellum, sta- bulum, fornacem, mirtos sive mortellas, sugaros, hortos omnesque alias, etc. et ut dicitur soliti e consueti tutti i frutti riserbati a S. Eccenza, tutte le case che sono in detto castello habitato in esso da Vassalli o da altri, con la giurisdi- zione civile e criminale ete. pro annuo redditu scutorum milleoctigentorum mo- netae eto. Item convengono che detto affittuario sia tenuto, come detto Francesco si obbliga e promette, concedere alli Vassalli di detto Castello a lavorare tutta quella quantità di territorio, che vorranno lavorare con la solita risposta del quarto, di tutto quello che si raccoglierà, quale quantità di terreno gli debbia essere asse- gnata dal detto sig. affittuario, nel luogo che più piacerà al detto sig. affittuario ogni anno, subito che per parte di detti Vassalli gli sarà fatta istanza, e che essi vassalli avranno dichiarato la quantità del terreno che vorranno lavorare, altri- menti non fatta detta dichiarazione, o richiesta per tutto il mese di decembre ogni anno, sia lecito a detto conduttore di disporre di detti terreni a suo pia- cere in quanto al frutto, con venderlo, goderlo e farlo godere a tutto frutto in tutto o in parte, come a lui piacerà. Item che detto affittuario sia obbligato prestare alli detti Vassalli ogni anno rubbia di grano cinquanta almeno per seminarle, purchè detto grano si semini nel territorio di Pratica, ogni volta che gliene sarà fatta istanza dalli detti Vas- salli, con obbligo di restituirlo ogni anno alla raccolta, altrimenti possa essere convenuto da detti Vassalli, ovvero dal detto sig. Principe locatario a darli detto grano, ovvero il prezzo che correrà per comprarlo da altri, sopra quale prezzo si contenta di stare alla dichiaratione, che farà il fattore di sua Eccenza, dichia- 576 : DOCUMENTO VI-A rando che se fossero molti Vassalli, che volessero detto grano, in maniera che la detta quantità di rubbia 50, non li bastasse a soddisfare la domanda di tutti, allora sia lecito a Sua Eccenza, o suo fattore di dividere e spartire proporzio- natamente la detta quantità di rubbia 50 tra’ detti Vassalli etc. eto. (1). (1) Arch. di Stato. Roma. Acta Francisci Jacobi Belygii, Ann, 1644, vol. 750, fol; 70. DOCUMENTO VII 577 DOCUMENTO VII. Statuta Castri Porcigliani. « In Dei nomine. Amen. Anno Dni Millesimoquadringentesimo octuagesimo « nono, die vigesima quarta mensis novembris, Pontif. SSmi in Xpto Pris et e Dniì Innocentii divina provvidentia Pape Octavi, Anno quinto. « Capitula, constitutiones Castri Porcigliani; rescripta, renovata et confir- « mata per Revssimum in Xpto Patr. et Dnum. D. Franciscus de Picholomi- « nibus S. Eustachii, Cardinalem Senonsem, perpetuum Commendatarium Ven. « Mon, SS. Sabbe et Andreae de Urbe, ad quod dictum Castrum /’orcigliani, « spectat, pertinet et est. « In primis statuimus et ordinamus, quod quicumque mala dixerit Deum vel < Beitam Virginem, matrem eius, solvat pro quolibet vice XX solidos, et si non « habuerit de quo, solvat poenam perforentur aures ad furcam. « Item ordinamus quod quicumque masculus vel foemina commiserit homi- « cidium, vel prodicionem pro qua perderet personam, bona ipsius sint Camere e dicti Castri. « Item ordinamus quod si quis amputaverit membrum alicui masculo vel t foemine, scilicet intelligendum est de septem (sie) membris de oculo, nasu, « manu, pede, aure vel digito solvat Camere pro poena XXV librarum, et parti « laese dapnum arbitrio Judicis nostri et juxta temeritatem commissam reficere « tencatur et prout de jure. 1 « Item ordinamus, quod si quis coeperit aliquem vel aliquam per ‘capillos « iniuriose solvat Camere dicti Castri pro pena solidos quadraginta. et ultra hoc « per unum mensem in carceribus detrudatur absque remissione. e Item ordinamus quod si quid extrasserit cultellum, vel ensem, vel quod- è cumque genus armorum, et non percusserit solvat Camere pro pena XX libr. e et si posuerit manurn et non extraxerit, solvat X, et perdat arma, licet non ‘ extraxerit, ut alij a similibus arceantur. « Item ordinamus quod si quis percusserit aliguem cum arma, cultello, cum « lancea, clava ferrea vel alia arma, et de illa percussione sanguis exierit, solvat wu 578 DOCUMENTO VII « Camere pro pena XL sol., si non percusserit et sanguis non éxierit, solvat <« XX sol., et parti lese satisfacere teneatur de damnis arbitrio iudicis. « Item ordinamus quod si quis percusserit aliquem vel aliquem cum lapide, « baculo, alapa, pugillo vel pede, solvat Camere pro pena XX sol., et si sanguis <« inde exierit solvat quadraginta sol. et parti lese solvat julios XVIII. < Item ordinamus quod si quis assaliverit aliquam solvat pro pena XII lib. « et si quis associaverit dictum insultatorem vel insultatores solvat Camere « dimidiam penam et per XX dies stet in carceribus et ultra predicta ambo <« juxta exigentiam delicti puniantur. « Item ordinamus, quod assalitus ab aliquo non teneatur ad penam pro sua « defensione, salvo de vulneribus, sine moderamine inculpate tutele, illatis. « Item ordinamus, quod si quis per vim corrumperit aliquam virginem, te- « neatur eam accipere in uxorem, et si nollct cam accipere, debat eam dotare, « vel facere sibi dotem secundum qualitatem mulieris, et nihilominus solvat « Camere pro pena XX lib. « Item ordinamus, quod siquis violentaverit aliquam mulierem nuptam, «et concubuerit cum ea, vel nolens concubuerit, solvat Camere pro pena « XX lib. « Item ordinamus, quod si quis violaverit aliquam mulierem viduam vel <« solutam, solvat Camere dicti Castri pro pena XXV lib. « Item ordinamus, quod si qua mulier esset Ruffiana alicui mulieri, solvat « pro pena centum solid. si cum non posset solvere penam, frustetur per terram, « et credatur juramento vel sacramento accusatoris, dummodo accusatrix sit « bone fame. « Item ordinamus quod si quis dixerit alicui Rivalum proditorem vel homi- « cidam, solvat pro pena pro quolibet verbo vel injuria XX sol. et per tres dies « continuos carceretur. « Item ordinamus quod si quis exportunaverit aliquem et faciet eum cedere, « solvat pro pena X sol. si vero non cederet solvat pro pena V. sol. « Item ordinamus quod si quis fecerit rapinam vel robbariam in strada, « bona rapientis vel disrobantis sint ad mandatum Camere dicti Castri. « Item ordinamus, quod si quis fregerit domum de die in dicto castro solvat « pro pena XXV lib. si cum fuerit de nocte solvat L. lib. et si bona furantis < vel raptoris valerent maiorem quantitatem, que resque furate vel ablate fue- « rint, sint Camere predicti Castri, et si quis furatus fuerit frumentum de puteo, DOCUMENTO VII 579 « sive granario, puniatur ad eamdem penam, et si fregerit causa libidinis pro « ut de jure puniatur pena corporali ultra solutionem de qua supra. « Item ordinamus, quod si quis furatus vel furtum commiserit in area de <« aliquo blado vel frumento solvat pro pena de die C. sol. et de nocte X. lib. « et restituat parti ablata. <« Item ordinamus, quos si quis furatus fuerit aliquod frumentum in agro « de manvelariis, solvat pro pena C. sol. et emendet damnum latro patientis, et « hoc intelligatur de quolibet furto, et in alio damno, et maneat in carceribus « per mensem arbitrio Auditoris nostri, et si furtum sit notabile verberetur. « Item ordinamus quod si quis fregerit attegiam, griptam vel mandrum, « solvat pro pena Camere sol. L. de die, et de nocte centum sol. « Item ordinamus, quod sì quis furatus fuerit bovem, equum, jumentum, < asinum et hiis similia, sit in arbitrio Domini, et emendet damnum. « Item ordinamus quod si quis rapuerit vel furatus fuerit poreum, pecudem, « capram et similia, solvat pro pena C, sol. et si bestie furate sunt plures, « raptor, sive fur puniatur ad arbitrium Domini, et si de dicto furto esset pu- « blica vox et fama, et aliquis convenerit et presens fuerit, dum dictus furtus « committitur, puniatur ad eandem poenam. C. S. si cum de predicto furto non « sit publica fama, et aliquis de predictis bestiis communicatur, solvat XX. soll. « pro pena et predicta sint in discretione dicti nostri Castri et emendet damnum. « Item ordinamus, quod si quis furatns fuerit porcillum, edum, agnum, et « hiis similia, solvat prefate Camere quadragint. sol. et emendet damnum. « Item ordinamus si quis furatus fuerit anserem, gallinam vel quemcumque <« pullum, columbos et hiis similia, solvat de nocte X. sol. et de die solvat « V sul. et emendet damnum. « Item ordinamus quod si quis percusserit cum ferro, unde vulnus pereat <« bovem, equum, asinum, bufalum et hiis similia, solvat Camere pro poena « XL. sol. et emendet damnum, et si dicta bestia de illo vuinere morietur, « emendet, ut dictum est, juxta juramentum patientis. « Item ordinamus quod si quis improperavit aliquam iniuriam alieni de dicto « Castro, quas receperit de patre vel matre vel alio suo consanguineo, sive « masculus, sive femina, solvat Camere pro pena L. sol. et si iniuria fuerit atrox, « puniatur arbitrio Dni et prout de jure, et satisfaciat parti injuriate. « Item ordinamus, quod si quis malitiose combusserit aream ubi esset granum, « vel aliud bladum, solvat Camere pro pena quod puniatur ad arbitrium Dni, 580 DOCUMENTO VII I A a et si ibi non esset bladum, solummodo paleas, solvat C. sol. et emendet dam- num, ut dictum est juramento patientis. « Item ordinamus, quod nullus mittat ignem in stipulario ante festum Assumptionis Beate Marie Virginis, et qui contrafecerit solvat camere pro pena X sol. et damnum emendet, et dicta immissio fieri non possit sine li- centia Dni et eius officialium. « Item ordinamus, si quis occiderit in silva, vel in alio pascuo, vel castra- tum seu alia animalia hiis similia, solvat Camere pro pena XL, sol. et emen- det damnum patientis. < Item ordinamus, quod cuilibet de dieto Castro liceat occidere porcum in cunea plena orto cum oleribus, canapina seminata ad monoclariam in campo, ad quercus cum glandibus et medietas sito camere, alia vero medietas sit pa- tientis damnum et solvat X fol. « Item ordinamus, quod si quis dederit damnum in vinea auando ibi sunt uve, vel in orto cum oleribus, solvat pro pena V sol. de die, et de nocte de- cem sol. et emendet damnum, ut dictum est sacramento patientis. « Item ordinamus, quod si quis furatus fuerit fabas, cicera vel alia legumina de campo, solvat pro pena V sol. de die, et si fuerit de nocte X sol. et emendet damnum ut dictum est, et hoc intelligatur dummodo sint curiales. « Item ordinamus, quod si bos, vacca, iumenta, asinus et hiis similia intra- verint in aliquo blado seminato, vel ferragine alicuius de dieto castro, ante Kalend. Martii solvat camere pro pena VI denarios, et si fuerit de nocte XII den. et sia Kal. Martii in antea si fuerit de die XII den. et de nocte II sol., et intelligatur semper pro qualibet bestia, et damnum emendet juramento et sacramento patientis. « Item ordinamus, quod si aliqua bestia grossa intraverit vineam alicuius, a Kal. Martii usque ad Kal. Junii, solvat camere pro pena pro qualibet bestia XII denarios de die, et de nocte vero II sol. et emendet damnum, et a Kalen. Junii, usque quo fuerint vindemiate, de die II sol. et de nocte III sol post- quam autem fuerint vindemiate, usque ad Kal. Martii, solvat pro pena qua- libet bostia VI den. et emendet damnum. « Item ordinamus, quod si qualibet bestia minuta intraverit in segetem ali- cuius, a Kalen. Januarii usque Kalen. Martii, usque in XII bestiis, solvat camere pro pena pro qualibet bestia, de die II denar. et de nocte IV den. a NI supra pro omnibus bestiis omni grege, solvat pro bando V sol ATTI STIA GESTITO TT, Tn cd . ® - - DOCUMENTO VII 681 de die de nocte vero X sol et a Kal. Martii usque ad Kal. Junii, solvat pro dieta pena duplum, et emendet damnum ut dictum est, si vero dicte be- stie intraverint in vineam alicuius sive in orto, camera habeat dictam penam sicut diotum est de bladis, < Item ordinamus, quod si aliqua bestia grossa dederit damnum in area alicuius, ubi esset frumentum coadunatum, sive in agro ubi essent monaclarie (sic) solvat pro qualibet bestia de die XII den. et de nucte XX sol. et emen- det damnum juramento patientis, et si pastor miserit vel custodierit studiose, solvat pro pena Camere pro se tantum. « Item ordinamus, quod si porci intraverint in aream vel in agrum ubi esset frumentum coadunatum, vel in agris ubi essent monaclarie (sic) si non esset coadunatus, solvat pro pena de die XX sol. de nocte vero XL sol. et grex intelligatur usque ad XII bestias, si vero fuerint minus quam quatuor, camera habeat per quemlibet porcum de die sex den. de nocte antem XII et damnum emendet ut supra. « Item ordinamus, quod si quis miserit ignem vel combusserit domum ali- cuius studiose, puniatur in persona et bonis ipsius ad arbitrium Dnì et juxta formam juris. « Item ordinamus, quod si quis combusserit palearium alicuius studiose, sol- vat Camere pro pena XX sol. et emendet dannum, ut dictum est taxatione Camere predicte. « Item ordinamus, quod si quis furatus fuerit mustum de Torculari, ad ar- bitrium Dni puniatur, si vero uvas rapuerìit de torculari malitiose, solvat de die pro pena Camere X sol. et de nocte XX sol. et emendet damnum sa- cramento patientis taxatione camere predicte. « Item ordinamus, quod si quis rapuerit fenum vel paleas de atteggia, vel paleario composito, solvat camere pro pena X sol. de-die et da nocte XX sol. et emendet damnum juramento patientis taxatione camere predicte. « Item ordinamus, quod sì quis rapuerit aliquam rem valentem, usque ad summam decem solidorum, salvat camere pro pena XX sol., dummodo raptor fuerit de jure conventus. 7 « Item ordinamus, quod si quis invenerit aliquam rem in castro, vel extra castrum, et non reddiderit ipsam rem infra tres dies illi, cuius est, puniatur ut fur, sive latro, secundum formam capitulorum ut supra. < Item ordinamus, quod sì quis miserit aliquam bestiam grossam in aliquo 582 DOCUMENTO VII « prato signato, solvat Camere per quamlibet bestiam de die VI den. de nocte sol- I « vat XII den. usque ad Kal. Martii, a Kal. Martii in antea quousque fuerit falciatum solvat pro pena XII denar. de die et de nocte solvat II sol. et A < emendet ut dictum est. Et si porci intraverint in dictis pratis postquam si- gnati fuerint, usque ad Kal. Martii, solvat camere pro bando per gregem X Ci sol. de die, de nocte XX sol., grex intelligatur usque ad XII porcos, et a XII CI porcis infra solvat per poreum duns denarios de die, de nocte quatuor den. A « Item ordinamus, quod si quis commiserit aliquod maleficium in dicto ca- A stro, quod in hoc statuto non contineretur, puniatur de similibus ad similia ad arbitrium Dni dicti Castri et juxta formam juris rigorose. A « Item ordinamus, quod si quis commiserit aliquod maleficium coram Dno vel cuius officialis ipsius Castri, puniatur in duplo, et si delietum merebitur, suspen- 4 datur, et idem sancimus, si committeret delictum contra officiales nostros, A «aut eorum quemlibet. « Item ordinamus, quod si quis fecerit injuriam castellano vel vicecomiti « ratione sui officii, solvat camere pro pena X lib. si vero percusserit eum, pu- « niatur ad arbitrium Dni in persona et bona ipsius malefactoris ut supra. : «Item ordinamus, quod si quis detinuerit pignus vicecomiti vel castallo (sic) « ipsius Castri, solvat pro pena X solid. et si non dixerit officiali predicto oc- « casione sui officii, solvat camere pro pena XX. sol. si non posuerit manum « ipsi castallo (sic) solvat pro pena C. sol. « Item ordinamus, quod si quis aperuerit portam dicti castri ex quo fuerit « clausa per cameram quacumque occasione, solvat camere pro pena XX. sol. « Item ordinamus, quod si quis intraverit vineam alicuius exportaverit inde « uvas, solvat patrono vinee pro quolibet racimo (sîc) quatuor denarios et solyat camere pro pena V sol. de die et de nocte X sol. 4 « Item ordinamus, quod si quis devastaverit sepem de vinea vel de orto, CI solvat camere pro pena V sol. et sepem reficiat suis expensis. « Item ordinamus, quod si quis inciserit arborem domesticum de vinea, vel < de orto alicuius, solvat camere pro pena C. sol. et emendet damnum sacra- « mento patientis taxatione Camere predicte. « Item ordinamus, quod omnes qui voluerint vendere vinum, teneantur ha- « bere mensuras sigillatas de sigillo Dni vel officialis castri, qui tune fuerit in « officio pro Dno, videlicet petittum, dimidium petittum, Terzottam (sic) et ful- < gettam, et si quis contra fecerit, solvat camere pro pena pro qualibet vice MP % © SI RR 1 4 te ‘dii DOCUMENTO VII 583 « XX sol. et liceat cuilibet accusare e08 cum sacramento et teneatur secretus, et <« vicecomes dicti Castri teneatur inquirere dictas mensuras una vice per mensem. « Item ordinamus, quod omnes macillarii teneantur vendere carnes ad pon- « dum rectum, sicut ordinatum fuerit p. Dnum dicti Castri et per massarios, « et quod non dent carnes pro aliis nisi que sunt, et si ipsi macellarii fuerint « interrogati teneantur dicere veritatem dictarum carnium, et dictas carnes te- « neantur vendere ad precium ordinatum et extimatum per quatuor massarios « dicti Castri, et extimatum dictum pretium secumdum ipsius ubertatis et ca- « ristie (sic) et qui contrafecerit, solvat Camere pro pena per quamlibet vicem € XL. sol. « Item ordinamus, quod si quis fecerit facturam in ipso castro vel ipsius « tenimento per aliquam personam, hominis vel mulieris, seu bestiam aliquam « haberet damnum, puniatur atrociter in personam, vel eius bonis, ac teneatur « reficere omne damnum ad arbitrium domini. « Item ordinamus, quod massarii dicti Castri teneantur claudere portas dicti « Castri de nocte et de die tempore opportuno. < Item ordinamus, quod dominus habeat plenam et liberam potestatem « mandandi seu precipiendi omnibus et singulis dicti Castri ad suum arbitrium « et voluntatem, mittere eos quocumque voluerit, et qui talia servitia fecerit, < habeat expensas, et qui non obedierit, multetur in sol. XX, et per mensem « banniatur a Castro, < Item ordinamus, quod quicumque voluerit venire ad habitandum in dicto « Castro juret vassallagium Domino per quinque annos, et qui contrafecerit, bona « ipsius sint ad arbitrium Domini, post vero quinque annos, habeat licentiam discen- « dendi, et debeat petere licentiam Domino tribas vicibus, et per quamlibet vicem « sit spatium trium dierum, et si non fecerit non valeat renunciatio et si ste- « terit post quinquennium sit vassallus iuret antea, et venientes de novo ad habi- < tandum nostrum Castrum dent cautionem de bene vivendo arbitrio Dni, et « ad idem detur per scandalosos et inhoneste viventes. « Item ordinamus, quod si mulier nupta esset accusata et convicta a viro « suo de adulterio, perdat dotem suam, que dos dividatur inter dominum dicti « Castri, et virum suum, in equali parte, et ipsa mulier, de iure, sit serva dicti < Domini Castri. « Item statuimus et ordinamus, quod de omnibus et singulis capitulis que « in hoc statuto non continentur tam de jure quam de facto, Dominus habeat 584 DOCUMENTO VII « « A A A i A GI A Cal il 4A 4 - plenam et liberam potestatem mandandi seu precipiendi atque ordinandi, et ab omnibus hominibus dieti castri, irrevorabiliter observentur, non obstante aliquo capitulo sopradicto et lege Canonica vel Civili. « Item ordinamus, quod sì quis decederet intestatus sine herede legitimo, Camera succedat in bonis suis, et quod quilibet teneatur facere testamentum « et debeat dicere, tribus vicibus « reliquo Dno meo XII denarios » quod si non fecerit testamentum non valeat, et si de dicto testatore remanerent he- redes una, vel plures, et dicta heres moriretur in infantili etate, seu in pu- pillari etate, camera succedat in bonis ut supra, et omnia contenta in huiu- smodi statuto per Dnum redi possint ad equitatem canonicam, et intellisantur prout de jure, adeo quo expressis, aut non espressis verbis, relinquo Domino méo XII denarios, relicti dicantur, et solvi debeant Domino Castri, absque ecceptione aliqua in eventum ut supra. « Item quod in omnibus testamentis, si testator exiret extra limen hostii