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Otgood, of Medfbrd, in 1860; in 1883 the fond became

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STORIA DEL DIRITTO ITALIANO

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FRANCESCO ^HUPFER LE FONTI

LEGGI E SCIENZA

3* edis. rÌTedat« e notovolmente ampliata

CUI IMTIICI L UM I. UESGIEI k G.

CITTÀ DI CASTELLO BOHA, TOBINO, FIBSMZB

1904

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PROPRIBTÀ LETTERARIA

Si avranno per oontraffi^tti tatti gli esemplari sensa la firma dell'autore.

Città di Castello, Tipografia dello Stab. S. Lapì, 190Ì.

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A MIA MOGLIE

AI MIEI FIGLI

INDICE

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LIBEQ FBIliO.

IL MEDIO EVO.

SsziOKS Prima. !_• E P O G A a E R M A N I C A' * - - - Pag- S

Titolo 1 Leggi e cm^Buetudinu

I Cafo I^ I t^mpi barb&rtoì.

1^ § U La {Mrt^QAlità del diritto - * n 7

§ ^ Lftt ì^eggì dei tempi bftrbarioi. A. Lt l«>giì lomuiei,

a. €«a«e che ne de terminar ooo la cootiiiti Azione ^ , ^ ^ M

è, he l«ggì romuie propriamente dette ^ W

e* Le leggi romane dei barbarL

oo. Oli editti dei re ostrogoti. L'editto di Teodori oo . ^ 37

bb. La lex romana Wisigothorum ^ 43

€c. La lex romana Bnrgandtoniim .*.-*... 48 3* La leggi barbaricbe.

a. Cauae ohe ne determinarono la compilazione^ Direr-

eìtà. aMniiàt g^tippi ,. ^ 50

è, Sìngele leggi*

OH» Leggi èel grappo franco*

€« La legge eaUoa ..*..* n 67

$, La legge Kibuaria. .....«..., .^ M

66> Leggi del gruppo eycYO.

z. n pactna e la lex Alamannornm . . . ^ * > t, 09

% La lex B&tQwarìomm. * tt '^^

ee, n grappo goticop

m. Le legee Wisigothorum* ...... p .# i, 79

^ La lem Bargandionum * i, ^

k

dd, L^ ad bini langobardoram.

a. L'edìctue nella sua formazione e applicazione . 101

p. Influenze stfaniere nell'editto langobardo . . 112

Y- Carattere e importanza dell'editto n 1^24

§ 3. Le Formule . n 1^

Capo II, I tempi carolingi.

§ L I capitolari franchi 160

§ 2. I capitolari italici. 169

g 8oopQ e carattere dei capitolari n ^^

Capo III- I tempi feudali,

§ 1. Le leggi dell'età feudale n ^^^

§ 2. Il diritto cDuauetudinario e l'oso giudiziario n l-'74

§ £k La legge romana udinese 189

Ci3

Titolo n.

' Le seuole e la scienza del diritto.

Capo J* Scuole romane e scienza romana.

§ 1. Le scuole di diritto romano 197

§ % La scienza romanistica.

A. I primi tentativi 202

B. Le Questi ones de jurie subtilitatibus e la Summa Codicis . 206

C. Bracliylogufl juris oivilis 221

D. Le Exceptìoues legum Romanorum 227

§ 3. Il carattere della scuoia 284

Capo H. ^ Scuola ìangobarda e soienza langobarda.

§ h La scuola di Pavia « ti 242

g 2. La scuola di Pavia le collezioni delle leggi langobarde. 245

§ 3* La Muole Pavia e la scienza del diritto langobardo ^ 251

Sezione Seconda. U*E POC A NEO-UATIIM A- . . . . 260

Titolo L Leggi e consuetudini.

Capo L La territorialità del diritto n ^^

Capo li. Leggi d'indole generale.

§ L II diritto romano n 279

§ 2. Il diritto ecclesiastico,

A. Sue fonti i, 292

VII

B. Le collezioni . -..,,„

C. Valore intrinseco della legislazione ecclesiastica. Sua influenza. Lotta col diritto romano »

§ 3. La legislazione imperiale

Capo HI. Legislazione provinciale. Costituzione di principi . § 1. Leggi d^ Regno di Sicilia.

il. Assise e consuetudini normanne. Costituzioni sveve. .

B. Capitoli angioini e Prammatiche aragonesi

C Capitoli, Prammatiche e ordinazioni dei re di Sicilia . .

§ 2. Leggi della monarchia di Savoia. Statuto di Amedeo YIII

§ 8. Leggi dell* isola di Sardegna. La carta di Logu , . . ,

§ 4. Leggi dello Stato della Chiesa. Costituzioni Egidiane. .

298

306 319

332 348 3B4 361 372 375

Capo IV. Legislazione locale 384

§ 1. Statuti municipali.

A, Della legislazione statutaria in generale.

a. Gli elementi degli statuti. Condizioni speciali della

bassa Italia 385

6. Compilazione, pubblicazione e forma degli statuti . . 407

e. Ponti e contenuto degli statuti 413

d. Fondamento ed efficacia degli statuti 440

B. La legislazione di alcune città in particolare.

a. Le leggi della repubblica veneta ,, 45r

b. I brevi e i costituti di Pisa 465

§ 2. Statuti rurali , 481

Capo V. Leigislazione speciale delle classi.

§ 1. Gli osi e statuti delle arti / n ^3*7

§ 2. Leggi e consuetudini marittime.

A. Delle consuetudini marittime in generale 509

B. Gli Ordinamenti di Trani 516

C. La Tavola d'Amalfi « 626

§ 8. Le consuetudini feudali. Def etari, Assise di Gerusalemme,

Libri dei feudi ,,533

§ 4. Gli osi contadineschi 550

^

Titolo II.

Le scuole e la scienza del diritto.

Oapo L La scuole.

§ 1. Loro specie. Gli studi generali

§ 2. Orìgine dello studio di Bologna . . .

•Capo U. La scienza del diritto. g L I gloasatorL

A. Fiore e decadenza della scuola. Sua attività

566 586

590

633

B, C&Tattero della acaob ^ 605

§ 2. Gli ■eolAitLci

A* L*anibi©m;e in cui sorsero 6 le loro acuol© ♦.,,,,„ 614

J3, Carattere della acnola ..,.....„ 628

LEBBO SE DON DO.

L'ETÀ MODERNA

Titolo L

Leggi e comuetu*Hni.

Capo I. Le leggi*

§ 1, Leggi proviBctali ,.,,.**-•*,,,,,.„ 637

^ 2, Leggi e oon^netndini locali. Autorità dei tribunali* . . 653 § Carattere della legbìazione.

A, Le leggi dei aeooli XVI e XYII . . 661

B. Le riforme del secolo XVIH 668

Cafo n* La codificazione , ,,..,„ 676

TiToi.o n. Le gcuole e la scienza del diritto.

Capo I. Sonole e s^ìen^a di diritto romano. Gli umanisti. g 1* La icuola francese.

A^ I precursori. Come la scuola si affermasse ^

B* Atticità della scuola .«....*,.,,

C La decadenza .......,,.,,....«,,

^ % La scuola olandese ^ p . .

§ 3. Le scuole e la scienza del diritto in Italia nel secoli XVI^ XYTI e XVllL

A. Le università *...•.»,....„

B. La scienza del diritto. Sua decadenza . . . » ^ . . «, C\ La reazione * ^ , ^ , , , ,

Capo IL La filosofìa della rivoluzione,

g 1. Le idee franoeai * «

§ 2. IL movimeato filoso fico italiano, ....,.*...„

690 697 702 706

710 717 728

741 748

LE FONTI

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^

LIBRO PRIMO.

IL MEDIO EVO

L'EPOCA GERMANICA^

La prima epoca della nostra storia comincia con le invasioni barbariche e va fino allo stabilirsi dei comuni: uno spazio di ciroa cinquecento anni, che, alla saa volta, abbraccia più periodip

Noi distinguiamo i tempi barbarici propriamente detti^ i tempi carolingi e i tempi feudali.

Ciò che tutti hanno di comune è il predominio, che si afferma^ tanto negli ordinamenti politici quanto nelle istituzioni private^ deirelemento germanico. E parrà naturale che prevalesse, per- chè in eseo era la forza.

Però, a ben guardare, si comincia dal caos.

* Sibilo^ afia. ^ Oiteremo le trsttaxìotii speciilì qa&ndo ae ne preaeuterà l*iieflMÌ£m9 : totuìto uni&mo di ricordsr^ olount ws ritto ri di oporo goner&li, che lliHiiiii^ iti modo più o meno »fapio, delle fonti. Per Ift storia del diritto %tAamo: Kt<:nnoMMt DétU»ehe StaniM. u. HerhugtMchichU, 5' edlE., I; ZOpfl, Dtui* «db Buh£mgt*tk.. 4' edìs^ I; Walt^b, DeuUfM Eei^kfgc4ch.j 2^ edix., I; DàViELa^ S^miRmitJk aer a, Bfthit^ «« Siaatenrethlsffiack., 1; Sto ss e, fìmck. der d, RteMa- ^m^0f^ l (Tt»dui. rJel BoiXA-n eoi titolo: Storia delle orioni dèi diriga geriiUi' •éc», Firptue. if^B); BirsrjrBE, DtuUche Methltgt4fh,^ I; Scukùihb^ Lehrhuch dér 4 A»^y*fcjtf4, 4" ^i^ Per I* istoria del diritto fmacoA«: BonlryiiEB, &€*ch. d$r

nlnilf ; l^irsiuiiritx, iliu^dre du droii citali de Rome £ du droU /rancali ^ III e l¥; Tlou^rr, liutotrt du droii wil francai*, 2^ edi^, Livre I: Lcm tt?iir^«« ; Omìo», nUt^irt du droii t4 dét imiitki'^tt dt U Fri^mc, 1^ li, IV e Vili. Per li itOflA del dìiitio it«2ialio: Scnoria, ìyLotia dtUa Ugitlaz, UaliajUÈf 2* edix., I; 4lmi^ Sià^ria della Ugi*t4»^ tn Italia ^ '^* ediz. Fohti R, Libri dué d$Ue Ì9ÌÌtm%ùni rwkl«; PiTKTiLE A^ Storia dtt diriito iiaiiano, i o H; La Mamti4j Sharia deil^ itjidmà. tiaiiama, L ìutro^luxioiif)^ Sa^lvioli, Manu^xU di éìotÌìè dtl diriiio ila- Im**; G^iiafv, &t4>ria d*l diritto U<ilÌaiiOf I: Le foiUii Otc^AQUenF, ManuaU di mfr%m d^ diriM# iiMano. EimAfidìamo alle opere italiatie anche per le epooh»

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4

Il periodo barbarico fd definito appunto il caos di tutti gli elementi, e non c'ò dubbio che s'inizi con un'aspra lotta dei fattori del nostro incivilimento. L' idea romana, l' idea germa- nica, l'idea cristiana si disputano il campo, senza che nessuna riesca ad imporsi pienamente alla società ; e nondimeno è appunto il periodo che racchiude il germe di tutti i progressi avvenire.

Noi ne considereremo la lotta nelle fonti legislative, si ro- mane ohe germaniche, dopo aver studiato il principio, che può dirsi proprio della nuova società, e che informa e regola tutto cotesto movimento: la personalità del diritto, che, oltre ad as- sicurare a ogni popolo la sua legge, riconosce e vuole ch'essa segua l'individuo dovunque vada.

L'avvenimento dei Carolingi, senza romperla col passato, se- gna già una nuova fase. L'epoca germanica continua : senonchè dal caos dei varì elementi, che prima si disputavano il campo, si ò sprigionata, sotto Carlomagno, un'idea d'ordine. Questi riesci veramente a raffrenare le volontà ricalcitranti e imporsi a tutte: ma la sua opera ò stata in gran parte personale, e venne meno con lui. Morto Carlomagno, le divisioni rinacquero ; l'or- dine e la tranquillità scomparvero, e restò la promessa, cioò un rapporto immediato da persona a persona, unico legame che te- nesse ancora unita la società. Intanto era venuta formandosi una grande legislazione, ohe però trova il suo addentellato nei tempi precedenti. Vogliamo alludere ai Capitolari: il Diritto regio, che, a differenza dei diritti popolari, può indirizzarsi libe- ramente a tutti, senza distinzione di origine, e finisce con l' im- porsi. La mente poderosa di Carlomagno, che aveva formato il grande fascio e costretto l'antica costituzione a piegarsi, si rivela in questa nuova specie di gius onorario, ohe senza essere legge, ne ha tutta la efficacia, e nudrito di più civili principi, perfe- ziona il diritto e ne tenta l'unificazione.

Sullo scorcio del secolo IX siamo già nei tempi feudali. Car- lomagno, che rappresenta la lotta contro la barbarie, non ò riescito nel suo intento: non ha potuto fondare il suo imperio e il suo sistema di governo nemmeno - in Italia, dove la civiltà romana, che pur aveva cercato di rialzarsi, non riprese propria- mente vigore che in tempi più avanzati. Egli aveva supposto gli uomini molto più progrediti che non fossero : si era studiato di fondare una società più estesa e regolare, che non lo compor-

6

tMS9Bto In dtstribiisioEte delle forze e la condizione degli Bpiriti ; m cosi ogni tentativo di mettere un termine alla barbarie do- rerà riuscire frustraneo. Nondimeno^ a gettentrione ohe a jezzógioma, il movimento d* invasione dei popoli si è arrestato; «* anche neir intemo d* Europa la vita errante viene a ceesare- I popoli si stabiliscono ; e come la vita^ cobi i sentimenti e le idee deirnomo acquistano qualche stabilità. Dappertutto sorgono pioooli Stati, e a poco a poco vi s'iutroduoe il legame, che esi- it€ra in massima anohe nei costumi barbarìcii di una confede- rinone, ohe non distrugge punto la indipendenza individuale Non v'ha nomo per poco ragguardevole, che non si fissi nella ma proprietÀ, tutto solo con la sua famiglia e coi servi; ma insieme vien formandosi una certa gerarchia di eerviz! e diritti trm tutti questi proprietari sparsi nel territorio. Tale è 11 regime f«udale, che sorse definitivamente dal seno della barbarie.

Quanto alle sorgenti del diritto, à naturale che dovessero ri- ffpdcchiare i tempi. Alcune leggi generali s'incontrano anche in questo perìodo : ma la loro scarsezza contrasta singolarmente oon la ricca fioritura del periodo carolingio. Ed è agevole far- sene rag^one« Da un lato il potere regio indebolito, dalPaltro la gimnda compagine dell' Impero quasi dissolta ; come e perche fi crebbero ancora pubblicate? La maggior parte di quelle, ohe aneorm si trovanOt son leggi speciali di ciascun popolo ; e neppure m gran numero. Il diritto nuovo, meglio che nella forma legi- atatira, ai elaborava faticosamente in quella della consuetudine e della pratica giudiziarìa, in cui i vecchi diritti venivano come fondendosi d' accordo con la nuova nazionalità, che si andava formando. Alle relazioni dei signori coi vassalli provvedevano qtia e le concessioni feudali. In questi medesimi tempi il prìncipio della territorìalità si affermava sempre più su quello dsUa personalità; ma il suo completo trionfo appartiene vera-^ iBADle airepooa successiva*

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TITOLO X.

LEGGI E CONSUETUDINI

Capo L I Tempi barbarici.

§ 1. - LA PERSONALITÀ DEL DIRITTO.*

1. Già sul limitare dell'epoca, di cui stiamo per occaparci, troviamo nn grande miscuglio di leggi romane e barbare. Gli stessi barbari ne avevano diverse secondo la nazioi^e a cui ap- partenevano; e insieme prevalse il principio, che ognuno, anche fuori della sua patria, dovesse vivere con la sua legge di ori- gina. È il cori detto principio della personalità del diritto, che

* Ibltografla. <^ Musatosi, AnUq, Ilalicae, Medio!., 1789, voi. n, Diss. ^^" ZM Ì€fìbus luUicarum et tUUtUorum origine, Fiebi, De usu iuri* Utngob, apud 0KÌ€tiatlieo§ wiedii aevi, Fior., 1744. Lupi, Cod. dipi, berg., Bergomi, 1799, 1, p. 2L8 M0. SATiorr, Gesehirhte de» rihn. RechU im M. A,, 2^ edix» Heildelberg, 1884, I, f, 145 seor. Tradas. itaL del Bollati, Torino, 1854. I, p. 79 segg. Pabdbsbus, Lm 9atiqìu/nTÌB, IdlSw p. 487 segg. Gaupp, German, Aruriedlungen, Breslau, 1844, fL MI tea. anche nella * Zeitschr. fùr d. R. XIX, 161 segg. Stobbs, Fertoruy- liUt M. Territorialitai de$ RecìUt nei ** Jahrb. dea gem. d. B. VI, 21 segff. Bbth- ■▲m-HoLLWBO. Uer gcrmanitch-romanische CivUprozess, Bonn, 18B8, I, 455 segg., n, 72 M^. Nbumkybb, Die gemeinrechUiche Enlxdckelung de» ifitemalionaUn Piiwmi' M. StrafretkU bu Barìolu». L Die OeUung der Stammesrechte in Itcdien, MOAchen, 190L Giobobtti e Livebasi, nell* '^Arch. stor. ital. serie IIL yoL XYU^ fL éJi eon. e toL XVIII, p. 254 segg. Paorllbtti, Delle professioni di legge nelle mtdSvtUi (* Aroh. stor. itaL . serie HL yol. XX, p. 481 ^ '^

uevali (* Aroh. stor. itaL « serie HI, voi. XX, p. 481 segg.). Salvioli^ Smari atudt »ulU profeenoni di legge nelle carie medicvalt ilaliane (negli ** Atti Mem. della deputai di storia patria per le Provincie modenesi e parmensi- •erie TTT, toL II, parte n, 1838). Schuppbb, Una professione di legge gola du- fmmmo 7 €9, Roma, 1886 (''Rivista italiana per le scienze giuridiche II). Ta- MABBiA, Una professione di legge gotica in un documento mantovano del 1046, Modana, 1902 (* Aroh. fiaridico. LXYIII, 8). Schuppbb, Ancora di una profes' mmne di Ugge gotica delTetà langoòarda, Torino, 1902 (** Rivista itaL per le scienze

S'orìdiohe , XXXIV, 2-8). Tamasbia, Le professioni di Ugge gotica %n Italia. Let- rm amrta al senatore prof. Sohnpfer, negli " Atti della r. Accad. di Padova « ToL XlX, 190a. ScBCPPBB, Guargangi e cives. Lettera in risposta a quella del prof. TaiMnii, Torino, 19U6 (* Rivista itaL per le scienze giuridiche . XXXV, 1). BÉmniBB, Deutsche ReehlsgescK, Leipsig. l687, I, p. 269 segg. Stoupp L., Ikude sur kmnmfufe de la psrsonnalité des loie aepuis les invasions harbares jusqu'au XII ■fai. Ari», IdBft (dalla * Revue boorguignonne de Tenseignemènt super ieur «

8

si applioò €k tatti i sadditi dello Stato indistintamente, nei loro rapporti: un 'principio e un sistema, al quale manca assoluta- mente ogni relazione di spazio, a cui far capo per l'applicazione; ma ciò non toglie che la legge personale potesse anche, a volte, confondersi col territorio; e le fonti stesse lo avvertono. Per es. la legge ribuaria intendeva d'imperare infra pago ribuario e lasciava allWr^na la lex loci ubi nattis fuit; e cosi un capitolare franco del 768 determina, ut omnes hominem eorum leges habeant tam Romani quam et Salici, et si de alia provincia advenerit, secundum legem ipsiua patriae vivai; ma non si tratta che di una semplice constatazione di fatto, che non ha la benché menoma importanza giuridica. Le varie schiatte eransi pur fissate, quale in un luogo quale in un altro, e naturalmente, secondo la pre- valenza numerica della schiatta, il rispettivo diritto prevaleva e doveva prevalere ; forse anche era il solo : ecco ciò che rilevano le fonti; ma non dicono, ne potev^ano dire che la legge della schiatta si fosse, già in questi tempi, tramutata in una legge territoriale, come accadi^ molto più tardi, e lo vedremo : per il momento il territorio era ancora ben lungi dallo impossessarsi della legge. Per tal modo il romano viveva con la legge romana, il lan- gobardo con la langobarda, il franco salico con la legge salica, il ribuario con la ribuaria e via dicendo. Si direbbe quasi che i barbari considerassero il diritto come qualcosa d' inerente alla personalità, e credessero di non poter togliere ad uno la sua legge senza offenderne insieme la persona. Nondimeno ciò è avvenuto un po' alla volta, e non trovò mai applicazione ai forastieri nel senso politico della parola. L'emigrazione dei po- poli aveva avuto per effetto che più schiatte si trovassero unite sotto la medesima signoria, e subito si affacciò loro un grosso problema: se si dovesse lasciare a ciascuno il proprio diritto. Prima non ci avevano anche pensato : onde, a ben guardare, quel principio fu, più ch'altro, suggerito da una idea politica; il che spiega perchè, conformemente alle sue origini, non valesse pei forastieri, ma solo per quelle schiatte ben determinate, che ne avessero ottenuto il riconoscimento. E insieme spiega un'altra cosa. Pur venendo lasciato il proprio diritto ad una schiatta, non è ancora detto che lo fosse completamente sotto tutti gli aspetti, pubblici e privati. Specialmente quando più persone di ^^ggo diversa conohiudevano un negozio o si trovavano impi-

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gliate in un processo, non era sempre possibile di applicare contemporaneamente ambedue i diritti, e uno doveva pur ce- dere. In generale coloro, a cui il. principio della personalità trovò da prima applicazione, furono i Eomani ; e ciò per una vera necessità del momento, dacché il popolo conquistatore non ebbe la forza o l'animo di assimilarsi il popolo conqui- stato. Cosi, i Romani serbarono l'uso della loro legge, © non per semplice tolleranza, come accadde poi con la legga ebraica. Fa davvero un solenne riconoscimento, che s'indirizzava ai giudici, obbligandoli a procedere in base ad essa, ogni qual- volta si trattava di Eomani che avessero lite tra loro. Cosi l'avevano intesa i Burgundi, gli Ostrogoti, i Visigoti, i Franchi e i Langobardi. Solo col tempo il principio si allargò a tutti i sudditi indistintamente; e in questo senso lo conosce già la Lex Ribuaria, Forse fìi suggerito dal bisogno di assicurare ai Franchi, già diffusi per ogni dove, il godimento della propria legg^ ; ma non si poteva assicurarlo ad essi &enza ammetterlo in pari tempo anche per gli altri: onde avvenne che il principio della perso- nalità del diritto diventò, tra le mani dei Franchi, un principio di libertà pubblica, e fu applicato si largamente, che non era difficile di vedere assieme cinque o più persone, ciascuna delle quali vivesse con una legge diversa. L'osservazione è dell'ar- civescovo Àgobardo, un illustre prelato che visse al tempo di Lodovico il Pio.

In questi medesimi tempi tutta una folla di barbari si riverrò sull'Italia, specialmente Franchi salici e Alamanni, ma anche Bibuari, Bavari, Burgundi e Visigoti, sebbene in minor numero, ognuno dei quali viveva con la propria legge. Già una carta mila- nese deiranno 823 ci mostra due coniugi che dispongono dei loro beni iuxta lege nostra per maneria et fronde seo fesiuco et cor- itilo, e coa'l altre; ma lo si può anche rilevare dal Lther legum, che il conte Everardo del Friuli lasciò nell'anno 837 in legato al figlio Unroch, e da una raccolta simile compilata nel secolo X in Ivrea. Quello conteneva le leggi dei Franchi (Falici) e ri- boari, dei Langobardi, degli Alamanni e Bavari, oltre nWe leggi romane, questa comprendeva anche la legge dei Burgundi; può revocarsi in dubbio ohe dovessero servire ai giudizi: Esìmili raccolte non si facevano a quel tempo che per scopi pratici.

2. Stando però le cose in questi termini, doveva impor-

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tare aommamente che il diritto di oiasoheduno venisse aocertato. A tal uopo servivano le profesHanes iuris, o diohiarazioni con cui gli interessati indicavano la legge secondo la quale vi- vevano ; e potavano farsi in due modi. Talvolta era il governo atesso che domandava agli abitanti di un distretto quale fosse la loro legge, appunto per ottenere una base più sicura in quel grande miscuglio di popoli, viventi ciascuno col proprio diritto. Un capitolare langobardo dell'anno 786 dice : et per singtUas in- quirant (missf/ quale kabeant legem ex nomine. Più tardi tro- viamo una simile inchiesta nella città e nel ducato di Boma correndo Tanno 824. Molte persone di origine straniera vi si erano stabilite^ ma eens&a spogliarsi della loro legge nazionale; e cosi il sistema della personalità del diritto era penetrato anche qui, facendo luogo a grandi incertezze e difficoltà e contrasti, forse più che altrove, perchè la legge romana vi era stata con- servata sempre come legge territoriale, e governava non solo i rapporti di diritto prìvatO| ma anche la giustizia penale e la procedura* Altre volte le parti stesse usavano di indicare, sia la nazione sia la legge, all'occasione dei singoli atti giuridici; e il più antico esempio ci è dato forse da una carta beneventana di manomissione deiranno 752, che il manomittente voleva fatta iuxia ritiis gentis Langobardorum. Ma subito dopo ne ab- biamo alcuni altri iu Brescia e altrove. La carta bresciana è deiranno 761 e riguarda una donazione, in cui il donatario il launegildo al donante secundum legem nostram. E cosi in due carte del 767- La prima è una pagina dotalium. Certo Galdoino dota la chiesa di S. Salvatore, che aveva fondato in No buie, e riserva di dispome in vita : altrimenti ne sarà ret- tore quello de^ suoi figli o nepoti che abbraccerà lo stato ec- clesiastico, a condizione che secundum natione sua ibidem prò- ficiscere dimat: una formula che ricorda alla lettera quella che diverrà poi comune nelFatà franca: Ego NN. qui professus sum ex nctcione mea legt vivere Romana-Langubardorum-Alamannorum eco. L^altra è una carta modenese di donazione, in cui uno degli otto donanti attesta di aver ricevuto il launegildo iuxta lege sua Langobardorum, mentre agli altri^ ohe vivevano a legge romana, non fu dato. Lo stesso risulta da un documento del 769 : si tratta di un certo Stavila, che, ancora sotto la dominazione lan- go barda, dichiara di vivere con la legge gota: constat me Sta-

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viUm..., Ugem vivens OotJiorum. Nel 783 abbiamo una carta toscana: un tale dona una terra alla figlia e al genero Austri- fìiiìsaSy probabilmente un franco a giudicarne dal nome, dichia- rando: ei adcepi a U launickildi légibus meis Langubardorum. B ooal un dooomento pavese del 792: certo Walpertus dona delle terre ad Arifasns, €t propter eonsuetudinem gentU nostre Langu^ hardorum et prò vestra ampliorem firmitatem accepi a te launichild. Un altro esempio è dell'anno 807: ctecepi a te Verohacheri e^ alamammorum genere, E lo stesso si ripete in una carta toscana dell* 823, in coi Richilda natio Baiarorum si obbliga col consaBBo dal mnndoaldo; lo stesso, infine, in una carta milanese deirSSS, in ooi Gontso, un langobardo, dichiara di aver ricevuto il lau- aegildo dal franco Hnnger per una donazione, itucta lege quiie pareniibue mete Juibueruni Langobardorum. Ma sulle prime co- deste professioni si contano sulle dita, e non deve far meraviglia^ dacché le razze non erano ancora molto mescolate. In seguito, di mano in mano che la popolazione si fa più mista, gli esempi abbondano, specie ooi Franchi e Alamanni. Anzi, a giudicarne dalle carte di tradizione del secolo IX, e anche del X, parrebbe quasi che le terre fossero principalmente nelle lor mani; ma ciò non deve trarci in errore. I Romani e i Langobardi si servirono dalle professioni con minore frequenza, perchè la loro origine e il loro diritto erano certamente molto noti nei luoghi dove abi* tavano; e nondimeno a poco a poco se ne generalizzò l'uso anche tra assi. Oosl, nel periodo langobardo abbiamo negozi, in cui la donne agiscono senza mundoaldo, certamente perchè vive- vano con la legge romana, ma non la dichiarano. altri lo fiume. I sette donanti modenesi, ricordati dianzi, che nou rioevono il launegildo, sono pure romani, ma non lo dicono< Invece troviamo alcune professioni di legge romana nell'anno 824 a Brescia, neir884 a Cremona, neirSSò e 888 a Nonantola, nel 900 a Bergamo, nel 926 ad Asti; mentre a Padova e a Genova, dove la popolazione romana era numerosa, non s' incontrano che tardi, solo dal 960 e 965 in poi. Ma lo stesso avveniva con le professioni langobardo. Anch'esse in orìgine scarseggiano. Le prime che ci si presentano a Milano sono degli anni 888 e 889, e solo più tardi vanno aumentando. In Cremona, che pur con* lava una maggioranza langobarda, non se ne può provare la esi* ohe alla metà del secolo XI.

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3. Resta a sapere se si ammettesse o no la libera scelta della legge.

Noi non esitiamo ad escludere qualunque arbitrio nei tempi antichi; ma ciò abbisogna di una prova, tanto più che alcuni, tra cui il Qiorgetti e il Liverani, lo mettono in dubbio. For- tunatamente gli argomenti abbondano.

Abbiamo ricordato dianzi il Capitolare del 786, con cui i mi88i dominici vennero incaricati di porre rimedio alla viola- zione, lamentata da molti, delle loro leggi personali, ricercando, uno per uno, qualem habeant legem ex nomine. Questa parola nomen non può certo voler dire il nome proprio di ciascuna persona, che non avrebbe senso ; ma il nome della nazione, a cui essa apparteneva. Inoltre abbiamo veduto che, a designare il diritto di un individuo, talvolta se ne indicava semplicemente Torigine e la nazionalità: homo Francischo, oppure ex genere Francorum, ex genere Alamannorum, ecc. : anzi nei primi tempi, usavano questa a preferenza di altre indicazioni; ma anche sif- fatta. designazione sarebbe inesplicabile, se ognuno avesse po- tuto cambiare ad arbitrio la propria legge, e i due concetti di professione e nazionalità non avessero veramente combaciato tra loro. Altrove la legge professata si indica addirittura come legge del padre o degli antenati. Di più troviamo detto che, sor- gendo qualche controversia circa la sostanza dell'atto, le parti potevano essere ammesse a provare che la professio non corri- spondeva realmente alla legge secondo la quale il disponente viveva; e anche ciò sarebbe stato impossibile se ognuno avesse potuto mutare la legge a piacimento. Lo stesso modo con cui si ricordavano le eccezioni, che pur erano ammesse, viene in appoggio alla regola : ogni qualvolta si trattava di casi, in cui la legge del disponente non era quella della sua nazione, i notari avevano cura di avvertirlo con tutto il riguardo e, direi quasi, con una certa pedanteria, indicando prima la legge della nazione e poi la causa per cui se ne seguiva un'altra; e certo non avreb- bero scritto cosi, se fosse stato possibile di cambiare legge.

Le eccezioni stesse trovansi determinate dal legislatore, e non erano molte. La donna, che contraeva matrimonio, prendeva la legge del marito, purché questi ne avesse comperato il mundio ; i figli illegittimi vivevano con la legge ohe loro piaceva ; i servi manomessi potevano riceverla dal padrone al momento della ma-

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liomUsione, che variava appunto secondo la legge ; gli ecclesia- stici usavano, se non- altro, di abbandonare la propria legge per vivere con quella dei Romani. Già un capitolo di re Liut- prando (153) accenna a questo fatto, che diventa in seguito sempre più frequente ; ma non ne avevano l'obbligo. Propriamente bi- sogna scendere fino al secolo X per trovare accettato con qual- che larghezza il principio, che gli ecclesiastici dovessero vivere col diritto romano honore sacerdotii o per clericalem honorem. Un'ultima eccezione, avvertita pure da Liatprando (91), concerne la materia delle convenzioni, ma bisognava che ambe le parti acconsentissero; a questo patto, si poteva anche decampare dalla propria legge : de lege sua subdiscendere, E non deve far meravi- glia, perchè infine le regole dei contratti non sono di quelle che interessino direttamente lo Stato : hanno solo una importanza e una validità sussidiaria. Già i Bomani avevano asserito che in materia di contratti la volontà delle parti è legge.

È facile comprendere però come, in questo stato di cose, con tanta mescolanza di popoli, qualche conflitto fosse inevitabile. Potava accadere non di rado, ohe due persone di legge diversa, entrassero in qualche rapporto di diritto o anche litigassero tra loro. Non vivevano confusi nello stesso territorio? Le occa- fioni d'incontrarsi erano molte: da un lato le relazioni quoti- diane derivanti dai connubi, dai domini, dai contratti ; e dall'al- Taltro i litigi, che dovevano pure essere frequenti, specie tra popoli che solo la conquista aveva avvicinato: parrà naturale che si escogitassero dei provvedimenti per sapere qual legge dovesse trovare applicazione. Nondimeno è bene notare fin d*ora, che le notizie, che abbiamo in proposito, son piuttosto fram- mentarie : forse non vi si ò neppur provveduto in maniera che potesse dirsi esauriente ; e d'altra parte non era necessario, per- chi infine le varie leggi barbariche avevano un fondo comune, come quelle che derivavano dal medesimo ceppo,. e le differenze riguardavano cose di non grave momento. Ciò doveva scemarne gli atiriti.

L'antagonismo veramente spiccato era tra leggi romane e barbariche, e qui potevano sorgere delle difficoltà; ma parecchi popoli le saltarono a pie' pari, non riconoscendo il diritto ro- mano che nei rapporti dei Bomani tra loro. È stato un metodo spiccio seguito dai Borgognoni, dai Langobardi, forse anche dai

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Yisigoti del regno di Tolosa. Nai casi misti ©ra il diritto della persona privilegiata politicamente che doveva prevalere-

I uveo e sembra che presso altri popoli si applicasse il diritto della parte che dava aorma a un dato rapporto ; e se nessuno delle due poteva dirsi prevalente, si applicassero entrambi. Il principio è seguito con certa coerenza nelle questioni più sva- riate di capacità, tradizioni e obbligazioni, matrimonio, tutela e successioni, anche nel diritto penale e nei giudizi.

5. Per sapere se due persone erano o non erano capaci, f9L consultava naturalmente la legge di entrambe: ognuno si re- golava con la propria; e lo avverte Lotario parlando dell'età: tu aetate*^^* illorum lex propria servetur^ Parimente la donna romana poteva obbligarsi da : quella germanica non lo poteva che con Tassìstenza del mundoaldo; e se era langobarda do- veva per giunta darne avviso ai parenti.

Invece le tradizioni solevano farcii col diritto del tradente, al qual proposito interessa di vedere una formula del Cartolario l&ngo bardo, che nota appunto il diverso modo di procedere nelle tradizioni dei Lango bardi e in quelle de' Franchi, Goti e Ala- manni. Tanto le une quanto le altre si eseguivano per cartam, ma quelle lango barde erano più semplici. Il tradente prendeva la carta, dichiarava di trasferir con essa la terra alTacquirente, e la passava al notaro perchè la scrivesse; e invece per diritto franco bisognava prima deporla in terra, mettervi sopra il col- tello, la festuca notata, un guanto, una zolla, un ramo d'albero e il calamaio, poi la si raccoglieva e con essa in mano si faceva la tradizione. I documenti italiani oifrono parecchi esempi di queste pratiche. Ma c'è di più; perchè anche i testimoni do- vevano vivere con la legge del tradente. Un capitolare di Lo- dovico il Pio degli anni 818-819 dice addirittura che se uno voleva alienare i suoi beni, doveva scegliere i testimoni tra i suoi terrazzani e ad ogni modo tra persone che vivessero con la stessa legge di lui ; altrimenti la tradizione non si aveva per legittima. mancano gli esempi* Ne cito uno per tutti. Uberto marchese di Toscana, d*origine salica, vende nel 925 molte case e campi a un Teudinando, e i testimoni che mettono il loro signum mamis all'atto, sono questi : Atenolfo, Bernardo, Ingelberto, Inghelelmo, tutti viventi a legge salica. Qua e però si ha anche riguardo ad altre leggi. Il codice dei Bur-

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gandi ammette un diritto di scelta tra le diverse forme di tra- disione; talvolta anche si applicava la legge ohe richiedeva maggiori solennità, per non dire delle tradizioni fatte secondo varie leggi ad un tempo.

Nai contratti la regola era che ognuno si obbligasse col pro- prio diritto nazionale. Già Liutprando aveva ordinato agli scribi: nam cantra Ugem non scribant; altrimenti è detto in una notizia giuridica, che i>assò poi per un capitolo langobardo di Carlomagno: similiter ut (Langobardus vel Romanus) omnes am$criptian€$ iuxta suam legem faciant Trattandosi di contratti unilaterali, la forma è stabilita dalla legge del debitore. Ne abbiamo la prova in quelli con la wadia: i Franchi salici gua- diavano nel modo della legge salica, i Langobardi nel modo degli editti langobardi, i Romani in quello della legge romana. Rimandiamo per tutta prova a un diploma dell'anno 829: la Santa Sede e il monastero di Farfa, che viveva a legge lango- barda, danno appunto la guadia e pongono i fideiussori, ciascuno secondo la propria legge, obbligandosi a comparire in giudizio. Le parole sono queste : reguadiare eog fecimus et fideiussores po^ nere, uterqae secundam suam legem^ ut alia in iudicio ante nos parati enent. Lo stesso dicasi del launegildo. Si trattava di una istituzione barbarica, ed era naturale che ricorresse nelle donazioni dei Germanici e non anche in quelle dei Romani. Ciò risulta dalla donazione dell* anno 767, ricordata anche più su. Certo Oioviano saddiacono, Amanzio figlio di Libero, Marti- noro, Stefano figlio di Albino, Beato, Benenato figlio di Ste- fano, Lupiceno e Martino, donano insieme le peschiere del Fri- gnano alla badessa di S. Salvatore di Brescia; ma soltanto Benenato riceve il launegildo. Egli solo, essendo langobardo, viveva a legale barbarica: gli altri erano romani; e d'altronde Io dice egli stesso : Signa manue Benenati filius Stephani qui hanc cartola donationie fieri rogamt qui iuxta lege sua Langobardorum recepii launeehit manente par uno. Un'altra volta ò il marchese Berengario ex genere Franeorum che, facendo una donazione di beni a certo Riprando, riceve pure il launechild chroena da dor- fast. Il documento ò del 915; e per contrario potremmo citare più donazioni di persone viventi a legge romana, che non ri- oordano affatto questa pratica. D'altronde già sappiamo che appunto le obbligazioni tolleravano una certa latitudine, onde

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un contraente poteva anche scostarsi da ciò che prescriveva la fìiia legge par accettare il diritto deiraltro,

6* Il matrimonio suggerì pure alcune regole. In generale i connubi tra parsone di schiatte diverse non erano rari : gli stessi re ne davano Tesempio; e la differenza d'origine poteva veramente far luogo a conflitti j che importava di eliminare. Cosi si distinse da nn lato la forma con cui lo sposo si obbli- gava, e dalPaltro il prezzo che doveva sborsar© per avere la donna, secondo le consuetudini germaniche. Per ciò che ri- guarda la forma j valeva il diritto dello sposo, che da questo momento diventava anche il diritto della donna ; e le formai© e i documenti ne fanno espressa menzione ^ tanto ohe si può dire fosse la pratica costante fino al secolo X. . Per ciò stesso il ma- rito langobardo costituiva alla dooua la quarta dei beni a titolo di morgengabe^ e il franco la terza. D'altra parte sappiamo che Bachis re dei Langobardi prese in moglie una romana facen- dole donationes cartulae romanae invece della margengctbe; ma ne fu biasimato. Così pare il concilio Triburtino delFanno 89B accenna all'uso, eh -era andato formandosi, di contrarre il matri- monio col diritto della sposa ; senonchò qualcuno di questi ma- trimoni era poi stato impugnato* Soltanto per ciò che si rife- f!ce al prezzo della donna o del mundio, decideva naturalmente il diritto della donna o del mundoaldo. E già Liutprando ebbe a dire ohe il romano, che sposava una langobarda, doveva com- perarne il mundio. Inoltre abbiamo una formula del Cartulario langobardico, qtialiter vidua Salicha despOììMetarf che fa al caso* Ne rileviamo, che lo sposo prima ancora del matrimonio doveva pagare tre soldi e un denaro a titolo di reipm^ che è una isti- tuzione tutta salica, al repario^ e soltanto dopo il pagamento ve- niva interrogato con qual legge vivesse. Evidentemente, qua- lunque fosse la sua legge, egli doveva pagare il reipus^ perchè la donna era salica.

Altre leggi riguardano la costituzione e resercizio della tu- tela. Rileviamo da un capitolare dell'anno 782, che le vedove e gli orfani dovevano avere dei tutori iuxta iUorum legem^ che li di- fendessero; e se nessuno dei legittimi voleva assamerne l'ufiScio, il giudice doveva provvederli di un uomo timorato di Dio iuxta ut lex ipsarufn est: sicché la legge a cai si doveva badare era quella del pupillo. le cose stavano diversamente con Ueser^

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oisio dell'avYOcazia eocleeiastioa : oiò ohe decideva era il diritto delle singole chiese. Il capitolare continua: et tcUis sii ipse mdooeaiuM... . qui sacramenta prò eausa ecclesiae dedueere passit. . . . siemt Ux ipsorum esL

In £Eitto di eredità si aveva rigaardo al diritto di chi la la- sciava. Qià Liutprando disse, che tatto ciò che vi ai riferiva, andava scrìtto secondo il diritto del disponente senza che gli foese lecito di scostarsene: nam quad ad herediia/ndum pertìnet per legem scribani, e lo stesso ripete un giurista langobardo, riportandosi alla consuetudine: sicut consuetudo uastrorum est, ut Lamgobardus ami Ramanus, si evenerit quod causam inter se ha- heami, obsen>amus ut Ramanus populus suecessianes eorum iuocta suam legem habeant. E la differenza è importante, perchè, ad ee., se un romano voleva, in base ad un atto di ultima volontà, iuocedere a un langobardo, bastavano due o tre testimoni ; ma nel caeo contrario ne occorrevano sette o cinque: un capitolare di Carlomagno dice appunto: quia testamento quod Romani f aduni firwsmm non posset, nisi per quinque aut per septem confirmatur. Invece era lecito tra i Burgundi di fare testamenti o donazioni sia con la legge burgundica sia con la legge romana.

7. Medesimamente il reo emendava il danno e pagava le composizioni giusta la propria legge personale. Quella dei Bi- boari, dopo aver detto che i Franchi, i Borgognoni, gli Ala- manni ecc. dimoranti tra i Bibuari, dovevano rispondere nel modo prescritto dalla loro legge nazionale, soggiunge: quod si immmafus fuerit, secundum legem propriam, non seeundum Ribuc^ rimm dcunnmm suetineL E lo stesso valeva per i Romani. La legge continua osservando, che se un Bomano avesse commesso un reato, avrebbe dovuto giudicarsi seeundum legem Romanam. Inoltre può vedersi il Capitolare d'Haristall : la parte che ingiu- stamente tacciava l'altra di spergiuro, doveva pagare il proprio guidrigildo. E cosi il Capitolare de vilUs: i Franchi dovevano venir puniti secundum legem eorum. il diritto franco-lango- bardo dispone in modo diverso : il conte, che tralasciava di far f^iistizia, soggiaceva alla pena portata dalla sua legge ; e perciò, •e era franco^ andava punito con la legge franca, se langobar- do, con la langobarda : sicut ipsorum lex est ita componat. Cosi pure, in caso di falsa testimonianza, Tuomo di nazione lango- barda dava soddisfazione secondo la sua legge, mentre il romano

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veniva fustigato .secondo U diritto delle Novelle, Appunto per- ciò ricorre cobi di frequente la formula cum sua le componat; e nn beiresempio ci è porto dalle carte del tempo. Un firanoo aveva sposato una monaca d'origine langobarda^ e si trattava di punirli: il franco venne punito con la legge dei Franchij la donna e il mundoaldo con quella dei Langobardi.

Soltanto si faceva eccezione per il guidrigildo, e in generale per tutte le composizioni, con le quali il malfattore mirava a riscattarsi dalla inimicizia dell'offìaso e della sua famiglia, Pi- pino dice appunto in un suo capitolare dell'anno 790 circa, che ciò doveva verificarsi ogni qual volta si trattava di una culpa linde faida crescere poteri* Nondimeno, visto il modo con cui la giurisprudenza e la pratica si esprimonOj parrebbe quasi che oi fosse la tendenza di applicare sempre la legge dell'ofi'eso, an- che fuori dei casi della faida. Per es, il giurista anonimo, che passa per autore della legge lang. Can M. 143, lasciò scritto: et quando componunt^ iìixia legem ipùus cui nmltim fecerint^ cam- ponant. E anche una formula a Lud, B5 si esprime cosi : offensa emendetur secundum legem illius cui malum fedi. Lo stesso di- cono Ariprando e Alberto nei loro commenti alle leggi lango- barde. Il Brunner pensa, che una uguale tendenza siasi manife- stata anche nel diritto franco, e cita un capitolare di Carlomagno, che pel furto con rottura della casa, minaccia il t^rzo deiram- menda portata dalla legge deirofieso. Ma tutto ciò non deva trarci in errore. Perche intanto la formula a Lud. 35 e i passi citati di Ariprando e di Alberto non riguardano che le offese dirette contro la persona, sicché la composizione poteva servire benissimo a sedare le inimicizie. altrimenti è presumibile che la rottura della casa, fosse un delitto da cui poteva sorge* re la faida; e già la legge salica aveva stabilito qualcosa di simile per la rapina. Quanto poi alFanonimo lango bardo, non possiamo a meno di osservare che esso procede generalmente alle leste. Anche parlando delle conscriptianes^ dice che ognuno do- veva farle iuxta suam hgem^ e salta a pie pari la licenza che già Liutprando aveva accordato di scostarsene : chi ci garantisce che, accennando alle composizioni da pagarsi secondo la legge de ir offeso, egli non abbia pensato veramente a quelle che si pre- sentavano come un risarcimento della personalità? La stessa frase: cui malum fecerit^ che è adoperata anche dalla formula a

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Lodovico il Pio a proposito delle offese, potrebbe suffragare (que- sta nostra ipotesi : se avesse avuto di mira tutt'altro delitto^ che non fosse contro la persona, avrebbe più opportunamente par- lato di danno anziché di un male. Dall'altro canto accadde col tempo che anche le eccezioni, conosciute dalPantico diritto» ve* nissero meno. Le consuetudini milanesi del 1216 dicono che il reo, qualunque fosse il delitto, era punito nella persona o ne- gli averi secondo la legge municipale, che era già legge terri- toriale, e in difetto di essa secondo la legge langobarda o romana, con cui viveva, nulla importando che quella dell'offeso fosse un'altra.

8. Nel rimanente valeva la regola che ognuno dovesse difendersi col proprio diritto personale. La legge ribuarìa dice in proposito: sicut lex loci continet ubi natus fuerit sic respondeat; e anche più Capitolari ripetono lo stesso. Era così che si cai* colavano i termini e si regolava la prescrizione, si prestavano i giuramenti e si accettavano le testimonianze ; e una prova non avrebbe potuto surrogare l'altra, come osserva Agobardo, non sensa mostrarsene indignato. Anzi trattandosi di una questione ni stato o di una terra ereditaria, la parte, a cui spettava il giuramento, aveva diritto di darlo nel proprio paese^ e Taltra riceveva l' invito di seguirla colà. Nondimeno il giuramento coi sacramentali era stato qua e esteso anche ai Bomani. La legge salica dice: dato che un romano spogli un franco^ ma ne manchi la prova certa, l'imputato potrà scolparsi 2>er niffintiquin- qme jmratares. E cosi la legge ribuarìa : dopo aver fissato il nu- mero dei congiuratori per il franco ribuario, soggiunge, che anche un liberto romano doveva giurare similmente con quel [

numero. Infine troviamo nella legge dei Burgundi, che se un in- ]

(^euuo, non importa se barbaro o romano, era chiamato in colpa, doveva prestare il giuramento insieme con la moglie, coi figliuoli e coi propinqui, in numero di dodici. In un processo di libertà trovava applicazione il diritto di chi sosteneva di essere libero ; ma per ciò che riguarda la proscrizione, risulta da un capitolare I

di Carlomagno per V Italia, che la legge, che decideva, era quella i

del padrone. Si tratta di servi fuggitivi, che per qualche tempo i

eraa riusciti a sottrarsi alla rivendicazione : avranno esd potuto opporre la prescrizione di trent'anni? Si, se il padrone era ramano, e anche se era langobardo, perchè V Editto langobardo

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l'aveva accolta; no, se era franco, alamanno o d'altra naàcne perchè nessnn'altra legge germanica la conosceva.

Per lo steeBO motivo, il reo poteva chiedere di essere giu- dioato da giudici della sua nazione. Infine la legge, che gli si doveva applicare, era la soa legge naaionale: perchè sarebbe stato assoggettato ad altri giudici? Nel caso che litigassero tra loro nomini di diversa origine, il giudizio si componeva parte di eonnasionali dell'attore e parte di connasionali del reo. Urano i cosi detù imdicia de medieiaU Ungmae^ che ricorrono abba- stanza frequentemente.

Un primo esempio T offrono gli Ostrogoti: se sorgeva lite tra Romani e Goti, il comes Gotìkorum ne giudicava assistito da un giureconsulto romano. £ lo stesso dice la legge dei Bur- gundi: essendoci lite tra un borgognone e un romano, il giu- dìzio doveva essere composto di giudici d'ambe le schiatte. Altri esempi ricorrono in seguityo. Un placito torinese dell'an- no 879 ricorda molti scabini, e tra questi due $cavini romani. Lo stesso risulta da un documento fìirfense del 998. C'era que- stione tra i preti della chiesa di Sant'Eustachio di Berna e l'abate Ugo di Paria pel possesso di due chiese: il giudizio venne for- mato con due giudici romani e due langobardL Nel 1010 Farolfo di 0»stiglìone rifiutò alcuni beni a Far£i^ e nel placito sedevano il eonte Guinizo^ e insieme con lui Leone, Pietro e Silvestro da- IfVf e Riberto e R^vccio judUes l-anffobardL Quattro anni dopo Ben^etto Vili sedeva a giudizio in un'altra causa del mona- ^t^^ro di Far& contro Cr^scenrio cmm Uffumlator&us judicibus tam r^¥iìMmìs qu^w uxnffMwstiia. Anzi in questi processi del mona- $t^Tv> fiiTtVn» non solo troviamo Tun diritto e l'altro citato dalle pMti, ma gli st'^'issd soabini si fanno una volta a ricercarlo e lo appìioa4)o: c^ìJotSa Instinin%tTe et Langobardorum eapituUs le- ^>.*>* d(u)rmn.i it^^^ìiti^m.

^. Ma una nuova fase si è venuta maturando in questi mpjwrti già n^l periodo frsinoo, che merita tanto più la nostra attAiì^ion^ in qi^^nto ch^ s»^ non andiamo grandemente errati, * la ^^hma ro':a chi* il principio del t-erritorio ci si& incontro, li^b^Ari^^ in li r.in |>iu:tv^?to ri<:retti. Ceno non si trattava della I^TTitorJaìiià òol iV*riTto^ come fu iiiteisa in seguito: cioè, non si ti^n^r^ anoora conio d(>l comune a cizi T individuo apparteneva,

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per decidere quale fosse la sua legge; e nondimeno non si ba- dav» neppure sempre alla nazionalità sua o de' suoi antenati* In alcuni rapporti la legge degli avi deve oggimai cedere davanti alla legge della terra, salvo che possono esservi tante '^S8^ q^iADte sono le terre stesse, non altrimenti che potevano eeservene tante quante erano le persone. Spieghiamoci meglio : ogni qual volta era in questione un fondo, il diritto della per^ sona ne rimaneva come assorbito e cedeva davanti ad esso. Prevalse cioè, a proposito dei fondi, l' idea che anch'essi dovessi •ero avere il loro diritto e conservarlo, indipendentemente da qnello personale del loro attuale possessore ; ed è un concetto che poteva essere suggerito da varie considerazioni, sia pubbliche sia private. Perchè in realtà i fondi differivano tra loro per ambedue questi aspetti. Certamente correva una grande diver- sità tra fondi ba^baoici e fondi romani, specie nei riguardi della finanza; e anche i titoli d'acquisto e i mezzi di difesa eran di-p versi : laonde non solo interessava allo Stato, ma si capisce come anche il proprietario potesse avere interesse a difendere il fondo eoi diritto del suo possessore originario anziché col proprio. In^ fine, tutto si riduoeva a sostituire la legge del possessore ori- ginario a quella del possessore attuale ; e quantunque possa pa-t rera strano, non può ancora dirsi che il nuovo principio sia ad- dirittura opposto all'antico. Anzi vi trova il suo addentellato e, fino ad un certo punto, può dirsi che campeggi sempre il prin*^ cipio della personalità. Soltanto la persona è cambiata: anti- camente era un uomo, e adesso, per certi rapporti, un fondo, che del resto figura anche come una persona. Le fonti stesse eonsiderano la cosa sotto questo aspetto; e come dicono di un uomo, non altrimenti dicono di un fondo, che vive con questa o quella legge. E d'altra parte è la legge dell'uomo che con* tinoa nel fondo. Perchè è fuori di dubbio, che, in origine, deve essere stata la persona a comunicare il suo carattere alla terra; ma questa legge, tutta personale, ha finito con lo incorporarsi col fendo e assumere, per cosi dire, un carattere reale, che seguiva il fendo stesso attraverso tutte le sue trasmigrazioni. È una condì* zione di oose, ohe si trova riconosciuta nella legge dei Burgundi e in una sentenza di Carlomagno. Un diploma ferfense dell'anno 98B n esprime addirittura cosi : mdit Deu$ ut bbs nastri manasiemi ^Kfmando nA lefft romana vixissei, aed $ub lege langobarda!

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Cosi aEch© i fondi erano venuti in possesso della loro leggje; siffattamente, che si potrebbe benissimo distinguere la vita giu- ridica del medio evo in questi due gruppi: della persona e dei fondi Certamente anch' essi potevano avere diritti ed obblighi, seoondo la legge speciale che governava^ e le carte non man-^ cano di distinguere gli uni dagli altri: fondi romani, langobardi e franchi; più tardi feudi langobardi e feudi francki. Perchè lo stesso principio si trova applicato in seguito anche al diritto fendale; e si trattava di una legge immutabile^ che il feudo con- serverà anche passando nelle mani di ano che viva oon al* tra legge. Infatti una carta, forse dell'anno 1338, ci presenta un tale venuto dalla Lombardia, che nondimeno possiede il feudo per diritto franco ; e Carlo di Tocco fa pure il caso di una ma- desima persona che viva col diritto franco de feudo e col diritto langobardo de pattiìnonio* Cosi anche altri. L* Afflitto aggiunge ohe sarebbe stata necessaria l'adesione del re perchè il fendo potesse passare sotto altra legge : nisi rex coìisensisset^ tanto essa gli era aderente. Altrimenti si distinguevano i fondi iugenuili> aldionali e servili ; 0 v*erano anche speciali onerij detti oneri reali o dei fondi, sempre sulla base del medesimo concetto, che, essendo il fondo una entità dello spazio, anche i diritti e doveri, ohe vi erano stati congiunti, avevano acquistato nel fatto una li- mitazione determinata appunto dallo spazio. Infine, la stessa concezione diventerà importante per la storia del diritto inter- nazionale privato, inquantochè le competenze verranno appunto determinate diversamente secondo che una data disposizione si riferirà piuttosto ad una persona che ad una cosa.

Appunto questo fenomeno spiega perchè a volte si esiga il launegildo^ che la legge langobarda richiede per la validità delle donazioni, nonostante che il possessore viva a legge romana. In- fatti possono vedersi più esempi di persone ecclesiastiche o anche di donne maritate, che, sebbene abbiano lasciato il loro diritto d'origine, quando si tratta di donare una terra non possono a meno di esigere il launegildo, se vogliono che la donazione aia valida. Il possessore poteva aver cambiato la sua legge per ab- bracciare o seguire la legge romana, e nondimeno il fondo man- teneva la sua. Cosi uu chierico di nome Felice, nonostante che avesse accettato la legge romana^ fa nel 780 una donazione di beni ereditati dalla moglie con le forme del diritto langobardo

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e riceve il laanegildo, quamqtiam romane legibus suòiectus. Pa- rimente Ganzo, diacono e vicedomino della chiesa di Milano. dona neirSSS alcnni fondi ad nn suo amico, e soggiunge: unde et aecepi loaunnechild iuocta lege qu€ts parentibus meis habuerunt lamffobardarum ; ma egli stesso non la professava più. Altri esem- pi sono di donne langobarde, maritate a romani, le quali, pur vivendo con la legge del marito, ricevono il launegildo dal do- natario secondo la legge langobarda, che continuava ad essere la legge dei loro fondi. Cosi fa certa Teuza moglie di Gezo romano nel 1019.

Medesimamente non farà meraviglia di vedere altre donne maritate, che, pur avendo abbandonata la propria legge lango- barda, quando si tratta di alienare fondi, li alienano col con- senso del marito mundoaldo e anche ne danno notizia ai parenti, dichiarando alla loro presenza di non patire violenza da chicches- sia, come voleva la legge della loro nazione, a cui espressamente si richiamano. Abbiamo sott'occhio alcune carte degli anni 961 , IO», 1010, 1018, 1019, 1029, 1078. D'altra parte certa Ildegarda di nazione salica, nonostante che fosse maritata a un lango- bardo, e quindi ne seguisse la legge, vende nel 1028 alcnni beni, senza che i parenti assistano alla vendita. Altre volte poi è la tradizione stessa che si effettua con la legge del fondo^ no- nostante che il possessore professi una legge diversa. Certa Ildegarda di nazione salica era maritata a Oddone figlio di Gaoselmo langobarde e doveva vivere a legge langobarda : non^ dimeno vende nel 1028 alcuni beni al rettore della chiesa di S. Pietro di Paderna, facendone la tradizione secondo il rito della legge salica : per cultellum, festacum nodatum, toentanem et vua- iomem terre atqae ramum arbaris. E cosi Alrico vescovo d'Asti. Per l'onore del sacerdozio viveva a legge romana; ma era di origine salica, e volendo nel 1029 dotare il monastero di S. Giu- nto lo fa oon le forme del diritto salico, levando la carta di t^rra cmm tramentario ecc. Infine, vuol essere notata la regola che ogni fondo andava difeso con la sua legge. Ciò risulta lumi* nosamente da nn capitolo del codice dei Burgundi, che riguarda il caso di nn barbaro ohe avesse ricevuto dal re un fondo ro- mano. Dice alla lettera: Si ex eiusdem agri jinibm.... fuerit amtentio generata, licebit ei, aeu puhatas fuerit, seu ipse palm' ttrit. Romano iure contendere. Se anche la terra era passata in

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mano di un borgogaone, pure la legge che andava applicata nei ca&o di una controversia di contìm, era la romana. Ma lo steBso risulta da certi Eespon^a imperatoris de rebus fiscaliÒus dati circa ranno 820. Si richiamano ad una sentenza anteriore di Carlomagno sLiLle donazioni fatte alle chiese, e dicono che bi- sognava difenderle con la legge del donante : il fondo portava con le sue difesBp Perciò Fabate di Farfa, che nel 998 ara stato ohiamato a oomparira davanti a giudici romani, vi si ri- fiutò j protestando che voleva averne di la ngo bardi, appunto per- chè i beni del monastero vivevano con la legge langobarda.

10* Ai tempi carolingi appartiene anche un'acerba requi- sitoria, che appunto le complicazioni e difficoltà prodotte dal sistema delle leggi personali suggerirono ad Agobardo arcive- scovo di Lione, Si tratta di conflitti, che dovevano essere tant-o maggiori quanto maggiore era nel regno dei Franchi il miscu- glio dei popoli, con grave danno della giustizia, e nonostante che il legislatore avesse posto ogni cura a prevenirli- Ago- bardo considerò le condizioni giuridiche del suo tempo da un punto di vista molto più elevato che non facesse la maggior parte de' contemporanei, e propose, scrivendone a Lodovico il Pio, di abolirle tutte, dichiarando sola legge vigente la Lex Fran- eorum. Ciò doveva ridondare ugualmente a concordia della città di Dio e ad equità del popolo. E questa fa una geniale idea! Senonchè il voto di Agobardo doveva rimanere ancora a lungo una lettera morta.

§ 2, LE LEGGI DEI TEMPI BARBAElCL

A, ^ Le hggi romane, a, Cause ohe ne determinarono la continuazione."

!• Si credette a lungo che il diritto romano fosse %"enuto meno con V Impero, per resuscitare nel secolo XH mercè la sco- perta di un manoscritto delle Pandette fatta in Amalfi. Ma già

* Bibliografia. D'Asti, DtWuao e aìdorlth della ra^on cì^Ue nei& pro- mncic tUW impero Qcòiiientaiéf voL 2, Napoli, 1720-22, 2* ediz*, 175L Nuota ©di- tone, 1S4L BB£>rcìf4^!Jr HUtùritt Ptindeclarum seafatitm ex^mplaris fiorentini f Trajecti ad BheimmT 1722:. Gra^nd^ Epiiiola de PandecUsf Pisii, .^^^ editio altera locupletata, Fiorentìae, 1727. Txmuccl Epiétalm d^ Fandù^tU pisani* in Am^tlphitana dirspHoiu inwrUut 17^ 2* adii,, Flortìatiao, 1731. GaiMDi, Yinékia^

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- 25 - nel secolo scorso, e più ai di nostri, questa opinione fu vitto- rioeamente combattuta; v'ha più dubbio che il diritto romano abbia continuato senza interruzione fino al risorgimento delle lettere e delle scienze.

E già il principio della personalità della legge doveva oon- dorre a ciò. I diritti popolari pochissime volte contemplano i Romani : se pure li ricordano, è solo per regolare i rapporti che i Germanici potevano avere con essi ; ma le tutto il resto lasciano che si governino da sé. Insieme gioverà osservare come tra vin^ citorì e vinti esistesse una differenza troppo Bpiccata di civiltà : i Romani avevano rapporti giuridici piuttosto complicati, come li richiedevano i bisogni della loro società; mentre quelli dei Ger- manici erano semplici: certo, sarebbe riescito piuttosto malage- vole ai barbari d' intendere quella vita romana tanto diversa e regolarne le relazioni. Si aggiunga la inSnenza della Chiesa, la quale, fin dai tempi di Costantino, godeva molti privilegi fondati nella legge romana, e appunto eu questa aveva foggiato i suoi rapporti di diritto privato: anch^esaa era altamente inte* reasata a conservarla.

Cod rimase l'uso del gius romano pei vinti, e alcune leggi popolari lo riconobbero espressamente. Non dobbiamo però cre- dere che si mantenesse in tutto: durò più ch'altro in quella parti che riguardavano il diritto privato e anche il diritto pe- nale, sebbene qui con certe restrizioni. Già le leggi barbariche contengono alcune disposizioni penali, che vogliono essere ap* plioate anche ai vinti, o ne hanno di speciali per essi: ad ogni modo c'erano i Capitolari, che rappresentavano una legge obbli- gatoria per tutti senza distinzione di nazionalità; ma dove lo nuove leggi non provvedevano, trovava applicazione la legge romana anche in fatto di penalità. Invece le istituzioni politi*

jpro MM €pUlola (U P<mdsclis, Pìbì^ 1723. Tahucci^ Difesa asconda d^tU^iiéo €mlic9 «U0« PawkdeUé e dU rilroifamento M/àma$o manoscriUo di e#«e in Attn^lfi, Fir@ti- ML 172BL VenioQA Utina, Florentiae. rTSl. Lucgabkbti (Gi^MEtO, N*taea dUamimt déU^ tUria delU PamdtUé pittme, FaenflL 1790. Del Bo«aix iH^teria^iotit} topro im kitUria de' codici pièani delie Pandette di Oiutlinitmo, Luf^oa^ I7fH. CIuàda- •n. Ih JioTtniino codice Pandeeiarum, diequUitùh nuoya odÌ4. cumta da C. F. Walch, JaQA» 1775i Satiovt. Geech. de* riha. Recìos in M. A., 2" edtx., iroìami 7, BatàUherg. 1884; Trsdax. lUL d«l BoUatì, Yolami & ToHcci, 1864. CoitaAT, GmrkUfUe der Qmellen u, IMenUur dee riha. RechU im/rUh^rcn M. À„ voL I, Làip- &«, 199B-9a Patstta. CantriinUi alla storia del dlnttQ romana nd M. E.^ I o D^ Boom, 1891 (• BaUetMno di dir. rom. , anno m, &A IV, 1-2). Lo artsao, Ftr U tiarim dei diritto rotnano nei M. B, a proponto d^ll'apera di Con rat {* Eivisla tiaL piT W Mea» ginr. , XH, 1891).

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che s' inspirarono genaralmente al concetto barbarico ; e se pure ridea pubblica dei Romani influì su di esse, certo ciò non av- venne perchè ne fosse in vigor© il diritto*

2. fonti stesse erano di più specie. Perchè in prima luogo persistevano tuttavia le antiche collezioni classiche di di- ritto teodosiano e giustinianeo; e dopo caduto T impero d'Occi* dente, ne aggiunsero altre a Bizanzio, le quali hanno esercitato pure una certa influenza sulle condizioni giuridiche dell* Italia. Inoltre si formarono qua e là. dei compendi, specie per uso dei Romani, Evidentemente la legislazione romana era troppo estesa anche per essi e parve conveniente di renderla più semplice © maneggevole : cosi nacquero cotesto compilazioni) che si cono- scono col nome di leggi romane dei Barbari. Eioordiamo : 1* E- ditto di Teodorico, il Breviario di Alarico, la legge romana dei Burgundi-

b. Le leggi romano propriamente dette. *

1* Il diritto teododiano aveva avuto in Roma una grand© importanza, e non la ebbe minore nel medio evo, Nonoa tante ohe la raccolta gìa&tinianaa lo abolisse, continuò in parecchi paesi a dominare sovrano © altrove disputò, sa non altro, il campo". Ciò accadde appunto in Italia, Il diritto giustinianeo non arrivò ad attecchir© subito, non in quella parte eh© ri- mas© soggetta a Bizanzio; ma nell* Italia langobarda no: la du- rata della dominazione bizantina in queste prò vi nei© fu troppo breve, perchè il diritto giustinianeo potesse aver agio di mettere profonde radici, e già a priori potrebbe dirsi che la legislazione teodosiana si mantenesse in molti rapporti- Nel fatto troviamo qualche compendio di diritto teodosiano compilato, o almeno riconosciuto e usato per lungo tempo, in Italia, Inoltre ci sono parecchi documenti italiani, i quali, in luogo di riprodurre il diritto giustinianeo, s'inspirano tuttavia a qualche principio di diritto teodosiano. Non mancano neppure alcune disposizioni degli editti langobardi foggiate sur esso, E lo stesso dicasi delle formule.

Appunto una formula del Cartulàrimn langobardicum ricorda

* Bibliografi». OahìsEj 11 diriii& di Teodosio In Italia, Macerata, 1889. Fa- tetta, Il Breviario Alariciano tn Italia j Bologna, IB91 ("Arch. giuridico ^, XliVH).

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la manomissione per vindictam; altre dichiarano il manomegso dvis romanus, nonostante che Giustiniano avesse tolto ogni diversità dipendente dai modi di manomissione, uguaglia do la condizione di tutti i libertini in faccia allo Stato. Dato il caso ohe un servo fosse nel dominio di più padroni e uno solo lo ma* nomettesse, quid iurisf II diritto antegiustinianeo voleva che la parte di proprietà, a cui il manomettente aveva rinunciato, cedesse a vantaggio degli altri padroni, e una glossa langobarda ai inspira appunto a questa idea.

Un punto, su cui la influenza del diritto antegiustinianeo è manifesta, concerne la materia della occupazione. Si trattava di sapere da qual momento il cacciatore potesse considerare Fani- malo come suo : dal momento che l'aveva ferito o dal momento che se n'era impossessato ? I Romani avevano disputato a luogo, finché venne Giustiniano a decidere la questione ; ma non è la soluzione giustinianea che gli editti langobardi accettino. Una aggiunta, che un codice parigino dei Capitolari fa sìVEdictum Uffolionis dell'anno 789, parla del tesoro trovato nella terra di una chiesa. La terza parte ne doveva spettare al Vescovo : che se un langobardo o altri, a cui il padrone avesse dato qualche cosa in propria sua, vi scavava spontaneamente, e trovava il tesoro, se ne doveva levare un quarto; il resto cedeva al fisco, E nuovamente un capitolo il quale ricorda il diritto teodosiano. La disposizione, che la quarta parte del tesoro debba cedere al padrone del fondo, si trova appunto nel Codice teodosiano: il diritto giustinianeo gliene attribuisce la metà. Anche il modo con cui la legge disciplina la prescrizione ricorda piuttosto il diritto antegiustinianeo, ohe non quello più recente di Giusti^ niano, specie per ciò che ne riguarda la efficacia. Se non le leggi, certo molti documenti fanno tuttavia cenno della mancipatio, co- ma di un modo d'acquisto della proprietà ; e questa era una forma dell'antico diritto, che la legislazione giustinianea non conosce più. Lo stesso dicasi della fiducia, che ricorre appunto con questo nome sia nelle leggi sia nei documenti.