condito testamento, dictum testamentum non valeat, tamen de equitate Ca- nonica de novo volumus quod valeat. < « Item ordinamus, quisquis .furatus fuerit aliquid Domino suo in Rocha vel extra. stet ad arbitrium Domini. « Item ordinamus, quod sì quis tenetur alicui vicino suo pecunia, et de eo reclamum fuerit ad Cameram, solvat pro salario de omnibus XII denarios, et sic teneatur eodem modo, si fuerit forensis. « Item ordinamus, quod Dominus faciat omnes expensas in ‘furno, et fur- naria portet panem crudum et cottum, et Dominus habeat pro quolibet man- coso (sic) unum panem. { «Item ordinamus, si quis occiderit aprum vel porcum silvestrum, in teni- mento dicti Castri, Dominus debeat habere quartum de ‘ante, cum novem co- stis et cum pedibus, et si fuerit Scrofa quartum simplex, de cervo vero, et qualibet alia bestia, quartum simplex cum capite. «Item ordinamus, quod quilibet qui habet domum in dicto Castro, teneatur respondere proprio nomine in festo sancti Andree denarios XII, pro quolibet anno. <« Item ordinamus, quod quicumque de dieto castro tenet ortum a Camera solvat quolibet anno pro pensione in festo Sancti Andree denarios VI. « Item ordinamus, quod quicumque voluerit facere domum in dicto Castro, Dominus debeat facere sibi portare ligna grossa, DOCUMENTO VIT À 585 « Item ordlinamus, quod quicumque tenet vineas vetulas, debeat respondere « serlam partem musti. * Item ordinamus quod quicumque voluerit pastinare in tenimento dicti « castri, lenaat quinque annos libere, deinde finitis quinque annis respondeat Do- « mino sertam partém muasti. « Item ordinamus, quod quicumque habet domum, aut cappannas in dieto « castro, vel extra, teneatur respondere in festo (sancti) Sabbe unam gallinam « bonam, ac etiam in festo Assumptionis Beate Mariae Virginis unum par pul- « lorum. s Item ordinamus, quod si quis habeat mediam partem de parellis omni « ebdomada, debeat dare Camere unum par palumborum, vel palumbellarum, « qui capit plusque duo paria. « Item ordinamus, quod si quis fecerit in dicto Castro domum vineam vel « ortum in exitu, vel in morte, debeat requirere Dominum si vult emere, et « Dominus debeat habere domum pro XII sol. provisinorum minus quod aliquis « similiter et vineam pro XII sol. provis. minus, et si Dominus noluerit emere, * libere vendat, reservans ordinibus in presenti hoc Statuto contentis, et Do- « minus habeat pro qualibet domo vel petia vinee V. sol. et qui contra fecerit « bona predicta sint devoluta ad manus Camere. . « Item ordinamus, quod si quis accusaverit aliquem vicinum suum de eo, « quod posset perdere personam, et non posset ei probare maleficium de quo accu- « satus est, solvat Camere €. sol. et si non habet puniatur in corpore, et si « dederit inditia sufficentia, ad torturam non multetur. « Item ordinamus, sì quis accusaverit vicinum suum, et non posset ei probare « accusationem, teneatur ipse accusator in medietate pene, et si aliquid saltem « coneludens demonstraverit non multetur. « Item ordinamus, quod si quis facit testamentum in infirmitate sua, et « vadit Roman ad medicum, ct de illa infirmitate liberatur, illud testamentum « valeat, si iret alibi, non valeret arbitrio Domini. < Item ordinamus, quod Dominus faciat vicecomitem de Roma, et non « aliunde. _ «Item ordinamus, quod quicumque iverit piscatum (sic) reddat Camere « quartam partem piscium. « Item ordinamus, quod homines de dieto Castro vadant venatum (sic) omni « anno, unum diem pro domino, et quidquid ceperint sit Domini, 586 DOCUMENTO VII < Item, ordinamus quod nullus vadat ad rixam minutam sine licentia Dni, < et si quis contrafecerit, solvat Camere pro pena X lib., et ultra hoc arbitrio « Dni castigetur. «Item, ordinamus quod si aliqua bestia grossa intraverit in bannita, solvat « pro pena, pro qualibet bestia XII denarios de die, de nocte vero, duos solidos « et emendet damnum. « Item ordinamus, quod quicumque rapuerit Dno, vel alicui homini in Castro « vel quod stet sub clave repositum, solvat pro pena Camere XL sol. et emendet « damnum. « Item ordinamus, quod si quis accusaverit vicinum suum de furto, aut vas- « sallum, solvat Domino C. sol. pro qualibet, si non habuerit stet ad mercedem « Dni, et similiter vicina, que accusaverit vicinum suum, solvat Domino pro « pena XX sol. prov. « Item ordinamus, si quis homo vel femina apposuerit aliquam iniuriam al- « teri, solvat Dno pro pena V. sol. prov. et hoc intelligatur de omni verbo « iniurioso, salvis supra positis in aliis capitulis in hoc statuto intelligatur « correptum (sic) ut supra. « Item ordinamus, quod si quis missus fuerit foresticus pro silvas de bestiis « quas occiderit Dnus habeat medietatem. «Item ordinamus, quod quicumque tenet bestias unde faciat caseum, et « faciat duos caseos aut plus in die, det Dno omni ebdomada unam peciam casei « et si habet parium cum socio det duas pecias. « Item in Pascha det Dno unum edum, et si habet cum socio det duos € edos. « Item ordinamus, quod quicumque deberet facere rationem Dno vel alicui « de terra, et non potest habere .advocatum vel Judicem, detur in manibus « hominum de terra, nisì esset res clara. « Item ordinamus, quod si homo de Porcigliano, piscaretur in mari et <« caperet sturionem, lumbrinam vel delphinum, det eum Dno suo, si valuerit « ultra XII prov. et Dnus det ei pro benedictione prov. et si dominus noluerit, « vendat cui vult, de aliis vero piscibus piscator habeat meliorem piscem, de « aliis vero piscibus postea Dnus tollat unum ad suam voluntatem, et si forensis « piscaretur det Dno octavam partem. « Item ordinamus, quod omnes homines de Porcigliano, qui habent iumentum <« vel asinum, teneantur dare Domino singulis annis in festo Nativitatis D. N, a SIAE IT I e N DOCUMENTO VII 587 « Jesu Xpi unam salmam lignee, et ultra quolibet mense unam, et possint aspor- « tare, quo voluerint, quamlibet sortem lignorum cum paribus bestiis. « Item ordinamus, quod quicumque egreditur contra alterum in castro Por- « cigliani versus vel ante domum alicuius, solvat camere pro pena X lib. provis. < tempore nocturno et de die C. sol. et extra castrum solvat VIII lib. parv. et « ultra hoc, tam in bonis quam in personam, puniatur arbitrio Dni sive pro < eius pro tempore auditoris contra idem intelligatur de omnibus statutis in « huiusmodi libro contentis. < Item constituimus et ordinamus, et creamus perpetuo unum mandatarium € sive cursorem pro omnibus actis, citationibus et monitoriis et aliis exequendum « necessarium, cui arbitrio nostro salarium etiam concedimus. < Item ordinamus, et volumus et mandamus quod omnes incole perpetuis « futuris temporibus degentibus et de presenti in Porcigliano ad omne minimum « mandatum nostrum, aut Auditoris vice Vicarii nostri pro tempore, debeant et « quilibet eorum debeat auxilium et favore manu armata prestare, moniti sive e advisati, et capere quoscumque malfactores, et eos in carceribus detrudi fa- < cere, sub pena capitis et amissionis omnibus bonorum. « Item ordinamus, quod omnes de Porcigliano honeste debeant tractare offi- « ciales nostros pro tempore, et si contrarium fecerint, aut verba iniuriosa vel « comminatoria contra eos, aut eorum aliquem, et mandatario nostro protulerint « quoque modo, omnibus bonis priventur, existant eo ipso, et crudeliter verbe- « rentur, vel secundum exigentiam delicti capitis, ultra amissionem bonorum « puniatur. « Capitula, constitutiones et ordinationes adiuncte, his prefatis constitutionibus « p. R. P. D. Johannem S. Mariae in Aquiro diaconum Cardinalem de Colunna, « perpetuum Commendatarium Ven. Monasterii SS. Sabbe et Andree in presenti. « Costituimus et ordinamus, quod omnes homines de Porcigliano, qui commo- « raveriut in tenuta et tenimento dicti Castri debeant respondere in area Dno « sertam partem, quam si negaverint Dno, possit capere totum frumentum, sive « bladum, quod in area invenerit: hanc autem constitutionem facimus, eo quia « sic agebatur tempore Rmi Dni Johannis Cardin. Senensis harum constitutionum * auctoris. < Item ordinamus, quod omnes et singuli homines de Porcigliano, possint « tenere libere sine aliqua solutione in tenimenta dicti castri octo bestias grossas, « pro usu arandi seminandi et conducendii Carrotias. 588 DOCUMENTO VII « Item ordinamus, quod omnes et singuli homines de Porcigliano, possint « tenere et pascere in dicto tenimento quinquaginta capras, pro quolibet, sine aliqua « solutione. < Item ordinamus, quod omnes et singuli homines de Porcigliano, possint « tenere et pascere pro quolibet in dicto tenimento decem bestias porcinas, pro usu « domus eorum » (1). (1) Arch. Vatie., Arm. XXVI, tom. IV, Monterentii Camer., pag. 574 a 583 t. DOCUMENTO VIII 589 DOCUMENTO VIII. Ann, 1585, 1 giugno. Estratto del Bando pubblicato da Mons. F. Sangiorgi Governatore di Roma. « Se un capo dei banditi ammazzerà o darà vivo nelle mani della Corte un « altro capo simile, conseguirà la remissione di sè stesso, e di quattro altri com- « pagni banditi, che fossero stati seco. « E se un altro bandito, che non sia capo, ammazzerà un capo bandito, « avrà similmente la grazia per lui, e potrà rimettere due altri banditi ordinarii ’ impedisca qua- lunque fraude, o pregiudizio si volesse inferire a danno dei ripetuti futuri chia- mati, e sostituiti; E a tale effetto tanto l’alienazione quanto il respettivo inve- stimento dovranno essere gratuitamente approvati dall’enunciato Rmo. Cardinal Prefetto della Segnatura, e registrati pure nell’indicato Officio gratuitamente come sopra. III. Perchè li possessori de’ Beni Ecclesiastici tanto Secolari, che Regolari, Mo- nasteri di Monache, e altri Luoghi Pii di qualunque specie non abbiano ad essere impediti di procedere anch’ Essi alle tanto desiderate suddivisioni dei Lati- fondi inculti, e deserti per mancanza delle opportune facoltà, la Congregazione dei Vescovie Regolari, come pure l’altra del Concilio, e per Esse li due respet- tivi Rmi. Cardinali Prefetti Pro tempore potranno con loro semplice Rescritto da registrarsi però nelle respettive Segretarie, autorizzare ciascuno dei suddetti Possessori Ecclesiastici a concedere in Enfiteusi, a Canone, o livello tanto a terza Generazione, quanto per un tempo determinato, ma non superiore di Anni Cento, li Terreni, che incominciando dall’anno 1804 verranno compresi nei diversi Cir- condar] soggetti alla Nuova Tassa di Migliorazione; bene inteso peraltro, che i Postulanti facciano precedentemente constare la regolarità del Contratto, e che i confini del Fondo non siano punto alterati, nè confusi coi vicini a danno del Beneficio, Abbadia, Mensa, o altro qualunque Fondo Ecclesiastico: E coll’av- vertenza inoltre che ad evitare il danno, il quale potrebbe derivare in appresso per le variazioni, che il tempo produce nei prezzi delle derrate, l’annuo canone, DOCUMENTO LV 7383 o Risposta debba sempre fissarsi in generi per pagarsi poi annualmente, o nella stessa maniera, cioè in Natura, ovvero in contante, ma a ragguaglio del prezzo dei generi stessi corrente in tempo del maturato pagamento della Corrisposta. Siccome però alcuni dei predetti Possessori di Fondi Ecolesiastici, in vece di esimersi dal Pagamento della nuova Tassa col mezzo delle indicate Enfiteusi, potrebbero amare di farlo con introdurre direttamente da loro stessi una mi- ‘glior Coltura nei loro Fondi, così li predetti due Rmi. Cardinali Prefetti di dette Nostre Congregazioni saranno parimenti autorizzati di permettere con licenza, da registrarsi come sopra, ai predetti Possessori di Fondi Ecclesiastici, di venire alla oreazione dei Debiti occorrenti per tali migliorazioni; invigilanào col loro solito zelo, e per quei mezzi che crederanno opportuni, che realmente il Denaro sia erogato nelle migliorazioni medesime. IV. A quei Terreni, li quali di mano in mano anderanno ad essere soggetti alla più volte ripetuta ‘Tassa di migliorazione in ragione di Paoli Cinque per Rubbio, non osterà, che il Possessore di tali Terreni non ne abbia il Dominio diretto, ma soltanto il Dominio utile. Siccome però niuno può conferire ad altri un mag- gior diritto di quello, che gode egli stesso così se li Terreni soggetti alla nuova Tassa siano Enfiteutici, vogliamo, che li respettivi Possessori del Dominio utile non possano farne la Suddivisione col mezzo di vendita assoluta, ma bensì uni- camente col mezzo di Subenfiteusi, da durare per non maggior tempo di quello, che durerà la loro stessa Investitura. FE questa facoltà di Subenfiteuticare inten- diamo che resti loro accordata, quantunqu> negli Istromenti di Concessione fosse espressamente tolta una tale facoltà di Subenfiteutioare, e saranno solamente tenuti d’interpellare il Padrone diretto per dargliene notizia, e ad effetto, che non perda di vista i proprj fondi, e confini, ma intimato che egli sarà giuridi- camente al Contratto, non potrà impedirlo in modo alcuno, salva sempre la cor- risposta come per l’avanti. mM € Riflettendo inoltre, che qualora dal Proprietario del Latifondo la sudetta Suddivisione si effettuasse col mezzo di vendita assoluta, potrebbe ritrovarsi un ostacolo nella prelazione, la quale appunto in caso di vendita competesse Jure i 3 734 DOCUMENTO LV Retractus al Possessore del Fondo contiguo, perciò Vogliamo, e Dichiariamo, che alla occasione delle suddette Suddivisioni dei Latifondi non possa aver mai luogo questa prelazione per il titolo sudetto del Retrattn, tanto se sia esso pro- pemignto dal Diritto Commune, come dalle Costituzioni Apostoliche e dalle Di- sposizioni Statutarie, giacchè tali Privilegj sono direttamente contrarj alla desi- derata Suddivisione de’ Fondi, e tendono all’inzrandimento di essi, e perciò ad accrescere il difetto delle troppo vaste Possessioni. VAL Il Pascipascolo parimenti deve per necessaria conseguenza cessare nei Ter- reni che di mano in mano verranno ad essere compresi nel Circondario soggetto alla nuova Tassa di Migliorazione, altrimenti sarebbe essa ingiusta, giacchè li Proprietarj dei Terreni soggetti a dette pretese servitù non avrebbero il modo di ubbidire alla Legge, di secondare le nostre mire, e di esentarsi dalla Tassa. Dichiariamo pertanto, ed Ordiniamo, che non possa impedirsi sotto qualsisia pre- testo la sudetta divisione di Latifondi, o introduzione di una miglior Coltura a quelli, che hanno il diritto di seminare, e raccogliere nei Terreni, ove altri di godere il Pascipascolo: Sarà bensì obbligato quegli che intende di coltivare stabilmente il Predio, o Possessione soggetta alla suddetta pretesa servitù del Pascipascolo, di darne il dovuto compenso a chi è realmente in possesso di godere una, tale servitù, nel modo e forma però, che verrà prescritto nelle Disposizioni, che prima della esecuzione della presente nuova Lesge cioè prima del 1804, si pren- deranno a parte sopra li Pascoli. 4. Rimossi in questa guisa gli Ostacoli, dai quali li Proprietarj de’ Lati- fondi potrebbero essere trattenuti dal Suddividere li loro Terreni, abbiamo ere- duto di occuparci altresì a togliere tutte quelle Difficoltà, le quali potrebbero impedire, che i Coltivatori si fissassero stabilmente nei terreni suddivisi. x E primieramente non è sfuggito alla nostra attenzione l’ importante oggetto, che tali Coltivatori non vengano mai a mancare d’acqua nè per gli usi, e bisogni della Vita, nè per quelli del Bestiame. Noi veramente non crediamo, che la , DOCUMENTO LV 735 mancanza di un tal'Elemento possi essere un ostacolo alla fissa permanenza dei Coloni nei Terreni, li quali si anderanno suddividendo, giacchè infinite sono le fonti, che si trovano sparse tanto nell'’Agro Romano, che nelle adiacenti Cam- pagne. Senza di esse in fatti non riuscirebbe di tenere il Bestiame a Pascolo circa 8 mesi dell’anno come accade, E queste Fonti si potrebbero moltiplicare di più, ove si procurasse rinvenire le Acque, che in tanta copia esistevano anti- camente, e ché ora sono perdute. In dette Campagne si veggono in fatti molti Rivi correre sulle pubbliche strade senza Forma, o Canale, che li contenga, e però una gran parte se ne disperde. A misura pertanto, che col mezzo della suddivisione la Coltura e la Popolazione si anderà estendendo, Vogliamo, che la Deputazione Annonaria si occupi, e procuri, che qualcuno non impedisca l’altro Possessore, o:Colono di ottenere l’acqua, che è alla sua portata, nè col pretesto d’inveterate consuetudini, o di pretese servitù, diritti ed acquisti, giacchè quando senza manifesto danno dell’oppositore altri goda di questo Elemento, non deve lagnarsene. E se alcuna di dette nuove Popolazioni o Colonie non potesse procu- rarsi il necessario soccorso dell’acqua, dovrà essa Deputazione fare, che si esca- vino dei Pozzi, unica risorsa di tanti paesi altronde celebri per l'Agricoltura, ma che hanno la disgrazia di mancare di Sorgenti di Acqua. P 1 Abbiamo in seguito rivolta l’attenzione in fare, che allo stabilimento dei Coltivatori nei suddivisi Terreni non avesse mai ad essere di ostacolo la insa- lubrità del Clima, che tanto da tutti si teme nelle Campagne Romane. E seb- bene Noi siamo intimamente persuasi, che la Coltura, e sopra tutto la Pianta- zione degli Alberi si andrà progressivamente estendendo nei Latifondi, li quali si suddivideranno, anderà altresì dileguandosi affatto una tale insalubrità; Nul- ladimeno abbiamo veduto, che questi buoni effetti potrebbero restare frastor- nati, ove dai nuovi Coloni si trascurassero li Scoli: Onde incarichiamo la Depu- tazione Annonaria, che ed ora, e in appresso si occupi con particolare atten- zione di questo oggetto interessante. A misura, che la Divisione degli stessi . Latifondi anderà progredendo, dovrà fare, che col mezzo di Persone intelligenti, e perite venga determinato lo scolo delle Acque tanto pluviali, che di sorgenti, | comedebba quello che è in sito auperiote dirigerle, come debba riceverle l’ inferiore, e far loro proseguire il corso, e come debba usarne uno senza danno dell’altro, 736 DOCUMENTO Lv , ed insieme dove si abbiano a fare li Fossi, o Cavi per lo scolo delle Aeque *dei Campi, e con qual direzione, e questo in tutti i luoghi, ne’ quali si scorgerà ri- manere delle Acque Stagnanti. II. Ma per garentire intieramente li nuovi Coloni dai perniciosi effetti della insalu- brità dell’Aria poco gioverebbe allo Scolo dei Campi, se nello stesso tempo non si rimediasse anche a quei Stagni. li quali originati forse in gran parte dall’ab- bandono degli Scoli, al presente però esiggono maggiori, e più forti provvedi- menti; e continuando ad esistere, non solo impedirebbero, che la Popolazione si fissasse stabilmente nelle Campagne adiacenti a tali Stagni, ma eziandio nelle più lontane, giacchè le cattive Esalazioni di detti Stagni non restano confinate sopra la loro superficie, ma col veicolo dei Venti, e sopratutto Australi sono portate ad infettare d’ogni intorno le Campagne alla distanza di molte miglia. Pio Sesto Nostro immediato Predecessore di Gloriosa Memoria veramente ha in gran parte prevenuto il bisogno, ed i nostri desiderj, avendo lodevolmente procurato il disseccamento della maggiore, e più vasta superficie di queste Acque stagnanti, qual’era quella delle Paludi Pontine; e mentre una tale operazione è stata di tanto giovamento all’Agricoltura, ha avuta una felice influenza eziandio sul miglioramento dell’Aria, giacchè è provato, che i Venti Australi facevano giungere fino alla distanza di più che 40 miglia li perniciosi effetti della pestifera Esalazione di siffatte Paludi; contuttociò non lasciano pur troppo di esistere molte altre fatte Paludi; contuttociò non lasciano pur troppo di esistere molte altre Acque Stagnanti. Lo Stagno di Ostia, che è sì vicino a questa Nostra Ca- pitale, ritrovasi in uno stato infelicissimo, giacchè riceve in ‘esso le Acque dei Terreni adiacenti, senza alcun rinfrescamento di Acque perenni, che non vî sono, e restando da altra parte quasi sempre serrato alla communicazione col Mare, corrompe assaissimo l’aria dei luoghi circonvicini. Meno insalubre è lo Stagno di Maccarese posto al Ponente del sopradetto d’Ostia, poichè Esso è rinfrescato da un Fiume, che piglia le Acque perenni del Lago di Bracciano, le quali colla loro freschezza, ed abbondanza riparano in parte alla putrefazione delle sue acque, e mantensono assai meglio aperto l’Emissario nella Spiaggia Marittima. Ma anche questo non toglie di essere funesto all'aria delle circonvicine Cam- pagne. Allo stesso oggetto dell’imperversamento dell’aria contribuiscono eziandio . DOCUMENTO LV 737 molti Laghi, e Piscine disperse in varie parti della Campagna Romana, cagioni più, o meno nocive alla salubrità dell'aria specialmente nei grandi calori della E tate. E se all’imperversamento, ed insalubrità dell’aria nelle Campagne stesse influisce lo stagnamento delle Acque racchiuse nel Cireondario dei Laghi, e dei Stagni di sopra indicati, v' influisce egualmente lo stagnamento di tanti Pantani sparsi in tutta la superficie delle Campagne medesime, o sia di tanti Terreni, *nei quali trascurandosi il regolamento dei Fiumi, o dei Ruscelli, o degli Scoli Maestri delle Pianure, l'inconveniente è tale, che fa restare questi Terreni spesso sott’acqua nell'inverno, ed al tempo, in cui sopraggiunge la Primavera, trovansi arcora inondati delle Acque Invernali, e quindi devono consumarsi a poco a poco colla forza dei raggi del Sole, passando prima alla putrefazione, e poi in pestiferi Vapori nell’Atmosfera. La vasta superficie del così detto Campo Salino, la tenuta di Porto, e quella di Maccarese, che prese insieme ascendon alla rispet- tabile quantità di circa sei mila Rubbia, sono di questo genere, e di più sono vicinissime alla Capitale. È quindi nostra espressa Volontà. che la Deputazione Annonaria immedia- tamente dopo la pubblicazione della presente nostra Cedola di Moto proprio incarichi uno, o più Ingegneri e Matematici di visitare, ed esaminare attenta- mente la situazione, e le circostanze locali di tutti li sovraccennati stagnamenti di acque, e degli altri ancora, che sotto la volzare denominazione di Piscine si ritrovano tanto nell’Agro Romano, quanto in tutta l'estensione delle Provincie Suburbane, occupandosi degli opportuni mezzi di procurare lo stabile dissecca- mento delle predette acque stagnanti col mezzo facile, e poco dispendioso delle Colmate, e dove questo metodo non fosse praticabile, tentando di ritrovare li mezzi capaci di dar corso alle Acque stagnanti, riducendole in forme profonde, e di poca superficie, o ancora in Fontane perenni, lo che sarebbe anche più desiderabile. Le piccole operazioni, ove non cade, se non se il lavoro parziale di pochi luoghi, e solamente lo scolo facile delle Acque, il ridurle a minor superficie, aprir loro la Strada nei fossi, ed altri non grandi dispenciosi e generali lavori, dovranno farsi all'istante da tutti i Possessori, subitochè la Deputazione Annonaria avrà stimato di ordinarle, munendola Noi a tale effetto di tutte le facoltà necessarie, ed opportune, e senza Appello, riservando alle parti, che si credessero gravate, solamente il ricorso in Devolutivo; giacchè non deve impedirsi dagli altri Pos- sessori il miglioramento dell’Aria, e l’asciugamento delle acque stagnanti per qualunque pretesto, e ragione d'interesse particolare, i s47 738 DOCUMENTO LV Nelle grandi operazioni però, ove il concorso, e la spesa di uno, o più di- stretti fosse necessaria. formerà la detta Deputazione Annonaria il Piano con l’ajuto di valenti Professori Idrostatici, e lo passerà per la approvazione, allo Esame della Congregazione Economica. Volendo che assolutamente in breve spazio di tempo si tolgano onninamente tutti i ristagni d’acqua dalle Campagne Romane; li quali tolti, certamente diverrà l’aria migliore, se non perfetta. Anzi nei detti lavori grandi, e per così dire comuni ad uno, e più distretti, - Vogliamo, che la nostra Camera soggiaccia alla quinta parte della spesa; in tale caso però oltre l'approvazione della predetta Nostra Congregazione Economica Vogliamo che sia da questa sentito ancora il parere della Congregazione delle Acque, per farne a Noi l’opportune relazioni, onde dare gli ulteriori provvedi- menti per la Esecuzione. Intanto se qualche Particolare, che abbia Terreni bassi, ed inondati, volesse intraprendere il disseccamento col suddivisato metodo delle Colmate, lo autoriz- ziamo a farlo, permettendogli a tale effe!ito di poter con gli opportuni canali deviare la necessaria quantità di acque dei diversi Fiumi, li quali fossero a por- tata de’ predetti suoi Terreni; ma intendiamo peraltro, che prima di metter mano al lavoro esponga alla medesima Deputazione Annonaria il metodo, che intende di tenere nel lavoro, per riportarne dalla medesima l’opportuna appro- vazione a scanso di quei danni, che l’imperizia potrebbe cagionare ai Privati, ed al Pubblico; e Volendo Noi, che colla maggiore celerità si venga a dare scolo, e regola alle acque stagnanti, Dichiariamo, che se i Particolari trascureranno di farlo, si farà dalla Deputazione Annonaria a spese del Propristario o Proprie- tarj. E a tale effetto tutto ciò che potesse frapporsi di ostacolo ai lavori sud- detti per causa di Giurisdizione, di patti, di costumanze, di servitù, e simili, Dichiariamo intieramente tolto: e Vogliamo, che le liti, che potrebbero nascere per tal causa, siano decise sommariamente dalla predetta Deputazione Annonaria, senza che mai possa perciò ritardarsi l’opera, che si sarà intrapresa per tale importante oggetto. IV; Nel provvedere però in questa guisa a rimuovere gli ostacoli fisici, che po- potessero frastornare li buoni effetti, che dalla divisione dei Latifondi debbono naturalmente derivare alla loro migliore coltura, non abbiamo tralasciato di pensare ancora a prevenire gli ostacoli morali. L’uomo isolato, e lontano dal DOCUMENTO LV 739 soccorso dei suoi simili sente la propria debolezza. E però affiachè dal fissarsi nei suddetti Latifondi, che si anderanno di mano in mano suddiv.dendo, altri non si astenga pel timore di dover mancare di quelli aiuti sì spirituali, che tem- portali, che si trovano vivendo in società, e nei Inoghi abitati; Vogliamo in primo luogo, che a misura, che la popolazione si anderà diramando in siti lontani più di quattro miglia dalle Città, Terre, ed altri luoghi, dove al presente esiste la Chiesa Parrocchiale, si debba venire alla Erezione di una nuova Parrocchia, ac- cordando a tal effetto fin da ora le necessarie, ed opportune facoltà ai rispettivi Ordinari. E perchè questi nuovi Parrochi abbiano la loro congrua sussistenza, senzachè per essa li Coltivatori abbiano a soggiacere ad alcuna Decima, Vogliamo che dalla Cassa della Deputazione Annonaria si passino a ciascuno di essi annui scudi centocinquanta insino a tanto che stabilmente da Noi, e da’ nostri Succes- sori pro tempore, non si sia pensato ad assicurar loro Ja predetta congrua di seudi centocinguanta o coll’applicazione di Beneficj semplici, o con assegnare, ed unire a dette nuove Parrocchie alcuni de’ tanti obblighi, che hanno le Chiese, e Luoghi pii di questa nostra Capitale, o finalmente colla dotazione, che si fa- cesse da qualche particolare. E in questa guisa restando realmente provveduto al congruo mantenimento dei medesimi nuovi Parrochi, Vogliamo, che Essi nulla percepiscano, se non per l'associazione de’ Morti, per le fedi di Battesimo, per quelle de’ Matrimoni, e dei Morti, su di che si daranno in appresso le opportune precise Istruzioni. Vi Siccome è innegabile, che in alcuni luogli l’aria non è perfetta, nè lo sarebbe ancor quando tutte le cautele relative ai ristagni d’acqua si fossero praticate, e la maggiore coltivazione si sarà ottenuta, e che mirabilmente perciò gioverà in tali circostanze l’abitare unitamente; così per facilitare il conseguimento di | oggetto così interessante oltre che col ritratto della più volte nominata nuova tassa di migliorazione si fabbricherà una Chiesa, non meno che una piccola Casa per il Parroco, ed il Chirurgo in questi luoghi destinati a divenire dei Villaggi, ed anche delle piccole Comunità, si accorderà una gratificazione di scudi duecento- cinquanta a tutti quelli, che nei suddetti luoghi fabbricassero una Casa Colonica. La deputazione Annonaria dovrà peraltro stabilire il luogo, ove convenga fissare la popolazione, lontana non più di quattro migli» dalla prossima Parrocchia, ed 740 DOCUMENTO LV inoltre esser ben cauta, che la Casa Colonica sia fabbricata con i sufficienti commodi, onde il predetto accordato incoraggiamento sia bene impiezato, con fare a tale effetto pervenire agli agricoltori, e da per tutto, ove lo giudicherà opportuno, il disegno, e specialmente le dimensioni, che deve avere una Casa per meritare il premio sopra indicato. Potrà ancora fare dei Modelli per indicare, in qual modo debba costruirsi una Capanna abitabile, ed in alcune parti murata; e per la costruzione di questa si accorderanno scudi cinquanta di premio: come pure si accorderà la gratificazione di scudi trenta a chi verrà alla Costruzione di un Pozzo. Nello stabilire il luogo atto a formare il piccolo Paese avvertirà però detta Deputazione Annonaria non solo alle circostanze della esposizione, del commodo per accedervi con facilità, ma eziandio osserverà, se possono stabilirsi nuovi Paesi sulle ruine. e vestigie de’ vecchi, che spessissimo s’ incontrano in queste Campagne, e i quali fanno fede delle popolazioni ivi di già esistenti, e della opportunità della scelta in preferenza di altri luoghi novelli. Sarà anche cauta la detta Deputazione di fare, che l'impianto del paese non sia difettoso, che si mantenga la commoda larghezza delle Strade, e tutt’altro, che stimerà opportuno per ottenere il maggior commodo, la polizia e la salute degli Abitanti. Non viene però disdetto di fabbricare Case Coloniche, Capanne, ed ogni altro ricovero, ovunque piaccia, ma non si darà l’incoraggiamento, ed il premio, che a coloro, i quali si uniranno insieme a formare delle piccole popolazioni, più capaci di difendersi così dai cattivi influssi dell’Aria insalubre. Se peraltro in qualche luogo particolàre tanto dell’Agro Romano, come delle contermini Pro- vincie, l’Aria permettesse, che potessero li Coltivatori abitare impunemente, e senza inconveniente anche sparsi e segregati gli uni dagli altri, come si prattica nelle Provincie più lontane dello Stato; in tal caso sebbene le Case, e Capanne, che si costruissero, fossero fra di loro divise, e piantate nel Centro delle rispet- tive Possessioni, non si lascierà di passare loro li medesimi premj, e gratifica- zioni or ora promesse. E perchè anche questi Coltivatori sparsi, e situati nelle rispettive loro Pos- sessioni non vengano a mancare di quegli ajuti sì spirituali, che temporali, come sopra destinati agli Agricoltori insieme uniti nei Villaggi: Vogliamo che anche nel caso, di cui si tratta, non solo vengano costruite delle Chiese Parrocchiali in quel numero, località, e precisa distanza l’ una dall’ altra, che esigerà il co- modo degli anzidetti Agricoltori abitanti alla Campagna, ma che inoltre la De. e e DOCUMENTO LV 741 putazione Annonaria prenda le opportune misure, e fornisca i mezzi, onde li suddetti Agricoltori così sparsi nella Campagna non manchino essi pure dell’as- sistenza di un Chirurgo, che ivi tenga la sua stabile dimora. VI. Vogliamo in fine, che a misura, che i suddetti nuovi Coloni si scosteranno dai luoghi abitati per estendere la Coltura, nei più volte ripetuti Latifondi al presente deserti, ed incolti, abbiano il commodo degli Artisti i più necessarj, cosicchè per causa di formare nuovi utensili agrarj, o di accomodare quelli, i quali, esistono, non abbiano da discostarsi dai lavori campestri per portarsi nei più vicini luoghi abitati a ricercare l’opera di detti Artisti; e perciò dovrà essere parimenti cura della Deputazione Annonaria di stabilire un Fabro Ferraro, ed un Legnajolo atto a fare, e ad accomodare Carri, Aratri, Botti, ed altri attrezzi della coltivazione ad uso delle Famiglie, di tratto in tratto, e in modo, che possano servire commodamente più di una delle indicate nuove Parrocchie, com- binando con essi qualche particolare vantaggio. 5. Sebbene la maggior coltura dei Terreni porti seco un largo premio agli Uomini industriosi, e non dubitiamo, che tuttociò, che finora abbiamo ordinato, vaglia, e sia sufficiente per produrre l’effetto di restituire le circonvicine Cam- pagne a quella florida coltivazione, ch’esse un tempo offrivano, e che realmente scorgesi nelle altre Provincie del nostro Stato Ecclesiastico, dove li Terreni si trovano maggiormente suddivisi; nulladimeno per allettare, ed eccitare sempre più î Coloni, fra i quali verranno suddivisi i detti Latifondi, a non trascurare nulla di ciò, che possa contribuire a questa maggior coltivazione, abbiamo cre- duto in fine di aggiungere tutte le maggiori possibili facilitazioni. ed incorag- giamenti, cosicchè nasca in esso il determinativo più efficace della volontà. E primieramente moderando quanto è stato da Noi disposto all’Articolo undecimo del Capitolo III della nostra Cedola di Motu proprio delli 4 novem- bre 1801, Vogliamo che in tutte le Doti, che tanto in Roma, quanto in qua- lunque parte delle Provincie Suburbane sogliono annualmente distribuirsi, e che 742 DOCUMENTO LV per disposizione espressa li Testatori, ed altri Institutori non sono determinate ad una Classe speciale, ed individuale di persone, fra le Figlie degli Agricoltori debbbano sempre preferirsi quelle dei Coloni, che di mano in mano si stabili- ranno nei Latifondi, li quali in seguito della presente Nostra Legge si anderanno suddividendo, II Siccome la forza delle Famiglie Contadinesche consiste nel maggior numero degl’individui, de’ quali si compongono le Famiglie stesse, e il padre non ap- prende il Figlio, che gli nasce, come un peso, ma bensì come un ajuto, col quale potendo abbracciare maggior lavoro migliorerà la sua condizione; così inerendo alla prattica saviamente introdotta nella maggior parte di tutti gli altri Stati in cui li Fanciulli esposti, ed illegittimi, che in passato rimanevano a carico degli Ospedali. da qualche tempo a questa parte con grandissimo profitto s’in- camminano alla coltivazione delle Campagne; così Vogliamo, che presentandosi all’Archiospedale di S. Spirito, e da per tutto. ove esistono Ospedali, e Ricoveri simili, alcuno dei sudetti Coloni che si stabiliranno nei Latifondi come sopra suddivisi, per avere un Projetto, venga loro accordato a preferenza di qualunque altro, che ne facesse ricerca, e che dallo stesso Luogo Pio si dia quell’assegna- mento mensuale secondo il costume del suddetto luogo Pio, a cui appartengono. La qual provvidenza intendiamo, che abbia luoso eziandio per quei Fanciulli di gente povera rimasti in età molto tenera privi di genitori, e senza soccorse di altri, li quali si trovano raccolti nei diversi Orfanatiofj. III, Affinchè li adattata Coltivatori dei Latifondi, li quali si anderanno suddividendo. non abbiano a distogliersi dai loro utili lavori per accudire alle liti alle quali potessero essere sottoposti, Vogliamo, che non possano essere ‘chia- mati in giudizio nei tempi, che il Coltivatore o Colono sia impiegato nella se- mina, e raccolta del grano, e altre granaglie, e nelle faccende della vendemmia, o raccolta degli Olivi; Ed anzi riflettendo, che quanto più si studierà di rimuo- vere fra di essi le occasioni delle liti, e delle dissensioni, altrettanto saranno più diligenti, costumati, ed industriosi; perciò quando non riesca ai rispettivi Par- pre. 1° DOCUMENTO Lv 743 roci di comporre, ed ultimare tali liti nella loro nascita, (su di che raccoman- diamo loro tutta la maggiore possibile attenzione) Vogliamo che tali liti si de- cidano nella maniera la più sommaria, e precisamente, come in forma delle Co- stituzioni Apostoliche, e di una inveterata Consuetudine si prattica in questa nostra Capitale nelle liti, le quali vengono portate alla cognizione, e al Tribunale del così detto giudice delle mercedì, avanti al Tribunale giudiziario della Depu- tazione Annonaria, che agirà o da sè medesima, o per mezzo di Delegati nel medesimo modo, è forma, che il detto giudice delle mercedi: nè vi sarà ricorso, o revisione dal primo giudicato, che in Devolutivo, AV Premendoci poi sopra tutto, che nei Latifondi, li quali in vigore della pre- sente nuova Legge si anderanno di mano in mano suddividendo, resti al pos- sibile animata la Piantazione degli alberi, la quale si rende tanto interessante per l’influenza, che ha sul miglioramento dell'Aria, è Nostra Mente, che come coll’altro Nostro Motu proprio degli 11 Marzo 1801 abbiamo accordato general- mente in tutto lo Stato una gratificazione a chiunque farà una piantazione di Olivi, così Vogliamo, che ne’ sudetti Latifondi abbia un premio eziandio la pian- tazione di tutti quegli altri Alberi, come Olmi, Pioppi, Quercie, e Oppij, e similt, a sostenere le viti, e ben inteso, che siegua realmente un tale accoppiamento, dimochè nei Latifondi suddetti, li quali si anderanno di mano in mano come sopra suddividendo, per ciascuno di detti Alberi ai quali si accoppierà la Vite, percepirà il respettivo Proprietario, o Agricoltore il premio di un Mezzo Paolo, osservate nel rimanente le regole, e cautele ordinate nel premiare la piantazione degli Olivi. In questa guisa in fatti Noi abbiamo veduto, che all'influenza diretta, che in genere hanno tutti gli Alberi sulla purificazione dell'Aria, si aggiungerà l’altra particolare, ed indiretta, cioè, che mediante questo metodo di porre le Viti agli Alberi, e come dicesi generalmente, ad Albereti, e Piantate, felicemente pratti- cato in tutte le altre più lontane Provincie del Nostro Stato Ecclesiastico, ac- caderà, che nelle Campagne Romane, le quali si anderanno a poco a poco re- stituendo alla coltura, non vi sarà di bisogno di quella quantità grande di Can- neti, che nelle Campagne stesse si sogliono al presente tenere per servire alla coltivazione delle Viti, e li quali non possono non ridondare in preg iudizio del- 744 DOCUMENTO LV l’Aria per li ristagni di acqua, che necessariamente occasionano; e si avrà inoltre l’altro apprezzabilissimo vantaggio della moltiplicazione della Legna tanto da ardere, che da lavoro, V. Persuasi poi come siamo di questa influenza degli Alberi sulla purificazione dell’Aria, non siamo contenti di restringerci ad animarne ed incoraggirne la pian- tazione, e la coltura nei tratti di Paese, che in seguito dei presenti Nostri Prov- redimenti si anderanno progressivamente suddividendo, e restituendo alla Col- tura; Ma intendiamo di eccitarla, e promuoverla anche fuori de’ Circondari stessi, e in quei luoghi principalmente, dove per essere più sottoposti all’aria cattiva, maggiormente abbisognano di provvedimento, che è quanto dire, in tutta quella parte tanto dell'Agro Romano, quanto delle più volte ripetute Provincie Subur- bane, le quali confinano col mare, avendo preso di mira particolarmente li Pini, li Cipressi, li Licini, ed altri simili alberi di gran fusto, sì perchè questi più degli altri influiscono alla purificazione dell'Aria, sì perchè essendo i loro fusti avidamente ricercati, e pagati assaissimo dagli Esteri per li diversi usi inservienti specialmente alla navigazione, la sicurezza di aprirsene col tempo un ricco campo di commercio co’ medesimi, può maggiormente animare i respettivi Proprietari ed intraprenderne la piantazione, e la coltura. In vista di questo oggetto abbiamo già date le opportune Disposizioni, perchè subito si formino de’ Vivaj, o Piantinari di ciascuna delle sudette divisate specie di alberi in modo da somministrarne gratuitamente tutta quella quantità che occorrerà a guarnirne le dette Spiaggie del Mediterraneo. Siccome però dovrà passare qualche Anno prima che tali Piante nei sudetti Vivaj siano cresciute al punto di trapiantarsi come sopra alla Spiaggia con si- curezza, che vi allisnino, e per conseguenza probabilmente soltanto nell’Anno 1807 potranno essi distribuirsi: Così Vogliamo, che intanto incominciando dal venturo anno 1803 tutti quei Possidenti, e rispettivi Agricolori, ai quali riu- scendo di averne altrove, ne piantino qualunque quantità nel sudetto nostro Littorale Pontificio del Mediterraneo, conseguiranno un premio di Mezzo Paolo per ogni pianta sulla Cassa della Nostra Deputazione Annonaria, osservate però le regole, e cautele prescritte in detto Motu proprio degli 11 marzo 1801 a fine di prevenire le fraudi, ‘e le collusioni: e siccome bene spesso accade, che si abban- . DOCUMENTO LY 746 donino le piantazioni senza difenderle, e coltivarle, perciò Vogliamo che non ab- biano meno di Anni Cinque dopo piantati, perchè ottengano il premio sopra- detto. 