Anche la conclusione delle obbligazioni si & molte volte con parole solenni: che se realmente non si pronunciano, ai aBer^ ma asMrsi pronunciate ; e neppure questo è giustinianeo. Giu- stiniano aveva promulgato una costituzione, colla quale, tolta la solennità delle parole, dichiarava che si dovesse badare sol-

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tanto alla volontà delle parti, comunque espressa ; ma pare quasi che la costituzione di Giustiniano sia rimasta lettera morta. In realtà molti contratti si conchiudono tuttavia con parole solenni. E anche la forma letterale si trova largamente usata in questi tempi, proprio nel modo con cui l'aveva disciplinata il di- ritto anteriormente a Giustiniano. Vogliamo alludere ai chiro- grafi. Speciali reminiscenze dell'antico diritto si hanno negli atti di donazione, che ricordano spesso sia la tradizione, che Teodosio aveva ancora ritenuta necessaria, ma che Giustiniano riguardava I come inutile, e sia la registrazione, che il diritto teodosiano ave-

r va richiesto sempre, ma che Giustiniano soppresse in molti casi.

L'editto di Botari ha pure una disposizione relativa agli I sponsali attinta evidentemente al diritto romano, che cioè il ri-

tardo non giustificato nel conchiudere le nozze per due anni, dia diritto a scioglierli; ma anche qui è il diritto teodosiano che influisce. Altre traccio possono trovarsi nella materia degli im- pedimenti al matrimonio, in particolare per ciò che riguarda Punione tra cugini, permessa da Giustiniano, ma ripudiata da Liutprando per eccitamento di papa Gregorio. Anche le pene dalle seconde nozze paiono attinte piuttosto al codice teodosiano ohe al giustinianeo. E del pari il diritto dei testamenti può of- rire materia ad utili raflfronti. Ricordiamo un altro capitolo ag- giunto nel codice parigino a,]VEdictum legationis, oltre a quello citato più su. Vi si accenna ai testamenti, che non potevano esser validi se non erano confermati da cinque o sette testimoni, e si allude evidentemente ad una novella di Valentiniano III, in cui è detto : cui multum róboris erti si vel septem vel quinque testibìM mimiatur. L'istituto della falcidia conserva ancora l' impronta antegiustinianea.

Non basta. Alcuni principi di diritto teodosiano sono invo- cati veramente, specie dalla Chiesa, come diritto vigente. Si tratta di concessioni che essa aveva ottenuto dagli imperatori, che tennero il Regno prima di Giustiniano, che questi non ri- conobbe, ma su cui essa persiste. Il caso si verificò con una legge di Costantino sulla giurisdizione dei vescovi e con^ un'altra di Marciano sul giuramento dei chierici.

Cosi il diritto Teodosiano influisce sulle leggi ; ma anche la f scienza giuridica, per quanto in questi tempi si può parlare di

II» Bcienza, se n'è giovata. La collezione degli agrimensori contiene

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* SlbllO^afla. D'Asti, DeWu90 e autorità riella r<»gùm cieiU nsUe prò- £ié deW iwmro oceidentaU, YoL 2, Napoli, 17202^ Huova edi^oiie, 18^1. SATiavT. Gttehiehte des rihn, Beehts in M. A., 2* ediz^ vùL I e II, H<^id&lberg^ LHM. ìLkJwo. La trtnUtnane romana nel diritto penale r Et vista penale Y^ 1^6). Db CitxjA, Il diritto romano altravereo la eitnità europei», Nupoii, 1879^ £>k Gjl- iTABif, 8uU* autorità del diritto romano e longobardo iw il' licita meridionale dal iOt^ al //^«tf. Napoli, 1888L Pbela, Il diritto rowutno gimiinianeit nelle pramn&i s meridionali d" Italia prima delle aesiee normanne. Nafn^li, 1885* Scntrrrsa. U di' ritto rombano nell'Italia meridionale durante i secoli di uherxo i*^ B^ndì conti aolla r, AcoMleiiiia dai Lincei « II', 1886, p. 261 segg.). Tamà^s^ei Un eaintoL^di »toria lon- fòarda di Paolo Diacono, Ouervaaioni storiche giuridUkej Bei lagna, IHH9 (' Arch. fìiir.« XLni). Pasttaxo, Paolo Diacono e le eompilasioni di iMi^ini&no^ CatOf &iflk I^ (* Antologia gioridioa,). Coheat, Geschichie dcr Qudlcn ti^ lÀteraiur dts r««. Beehts im/rUherenM, ^^ yoL I, Leipzig, 1889- 9ù- CiccaolioiiBj DiriUo c*^

* dme€U* napoletani^ neiropera Le istituzioni jpotit le he. e sot^iaU de* dmaU

ni, Napoli, 1892; p, 25-81. Lo stimo, // dt risto raniafia in Sicilia dw- il damm%o muesulmano (in «Bivista di st. e fil. iel diritto,, imi), Asmciv* so-Cabiama, La prammtUica saneione, Catania, 181 '^'o.

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veramente più passi di diritto teodosiano insieme ad altri di dirit- to giostinianeOc E cosi pure s' incontra qualche principio di di- ritto teodosiano riprodotto nelle lettere dei papi^ in Anselmo da Laoca, nella coUectio Anselmo dedicata^ in altre collezioni di ca^ noni| in ano scritto polemico del cardinale Deusdedit. Altre reminiscenze conservano la Lex legum, il Brachylùgug iiiris ci- vilis e le ExcepHones legum Romanorum,

Diremo di più : neanche il risorto studio delle collezioni giusti- nianee balzò il diritto teodosiano affatto di seggio. Certamente Azone conobbe il codice teodosiano, perchè ne cita un brano, e anche Graziano ha qualcosa presa dal diritto antegiuatinianeo. Nondimeno un passo della ^Stimma parisienm, scritta in Fran- cia verso il 1170, ricordando il frammento citato da Graziano, che era delle sentenze di Paolo, osserva: 8ed cum Theodosia* Mi# non M in Lombardia, est autem Aurelianis et apud Sanctum Djfonisium, videturq^^ quod Gratianus has leges nmnims&et de canonibus Tronis. Comunque, la memoria se ne affievolì col tempo: Accursio ricorda àncora il codice teodosiano, ma sem** ^

bra non conoscerlo.

2. Veniamo al diritto giustinianeo. ^ E una nuova legisla* sione ohe entra in Italia con Giustiniano; e invero una grande legislazione.

Dorante i 64 anni che gli Ostrogoti dofnìnaroiio nella peni- •ola, la legislazione romana aveva fatto grandi progressi in Oriente mercè la influenza sempre maggiore della idea evange^ lica e per un migliore apprezzamento degli interegsi sociali. Inoltre Giustiniano aveva raccolto le antiche leggi e il meglio

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degli scritti degli antichi giureconsulti, salvando cosi per tutti i secoli avvenire il patrimonio più legittimo della civiltà latina, proprio allora che i barbari ne mettevano in forse l'esistenza.

Naturalmente, quando Giustiniano venne in possesso del- l'Italia, pensò di estendere i benefici della nuova legislazione ai nuovi sudditi; e ancora durante la guerra gotica deve, con un suo editto, avervi introdotto le Pandette e il Codice. Vi ag- giunse poi tutte le costituzioni emanate alla spicciolata dopo la sua grande campii azione. La stessa sanzione prammatica, che pubblicò il 13 agosto 554, concerne più particolarmente F Italia, quantunque V imperatore dica di averla fatta utilitate omnium qui per occideniis parte» habitare uose untar, suo vero scopo fu di togliere di mezzo i disordini della dominazione ostrogota ed è osservabile come egli la distingua in due periodi : quello di Teodori co e de' suoi saccessori fino a Totila, che è il psriodo della dominazione legale, e quello di Totila e Teia, che considera- va come illegale. La distinzione è importante; perchè il diritto romano non attribuiva validità ad alcun atto, che non emanasse da un governo legittimo, e per conseguenza tutti quelli del se- condo periodo dovevano aversi per nulli. Insieme si torna ad in- culcare che le compilazioni ginstimanee avranno validità in tutta Italia.

Non c'è poi dubbio: sebbene la dominazione greca non fosse di lunga durata e finisse col restringersi ad alcuni territori sol- tanto, pure il diritto giustinianeo riuscì veramente a collocarsi accanto al diritto teodosiano^ e, se non lo soppiantò subito, gli disputò il campo molto energicamente, e a lungo andare pre- valse. Lo abbiamo detto poco fa, che ti diritto teodosiano fini quasi ool perdersi dalla memoria degli uomini ; e già prima la vita gli era divenuta infedele, L' Italia rimase cosi il paese del diritto giustinianeo ; ed è dal T Italia che esso procedette alia con- quista del mondo-

3. C^era poi il diritto greco-romano, ^ La legislazione ro-

* Bitlllograflfl. 0. G^< E. H^iM^ACd, D^ BmUkorum origine , fontibuét oto., XiLpaì% 1825» Lo isTEsso, Ch'ieGhenltjndt nolla •* Eacykl. di Piiuli ^ sez. L parte LXXXVI e LXXXVn. Lo stisso, Frokgiìmcna BfttUtcorumf tomo Vi. della sua edizione dei Basilici, Lipsia» 170, WittBj Ueòcr tinigc bi/xaiUlnUi^^ie /?ec^«- c^&mpcfìdien de4 nsunt^n u, tóhnien JahrliundarUr nel ** Hhein» Musetim tur Jurispr. II, p. 275 se£g.; 111^ p. ^ segf?. Lo Bit^^so. Die legt^ reMìtutae de^ Codex, Br©~ BÌAU, 1B80, Lo STESSO. Uéb^r dU Novellen der òg^ani. Kaimr^ ndìì^ '^Zeitschr. fur gesch. R. W, ^ Vili, p, 158 t*6gg. G, E, HeiuBÀCHf Ohservati&ne^ jurit grfte^o- rometnij J^ Lipaiae, 13304 Zaciiabiab C. E., HUtori<x€ jurii gr^cca-rom&ni d^inea*

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mana non termina con Giustiniano. Dalla morte di Ghistinìano a Basilio il Macedone (565-866), da Basilio il Macedone alla pre^a di Costantinopoli (867-1453), abbiamo nell'impero d*Oriente una lunga serie di costituzioni e di codici e opere giuridiche, che non sono rimaste senza efficacia pel diritto italiano. Veramente nei primi tre secoli fino a Basilio il Macedone, le riforme, che deroga- rono al diritto di Giustiniano, sono poche e parziali ; ma dopo no.

iù^ Heidalborg, 181)9. Lo stesso, Geschtehte det griechitrh'rì$mUchen EechU, 3^ •diJL, Berlin, ldd2. Lo stesso: Beitràge zur Kritik u. HcjlUtiiion d^r ìianilikefif l£<77 (* Mém. da TAcc. de St. Pótersbourg « , serie YIL tomo 2S, a. 6). Lo bt£9Bo, DU griecìki9ehen Xomok<»none$ (ib., n. 7). Lo stesso, il dir ili fj rotttana ntdlit baà»a It^ia e la scuoia giuridica di Bologna, Nota tradotta àa. C Ferrini, Milano, ìy*^ ^* Bendiconti del r. Istituto lombardo, serie III, voL KYIIi}. Mortueuil, HtBUnrt du droil 6ysafU»n, 8 voi., Paris, 1843-46. Brandt leosir, Notizia del Fra^ rkirvn Ugum rontenulo n^ codice vaticcmo greco 845 (** Bendicoati delta r, Acoad- dei Lincei « I, 1885, p. &07 segg.). Lo stesso, Framm^nii di letiisl&zionc nor^ mamma e di giurisprtàOenMa biaarUina nell* Italia meridionaU^ EomI^ Idi^ì ('Boa* diconti della r. Acoad. dei Lincei « II*. 1886^ p. 260 seg.), Lo«TRa«o, Il diritùt himanUmo nell'Italia meridionale doli* Vili al Ìli 9eeolOf Bologna, 1886 C* Arob* ^ur. , Tol. XXXVI). Lo stesso, Studio sul Prochiron ktfuììt.B.otnì^ l^ò {'^ BnU lettino deir Istituto stor. italiano n. 16). De Gaspauiis Te^rctro ed Ipt^ùolo, Bonus IHHB (* Documenti di storia e diritto,, VII). Scticj-FEB^ // dirlUo ramano meW luUia meridionale durante i secoli di mesMO (** Beiidic otiti della r. Acead. dei Lincei,, II', i>^\ p. 261 soge.). La Mahtia^ Cenni dorici su le f&nti dei di- ritto greco-n/mano e le oMÙre e le leggi dei re di éSicilia, Pàlcirmo, 1687. Lo «TBaftOj ^M la imitazione bizantina negli acriUi dei glossatori, Boma, 1^> ("Rivista itai^ par le scienao giuridiche Vili). Tamassia G., Bologna e le scuote imperlali di diritto, Bologna, 18H8 (** Aroh. giur. voi. XI). ScHUprictì, PoUmiea blsanlina, a yropusito di uno serilto di O, Tam<»ssia sullo lUudio di Bologna, Bumi)^ i'^^^. Lo TBsao, Ije origini dell'università di Boloana, Boma, l&^J [" Atti dc^Ha r, Aeeod. Linc4«i„. s«'rie IV, CL so. mor.. VI, 1). Lakdsbbro, Di una rcecntt^ puhUiea~ wiame di li. Tamassia sullo studio di Bologna, Boma, 1881>. Tauabsia, /^ M'Oli li m OecideMte, Pisa, L-06. (ìiofkbida, La genesi delle constteiudini giuridiche delU città di Sicilia, 1. // diritto greco-romano nel periodo hiManlinQ^tiralfOf Catania, r«Jl. SiciLiàXO-ViLLAXUETA, SìU diritto grecoromano {prìi^at^ji) «n #S'ici7m», PiilermOj r«'l i^Bivista di storia o filoa. del diritto,, II, 7 seg). Ciccai»lujhk, L*f origina d€ÌU consuetudini sicule, C4m ossertfoxioni del prof, Sckupfetf Torino, Idòì (" Ri* Ttata itaL p»^r le scienze giurìdiche,, XXXj 1-2). Lo hih^sj, L'Iudia hiMonti' nm megli studi di storia del dir, ital.. Napoli, 1ÌK)8. KdizionL ìÌachabia, Jum :rme^o-ro9ummm, voL 7, Lipsia, 1856-1888; voi. I, PraftÌ4:a cr arii» EtAMathli; IL S^fw>péis minor ed Eclaga legum in epitome expositar^ ; HI, Xo^fJLre; IV, L^lojfa aueta. Kcloga ad prochirum muUUa ed Epanag-ìge ancia; V, iSgnopaim HasilU'orum: VI, Prochiron auclutix; ^Vlf, Epitome legùni (cont.)* L'J fiTRaso, iSoll^riio lihr, iuris gr arco- romani inedilorum, Ècloga lÀv^nls ei i 'oTuiafdint^ EpO' na^yge BasUii, Leonis et Alexandri, Lipsiae, 1852. Lo btrsso. imperdiorww Ba^ 0%:ii f o.istaniini et J^onis Prochiron, Heidolb. 1837. Alttit Prothiron legum a r-ara di Braudileonc e Puntoni, Bomi, l*)ó. Il Nomos ifrur'jlrt,* in L'iKWit!i:Ki,*u, Jms graerwrotrt., Francoforti, 15iì6, II, p. 256 segg. e in IIkiuiiach, V^nii, Har- mmvpuii manu4tle lequm sire Exabiblos cum oppendicibu^ ti Ugihuif agrariiSt Lip ■iatf», 1-<»1. Il Xomos stratiotiroM parimente in Lorweìcklatj, op. m.. Il, p, 219 M^. D Sumos Hoditm naulicos in Lorwenklau, op, et/., IT. i>, 2t3,> ac^gg. e in FAai>ts*ii«i, Coilert. dcs lois mariiinies, I, pag. 231 segg., poi in ÌIeiuviciì, BoH- lirum libri LX, voi. V, p. IH» e setre. e in Zacbaria, Jus gratto^rom., IV, p. 162 •fi^g. I Banilifi furono pubblicati Sai Fabrot, Parisiis, l^ìH, in *ctto voi tuoi, e

{»iu nNr^Dt4*mnnte dal llRiMUAcn, voi. 6, Lipsia, 1833-70. In SLttiuio volumi? vida a hi'-oper cura di Ferrini o Mordati nel 1897. Servoim a c^oLupU tarli la Bi* nspsi» Basi/ieorum (circa 950) e il cosi detto Tipucito i-I t^G* x=;ta i, un com- pendio alfabetico dei Bajiilioi con passi paralleli e ani he alcune lo|?^ nuovo •i^lf^col.» XII.i. Bicordiamo puro un Manuale Basìlieortifn di iUirooi ^, Lipsia, W»l e Qn altro di Heimbacii, nel sesto volume della sua edizione dei Basilio!,

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Nei primi tre secoli il diritto giastinianeo tiene ancora il campo ai neiriiisegiiameQto che nella pratica: nondimeno anche in quei se- coli vogliono essere ricordate^ oltre alcune novelle, TèxXoYi^ tSiv vójittìv (a. 739) di Leone Isaurico, l'ardito novatorej che per la prims volta avviò il diritto bizantino per una nuova strada, accostandosi qua e alle consuetudini barbariche; e tre raccolte di leggi» compilate da giureconsulti ignoti nella seconda metà del secolo Vm, su cose agrarie^ militari e marittime : il N6^o5 YstupYixós, il N6ii05 a':pxz\tù-txÒ5 e il N6|^os *PoSftóv varjxLxóS-

Meglio provvide il Macedone ad emendare il diritto* Narra l'autor© incerto della sua vita^ ch'egli aveva trovato dell© leggi civili molto oscure e confuse, imperocché tanto le buone quanto le cattive fossero frammista assieme nel medesimo corpo ; perciò dette opera ad emendarle, come lo richiedevano le mutate con- dizioni dei tempi, ed anche a farne di nuove, dov© ne mancavano di scritte. Non gli riusci peraltro se non di pubblicare un ma- nual© da sostituirsi alle Istituzioni giustinianee, che si cono- sce col nome di npànv^ipo^ vófioj (Lex manualis)* ma che, trovato poi ineniEciente, fu riordinato e anche accresciuto e promul- gato di nuovo col nome di Epanagoge. Esso doveva con mag- gior© semplici tàj che non avesse fatto Giustiniano, offrire nor- me della ragion civile più consuete e anche le sanzioni penali dei delitti, omettendo tutto ciò che era oggimai antìquat/O, in- sieme ad alquante novità isanrich© poco rispondenti ai principi giuridici.

Inveo© non venne fatto a Basilio di compiere la grand© com- pilazione e ripurgazione generale dell© leggi giustinianee, da ©sso iniziata. Anzi, morto lui, Leon© il filosofo (836-91 1) ri- fece in gran parte il lavoro del padre, riordinandolo e introdu- cendovi più cose che erano state omesse. Infine lo pubblicò. Cosi nacque il grande e vero codice della legislazione greco- romana, che si conosce col nome dei Basilici^ cioè dire leggi e decreti imperiali.

Con esso termina propriam©ntaropera legislativa dell'Oriente; ma non intendiamo di dir© che, anche dopo, non siasi fatto qual- che cosa. Soltanto si tratta di lavori oh© ai appoggiavano ai precedenti. Sono manuali compilati sul Prochiron e suU' Epana- goge, e scoi! o annotazioni di giureconsulti greci, anche recenti^ sui Basilici, eh© poi un discepolo di Agioteodorita raccols©, sullo

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flooroio del aeoolo XTT o sul prinoipiare del XTTT, in una uiiìoa glossa.

Tra le novità di qnesta legislazione ricordiamo principalmente r ipobolo e il teoretro, le culiectiùnes e la protimesi; ma ce ne tono anche altre. L'Ecloga assimila completamente la madre al padre nei riguardi del diritto domestico, e palesa la tendenza di rìdarre la patria podestà alle proporzioni di una tutela dei figli minori^ sopprimendola in quelli di età maggiore; distin- gue più tra tutela e cura, e pur nelle successioni si scosta dal diritto giustinianeo, che ayeya chiamato gli ascendenti a suc- cedere coi fratelli del defunto, dando invece la preferenza ai genitori. Insieme è notevole, che l'uso di provvedere con la- sciti alla salute dell'anima diventa un preciso obbligo giuridico par opera di Leone il filosofo e di Costantino Porfirogenito. Lo steoDO Leone volle anche riconosciuta la piena efficacia dei patti aeritii, purché lo stromento portasse la invocazione della SS. Tri- nità o il segno della Croce.

Tutta questa fioritura bizantina non andò poteva andare perduta per l'Italia. Anche dopo la conquista langobarda, alcune Provincie italiane erano rimaste tuttavia soggette alla domina- zione dei Greci. Bicordo nell'alta Italia, Venezia, che s' inchinò a lungo alla sovranità di Bizanzio; nella media, Roma, l'Esar- cato e la Pentapoli coi paesi che ne dipendevano; nella bassa, Napoli, Amalfi, Gaeta, coi loro duchi eletti o confermati dal governo greco; e cosi le provinole di Puglia e di Calabria, coi loro catapani. Rimaste bizantine fino al secolo XI inoltrato, non deve far meraviglia che abbiano subito la influenza di quel diritto; e in realtà i documenti ne conservano traccio. Pari- mante la Sicilia restò soggetta a Bizanzio per più secoli, dalla conquista di Belisario fino a quella mussulmana, e anche in essa, insieme con la dominazione greca, se ne difiusero le leggi e se ne adoprmrono i compendi. Si può anzi dire che fino dal secolo Vili Tellenismo vi sia in continuo aumento : la popolazione ne venne addirittura ellenizzata a scapito dell'elemento latino, e cosi anche il diritto. Non già che le leggi giustinianee abbian ceduto com- pletamente, ma ceduto hanno, finché poi nel secolo XI l'elemento greco assolutamente prevale, e il diritto, che tiene il campo ò li bizantino. I documenti ne offirono di nuovo parecchie appli- cazioni; e lo stesso diritto non manca d'influire sulla formazione

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delle fonti giuridiche dell'isola: -certo, le Assise normajind sur biscono a volte la influenza di istituzioni bizantine. Ma ile stesse relazioni commerciali dovevano fìivorime l'introduzione anche dove la dominazione greca propriamente non si esten- deva o non era ohe di nome. In realtà vedremo penetrare in Italia, e anche diffondersi, più istituti di origine bizantina ; e non- dimeno restava pur sempre un largo campo al diritto ed alle fonti giustinianee. Perfino nell' Italia meridionale, dove il diritto bi- zantino attecchì maggiormente, abbiamo positive testimonianze, non solo dell'uso e della notizia del diritto romano in generale, ma anche di libri giustinianei.

4. Insieme si sono conservate molte pratiche, di cui si cer- cherebbe invano un accenno qualsiasi nelle leggi, ma che non- dimeno hanno l'impronta romana. E quello che si suole chiamare il diritto volgare romano, che nessuna mente di legislatore aveva ancora disciplinato, ma che i bisogni pratici avevano fatto sbocciare spontaneamente, e viveva più ch'altro nella coscienza del popolo, completando, e anche modificando, il diritto ufficiale. E un fe- nomeno che si rivela in molte parti del diritto, e meriterebbe uno studio paziente, che non si è ancora fatto, con la scorta dei documenti romani e anche barbarici che lo rispecchiano.

Per accennare solo a qualche esempio, tra molti, crediamo che la disposizione dell'editto di Teodorico, che permette di vendere le terre senza i coloni, che vi erano addetti, traesse la sua origine appunto da questo diritto volgare. E anche nel- l'Alvernia s'incontra la medesima deviazione dal codice teodo- siano al tempo di Sidonio Apollinare.

Parimente si sa che nel medio evo, la tradizione si faceva molte volte con la consegna della carta, non importa se scritta o non scritta. Si trattava di un simbolo, e la sua funzione come simbolo la compiva ugualmente : se non fosse stata scritta prima, si sarebbe scritta dopo ; e qualche documento la presenta addi- rittura come una pratica romana. Ne citiamo uno del 979 : Lex precepit romana ut qutcumque rem stiam in alicumque trans fundere voluerit potestatem per paginam testamenti eam infundat. La stessa formula : post traditam compievi et dedi, che ricorre comu- nemente nei documenti si langobardi che franchi, non può dirsi germanica; gli uni e gii altri non fanno che riprodurne una, che si trova nei diplomi romani dell'ultimo periodo, ma di cui

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8i cercherebbe invano il riscontro nel diritto oiiioiale. Anche la wolUtnnU introdiictio locorum, che seguiva la tradizione del- l' immobile e la compiva, appartiene alla pratica romana e può trovarsi già in taluni documenti ravennati degli anni 489 e 541, mentre altri dicono addirittura che si faceva secundum legem romanam.

Un altro esempio. La legge romana dei Burgundi, trattando delia vendita, contempla il caso che il venditore avesse già fatta la tradizione corporale della cosa al compratore, e questi dopo alooni mesi o giorni dacché la possedeva, l'avesse tornata al ven- ditore a titolo precario. La legge continua: documenti professio firmitaiem precariae possessionis obtineat; bastava che il vendi- tore se ne fosse fatto rilasciare un documento dal compratore, perohi la precaria potasse aversi per ferma! Anohe qui abbiamo a che fare con una pratica del diritto volgare, e con una pra- tica importante, che doveva trascinare a lungo la sua esistenza nel medio evo. In fondo, si tratta del precarium, una conces- sione dipendente affatto dal beneplacito del concedente, anche ^e fatta a termine; ma nella pratica, si era convertita già, mercè la scrittura, in un rapporto stabile, e dava veramente diritto al precarista di godere il fondo per un dato tempo, senza che il concedente lo potesse riprendere, prima che il termine non fosse trascorso. Ancora, può vedersi il titolo de donatìonihus della 9te^«a legge dei Burgundi. Vi e sancito il principio, che le donazioni di animali, vesti, gemme, metalli o altra cosa fungi- bile, fossero valide con la sola tradizione, senza bisogno di in- i^inuazioae o di scrittura: ma anche questo principio non figura n^l diritto ofiìoiale. Lo stesso dioasi della palmata (paumée). È una forma, ohe ha la sua importanza nel diritto del medio evo, e la conserva in parte anche oggigiorno: ma donde ci è venuta? Certamente le leggi romane non ne parlano: d'altronde es^a ^ra nota agli antichi, ai Persiani come ai Greci, e si trova del pah negli u^^i popolari dei Romani. voglioDsi trasandare i titoli all'ordine e al portatore. I secoli di mezzo li conoscono •otto varie forme, e parrebbe quasi che fossero in manifesta opposizione col genio dei Romani ; ma non è vero. Una for- mala di quei titoli trova appunto il suo addentellato in una pfatica romana: non diciamo nel diritto ufficiale, ma certo nel di- ritto volgare. Tali erano i titoli all'ordine con la clausola di

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esazione : tibi aut cui tu hanc cartulam dederis ad exigendum, ohe ricorre già nel secolo VI. Una formula visigotica, che pare modellata su qualche tipo romano, si riferisce ad un mutuo di denaro, che il debitore promette di restituire entro un dato tempo: intanto darà al mutuante questo o quello in beneficium soUdorum ipsorum. Il debitore continua: Se non lo farò e la- solerò trascorrere il termine di questa mia cauHo, dico con giu- ramento quia liceat tibi cautionem cui tu ipse volueris tradere et adibito mihi excutere supradicta pecunia una cura beneficio suo duplicata cogar exsolvere. Non o' è dubbio : l' interposizione del giuramento accenna già ad una pratica romana; ma probabil- mente anche il resto è romano, e, sebbene non sia detto, la clausola, che autorizza il creditore a dare la cautio a chi vuole, per escutere il debitore, è già una vera e propria clausola ad exigendum.

Le due leggi dei Burgundi e la legge Visigota consacrano anche la tutela legittima della madre che non fosse passata a nuove nozze, anteponendola a tutti; ma la legge romana non andava tanto avanti: essa accordava alla madre il diritto di chiedere la tutela e ottenerla dal giudice, e non la chiamava senz'altro ad assumerla, il che è cosa ben diversa. Pensiamo che si tratti nuovamente di un uso estraneo alla legge ufficiale, onde quei codici barbarici rivelano l'esistenza.

Parimente la defensa^ cioè l'uso d'invocare il nome del so- vrano contro le minacce in danno delle persone o degli averi, è un istituto del diritto volgare romano, il quale non mancherà di essere accolto dalla pratica medievale, specie nella bassa Ita- lia, ma anche altrove. E dicasi lo stesso delle multe, che le parti solevano apporre a favore del fisco insieme con la penale a vantaggio del creditore, o anche senza di essa, pel caso d'ina- dempimento o di evizione, che si trova certamente almeno nei paesi greci ed egiziani, e si riproduce poi, già nel secolo VII, nei documenti italiani.

Le stesse riforme delle nuove leggi bizantine, a cui accen- nammo più su, sono state forse suggerite da questo medesimo diritto.

In fondo, si è verificato col diritto quello stesso fenomeno che con la lingua latina, che aveva pure il suo strato volgare, naturalmente rozzo, ma a cui era riservato l'avvenire!

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o. Le leggi romane dei barbari. aa. ^ GU editti dei re ostrogoti L'ediUo di Teodorico. ^

1. Il regno degli Ostrogoti (489-653) mantiene ancora una impronta romana. Teodorico aveva ottenuto l'Italia dallo im- peratore Zenone e si era presentato in nome di lui : era naturale che foggiasse i suoi ordinamenti su quelli del governo imperiale. D'altronde la sua dipendenza dall' Oriente non fu che di nome ; e se il suo Begno si trovò ancora congiunto all'antico Impero romano, lo fu in base agli accordi ed alla reciproca assistenza.

Tale condizione di cose ha la sua importanza anche per la le- gislazione. Parliamo della legislazione propriamente detta, con- siderata come un attributo della autorità imperiale. Perchè sta il fatto che Teodorico altro re ostrogoto pubblicarono leggi, come già gli ambasciatori goti mandati a trattar di pace con Belisario avevano osservato. Il nome usato comunemente a indicare la potestà legislativa dei re goti, ò quello di Edictum

* Bibliografia. Bbon, Cammentalio ad ediclum TAeoc^orict, Alae, 1816. OmsTBCHKL, Ad edicimm Alhalariei Buccinta eommetUaiio, Lipsiae, 1828. Sayiont, f;«jcA.. II, 172 aege. Tradiu. ital. del BoUati, L 877 segg. Von Glódsn, Dot Reda tm otlgothUehen Beiche, Jena, 1S48. Walch, Recensione delia detta

Ro%ikRmf Le gouvememerU ei la léaislcUiani

Tu« crìtique d'hist. ^ 1879). Lamahtia G^ Codici di leggi romane $oUo i barbari, Palermo, 18B0L Gusaaivi, Se V editto di Teodorieo fo$9e personale o territoriale, LiTomo, 1884. Gauobhzi, Oli editti di Teodorico e di Atalarieo e il diritto ro- «— o mei regno degli (htrogoU, Bologna, 1881 Lo stesso, Die Entetehungneit do» Edieimm Tkeodoriei (**Zeit8chr.* der Sayìgnv-Stiftunff fOr B. G.. VII, 29). Lo vm»s L'opera di Caeeiodorio a Ravenna C^Atti e Mem. della deputaz. di «toria patria per le provinole di Bomagna. serie m, voL HI e IV, 1886-87), Mo«Hsax, Odgothische Sludien (" Neues Archiv. XIV). Kabixìwa, B6m, BeehUae- BtKitkto, l, Loipjdg, If^ p. 947 segg. Scbuptkb, Una profeetione di Ugge gota del- Vommo 7€9, Boma, 1886 (* Bi vista ital. per le scienze giur. ^ ^I) e altri scritti rtlaiivi alla medesima questione citati neUa nota 2. Lo stesso, L'editto di Tomdarico. Studi guU'anno della tua pubblicanone, Boma, 1887 (*Atti della B. Xoemd, dei Lincei , serie FV, Classe di sciense morali, voi. Ili) Hodokih F., Tkoodorie iKe (ìoth, tke Barbarian champion of civilisation, Londnk 1891. Pa- TSTTA F., SuiTamno della promìdganone dell* editto di Teodorieo, negli *^ Atti del- \* r. Aondemi* deUe soiense di Torino, voL XXVXH, 1896. Lo stesso, Sui frwammenti di diritto gcmumieo della collezione gaudenxittna e della Lectio legum '^Arch. giar.« LUI, 18B4). TuouuwTTif L'editto di Teodorico. Oritica stonco- bifaisv Verona, 1895. Del Giudice, Due note all'editto di Atalarieo, Torino, 1896 nal * VoL di stadi di storia del diritto ital. dedicati a F. Schapfer^). VoM Halaax, Dae rAn. JUcht in den german. Volkettaaten., voi. I, Breelau. 1899. ~ Ediiioii# migliore, di Blubme, nei ** Mon. Germ. LL. V, 145 segg[. Dubito forte ebe i frmmmenti pubblicati dal Gaudensi neU^opera Di un'antica eompilaz, di diritto ramano e viaigoto, Bologna, 1886» non sieno ostrogoti. Le Variae vanna Madiate aallA nuova ediaione del Mommsen.

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o di Edictale programma ; ma il diritto di pubblicare editti non eccedeva i limiti della magistratura: ogni magistrato poteva pubblicarne.

Ammettiamo però che la differenza sia più di forma ohe di so- stanza ; perchè anche gli editti ostrogoti non s' indirizzano sem- pre a casi singoli ; ma, al pari delle leggi propriamente dette^ contengono spesso disposizioni generali, e qua e portano ve- ramente il nome di editti generali. tampoco presentano alcun divario quanto al tempo della loro validità. La sola circostan- za, che li distingue dalle leggi è questa: che non avrebbero potuto modificare gli ordinamenti esistenti tranne che in punti secondari.

Se ne conoscono poi diversi : l' editto di Teodorico, quello di Atalarico, alcuni altri di carattere speciale, conservati nelle Veniae Cassiodoro ; ma il più importante è VEdictum TTieodarici, su cui amiamo di sostare.

2. t\ nome stesso lo dice : fu Teodorico re degli Ostrogoti che ne ordinò la compilazione ; ma non si sa bene in quale anno, e anche altre circostanze sono piuttosto incerte.

L'opinione comune attribuisce l'Editto al 600; e non man- cano testimonianze degne di molta considerazione'. Bicordiaano qsuella del Ckronicon PaschUle, e l'altra àeXVAnonymus VaZésianùs. H Ckronicon Paschale dice in sostanza che, essendosi Teodorico recato a Sòma, vi pubblicò una Sta^a^s TOp2 éxcèorou v6|iOti, cioè dire una costitiiaione intorno ad ogni m^tmera di diritti^ lo ohe òorrisponde appunto al carattere generale dell'editto, il quale abbraccia molte parti del giure ; ^ d'altronde sappiamo ^ Oas^* siodoro, ohe Teodorico venne a Roma nel 600 e vi- si fermò sei ihesi. altrimenti' osserva l'Anonimo Valesiano, che egli si recò a Roma post fàcta pace in urbe Ecclesiae^ ossia dopo che Sim- maco era steto riconosciuto per legittimo papa, ciò che tona» al medesimo tempo; e ohe appunto allora vi pubblicò il sìàoedtiU^. Con le quali parole egli allude manifestamente ad una leggfe, che doveva distingjiiersi moda caratteristico da- aitre'j e ohe baistava nominare perchè tubti la riconoscessero.

Aggiungiamo che la pubblicazióne dell'Editto nell'anno 500 in Roma si dittarla molto bene alle circostanze.

Teodoricò, le dice rAnonimo Yalesiano, aveva* in quell'o<>* casione arringato il popolo con promettere, tra le altre, di os^

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servare tatte le leggi fatte dai precedenti principi romani, e ce- lebrato i decennali, sfoggiando una singolare munificenza. Erano soleanità ohe solevano accompagnare la pubblicazione di qaal- ohe legge illustre. Adriano pubblicò l'editto perpetuo nei quifir éecennaÌM e Teodosio il suo Codice nei iricennalia: Teodorico non avrebbe fatto ohe seguire anche qui il costume romano.

Infine l'Editto aocenna ripetutamente al possesso di Boma. Anzi uBa volta si fa a rimaneggiare una vecchia legge impe- riale oon riguardo alle condizioni speciali della città; e questo è, per lo menO| un potente indizio, che sia stato fatto in Roma, come lasciò ittrìtto il cronista.

3. L*Editto stesso si compone di 154 articoli piuttosto brsvi ed asciutti disposti uno dopo l'altro senza sistema ; ma al- cani vennero evidentemente aggiunti ad opera compiuta, talvolta ampliando ciò che dicono altri o anche applicando un principio, espresso da altri, ad un caso speciale. Tratta' del diritto pub- blioo e privato, penale e processuale, giusta i principi delle leggi romane. In generale è una legge romana, salvo qualche modi- fieaaione suggerita dalle speciali condizioni del regno ostrogoto; ed anzi è probabile che un romano per incarico del re lo com- ptlasBe: certo, fu attinto a fonti romane. Vi troviamo adope- rate le tre ooUezioni di leggi imperiali: il codice gregoriano, Vermogemano e il teodoeiano, alcune costituzioni posteriori e le Reeepiae Senientiae di Paolo. Da tutto ciò furono prese le solu- zioni legali per i casi più ovvii e adattate grossolanamente alltf nuova società. Qualcuno dubitò che sia stato adoperato anche il breviario alariciano ; ma non è possibile, se è vero che Teo- dorìoo pubblicò il suo editto nel 600, perchè sarebbe anteriore al breviario. Del resto, anche indipendentemente da ciò, è poco probabile che i compilatori sieno ricorsi a questa fonte nata in paese lontano, mentre quelle del gius romano stavano alla por- tata di tutti. Che se le parole della InterpretaHo del Breviario e quelle dell'ESditto oonoordano qua e là, la cosa si spiega am- mettendo che tanto i oompilatori dell'Editto quanto quelli del Breviario abbiano attinto ad una fonte comune.

4. ^ Un'altra questione verte suU' intendimento, che avrebbe avuto il re nel pubblicare l'editto. Voleva egli procacciare ai Romani una legge più semplice, come han fatto Alarico per i TisigDti e Gundobado per i Borgognoni? o regolare soltanto le

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relazioni dei vincitori coi vìnti? o quale altro scopo si sarebbe proposto?

Le stesse parole dell'Editto contraddicono alle ipotesi ora ac- cennate; perchè esso fa obbligo a tutti, si romani che barbari, di osservarlo in ogni caso a cui provvedeva, e minaccia severe pene ai giudici che ne avessero violato il disposto. Piuttosto ci piace di ammettere che Teodorico mirasse a fondere in uno i due popoli. Diremo di più : egli lo fa in modo che non ha ri- scontro in nessuna delle altre schiatte barbariche.

Altri re, che pure dovettero appigliarsi a simili espedienti, distinsero sempre tra vincitori e vinti con criterì spesso umilianti per questi ultimi, e oltracciò accolsero nelle loro leggi parecchie consuetudini barbariche. Ma Teodorico no. Teo- dorico non accordò alcun privilegio a' suoi Goti tranne quello delle armi; non ridusse i Somani in nessun' altra inferiorità che potesse umiliarli; proclamò un diritto uguale per tutti, obbligatorio per tutti, per il principe come pei sudditi; e se fece una distinzione tra i maggiorenti e il popolo, non ne fece alcuna tra le due razze: per tal modo si è separato completa- mente dai re barbarici. Oltracciò, lo abbiamo detto dianzi, il suo editto, tutto romano, solo qua e ha riguardo ai rapporti so- ciali originati dalla immigrazione. Teodorico voleva proprio aprire una gran via per avvicinare i due popoli e fame un po- polo solo. E questa idea spiega tutto: a conseguire il suo in- tento, doveva piuttosto romanizzare i Goti che imbarbarire i Romani; e perciò la sorgente dell'Editto non poteva essere che romana. altrimenti era romano l'animo di lui nel com- porlo. Egli comanda per es. che il tisco non abbia maggior diritto dei privati, e soggiunge: cosi come piaeque ai nostri predecessori.

6. Qualcuno suppone, che, nel desiderio di fondere anche maggiormente i due popoli. Teodorico vagheggiasse l'idea che i suoi Ostrogoti dovessero vivere con la legge romana anche in tutti gli altri rapporti; ma, se pure vi pensò, non sembra che riuscisse appieno nel suo intento e che il diritto ostrogoto sia cessato aflfatto. ^Nondimeno gioverà esaminare la cosa più atten- tamente.

Certo, più testimonianze accennano ad un riconoscimento generale delle leggi romane; e possiamo ammettere che queste

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abbiano aytito nel Begno del re ostrogoto un' applioazione an- che più larga che non parrebbe risultare dalle magre dispo- sizioni dell'editto stesso. Le leggi penali avevano carattere territoriale, se anche non erano state comprese nell'editto, e dovevano trovare applioazione a tutti senza distinzione di razza. I Romani le hanno considerate sempre come diritto territoriale, hanno trattato diversamente i barbari, anche se addetti al servizio dell*Impero; e ciò stesso deve essersi verificato cogli Ostrogoti, il cui Stato sorgeva appunto su base romana. Anzi, a questo proposito può vedersi la lettera che Teodorico indirizzò a Sun- hivado, quando lo mandò correttore nella provincia del Sannio ad finienda jurgia. Egli dice tra le altre : Si qmd negocium Ro- mano eum Gothis est, aut Gotho emerserit aliqtwd cura Romanis, Itgum eonsideratione definies, nec permiUimus in discreto iure vi- vere, quas uno voto volumus vendicare.

Ciononostante restava sempre una larga parte al diritto per- sonale dei due popoli.

Teodorioo stesso dice, nel prologo e nell'epilogo, che le leggi dei due popoli dovevano essere salve; l'ordinamento giudi- ziario introdotto da lui avrebbe senso diversamente. I Romani giudicavano le cause dei Romani tra loro, e il cornee Gothorum quelle dei GotL Or, che è codesto? Che cosa può voler dire se non che ognuno, quando litiga con altro uomo della sua schiatta, deve essere giudicato dal suo giudice secondo il suo diritto? E perchè nelle liti tra Goti e Romani il giudice goto era assi- stito da persona esperta del diritto romano? Infine c'è la testi- monianza di Agathias, che i Goti avrebbero esitato a sottomet- tersi ai Franchi, perchò temevano di perdere il loro diritto, i Ttiz^jx y6}i:|i,2. E potremmo anche ricordare una professione di l'dgffB gota dell'anno 769. Si tratta di quello Stavila civis briooia- nme vioens legem Oothorum, che abbiamo ricordato in altra oc- casione ; ma si disputa se essa riguardi veramente il diritto ostro- goto, o non piuttosto quello dei Visigoti.

Non c'è poi dubbio che qualche consuetudine barbarica si osservasse dagli Ostrogoti. La maggiore età era una istituzione personale e, appunto intorno ad essa, troviamo detto che presso i Goti dipendeva dalla attitudine alle armi, contrariamente ai principi romani. Qui abbiamo una traccia del diritto nazionale goio. Altrove si accenna al prezzo del mundio che si dava

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more gentiam. Lo stesso dicasi del oonnubio. Anzi risulta da Procopio che il connubio non esisteva neppure tra tutti i Goti di Teodorico* Procopio osserva ciò a proposito dei Bugi, oke erano anche Goti: fiQO ab antico erano vissuti con le proprie leggi; poi si aggregarono a Teodorico, formando oggimai una sola gente, e nondimeno evitarono del continuo il matrimonio con donne straniere. Altre leggi riguardanti l'eredità e i commerci ap- partengono pure al diritto personale.

Per conchiudere : c'era nel regno ostrogoto una legge ro- mana comune si ai Romani che ai Goti, e questa era l'Editto. Inoltre perduravano le leggi penali romane, che avevano pure carattere territoriale; nel resto ciascuno dei due popoli si re- golava col proprio diritto : i Romani con le leggi romane, gli Ostrogoti con le consuetudini gote.

6. Nondimeno, anche ristretto in questi limiti, il pro- gresso, a cui r editto di Teodorico spinse gli Ostrogoti, è stato immeaso. Esso risulta dalle disposizioni dell'editto stesso, e si nei diritti patrimoniali come in quelli di famiglia, nel diritto penale come negli ordini processuali.

Le disposizioni di diritto patrimoniale, che s' incontrano nel- r Editto, sono parecchie. Basterà ricordare quelle sulla proprietà^ che si presenta oggimai con un carattere privato individuale sen^a traccia della primitiva collettività; e altre sulla prescri- zione di trent'anni, che i barbari non conoscevano; altre sulle donazioni e vendite degli immobili, che bisognava iscrivere nei registri municipali perchè fossero valide; altre ancora sui mutui feneratizi, sulle intercessioni, ecc. Insieme si migliorò la con- dizione della donna e dei figli, giusta i princip del diritto ro- mano. La donna non fu più soggetta ad una tutela inesora- bile, come lo era per le consuetudini barbariche, e il divorzio fu ammesso solo in certi casi ; ma d'altronde essa doveva rispet- tare Tanno della vedovanza, e, prima che non fosse trascorso, non le era lecito di passare a nuove nozze. Quanto ai figli, fu proibito al padre di venderli o darli in pegno. gli Ostro- goti, quando entrarono in Italia conoscevano l'uso dei testamenti, e Teodorico permise che testassero nel modo che avessero voluto e potato, a casa e nel campo.

Ma dove la riforma appare più manifesta, è nel diritto punitivo. Teodorico non ammette la composizione pecuniaria, che formava

I

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il £3iido dei codici barbarici. Il suo sistema ò quello delle pene- afflittive, e non risparmia i rigori. La morte è applicata ad un gran numero di casi e qua e si ricorre ai supplizi. man-

eano le pene ignominiose della scopa e della frusta. L'am- i

menda ò aggiunta alle pene personali, ma non ne fa le veci. i

La stessa vendetta privata cedette il passo alla vendetta I

pubblica. Ognuno doveva rivolgersi al proprio giudice e aspet- M

tame la sentenza. Ohi si farà giustizia da sarà punito. Ohi '

si fkrà driatore di un reato, e non potrà provarlo, sarà condan- nato a perire tra le fiamme. Chi, abusando della sua alta pò- sixione, si rifiuterà a comparire in giudizio, soccomberà nella lite. Chi cederà le sue aaioni a persona più potente, perderà ogni diritto, e il cessionaria pagherà la metà della cosa al fisco. Nes- mna pereona potente poteva intromettersi nelle liti altrui come difensore o suffragatore. Il diritto di asilo non doveva portar ostacolo alla esecusdone della legge. Dall'altro canto era fatto obbligo ai giudici di non rifiutare l'opera propria e di ammini- strare la giustizia coscienziosamente.

In generale, ò osservabile la ferma volontà del legislatore di «

fior prevalere la imparzialità della legge sempre e su tutti^ senza badare alla orìgine o al rango. L'Ekiitto, per quanto grossolano e manchevole, suggellava veramente la coesistenza, inaugurava la fusione dei due popoli.

Cosi avessero corrisposto i mezzi e la fortuna!

66. La Lex rom{»na Wisigotharum.

1. Questa legge conosciuta comunemente col nome di Bre^ viarium Alatici, fu &tta compilare da Alarico II re dei Visigoti.

* tlWloarafla. Oaizor, Hiti. de la eitnlu. en Franee, sixidme edit., Paris, Ifl^, l«noni X e XL Satioht, Gt^ehUhte, H, 87 segg. Trados. iUL del Bollati, L ft/7 «egg. Da Maobxuob, De raUane qua Vingotht Oai IntiiiìUianes in epUo» wmm rùds^rinl, Lipaiaa, \BÌSL KLinaATB, Travaiux «ar VhiU, du droU frane.^ Pa- na» 1848, I, D. 814 Mgg. HiisaiL, PraUaamena alla sua edizione della Legge, Lipcia*, ISia Kablowa, Bifm. JUchUgemìhichtej I, 960 se^g., 976 segg. BEncoe, La Lm rtm. Vim^oih^rwm due Bréviaire d*Alarie,^ nei '' MòIaxiffeB de droit et d* hist. « Paria. L667, p. 571 segg. Dbokxkoui, nella * Erìtisohe Yierteljahnschrift fùr OMsUfsbg a. BaehtswisMBsehaft . XIY (1H72). p. 520 segg. Biitaudo, Leggi dei Wimfot%, Torino. ISTa Lamavtia O., Codici d% leggi romane §oUo i barbari, Palermo, IBBD. Pitti HO. Ceher einige ReckUqueUen der vorjuaUnianieehen epàtem KaÌ9er9tii :*Zait«hr. fUr B. O. , X, 817 segff.^XI, 222 segg.). KbCobb, Oeech, der QueUen u. LUeraiur dee rfta, B,, l^^gf iSBR, p. 808 segg. Patbtta, Il Breviario Ala- risia— tu Balim^ Bologna, 18KL (^ Aroh. ginridioo « XLVH). Lo stksso, Brevia- rje Aiarieiamc^ in * Digesto italiano «. Edizione di Habxbl, Lex Bom€ma Vi-

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Egli stesso dice ohe, allo scopo di correggere ciò ohe nelle leggi romane gli sembraTa meno equo e di toglierne le oscurità e am- biguità, aveva messo assieme una commissione di giureperiti, certamente romani, con l' incarico di farne una scelta, riunirle ed interpretarle. Forse anche interessava ad Alarico d'ingra- ziarsi i Romani nella imminenza di un attacco che temeva da parte dei Franchi* La commissione compi il suo lavoro nel- Tanno 506, e un'assemblea di vescovi e provinciali vi diede il suo assenso, Quinc' innanzi non si doveva ammettere altra alle- gazione di leggi o regola di diritto che non fosse contenuta in quel codice, pena la testa o la confisca. Cosi Alarico II faceva per i suoi sudditi romani ciò che il suo predecessore Eurico ave- va, circa quarant*anni prima, fatto per i sudditi goti.

Il codice distingue esattamente le leges dal jus ; e chiama hges le costituzioni e novelle degli imperatori, jus le opere o compilazioni dei giureconsulti. Le leggi, a cui attinse, sono : il codice teodosiano, le novelle di Teodosio II, Valentiniano III, Marciano, Maioriano e Severo, L'ultima è dell'anno 463 ; ma non ci sono quelle di Antenùo, che, appartenendo ai tempi di Eurico, non potevano prendersi in considerazione, perchè Eurico non riconobbe la sovranità dell' Impero e quindi neppure le sue leggi. I jura comprendono le Istituzioni di Gaio, le Sententiae di Pao- lo, i Codici gregoriano ed ermogeniano, che sono pure lavori privati di giureconsulti, e un breve frammento del primo libro dei Responsi di Papiniano.

Tutte queste fonti si trovano distribuite nel modo che ab- biamo indicato, e formano ciò che si dice il Testo; ma non si attinse a tutta nella stessa misurap Inoltre una specie di glossa continua, conosciuta col nome di Interpretatio, accompagna il Testo, lo chiarisce o parafrasa, e qua e lo modifica : soltanto il Liber Gaii non ne ha alcuna ; ma del resto corre una notevole differenza tra la Interpretazione delle costituzioni e quella delle sentenze di Paolo»

La prima riduce in sostanza le costituzioni a maggiore sem- plicità, restringendosi a indicarne il tenore ; mentre la inter- pretazione delle sentenze di Paolo, più diffusa, ha in realtà il carattere di una parafrasi. Comunque, si l'una che l'altra non sono prive d* importanza, non tanto per la conoscenza del diritto classico romano, quanto per lo studio delle condizioni giuridiche

-és- che fiorirono in occidente tra il V e il VI secolo. L'Interpre- tazione stessa dice di voler esporre il diritto romano vigente a quel tempo: che se qualche legge pareva abbastanza chiara, oppore era andata in disuso, l' interprete ha tralasciato di occu- parsene. Vi s'incontrano più brani, ai quali è aggiunta Tos- servasione: ista lex inierpreioHone non egei, e di altri è detto aper- tamente che non s'interpretano perchè non sono più in vigore.

U metodo & press' a poco simile a quello che l' impera- tore Giustiniano usò alcuni anni più tardi nel mettere assieme il Digesto ed il Codice, salvo che i compilatori riprodussero pro- prio alla lettera ciò che trascelsero, senza modificar nulla, cosa ohe Giustiniano non sempre ha fatto. Ciò vale anzitutto per il Testo, e neppure le Istituzioni di Gaio fanno eccezione : perchè è bensì vero ohe ne danno solamente un sunto, ma questo esi- steva già, ed era stato fatto probabilmente a Koma tra il IV e il V secolo. Lo stesso dicasi della Interpretatio. Almeno è molto probabile che sia stata composta con scritti compilati già pri- ma, forse dalla scuola di Roma, nello scopo che servissero al- l'insegnamento, e propriamente di uno o due sommari del co- dice teodoeiano e di una parafrasi delle sentenze di Paolo.

Ma e' è da rilevare anche quest'altro divario tra i compilatori visigoti e quelli giustinianei : che essi non spezzarono le opere di cui si servirono, e non ne distribuirono i frammenti per materie : ciò che scelsero, lo lasciarono com'era, non alterando neppure la distribuzione dei libri o altro. Soltanto sono piuttosto fre- quenti le omissioni, e ne intra wediamo il perchè. L'idea, che li diresse, era di servire ai bisogni della pratica; e appunto perciò molte cose dovevano tralasciarsi come non confacenti alle condizioni della nuova società. Gli avvenimenti, che trassero seco la caduta dell' Impero, aprirono certo più d'una breccia an- che nell'antico diritto, e non si poteva a meno di tenerne conto.

Del resto Topera si risente della fretta con cui venne compi- lata. Alcune cose sono ripetute due o tre volte e e' è qualche passo contraddittorio. Inoltre è notabile il ricordo, che ricorre in più luoghi : Hie de iure addendum, per es. quid est fiducia. Si trova perfino indicato il lavoro che doveva consultarsi: sicché è evi- dente che i compilatori si riservavano di tornare sull'opera pro- pria e introdurvi delle aggiunte ; ma non le fecero e nondimeno laaciarono stare quelle note.

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B. Tftle è il BreHario ; ma già tb ChindasTìndo (641*652)

ne infirmò refficaoia. Chindasvindo tendeva ad unificare il B«- gno, e pabblicò molte leggi, che dovevano valere per tutti, senza riguardo a nazionalità. Recces%'indo poi (649-672), ne compi l'opera. Appunto nella idea di fonder© insieme Romani e Gotij tolse di mezzo l'ostacolo della nazionalità, ohe prima aveva im* pedito le uoz^e; ma insieme proibì di adoperare nei giudizi fonti romane, e mise fuor di vigore il Breviario. Em una poli* tica, che si potrebbe dir© diametralmente opposta a quella di Teodorico, se il re visigoto non si fosse dato premura di intro- durre molte disposizioni del Breviario nella legge comune.

4, D'altra parte il Breviario non si restrinse al solo regno dei Visigoti! Esso corrispondeva ad un bisogno dei tempi: spe- cie si raccomandava per la ricchezza del materiale e la utilità pratica; © ciò doveva coacigliargli favore anche altrove. In- fatti — a tacere della influenza che esercitò sulle leggi visigote, sulla legge salica, sui capitolari, sulle formifle ecc., come pure del largo uso eh© se ne fece negli scritti giuridici fino al secolo XII lo vediamo applicato spesso nel regno dei Franchi- P©i> fino quelle parti della monarchia, che avevano appartenuto ai Tisigoti, dimenticarono presto il divieto di Eeccesvitido,

il Breviario rimase estraneo all'Italia* Il Savìgny pensa che vi abbia fatto il suo ingresso al tempo della dominazione franca; ma forse vi penetrò anche prima. L'osservazione del dotto tedesco^ eh© nell'Italia langobarda non ci fosse alcuim necessità di ricorrere al Breviario, non tregge, se è vero ohe* anche ai tempi dei Langobardij il diritto teodosiano vigesse ac- canto al diritto giustinianeOj e lasciasse traccia di perfino negli editti. Ammettiamo però, che la conquista franca deve averne allargato Tuso. Comunque, non v* ha dubbio eh© si cono- scesse e si usasse, E già i molti codici, trovati nelle vecchie biblioteche italiane, avevano fatto sospettare ohe ciò fosse. Ora poi possiamo aggiungere altre notizie.

Una è riferita da un Codice dell'Ambrosiana ; eh© cioè Car- lomagno e Pipino abbiano accolto la legge teodosiana^ ossia ap- punto il Breviario, tra le leggi dei Franchi, Ciò prova con tutta evidenza, che essa avevano trovato applicazione anche in Italia: altrimenti non spiegherebbe quel richiamo a Pipino, il quale non fu re che nella penisola.

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L'altra si rileva dal testamento di Everardo principe del Friuli e oonte della Bezia. Sappiamo già che lasciò in legato al figlio QQ libro di leggi franche, langobarde, alamanne e ba^ we, che egli stesso aveva messo assieme per uso del Regno italico, e inoltre un librum de eonstitutionibus principum et edi^ eti$ imperatorum: evidentemente il Breviario.

Non ha guari furono pubblicate due formule sul modus con- scribendi e sulla conscriptio legu romane, d'in su i manoscritti della coUtctio Anselmo dedicata, e ambedue fanno nuovamente fede ohe il Breviario era usato in Italia. L'una ha la citazione : tractum ex libro Theodasiano legis romanae; Tal tra, questa: lex talis edocet età, che si riferiscono appunto al Breviario o alle sue Epitomi. si può dubitare che abbiano origine ita- liana, ammenoché non si voglia ammettere che sieno state ri- maneggiate in Italia. Certo, la frase : rem possidere malo ordine, che figura in una di esse, fa capo all'editto di Botari, mentre non se ne trova esempio nelle formule franche ; e la stessa pa- rola intentio, nel significato di controversia, che sta in principio della formula seconda, era molto familiare ai giuristi langobardi, mentre si trova ben di rado nelle formule franche. Si può anche osservare che la parte soccombente non aveva obbligo di resti- tuire le spese in quadruplo, come appunto parecchie formule franche esigevano.

Altre traccio ricorrono nell'appendice eAVEpitome luliani, quale ci e porta dal ms. italiano della fine del secolo X. Ci sono due frasi tolte di peso dal santo del Breviario, cosi detto, di Egidio, cioò le seguenti : Donatio directa est uòi in presenti res domata traditur; Quod si donator qaartam sibi non reserbaverit donatio non valebit. Un'altra appendice del ms. udinese ne con- tiene addirittura un capitolo; e anche può vedersene interpolato un pa^so, sia in alcuni manoscritti italiani, sia in alcune edi- ùoni antiche, del Codice giustinianeo, tra la prima e la seconda costituzione del Kb. Ili, tit. XII de feriis.

le fonti lango iarde ne vanno immuni. Un'altra inter- polazione della Epitome Aegidii sta nella Walcausina tra le leggi di Cariomaguo, e anche nel ms. fiorentino dei Liber papiensis in princìpio delle leggi di Lotario. Infine esiste un manoscritto ^

milanese dello stesso Liber papiensis che riporta alcuni capitoli 1

italici secundam Lodovici imperatoris, tolti dal rimaneggiamento udinese o dairepitome di Egidio.

Omettiamo altre prove meno sicnre.

5. Nondimeno, in processo di tempo, nocque al Breviario la sua sovercliia abbondanza, e si tentò più volte di restringerlo, massime nella Interpretazione. CoA nacquero appunto le Epito- nule Breviarii; e ben sette ne sono giunte fino a noi, che, visto il modo con cui riproducono il testo originale, sono una fonte de- gna di molta considerazione, specie per lo studio del diritto volgare romano. Fra tutte, quella che, dal nome del primo editore, è detta Epitome Egidii, ebbe forse la maggior diffusio- ne, e, a quanto pare, fìi redatta in Francia verso la metà del secolo YIII. Un altro compendio importante si conosce col nome di Lex romana utinensis; ma di esso ci occupiamo a parte in altro luogo.

ce. La Lex romana Burgundionum.^

1. È una legge compilata tra gli anni 501 e 506 per uso dei vinti romani della Borgogna. Già prima, verosimilmente nel 501, Gundobado, re de' Burgundi aveva pubblicato un co- dice per i suoi barbari, promettendone uno anche ai Romani ; e, sebbene non possa dirsi con sicurezza, è assai probabile ohe ab- bia tenuto la parola. Il titolo II, 6 de homicidiis annovera le composizioni che si dovevano pagare per la uccisione dei servi sulla base di un praeceptum domini regie; e siccome il titolo 10 della Gundobada contiene le medesime composizioni, è ovvio il supporre che quel re sia stato appunto Gundobado. Ad ogni modo il codice deve essere anteriore all'anno 506, in cui Alarico re de' Visigoti pubblicò il Breviario, perchè non vi è traccia che i compilatori siensi serviti della legge visigota, mentre conoscono

* Bibliografia. Possono consultarsi le prefìkzioni del Barkow, del Blubme e del Salis alle loro edizioni Inoltre il Sationt, CteMch. dea R, B,, IL, 9 : VH^ 80; il Bluhmx, Ueber den Burgund%$chen Fapianus, nel ** Jahrb. des kem. d. « n, 197 segg. ; il GihoulhiaCi l)e8 recueiU de droit romain dtnu la Cfaule, nella " Bevile histor. de droit frano, et étr. - IL 1856, p. 539 see. ; Dk Gbousaz, Etttdes sur le Papien, 1882; Kabix)wa, JRCm. È. G., L 1885, p. 9©; Kbùoeb, C^etcK der Quellen u. Literatur des rdm. BechU, 1887, p. 817; Schuuh, Lehrb. der €te$cK de* rBm, Bechtg, 1889, ^ 119. -^ La lex romana Burgnndionwn vide la ICice più volte con diverse denominazionL La pubblicò il Guiacio nel 1566, probabilmente sa di un manoscritto di P. Pithous, col titolo: Papiani ZAber respofiBorum, appen- dice al God. Theod. Un^altra edizione ò quella del Babkow col titolo: Lex ro- mana Burgundtonum, 1826; ma fu condotta soltanto sulle edizioni più antiche. Le più recenti sono quelle del Bluhme, Lex romana Burgundionum, Papianut wdgo dietua, nei **Mon. Germ., Leges TTT, 579 seg. e del Salis, Lex Bomana aive Fkìrma et Expoaitio legwn romanarum^ nei *]£>n. Gtòrm. historìcan Leges Gherman., Il, 1, con largo confronto di manoscritti

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alcuni passi di Paolo ignoti a questa ; e dall'altro oanto pare che Alarico abbia veramente avuto sott'ooohio la compilazione bor- gognona quando ordinò la sua. Non vorremmo però dire che fosse una costituzione regia, ma piuttosto un corpo di leggi ro- mane trascelte per ordine di Qundobado allo scopo principalmente di dare una guida ai giudici, ut per ignarantiam se nuUua excmet In&tti il re, se pure è ricordato, lo è sempre in terza persona : non parla mai in nome proprio ; e anche il modo di esprimersi non tiene nulla del comando.

2. La legge è conosciuta coi nomi di Lex romana Bar- gundianum e Papianus; ma questo sembra derivare da un equi- Tooo. In molti manoscritti il codice in questione è riprodotto di seguito a quello dei Visigoti, senza che nulla indichi dove Tuno cominci e l'altro termini; e siccome l'ultimo passo del Breviario è intitolato : Papiani Lib. I Responsorum, è verosimile che appunto questo titolo siasi preso per il principio del mano- acri rio che veniva dopo, e con esso ne passasse il nome alla legge.

La quale e modellata generalmente su quella barbarica dei Burgundi. Doveva regolare per i Romani appunto quei rap- porti che l'altra aveva regolato pei barbari ; e, per quanto è dato giudicarne, si procedette in modo molto semplice, cercando e mettendo assieme i testi romani paralleli alle disposizioni della legge barbarica. Cosi avvenne che i due còdici si accordassero nella disposizione della materia e perfino nei titoli : alcuni anzi ^i richiamano alla legge dei Burgundi o indubbiamente vi si riferiscono, e soltanto pochi trattano di cose estranee, onde furono relegati alla fine. D'altra parte il fondo è prettamente romano; e possiamo anche indicare le fonti a cui si attinse: i codici Gregoriano, Ermogeniano e Teodosiano, le Istituzioni di <iaio, le Receptae Sententiae di Paolo e alcune Novelle. I prin- cipi, che non derivano da queste fonti, riproducono il diritto voi* gare romano, come si riscontra per es. nel tit. XXXY, 2 de veti' ditianibuM, o ripetono qualche costituzione regia, contenuta nella Gundobada, che fin dalle prime era stata pubblicata si per i Bor- gognoni che per i Romani.

3. Chi propriamente ne sia stato il compilatore, non si •a: certo, fu un giureconsulto non oscuro; ma è altrettanto certo che egli non mostrò molto acume, molta scienza. Ha ragione il Barkow: nella legge non c'è arte; vi sono tralasciate

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più cose, che pur dovevano agitarsi quotidianamente nei giudizi;

anche quelle, che vi trovarono posto, sono per lo più manchevoli e mutile, talvolta addirittura svisate, e alcune già erano andata in disuso. mancano le contraddizioni. Nondimeno non vor- remmo lesinare un po' di lode al suo autore, tenendo conto dei tempo in cui scrisse e della grande corruzione delle arti e delle lettere, e del basso stato in cui era venuta la giurisprudenza. Qua e vi sono materie esposte bene; anche parecchie sentenze dei vecchi giureconsulti son rese con precisione ; perfino lo stil^, nonostante che si risenta della corrotta latinità dei tempi, è piano e adatto allo scopo. Ad ogni modo, vi si nota una suffi- ciente conoscenza sia del diritto romano sia del diritto germa- nico, anche di quello non ancora consegnato in iscritto; e se talune disposizioni furono mutate, non fu senza ragioDe.

4 ^ La legge tratta del diritto civile, del diritto penale e della procedura ; ma non si propone aflFatto di dare una espo- sizione, come che sia, completa del diritto romano. Il suo scopo è più modesto. Vuol enunciare alcune regole più frequenti e provvedere ai casi ordinari ; ad altro non mira. Sicché, è presu- mibìle che per lungo tempo ancora sia stato necessario di ricor- rere alle raccolte delle costituzioni imperiali e agli scritti dei giureconsulti, certamente finché il Breviario non penetrò nella Borgogna, Il manoscritto più antico, che si conosca, forma parte di una collezione, a cui appartenevano anche il Codex Theodo- siamis e i Fragmtnia Vaticana^ e ciò prova che le antiche fonti tuttavia si consultavano.

B, " Le Uggì barbariche. «. Cause che ne determinarono la compMailone,

1, ^ Ciò ohe accadde con altri popoli nei primordi della loro civiltà, si verificò anche coi bar bari, che invasero il territorio romano. Non avevano leggi scritte; ma semplici consuetudini,

Boll^opora.^ J5*iA aZtó Geselz rfer Thìlr ingerì Eresia u^ WM^ DAvopD-OaaLoUj Jli* sioire de la lé^Ulalion d^^ ancUtu OermainSt 2 vol,^ BorUn, 1845. Stobbi, Qe*eh, dcr deutéchen EechU^uditn, 2 ToL, Bratmaclnvoig, IBGiJ, I, p. 0-39^ TTa4az*

oi- di cui alcuni uomini (una speoie di codici viventi) serbavano, per 006Ì dire, il deposito. E forse in antico furono affidate ai sacerdoti; poi si scelsero le persone più rispettabili del villag- gio con quello speciale incarico di custodire e recitare la ewa, ossia legge, del popolo. A poco a poco però alcune schiatte fer- marono veramente in iscritto i loro vecchi usi per adattarli alla nuova situazione; ma non scrissero tutto: anzi il più rimase, come per Taddietro, affidato aUa tradizione orale. Solo si fece eccezione per quelle materie, onde maggiormente urgeva il bi- sogno, e interessa di vederne le cause.

2. Si potrebbe dire che anche i Germanici, al pari di altri {lopoli, abbiano, col tempo, sentito la necessità di ridurre in iscritto la propria consuetudine quando si persuasero che appunto ia scrittura, più della memoria, per quanto esercitata, di un certo numero di persone, si prestava a conservare il diritto. E i*usservazione sarebbe giusta; ma insieme crediamo che gli av- venimenti del tempo vi abbiano avuto la loro parte. E del re- sto anche nel mondo antico la cosa non era proceduta in modo diverso.

Specialmente un fatto grandeggia su tutti: la caduta del- l'impero d'Occidente, che permise a quei bar^bari di godere una più completa autonomia. Il prologo della legge salica vi ac- cenna in modo esplicito. Erano nuovi orizzonti, che si aprivano ^la società romano-germanica e che spiegano come si sentisse il bisogno di norme fisse che ne regolassero i rapporti. Le più ajitiche compilazioni dei Franchi, dei Visigoti, dei Borgognoni

itAliAnA di BoUati, I, Firenze, 1868. Oprorsk, Zur Oeschiehie dcuUchtr Volkt- rt'hu im U, A., 2 yol., SchaffhauMD. Id6{>66. Gacdenzi, La legge Salica e gli altri, diruli ^rmumiri (Bolo^niu Ì9ti4), Du Valroqrb, Le barbare» et leurs loi$, Paris WjT «làila * B«yue cnt. de lógisl. et de jurispr. ,,). Siciliano, Diritto barbarico^ i& * Uig9&io italiano «. Edizioni. Kioordiamo alcane vecchie collezioni di t*iU^ barbariche: Herold, Originumae Germanicarum antiquitatum libri, Basileae, !'••«. LiZDOBRfx», Codex Ugum antiqiiarum, Franoofurti, 1G18. Balitzius, Capiti^ •i»rù» Htgftm Franeorutn, 2 voi., Paris, li577 (contiene anche la logge Salica o tin^ìi^ dei Riboari, Alamanni Bavari); 2^ ediz. corretta e aumentata da P. im i'hiuìMCt Paris, 178J. (vBORai(*CB, Corpus itirit gemianici antiqui, Halae Magde- bv^.-aa, ITaUc Cakciaxi, Barbarorum lege» antinuae, voi. r>. Veiietiis, 1781-92. Walter, Vorjnu iuria germanici antiqui, voi. 8, Berolini, 1^21. Anche i Monw memUè G<rmaniae fiiUorica si sono proposti di pubblicare tutto le leggi popo- lari. Finora videro la luce: la Lex Alamannorum, la Lcx liaiawariorum, la l^M BmrtfmmdionHfiu, la Lex rom. Burgundionum e la L«j:; Friéionum, nel voi. Ili itìjm L^gt»; VEttiictus Ijangohardoruv% e il Liòer legit Laivjohardorum nel IV; la L#^ S^r^nnm, la Lex^ Anijliorum et Werinorum, h. e, Thuringoruvi, ìa I^ex M»J^9^rù», la Lex Chamavorume la Lcx rom. eurienist noi V. Alcuno però abbiso- CT^ano li una nuova revisione; e fti ó già cominciato con quoUe degli Alamanni ia& Borgundi. Recentemente videro la luce lo Lego* Viaigothorum,

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appartengono appunto al quinto secolo o al principio del sesto; e non vuol essere trasandato che ebbero origine in una stessa pro- vincia, cioè nella Gallia, la quale in quei tempi era come a capo dell' incivilimento romano. Più tardi troviamo le conquiste lan- gobarde; più tardi ancora quelle di Carlomagno e la restaura- zione dell'impero d' Occidente, e sempre vi si accompagna qualche opera di codificazione.

Un altro e forte impubo è probabilmente venato dalle lotte intestine. Fu già osservato dal Sumner Maine che specialment-B gli sforzi fetti dalla plebe per sottrarci al monopolio deirariBto- cra^ia^ avevano suggerito già in antico pia codici, che il Mamm- sen chiamò addirittura una specie di compromesso tra le di Terse classi della società. Questo carattere non si smarrL;5ce neppure in seguito. Lo nuove Godifi cagioni barbariche hanno sa per giù la stessa origine; e non ne mancano indizi. La legge salica è detta Pacttis iegi» Salica^; come la legge alamanna Factum Al^i^ mannoram, e quella dei Baiuvari Pactus Baiuwanorum. Pari- mente G ondo bado accenna a questa idea del patto nella prefa- zione della sua legge borgognona. Insomma il concetto, che campeggia^ è proprio quello del compromesso; e qualche legge avverte anche più esplicitamente, che si trattava di un patto Bolenue con chiuso tra varie classi del popolo, con lo scopo di sedare le discordie intestine^ o con riguardo ai poveri, perchè non fossero molestati ed oppressi, e potessero trovare giustizia.

S'intende poi che la classe pia conculcata doveva esser quella dei Bomani; e urgeva di provvedere specialmente ad essa; perchè non restasse alla balla dei vincitori barbarici. Premeva soprat- tutto di regolarne le relazioni; ed ecco perchè alcune schiatte barbariche si facessero a compilare il diritto dei Romani ; mentre altre accolsero nei propri codici almeno alcune disposizioni che li riguardavano, per determinarne la incorporazione nel nuovo Stato, o assoggettarli ad alcuni principi importanti del diritto barbarico, e insieme provvedere a che i barbari non li oppri- messero. Bi^ognava specialmente stabilire quanto grande ne dovesse essere il guidrigildo; determinare la parte dei possedi- menti cbe dovevano conservare ; indicare come si dovesse proce- dere qualora avessero avuto a litigare coi barbari. La prefa* zione o prima costituzione della legge borgognona, inculca ai giudici di attenersi alla legge nel giudicare Inter Burgundiùneìn

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et Romanum, e non lasciarsi fuorviare da premi o promesse; anzi, lo abbiamo già detto, i giudizi dovevano essere composti di giadioi borgognoni e romani. Nel caso che il diritto barbarico fosse stato dichiarato diritto territoriale nelle relazioni tra vin- i

citori e vinti, importava anche più che questi ne conoscessero le disposizioni ; e pensiamo appunto che venisse ridotto in isoritto, i

più ancora che pei barbari, per i romani, che non lo conosce- vano, anche per sottrarli a odiose vessazioni, a cui altrimenti sarebbero stati esposti. La compilazione della legge barbarica, considerata sotto questo aspetto, doveva presentarsi nuovamente come un'opera di pacificazione.

Si può aggiungere T influenza della nuova religione. Tra' |

Germanici, anche dopo la loro conversione al Cristianesimo, du- |

ravano tuttavia parecchi usi pagani, detti paganie^ che s'ao- i

cordavano male con la nuova fede, e che bisognava estirpare, i

massimamente se avevano relazione col culto. Insieme occorreva |

determinare i rapporti con la Chiesa, provvedere al guidrigildo I

degli ecclesiastici, e fissarne il posto nella nuova società. In questo senso furono rimaneggiate o modificate le leggi dei Franchi salici e ribuari e quelle dei Visigoti, Alamanni e Ba- f

vari : altrimenti, le leggi anglosassoni di Etelberto subirono ^

la influenza ecclesiastica. j

Anche un nuovo sistema monetario viene introducendosi qua !

e presso i popoli barbarici; e questa è pure una circostanza che può averli indotti a compilare le loro leggi. Lo si vede chia- rimente tra i Franchi salici, quando air antico denaro romano, divenuto troppo raro, sostituirono il soldo di 40 denari d'argento. Bisognava pure adattare le compoHizioni alla nuova moneta, e *»i cominciarono a fare dei registri, specie con riguardo ai furti. La legge salica non è quasi altro che un catalogo di ammende ; e anche la prima parte della legge ribuaria, il primo patto de- gli Alamanni, il nucleo originario della legge bavara e, flno ad un certo punto, anche la legge borgognona, presentano lo stesso >

carattere.

3. Cosi nacquero questi codici, che si sogliono indicare col nome di leggi popolari o barbariche o codici gentilizi] ma non si tratta di una legislazione nel senso odierno della parola. Almeno non fu tale fìnchò il compito si ridusse unicamente a &«are e rediger 3 il diritto consuetudinario del popolo. Piut-

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tosto erano i savi, che dettavano la legge; ma talvolta ci tro- viamo veramente di fronte ad un lavoro legislativo. Si trattava forse di stabilire un principio nuovo, o anche solo di emendare il diritto vigente; e allora era il re che promulgava la legge nell'assemblea, insieme coi maggiorenti del Eegno e persino con l'intervento di tutto il popolo.

Comunque, non convien credere che la redazione di nna legge fosse definitiva. C'eran forse delle lacune da colmare; ad ogni modo i nuovi bisogni rendevano spesso necessarie delle aggiunte, e qualche legge venne addirittura assoggettata ad nna completa revisione. L'ultimo, che se ne occupò, fu Carlomagno. Narrano le storie che, dopo assunto l' Impero, egli credette suo compito di emendare ed aumentare il diritto scritto, perchè i giudici avessero una guida più sicura, e a tal uopo convocò nel- l'anno 802 i duchi, i conti, tutto il popolo, insieme coi ginre- periti in Aquisgrana, e fece dar lettura di tutte le leggi, ed emendarle, dove parve necessario, e consegnarle in iscritto dopo averle emendate.

4. Le leggi stesse presentano grandi varietà; e prima quanto all'estensione e al tenore, poi anche per ciò ohe riguarda la forma.

Alcune sono molto diffuse. La legge dei Visigoti, per es., ha tutto l'aspetto di un codice completo in cui il giudice possa tro- vare la regola per tutti i casi ; e parimente gli editti dei Lan- gobardi sono molto ricchi. Invece altre leggi abbracciano meno, e alcune non contengono che poche disposizioni. Generalmente sono leggi penali ; ma quelle dei Visigoti, dei Langobardi e dei Burgundi, fanno anche una larga parte al gius privato. Un'al- tra differenza ! Vi sono leggi, le quali contengono i soli principi del diritto consuetudinario del popolo, e alcune disposizioni che lo modificano od aiutano ; e ve ne sono di quelle ohe si appoggiano ad altri diritti popolari, sia nella forma, sia nel contenuto e per- sino s'inchinano a stranieri elementi di civiltà. Le più indipen- denti sono le leggi dei tre popoli stanziati al nord della Germa- nia ; non cosi le leggi dei Eibuari, dei Visigoti, dei Bavari, dei Burgundi, e nemmeno gli editti langobardi.

Dall'altro canto, si riscontra in tutte molta affinità di principi; e ciò s'intende dal momento che i vari popoli, che le hanno redatte, appartenevano al medesimo ceppo. Soltanto si può am-

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mettere che T affinità di alcune sia maggiore; e anzi a tal uopo si sono fatti più gruppi, o famiglie, ohe vogliamo indicare.

Uno è il gruppo franco, ohe ebbe una influenza decisiva e ge- nerale, forse più di qualunque altro. E già Tacito, parlando dei Catti, che posson dirsi il gruppo dei Franchi salici, li dipinge come una razza predestinata, forte ed accorta, disciplinata e va- lorosa. Non deve far meraviglia che un tal popolo creasse un grande diritto. La fortezza, la disciplina, il valore e la sag- gezza, sono le virtù a cui si è attribuita la superiorità anche del diritto romano! Questo gruppo comprende: la legge salica, la hboaria e quella dei Franchi Chamavi. Inoltre vi si può ascri- vere la legge degli Angli e Verini ; ma solo sotto certi aspetti, perchè sotto altri si accosta piuttosto al diritto dei Frisi.

Segue il gruppo svevo, a cui appartengono gli Alamanni e i Bavarif ohe i figli di Clodoveo incorporarono alla monarchia franca. Si conservano tuttora le leggi di questi due popoli ; ed è innegabile che sono piolto somiglianti fra loro, specialmente negli ordini degli uomini liberi, nei rapporti del guidrigildo e delle composizioni e nella condizione della donna ; per non dire del diritto della Chiesa e del clero, ohe ambedue trattano estesa- mente.

Un terzo gruppo è il gruppo goto, a cui appartengono i Goti propriamente detti (Ostrogoti e Visigoti) e oltracciò i Vandali e i Burgundi. In generale sono popoli ohe si stabilirono nell'Im- pf'ro durante il secolo V, per lo più col consenso dell'impera- tore; e appunto questa circostanza spiega perchè trattassero mitemente i Bomani. Del resto i loro regni non ebbero lunga durata: nessuno riusci a formare coi Romani uno Stato com- patto ed omogeneo: e d'altra parte il contatto romano li ebbe presto svigoriti. Le leggi barbariche, che rimangono di questi popoli, sono: le leggi visigote e la legge borgognona.

Eeeta il gruppo »a$sone^ che alla sua volta comprende i Sassoni, gli Anglosassoni, i Frisi, i Langobardi, e sotto alcuni appetti anche gli Angli e Verini. Certo è : le leggi dei Sassoni e quelle dei Frisi si somigliano molto, specie per ciò che con- cerne le classi del popolo e le loro originarie relazioni; ma an- che le legg^ dei Langobardi e quelle dei Sassoni s'accordano in alcune linee generali, nonostante la influenza delle nuove sedi e della nuova vita.

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5. Quanto alla forma, alcune hanno un carattere afiaito semplice e nudo: quasi si direbbero impacciate nel trovare la frase, che meglio corrisponda all'idea; mentre altre contengono lunghe introduzioni e inutili accessori, e largheggiano nella firase, sull'esempio delle costituzioni imperiali. Le leggi dei Vi- sigoti, alcune parti di quella dei Burgundi, e gli editti degli ultimi re langobardi appartengono a questo secondo gruppo.

E però un fatto sommamente osservabile, che tutti questi po- poli, ad eccezione degli Anglosassoni, abbiano redatto leioro leggi in latino: anzi potrebbe parere un fenomeno abbastanza strano, qualora non si pensasse alle circostanze in mezzo alle quali si è verificato, e che lo spiegano. Certamente, per le schiatte, che hanno invaso l'Impero, la cosa non fa meraviglia. Esse non dettarono subito le loro leggi; ma lasciarono correre circa due generazioni prima di accingervisi. Avevano dunque avuto tutto l'agio di intendere e parlare la nuova lingua ; tanto più che la popolazione indigena, romana o romanizzata, era assai numerosa. Il numero e la coltura dovevano imporsi anche qui, e i vincitori finire con l'adottare la lingua dei vinti. E poi non si erano redatte queste leggi anche per gli indigeni, perchè ser- vissero loro di norma nelle relazioni coi nuovi padroni? Che se tra gli Anglosassoni la cosa andò diversamente, fu appunto per- chè le circostanze, tra cui si effettuò la loro invasione, furono diverse: la popolazione indigena era assai meno numerosa che in Italia, nella G-allia e nella Spagna, e assai meno romanizzata. Invece può j)arere strano che persino quei popoli della Germa- nia, che rimasero nelle loro sedi, abbiano adoperato la lingua la- tina. Intendiamo dire degli Alamanni, dei Bavari, dei Sassoni, dei Frisi e dei Turingi. Nondimeno gioverà notare in primo luo- go, che la codificazione presso queste genti non fu opera sponta- nea, ma imposta dai re franchi; in secondo luogo, che si collega con la diffusione che vi ebbe il Cristianesimo. Era naturale che quei re, i quali avevano ordinato la compilazione dei nuovi co- dici, imponessero l'uso della lingua ufficiale del Regno ; e d' altra parte si sa che il latino era la lingua liturgica del Cristianesimo.

Non è a credere però ch'esso si prestasse sempre a riprodurre il vero concetto germanico, e sotto questo aspetto le leggi degli Anglosassoni, appunto perchè scritte nella lingua nazionale, of- frono un particolare interesse. Per addurre qualche esempio, la

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parola Aetio non corrisponde a JKlage, Possessio è la medesima cosa di Gewere; perfino il vocabolo Proprietas denota pei Eomani alcunché di diverso che pei Germanici. I quali però s'aiutavano alla meglio, sia introducendo le loro parole tedesche nell' idio- ma latino, sia spiegandole. Le leggi langobarde ne hanno pa- recchie: launegildf thinx, mundium, meta, morgincap, faderfio, widrigild, faida ecc. ; e talvolta cercano anche di spiegarle : faida I. e. inimicitia, thiìix quod est donatio, ma non vorremmo dire che proprio raggiungano lo scopo.

6. Del resto, non tutte queste leggi hanno importanza per noi. Quelle che vanno di gran lunga innanzi a tutte sono gli editti dei Langobardi; ma cominciando dall'età carolingia, an- che altre penetrarono in Italia, specie la legge salica, la ri- baaria, la bavara e l'alamanna. Abbiamo già avuto occasione di osservare che vi sono frequenti professioni di queste leggi : i fbnnulari stessi vi si riferiscono, e inoltre le troviamo trascritte, insieme con gli editti langobardi, nei libri destinati ai giudizi. Citiamo di nuovo, a mo' d'esempio, il codice di Modena e quello che Everardo duca del Friuli legò al figliuolo Unroch. Pari- mente, le Quaestianes et Manita non contengono soltanto norme di diritto romano e langobardo, ma anche di diritto salico. Al- tre leggi, se non ebbero vigore in Italia, ad ogni modo non furono prive d'influenza. Basterà ricordare le traccio che il di- ritto scandinavo e il diritto sassone lasciarono neìVEdictas Lan^ gobardorum. Quello di Botari ha eziandio alcune reminiscenze >ia delle vecchie leggi visigote, sia di quella dei Burgundi, da Lun pi>ter8Ì revocare in dubbio che i compilatori le avessero ^jtt* occhio.

b. Singole leggi. aa, Leggi del gruppo franco.

a. - LA LEGOB SALICA. ^^

1. È la legge popolare dei Franchi salici : la più antica di tutte, e quella che sotto più aspetti offre maggior interesse

Tifla. -> WiAEOA, G^tehichU u. AmUgung <U$ ScU, Gtsttxes, Bro- MCllbi, Der Ux Salica u, der Lex Angl. et ìVerin, Alter ìl Hei- ■Mi/ Wùnlrac, l*^*)- Parobuus, Lai Salique, Paris, Idia Waitz, Dot alU Rtcht dér $ai, FntSsm, Kiel, IHISL Jcu Oeimm, De hietoria legie Salicae, Bonn, ld48;

Bibite

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delle altre: ma anche la legge più oscura e più difficile ad in- tendersi.

E già le origini sono buie. Certamente fu compilata prima della morte di Clodoveo ; ma si disputa se sotto questo re o sotto i suoi predecessori ; e anche coloro, che la vogliono attribuita a Clodoveo, non si trovano d'accordo. V* ha chi pensa che appar- tenga al tempo in cui il- re franco non aveva ancora abbracciata la religione cristiana (486-496), e altri che sia posteriore alla sua conversione (496-611). Noi crediamo che sia stata redatta sotto Clodoveo prima che si convertisse al Cristianesimo, e lo dedu- ciamo dal prologo e dall'epilogo. Ma abbiamo anche altre no- tizie contemporanee. Il titolo 47 della legge, dove con tutta verosimiglianza si segUEmo i confini del paese dei Salici, ricorda la regione tra il Ligeris (cioè la Loira) e la Selva Carbonaria, che probabilmente è quella delle Ardenne ; ma si sa, che i Salici non occuparono questo territorio che dopo la sconfitta di Siagrio nel 486. E anche il sistema monetario, quale si trova nella legge, la fa posteriore alla fondazione del Regno. Diversamente da tutte le altre, essa determina le composizioni in soldi e an-

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f. 558 segg. Thiele nella * Zeitschr. fùr d. Philologie di Hòpfner e Zacher, 1878, V, 850 segg. Schebee nella " Zeitschr. fùr. R. G. ^ Xm, 259 segg. Lizerat, £xplication des gloses malbergiques contenues dans la Loi iSa/taue/Paris, 1886. Calmette, Observalions sur les gloses malbergiques de la Lex salica C^ BibliotlL de Técole des ohartes LX). D'Arbois de Jubainville, Les gloses malbergiques (** Nouv. B^vue histor. 1902). Edizioni. Pardessus, 1848 (8 testi diversi). WArrz 1846, Merkel 1850, Hubé 1867, Behrend 1874 2* ed. 1897, Holder 1879-1880 (Pubblicazione saparata di vari manoscritti deUa legge), Hessel, Lex saL the ten texts with the glosses and the lex emendata^ London, 1^0 (Bellissima edizione che presenta, uno di fìronte alPaltro, ben dieci testi, oltre a quello àQWEmendtUa e le glosse).

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che in denari ; e niun dubbio che volesse con ciò lileTsrs la differenza con un altro sistema più antico, che aveva esistito fino a quei giorni e che era ancor vivo nella memoria del po- polo. D'altra parte fu appunto Clodoveo ad introdurre quella riforma monetaria, quando nel 486 ebbe conquistato il territorio fino alla Loira e si trovò nella necessità di regolare le compo- sizioni tra' Franchi e Romani. devono trascurarBi la disposi- sioni che la legge contiene circa le vigne ; perchè non possono ri* ferirsi ohe aUe terre conquistate da Olodoveo nel 4S6. Nel secolo sesto la vite non aveva ancora raggiunto il confine meridiouale deirantico paese dei Salici, mentre sin dal quarto era stata colti- vata nel territorio posseduto da Siagrio e presso la Mosella.

Crediamo, dunque, ohe la legge sia stata compilata sotto Clo- doveo dopo il 486: che lo fosse prima della sua conversione alla fede cristiana, lo deddciamo da una notizia della Decr^iw Childtberti dell'anno 560 e dal prologo più lungo della legge. La Decretio dice: Quando UH {Franci) legem compasuerunt nou eramt christiani; e anche il prologo più lungo non ne discorre di- versamente. Si aggiunga, che la più antica recensione della legge non contiene il benché menomo indizio di influenza cristiana, e d'altra parte presenta qualche traccia di paganesimo. Bicordia- mo il maialU sacri fas o votivus, la chrenecruda^ curiosa cerimonia, che i testi considerano pure come una cost amanza pagana, e il m

giuramento che si prestava sulle armi, secondo il costume dei ^

pagani.

L'antagonismo molto spiccato dei Franchi e dei Romani è pure un indizio che la legge sia stat^ redatta non molto dopo Temi' grazione. Vi si trova ricordato a più riprese il romanus hoino, il romanus conviva rtgis, il romantis possessor^ U romanus tribù- 1

iarius; ma sempre la posizione del romano contrasta con quella del franco salico.

Lo stesso reame, quale ci è presentato dalla legge, non può dirsi una istituzione molto sviluppata, quantunque f^ia già un .

elemento essenziale della vita giuridica del popolo. Vi ricorda ^

tra le altre il verbum o sermo, cioè la protes^ione del re, la do- wsinica ambasia o iussio, il praeceptum o Vordinatiù regis ; le ae^ case e querele che venivano portate davanti al trtbanale regio, il puer reffis e VandUa regis; e a tutto ciò che appartiene al re ii attribuisoe una speciale estimazione: ai servi come agli animali*

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E però osservabile, che il re non prende parte aUa compila- zione della legge : anzi i prologhi ne omettono perfino il nome, sicché essa si presenta come opera del popolo ; e ciò accenna evidentemente ad un tempo in cai la potestà regia non si era ancora gran fatto rinvigorita ed estesa. Inoltre l'assemblea po- polare aveva le stesse attribuzioni del re, e certi atti si compi- vano indifferentemente davanti al re o al popolo.

Senonche, dopo convertiti i Franchi al Cristianesimo, Clo- doveo attese subito a correggere la legge, levandone tutto ciò che poteva parere meno acconcio ; e Childeberto e Clotario fe- cero altrettanto. Si tratta specialmente di un certo numero di Novelle, che si sogliono designare col nome di Capitolari delia legge salica. E ve ne sono anche di Carlomagno e di Lodovico il Pio. Nondimeno il Pactiis propriamente detto, cioè il testo originario della legge, rimase pressoché inalterato ; e neppur tutte le aggiunte si considerarono come parti integranti di essa: che se alcune passarono nel testo, altre ne rimasero fuori, e solo più tardi vi poterono penetrare.

2. Per simile, i manoscritti possono distinguersi in dn,e classi o recensioni: la merovingia e la carolingia.

Quelli della prima, presentano la legge in una forma che non può dirsi compiuta; la lingua è del tutto barbara, hanno qua e delle glosse e, ciò che più importa, sono diversi tra loro si pel contenuto che per le rubriche. Nondimeno non è difficile di ravvisare i titoli principali : in tutto 66, a cui vennero fatte poi delle aggiunte, le quali contengono già traccio di una influenza cristiana e di una coltura più progredita. Biteniamo tali i ca- pitoli sull'impedimento tra i prossimi parenti ed affini, sulla spo- gliazione delle chiese e delle tombe cristiane, e sul guidrigildo dei chierici.

Invece i manoscritti della seconda specie, mostrano general- mente una grande uniformità. La lingua è più pura e corretta ; non vi sono glosse, e sono omessi qua e alcuni titoli come in- terpolati. Quinci si spiega perchè questa recensione sia stata detta Lex Salica emendata. Forse fu redatta per iniziativa di Carlomagno ; ma non convien credere che abbia un vero carattere ufficiale. Perchè innanzitutto i mutamenti e le aggiunte non sono cosi essenziali, come sarebbero stati, di certo, se la redazione fosse dovuta a Carlomagno ; e poi l' imperatore vi avrebbe inse-

rito le sue nooTe dispoéiziiri. ia. Izji^ fi i.z;zrzi^ir!-^L* ::;r>» Capitolari. Neppnr roso iei Tieeizi -i^sci x^^Jie pru.::.:!.:: triT; è da ritenere che si ccTizinz^sse a Taar!L^> £a.:clt± zlx par^*»^ dei codici della Tecctia recAr^:r>» sene ferrr:i zi 'ì«z.zl pi^rii»- riori. Nondimeno, acccme la Z-éX Si-'t r-« *n^m.ir5::;« ri acc'i-i.'o quella che venne tnscrittA pi:i ii fr»*:-ii»--^. :c^i ki-iin-. i- Talore di ona Uetio rui^atj, A^*:l* ir. Ita] a ir»-ril=^ ^--r^zi testo; e verso la me:À dei seccia IX ti zzrzi^z i^-rjt ytztzy^ f rJ* aggiunte, probabilmente p^r a^x:.ar:i* l'a;c v^r .z^e *i Sfel.ii domiciliati nel Begno.

3. Un fenomeno p::i::«:-ì*c c^:^:. è La gi:«sa, Mx:«c*::ta col nome di gla$sa maUjtrgùza. ùjt s irira Li. aliizi i :•£-:- '^Tia e là, non dappertntto. c'è pania J/^ri. o J/i»"?.. d* :ii la glossa s'intitola, accanto ai :ina parila laiiiLà: e pei n* «esrie un'altra, in dialetto frmn^Lz^Cf. i;c«ir app-mtc nelLi lii-eia i^i Sà..::> Siferiamo un esempio ulto dalia LrX 5aL 4, 1: i-i c*t# a^-.*i lactan/em furacerH, et ei fmerii ci^r>i»j^»'*. M *.:».- :-«yìf:, /r>r e4^ IV/ dinarioé, qui faci ^ mi r.t^..dio tri z M, cJ>;^z'.\\k9 ié^u^^^r. «ira, per oiò che riguarda la sl^la 3/fl*V. "^ ilzJj^ la sT.-eg^zi:!.* r::n tr difiìoile, e ci è data dalla I^r^g^ «t^-a: J/j.*-^. il>c €4i im r^z\\:h--,ryj. Sappiamo poi, che Mail vti:I dire il gi:idizi:> e ifj'ltrg il e»: Ile o rialzo dove il giudizi j «i tenera. C>h la 2l:--5a è zz^ 2l:?ia giudiziaria, scrìtta rj>ecialiaente prr iiliro. eie ni-n 5*i»e:-ì.ie gran fatto di latino, dovevano p^r dec.dere intomo al diritte ; e il suo scopo era di agevolare ai gitidici l'int-eliigenza del te- sto e dirigerli presto e bene nel determinare la o:iito:iz;jne. Certo, quelle glosse rìcc^rrmo s-zl j nei pAièi, eie cinteizon^ qualche sanzione penale, e precedono la indicazl-^ne della prna. Qualcuna avrà ancLe av^to tina ;:i.ponanz^i proce?^:ijle, ma ne a si può dirlo di tutte. Il &jL:a pensa cLe fjsse mestieri adope- rare le parole della glo?=a *otto p«^na di perdere la lite : ma qties*a ci pare una ipotesi piuttosto arri^iLiata, tanto più che il signi- ficato di molte gl-^^^e non è sicuro, e alcune non tollerano as- solutamente cote-tA interpretazione. Del re?to i odici le scrì- vono, qnale in un mo-lo, qiale nell'altro: e ciò mostra che gì* da m.'ltj temp> gli aaia:.-;en-i non ne comprendt^vano il ^i^i- ficato. Per lo più sono orrililmen^'e «vi-ate: in S'^-stanza, «i tratta di antiche parole franche.

4. La legge, coni>i l-.ra*a nel fzo c^ontenuto è, più che

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altro, un oodioe penale e processuale. Uno dei prologhi dice che fu fatta appunto ut omnia incrementa veterum rixantm re- secare deberet. E accadde sempre cosi. Quando sotto una forma religiosa, quando sotto una forma puramente umana, il diritto penale si mostra primo nella carriera legislativa dei popoli; e il processo giudiziario lo segue da vicino. E con queste leggi che essi fanno il loro primo passo visibile fuori della barbarie. In sostanza si le une che le altre corrispondono al bisogno più urgente della convivenza. Se lo Stato doveva aflfermarsi,. biso- gnava pur trovare il modo di sedare le contese, piuttosto aspre, che nascevano da ogni offesa privata e spegnere le inimicizie: perciò si determinò la misura della soddisfazione dovuta aU'of- feso, e insieme si stabili come si potesse ottenerla in giudizio, senza bisogno di ricorrere alle armi.

Aggiungiamo, che la legge salica è una legge molto minu- ziosa, specie per ciò che riguarda il diritto penale. Passa in ri- vista i singoli reati contro le persone, contro la proprietà, anche contro il costume : e non si contenta di indicare in generale la composizione ; ma qua e distingue le circostanze in cui il de- litto fu commesso, e se il colpevole abbia cercato di nasconderlo, o lo abbia negato e ne sia stato convinto. Inoltre le compo- sizioni sono più o meno elevate secondo la classe delle persone. Più sopra abbiamo accennato alla differenza che la legge aveva stabilito tra Romani e Franchi ; ma non era la sola. Ad es. il guidrigildo era maggiore per Tuomo libero e minore per i liti e i coloni; maggiore per gli uomini, che in qualche modo si trovavano addetti alla persona del re, e minore per i privati; maggiore per la donna, ancora atta alla generazione, e minore per Tuomo. Anche le varie figure dei reati vengono distinte con molta cura, direi quasi affannosa, e ognuna ha la sua ta- riffa. L'omicidio ne ha una; e cosi le mutilazioni, le ferite, i farti e via dicendo. C'è tutta una scala penale per ciasche- duna di queste specie. Si distingue la mutilazione portante la perdita della virilità, che si considerava come la più grave, dal taglio di un altro membro essenziale, come la mano, il piede, il naso, 0 la privazione d'un occhio. Una tariffa speciale avevano le dita ; e anche qualche singolo dito aveva la sua ; e cosi ce n'era una pei denti, per la lingua, per gli orecchi. Trattandosi di fe- ri te, faceva differenza se erano inferte con intenzione micidiale

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o nOf e se n*era rimasto piagato il capo in modo da lasciar ve- dere il cervello, o Tarma era passata attraverso le costole e aveva bacato il ventre, penetrando nei visceri ; e anche se il sangue era sprizzato o non sprizzato in terra. Però il maggior numero delle disposizioni riguarda il furto. Vi si parla del furto dei servi e degli animali agricoli, che formavano la ricchezza prin- cipale dei Franchi; e parimente dei furti campestri, del furto di oggetti domestici, per&no del furto di un battello e delFuso di esso, distinguendo il luogo, dove erano stati commessi, e se con rottura o sen^&a: secondo i casi, dovevano applicarsi am- mende diverse. Con molta minuzia sono pure previsti e puniti i danni recati alla proprietà, specie al bestiame, ai seminati, alle vigne, ai prati, ecc.

Anche la procedura della legge è in gran parte penale. Si tratta sempre dello stesso scopo: di impedire, per quanto era possibile, o scemare l'uso della vendetta privata. Ecco perchè la procedura giudiziaria fosse essenzialmente quella che nasce dai delitti privati, giudicati nei tribunali popolari; ma del resto era abbandonata per più riguardi alla volontà delle parti. Perfino la sentenza aveva il carattere di un arbitrato. Si sa che precedeva la prova ; e in generale suonava così : il reo si obblighi a fornire la prova della sua innocenza o a pagare la composizione; press'a poco come nel processo in iure dei Romani. Quanto alle prove, vi si fa particolare menzione di quella della caldaia, che certo era la prova ordinaria; ma le parti potevano anche accor- darsi per sostituirvi l'altra dei congiuratori. Se la prova falli vai il reo s* intendeva condannato e doveva pagare.

5. Nondimeno non vorremmo dire che la legge abbia rag- giunto completamente il suo scopo. Certo, essa segna un gran p«s«o sulla via dell' incivilimento ; ma dall'altro canto trascura di proibirò o frenare le vendette ; e questo suo silenzio è elo- quente. La stessa procedura giudiziaria è, più che altro, un grande es{>erimeuto di conoiliazione fatto dal tribunale col con- senso dei litiganti. E non sempre vi ò riuscita. In sostanza, Tuf- ticio del giudice era solamente di dire il diritto alle parti; e la ^^f>g^ salica chiama appunto legem dicere, il giudicare. Il che 81 spiega molto bene, dal momento che l'antica procedura ger- manica ha^ più che altro, il carattere di un arbitrato dei savi del comune, a cui le parti ricorrono. Neppure la sentenza era

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esecutiva, se il reo non faceva fede, cioè dire prometteva volon- tariamente, di obbedirai. si può affermare che la legge abbia saputo vincerne la contumacia ; anzi si è mostrata piuttosto im- potente di fronte ad essa. Disparando di far giustizia, è ricorsa airespediente di torre al contumace la protezione del re ed escluderlo dalla comunione del popolo, abbandonandolo alle vio- lenze del primo venuto. Era Tespediente della disperazione! Nelle società bene costituite il malfattore non à mai fuori della legge; anzi vi è soggetto più di altri.

Cosi la legge rispecchia molto bene i tempi, presentando, nel suo complesso, un carattere piuttosto incerto e transitorio. Ha ragione il Guizot : vi si sente ad ogni tratto il passaggio da un paese all'altro, da una lingua all'altra, da una religione all'altra, da uno stato sociale all'altro; quasi tutte le metamorfosi, che possono verificarsi nella vita di un popolo.

6. Quanto all' Italia, è certo che la legge fu per più secoli oggetto di studio. Ne fanno fede le aggiunte citate più su; ma inoltre abbiamo la testimonianza di Atto vescovo di Vercelli nel secolo X, il quale vi si riferisce, e anche la scuola di Pa- via la conosce a fondo. Però non vorremmo dire che abbia la- sciato molte traccie nella vita, specie in fatto di giurisdizione volontaria, dacché questa era e rimase quasi esclusivamente nelle mani di notari langobardi. Certo, l'applicazione di essa, come di altri diritti non italici, doveva in sulle prime incontrare se- rie difficoltà ; ma neppure in seguito attecchì gran fatto, e non- dimeno qualche istituto di diritto franco è penetrato anche fia noi. Già ricordammo la speciale forma di tradizione delle terre, tanto diversa dalla tradizione langobarda, e il reipus e la terza dei beni che lo sposo costituiva in margengaòe alla sposa, in luogo della quarta. 1 lavori della scuola di Pavia attestano che anche il diritto ereditario salico ebbe la sua applicazione.

P. - LA LEGGE RIBUARIA. **

1. I Franchi ribuari erano diversi dai salici. Dimoravano questi sulle rive dell' Yssel, quelli sulle rive del Reno e di mano in mano che i Franchi salici avanzarono verso sud-ovest, nel

>' Bibliografia. Boaax, ObservcUionea de peculiari Leait Ripuetriae cum Salica nexu, 1828. Sohm, Weber die EnUtehung der Lex jBi&uarto, nella ** Zeitflohr.

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Belgio, e nella Gallis, anohe i Franchi ribuari si sparpagliarono all'ovest, oooupando il paese situato tra il Beno e la Mosa, sino alle foreste delle Ardenne. I primi divennero i Franchi della Nenstria, i secondi i Franchi dell' Austrasia : uniti da prima in un solo regno, si divisero poi.

2. La legge rifiuaria appartiene a questa seconda fami- glia di Frandii ; e nella forma, in cui ci e giunta, pare il risultato di combinazioni diverse: contiene parecchie parti ben distinte, alcune più o meno originali, altre derivate dalla Lex Salica.

La prima, tratta specialmente di uccisioni e ferimenti (1-31); e prescindendo da certe analogie con la legge salica, che non si dora fisttica a spiegare trattandosi dello stesso popolo, manifesta un carattere piuttosto indipendente. Le cose e anche le parole sono per lo più differenti. Perfino il modo di esprimere i numeri, e il sistema delle composizioni, variano nelle due leggi; vi è traccia di influenza straniera. Certo, abbiamo a che fare con la parte più antica, la quale imprime una particolare fisonomia alla legge.

La seconda (32-64) è diversa. Si attiene fedelmente al Pa- dué legis salieae: anzi potrebbe dirsene un rimaneggiamento. Che se talune sanzioni aggiunge, è perchè i titoli derivati dalla legge salica le han suggerite; e se qualche cosa tralascia, è perchè si tratta di istituti estranei ai Bibuari, o antiquati, o perchè se n'era già discorso nella prima parte. Il reipus che i Salici usavano nel matrimonio della vedova, e anche il rito con cai rinunciavano alla parentela, non avevano riscontro nelle con^^uetudini dei Bibuari; e tutta una serie di norme proces- soaIì, che par si trovano nella legge salica, potevano dirsi già noB^ae anohe dai Franchi salici. Lo stesso modo di esprimere le cifre delle composizioni, è in questa seconda parte diverso da qaello della prima, e anche della terza. Alcuni titoli poi (57-69; ♦SO e. 1; 61 e 62), hanno tutto il carattere di una costituzione regia, che crediamo essere di Dagoberto I (628-630) ; e siccome t-ngouo conto degli interessi ecclesiastici, si potrebbe cercarne

fiT B. O. . V, {H > o nella Prefazione alla sua edizione della Legff^e. R Matbi. Am» hnUUhwngdtr Lex niòttariarum, Mttnohon, 1BS6. Scrb<>der. nella ** Zoitschr.* tur R. 0.« VII, 22 «egg. Abbiamo edizioni di Sicuabd, Urbold, ou Tillbt Lmomarctt; la più reoento e migliore di Sonv, nei *" Mon. OcroL Leff. n ^i l*^ ■•gg Si aggiungano le rettifiche fatte dal LsanAir!! sulla scorta di due oc* «ilei |«xigi]ii nel N. A., l"^'), p. 414 sogg.

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rorigine in un compro meeso tra il re e la Chiesa. Comanque, 1^ * l'elemento ecclesiastico vi ha già messo salde radici; vi manr

c ano traocie di diritto romano^

La terza parte (65-79), si presenta di nnoTO con an carattere ìe-

dipendente. Si occupa di vari argomenti, sopra tutto di diritto pub-

I blioo, cosi trasandato dalle leggi popolari, e contiene taluni prin-

r cipì di diritto giudiziario e penale, senza il benché menomo ac-

: cenno alla legge salica, sebbene con una cotale impronta arcaica.

L'ultima parte (80-89), torna alla legge salica, ed è la più re- cente: talvolta si rifa sugli argomenti già trattati e li modifica.

3. Cosi è venuta formandosi questa legge in tempi diversi ; ma quando precisamente?

A titolo di curiosità, riportiamo una notizia, che troviamo nel prologo della legge bavarica, senza però rendercene garanti. Vi si dice che Teodorico (511-634) figlio di Clodoveo, avrebbe eletto alcuni uomini sapienti, eruditi nelle antiche legge, con l'incarico di scrivere quelle dei Bibuari, degli Alamanni e dei Bavari, cioè delle genti soggette alla sua podestà, secondo la oonsuetudine di ciascuna, aggiungendo ciò che v'era da aggiun- gere, emendando ciò che vi poteva essere d' improvvido e incom- posto, mutando le consuetudini pagane per uniformarsi ai dettami del Cristianesimo. vi sarebbe da meravigliare se la parte più antica appartenesse veramente a Teodorico, che i canti popolari tedeschi, fino ai più tardi tempi del medio evo, celebrarono come il fondatore della monarchia Austrasiana. Ma il prologo non si ferma qui. Continua dicendo, che Childeberto e Clotario avreb- bero compito i mutamenti non potuti ultimare da Teodorico per l'antichissima consuetudine dei pagani, e che Dagoberto avrebbe rinnovato ogni cosa col mezzo di alcuni uomini illustri, di cui sono indicati i nomi: Claudio, Cadoindo, Magno e Agilolfo. Co^ tutti quei popoli avrebbero avuto le loro leggi, che duravano ancora quando l'anonimo ne scriveva : quae usque hodie perseve- rant; e probabilmente fu nel secolo VII, o nei primi anni del- l' Vin, perchè ignora la redazione della legge alamanna di Lan- frido (709-730), che altrimenti avrebbe dovuto conoscere.

Comunque, è certo che il nucleo più antico della legge ri- sale alla prima età merovingica, e l'ultimo non può essere po- steriore alla morte di Dagoberto I (a. 639) ; ma gioverà precisare meglio tutto ciò.

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Noi pensiamo ohe la prima parte, e anche la seconda, appar- tengano al secolo VI, sebbene con qualche intervallo tra l'una e Taltra, e lo dedaoiamo specialmente dai titoli 28-30 della prima e 34 della seconda. I titoli 28-30 lasciano libero il padrone di presentare il serro in giudizio o rispondere per lai; e devono es- R

sere anteriori alla costituzione di Childeberto II dell'anno 696, che impose appunto Tobbligo di presentarlo. altrimenti, il titolo 34 contiene una disposizione di diritto assolutamente di- ▼srM da quella sancita nella detta costituzione. La legge ri- buarìa vuole che T ingenuo, il quale rapisoe una ingenua, ne paghi il guidrigildo, bis eentenos solidas; mentre invece la legge ^i Childeberto perseguita il ratto d'ufficio e lo punisce con la morte. Non è chi non veda quanto le due sanzioni sieno diverse. Evidentemente, i primi due brani della legge devono essere an- tiriori all'anno 596; ma quanto tempo sia corso tra l'uno e l'al- tro, non sapremmo precisare.

Per ciò che concerne le ultime parti^ il Sohm ha supposto che la terza appartenesse al secolo VII, la quarta al principio del- l' Vili ; ma forse neppur questa e posteriore alla morte di Dagober- to. In tale convincimento e' induce la considerazione che il reame vi era tuttavia fortemente costituito e non aveva ancora subito l*Azione deleteria dei maggiordomi. Il tit. 88, che è il penultimo e quindi dei più recenti, minaccia addirittura la pena di morte al maggiordomo, del pari che ad altri ufficiali, pel caso che ac- cettassero doni nell'esercizio del loro ufficio.

S'intende però che facciamo astrazione dalle interpolazioni ed aggiunte posteriori, che certo non fanno difetto.

Se è vero che la oostitazione regia contenuta nella seconda parte i di Dagoberto I, e non dubitiamo che lo sia, perchè le concessioni, che etf*$a fa alla Chiesa, sono più estese di quelle di <JIotario II del 4, è mestieri supporre che essa sia stata ag- i^iunta in seguito, forse nella revisione che egli stesso fece su- b.re alla legge; e non è difficile scorgerne l'appiccicatura. Al- tre interpolazioni ed aggiunte sono carolingie e possono vedersi L^l tit. 36, 4 e 11: anzi non escludiamo che una recensione possa ^*9f^rt* stata fatta in quei tempi, corno accadde con la Lete Salica tmendiiL%. co lice vienne>e chiama a«ldirittura la legge: Pa" ctà$ legié Ribuariae qui temporibus Karoli renovatus est; ma se n^cen^Hne vi tu, non può essere che anteriore air803. Un Ca-

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pitolare di qaeiranno, conosoiuto sotto il nome di Capitulare legi Ribuariae additum, ne mutò e completò alcuni titoli; ma solo qualche raro codice ne riproduce taluna disposizione nel testo della legge.

4. I manoscritti non presentano una si grande varietà come quelli della legge salica, e nondimeno abbiamo anche qui una recensione merovingia e una carolingia, usata nel secolo IX, che si distinguono caratteristicamente tra loro in molti punti^ si forma che di sostanza. E valga il vero. Nella prima oc- corrono molte forme barbare, che scooa paiono o vengono chiarite nella seconda; e la stessa lingua latina è corrotta nel testai antico^ mentre la lezione più nuova cerca di accomodarla pos- sibilmente alla regole grammaticali* Di più, il testo antico osa i numeri distributivi duplicati e triplicati, che sappiamo essere stati in buona parto respinti dall'età posteriore. Un'altra diiTe- renza sta nel nomerò e nelle rubriche dei titoli : anzi alcuni codici, certo i più antichi, non hanno indice, ne rubriche, alcuna divisione di tit^Dli o capi, e distinguono una legge dal- l'altra colle sole iniziali maiuscole. Altri poi, premettono F in- dice delle rubriche al t?sto della legge; ma non le ripetono nella legge stessa, accontentandosi di numerare i titoli, al eontrario dei codici carolingi, ohe, pur premettendo T indice, insieme ri- petono i numeri e le rubriche nel testo medesimo e dividono i titoli in capi- Ma ciò che più importa è la differenza della materia, che si riscontra nelle due lezioni. Per es, il testo più antico attribuisce al chierico il guidrigildo del romano ingenuo, mentre l'altro gli assegna quello del franco, E anche il gui- drigildo del diacono e suddiacono è minore nei codici più an- tichi; ma d'altra parte certi animali, con cui soleva pagarsi il guidrigildo, erano valutati anticamente molto più che noi fos- sero nei tempi posteriori. La vacca costava due terzi più, il cavallo circa la metà*

Bi ~ La legge, considerata nel suo insieme, era, più che altro, una legge penale al pari di quella salica, e rivela lo stesso stato di coltura b gli steesi costumi.

Nondimeno vi sono anche notevoli differenze tra Funa e Tal tra*

Le disposizioni della legge ribuaria sono più precise e più estese ; vi è maggior riflessione, vi si rivelano più intendimenti pò-

-eo- litici, qualche veduta più generale. si tratta oramai di semplici consuetudini, daochè il legislatore usa in più luoghi la formula: Noi stabiliamo, Noi ordiniamo, canstituimus, itibemus. La podestà regia e il suo diritto vi sono più sviluppati: il re sa alle volte im- porsi; insieme è osservabile come il fiscus noster sia ricordato in più luoghi, e come la disobbedienza agli ordini regi, l'infe- deltà, il tacciarne di falso i documenti, sieno reati severamente puniti. Anche le influenze forastiere, romane che ecclesiastiche, H)Q0 maggiori. Lo stesso diritto penale si è qua e sensibilmente modificato. La grande specificazione della legge salica ha ceduto il posto ad una maggiore semplicità, come può vedersi nel ftirto, la cui pena ordinaria era il guidrigildo del ladro, graduata diversa- mente secondo la qualità del reato, salvo in singoli casi affatto eccezionali, che facevano luogo a composizioni minori. Perfino il diritto civile ha una parte più notevole che nella legge sali- ca; e vi si notano dei cambiamenti. Ci limitiamo a ricordame un solo. Al tempo della legge salica la dote, che il marito of- friva alla donna secondo le antiche consuetudini germaniche, era sempre una dote mobiliare; al tempo della legge ribuaria poteva già consistere in beni immobili. È un cambiamento, ohe lascia intra wedere una grande evoluzione economica! D'altra parte manca quello speciale procedimento esecutivo, che la legge salica aveva ammesso pei debiti contrattuali ; e anche certe di- 5{>')5Ì2Ìoni relative alla procedura contumaciale e alla prova han dovuto cedere davanti alla cresciuta civiltà dei tempi. Il giudizio della caldaja non è più contemplato. Tutto rivela uno stato meno barbaro, un nuovo passo nella via di transizione dalla società barbara alla romana, e da entrambe a quella nuova, che doveva balzar fuori dalla loro fusione.

66. Leggi del gruppo avevo,

a. - IL PACTU8 B LA LEX ALAMAKNORUM. *'

1. L'antico diritto degli Alamanni ci è giunto in due torme diverse, che sono: il Pactus Alamannorum e la Lex Ala" e runa e l'altra han suscitato serie dispute.

*' BlbUoarafla. Mukbu De rtpMica Alamannorwn, Berolini, 1849 e Prtfmtiono aUa ina edu. del U Legge, nei *Moii. GemL^ Leg. Ili; Waxtz, nei

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2. li PcLctus Alamannorum non è oompleto: ne abbiamo appena oinque frammenti, che trattano di delitti e composi- zioni, di congiuratori e del diritto patrimoniale dei coniugi, in modo breve, direi quasi impacciato; e si discute per sapere se abbia carattere ufficiale o privato, e quando sia stato redatto.

Noi riteniamo per fermo che si tratti di una raccolta uffi- ciale. Né importa se anche non vi si & parola del re o del duca, di fredi pagati al fisco, e se non ricorrono mai le parole consHtuimìis, iubemus, praecipimus (Lehmann): il nome Pcxtui e le parole Sic conventi, con cui comincia la legge, bastano a dimostrare che la compilazione fu &tta con la partecipazione del popolo.

Invece più serie difficoltà presenta la questione del tempo; ma non ricorreremo, per risolverle, al prologo delle leggi austra- siane, che abbiamo ricordato più su a proposito di quella dei Ei- buari, perchè questa volta nulla c'è assolutamente che ne suffraghi le notizie; e neppure alla testimonianza di Agathias, che vediamo citata da qualcuno, perchè le parole dello storico si adattano meglio al diritto consuetudinario che ad una legi- slazione vera e propria.

Lasciando stare tali notizie, ed esaminando invece i carat- teri intrinseci del Pactus, tutto fa credere che appartenga alla fine del secolo VI o alla prima metà del VII. Certamente non può essere più antico, perchè ne risulta che il Cristianesimo, nonostante che si trovasse ancora di fronte a qualche supersti- zione pagana, aveva messo radici nel popolo, tanto è vero che le manomissioni potevano farsi in ecclesia non altrimenti che in heris generatione. E d'altra parte non può nemmeno essere più

•* Gottinff. felehrte Anzeigen 1850, p. 400 e nelle ** Naohxichten der Gottmger Gesellschaft der Wissenschafteii 1^, n. 14 j De Bozière, Beeherchu tur l'ort- gine et les différerUes rédactions de la loi des AUemands, nella ** Bevne hist. de droit fran^. et étr. « I, 69 sege.; Meter von Knokau, nei ** MittheiL der s^^jjts^* Gesellschaft in Zùrich , XlA, p. 58; Boretius, nella •Hist, Zeitsohr. , aXII, p. 152; Beunher, Ueber da» AUer der Lex Alamanviorum, nei •* Sitznngsber. der Berliner Akad. 18^, p. 149 segg. ; Lehmann, Zur Texikritik u. EfUtUhunasgeseh, dea alam, VolksrechU, nel N. Archiv. ^ X, p. 469 segg. e Prefazione alla sua ediz. della legge; Esmein, Etudes nouvelUt tur la lex Alamannorum, nella **Noa- veUe Eevue - oit. IX, p. 680 seg. ; ScheOder, Zur Kunde der deuUchen Voìktrtdi' U, nella "Zeitschr. der Sav. Stiftnng- VII, Germ, Abth., p. 17 segg. Edizioni. Ne abbiamo pareoohie antiche del Sichabd, del du Tillet, del Hmtou>, del GoLDAST, del Lindenbruch, del Baluzio, dello Scbilteb. A' di nostri vide la luce ner opera del Msrkel nei Mon. Gemou hist. Leg. in, (1868). La im- gliore eaizione fa data recentemente dal Lehmanh nei Mon. cit. Legóm Sectio prima, V, I, 188a

V ^

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Téoéut», pero ho rW&ìa^ tina certa iuiluenza franca nell'uso delle parala, che non fa meravìglia in un tempo in ani l'unione del- l'Alamannìa col regno dei Franchi era ancora iniima, ma che ftoa avrebbe più ragione nella seconda metà del secolo VII, quan- do i vincoli si erano già allentati davanti ad uno spirito più indipetidente del popolo. Le staB^e parole tedegohe sparse qua « nel teeto, alcune delle quali appartengono airantico dia- letto germanico^ altre al l'antico alto tedesco, mostrano con si^ Durezza ohe la compilazione del Pacino cade in un periodo in '

cui 91 operava quel pasaaggio da un idioma all'altro, Io ohe ci ^

hoondnoe nuovamente alla fine del secolo VI o al principio

(Ui va

3. ^ La Lex, per dir ora di questa, si differenzia caratteri- itiecitnente dal Facius: e molto più ampia e meglio ordinata; « tmnod to alcuni titoli, aggiunti dopo, procede indipendente- ,

mente d* bwo.

Ne possiamo distinguere tre parti, che rivelano un certo ,

■à#teiKUi* La prima^ tratta delle Caugae ecclesiaef entrando in i

partìoolari piuttosto mìnuzioei^ quali non ti trovano in altra legge popolare; la ^conda delle Causae qui ad dtice pertinente |

ciuè del diritto pubblico, compreso il processo; la ter^, delle I

Camme qm mepe aoUnt contiuffere in popuh, cioè delle materie |

di diriiio privato e penale, il vero diritto popolare basato prin- eipalmente miUa consuetudine. £ tutto ciò sen^a che possa dirsi ohe il attenga al tactm e Io segua.

Già le forme linguistiche sono meno arcaiche, gli atti meno flùabolici, le formule meno rigide; ma oltracciò il contenuto è «Ufireo. I^a mauonUBsione del servo in ftem generationé è acom- pane; e oó»i la compera della 8posa e la sepoltura del morto nelle proprie terre. Ciò che più importa., la L^x ci presenta ^ il Ducato con una certa indipendenza; e si vede chiaro che etto stava per isfuggire ai sovrani deirÀU!:«trasia<. Il ricono^ ««imento della podestà regia à piuttosto teorioo; mentre il diftea è detto Daminm, e la sua signoria lìegnam, e i suoi beni wm d&mimca€. ad altri che a lui spetta la giurisdizione: è Imi ohe nomina i giudici, che riscuote i fredi^ che toglie la |i»ee, ohe pronuncia la pena di morte. La legge ì^tessa non fu approvata da mx^ aasemhlea del Begno sotto la presi lenza del r«v ™* da UA^aaaemble^ ducale. E anche la Chiesa si era ve<

I

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nuta rafforzando nel frattempo. Le disposizioni sai maggior guidrigildo dei vescovi e degli altri ecclesiastici, le composizioni per gli atti commessi contro i chierici neiresercizio delle loro funzioni, il diritto d'asilo, la pace della Chiesa, quella attribuita alla casa del vescovo e del prete, la tutela dei possedimenti ecclesiastici, le regole che ne disciplinano l'alienazione, altre ohe provvedono ai servi e ai liberti di essa, il divieto di lavo- rare nelle domeniche, il giuramento prestato sull'altare tutto ciò significa che ne era cresciuta l' influenza. E potrebbero anche notarsi alcune traccio di diritto romano dovute, più che altro, alla intromissione della Chiesa; quali il divieto delle nozze incestuose e la disposizione, che le carte, per essere valide, deb- bano indicare Vannus e il dies.

Ma anche le composizioni hanno qua e subito un muta- mento, dove in più dove in meno ; e cosi V istituto dei congiu- ratori : se ne altera il numero, proporzionandolo meglio alla en- tità della causa; e si fa largo il principio che non solo per metà, ma tutti debbano essere electi, o come dice la Legge, no- minati, cosa che il Patto aveva ammesso solo in danno dei si- cari. Lasomma, il distacco è grande : ci sono principi diversi da quelli del Pactus; e anche dove sono uguali, la Lex adopera una forma diversa.

4. !Eesta la questione del tempo.

Il Merkel pensava che la Legge si fosse formata un po' alla volta, e ne ha distinto tre redazioni. Una ne avrebbe fatta Clotario II tra il 613 e il 622, col concorso dei maggiorenti e del popolo; un'altra Lanfrido I, figlio di Godofrido, tra il 724 e il 730, e una terza apparterrebbe al principio del secolo IX: senonchè uno studio più attento mostrò che esse si riducevano in verità ad una sola, e non presentavano differenze che non potessero mettersi a carico dei manoscritti. Ma tale redazione, quando sarebbe nata?

Certamente la Lex è posteriore a Clotario II che regnò dal 613 al 622: anzi non può essere stata redatta prima della fine del seicento; e lo possiamo provare con la scorta della legge stessa.

In primo luogo, il rapporto del re con la podestà ducale si adatta male ai tempi di Clotario II: la legge rivela una certa indipendenza del Ducato, e si sa che esso la consegui nella se-

am^mtmmmmamtm

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oonda metà del secolo VII. Neppure si confa con qaei tempi ciò che ò detto delle cose ecclesiastiche, e dei benetìci, e vassalli, e della fotaìa e importanza delle carte. La Chieda godeva già di una grande antoriti, quando la legge fh composta : mentre ani principio del secolo VII aveva ancora a lottare con la saper» stizione pagana. la parola beneficium, usata dal testo, si troverebbe nei contratti di precaria prima della metà del sei- conto, specie se il precarista pagava nn censo al padrone. Ne qaeUa di va$si fa applicata agli uomini liberi, come & la Legge, che li sprona a frequentare il placito, se non in tempi più avan- zati. Inoltre ne risulta che Fuso delle carte era piuttosto fre- quente: la tradizione delle terre si faceva per cariam, i servi po- tevano manomettersi per cartam, e non c'era affare della Chiesa che non si confermasse in quel modo ; ma appunto sul principio del secolo VIDe carte erano ancora rare : quelle che ci sono ri- maste deirAlamannia non sono più antiche della fine di esso. Soprattatto però giova richiamare l'attenzione sul titolo 38 della Legge. Vi si parla della santificazione delle domeniche; nes- suno doveva lavorare in quei giorni sotto pena, se era servo, di venire fustigato, se libero, di perdere la terza parte dei beni dopo tre ammonizioni. Ora, già il Merkel ha avvertito ch'esso combina con un libro penitenziale di Teodoro arcivescovo di Canterbury, scritto tra gli anni 668 e 690, che Cummeano, autore di un altro di questi libri, composto sullo scorcio del secolo Vn o sul principio dell' Vili, propagò nella Gallia e nel- rAlamannia. La Lex deve aver attinto a queste fonti.

6. Qui giunti, però, non possiamo a meno di tener conto di due notizie del tempo, che possono gettare un po' di luce, tanto sul vero autore del Patto, quanto su quello della Lex.

Una è riferita dalla maggior parte dei prologhi della Lex, ed è questa: Incipit lex Alamannorum qui temporibus Hlodarii rtgis una cum prineipibas 9uis, id 8unt 33 episcopis et 34 duci-- bme et 72 comitibus tei cetero populo constìtuta est. Essi attri- buiscono la legge a Clotario IL Invece due manoscritti por- tano r intestazione : Lex AUamannorum, qui temporibus Lanfrido filio Gfodofrido renoecUa est; e questi medesimi manoscritti fanno cominciare il primo capitolo con le parole: convenit enim mato- ribus nato populo AUamannorum una cum duci eorum Lanfrido rei dterorum populo adunato. Essi Tattribuiscono a Lanfrido,

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che tenne il ducato negli anni 709-730, e cosi tra le due noti* zie ci -sarebbe di mezzo nientemeno che un secolo. Ma forse si possono conciliare.

Quello che oggimai parrà certo, si è che la notizia del Pro- logo non può riferirsi alla Lex, perchè sappiamo che questa fìi opera del duca e non del re, e che fu votata nell'assemblea del ducato svevOy che non contò mai un si gran numero di mag- giorenti di quella fatta. Volendola riferire a Clotario II, ci sa- rebbe una difficoltà anche maggiore ; perchè la Lex è posteriore di un secolo.

Dunque il prologo non ha assolutamente a che fare con la Lex; ma non potrebbe appartenere al Paciua, ed essere stato attribuito poi alla Lexf Appunto un Codice premette questa annotazione al Patto: Ubi fuerunt 33 daces et 33 episcopi et 45 comites, che è press'a poco la notizia del prologo.'* Che se la con- ghiettura sembrasse accettabile, si avrebbero i seguenti risultati : 1* che il PactìM è 'opera di Clotario II, e per conseguenza sarebbe stato compilato tra gli anni 613 e 622;

2^ ohe fu votato in una delle grandi assemblee del Regno.

Quanto alla Legge, crediamo che sia stata compilata sotto il duca Lanfrido, figlio di Godofrido, giusta la notizia dataci dai due codici citati ; e si può anche spiegare perchè altri l'abbiano soppressa, pensando che appunto Lanfrido cadde lottando con- tro la podestà regia. L' ipotesi molto ingegnosa è del Brunnen Forse ripugnò agli amanuensi di conservare il nome di un ri- belle in testa alla legge e lo soppressero: è la solita sorte dei vinti ! Ma questa ipotesi serve insieme a spiegare perchè il pro- logo più lungo, che, secondo noi, apparteneva originariamente al PactuSj sia stato adoperato per la Legge. Quegli stessi ama- nuensi, pur volendo attribuirla a qualcuno, scelsero Clotario, che dopo tutto non era estraneo al diritto di quel popolo, se è vero che ne avesse fatto compilare il Patto, e fecero uno strappo alla cronologia.

Del resto neppure il diritto alamanno è rimasto stazionario, e ne fan fede alcune modificazioni ed aggiunte contenute nei codici più recenti dei tempi carolingi,

^* Non teniamo conto della differenza dei numeri, perchè qnesti yariano anche nel prologo secondo i vari manoscritti.

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P* * LA LHX BAUTWARIORUM. '*

1. Anche questa legge è detta indifferen temente Pactwii d Lm. Il nome Factus ricorre nel testo della legga steesa, e Anche il sinodo di Aschheim del 756 ia ricorda cosi. Un do- come ti to del 772 la dice Baioariorum hw aique pactus; ma più oomiutemenbe si chiama Lem> E anch'essa offre delle ineerte^ze^ «ocr^flciate dal fatto che, al T infuori del prologo generale della leggi aastrasiane di dubbia fede, ogni altra notizia storica man- CA. Così non farà meraviglia che le opinioni sieno tuttora di* eeordi circa la saa origine e la sua formazione.

2- Molti (Roth, Merkel) ne distinguono più redazioni ; ed i questa Topitiionii che tiene il campo; le cose sarebbero prò- oedut« presaga poco nel modo che di era escogitato per la legge degli Alamanni. Ma altri pensano che sia stata redatta in una "Tolta, e già l*Eichhorn era di questo avvieo ; tra i moderni ri* oordìAmo il Waitz e il Brunner.

In Terità la teoria dominante non è suffragata dai codici^ i tuoi argomenti reggono ad un esame un pò* attento. Si era* no notate due cose:

1* la diversa influenza, che pareva rivelarsi nelle diverse parti della legge;

2^ la mancanza ogni fusione di queste parti tra loro.

Cosi s'idearono ben tre redazioni diverse.

La prima avrebbe contenuto il diritto nazionale ^ e insieme lar|^ traocte di diritto alamanno; ma si disputa sui titoli e an- ^e ful tempo; anaci si fanno tutti i nomi che figurano nel cosi detto i»ralogo della legge, da Teodorico I a Dagoberto I,

^ Blt»ttefiran«. Bota, Ueòer dU EnUUhung dtr Ltx Baiuvarit^rum, MQu^ c^«ii, lh-4H n ifur (*€Sth, ti€§ Ba^r. VMwrechU, Mtiaoben, 1^70, Dm Pbthist, De, tm hmi €Ì de difértntcM rédaei$ùnt de la im dt* ZJae^roM, ueiU * EoTti© histor. Ì« 4mt £r, ót étT, ^ il { iy^i), p. W^ mgg., p. 461 «egg. Msn&Eh Dat ètMÌritehe r«llH^A4> »i«lJ'Arcb. ài PerUj XI fl8^* p. 633 ssgg. MutzLj Ifk Ux Baut^ar. flit jMlAnJC Wp 0praeìàL Vrkundtj 1850, GrB<>i!iS% Zur Oi^clncfUe der d^uUchtn FpTMte&le, I (imo), p, Ì!£3 e ■«§£- Qxhtzuahw, Ùi$ MU^ Meehtt^férfatsuntf dér Bmimmnm, 'SiiTuher^, Vm5. VVaits^ nelle "Nat hr, der Gottiiig. Ge^eUsclìaft^ l^t^ ma. H « 14 RiK£LF.B, Uther dU £nÌMtchungÈi:tk dér Lcjc ìiaiuUiMr,, n&ÌÌQ * Fo-nftàunfrn lur deuUchen Goseb. XVI, i*/i^f.i 8eg^^ Edidonì. La leg^r» imfcNitfttTi più Tolt^ npUo cctiUiioni delle Le^^ct harlnirorum, Uaft edì/June wpt£ÈMÌB fu d&tA d«l MrDKaeii, Leget Bttiuvariorum d'in su un matiOBn ritto della HUiolMA d'IngoUiadt con traduEione teddsr^. Ingoia tadt^ 1798. La Tuiglior» 4 iti XctàAl pei "Mcm. Oerm, Mtt,^ L«g^ 111; mm l&edia mollo n deflider&rt m lifhrlA.

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La seconda avrebbe traccie di diritto alamanno e anche di diritto visigoto: anzi principalmente di questo; ma anche qui non si è ben d'accordo sui titoli che vi appartengono, e si di- sputa nuovamente circa il tempo. Qualcuno la vorrebbe attri- buita a Dagoberto I ; ma altri la colloca alla fine del seicento o al principio del settecento.

Alla terza redazione, più recente, si ascrivono i titoli sul di- ritto pubblico, sul diritto ecclesiastico, anche qualche regola pro- cessuale; e, a differenza delle altre, Farebbe nata per impulso dei Franchi, al tempo di Pipino o di Carlo Martello. Si tratta dei primi due tìtoli^ ad esclusione del § 20 del .secondo, che sareb- bero stati collocati in principio, suiresempio della legge degli Alamanni.

Ma si è esagerato molto, eia per ciò che riguarda la diversità delle influenze, sia per le sconcordanze di alcuni titoli tra loro,

3. Noi non possiamo ammettere che tra le diverse parti della legge esista una diversità d' influenze così spiccata, come si sostiene dai più. TI vero è, che la legge dei Baiuvarì, più che un codice di diritto nazionale bavaricOj può dirsi una compi- lazione di diritto nazionale e forastiero, che ha subito varie in- fluenze; 6 queste vi hanno lasciato una larga traccia, ma sono, press'a poco, uguali in tutte le parti della legge. Quanto alle diversità, sarebbe da vedere se non fossero da attribuire piut- tosto alle materie trattate nelle varie parti; tanto più che le persone, che hanno lavorato a co aipi tarla, non devono essere state le stesse.

Noi possiamo distinguere due gruppi di regole, che, senza dubbio, si devono a mani diverse: le une di diritto pubblico, le altre di diritto penale, civile e processuale. La legge stessa ne contiene qualche indizio. Nei capitoli ohe riguardano la ChieBa e il ducaj troviamo più d*un riferimento alla bibbia e ai canoni; e d*altra parte un capitolo, sul guidrigildo del duca e deUa nobiltà, è concepito in nome del re: ciò prova che que- sta parte fu fatta con 1* intervento del clero e del governo franco; e parrà naturale, perche si trattava di cose e interessi ohe eccedevano i limiti del ducato. Invece le materie di di- ritto penale, civile e giudiziario erano, più che altro, materie interne, onde potevano essere abbandonate alle persone del paese ed ai giudici. La legge medesima ha un capitolo, che

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icoeaD& A questa cooperazione : sed Me dìscordant nostri ia- d$ee^ de poeto. Ora, ci pare molto probabile che cotesta diver- sità, sia di matarie, sia di compilatori, dovesse anche determi Dare un di Terso oso delle fonti « Trattandosi di diritto pubblico, le in- dnenze franche non potevano non prevalere, perchè il ducato bavanco formava parte del reame merovingico; ma nelle altre parti ne dovevano prevalere altre, e dal più al meno sono dapper-

lutto le ste^e. J

II.

Cosi, senza alcnn dubbio il diritto alamanno fu messo molto 'i!

a partito, e in più modi : perchè, se talvolta si prende solo occa- ;

«ione da asso, taraltra ee ne accettano i principi, si può dire alla leit«Tm o quasi, non tralasciando neppure le parole deirantico alto tadesco, con cui la legge degli Alamanni aveva chiarito il testo latino. Al qual proposito merita di essere notato, che l'accordo tra i due popoli continuò anche nel più tardo medio evo, come ne fii prova lo Specchio ^evOt che e appunto un libro giuridico df-l secolo Xm comune ad entrambi. D*altra parte Tu&o del dtrìtio alamanno è palese in ciascheduno dei gruppi nei quali ■i è voluta distinguere la legge, e solo a cominciare dal tit. VII é meno frequente e alquanto più libero.

Fn'altra infiuenza, molto spiccata, è quella del diritto vi- tigoto. I compilatori della legge bavarica ne accettarono let* ieralmente più frammenti nella forma antica, che si conservava tuttavia nei paesi della Gallia già appartenuti al regno visi- goto ; onde penetrò tra i Bavari qualche principio che poteva dirsi Ofltraneo alla coscienza giuridica del popolo. Ricordiamo la pena ilella fustigazione^ e anche la regola che non si dovesse ammet- tere il giuramento se non sussidiariamente in mancanza d^altre prov^. E col diritto visigoto passarono anche alcuni principi di ?

diritto romano. Persino la rubrica del titolo de commendntù et eommùdatùf e Taltra de rendiiionibus^ sono tolte di peso dalla più antica recensione della legge dei Visigoti* Nondimeno dobbiamo •o^jiji ungere anche qui, non esservi alcuna ragione per ammettere a&a speciale redazione della legge. Quella larga iurtuenza si ri- vela, 4^1 più al meno, in quaai tutti i titoli di essa, e metterebbe i r^rAEHent»? oonto ricordare quei pochissimi che ne sono esenti. t

ho lifei^so diritto langobardo vi ha lasciato traccie; e anche 1

i|Q*?-ta n una induenza che si gi ti fica molto bene, vista la ^

il riatta parentela, che e^i.^tera tra i duchi bavarici e la famìglia

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dei re langobardi. Diremo di più : se l'esempio degli altri popoli in generale può aver determinato il duca bavarico a compilare la sua legge, molto maggiormente deve avervelo indotto quello dei Langobardi; ma del resto il contingente non è grande. Sono poche particolarità, che possono veramente riannodarsi all'editto langobardo ; mentre altre, ohe pur potrebbero mettersi avanti, si spiegano più facilmente con la influenza alamanna o visigota. Tra le leggi, che paiono suggerite dall'editto, vanno ricordate quelle sull'uccisione del duca, sulle sedizioni, sulle uccisioni perpetrate d'ordine del re o del duca, sull'uccisione delle donne che si di- fendessero colle armi, sulla rottura delle siepi e sugli animali che vi s'impigliassero: ma anche queste influenze sono comuni a tutte le redazioni.