6. Aggiungendo tutti questi vantaggi, e questi incoraggimenti al divisato Prorvedimento della Imposta nuova Tassa di Migliorazione, e così interessando le due molle, che muovono principalmente il cuore umano, cioè il Premio e la Pena, punto non dubitiamo, che non abbia realmente ad ottenersi l’intento da tanto tempo desiderato ma non mai conseguito, che fe Campagne Romane per- vengano finalmente a quello stato di florida coltivazione, che un tempo esse offrivano, e che a) peresente si scorge in tutte le altre più lontane Provincie dello Stato Ecclesiastico. E perciò altro in fine non ci rimane a provvedere, se non che alla esatta, e stabile osservanza di tutti, e singoli provvedimenti contenuti nella presente nostra Uedola di Motu proprio, onde anche della medesima non abbia ad acca- dere ciò che è successo di tanti provvidi stabilimenti, li quali non per altra ca- gione non banno corrisposto alla loro espettazione, se non perchè se n’è in pro- gresso di tempo trascurata la esecuzione, e l'osservanza. i Al qual’effetto nel raccomandare alla Deputazione Annonaria di usare di tutta la maggiore attività, e diligenza in proposito della divisata esecuzione dei Provvedimenti contenuti nella stessa Nostra Cedola di Motu proprio, Vogliamo, che due volte in ciascun Anno, cioè alla fine di Giugno, e alla fine di Decembre, debba la medesima Deputazione Annonaria esibire alla Nostra Congregazione Economica una dettagliata Relazione in iscritto degli andamenti, che avranno li Provvedimenti medesimi nelle diverse parti, nelle quali avranno luogo, cosicchè col mezzo della Congregazione stessa possiamo esserne informati per dare le ul- teriori opportune Providenze; Volendo inoltre, che alla predetta Congregazione Economica debba la medesima Deputazione Annonaria ricorrere in tutti i casi dubbj, e che esigessero un qualche schiarimento. Per quello però che concerne l’Amministrazione del denaro proveniente dalla più volte ripetuta nuova Tassa di migliorazione, e di cui dovrà tenersi Cassa, e Conto a parte; come pure della erogazione del medesimo denaro nei diversi usi diretti al favore dell'Agricoltura, che si sono prescritti nella presente Nostra Cedola di Motu proprio, inerendo a quanto con la Nostra Costituzione Post Diu- turnas abbiamo prescritto per tutti gli altri Dipartimenti Amministrativi, Vo- 746 DOCUMENTO LV gliamo, che la stessa Deputazione Annonaria parimenti due volte in ciascun Anno, cioè alla fine di Giugno, e alla fine di Decembre, renda un esatto conto in iscritto al pieno Tribunal della Camera onde col mezzo del medesimo Tribunale della piena Camera possiamo esser assicurati, che il denaro si eroghi veramente nel modo qui sopra stabilito, colla maggior possibile precisione, poichè tale è mente e volontà Nostra espressa. Volendo, e decretando, che colla presente Nostra Cedola di Motu proprio benchè non esibita, nè registrata in Camera, e nei suoi libri, non possa mai darsi, ne opporsi di surrezione, orrezione, ne di alcun altro vizio o difetto della Nostra Volontà ed intenzione, ne che mai sotto tali, o altri pretesti, quan- tunque validi, validissimi e giuridici, anche di Jus quesito, o pregiudizio del terzo, possa essere impugnata, revocata, o moderata, ridotta ad viam Jurîs, e concedersi contro di essa l’aperizione Oris, o altro qualunque rimedio, e che così e non altrimenti debba sempre, ed in perpetuo giudicarsi, definirsi, ed interpre- tarsi da qualsivoglia Giudice, o Tribunale benchè collegiale, Congregazione anche di Rmi Cardinali Legati a Latere Vice Legati, Camerlengo di S. Chiesa, Teso- riere, Rota, Camera, e qualunque altro, togliendo loro ogni facoltà e giurisdizione di definire, ed interpretare in contrario: dichiarando Noi fin d’adesso preventi- vamente nullo, irrito, ed invalido tuttociò, che da ciascuno di essi con qualsi- voglia autorità, scientemente, o ignorantemente fosse in qualunque tempo giudi- cato, o si tentasse di giudicare contro la forma, e disposizioni della presente Nostra Cedola di Motu proprio, quale vogliamo che: vaglia e debba aver sempre ed in perpetuo il suo pieno effetto, esecuzione e vigore, colla semplice Nostra Sottoscrizione, benchè non ci siano state chiamate, sentite, o citate qualsisiano persone ancorchè privilegiate, privilegiatissime, Ecclesiastiche e Luoghi Pii, che avessero e pretendessero avervi interesse, e per comprenderle fosse bisogno di special menzione: Nonostante la Bolla di Pio IV De Registrandis, la regola della nostra Cancelleria De jure quesito non tollendo, e nonostante ancora tutti, e qual- sisiano Chirografi, Brevi Ordinazioni, e Costituzioni Apostoliche Nostre e dei No-. stri Predecessori, Bandi, Editti in virtù di essi, ed in qualunque modo emanati, affissi, e pubblicati, Leggi, Statuti, Riforme, Stili, e Consuetudini, e qualunque altra cosa, che facesse, o potesse fare in contrario; Alle quali tutte, e singole ‘avendone il tenore quì espresso, di parola in parcla inserto, e registrato, e sup- plende colla pienezza della Nostra Potestà Pontificia ad ogni vizio, o difetto quantunque sostanziale, e formale, che vi potesse intervenire, per questa sola i na di quanto si contiene nella presente | o, spiano, MISE RE forme DeL 0 Apontolico Quirinale questo ai 15 settembro 1802, | Pius PP. VII. 748 DOCUMENTO LVI DOCUMENTO LVI. EDITTO. ERCOLE di S. Agata alla Suburra Diacono, della S. R.C.CARDINAL CONSALVI, della SANTITA’ DI NOSTRO SIGNORE Segretario di Stato. Nella massima inconcussa, e generalmente osservata presso tutte le Nazioni, che le Selve, o Macchie, e le Piantagioni di Alberi così da frutto, come da la. voro vengano riguardate come una regalìia inerente alla Sovranità tanto per l'importante oggetto della pubblica salute, quanto per la sussistenza, e pubblica economia dello Stato, furono ognora dalle Leggi costantemente disposte le più efficaci providenze contro tutti coloro, che o per oggetto di commercio, o per proprio privato comodo si facessero lecito d’intraprendere de’ tagli di Alberi | senza ordine, distinzione, o limitazione alcuna. Lo zelo de’ Sommi Pontefici non trascurò in questa parte le più adeguate ” misure, e frà gli altri più di recente si distinsero su questo proposito i due Sommi | Pontefici di sa. me. Clemente XIII, e Pio VI., il primo de’ quali con Editto . emanato per organo della Segretaria dello Stato nel 1765 proibì che niun taglio di Alberi da costruzione potesse farsi nelle Macchie Camerali, e Comunitative, se non precedesse la sua Sovrana intelligenza, ed approvazione: L'altro con Editto consimile pubblicato nel 1’789, ampliò la stessa Legge, e la estese alle Macchie, e Piantagioni de’ Particolari, stante l’abuso introdottosi nelle vendite, e la irre- golare esecuzione dei tagli senza riguardo alcuno all’economica sussistenza dello Stato, e molto più alla salubrità dell’aria per il riparo vantaggioso, che oppon- gono gli Alberi ai venti nocivi. Col corso degli anni, e presso le vicende de’ tempi, non ha mancato l’umana malizia di defraudare in diversi rapporti sì provvide disposizioni, e di eluderne gli effetti: Per tal motivo mediantì i tagli più estesi, ed indistinti di Alberi, e di Macchie, non autorizzati da verun legittimo permesso, si sono rinnovate le più erniciose conseguenze tanto in relazione all’economica sussistenza dello Stato 4 ? DOCUMENTO LVI 749 quanto alla salute delle Popolazioni Pervenuti alla SANTITA DI NOSTRO SI. GNORE PAPA PIO SETTIMO felicemente Regnante, molteplici ed energici ri- corsi di non poche delle medesime Popolazioni sull’insalubrità del Clima de’ loro Paesi, che non sperimentata per fo innanzi, allorchè erano in piena attività, ed osservanza le providenze disposte per la regolare conservazione delle Macchie, e Selve, si era poi fatta sentire ne’ suoi effetti colla riproduzione di epidemiche influenze in varie successive stagioni, in seguito di un arbitrario, ed irregolare taglio di Alberi fatti in alcune Macchie, e Selve, dopo aver prese le più accu- rate informazioni da locali Giusdicenti, ed esplorato il sentimento de’ più va- lenti Professori Fisici, che tutti si sono riuniti nel medesimo giudizio della ne- cessità di apprestare un vigoroso riparo al disordine di simili tagli, dopo avere eziandìo interpellato il parere della Sag. Consulta Magistrato Supremo di Sanità, che uniformemente ha rappresentata una stessa indispensabile necessità, la SAN- TITAÀ SUA ci ha comandato di pubblicare nel suo Sovrano Nome il presente Editto, mediante il quale (senza che restino pregiudicate le inquisizioni pendenti sulle correlative trasgressioni occorse in passato) venga a consolidarsi vieppiù la piena osservanza delle preesistenti disposizioni, e se ne aggiungano delle nuove conducenti ad estirpare gli abusi successivamente introdotti in materia. Coman- diamo dunque nel Sovrano suo Nome. «PRIMO. Che niuna persona nelle Provincie dell'Umbria, Patrimonio, collo Stato di Castro, e Ronciglione, Lazio, e Sabina, come pure in tutta l’estensione dell'Agro Romano, si faccia lecito in avvenire, anche sotto specie, o per causa di diralamento, di tagliare, o far tagliare Albero, o Alberi di Quercia, Ischia, Farnia, Cerro, Tiglio, Olmo, o quegli Alberi, che producono frutto di Ghianda in qualunque macchia, o Selva Matricina non solo Camerale, o Comunitativa, ma anche Baronale, o appartenente a Luoghi: Pii, Commende di Ordini Religiosi, benchè Gerosolimitano, ed a qualunque Corpo, o Persona di qualsivoglia pree- ‘minenza, grado, stato, o condizione ancorchè Ecclesiastica Secolare, o Regolare, ed in qualsivoglia modo privilegiata, ed esente, se pria non avrà ottenuta l’e- spressa licenza di SUA BEATITUDINE da chiedersi, e spedirsi per l'organo del Cardinale Segretario di Stato pro tempore. A questo effetto dovrà nella istanza spiegarsi l'ubicazione, qualità, ed estensione della Macchia, come pure la quan- tità del taglio, o diradamento, e la qualità, ed uso, che vorrà farsi del lesname, onde la vigilanza del Sovrano, sentita, giusta il solito, la relazione, e parere della S. Consulta, e di quegli altri Magistrati, che per il loro ufficio possono 750 DOCUMENTO LVI avere nell’affare un qualche interesse, sia in circostanza di determinare se debba o in tutto, o în parte concedere, o negare la richiesta licenza, ed in caso di con- ‘ cessione venzano apposte quelle cautele, per le quali si provveda alla migliore conservazione di esse Macchie, e resti impedito l’abuso, che possa farsi o nel modo, o nella quantità del taglio, proibendo espressamente a chiunque come sopra di contrattare, o per iscritto, o in voce, o di prendere caparra, o rata di da- naro in conto di prezzo prima di avere ottenuta la licenza sotio la pena epressa di nullità del Contratto, perdita di rate, o caparre esatte, e sotto le altre, che si leg- gono in fine del presente Editto, che saranno comuni ad ambo i Contraenti, e ad ogni altro, che avrà parte ne’ Contratti. 2. Nella medesima disposizione s'intendono compresi il diradamento delle Piante giovani, che per la molteplicità, ed afflusso loro pregiudicano alla buona vegetazione, ed all’accrescimento delle Piante medesime: e così pure il taglio degli Alberi, che nelle suddette Selve si trovino vecchi, o patiti, o che giunti già alla maturità comincino a decadere, e non rendano in conseguenza che poco, o niun frutto, e siano inservibili per costruzione, fabbriche, o altri simili usi, mentre a scanzo di abuso eziandio in questi casi, e circostanze dovranno i Pro- prietarj esporre, e dimostrare alla Segreteria di Stato la necessità dell’uno, e dell’altro provedimento per ottenerne il corrispondente permesso. 3. Quanto a quegli Alberi delle specie sopranominate, che sì ritrovano fuori di esse Selve, o siano in Possessioni coltivate, o in qualunque altro luogo, si proibisce di farne contratto di vendita senza l’enunciata Licenza a qualunque uso. 4. Le Selve cedue solite a tagliarsi per Carbone, Legna, o Fascine, come pure i Castagneti cedui, dai quali si hanno Tavole, Travi od altro Legname da Sega, Cerchi, Passoni etc. si continueranno a tenere per quest’uso, facendo i tagli periodici nelle rispettive loro scadenze, con che però si debbano lasciare ir ogni taglio le guide tanto per rimpiazzo di quelle Piante, che naturalmente pe- riscono, quanto riguardo alli Castagneti per avere di quei Legni di massima lunghezza, e grossezza necessarj per le Fabbriche, ed altri usi, i quali però non potranno mai spedirsi, e contrattarsi per fuori Stato senza nostra Licenza come sopra: Proibiamo eziandio espressamente di cioccare in minima parte le Selve, e Macchie in oggi esistenti, tanto le cedue ad uso di Carbone, e Legna, quanto quelle di Castagno. 5. Ad ovviare l’inconvenienti de’ tagli, ed incisioni, che seguono nelle Selve, e Macchie Communitative e Camerali, o anche particolari, ove le Popolazioni TT TI CTR LO e DOCUMENTO LVI 751 hanno il jus lignandi, prescriviamo, e dichiariamo, che questo diritto sia li- mitato, e restretto alla sola legna morta, e così pure ai soli cespugli infruttiferi. Che se venissero atterrati, diramati, o in qualunque modo danneggiati gli Alberi delle medesime Selve, o dai Legnajuoli sudetti, o dai Pastori, o da qualunque altra Persona, non solo restano incaricati i Governatori locali d’invigilare, e pro- cedere sulli Contraventori anche per inquisitionem alle infrascritte pene, ma in- comberà inoltre l'obbligo ai pubblici Rappresentanti per le Macchie Comunita- tive, agli Affittuarj per quelle della Camera, ed ai Particolari per le proprie di | esporne querela negli Atti della loro Curia, ed omettendo di farlo nel termine di tre giorni, incorreranno essi nelle stesse pene, "6. Similmente per impedire i frequenti incendj, che accadono nelle Selve, o in occasione dei fuochi, che fanno i Pastori, o nell’incendio delle ‘ arbonare, o quando in vicinanza di esse Selve si dà fuoco alle stoppie, si fanno Cese, si bru- ciano Sodi, e Sterpeti, si dichiara che i Pastori, e Carbonari occasionando per la loro incuria i detti incendj, siano soggetti alle infrascritte pene, ed in quanto all'abbruciamento delle Cese, Sodi, e Sterpeti, niuno potrà farlo senza eseguire le necessarie diligenze, con formare le Rostre di dodici Solchi, o praticare altri modi, che fossero creduti più proficui, con che si ottenga sempre di rendere pulito il Terreno all’intorno alle Selve medesime per la larghezza di trenta palmi almeno; e mancando a queste diligenze, ancorchè non siano seguiti incendj. sa- ranno a seconda delle circostanze, e dei casi proporzionatamente soggetti alle medesime pene. 7. Perchè poi si abbia un sincero e preciso stato di tutte le Macchie, e Selve di qualunque specie di lesname da costruzione, Cedue, e Castagneti poste nelle sopraindicate Provincie, ed Agro Romano, si ordina, che nel termine di mesi due dalla pubblicazione del presente Editto, ciascuna Comunità, Barone, e Pos- sidente qualunque, c la stessa Reverenda Camera debbano aver dato al Giusdi- cente Locale, da cui si rimetterà poi alla Segreteria di Stato, l’ Assegna, o sia denunzia della ubicazione, della estensione, della qualità delle Macchie, e Selve di loro proprietà, e ragione, distinguendole o limitandole a tre classi: le Cedue da legna, Fascine, e Carbone, li Castagneti, le Ghiandifere e di Legname da Co- struzione; Will'avvertenza, che le Selve promiscue si debbano denunciare come tali, considerandole però in quella classe e categoria, che prevale: E quanto alle Macchie, e Selve poste nell’Agro Romano, dovrà rimettersi dai Proprietarj nel termine come sopra la detta Assegna colle distinzioni indicate direttamente 752 DOCUMENTO LvIi alla Segretarìa di Stato, colla riserva di spedire in seguito Persona, o Persone per la verificazione delle medesime Assegne: incaricando espressamente i sudetti locali Giusdicenti, sotto Ja pena dell’inabilitazione dall’impiego, ed altre a nostro arbitrio, che decorso l’enunciato termine di due mesi, si faccian carico di riscon- trare, se tutti li enunciati Proprietarj compresi nel loro Territorio abbian sodi- sfatto all'obbligo di quest’ Assegna, ed in caso di mancanza n’intraprendano l’în- quisizione della trasgressione, e ne diano a Noi prontamente avviso. 8. E quantunque queste providenze siano principalmente dirette a rinuovare, e stabilire gli opportuni provvedimenti su questo importante oggetto nelle sopra- nominate Provincie più abbondanti di Macchie, e più vicine alla Capitale; ciò non ostante analogamente alle precedenti disposizioni, si dichiara, che anche nelle Provincie più lontane, cioè nella Marca, e Stati di Urbino, ai provedimenti che già fossero stati adottati ne’ rispettivi Luoghi si aggiungano i seguenti: Primo, che non possa veruno estirpare, o minorare il quantitativo delle Macchie esistenti di qualunque qualità esse siano. Secondo, che niuno possa contrattare per fuori Stato e molto meno tagliare Alberi delle di sopra espresse specie per costruzione, lavoro, o altro uso, senza espressa Licenza della Segretaràa di Stato. 9. Ogni proprietario poi, o Affittuario di dette Macchie sarà obbligato di far spurgare le medesime dagl’impedimenti della legna morta caduta in terra, e dalli Pantani, ed acque stagnanti, che tanto pregiudicano alla salubrità del- l’aria e possono essere cagione di molte Epidemie, come si è altre volte speri- mentato. Alla osservanza di tutte le premesse cose sarà tenuta qualsivoglia Persona di qualunque Sesso, età, ceto, condizione, grado, o preeminenza, benchè Ecele- siastica, ed in qualunque modo privilegiata, ed esente, come si è detto di sopra nel $ Primo. Chiunque contraverrà al presente Editto, oltre le pene corporali gravi ad arbitrio, sarà soggetto ad una pena pecuniaria da estendersi fino a mille scudi, e non mai minore dei duecento a proporzione delle circostanze, da ripar: tirsi per eguali porzioni all’ Accusatore, che, volendo, sarà tenuto segreto, ai Mi- nistri del Tribunale, presso cui se ne farà i’Inquisizione, alla Comunità del Luogo, nel di cui Territorio accaderà la contravenzione, ed alla Rev. Camera Apostolica. Si promette anche un Premio di scudi tre da pagarsi promiscuamente dai Trasgressori a chiunque denunzierà, e darà îe consuete prove di alcun taglio contrattato o eseguito contro le disposizioni del presente Editto per ciascun 4/- seni i x DOCUMENTO LVI 753 bero sù cui si verificherà la trasgressione rispettiva: Premio, che sarà duplicato per quell’Albero, o Alberi, quali si tagliassero oltre il numero, e i luoghi espressi nella licenza della Segretaria di Stato, e che si percepirà eziandio dai Ministri de’ respettivi Tribunali, quante volte ex officio giustifichino la contravenzione. A queste pene restaranno soggetti tanto i Padroni delle Macchie, o Selve, quanto i loro respettivi Affittuarj, Venditori, Compratori, o in altro qualunque modo in- teressati nel Taglio, che si contratti, o faccia in contravenzione del presente Editto. Contro di loro si procederà anche per inquisitionem, er officio, ed in ogni altra maniera la più spedita, e proficua per l'osservanza di tali disposizioni, ed il Pa- drone, Principale, o Committente sarà quanto alle disposte pene pecuniarie te- nuto per il fatto de’ suoi Ministri, Inservienti, o Commissionari. Il presente poi pubblicato, ed affisso, che sarà nei Luoghi soliti di Roma, e dello Stato, astringerà ciascuno alla esatta osservanza, come se gli fosse stato . personalmente intimato, e dovrà aver sempre tutta la sua esecuzione. Dato in Roma dalle Stanze del Quirinale questo dì 27 novembre 1805. E. CARD. CONSALVI Die, Mense, & Anno quibus supra, supradictum Edictum affirum, & publi- catum fuit ad valvas Curiae Innocentianae, in Acie Campi Florae, ac in aliis locis solitis, & consuetis Urbis per me Josephum Pelliccia Apost. C'urs. Felix Castellacci Mag. Curs. Arch. Vatic., Bolle e Bandi, Serie ITI, ann. 1805. 