4. tampoco possiamo ammettere che esistano le scon- cordanze che furono notate. Anzi il Brunner osserva che i re- dattori della legge adoperarono le loro fonti con una certa mi* sura e intelligenza, cercando di causare tutto ciò che avrebbe potuto contraddire ad altre disposizioni, sia di diritto nazionale sia di diritto alamanno; e, dopo esaminati i singoli passi incriminati, viene nella conclusione che nessuno presenta una contraddizione vera e propria. O quanto meno, è cosi insignificante da potersi ammettere anche con la ipotesi di una sola redazione della legge. E lo stesso dicasi delle ripetizioni. Dal canto nostro osservia- mo, che molte delle contraddizioni, che si sono volute scorgere, lungi dall'appartenere a parti o gruppi diversi, s' incontrano nella medesima parte e anzi nel medesimo titolo, cioò appunto nella medesima redazione : di guisa che l'argomento, che se n'è voluto trarre per combattere la redazione unica, finirebbe col ritorcersi contro le singole redazioni, e la difficoltà di spiegarle rimarrebbe la stessa. Dopo tutto, se è vero, come non dubitiamo, che più commissioni abbiano lavorato attorno a questa legge, le ripetizioni, e anche qualche piccola contraddizione, si spiegano : vorrà dire che la revisione finale non è riuscita come avrebbe dovuto, e forse non fu nemmeno tentata. E potrebbe anche darsi che qualche capitolo sia stato aggiunto posteriormente. Una leg- ge che minaccia la confisca dei beni a chi uccide un pelle- grino è, senza dubbio, una Novella penetrata, non si sa come, nel testo; e se ne potrebbero trovare altre. Anche questo è un fenomeno, che si ripete in quasi tutte le leggi barbariche,

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6 in grado molto maggiore^ senza ohe siasi mai pensato ad una revisione diversa.

6. Aggiungiamo una notizia che molti codici premettono alla Legge: Hoc decretum apad regem et principibm eiué et apud cumeto populo chrisUano qui infra regnum Mervangorum cami- j^ant Evidentemente essa fu compilata col consenso del re; e ne possiamo stabilire il tempo con saffioiente precisione.

Certo, è venuta dopo quella degli Alamanni di Lanfrìdo^ perchè ne usa: anzi è posteriore all'anno 7B9^ jiercbè suppone che vi sieno stati più vescovi in Baviera, mentre fìno allora non se n'era avuto che uno; e d'altra parte dev'essere anteriore al duca Tassilone, e quindi al 749, perchè i canoni del sinodo di Asch' heim rattribuiscono ai predecessori di lui.

Ma c'è modo di avvicinare anche più questi due termini.

Notaznmo già che al tempo, in cui la legge fu compilata, esisteva un re franco, e questa circostanza esclude gli anni 7B9- 743. La redazione deve cadere negli anni successivi ; e infatti eesa ci presenta il ducato in una stretta dipendenza dal reame franco. Invano Odilone aveva alzato gli scudi contro i figli di Carlo Martello: l'animoso duca fu battuto; e se non lasciò la vita sul campo, come alcuni anni prima il duca degli Alamanni, non potè riavere il Ducato (743 o 744) che a prezzo di una ■maggior soggezione: cosi lo tenne fìno alla morte (748).

6. Altre fonti di diritto bavarico appartengono ai tempi di Tassilone III (772, 776) e Carlomagno; ma non furono incor- porate nella Legge.

ce, 21 gruppo gaUc&^ a. - LB LIKìUé WlSiaOTBOHUM- **

1. E una raccolta molto notevole di leggi, dall'anno 419, in cui l'imperatore Onorio lasciò ai Goti TAquitania, fino al 710, in cui mori Witica, che fu il peo ultimo re visigoto prima della invasione dei Mori: sicché è agevole comprendere quanti cam-

•• Mbliografla. Habvkl nnììa. profaz. alU sua Lcj rem. ViMiffoiL, ÌÈàB P* xrri, MnKBL, nella * Gesoh. de«. IL E.., Savìguy, VII (1^1], p. 4 aogg. nalU •Zuit^hr. f ùr d. R. , XII, ^L GAcrr., UtUr dai /iiieste ^e^chr. M^M dmr W^atfoiktn, nelle sae "German. Abhaadlun^n « 3£&aiihoìm, 1B5B, p. 2T •ogg. Hi Petioxt, Iàc l'oriaine eidct dif^r^tUt rMi^Uons ^ ia hi dea lVÌMÌgQih§^ n^Ila *R«ru4t hist. da droit fran(j. et étmugor I (1055)» p. ^J9. HttFrmicii, £7iUieh'

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biamenti abbia dovuto subire. Nondimeno ne possiamo distin- guere due forme principali: la cosi detta Antiqua e la posteriore Lex Wisigothorunif che segnano anche due periodi diversi.

2. li^ Antiqua comprende l'opera di più re.

Sidonio Apollinare accenna già alle leges Theodoricianae in una sua lettera che dettò. prima del 468; ma senza dire se ap- partengano al primo Teodorico (419-451) o al secondo (463-466). Comunque, la memoria se ne perdette presto nel regno visigoto ; e forse non si trattava che di qualche costituzione isolata pub- blicata al tempo della fondazione del nuovo regno per regolare la divisione delle terre o altri rapporti tra Goti e Romani. Certo, i posteri fanno cominciare l'opera legislativa un po' più tardi, e ricordano Eurico (466-484), Leovigildo (569-686) e Eeccaredo (686-601).

Sant'Usidorodi Siviglia accenna alle leggi dei due primi. Par- lando di Eurico si esprime appunto in questi termini: Sub hoc rege Crothi legum instituta acriptis Jiabere coeperunt, nam antea tan- tum moribus et consuetudine tenebantur. La legislazione sareb- be cominciata con lui, e Leovigildo l'avrebbe riveduta. Sant' Isi- doro dice inoltre, che il codice di Eurico era confuso, e Leo-

tm<7 tt. Oeschiehte des Westgoihenrechis, Berlin, 1858. Bluhm e, Zur TextkrUik des Westgothenrechts u. Beccared's leges cmtiqucte, Halle, 1872. Dahn, ìVestgoth. ìS/m- dien, Zur Q^schichU der Qesetzgàung be% den WestgoOien^ Wùrzburg, 1872. in-4^. Waitz, Die Redactiùn der Lex \VUig, von Konig Chindt^euirUk, neUe "Nacnr. der GOttinger Gesellschaft der Wissensoh. 1875, n. 15. Schmeltzer, Die EedacUo- nen des Westgothenrechts durch die KSnige ChindcuuirUh u, BecessuirUhy nella •*Zeit8chr.« far E. G. U, 123 segg. Binaudo, Legge dei Visigoti, T9rino, 187a Gaudexzi, Un' antica compilai di airitio romano e visigoto con alcuni f redimenti delle leggi di Eurico, Bologna, 1896 e Nuovi frammenti dell'editto di J^urteo, nella •* Eivista ital. per le scienze giuridiche Koma, VI (1888). Schupfer, Becen- sione nella "NuoTa Antologìa ^ 1886, fase. ott. Zeumer, Eine neu entdecJcte westgotk, Bechtsquellej nel "' Nenes Arch. « XII, p. 889 segg. Schmidt, nella " Zeitshr." fùr B. G. , XL Esmeik, nella ** Nouvelle Bevae de droit fran^. et ótranger^ XIII (1889), p. 428 segg. Fickee, Ueber nahere Verwandschaft zwi- schen gottsch - spanischem u, norwegisch - islàndischem Bechlf nelle " Mittheil. des Instituts far oesterr. Geschlohte II, Ergànzungsband, 1887. De Càrobnas, No- ticia de una ley de Teudis, nel * Boletin de la real acad. de la Historia^ XIV (1889), jp. 473 segg. Fidel Fita. La lei/ de Teudis ^ los concilios de Lerida y VcUencta, ib., p. 491 segg. A. Tardi f, Les leges Wistgothorum^ nella " Nouvelle Bevue hist. XV (1891), p. 5 segg. Patetta, Sui frammenti di diritto germanico della collezione gaudemiana e della leciio legum (" Arch. giuridico ^ LIII, 1894); YoN Halban, Das rom. Hecht in den germ. Volksstctaten, voi. I, Breslau, Ì899. Edizioni. Ne esiste una di importante pubblicata dalPAccad. reale di Storia di Madrid col titolo Fuero juzgo en latin y castellano, Madrid, 1815. La stessa edizione fu riprodotta con piccole aggiunte nei " Portugaliae Monum. histo- rica Leges et Consuetadines, I, 1, 1856. I frammenti antichi furono editi dal iJluhme col titolo : Reccaredi Wisigothor. regie antiqua legum collectio. Hal- le, 1847. Su di essi vedi Assca^xz, Der Palimpsest der Lex Wisigoth. nel- TArch, di Pertz XI, p. 215 segg. Migliore ediz. di Zeumer, Leges Visigo- thoruìiiy Hannover, 1902.

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vigildo lo riordinò, aggiungendovi molte leggi, ohe Eurico aveva

omesso, e togliendone altre, che nel corso di un secolo avevano

perduto ogni valore pratico. Infine un cronachista di tempi piut- '

tosto avanzati, Luca Tudensis o De Tuy (f 1260), riferisce che

Keccaredo figliuolo di Leovigildo, avrebbe nel sesto anno del

^uo regno riveduto ancora una volta le leggi gotiche, ridueen- l

(lAe ad una forma più compendiosa.

3. Si tratta di un ampio lavoro legislativo di oltre un I

fi^Hiolo ; ma disgraziatamente non ne abbiamo che pochi frammenti, pubblicati dal Bluhme d'in su un palinsesto parigino, intorno i

A rapporti piuttosto complicati e di carattere privato, contraria- r.i*Qte all'indole delle antiche leggi popolari, con manifesta in- !i lenza delle leggi e delle idee romane. Per giunta non si sa u^ppur bene a chi sieno dovuti.

E se ne disputò parecchio. Infatti, mentre il Gaupp, l'Haenel e il Brunner li attribuiscono ad Eurico, il Petigny ha pensato Ali Alarico II, e altri è sceso anche più giù: il Gaudenzi fino fi Leovigildo, il Bluhme e THelfierich fino a Beccaredo. Ma leovigildo vuol essere onninamente escluso, perchè il compila- '

t jre stesso si dice figlio di un re visigoto (e. 277), una qualità ( !<^ si attaglia a tutti gli altri, tranne che a lui. E si deve »*>cludere anche Alarico; perchè questo re è noto per il Bre- \ÌAriO| ma non consta che abbia fatto altre leggi. Invece ha maggiore probabilità l'opinione che le vorrebbe attribuire a Rec- r-aredo; ma vedremo subito ohe anch'essa non regge, sicché infine uon rimane che Eurico.

Il Bluhme osservò a sostegno della sua opinione, che i fram- in*'Qti devono essere più recenti del Breviario, quindi posteriori «iranno 506, perchè vi si trovano delle disposizioni comuni; e l'Helflerich vi scorge persino qualcosa tolta dal terzo concilio di Toledo del 689. Il e. 306, in cui è detto che nessun ve- «»To, prete o chierico possa vendere o donare nulla de rebuft fcdemae senza il consenso di tutti i chierici, sarebbe appunto 'l^rìvato dal detto concilio. Senonchè la figliazione dal Brevia- n> non è provata; e qualche principio, che si trova anche nella Ltx ronuMa^ era certamente praticato nelle Gallie, dove i com- pilatori potrebbero averlo trovato; se pur non hanno attinto alle i Interpretazioni romane in voga a quei tempi. Ad ogni modo, anche te qualche frammento coincide col Breviario, è solo per ciò ■■^*

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che riguarda il contenuto, ma non per la forma; e ciò non 8i spiegherebbe se fossero presi da esso. Ma neppure il concilio di Toledo ci ha che fare. La legge fa menzione del consenso dei chierici, che il concilio non ricorda; e d'altronde non conosce i casi in cui il vescovo avrebbe potuto disporre dei beni della Chiesa, che pur sono contemplati dal concilio. Piuttosto pare che la legge riproduca un principio del diritto ariano, che ri- chiedeva veramente il consenso dei chierici nelle alienazioni, e, lungi dal suffragare l'opinione che Beccaredo l'abbia compi- lata, sarebbe anzi una ragione per non attribuirgliela. Le po- steriori revisioni, fatte certamente sotto la influenza del catto- licesimo, hanno già modificato quel frammento.

D'altra parte, ci sono argomenti che dissuadono dal pensare a Beccaredo. E anzitutto il fatto ohe questo re avrebbe compen- diato, abbreviandole, le leggi dei suoi predecessori : la notizia è del De Tuy, mentre i frammenti accennano ad una legislazione molto ampia. L'ultimo capitolo, che ci rimane, porta niente- meno che il numero 336, e abbiamo ragione di credere che ne seguissero anche altri. la forma, con cui sono redatti, per- mette di ascriverli a Beccaredo. La loro lingua è ancora sem- plice, e segna un grande distacco dalla nuova legislazione vi- sigota più prossima a Beccaredo. Questa è manierata e minu- ziosa ; e il diritto stesso ha qualcosa di slombato e artifiziato, direi quasi di senile. Eppure dalla morte di Beccaredo all'av- venimento al trono di Chindasvindo o Beccesvindo erano corsi appena quarant'anni ! Se i frammenti fossero veramente di Bec- caredo sarebbe da fare le meraviglie che lo stile delle leggi e della cancelleria abbia potuto mutarsi cosi radicalmente in si breve lasso di tempo.

Neppure la condizione, che la legge fa ai Goti e ai Bomani, si concilierebbe con questa opinione, perchè accenna ad un tempo molto vicino alla conquista. Essa ne rispecchia tutte le incer- tezze. Specie il frammento 277 mostra che la divisione delle terre faceva ancora luogo a reclami: i confini eran sicuri, e anche molti schiavi avevano preso la fuga. Tutto ciò si adatte- rebbe male ai tempi di Beccaredo, perchè dalla conquista fino a lui eran corsi quasi due secoli. Inoltre il legislatore ricorda la legge di un altro re visigoto, padre di lui, che avrebbe re- golato appunto questi rapporti e le cause, che, bene o male, si

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erano trattate allora e che non dovevano più risuscitarsi. Vor- remmo dire che questo re fosse Leovìgildo, padre Beccaredo, o non anzi Teodorico I padre di Eurioo? È molto più verosi- mile che sia stato Teodorico a regolare i confini delie terre al momento della divisione ; ed è anche più verosìmile^ che le cau- se, a coi accenna la legge, siensi svolte subito, piuttosto che un secolo e mezzo più tardi. Il frammento, a cui alladiamo, è con- cepito in modo che non può spiegarsi senza un grande rivolgi- mento abbastanza recente di tutte le condizioni socialij che aveva lasciato dietro a uno strascico d' incertezze^ di perturba- zioni, di liti, a cui bisognava por termine una volta per sem- pre. È un frammento che non avrebbe ragione in tempi ordinari. Insieme povera fermare l'attenzione sul limite della prescrizione : chi entro cinquantanni non aveva reclamato la sua sfors goihica o la iertia, se si trattava di un romano, non doveva più ripeter- la ; e ancora, chi entro cinquant'anni non aveva trovato un servo fuggitivo, non doveva più revocarlo in servitù. Perchè, pro- prio cinquant'anni? Pensiamo che il legislatore abbia fissato quel tarmine, perche fosse corso mezzo secolo da che le terre erano state divise. E la sua intenzione è chiara. Si trattava farla finita con le mille incertezze, che c'erano state fino allora, e iuaugorare un'era nuova sulla base dei fatti compiuti.

Il Brunner aggiunge un nuovo argomento desunto dalle re- lazioni della legge visigota con quella dei Burgundi; ma non ci pare che calzi. Dice che alcune leges antiqaae devono aver servito di modello alla legge borgognona ; e siccome questa non può essere stata compilata dopo il 501, suppone che efiìstessero già a quel tempo. Ma non potrebbe essere accaduto il contrario, e •quelle leges antiqtuie, lungi dairaverne ispirate altre del oodìee dei Burgundi, averne anzi subito la ispirazione ? Potrebbero es- §ere leggi di Leovigildo o di Beccaredo, che vanno pure tra le anUquae.

Invece ci paiono più concludenti le relazioni con la leg^ dei Baiuvari, che nessuno ha ancora spiegata. Sono coin- cidenze molto spiccate, se non altro quanto alla frase, con VAmtiqtui del palinsesto parigino; e senza dubbio i Baiuvarì hanno attinto direttamente ad essa. Ma ciò non sarebbe stato p/sibile se non l'avessero trovata nelle Gallie. Infatti eissa continuò ad aver vigore nelle provincie della Gallia anche do-

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che andarono perdute pei Visigoti; ed è che i Baia vari poterono averne contezza. Sicché tutta la questione si riduce a sapere quand'è che i Visigoti dovettero abbandonare quel territorio: fu prima o dopo di Beccaredo? Se dopo, VAniiqua^ che era già penetrata nelle Gallie, e proprio nella forma dei nostri frammenti, avrà anche potuto essere di Beccaredo : almeno nulla lo esclude; ma se prima, è certo che dovrà attribuirsi ad un altro re. E indubbiamente era anteriore. Già nel 531 i Vi- sigoti avevan dovuto, sotto le mura di Narbona, piegare davanti alla fortuna di Childeberto e valicare i Pirenei ; ma le vecchie Provincie ne hanno custodito ancora a lungo le leggi come un sacro deposito. Evidentemente i frammenti del palinsesto pari- gino vanno attribuiti ad Eurico.

4. Invece non crediamo che si possa tener conto di altri frammenti, che il Gaudenzi pubblicò in questi ultimi anni d'in su due codici, uno della biblioteca di lord Leicester ad Holk- ham, l'altro della Vallicelliana di Roma. Secondo il dotto scrit- tore, sarebbero leggi di Eurico; ma se pur sono leggi, come par- rebbe risultare dalla forma breve e imperativa, certo non sono di lui, e la più parte non hanno nemmeno a che fare coi Visigoti. Tuttavia gioverà esaminare la cosa più da presso, e ci sarà scusa la novità e la importanza della scoperta, se sare- mo costretti a dilungarci alquanto.

I frammenti della biblioteca di Holkham sono quattordici, e sia pel codice che, insieme ad altro, li contiene, sia per la loro speciale natura, bisogna cercarne l'origine in Italia. Il codice infatti è una compilazione eseguita appunto in Italia nel seco- lo IX, che vorrebbe tracciare le norme, con cui decidere le liti in tutto il mondo secondo una costituzione di Giustiniano^ ma in realtà riesce ad una strana accozzaglia di leggi romane e visigote. I frammenti poi, devono certamente appartenere al gruppo gotico, perchè vi si accenna al sajo, che è un funzionario goto ; ma non sono leggi visigote. E lo deduciamo dalla loro stessa natura. Perchè, anzitutto, solamente due disposizioni, trovano un esatto riscontro nelle leggi visigote posteriori: quelle cioè che ri- guardano la denuncia della lite e la manomissione dei servi davanti a testimoni; e d'altra parte possono riscontrarsi anche nell'editto di Teodorico. Invece qua e si tratta di istitu- ti, che la legge visigota non conosce, come la insinuazione

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delle donazioni; o che vi penetrano solo più tardi, come il di- ritto di rappresentazione; o che vi sono disciplinate molto di- versamente, e talvolta in modo da rivelare tatto un diverso or- dine di idee. Addurremo solo un esempio. Un capitolo delle naove leggi, parlando dei giudici, ohe si lasciano corrompere per denaro, considera il delitto da un punto di vista pubblico, e quindi pubblica ne ò la pena ; mentre nel concetto della legge visigota questo delitto ha ancora un carattere privato e la pena è privata. Fra una legge e l'altra c'è un abisso ; e non pare che razione del tempo possa bastare a colmarlo, se pure non si voglia far andare la storia a ritroso. Perchè si può spiegare, ed anzi è naturale, che il diritto punitivo deponga un po' alla volta la sua veste privata, per indossarne una di pubblica; ma non si capirebbe che lo Stato, dopo essere riescito ad affermarsi, si spo- gliasse nuovamente della sua prerogativa. Altre leggi sareb- bero scomparse dalle compilazioni visigote posteriori, senza che se ne potesse addurre alcuna plausibile ragione; per es. quelle sul colonato e sulla legittimazione e successione dei figli natu- rali, nonostante che in quei tempi il colonato tuttavia esistesse p^e^so i Visigoti, e la legislazione si mostrasse tutt'altro che rigida verso i figliuoli illegittimi, anche incestuosi e adulterini.

Non crediamo dunque, che sieno leggi visigote: invece ci siamo provati ad avvicinarle all'editto di Teodorico, e il confronto ci ha fatto nascere il dubbio che si tratti di una parziale revisione di esso: certamente presentano un gran numero di concordanze ^ somiglianze; e anzi solo quattro frammenti contengono dispo- suioni addirittura nuove. Il diritto di rappresentazione , la legittimazione dei figli nati da una schiava o anche da una iQgenoa nascostamente, la successione dei naturali e la respon- sabilità nel caso di un deposito, son cose nuove; e nondimeno completano le antiche, ispirandosi più o meno a idee romane. Quelle sulla legittimazione ricordano troppo da vicino una for- mola di Cassiodoro per dubitare che non sieno d'origine ostro- gota.

Del resto, sebbene i nuovi frammenti ci paiano una revi- sione dell'editto di Teodorico, non crediamo che sieno di que- sto re. E ciò per due ragioni. La prima : che non sembra ve- rosimile che Teodorioo stesso, a pochi anni di distanza, siasi fatto a rivedere Topera sua. La seconda: che un frammento, ricor-

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-se- dando l'editto, gli il nome di Edictum regis, espressione che Teodorioo non avrebbe usato se si fosse trattato della sua legge. Piuttosto crediamo di doverle attribuire ad Atalarico ; e a que- sto proposito ci risovviene dell'epilogo di altre dello stesso re I (Var. IX, 18), dove si allude a leggi, che pubblicò e confer-

r mò, ma di cui non abbiamo più precisa notizia. D'altra parte

L Atalarico poteva ancora occuparsi di legislazione ; mentre i suoi

I successori, frammezzo ai pericoli, che ne minacciarono il trono, e

alle battaglie che combatterono per sostenerlo, non ne ebbero - l'agio. Molto meno si sarebbero ispirate a idee romane, come

fanno queste in gran parte, perchè l'elemento nazionale barba- \ rico aveva, in quei tempi, alzato la testa e reagiva. voglia-

mo trasandare, come un principio, simile a quello sancito dai frammenti in odio ai giudici che si fossero lasciati corrompere, f, si trovi appunto nell'editto di Atalarico contro i giudici negli-

f' genti verso gli invasori di beni altrui: l'una legge e l'altra li

vogliono puniti con la perdita dell'ufficio e con una ammenda da pagarsi al fisco. Vi spira dentro e vi si sente come un'aria r di famiglia, tanto più osservabile in quanto si trova in una

' disposizione, che fa addirittura ai pugui col vero diritto visigoto,

i Quanto agli altri frammenti scoperti nella Yallicelliana, è

; mestieri avvertire prima di tutto, come il manoscritto che li con-

tiene sia un vero centone di roba, e i frammenti stessi appar- , tengano a leggi diverse. Si comincia con una cattiva e inter-

polata versione del titolo dell'Ecloga di Leone Isaurico e di k Costantino Copronimo ; indi segue un capitolo, che, a prescindere

j; dalle glosse già penetrate nel testo, concorda perfettamente con

un capitolo dell'editto di Teodorico ; poi un altro che ne ripro- duce alla lettera uno della Summa perusina; poi due della legge visigota; poi un capitolo che già nelle parole: volumus atque ^ iubemm, e in quelle altre : quarta sicut in mog{incap) futi inchoa-

ta, rivela l'origine franco- longobarda ; infine un capitolo de tubi- l lii8 d'ignota provenienza.

Y Naturalmente i soli capitoli che interessano sono i due visigo-

ti, perchè il Qaudenzi, questa volta, ne deduce una dimostrazione [ diretta per la sua tesi, che si debbano, cioè, attribuire ad Eurico.

Ma veramente solo il frammento 3 riproduce di certo la Lex Wis, VI, 1, 8, senz' altra differenza che nelle parole vel amicos, ag- giunte in più, e nel latino più barbaro, proprio dell'età dell'ama-

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nnense. Inveoe il fr. 4 può far luogo a qualche dubbio ; perchè, sebbene corrisponda alla Lex Wis. Y, 6, 1 e anche alVAntiqua del Blohme, presenta una differenza importante. Il frammento & il oaso di ohi abbia preso a custodire un animale : se questo muore o si perde, egli ne risponde senza più; e invece tanto V Antiqua quanto la Lex distinguono, se il guardiano abbia o no stipulata una mercede per la custodia. Il Gaudenzi dice: chiaro che la distinzione del deposito gratuito e non gratuito dovè introdursi nel diritto visigoto tardi, e che quindi la nostra disposizione ohe non la conosce deve essere più antica di que- ste dove fu introdotta E anche TEsmein, plaudendo e cotesta dimostrazione, ritiene per quasi assodato, che la distinzione sia il prodotto di una giurisprudenza più raffinata e più sviluppa- ta. Ma non si badò ad una cosa d'importanza capitale: che, cioè, il frammento in discorso, più ancora che eAV Antiqua del Bluhme, si accosta alla Lex e ne riproduce in gran parte la le- zione, salvo in due o tre parole che sostituisce con altre. ^^ Se il frammento fosse di Eurico, come vuole il Gaudenzi, e rappre- sentasse la lezione originaria, si avrebbe questo singolare risul- tato : che V Antiqua del Bluhme, di molto posteriore, secondo il Gaudenzi, l'avrebbe completata, distinguendo le due specie di depi^sito, ma mutandone qua e le parole, mentre la Lex^ pur accettando la distinzione delV Antiqua^ sarebbe dopo due secoli ternata alla lezione primitiva. Evidentemente Tamanuense ebbe sott'ocohio la Lex; e, data questa ipotesi che per noi è certa, il frammento non può essere di Eurico. Si aggiunga, che l'argomento desunto dalla maggiore semplicità del frammento, in confronto, sia deW Antiqua del Bluhme, sia della Lex, potrebbe anche regge- re, se fosse vero che i frammenti del palinsesto parigino apparten- gano alla legislazione di Leovigildo, come pensa il Gaudenzi, o di Reccaredo, come sospetta il Bluhme, ma non avrebbe il benché menomo valore, se invece si accetta la dimostrazione, data più su, che sieno da attribuire ad Eurico. Perchè già V Antiqua del Bluh- me determina la responsabilità del custode, distinguendo se ab- bia o no stipulata una mercede pel servizio che presta: essa rap- presienta appunto quello stadio che il Gaudenzi considera come il

** In rm»l0diam 9U9C€perii inveco di comniendata tusceveral, che del resto si tn»vm «ne ho neWArUiqua: e animai perdita tit in luogo di animai niorU rofMum* ftmm tk, che ricorre piuHimente tìqIV Antiqua,

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prodotto di una giurisprudenza avanzata. Sicché bisogna ve- dere se non vi sia qualche altro modo di spiegare come avvenne cbe al frammento della Yallicelliana manchi la distinzione tra custodia gratuita e non gratuita ; e crediamo che la cosa non presenti diffi- coltà. Il frammento, pur essendo una riproduzione della Lex^ ne è una riproduzione mutila : l'amanuense ne saltò qua e intere righe ; e a persuadersene basterebbe mettere i due testi di fronte. Inoltre c'è una frase: nec ab ilio aliquid requircUnr, la qnale, richiamando di necessità un altro nec, che sta veramente nella Lex, " ma che manca nel frammento, prova con tutta certezza che qualche cosa venne omesso. L'amanuense è còlto qui come in flagrante.

6. Non parliamo della legislazione, che segue immediatamen- te bIV Antiqua, perchè non presenta caratteri nuovi. Ricordiamo solo di passata alcune leggi di Sisebuto (612-620) contro gli Ebrei, una di Swintila (621-631) sulla tutela e sulla esposizione dei figli, e le deliberazioni del quinto concilio di Toledo (636), accolte poi nel diritto visigoto.

6. Un'era nuova comincia con Chindasvindo (641-662). Sappiamo già che il suo scopo era di avvicinare sempre più i Goti e i Romani e farne un solo popolo : perciò indirizzò le sue leggi a tutti indistintamente e ne pubblicò molte su argomenti cosi diversi, che potrebbe quasi dirsi che obbedisse ad un sistema ; ma non pare che attendesse anche ad una nuova revisione di tutto il corpo delle leggi, e si contentasse piuttosto di aggiun- gerle come Novelle alle più antiche. La sua opera fu poi com- pita da Reccesvindo (649-672), il primo re cattolico della Spagna.

Egli regnò quattro anni insieme col padre e venti da solo, e fu davvero un grande legislatore. L'idea che più lo preoccupa, appena rimane padrone del trono, è di condurre a termine la fusione dei due popoli, non esitando neppure davanti ad una revisione di tutto il materiale legislativo esistente. E vi pone mano subito. Il nuovo corpo di leggi, che si conosce col nome di Lex Wisigothoruni Reccessvinthiana, fu pubblicato nel 664, nel secondo anno dalla morte del padre. Lo dice egli stesso nella patente di pubblicazione: Leges in hoc libro coscripta^ ab anno secando bonae memoriae domini et genitoris mei Ghindasvindi A*e-

" Essa dice : nec ille mcrcedem aecipi^if nec ah ilio aliquid requiralur.

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gi9. . . consacramm; e lo conferma anohe altrove : ormai le cause già decise secondo le leggi, che vigevano dal primo anno del svu> regno in «<«, non dovevano risuscitarsi ; per non dire che an- che il registro dei re, aggiunto ad un manoscritto della legge visigota, termina col secondo anno di Beccesvindo.

Non si trattava però di una legislazione affatto nuova. Bec- cesvindo stesso avverte, di aver conservato molte leggi antiche e altre di suo padre; ma alcune ne cassò, che gli erano sembrate non conformi ad equità ed arbitrarie, altre ritoccò, e ne aggiunse anche di sue col consenso dei santi sacerdoti di Dio e degli offici palatini. Infatti molte vanno sotto il nome di Antiqua, e sono di gran lunga più numerose; quelle più recenti, cominciando da Reccaredo, portano il nome del re che le pubblicò, e di queste il maggior numero spetta a Chindasvindo e a Recce- svindo.

La legge ò ordinata sistematicamente in dodici libri, che alla lor volta si suddividono in titoli e capitoli (erae)^ forse sul- l'esempio dei codici degli imperatori romani; e pubblicata che fa, tutte le altre leggi cessarono. Beccesvindo dice che nessuno doveva quinc' innanzi preseniare ai giudici altro libro che il suo, sotto pena di trenta lire, ammenoché non fosse a sostegno delle cause |>a88ate.

Le stesse leggi romane se ne risentirono. Libero a chiunque di studiarle; ma non doveva usarne ad negotiorum diseuesionem^ cioè nei tribunali. Si compiva cosi la fusione dei due popoli; e perfino la Chiesa, che pur viveva dappertutto con la legge romana, si acconciò a quella dei Visigoti. Cominciando da que- sti tempi non v'ebbe che un solo codice e un solo popolo; ma non può dirsi che il diritto romano sia stato balzato di seggio. Abolito il Breviario, bisognava pure riempiere le lacune lasciate da e^0o e avere riguardo, più che non si era fatto, ai principi del gius romano. E Beccesvindo vi provvede, prendendoli diretta- mente dalle leggi romane o dai canoni dei concili spagnuoli, che già prima, e in più occasioni, si erano inspirati a quelle fonti della sapienza antica. Si può dire che non vi sia parte della Lex Wisigatk^iém, che non si risenta di questa nuova necessità dei tempi: di 593 leggi, ohe vi si contengono, circa un sesto è tolto dal Codice teodosiano o dal Breviario di Alarico.

Altre leggi furono pubblicate da Wamba (G 72-630), Erwige

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(680-687), Egicas (687-701) e Witica (701-710); e abbiamo an- che due nuove correzioni.

Una è di Erwige, che, al pari di Beccesvindo, la pubblicò nel secondo anno del suo regno (682), ed egli stesso la presenta come tale. In realtà è un completo rimaneggiamento, sia del codice di Reccesvindo, sia delle leggi di Wamba, perchè ne fece togliere qua e le ridondanze, e d'altra parte v'interpolò una quantità di minuti particolari, e anche vi aggiunse qualche legg:e propria, per es. contro gli Ebrei, da lui ricordata con speciale predilezione. La cronaca di re Alfonso dice a proposito di que- sta correzione: Post Wambanem Ervigias re^mm obtinuit, quod tyrannide sumpsit, Multos sinodos egit legesque a decessore suo editas ex parte correxit et alias sub nomine suo adnotare pre- cepit

Una seconda correzione è di Egica; ma egli batte un'altra strada e non riconosce Topera di Ervige. Il corpo delle leggi era stato deturpato da questo re; vi erano state introdotte molte cose superflue e anche leggi non giuste: perciò si rivolse nel 693 al concilio di Toledo perchè rivedesse cuncta quae in canoni- bus vel legum edictis depravata consistunt aut ex superfluo vel in* debito coniecta fore patescunt, riducendo tutto a verità. Voleva però rispettate le leggi pubblicate dal tempo di Chindasvindo fino a Wamba; sicché, in fondo, erano quelle di Ervige, che si trattava di rivedere. Le leggi ingiustamente eliminate, dove- vano rimettersi, ed egli stesso ne Tesempio, ripristinandone una che proibiva di mutilare i servi. Probabilmente Ervige l'ave- va soppressa.

7. La legislazione visigota si distingue caratteristicamente da tutte le altre considerate finora: e per più riguardi.

Anzitutto, è il primo e più grande tentativo di legislazione generale, che i popoli germanici abbiano fatto. I re visigoti non attesero solo a mettere in iscritto le consuetudini della loro gente : anzi il maggior contingente è fornito da costituzioni promulgate da essi stessi insieme coi loro maggiorenti, ecclesiastici e secolari, o dai canoni dei concili di Toledo. La loro preoccupa- zione fu di dettar leggi per tutti i casi che potevano presentarsi ; e a persuadersene basta gettare uno sguardo, anche fuggevole, all'in- dice dei libri. Il I tratta del legislatore e della legge ; il II del- l'ordinamento giudiziario e della procedura ; il III del matrimo-

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nio ; il IV della parentela e delle successioni ; il Y dei contrattala il VI dei reati contro la persona e delle pene ; il VII del furto e della falsificazione delle monete ; T Vili dei reati contro la pro- prietà ; il IX degli schiavi fuggitivi, del rifiuto del servizio mi* litare e del diritto d'asilo; il X delle divisioni, della prescri- zione e dei termini; l'XI dei medici, della violazione dei se- polcri e del commercio marittimo; il XII degli eretici e degli ebrei. il giudice doveva avere altra norma nel giudicare. (Questa legislazione, che vuole ingerirsi di tutto e regolar tutto, non gli poteva permettere di statuire da circa i punti ch'essa non aveva previsto ; e lo dice espressamente : nei casi non previsti rimandi le parti al re.

Inoltre essa racchiude tutto un sistema di filosofìa. E prece- duta e intercalata qua e da dissertazioni sull'origine della so- cietà, sulla natura del potere, sulla organizzazione civile, sulla formazione e pubblicazione delle leggi. Per es. il primo libro, proso in parte dalle Origines di Isidoro, si compone di prìn- cipi dottrinari sulle leggi e sul metodo di legislazione. E insie- me vi si trova tutto un emporio di esortazioni morali, di minacce, di consigli, e lunghe considerazioni sulla necessità di repri- merà gli abusi, che si spiegano facilmente, per poco si pensi, che la legislazione visigota è in gran parte l'opera del clero e dei concili di Toledo, intorno a cui si rannodavano il princi- pato, Taristocrazia laicale, il popolo, tutta la società.

Non v'ha dubbio: ciò che per i Franchi i campi di Marzo, erano i concili di Toledo per i Visigoti; e ciò spiega innanzi tutto perchè, mentre le altre leggi popolari accettano tuttavia alcune garanzie proprie dell'antica società germanica, specie la («otecipazione degli uomini liberi alla cosa pubblica, invece la Ifgge visigota non le riconosca. La società visigota, sprovve- iluta di garanzie, è abbandonata da un lato al clero e dall'altro al reame ; e una vasta amministrazione, parte ecclesiastica, parto imperiale, si stende su di essa. Specie la intolleranza con cui la legge perseguita gli ebrei, ò tutta propria dello spirito ec- clesiastico: si direbbe quasi una mania di vendetta. E anche la penalità ha un carattere molto rigido. Ma dall'altro lato il fine, che la legge si propone, è più elevato, più complesso di tutte le altre leggi: essa intende meglio gli interessi della so- cietà e i doveri del governo.

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E anche la lingua ha la sua impronta caratteristica. Lia bella semplicità, a volte impacciata, che abbiamo scòrto in altri co- dici, si trova ancora nelle vecchie leggi visigote ; ma essa cede un po' alla volta il passo alla rettorica. La cancelleria degli ultimi re ebbe la cattiva ispirazione di prendere per modello Giustiniano e il fraseggiare pretenzioso delle sue costituzioni; e riesci ad uno stile tronfio, pieno di frasi e di parole inutili, e anche vaghe, sicchò ci si raccapezza male, e a volte si dura fatica a coglierne o precisarne l' idea. Il Montesquieu, badando appunto più alla forma che alla sostanza, disse trattarsi di leggi puerili, idiote, che non colgono il segno, piene di rettorica e vuote di senso, frivole nel fondo e gigantesche nello stile. Ma è un giudizio ingiusto.

8. La legge stessa comprovò la sua efficacia anche dopo che gli Arabi ebbero distrutto il regno dei Visigoti, sia nelle Provincie del Nord, ohe sfuggirono all' invasione, sia al Sud della Francia, nella Settimania o Gozia. Nel secolo XH essa godeva ancora di tanta importanza, che Ferdinando III, re di Castiglia e di Leon, ne fece fare una traduzione in lingua castigliana per Cordova e la pubblicò col nome di Fuero de Cordova. Non vo- gliamo però dire che essa sia riescita ad imporsi in tutto e per tutto; almeno ci sono dei Fueros del secolo XII, che permettono di dubitarne. Quello di Daroca riconosce ancora il combatti- mento giudiziario, nonostante che il sistema di prove accolto dalla Lex fosse ben diverso. Già V Antiqua voleva che prima fos- sero interrogati i testimoni e poi si esaminassero i documenti: non ammetteva neppure il giuramento che in via eccezionale; ma la vecchia consuetudine ha resistito!

P. - LA LBX BURGUNDIONUM. ^*

1. I re borgognoni, che piantarono la loro signoria nelle Gallio su territorio romano, han pubblicato leggi a più riprese, non solo per i Bomani soggetti alla loro dominazione (vedi p. 48), ma anche per i Burgundi. La Lex Burgundionum è appunto un codice di diritto barbarico, destinato pei Burgundi, e anche

" Bibliografia. Tùìk, Forachungen aif dem GeòUie der O^chichU, II, Boatock, 1892, p. 21 segg. Savign-Yj Getch. des R, R, im MA,, 2^ ediz., Heidelberg,

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pei Romani nelle loro relazioni oon essi, donde il nome di Lex imter Burgundiones et Romanos. Altrimenti ò detta Liber con" tditutionum, Liber tegum GundóbaU, Liber Gundobati, Lex Gun- dàbada; e non pare nemmeno che sia un lavoro di getto. Ne possiamo distinguere più gruppi, differenti tra loro, specie per ciò che riguarda la forma; il che farebbe supporre che fossero nati in tempi diversi.

Una prima parte va sino al titolo 41, e si distingue per la forma arcaica, piuttosto asciutta, con scarse traccio d' interpola* sioni o rimaneggiamenti. I titoli cominciano per lo più con le parole : Si quis, Quicumque e simili. Invece la lingua dei titoli 42-88 è un po' prolissa: vi si nota una certa tendenza a dare la ragione della legge, e non mancano frequenti richiami o accenni a disposizioni anteriori. Molte leggi sono addirittura mutamenti u rimaneggiamenti di altre più antiche : alcune portano la data. Nei titoli, che seguono, dall' 89 al 109, abbiamo più leggi anti- quate, andate in disuso, mescolate ad altre di Gundobado, di Sigismondo, e alle decisioni di un'assemblea di Ambérieux dei tempi di Oodomaro, che fu l'ultimo re dei Burgundi: un cen- tone di roba, ohe probabilmente non ha mai formato parte della Ltx^ ma che gli amanuensi vi aggiunsero nell' intento di darci più completo il materiale giuridico esistente.

La legge contiene anche due prefazioni.

l£0i, IT, p. l Mgff. ; Vn (Merkel)jj>. dOsegg. OxvrFjDie germ, Antiedlungen »*. Lamdt.htilmngen, firéftUa, 1844, p. 296 Begg. Matile, Elude» $ur la loi GomòcUv^ n*Ue -Memorie deirAoóad. delle scienze di Torino « serie li, tomo X, 1B47. P&rmt, Loi* de Bourguignons, vulgairevierU nominéet Loi OonibeUe^ traduUe», 1U[>;>. Btrinir, Dos icestharg, Rfiek, u. Rechi nel "Jalirb. dee gem. d. B. « I* l^'>^i p. «9 ««gir. ; II, IHBK, p. 197 segg. Lo hXFsso, Der burgund, Reichétag zu Amim- n^ax, r. J. 5o/ nel perìodioo cit., V, 1862, p. 207 segg. Lo stesso, Prefaziouo aIU soa edis. dell* Lefirge. Lo stesso, l}ie neuesie Ausgctbe der leso liurg. nella Uietor. ZeiUchr. di Sybel , XXI, p. 1 segg. Hobè, Ilitloire de la formalton <U la loi bourguigmonne, nelU BoTue nistor. de droit fr»n<?. et 6tr. « XIII, lfit>7, p. AB segg. BiBDUio, Da$ burgìmditehromanisehe KOnigreich, Leipzig, 1^>^

XXI. l!f3B^ p. 1 segg. Jaiik, Die Geech. der Rurgundionen bi* zum Ende der er- gtitn Ugnamu^ 2 toI., Halle. Darkstb, La loi OomòeUe, nel ** Journal des saTants ., :axUo, UBI. Bi>rA, Legge Uondebada (''Digesto iuliano, voi. XII). Von Halban, iÀoe r*9m. Rechi in den germ. Votkselaalen^ voi. I, Breslau, 181)9. Edizioni. So- irnaiiaino le adizioni vecchie del Du Tiixet, del Hkrold, del Lini>kxhrucii. A' di DO0tri fa pubblicata con maggior corredo critico dal Bluiimk nei * Mon. <i«rm.« Legee IH. 1862, dal Bixnikfi nelle *Fontes rerum Bernensium^ I, 1K8) altimamente dal Db Salis nei * Mon. Oerm. hist. » Leguni soctio prima 11^ l. Ì99J. Il VALK3iTi!i-S)iiru sta attendendo ad una ediziono integrale di tutti i <-»lici noti delle costituzioni bon^ognone col titolo: La loi (iombcUe^ lUproduelùm de tome Ice mamueerile^ Paris, IHK) segg.

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La prima è breve e merita di essere riferita: Vir gloriosi^- ^imus GundobadtM rex Burgundionum. Cum de parentum no- strisque constitutionibìis prò quiete et utilitate populi nostri im- pensitis cogitemus, quid potissimum de singulis causis et titulis honestati, discipline, rationi et iustitie conveniret, et coram positis óbtimatìbus nostris universa pensavimus, et tara nostrani quam eorum sententiam mansuris in evum legibus, sumpsimus stattUa perscribi.

La seconda è piuttosto langa, e si chiama appunto prefazione maggiore per distinguerla dall'altra ; ma veramente è una prima ConstituHo, Comincia con le parole : In dei nomine anno seeun- do regni domini nostri gloriosissimi Gundobadi (secondo altri, Sigismundi) regis liber constitutionum de praeteritis et praesentibus atque in perpetuum conservandis legibus, editus «uft die IV, (alias III) Kal. Aprii, Lugduni. Passa poi a stabilire norme per la imparziale amministrazione della giustizia, inculcando ai giudici di attenersi alle leggi composte e corrette di comune accordo nel giudicare tra Burgundioni e Bomani, senza sperare o ricevere premi da chicchessia, o lasciarsi corrompere, sotto pena del capo ; salvo ad osservare la forma prioris legis per le cose giudicate male in addietro. Altre pene mirano a colpire la ignoranza o negligenza ; ma nessuno doveva rivolgersi al re pri- ma di aver interpellato il proprio giudice per tre volte. Gli stessi tribunali dovevano essere composti di Burgundioni e Romani e altrimenti non erano validamente costituiti. Il re conchiude dicendo, essergli piaciuto che queste sue Cónstitutiones fossero firmate dai conti, ut definitio quae ex tractatu nostro et communi omnium voluntate conscripta est, etiam per posteros custodita per- petuae pactionis teneat firmitatem. Infatti seguono le firme di trentun conti.

2. Ma quand'è che la legge è stata pubblicata e da chi ? La prefazione nota soltanto, che lo fu il 29 o 30 marzo a Lione nel secondo anno di regno di un re, che la maggior parte dei ma- noscritti dice essere stato Qundobado ; ma la cosa non è certa.

Noi crediamo che autore della Lex, quale ci è pervenuta, o almeno della maggior parte di essa, sia stato veramente Qundoba- do, che regnò dal 474 al 499 insieme coi fratelli, e dal 600 al 616 da solo, per uno spazio di oltre quarant'anni. Perciò la legge s'intitola appunto Lex Gundobadi, Lex Gundobada, Lex Goniba-

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t4i ; e altrimenti non si saprebbe spiegare perohè ne dovesse por- tare il nome. Gli stessi Borgognoni, che vivevano con essa^ I erano detti Ountbodingi e Gundobadi. Ma non vorremmo aS'ar- ' mare che il Libro delle Costituzioni, quale noi lo possediamo, non avesse precedenti, e non abbia subito in seguito qualche modi- ficazione.

La prefazione minore dice chiaramente, che esistevano già leg- gi di Gundobado stesso e de' suoi predecessori, anzi più propria* mente un corpo di leggi diviso in titoli, e ricorda che il re vi era tornato su co' suoi ottimati, per la tranquillità e utilità del popolo, esaminando causa per causa e titolo per titolo. In so- stanza doveva essere una revisione molto ponderata. Così del pari la prefazione più lunga accenna al fatto, che il nuovo codice fosse, almeno in parte, la revisione di altre leggi, e propriamente di una Lex prior che il re emenda col consenso dei maggio* renti. Anche Gregorio di Tours fa capire che già prima i Bur- gundi avevano avuto leggi. Ma possiamo andare più in là, e ritenere che parecchi dei primi 41 titoli, cosi diversi dagli al- tri, spettino ai predecessori di Gundobado. Certo, le costitu- zioni, che questo re chiama costituzioni dei suoi parente^, ayraa- I no avuto una forma più arcaica. Comunque, deve avervi ap- partenuto il titolo 17, 1, che dichiara abolite tutte le cause tra i Burgundi che non fossero finite usque ad pugnam Mauriacen^ Mem, cioè fino alla battaglia di Chàlons, che si combattè nel- Tanno 451. Si trattava di metter termine ad uno stato incerto di cose sulla base dei fatti compiuti e inaugurare unVra nuova, precisamente come fece poi Eurico pe' suoi Visigoti*

E potremmo anche ricordare alcune leggi, che pur esiste- vano, ma che Gundobado tralasciò, certo perchè non ei atta- gliavano più alle mutate condizioni dei tempi. La prefazione più lunga lo fa subito intuire: Gundobado esaminò ciò che pò- !

teva convenire all'onestà, alla disciplina, alla ragione, alla gin- I

«tizia, e questo accettò: il resto respinse. E le stes^se costitu- ^

zioni accettate, subirono delle mutilazioni. In generale^ non 1

ne accolse che il precetto, omettendone sia la ragione giuridica, J

»ia ciò che poteva aver l'aria di consiglio, e anche la data. Le I

leggi 90, 92, 97 e 98 sono certamente leggi antiche, ma non trovarono posto nel codice di Gundobado. E non v^è luogo a rammaricarsene. La legge 97 contempla il furto di un veltro o ^

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segugio: il ladro doveva baciarne le parti deretane davanti al popolo nell'assemblea, o pagare cinque soldi al padrone e due a titolo di multa. La legge 98 provvede al furto di uno spar- viere : il ladro pagherà sei soldi al padrone, più due di multa, o lascierà che l'animale mangi sei oncie di carne sopra il suo petto.

Ciò che, a nostro avviso, distingue la nuova legge dalle altre si è, che questa, oltre a riveder tutto, vuol provvedere a tutto, con uno studio complesso e più attento ; quindi corregge e aggiunge. Ciò risulta dal titolo 42. Già prima si era pensato alle eredità di coloro che morissero senza figli, ma Gundobado vi toma sopra adesso che vuol trattare di tutto più accuratamente: tamen nunc inpen9ÌU8 universa tractantes iustum esse prospeximus ut aliqua ex his, quae ante praecepta fuerant, corregantur. Lo scopo del legislatore, espresso nella prefazione, di voler rivedere le leggi precedenti, ricompare anche qui; ma insieme esso accenna ad una revisione completa dell'intero materiale giuridico: vuole ri- farsi con più studio, non già su questa p quella parte, ma su tutto. E lo stesso intendimento rivela la legge 74, 1. Il legi- slatore ricorda una costituzione, che aveva già provveduto alle vedove; ma la modifica adesso, che voleva rivedere tutto, coi suoi ottimati. Ne risulta chiaro che era la prima volta che esso attendeva ad uno studio complesso di tutto il diritto. Nondi- meno Gundobado stesso ha preveduto che qualcosa gli sarebbe sfuggita ; e già nella prima costituzione ordinò ai giudici di ri- volgersi a lui ogni qualvolta si presentasse loro un caso che la legge non contemplasse. La prefazione più lunga, e anche Gregorio di Tours, accennano più specialmente allo scopo, che egli si era proposto, di dar leggi più miti ai Burgundi perchè non opprimessero i Romani.

3. Un'altra questione è di sapere quando propriamente sarebbe avvenuta la pubblicazione del nuovo codice ; ma a que- sto proposito non possiamo fare che conghietture.

L'unica cosa, che vorremmo asserire con sicurezza sulla fede di Gregorio di Tours, si è che la redazione deve cadere nel tempo in cui Gundobado tenne il regno da solo, cioè dopo il 499. Fu allora che egli diede leggi miti ai Burgundi ne Roma" nos óbpraemerent ; e il Liber constitutionum non fa mistero di co- testa preoccupazione del re, quando vuole composti i giudizi di Burgundioni e Romani, e inculca ai giudici di attenersi alla

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I^p^e nel giudicare tra gli uni e gli altri, ita ut nullus aliquid de causis et iudiciis praemii aut commodi nomine e qualibet parte éperei aut praesumat accipere^ sed iustitiam, cuius pars meretur, iMtneat et sola sufficiat integritas iudicantis. Ma quanto tempo pi bara oorso prima che fossero pubblicate? Non possiamo dirlo con certezza; ma forse fu nel secondo anno del Segno, cioè nel b^'^l : a«a questo proposito possiamo rimandare alla notizia som- mi .iistrataci dalla prefazione più lunga e alla legge 42; perchè, m*^:itre la prefazione dice, che il Liber constitutionum fu pub- blicato anno secundo regni domini nostri gloriosissimi Gundobadi {nm parliamo della data, oltremodo sospetta), la legge 42 fu pubblicata veramente il 3 settembre 601 nell'assemblea di Am- bt-n-ux.

A nostro avviso questa legge è decisiva; ma non possiamo uttscondere che altri ha sollevato dei dubbi; che importa di esa- ni loare. A detta del Brunner, essa si riferirebbe al tit. 24, 1 e 2, come a priorts leges, che vorrebbe corrette; e se le cose -te>sero veramente in questi termini, non potrebbe avere appar- tt-i.ato alla redazione originaria. Ma noi ne dubitiamo.

La legge 42 parla certamente di priores leges, che intende di correggere; ma tali erano le leggi anteriori, sia dei parentes ili (iundobado, sia di Qundobado stesso, e non la legge 24, 1 e "2, i>er la ragione molto semplice che questa si occupa di materia adatto diversa.

La legge 42 comincia col disporre che la vedova, la quale ser- bava fede al marito defunto e non aveva figli, doveva posse- dere sicuramente la tertia totius substantiae mariti, finché vive- va; ma dopo la sua morte tutto tornava agli eredi del marito. E continua (omettiamo per un momento un inciso, su cui tor- neremo subito): ** Perchè se vorrà maritarsi entro Tanno del lutto potrà farlo, ma dovrà lasciare la tertia substantiae pars, che già poesedesse; e anche se prenderà marito dopo un anno o due, dovrà, come s'è detto, lasciare ogni cosa che tenesse del primo marito, e il prezzo per le sue nozze lo riceverà l'erede stesso ,|.

Ma la legge 24 non contiene nulla di tutto ciò: invece parla della donatio nupOaUs e ne dispone nel modo del codice teodosia- no. Emì contempla il caso che una donna burgundia, rimasta ve- dova, passi a seconde o terze nozze, et filios ex omni coniugio

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habuerit: le spettava l'usufratto della donatio nuptialis finché viveva; ma dopo morta, tutto tornava ai figli, senza che po- tesse donare, vendere o alienare nulla delle cose ricevute a ti- tolo di donazione. Se poi non aveva figli, si forte filios mulier non hdbiierit, la donatio nuptialis cedeva, alla sua morte,- per metà ai parenti di lei e per metà a quelli del marito defunto.

Le differenze non potrebbero essere più spiccate : l'una legge non ha proprio a che fare con l'altra, e possono stare entrambe nello stesso codice senza punto escludersi : Puna parla della do- natio 7iuptialis, l'altra di un diritto ereditario della vedova su- perstite sui beni del marito defunto. Anzi è probabile ohe nes- suno avrebbe neppur pensato a scorgere nella legge 42 una cor- rezione della legge 24, se la prima non contenesse quell' inciso, che abbiamo saltato nel riprodurne il contenuto, ma su cui vo- gliamo ora soffermarci.

L' inciso è questo : De morginegiva vero quod priore lege sta- tutum est permanebit; ma il Brunner, e anche altri, che ne fanno caso per conchiudere che la legge 42 non può apparte- nere alla redazione originaria, non posero mente al fatto» che questa famosa legge 42, appunto con quelP inciso, non intese in nessun modo di correggere la legge anteriore, ma di confer- marla. La legge 42 non si occupa che della tertia; e tutto ciò che nella prior lex, cioè nella legge 24, era stato stabilito in- torno alla donatio nuptialis, ohe sarebbe appunto la morginegiva, doveva restar i&raio^ permanebit. Dopo tutto, quell'inciso somi- glia molto ad una glossa introdotta nel testo ; ma, pur ammesso che si trovarsse nella costituzione originaria, non ha meno il ca- rattere di una parentesi. Q-undobado comincia dal parlare della tertia^ che assicura alla vedova, purché non passi a nuove nozze, e dopo quel breve inciso, torna sull'argomento, determinando anche meglio che cosa doveva avvenire se la donna aveva già cominciato a possedere quella tertia e poi si fosse rimaritata: il possesso non le doveva giovare, e in ogni caso lasciava le cose possedute. L'errore del Brunner è di aver creduto che la legge 42, dopo aver enunciato cosi solennemente che tutto ciò che si riferiva alla morgengaòe doveva rimanere com'era nella legge precedente, avesse poi finito col correggerla.

Per parte nostra, non mettiamo dubbio che la legge 42 appartenga alla redazione originaria di Gundobado; per la ra-

^Piipwi^?^»^

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gione principale, ohe essa acoenna appunto al proposito formato ailora di trattare tutto più accuratamente. La frase : tamen nunc impensiwt unioersa tractantes, non può riferirsi ad una costitu- zione isolata, bensì a tutto un corpo di leggi, di cui essa forma parte : altrimenti non avrebbe significato. Inoltre, essa esclude che 8*abbia a fare con cosa passata : il proposito di Gundobado, di trattare tutto con più ponderazione, è vivo e attuale, e le sue stesse parole fiinno fede di averlo egli concepito in quel momento. Insieme, merita osservazione la circostanza, che la legge è la prima del nuovo gruppo, cosi diverso dall'altro, di carattere piuttosto arcaico: o vorremmo dire che ciò sia avvenuto per caso?

4. Invece, non crediamo che altre redazioni dopo quella di Gundobado si siano avute, e contraddiciamo con ciò all'opi- nione dominante, la quale ammette l'esistenza di una nuova re- dazione di Sigismondo del 29 marzo 617. In sostanza essa non si fonda che sulle parole della prefazione, la quale, secondo alcuni codici, attribuisce la legge al secondo anno del regno di Sigismondo, che sarebbe appunto il 617, suo die- IIII Kal, Apr, Nondimeno è vero, che la redazione di Gundobado non è arri- vata fino a noi quale usci dalle mani di questo re. Lo stesso Gundobado e Sigismondo pubblicarono poi altre costituzioni. E p>tremmo anche additarne alcuna, che riusci perfino a trovar posto nel codice dopo ch'era stato compilato: per es. due di Gundobado del 613 e del 616, e altre di Sigismondo del 617; ma se vi entrarono, fu solo per opera degli amanuensi che le sostituirono ad altre leggi anteriori.

6. La legge ha un carattere che la distingue da molti altri diritti barbarici. Anch'essa, al pari di quella dei Visi- goti, non è più una semplice raccolta di consuetudini, ma un'o- parm di legislazione, dovuta ad una potestà regolare e ispirata ad uno scopo d'ordine pubblico, con l'intendimento di abbrac- ciare tutto il diritto e dare al giudice una norma per tutti i casL È riuscita cosi una legislazione molto ampia. E già de- gli ordini sociali si occupa a lungo, specie delle relazioni tra vincitori e vinti. La condizione di entrambi è uguale, e vi si scorge una certa cura, che potrebbe dirsi minuziosa, onde man- tenere i due popoli al medesimo livello. Altre disposizioni ri- guardano i reati e le pene; e sono notabili certi caratteri che

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le distinguono da quelle dei Franchi. Perchè vi troviamo bensì la composizione; ma accanto ad essa sonvi delle pene afflit- tive e persino delle pene morali; e i delitti sono più vari: ve n'ha meno contro le persone, mentre ne sorgono altri, che sup- pongono relazioni sociali più regolari e complicate. Parimente il gius civile e la procedura occupano molto posto, più che in altre leggi: press'a poco una metà degli articoli.

E anche la influenza romana è molta. Ma può spiegarsi, tra pel contatto continuo dei Burgundi coi Homani, viventi in mezzo ad essi, tra pel modo amichevole onde li trattarono : co- munque, merita di essere notata, sia perchè era passato ap- pena mezzo secolo dacché i Burgundi si erano trapiantati nelle Gallie, sia perchè non si rivela solo nella forma dei titoli^ che sono detti leges e constitutianesj e arieggiano lo stile delle leggi romane, ma anche nel contenuto.

Certamente il monarcato ha fatto, cosi, di grandi progressi. L' insieme della legge, la sua prefazione, il tòno, lo spirito con cui è redatta, ci avvertono ad ogni istante, che il reame è uscito dalla sua condizione barbarica per diventare una podestà pub- blica, onde a mala pena si scorgono alcune vestigia delle an- tiche assemblee; e anche la Chiesa e il clero si eclissano. In- vece prevale il monarcato, e si sforza di riprodurre la podestà imperiale, sicché parve a qualcuno, e forse non a torto, ohe questi re borgognoni avessero più compiutamente degli altri rac- colto l'eredità degli imperatori e regnato a somiglianza di essi. Ma anche il diritto presenta parecchie traccie di vera influenza romana; quali, le cause e le conseguenze del ripudio, il tratta- mento della donazione nuziale nel caso di vedovanza, i testa- menti, che si facevano alla presenza di cinque o sette testimo- ni, la prescrizione, la grande importanza data ai documenti. E se ne possono indicare le fonti : alcuni passi sono tolti dalle inter- pretazioni romane del quinto secolo ; mentre il modo, onde si vol- lero disciplinati i documenti, deriva dal diritto volgare romano. L'uso della inscriptio delle cause criminali, è pure una istitu- zione romana passata nella legge. mancano disposizioni di diritto penale romano, che si estendono ai barbari. Quando si dispone, e già dalle leggi antiche, che chi uccide un ingenuo del popolo, di qualunque nazione, o anche un servo del re, ma di nazione barbara, non possa comporre l'omicidio quam sanguinis

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sui effiisione, si stabilisce nuovamente un principio romano, dia- metralmente opposto alle consuetudini barbariche. E dWtra parte ci sono istituti di diritto germanico, che la legge estende ai Romani, perfino nelle relazioni tra loro; come a dire, il mun- dio del marito, il pegnoramento per debiti e il sistema dei con- giuratori.

6. Più tardi la Borgogna fu incorporata al regno dei Franchi, e nondimeno la legge non cessò di aver vigore. Sol- tanto subì un forte attacco per parte di Agobardo arcivescovo di Lione, che spronò Lodovico il Pio ad abolirla, specialmente perchè abusava del giuramento di purgazione e del duello giu- diziario propter mlissimas rea ; ma non se ne fece nulla. Biso- gnava che mutassero le condizioni del popolo^ perchè finisse anch'essa, al pari di altre leggi popolari, col cadere un po' alla volta in disuso; e nondimeno ancora una carta del 1055 p^rta una professione di legge borgognona: qui professus mun tx natione mea lege vivere gundobada, .

dd. L'Edictus Langobardorum^^

a - l'editto nella sua formazione e applicazione.

1. I Langobardi, anche dopo calati in Italia, continuarono ad e^ere governati dalie proprie cawarfede o consuetudini ; e solo più tardi si fecero a scrivere il loro diritto. Ma non tutto; e la 1

consuetudine mantenne tuttavia il suo impero accanto alla legi- "

i^lazi' ne scritta. Lo stesso Liutprando lo attesta in un luogo, accennando alle difficoltà che gli erano state sottoposte, e che non

*^ Bibliografia. Dx Vita, Thesaurus aniiquUcUum Beneventanorumf Ro- ma, IT^VI: diioorre doUe legrì dei principi langobÌEkrdi in tre capitoli. Pei cola, Storia civiU e jpoUtica del Hegno ai Napoli, Napoli. 1778, nuova ediz., Napoli^ L-*», Tol. I, lib. L FruAOALLi, Aniichilà longobardiche milanesi, voi. 4, MiUnOi

di Bollati con alcane aggiunte del Mkrkel, neUo ** Memorie e documenti ìtip-

diti «pattanti alla storia del dir. ìxaL noi M. E. ^ Torino, 1H57, e ancho ncl- r* Arch, «ter. ital. XV, 692 e nel voi. Ili della sua traduzione del Suvi^Tiy. Ds BoxiÉar, Mtmoirts sur Vhistoirt du droit des Lombardi, Pari», 1^01 (** Ho* cutf'il TAcAd. de lógislation^ XII). Bluhmr, Profazione aUa sua ediz. degli Editti nei Mon. Germ. » Leges IV. Bethmann-Hollweo. iJer Gcrmanisrht\i- m««MeA< CivUpro^ess im M, A,^ I, 821 segg., Bonn., 1068. Na.si, Studi sui ^iirit^ Um^obardof h Le fonti del diritto longobardo, Torino. 1877. Prela, // dir.Uo Um foh. negli usi e nelle eonsueludini delle città del Napoletano^ Caserta, Vc^l. Dk ##A«rAJKii| Sull'autorità del diritto rom. e longob, nell Italia meridionale diài iOÌ^

{

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aveva potuto risolvere, ne con la lettera dell'Editto, ne con la consuetudine. Altrove ricorda che le donazioni fatte sine lau- nigild aut sine thingatione erano nulle, nonostante che l'Editto non lo avesse dichiarato; ma cosi era stato giudicato costante- mente. Del pari i documenti accennano qua e all'u^o^ loci.

Del resto, le prime leggi furono pubblicate solo settantacinque anni dopo la conquista, e altre seguirono appresso, come lo richie- devano il bisogno, la [natura del suolo, il clima, le relazioni di vi- cinato. In generale si tratta di leggi o Editti, che si pubblicavano col concorso dei maggiorenti del Regno e del popolo, e di Notizie^ quali per es. il memoratorium de mercedibus commacinorum e la notitia de actoribus regis. A differenza degli Editti, le Notizie erano ordini o precetti o statuizioni del re, e duravano solo quanto la vita di lui, salvo al successore di riconoscerle, se non altro tacitamente.

2. Il primo a promulgare una collezione di leggi fu Rota- ri, correndo Tanno 643, e le dette appunto il nome di Edictus. Egli afferma di averlo ordinato cercando e rammentando le an- tiche leggi de' suoi padri, che non trovavansi scritte, e di essere venuto accrescendole col consiglio, non meno che col consenti- mento dei primati giudici e di tutto il felicissimo esercito, acciò potessero giovare all'universale di sua gente. Nondimeno si ri-

al 1194, Napoli, 1833. Zvnelli,^ Una legazione a Costantinopoli nel gecolo X. Contributo aUa storia dei rapporti tra VeUviento romano e il germanico del medio evo, Brescia, 1893. Schupfkr, Aldi^ Liti e Romani^ Napoli, Ì886 ("Enciclopedia giuridica italiana , del Vallardi). Del Giudice, Le traceie di diritto roiiutno nelle hggi longobarde, Milano, 1886-87 ("Rendiconti del r. Istitato lombardo serie III, voi. XVILL e XIX. Anche negli "Studi di storia e diritto , Milano, 1880). Lo STESSO, SiUle aggiunte di Rachis e di Astolfo all'Editto longobardo ("Rendiconti del r. Istituto lombardo, serie II, voi.' XXXV, 1902 . Calisse, Diritto ecclesiastico e diritto longobardo^ Roma, 18S8. Tamassia 6., Le fonti del- VEditio di liotari, Pisa, 1889. Lo stesso. Róviisches u, weMgothisches Rechi in Griinowalds u, Liutprands Gtsetzgebunjg ("Zeitschr. der Sav. Stift. f. RG. XVIII, 1, 1897). Lo STESSO, Il cap. XIX dt re Liittprando e i Digetti, Padova. 1901. Lo STESSO, La manomissione ante regem^ Padova, 1902. Kier, Edictus Botarù Studier verdroerende Longobardenes Nationalitet, Aarhus. 1898. Fickkb, Da* langob, u. die skandinanische Recìde ("Mitthoil. des Inst. t. oesterr. Geschichts- forschung XXII, 1901). Centra: Solmi, Diritto longobardo e diritto nordico (" Arch. giuridico ,, nuova serie, II» 1898^. Von Halban, X)<m ròm, Recht in den german, Volcksstaatcn, voi. II, Breslau, 1901. Neumeyef, Die gemeinrechtliehe Entwicklung des intemationalen Privai- u. Slrafrechts bis Bartolus. I. Die Geltung dcr Stammesrechte in Italicn^ Miìnchen, 1901. Bau di di Vesme, V origine romana del comitato longobardo^ e franco (nel " Bollettino storico-bibliografico subalpi- no „). Edizioni. Edictà regnm Langobardorum, ed. Bandi a Vesme, 1855 (nei •Mon. h. p. •; il testo ne fu ristampato da Neugebauer, 1885). Edictus Lango- bardorumj ed. Bluhme (nei "Mon. Germ.„ Leeres IV) Il Bluuhk stesso ne 'ri- stampò il testo in ottavo 1R69, e cosi il Padelletti nelle " Fontes iuris ital. ., insieme con la expositio 1877. Vedi anche Zachariae, Fragmenta versionis graecae legum Rotharis Langobardorum regis^ Heidelbergao, 1835.

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serva di aggiungervi tutto ciò che egli stesso e gli anziani po- tessero ancora ricordare delle antiche consuetudini langobarde. Insieme inculca e lo conferma per gairethinx, secondo il rito langobardo che la legge debba essere ferma e stabile, e che tutti i suoi sudditi la debbano osservare fermamente ed invio- labilmente nei felicissimi tempi suoi e nei futuri.

Cosi Rotarì intendeva di dare alla sua gente un codice abba* stanza completo: onde non solo fece raccogliere il diritto consue- tudinario, ma anche ebbe cura di colmarne le lacune, d'accordo coi maggiorenti e col popolo. E il codice riesci davvero qual era nella mente del legislatore. Contiene 388 capitoli disposti in un certo ordine sistematico, a cominciare dai delitti contro lo Stato e le persone, e venendo giù al diritto ereditario e al- Tordine della famiglia, alla proprietà e infine alla procedura. Però i capitoli 376-388 sembrano aggiunti più tardi, perchè non hanno alcuna relazione tra loro, e perchè riguardano oggetti di già trattati.

Altre aggiunte ha fatto Grimoaldo nel 6G8, riferendosi al- l'editto di Botari. Egli ragiona cosi: "Nella pagina superiore del presente Editto leggesi, che dobbiamo aggiungere ciò, che, permettendolo Iddio, avremo potuto ricordare delle cause che non vi sono comprese. Laonde io Grimoaldo, eccellentissimo re delia gente dei Langobardi, nell'anno ecc., per suggestione de' giu- dici e col consenso di tutti, provvedemmo a che fosse corretto e richiamato a migliore stato e più clemente rimedio ciò che ad essi parve duro ed ingiusto in quell'Editto,,. Non si tratta che di nove capitoli; ma essi segnano veramente un progresso, sia nei riguardi del possesso, sia in quelli della responsabilità del padrone, della condizione della moglie e del diritto ereditario dei nepoti.

Molto più ricca è la legislazione di Liutprando. Sono 153 leg- gi, che pubblicò in quindici assemblee generali tra gli anni 713 e 736.

Le leggi di ogni assemblea formano un volume a parte col suo prologo e con apposita numerazione ; ma tutte insieme furo- no aggiunte all'Editto con altri numeri progressivi. Liutprando pr<»nd<5 1<^ mosse dagli editti di Rotari e Grimoaldo: ** Sapien- t**meate aver Rotari stabilito nel ?uo Editto, che ogni Principe dt?i Langobardi, suo successore, ne torrliosso prudentemente il

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superfluo e ne riempisse le lacune. Infatti Grimoaldoi re glo- riosissimo, tolse ed aggiunse quanto gli sembrò opportuno se- condo Dio; e ancli'egli, seguendo le norme dei suoi predecessori, provvede ora ad emendare questo Editto, togliendo e aggiun- gendo quanto gli pare confacente giusta la legge di Dio . Sog- giunge d'esservi indotto dal fatto che '^ molte cause erano va- riamente risolte, conoscendone altri secondo la consuetudine, e altri a norma del proprio arbitrio: perciò era necessaria una ^^gS^f (^he togliesse gli errori e le dubbiezze, e tagliasse corto alle intenzioni dei malvagi, acciò non avessero a derivarne spergiuri ne contestazioni tra i suoi fedeli, ed i poveri e tutti i suoi fedeli langobardi potessero vivere tranquilli „. Credeva pure di poter " meritare la grazia di Dio e farsi degno delle eter- ne ricompense, se gli fosse riuscito di aggiungere qualche cosa a salvezza della sua gente „. Le leggi stesse furono compilate in- sieme con tutti i giudici dell'Austria, della Neustria e de' confini della Tuscia, con gli altri fedeli o nobili Langobardi e con l'as- sistenza di tutto il popolo.