754 DOCUMENTO LVII DOCUMENTO LVII. Ann, 1814 8 ott. Capitoli per l’appalto della Dogana della fida e pascoli di Roma della Prov. del Patrim. Maritt. e Campagna. 1. La Rev. Cam. Apost. e per essa S. E. R.ma Mons. Tesor. Gen. da e con- cede in affitto per anni nove da principiare dal 1° corr. ott. 1814 e da terminare ai 30 sett. 1823, ma riguardo all’anno doganale, secondo le precedenti stipola- zioni, da intendersi cominciati. dai 9 dello scorso maggio di quest’anno, e da terminare agli 8 maggio dell’anno 1823. Le dogane della fida, e dei pascoli di Roma, delle provin. del Patrimonio di Maritt. e Camp. con tutte le solite fide, frutti, e rendite di detta Dogana, entrate, membri, pertinenze, onori, privilegi, e pesi da descriversi in appresso, coi seguenti patti e condizioni. I. La risposta non potrà essere minore di annui scudi quindicimila, da pa- garsi posticipatamente a rate bimestrali neila Depositeria gen. della R. C. A. II. Al pagamento della fida a favore dell'appaltatore, saranno tenute tutte i le sorti di bestiami, tanto grossi, quanto minuti, che s’introdurranno a pascere e respettivamente pascoleranno nei territ. delle tenute della Dogana, ed in tutto e da per tutto, come si dispone nella Costituzione della S. M. di Gregorio XIII, sopra ciò emanata. Si dichiara che nella generalità di detta obbligazione s'intende anche compreso il bestiame di qualsiasi sorta della bonificazione Pontina, a forma dei giudicati del Trib. Criminale (sic) del Tesorierato 24 aprile 1801 e 28 aprile e 10 maggio 1803. Si dichiara parimenti che sono obbligati al pagamento della fida anche gli animali di persone forastiere, che pascolano l’Erbe delle tenute dello Stato di Castro, eccettuandosi solamente gli Animali e Bestie dei Statisti di Castro, come si dispone nelle due sentenze promulgate nel Tribunale del Tesorierato, a favore di Antonio Pagliacci già Doganiere li 27 genn. 7741 per atti del Castellani, oggi Nardi, Segret. di Camera, e come sì ordina nell’Editto consecutivo a dette sentenze pubblicato ai 22 genn. 1742 dalla ch. mem. del Card. Bolognetti allora Tesor. gener. cedendo per altro la R. C. all’appaltatore, riguardo a dette sentenze, le sue ragioni tali e quali ad essa competono senza obbligo alcuno di rilevazione o di beneficio e compenso per detta cessione di DOCUMENTO LVII 765 ragione. Si dichiara infine che dal pagamento della fida si eccettuano solamente i Bovi Aratorj e le Cavalle da Trita, allorquando attualmente (sic) lavoreranno o triteranno nelle tenute proprie, ovvero nel proprio lavoro dei padroni di dette cavalle (sio) e Bovi aratorj a tenore della cosa giudicata del Tribun. della piena Camera, emanata nell’anno 1675, e parimenti di altra cosa giudicata dello stesso Tribunale, emanata ai 25 settem. 1756 per gli atti del Toschi segret. di Camera e finalmente dalla sentenza del Trib. del Tesorierato del 30 luglio 1800 e passata parimenti in cosa giudicata e confermata dalla S. di N. S. nel parag. 11 del Motu proprio pubblicato, per la conferma del pass. appalto della Dogana della fida 9 maggio 1804 esibito per gli atti del detto Toschi. In qualunque caso di contravenzione al pagamento della fida dovuta come sopra, incorrerà il Contra- ventore nella pena della perdita del Bestiame d’applicarsi per una metà alla R. C. A. e per l’altra parte all’appaltatore ed accusatore che sarà tenuto segreto in conformità dei bandi emanati. | III. Nessuna persona di qualsivoglia grado, stato, condizione, ancorchè pri- vilegiata e privilegiatissima dimorante nelle provin. doganali del Patrimonio di Maritt. e Camp. e Pascoli di Roma potrà cavare qualsiasi sorta di bestiame nè d’estate nè d’inverno fuori del suo territorio per mandarlo e ritenerlo in altro territ. senza aver data l’assegna in Dogana, quale assegna dovrà darsi, e respet- tivamente riceversi gratis dal Doganiere, acciocchè sì paghi la fida in qualsiasi tempo, ed in caso di contravenzione i padroni dei bestiami incorreranno nella pena della perdita del bestiame come sopra. IV. A Norma della consuetudine della Dogana di Roma, si dichiara che per le fide, ed assegne solite, che devono farsi in detta dogana, o nei luoghi da quella dipendenti, ove ritengonsi per tal’effetto i Ministri, l'Anno doganale comincia il dì 9 Maggio del corr anno e termina il dì 8 Maggio avvenire, e così di anno in anno da un giorno all’altro anniversario di detto mese di Maggio, dovrà rite- nersi il corso annuale del pres. appalto, riguardo al diritto di percipire le fide, e ricevere le assegne, dovrà spirare agli 8 di Maggio 1823, e nel dì appresso si dovranno dare le assegne, e pagare le fide al successore doganiere, sotto le pene di sopra stabilite in caso di contravenzione, e respettivamente da detto succes- sore si dovranno ricevere le assegne. Adesivamente al pres. artic. si conviene, . che per astringere al pagamento della fida della scorsa estate quei, che vi sono astretti, sarà con Notificazione o editto da promulgarsi, dichiarato, che i medemi dentro un termine da prefiggersi, debbano assegnare i loro bestiami, che avreb- 756 DOCUMENTO LVII bero dovuto assegnare nello scorso mese di Maggio, e nei susseguenti, e pagare la fida. Si dichiara inoltre, che in propresso; riguardo alla Dogana di Viterbo debba attendersi il solito stile invariabilmente osservato per dette assegne e fide. Scorso poi il giorno di S. Giovanni di giugno, in cadaun anno s’intenda, che debba pagarsi la fida di Estate com'è solito, ed i Patrimoniali debbono spe- dire la fida nella Dogana di Viterbo, non ostante qualsivoglia abuso in contrario. V. Per regolare la qualità, o sia la somma dovuta per la fida, se l’affidato goderà della Cittadinanza di più luoghi, si considererà esso, riguardo alla fida di quel luogo, dove colla sua famiglia risiede per la maggior parte dell’anno, e non già di quello, ove si trova Cittadino per aggregazione, o per altro privilegio, abbenchè mandi il suo Bestiame in altri luoghi diversi da quello del suo domi- cilio, soggetti allo stesso Barone, o Signore, che è feudatario del predetto luogo di domicilio dell’affidato, e sua famiglia, in conformità della sentenza data dal Tribun. della Camera, Ponente Mons. Serra 3 uttob. 1633 per gli atti del Gior- dani, oggi Salvatori Segret. di Camera. VI. Si stabilisce, che la Cittadinanza di Roma, pel pagamento della fida Romana, ed anche quella di Toscanell:, per l’esenzione della medesima, debbano solamente godere i Romani e Toscanellesi originarj, e per tali si debbano in- tendere i soli nati, e battezzati in Roma e Toscanella, e non i nati fuori di dette Città, e portati a battezzarsi (sic) nelle medesime ad oggetto, che divenuti adulti possano godere del privilegio di detta Cittadinanza. Rimane peraltro a maggior dilucidazione, che anche i Romani sono secondo il solito obbligati a pagare la fida piccola, o sia Romana, e non vanno esenti da ogni obbligo di pagamento col pretesto della loro originaria Cittadinanza. VII. Di più a scanso di dispute, ed arbitrarie interpretazioni sulle Cittadi- nanze, si dichiara, che non recherà il menomo pregiudizio alle Dogane, pel pa- gamento della fida originaria dell’affidato, l'aggregazione alla Cittadinanza ro- mana, che quegli ottenesse, o per ragione del suo domicilio, o per privilegio, poichè chi l’acquista per domicilio, coi requisiti dello Statuto di Roma al Capit. 57 Libro III, soltanto ha il diritto competente agli abitanti domiciliati in Roma di vagare con i loro bestiami per il Distretto, come si è dichiarato dalla S. M. di Pio VI nel parag. VI del suo Motuproprio del 76 settem. 1795 emanato per l’ul- timo appalto, e si è di nuovo confermato nel parag. VI dell’altro Motoproprio della S. di N. S. emanato ai 9 maggio 1804. Chi poi acquista l’aggregazione alla Cittadinanza romana, per privilegio spedito dagli Ecemi Conservatori di Roma, DOCUMENTO LVII 757 o da qualsivoglia altro magistrato, non può renderla efficace pel pagamento della fida Romana, se non è stato preventivamente inteso ed interpellato Mons. Tesor. Gen. e gli Appaltatori della Dogana, e se colla scienza di questi non ha accor- dato S. Santità il privilegio, come si ordinato nel detto Motuproprio della S. di N. S. del 9 maggio 1804. Per questo motivo il solo privilegio d’attendersi pel pagamento della fida romana è quello accordato all’Ecemo Sig. Duoa D. Luigi Braschi-Onesti con chir. del 27 giugno 1795 previo il consenso degli appaltatori di quel tempo diretto a Mons. Tesorier, Gen. La predetta disposizione d’inutilità dei privilegi di aggregazione alla Cittadinanza Rom. per l’effetto del pagamento della fida romana milita egualmente per le aggregazioni alla cittadinanza di qualche provincia, o Città poichè se non vi sarà, e anche in queste, stato prima inter- pellato Mons Tezor. Gen. e gli appaltatori della fida, gli aggregati dovranno continuare a pagare la fida originaria, e non quella del luogo, a cui sono stati aggregati, senza la preventiva scienza ed interpellazione suddotta. VIII. Similmente si dichiara, che la naturalizzazione accordata dall’art. I del Cap. III del Motu proprio di N. S. de) 4 novem. 1801 a tutti quelli che per un’anno domicilieranno in qualunque parte dello Stato Eccles. per accudire al- l’agricoltura, non debba mai intendersi efficace ad esimere i medesimi dalla Fida dovuta secondo la sua origine, e perciò essi dovranno sempre pagare l'originaria, e non quella del luogo del loro domicilio, ancorchè abbiano acquistato in esso la Cittadinanza pel privilegio dell'agricoltura, in conformità di quanto si prescrive al parag. VII, del citato Motoproprio di N. S. dei 9 maggio 1804. IX. Tutti quei che da Stati esteri, o da Stati soggetti alla S. Sede fuori delle Province. doganali, introdurranno bestiami di qualunque sorta dentro la Stanga, e nei luoghi soggetti alla fida, saranno obbligati nel termine di giorni cinque dal giorno dell’arrivo, assegnare al Doganiere tutta la quantità dei be- stiami grossi, come ancora i Porci, e nel termine di giorni quindici, tutti i be- stiami minuti, con denunciare il nome, cognome e patria del padrone, o padroni di detti respettivi bestiami, specialmente quando che fossero di fida diversa, con ritirare la solita bolletta di assegna in scritto, e pagarne la fida. In caso che non si prendesse tale bolletta, o che i Contatori e Guardiani della Dogana rin- venissero diversità di nomi o patria, ovvero di numero e qualità di bestiami da quelli notati nella bolletta di assegna, immediatamente il detto bestiame cadrà in commissum, e si applicherà come sopra per una metà alla R. C. A. e per l’altra metà al Doganiere ed accusatore, 758 DOCUMENTO LVII X. Niuno potrà deviare e far partire i bestiami dai luoghi dove stanno, verso la Montagna, senza bolletta del Doganiere, sotto pena della perdita dei bestiami, da applicarsi come sopra, dandosi però facoltà al detto doganiere di moderare la detta pena secondo la qualità de’ casi a suo arbitrio. XI. A scanso di dispute, e per allontanare le frodi saranno precisate nel bando le strade doganali. XII. Tutti quei, che avranno condotto bestiame nelle Dogane, e dopo essere entrati dentro le Stanghe venderanno, doneranno, cederanno o effettueranno qualsiasi altro contratto sul loro bestiame, a favore di persone di minor fida, o franchi, ed esenti dal pagamento della fida, saranno tenuti ed obbligati denun- ciare detta vendita ed altro contratto al Doganiere, e pagare per quell’anno la fida, alla quale essi sarebbero tenuti nel caso, che la vendita, o altro qualsiasi contratto non fosse seguito, altrimenti incorreranno uella pena della perdita del bestiame, da applicarsi come sopra. Effettuandosi poi anche prima di entrare nella Stanga doganale, le vendite, cessioni od altri contratti di bestiami, a favore di persone affatto esenti dalla fida, o obbligati a minor fida colla riserva del . dominio o di usufrutto, con dilazione al pagamento del prezzo o con altra ana- loga convenzione, allora il compratore, cessionario o donatario o altro contraente saranno tenuti alla stessa fida, a cui rimanevano obbligati il venditore donante o cedente o altro contraente, finchè non si farà costare al Doganiere l'effettivo pagamento del prezzo, e la traslazione del dominio o usufrutto nei compratori, donatarj, Cessionarj ad altri, a forma di quanto si dispone nel Parag. VIII del citato Motuproprio di N. S. del 1804. Si dichiara di più che in tutte le compre, donazioni, cessioni, od altri contratti di bestiami effettuati a favore di persone esenti da fida o soggetti a fida minore di quella del venditore donarte o ce- dente, ancorchè non vi sia riserva di dominio e non apparisca dilazione al pa- gamento del prezzo, o altra analoga condizione, tuttavia il Doganiere, se ha sospetto di falsità, o collusione del contratto, potrà procedere anche per inqui- sizione, od i. altro modo, che crederà per giustificarla, e venendo a comprovare la falsità, o collusione del medesimo, il venditore donante o cedente o altro qualunque contraente non solamente sarà soggetto al pagamento della maggior fida, alla perdita del bestiame da applicarsi come sopra, ma ancora alle pene comminate dai falsarj. Pendente la disputa sulla collusione dei contratti, si dovrà pagare la fida piccola, ma prestarsi idonea sicurtà all’appaltatore, o effet- tuare il deposito, tanto per la maggior fida, quanto per il valore del bestiame DOCUMENTO LVII 759 prima di partire dalla Stanga, a forma di ciò, che si prescrive nel parag. X del citato Motuproprio di N. S. del 1804. XIII, Riguardo agl’affitti, subaffitti, Soccite di Bestiami o altri contratti in qualsivoglia modo fatti e da farsi fra persons di fida diversa, si dovrà pagare per tutto il bestiame la fida grossa, che si dovrebbe dal socio, o affittuario sog- getto a quella, senza valutare l’altro socio, o l’affittuario, e subaffittuario di minor fida, come più diffusamente si dispone nel ridetto Parag. IX del citato Mota- proprio di N. S. del 1804, e Paragraf. 5 e 6 del Bando sopra la Dogana della fida emanata agli // giugno 1804. Lo stesso pagamento di fida grossa si dovrà eseguire se uno dei socj o affittuarj o subaffittuarj lo ritenesse nel proprio ter ritorio diverso da quello dell'altro socio, o del Locatore, e sullocatore. Si dichiara altresì che sono soggetti alla fida tutti i bestiami, che sotto qualsiasi riserva patto e condizione si affittano o si danno in soccita, ed in qualunque altro modo in usufrutto unitamente a feudi o tenute, e che anche in tal caso, se i con- traenti sono di fida diversa, si dee per tutto il bestiame la fida grossa. Si di- chiara in fine, che nessuno di minor fida possa sotto qualsivoglia titolo di co- municne, soccita o affitto, tenere bestiami con quelli di maggior fida, pendenti i due mesi destinati per la conta, cioè dal primo di gennaio fino ai 20 di feb- braio come si prescrive nel citato parag. VI del bando del 1804. Le disposizioni del pres. capitolo si osserveranno ancora nelle Comunioni soccite ed altri contratti di bestiami fra due fratelli di diversa fida, quando uno di essi sia accidentalmente nato in luogo di fida minore, per avere il suo genitore il domicilio, e la famiglia, all’epoca della di lui nascita, nel luogo della fida grossa. XIV. Tutti i Ciavarri e Castrati, che saranno introdotti dai Mercanti Aqui- lani, o da chiunque altro dentro le stanghe, o provincie doganali per qualunque causa o motivo, saranno soggetti al pagamento della fida, e dovranno nello stesso giorno, in cui entrano, assegnarsi in Dogana, e dagli assegnanti si dovrà eseguire immediatamente il pagamento della fida. Questa sarà loro restituita per quella quantità di Ciavarri e Castrati, che nello spazio di tre mesi da decorrere dal giorno dell’assegna li giustificherà presso il Doganiere, che sono stati ven- duti in Roma e suo distretto, per l’altra quantità poi, per cui non si esibirà tale giustificazione, non avrà luogo la detta restituzione, in conformità del de- creto Camerale de’ /2 febb. 1565. In caso di contravenzione a detta assegna, e contestuale pagamento il suddetto bestiame, o il prezzo del medesimo cadrà in commissum e sì applicherà come sopra. 760 DOCUMENTO LVII XV. Tutti quelli che avranno pasciuto dentro le dogane coi Porci se poi vorranno condurre detti animali alle ghiande, fuori della Stanga, per qualunque via diversa dalle Strade Doganali, ancorchè detti animali si estraessero, o in qualunque modo si facessero trasportare fuori delle l'rovincie Doganali sì per terra che per acqua, debbano prendere la bolletta dal Doganiere, e pagare prima la fida, che devono secondo il solito; altrimenti cadranno in pena della perdite del bestiame da applicarsi come si è dichiarato nei precedenti capitoli. XVI. Parimenti ogni persona, tanto ecclesiastica, quanto secolare, benchè privilegiata ed esente dalla fida, non potrà mandare a pascolare il suo bestiame fuori dello Stato Ecclesiastico, e molto meno estrarre dal medesimo alcuna benchè minima quantità di bestiami si grossi che minuti, senza l’espressa licenza del Doganiere e senza il solito pagamento, sotto pena della perdita del bestiame, da applicarsi come sopra, non ostante qualsisiano privilegi, che vi fossero .in contrario, quali tutti rimasero già revocati coll’artic. XII del bando degli 11 giugno 1804. XVII. Gli esenti per il numero di 12 figli dovranno godere l’esenzione da detta Dogana, solamente per ciò che riguarda l’uso della propria famiglia, e non per l’industria e mercanzia, conforme al Motoproprio di Pio IV sopra tali esenti, e come altre volte è stato dichiarato in Camera per la Dogana di Roma, non ostante qualunque uso ed abuso, che per l’addietro fosse osservato in contrario. XVIII. Per gli affidati forastieri, che non fossero dello Stato ecclesiastico, ed anche per quelli di altre provincie, che non ricadessero o si acquistassero dalla S. ‘ede in tempo del pres. appalto, si dovrà osservare la fida antica coi privile:; în essa contenuti, quali si dovranno osservare inviolabilmente, ed in particolare di poter venire stare e tornare liberamente colle loro Massarie, come è solito e senza impedimento alcuno; non ostante qualunque cosa in contrario, purchè abbiano pagato quanto debbono al doganiere, a tenore dei privilegi e facoltà concesse a fevore di tutti gli affidati tanto forastieri, che dello Stato e Provinciali, nelle accennate Costituzioni della S. M. di Gregorio XIII confermati coi riferiti Motiproprii dei 16 settem. 