Del resto non tutti i capitoli contengono diritto ntiovo. Tal- volta, è vero, Liutprando prende argomento da singoli litigi per regolare i casi avvenire, e cosi nacquero le leggi del 725 : anzi qua e è ricordato il caso speciale ; ma altre volte non fa che fissare qualche vecchia cawarfeda. E per quanto già prima si fosse giudicato così, tuttavia per togliere ogni dubbio, egli provvede acche la consuetudine venga messa in iscritto. Aggiungiamo, che anche queste leggi di Liutprando, non altrimenti di quelle di Rotari, si occupano principalmente di diritto penale e di diritto privato. Il maggior numero concerne l'eredità, la famiglia e i rapporti giuridici degli aldi e servi. Ma anche la procedura giudiziaria vi ha la sua parte, specie pei mezzi di prova. Invece il diritto pubblico vi è quasi completamente trasandato.

Seguono otto leggi di Rachi, pubblicate l'anno 746, col so- lito concorso dei giudici di sua gente cioè dei Langobardi. Egli aveva trovato qualche cosa da emendare negli editti dei suoi predecessori, *' perchè i malvagi, avidi più dei lucri del secolo che della salute dell'anima, non cessavano dall'opprimere i deboli e i miserabili,,.

Le ultime ag5Ìunte sono quelle fatte da Astolfo negli anni 750 e 754:. Si tratta di due editti, il primo dai quali contiene

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nove capitoli, l'altro tredici ; e anche Astolfo convocò a tal uopo tatti i giudici e i Langobardi del Begno, con lo scopo di difen- dere U gente affidata alle sue cure, acciò fosse retta con equa lance.

Questi due volumi di Astolfo chiudono la legislazione lan- gobarda propriamente detta; ma essa fu ripigliata poi, sia dai re franchi e sia dai prìncipi di Benevento.

3. Tutte queste leggi hanno una forma che può dirsi ad- dirittura barbara. E il latino che si trova anche nei documenti langobardi del tempo, frammisto a qualche parola tecnica lau- goborda; ma c'è chiarezza e precisione. Soltanto nelle leggi poeterìori di Liutprando Tesposizione si fa talvolta più larga e la ragione della legge è indicata con minor parsimonia. Anch'esse poi, al pari di altre leggi germaniche, sebbene la redazione ne sia posteriore, sono consacrate in gran parte ai diritto penale ; e dall'altro canto vi si scorgono tracce di una società più pro- gredita. L'autorità regia e gli ordinamenti amministrativi, la polizia, il commercio, i lavori pubblici, vi sono oggetto di molte disposizioni; e anche il diritto civile vi ha il suo posto.

4. Il carattere è schiettamente germanico ; e non poteva non essere tale, dacché i Langobardi avevano le stesse tradizioni, gli stessi costumi, gli stessi istinti degli altri popoli di razza ger- manica. Più sotto accenneremo anche ad alcune disposizioni, che serviranno a metterlo in più chiara luce. Considerata nel suo insieme, la legislazione è animata da uno spirito umano e illu- minato^ che si riscontra già nell'editto di Botari. Questo re non si contenta di mettere in iscritto il diritto consuetudinario del imo popolo ; ma, dove qualche disposizione gli sembra rozza, cru- dele o contro ragione, si fa a correggerla. Egli stesso proclama di voler mutare l'antico diritto con la intenzione di ridurlo a stato migliore. Anzi ne indica spesso la ragione. Cosi la fede nel duello, come mezzo di prova, può dirsi già scossa in Botari, tanto che egli lo chiama iniustum ed absordum, e si oppone acchò le cause più gravi sieno decise in tal modo, sostituendovi i con- giuratori. Inoltre aumenta le composizioni delle ferite e delle piaghe, e ciò allo scopo di mettere un argine alle private vou- detta, e talvolta le proibisce affatto. Altrove vieta di uccidere uu*aldia o una serva per stregherie, e ne nuovamente la ra- gione: perchè il credere alle streghe contraddice ai principi

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cristiani, e perchè non è possibile che una donna si mangi un uomo vivo. Medesimamente si scorge in Grimoaldo l'intendi- mento di allontanare tutto ciò che poteva avervi d* inumano ed empio nell'antico diritto ; e lo dichiara egli stesso in un luogo. altra tendenza appare in Liutprando. Anch'egli, pur ri- spettando le consuetudini e le leggi del suo popolo, cerca di metterle per un'altra via, qualora gli paiano discostarsi dai prin- cipi del vero diritto. Anzi la sua mente illuminata lo spinge- rebbe talvolta più in di quanto comporterebbero i tempi. Al qual proposito è interessante una sua confessione rispetto al duello: Quia incerti samus de iudicio Dei, et multos audivimus per pugnarti sine iustitia causam suam perdere; sed propter con- suetudinem gentis nostra^ langobardorum legem ipsam retare non possumus. Egli vorrebbe addirittura abolirlo ; ma non lo può, per la consuetudine della sua gente.

Evidentemente, noi assistiamo ad un nuovo e grande passo fatto sulla via dell' incivilimento. E tutto un nuovo spirito che anima questi legislatori langobardi, che li spinge a correggere continuamente il diritto, e talvolta li mette alle prese col loro popolo, coi suoi usi, con le sue credenze, con le sue superstizioni e aberrazioni. L'opera del progresso è irresistibile; il nuovo spi- rito cerca di farsi largo dovunque : che se non riesce intera- mente allo scopo, e qualche volta è costretto ad arrestarsi, pure non indietreggia. Siamo pur certi, che se dovrà cedere oggi, tornerà alla carica domani, e finirà col trionfare.

Ma anche la tecnica legislativa merita tutta la nostra con- siderazione; e già per quel certo sistema, ricordato più su, che appare nell'editto di Rotari. Se vogliamo, è un sistema che nes- suna idea superiore ha suggerito, e nondimeno rivela una co- tale influenza della coltura italica che manca in tutte le altre leggi dei barbari anche più avanzate, come la visigota e la bur- gundica. Con Liutprando poi si fa largo qua e un'altra ten- denza, che non ha, neppur essa, riscontro in altri codici: una tendenza a ragionare sulle leggi e rendersene conto ; in cui si possono, per cosi dire, scorgere gli inizi di una giurisprudenza. Per es. il cap. 134 tratta di questo caso : alcuni abitanti di un vico si erano uniti per cacciare a forza uno dalle sue terre, e n'erano seguite piaghe e ferite e uno era anche stato ucciso. Quid iuris? certo le ferite e l'uccisione andavano composte; ma la in-

^mimmfm

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lecita presumptio de ipsa collectionem f Doveva pur avere la sua pena: e Liutprando stadia i vari casi già contemplati dall'Editto cercando se possa assimilarvi questa causa : Varischild, il consi- lium rusticanorum, la seditio rusticanorum, ma non trova che vi si adattino ; piuttosto gli sembra che si avvicini il consilium ma- lum^ cioè il consilium mortis, contemplato da Botari (11) e si pro- nuncia per esso e ne adduce la ragione: quia quando se colle- gunt et super alias vadunt prò peccatisi ad id ipsum vadunt ut malum faciant, aut si casus evenerit, hominem occidant et pia- gas aut feritas faciant. Cosi li vuole puniti con venti soldi, ap- punto come il consilium malum.

Resta una domanda e un dubbio : per chi erano veramente de- stinate queste leggi: per i Langobardi soltanto, o anche per altri ?

B. Una cosa è certa, che i popoli discesi insieme con Al- boino alla conquista della penisola: i Gepidi, i Bulgari, i Sar- xnati, i Pannoni, i Norici, gli Svevi, i Sassoni e i Turingi, furono incorporati nella cittadinanza langobarda, e si trovarono cosi assoggettati tutti ad una legge comune. Ma accadde lo stesso anche coi Romani? Furono anche essi assoggettati all'Editto, e in quale misura?

Si sa che i Langobardi non incorporarono i vinti nella pro- pria cittadinanza, come hanno fatto coi loro compagni d'armi , Mcchè avrebbero potuto riconoscerne la legge, come efiettivamen- te avvenne ; ma il riconoscimento non fu completo.

Sta il fatto che l'Editto s' impone a tutti. Già Rotari avverte che la sua legge doveva provare quanta fosse la sua sollecitudine {>el bene dei suoi sudditi, senza eccezioni, non già di alcuni sol- tanto; e che l'aveva fatta ridurre in un volume perchè ognuno p«>te89e vivere quietamente, salva la giustizia. Infine conchiude, che tutti i suoi sudditi dovessero rispettarla. Liutprando si esprime diversamente. E cosi Rachi. Se pur questi re hanno una pr^'HTCupazione, è per i poveri e per i deboli, un nome che certa- mente conveniva meglio ai Romani che ai Langobardi : non vo- levano che si molestassero opprimessero, e perciò pubblicano le loro lefrgì. Infine Liutprando nell'anno 727 chiama la logge langibarda apertittsima pene omnibus nota; e certo non si siirebbo e'-pres.-o CM^l, se solo i suoi Langobardi vi fossero stati soggetti. Più tardi un p^tpa, scrivendone alla regina di Francia, vi si riehia- luerJi come alla Lex calgaris, citaudoue un pa>so.

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Riteniamo adunque che l'Editto fosse veramente obbligato- rio per tutti, per i vincitori come per i vinti; ma con ciò non intendiamo di dire che tutte le disposizioni lo fossero ugualmente e in tutti i rapporti.

l Alcune si riferiscono ai soli Langobardi ; e il legislatore stesso

1 lo avverte qua e là, e altre volte lo fa capire. La legge che di

ordinario s'indirizza ai sudditi con una formula generale: Si

;• quis homo liber Si quis Si qualiscumque Nullus praesuL-

mot etc. senza punto distinguere, all'occasione sa anche ado-

perare una forma più ristretta: Si quis Langóbardus^ specie nelle

leggi che concernono il diritto di famiglia e il diritto eredi- tario ; e non mettiamo dubbio, che essa abbia di mira i soli

.^ Langobardi, come l'altra: Si quis Romanus homo, che si trova

pure in un luogo, riguarda certamente i soli Romani.

Per ciò che si riferisce ai rapporti tra i due popoli, possiamo stabilire questa regola: che l'Editto era una legge territoriale in tutto ciò che concerneva la communis utilitas della gente lango- barda. Lo avverte lo stesso Rotari e. 386 ; perciò ogni qual volta c'era di mezzo un interesse pubblico, anche i vinti dovevano rispet- tarlo, non altrimenti che nelle relazioni private coi vincitori. E un metodo che non è nuovo nella storia delle leggi barbariche, per- chè può trovarsi adottato dai Borgognoni. Certo, se l'Editto non avesse avuto, nelle intenzioni di Rotari e dei suoi succes- sori, questo carattere territoriale, quei re avrebbero pur dovuto regolare diversamente le reciproche attinenze dei vincitori e dei vinti; e non lo fecero: che se qualche legge vi accenna, è solo per inculcare che il diritto, da applicarsi in questi casi, è quello della razza dominatrice.

6. Dall'altra parte crediamo che anche i Langobardi ri- spettassero il diritto romano nelle relazioni dei Romani tra loro. In generale, essi si sovrapposero militarmente ai vinti, e in tutto ciò che toccava da vicino i loro interessi comandarono da sol- dati, cui unica legge è la spada : nel resto lasciarono fare. E già l'editto di Rotari rende molto probabile che i Romani abbiano conservato la loro legge ; ma ciò che a' giorni di Rotari non è che una probabilità, diventa addirittura certezza sotto Lint- prando.

Consideriamo reclitto di Rotari.

Intanto, quando Rotari vuol proibire l'uso di ogni altra leg-

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gè, sa formolare il suo comando in modo da non lasciar luogo a dubbio; e se ne può oonchiudere ohe non lo volle rispetto agli Italiani, ai quali non impose alcun divieto chiaro e preciso. Ci- tiamo a questo proposito la sua legge intorno ai guargangi (367), come dicevansi i forastieri venuti di fuori Begno: se pur si fossero messi sotto lo scudo della potestà regia, dovevano vivere con la legge langobarda, quando non avessero impetrato per privilegio di vivere con la propria. Qui la proibizione è precisa e solenne; e d'altra parte lo stesso Botari s'affretta a porvi una restrizione, che ha la sua importanza anche per la questione che stiamo esaminando. Perchè primamente si vede che ci potevano es- sere altre leggi nel Begno oltre la langobarda, anche a pre- scindere dalla professione di legge gota dell'anno 769 citata più su. Inoltre se i guargangi^ venuti di fuori, potevano nondi- meno ottenere l'uso della loro legge, si può supporre con buon tondamente, che tanto più esso sia stato lasciato ai vinti che fin dalle origini formavano parte del civile consorzio e ne gode- vano i benefizi.

Ma Teditto di Botari offre anche altre indizi.

Esso stabilisce in un luogo (204), che nessuna donna libera del Begno vivente a legge langobarda, possa stare selpmundia, cioi in balia di se stessa, ma debba essere soggetta al mundio di qualcheduno. Ora la frase: legis langobardorum viventem, suppone di necessità un'altra legge nel Begno, che permettesse alle donne di vivere libere; e questa non può essere stata che la romana, la quale, fin dai tempi di Diocleziano, non ]ia trac- cia di tutela muliebre. Invece non è lecito pensare ad altre leggi barbariche, perchè il mundio era una istituzione comune a tutti i barbari.

Un altro capitolo dell'Editto rotariano (226) determina, che gli schiavi^ manomessi dai padroni langobardi, debbano vivere con la legge dei loro padroni, quali l'avevano ottenuta da essi ; e anche qui si accenna evidentemente alla esistenza di più leggi nel Begno. Se non ci fosse stata che la legge langobarda, Bo- tari avrebbe detto una cosa superflua, ordinando che il liberto di un padrone longobardo dovesse vivere con essa. Ma il pa* dfiine poteva non essere langobardo; e Botari stesso suppone che ve ne fonerò di altra nazionalità. D'altronde abbiamo un diploma, che illustra assai bene questa legge di Botari: ò una

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disposizione di ultima volontà, con cui Grato diacono ordina che certi suoi servi debbano essere appunto liberi e cittadini romani.

Di più, se non fosse stata riconosciuta altra legge all' in- fuori della langobarda, è certo che Rotari avrebbe fatto espressa menzione dei Romani molto frequentemente, e avrebbe adope- rato più largamente il loro diritto. Invece, il solo passo, in cui egli nomini i Romani, è il cap. 194, ohe poi non contiene nep- pure una disposizione che li riguardi, ma considera solo il caso della fornicazione avvenuta con una ancella romana.

Ad ogni modo sarebbe stato poco probabile, che questi Lan- gobardi avessero riconosciuto più tardi, molto più tardi, l'uso della legge romana, se questa fosse stata per lungo tempo di- menticata; e l'avessero riconosciuta proprio quando i due po- poli cominciavano a fondersi tra loro. Perchè, a lungo andare, arriva pare un momento in cui il riconoscimento del diritto dei vinti non può più essere oggetto di dubbio. Noi lo abbia- mo detto: ciò, che poteva parere disputabile pel tempo di Ro- tari, diventa certezza sotto Liutprando e i suoi successori.

Liutprando, correndo l'anno 727, pubblica una legge (91) intesa a stabilire le regole e i modi con cui i notari dovevano procedere nel rogare gli strumenti ; e riconosce senza più l'uso pubblico del diritto romano per i vinti.

Egli vuole che gli scribi si attengano o alla legge dei Lan- gobardi o a quella dei Romani; e se non conoscono la legge, interroghino altri che ne li istruiscano. Soltanto ammette che le parti possano scostarsi dalla propria legge e fare patti e con- venzioni tra loro, purché vi acconsentano entrambe; ma dove- vano rispettare il diritto e l'ordine delle successioni ereditarie. Appunto nell'eredità, lo scriba doveva attenersi sempre alla legge langobarda o alla legge romana, secondo i oasi L'Editto stesso lo dichiara, e qui non ci può esser luogo a incertezze: i Romani vivevano veramente con la legge romana e i Lango- bardi con la langobarda. Soltanto si potrebbe dubitare se fosse questa una novità di Liutprando; e nondimeno anche tale dubbio svanisce, per poco si pensi che se Liutprando avesse ve- ramente inteso di dare o restituire vigore al diritto romano, lo avrebbe fatto con una legge speciale, non già in via d'inci- denza e come di soppiatto, per entro ad un'altra legge. Se poi lo esaminiamo spassionatamente, questo celebre capitolo degli

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scribi, ci accorgiamo to:?to che Liutpranio, lungi dair innovare, ^appone anzi di necessità Toso del diritto n:>niAno, che deve aver esistito già prima. La novità della legge sta unicamente in ciò: che un re più generoso, o più amorevole verso i vinti, o più scaltro, non esitò di chiamare col loro nome le c:*se e le per- sone degli Italiani: e mirando ad avvicinare sempre più le due s<;hiatte, autenticò e regolò l'uso, che già avevano, di abbando- nare nei privati negozi la propria legge per seguitare quella deirai tro popolo.

E a questo capitolo ne fk riscontro un altro che concerne i matrimoni misti.

Premettiamo che la donna, quantunque vedova, non poteva contrarre matrimonio se non col consenso dei parenti, e se la legge non era stata rispettata, il marito pagava certa ammenda per raggresfi>ione ^anagrip) e per la faida. Ciò secondo Botari ; ma esisteva quest*obbligo anche per la donna langobarda vedova di un romano? Ecco un dubbio che si era presentato, e Liut- prando lo risolve con una sua legge dell'anno 731. Egli stabi- lisce icap. \27) : Se un romano ha preso in moglie una lango- barda e ne ha comperato il mundio dai parenti e muore, essa può passare a uuo^fb nozze anche senza la volontà degli eredi del primo marito; ni è il caso di chiedere la faida e Yanagrip, perchè oggimai essa è diventata romana, e anche i figliuoli nati da quel matrimonio, sono diventati romani e vivono con la legge del padre. Ecco dunque nuovamente due popoli liberi e due loggi- E si noti, che anche qui il legislatore non stabilisce, ma presuppone una cosa comunemente accettata, e non fa che trame le conseguenze.

Un'altra legge di LiutfHundo (153} merita pure la nostra at- tenzione. Essa dice : Se un langobardo, che abbia figliuoli, vo- glia farsi chierico, i figliuoli nati anteriormente devono vivere con la stessa legge con cui viveva il padre quando li generò, e terminare i loro litigi con essa. Evidentemente la legge ro- mana s'insinuava, come scienza e civiltà, perfino nelle menti dei più rigidi Langobardi e negli editti dei loro principi. Il clero specialmente teneva gli occhi rivolti a Roma: oramai vi- veva a legge romana in tutti gli affari canonici; come non avrebbe subito Tinfluenza della medesima legge anche in fatto di ragion civile? Che se molti stettero saldi alle catcarfede dei

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loro padri, molti, supponiamo, avranno assunto col chiericato la nuova legge ; e Liutprando accenna appunto a cotesto fatto nel capitolo sui figliuoli dei chierici. Ma in ciò abbiamo ben più che un semplice riconoscimento del diritto dei vinti: abbiamo addirittura una invasione di questo diritto nel campo nemico; e tutto ciò che Liutprando può fare è d' impedire che i figliuoli, nati prima che il padre si facesse chierico, passassero, insieme con lui, alla legge romana.

E lo studio dei documenti conferma pienamente quello delle leggi. Ve n'ha alcuni, dai quali risulta che il diritto penale romano è stato davvero applicato ai vinti ; e ne abbiamo anche più, che attestano l'applicazione delle norme di diritto civile. Sic- ché ne concludiamo, che se i Romani dovevano rispettare l'Editto (e tutti ne avevano l'obbligo), era solo quanto pareva necessario per mettere in salvo i privilegi della conquista; ma nelle rela- zioni fra loro si regolavano con le proprie leggi.

P. - INFLUBNZB STRANIERE NBLL'eDITTO LANGOBARDO.

1. Abbiamo studiato la legislazione langobarda piuttosto dal suo lato esterno: soltanto per incidenza abbiamo avvertito che è una legislazione schiettamente germanica; ma gioverà considerare la cosa più da vicino, e vedere se obbedisca proprio in tutto a principi germanici, o non abbia subito la influenza di altri elementi e anche di altre civiltà ; e se questa sia stata tale da alterarne profondamente il carattere. Poi ci faremo a considerare la importanza che l'Editto ha avuto nella storia delle nostre istituzioni.

2. Il Tamassia ha il merito di aver richiamato l'atten- zione sulle influenze del diritto visigoto ; ma dubitiamo forte che lo sieno nella misura che il dotto uomo suppone : soltanto po- tremmo di buon grado consentire in questo, che i compilatori dell'Editto abbiano avute presenti le leggi dei Visigoti, specie le più antiche ; la qual cosa, infine, può anche parer naturale per poco si pensi che erano il primo esempio di una larga co- dificazione tentata da un popolo barbarico in terra romana. Pur indirizzandosi a rapporti diversi, non v'ha dubbio ch'essa doveva riuscire molto istruttiva dal lato della tecnica legislativa ger- manica; ma non conviene esagerare: non si tratta di principi!

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Gii il von Halban ha avvertito ohe una vera conformità di prin- cipi vi s'incontra di rado, e anche dove esiste, si può dire tatt*al più che la forma visigota abbia servito di modello, come vl^l resto avvenne anche presso altri popoli, ma non già che il Hiritto langobardo sia stato preso di sana pianta dal diritto vi- si£<;oto. Dubitiamo persino che alcune influenze romanistiche ubhiano potuto accogliersi dai Langobardi per quel tramite; [>^rohè, nonostante le analogie, è pur sempre legittimo il dubbio cho questa o quella disposizione sia stata suggerita direttamente dal diritto romano. Certamente, alcune sono molto più affini ad esso ohe alle antiche leggi visigote. Molte volte poi tutto si riduce a qualche frase o vocabolo, anche abbastanza comune, cL»^ ricorre, sia nell'una legge e sia nell'altra; e in verità ci pAre troppo poco, quantunque non sia nuovo il caso nella sto- ni della nostra scienza che si attribuisca soverchia importanza alle pirole, senza badare ohe poi le cose non corrispondono sempre M quelle reminiscenze stilistiche. E già altri ha osservato che f-rano un patrimonio comune di tutti i notari, e in generale di tutte le persone che in Italia sapevano scrivere,

3. Invece vi sono veramente talune leggi dell'Editto che ri.'ordaao i principi del diritto scandinavo e del diritto sassone, p' sebbene non siano molte, è pur sempre prezzo d'opera di ac- CMunanri.

Certamente la influenza nordica si rivela in alcune disposi- zi >ni relative al launegildo, al mundio, anche alla successione ereditaria, specialmente dei figli naturali, e alla divisione delle omposizioni in parti uguali tra il re e l'offeso; ma soprattutto' è osservabile la concordanza di certi principi con quelli del di- ritto s€Ls$on€. È la conseguenza degli stretti rapporti che sono passati tra' due popoli; quantunque il poco che sappiamo del- l'antico diritto sassone non permetta di istituire un largo con- fronto. Del resto non solo la Lex Saxonum, ma anche lo Spec- chio Sassone presenta delle analogie.

Rotarì provvede al caso degli omicidi involontari nello stesso m'Ho della Lex Saxonum; e anche altre disposizioni oorrispon- d<>ao a quelle della legge. Chi faceva fuoco all'aperto non do- veva abbandonarlo, sotto pena di rispondere per ventiquattr'ore di ogni danno; chi faceva un ihinx con lidinlaib non poteva ▼eniere dare in pegno la terra ad altri, anche in caso di ^

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necessità, senza avvisarne il donatario perchà lo aiutasse ; il mun- doaldo della vedova non poteva opporsi a che passasse a nuove nozze j e se ricusava di riceverne il prezzo, spettava ai parenti della donna di acconsentire al matrimonio. Più tardi Litìtpran- do accetta un altro principio della Lex Saxonum^ quando sta- bilisce che se un Langobardo muore senza figli maschi legittimi, le figlie debbano succedere in tutta la eredità, mentre prima succede v^ano insieme coi collaterali o con la corte regia.

Per tutto ciò le disposizioni dell'Editto e quelle della Lex Scumnum combinano: che ove si istituisse un confronto con lo Specchio Sassone, si troverebbero nuove analogie, sia nel giro delle idee, sia nelle norme giuridiche, anche per rapporti che in altri codici barbarici ordinariamente sono trasandati. Bicor- diamo il capitolo sui gradi di parentela ammessi alla eredità, e Taltro Rulla comunione dei beni tra fratelli. Anche l'obbligo, che c'era, nel caso di una compera, di risalire all'autore, e la responsabilità di costui in confronto del rivendicante, si trovano disciplinati ugualmente. E cosi il modo con cui il compratore poteva scolparsi, se ignorava il suo autore; mentre dall'altra parte era minacciata una pena al rivendicante, se ne risultava che avesse rivendicata la cosa malo ordine. Il divieto di com- perare qualsiasi oggetto da un servo senza il permesso del pa- drone, ricorre parimente in ambe le leggi; e nell'una che nellVUra è detto, che colui, il quale per errore prende un ani- male non suo, può col giuramento esimersi dalla taccia di la- dro. Né sono diverse le disposizioni intorno all'obbligo, che aveva il proprietario, di lasciare l'erba ai passanti. Infine tanto TEditto quanto lo Specchio contemplano il caso di chi morisse dopo costituito un fideiussore de sacramento^ obbligando l'erede a prestare egli il giuramento oppure a pagare.

4. ^ Ma anche più notevoli sono le influenze del diritto ro- mano e del diritto ecclesiastico, e tanto più in quanto rappre- sentano due civiltà che non sono quelle dei diritti popolari ger- manici-

Cominciamo dalla influenza romana; e sarà opportuno che vi dedichiamo un più attento esame per fissarne i limiti, se non altro approssimativamente, perchè non sono mancate, e tut- tavia durano, le esagerazioni da una parte e dall'altra. Molti dotti tedeschi esagerano per loro conto, immaginando che la ro-

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inanità siasi addirittura perduta nei territori langobardi ancora sotto la dominazione dei re, o quanto meno sia andata scompa- rendo, finché nel secolo XI si sarebbe ridotta a poche specia- lità : lo stesso diritto romano sarebbe diventato ^ un nome vano quasi senza contenuto ! È l'opinione espressa dal Bethmann- HoUweg e dal Ficker, anche ultimamente dal Neumeyer, ma contraddetta dai fatti, per non dire che la improvvisa risurre- zione del diritto romano, appunto nella seconda metà del se- colo XI, avrebbe avuto per lo meno qualcosa di miracoloso, e fu detta tale, come se la storia conoscesse miracoli. E d'altra parte non mancano scrittori italiani, che, animati da un feroce zelo iconoclasta, tendono a demolire una dopo l'altra le vecchie imagini langobarde per rioondurle ad un concetto romano : ve- dono influenze romane dappertutto, ed è già molto se qualche particolarità langobarda potrà alla fine resistere ai loro colpi. Ancora recentemente ci fu chi espresse, o fece intrawedere, l'idea che il diritto langobardo quasi sia un mito; che ad ogni modo si confonda talmente col diritto romano, anzi bizan- tino, da {lerdere ogni suo carattere speciale, e la stessa storia del diritto in Italia andrebbe ricostruita di sana pianta sulla base del diritto bizantino ; certo, una fantasia che può stare a paro con quella dei tedeschi. E d'altronde comprendiamo tutta la difficoltà di simili ricerche, visto che le carte del tempo, a cui necessariamente dobbiamo attingere, non ci danno che una ben magra idea della vita pratica, derivando il maggior numero da- gli archivi dei conventi e delle chiese, che conservavano di regola i soli titoli d'acquisto dei loro possedimenti e quelli con cui li allogavano.

La influenza romana s'incontra già nell'editto di Botari e cresce via via. Nei quotidiani rapporti tra Romani e Lango- bardi era naturale che i due diritti si accostassero e finissero con lo influenzarsi a vicenda. Il capitolo 91 di Liutprando, il quale riconosce l'uso, già invalso tra i due popoli, di scostarsi dalla propria legge, se non altro nelle contrattazioni, spiega fino ad un certo punto come alcuni principi di diritto romano abbiano dovuto piegarsi alle esigenze della società barbarica, e come dall'altra parte le leggi langobarde abbiano potuto modifi- carsi qua e sotto l'azione del diritto romano.

Cosi, al contatto con la romanità, si è rafforzato il reame.

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La sua potenza à già grande nell'editto di Botari, e cresce an- che più in seguito^ mentre il popolo a mano a mano si eclissa. II fenomeno appare chiaro specialmente neiresercizio della po- destà legislativa. L'antico principio del diritto germanicO| che il re solo non potesse fare le leggi, si trova anche tra* Lango- bardi; ma non si può dire ohe siasi mantenuto sempre inalte- rato. L'editto di Botari ricorda ancora il concorso del thinx come essenziale; ma già sotto i successori di lui la legislazione, pili che dal popolo, viene esercitata dai grandi del Eegno, di- nanzi ai quali il popolo quasi si ritira; e di più, alcune leggi di Liutprando, Eachi e Astolfo sono pubblicate sulla base e nella forma di decisioni giudiziarie. Cosi Liut. 8, Bach. 6 e 9, Aist 8; ninn dubbio che in questi casi ci troviamo di fronte a un diritto di legislazione indipendente. Ma anche senza ciò, i Langobardi conobbero veramente un diritto regio^ oltre al diritto popolare; e a questo proposito possono vedersi: la notitia di Liutprando de actùnhus regis, il breve di Bachi, che va sotto

I il num* I del suo Editto (Bach. 1-4), anche le leggi del num. Ili

(Bach. 13-14) e quelle di Astolfo deiranno primo (Aist. 1-9), le quali^ per giunta, riproducono la formula Principi plaeuit, cer- tamente romana. Il Memoratarium de mercedibus commacinorum, che alcuni codici attribuiscono a Grimoaldo altri a Liutprando,

f ofi^e insieme un importante esempio di legislazione statutaria,

1 che si può ritenere pure modellato su qualche stampo romano.

Ne le cose stavano diversamente con gli altri poteri. Il re

l è irresponsabile giudiziariamente, e co testa sua irresponsabilità

raggiunge una misura che l'avvicina alle condizioni romane, se

^ può bastare un suo ordine o anche solo il consilium de morte

altériuHj perchè colui, che ha perpetrata l'uccisione, vada esento

j da pena. Certo le idee germaniche devono aver subito un forle

strappo, se vediamo un re parlare direttamente dei suoi giudici e la giustizia essere esercitata in suo nome. Che se negli af- fari civili la competenza regia è ristretta ai casi, che il re stesso è riservati, e a quelli di denegata giustizia e agli appelli, invece la suprema podestà punitiva è veramente di diritto re- gio, e il re la esercita da se contro i maggiorenti, mentre, trattandosi di altre persone, ne incarica i suoi uflSciali.

E cosi il potere di polizia e la finanza. Quello spettava pure al re, certamente sull'esempio delle leggi romane, appunto per-

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che furono esse a dare ai Langobardi il concetto dei fini dello Staio nel senso superiore della parola, allargando cosi la cerchia delle loro idee politiche. Ma anche la finanza si fondava solo in piccola parte su tradizioni germaniche. Certo, la distinzione tra il patrimonio regio e il fisco è romana, come è romano tutto il sistema demaniale, anche solo a giudicarne dagli actores dominici; e altre istituzioni finanziarie passano pure dal diritto romano in quello del Begno.

Ma lasciamo la cosa pubblica: il diritto romano ha influito in più modi sulle istituzioni giuridiche anche private.

E già il diritto servile ha qualche relazione con esso. Ro- tari vuole che colui, nella cui casa s'è rifugiato un servo, lo re- stituisca al padrone, sotto pena di dovergliene consegnare un altro insieme col servo fuggiasco ; ma poteva obbligare il padro- ne a riceverlo in grazia: e l'una cosa e l'altra hanno il loro ri- scontro nelle fonti romane. Lo stesso dicasi della manomissione dello schiavo in ecclesia circa altare introdotta da Liutprando, che non è altro che la vecchia manomissione costantiniana. Lo stesso, della manomissione fiduciaria, accolta da Astolfo. Lo stes- so, del divieto di far chierico uno schiavo senza che il padrone vi acconsentisse, il che era stato pure oggetto di costituzioni imperiali. Aggiungiamo, sempre in ordine alle persone, talune disposizioni di Liutprando sugli scomparsi e sulla minore età.

Ma una mèsse anche più ricca ofire il campo dei diritti pa- trimoniali.

Indubitatamente gli elementi romani hanno opposto qui una valida resistenza. Specie, per ciò che riguarda la proprietà, pos- siamo ammettere che, se non altro, l'ordinamento economico ne sia pa^^sato ai Langobardi : da un Iato i grandi possessi, dall'al- tro molti piccoli proprietari; ma anche il modo, con cui veni- vano sfruttate le terre, era press* a poco lo stesso, e cosi pure duravano tuttavia i compascui vicinali. I capitoli 115 e 116 di Liutprando relativi alla ponsessio malo ordine paiono pure sug- geriti o ispirati da reminiscenze romane. E cosi qua e i mo^li d'acquieto.

Già l'editto di Eotari riproduce qualche principio del diritto rumino a proposito della caccia, perchè sancisce che la fiera le* r»tA debba appartenere al cacciatore anche durante l'insegui- * .ento, e persino per ventiquattr'ore dacché aveva cessato d' in-

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seguirla ; e questa è press'a poco la sentenza di Trebazio. altrimenti le disposizioni intorno alle api ricordano un noto passo delle Istituzioni giustinianee. Parlando della seminagione, l'Editto distingue se il seminatore è in buona o in mala fede, e la stessa distinzione si faceva per la inaedi ficatio, se non giu- sta la lettera dell'Editto, certo per il modo con cui V ha intesa la pratica; ma anche ciò è romano. Giustiniano distingue ap- punto la buona e la mala fede in ambi i casi ; e sebbene i com- pilatori dell'Editto applichino il principiò romano solo limitata- mente alla mala fede, devono però, senza alcun dubbio, aver avuto sott'ooohio i testi romani se ne riproducono perfino le parole. Altre leggi di Rotari, Grimoaldo e Liutprando risguar- dano la prescrizione; e la influenza romana appare anche qui, sebbene non si tratti di influenza giustinianea : la efficacia, che le si attribuisce, ricorda piuttosto il diritto anteriore.

Lo stesso dicasi della tradizione per cartam e anche delle carte o titoli di credito, perchè la importanza della scrittura non si spiega se non ricorrendo ad influenze romane. In realtà tanto la tradizione per cartam quanto le carte di credito già sotto i Romani eransi diffuse molto ; e se non ebbero sempre una impor- tanza giuridica, nel fatto le parti non si sentivano abbastanza sicure se non dopo aver consegnato i loro atti in iscritto. E cosi anche presso i barbari, i quali non fecero che imitarne l'esem- pio. Diremo anzi, che la tendenza di assicurare il diritto in quel modo, doveva essere tanto più spiccata per essi che improv- visamente eransi trovati in mezzo a nuovi e complicati rappor- ti. E non andrà molto che ne faranno dei veri istituti giuridici.

Certamente la tradizione per cartam à tale; e si diffuse in modo da parere quasi che nessun'altra ne fosse possibile. Ciò nei riguardi della proprietà e anche dei diritti frazionari di essa; ma un eguale fenomeno s'incontra nelle obbligazioni, e anche qui fu il diritto volgare romano che ha tracciato la via. La pratica romana aveva pur avuto una spiccata tenden- za a confondere, se non altro linguisticamente, il titolo con la obbligazione, e la medesima confusione fu accolta di buon grado dalla pratica langobarda anche nei riguardi giuridici, almeno fin dai tempi di Liutprando. Onde la obbligazione si tras- fuse veramente nel titolo, e non farà meraviglia se poi si ri- tenne che potesse bastare la tradizione di esso a trasmettere il

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credito ; e di progresso in progresso si arriverà anche alla clau- sola al portatore, la quale, come già awertimmo, se non in tutte le sue forme, si può nondimeno ritenere anch'essa, una creazione spontanea e popolare dell'ultima età romana. Lo etesBo Liut- prando stabili eziandio che i titoli di credito dovessaro perdere ogni validità se dopo cinque anni non venivano rinnovati, e senza dubbio egli s'è inspirato ad una legge analoga deir imperatore Onorio.

la permuta dei beni ecclesiastici è regolata diversamente dal diritto romano, e l'istituto del pegno ha pure qualcosa che rioorda questo diritto, specie nella forma delia fiducia^ che ri- corre negli editti appunto con questo nome, e il cui uso deve essersi mantenuto costantemente in Italia, nonostante le novità del diritto giustinianeo. Sotto Liutprando ricomparirà anche la ipoteca.

Altre reminiscenze serba il diritto di famigUa.

Un punto, che vuol essere subito e particolarmente notato, è che il consenso della donna al matrimonio si fa largo via via. Vi accenna Botari per le vedove, e Liutprando anche par le ragazze non soggette alla podestà del padre o del fratello, e certamente codesta grande affermazione della personalità dalla donna è dovuta a influenze romane. Ma ineieme possiamo ri-^ cordare altre disposizioni concementi il matrimonio, che ne ee* guono l'orme.

Quando Botari lo vuole contratto entro dne anni dagli spon^ •ali, egli certo ha dinanzi a una legge di Costantino; e pa- rimente la posizione giuridica ch'egli fa aWarimanna^ cha an- dasse sposa ad un cUdio, ricorda il diritto romano : Qiuatiniano, prevedendo il caso che una donna libera sposasse un ascrìt tizio, aveva pure dichiarato che dovesse rimanere tn sua liberiate in- sieme coi figli. E cosi alcune disposizioni relative ai matrimoni degli schiavi. Botari ordina eziandio che nessuno debba oou^ durre in moglie la matrigna, la figliastra o la cognata ; e il di-* vieto è preso di pianta dal diritto romano, ohe già in antico aveva escluso gli affini in linea retta, e giunse poi, sotto gl'impe- ratori cristiani, ad escludere anche gli affini in secondo grado. Non altrimenti Liutprando dichiara illecite le nozze ira cugini, appunto così come le aveva dichiarate Teodosio il giovane \ e fini- sce col proibire anche quelle tra parenti spiriluali| che si tro<

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vano vietate nel diritto giustinianeo. Perfino la sanzione della

legge, cioè la confisca dei beni e la separazionej discende dal diritto di Giustiniano* Cosi del pari un capitolo di Liutprando relativo all'anno del lutto, e uno eli© riguarda le pene delle seconde nozze, Astolfo vuole che la vedova perda totalmente Tusofrutto lasciatole dal marito defunto; e già prima una co- stituzione degli imperatori ValentinianOj Teodosio ed Àrcadio aveva stabilito ciò.

Cosi anche il diritto domestico. Troviamo in Eotari, che il marito, il quale uccide Tadultero còlto sul fatto, debba andare immune da pena, purché uccida anche la moglie; e tale dispo- sizione, che ricorre del pari in altre leggi barbariche, trae forile la sua origine dalla erronea interpretazione di un principio ro- mano espresso da Paolo e da Macro, se pure non riproduce il diritto volgare. Più tardi Liutprando si occuperà pare delPadul- terio, e si appoggerà alla Novella 1B4. Ma anche l'altra sua legge^ che accorda al rauudoaldo la facoltà di alienare i beni del minore, sembra d(?santa dal diritto romano, Yi s'incontrano le medesime cautele stabilite nella Oratio delT imperatore Severo e in altre costituzioni; perchè non si permette Talienazione che in caso di stretto bisogno, cioè per la estinzione di una obbli- gazione ereditaria, ut ei inaior damnietas propier onortm golido- ram non aclcrescat ; ed è necessaria anche la licenza del prin- cipe; né la vendita doveva essere esorbitante.

Nel diritto ereditario abbiamo la computazione per uncias eecondo Tuso romano; la diseredazione per determinate cauFe, che Eotari trae dalla Novella 115; il diritto di rappresentazione nella successione dei discendenti, che Grimoaldo introduce sul- l'esempio dalle Istituzioni giustinianee, e soprattutto le disposi- zioni testamentarie. La prima volta che ci abbattiamo in esse è in una legge di Liutprando; importa ch'egli ammetta solo entro certi limiti, perchè questi si allargheranno sempre più in seguito. Parimente le adoptiones in heredtiatem, pur tanto diverse dalle donazioni dei Romani, hanno nondimeno accolto qualche principio del loro diritto: che, cioè, dovessero andarne rotte se al donante nasceva un figlio legittimo, e che si potes- sero revocare per certe colpe del donatario. I Romani avevano stabilito la stc^s^o. !^[a anche alcuni principi, che abbiamo cre- duto di riaauodar^ al diritto sa>éOiie, potrebbero del pari ricou-

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darsi al diritto romano: intendiamo dire del diritto ereditario delle figlie, come fu regolato da Liutprando, e dell'obbligo fat- to ai figli di rispondere almeno dei debiti contratti dal padre con la ìcadia e i fideiussori.

il diritto penale sfuggì a cotesto influenze. Perchè si deve indubitatamente ad esse, se si cominciò a distinguere tra dolo e caso già da Botari; se si mitigò la responsabilità del pa- drone pei danni cagionati dai suoi schiavi e animali e altre cose sue; 86 anche il tentativo trovò la sua costruzione astratta; e cosi Teocitamento a delinquere, sebbene in maniera molto im- perfetta. Ma anche talune pene, come il carcere, il marchio, la vendita fuor del paese, la confisca, più tardi la fustigazio- ne, possono ricondursi a influenze romane. L'editto di Botari vuole punito chiunque tentasse di fuggire fuori Stato, e lo fa in modo analogo al diritto romano; e anche qualche novità re- lativa al trattamento dell'omicidio potrebbe trovare il suo ri- scontro nello stesso diritto. Liutprando in più luoghi ne aumen- ta la pena; e forse si deve alla medesima influenza se l'antica casistica, cosi minuziosa e d'altronde così insufficiente, in ma- teria di furti, ha ceduto il campo. Medesimamente potrebbesi rilevare tutta una serie di reati suggeriti da influenze romane, sia pure col tramite delle leggi visigote, che i Langobardi, in un periodo auteriore di coltura, non avevano di certo conosciuto, ma sui quali fu richiamata poi la loro attenzione.

Infine la influenza romana si è fatta largo nel diritto giu- diziario. Perchè si potrà anche disputare se i Langobardi siensi affidati a un giudice singolo; ma è certo che il popolo non par- tecipava regolarmente ai giudizi, non diciamo in massa, ma nep- pure col mezzo de' suoi rappresentanti: solo vi sono traccie di una partecipazione degli astanti. Insomma era la podestà giudi- ziaria che imperava; e ciò è dovuto all'influenza romana. La quale si potrebbe riscontrare anche nel dominio delle prove e in quello della eéecuziono. Pensiamo, cioè, che Ilotari siasi inspi- rato a leggi romane quando fissò il termine per dare o riceverò il giuramento; e cosi Liutprando quando regolò la prova testi- moniale. Altre leggi vietano al creditore di pignorare gre^i^i di cavalle o porci, e anche cavalli domati o giovenchi, senza {permesso del re o dello sculdascio, e anche tale divieto deve es^re stato suggerito da leggi romane.

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5. Vazione della Chiesa non è meno efficace. Già Bo- tar! riconosce da Dio il possesso dell'Italia; riconosce ohe il cuore dei re è in mano di Dio, come aveva detto Salomone; combatte anche qualche superstizione del suo popolo, perchè contraria alla fede cristiana e fa omaggio con ciò alle idee della Chiesa. Ma veramente l'Editto rotariano non subisce molto co- 1 teste influenze, mentre invece esse rivelansi grandissime nelle

I leggi di Liutprando. Ed è naturale; perchè Liutprando è il pri-

! mo re cattolico che abbia fatto leggi, e lo si vede fin dai pro-

I loghi, in cui si richiama spesso a Dio e cita a più riprese la

1 Bibbia. Liutprando ripete che il cuore del re è nelle mani di

i Dio, e che non fa le leggi di sua testa, ma per ispirazione di-

I vina. altrimenti Bachi proclama che gli è forza di compiere

! assiduamente i precetti del Divino Salvatore, per la cui prov-

I videnza era stato assunto al trono ; e attribuisce a Lui tutti i

provvedimenti che sarà per prendere in prò della sua gente. Anche Astolfo dichiara di regnare con l'aiuto di Dio, dal quale deriva ogni bene, e ricorda alcuni versetti sacri. Non basta. Se Dio è l'autore di ogni bene, il demonio è l'istigatore di ogni ! male ; ed ecco un nuovo compito della legge : combattere il male,

e più specialmente il peccato e salvare le anime. Lo dice Liut- prando, perchè è dal peccato che derivano gli adulten, i feri- menti, le risse, ecc. Bachi aggiunge, che chi non è fedele a Dio, I non lo è alla patria.

Perciò non farà meraviglia di veder tutelati in queste leggi gli interessi religiosi. Liutprando, obbedendo ai canoni dei con- cili, combatte gli ariolij o indovini, ordina che sieno denun- ziati, e punisce coloro, che vi ricorrono, e i magistrati, che si mostrano negligenti nel rintracciarli. Lo stesso Liutprando, ecci- tato dal Pontefice, inculca in una sua legge che i suoi sudditi debbano guardarsi dalle eresie, ripetendo quasi testualmente le parole della lettera pontificia. Inoltre veglia sulla osservanza del voto religioso, e anzi se ne occupa a più riprese. Astolfo vuole che i monaci vivano per regula secundum Deum.

Altre leggi favoriscono in più guise l' incremento del patri- monio ecclesiastico, anche a scapito delle tradizioni nazionali. Cosi, mentre le donazioni comuni abbisognano del thinx o del launegildo per essere valide, Liutprando dichiara che quelle fatte per scopo religioso non richiedono alcuna formalità. Gli stessi

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testamenti furono introdotti da prima in omaggio alla Chiesa, 0, se più vuoisi, per la salute dell'anima: la frase è dei tempi. Astolfo intervenne, perchè i parenti rispettassero ]e ordinazioni dei defunti in favore dei luoghi venerabili; e anche regolò la permute fatte da istituti religiosi conformemente ai principi del [

diritto romano: lo abbiamo veduto dianzi; ma non si durerà fatica ad ammettere che l'impulso sia venuto dalla Chiesa, In 80((tanza si tratta della inalienabilità del patrimonio ecclesia- stico.

La Chiesa però conferisce eziandio a mitigare la condizione servile. Una legge di Liutprando fa divieto al padrone di at^ tentare al matrimonio di un servo, sotto pena di perdere ogni diritto sopra di lui; e il motivo, che adduce, indica chiaramente la fonte a cui attinge. Anche il nuovo modo di manomissione in chiesa, che vedemmo introdotto giusta le regole del diritto romano, è dovuto certamente alla influenza ecclesiastica ; come è stata una idea religiosa quella, che suggerì ad Astolfo di age- volarne Tubo. E d'altra parte il divieto di far chierico un servo senza il consenso del padrone deve essere passato pure dal di- ritto romano nel langobardo per opera della Chiesa.

LfO stesse influenze subisce il matrimonio. La legislazione di Liutprando lo incammina per una via più corrispondente alla dignità umana, e lascia capire a quali influssi obbedisca. Liut- prando stesso pone a base de' suoi provvedimenti V idea che si tratti di una unione voluta ed ordinata da Dio. Specie alcuni impedimenti entrano nel diritto langobardo per opera della Chiesa; e la legge non manca di dirlo: Quia et canones sic ha- beni Quia Papa per suam epistolam nos adartavit. Più tardi Astolfo dichiara addirittura illecito ogni matrimonio che non sia secondo i canoni, e obbliga i magistrati a cercare se nei loro distretti ci sieno persone unite irregolarmente, e a separarle. Pa- rimente si deve ad influenze ecclesiastiche, oltre a quelle delle leggi romane, se il diritto della donna di consentire alle nozze acquista via via importanza. Non basta. Nelle leggi di Ori* moaldo e di Liutprando si trova per la prima volta l'idea, che tanto Taomo quanto la donna hanno un uguale dovere di ri* spettare la fede coniugale. Era un nuovo principio cristiano che penetrava nel diritto langobardo; ma anche l'altra legge, che vuole punito l'adulterio della donna nonostante che il ma-

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rito vi abbia acconsentito, dev'essere stata suggerita a Liutpran- do dal concetto ecclesiastico della santità del matrimonio.

E Tamministrazioìie della giustizia si risente pure di cote- ste influenze. Il Principe deve scegliere i suoi giudici tra le per- sone timorate di Dio. L'affermazione è di Liutprando ; e Bachi, alla sua volta, inculca ai magistrati di giudicare rettamente ut in Dei non perveniamus offensa: chi giudica male offende Dio. Lo stesso ripete Astolfo. Altre leggi dicono che il giudice sarà retribuito da Dio nel bene come nel male. Notiamo anche una disposizione di Liutprando sul giuramento. Egli riconosce che il giurare tocca talmente la coscienza, che non crede di potervi costringere alcuno, il quale, appunto per ragione di coscienza, dichiari di astenersene. E si veda ciò che egli e Bachi dicono degli spergiuri: chi giura il falso pecca contro Dio e rinnega la propria fede e compromette la salute dell'anima. Lo stesso Bachi regola anche alcune questioni di polizia sull'esempio della pratica ecclesiastica.

6. Cosi, varie influenze e di vario genere si sono eserci- tate intorno a queste leggi ; ma non vorremmo asserire che le leggi stesse abbiano perciò perduto il loro carattere. Non dicia- mo delle influenze di altri diritti germanici ; ma neppure quelle di diritto romano ed ecclesiastico, che pure mettevano capo ad una civiltà diversa, per quanto numerose, vi riuscirono. la conquista franca muterà molto a coteste condizioni. I Capito- lari, lo vedremo poi, si ricollegano al diritto langobardo per la forma e anche per il contenuto, confermandone le disposizioni e completandole, anche mutandole ; ma il diritto nel suo complesso è rimasto qual era, e ha conservato la sua fisonomia per secoli.

y. - CARATTERE E IMPORTANZA DELL EDITTO.

1. In realtà il diritto langobardo era un diritto pieno di vita e di resistenza, e lo si può vedere innanzi tutto nello Stato « nei rapporti sociali^ che conservarono sempre l'antica impronta.

Quando i Langobardi calarono in Italia, avevano già un saldo ordinamento politico capace di sviluppo, che poteva so- stituirsi benissimo a quello dei Romani; e rimase tale. Perchè intanto, a differenza dei Romani, i quali non conoscevano che

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sovrani assolati, lo Stato langobardo fu sempre uno Stato po- polare, destinato a senrire agli scopi del popolo più ancora che a quelli del reame, e anche troppo: onde se da un canto que- sto fu impedito dall'assumere un carattere molto personale e privato, dall'altro le tendenze individualistiche dei duchi, veri officiali del popolo, finirono con lo spezzame la forte compa- gine in omaggio ad un principio di decentramento, impedendo che raggiungesse lo sviluppo a cui tendeva, nonostante le in- fluenze romane. Di più era uno Stato, che si appoggiava tutto agli ordini militari; e anche questi conservarono a lungo il pri- mitivo carattere. Se pure la podestà civile e militare vi si tro- vano separate, è solo per la istituzione dei gastaldi, dove certo la influenza romana ò stata in gioco ; ma i duchi nuUa avevano di romano.

E cosi i tapparti Bociaìi: neppur essi subirono direttamente la influenza romana. Gli arimanni, cioè i liberi possessori di terre, formavano tuttavia il nerbo della popolazione ; e l'origine <li questa forte unione della libertà col possesso è tutta germa- nica, a tal segno che Botari si credo in obbligo di avvertire che, anche senza possedere terre, si poteva nondimeno essere liberi: iamen liberias^illi permaneat. E Liutprando non ha inteso la cosa diversamente ; il che spiega perchè egli non attribuisca che una scarsa importanza ai minimi hamines. vuoisi pen- sare a modelli romani, imitati dai Langobardi, se, ciononostante, i liberi si trovano raggruppati in classi, essendo ciò dipeso da altre circostanze, segnatamente dallo sviluppo della grande pro- prietà territoriale, che non poteva a meno di chiamare in vita s[)eciali rapporti di protezione e dipendenza. E ciò a prescin- d»>re dagli aldt^ che costituiscono un antico ordine della società germanica. La stessa 9chiavitù^ per quanto siasi venuta miti- gando sotto l'azione della Chiesa, appoggiata forse dal costume, ^i ò nondimeno mantenuta qual era, specie nei riguardi del di- ritto privato e penale. la posizione dei liberti corris|>onde a quella del diritto romano : si presenta mi;:;liore e peggiore se- condo i casi. Onde anche la società serba Tantica impronta; ma ciu non toglie che in parecchi punti essa non abbia subito seu- i^ibili alterazioni di fronte ai maggiori poteri acquistati dal reame e ai nuovi rapporti economici: difatti tutta una serie di forme intermedie vi si appoggia.

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2. Ma anche il diritto privato è ben lungi dall' aver ab- bandonata la sua base nazionale, nonostante le molte infiltra- zioni di diritto romano, che certamente hanno contribuito a modificarlo. Perchè, in verità, esse si perdono nel gran numero, trattandosi più eh' altro di questioni di dettaglio e di esteriorità, che non toccano la sostanza. Persino qualche concetto nuovo, dove riesci a penetrare, fu poi disciplinato dalla pratica in modo indipendente e acquistò una impronta tutta langobarda.

3. Il carattere nazionale si rivela già nella capacità giù- ridica e nella capacità di agire, regolate entrambe alla maniera germanica. E non spenderemo troppe parole a dimostrarlo. Ba- sterà ricordare le disposizioni dell'^ditto di Rotari sui lebbrosi e quelle relative all' età e al sesso. A differenza dei Romani, i Langobardi non conoscevano che due età, l'età minore e l'età maggiore, e anche escludevano che un individuo potesse mai per ragione di età essere pienamente incapace. La donna poi, già per l'editto di Botari, era soggetta al mundio per tutta la vita, così da non poter intraprendere alcun atto da sola, ed aveva poi l'assoluta incapacità di stare in giudizio e di fare te- stimonianza. Né può dirsi che le persone giuridiche fossero con- cepite alla maniera dei Romani. In generale i Germanici non ne avevano un chiaro concetto; e sebbene abbiano assai presto intra weduto che si trattava di un elemento reale della vita giuridica, il quale poteva anche sorgere per energia propria senza bisogno di alcuna forza esterna, che lo creasse, nondimeno non lutnno compreso il vero significato che pure si avrebbe dovuto attribuire all'unità dell'ente di fronte alle persone che ne fa- cevano parte; e cosi, confondendo insieme i due concetti, sono necessariamente approdati a conseguenze ben diverse da quelle dei Romani. Il principio romano^ Si quid universitati debetur singulis, non debetur, nec qu^d débet università^ singuli débent, ha durato molta fatica a farsi largo nella storia, anche di tempi molto più avanzati: il diritto della totalità non si concepì a lungo che come un diritto di tutti; ma, infine, anche in Roma il trattamento unitario, chiamiamolo così, era proceduto per gradi.

4. Lo stesso carattere nazionale appare nel diritto sulle cose: notiamo specialmente la differenza tra cose mobili e im- mobili, che non è solamente una differenza di fatto, come presso i Romani, ma una vera e propria differenza giuridica.

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Quanto alla proprietà mobiliare, merita osservazione ch'essa, tra le mani dei Langobardi, si è quasi confusa col possesso. E forse in antico si trattò veramente e solo di un possesso, per quanto esclusivo: onde non può far meraviglia che anche in se- guito, dopo che il possesso si fu trasformato in proprietà, questa abbia nondimeno conservato qualche cosa dell'antica origine.

Per ciò che riguarda la proprietà immobiliare, abbiamo rico- nosciuto di buon grado che i sistemi romani sono continuati su per giù anche sotto i Langobardi. Ma non tutto è romano: è accaduto già qui che i Langobardi, pur adattandosi alle istituzio- ni, che hanno trovato e che non hanno potuto sradicare, le hanno poi foggiate alla loro maniera. E già nei riguardi economici. II Leioht, che ha studiato questo argomento della proprietà fondiaria nel medio evo, ha notato come nuovo ^ il legame delle varie curtes fìra loro allo scopo di organizzare lavorazioni spe- ciali e lo smercio di certi prodotti ad un pqlatium o palatiolum centrale; specie poi i legami fra le diverse parti di un dominio e la pastorizia e il prato largamente annodati, e il mulino e le angarie insieme condotte al dominio, e un certo diritto speciale di commercio fra i vari massari di una stessa curtis (Eoth. 234) „: tutto un complesso di consuetudini Vusm loci, come le chiama un documento dell'anno 772 che valevano a limitare il do- minio del signore nell'interno della curtis, mentre al di fuori tutta la rappresentanza giuridica spettava a lui. La stessa idea del mundio, che i Romani non conobbero, doveva dare una fiso- noinia tutta particolare a codesti organismi, specie nei riguardi della famiglia agricola e dei contratti agrari. Ma anche il con- cetto giuridico della proprietà privata fu inteso dai Langobardi diversamente che dai Romani. Come tutti i Germanici, anche i Langobardi avevano preso le mosse da una idea collettiva : la proprietà collettiva del villaggio, ohe più tardi doveva cedere a quella della famiglia, per metter capo infine alla proprietà pri- vata individuale. E quello stadio non poteva dirsi superato anche nei tempi di cui trattiamo. Residui dell'antica proprietà del villaggio restavano nei vicanalia o terre de fiwadia, come negli usi che poi furono detti civici ; e forse vi si riannoda an- che il diritto eminente che lo Stato tuttavia conservava sui b»ni. Ne la proprietà collettiva della famiglia erasi ritirata completamente davanti alla proprietà individuale. Restava an-

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cora una certa comunioue di beni tra padre e figli, in cui tutti avevano la loro parte^ e persino una comunione più larga, che poneva ostacoli alle alienazioni e, almeno per lungo tempo, aveva resi impossibili i testamenti. Il diritto immobiliare si presenta cosi tutto pregno di idee germaniche, con carattere li- mitato, ben diverso dal modo assoluto ed egoistico con cui l'ave- nano concepito i Romani.

Il solo istituto romano è la tradizione per cartam; ma la stessa carta era concepita alquanto diversamente, come un do- cumento dispositivo, e anche i suoi effetti erano passati dal do- minio delle obbligazioni in quello dei diritti reali. Pur pren- dendola a prestito dai Bomani, il diritto langobardo le aveva dato una speciale impronta, per modo che Liutprando poteva, ben a ragione, parlare di carte scritte ad legem Langobardorum. Tra i Bomani stessi non pare che siensi diffuse molto: anzi si ridurranno col tempo quasi ai soli Langobardi, e i Bomani fini- ranno col ripudiarle, contentandosi di fare le loro tradizioni per vim vocis.

Per contrario i Langobardi non conoscevano le accessioni, ne quelle fluviali altre, neppure la inaedificatio o la plantatio o la satio, che sacrificarono volentieri tutte all'idea del lavoro. Rotari parla della inckedificatio ; e per quanto il modo con cui il capitolo è redatto sappia di romano, nondimeno il diritto di chi edificava in buona fede era salvo. Risulta dalle parole: quia omnes scire débent quod suum non alienum est, che soltanto la mala fede voleva essere considerata e punita in chi edificava sul terreno altrui ; e ciò si ripete eziandio nella legge, che ri- guarda Taratura e la semina: anch'essa parte dal presupposto, che colui, il quale aveva seminato nel campo di un altro, sa- pesse che non gli apparteneva: sciens non suum.

6. Ne può dirsi romano il modo con cui i Langobardi hanno inteso e disciplinato le obbligazioni. A vero dire, un ta- glio cosi netto tra diritti reali e quelli di obbligazione, per essi neppure esisteva, in quanto che li consideravano entrambi come due faccio o aspetti della medesima idea, ò come due forme giu- ridiche, mercè le quali si effettuava l'acquisto e l'uso dei beni necessari alla vita; un concetto che i Romani avevano appena adombrato. Ma le obbligazioni stesse presentano alcuni punti molto caratteristici. E primamente questo: che anch'esse si

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raSTorzavano in una idea collettiva, che solo molto più tardi do- veva cedere il campo all'idea privata individuale: proprio co- m' era accadalo con la proprietà. Certamente può dirsi ciò delle obbligazioni derivanti da delitto, che occuparono a lungo il primo posto, e tendevano generalmente al conseguimento di una composizione privata, che, oltre al delinquente, colpiva del pari la famiglia e persino il villaggio, se il delinquente rimaneva iguoto. Ma lo si può dire eziandio delle obbligazioni contrat- tuali) almeno fino a un certo punto, perchò accadeva spesso che i parenti conchiudessero insieme il contratto, o vi acconsentisse- ro: i documenti ne sono pieni; e la stessa garanzia che il de- bitore soleva prestare, se non consisteva in un pegno, poteva far luogo ad un debito collettivo, che aveva appunto per iscopo di 80stituire la obbligazione di più persone a quella individuale un solo, o almeno di rafforzarla.

Tutto ciò si ricollega alle condizioni della società antica, le quali ne spiegano anche le forme.

In generale si è ripetuto pei Germanici quanto era avvenuto |H<r i Romani: i contratti obbligatori non potevano nascere se iioii quando il creditore fosse stato abbastanza sicuro della sol- vibilità del debitore o dei suoi garanti e dell'aiuto dei tribu- nali. Da prima non ci furono che contratti realizzati: manca- va il credito e il creditore voleva essere soddisfatto subito, onde Tobbligazione non prima era nata che estinta; e in seguito, un atto esterno s'ò ad ogni modo imposto, che mettesse in evidenza la volontà delle parti e rendesse palese il rapporto. Gli stcbsi Romani non si erano contentati del consenso che tardi e in via affatto eccezionale, mentre generalmente avevano richiesto una causa civile la forma o ìa res perchè la convenzione po- tesse essere protetta da azione. E cosi i Laugobardi. Anche il loro diritto ha originariamente questo carattere ; e d'altra parte le loro cause civili non erano proprio quelle dei Romani: la madia langobarda non ò la siipulatiOj quantunque già Liut- prando adoperi i due vocaboli come sinonimi ; ne Varrà o il lau- tuffildo può scambiarsi con la tradizione effettiva della res. Cosi la forma era diversa, e anche la res fu intesa diversamente.

Del resto già nell'età langobarda si è fatta largo un'idea, anche nel dominio delle contrattazioni, che può dirsi molto fa- miliare ai Germanici: Videa della /ed^, assolutamente iudipen-

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dente dalla forma o da altro sussidio, per modo che colui, il quale aveva promesso, doveva senza più mantenere la pro- messa, anche a costo d'esservi coattivamente costretto. Certo, cotesta idea non avrebbe potuto attecchire in una società an- cora bambina, irta di diffidenze, e in cui il braccio della giu- stizia era troppo fiacco per venire in aiuto dei deboli; ma, cam- biate le condizioni della vita sociale, essa si è largamente affer- mata. Vogliamo alludere alla stantia^ a cui accenna di sfug- gita Bachi, come a cosa entrata già nella pratica, e a cui il debitore non avrebbe potuto sottrarsi neppure col giuramento quante volte fosse seguita davanti ad uomini liberi. Era il patto dei Bomani; e già Carlo di Tocco e Biagio da Morcone l'hanno chiamata cosi, pur avvertendo che, mentre per diritto ro- mano non ne sarebbe derivata alcuna azione, la produceva per diritto langobardo anche un semplice patto, appunto quia Lon- gobardus tenetur de stantia. In fondo si trattava di una figura giuridica tutta propria dei Langobardi, la quale non poteva aver vigore che tra essi, ed è loro merito di averla creata, emanci- pandosi dalle forme per badare unicamente a ciò che davvero ò sostanziale nelle contrattazioni umane: vogliamo dire, il li- bero accordo di due volontà in relazione ad una determinata prestazione. Il diritto romano non aveva fatto che passi molto timidi in questo senso, e la scienza romanistica tarderà ancora molto ad adattarvisi.

questo è tutto. Più sopra abbiamo ricordato come la pratica romana, a differenza del diritto ufficiale, non si fosse limitata a considerare l'obbligazione soltanto dal punto di vista di una unione personale di due individui, uno dei quali dovesse dare o fare e l'altro avesse il diritto di ricevere, ma insieme avesse tenuto conto del suo tenore obiettivo, cioè del valore del credito ; e come tale concetto avesse fatto breccia anche tra' Lan- gobardi. Però questi sono andati più in là. Vogliamo alludere ai titoli di credito, che i Langobardi immedesimarono presto col credito stesso, confondendo la carta con l'obbligazione e facen- done una cosa, sola anche giuridicamente: un'altra idea feconda, che non si doveva perdere più, e che alla sua volta spiega più cose; specie il possesso dei crediti e la grande importanza che i titoli di credito vennero via via acquistando, ben oltre ai li- miti del diritto volgare romano. Pe ò accaduto nuovamente

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con essi ciò ohe con altri istituti: i Langobardi, pur ispiran- <lo8Ì alla pratica romana, l' hanno mantenuta più tenacemente, in- fondendovi il soffio di una vita nuova, svolgendola e perfezio- nandola, a segno che l' istituto stesso ne parve trasformato, e il rinascimento romanistico, rimasto ligio alla lettera del diritto classico, finirà poi nuovamente col ripudiarlo.

Ma anche i principi, che regolavano l'adempimento delle ob- bligazioni, erano diversi. Perchè, mentre i Bomani partivano solo dal punto di vista del danno, i Langobardi, d'accordo in ciò con altri barbari, vi provvedevano con una ammenda, ogni qnal volta si trattava di obbligazioni che avessero per oggetto un'omissione, e anche di obbligazioni di fare, se all'indole loro avesse ripugnato l'esecuzione forzata; mentre nei casi del co- modato, del deposito e del pegno, il debitore che non restituiva la cosa, si aveva addirittura per ladro. Ma tutto ciò è di ori- gine germanica; come lo è del pari il risarcimento del danno anche non derivato da colpa, nonostante le influenze romane.

6. Perfino i modi con cui le obbligazioni solevano essere garantite nella loro esecuzione, se pure, quanto al nome, ricor- davano quelli dei Romani^ sostanzialmente ne difierivano.

Cosi già il pegno. È inutile di ricordare quali fossero le for- me di cui l'antico diritto romano l'aveva rivestito, forse non diverse da quelle che il diritto barbarico tuttavia usava; ma è oerto che il diritto romano aveva finito con l'emanciparsene per £ar luogo ad una concezione più civile, che da un canto auto- rizzava il creditore a vendere la cosa e soddisfarsi sul prezzo, restituendo il di più, e dall'altro canto resisteva ancora alla tendenza, d'altronde ripetuta, di addossare al creditore stesso i rischi della cosa. Non cosi nel diritto langobardo. Il pegno, oom'esso lo ha concepito, costituiva a volte soltanto un mezzo, con cui il creditore costringeva indirettamente il debitore a pa- gare; mentre in altri casi stava a rappresentare il credito, e si risolveva in un soddisfacimento immediato, per quanto condi- zionato di es80, una specie di corrispettivo interinale, che per- metteva al creditore di tenere la cosa per sé, ancorchò il suo valore superasse quello del credito, mentre poi ne sopportava i riachi. Il diritto di pegno dei Langobardi si dibatte fra questi due estremi.

la fideiuéiionéj come fu intesa, aveva nulla di comune

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con V istituto dei Bomani. In generale il fideiussore germanico non si vincolava puramente e semplicemente al pagamento di una determinata somma, come nel diritto romano : si obbligava soltanto a prendere sopra di se le conseguenze del rifiuto del debitore alla soddisfazione del debito; e ne derivavano due ef- fetti. Primo: che l'obbligazione sua era, come quella di un pe- gno, subordinata alla costituzione in mora del debitore; e se- condo: ch'egli poi ne rispondeva principalmente, per modo da autorizzare il creditore a procedere senza più contro di lui, an- che se il debitore non fosse stato preventivamente escusso. In ispecie, per ciò che riguarda i Langobardi, il fideiussore era prima di tutto un esecutore o mediatore, e la sua mediazione consisteva nel pignorare il debitore per cpnto del creditore ; ma pagava del proprio se non riusciva a pignorarlo, salvo a sot- tentrare poi in tutte le ragioni del credito. Evidentemente il distacco dal diritto romano non avrebbe potuto essere più pro- fondo.

7. Passiamo a discorrere della famiglia. Certamente l'or- ganizzazione della Sippe o Fara, che voglia dirsi, durò a lungo tra' Langobardi, ad era molto potente. Rileviamo da Paolo Diacono, che le fare formavano tuttavia delle unità chinse e compatte, e Io stesso nome fu anche adoperato a dinotare gli sta- bilimenti barbarici, formatisi appunto per fare, E cosi attra. ver- sano i secoli ! Si tratta nuovamente di un ordinamento tutto germanico, che forse salvò i Langobardi dal soggiacere a troppe influenze romane, anche nonostante i matrimoni con le donne dei vinti, che pur si fecero largo col tempo: un ordinamento, il quale conservò a lungo tutta la sua importanza, per più ri- guardi. E anzitutto come organo penale, perchè i parenti erano a volte incaricati essi delle vendette pei trascorsi di qualche membro della casa, specie delle donne. Ma insieme provvede- vano alle difese, correndo alle faide, fungendo nei processi co- rno congiuratori unitamente ai vicini, che in fondo erano anche parenti, e vegliando sulla donna, che fosse andata a marito, per impedire che venisse maltrattata. Sono tutte prove della forte organizzazione familiare ; e un'altra ci è fornita da ÌElotari dove dice che nessuna legittimazione di figli naturali avrebbe po- tuto farsi, senza che i legittimi acconsentissero. E guai a chi avesse alienato il patrimonio domestico in danno dei parenti l

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lo si sarebbe avuto in conto di nemico. Ma tutto ciò rispecchia una condizione di cose, che non ha nulla di comune col diritto romano: lo sfacelo della famiglia romana al tempo del basso impero è cosa pur troppo nota.

Ma anche il mundio, un vecchio istituto germanico che rap- presenta come il pernio della famiglia, si è mantenuto nelle for- me più svariate, e non può dirsi che abbia cambiato carattere, per quanto possa essersi mitigato col tempo.

Sopra di esso e basato il matrimonio; cosicché anche il ma- trimonio langobardo, nonostante tutte le influenze, che può aver subito per opera della Chiesa, conserva tuttavia l'antica impronta nazionale.

Se ne ha già una prova negli sponsali, che si compiono ap- punto con la compera del mundio, in die illa quando fabola fir- mata fuerat, o che quasi assumono le parvenze di un primo ma- trimonio, il quale diventerà poi perfetto con la tradizione della sposa da parte del mundoaldo: tutte particolarità che possono anche trovare il loro riscontro nell'antico diritto dei Romani, ma che oggimai rappresentavano per essi uno stadio superato da lunga pezza. Certo, i matrimoni con la manus appartene- vano alla storia, mentre il vincolo coniugale d'altro non abbi- sognava pei Romani ohe del reciproco accordo delle parti : era appunto il consenso che faceva le nozze.

il regime dei beni tra' coniugi può dirsi quale il diritto romano lo aveva ideato: è un regime tutto suo, non dominato af- fatto dal principio della separazione o da quello della doto. Oggimai la donna aveva bensì i suoi beni distinti dai beni del marito: il faderfio, il me fio, la morgengahe; ma il marito vi estendeva quella medesima podestà che esercitava sulla per- sona. Era il sistema, che suol dirsi della comunione ammi" nistrativa, da cui se ne svolgerà poi un altro, che, pur man- tenendo Tamministrazione al marito, non distinguerà più le rispettive sostanze, confondendole in una sola massa : una vera e propria comunione dei beni, a cui la donna e il marito sa- ranno insieme chiamati a partecipare, sebbene in proporzioni di- suguali, a somiglianza forse delFaltra, che esisteva tra padre e figli. Se pure v'ò in tutto ciò qualche cosa che, lontanamente, ricordi la dote, è soltanto il faderfio o corredo, che il mundoaldo i<oleva dare alla donna nel giorno delle nozze.

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Lo stesso mundio paterno era intimamente legato al mundia maritale : si fondava su di esso, non esistendo affatto all' infuori dei matrimoni col mundio, ed era una podestà molto rigida, più ohe non fosse oggimai la patria podestà dei Bomani. L'azione del tempo non aveva giovato gran fatto a mitigarla, e il padre conservava tuttavia dei diritti molto ampli, specie sulla persona dei figli, come quello di esporli e di venderli. La stessa disciplina domestica era ancora molto estesa, e neppure la legge aveva osato d'imbrigliarla. Se pure la personalità dei figli riesci ad affermarsi, fu nei riguardi del patrimonio : non già che l'antica comunione tuttavia non esistesse ; ma il figlio, in questi tempii poteva anche avere qualcosa di suo, salvo che l'amministrazione e il godimento ne spettavano al padre. i modi di emanci- pazione avevano nulla di comune con quelli dei [Romani.

Dicasi lo stesso del mundio che i parenti esercitavano sulle persone che, per ragione dell'età o del sesso, non erano in grado di governarsi da so e di amministrare utilmente i beni. Certo, esso trovava il suo riscontro nella tutela dei Bomani; ma. del resto l'istituto romano e l'istituto germanico erano ben lungi dal confondersi. Non diciamo delle origini, e neppure dello svol- gimento storico considerato nelle sue linee generali. Tanto i Somani quanto i barbari avevano concepito originariamente la tutela come un complemento del diritto di famiglia, allo scopo d' impedire le disgregazioni patrimoniali che altrimenti, sia per un motivo sia per l'altro, avrebbero potuto verificarsi, e ciò nell'interesse della famiglia stessa; ma gli uni e gli altri, hanno finito poi col considerare il tutore più ch'altro dal punto di vi- sta della protezione e vigilanza a favore degli incapaci e in loro vantaggio. I Bomani ne avevano fatto addirittura un onus o munus publicum, più temuto che desiderato; ma qualche cosa di simile si era verificata anche tra' Langobardi nel tempo della loro dominazione. Facciamo astrazione dal mundio del fratella sulla sorella, regolato alla stessa maniera del mundio paterno ; ma trattandosi di altri parenti, la legge aveva già creduto di occu- parsene, di guisa che anche il loro mundio perdette quel carat- tere di signoria, che aveva avuto una volta, per ridursi alle semplici proporzioni della protezione e rappresentanza. Anzi in certi casi interveniva addirittura il giudice, sia per integrare sia per sostituire l'opera dei parenti, finché poi, sotto Lotario^

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risorgerà anche l' idea di una tutela superiore propria dei fio- mani, oioò l'idea del diritto ed obbligo della pubblica autorità di sorvegliare i tutori. E nondimeno la tutela langobarda non ò la tutela romana. Possiamo anche prescindere dal fatto, che quella per ragione di età si applicava ai minori oltre che agli impuberi, cosa che il diritto romano non consentiva ; ma le stesse cause di delazione erano diverse, e anche gli uffici del tutore non combinavano ; la responsabilità era la stessa. La legge langobarda non conosce propriamente che tutori nati : che se nella pratica si è fatta largo l'idea ohe il padre o il marito potessero, anche con un atto della loro volontà, designare il mundoaldo, do- vevano ad ogni modo farlo nella forma della commendazione o del contratto, non anche pel caso della morte, perchè ciò avrebbe contraddetto al principio generale del diritto germanico, se* condo cui nessuno poteva prendere disposizioni per dopo la morte con lo intendimento che dovessero avere efficacia solo da quel- r istante. Comunque, non si conosceva ancora una tutela dativa, in cui il tutore era nominato per decreto dell'autorità. gli uffici, ohe concernevano la persona erano ben distinti da quelli ohe riguardavano le sostanze ; e anche questo ò un punto che me- rita tutta la nostra considerazione. U diritto romano aveva già per tempo ristretto molto le attribuzioni del tutore per ciò che si riferiva alla persona, ma il diritto langobardo non conosceva coleste restrizioni; e non ne conosceva neppure altre concer- nenti l'amministrazione dei beni. Ma gli stessi modi, con cui il tutore vi provvedeva, erano diversi. La distinzione, tutta ro- mana, deWaueioritatis interpositio e del cansensus non aveva im- portanza pei Langobardi dal momento che la persona del mun- doaldo non mutava più al giungere della pubertà, e invece tro- vavano generalmente applicazione i principi di una libera rap- presentanza. Infine, se pure il tutore era responsabile della sua gestione, sembra però che rispondesse solo del capitale, mentre i frutti servivano al mantenimento del mundling, e quelli che sopravanzavano erano suoi : egli non aveva obbligo di resti- tuire se non ciò che gli era stato consegnato.

8. Le cose non stavano diversamente col diritto eredi' tario; il quale obbediva pure a idee nazionali, specie quello della famiglia, cosi fortemente radicato al principio dell'agna- zione, oramai abbandonato dai Romani. E lo stesso diritto della

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donna, anche se agnata, conservava tuttavia qualche cosa del- l'antico. Botari non l'aveva ammessa alla eredità che in man- canza di figli maschi legittimi, ed anche solamente in parte. Che se in tempi posteriori ciò venne mutato sotto la influenza di altri diritti, nondimeno anche per l'editto di Liutprando la donna era ben lungi dal trovarsi pareggiata ai maschi. I quali erano sempre preferiti ; e ad ogni modo neppure Liutprando la chiamò a partecipare al guidrigildo, pel motivo, tutto germanico, che, in vista del sesso, non avrebbe potuto levare la faida. Le stesse cause di diseredazione erano concepite piuttosto arbitra- riamente quando si trattava di donne, bastando per esse d'aver agito cantra volontatem patria aut fratria, mentre occorreva ai maschi una certa culpa perchè si potessero diseredare. Se poi corrispondesse al vero, come crediamo, che l'ordine, con cui i Langobardi hanno chiamato gli eredi alla successione, fosse quello delle parentele, avremmo un argomento di più per asserire che il diritto ereditario della famiglia si presenta con veste tutta germanica.

Le stesse adoptiones in hereditatem non rivelano proprio nulla che ricordi le istituzioni romane dei tempi di cui discorriamo. Hanno assunto la forma di contratti ereditari, che anche il di- ritto romano può aver conosciuto in età molto remota, ma ohe di certo non ammetteva ne tollerava più. In questi tempi se ne sarebbe guardato come da una specie di eresia giuridica. la forma della tingatio e romana: forma curiosa, che ricordali modo con cui si facevano le leggi, ma che non deve recar me- raviglia per poco si pensi che trattavasi di sostituire un nuovo diritto ereditario a quello già stabilito per legge. La disposi- zione stessa, perchè proveniente da contratto, acquistava un ca- rattere irrevocabile, ma insieme produceva effetti reali perchè importava la tradizione del patrimonio. Perfino i testamenti^ che i Langobardi, cedendo alla influenza romana, accettano con- trariamente alle vecchie tradizioni germaniche, -non sono i te- stamenti romani. Pur accettandoli, essi li hanno foggiati alla loro maniera, senza molto insistere sulla forma, perfino senza richie- dere alcuna istituzione di erede, e a volte anche con carattere addirittura irrevocabile.

Ma le medesime disposizioni, sia tra' vivi sia di ultima vo- lontà, non bastaroao ancora ad alterare il carattere dell'antico

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diritto, che voleva riservata la eredità alla famiglia. Rotari esclude che il padre possa tingare ad altri ciò che per legge do- veva ai figli, e insieme riconosce una legittima aspettativa anche degli altri parenti, giudicando che il tingare le proprie sostanze ad estranei possa essere un caso di grave inimicizia. i te- stamenti hanno troppo innovato a cotesta condizione di cose, perchò il testatore non avrebbe, ad ogni modo, potuto disporre che di una parte dei beni, riservando il resto alla famiglia. E la riserva non va confusa con la legittima romana, quanto al punto di partenza, quanto al suo valore giuridico, seb- bene il pensiero possa facilmente correre ad essa. Siamo di nuovo al cospetto di una trasformazione svoltasi su base tutta ger- manica.

E cosi, del pari, V acquisto dell'eredità differiva sostanzial- mente dal modo con cui l'avevano concepito i Romani. In gene- rale esso avveniva ipso iure : una maniera d'acquisto, che le leggi romane avevano ammesso in via di eccezione solo per certi eredi, ma ohe i barbari considerarono come regola. E neppure ne col- limavano gli effetti. Lungi dal continuare la personalità del defunto, l'erede succedeva solo nel possesso e nel l'amministra- zione di beni, di cui già prima poteva considerarsi proprietario ; e la stessa responsabilità dell'erede pei debiti del defunto ha un carattere tutto suo. A tacere delle obbligazioni ex delieto, che avrebbero potuto metter capo alla faida, quelle contrattuali si consideravano indissolubilmente legate con la persona che le aveva assunte, e non passavano agli eredi. Che se, obbedendo ad influenze estranee, venne ammessa una eccezione, fu solo per le obbligazioni avvalorate dalla wadia e da fideiussori; e nondi- meno la coscienza popolare vi si adagiò a malincuore , tanto ò vero che, per conseguirne lo scopo, il debitore non mancava di minacciare severe pene, anche spirituali, agli eredi che non ne avessero rispettati gl'impegni. Il fisco poi continuò, come per r addietro, a non rispondere neppure di coteste obbligazioni, appropriandosi l'eredità sine debitum aut altquam repetitionem,

9. Un nuovo campo rimasto in gran parte immune è quello del diritto penale.

A prima giunta lo si direbbe simile a quello della legge salica; ma in realtà esso segua un progresso, dovuto anche alla infiltra- zione del diritto romano, come non abbiamo mancato di avver-

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tire a suo luogo, specie nei riguardi della imputabilità. Perchò si teneva pur conto della intenzione ; e nondimeno non oseremmo affermare che il punto di vista obiettivo fosse completamente su- perato, se per es. il proprietario, pur con qualche temperamento, era tuttavia respon'tobile dei danni derivanti dalla cosa sua. Pa- rimente abbiamo ricordato più su talune pene dovute anche alla influenza romana ; ma in generale non erano quelle che avessero il sopravvento. La morte era minacciata più volte per reati, che già nell'antico diritto germanico, a detta di Tacito, erano stati puniti a quel modo; ma il sistema, che veramente predo- minava, era sempre quello delle composizioni graduate secondo la qualità dei reati e secondo le persone, che n'erano colpite, come nella legge salica, anche se in realtà non riuscivano ade* .

guate sempre al valore dell'oggetto. Perchò già ebbimo occa- '

sione di avvertire che il legislatore le aveva accresciute con lo |

scopo di rendere più agevoli le pacificazioni. In ispecie è di- sposizione prettamente germanica, che per la perdita di un oc- chio o della mano o del piede si debba pagare metà del guidri- gildo, come se il valore della persona ne fosse stato dimezzato. In pari tempo poi ne rileviamo il punto di vista privato, da cui ancora si considerava il delitto; e d'altra parte ò degno di nota come il Palatium regis reclamasse pure la sua parte, la quale, generalmente, importava la metà della composizione, salvo in alcuni casi, in cui consisteva in una somma fissa, perchò si trattava insieme di un offesa al re e ai privati, e come di due '

offese. I

10. il modo, onde si provvedeva alla tutela dei diritti^ si allontana gran fatto dalle antiche consuetudini. I Lango- bardi andavano ancora molto in nei riguardi della faida, e ^

parimente permettevano a chicchessia di aiutarsi da so contro ì I

danni degli uomini e degli animali ; ma lo stesso valeva eziandio degli ordini processuali, dove le influenze romane non ebbero tanta presa da cancellarne il carattere originario.

Cosi restavano tuttavia confusi il processo civile e il penale. L'idea, da cui si partiva, era sempre quella dell'antico diritto germanico, dell'offesa patita, senza badare all'origine al ,

carattere speciale che poteva presentare. Perfino la rivendica- 1

zione degli immobili si fondava sul presupposto di una sottra- i

zione ingiusta del possesso : quod malo ordine possedeat; i^on

fi

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dioiamo poi quella della proprietà mobiliare, ohe a rigore non costituiva neppure una rivendicazione, ma un'azione mista ex de- Ueto^ che il proprietario poteva produrre solo nel caso che l'og- getto fosse uscito dalle sue mani senza il concorso della sua vo- ! lontà, e ohe d'altra parte poteva sperimentarsi anche da chi ^ non fosse proprietario, per es. dal comodatario o depositario, sempre sulla base del furto. Già Botari ne parla a proposito di una compera sospetta, e dispone che il compratore, che non potesse presentare il proprio autore, dovesse senza più restituire l'oggetto, pur liberandosi dalla taccia di furto col giuramento. E cosi press'a poco anche Liutprando.

Parimente, se pure una rappresentanza era conosciuta, era quella legale, e bisogna scendere fino a Rachi per trovare che un estraneo potesse trattare una causa altrui, de vidua aut de arfanOj sempre con licenza del giudice. E anche il sistema delle prove è germanico. Ciò risulta già dal loro genere : il duello e i sacramentali, i quali, in sostanza, non sono che un espediente per regolare e trasformare le vendette ; ma si rileva eziandio dal fatto che la prova non si considerava come un onere, ma come un diritto, che la legge riservava al convenuto.

Lo stesso procedimento esecutivo, ben lungi dal dipendere dallo Stato, conservava sempre l'antico carattere stragiudiziale. Lo si vede chiaramente in Botari e in Liutprando, quantunque quest'ultimo vi metta delle restrizioni, che però, pur come tali, sono assai istruttive. Del resto anche la pign orazione giudi- ziaria ofiViva un cai*attere diverso da quello dei Romani: era, più ch'altro, un mezzo per agire sulla volontà del debitore e costringerlo a pagare.

11. Tele si presenta questo diritto, ohe influenze stra- niere possono anche aver modificato in alcuni punti, ma che nei suo complesso conserva l'antica impronta e la natia fre- schezza, all'unisono con le condizioni sociali del popolo a cui doveva trovare applicazione, e tu tt' altro che irrigidito nelle forme. Nei duecento anni che durò la dominazione dei Lango- bardi in Italia, esso venne via via temperandosi e perfezionan- dosi; le stesse iufluenze, che agirono su di esso, ne mostrano la grande adattabilità, ma insieme giova insistervi anche la grande resistenza. Avrebbe potuto rimanere addirittura uK^hiac- oiato o assorbito dopo cosi gran lasso di tempo, con tanti contatti

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e tante tentazioni, di fronte ad una civiltà tanto più progredita, che aveva per se tutto il fascino che può dare una grande sto- ria, e a cui i barbari volentieri s' inchinavano ; e invece non solo ha resistito, ma è riuscito perfino a far breccia e signoreggiare. Non diremo definitivamente, perchè alla sua volta il diritto ro- mano verrà alla riscossa e non gli darà tregua; ma per il mo- mento le cose stanno cosi, e i momenti storici vogliono dire se- coli. La stessa pratica romana ha dovuto piegarsi più volte al concetto barbarico, persino in territori, che ne parevano rimasti immuni. Perchè le idee hanno fatto cammino, anche se le armi non hanno loro dischiusa la via ; e si può addirittura asserire, senza tema di andare errati, che non ci sia regione in Italia che, presto o tardi, non ne abbia subita la influenza. Cosi as- sistiamo come ad una specie di recezione del diritto langobardo da parte della pratica romana, dovunque: nelle provincie in cui avevano dominato i Langobardi e anche nell'Italia bizan- tina.

Certo, nulla si opponeva a che le leggi personali vi pene- trassero ; e una volta superate le frontiere, il cammino fu facile. Cosi, il Besta ha potuto raccogliere parecchi esempi d' influenza langobarda in Venezia; mentre altri oflrono i placiti romani degli anni 813, 942, 966, 983 nel regesto di Farfa e in quello di Subiaco. Anzi la influenza langobarda dev'essere stata in Roma molto potente, se la giurisdizione vi veniva esercitata in nome del re langobardo, come rileviamo dal Libellua de impe- rataria potestate in urbe Roma, E anche le Questtones de iuns subtilitatibus vi accennano. Non diciamo poi dell'Esarcato e della Pentapoli; ma qui la cosa appare meno strana, trattandosi di Provincie conquistate due volte dai Langobardi negli anni 728 e 762, sebbene poi non le conservassero per molto tempo. Gli stessi libri giuridici usciti dalla scuola di Ravenna non hanno esitato a fare buon viso a molte disposizioni degli Editti; ma fu spe- cialmente nella bassa Italia che il diritto langobardo potè spa- ziare in lungo ed in largo.

Già nella seconda metà del secolo IX la dominazione lan- gobarda si era estesa in gran parte del continente napoletano : Anzi quasi dappertutto, ad eccezione della Calabria al sud, del- l'estrema punta delle Puglie al nord, e dei ducati di Napoli, Gaeta ed Amalfi, dominati da signorotti locali sotto la dipen-

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denza di Bizanzio. Naturalmente l'elemento langobardo ebbe cosi agio di diffondersi fino al 1076, in cui Salerno cadde in potere dei Normanni; e senza negare la influenza dei Greci, manifestatasi in varie guise, nella lingua, nell'arte e nella fede, non esitiamo a riconoscere che, in fatto di leggi, il predominio è rimasto ai Langobardi. Appunto in questi tempi fu fatta una traduzione greca dell'Editto, molto fedele, salvo in alcuni punti resi necessari specialmente pel diverso ordinamento giudiziario ; ma il codice, che ce la tramandò, contiene insieme ogni sorta di scritti bizantini e anche giustinianei, offrendo, cosi, nel suo complesso una fedele imagine di codesta condizione di cose. Certo, non dividiamo l' idea del Neumeyer, che, fatta astrazione dai territori bizantini, negli altri, cioè in quelli schiettamente langobardi, ogni traccia dell'uso del diritto romano sia onnina* mente scomparsa; ma nondimeno è innegabile che una certa prevalenza del diritto langobardo per alquanti secoli vi si ri- scontra: si può dire fino alla conquista normanna, dopo la quale le leggi romane riescono nuovamente ad imporsi nella scienza e nella vita. I documenti sono pieni di richiami agli Editti, e ad ogni modo ne riproducono i principi a segno da non esserci quasi istituto, il quale non ne risenta l'influsso: sia che si tratti di domini o di contratti, di pegni o di fideiussioni, di spon- sali o di nozze, particolarmente dello speciale regime di be- ni tra coniugi, e anche della successione della famiglia. In- sieme vi sono placiti che si decidono con la scorta e a norma deirEditto.

Ciò che è più notevole, il diritto langobardo ha continuato perfino nei territori ritornati bizantini, per es. nelle Puglie, che studiandone i documenti sembra quasi di rivivere al tempo della dominazione langobarda. Il tema di Bari era detto ap- punto Aoyyo^apSfa, certo per la prevalenza dell'elemento lon- gobardo, e il Catapano e l'tm/i^ria/fjj irpa^artuij vi compivano ve- ramente atti in conformità dell' Editto, interrogando per es. la don- na, che volesse alienare, per sapere se non patisse violenza e dan- do la loro approvazione secunduni statata legum; oppure consen- tendo a che un minore potesse alienare la sua parte, qualora si ve- rificasse uno dei casi in cui il vir gloriosissimus ac dulcù memoria IJutprand suo tempore largientiam venumdandum iribuit ; o anche ordinando, senza più, al giudice del luogo di decidere x«:à tòv

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v6|iov Tòv Xorffi^apitxbv. E ciò a tacere di tutta una folla di ma trimoni compiuti con la constituzione del mefio e del morgincap.

Ma neppure i territori, sfuggiti ai Langobardi, hanno potuto sottrarsi alla influenza delle loro leggi. Alludiamo a Napoli, a Gaeta e alla Calabria; il diritto langobardo penetrato anche qui, sebbene in più scarsa misura; e già nella Consuetudo Le- burie (e. 780) e nelle Pactiones Oregorii (933) se ne possono tro- var tracoie. Ma inoltre lo attestano i documenti. In genere trat- tasi di Bomani o Romane che danno la wadia e pongono i fideius- sori, 0 ricevono il launegildo, o pretendono la quarta, o si fanno assistere dal mundoaldo, sempre richiamandosi al diritto romano : iuocta legem nostrani Romanorwn iuxta legetn et consuetudo nostre Romanorum. In realtà si tratta di istituti langobardi, che a mala pena a volte vengono mascherati con nomi romani, com'è accaduto con la quarta, che un documento del 932 chiama fcU- cidia; ma a volte non si peritano neppure di richiamarsi espli- oitamente al diritto langobardo, come appare in un documento dell'anno 1030. Sono due fratelli di Atrani, città amalfitana, che fanno una donazione ad una loro sorella; e mentre dicono di eseguirla secundum lex et consuetudo nostre romanorum,., et prò hoc donum confirmandum iuxta legem et consuetudo nostre roma- norum launegilt a te,., recepimus, e danno anche la wadia e costituiscono i fideiussori, soggiungono poi : et si.., defensare non potuerimus, tunc sicut in lex langnubardorum donum et launegilt continet, adimpleamus. Il documento non potrebbe essere più significativo ; ma, oltre che nei documenti, ne abbiamo la dimo- strazione anche nelle consuetudini delle città e perfino nelle fonti giuridiche bizantine.

Quanto alla Sicilia, alcunché può esservi penetrato appunto col tramite di queste medesime fonti, tutt'altro che chiuse alle influenze barbariche, e anche a mezzo delle popolazioni del con- tinente, come ne abbiamo esempi già nel periodo musulmano. Ad ogni modo, almeno nel secolo XII, vi furono alcune colonie lombarde abbastanza estese, come verosimilmente Oaltagirone, e senza dubbio poi Piazza Armerina, le quali saranno rimaste attaccate alla loro legge. Certo le consuetudini di Oaltagirone e di Piazza Armerina s' inspirano al diritto langobardo, quando escludono le figlie maritate e dotate dalla successione, volendo ohe stessero contente alla dote ; ma del resto simili disposizioni

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si trovano anche nelle consuetudini di Siracusa e in quelle de- riva te di Noto. Un placito messinese del 1133 si riferisce evi- dentemente al diritto langobardo, a proposito di certe legum compogitianes, sulle quali era vi disputa tra il vescovo e gli abi- tanti latini di Patti per sapere a chi appartenessero ; e alcuni documenti del 1279 e 1280, riferiti dallo Spata, accennano addi- rittura a donne soggette al mundio.

§ 3. - LE FORMULE. »*

1. Il movimento legislativo, di cui ci siamo occupati finora, trova il suo compimento in altro analogo non meno impor- tante, dovuto soprattutto alla pratica, che rappresenta ciò che veramente v'aveva di vivo nel diritto. Vogliamo alludere alle formule, una nuova e ricca fonte giuridica, che si trova già nel periodo barbarico, ma che continua anche in seguito. Al periodo barbarico appartengono: le formule ostrogote (sec. VI), le vi- sigote (sec. VII), le audegavenses (sec. VII), le pontificie (sec. VII e Vili), le formule di Marcolfo (princ. del sec. Vili), quelle

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Form/ùUamvUwnàfn {* NeuM Arohiv XI, 818 aeffg.). Si vedano anche le intro- dosioni ohe egli nella sua edisione premise alle singole raccolte. ScbeOdsb, Utb0r die fràninMchen FormeUainmlìMgen (*" Zeitsohr. " fùr B. G.« IV, 75 segg.)- KacscB, nella Histor. Zeitsohr. « nuova serie, XV, 512 segg. Tabdif, neUa «BihUoth. de Tóoole dee ohartes, XLIV, 852 segg. e nella «"Noavelle Bevue hist de droit« Vili, 557 segg.; IX, 8(» segg. Bbumnes, Die Erbpaehi der For- meieammlungen van Anger$ uTToure r Zeitechr.* fOr B. O. « V, 89 segg.). Bin- osvwso, Oomwteniaiio ad /armuUé Vieigoihieae, Berolini, 1858. &TOvrv^ De for- mulie etcundwn lesem romanam a VII eaeeulo ad XII eaeetUum. Parisiis, 18U0. Da BosiÈas, Le liòer diumue de pcnUfes romoinee (*^ Bevue histor. du droit frano, et étranger« années 1868-89). SUckil, Prolegomena wmm lAher diumue, 1^P*^& I e U; 1889. GiOKUi L, Storia eeUma del eodiee ^oUeanQ del Diumue Ramanorum Fcntifieuee, BomS) 1889 (dall' * Arob. della Società rom. di storia patria « XIV. DncBisH& Le liòer Diumue et lee eleeUone piftUificalee ou VII eU- eie, (nella "Biblioth. de récole deeohartes , UI, 1-2, 1891). ^Ediaioni. Lasciando stare le più antiche di BioHOir, LufosuBsiicR, Balusb, Cabciami e Waltbb, ricor- diamo quella sistematica di & Db Boeièbb, Beeueil gétUral dee formulee ueiiéee dane Vempire dee Franee du V au X eiicle, 8 voi., Paris, 1859-71 e sne- oialmente la naovadeUo Zeumbs nei ''Mon Germ. , Legnm scotio, T, Ft^rmulae MerovimgUi et Karolmi Aevi, Hannover, 1888. Per il Jiber diumue si vedano le edisioni di Bositas, LiÒer Diumue au Reeueil de formulee. ueiUepar laeha/t^ ektlUrie pon^/Ual dmV au XI eiìele avee euppL, 2 vol.^aris, 1809, e di Sickbl, lÀber Dmmue Boeumorum Fonlifieum, Vindobonae, 1889. Dopo la pabblica- aione del Siokel veane scoperto un nuovo codice del Liber aiumue neU'Am- brodaaa.

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di Tours e di Clermont-Ferrand (ambedue del sec. Vili) ; e in parte anche le senonenses, le bituricenses, quelle del Bignon e del Merkel (sec. Vili). Tutte le altre furono redatte più tardi: le lindenbrogianae per es. appartengono già al principio del secolo IX.

Generalmente abbiamo a che fare con tipi e modelli di atti giuridici di varia specie, che dovevano servire di scorta nella vita pratica, sia per la compilazione di qualche scrittura pri- vata, sia per la condotta dei processi e anche nei rapporti di diritto pubblico. Sicché esistono varie maniere di formule, se- condo l'oggetto a cui si riferiscono. Quelle del consolato, del patriziato, del prefetto, del pretorio ecc., che si trovano tra le ostrogote, appartengono al diritto pubblico. Dall'altro canto ne abbiamo moltissime di diritto privato; e queste si occupano principalmente dei rapporti delle terre, di vendite, permute, donazioni alle chiese, precarie e prestane, manomissioni, patti nuziali, disposizioni di ultima volontà, tutela, e simili. Altre sono formule processuali.

2. Naturalmente era sopra tutto la pratica del diritto, che se ne avvantaggiava. Le formule sono generalmente desunte dalla vita, dai diplomi già esistenti negli archivi regi, o nei libri traditianum delle chiese o dei cenobi. Anzi, qua e vi stanno mescolati documenti genuini ; ma solo per eccezione. Il più delle volte le formule sono calcate sur essi ; ne ciò deve far meraviglia. Importava di dar loro il carattere e Futilità di schemi generali, e quindi si omettevano i rapporti concreti, i nomi delle persone, dei luoghi, delle terre, la data e via di- cendo, o se ne allargavano i confini, perchè potessero servire anche ad altri casi. Comunque, rispecchiavano la vita giuri- dica, e ne seguivano passo passo il movimento. Perciò erano di grande aiuto alla pratica, e si ai privati che ai giudici, se- condo i casi. In pari tempo servivano a fissare il diritto, il che co- stituiva pure un vantaggio, massime in un tempo, in cui gli anti- chi istituti venivano sempre più modificandosi, e in cui tutto as- sumeva un carattere mobile, incerto, oscillante. Inoltre giova studiarle, per conoscere alcuni istituti che si cercherebbero invano nelle leggi, perchè queste sono ben lungi dall'esaurire tutto il campo del diritto. Cosi per citare qualche esempio, si cercherebbe invano nella legge salica la desponsatio per solidum et denarium

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e il dotalitium della terza parte dei beni, o nella legge romana la traditio per cartam o la sollemnis introductio locorum, che com- piva la tradizione dell'immobile alienato; nonostante che ap- punto la desponsatio in discorso e quel dotalizio si attribuiscano alla legge dei Salici, e la tradizione colla carta e T introduzione nei beni a quella dei Romani. Invece si trovano nei documenti e nelle formule; e proprio con quella indicazione : secundum le- geni Salicam, iuxta legem Salicam et consuetudinem^ sicul lex tiiìlica commemorai ut lex precepit Romana^ secundum legem Roinanam.

3. Ma queste formule hanno anche la loro importanza per la scienza: anzi, non esitiamo a dire che furono il primo modo col quale essa si rivelò tra i barbari. E, a questo proposito, p'jtremmo notare una singolare coincidenza di fenomeni. Per- ch'i anche i Romani avevano cominciato la loro carriera scien- ti rica con la compilazione di formulari; ed ora, nella barbarie del medio evo, si ripete il medesimo fatto. Che se presso i po- l)^'li barbarici non c'era una classe patrizia, la quale avesse il monopolio del diritto, d'altra parte il bisogno di provvedere, coi formulari, alle esigenze pratiche, non era meno sentito.

Non v'ha poi dubbio che le formule contenessero un primo germe di lavoro scientifico. Il concepire un diploma si consi- derava, a quei tempi, come un'arte, che voleva essere appresa; e non ci stupisce di vederla messa in relazione con la retto- rica, come fa Mareolfo nella prefazione della sua raccolta; vi mancano i fiori della parola e la facondia dell'eloquenza. Quei nostri padri, quantunque rozzi, non si contentavano di esporre nudamente il fatto ; ma tenevano assai a colorire la frase, a metterci qualche introduzione più o meno studiata, e interca- lare qua e qualche osservazioncella morale, qualche passo della Bibbia o di altra opera ecclesiastica, perfino qualche re- gala sul modo di redigere i diplomi. Anzi, talvolta il compi- latore non che il principio della formula e lascia al notare di aggiungervi il contenuto.

4. Le formule stesse hanno una origine romana, e lo de- duciamo da più circostanze. Anzitutto, è cosa sommamente no- tabile che i primi formulari, che si conoscono, sieno nati in terra romana: tra Goti e Franchi. Solo più tardi se ne trova- no di simili anche in Germania, ed esclusivamente nelle parti

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meridionali di essa : in Baviera e in Alemagna. Si noti poi che il compilatore, pur dettando delle formule ad uso dei Ger- manici, ve ne aggiunge altre, le quali non potevano aver va- lore ohe per i Latini ; e molte volte adopera addirittura il gius romano, anche per le formule che riguardano istituti e rapporti di puro diritto germanico. Ad ogni modo ci si vede la mano romana. Per es. uno schiavo viene manomesso in chiesa; e la formula ricorda espressamente la costituzione di Costantino. Un'altra volta si tratta della vendita di uno schiavo; e si as- sicura che non è furo, non fugitivo^ neque cadivo, sed mente et corpore sano: la formula che si trova nelle Pandette. In un'al- tra vendita si promette il doppio del prezzo pel caso di evi- zione ; e anche questa è una pratica romana. Spesso ricorrono le donazioni ; e qua e si richiamano i principi del diritto ro- mano, sia in generale, sia anche nei particolari: come quando si osserva che la morte del donante sana la donazione tra' coniugi, o quando si esige che la donazione debba insinuarsi. Una for- mula di testamento ricorda la curia davanti a cui è fatto ; e anche vi si dice, che i testamenti privati debbono aprirsi nella curia. Un altro testatore provvede alla falcidia, cioè alla legit- tima degli eredi intestati. E che dire dell'adozione eseguita mediante i gesta nella curia? e della prescrizione trentennale ricordata nelle azioni ereditarie e nella vendicatio in servitutem f In più luoghi si fa menzione del ratto, e si vuole punito con la pena di morte, che è la pena romana, e si ordina che la lite debba farsi entro cinque anni. Chi rimane soccombente in ap- pello, risarcisce il quadruplo delle spese dell'avversario ; e anche ciò è romano. Molte altre formule contengono passi tolti di peso dal Breviario.

5. Del resto non conosciamo gli autori di tutte queste colle- zioni : per essere più precisi, ne conosciamo pochi, e questi sono ecclesiastici. Ma ciò è anche naturale. Oli ecclesiastici erano certamente più adatti a tal genere di lavori, sia perchè sapevano leggere, cosa molto rara a quei tempi, sia perchè avevano una certa dimestichezza col latino, che è appunto la lingua delle formule, sia perchè, essendo notari dei re, delle chiese, dei mo- nasteri, potevano con tutta facilità esaminare i diplomi con- servati nei loro archivi ed elaborarne il materiale.

Nondimeno qualche raccolta va sotto il nome del suo autore.

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Tale è quella di Marcolfo; ma ne potremmo ricordare anche altre, per es. le formule d'Isone e di Arnone.

Le collezioni, di cui sono rimasti ignoti gli autori, sogliono indicarsi col nome del luogo, dove furono trovate, o per cui erano destinate, o con quelle degli editori. Le formule di San (rallo, di Strasburgo, di Reiohenau, pigliano il nome dal luogo dove si rinvennero. Le formule ostrogote, visigote, langobar- diche, le andegavensi (Angers), le arvernensi (Auvergne) e le alsaziane, lo pigliano dal popolo, a cui dovevano servire. Gli editori hanno dato il nome alle bignoniane, baluziane, lindenbro- giane. Anche quelle di Tours furono fino ai di nostri dette sir- mondiale, dal nome del loro primo editore.

Aggiungiamo alcune osservazioni nelle raccolte che interes- sano maggiormente V Italia.

6. E prima sulle formule ostrogote. Sono contenute nelle Variae di Cassiodoro, e riguardano specialmente il diritto pub- blico, salvo qualcheduna, che si occupa di diritto privato. Ap- punto pel diritto pubblico presentano una singolare importanza. Si può dire che non ci sia carica di palazzo od ufficio della amministrazione centrale, provinciale o municipale, che non abbia la sua formula. Sono altrettanti brevejjti di nomina dei pubblici ufficiali, che ci permettono di penetrare molto addentro in tutto il complicato meccanismo della amministrazione ostro- gota, che in fondo era amministrazione romana, cominciando dal consolato e venendo giù fino all'ultimo dei notari. Apparten- gono ^invece al diritto privato la formula de matrimonio confìr- mando, l'altra qua consóbrina legitima fiat uxor e quella aetatis veniae. Lo stile, piuttosto tronfio e fiorito, ricorda una cotale magnificenza barbarica.

7. Seguono le formule pontificie, contenute nel Liber diur- nu$ romanorum ponti ficum: una raccolta usata dalla cancelleria pontificia nel medio evo, che però, a quanto sembra, non deve essere stata molto divulgata, perchè non se ne rinvennero che tre codici e uno proprio a' di nostri, che non fu ancora fatto oggetto di studio. E, d'altra parte, non è una compilazione di un solo getto. Il Sickel, appoggiandosi all'ordine delle formule di due di essi, che è in parte uguale e in parte no, è giunto a stabilire che il Diumus ne contiene più gruppi compilati in tempi diversi. Le prime sessantàtre si trovano nello stesso or-

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dine in ambedue, e appartengono al tempo di Onorio I (625-638). Invece le formale 64-81 del codice Vaticano sarebbero state ag- giunte a poco a poco, ancora durante il secolo Vii, mentre le formule 82-99 apparterrebbero al tempo di Adriano I (772-796). Il Sickel ritiene eziandio, che il codice Vaticano sia stato scritto sotto questo pontefice e nella curia romana; mentre l'altro lo sarebbe stato dopo la ristaurazione dell'Impero occidentale. In- fatti una formula conserva la data dell'elezione di Leone III, e un'altra indica l'anno dell'Impero. Ora, questi resultati sono molto importanti ; perchè se è vero, come pare, che il Liber Diur- niis non si riferisca a condizioni ed avvenimenti di un solo pe- riodo di tempo, ma abbia conservato documenti di vari periodi, esso diventa in realtà una fonte molto più preziosa, come quella che può guidarci per due o tre secoli a conoscere come fosse co- stituita la podestà pontificia e come il diritto ecclesiastico e pubblico siasi svolto.

Del resto il Liber Diurnus ha continuato ad usarsi anche in seguito. I segretari di Leone IX, di Nicolò II, e perfino di Ales- sandro II, hanno attinto ad esso; ma poi ne fu smesso l'uso. Ciò avvenne quando Gregorio VII inaugurò una nuova èra per il Papato, che oggimai avrebbe dovuto regnar sovrano sulla so- cietà religiosa, ed anzi aspirava al governo del mondo. E chiaro che, data questa condizione di cose, tutte le formule, che rico- noscevano nell'imperatore o nell'esarca il diritto di approvare il papa, dovevano sembrare addirittura un anacronismo ; ma an- che altre parvero poco adatte ai tempi. Che se ancora i cano- nisti del secolo XI e XII ne inseriscono qualche estratto nelle loro compilazioni, in seguito il vecchio formulario cadde nel più profondo oblio, tanto che si fini col disputare perfino della sua esistenza.

8. Vengono ultime le formule langobarde. Propriamente ve n'ha di due specie : alcune sono formule relative a donazioni, vendite, permute, livelli, manomissioni, emancipazioni esimili; altre sono formule processuali. Ma le une e le altre, più che vere formule di documenti, lo sono delle parole, che l'oratore, solito a intervenire nell'afiare, o le parti dovevano^ pronunciare, e anche degli atti che dovevano compiere, sia nella conchiusione di un negozio, sia nella condotta di un processo, e questo loro carattere le distingue da tutte le altre. Ne scegliamo una, la

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prima ohe ci si presenta. Form, a Both. 2: Petre te appellai MarHnus qtAod tu cormliatus es de morte sua, aut occidisti pa- trem suum^ De torto me appellas. Si dixerit qu4>d Consilia- tu8 esset cum rege aut occidisset per iussionem regis, aut approbet aiU emendet, secundum quosdam: sed secundum quosdam aliter est; nam turare debet. Sed melius est secundum antiqu>os ut dicat, quod non consiliatus sum^ neque ocddi quod per legem emendare debeam. Per usum postea det wadia si se recordatus fuerit quod emendabit; si noie purificabit se cum suis sacramene talibus,

Qaanto agli autori, siamo completamente all'osouro; ma pare che esse debbano attribuirsi a mani diverse, e che molte sieno state scritte a Pavia. Tutte, poi, appartengono press'a poco, al medesimo tempo. Certo, le formule della prima specie non pos- sono essere anteriori alle leggi di Ottone I del 967, perchè vi accennano chiaramente ; ci manca, però, ogni indizio per asserire che non sieno posteriori. Invece, abbiamo criten più precisi per le formule processuali. Una di esse (Form, a CM. 22) fa parola del vescovo Bainaldo di Pavia, che resse la chiesa pa- vese dal 1014 al 1046; e quindi non può essere stata scritta prima del 1014. Inoltre ci sono più formule ai capitoli di Ar- rigo n, che imperò dal 1002 al 1024; ma d'altra parte, queste sono anche le ultime leggi che l'autore conosca. Già l'editto di Corrado sui feudi non ha formule, nonostante che avesse potuto suggerirne parecchie; e noi non mettiamo dubbio, che la compilazione debba essere anteriore al 1037, che è appunto l'anno di quell'editto.

Naturalmente queste formule concernono il diritto lango- bardo, pur avendo riguardo anche ad altri diritti usati tuttavia in Italia, come il romano, il salico, il ribuario, il goto, l'alamanno, il bavarìco ecc.; ma ciò che più importa è di vedere, come le varie leggi si contrastino il campo, e specialmente come la in* fluenza del diritto romano fosse oggimai cresciuta a dismisura. Crediamo opportuno di ricordare a questo proposito la formula a Roth. 232, che però non è che un esempio, tra molti che si potrebbero citare. Essa concerne l' interziazione, e distingue più casi conformemente ai principi del diritto langobardo. Il primo è questo: Petre^ te appellat Martinus quod tu te sciente rendidisti unum suum caballum, qui valebat solidos 20] aut si

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dixerit: res litigiosa futi non potuisii alienare reddat caput, ita ut legitur in Romana lege. Evidentemente si allude qui alla L. 4 C. de litig. 8, 37. Poi seguono altre formule, e infine si conchiude: Sed tota haec altercatio pene nihil valet, debet enim esse ut legitur in romana lege.

Caio II. I lempi carolingi.

§1.-1 CAPITOLARI FRANCHI."

1. Coi Franchi comincia un nuovo e luminoso periodo, che però non è senza precedenti. Fin da quando i barbari si ressero a monarchia, parve manifesta una tendenza, cresciuta sempre più col tempo, di mano in mano che la potestà regia si veniva rafforzando, di formare il diritto in via veramente legislativa. Il diritto regio riusciva cosi a collocarsi, come una nuova fonte, accanto al diritto popolare^ e questo carattere hanno già alcuni degli editti, che Grimoaldo, Liutprando, Bachi ed

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Astolfo aggiunsero alla prima compilazione delle leggi lango- barde. Ma lo stesso accadde tra i Franchi fin dal tempo dei Merovingi.

Se vogliamo, era un fatto nuovo ; ma lo si spiega molto be- ne, perchè innanzi tutto la costituzione germanica ne porgeva il destro, e poi perchè è venuto svolgendosi sempre più al con- tatto con la nuova società romana.

Certo, i rapporti di diritto pubblico erano già in antico di esclusiva competenza del re; e ciò s'intende, dal momento che la monarchia era sorta con la missione di provvedere agli in- teressi generali, e tutelarli in guerra e in pace, di fronte a quelli particolari dei gruppi e degli individui. Appunto perciò la legge salica non si occupa affatto di delitti pubblici, la cui punizione spettava al re. Cosi pure l'antica dignità sacerdotale, di cui i re barbarici erano siati rivestiti, spiega come si credessero arbitri in fatto di religione e di cose religiose. Era un nuovo campo, e fecondo, che si schiudeva alla loro azione; e non può dirsi che l'autorità di questi re scemasse con la loro conver- sione al Cristianesimo. Ciò vale specialmente dei Franchi, che soli tra i popoli barbari abbracciarono fin dalle prime la fede ortodossa: anzi la Chiesa stessa non vide di mal occhio cotesta tendenza, e fino ad un certo punto la favori. Per tal modo i re franchi si fi&nno spesso a convocare i concili della Gallia, e li presiedono, e ne pubblicano i canoni, o altrimenti prendono importanti disposizioni intorno alla Chiesa. Gli stessi re, di- ventati signori della popolazione romana, aggiunsero alla po- testà, che avevano in confronto di tutti, quella degli antichi imperatori sui nuovi sudditi; e il proconsolato, che Anastasio conferi a Clodoveo, servi forse ad avvalorare una tale pretesa. Comunque, vi sono leggi regie che s'indirizzano ai Bomani, per es. quella di Clotario II : il re voleva che le cause tra i me- desimi si decidessero col diritto romano.

E forse in origine non si è trattato che di semplici ordi- nanze, o emanazioni del potere esecutivo, obbligatorie soltanto nella cerchia naturale di questo potere; e quindi inferiori alle leggi propriamente dette: tanto è vero che perfino i maggior- domi potevano fame! In seguito però, vennero sempre più av- vicinate alle leggi: diremo meglio, si cercò di dar loro la stessa autorità delle leggi; e specialmente i Carolingi tradiscono questa

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tendenza. Ma non deve far meraviglia; perchè un governo, che mira ad estendere i propri poteri, cercherà sempre di. pari- ficare la forza obbligatoria delle sue ordinanze a quella delle leggi. È precisamente ciò che trovammo tra i Langobardi, e che si ripete ora sotto i Franchi.

2. Le leggi, di cui parliamo, portano diversi nomi. Quello che assunsero nel periodo merovingio, rivela l'influenza roma- na. Si dicevano generalmente: Constitutiones, Edicta, Decreta, Praecepta. Invece sotto i Carolingi, il nome che prevale, è anello di Capitoli e Capitolari] e lo s'incontra già sotto Pipino. E un nome che accenna alla influenza ecclesiastica ; perchè sap- piamo che, almeno fin dal secolo VI, i canoni dei concili si chiamavano cosi; e non parrà strano che i Carolingi lo pren- dessero dalla Chiesa, per poco si pensi, che i primi capitolari dei maestri di palazzo, e anche di Pipino, quando fu re, furono appunto atti di concili. Del resto capitula o capitulare non vo- gliono dire altro che scritture divise in capi.

Aggiungiamo, che la legislazione comincia da piccoli inizi ; ma cresce in seguito. I capitolari merovingi non sono molti e, per giunta, appartengono quasi tutti alla fine del secolo VI; più tardi non se ne trova più : i re faineants, come non lascia- rono traccio nella storia, non ne lasciarono neppure nella legis- lazione. Invece già con Carlo Martello cominciano i capito- lari dei maestri di palazzo ; e la nuova dinastia continua a usarne sempre più largamente.

3. E ve n'ha di più specie.

In primo luogo si distinguevano i capitolari ecclesiastici dai mondani,

I primi erano costituzioni che interessavano la Chiesa; e quindi si rivolgevano particolarmente ai vescovi e agli ordini ecclesiastici, perchè le osservassero e ne inculcassero l'osser- vanza ai loro dipendenti. I re poi amavano di atteggiarsi a protettori e difensori della Chiesa. Era un uflBcio di cui si era- no creduti investiti da Dio, insieme con l'autorità temporale, prima ancora che la corona imperiale venisse a posarsi sul loro capo; e che si trasformò più tardi in una obbligazione formale e solenne, che assumevano al momento di cingere quella co- rona. Del resto la maggior parte di coteste prescrizioni, che interessavano la Chiesa e le cose ecclesiastiche, non hanno al-

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cuna sanzione giuridica. Si trattava, più che altro, di ammo- nimenti. Quei re credevano di aver adempiuto sufficientemente al loro compito di protettori e difensori della Chiesa, quando avevano raccomandato che se ne osservassero i precetti.

Quanto ai capitolari mondani, ne troviamo distinti più grup- pi: i Capitularia legibus addenda, i Capitularia per se scribenda e i Capitularia missorum. Si tratta di una distinzione, che forse non ò tecnica, e che non esaurisce neppure tutta la serie de« gli atti, soliti a comprendersi col nome di capitolari; ma ad ogni modo essa ne scolpisce nettamente la diversità, ed ha la sua importanza.

Dei Capitula legibus addenda, alcuni s'indirizzavano a sin- gole leggi popolari: le modificavano e completavano e doveva- no avere la stessa forza di esse. Ricordiamo alcuni capitolari aggiunti alla Lex Salica, alla Lex Ribuaria, alla Lex Baimca^ riorum ecc.; ma ve ne sono anche altri, che, senza riferirsi par- ticolarmente a questa o quella legge popolare, vogliono aver vigore per tutti, e che si dicono pure Capitula legibus addenda. Li troviamo specialmente dopo che la ristaurazione dell'Impero ebbe rafforzato il concetto dell'unità: in sostanza corrispondono ad una nuova fase dello Stato barbarico, che era bensì compo- sto di diversi popoli, ma in cui la prevalenza dei Franchi era riconosciuta. E importa tener distinta l'una specie dall'altra: perchè quelli del primo gruppo non venivano aggiunti che ad una legge e non valevano che per un dato popolo: mentre gli altri dovevano aggiungersi a tutte le leggi popolari e avevano come un valore territoriale. Insieme differivano pel modo con cui si formavano ed abrogavano.

A rigore, tutti abbisognavano della partecipazione del po- polo, perchè miravano a creare norme giuridiche da osservargli nei giudizi. Il re già lo dicemmo non poteva creare un diritto nuovo che in quanto potesse influire sulla sua osservan- za; e se ciò non era, bisognava che il popolo intervenisse. Ora, nel caso della giustizia popolare, gli organi, chiamati ad ammi- nistrarla, erano indipendenti dal re ; e perciò bisognava che il pt^lM^lo stesso vi desse la sua approvazione. Il re soltanto non pi>teva creare il diritto del popolo : e dall'altra parte neppure il [>opolo poteva più crearlo da sé. Ciò era stato possibile in an- tico ; ma non ora, perchè il placito era oggimai presieduto dal con-

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te, cioè dall'ufficiale del re, ed il precetto di questo ufficiale re- gio integrava, in certa guisa, il giudizio del popolo. Perciò Carlo il Calvo dice néìì* Edictum Pistense dell'anno 864: Lex consensu populi fit et constitutione regia.

Non v'ha poi dubbio che i re franchi abbiano rispettato que- sto principio. Lo rispettarono perfino in confronto dei Koma- ni; e ciò merita di essere tanto più osservato, in quanto che, sottentrati, com'erano, nei diritti degli imperatori, la potestà legislativa, che avevano in confronto di essi, si poteva dire as- soluta. Nondimeno, quando si trattava di leggi generali si cre- deva che il consenso dato dalla folla, radunata nella dieta, po- tesse far le veci della vera cooperazione del popolo; mentre nelle leggi speciali occorreva che il popolo, a cui erano desti- nate, acconsentisse. In realtà abbiamo parecchie testimonianze di ciò. Alcune disposizioni aggiunte alla Lex Salica sono dette Pattij al pari della legge stessa, e generalmente vengono pre- sentate con le parole: convenitj oppure placuit aique convenit, che ne indicano nettamente il carattere. Similmente leggiamo nella introduzione al Capitulare Saxonicum dell'anno 797, che esso fu approvato da vescovi, abati e conti riuniti in Aquisgra- na, simtdqae congregatis Saxonibtis de diversis pagis ne sono ricordati tre omnes unianimiter consenserunt et aptificaverant. Un capitolare di Carlomagno dell'anno 803 è anche più espli- cito. Dispone, che un altro del medesimo anno, aggiunto alla legge, debba venir presentato al popolo per ottenerne l'appro- vazione : dopo di che, tutti dovevano firmarlo. E la cosa ebbe veramente seguito.

I Capitala per se scribenda erano capitolari promulgati in via amministrativa. Trattavasi di ordinanze regie, o atti del potere esecutivo, e non ne eccedevano i limiti: atti che possono paragonarsi alle notitiae dei re langobardi, e in Italia ne por- tano veramente il nome.

Comunque, si distinguevano dalle leggi. Erano emanati sen- za che i maggiorenti o il popolo vi partecipassero; ma ciò non toglie che il re si consigliasse alle volte coi suoi ufficiali e fe- deli, quantunque non fosse necessario. Non avevano neppure un carattere così durevole, come le leggi ; e se non può dirsi, come fu affermato, che perdessero senza più il loro vigore con la morte del re, che li aveva pubblicati, è certo però che non

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obbligavano affatto il successore, il quale poteva abrogarli; e talvolta si trattava di veri provvedimenti transitori.

Questi capitoli possono distinguersi in due specie, secondo che erano indirizzati senza più ai sudditi, o invece ai messi, ai conti, ai vescovi, perchè li pubblicassero, o anche perchè ser- vissero loro di presentazione al popolo in vista dei provvedi- menti, che dovevano prendere. Anche questi ultimi entravano nella categoria dei Capitala per se scribenda^ perchè, in sostanza, erano promulgati in via amministrativa per uso del popolo.

Del resto gli uni e gli altri potevano avere un carattere co- mune e generale, e anche speciale.

Seguono i Capitala missoram^ cioè i capitolari diretti ai messi. Soltanto non vorremmo dire che tutti i capitoli, che nella rac- colta dei capitolari si trovano intestati ai messi, entrino anche in questa categoria. Or ora ne abbiamo ricordato alcuni, di- retti bensì ai messi, ma non scritti soltanto per essi; mentre al contrario dovevano comunicarli al popolo. Li abbiamo annove- rati tra i Capitala per se scribenda senza lasciarci confondere dal nome della persona. Dall'altra parte però esistevano capitolari diretti unicamente a coloro che dovevano curarne Tosservanza, senza che dovessero darne comunicazione a chicchessia ; e que- sti erano i veri Capitala tnissorum. Li chiamiamo cosi, perche la maggior parte si trovano veramente intestati ai missi domi- nici; ma ciò non toglie che ve ne fossero altri indirizzati ad altri ufficiali, che entrerebbero pure in questa classe. Ciò che li distingue dai capitolari già mentovati è questo appunto, cho sono diretti ai messi, o ad altro ufficiale regio, e non sono de- stinati che per essi. In parte poi erano vere e proprie istru- zioni sul modo con cui avrebbero dovuto regolare la loro con- dotta e disimpegnare il loro ufficio; e in parte erano risposte che il re dava alle domande dei messi, dei conti, dei vescovi, a proposito delle difficoltà insorte nella loro amministrazione. Noi possiamo assomigliare questi capitala missorum sia ai man- dati e sia ai rescritti dei Romani.

Altri capitolari hanno il carattere di Decreti^ e portano an- che questo nome. Si trattava di giudizi sopra singoli casi, rac- colti e inseriti nei capitolari, perchè servissero di norma nei casi analoghi. Ricordiamo per es. il Decretam compendieme del- Tanno 757.

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Alcuni non sono neanche consegnati nella forma legislativa; ma paiono semplici questioni che Carlomagno proponevasi di j

presentare, sia ai vescovi, sia ai conti, quando fossero intervenuti all'assemblea generale: egli le faceva redigere anticipatamente j

per rendersi in certo modo ragione di ciò che doveva sapere e !

voleva domandare. Altri non sono neppure questioni, ma sem- '

plici note, una specie di memorie o appunti, che Carlomagno sembra aver fatto scrivere per suo uso esclusivo, allo scopo di non dimenticare qualche provvedimento che aveva in animo di prendere.

4. Di questa legislazione, che diciamo dei capitolari^ nes- j

suna raccolta ufficiale esiste. Tutte le collezioni sono dovute i

alla iniziativa privata, e ne abbiamo parecchie, fatte con di- j

versi intendimenti; e ciò spiega perchè differiscano tanto, le une dalle altre. A volte i capitolari erano messi assieme se- i

condo Tetà; a volte secondo la materia, e allora poteva anche ac- cadere che venissero smembrati per congiungere alcune parti con altre, come lo richiedeva l'omogeneità dell'argomento. Per con- verso, vi si trovano inserite più cose, che non avrebbero dovuto trovarvi posto. Bastava che avessero l'aria di una disposizione di legge, perchè gli scrittori, che di critica ne sapevano poco, le met- tessero subito nelle loro raccolte. Cosi vi sono penetrati non po- chi canoni dei concili, e altri capitoli di diritto canonico e di- sposizioni della legge salica, ribuaria, bavara, langobarda e an- che qualche costituzione d'imperatore romano. Che più? Uno di questi compilatori mise a contributo perfino il De civitate Dei di Sant'Agostino! Altre volte poi si tratta di glosse, che scritte originariamente per chiarire la legge, finirono con l'entrare nel testo, accrescendolo e anche mutandolo. Lo stesso dicasi di al- cuni giudicati, e perfino di alcune note fatte da privati.

Ci sono però due collezioni, che meritano di essere partico- larmente ricordate : quelle, cioè, di Ansegiso e di Benedetto Levita.

Ansegiso, abate di Fontanella della diocesi di Roano, nacque nella seconda metà del secolo Vili e fu in grande onore presso Carlomagno e Lodovico il Pio. Lo scopo, che egli si propose nel raccogliere i capitolari, è indicato da lui stesso nella prefa- zione : egli non mirò che alla Chiesa e all' interesse della Chiesa. Tanto Carlomagno quanto Lodovico il Pio e Lotario avevano

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pubblicato molti capitolari in prò della religione e della Chiesa; ma essi vagavano dispersi, e correvano pericolo di venire dimen- ticati: perciò li raccolse. Ma ne raccolse anche altri. La sua collezione si divide in quattro libri: il primo contiene le leggi ecclesiastiche di Carlomagno, il secondo le leggi ecclesiastiche di Lodovico il Pio, il terzo le leggi mondane di Carlomagno, il quarto le leggi mondane di Lodovico il Pio. E in ogni libro segue Tordine cronologico ; ma non si può dire con molto scru- polo. Yi aggiunse poi tre appendici, nelle quali fece posto spe- cialmente ai capitala missorum, oltre che ad alcuni capitolari, che prima gli erano sfuggiti. La raccolta va dall'anno 789 al- l'826; ma i capitolari non sono molti; in tutto ventinove: cer- tamente un numero molto esiguo, rispetto a quelli che erano stati emanati; ma d'altra parte il testo di taluno non ci è per- venuto per altra via.

Una cosa, che vuol essere notata, e che ridonda a lode del collettore, si è ch'egli si attenne in generale al testo dei capi- tolari, che aveva tra mano, e non si permise di alterarne il senso. Soltanto qua e s'incontra qualche variante richiesta dall'or- dine, che si era proposto, di distinguere le materie ecclesiasti- che dalle laicali. Inoltre, la collezione è dovuta interamente alla iniziativa di Ansegiso. Almeno non consta, che egli l'abbia fatta per comando di alcuno; e nondimeno corrisponde tanto ad un bisogno dei tempi, che ebbe presto autorità ufficiale. Qià neir829 Lodovico il Pio cita i capitolari di Carlomagno e i suoi, secondo questa raccolta.

L'altra collezione va sotto il nome di Benedetto Levita, ed è posteriore di circa vent'anni a quella di Ansegiso. Diremo meglio: un Benedetto Levita, diacono di Magonza, asserisce di averla fatta in continuazione a quella di Ansegiso, e ne indica le ragioni. Aveva trovato parecchi capitolari sparsi qua e là, mas- simamente nellarchivio della cattedrale di Magonza, dove Tarci- vet^covo Riculfo e il suo successore Autcario li avrebbero raccolti, e di alcuni esistevano due e tre enemplari. Soggiunge di averli pubblicati come li trovò, anche a rischio di ripetere le stesse cose, essendogli mancato il tempo di fare una scelta; e d'altronde alcuni capitoli avevano uguale il principio e disuguale la fine, altri uguale la fine ma disuguale il principio; e quali contene- vano più, quali meno. Quant'ò allo scopo, i\ raccoglitore asserisce

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esservisi sobbarcato prò Dei omnipotentis amore et sanctae Dei Ecclesiae oc servorum eius, atque totius populi utilitate. Ma, oltre che ai capitolari, egli attinse ad alcune compilazioni di diritto romano, barbarico ed ecclesiastico: una strana accozzaglia di roba, che l'autore gabellò per capitolari. i testi sono sem- pre riprodotti alla lettera, ma raffazzonati alia meglio, o alla peggio, come all'autore piacque. E a volte inventa.

In realtà si tratta di una falsificazione abbastanza smac- cata. Lo stesso nome di Benedetto è inventato di sana pianta, e non crediamo neppure che la collezione sia stata fatta a Ma- gonza. Piuttosto sembrerebbe adattarsi alla parte occidentale della Francia: che se nondimeno si è messa avanti la città di Magonza, fu certo per far perdere la traccia del falsificatore. Il quale, del resto, non è neppure si guardingo da non mostrare talvolta il fianco. Neppure lo scopo è quello ch'egli annuncia nel prologo: cioè di provvedere insieme all'utilità della Chiesa, dei suoi servi, e di tutto il popolo. A ben guardare, il fine che si pro- pose, è a un dipresso quello delle false decretali che un eccleeia- stico ignoto compilò poco dopo, anche nella Francia occidentale. Era proprio un fenomeno dei tempi. Gli ecclesiastici ricorrevano volentieri a tali falsificazioni, pur di salvare una posizione, che poteva dirsi, ed era, ogni di più minacciata. L'unità dell'Im- pero era andata a catafascio ; e con lo sfasciarsi dell' Impero era cresciuta l'influenza dell'aristocrazia laicale. La Chiesa, dal- l'altro lato, veniva ogni di più aumentando le sue pretese: aveva cominciato sotto Lodovico il Pio, e continuava; ma non poteva più fare assegnamento sull'Impero, e di fronte alla nobiltà feu- dale, che le contrastava il campo, disperava oggimai di potere, quando che fosse, conseguire il suo intento in via legislativa. Ciò spiega quella, che a ragione fu detta epidemia di falsifica- zionij che invase la società ecclesiastica in quei tempi. E ne spiega anche il carattere. Non si poteva più fare a fidanza col- r Impero e si tentò di alzare, più che fosse possibile, il Papato, e cercare nella cresciuta influenza del papa quell'appoggio, che l'imperatore non poteva più dare : comunque, si cercò di ottenere, col mezzo delle falsificazioni, ciò che, mediante la legge, non era più possibile. Ecco perchè il falso Benedetto compilò una nuova raccolta di capitolari col pretesto di continuare quella di

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Ansegiso; ed ecco perchè non molto dopo, un falso Isidoro si fece a compilare le decretali.

Ciò che desta maggiore meraviglia, ma che d'altronde rivela il carattere dei tempi, si è che i libri di Benedetto, uniti a quelli di Ansegiso, finirono per passare per genuini. Lo stesso Carlo il Calvo li cita senza più, e presto ne furono fatti dei compendi ; ma non trovarono facile accesso in Italia, ed è già molto se qua e ne incontriamo qualche capitolo.

§2.-1 CAPITOLARI ITALICI.

1 . Volendo considerare più particolarmente la legislazione italiana dopo la conquista dei Franchi, non dobbiamo perdere d'occhio un doppio fatto.

Da un lato, il regno langobardo formava parte della vasta monarchia di Carlomagno ; ma dall'altro, viveva di una vita pro- pria: sicché lo stesso Carlomagno si atteggiava a successore dei re langobardi, e contava gli anni della sua dominazione franca insieme a quelli della dominazione langobarda. Anzi non andò guari, e il regno langobardo ebbe perfino i suoi re: Pipino, Bernardo, Lotario, Lodovico II, che, pur riconoscendo la supremazia del re franco, esercitarono indipendentemente tutti i diritti sovrani, come in un regnuvi a Deo commissum.

Questa doppia natura del regno langobardo si rispecchia an- che nelle leggi.

I capitolari pubblicati in Francia trovavano applicazione eziandio in Italia, appunto perchò il regno langobardo era una pertinenza del regno franco : vogliamo alludere ai capitolari ge- nerali. Ma inoltre c'erano leggi pubblicate per l'Italia sol- tanto, sia da Carlomagno e sia dai re, a cui egli aveva affidato il governo del Regno. Ogni volta che Carlomagno venne in Italia, tranne le due prime, vi pubblicò leggi ; ma, anche stando in Francia, influì sulla legislazione, sia con lettere di tenore legislativo a suo figlio Pipino, sia con ordinanze dirette a tutti gli ufUciali italiani, sia infine con capitolari dati ai suoi messi, parte per loro istruzione e parte perchè li pubblicassero. Ri- cordiamo per es. il Capitolare italico dell' 801.

Un'altra questione è di sapere se il popolo, o almeno i mag-

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giorentiy vi partecipassero ; ma naturalmente essa non concerne che i capitolari legislativi.

2. Cominciamo da quelli d'indole generale. Certo è: i signori italiani non usavano di visitare le diete dei Franchi, e solo gli ecclesiastici vi si recavano di buon grado. Ciò era na- turale. Favorendo questi a tutta possa l'unità dell' Impero, mi- ravano insieme a promuovere la potenza e l'unità della Chiesa ; ma l'aristocrazia laicale non ci aveva interesse ad assistervi, e non vi andava, se non quando Carlomagno ve la trascinava in esilio. Laonde, se il popolo o i maggiorenti parteciparono a quelle leggi, certo non vi parteciparono in Francia, ma in Ita- lia; e infine tutta la questione si riduce a sapere, se i capito- lari, votati in Francia, venissero presentati poi, per l'approva- zione, alle diete italiche.

E qui bisogna distinguere i tempi. Senza dubbio, un forte antagonismo si era, per tal riguardo, stabilito tra il reame franco e il particolarismo langobardo. Carlomagno lo abbiamo detto mirava a vincere le resistenze individuali e locali e ricostitui- re l'unità dello Stato; e dall'altro lato i maggiorenti di Lom- bardia non si piegavano di buon grado dinanzi alla nuova forza del governo centrale. Carlomagno li avrebbe veduti vo- lentieri nelle sue diete di Francia, insieme con gli ecclesiasti- ci, ed essi vi si rifiutavano: è egli presumibile che sia andato a cercarli in casa loro, per ottenere che accettassero una legge, che la grande assemblea del Regno aveva di già approvato?

Appunto a questo proposito è molto istruttiva una lettera ch'egli scrisse a Pipino re d'Italia, quando ebbe notizia che i Langobardi male si acconciavano a certi suoi capitoli dell'anno 803, che avrebbero dovuto porsi inter alias leges. Egli dice : Audìvimus etiam, quod quedam capitula quae in lege scribi tassi- mus per aliqtia loca aliqui ex nostris oc vestris dicunt, quod nos nequaquam illis hanc causam ad notitiam per nosmetipsos con- dictam habeamus^ et ideo nolunt ea obbedire nec consentire neque prò lege tenere. Fin qui il fatto. Carlomagno continua: Tu autem nosti, quomodo vel qualiter tecum locuti fuimus de ipsis ca- pitulis, et ideo monemus tuam amàbilem dilectionem, ut per uni- versum regnum tibi a Deo commissum ea nota facias et óboedire atque inplere praecipias.

Ciò peraltro si h cambiato sotto i suoi successori. Il parti-

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colarismo ha finito col trionfare sul concetto unitario; e infatti il capitolare pavese di Lotario dell'anno 832 porta questa inte- stazione : Haec 8unt capitula quae domnus Hlotharius rex una cum consensu fidelium sìAoram excerpsit de capitulis domni Karoli avi iui ac serenissimi imperatoris Hludovici genitoris sui.

Ne deve far meraviglia che si mostrasse una certa esitanza ad accettare questi capitolari generali deliberati nei convegni dei Franchi. Essi contrastavano in molti punti con gli ordinamenti it^ilici, perchè coloro che li fecero, non pensarono all'Italia; e anche vi troviamo adoperate più parole, che da noi non si usa- vano, né si capivano. Bicordiamo le seguenti: trustio, mitium, fredus, herisliz, ecc.

Dopo tutto, i capitolari generali, che attecchirono in Italia, non sono molti. Certo, erano stati promulgati con l'intendi- mento che dovessero valere anche qui: tale fu l'idea di Carlo- magno e di Lodovico il Pio nel trasmetterli; e anche gli ama- nuensi italiani li copiarono per molti secoli, e i maestri li inter- ])retarono nelle scuole, e i giureconsulti ne fecero oggetto delle loro dispute; ma pochissimi rimasero nell'uso. Gli Italiani non vi ricorrevano volentieri nei loro atti; i giudici pronun- ciavano in base ed essi; le carte e i documenti anteriori al s'^colo XI ne fanno menzione: anzi non ne contengono assoluta- mente alcun vestigio.