1795, della S. M. di Pio VI e della S. di N. S. dei 9 magg. 1804. Si dichiara inoltre, che a favore degli affidati si osservi la fiera libera di Toscanella come è solito, per poter vendere per tutte le terre dello Stato i loro Agnelli esclusa però l'estrazione per fuori lo Stato, che prima accordavasi, della terza parte degli Agnelli vernarecci, dovendosi su tale estra- zione osservare le nuove leggi. a DOCUMENTO LVII 761 XIX. A tenore del rescritto fatto dall'Emo e Rmo Sig. Card. Ruffo allora Tesoriere Gen. dall’udienza di N. S. degli 8 marzo 1784, inserto nell’istromento del penultimo appalto rogato ai 26 settembre 1794 per gli atti del Toschi, si è stabilito, che le masserie composte intieramente, o almeno per la metà delle pecore di Spagna, o dipendenti da padre e madre spagnoli ritenendosi 10 montoni per ogni cento pecore, dovranno essere privilegiate con far pagare per esse la fida nella somma di scudo uno, e baj venticinque per ogni centinaio di pecore, con condizione però che il proprietario delle suddette pecore spagnole, nell’asse- gnare le pecore, debba denunciare nella solita assegna il numero delle pecore, e dei montoni della razza di Spagna, ed il numero delle pecore nostrali, acciò possa il Doganiere eseguirne il rincontro. Si avverte che sotto il nome di pecore di Spagna s’intendono quelle che sono di padre e madre spagnole, non già le bastarde di esse, seppure a forza di rinnovare il seme di Spagna non siasi ot- tenuta la razza legittima in modo che paragonate alle Pecore prette spagnole non si conosca differenza sensibile. Non facendosi la sovraenunciata distinzione nell’assegna, o riconoscendosi questa falsa, e non veridica a giudizio di due Periti da deputarsi l’uno dal Doganiere e l’altro dal proprietario e del periziore da destinarsi in caso di discordia da Mons. Tesoriere generale senza ulteriore reclamo, il proprietario delle pecore non solo dovrà pagare l’intera fida, secondo le consuetudini dei luoghi, ma cadrà anche nella contravenzione, per cui potrà procedersi contro di esso alle pene di :opra comminate ai defraudatari della fida. XX. Le convenzioni tra le Communità, di rendere comuni i loro territorj, nel pascolo dei bestiami de’ loro Cittadini, non esimeranno i medesimi dal pa- gamento della fida per quei bestiami che si mandassero a pascolare fuori del proprio territorio, cedendo la R. Camera Ap. sopra di ciò al nuovo Doganiere le proprie ragioni, tali quali ad essa competono senza per altro voler essere te- nuta a cosa alcuna, nè veruna sorta di diffalco o bonifico. XXI. I bestiami smarriti si dovranno secondo il solito denunciare e conse- gnare ai doganieri tanto dentro Roma quanto in qualunque altro luogo delle Provincie Doganali, benchè siano luoghi baronali, salvo al proprietario il diritto di poter agire per la ricupera del bestiame smarrito. Niun’altra persona di qual- sivoglia stato grado e condizione potrà in modo alcuno pretendere di avere sopra detti animali alcun diritto o ragione, sotto pena in caso di contravenzione di scudi 25 per ogni bestia da applicarsi come sopra. Niun giudice, fuori dei 762 DOCUMENTO LVII Camerali assessori, potrà esercitare giurisdizione sopra dette bestie, ed anche la depositeria dei pegni non potrà ingerirsi in tal materia. XXII. Si concede al doganiere, per patto espresso, il privilegio di Cittadino di qualsiasi luogo delle Provincie Doganali, ad effetto, che in ogni luogo dove avrà gli animali proprj, possa farli pascere nei territori delle Communità, anche come primo cittadino del luogo a forma della Costituzione di Benedetto XIII — Romanum decet Pontificem. — Il Doganiere in rappresentanza della R. C. A. godrà del diritto, da quella, e da altre Costituzioni Apostoliche accordato, dî proîbîre la formazione di nuove bandite, e di concedere licenza per la vendita dell’erba, in conformità di quanto è stato praticato fino al presente, ed a quest’effetto - dovranno restar fermi i Concordati sulle dette licenze, fatti alle Communità della Tolfa, e di altri luoghi, e con varie persone, ed in vigore di detti concordati il Doganiere avrà il diritto di percepire le somme in esse stabilite per dette licenze. Si dichiara, che il suddetto diritto si trasferisce dalla R. C. all’appaltatore tale e quale ad essa compete, ma senza alcun obbligo di bonificargli alcuna somma in qualunque evento. Si dichiara parimenti, che gli enfiteuti e Cessionarj della R. C. A., nei quali sono stati trasfusi i diritti del Doganiere, pei terreni com- presi nelle loro concessioni, sono esenti dall’obbligo delle sovraenunciate licenze. XXIII. Adesivamente al precedente capitolo nessuna Communità, Chiesa o persona di qualsivoglia grado, stato e condizione venderà l’erbe delle sue e bandite a pascolo comprese nelle provincie terre e Luoghi, soggetti all’appalto della Do- gana senza aver prima ottenuta la licenza in iscritto dal Doganiere. In caso di contravenzione incorrerà nella pena della perdita delle tenute e Bandite le quali ipso facto sintendano applicate alla R. C. A. non ostante qualsivoglia conces- sione privilegio ed uso contrario, alle quali tutte s'intende derogato. XXIV. I compratori poi delle stesse erbe senza licenza del Doganiere, in- correranno nella pena della perdita dei bestiami o altra ad arbitrio di Mons. Te- soriere gener. Si dichiara peraltro permesso ai soli proprietari delle tenute e bandite pree- sistenti ritenere in esse i soli propri animali per pascolo senza alcuna licenza del Doganiere. Si dichiara ancora, che quei proprietari dell’erbe suddette, quali avranno riportato licenze della vendita dal Doganiere, non potranno effettuare il contratto, che in fine del mese di Decembre di ciascun’anno. XXV. Essendo fra le Communità ed i precedenti Doganieri insorte alcune differenze sopra l’interpretazione del precedente Capitolo, pretendendo le Com- DOCUMENTO LVII 763 munità di poter introdurre i bestiami de’ Cittadini a pascere l’erbe delle mede- sime Communità, anche prima che sia finito il mese di Decembre, ed inoltre di poter vendere l’erbe delle recalate, si dichiara, che si dovranno in questa parte attendere le risoluzioni, che dal Giudice, e Congregazione da deputarsei sopra di ciò dalla Santità di N. S. si promulgheranno, e fintanto che queste differenze non restino terminate, si debba osservare il solito con proibirsi alle Communità la vendita dell’erbe prima del divisato tempo, non ostante qualsivoglia ordine fosse dato in contrario, con dichiarazione peraitro, che, in vista di qualunque risoluzione si emanasse, non possa l'appaltatore pretendere alcun compenso, o defalco dalla R. C. A. intendendo essa di cedergli le sue ragioni tali e quali ad essa competono. XXVI. Volendo il Doganiere in qualche anno, o di anno in anno, per ‘uso delle Dogane, l’erbe di qualsivoglia bandita di qualunque Communità, o Persona sì ecclesiastica che secolare, ancorchè fosse Cardinale, o di qualsiasi altro grado, quali volessero affittare il pascolo ad altri, debba rimaner preferito detto Doga- ‘miere pel prezzo, che sarà di ragione, e non essendosi fissato il prezzo, per quello da stabilirsi da due periti da deputarsi uno per parte, ed in caso di discordia fra loro, dal periziore da cleggersi da Mons. Tesoriere gen. non ostante qualsi- voglia locazione, o concessione, che ne avessero fatta ad altri, quale sempre si intenda nulla, quante volte sia atta senza licenza del Dozaniere. In caso di renuenza del proprietario dell’erbe, di accordare detta prelazione all’appaltatore, pitrà Egli di sua autorità introdurre a pascere i bestiami, ed il padrone dell’erbe per quell’anno sarà privato dell’uso delle medesime, ed il prezzo come sopra da stabilirsi di quelle, sarà applicato alla R. C. A. in pena di ‘detta renuenza. Si dichiara che da questo vincolo sono eccettuate le Tenute Camerali date in en- fiteusi. Si dichiara altresì che la suddetta prelazione competerà ancora all’ap- paltatore per le tenute, e terreni compresi nelle Dogane, nei quali esso volesse seminare, eccettuati però i terreni chiamati Zerzi Camerali, uniti alla tenuta di Montebello, a forma del rescritto emanato dalla S. M. di Pio VI, ai 27 agosto 1793. XXVII. Rimane dichiarato che i decreti e sentenze fatte e promulgate per cose appartenenti alla Dogana della fida contro i passati Doganieri, senza esservi stato citato e sentito Mon. Commissario Gen. della R. C. A. non possono in alcun modo pregiudicare n° alla R. Camera nè al nuovo appaltatore, e così pure | tutti gli abusi introdotti in tempo dei pass. doganieri, non possono allegarsi in esempio, nè essere di alcun pregiudizio, | 764 DOCUMENTO LVII XXVIII. Dovrà il nuovo doganiere, per l'azienda della Dogana in Roma prevalersi in qualità di Procuratore del signor Gian Francesco Morezzi, quale per lo spazio di sopra trent'anni con fedeltà, attaccamento e nozioni ha difeso i diritti fiscali e doganali. Riterrà ancora i due antichi scritturali signori Simon- cini ed Isola. Il Computista e cassiere saranno di libera elezione del Doga- niere etc. etc. XXIX. Gli emolumenti della Cancelleria della Dogana della Prov. del Pa- trimonio spetteranno al Doganiere coll’obbligo ete. XXX. Sarà' obbligato il Doganiere di pagare puntualmente alla R..C. A., nelle respettive scadenze le bimestrali rate della risposta, o Censo, rimossa qua- lunque eccezione, o pretensione di defaleo etc. etc. + XXXI. In ogni caso di mora del Doganiere al puntuale pagamento delle rate del Censo, come pure in caso d'inadempimento a qualunque delle sue ob- bligazioni contenute nei presenti capitoli, potrà la R.C. A. senza aicun mandato di Giudice dichiarare ipso facto rescisso e risoluto l’appalto ete. XXXII. Sarà tenuto il Doganiere, per sicurezza del puntuale pagamento del Censo e dell’adempimento delle altre di lui obbligazioni esibire idoneo e solidale fidejussore di piacere e soddisfazione di Mons. Tesoriere gen. etc. XXXIII. Qualora piacesse alla S. di N. S. ed ai suoi successori di dare un diverso regolamento o sistema generale all'appalto delle dette dogane, il Doga- niere non potrà pretendere il menomo defalco ete. etc. XXXIV. Mons. Tesoriere Gen. risolverà qualsiasi controversia che potesse insorgere etc. XXXV. Il Doganiere potrà esiggere tutti e singoli dazi e crediti provenienti dalla Dogana della fida colla Mano Regia e more Camerali in ogni luogo ete. ete. XXXVI. La Camera Apostolica promette che confermerà i presenti Capitoli ad ogni richiesta del Doganiere ete. XXXVII. Il Doganiere dovrà prendere copia pubblica dell’istromento del pres. appalto passando il solito emolumento al Segretario della Camera. Dalla nostra Residenza di Monte Citorio, questo dì 8 ottobre 1814. Firma autentica: Lurci ERCOLANI, Tesoriere generale. Arch. Vatic., Bolle e Bandi, serie III, Ann. 1814, i ì j i | | ( | DOCUMENTO LVII 765 DOCUMENTO LVIII. Ordine circolare sulle disposizioni per le masserie 12 maggio 1822. Molto Illustre Sig. come Fratello La giustizia, l’attività del Commercio, la sussistenza delle Popolazioni, l’in- teresse dell’Erario, e finalmente l’indeclinabile necessità indotta dalla natura della cosa esiggono, e reclamano, che alle Masserìe affidate venga agevolato, ga- rantito, e protetto l’arrivo, la permanenza, e la partenza dalla Stanga del Pa- trimonio con què privilegj, ed esenzioni, che sono correspettive al peso del Dazio, che gli affidati sopportano. i ; È perciò, che una serie non-interrotta di Apostoliche Costituzioni, quale ha il suo principio dalla Sa: Me: di Gregorio XIII., e che continuando fino al Motu- Proprio delli 16 Settembre 1795. dalla Sa: Me: di Pio VI. termina con quello del Regnante Sommo Pontefice pubblicato li 9 Maggio. 1804, ha mai sempre confermato agli affidati i privilegj, ed esenzioni indicate. Quindi la remozione di ogni ostacolo al pacifico godimento di tali esenzioni, e privilegj, preordinando disposizioni opportune, fu il costante proposito degli Statuti, Editti, Ordini, e Bandi, che farono dal Camerlengato pubblicati. E venne segnatamente ordinato nell'art. 7. dell’Editto dell’attuale Emo. Sig. Card. Camerlengo dei 16 Giugno 1816., ai proprietarj delle Tenute, e Terreni ristretti, che durante il transito delle Masserìe affidate fossero aperte le Scalarole, od altri ripari, che ne impedi-sero l'ingresso, onde potessero le suddette Masserìe godere del pascolo privilegiato delle venti canne adjacenti alle Strade Doganali, così nell’art. 3. si prescrisse a qualunque persona, e più espressamente ai soprastanti, Guardiani delle Tenute, e Terreni, pei quali passano gli Affidati con le loro Mas- serìe, che non ardissero estorcere alcuna benchè piccola somma di contanti, o ricevere dagl’Inservienti delle Masserìe suddette Agnelli, Capretti, Casci, o altra cosa, non ostante qualsivoglia abuso in contrario, ed escluso ancora il titolo di volontaria cortesia. Si ordinò egualmente nell’art. 13. ai Governatori, Podestà, e a tutte le Autorità locali, che se taluno si facesse pagare qualche cosa per 766 DOCUMENTO LVIII passo, pedazio. e Vettigale, od in qualunque modo dasse impedimento, o pre- tendesse la pena, e l’emenda del danno, mentre le Masserìe affidate sono in viaggio, in tale, ed in ogni altro caso d’infrazione di questi privilegj, e del citato Bando, ad ogni richiesta dell’affidato, o de’ suoi Pastori dovessero immediatamente rimuo- vere ogni impedimento, facendo loro restituire tutto ciò, che avessero pagato, o sia stato lor tolto, con far carcerare i trasgressori, dandone posteriormente il più preciso, e regolare discarico per l'osservanza specialmente dell’art. 11 del citato Editto, che in parità di tutte le altre analoghe leggi rimane nel suo stesso, e pieno vigore. Si dichiarò in fine, che per qualunque sofferto danno, od aggravio dovesse attendersi la sola relazione, e giuramento degli stessi affidati, o loro Pastori. Ma gli affidati all’occasione, che in ciascun’anno le proprie Masserìe fanno discendere, e tornare alla Montagna, hanno giustificato al lodato Sig. Car- dinale con dettagliati reclami, che con vie di fatto i Proprietarj dei Terreni ristretti non si conformano, ed i Guardiani, e Guardie Campestri usando talvolta violenza si oppongono alle sopracitate edittali disposizioni: e che reclamando di ciò gli affidati aî Governatori, ed Autorità locali; in luogo di punire, siccome vien loro prescritto, le contravvenzioni; contravvenendo pur’essi, e le sostengono, e le proteggono. Lo impedire per le vie Doganali alle Masserìe affidate il pascolo delle venti canne alle medesime concesso con privileggio provocato dall’assoluta necessità, è tale disordine, che sia capace di produrre quasi inevitabilmente Ja mancanza - delle stesse Masserìe nelle nostre Campagne meridionali; i pascoli di queste ri- marranno inconsunti, ed inoperosi, la pubblica economìa ne risentirà alterazione, e detrimento gravissimo nell’interesse dell’Erario, nell'attività del Commercio, nello sfamo delle Popolazioni, e nell’arresto delli Lanifirj. Dalla esposizioni di siffatte cose facilmente comprenderà V. S. l’importanza di riparare simili abusi, e più enormi disordini, per la qual cosa inerendo alle disposizioni comunicatemi dal sopralodato Sig. Card. Camerlengo con dispaccio delli 4 corrente, non manco di eccitare tutta la di lei attività, zelo, ed enersìa, perchè nella estenzione di sua giurisdizione siano garantiti amplissimamente, e protetti i privilegj ed esen- zioni concesse dalle Apostoliche Costituzioni alle transitanti Masserìe degli affidati. Ella si contenti di tener man forte contro qualunque ben piccola contravenzione alle sopracitate edittali disposizioni. Affinchè poi non possa da alcuno allegarsi ignoranza, o dimenticanza delle disposizioni medesime; le trasmetto qui accluso un’Esemplare dell’enunciato Editto, perchè lo ritenga a propria istruzione. CT _MRITNT Pe TTT —_u \ A AI DOCUMENTO LVITI 767 ; Ad assicurare inoltre possibilmente l'esecuzione V. S. darà gli ordini positivi, e forti alla Brigata de’ Carabinieri costì stazionata ed alle respettive Guardie i Campestri, affinchè durante il transito delle Massarìe affidate per il Territorio, (che accade dalli 15 circa di Maggio alli 15 Giugno, e dalli 15 Ottobre alli 15 No- vembre) percorrano le Strade Doganali, e proteggano dalle violenze, e dalle an- garìe le Masserìe transitanti. Io ritengo per indubitato, che V. S. amante come dee essere, del pubblico bene, non ometterà mezzo alcuno intentato per richia- mare all'ordine quanto si opera in opposizione delle Apostoliche Costituzioni, e delle leggi. Attenderò poi rincontro del risultato; e Dio la prosperi. Di V. S. Come Fratello IL DELEGATO APOSTOLICO D. C. LOLLI. Edmondo Martucci Seg. Gen. 768 DOCUMENTO LIX DOCUMENTO LIX. (Transunto). Ann. 1823 4 ott. Editto di Giulio Maria della S. R. C. Card. della Somaglia Decano del S. Collegio. Vicecancelliere di S. C., Arciprete della Basil. Lat., Ve- scovo di Ostia e Segret. di Stato. La Santità di N. S. PP. Leone XII elevato appena al Sommo Pontificato ha voluto procurare il benessere dei suoi sudditi. E considerati prima di ogni cosa i Dazi che per far fronte ai pubblici bisogni si erano dovuti imporre alle Provincie dello Stato ha voluto cominciare dall’apprestar loro intanto un sollievo con l’abolizione di alcune pubbliche imposte, e con ja diminuzione di altre, pro- ‘ponendosi di supplire colla maggiore economia nelle spese delle minorazioni delle rendite che per queste disposizioni andrà a soffrire i pubblico erario. Ci ha pertanto ordinato con l’oracolo della sua viva voce di manifestare ai suoi sud- diti le seguenti sovrane sue ordinazioni. Art. I. La tassa stabilita per la interessantissima operazione del censimento pubblico sarà diminuita in modo che il decimo che deve pagarsi da tutte le Le- gazioni e Delegazioni del suo Stato, per i due terzi lasciati a carico dei possi- denti dalla succitata Notificazione (8 aprile 1818) sia diminuita p. la metà, e ridotta in tutte le provincie ad un ventesimo. | Art. II. Il diritto privativo della fabbricazione delle polveri e nitro è abolito. Art. III. Sono egualmente abolite le così dette Dogane per la Fida e dei Pascoli, e le tasse corrispondenti che venivano esatte. Questo Dazio vigente sol- tanto in alcune Provincie e specialmente in quelle che si estendono lungo il Mediterraneo, sebbene sia stato nella sua antica origine occasionato dagli stessi interessi della Pastorizia, pure non riconoscendosi in oggi, per le cambiate cir- costanze favorevole agli interessi medesimi, sua Beatitudine per rimuovere ogni ostacolo al libero esercizio di questo ramo di agraria industria sì è determinata ad abolirla. er n e. DOCUMENTO LIX 769 Art. IV. È abolita Ia leva coattiva del sale nelle Delegazioni dello Stato. Ancona, Macerata, Fermo, Ascoli e Camerino. Art. V. È diminuito di un sesto il Dazio forense di consumo. Art. VI. La tassa imposta per restauro e manutenzione delle strade interne di Roma viene ridotta da bai. 35 per ogni 100 scudi d’estimo a baiocchi venti. Art. VII. È abolita la tassa delle vetture dei carri e Cavalli, meno quelli di lusso. Art. VIII. Le suespresse disposizioni avranno effetto dal 1° gennaio 1824 eccetto quelia delle vetture dei carri e cavalli che avrà effetto immediata. mente. Dalla segret. di Stato 4 ott. 1823. G. M. Card, della Somaglia. Arch. Vatic., Bolle e Bandi, serie III, anno 1823. 