3. La stessa lotta si verificò a proposito dei capitolari specicUi.

Carlom'agno fu inesorabile. Tra tutte le leggi speciali, che videro la luce sotto di lui, il solo capitolare di Mantova fu reso di pubblica ragione in una dieta generale italiana, ma senza che e-sa vi prendesse alcuna parte, neppure consultiva. E anche d.il contesto della legge si capisce, che ci troviamo di fronte alla ferma volontà di un uomo che non reputa necessario il con- senso di alcuno. La frase bannum nostrum componat, vi ricorre sj)«8So; e anche vuoisi avvertire, che la correzione corporale, che le antiche leggi langobarde avevano minacciato solo ai servi e alle donne di malo affare, si trova estesa ora, per la prima volta, ai delitti minori. ad altri risultati si arriva consul- tando le leggi ohe, neiranno 801, vennero aggiunte all'Editto. La prefazione mostra di nuovo che il re esercitava la legisla- zione da solo. Carlomagno dice: Kos considerantes utilitatem

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nostram et populi a Dea nobis concessa. . . . iuxta rerum et tempo- ri8 considerationem addere ctiravimus. E oontinua: sdlicet ut necessaria quae legibus defuerant supplerentur, et in rèbus dubiis non quorumlibet iudicum arbitrium, sed nostrae regiae auctorita- tis sanctio praevaleret. D'altra parte i Langobardi non sempre si aoconoiavano a quella ferrea volontà del legislatore franco: talvolta anzi li vediamo ricalcitrare e rifiutare la legge; e a lungo andare finiscono con F imporsi.

I capitolari di Pipino e di Lotario non sono più quelli di Carlomagno. L'approvazione della dieta langobarda pareva oggi- mai necessaria ; ma questa dieta, che dava il suo voto, era diversa da quella di re Desiderio. Oltre dÀjudiees^ vi assistevano adesso anche i vassalli regi di nazione franca e langobarda, , e soprat- tutto i vescovi e gli abati, i quali non solo erano sorti, d'im- provviso, allato ai maggiorenti secolari, ma avevano anzi la pre- cedenza su di essi. Invece la presenza del popolo è appena ri- cordata, e ad ogni modo esso non partecipava alle deliberazioni. Soltanto pare che, giusta una pratica che abbiamo trovato an- che in Francia, se ne ottenesse poi l'approvazione, facendo sot- toscrivere i singoli individui nei giudizi.

Ad ogni modo possiamo ammettere per fermo che questi ca- pitolari speciali, a difiTerenza dei generali, furono veramente osservati. E non deve parer strano: perchè, sebbene abbiano mutato in più modi l'antico diritto langobardo, e introdotto in Italia più cose nuove, nondimeno vi si scorgono* anche le stesse condizioni della cosa pubblica e privata, gli stessi principi giu- ridici, e perfino la stessa maniera di concepire e di esprimersi degli editti langobardi. Talvolta sono anche richiamati i ca- pitoli degli editti, sia quanto alla lettera sia quanto al senso. Per es. le parole di Pipino : Et si forsitan attenderit ad gasindios vel parentes et amicos seu premium, et legem iudicaverit, sono tolte di peso da un capitolo di Kachi ; ma per lo più non vi si riproduce che il senso.

4. Aggiungiamo qualche notizia circa una speciale colle- zione di capitolari fatta in Italia, che presenta le leggi di Carlo- magno e dei re, che gli succedettero nel regno italico, distribuite cronologicamente in parecchi volumi : un vero corpo del diritto italico, contrapposto all'Editto. Le fonti lo chiamano Capitu- larius.

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È una collezione che ricorre in più codici, ma non si sa da chi sia stata messa assieme, perchè, quando. Il Merkel sappone che ne sia autore qualche maestro pavese, e che ab- bia servito agli usi della scuola; ma questa non ò che un'ipo- tesi. Nò possediamo alcun dato molto sicuro per determinarne il tempo. Potrebbe darsi che vi si riferisse già una carta del- l'anno 954, in cui una donna di nazione langobarda, sposa di un franco, fa una donazione iuxta legem mea in qua nata sum seu iusta capitulare, richiamandosi specialmente a una legge di Guido (8) ; ma potrebbe anche darsi che il capitulare non fosse che questa medesima legge. Invece un documento dell'anno 988 ricorda il Capitulare Langobardorum^ e anche in seguito lo tro- viamo menzionato più volte con questo nome oppure con quello di Capitulare legis Longobardicae. Ciò che si può dire con sufficiente fondamento, si ò che tale collezione non ò nata tutta ad un tratto; e ohi sa? forse non contenne dapprima che i capitoli ca- rolingi ; ma anche cosi ristretta, poteva servire facilmente di base alle altre raccolte. Dopo tutto, il grosso dell'opera era fatto, e non era certo difficile di aggiungervi le nuove leggi, di mano in mano ohe si pubblicavano. L'antichissimo codice milanese non va oltre il capitolo unico di Ottone III, mentre altri ter- minano con le leggi di Arrigo II, e molto probabilmente sono stati scritti in quel tempo. Solo più tardi la collezione venne completata coi capitoli di Corrado e di Arrigo III.

Non conviene credere però, che essa si restringa al diritto langobardo : anzi, per la massima parte, contiene il diritto co- mune di tutti i popoli, si germanici ohe romani, dimoranti in Italia; e dall'altro lato vi sono inserite più leggi speciali dei Langobardi, dei Salici, dei Bibuari, dei Romani.

Un'altra cosa merita osservazione : che, cioè, il compilatore non intese di raccogliere soltanto alcuni capitolari, ma tutti, sebbene non corrispondessero più alle mutate condizioni dei tempii persino quelli che, già nella mente del legislatore, dove- vano essere temporanei. Qualche capitolo vi ò ripetuto e ripro- dotto con leggiere varianti ; e anche ciò fa fede della intenzione sua di raccogliere quanto più poteva. Nondimeno la collezione ò tutt'altro che completa. Non pochi capitolari, che certamente ebbero vigore in Italia, mancano o sono mutili ; e invece vi si trovano più disposizioni, che non paiono desunte da alcun ca-

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pitolare : precetti di diverso genere, mescolati ai capitolari gè* nnini, che forse il rAocoglitore aveva rinvenuto in altre colle- zioni più antiche, e ha preso per capitoli.

Talvolta anche, sono attribuite a un re le leggi di un altro ; ma forse più che fame un carico a chi mise assieme la colle- zione, è da deplorare lo stato delle fonti, a cui ha attinto. si può dire che egli osservi sempre scrupolosamente l'ordine cronologico; e d'altra parte è supponibile che l'aflinità dell'ar- gomento, 0 qualche altra considerazione di opportunità, lo ab- biano talvolta consigliato a scostarsene. La stessa lezione è scorretta, e non mancano le antinomie.

§ 3. - SCOPO E CARATTERE DEI CAPITOLARI.

1. Certamente i Capitolari rappresentano uno stadio le- gislativo molto più completo che non era quello delle leggi bar- bariche: si tratta della legislazione di una società già rassodata, nella quale l'elemento romano e germanico erano venuti acco- standosi e fondendosi, e in cui la nuova religione aveva avuto tutto l'agio di esercitare la sua benefica azione. I Capitolari subiscono principalmente la influenza del Cristianesimo.

Veramente il compito dei re franchi e semplice e modesto. Eiconoscono il diritto popolare esistente, e non pensano ad abo- lire tutte le differenze giuridiche, per surrogarvi un diritto co- mune: molto meno si prefiggono di codificare tutto il diritto. Vogliono soltanto migliorare e ritoccare qua e là, o anche in- trodurre qualche riforma, e mettere un termine alla incertezza dei principi vigenti o a ciò che avevano d'inopportuno; ma, anche cosi, e' era abbastanza materia per le nuove leggi, e le occasioni non facevano difetto.

In realtà è una legislazione ricchissima.

Specialmente abbiamo una folla di leggi e ordinanze, che riguardano la società ecclesiastica e le relazioni dei chierici tra loro, in una parola la materia canonica; e non è difficile di scoprire la ragione di tale fenomeno, per poco si pensi che l'ari- stocrazia episcopale, già in dissoluzione, era stata ricostituita da Carlomagno. I vescovi erano ogglmai i principali consi- glieri della corona, e distinguevansi per dignità e per numero

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nelle assemblee generali : non faremo loro un carico, se prima d'ogni altra cosa, hanno pensato ai loro interessi. Che se alla legislazione canonica aggiungiamo la legislazione religiosa e con essa alludiamo alle leggi, che non concernono solo gli eoclesiastici, ma tutto il popolo dei fedeli e le sue relazioni col clero il numero cresce anche più.

Altri Capitolari hanno un carattere politico, e si ricollegano al diritto e al dovere del re di provvedere agli interessi gene- rali, all'ordine, alle esigenze del commercio, ai deboli e biso- gnosi; e capiremo, che quanto più ricca era la vita pubblica, tanto maggiore doveva essere l'azione della potestà regia. In- fatti anche le leggi politiche sono in gran numero, si da for- mare una delle parti più cospicue della legislazione carolingia. Alcune mirano a stabilire nettamente la distinzione tra la po- testà secolare e la ecclesiastica e le loro reciproche attinenze. Carlomagno, che pur aveva fatto della Chiesa lo strumento prin- cipale del suo governo, non era punto disposto a mettersi al suo servizio. Altre leggi vogliono assicurata l'esecuzione degli ordini imperiali in tutta Tarnpia distesa dell'Impero; e sono leggi relative alla nomina dei pubblici ufficiali, alla loro posi- zione, alla Toro condotta, ecc. Altro provvedono alla pace pub- blica, all'amministrazione della giustizia, al servizio militare ; altre alla moneta e alla dogana; altre ai poveri, ai luoghi pub- blici e simili ; altre infine all'amministrazione dei benefici e alle relazioni coi beneficiati: una materia importantissima per quei tempi, sulla quale Carlomagno richiama soventi volte l'at- tenzione de' suoi messi. Tutta questa legislazione è uno sforzo continuo, infaticabile, verso l'ordine e l'unità.

Seguiva la legislazione domestica, che si riferiva ai teni- menti imperiali e alla loro amministrazione. Tale è appunto il famo>o Capitulare de villis^ che contiene parecchie istruzioni di- rette agli amministratori delle corti regie con molta ricchezza di particolari. È una ordinanza che potrebbe paragonarsi alla Natitia de tictoribus regis di Liutpraudo; ma ha una importauza molto maggiore, specie perchè ci fa toccare con mano come la grande proprietà fondiaria fosse la vera e propria base dell'or- dinamento sociale in quei tempi, e come l'amministrazione dei grandi tenimenti della corona si compenetrasse e confondesse con l'ordinamento dei servizi della corte.

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Altri capitoli entrano addirittura nel dominio del diritto popolare, civile e penale, ma la legislazione sgorga qui meno copiosa.

2. Nondimeno, appunto queste leggi coneementi il diritto popolare, per quanto scarse, presentano una importanza anche maggiore delle altre. A ben guardare, era un diritto onorario, che veniva a collocarsi allato all'antico diritto del popolo, de- terminando cosi un dualismo, che non è nuovo nella storia. A Boma la cosa non era andata diversamente. E a volte si trat- tava solo d'integrare il diritto popolare, o anche di creare nn istituto che concorresse con esso; ma a volte erano principi o istituti diametralmente opposti che si piantavano in faccia l'uno dell'altro, osteggiandosi.

Nel dominio del diritto civile, continuano ad aver vigore le vecchie leggi; ma la influenza del diritto romano e del diritto canonico guadagna sempre più terreno, sorretta appunto dal po- tere regio. Certo, il diritto romano vi ha lasciato vestigi ; e, a questo proposito, si potrebbero ricordare alcune regole sulla consacrazione dei servi, sulla prescrizione trentennale, sulla permuta dei beni ecclesiastici, suU' impedimento della cogna- zione, sul diritto di rappresentazione, che vanno, f)ià o meno, sulle orme delle leggi romane. Altre materie subiscono la in- fluenza canonica. Si tratta di rapporti, esistenti nei vecchi co* dici gentilizi, nocivi alla pubblica moralità, soprattutto quelli tra uomo e donna; e tanto l'interesse della vita civile quanto quello della religione esigevano che vi si provvedesse. Urgeva di raddrizzare i costumi ; e Carlomagno, sia di spontaneo im- pulso, sia per eccitamento degli ecclesiastici, pubblicò un gran numero di disposizioni relative ai connubi, ai gradi di paren- tela, ai doveri del marito verso la moglie, agli obblighi delle vedove ecc., tolti in gran parte dal diritto della Chiesa.

Lo stesso dicasi della legislazione penale. Anch'essa non è gran fatto originale ; poteva esserlo, perchè l'oggetto precipuo, quasi unico, delle vecchie leggi barbariche era stato la repres- sione dei reati, e per tal riguardo rimaneva poco da fare ; meno, ad ogni modo, che negli altri rapporti. È però notabile un mutamento nella misura delle pene. In generale, esse vengono mitigate, massimamente quelle contro i servi; ma assumono anche un carattere più severo, quando mirano ad uno scopo politico»

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Più radicali riforme offre la procedura. A volte il diritto regio fa concorrenza al diritto del popolo; e ne abbiamo un esempio nell' istituto della citazione. Come si procedesse anti- camente, lo ricaviamo dalla legge salica. Si trattava di cosa tutta privata: l'attore, in compagnia de' suoi testimoni, si re- cava alla casa del reo, e vi faceva la sua citazione, come una dichiarazione di guerra, intimandogli di presentarsi in giudizio entro un certo termine. E questo sistema continua a lungo ; ma accanto ad esso ed insieme con esso, se ne viene introdu- cendo un altro per opera del re: quello di un ordine scritto, sia del re, sia del giudice, dapprima nel tribunale regio, poi anche nei giudizi popolari. E le due istituzioni durano l'una accanto dell'altra. In generale, l'attore aveva la scelta, o di mannire da il reo, o di ottenere la bannitio del giudice ; ma questa, più comoda e meno pericolosa, fini col soppiantare af- fatto la vecchia forma.

Altre volte, il diritto regio completa l'antico diritto popo- lare, e ce ne somministra una prova la esecuzione giudiziaria. Già lo abbiamo osservato : se il debitore rifiutava di adempiere la sua obbligazione, non c'era altro mezzo che di pignorarne la persona o torgli la pace del re; ma il diritto regio completa, per questo riguardo, il vecchio diritto del popolo. Già sotto i Merovingi troviamo introdotta tra i Franchi una esecuzione mobiliare, appunto in forza del diritto regio, ed è il conte, cioè l'ufficiale del re, che deve provvedervi. Poi, al tempo dei Ca* rolingi, si conosce anche una esecuzione degli immobili, e di nuovo per opera del re. Si cominciò a colpirli col hanno regio, salvo a confiscarli dopo un anno e un giorno, e pagare con essi il creditore; e anche qui 4 l'ufficiale regio, che interviene in nome del re, in attesa del momento in cui la nuova esecuzione potrà entrare nel diritto popolare.

Da ultimo ci sono casi, in cui il diritto regio fa addirittura opporizicne al diritto popolare e ne combatte le istituzioni. Ci- tiamo ad esempio la faida, che le vecchie leggi tollerano, e che il diritto regio vuole soppressa o almeno ristretta : i Capitolari autorizzano il conte a costringere le parti a pacificarsi. Lo stesso si dica della pignorazione privata. L'abbiamo trovata nel diritto langobardo e nel diritto sassone : i re franchi la proi- biscono sotto minaccia di pena.

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Il Bruaaer osservò molto giustamente, ohe il sorgere di questo contrasto tra il diritto regio e il diritto popolare, e il penetrare, che ha fatto il primo sempre più addentro nel secondo^ segna uno dei più grandi progressi dello svolgimento giuridico nel periodo franco. Appunto col mezzo del diritto regio, l'antica norma giuridica si è rinnovata e trasformata per adattarsi alle esigenze di una coltura più progredita. Un tale diritto ha fun- zionato tra i Franchi, press'a poco come il diritto pretorio tra i Romani.

3, E non è difficile il dire donde traesse la sua forza, e quale na fosse la sanzione. Si appoggiava alla fedeltà, che il re aveva diritto di esigere dai suoi sudditi in base al giuramento che avevano prestato; e insieme al diritto del banno che com- peteva ì^ia a lui e sia ai suoi ufficiali. Gli impiegati e vassalli potevano anche rimetterci V ufficio e il feudo, se non obbe- divano.

Qua e però si trovano articoli sprovveduti di qualunque sanzione : che anzi non hanno nulla di imperativo o proibitivo ; sono veramente leggi, ma consigli, ammonizioni o precetti meramente morali. Per es. : ** l'avarizia sta nel desiderare la roba d'altri^ senza dare altrui nulla del proprio, e, secondo TApostolo^ è la radice d'ogni male„. "Coloro che, nell'in- tento di guadagnare e con diversi artifizi, attendono ad ammas- sare cose d'ogni sorta, fanno un guadagno disonesto,,. "Con- viene osservare l'ospitalità . " Astenetevi dai furti, dai ma- trimoni illeciti e dalle false testimonianze, come vi abbiamo moventi volte esortato, e come vuole la legge di Dio . E il legislatore va anche più in là. Sembra quasi che si creda re- sponsabile della condotta di tutti i sudditi, e se ne preoccupa, s si scusa di non potere attendere e provvedere a tutto. " Con- viene, dice egli, che ognuno si studi di tenersi da se, secondo la sua intelligenza e le sue forze, nel servizio santo del Signore e nelle vie dei suoi precetti; perchè l'imperatore non può ve- gliare su ciascuno individualmente con tutta quella sollecitu- dine che sarebbe necessaria, e contenere ciascuno nei limiti della disciplina „.

Questa parte della legislazione non ò meno interessante delle altre e caratterizza i tempi, segnando un singolare contrasto con le leggi barbariche ed anche con quelle dei di nostri. Se

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ne togliamo i codici visigoti, le altre leggi barbariche non hanno ohe disposiasioni imperative o proibitive; i codici moderni usano indirizzarsi alla libertà umana per consigliarla. Ma ira l'epoca delle leggi primitive, che sono meramente penali, e l'epoca delle leggi dotte, che confidano nella moralità e nella ragione degli individui, ce n'è di mezzo una terza, segnalata già dal Guizot, in cui il legislatore si propone manifestamente di indirizzare gli uomini all'idea del dovere; e, introdotta la morale nella legislazione, ne fa una specie di apostolato e un mezzo d'insegnamento. Appunto in tali condizioni trova vasi la società al tempo di Carlomagno.

Capo III. I tempi feìidali.

§ 1. LE LEG(iI DELL'ETÀ FEUDALE.*'

1. Il periodo feudale si stacca caratteristicamente dal pe- riodo franco. La forte compagine dello Stato vagheggiata da Carlomagno, è spezzata. Nel periodo feudale lo Stato è come decomposto nei suoi atomi, e anche la fonte legislativa, nel senso proprio della parola, sembra quasi disseccata. Le leggi, ohe si ricordano, sono : i vecchi codici gentilizi, se pure qualcheduno non si è perduto in quel vasto mare della feudalità, e i capi- tolari carolingi. Le leggi nuove si possono contare sulle dita; ma ve ne sono di importanti, specie di Carlo il Calvo, e anche leggi e notizie di Guido, di Lamberto, degli imperatori Sassoni,

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di quelli della casa di Franconia, che continuano l'opera caro- lingia e, in quanto non sono semplici notizie, trovano davvero posto accanto ai capitolari dei Carolingi, e vengono glossate.

2. Sono leggi, che ritraggono i tempi; e dovevano essere tempi ben fortunosi e tristi. La maestà imperiale poco o nulla rispettata, e i servizi pubblici non sempre fomiti. Ciò vale par- ticolarmente della milizia e del placito. L'imperatore aveva un bel chiamare gli arimanni sotto le armi in difesa del paese : essi non rispondevano sempre all'appello, ne sempre prestavano aiuto ai conti in difesa del comitato. Gli stessi uomini imperiali, che si recavano al parlamento od al servizio presso l' imperatore, non si contentavano più dei loro stipendi. Frattanto le violenze erano, si può dire, all'ordine del giorno. Orde di stranie genti infestavano il paese ; ma, anche senza ciò, v'erano predoni e ru- berie dappertutto, gli ufficiali pubblici avevano sempre le mani nette. A questo proposito è degno di nota il grido, di- ciamo cosi, di disperazione, che la tristizia dei tempi strappò all'anima addolorata di papa Giovanni IX. La pittura, ch'egli fa delle condizioni in cui versavano i luoghi appartenenti alla Chiesa romana, è addirittura orribile. Egli stesso li ha veduti in tractationibus, depredationibusj incendiis, rapinis, ed eccita l'imperatore Lamberto a rimediarvi. Perfino coloro che si re- cavano presso l'imperatore, non erano sicuri di non essere mo- lestati per via. Anche i venefici e le uccisioni proditorie an- davano moltiplicandosi nel Regno in proporzioni sempre più spa- ventevoli, si da allarmare il legislatoi^e. S'invadevano anche le possessioni altrui sine lege, sia che vi si avesse diritto o no, con carta o senza carta ; e d'altra parte le carte false abbondavano. A volte si facevano delle tregue, o si scambiava il bacio della pace ; ma tregue paci si mantenevano. i giudici erano sempre sicuri nell'esercizio delle loro funzioni: venivano mi- nacciati e ingiuriati a parole e a fatti, mentre sedevano in iudicio, e perfino uccisi.

Quelli che più degli altri avevano sofferto, erano stati gli arimanni. Le leggi parlano di conti, locopositi, sculdasci, che esigevano da essi più di quanto era stabilito per legge: vole- vano albergare per forza nelle loro case, vi tenevano i placiti e si permettevano anche altre violenze. Una legge di Lamberto fa supporre, che i conti usassero perfino di darli in beneficio ai

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loro uomini, e li impedissero dall'alienare le proprie terre, vie- tando agli scribi pubblici di farne la trascrizione per altri. Per conveni» c'erano arimanni, che, pur di sottrarsi all'esercito o al placito, vendevano i loro possedimenti.

Gli stessi vassalli tolleravano a malincuore di vedersi privati dei loro benefici senza un giudizio di pari ; e anche ne volevano regolata la successione; ma poi, dal canto loro, non si peritavano di abbandonare a capriccio i loro signori, e anche di rifiutare il servizio.

la condizione delle chiese era migliore. Le pievi si tro- vavano sx)esse volte date in beneficio ai conti, ai vassalli dei vescovi, e in genere ai laici. E i messi, i conti, i giudici, non esitavano di pretendere il placito o l'ospizio nei fabbricati delle chiese, quasi fosse loro dovuto per consuetudine. Le decime, che avrebbero dovuto pagarsi ai vescovi o ai loro sostituti, si erogavano dai privati a vantaggio delle loro cappelle ; e d'altra parte i vescovi e gli abati disperdevano le possessioni ecclesia- stiche, attribuendole, mediante scrittura, a questo o a quello, e non per vantaggio della Chiesa, ma per denaro, parentela o amicizia. Molti chierici avevano moglie o concubina ; e gli stessi vescovi davano il malo esempio.

3. Le leggi cercano di rimediare a tutto ciò, e sono in gran parte leggi politiche. Era naturale! Il disordine politico» giunto al colmo, richiedeva che vi si provvedesse d'urgenza, riordinando i servizi pubblici, cercando di mettere un argine alle violenze, specie regolando il sistema feudale, che era tanta parte della vita pubblica. Appunto in materia di feudi sono importanti le leggi di Carlo il Calvo. Per es. una fa già ob- bligo a tutti gli uomini liberi d'avere un seniore. Un'altra ri- pete il divieto, che Carlomagno e Lodovico il Pio avevano fatto ai vassalli, di lasciare il proprio signore senza una giusta causa, aggiungendo che nessuno dovesse riceverli; ma poi il re sembra ricredersi e inculca che nessun seniore debba fare ostacolo ai suoi uomini, che volessero abbandonarlo per mutare servizio. Altre leggi obbligano i vassalli a seguire il proprio signore sia in guerra sia nelle faide, e anche ad assistersi tra loro, dovunque ve ne fosse bisogno e potessero farlo. Altre ancora assicurano ai vassalli regi il tranquillo possesso dei loro uffici e benefici, purché 81 mantenga^ fedeli e obbedienti, e aiutino il re come

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meglio sanno e possono ; e, ciò che più importa, ne riconoscono il carattere ereditario. L'editto di Kiersy dell'anno 877 sanci- sce ciò espressamente. In queste ed altre costituzioni si po- trebbe ravvisare come il primo nucleo del diritto feudale, che si svolgerà anche maggiormente in seguito.

4. Invece le leggi di gius privato scarseggiano. Sono leggi sul diritto di rappresentazione dei nepoti, sulla libera disposi- zione delle donne maritate, sulla successione del marito nei beni della moglie, su qualche nuovo caso d'indegnità, sugli impedi- menti al matrimonio e sui servi delle chiese. I quali avevano trovato il modo di fare acquisti col mezzo di uomini liberi e in nome di essi, defraudando cosi i padroni; e il legislatore vi mette riparo.

5. Altre leggi si occupano di diritto giudiziario; ma neppur esse sono numerose. Ne ricordiamo una, che fa obbligo ai giudici di trattare le cause tutti i giorni, salvo le domeniche, le feste principali ed altri tempi destinati a pratiche religiose. E ne è degna di nota la ragione : ^ accadeva pure che si vio- lassero ogni giorno le leggi, e i malvagi non si peritavano di fare il male ogni giorno: perchè, anche i giudici, non avreb- bero dovuto sedere tutti i giorni e dirimere le liti?„.

Un'altra legge provvede all'azione d' interziazione. Ottone I dispone : che se taluno avesse trovato un proprio cavallo o altro animale o altra cosa presso un terzo, costui, dato che si fosse prof- ferte a presentargli il garante, doveva giurare subito che gliene avrebbe fatta la presentazione, e non doveva andare più in del terzo garante e della terza contea. Se non avesse voluto far ciò, avrebbe perduto la cosa e anche pagato la composizione portata dalla legge. Un altro capitolo determina, ohe nessun chierico, o mo- naco, debba essere costretto a prestare il giuramento calunnia in nessuna controversia, sia civile sia criminale ; ma doveva inca- ricarne i suoi avvocati. Altre leggi ancora si riferiscono al si- stema delle prove. Un guaio dei tempi erano le carte false ; e l'imperatore Guido vuole punito il notare che le avesse rogate, e anche provvede alla prova. In generale il sistema probatorio poggiava ancora sul giuramento della parte e dei sacramentali; ma più tardi le cose cambiano. Vogliamo alludere ad alcuni capi- toli molto importanti di Ottone I sul duello, che vediamo ritor- nare improvvisamente in onore, sorretto dallo spirito dei tempi.

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L'imperatore comincia dall'avvertire la pratica antica, invalsa fino ai suoi di ; che, cioè, se una carta relativa a fondi era tac- ciata di falso, l'estensore potesse provarne Tautenticità, toccando i santi evangeli, e cosi assicurarsi il fondo. Ottone aggiunge, che la cosa era degenerata in un grave abuso, perchè molti, più solleciti dei beni terreni che della salute deiranima, non bada- vano a spergiurare; e molti ne avevano mosso lagno: più degli altri i maggiorenti. La legge stessa lo dice a più riprese. In- fine V imperatore, assediato da tutte le parti, si risolve a prov- vedervi nel 967; ma naturalmente, la legge, voluta dai grandi feudatari del Regno, non poteva non avere una impronta feu- dale. E a questo proposito amiamo di ricoi^dare un verso dei tempi, che esprime tutta la soddisfazione di quei signori:

" Noè belli dono ditat Eex Maximua Otto „.

In sostanza. Ottone riabilita la prova del duello, che i re langobardi avevano alquanto screditata : era un regresso in con- fronto degli editti di Botari e di Liutprando; ma infine quale altra prova poteva convenire ad un tempo, in cui il predominio era riservato alla forza? E doveva essere di applicazione gene- rale. Suppongasi una contestazione de praediis: se una delle parti voleva rivendicare il fondo con una carta o altra scrittura, l'avversario poteva dichiararla falsa per pugnam, e la cosa si decideva col duello. Se taluno diceva che una carta gli era stata estorta con violenza, ed era in questione un fondo, si doveva ricorrere alla pugna. Anche la decisione delle cause di sem- plice investitura doveva fars^i per pugnam, purché si trattasse di fondi. Non basta. L' imperatore provvede al caso di un depo- sito, e vuole che se il depositario, vinto da cupidigia, negava il deposito, e il valore superava i venti soldi, la verità dovesse scoprirsi per pugnam. E cosi nel caso del furto o della rapina : ut per pugnam veritas inveniatur. Ma anche altre leggi poste- riori esigono il duello. Arrigo II (primo d'Italia) provvede al cabo di chi per cupidigia avesse ucciso un parente, e vuole che A discolpi col duello. Lo stesso Arrigo s' interessa a che le tre- gue e le paci siano rispettate: chi avesse ucciso un uomo du- rante una tregua, o dopo scambiato il bacio della pace, perdeva la mano e, in caso di diniego, doveva battersi. Arrigo III si

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occupa dei veneficu e delle uacisioni proditorie: gP incolpati, che negassero, si difenderanno col duello, se liberi, e col giudizio di Dio, se servi.

Aggiungiamo, che tutti gli abitanti del regno it-alico, anche se viventi col diritto romano, sottostavano a cotesto leggi. Ot- tone I lo dice espressamente; e insieme prescrive ohe il duello debba combattersi in persona. Almeno questa era la regola. Soltanto in via di eccezione si ammetteva che le chiese e i conti, quando trattavasi di cose ecclesiastiche, potessero servirsi di un avvocato. Lo stesso doveva valere per le vedove. Oltracciò era provveduto all'età ed all' infermità. Se qualcuno, per causa dell'età giovanile o decrepita, o per causa d'infermità, non po- teva combattere da so, la legge gli permetteva di servirsi di un pugnator, o campione, e l'avversario poteva fare altrettanto. Pa- rimente la legge di Arrigo II, sulla successione del marito, «' indirizza a tutti, quicumque ex quacumque natiane legitimam- tixorem accepit

Tale e la legislazione durante il tempo della feudalità. In gene- rale, le costituzioni, che abbiamo ricordato, salvano ancora il principio di unità in mezzo a quel rapido e fatale sbocconcel- larsi dello Stato: fuori di esse, l'elemento che predomina è il particolarismo : e anche la formazione del diritto è abbandonata in gran parte alle forze locali : vogliamo dire alla consuetudine « all'uso giudiziario.

§ 2. - IL DIRITTO CONSUETUDINARIO E L'USO GIUDIZIARIO, **

1. Abbiamo trovato la consuetudine anche nell'età bar- barica; ma allora erano, più ch'altro, le vecchie catoarfede, che venivano ridotte in iscritto riuscendo al sistema delle leggi per- sonali; mentre in questi tempi è un nuovo, fecondo, continuo

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lavoro della coscienza popolare, cbe finirà, quando che sia, col metter capo alla territorialità del diritto.

Per vero dire, questa coscienza del popolo non ha riposato mai, e già abbiami^ osservato che gli editti langobardi, e anche i documenti, accennano più volte alla consuetudine, specie nei rapporti agrari, come può vedersi in Rosolie, secondo una carta dell'anno 772. Cosi pure leggiamo in un capitolo langobardo di Pipino: placuit inserere^ ubi Ux deest praecellat consuetudo^ et nulla eonsuetudo superpanatur legù Senonchè la coscienza del popolo, a lungo eclissata dalle nuove leggi, ora riprende vigore, e si fa largo dappertutto. Ci sono gli usus loci o terrae e gli u$ua pratrinciae; e dalle consuetudini locali e provinciali si sale fino alla eonsuetudo regni. Una carta del 1058 dice espressa- mente : Si cidvenerit quod iam dictus Paganellus secundum usum regni clarire poterit, quod predictum beneficium iuste suum rit, tane ambo.... sint taciti et contenti. Parimente un giudizio te- nuto a Pisa nel 1174, a proposito di certa controversia tra Par- civescovo e Tabate di S. Salvatore, ricorda la eonsuetudo regni. Inoltre vi si richiama una scrittura di Innocenzo III del 1208 ai baroni napoletani : Si quispiam ab aliquo fuerit offensus, non statim reoffendat eumdem, sed apud predictos comites querelam deponat, qui eam secundum rationem oc regni consuetudinem fa- ciant emendari. Altrimenti si distinguevano le consuetudini comuni o generali e le consuetudini speciali: una distinzione ohe compare già nelle scuole prebolognesi, come può vedersi nella Summa Codicis 8, 48, § 3: tam itu commune quam spe- ciale ex consuetudine constitui potest, e che la glossa, più tardi, farà propria. La distinzione però dipendeva nuovamente dalla diversità della aggregazione da cui la consuetudine traeva ori- gine. Le prime, a detta del giurista, erano le consuetudini del Pùpulus romanus, rispettivamente deìVUrbs, ohe dovevano aver vigore dappertutto; consuetudini speciali erano quelle di altri popoli, città, terre o castelli: cuiusvis oppidi, come dice la Summa.

E anche qualche criterio nuovo si è venuto formando, spe- cie sotto la influenza della Chiesa.

Le fonti distinguono frequentemente i buoni dai cattivi usi: bonus et pravus usus, bona et mala eonsuetudo^ la eonsuetudo e Vabusio, e via discorrendo. Cosi già il diritto canonico: Pravum

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usum lex aut ratio vincat E Radevico : Duo sunt quibus nostrum regi oportet imperium, leges sancte imperatorum et usus bonus praedecessorum et patrum nostrorumi Inoltre possono vedersi i Libri feudali : Porro sive de bona consuetudine^ sive de mala quae- ramus. Più tardi, Federigo II vorrà riservato il nome di con- suetudini a quelle che erano buone, e chiamerà le altre abusiones. Naturalmente, come la coscienza morale delle masse, cosi anche il diritto stabilito dall'uso, poteva, secondo il vario grado di col- tura del popolo, trovarsi spesso in uno stato d'abbrutimento e pervertimento : ecco perchè si faceva differenza tra le buone con- suetudini e le cattive. Del resto, solo le prime dovevano essere tollerate ; ma in che consistesse propriamente la buona consue- tudine non è detto dapprincipio, e solo più tardi se ne vengo- no fissando i caratteri.

Specie la rivelazione divina ha opposto un forte ostacolo ad ogni nuova norma di diritto consuetudinario. Già Tertulliano voleva che la consuetudine cedesse alla veritas: lo stesso Cri- sto non si era chiamato consuetudo ma veritas; e parecchie fonti, accolte nel Decreto di Graziano, ripetono la medesima cosa. E come la verità, cosi la sacra scrittura o la fede cattolica; onde nessuna consuetudine che contraddicesse ai precetti divini e al diritto ecclesiastico, avrebbe potuto essere consentita. E que- sto un requisito, su cui la Chiesa ha insistito molto e che si trova già in Gregorio Magno e in Sant'Isidoro. Gregorio Magno dice: Et nos .... consuetudinem, qaae tamen contra fidem caiholicam nihil usurpare dignoscitur^ immotam permanere concedimus, E Sant'Isidoro: dumtaxat quod religioni congruat, quod disciplinae conveniat, quod saluti proficiat D'altronde è un requisito che si spiega facilmente, pensando che era missione riconosciuta della Chiesa di far valere il principio morale in tutto, e quindi anche nel diritto: ciò che la Chiesa ordinava, aveva sempre, nelle sue intenzioni, il carattere di un diritto morale. Altri- menti si dirà che la consuetudine non deve mettersi in oppo- sizione con la ragione o col diritto naturale; ma erano tutte for- mule che si equivalevano. Lo stesso dicasi della ratio. Cipriano e Agostino l'avevano adoperata come sinonimo di veritas, e un canone riprodotto da Sant' Isidoro la confonde con la rivelazione divina. E cosi il diritto naturale. Più tardi Gregorio IX so- sterrà che la consuetudine, per essere buona, non deve dero-

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gare alla ragione, ne al diritto naturale: se vi avesse derogato avrebbe meritato piuttosto il nome di corruptela.

Dietinguevansi per tal modo le buone e lodevoli e ragione- voli consuetudini dalle prave e abusive e irragionevoli, secondo che corrispondevano o no a quei principi superiori; ed era il papa o il concilio che ne decideva, cioò il supremo legislatore della Chiesa. E manco a dirsi: una consuetudine irragionevole, per quanto secolare, non avrebbe mai potuto avere la forza di una norma giuridica : sarebbe stata colpita di nullità, ed il papa avrebbe dovuto estirpare la mala consuetudOj non tosto ne avesse avuto contezza. Del resto il diritto canonico si era espresso in modo analogo anche per le leggi; le quali, non altrimenti della consuetudine, avrebbero dovuto essere razionali e non con- traddire al gius naturale se non volevano essere nulle.

le scuole più tardi la penseranno diversamente. Odo- fredo, Alberigo da Rosate e Giasone, per tacere di altri, pro- clamano ad una voce, che una consuetudine irrazionale non può aver forza giuridica; e si aveva per tale appunto se contraddi- ceva al ius divinum e rispettivamente al ius naturale. Baldo identifica addirittura la consuetudo cantra rationem con la con- suetudo cantra ius divinum. Però Odofredo, Iacopo de Ravanis e Gino negano ogni efficacia alla consuetudine, anche se contrad- direva alla pubblica utilità.

Altrimenti si distinguevano le consuetudini approvate dalle non approvate; e anche questa è una distinzione che si deve alla Chiesa. Il diritto romano non conosceva nulla di simile: ne per lungo tempo di poi si trova nulla che accenni ad una conferma della consuetudine per parte della potestà legislativa. Essa esisteva da so, per virtù propria, come espressione di fatto delle idee giuridiche viventi nella coscienza popolare, e non aveva bisogno del riconoscimento di alcuno. Era la conseguenza della forma democratica, con cui si reggeva la società, dacché il potere legislativo risiedeva nel popolo, e la volontà di lui bastava da sola a stabilire le norme giuridiche. La cosa però doveva cam- biare con altre forme di governo. La Chiesa, in ispecie, non reg- gendosi a democrazia, accettando la massima che il capo della società riconoscesse la sua autorità dal popolo, venne di necessità nella conclusione, che agli atti popolari, anche frequenti, dovesse aggiungersi, in qualche modo, il consenso del legislatore.

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Ma neppure nel mondo laico la fonte del potere legislativo era più quella d'una volta : nondimeno si andò qui più a rilento. La Summa Codicis, Vili, 48 accetta ancora la teoria repubbli- cana romana che l'autorità di far leggi, del pari che la podestà di comandare, spetti al Populus romantis e a quelli a cui il po- polo l'avesse permessa: onde gli stessi principi l'avrebbero ri- petuta da esso. E come la legge scritta, cosi la consuetudine ! La fonte era la medesima, e non importava affatto che il popolo avesse dichiarato la sua volontà col suffragio o con l'uso. Come vediamo, sono ancora le teorie antiche, quelle a cui la Summa s'inspira, e qualche ricordo se ne potrà trovare anche più tardi, specie in Gino, in Bartolo, in Guglielmo de Cuneo, il quale arrivò ad asserire che il popolo non avrebbe neppur potuto ce- dere quel suo diritto all' imperatore. Ma non può dirsi che questa fosse l'opinione di tutti. Già Irnerio nella glossa alla L. 32, D. 1, 3 aveva sostenuto che la podestà era passata negli impe- ratori; e anche altri, glossatori e commentatori, pur senza an- dare tant' oltre, lo ammettevano nel caso che si trattasse di leggi 0 consuetudini generali.

In realtà troviamo parecchie consuetudini approvate sia dai re sia dai papi ; e forse l'esempio più antico è quello di Beren- gario e Adalberto re d' Italia, che nel 958 confermano le con- suetudini di Genova. Dicono espressamente : Ut unquam in tem- pore hcibeamus licentiam nec potestatem, per ullum vis ifigenium nullamque occasionem quod fieri potest agere nec causare nomi' native de vestra consuetudine, quam vestri priores parentes in hac civitate hàbuerunt. Più tardi Buggero confermerà le consuetu- dini di Bari (1131), Federigo I quelle di Milano (1186), re Gu- glielmo quelle di Corneto (1189), papa Innocenzo III quelle di Todi (1198); e anche altre città faranno a gara per otte- nerne il riconoscimento: Asti, Mantova, Pisa, Cremona ecc. Anzi gli stessi signori feudali si arrogheranno il diritto di con- fermare qua e i buoni usi dei loro dipendenti. Bicordiamo l'abate di Sant' Elena, che nel 1190 confermò quelli dei terraz- zani di Monteoalvo; l'abate di Montecasoino, ohe nel 1195 rico- nobbe e confermò in perpetuo i buoni usi e le consuetudini che quei di Atina avevano avuto fino dai tempi di re Buggero, no- minandone parecchie. altrimenti fece coi terrazzani di Teo- dice: riconobbe e confermò omnes bonos mores quos antiquitus

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habuistis. Più spesso però è fatta parola di bonae et adprobatae consuetudines, di boni et adpróbati usus, senza più. E d'altra parte si conoscono veramente alcune consuetudini riprovate. Per es. la desponsatio secundum legem Salicam per solidum et denarium, che già il concilio triburiense dell'anno 895 proibì, proclamando il principio che il matrimonio si contraeva col solo consenso, e che non dovesse invalidarsi, se anche non veniva rispettata la consuetudine del luogo. Un'altra volta la Chiesa contempla il caso di un franco che sposi una sassone e dichiara nullo il matrimonio se era conchiuso col diritto sassone della donna, anziché col diritto franco dell'uomo. Perchè ? L' Ho- Ftiensis pensa che la Chiesa intendesse di riprovare il diritto sassone più per la sostanza che per la forma, perchè il marito avrebbe potuto rimandare senza più la donna dopo la prima notte del matrimonio. Altri canoni poi negano al marito la facoltà di alienare i beni della moglie per pagare i debiti pro- pri ; e insieme si oppongono alla facoltà, che aveva la moglie, di esigere la metà di tutti i beni del marito, persino nel caso di adulterio. Particolari leggi di Celestino III, Innocenzo III, Onorio III, stigmatizzano i giudizi di Dio, specie il duello giu- diziario. Gli stessi interessi mondani hanno suggerito alla Chie- sa qualche riprovazione, che avrebbe fatto meglio a non fare; e ne addurremo un esempio. Essa possedeva dovunque este- sissimi tenimenti popolati da servi ; ma qua e vi era invalsa la prescrizione di trentanni, in luogo di quella di cento, la sola che essa riconoscesse contro di ; e cosi i servi fuggi- tivi avevano trovato il mezzo di sfuggirle definitivamente. Per e<sa, la prescrizione di trent'anni era una niala consuettido e non mancò di ricorrere all'imperatore. Il vescovo di Coirà ottenne appunto da Corrado I il privilegio: ut nullus servorum ad Cu- riensem ecclesiam pertinentium se per tricennia tempora liberare deinceps audeat, sicuti hactenus .... mala consuetudine .... fece" rant. Xel 1158 Federigo I dichiarò perversa la consuetudine, che obbligava gli scolari a rispondere dei delitti e dei debiti dei loro compaesani. Nel 1220 Federigo II riprovò gli statuti che avessero pregiudicata la libertà ecclesiastica, e nel 1235 condannò altre consuetudini portate in Italia dai Normanni, quali la prescrizione di un anno e un giorno, l'uso che, di pa-

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recchi testimoni, uno solo potesse deporre per tutti, e l'altra che i testimoni potessero venir provocati a duello.

2. D'altra parte, la consuetudine è venuta estendendo sem- pre più la sua efficacia. Non diciamo delle consuetudini prave^ circa le quali tutti erano d'accordo nel sostenere che non po- tevano averne alcuna. E già Sant' Isidoro, parafrasando la nota legge di Costantino, lasciò scritto: ìmus auctoritati cedat; pra- vum ìMum lex et ratio vincat ; ma anche la Summa Codici» e la glossa ordinaria negano ogni valore ai mali mores. Per es. la gì. male ad Auth. Coli. IX, tit. 10 (Nov, 134), la quale cita anche il Decreto di G-raziano e la costituzione di Federigo II contra statuta ecclesiastica^ libertati praeiudicantia. Ma le con- suetudini buone ? Certo, avevano efficacia ; ma fino a qual punto ? Avrebbero potuto valere anche di fronte ad una legge, per abrogarla, o almeno per derogarvi?

La vecchia legislazione imperiale, pur ammettendo l'autorità della consuetudine, aveva escluso che potesse vincere la legge, e la medesima idea può trovarsi ripetuta più volte nelle nostre fonti medievali. Sant'Isidoro non l'aveva ammessa che in man- canza di una legge : quum deficit lex ; e anche Pipino aveva stabilito lo stesso nel capitolo langobardo, che abbiamo citato più su. Ne riferiamo nuovamente le parole : Placuit inserere, vbi lex deest praecellat consuetudo, et nulla consuetudo superpo- natur legi. altrimenti la pensavano l'autore della Expositio, la Summa legis Langóbardorum, e cosi Ariprando e Alberto : si può dire che tutta la scuola lombardistica abbia tenuto fermo al divieto di Pipino, e bisogna arrivare fino a Carlo di Tocco per vedere un lombardista accogliere la consuetudine locale, anche se derogatoria. Lo stesso Irnerio non era di contrario avviso, ma per una ragione diversa. Nella glossa alla L. 32, D. 1, 3 egli sostiene molto nettamente che la consuetudine non poteva sovrapporsi alla legge ; e soggiunge, che ciò avrebbe po- tuto bensì verificarsi in un tempo, in cui il popolo aveva la podestà di far leggi, le quali, nel modo stesso come erano fatte, si sarebbero anche potute abrogare con tacito consenso di tutti ; ma a' suoi giorni ? dopo che la podestà era passata negli impe- ratori ? Nihil faceret desuetudo populi.

Però non si può asserire che co testa opinione tenesse il campo. Già prima la Summa Codicis, Vili, 48 aveva accolto l' idea che

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la consuetudine, oltre che essere un'ottima interprete della legge, avrebbe anche potuto abrogarla : per consuetudinem leges ipsae abrogantur; e anche la Summa era coerente. Non aveva essa accettato la vecchia teoria romana ohe il potere legislativo ri- siedesse nel popolo e che gli stessi principi lo ripetessero dal popolo ? Ma, contraddicendo a Irnerio, anche la glossa ordina- ria, e più tardi i commentatori sostengono ad una voce che la consuetudine, oltre che riempire le lacune della legge, e rego- lare rapporti che la legge non regolava, potesse anche servire a interpretarla, e perfino a correggerla e abrogarla. È stata forse V opinione di Bulgaro ; certo, è quella di Giovanni Bas- siano, Fillio, Azone, Odofredo e Accursio ; ed è per lo meno curioso il modo con cui la scuola si destreggiò di fronte alla costituzione ricordata più su, per cui l'uso non avrebbe dovuto vincere la legge. Pensò di riferirla agli usi speciali^ onde Co- stantino avrebbe negato solo ad essi la forza di abrogare, cioè abolire generalmente, una legge generale contraria. Per far ciò sarebbe occorsa una consuetudine generale ; e nondimeno anche una speciale avrebbe potuto aver forza derogatoria, escludendo la legge appunto nei limiti della consuetudine. Tra i postglos- satori ricordiamo Jacopo de Ravanis, Pietro de Bellapertica, Gino, Bartolo, Baldo, Giasone : anch'essi in generale si dichia- rano di questo avviso, e solo aggiungono nuovi argomenti e distinzioni.

Ne vogliamo notare due.

Più sopra abbiamo ricordato l'opinione di alcuni, i quali so- stenevano che la podestà legislativa fosse passata nell' impera- tore, se non altro nei riguardi della legislazione generale» Era per es. Topinione di Giovanni Bassiano, Azone, Accursio; e con tale teoria non si poteva ammettere che ogni consuetudine avesse valore senz'altro, perchè aveva il consenso del popolo. Cosi facevasi eccezione per le consuetudini contra legem generalem ; e la teoria della glossa è passata poi nei commentatori. Perchà una conèuetudo contra legem generalem potesse valere, sarebbe Htato necessario il consenso del principe.

Un^altra restrizione trova pure il suo fondamento nella glossa. Molti consideravano la consuetudine come una specie di patto tacito dei cittadini. Cosi la glossa aut legem ad L. 2, C. 8, 52: inerito parificant consuetudinem pacto, cum ipsa sit tacitus con-

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sensus; mentre un'altra glossa a Vacano richiama anche l'at- tenzione sulle parole di una legge del Digesto (L. 36, D. 1, 3), che definisce la consuetudine una tacita civium conventio. Ora, ammessa codesta opinione, era facile arrivare alla conseguenza, che una legge o consuetudine speciale potesse anche affermarsi cantra legem in tutti i casi in cui un patto speciale avrebbe potuto farlo. E ci si arrivò. Le Dissensiones Dominorwm di Ugolino, e anche la glossa a Vacarlo, dianzi ricordata, ne attri- buiscono la paternità ad Alberico, il quale aveva notato in via d'esempio che, come non si potevano pattuire interessi maggiori di quelli fissati dalla legge, cosi neppure uno statuto municipale, che ne avesse ammesso di maggiori, avrebbe potuto derogarvi. Comunque, la teoria attecchì presso molti romanisti, e anche Carlo di Tocco si dichiarò per essa, suffragandola con ricca co- pia di esempi. Dall'altro canto Azone, nel Comment. alla L. 2, C. 8, 62, dimostrò pure, con vari casi pratici, ohe uhi pactum non vaUt quandoque consuetudo valet; e Accursio vi si dichiarò addirittura contrario.

Ma lasciamo le dispute delle scuole : nel fatto la consuetu- dine ha seguito la sua via, ed ha finito, col sovrapporsi anche alla legge.

Ciò accadde appunto nei tempi di cui discorriamo : anzi la esistenza di una consuetudine derogatoria è attestata in più luoghi ; ma dapprima essa si presenta timidamente e non senza opposizioni. Ancora nell'anno 839 i monaci di Santa Maria di Sano si lagnavano perchè, nel giudicare, non si badasse più che tanto alle leggi, e si seguisse solamente la consuetudine : e ciò nonostante essa fini con avere ragione dappertutto, e dette veramente una nuova impronta al diritto.

Intanto, le leggi popolari, del pari che le leggi romane, ne uscirono modificate. Forse fin dal tempo in cui i vecchi domi- natori barbarici fecero redigere le costumanze dei loro popoli, queste si adattavano male al nuovo ordine di cose ; e similmente è ovvio il supporre, che quando ordinarono una nuova raccolta di leggi romane ad uso dei vinti, questa fossero già antiquate e in parte inapplicabili. La caduta dell' Impero e l' invasione barbarica dovevano aver mutato aspetto al mondo sociale: le re- lazioni degli uomini e anche il regime della proprietà non erano più quelli d' una volta ; le istituzioni politiche romane potè-

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vano sassistere ; e ogni altro rapporto doveva rinnovarsi su tutta la faccia del territorio. Era impossibile che due leggi vecchie, come le cavoarfede barbariche e l'antico diritto romano, conve- nissero a questa società nascente e disordinata, ma feconda. L'una e l'altra si dovevano modificare per adattarsi ai nuovi tempi; e in realtà il diritto romano, perpetuandosi, cambiò fisonomia, come le leggi barbariche, dopo consegnate in iscritto, degene- rarono. Il diritto romano e il diritto barbarico sono tra gli elementi essenziali della società moderna ; ma come elementi, che entrano in una nuova combinazione, la quale doveva nascere da un lungo fermento, e nel cui seno non potevano presentarsi che trasformati. Appunto quest'opera di trasformazione avvenne, più che altro, per mezzo di quella consuetudine, che Pipino aveva riconosciuto bensì, ma che non avrebbe dovuto sovrapporsi alla legge.

E la consuetudine ha ottenuto anche altri resultati. Non con- tenta di modificare le vecchie leggi, ne ha creato di nuove, corri* spendenti alla nuova vita dei popoli, alle nuove idee ed ai nuovi rapporti. Le vecchie leggi non bastavano, e doveva supplirvi la coscienza giuridica popolare: onde, se alcuni secoli prima assi- stemmo alla redazione delle antiche consuetudini barbariche, ades- so, cambiate le cose, in difetto di una legislazione scritta» che provvedesse ai bisogni presenti, vediamo il diritto sgorgare e svol- gersi principalmente e direttamente dalla viva coscienza del po- polo. Infatti ne uscirono regolati i nuovi rapporti di diritto pub- blico, come a dire le attinenze della sovranità coi signori feudali, quelle dei vescovi coi loro ufficiali, più tardi le franchigie dei comuni, le cólte, i fodri, le fortificazioni, la giurisdizione civile e il magistero ]^nale. Lo stesso dicasi dei diritti privati e del modo di farli valere. Nelle campagne si insinua già una mag- giore libertà; ma furono soprattutto i commerci, oggimai cresciuti, e i nuovi rapporti creati da essi, che resero necessaria l'opera della consuetudine.

3. Appunto a questi tempi appartengono le consuetudini di Genova ricordate più su, le quali si erano svolte, parte modifi- cando, parte supplendo il diritto vigente, quando Berengario e Adalberto, re d' Italia, le riconobbero. Esse presentano real- mente un grande interesse, si da meritare che ne diamo una qual- che idea, tanto più che durarono a lungo : anzi fu tale la loro

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forza di resisteuza, ohe neppure la legislazione di Ottone I, cosi contraria ad esse, riusci a sradicarle.

Alcune loro disposizioni s'indirizzano a rapporti di diritto pubblico. I Genovesi non dovevano stare in giudizio fuori di Genova, obbedire ad alcun giudicato reso fuori della città; i marchesi potevano mettere il bando se non per quindici giorni, quando venivano a tener placito a Genova. I massari, risedenti sui poderi dei padroni, non davano il fodro, il fodrello, r albergarla, dazio, o placito al marchese o visconte o ai loro messi ; anche i pctstenatores e i loro eredi, se volevano ri- sedere nelle terre dei Genovesi, erano franchi da ogni servizio pubblico. Dall'altra parte, in caso d' invasione di pagani, tut- ti, anche i forastieri avevano obbligo di far la guardia della città.

Altre sono disposizioni di diritto privato. La donna lan- gobarda poteva oggimai vendere e donare le cose sue senza in- terrogare i parenti, e senza notizia del principe. Anche i servi e gli aldi delle chiese, e quelli del re e del conte, vendevano e donavano liberamente le cose loro e perfino i fondi che tene- vano a livello. D'altronde, se i beni o i servi ecclesiastici erano dati a livello a taluno, niun altro poteva acquistarli a quel titolo. i livellari delle chiese perdevano il fondo, sebbene non pa- gassero il canone per dieci anni, purché ci fosse di mezzo una grave necessità, ed entro quel termine lo soddisfacessero per intero. Se un chierico era stato legittimamente investito dei beni ecclesiastici, gli era bensì concesso di cederli, ma nessun altro avrebbe potuto acquistarli durante la vita di lui.

Insieme si é provveduto alle liti che potevano sorgere tra Genovesi e forastieri. Se trattava della verità o falsità di una carta, e il notare e i testimoni erano presenti, bastava che l'estensore giurasse di non averla alterata in ninna parte: al- trimenti giurava se quintOj cioè con quattro suoi sacramentali, che non era falsa ; ma non si ricorreva al duello, neppure se la lite verteva tra Genovesi e forastieri, e fosse in questione un predio. Per simile, la prescrizione poteva dispensare dal duello. Chi avesse posseduto una cosa per trent'anni, non poteva essere obbligato a sottoporsi a questa prova: bastava che giurasse con quattro sacramentali di averla posseduta per quel tempo. Trat- tandosi di beni ecclesiastici tenuti a livello, il possessore giù-

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rava oon quattro sacramentali, che da dieci anni egli, o i suoi autori, li possedevano a quel titolo, e più non si richiedeva.

4. Cosi operava la consuetudine a Genova; ma ci guar- deremo bene dal generalizzare. Certo, non può dirsi che si ri- velasse dappertutto nello stesso modo, che rimanesse sem- pre inalterata. Il diritto consuetudinario offre questo di buono in confronto della legge scritta: che è più maneggevole; può piegarsi più facilmente a tutte le esigenze ed a tutti i bisogni, adattarsi ad essi e cambiare secondo le occorrenze. Il che si- gnifica, che non può non essere vario e mobile e, se vogliamo, anche incerto : è della natura sua di mostrarsi tale. E con ciò si spiega come si avvisasse a taluni espedienti per accertarlo.

Infatti, ci abbattiamo talvolta in qualche inchiesta pubblica ordinata appunto con tale intento. Più sopra ne trovammo al- cune per accertare la legge personale degli abitanti di un di- stretto: ora ne incontriamo altre per accertare il diritto con- suetudinario; ed erano gli uomini stessi del luogo, di solito i più anziani, che venivano interrogati d'ufficio, sotto fede di giu- ramento. Altrimenti si ricorreva ai lauda o laudamenta curiae. Il giudice, cioè, interrogava alcuni scabini davanti al popolo radunato, per averne una dichiarazione sul diritto consuetudi- nario vigente ; e appunto tali dichiarazioni si dicevano lodi. importava che ci fosse contestazione di parte. Poteva anche mancare; e infatti parecchi lodi fissano la massima di diritto, i^nza che nessuno abbia sollevato un dubbio, o che sia sorta alcuna contesa, provocati dalla stessa j)otestà pubblica, o anche dalla persona interessata, la quale intendeva, cosi, di meglio as- sicurare il suo diritto, e, soprattutto, impedire la formazione di una consuetudine contraria. L'imperatore Lotario concepì appunto la sua legge sulle colpe feudali, per laudamenium sapientum l'a- piae, Mediolani, atque Maniuae, Veronae et Parmae^ Lucae et Si/ponti,' et Marchionum atque dacum vel capitaneorum atque vai- va^orum maiorum. E un gran lodo provocato dalla podestà pubblica.

Altre volte si tratta di privati.

Un tale Alberto di Sciano voleva sapere quale sanzione col- pisse il creditore, che dopo essere stato pagato, pretendeva il credito una seconda volta; e si rivolse al vescovo di Trento: Quid iurin esse debeat super eof II vescovo rimise la cosa ad

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Adelpreto di Mandruzzo, il quale rispose: che doveva pagare tre volte tanto al convenuto e che anche il vescovo poteva pu- nirlo col hanno a sua volontà. Il lodo fu poi accettato dal ve- scovo e da tutta la curia dei vassalli, che lo riconobbero giu- sto, rectum laudum.

Se poi gli scabini o il popolo non si accordavano, e non c'era modo di avere un lodo, si deferiva la cosa ad un'altra cu- ria, vivente col medesimo diritto, o al supremo tribunale del- l'Impero; e se anche cosi non risultava possibile di venirne a capo, bisognava ricorrere al giudizio di Dio. Si credeva che, dove gli uomini non erano in caso di giudicare, non ci fosse che Dio il quale potesse parlare con qualche segno ; altrimenti fu decisa la questione della rappresentanza dei nepoti, su cui c'era stata discordia tra' giudici. La cosa è narrata da Yiduchindo. Il tribunale imperiale non aveva saputo mettersi d'accordo, e ave- va suggerito di farla esaminare dagli arbitri ; l' imperatore pre- ferì che si definisse col duello. Viduchindo continua : vieti igi- tur pars qui filiog filiorum computabant inter filioB, et firmatum est ut aequaliter cura patruis hereditatem dividerent poeto sem- piterno.

5. Ma i giudizi nel medio evo avevano un'importanza ben maggiore di quella, notata teste, di ricordare il diritto e pronunciarsi su esso. Molte volte la norma della legge o quella del diritto consuetudinario mancava; e non si trattava affatto di riconoscerla o di applicarla, perchè non esisteva. E nondimeno il giudizio funzionava. Se la norma non c'era, gli scabini do* ve vano trovarla : inveniebant sententiam ; e questo è un compito ben diverso e superiore, che fa dello scabinato un vero e pro- prio organo della formazione del diritto. E già le fonti lango- barde distinguono nettamente le decisioni prese dai giudici, quando sulla base degli editti, quando sulla base della consue- tudine, quando sulla base di un libero, ma coscienzioso, arbitrio. La parola è delle stesse fonti. U Chronicon Gothanum narra, che nel tempo anteriore all'editto di Botari le cause erano state decise appuitto per cadarfada et arbitrio seu ritus. Ma anche Liutprando l'adopera ripetutamente nelle aggiunte che negli anni 14 e 15 del suo regno fece all' editto : quia alii per con- suitudinem alii per arbitrium iudicare aestimaòant ; e anche : alii volebant per usum alii per arbitrium iudicare. Si trattava

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di cose non per anche disciplinate dall'Editto, ohe alcuni giu- dici avevano deciso giusta la consuetudine, altri secondo che det- tava loro l'arbitrio. Ma del resto si trattava di un prudente arbitrio. Lo stesso Liutprando (28) fa il caso di una sentenza pronunciata per arbitrium^ che giustamente fosse stata biasimata, e ammette che il giudice potesse scolparsene giurando quod non iniquo animo aut corruptus a premio causam ipsam non iudicassit^ ni9i sic ei Itgem conparuiaset Non v' ha dubbio : pur giudicando arbitrariamente, avrebbe dovuto giudicare secondo coscienza. E si può anche vedere il Capit. missor. Wormaciense a. 829^ che fa obbligo ai messi di far giurare i giudici ut scienter iniu- Mie iudicare non debeant, e parimente il Capit. missorum dell'a. 832 e. 6 di Lotario: scient ut iuxta suam intelligentiam recte iudicent

Noi possiamo chiamare questo diritto, trovato dai giudici, il diritto giudiziario ; ma in sostanza non è molto diverso da quello consuetudinario. Si tratta sempre della creazione d' una norma giuridica mediante la sua diretta applicazione ; salvo che non traeva origine dal popolo, bensì dagli organi speciali incaricati di pronunciare sul diritto. D'altronde questi erano pure organi del popolo; e di più il giudizio serbava tuttavia un carattere popolare. U popolo vi prendeva parte : assisteva alle sue sedu- te; e ognuno degli astanti, che ritenesse ingiusta la sentenza, poteva biasimarla, e provocare la decisione di un tribunale su- periore. Né il modo, con cui gli scabini procedevano nel tro- vare la sentenza, era gran fatto diverso da quello con cui pro- cedeva il popolo nel creare una norma di diritto consuetudina- rio. Gli scabini giudicavano secondo la loro coscienza giuridi- ca, e forse non si rendevano neppure esatto conto del perchè sentenziassero in una piuttosto che in altra maniera. Certo, non è da ritenere che sentissero il bisogno di riferire o adat- tare come ohe sia la regola, che avevano rinvenuto, a quelle già conosciate, o che cercassero di derivarla da principi generali.

Però già la legislazione imperiale franca ha cercato d' impe- dire che i tribunali popolari giudicassero per arbitrium; e que- sta è una tendenza che va di pari passo con l'altra della reda- zione ufficiale delle leggi, che stette cosi a cuore a Carlomagno. I capitolari ripetono frequentemente che i giudici devono giu- dicare secondo la legge scritta e non secondo il loro arbitrio,

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e che nei casi dubbi debba sull'arbitrio dei giudici prevalere la sanzione dell'autorità regia. Una simile disposizione ricorre anche in taluni codici del Ltber papiensis. Di più si fa obbli- go ai giudici di sottoporre il caso al re ogni qualvolta il diritto scritto presenti delle lacune ; ma l'aggiunta è di dubbia origine. E dall'altra parte non vorremmo affermare che il divieto im- periale facesse dappertutto breccia, essendogli certamente sfug- giti i territori bizantini, dove la pratica era press'a poco uguale. Cosi, ancora in tempi piuttosto avanzati troviamo detto nella promissione di Enrico Dandolo dell'anno 1192: Ubi usus defe- cerit, dicemus secundum nostrani conscientiam sine fraude, E lo stesso ripete il prologo I del Tiepolo : Et si quae aliqaando occar^ rerit^ quae praecise non sint per ipsa decisa, ...ai penitus est di- versum, vel consuetado minime reperitur, disponant nostri iudices sicut iustum et aequum eorum providentiae apparebit, habeìites Deum ante oculos mentis. Era proprio la coscienza giuridica che in simili giudicati si rivelava. Anzi non bastava che un prin- cipio fosse stato trovato e applicato, perchè si potesse ammet- tere senza più che rispecchiasse davvero la coscienza giuridica generale. Bisognava che venisse ripetuto, o, se più vuoisi, che fosse sancito dall'uso, onde anche perciò il diritto giudiziario somigliava al consuetudinario. E d'altra parte, appunto mercè il giudizio, esso veniva a fissarsi in una data forma, e presen- tava maggiore stabilità e sicurezza.

Se non sulle prime, certo col tempo si provvide anche a conservare queste sentenze: anzi la loro conservazione fu qua e ordinata per legge; e qualche capitolare non è, in fondo, che una raccolta di sentenze.

6. Una speciale questione riguarda la prova della consue- tudine. Exemplis probatur, dice una glossa; e la parte stessa, che vi si richiamava, avrebbe dovuto fornirne la dimostrazione. Tale era l'opinione della scuola, che può trovarsi ampiamente discussa, an- che nei bei tempi della rifiorita del diritto romano, per es. da Azo- ne e da Accursio, sebbene ciò possa recare un po' di meraviglia. I glossatori aderivano pure all'idea che il giudice, dovesse co- noscere d'ufficio i principi giuridici e tenerne conto; e pari- mente, che oggetto di prova dovessero essere soltanto i fatti, ma non anche i principi: nondimeno credevano veramente che il di- ritto romano, specie la L. 1, 0. 8, 62, richiedesse la prova della

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parte per il diritto oonsuetudinario ; e cercarono di dame la ragione :

1"* perohò solo il diritto scritto era talmente sicuro e de* terminato, da potersi pretendere che tutti, e specialmente i giu- dici, lo conoscessero.

2** perchè il diritto non scritto dipendeva da un fatto, e i fatti si dovevano provare. In realtà, non aveva detto Giuliano, che, trattandosi di diritto consuetudinario, il popolo manifesta la sua volontà rebus ipsis et factisf

Se pur si faceva eccezione, era per le consuetudini notorie, giusta il principio che notoria non egent probatione.

§ 3. - LA LEGGE ROMANA UDINESE. "

1. Parlando delle leggi romane del periodo barbarico, ci siamo occupati anche del Breviario Alariciano e abbiamo ac- cennato a vari compendi che se n'erano fatti. Uno di questi è 1a logge romana, che, dal luogo dove fu prima trovata, è detta

•* Bibliografia. Sationt, OttehicfUe, I, 426 negg,: VII, 28 seg. Trmduz. iUl. d«l BoUat., I, 241 segg. IlAEaiL, Lex remi. ìVingoth, ProUgomena, p. xxxi, Lzzxiii, Lipeiae, 1B4B. BsTBMAiia-HoLLWBa, Urspr, der lamb, Siàdte/reiheit, Bonn, IHM^ p. 28. Ubobx. C, Gt$cK der SMdiiverfcusung v. Italien, Leipzig, 1847, II, HA MKjg;. Tnidiu. iUUana, Milano, 1861, p. 412 segg. Stobbf, De Icgt Romana f'tencfiMfAegi monti PrOBBorum, 1853. SciiurrEB, La Ugge romana udinese, Roma, IdHt ('Atti della R. Aocad. dei Lincei ^ serie III, Classe di scienze morali, Tol. vìi). Lo ATRSAO, A'ttotfì ttudì ftUla Ugge roviana udinese, Roma, l»-82 (tvt, ▼ol. Vili). Lo 8TKH80. DbIUb Ugge romana iidineee, Roma, 1H87 {ivi, serie IV. ToL III). Lo HTEB40, // UiÌ€tmenlo di Tello e la Ugge romana ìidinese, Roma, 1889 (tet, voi. VI). Casetta, / rapporti della J^x roman€$ ulineneie con la Lex Ala- mammormm, Uilano, ls88 (dal •^Filangieri ,). R. \Va«nkb, Ztir Froge nach der Enteiehung u. dem Geliungegihiei der Lex J£om, Utin, C* Zeitschr.* fUr R. (t., IV). BarWBB {ivi, p. VìBseffg.). Von Salis, J^x romana CurieneÌM (ivi, VI). Zbiimkb, Crber Heimalh u. AlUr aerLex Bomana Haeiica Curientis (i»i, IV). Lo srrRHO, nella preflBsioDe alla sua adisione della legge. Bbolblin £., Lee fondemente du r^jgime ftodal dame la Lex rom. Curieneia, Parigi, 1898. Prbkini, Sulla lex rom. uUnen- eie, nota, Torino, 1896 (nel vul. di * Stncii di storia del diritto italiano dedicati a F. Sohapfer,

VoB VOLTBLIBI.

Insù f OMt. „„ . ^

terminattione dell'età e della patria della e. d. Ijex rom. rhaetica eurUneie, Torino, 10)1 (* RtT. ital. per le sciense giar.^ XXX, H; XXXI, 1-2). Lo rtsì^ho, ÌH alcune pretese aUegemont della lex rom. rhaetica eurieneis, Torino, IdDH (** Rìy. ital. V^^ì^ Beienta giur. XXXV, 2-8). Edizioni. Cangi ani nelle Barbarorun Ugee^ Iv, 401 ••M. (aeoondo il codice di Udine, ora nella Biblioteca univers. di Lipsia, Cod. 8408), riprodotU da Waltfb, Corpus iur. germ., IIL (501. I due codici sviz- teri sono riprodotti da Habnkl nella I^x rom. ìVieiaoth, di fianco al Breriario «» ad altra opitomae di esBO, e da Planta, Dm aUe RìttUn, Berlino, 1K72, p. 452 BBgg. NnoTa edisione dello Zki-mbs, nei * Mon. Qerm. , Leges V, non senza idae prseonceite.

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udinese : ma veramente più ohe un compendio ne è un rima- neggiamento; e se ciononostante vi abbiamo allora appena ac- cennato, si fu perchè non apparteneva a quei tempi. La legge è stata accomodata qua e agli usi e istituti del paese, pel quale era destinata, e rispecchia molto nettamente il periodo che maturava una nuova nazionalità e un nuovo incivilimento. Anzi, più che una legge, nel vero senso della parola, è un libro giuridico, come ne troveremo anche altri, ossia un lavoro tutto privato, che pur riproducendo le vecchie leggi, sa cogliere la nuova consuetudine, che si era venuta formando, anche in op- posizione ad esse.