770 DOCUMENTO LX DOCUMENTO LX. Ann. 1823 17 decemb. Notificazione pubblicata dall’Emo e Rmo Sig. Cardi- nale Bartolomeo Pacca Camerlengo di S. Chiesa. In esecuzione della Sovrana Pontificia beneficenza pubblicata già coll’Editto del 4 Ottob. pros. pass. per l’abolizione della Fida e della corrispondente tassa, crediamo debito del nostro Ufficio del Camerlengato, a vantaggio sempre della Pastorizia e dell’Agricoltura ed a norma di tutti, che possono avervi interesse, pubblicare le seguenti prescrizioni. I. L’abolizione della tassa dovendo aver luogo nel giorno 1 gennaio 1824, e dovendosi dai proprietari dei bestiami soggetti alla detta Dogana della fida eseguire il pagamento delia medesima fino a tutto il giorno 31 del corr. decembre, rimangono, come già erano i detti proprietari obbligati a dare le assegne respettive dei loro bestiami, al solo effetto però di farne il proporzio- nato suddetto pagamento per tutto il corr. mese, e non più oltre; e ciò senza pregiudizio degli atti, che fossero stati fatti, e che occorresse di fare ne’ compe- tenti Tribunali per il ritardo e mancanza dell: dette assegne. II. Il proporzionato pagamento della tassa a tutto il corrente mese dovrà essere dai respettivi proprietari eseguito nel termine dei due mesi successivi di genn. e febb. 1824, passato qual termine, senza che sia stata interamente sod- disfatta la dovuta tassa, si potrà dagli Appaltatori tenuti verso la R. Camera Apost. per il corrispondente affitto, procedere agli opportuni atti in tutto e per tutto a forma dei privilegi, ad essi competenti. III. Nei detti due mesi di genn. e febb. potranno gli Appaltatori similmente procedere, come per lo passato, alla verificazione delle respettive assegne, che potessero credere non leali, affine però sempre di esiggere proporzionatamente la tassa a tutto il corr. decem. senza pregiudizio degli atti, che fossero a tale effetto necessari. IV. È conservato in avvenire e per sempre ai Proprietari di Masserìe e Pastori il privilegio di far pascere le loro masserie per la estensione di canne tie DOCUMENTO LX 771 venti nei terreni adiacenti alle strade così dette doganali, che non siano seminati o ridotti a cultura, tanto nel recarsi alla Montagna, quanto nel discenderne, e nell’andare da un luogo all’altro, secondo l’occorrenza dei pascoli, e col diritto anche di trattenersi nei singoli terreni due giorni solamente. V. I proprietari dei fondi adiacenti alle sud. strade non opporranno alcun ostacolo, all'esercizio del privilegio contemplato nell’antec. artic., dovendo anzi a tale effetto tenere aperte le così dette scalarole delle staccionate, che rinchiu- dessero i fondi medesimi. VI. Rimarranno i proprietari © pastori suddetti esenti da ogni pena per i danni occasionati dai loro animali nel transito per le dette strade doganali, sia nel recarsi sia nel discendere dalle montagne, e nel passare da iun pascolo al- l’altro; come pure dovranno godere della stessa esenzione per soli due giorni dopo il dì del loro arrivo ne’ pascoli di permanenza, volendoli in questi casi sog- getti alla sola rifazione de’ danni arrecati. VII. Nel solo caso di danno studioso recato a vigne, seminati, o ad altre coltivazioni sarà cumulata alla rifazione del danno la pena comminata dalle ve- glianti leggi. VIII. Se però per causa di danni dati si facesse luogo a carcerazione di persona o apprensione di pegno vivo, prestati dai proprietari dei bestiami, o altra cauzione di stare a ragione in favore della parte, che pretende i danni, verrà tanto la persona che qualunque pegno vivo immediatamente rilasciato, senza che all'oggetto siano attendibili altre citazioni, che del nostro Tribunale, e di Mons. Uditore SSmo. IX. Restano esenti i proprietari, pastori e loro inservienti qualunque dalla prestazione o pagamento di ogni tassa e regalia, che venisse loro da chicchessia richiesta, volendo libero affatto il transito e movimento delle masserie per le enunciate strade. X. Tutte le questioni relative tanto civili che criminali saranno in quanto alle Delegazioni di esclusiva attribuzione degli Assessori Com. Governatori a Vice Govern. nei limiti delle proprie facoltà etc. ete. XI. Con l’abolizione della Dogana della fida e tassa, e con le pres. prescri- zioni non solo non s'intendono in modo alcuno alterati, ma saranno anzi a rite- nersi per confermati e nel pienissimo loro vigore tutti i regolamenti di Finanza e di Dogana di confine in ordine alla introduzione e sortita delle masserie e bestiami dello Stato, come pure dovranno intendersi © ritenersi per conservate 772 DOCUMENTO LX e confermate le discipline tutte.,e disposizioni relativamentè alla sanità, che sono stabilite nel nostro Aditto dei 7 giugno 1817. La pres. notif. sarà affissa e pubblicata in Roma, sua Comarca, e nelle Città ed altri luoghi delle Provincie così dette Doganali a tutti gli effetti di ragione. Dato in Camera Apostolica li 17 decem. 1823. R. Card. Pacca, Camerlengo di $. S. Bibl. Vatic., Sala P: consultazioni. Collez. Editti, Bandi, ete., anno 1823. ' tà. rn DOCUMENTO LXI 773 DOCUMENTO LXI. Editto. Pier Francesco per la Misericordia di Dio Vescovo di Albano, Cardinale Galleffi, della S. R. C. Camerlengo. La conservazione della specie de’ quadrupedì e volatili utili, oramai per comun lamento diminuita di molto a cagione degli arbitrarj e distruttivi modi di cac- cidre, il desiderio di rendere viemaggiormente proficua allo Stato questa parte d’industria, e lo zelo d’impedire che per riprovevoli disordini non si cambino le cacce di dilettevole e industre esercizio in occasione di litigi e di risse, hanno mosso il provvido animo di Sua Santità Leone Papa XII. felicemente regnante, a volere che sieno con opportune leggi generali regolate le cacce in tutto lo Stato. Quindi Noi per oracolo espresso della Santità Sua e per autorità del nostro uf- ficio di Camerlengato veniamo a pubblicare il seguente legislativo Regolamento generale da osservarsi da ogni qualunque persona. PE permesso a tutti nello Stato Pontificio di esercitare la caccia tanto de’ quadrupedi, che dei volatili. 2°. Non potrà esercitarsi da chicchessia la caccia se non ne’ tempi, luoghi e modi, e sotto le pene prescritte nei titoli ed articoli seguenti. TrroLo I. De' tempi in cui sono permesse o vietate le cacce. 3.° Dal 1.° Marzo al 1.° Agosto di ciascun’ anno è vietata ogni sorta e ma- niera di caccia sì dei quadrupedi, come dei volatili utili, tranne quella degli uc- celli da palude, i quali non nidificano nello Stato. 4° Dal 1.° Dicembre sino al tempo del loro arrivo è proibita in qualunque maniera la caccia delle quaglie, e nel tempo del loro arrivo resta permessa sol- tanto in riva al mare, 774 DOCUMENTO LXI 5.° Dentro l’intervallo di tempo determinato nell’articolo precedente non sarà permesso di vendere o comperare cacciagione di sorta alcuna, salvo quella permessa degli uccelli da palude, e delle quaglie nel tempo del loro arrivo. 6.° In qualunque tempo rimane proibito di guastare le uova, i nidi o covili, e uccidere i figli piccoli degli stessi utili animali. 7.° E’ vietato di cacciare in tempo d’inverno lepri, caprioli, starne e per- nici ed altri utili volatili o quadrupedi ne’ luoghi coperti di neve. 8.° Nessuno potrà in alcun tempo appropriarsi ed uccidere i colombi dome- stici o torrajuoli di privata proprietà TiroLo II. De’ luoghi leciti e proibiti delle cacce. 9.° Nessuno senza consenso del proprietario potrà far caccia ne’ terreni al- trui, i quali sieno muniti di muro, siepe, staccionata o altro riparo a norma di quanto è prescritto nell’articolo 150. del Motu-proprio di Sua Santità dei 5 ot- tobre 1824. 10.° Per ordine espresso e speciale di Sua Santità è dichiarato che per siepi, staccionate e ripari mentovati all’articolo sopraccitato del Motu-Proprio si deb- bano intendere siepi, staccionate e ripari costrutti in modo che impediscano realmente d’ogni maniera l'ingresso non solo alle bestie, ma anche agli uomini. 11.° Chiunque, ricinti i suoi fondi ili cosifatti ripari, voglia far in essi ri- serva di caccia, dovrà prima darne denunzia direttamente a Noi per Roma e Comarca, e nelle Legazioni e Delegazioni per mezzo degli E.mi Cardinali Legati e Prelati Delegati per ottenere dietro le convenienti verificazioni la corrispon- dente dichiarazione. 12.° I fondi, che verranno dichiarati riservati per la caccia, dovranno alla distanza di cento passi l’una dall’altra avere una tabella fissa ove sia scritto a grandi caratteri = Riserva =. 13.° A norma dell’articolo sopracitato del Motu-Proprio Sovrano, nessuno potrà per causa o pretesto di caccia entrare nei fondi altrui, tuttochè non cinti e muniti di ripari sopra indicati, qualora sieno già preparati o si preparino alla coltura, e molto più se seminati o tuttavia co’ frutti pendenti. 14.° I proprietarj de’ latifondi riservati e dei fondi annoverati nell’arti- ta Adria ta AI DOCUMENTO LXI 775 colo 13.°, che vorranno mantenere uno o più guardiani ad effetto di custodire la riserva o le loro proprietà, dovranno richiedere a Monsignor Governatore e Direttore Generale di Polizia l'opportuna licenza, e vestirli dell’uniforme pre- scritta dalla circolare dei 29. Gennajo prossimo passato, ai quali soli, aventi indosso la prescritta uniforme, sarà lecito di domandare a chi fosse trovato nei fondi suindicati la consegna dell’Archibugio, e qualora fosse ciò ricusato loro, di prendere il loro nome e cognome, e denunziarlo alle competenti autorità senza permettersi alcun atto violento. 15.° Nessuno potrà piantare ne’ luoghi non vietati caccia di palombi con preparazione di sito tanto a rete, che ad archibugio, se non alla distanza di mille passi d’aria per ogni intorno da altra, la quale già sia stata antecedante- mente stabilita, e da due anni addietro consecutivi non lasciata ld’essere in esercizio. 16.° Chiunque vorrà piantare ne’ fondi proprj o di consenso de’ proprietarj nei fondi altrui, cacce che importino preparazione di sito, e sieno fisse e stabili, come paretaj, roccoli, bergamasche, boschetti ed altre di simile natura, non potrà farlo che alla distanza di duecento passi d’aria per ogni intorno da quelle an- tecedentemente stabilite, e da due anni addietro consecutivi non licinio d’es. sere in esercizio. 17.° Tutte le cacce ne’ due precedenti articoli indicate, che ora si trovano stabilite in distanza di mille o di duecento passi d’aria per ogni intorno rispet- tivamente minore, da altre, che hanno anteriorità d’esercizio non interrotto da due anni addietro consecutivi, in modo che a giudizio de’ periti s'impediscano a vicenda, restano fin d’ora soppresse, seppure i possessori delle ultime non con- sentano alla conservazione di quelle. 18.° D'ora in poi qualunque caccia stabile e fissa, quanto ‘ad impedire il di- ritto di porne un’altra entro la distanza di mille o dî duecento passi rispettiva- mente, sarà riguardata come non esistente, se trascorreranno due anni consecu- tivi di cessato esercizio. i 19.° Chiunque nelle cacce non fisse e stabili sarà il primo a piantare ne’ luoghi permessi le così dette capanne, o a prender posto con istrumenti da cac- ciare quadrupedi o volatili, e specialmente animali acquatici e da palude, dovrà, mentre esercita la caccia, esservi legittimamente mantenuto, nè altri potrà pian- tare capanne o prender posto o situare istrumenti da caccia se non alla distanza di trecento passi d’aria d'ogni intorno. 776 DOCUMENTO XLI TrroLo III De’ modi di far caccia permessi e vietati. 20.° Resta assolutamente e rigorosamente proibito nella caccia de’ quadru- pedi e volatili ogni uso di paste o sementi venefiche, le quali possano nuocere alla salute de’ consumatori. 21.° Le cacce di notte fatte per vie di lanterne o fiaccole o pertiche, cam- panacci, o come volgarmente si dice a diluvio o a diavolaccio, sono per sempre interdette. 22.° Sono pure interdette le lanciatore nel circuito di dieci miglia da Roma dal 1.° Ottobre ai 15. di Novembre di ciascun anno. 23.° L’uso delle tagliuole e lacci, che soglionsi porre in terra nelle campagne per prendere lepri, pernici, starne, quaglie ed altri uccelli è proscritto, e resta soltanto permesso di usare i lacci in aria da prendere ogni sorta d’uccelli, e nelle paludi anche in terra per prender beccacce, pizzarde ed altri simili animali. 24.° Rimarrà lecito il solo uso delle taglivole atte a prendere lupi, volpi ed altri animali nocivi. D 25.° Non sarà però permesso di collocare le suddette tagliuole nelle vie pubbliche, e ne’ luoghi dove sogliono passare uomini od armenti, nè sarà per- messo in ogni altro luogo di tenerle accoccate fuorchè dal tramontare al levare del Sole. 26.° Dove sono cacce fisse e stabili, o capanne o poste o reti o vischj per cacciare, non sarà lecito ad alcuno nel tempo che si esercita la caccia, nè di giorno nè di notte di sparare archibugi se non alla distanza intorno di cinque- cento passi d’aria, nè di fare altro rumore, che possa spaventare ed allontanare di colà gli animali, se non alla distanza intorno di centocinquanta passi d'aria specialmente nelle cacce de’ palombacci. i 27.° Il costume introdotto in alcuni luoghi di scegliere, a buono regolamento delle cacce fatte in partite specialmente in quelle de’ palombacci, un capocaceia regolatore potrà essere conservato. i 28.° Nessuno nelle macchie destinate alla caccia di palombacci, neppure il proprietario, potrà in aleun modo di suo arbitrio serociare, tagliare o svellere DOCUMENTO LXI 777 dal suolo quercie, cerri ed altri alberi di alto fusto, ma avanti di ottenere la consueta licenza della Sacra Consulta farà nota la sua volontà sill’autorità locale, la quale, inteso il parere del Capocaccia, e di due periti cacciatori, darà o ne- gherà il consenso, secondo che richiederà ii vantaggio o il discapito della caccia, restando però sempre aperta la via, a chi si trovi gravato, di ricorrere alle com- petenti superiori autorità. 29° Niùno potrà cacciare con archibugio od arme da fuoco, se prima non avrà osservato, quanto è e sarà prescritto intorno alla facoltà di portare simili armi dalle autorità competenti. TriroLo IV. Delle pene in cui andranno soggetti i delinquenti. 30.° I contravventori agli articoli proibitivi di questo regolamento, oltre alla perdita, dove abbia luogo, degli strumenti da caccia e della cacciagione fatta o "commerciata, saranno soggetti alla multa non minore di scudi 10, e non mag- giore di scudi 50. 81.° Qualora poi la contravvenzione sia di tal natura, che abbia recato altrui danno, saranno i contravventori obbligati, oltre alle già prescritte pene, anche al corrispondente risarcimento. % 32.° Chiunque sarà recidivo nella contravvenzione alla Legge, sarà condan- nuto, oltre alle pene suddette a doppia multa. 33.° Se per provata impotenza non fosse, talano in grado di pagare l’im- posta multa, dovrà scontarla nella carcere in ragione di uno scudo al giorno. 340 Le multe saranno divise, per una metà all’accusatore o all’inventore, e per l’altra a beneficio delle Comuni rispettive. TiroLo V. > Della maniera di procedere ne’ giudizj a carico dei contravventori. 35.° Non si potrà in questa maniera di cacce intentare da chicchessia giu- dizio contro alcuno per danno alle proprietà sue dato, od offesa de’ proprj di- ritti ricevuta, se non per denuncia e petizione, non mai per vie di fatto. Nelle 778 DOCUMENTO LXI contravvenzioni poi, ove non entri danno delle proprietà od offesa de’ diriiti altrui, si procederà anche per inquisizione ed uffizio. 36.° Ne’ giudizj appartenenti a questa legge, basterà a fur prova anche un solo testimonio di veduta indifferente, e degno di fede. 37.° Il solo fatto d’essere alcuno trovato, ne’ tempi o luoghi proibiti, per via o in campagna munito di archibugio e munizione minuta, e spezzata da caccia, e molto più se accompagnato iper da cani cacciatori, e in ogni tempo il solo fatto d’essere trovato con istromenti da caccia parimenti proibiti, basterà a renderlo soggetto alle pene rispettivamente prescritte ai contravventori di questa Legge, ancorchè non abbia fatta caccia. 38.° I giudizj per le contravvenzioni agli articoli di questo Regolamento sulle cacce saranno fatti sommariamente dinanzi alle locali autorità competenti, salvo l’appello a chi di ragione. , Gli Emi Cardinali Legati, Monsignor Governatore di Roma e Direttore Ge- nerale di Polizia, i Prelati Delegati, i Governatori locali e la forza pubblica, sono incaricati della esecuzione di questa Legge, la quale incomincerà ad aver vigore dal dì che sarà ne’ rispettivi luoghi promulgata. Roma - Dato in Camera Apostolica li 10. luglio 1826. -P. F. Card. Galleffi Cam. di S. C. G GROPPELLI UDITORE Gioacchino M. Farinetti Seg. e Canc. della R. C. A. INDICE dei nomi proprî e delle cose notabili Abbazia di Grotta Ferrata, 463. Abruzzo, 64, 66. Aoaia, 18, Acquacetosa ten., 344. Acqua Al-ssandrina, 23, 24. Algenziana, 23. 24 Alsietina, 23, 24 Aniene nuova, 23, 24, Antoniniana, 23, 24. Appia, 13. 15, 24, 207. Claudia, 23, 24, Felice, 208, 397, 467. Giulia, 23, 24. Marcia 23, 24. Marzia, 207. Prola, 397. Tepula, 23, 24. Traiana, 23, 24. —. Vergine. 15, 23, 24, 397. Acquedotti, 23. Actus (misura). 4. Adeodato II, 462. Adorni abbate, 362, 388. Adriana villa, 482. Adriano I, 32, 33, 509, 527, 534, 539. — IV, 542. — VI, 1. Affidati, 64, 67 a 71, 85 a 88, 90, 97 a 105, 123, 126, 127, 136. 137, 145, 153, 185, 251 e segg, 272esegg., 287, 305 a 307, 313, 324, 325. Afirica, 17, 18. Agapito II, 532, Ager, 8. compascuus, 5, Gn, desertus, 28. publicus. 4, 5, 7, 8, 12. Stellatinus, 7. Agilulfo re, 24. Agrippina seniore, 45, 46. Agro Campano, 7. Agro romano, 2, 8, 16, 19 a 25, 29, 30, 32 33 50. SI, 56, 63. 64, 66, 69, 70, 83, 105, 121, 143, 144, 150, 152, 156. 159, 187, 197, 198, 20J0 n, 206, 208, 211, 215, 216. 227, 229, 231, 232, 258, 261, 267, 269, 279, 282, 292, 293, 295, 303, 30, 309, 318, 320, 321, 322, 323, 333, 334, 340, 341, 344, 362, 363, 375, 377 a 385, 386, 389, 290, 395, 407, 412, 413, 415, 422, 440. Agro Pontino, 345, 375, 380, 381, 390, Albino prefetto, 22. Albertoni Giulio, 118, 119, Alberico prine., 522. Alberteschi Giovanni, 78. Alessandro II, 33, 449, 483, III, 33, 534, 535. IV, 33, 543. VI, 99, 100, 103. VII, 162, 264 a 268, 517, 521. VIII, 288 a 290. Alfano Fenicio, 354. Alfonso II di Napoli, 455. Aliana massa, 35, Alliano, 92. 780 Almone (rivo), 537. . Amelia, 104. Anastasio IV, 36, 463. Anatolio Console, 18. Anco Marzio, 7. Aniene, 23, 24, 288, 409, 486, 492, 545. Aniene nuova, 23, 24. Anguillara famiglia, 37, 39, 79. — Dolce, 83. — Everso, 81. — Felice, 79, 80, 465. — Giacomo, 78 a 80, 465. — Giovanni, 79, 80, 465. — Lorenzo, 465. — Pandolfo, 78 a 80, 465. — di Sutri, 193. Annibaldi famiglia, 37. — Annibaldo, 349. — Annibale, 495, Annona, 10, 11, 17, 18, 22, 29, 30, 84, 85, 95, 983, 99, 106, 109, 111, 119, 150, 153, 184, 199, 20, 207, 215, 219, 226, 227, 235, 239, 241, 245, 246, 261, 262, 270, 276, 281, 284, 285, 288, 289, 294 a 305, 307 a 310, 320, 321, 322, 324, 325, 327, 328, 332, 333, 334, 344; 345, 368, 369, 370, 371, 372, 373..374, 376, 412, 422, 441 a 443. Anzio, 89, Appiae patrimonium, 30. Appio Claudio, 13, 14, 15. — — Ceco, 15. Apodixa (bolletta), 60. Arcadio, 28, 92. Arco travertino ten., 458. Ardea, 63, 71, 72, 89. Ariccia, 89, 90, 523, 530. Ariano (march. di), 200 n. Ars Bobacteriorum, 43, 47. 55. Astolfo re, 27. Astura, 35, 63, 74, Attila, 24. a Augusto Imp., 1, 10, 11, 17, 18, 405. Aulo Gellio, 16. 28 n. — Sempronio, 10. Aureus solidus, 38 n. INDICE DEI NOMI PROPRÎÌ E DELLE COSE NOTABILI Aventino monte, 27, 35, 89, 447. Bagnorea, 194, 256. Banca agraria, 418. Banderesi, 46. Bandite per pascolo, 141. Barbarano, 192. Barberini famiglia, 481, 483, 484, 501, 525, 526. Basilica di S. Pietro, 36. Bellincastri Pietro di Paolo, 73. Beltrando di Bernardo, 47. Benedetto III, 510. — VII, 523. — VIII, 37. — XII Antipapa, 44, 483. — XIII, 298 a 305. — XIV, 309 a 319, 456. Bestiame brado 66. — colonicus, 66. — tectus, 66. Bieda, 192, 256. Bisanzio. 17. 22, 29. Boattieri, 45, 47, 50, 50n, 51, 198. Boccea ten., 39, 63. Bonifacio I, 539. — VII, 476. — VIII, 46, 453, 464, 471, 489. — IX, 55, 64, 66, 71, 72, 75, 81, 465. 506, 514. Bonificamento dell'Agro romano, 427 a 436, 438 a 443. Borbone, 125, 137. Borghese Prince. Francesco, 468. — Marcantonio, 340. 493, 517. — Scipione Card., 467, 468, 536. — Principe, 340, 493, 517. Borghetto (Burgum S. Leonardi), 271, 272. Braccio da Montone, 63. Brancaleone Senatore, 48, 92. Buffali. 25, 122. Bufolotta-Ciampiglia ten., 436. Buonricovero ten., 81. Buonriposo ten.. 40, 63. Caccia, 157, 269, 270, 402. Cacherano di Bricherasio G. F. M., 341, Caetani famiglia, 37, 46, 453, 456. — Francesco Card., 453, sentii MI INDICR DEI NOMI PROPR'Î E DELLE COSE NOTABILI 781 Caetani Giacomo, 74. — Onorato, 74. Caio Cesare, 17. Caffarella ten., 361, 537. Calisto ITT, 516. Camera Apostolica, 48, 48 n. 67, 68, 74, 75, 81, 86 a 88, 90, 91, 97, 99, 100, 102, 103, 106, 107, 109 a 111, 115, 117, 120, 124, 125, 127. 131, 132, 135, 136, 140, 141, 143, 144, 161, 170, 176, 177, 184, 186, 190 a 192, 198, 213, 216, 217, 225,227, 228 213, 236, 242, 248. 253, 255, 257, 262, 267. 276, 284, 313, 323, 345, 346, 488, 491, 500. — Capitolina, 51, 52, 54, 57, 58,59 n, 59, 60, 61, 65, 70. Camerlengo Cardin, 84, 85, 91, 97, 107, 111, 120, 122, 123, 127 a 129, 134, 136, 144, 146, 206, 211, 214, 217, 220, 232, 235 a 237, 241, 245, 247, 251, 261, 263 a 265, 267, 269, “70, 271, 299, 319, 321, 322, 324, 326, 328, 338, 339, 342, 343, 358, 360, 364, 384, 395, 402. Campidoglio, 1, 45, 48, 59, 61. Campo barbarico, 457, 458. di Pescia ten., 362, 363. Meruli, 37. morto, 40, 63, 73, 74, 121n, 390, 405, 406. vaccino, 44, 49 n. Verano, 527, 528. Canepina, 194. Canori G. B., 384. Capitolo Lateranense, 488, 521. di S. Pietro, 74, 77, 340, 506. 507, 512, 516, 517. Capizucchi famiglia, 79. — Onofrio, 72. Capocefalo Alessandro, 354. Capocci famiglia, 189, 4904, 495, 496. a Salvatore, 121 n. Capo di Bove, 89, 453 a 456, 461. Uapodiferro fam., 75. — Battista, 75, — Cristoforo, 75. Capo Stefano, 75. Cappello verde, 148, 158. Capracoro (domusculta), 33. Capranica Bartolomeo, 75. — Camillo, 521. — Domenico Card.. 516, - di Sutri, 193, 250. Carcari, 63 Carlo d'Angiò, 57 n. — IV di Boemia, 531. — V, 488. Cartaginesi, 3, 16 Casal dei Pazzi ten, 344. Monastero ten., 126. Tre Colonne ten., 13, 5614, Casali G. Battista, 117 a 120. Casetta Mattei ten., 376, 377, 437. Cassa di colonizzazione, 433, 434. Cassiodoro, 24, 26, 442, 443. Castella ten., 63. Castell’Arcione ten, 40, 63, 489 n 493. Castello dei Caetani, 39, 63, 452 a 456. — Campanile ten., 63. — di Corese, 43. — di Guido ten., 38, 39, 63, 78. — dell'Isola ten., 83. — di Leva ten., 63. Fusano ten., 38, 39, 63, 75. Giubileo ten., 40, 63, 502 a 508. Giuliano ten., 39 63, 82. Malnome ten., 39. Orciano ten., 39. di Paterno, 530, 530 n. Porziano ten., 63, 76, 159, 160 a 183. — Romano ten., 63, 75, 421. — S. Angelo, 206. — Savello, 63. — S. Elia, 271. — Vecchio, 540. Castelluccia ten, 63. Castiglione ten., 40, 63, 126, 462, 464 a 468. Catasto, 268, 333 a 336, 339, 340, 375, 395, 4ll a 414, Catone, 4, 16. Cavalieri di S. Pietro, 115, 782 INDICE DEI NOMI PROPRÎ E DELLE COSE NOTABILI Cavallette, 258 è segg. Cave, 143. Ceeilii, 452 n. Cecilia Metell», 89, 452, 453, 536. Cecilio Metello, 452, 452 n. Celestino III, 34, 35, 528, 529. Cenci famiglia, 456. - Rocco, 455, 458, Cencio Camerario, 36. Censori, 16, 28. Centocelle, V. Tor S. Giovanni ten. Centri di colonizzazione, borgate rurali, 431, 432, 435, 436, Cesano, 38. Cesare Augusto, 19, 20, Cere e Cerveteri, 39, 63, 79, 80, 465. Ceres Augusta, ll. Chierici di Camera, 84. Chidelberto re, 25. Chigi Agostino, il Magnifico, 102, 104, 105. — Principe, 340. Cicerone, 9, 19, 453. Cingolani G. Batt., 268. Cinquetorri ten., 454. Civita Castellana, 193, 256. Civita Lavinia, 531. Civitavecchia, 95, 129, 130, 134, 194, 195, 245, 253. Civitella Cesi, 193. Claudio, 18. Clemente IV, 57 n. — VI, 45. SC AVIUGNILI 121124 N25 0198, 0104, 156, 367, 466 a 475. — VIII, 201n, 211 a 221, 456. — IX, 268 a 270. — X,270 a 281. — XI, 292 a 296. — XII, 305 a 309. — XIII, 319 a 325, 345. — ELV, (920 a (329) Clodiana legge, 19. Coazzo ten., 421. Cola di Rienzo, 45, 92, 349, 465. Collazia, 476. Colonna famiglia. 37, 72, 74, 483. — Antonio, 79. Colonna Francesco, 481. — Giovanni Card., 160, 167, 179. — Giordano, 72, 455. — Lorenzo, 480. — Marco Antonia, 486, 467. -- Odoardo, 73, 77. — Oddone, 524, 525. — Pietro, 524, 525. — Pietro di Pietro, 525. — Prospero, 73, 77, 78, 160. — Stefano, 474, 480, 481. Colosseo, 208, 355, 356, Columella Lucio Giunio Moderato, 16, 360 n. — Marco; 360n. Comes formarum, 24. Commodo Imper., 17, 457. Communitas Bobacteriorum, 43,44, 50, 198. Compagnia del Salvatore ad SS. Sancto- rum, 454, 458, 459, 460. Conca ten. 40, 63, 74, 265, 404, 405. Congio (misura), 46. Congitella (misura), 47, 397. Congregazione greca, 34. Consalvi Ercole Card., 377, 386, 389, 394, 399. Consoli Agricoltura, 53, 151, 152, 153, 248, 293. — Annona, 150. ‘— dci Bovattieri, 44, 45, 47, 50, 149, — dei Mercanti, 44. 45. Contatori dei bestiami, 220. Conti Famiglia, 471, 472. — Nicola, +72, 474. — Paolo, 349. — Pietro, 471, 472, 473. — Sagace, 78. — Stefano, 349. Conti Tuscolani, 37. Corchiano, 91. Corcolle ten., 63. 478 a 481. Cornazzano ten., 39, 63. Cornazzunello ten., 525. Corneto, 134. 135, 192, 221, 222, 225, 245, .156. Corniculani (monti), 23, Corsari, 345, Epy -* INDIOR DEI NOMI PROPRI E DELLE COSE NOTABILI 783 Costantino, 29, 448, 527. Costantinopoli, 22. Costanza, 538. Costanzo Imp., 451, 538. Curia romana, 106. Damaso I, 533. Dativo reale, 342, 372, 375, 380, 395, 407. Dazio Mncinato, 343. Dea Febre. 3. De Archionibus Romano ed Archione, 470, 471. Debito pubblico, 344. Decimo ten, 39, 63, 161. Decumani, 9. Del Nero Agostino, 161, 167 a 170, 170, 179, 182, 183. — Alessandro, 162. — Luigi Maria, 162. — Tommaso, 161. De Matteis Pantasilea e Camilla, 455. De Medici Caterina, 475. De Mutis fam., 79. Depositeria del bestiame, 282. De Rido Antonio, 74. De Saglia B.ttista, 94. Deus Redicolus, 537. De Vico famiglia, 80. — Giacomo, 80. Di Gabriele Maggino, 205, 206. Distretto di Roma, 43, 57, 58. 60, 71. Dogana dei pascoli del Patrimonio, 88, 90, 97, 98, 104, 105, 110, 111, 122, 128, 130, 131, 133, 134. 136, 141, 141, 184, 186, 189 192, 195, 196, 251, 252, 255, 257, 276, 306, 314, 385, 292, 397. — dei pascoli di Roma, 86, 87. 90, 97 a 99, 104, 105, 111, 122, 128, 131, 133, 134, 136, 144, 184, 252 314, 392. — Pecudum. 64, 65, 67,86 100a 103, 120, 122, 126, 128, 130, 133, 11, 146, 147, 172, 184, 186, 189, 192, 195 196, 232. 247 251. 252, 254, 255 257 270 n 274 276, 278, 287. 293 314, 324, 385, 391 n 394, 397 a 402. Dognniere, 64, 67, 68 a 70, 87, 90, 98, 99, 101 a 105, 110, 122 a 124. 127, 128, 131, 136, 137, 142, 153, 186, 189, 191, 196, 219, 220, 252, 253, 255 a 257, 278, 324, 392, 303, 304. Domus cultae, 32, 437. Domiziano, 19. Doni G. Batt,, 250, Edili, 10. — Cereali, 10. — Curuli, 10, 150. Egitto, 17, 22. Elena Imperatrice, 519, 520. Enrico II di Germania, 143, 482. III, 479. — V, 479. Epiro, 18, Equi, 14. Equirie feste, 2. Equites singulares, 519. Ernici, 12. Erode Attico, 536, 537. Eruli, 22. Escaticum, 43. Eschinardiì Francesco, 268. Eugenio IV, 73, 81 a 85, 95, 449, 474, 477, 480. 483, 491, 499, 515, 535. Eulalio Antipapa, 539. Faba Tosta (via), 48 n. Faleria, 530 n. Farfa Mon. 43, 469. Federico £I, 44, 124. Felice III, 520. Festo, 14. Fiano, 78. Fida bestiame, 186, 187, 262, 263. Fidene, 502 Fiumicino, 232, 412. Fioro, 19. Foca Imp. (colonna di), 48 n. Fontana di Pipa ten, 494 a 501. — Trevi, 353n. 354, 355, 357, Fornai ed Università (dei) 30, 106, 198, 199, 226, 219, 288, 289, 294, 205, 299, 301, 305. 306, 307, 311. 320, 327, 328, 331, 332. 371, Fossignano ten., 40, 63, 784 INDICE DEI NOMI PROPRÎ E DELLE COSE NOTABILI Frangipani fam., 37. — Antonio, 531. — Giacomo, 116, 118. — Gorio, 531. — Lelio, 94. Frascati, 91. Frontino, 8. Frumentarî, 10. Frumentarie prov., 9. Frumentationes, 16, 17, 22, 27, 29. Fundus, 6, 30. Gabij, 462, 463. Galeria. 37, 63, 82, 83. — (conti di), 38. Gallese, 91. Galli, 14, Gallia, 17, 18. Gavotti Angelo, 162. — Carlo, 162. Gelasio I, 25. Germanico, 45. Giacchetto (fornaio), 106. Ginnasi Dom, Card., 341 n. Giorgi Andrea, 384. Giovanni VIII, 448, — XII, 459. — XIII, 75, 523. — XV, 478. — XVII o XIX, 37, 478. — XXII, 483 — XXIII, 480, 491. Giovannipoli, 449, 450. Giubilei Pietruccio di Buccio, 503. Giulio II, 106 a 108, 113, 114, 117, 138, 307, 500, 501, 532. — III, 14], 142, 168, 180, 516. Giulio Cesare, 7. Glandaticum, 43. Goti, 22, 25. Grazioli Duchi, 475, 493. Gregorio I, 26, 27, 448, 509. — II, 35, 489, 527. — III, 494. — V;:35. — VII, 36, 449, 463, 470, 476, 479, 482, 487, 511. — IX, 37, 44, 471, 535. Gregorio XI, 449, 544. — XII, 84. — XIII, 159, 177, 184, 189, 195, 199, 200, 536. — XIV, 209, 210. —. XV, 235 a 239. — XVI, 409 a 414, 536. Gregorio di Tuscolo, 523, 528. Grotta di S. Famiano, 530. Grottaferrata Mon., 74. Guccio di Nardo, 75. Herbaticum, 43. Heroon, 536. Horrea, 447. Horrea Portuensia, 18. Infessura Pietro, 72. Innocenzo II, 42, 43. — III, 470, 479, 528, 529. — IV, 464, 529. — VII, 55, 75. 465, 504. — VIII, 98, 100, 189 n. 190, 455, 500, 545. a = CTR SI0 — X, 250 a 260, 545. — XI, 49, 281 a 284, 517. — XII, 290 291. — XIII, 297, 298, 469. Insula, 494, 506. Ipoteche, (Uffizio d’), 374. Istituto pontificio agrario d’incoraggia- mento, 414, 415, — Zootecnico Laziale, 432, 436. Isola Ponzia, 90. — Sacra, 344, 412. Italia, 19, 21, 22. Iugero, 4. Labicanum patrsmonium, 30, 35, Ladislao di Napoli, 62, 483, 504. Lana in Roma (arte della), 348 a 35. — Bastarda-Spagnuola, 364. — Bigia-moretta, 365. — Ibero-Spagnola, 364. — Filettinese, 365. — Pugliese e montagnola, 365. — Vissana e sopravissana, 364. Landosa (castello), 76. Lante fam., 532. INDICE DEI NOMI PROPRÎ E DELLE COSE NOTABILI 785 Leone*Marcantonio, 532. Latini, 14. Laziali colli, 23. Lazio, 1, 390, 381, 385, 389. Leggi agrario, 11. Leone II, 519. — II 35, 502. — IV, 63. — IX, 43, 30. — X, 108, 110, 111, 118, 475, 545. — XI, 221. — XII, 399 a 407. Leopoli, 63. Leprignana ten., 78. Liberio Papa, 538, 539, Libro della Dogana. 68. Licinie Sestie (leggi), 8, 13. Licinio Stolone, 14. Livio Druso, 19. Longobardi, 22, 24, 27. Lotario, 27. Lucano, 21. Lucio Minuzio, 11. Ludovico II Imp., 510. Lunghezza ten., 40, 469, 469 a 475. Luoghi di Monte, 126, 208, 230n. 235 a 237, 27, 289, 296. Luoghi immuni, 404 a 406. Macchine trebbiatrici nell'Agr. rom,, 414. Macedonia, 17, 18. Macello di Libia, 34. Maffei fam., 493. . Magliana ten., 81. Maguglianus, fosso, 487, 49%. Malati nella Camp. rom., 279, 280, 341 n. 419, 420. Malagrotta ten., 78, 145. Malatesta Lamberto, 200 n. Malntesti Malatesta, 350, Malborghetto ten., 73, 77. Marcello II, 142. Marcellino castello, 470, Marco Simone, ten., 40, 76, 77. Mareri Lella, 76. Marino I. 36. Marittima © Campagna, prov., 67,69, 93. 115, 322, 323, 326, 380, 381, 385, 389. Marmorata, 447. Marta (fiume), 221. Martino V, 55, 67, 72, 74, 84, 85, 92, 330. Martino Lutero, 118. Maasa, ten., 30, 40, Massa Cesana, 38. Massa Claudinana, 30. Massimi Orazio, 511, Mas imisnno da Ravenna, 29. Mauritania, 18, Mausoleo di Augusto, 524. Mazzoleni-Gori Achille, 420, 421. Melania giuniore, 21. —. seniore, 21, Mentana, 496, 200, 507. Mercanti di campagna, 198, 303, 307 a 309, 314, 329. 332, 390. Messala Valerio Messalino Cotta, 455. Migliorati Ludovico, 455. Miseno, 18. Minetti Pietro, 220. M. Minucio, 10. Montalto, 99, 122, 254 a 256, 380. Monte Cave, 89. — Circello, 90. Monte Citorip, 524. — Fiascone, 194. — Gentile, 494 a 501. — Maggiore ten., 59 n, 04, 70, 82. — Porzio Catone, 468. — Romano, 146. - Sacro, 10, Modius, 30. Mutationes mansiones, 18. Narni, 22, 105. Navalia, 43. Nemi, 90. Nerola, 272. Nerone, 48. Nepi, 83, 256, 523. Nettuno, 89. 246, 265. Nicola I, 510. — V, 74, 83, 190, 480, 499, 505, 515. Nicolai N. M., 366 a 369. Nobilis ars agriculturae, 44, 49. Norcia, 104. 786 Notaro della Dogana, 68. Numa Pompilio, 7. Onorio Imp., 17, 22. — I. 520,539. — II, 36. 44, 453, 470, 476, 483, 487. 520, 527, 529. Orsini fam., 37, 74, 80 a 82, 455, 492, 500. — Averso di Giacomo, 77. —. Camillo 142, 143. — Carlo 455. — Francesco, 500. — Gentile, 83, 492. .. — Giacomo, 76 a 78, 83, 490, 498. — Giordano, 74, 82, 83. — Giovanni Antonio, 491, 499, 500. — Giovanni di Giacomello, 82. <— Iacobello, 71. 72. — Lorenzo, 78. — Maria, 72, 81. — Napoleone, 492, 499. — Orso, 78. — Paolo Giordano, 203, 204. — Rinaldo. 491, 544. Orte, 272. Osa tenuta, 40, 470, 475 a 477. _ — fiume, 468, 469. Ospedale di S. Spirito, 51, 80 a 82, 135, 161, 177, 193, 340, 496. Osteria del Pidocchio, 507. Ostia, 7, 18, 39, 75, 88, 89, 137, 207, 319, 341 n, 412, (37, 447. Ottone III Imp. 482 Palatino, 1a 3. Palazzo lateranense, 34. — Morgano, ten. 344. Palidoro, 79. Palificatum. 43. Palo ten., 39, 81. Palozzi de Fuscis de Berta Pier Giov., 72. Paludi Pontine, 20, 345 a 347. Pantano ten., 414. 462, 466 a 468. Paola ten. 63, 81. Paolo II, 90, 81, 99, 105. 136. — III, 126, 130, 136, 138, 140, 466. — IV, 142, 143. — V, 221, 227, 230 a 232, 468, 512. — Diac., 25 a 27. | INDICE DEI NOMI PROPRÎ E DELLE COSE NOTABILI Paolo di Lello, 85. Parilie (feste), 2. Paruta Paolo, 201. Pascua Pop. Itom., 6. Pasquale I, 34 a 36, 448, 539. — Il, 449, 479, dA. Passo Corese, 272. Patrizi March. 340. Pecore merinos, 360, 360n, 362, 388, 389, 391, 393. Pedagium 43. Pedica della Questione, 544, Pelagio I, 25. — II 528. Pepoli conte, 204. Piacentini Francesco, 518. Piantagione alberi, 21i, 312, 335, 381, 383, 408, 411, 417 a 419, 421, 422. Piccolomini Alfonso, 200f. Pietra Pertusa ten., 39, 63. Piniano, 21. Pio II, 75, 85, 87, 88, 99, 101, 105, 136, 506. — III, 106. — IV, 147, 148, 161, 177, 305, 320, 367, 540. — V. 49, 149, 151 a 154, 158, 159, 178, 198, 367, 535. — VI, 330 a 345, 367. — VII, 367, 365, 370 a 399. — VIII, dll. — IX, 4l4a 420. Pipino re, 27. L Plateaticum. 33. È Plinio, 3 n, 16, 20, 447. Plutarco, ll. Poli, 523. Poli (conti di), 77, 487, 489, 524, 526. Polta, 6. Pompeo, 11, 442, 452. Pontaticum, 43. Ponte Mammolo, 59, 59n, 70, 487. Milvio, 506. — Nomentano, 59, 70, 269, 391, 500, 545. — Salario, 59, 70, 269. Ponto, 18. tin a o peste; INDICE DEI NOMI PROPR' E DELLE COSE NOTABILI Porosreccia ten., 63. Portaticum, 43. Porta Labicana, 520. — Ostiense, 35, — Pia, 391, 540, 541, — San Sebastiano, 452, — Tergemina, 447. — Tiburt na, 527. | Porto ten. 37 a 39, 81. 266, 207, 344, 412. — SS. Rufina. 38. — Traiano, 37. Pratica ten., 36, 39, 75. Pratolungo ten., 486 n 488. Prefetto dell’Annona, 143, 149, 184, 198, 199, 210, 214, 222, 224, 227, 230, 246, 260, 261, 262, 288, 259, 2.2, 302, 311, 312, ‘118, 331, 335, 336» 337, 330, 533. Prenestini (monti), 23, Procopio, 26, 452. Prorulo Virginio, 12. Proprietari delle pecore, 278, 286, 298. Provincia del Patrimonio, 64, 86, 93, 104, 322, 323, 326, 380, 381, 385, 389. Publio Clodio, 19. Purgo (lo), 354. Ravenna, 18. Redicoli Accoramboni, ten., 436, 506. — de' Ricci, ten., 503, 505. Renzo di Nicola, 83. Ripa Romae, 106. Riscoli, 233. Ripaticum, 43. Rogatio, 11, 12. Roma, 1, 8 a 10, 15 a 17, 19,20, 22, 24, 25, 27, 39, 56, 67, 69, 87 88,92. 93, 97, 109, 113, 114, 116, 119, 122, 125, 138, 210, 216. — vecchia, 344, 457 a 461. Roscio Amerino, 9. Rubbio, 46 Ruccellai Giacomo, 116, 118. Rugitella, 46, Sabinense patrimonium, 30, Sabini, 14. Saccarii, 18. Saccoccia, ten., 344. 787 Salone, ten., 15, Sant'Agata, ten, 4)5. SS. Agnta e Cecilia, Mon., 35, SS. Agnese e Costanza, Mon., 4l, 498, 538 a 545. SS. Alessio © Bonifacio, Mon., 35. S. Anastasio ad acquas salvias, 36, 75,504. S, Andre» al Clivo di Scauro, 30, 78, 5623, 524. S, Basilio, ten., 421. © S. Cecilia (domusculta), 32, 485 a 488. SS. Ciriaco e Nicola, Mon., 70, 77, 486, 487, 494, 503 a 505. Santacroce Prospero Card., 354. S. Eustachio, 35. S. Giovanni in Camporazio, 523 a 526. S. Giovanni in Laterano. 33 S. Gregorio Magno, 25, 36. . Leucio (domusculta), 509, 510, 511. Lorenzo in Damaso, 34, Lorenzo fuori le mura, 496, 527 a 532. Lorenzo in Lucina, 34. Marco Pont., 35. Maria in Aracoeli, 504 Maria di Galeria, 37. Maria in Monistero, 542. . Maria Maggiore, 34, 340, 490, 494, 496, 497. . Maria e San Gregorio in Campo Mar- zio, il4. Maria in via Lata, 505. . Marinella ten. 39. 63. . Martino ai Monti, 75. Oreste, 542. . Pietro in Vincoli, 532, 540, 544. . Paolo fuori le mura, 36. 72, 76 a 78, 447 a 450, 456, 469, 470, 472 a 474, 477 a 483, 495, 023 528. S. Prassede, Mon, 34, 4)4 a 466, 474, 490, 497. SS. Rufina e Seconda, 38. S. Rufina ten,, 126, S. Saba aull’Aventino, 36, 38, 76, 82, 83, 159, 161, 167, 177, 179 S. Sebastiano ad Catacumbas. 533 a 537. S. Severa ten., 39, 80, 92, 407. S. Stefano al Celio, 34. HDANLWD W NAENRUUUIUMRUV mm 788 S. Silvestro in Capite, 59 n, 487, 525. S. Urbano, 536. S. Vittorino (castello), 482 a 484. Saputo, 25. Saraceni; 27, 63, 448. Sardegna, 11. 18. Sasso ten. 63. 99. Savelli famiglig, 37, 73, 74. — Antonello, 79. — Cola, 73, — Giovanni, 454. — Giovanni Batt., 99. — Luca, 44. — Maria, 73. — Vannozza, 73. Scarampi Ludovico Card., 78. Sciarra Marco, 201 n., 202 n. Scorano ten., 77, 78, 420. Scriptura (tassa), 6, 9, 42. Selva Proba, 34. Senatus Consulto, 6. Seneca, 20. Servio Tullio, 2, 7, 63. Sessoriana basilica, 29. Sette Bagni ten., 344. Sette Bassi ten., 459. Sforza Attendolo Franec., 83. -— Caterina, 507. — Césarini (Luca), 340. Sicilia, 9 a 11, 16, 18, 106. Siconolfo, 27. Silio Menico da Visso, 286. Simbruini (monti), 23. Simmaco Pont., 520, 539. Sisto III, 34, 527, 533. — IV, 9l a 93, 97, 98, 100, 107, 108, 1}1, 114, 117, 121, 138, 367, 379, 507, 544. — V, 84. 199, 203, 205 a 208, 354 a 356 456, 467. Solfarata ten., 40. Soratte, 90. Soriano, 91, 105, 193, 194. Sovratassa di migliorazione, 380, 383. Spagna, 18. Spicilegio, 310, 315 a 318, 322, 3.3, 331, 395, 396. INDICE DEI NOMI PROPRÌ E DELLE COSA NOTABILI Spinola Gerardo, 349. Spoleto (ducato di). 22. Spurio Cassio, 12. — Manlio, 19, — Mecilio, 13. — Metilio, 13. Stalle p. bestiame, 420. 421. Statuario ten., 457, 460, 461. Statuti dell’ agricoltura, 43 a 45, 49, 51, 149, 198. — dell’agricoltura a Corneto, 221 e seguenti. * — dei Bovattieri, 47 a 50, 124. — di Castel Porziano, 159, 160, 162 a, 167. — della Dogana e della fida bestiame, 67, 70, 71. — . dell'Arte della lana, 349, 357, 358, 360. È — dei Mercanti, 44. — di Olevano, 61, 62. — di Roma, 61, 55 a 62, 65, 70, 91. Stanga della Dogana, 185 a 187, 275. Stefaneschi famiglia, 37, 38, 81. — Pietro Card., 48. Strade Dozanali, 147, 251, 398, 399, 401. Strozzi fam., 466, 469, 475. i Subaugusta, 519. Sutri, 22, 193, 256, 523. Tacito, 20. Taglio dei boschi, 256, 265, 389, 410, 423 a 425. Tarquinio il Superbo, 10. Tassa bestiame, 420. Tavrilie feste, 2. Tedallini Giacomo, 72. Teia, 24. Telonia, 43. Tenuta modello, 415, Teodorico, 24, 442, 539. Teodoro di Megesto Cataxanto, 32. Teodosio, 17, 28, 92. Terracina, 126, 246, 265. Terraticum, 43. Testa di lepre ten., 39, 63, 78. Tevere, 5, 7, 15, 18, 26, $9, 115, 125, 231, 272, 288, 461. $ INDICE DEI NOMI PROPRÎ E DELLE COSE NOTABILI 759 Thoria lez, 5. Tiberio Gracco, 13, 14. Tiburtinum patrimonium, 30, 32. Tivoli, 88, 90, 491, 492, 499. Tolfa, 122, 194, 256. È Tolomei Raimondo, 349. Tomassetti Frano., 49 n. — Giuseppo, 56n, 64n, 238n, 447. Topi della Camp. rom., 290, 291. Torre Bovacciano, 413. Tor Carbone ten., 344. Tor di Quinto, 509 a 512. Tor Mancina, 40. Tor Pignattara, 519, 521. Tor S.Giovanni o Centocelleten.,519a 522. Torre del Cimpanaro o «li Pallara, 44, 48 n, 49 n. — dell'Inserra, 49 n. — del Mercato, 349, — Nuova ten., 437. — spaccata ten., 457, 460, 461. Torricella, 76, 494 a 501. Torrecchia, 63. Toscanella, 89,97,134, 135, 193, 195, 254, 256 Totila, 24, 27. Trafusa ten., 72. Tribunale dell'agricoltura, 150, 151, 156. Truzzi fratelli, 384, 389, 390. Tuscolo, 90. Tusciae Patrimonium, 30. Umiliati (frati), 81, 352. Umiliate, 352. Universitas Bobacteriorum Urbis, 44, 48 n, 50. Urbano II, 34. — III, 34. — V, 47,51. — VI, 71, 4419, 503. — VII, 208, — VIII, 239 a 250, 456, 5 ‘6, 528, 532. Usi civici, 31, 48, 52, 54, 06, 56 n, 61, 62, 92, 95, 97 e segg., 106 a 109, 111, 114, 120, 121n, 127, 129, 135, 138, 139, 140, 150, 157 a 184, 187, 191, 217, 218, 306, 310, 1314 e sege., 336, 337, 338, 379, 380, 395, 416 a 418, 422, 423. Vacche bianche, 226. — cacciatore, 219. — rosse, 110, 113, 116. Valca o Valchetta ten., 39, 361, 513 a 518. Valente Imp., 18, 29. Valenti Giovanni, 202 n. Valentiniano Imp., 18, 28, 29, 92. Valenza, 345. Vallerano ten., 72. Valerio Massimo, 11. Vandali, 22. Varani Bartolomeo, 349. Varrone, 16, 60. Vaticano, 65. Veio, 13. Velia, 1. Vectigalia, 6. Velletri, 73. Venturini fam., 37, 80. Vetralla, 193, 256. Via Appia, 15, 35, 89, 342, 347, 452, 533, 536. — Cassia, 30. — Ciaudia, 35, 342, — Collatina, 469. — Labicana, 25, 519, 522. — Latina, 25. — Laurentina, 25. — Nomentana, 494, 538. — Ostiense, 447, 451. — Portuense, 37. . — Salaria, 502. — Via Tiburtina, 32, 35, 208. — Tuscolana, 208. Vico Alessandrino, 451. Vicus. 20. Vigna Pia, 418. Villa dei Quintili, 457. — di S. Antimo, 59, 59n, 64, 70, 82. Vitelleschi Giov. Card., 73, 466, 480, 499. Viterbo, 105, 193, 256. Vitige, 24. Vitorchiano, 105, 194. Volsci, 14, 20. Zaccaria Papa, 32, 462, 478, 485, 639, SARE ON MINT, Vi RU "NR a AE VASO ‘TV PIT ER a ' ù x ì e REC . È n t] k 4 + » . i Load ORSI adi wi GAD: ‘ dh. | it Va di es Li ' 4 U ie -, pra dK}36 heste gii naY ì Ki È di) (o) dC di IS SALITA ‘ ‘ A È pisueg® Lari “pei f DA hi P A sm DJ Lal” © A ] { sd, % NM t Pa ed Cupis, Cesare de Le vicende dell'agricoltura I9R4 e della pastorizia nell'Agro romano PLEASE DO NOT REMOVE CARDS OR SLIPS FROM THIS POCKET UNIVERSITY OF TORONTO LIBRARY