Del resto, questa raccolta ha fatto luogo ad una larga discus- sione, che può dirsi ancora aperta.

2. La prima questione è quella del tempo; e crediamo per risolverla, sia mestieri tener conto di due elementi, che sono: Tetà dei codici, che esistono tuttavia di questa legge, e l'intima natura di essa. Ora, i codici appartengono tutti al secolo IX; sicché è certo che la legge non può essere poste- riore. Ma sarà anteriore?

Un fatto che contrasta singolarmente con le condizioni del secolo Vili, è la diversa competenza, che si trova stabilita nella legge, tra il conte e i centenari, che certo in detto secolo an- cora non esisteva. Nondimeno la ragione precipua, per cui non è assolutamente possibile che sia stata scritta nel secolo YIII) è la sua forte tinta feudale ; e questa non può revocarsi in dubbio. Perchè, innanzitutto, la società è feudale. Essa vi è come scol- pita con le sue mille usurpazioni, coi suoi vincoli contrattuali e privati, col potere che si sfascia da ogni banda, e con la grande disperazione deiruomo che, pur di provvedere alla propria si- curezza, si getta in braccio alla servitù. Inoltre molti diritti sovrani si trovavano oggimai nelle mani dei conti, marchesi o duchi, che voglian dirsi. Lo stesso vincolo, che legava i conti al re, non era più il vincolo dell'ufficio, ma quello del vassallag- gio, il quale, appunto nella età carolingia, si presenta come un organo della costituzione del Eegno, e il solo legame che tenga ancora uniti i pubblici ufficiali. È l'obbedienza meramente contrattuale, che si sostituisce a quella dovuta in base alla co- stituzione; e il re cessa di essere re per diventare il supremo signore feudale. E e' è anche altro. C è la grande estensione

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del 8Ìst6ma beneficiario, specie il carattere ereditario dei be- nefici maggiori; c'è l'immunità, che si allarga; ci sono i servi che vengono immobilizzandosi o radicandosi al suolo, che è pure an gran fatto, che non si riscontrerebbe prima dei tempi feu- dali. E le stesse disposizioni di diritto privato accennano ad essi. Alludiamo a quelle intomo ai gradi di parentela fra i quali erano proibite le nozze : la nullità del matrimonio tra' parenti del quarto grado fa appena capolino nel secolo IX e si trova già nel codice udinese.

3. Kesta ohe diciamo della patria della legge : e comin- ciamo dal notare un fatto curioso. Una delle cause, forse la principale , per cui gli scrittori l' hanno attribuita ad uno piuttosto che ad altro paese, ò stata la regione dove fu trovata. Per molto tempo non se ne conobbe che un manoscritto, cioè quello di Udine; e la opinione prevalente era che appartenesse all'Italia. Poi se ne scopersero due altri: uno a S. Gallo ed uno a Pfefifers, e se ne cercò la patria altrove, specie nella Rezia Curiense. Noi riteniamo però che il luogo, dove un codice esiste, non possa essere che un indizio, e neppure dei princi- pali, e sommamente pericoloso; perchè i codici viaggiano, e ne abbiamo una prova nello stesso codice udinese, che, lasciato emi- grare dall'Italia, si trova ora nella biblioteca universitaria di Lip.^ia. Inoltre, se la legge fosse stata applicata in più luoghi, come crediamo, non ci sarebbe proprio da meravigliare che cia- scuno di essi avesse avuto i suoi codici. Ciò che veramente importa, si è di vedere se le circostanze di fatto, quali sono descritte nella legge, si adattino meglio alle condizioni di un paese piuttosto che dell'altro. La questione è tutta qui; e noi crediamo che un attento esame non possa a meno di farci oon- chiudere in favore dell'Italia.

4. Cosi le condizioni sociali, ohe si trovano nella legge, non sono quelle della Rezia. La legge accenna ai miliies nel >en5o feudale, per indicare i vassalli, e contrappone ad essi i patriani pricati^ cioè i provinciali non legati ancora da alcun vincolo di vassallaggio. E i primi prevalevano ; ma una società così pregna di elementi feudali nella Bezia non esisteva. Altri- menti, la legge parla di boni hominesj o seniores eititatiSj e di curiales; e lascia capire che la libertà dei primi fosse una li- bertà molto superiore a quella dei secondi : tanto è vero che

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per punire un chierico, che avesse atteso a cose secolaresche, lo voleva messo tra i curiali o tra i coUegiati, secondo che avesse o no beni propri ; ma anche ciò non si attaglia alle condizioni della Bezia. Perchè, in generale, se ne togliamo il testamento di Tello di molto dubbia provenienza, i documenti retici non parlano di curiali, e il testamento stesso vi accenna in un senso che non e quello della legge. Sarebbero stati impiegati supe- riori della corte privata del vescovo, e per conseguenza ben di- versi dai curiali della legge.

vi corrispondono le istituzioni politiche. La legge sup- pone un re, partecipe ancora di tutto il lustro della corona ; ma la sua potestà non voleva dire gran cosa : ogni potere effettivo era nelle mani dei Principi^ cioè duchi, marchesi e conti feu- dali; e la legge ne conosce molti. Ma il re degli Alamanni, che imperava sulla Inezia, non travolto ancora dall'onda feudale, era rivestito di ben maggiori poteri; e d'altra parte la Rezia curiense non aveva che un conte.

La legge ricorda eziandio i giudici fiscali e gli attori, che ne dipendevano : gli uni e gli altri intimamente legati al pa- trimonio pubblico ; e neppure essi si trovano a Coirà. I Judices curiensi hanno tutt'altro significato. Perchè non tutti erano giudici superiori ; e poi amministravano la giustizia e basta : l'uf- ficio economico, che competeva ai giudici fiscali, manca affatto. Perfino il modo, con cui erano regolate le competenze giudiziarie ci obbliga a distinguere gli ufficiali della legge da quelli della Bezia, e anzi da quelli di tutto il regno dei Franchi. Il prin- cipio, che le cause maggiori possano venir portate tanto davanti al Princeps quanto davanti al Judex ; e che la diversa compe- tenza, anziché essere determinata dalla diversità delle cause, lo sia dalla diversità delle persone, contraddice addirittura alla costituzione giudiziaria franca. Di più, il diritto firanco, che vigeva nella Hezia, provvedeva al fóro ecclesiastico in un modo che non è precisamente quello della legge. Vogliamo alludere specialmente alle cause criminali. La sola autorità competente, secondo la legge, era quella dei giudici dello Stato, anche se si trattava di vescovi e preti; e al contrario il diritto franco distingueva : ne lasciava la cognizione all'autorità ecclesiastica, e non ammetteva nei giudici secolari altro diritto fuorché quello di applicare la pena. La stessa giurisdizione immunitaria, che

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la legge attribuisce generalmente alle chiese, fa ostacolo, sia che si accettino come normali le condizioni, quali esistevano sotto il vescovo Bemedio, sia che si ammetta, come crediamo, che cessassero sotto i suoi successori per far luogo ad altri pri- vilegi immunitari. Certo, esse non si attagliano alle condizioni della legge : non quelle del vescovo Remedio, perchè molto più larghe ; non quelle dei suoi successori, perchè molto più ri- Htr»^tte.

Nemmeno vi si trova corrispondenza quanto al diritto privato, e, e;r>bbene si possa ammettere che i Romani della Kezia curiense vivessero con la legge romana, nulla prova che questa fosse la no<;tra. Diremo di più : qualche istituto giuridico si trova di- sci[iUnato nella legge in un modo e nei diritti retici in un altro. Al qaal proposito basterà ricordare i principi ohe regolavano gli impedimenti matrimoniali, il diritto ereditario ed alcuni de- litti, come le malie e la calunnia.

La legge udinese conosce già un impedimento nel terzo grado e perfino nel quarto; mentre quella alamanna, che imperava nella Rezia curiense, si restringe al secondo, e anche contiene una sanzione diversa. La legge udinese voleva devoluta l'ere- dità prima ai figli, indi ai propinqui per parte di padre, infine a quelli per parte di madre; e invece per diritto alamanno suc- cedevano prima i figli maschi, indi le figlie, poi il padre, e pos- siamo aggiungere, sebbene la legge non Io dica, i parenti pa- temi; ma non si aveva punto riguardo ai parenti per parte di madre. La materia relativa alle malie e alla calunnia, può ve- dersi disciplinata dai Capitoli del vescovo Remedio, che è un'altra legge retica, e nuovamente in modo afiatto diverso dal codice udinese. A proposito delle malìe, la legge udinese dice, che ognuno il quale celebrasse i sacrifici dei demoni o li invocasse C4>gli incantesimi, e similmente coloro che credessero nelle in- vo'^azioni dei demoni o negli indovini o aridi o negli aruspici, qui auguria clabant, andavano puniti nel capo ; e per contrario, leggiamo nei Capitala^ che il malefico o sacrilego, era per la prima vol^a decalvato, e dopo impeciatogli il capo, lo si conduceva attorno sa di un asino, battendolo ; la seconda, gli si tagliava la lingua e il naso ; la terza, veniva abbandonato alla potestà dei giudici e laici. Infine la legge udinese stabiliva, che se taluno in un momento di collera avesse rinfacciato un delitto ad

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un altro, e poi se ne fosse pentito, e avesse confessato di averlo fatto neirira, doveva andare esente da pena : prò hoc non te- neatur in culpa ; mentre i Capitala Remedii volevano che, anche giurando di averlo detto per ira, dovesse venire fustigato; a meno che non se ne riscattasse con sei soldi.

5. Invece le condizioni sociali, politiche e giuridiche, quali risultano dalla legge, s'accordano pienamente con quelle deir Italia nel secolo IX.

Certamente gli ordini sociali corrispondono. I milites si tro- vano in Italia come nella legge, e proprio nel significato della legge; ne abbiamo bisogno di scendere molto giù nel tempo: sono ricordati tanto dal vescovo Liutprando quanto da Attone di Vercelli. Inoltre i diplomi italiani distinguono i boni homines dai curialesj e nuovamente come la legge. Mentre la parola bonus homo esprime la libertà piena, la parola curiale ò adope- rata a indicare una libertà ristretta, un ordine che non si am- bisce affatto, che si può anzi considerare come un castigo. Si direbbe quasi che i documenti italiani riproducano, a questo proposito, gli articoli della legge. Già il glossatore traduceva la Curtis regia con Curia; e un decreto del concilio di Pavia dell'anno 1022 ed una costituzione di Arrigo II usano la pa- rola press' a poco nel medesimo significato. Ma anche più importante è il tenore di questi documenti, che paiono conti- nuare la legge udinese. D'altronde si sa che, appunto in Italia, la società germanica era nettamente distinta dalla società ro- mana fino dai tempi della conquista langobarda : da un lato, gli arimanni o boni haminesj come nella legge, cioè i possessori ger- manici, che non pagavano tributo, e appartenevano alla costi- tuzione comitale ; dall'altro, i possessori romani, che per le loro terre dovevano un tributo allo Stato, e, cosi, appartenevano alla curia o corte regia, sotto la dipendenza del gastaldo. Da un lato, una libertà piena, politica e civile, e dall' altro, una libertà soltanto civile : anzi una condizione, più che altro di sudditi, vincolata per più riguardi allo Stato. La legge udi- nese non potrebbe rispecchiare meglio le condizioni sociali della penisola.

i re italiani nel secolo IX volevano dire gran cosa. Come i principi della legge, e cosi i maggiorenti italiani erano ve- nuti via via usurpando sui diritti sovrani; finché si arriva alla

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successione di Carlo il Calvo (an. 876), che si sa essei^ stata più nominale che reale, e non ebbe infatti altra importanza che di aver ampliata anche più la podestà di que' magnati.

Inoltre la competenza dei principi e dei giudici, come si tro- va regolata nella legge, ricorda gli ordinamenti langobardi, che certo si sono mantenuti in Italia anche dopo la caduta del Re- gno. I giudici fiscali della legge esercitavano una estesa giuris- dizione, anche criminale, sui provinciali in contrapposizione ai militi; ma già tra' Langobardi era avvenuto press' a poco lo stesso, salvo che allora non si parlava di provinciali e di mi* liti, ma di tributari e arimanni. Infatti è nostra opinione che i giudici dei Romani fossero appunto i gastaldi. Lo stesso fòro degli ecclesiastici, com'era inteso dalla legge, mostra chiaro che si tratta di un codice nato in Italia. Già lo abbiamo osservato : tatti, perfino i vescovi e i preti e diaconi, dovevano rendere ra- gione davanti al fóro secolare, sebbene si trattasse di cose cri- minali; e anche il giudizio principale ad examinandum^ ad di- scuiiendum, era di sua competenza. Ciò secondo la legge; ma lo stesso può vedersi in un capitolare di Lotario I dell'anno 823. Inoltre abbiamo la testimonianza del vescovo Attone di Vercelli, il quale deplora che si costringessero i sacerdoti a scolparsi, per- sino coi congiuratori e col duello, davanti al tribunale pubblico.

E anche il diritto i medesimi risultati. Non parliamo dei principi di diritto romano, che furono sempre il patrimonio dei vinti, anche nei brutti giorni dell'invasione; ma gli stessi ele- menti forastieri, che ricorrono qua e nella legge, accennano airitalia.

Vi si dice per es. che la patria potestà si estingueva con la commendazione e col matrimonio del figlio; e certo, la forma della commendazione, applicata alla estinzione della patria po- testà, ò cosa tutta langobarda. Ne altrimenti la emancipazione l)er matrimonio sembra attinta alla pratica langobarda; perchè la ExposiHo a Liut. 113 accenna a cotesta consuetudine. Lo stesso dicasi del diritto successorio. Già notammo che, morendo taluno intestato, la sua eredità doveva, secondo la legge udinese, cedere prima ai figli, poi ai parenti paterni, da ultimo a quelli per parte di madre; ma tale era appunto il sistema successorio che vigeva in quei tempi in Italia. Le stesse disposizioni sulla legittima (falcidia) riscontrano a capello coi documenti italiani ;

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perchè essa spettava oggimai a tutti gli eredi legittimi, come nella legge e, non altrimenti che in questa, soleva venire lo- calizzata. Infine amiamo di richiamare l'attenzione su di un arti- colo concernente i beni dei naufraghi. La legge combatte il diritto di naufragio, che entrava certamente nelle costumanze barbariche, e che durò a lungo nel medio evo; ma anche per questo riguardo siamo ricondotti all'Italia. Appunto in questi tempi esiste un trattato di Sicardo principe di Benevento coi Na- poletani (an. 836), che s'inspira al medesimo concetto; mentre se ne cercherebbe invano un riscontro ftiori d'Italia.

Del resto quegli stessi scrittori, che attribuiscono la legge alla Bezia, non possono negare che essa abbia avuto qualche relazione anche con l' Italia. Specialmente il Conrat ne avverti una in un codice milanese, citato anche più su, del Liber Pa- piensiSf dove sotto la rubrica: Incipit capitala scdm lochici im- péfris filius lothari imprh, può vedersi una collezione di testi di varia origine, specie di capitolari e concili. Tra le altre vi sono alcuni passi della nostra Lex romana accanto ad uno del- l' Epitome Egidiij che fanno appunto al caso. Il Conrat sospetta che la collezione possa essere di origine franca o retica, perchè si giova di Ansegiso ; ma non ci pare un buon argomento, perchè oramai è dimostrato che i capitolari di Ansegiso furono adope- rati anche in Italia. Comunque, si sarebbe trascritta in Lom- bardia; e lo stesso Conrat lo ammette, aggiungendo, che deve essersi trovata alla mano in ogni sua parte, e quindi anche nei testi presi dalla Lex,

6. Cosi nulla vi s'incontra che non accenni all'Italia; ma si potrebbe chiedere: che bisogno aveva l'Italia di questa nuova compilazione di diritto romano?

Rispondiamo brevemente, che e' era il bisogno di rinverdirlo e renderlo popolare, dacché già da un pezzo si era smesso di ricorrere alle fonti nello applicarlo ; ma insieme s'imponeva quel- lo, anche più urgente, di adattarlo alle condizioni e istituzioni della nuova società che si veniva formando.

TITOLO II.

LE SCUOLE E LA SCIENZA DEL DIRITTO \

Capo L Scuole ramane e scienza romana.

§ l. - LK SCUOLK DI DIRITTO ROMANO."

1. Cominciamo dall'osservare, che, già sotto i Romani, certe nozioni di diritto solevano impartirsi insieme con le ma- terie del tricium, specie con la rettorica, airoccasione del genus iudiciale. Le scuole del medio evo non fecero che continuare, anche per questo riguardo, le tradizioni antiche ; e cosi in quei primi secoli, nel VI come nel XI, il diritto forma oggetto di studio in tutte le scuole laiche superiori, unitamente alla gram- matica, alla dialettica ed alla rettorica, che erano appunto le

"• Bibliografia. Muratori, IH lUcrarum iiatu neylectu et cultura in Ita- lia yoMt harharos in eam inveeto* us<fiie ad annuni Chr. MC (Antiq, hai., Medio- laiii, 174*», di'»s. 4;^». Savkjnv, (icscUichU'f I, J>. IM^ sotr. Tra<iuz. di Hollati, I, p. 'i>31 nei:.:. <ri|HKnRBCHT, De lilurarum studim apud h(tlot primis medi nevi iac' ctdis, litTolini, 1^5. FiCKRB, Foncliungcn tur Heicìis- u. Jifchugrtch, Italifus. Ili, P. 110 soéf?., Iniisbruok, IHTO. Fittixo, Zur (itschieìUe der Uerhtnu'ittenseha/t am An/ariffr da Sf. /!., llaUo, Ih75. Lo AVv^AO.Die Anpiuye drr HechtischuUzu li*>i*jgnit, |)<«rlÌD, 1^^M. L<> 8Tk>»8<>, Ia' scuole ai diritto in Francia durante V XI fcotoy uel -Hulh'ttiuo dell'Istituto M dir. romano- anno IV, fa»<\ :i e 4. Vr^X. KiTi>R, La Bcitnce dn droit dans la première moitù* dn moyen à'ie { '*Nou velie Ko- vue hit*tori<iuo . I, 1^77, p. 1 sog^.). ìsalvioli. V Istruzione pubblica in Italia nei seeoii Vili, IX e X ("Rivista euroi)oa « voi. XIV, Firenate, 1879); anoho sepa- ratamente, Firoiixe, ls!H. Lo 8IE^•^^^ La scuola nonantolana di diritto e un fram- mento di un manuale oiuritiico del secolo XI, Mo<lona, 1>^1 ("Atti e mfimnrie d<*lla d<)pTitaz. di storia patria doir Kmilia ^ nuova serie, VII, ì). Tarlazzi, La Écuola d% diritto romano in Ravenna e in Bolot^fna ("Atti della cloputaz. di sto- ria (latria |»er le proviurio di liomagna^ anni l»Sl-82). Rict i C, Sulle origini dello studio ìiavennate (iri't 1882, e anche nelVopera l primordi dello studiò di Bologna eco,. Dolora, 1HH8, p. ijl segg.); Ri v alta, Discorso sopra la scuola delle U^yi romane in Ravenna ed il collegio dei giureconsulti ravennati^ Ravenna, IH^. SrarrKKa, Le i'nicersità e il diritto^ Conferenza (nellVipora (Ili Albori delU vita italiana^ voi. Ili: Scienza lettere ed artij Milano, 18i)l). Hkixkmawx, Prefkiione alla Petri Crassi Defensio Ihnrici IV regUj nei "Libelli de lite im- poratorum et pontificum saecnù XI et XII « Hannover, 1801. Tamaiìbia, Le opere di Pier Damiano. Not« per la storia giuridica del secolo XI "Atti dell' Istituto veneto, LXII, 2, VJXi).

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arti liberali del trivio. Ne fanno testimonianza Venanzio For- tunato pel secolo VI, Alenino e Teodulfo pei tempi di Carlo- magno. Al secolo XI si riferisce una notizia di Milone Crispino sul beato Lanfranco: ab annis puerilibua erudiius est in seholis liberalium artium et legum secularium ad $uae morem patriae. Medesimamente la Pugna oraiorum di Anselmo Peripatetico, della metà del secolo XI, mostra che Anselmo, oltre che addestrato nella rettorica e nella dialettica, era anche versato nel diritto, e che lo stadio delle leggi romane andava tuttavia congiunto con la rettorica. Anselmo incarica appunto la rettorica di rap- presentare la giurisprudenza; e lo stesso risulta da alcune poe- sie del tempo. Una di esse dice, parlando della rettorica :

" Ixis civile^ forum, curules ipsa peromatn,

E un'altra:

" Civiles causas iudiccU esse meas „.

voglionsi trasandare i versi, che Wipo, un borgognone della diocesi di Losanna, diresse nel 1041 ad Arrigo III. Il cappel- lano imperiale contrappone il buon aso italico, di istruire per tempo i giovani nelle arti liberali, compresa la giurisprudenza, alla crassa ignoranza dei Tedeschi de' suoi tempi, che mette- vano ben poca cura ad apprendere checché fosse, se non era per abbracciare la carriera ecclesiastica:

" Hoc servarli Itali post prima cr^undia cuncti

Et stutare scholis mandatur tota iuverUiu.

Solis TetUonicis vacuum vel turpe videtur,

Ut doceant aliquem, nisi clericus accipiatur j^. ^

Ricordiamo anche quel monaco Vettore di Marsiglia, che venuto in Italia verso il 1070, o, come altri credono, verso il 1130, scrisse da Pisa al suo abate, pregandolo che gli permettesse di studiare diritto in quella città. Dice tra le altre: Nunc autem quia per totam Italiam scholares et maxime Pnmnciales, nec non

ipsius ordinis de quo sum legibus catervatim studium adhiben-

tes incessanter conspicio. Cosi non farà meraviglia ohe gli stessi causidici, e in genere i giuristi, venissero anche indicati col nome di rhetores.

Soltanto non conviene credere che tali scuole approfondissero molto lo studio della giurisprudenza. Si tenevano più o meno

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sulle generali; e cosi accadde, che persino i migliori allievi, come Anselmo Peripatetico e Pier Damiani, non potessero ga- ^^ reggiare coi giuristi di professione.

2. D'altra parte esistevano anche scuole speciali di dirit- to romano.

Quella di Eoma si mantenne nei secoli barbarici. Certo, esisteva nel secolo VI. Ne fan fede l'editto di Atalarico sullo stipendio dei professori, e un brano della prammatica sanzione del 554, con cui Giustiniano ordina di pagare, come per Tad- dietro, le annoruie quae grammaticis oc oratoribus vel etiam me' dicis vel iuris peritis ante davi solitum erat. Lo stesso Giusti- niano la indica chiaramente come una delle tre scuole ufficiali dell' Impero. Pei secoli posteriori abbiamo la testimonianza di Gregorio Magno, della Glossa, e di Odofredo; e anche alcune opere, specie le Questiones de iuris subtilitatihìis e una Summa Cadicis. Alcuni diplomi giudiziari paiono dimostrare, che la scuola di diritto vi continuasse tuttavia nel secolo XI.

Senonchè giunse un momento, in cui il posto di Boma fu occupato da altre scuole, che già prima erano venute in fama: e a cotesta decadenza accennano la Glossa, Pillio, Odofredo. Tutti s'accordano nel dire che la scuola di Eoma aveva tenuto a lungo il primo posto; ma nel frattempo anche altre ne erano sorte, una specialmente a Bavenna, dove già da lungo esisteva ^ uno studio di grammatica e rettorica; e in breve i vanti di Bavenna dovevano eclissare quelli di Boma, tanto più che le relazioni di Bavenna con l'Impero erano più dirette. Odofredo racconta che lo studio era stato altra volta a Boma, ma che poi era passato insieme coi libri legali nella Pentapoli e a Bavenna, ohe in Italia aveva tenuto il secondo posto. E cerca anche di precisarne il tempo: propter bella quae fueruntin Marchia; ma non è ben chiaro, si sa, quali fossero propriamente queste guerre. A prima giunta parrebbe che alludesse ad una guerra di tempi abbastanza remoti, forse del secolo YIII, perchè subito dopo accenna all'opera di Carlomagno per lo studio di Bavenna, il quale poi, alla sua volta, sarebbe decaduto anch'esso. Ma si può accettare letteralmente cotesto racconto? E non pare piut- tosto rialacciarsi alla leggenda, certamente diffusa, della gran- de influenza esercitata da Carlomagno per la fondazione delle scuole? Invece altri ha pensato alle guerre della seconda metà

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del secolo XI, che funestarono Boma negli anni 1062 a 1063, e a quelle che si combatterono appunto fino alle porte di Boma e nella stessa Roma, contro Gregorio VII, dal 1082 al 1084. E in questo medesimo anno Roma sarebbe stata devastata dai Normanni. Ma forse bisogna risalire anche più su del 1062, e cercarne la causa nelle lotte e guerre che si combatterono in Roma stessa e nelle vicinanze ; e troppo spesso, perchè gli studi, che in generale amano la quiete, non dovessero risentirsene. Già l'età di Ottone III era stata torbida, e lo fu anche più quella che venne appresso. Il feudalismo aveva ripreso vigore da ambi i lati del Tevere, onde lo Stato antico della Chiesa ne andò in pezzi ; e d'altra parte il papa si a combattere i feu- datari ; in Roma stessa i tumulti si succedettero ai tumulti, e le strade della città furono spesso insanguinate: a volte si parla addirittura di carneficine. Comunque, una frase del car- dinale Atto (morto nel 1083) mostra che, ai tempi di Gregorio VII, gli studi in Boma erano veramente decaduti; ma il cardinale ne attribuisce la causa alle condizioni poco salubri della città, onde si durava fatica a trovare professori che volessero stabilir- visi. Insieme si vede, che esistevano altri studi i quali avevano offuscato quello di Boma.

Comunque, la scuola di Ravenna era molto frequentata e fiorente già verso la metà del secolo XI; e ne fa fede una no- tizia, che troviamo in Pier Damiani. Il dotto prelato riferisce una sua disputa che, nell'estate del 1045, avrebbe avuto appunto coi giuristi di quella città intorno all'impedimento della cogna- zione; e ne risulta che il diritto romano vi era seriamente in- segnato, e che gl'insegnanti, al pari di quelli che già professa- vano a Pavia, e di quelli che sorsero dopo a Bologna, erano giudici e avvocati. Lo stesso Pier Damiani racconta, che i Fiorentini avevano consultato i sapiente^ civitatts sulla questione, ed essi avrebbero risposto in oorpù i-sapient'es civitatts in unum convenientes, sciscitantibus Florentinorum veredariis in commitne rescripserint. E non mettiamo dubbio che si trattasse di roma- nisti: le parole stesse, che avrebbero adoperato, li rivela per tali: Quapropter ad vestros codices, quaeso, recurrite. Vester namque lustinianas etc. La scuola tendeva a mitigare l'impe- dimento quale era stato fissato dai canoni; ed è osservabile, che ropinione dei giuristi ravennati, nono>tante la confutazione di

V.

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Pier Damiani, si fece largo sempre più, si da costringere il papa a portarla davanti al concilio lateranense del 1063, e combat- terla poi in una sua costituzione diretta ai vescovi, ecclesiastici 0 giudici d'Italia. Ciò mostra il grande ascendente della scuola. Inoltre i capitoli che Arrigo UT, correndo Fanno 1047, pubblicò a Rimìni^ accennano a nonuuliù l^gisperitis, nei quali era sorto il dubbio, 6e i chierici dovessero prestare giuramento, o delegare qnest' ufficio ad altri* In pari tempo ricordavano una leg^e^ che Teodosio Augusto aveva indirizzato a Tauro prefetto tlel pretorio; e la circostanza del luogo , non lontano da Bavenna» dove Arrigo pubblicò la sua, può far credere ohe la dinputa si agitasia colà. E anche un altro documento attesta in favore di questa scuola, E un nuovo segno di vita^ che essa dà, an* cora nel lOSO, col libello che Pietro Crat?fiO, ravennate, maudò ad Arrigo IV, perchè se ne servisse nel sinodo di Bresbanoue* E una scrittura che mostra molta erudizione in chi Fha ver- gatftj specie nei riguardi del diritto romano, che cita frequen- t**meiitap

3, Solo pili tardi sorse Bologna. Ed ora non farà mera- Tiglia che si parli spe^^o di uomini ver^ìati nelle leggi romane già in que^^ti aecoli. Ricordiamo i nomi di Andarchio, di S, De- siderio Tes€o%*o di Caboraj di S, Bonito vescovo di Clermont, di Saut*A leardo, di Adelmo abate di Malme^bur^^ di &. Bruno ecc.| tutta gente venuta su nelle scuola delle arti liberali, che ad ogni modo, iuìiienio con esse, aveva coltivato anche il diritto. Per ritalia posi^iamo citare: Paolo Diacono^ lo storico dei Lango- bardif che, nppunto nella Fua liùtiona, descrìve mfcut amante la mceolta giustinianea; Romualdo, figliuolo di Arechi Duca di Salerno e Benevento, morto nellannoiST, il cui epitaiiio rileva cuma fosse molto addentro nella grammatica e nelle leggi mon* da De e divine; Attone^ vescovo di Tercelli, che nelle sue lett^ re FI richiama spes^-^o alle Istituzioni, al Codice, alle Novelle; in- fìne il beato Lanfranco, e Pier Damiani, t^ Ans?elmo Peripate- tico- Altre persone ricorrono spetjS'o coi titoli di lari» magiatrif Ì.tgÌM dùctiitt$ 0 Ltgiélaiott»^

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§ 2. LA SCIENZA ROMANISTICA. A, I primi tentativi.*''

I. Besta ohe vediamo la produzione scientifica, la quale deve, per cosi dire, mostrarci queste scuole in azione, rivelan- done l'operosità durante i secoli bui, di cui stiamo trattando;

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ma, a questo proposito, non sarà inutile premettere una osser- vazione.

Per lungo tempo si credette che la scienza giuridica, già decaduta sotto Costantino, siasi sollevata improvvisamente a straordinaria altezza tra la fine del secolo XI e il principio del XII in Bologna per opera dei glossatori. Simile alla princi- pessa della leggenda, sarebbe, per virtù di non so quale art& magica, caduta in un letargo mortale, appunto nel momento del suo massimo rigoglio, per risorgere novecento anni dopo in tutta la sua bellezza e freschezza. Certo, la cosa ha del pro- digioso; nondimeno è stata creduta, e ancora ci si crede. Ma la fede ò scossa : la grande opera del Savigny si va ogni di più continuando e completando.

Cominciamo dal dire, non essere vero che la scienza giuridica dei Romani sia decaduta improvvisamente; e non essere neppur vero che le tenebre sieno state di lunga durata. Un barlume di luce le dirada già nella seconda metà del secolo IV e nel V. Al- lora la letteratura latina migliorò sensibilmente per sollevarsi fino alla elegante e solida filosofia di Boezio ed alla erudizione illuminata di Cassiodoro : come avrebbe la giurisprudenza potuto sfuggire all'impulso delle lettere, della filosofia e della teologia? Che siasi rialzata alquanto, lo dimostrano alcune opere di que- sti tempi, dovute probabilmente alla scuola di Boma. Ricor- diamo i Summaria del Codice Teodosiano, V Interpretatto del Breviario, il Liber Gazi e la Glossa torinese.

I Sommari del Vaticano si riannodano all' insegnamento del diritto nella scuola di Roma verso la metà del secolo V; e seb- bene dal lato scientifico non vogliano dire gran cosa, giovano a far capire il metodo che allora si teneva nell'insegnare. In fondo è quello stesso, ohe fu poi autorizzato da Giustiniano: il professore seguiva il testo della legge, che riassumeva in brevi termini, e poi indicava gli altri testi concordanti e discordanti.

V Interpretazione del Breviario è diversa. Probabilmente i giuristi, ohe lo compilarono, riunirono con quel titolo tre opere: una parafrasi delle sentenze di Paolo e due interpreta- zioni del Codice Teodosiano destinate all'insegnamento, senza contare le aggiunte tolte dall'antica letteratura giuridica. Certo, le diverse parti presentano delle differenze, che non si possono spiegare che con una diversità d'origine. Il Fitting è d'avviso

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che vi sia stata una molto intima relaziono tra i Sommari del Vaticano e la prima Interpretazione del Codice Teodosiano, e la spiega con la scuola di Boma.

Lo stesso carattere presenta il Liber Gaii, che trovammo pure inserito nel Breviario alariciano. Si tratta di un compen- dio piuttosto ammodernato delle Istituzioni gaiane, che omette tutto il quarto libro e restringe i tre primi in due. Deve es- sere stato scritto tra Tanno 384 e il 428, perchè da un lato di- chiara già proibiti i matrimoni dei cugini germani, e dall'altro parla della dotis dictio in modo che non si confii con la legge ohe Teodosio e Valentiniano pubblicarono in quell'anno. E an- ch'esso, a quanto pare, era destinato alla scuola. Notiamo una frase sfuggita ai compilatori in cui il professore ò còlto come in flagrante: Contrahitur obligatio ai libertus patrono aut donum aut munus aut operai se daturum esse juravit, Esponendum hic, quid 8%t donum aut munus vel operae (II, 9, § 4).

Ora, gli è indubitato che tutte queste opere mancano di ori- ginalità e di vera potenza creatrice : infine non miravano che ad agevolare lo studio del diritto ; ma d'altra parte l'espressione vi è chiara e precisa, e nel Liber Gaii si può anche scorgere un progresso.

Più importante è la Glossa torinese: un monumento che appartiene pure alla scuola. Il fatto, che l'autore prese per oggetto de' suoi studi il testo delle Istituzioni, e le definizioni, a cui sembra attribuire una speciale importanza, come anche il contenuto e il corredo delle note, rivelano la mano del profes- sore. Non è però lavoro di un solo. La parte più antica risale certamente ai tempi di Giustiniano ; perchè l'autore ricorda una legge di questo imperatore col nome di constitutio domini nostri; e, mentre palesa molta conoscenza e una non comune abilità di esposizione finché si tratta del diritto anteriore a Giustiniano, e talvolta attinge a fonti antiche e genuine, invece è piuttosto incerto quando si fa a maneggiare il diritto giustinianeo. Egli considera il diritto anteriore come vigente in più casi in cui non lo era più, e talvolta fraintende le parole del testo che interpreta. Evidentemente il diritto giustinianeo era nuovo per lui. Ma la stessa forma della Glossa concorda con le Adnotatio- nes dei giureconsulti del periodo di Giustiniano. Anzi il Pit- ting crede di poterne precisare anche meglio l'età, tra l'anno

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643 e il 546, considerando che da un lato allude alla Novella 118 e dall'altro non conosce la Novella 123. Ad ogni modo ri' specchia molto nettamente il passaggio dalla condizione giuri- dica antegiustinianea a quella di Giustiniano, e ciò le assicura una speciale importanza per la storia del diritto. Come lavoro di scuola, ci una idea molto vantaggiosa dell' insegnamento in quel tempo si per la forma che per la sostanza. Cosi non fa meraviglia che sia rimasta a lungo nell'uso: nientemeno che per cinque o sei secoli, e ogni secolo vi ha fatto le sue ag- giunte, che ne accrescono il valore.

2. Nondimeno, appunto sotto Giustiniano la scienza corse un serio pericolo. A impedire che la sua opera legislativa po- tesse venire offuscata e turbata dalla verbosità dei commenti, l'imperatore ordinò e inculcò che nessuno dovesse porsi a com- mentare il testo. Solo permise di tradurre letteralmente la legge in greco per comodo de' suoi sudditi, e indicarne somma- riamente i titoli, e citare le opinioni dei giureconsulti antichi, purchò si accordassero col nuovo diritto: ogni altra riproduzione o illustrazione del testo doveva essere punita con la pena dei falsari. Il divieto di Giustiniano paralizzava l'attività della scuola, proprio nel momento in cui, pei grandi mutamenti in- trodotti nella legislazione, se ne doveva sentire più forte il bi- sogno; e la scienza giuridica ne fu gi*avemente minacciata. D'altra parte la scuola, pur facendo mostra di acconciarsi alla volontà imperiale, reagi come potò, ancora durante il Regno di Giustiniano, e oontinnò poi sempre. I Summaria capitani del- V Epitome di Giuliano, la Summa Perusina^ la Glossa pistoiese, le glosse che, nel corso del novecento, furono aggiunte a quella di Torino, appartengono alla prima letteratura giuridica medie- vale; ma non vorremmo dire che questo primo movimento scien- tifico dei tempi barbarici, di cui per il momento ci occupiamo, significhi gran cosa ove lo si consideri alla stregua di criteri assoluti. E nondimeno presenta la sua importanza. Appunto quei tempi ne vengono cosi più chiaramente lumeggiati ; ed è precisa- mente per tal via che riesciamo a spiegare i progressi che incon- treremo verso il mille o subito dopo il mille, specie quella grande fioritura di scuole e di scienza dell'epoca del risorgimento, che altrimenti avrebbe qualcosa di enigmatico.

I Summaria capitam A^W Epitome di Giuliano sono scritture

^■'

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I di Bouola. Ciò risalta dal cap. 314: De legitimos et naturales

i( filios et qui administrant et de novem untias pbaesens leotio

ij^ docet: è lo scolaro che scrive mentre il maestro spiega il testo

dei capitoli, e non sempre ne afferra il senso! Sono sommari 1^ molto simili a quelli già ricordati del codice Teodosiano, e, a gia-

' dicame dalla lingua, sembra che appartengano all'epoca barbarica,

^ portando tracoie di quel sermone latino-italico che era in uso

£. sotto i Langobardi e i Franchi. Basterà ricordare lo scambio,

r che si fa frequentemente, del singolare col plurale, del ma-

f; scolino col femminino, del congiuntivo con T indicativo o vi-

ceversa, e del falso uso delle preposizioni. Nondimeno non sono privi di valore, e devono anche aver goduto di una certa auto- rità perchè vennero glossati.

La Summa Perugina è un compendio dei primi otto libri del codice giustinianeo, che segue esattamente anche nei titoli. Il compilatore non ha avuto altro scopo che di far capire nei più brevi termini la disposizione della legge, e spesso rimanda per maggiori informazioni alla legge stessa. A detta dell' Heim- baoh, l'opera non rivela molta scienza, e nondimeno si può av- vertire qua e una certa agilità di pensiero e perizia d* inter- pretazione. Della sua patria non si sa nulla di preciso; ma certo fu compilata in un luogo dove il diritto giustinianeo era in vigore, e lo stesso compilatore accenna alla sua applicazione. Per ciò, e anche per riguardo alla lingua, che è quella di tanti altri monumenti italiani dell'età di mezzo, è ovvio il supporre che fosse scritta in Italia. Anzi sospettiamo che lo fosse in una provincia soggetta alla dominazione greca, perchè essa contiene parecchie traccio di diritto pubblico romano, e anche vi ricorrono più particolarità, proprie della lingua greca, ma estranee alla latina e anche alla italiana. L' Heimbach notò la costruzione del neutro plurale col verbo singolare ; e d'altra parte le costi- tuzioni greche sono state omesse tutte, fino ad una, nonostante che i vecchi manoscritti del Codice certamente le contenessero e benché l'autore stesso qua e vi si richiami; il che non per- mette di pensare ad una semplice traduzione dal greco. Pro- babilmente fu redatta tra il secolo VII e il X. Non prima del settimo, per la grande corruzione della lingua ; ma neanche dopo il decimo, perchè il manoscritto, che la contiene, risale appunto

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a questo secolo, e non è neppure originale. Si aggiunge che è usata già in alcuni placiti romani degli anni 996 e 999.

La Oloifsa pintaiese è una glossa, o meglio una serie di glosse del codice giustinianeo conservate in un manoscritto pistoiese del secolo X: sicché, a giudicare dall'età di esso, sarebbero state scrìtte per lo meno in quel secolo, ad eccezione di alcune che vi si aggiunsero nel secolo seguente. Del loro valore è prova che la stessa scuola di Bologna ne ha tenuto conto : molte di esse ricompaiono nella Glossa accursiana.

3. Cosi si arriva al secolo XI; ma allora le cose cam- biano. Già sulla fine del novecento gli studi eransi rialzati dap- pertutto: in Germania, in Francia, in Italia, specialmente a Berna, la cui tenebra spaventosa, a detta del Gregorovius, si squarcia appunto negli ultimi trent*anni del secolo X. In questi tempi Severino Boezio torna in onore dopo cinquecento anni dacché se n'era perduta la memoria, e con lui la intelli- genza della filosofia greca. L'ultima volta era stato al tempo dei Carolingi : egli allora si era trovato per le mani di tutti, e adesso lo si studia di nuovo, e un imperatore e un papa vanno a gara nelPonorarlo: Ottone III, erigendogli un monumento di marmo a Pavia, papa Gerberto dedicandogli una poesia laudatoria. Con lo stesso fervore si applicava la mente alle opere di Terenzio e di Vergilio. E a questi medesimi tempi appartengono due papi, che sono insieme due grandi eruditi : Gregorio V e Silvestro II, che mondarono finalmente il Laterano dalla barbarie accumula- tavi da tempo. Ma anche nei conventi romani tornarono, seb- bene lente, le scienze. Tra le stesse donne di Roma, ve ne avevano di eulte, come quella Imiza, a cui Gerberto non isdegnò d'in- dirizzare le sue lettere. E in Roma e nelle sue vicinanze eb- bero orìgine: la oronaca dei tempi ottoniani di fra Benedetto del Soratte, del resto brutta di pensiero e di lingua; la conti- nuazione, piuttosto magra, del libro pontificale; la biografia di Sant'Adalberto, dettata in lingua non oattiva e ricca di notizie; infine la graphia aureae^rhis Romae, se non altro nella parte che rìguarda le cerimonie di corte, la nomina del patrizio e del giudice e il modo onde si poteva conseguire la cittadinanza ro* mana. Il Gregorovius osserva che anche il titolo del libro oorrìsponde alla leggenda Aurea Roma, che i sigilli imperiali portano già al tempo oKOttone III. Come poteva la scienza

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del diritto sfuggire all' impulso della teologia, della filosofia, delle lettere ? Si aggiunga che lo stesso imperatore, il quale aveva onorato in Boezio il movimento filosofico, favori del pari quello giuridico. Appunto per ciò che riguarda più special- mente gli studi giuridici, la lex romana aveva per opera di Ot- tone III conseguito novello splendore, dacché il Codice giusti- nianeo era con cerimonia solenne affidato al giudice, perche con esso giudicasse Eoma e il mondo. In verità gli studi del diritto si sono improvvisamente rialzati, e gioverà esaminare un po' attentamente le manifestazioni di questa scienza nuova a Roma e a Ravenna, più che non abbiamo fatto con le pro- duzioni giuridiche dell'alto medio evo. Si tratta di una scienza che è già in pieno rigoglio; tanto è vero che alcune produ- zioni hanno potuto mantenersi ancora per lungo tempo accan- to agli scritti della scuola bolognese. Anzi, come istrada- mento alla scienza, sono di gran lunga superiori ad essi. Voglia- mo alludere alle Questiones de iuris subtilitatìbus ed alla Summa codicis, al Brachi/logos ed alle Exceptiones legum Romanorum di Pietro; ma anche altre sarebbero degne di considerazione.

B. Le Questiones de iuris subtilitatibus e la Summa Codicis, •*

1. Nonostante la diversità intrinseca, che divide queste due opere, esiste una relazione cosi intima tra loro, che ci parve consigliabile di unirle sotto lo stesso titolo.

Le Questiones cominciano con una introduzione allegorica.

** Bibliografia. Tanto le Questiones guanto la Summa furono edite dal FiTTiNQ, le prime col titolo: Questiones de iuru subtilitatibus des Imerius, Berlin, 1894, la seoonda col titolo : Summa Codicis des Imerius, Berlin, 1894. Il Fittino / le fece anche precedere da due dottissime introduzioni. Per le dispute che ne

/ derivarono si veda lo stesso Pitting, Die Summa Codicis u. die Questiones des

f Imerius. Zur Abwehr (nella •* Zeitschr. * der Savi^y-Stiftung f. R. G. XVII,

1896). Inoltre, Schupfer, Le Questiones de iuris subtilitatibus e la Summa Codicis, nota critica (** Biv. ital. per le scienze giuridiche XVIII, 1894). Lo stesso. La scuola di Moma e la questione imeriana (in ** Memorie della r. Accad. dei Lin- cei „ serie V, Classe di scienze morali, voi. V, 1897). Bksta, L* opera d'Imerio. Contributo alla storia del diritto italiano, 2 voli., Torino, 1896. Pescatore, BeitrH^e zur mittelalterlicìifin BechisgeschichU, Greifewald, 1896. Chiappelu, Os- servamioni sulle Questiones e sulla Summa Codicis tUtribuiie a Imerio ("Arch. ffiur.„ LVHL 1897). Patktta, Delle opere recentemente attribuite ad Imerio e deUa scuola di Roma (•* Bullettino dell'Istituto di dir. rom. VII, 1-8). Lo stesso, // manoscritto 1317 della biblioteca di Troyes, Nota (" Atti della r. Ac- cad. delle scienze di Torino ^ XXXII, 1897).

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L'autore, andando a zonzo, arriva, senza saperlo, al tempio della giustizia situato sulla vetta di un monte; e lo descrive. Vi entra non senza esitanza, e gli pare di assistere come ad un convito celeste. La parete di vetro porta scritto a lettere d'oro tutto il testo dei libri della legge, e nell'interno troneggia la giustizia stessa con la ragione nel vertice e l'equità nel grembo, circondata dalle sue figliuole : la religio, la pietoi, la gratia, la vindicatio, Vóbservantia, la veritcu. Fuori del tempio siede in cattedra un uomo dall'aspetto venerando, e a' saoi piedi una schiera di giovani. £ il preceptor aique iuris interpres, e gli altri erano convenuti colà audiendi diicendique studio- L'autore assiste, cosi, alle loro dispute, e le riproduce, conservando la forma del dialogo tra uno degli auditores, che prende la parola per tutti, e V interpres. L'uditore presenta i suoi dubbi e l'in- terprete li scioglie. Si tratta di ventotto questioni di diritto privato e di procedura, ma specialmente di diritto privato; mentre l'autore non si occupa della procedura che in quanto aveva attinenza con esso. Alle Questioni poi, tien dietro una seoonda parte, alquanto diversa, ohe si propone di riassumere sistematicamente alcune delle materie più importanti e dif- ficili, cominciando dalla teoria delle obbligazioni ed azioni, e (tassando alle prove. Ma veramente quest'ultima trattazione è incompleta, e forse l'autore stesso ha troncato a mezzo il lavoro, per riprenderlo poi sotto altra forma.

La Summa Codicis non è veramente una somma del Codice nel senso proprio della parola, ma un' opera che abbraccia som- mariamente tutto il diritto romano, secondo l'ordine del Co- dice : salvo che a volte condènsa più titoli in uno, o ne omette, e anche, se lo crede più razionale, ne abbandona il sistema per Hi^guire quello del Digesto e delle Istituzioni.

È un nuovo lavoro, che, al pari delle Questiones, si occupa principalmente di diritto privato ; assai poco invece di delitti e di pene, e la stessa procedura è trattata con qualche ampiezza solo in quanto aveva relazione con quel diritto. Ma lo scopo è di- verso: l'autore si propone d'istradare i giovani nello studio delle leggi, onde si tiene sulle generali, risalendo ai principi, evitando le controversie ; e lo raggiunge pienamente. Se vogliamo, è un lavoro di mosaico, ma ridotto a tale unità da non lasciar scor- gere la benché menoma commessura; e se qua e ci sono inesat- ta

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tezze ed errori, ciò non toglie che l'autore domini completamente la materia e ne sappia cogliere le relazioni anche lontane.

Disgraziatamente però l'opera, quale è giunta fino a noi, non è l'opera originaria. Neppure il ms. di Troyes, che è il più antico, ne riproduce la prima forma ; e gli altri contengono anche maggiori modificazioni e alterazioni, che non si possono mettere tutte a carico degli amanuensi. A quanto pare, fu adoperata dai giuristi di Bologna come testo di scuola, ed era naturale che il professore aggiungesse o mutasse liberamente. Cosi, tutto il iractatu^ de interesse (YII, 31) fu aggiunto dopo : tanto è vero, che alcuni manoscritti lo contengono e altri no ; e poi vi abbondano le citazioni, che scarseggiano nelle altre parti, e anche il modo di citare è diverso. È appunto il modo della scuola bolognese ; e forse ha ragione un ms. di Leiden dell' Inforziate, che lo attribuisce a Martino. Il ms. di Parigi contiene anche le formule degli interdetti, che mancano negli altri. Il ms. bo- lognese, parlando delle alienazioni delle cose altrui fatte dal principe, addirittura di frego all'opinione dell'autore, per Bostituime un'altra meglio conforme alle mutate condizioni dei tempi. Altrove non si tratta di un mutamento del senso; ma di un semplice rimaneggiamento della forma. altrimenti si può spiegare come la cosi detta littera bononiensis del Digesto figuri in qualche manoscritto e in altri no. Quello di Parigi non la riproduce costantemente.

Cosi le due opere si distinguono l' una dall'altra ; ma anche il metodo e lo stile sono diversi, secondo la loro diversa natura ; e cosi il latino : più corretto nelle Questioni, dove si avvicina al latino classico, mentre nella Somma presenta delle inegua- glianze e vi è manifesta l' imitazione giustinianea. Ma, a parte tatto questo, è indubitato, che tra le Questioni e le Somma corre tale affinità, da rendere molto probabile che appartengano allo stesso giureconsulto.

Vi si scorge lo stesso indirizzo ; lo stesso modo di citare i testi ; e tanto l'una quanto l'altra tengono nettamente distinte le fonti del diritto : i giureconsulti coi loro responsi, i pretori coi loro editti, i principi con le loro costituzioni ; e anche distinguono i Digesti, che contengono il ius vettiSy dal Codice e dalle Novelle, che contengono il ius navum. Perfino qualche accenno alle vere Istituzioni di Qaio si riscontra in entrambe. E co», una spe-

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oiale predilezione per oerte materie. La teoria delle azioni è svolta con molta cura, tanto nell'una quanto nell'altra, e quasi monograficamente. Di più vi ha tale accordo tra le due opere, che il Fitting non esitò ad affermare che la Summa, che è la più recente, segue sempre le QuesHoneSj e ne riproduce molto di so- vente i concetti, quasi con le stesse parole. L'autore della Summa, che certo non era un ingegno volgare, non si sarebbe cosi stret- tamente attenuto alle Questiones, se queste non fossero state sue. tutti i passi della Somma s' intenderebbero pienamente, senza la scorta delle Questioni. Infine l' autore stesso delle Questioni annuncia in un luogo, che coltivava l' idea di compilare un ma- nuale di diritto romano secondo il sistema del Codice ; e, memore del divieto giustinianeo, se ne premunisce, osservando che infine Giustiniano aveva permesso la Titularum $ubtilitas. altri- menti si mostra convinto, nella Somma, di poter fare una espo- sizione sistematica, che seguisse i titoli dei libri giustinianei, senza urtare contro la proibizione della legge, visto che Giusti- niano stesso aveva permesso i Paraiitla.

2. Le due opere hanno un grande valore, e non solo pei tempi in cui furono scritte : esse sono delle migliori che vanti il medio evo. L'autore, oltre che il diritto, conosce a fondo le materie del trivio : la grammatica, la rettorica, specialmente la dialettica; e non farà quindi meraviglia che abbia mantenuto a lungo il suo posto nella scienza, persino durante i bei tempi della scuola di Bologna. Basterà dire che parecchie opinioni, ohe s' incontrano nelle Questioni e nella Somma, ricompaiono nella Glossa accursiana come opinioni d'Lrnerio; e anche si tro- vano messe a partito da Martino, Bogerio, Azone ed altri. La Summa Codicis di Bogerio non è per lo più che un rimaneg- giamento della nostra, e dalla fine del quarto libro in avanti, la riproduce alla lettera. Che poi le QuesHones si conoscessero e copiassero ancora nei tardi tempi del secolo XII, lo prova il manoscritto di Leiden ; ma abbiamo anche manoscritti della Somma della seconda metà del secolo XII, e perfino del prin- cipio del Xm.

3. Sono libri che appartengono alle antiche scuole, e pro- priamente a quella di Berna. Certamente le Quuiiontè furono scritte a Boma, e questa loro origine risulta dall'opera stessa. L'autore accenna in un luogo alla nogtre civitatii auctoritas, ohe

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si estende a tutti coloro, che sottostanno all'Impero; e dice pure: Aie, cioè appunto a Roma, dove scrive, rerum summam, mundi principaium, singulare in omnes gentes imperium .... cansittisse* La stessa parola igta urbs, che adopera nel medesimo passo, indica la città in cui si trova. Ma anche il modo, con cui considera i rapporti con l'Impero, depone in favore dell'origine tutta ro- mana dell'opera: egli non li concepisce che nel senso dei Ro- mani e delle loro idee : ^ Da Roma era venuta la civiltà, e a Roma e al popolo romano doveva spettare il dominio del mondo ; alcun altro diritto, che il romano, era degno di questo no- me „. Le stesse relazioni con le Istituzioni di Gaio accennano ad una tradizione, che aveva la sua sede principale in Roma.

Che poi le Questioni si debbano alla scuola, risulta dal fatto che l'Interprete, di cui l'autore finge di riprodurre le idee, è ap- punto un insegnante di diritto, e lo si vede circondato da' suoi uditori, che ne ascoltano la parola con deferenza. La Somma stessa deve stare in relazione con la scuola ; e, visto il modo più negletto con cui è scritta, si potrebbe accettare la -oon- ghiettura del Fitting, che l'autore la dettasse ai suoi uditori. Ma, checché ne sia di ciò, è indubitato che anch' essa è un libro di scuola. L'autore, parlando dell'acquisto del possesso, dice che ne tratterà più diffusamente, sia per le molte differenze di fatto e di diritto, che occorreva di notare, e sia perchè n'era stato pregato, anzi fcrzato, da' suoi scolari (wctt), e più volte l'aveva loro promesso.

4. Una ricerca più difficile è quella che riguarda il tempo. Di certo sappiamo soltanto, che nessuno dei due lavori può essere posteriore al secolo XII, dacché il ms. di Troyes, che li contiene entrambi, insieme ad una Summa legia longobardo- rumj già nel secolo XII apparteneva al monastero di Clairvaux. Il Fitting lo attribuisce addirittura alla prima metà di esso. Ma devono essere anteriori. Notiamo, cioè, che i glossatori del du- gento se ne mostrano ignari : li avevano oramai dimenticati ; anzi la Summa già nella prima metà del secolo XII era stata in- terpolata e addirittura rimaneggiata, si conosceva che in questa nuova forma. Del resto, appunto per la data di queste opere, è importante la notizia di Odofredo, riferita più su, e anche quella del cardinale Atto, circa il tempo in cui lo studio di Roma sarebbe decaduto. Perchè se ambedue sono uscite da quella

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«cuoia, e, lungi dal rappresentare un periodo di decadenza, ne rappresentano anzi il maggiore rigoglio, è onninamente escluso, che possano appartenere al secolo XI inoltrato, in cui lo studio di Boma contava ben poco. Ciò risulta appunto dalle testimo- nianze citate ; e dall'altro canto non abbiamo alcun indizio per ritenere che i giuristi romani godessero in quel tempo molta considerazione. Nessuno di essi si trova mai ricordato nei tri- bunali forastieri, al seguito dell' imperatore ; onde se ne può dedurre anche con maggiore certezza, che un vero centro scien- tifico a Berna più non esistesse. Invece era la scuola di 'Rar venna che fioriva nel secolo XI; e già sul principio di esso vedremo uscirne un'opera che gareggierà con le migliori. Vo- gliamo alludere al Brachilogo.

Ma questo medesimo libro potrebbe aiutarci a sciogliere la non facile questione, se fosse vero ciò che pensa il Fitting, che abbia il suo fondamento nella Summa. Perchè, data questa ipotesi, e dato, come crediamo, che il Brachilogo sia stato scritto negli inizi del secolo XI, anche la redazione della Summa, e a maggior diritto quella delle Quesiianei, che l'hanno preceduta, de- vono cadere per lo meno in quel tempo, se pure non apparten- gono addirittura alla fine del novecento. Sarebbero state l' ul- timo guizzo di luce di una scuola, che poi sarebbe venuta via via decadendo.

Il modo stesso con cui l'autore delle Questioni parla di Boma e dell' Impero, conferma la nostra ipotesi. Le sue sono idee che serpeggiavano nella città eterna fin dal secolo X ; e infatti, se crediamo al Ubellus de imperatoria potestate, composto verso il 950, i maggiorenti romani avrebbero appunto eccitato Lodovico II a ristabilire, anche praticamente, la dominazione universale de- gli antichi Cesari. L'autore delle Queetiones non è meno preoc- cupato della trascuranza di quelli, ch'egli chiama i transalpini rtgee^ e li sprona, e insieme cerca di renderne accettabile l' au- torità, pur raetringendola nei dovuti confini. Non crediate, egli dice, che la potestà imperiale possa essere tirannica o ingiusta ; e si compiace di richiamare .alla memoria: que Eomanorum in victoe clementia, in socios fides, in eubieetos extiterit equabilitai et iuiiitia. Il nuovo Impero non poteva essere diverso, tanto più che Boma rappresentava anche la prima sede della Chiesa, e non era da credere che la legge divina avesse potuto associarsi una potè*

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8tà tiranuioa e ingiusta. Ma ohe più? Non dice essa : date a Ce- sare oiò oh'è di Cesare, oon quel che segae ? L' imperatore non può usurpare ciò che non è suo. altrimenti la Summa si pronuncia contro l'opinione erronea e contraria a tutti i diritti positivi e naturali, che l' imperatore possa togliere a chicchessia una cosa per darla ad altri. Evidentemente l'autore non sospettava nep- pure, che potesse arrivare un tempo in cui i nuovi Cesari, lungi dall'avere bisogno di eccitamenti, si sarebbero gettati anche trop- po per la china delle rivendicazioni, contrastando da un lato alla Chiesa, dall'altro alle esigenze della nuova vita municipale. Noi dubitiamo forte che l'autore non abbia neppure assistito al fantastico tentativo di Ottone III.

Un' altra volta, egli si occupa del diritto e del suo avvenire di fronte alla colluvie di leggi barbariche, che infestavano ancora l' Italia. La sua idea era : che il solo diritto, degno di questo no- me, fosse quello venuto da Koma, e dovesse valere nell'Impero. Quanto agli altri popoli, penetrati nel territorio romano, egli pone questo dilemma: o potevano ancora venirne cacciati, e non c'era ragione di preoccuparsi dei loro statata, come di gente nemica ; o si erano già fusi con gli indigeni, dopo cessato il loro regno, e non avevano più diritto di -mantenere il proprio nome e le pro- prie leggi. Uno stato di cose, quale lo tolleravano i transalpini reges, che già da qualche tempo {dudum) tenevano il dominio di Boma : che, cioè, persino nell' Impero e in Italia ognuno potes- se vivere con la legge della sua nazione, ut totidem fere leges habeantur qìiot domus, non era assolutamente compatibile con l'unità dell' Impero ; e per giunta quelle cosi dette leggi non me- ritavano questo nome. Perchè il vero legislator iurisve conditor deve essere dotato non solo di forza, ma anche di prudentia, cioè di coltura giuridica ; la quale faceva difetto alle leggi popolari, e anche a quei transalpini reges. D'altronde l'unità dell'Impero esigeva l'unità del diritto : perchè non proclamare addirittura il diritto romano come il solo diritto degno dell'umano consorzio, e giudicare con esso? Un imperatore romano non avrebbe po- tuto tollerarne altri ! Cosi l' autore ; ma con questa pagina egli ci trasporta nuovamente in pieno secolo decimo. Il principio della personalità della legge imperava ancora nel novecento, e l'autore poteva affermare che quasi c'erano tante leggi quante erano le famiglie; ma già nel secolo XI le cose stavano diver-

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samente: la territorialità del diritto si era andata affermando sempre più ; e quella asserzione, forse esagerata anche pei tempi in cui furono dettate le Questioni, sarebbe stata addirittura un anacronismo. Delle vecchie leggi barbariche quasi non esisteva più che quella dei Langobardi: le altre si erano ritirate o si andavano a mano a mano ritirando. l'autore avrebbe po- tuto eccitare quei tran$alpini reges a non tollerare altro diritto ohe il romano, se avesse conosciuto V intimazione, che Ottone III aveva fatto appunto in questo senso ai giudici, di giudicare con esso Boma e il mondo ; o almeno la costituzione, con cui, nello stesso ordine d'idee Corrado il Salico, un po' più tardi, ordi- nava, che qualunque fosse l'affare, che si agitasse, sia tra le mura di Roma sia fuori, nelle pertinenze romane, anche se l'at- tore o il reo fossero Langobardi, si dovessero applicare le leggi romane. Nel secolo XI la politica imperiale non avrebbe avuto bisogno di essere spinta per questa via.

Lo stesso auèore si propone la domanda: se i nuovi Cesari avrebbero potuto coi loro statuti abrogare i jura romana, per- ohi imperavano a Boma; e rimanda senza più alla Ragione. Dica essa se potevano farlo : dieat ip$a Raiio, qua et ipse nituti' tur audoritates^ dicat, quid hac in re sibi conveniat E possiamo indovinare come la Ragione risponda: ^Certamente, anche il diritto può subire delle modificazioni in meglio con aggiunte e correzioni ; ma come correggere o supplire ciò che non si capi- sce? Quei re transalpini non lo ^conoscevano : avevano la po- testà, ma non anche la scienza del diritto e delle leggi. Ni potevano possederla, perchi non solo gli studi, ma gli stessi libri della scienza legittima erano quasi periti, per non dire che per loro costume, non avrebbero voluto dar opera alle leggi, se an- che ne avessero avuto in pronto „. D passo, che abbiamo riferito in compendio, sta nelle Questiones e toma a conferma di ciò che abbiamo detto. Evidentemente l'autore allude a tempi in cui gli imperatori erano ancora restii nel dettar leggi ; ma nel se- colo XI si contava già tutta una legislazione imperiale impor- tantissima; e non era più vero ciò che il giurista afferma cosi resisamente : quod illi $uo more legibus operam dare nollent, etiam Mi in promptu habereni. Senza dubbio egli ha scritto in ben altri tempi.

Per ciò che rigaarJa la Summa, si nota questo di speciale, che

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l'autore non conosce una legge del 1047 sul giuramento dei chierici, che certamente avrebbe dovuto conoscere se avesse scrit- to più tardi.

5. Del resto non si sa chi possa effettivamente essere.

Il Fitting ha sostenuto molto energicamente che sia Irnerio; e per quanto la ipotesi, dopo ciò che abbiamo detto, possa pa- rere strana, non ci meraviglia punto. Bimane cosi poco dell' il- lustre giureconsulto bolognese, e quello ohe ne rimane, giustifica cosi scarsamente l'altissima fama, in cui è salito, ohe si capisce facilmente il vivo desiderio di potere, quando che sia, scoprire l'una o l'altra delle sue opere, e la facilità con cui si è disposti ad attribuirgliene qualcuna. Ieri è stato un Formulario, oggi sono le Questioni e la Somma, perfino una Somma di diritto lango- bardo ; domani sarà un corso di Istituzioni, e già se ne buccina 'qualche cosa; ma sono tentativi abortiti, e neppure la molta erudizione e la fine sagacia del Fitting riescirà a salvarli. Noi non crediamo affatto che le Questiones e la Stemma Codicis sie- no d^ Irnerio, e per più ragioni.

Prima di tutto, se è vero ciò che abbiamo detto circa l'origine di questi libri, vi osterebbe il tempo: Irnerio, anche a detta del Fitting, non può essere nato prima del 1055, ed essi sono anteriori. Ma anche altri argomenti ci persuadono a non attribuirglieli.

Soprattutto questo : che tanto le Questiones de iuris subtilita- tibìAs quanto la Summa rivelano un indirizzo diverso da quello dei glossatori; e perfino il modo di citare ne differisce sostan- zialmente. Lo vedremo meglio quando ci faremo a considerare il carattere delle vecchie scuole (p. 234 segg.) ; ma intanto no- tiamo il fatto, che lo stesso Fitting ammette, e che ci pare di capitale importanza. Inoltre, stando all' opinione del dotto te- desco, Irnerio avrebbe scritto le Questioni nella età di venti- cinque anni o giù di li, dopo soli quattro di preparazione, dan- do già prova di conoscere a fondo il diritto romano ; e avrebbe insegnato in una scuola di diritto, a Koma, la più celebre che allora ci fosse! A venticinque anni? E meno male, se con- stasse veramente, ch'egli prima d'insegnare a Bologna avesse insegnato a Boma; ma questo non risulta. Odofredo e gli altri, che ne parlano, non avrebbero mancato di avvertirlo, essendo cosa troppo onorifica, perchè si potesse saltare a pie pari. Soltanto il Tritemio e il Diplovataccio dioono che abbia insegnato anche

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a Boma, come altri hanno asserito a Bavenna e a Costantinopoli ; ma lo stesso Fitting non può a meno di avvertire che si tratta di notizie poco attendibili di tempi avanzati.

Osserviamo eziandio, che all'autore della Summa sono sfug- gite molte Novelle, ohe non lo sarebbero state del pari all'autore delle Autentiche. E dall'altro canto vi si accolgono opinioni cosi completamente erronee, che si dura per lo meno fatica a credere che Irnerio vi avrebbe messo la propria sigla. Per es. queste : che occorra la cittadinanza per contrarre una stipulazione ; ohe una donna non possa costituire un procuratore ; che ad uno schiavo liberato per testamento possa venire imposto un fedecommesso ecc. Altre poi sono addirittura contrarie alle ime- riane. Una volta si tratta dell'onere della prova, e più special- mente della regola che negantU factum probatio nulla est L'opi- nione d' Irnerio può vedersi nella glossa Nulla est ad L. 10, C. de non num. pec. 4, 30 e nella glossa Cum per ter. naturata ad L. 23, C. de probat. 4, 19 ; ed ò assoluta. Irnerio nega che si possa provare una negativa e ne adduce la ragione : perchè ciò che si nega, non esiste ; e cosi non si può provare, non avendo in se |

specie differenze. Invece tanto le Questioni XX, 1-2 quanto la Somma IV, 32, 3 ne ammettono, se non altro, la prova indiretta; ed è curioso di vedere, come questa opinione abbia fatto breccia. Lo stesso Accursio combatte Irnerio : Sed certe licet sit rerum quod illud, quod non est, non probetur per species vel dif- '

ferentias tamen probatur per alia, ut per medium, ut patet etc. Più sopra abbiamo anche accennato al modo affatto diverso con cui la Somma e Irnerio hanno intesa la efficacia della consue- I

tudine. E potremmo ricordare molti altri esempi; come pò- |

tremmo anche citare qualche opinione che la Somma per certa j

e assodata, ma che Irnerio espone solo in modo dubitativo. La |

Somma VIII, 10, 6 è recisa : Precaria quidem possessio iusta est, quoad nititur voluntate domini ^ sin autem contra domini voluntc^ tem rem retineat, statim vitiosa est et iniusta. Ma Irnerio è meno sicuro. Una sua glossa ad L. 7, § 4, D. comm. div. 10, 3 (Cod. Vatic. 1405) dice appunto : Dubitari poteste qUare precaria pos- sessio connumeretur inter vitif^sasj cum hic dicatur eam iustam essej sed michi videtur eam ab initio iustam quidem esse, cum modo denegatur domino reposcenti qui precario concesserat, pottst tane dici recte vitiosam esse.

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Aggiungiamo che non si potrebbero attribuire, non diciamo la Summaj ma neppure le Questiones a Imerio senza contraddire a tutte le tradizioni della scuola. Odofredo, che le raccolse, sostiene che Imerio avrebbe studiato il diritto da so, senza bi- sogno di maestri, dopo di che si sarebbe messo a insegnare a Bologna; e invece, attribuendo le Questioni e la Somma a Ir- nerio, tutto ciò dovrebbe relegarsi nel regno delle favole. Egli si sarebbe recato a Boma appunto per studiarvi il diritto ; poi vi avrebbe tenuto cattedra, e solo più tardi sarebbe passato a Bologna. Inoltre la tradizione vuole, che i libri giustinianei non siano arrivati in possesso dei Bolognesi che un po' alla volta : Imerio dapprima non avrebbe avuto completo il Di- gesto né il Codice, e avrebbe dubitato perfino della esistenza delVAuthenUcum ; ma neppur questo sarebbe più vero. L'au- tore delle Questiones aveva certamente a sua disposizione tutto il Digesto, anche quella parte che i Bolognesi non rintraccia- rono che tardi, e la cui scoperta avrebbe fatto dire a Imerio che il diritto n'era rimasto, così, aumentato e rinforzato; come, del resto, possedeva completamente il Codice e anche le Novelle, proprio nella forma delV Authenticum.

Ne la ipotesisi potrebbe conciliar bene con quel poco, che pur si conosce, delle opinioni politiche e del carattere di Imerio. Le QuestioneSj e anche la Summaj rivelano un uomo che per lo meno non era partigiano dell'imperatore; e invece Imerio era addirittura al suo servizio. Lo troviamo assistere più volte ai giudizi imperiali, o altrimenti figurare come giudice nei diplomi dell'imperatore, ben nove volte dal 1116 al 1118. Infine Ar- rigo V lo prese con a Koma nella primavera del 1118 per provare al popolo romano, che la elezione di papa Gelasio, se- guita senza l'approvazione imperiale, era nulla, e determinarlo ad eleggere un antipapa. Ciò che realmente si sa è questo : il resto é ignoto ; ma per attribuirgli la paternità delle Questioni e della Somma, bisognerebbe dire, che col tempo avesse mutato opinione. E il Fitting non esita ad asserirlo : sarebbe stato col papa finché visse la contessa Matilde, che, secondo la tradizione, lo aveva indotto a lasciare le artesj per dedicarsi allo studio delle leggi; ma, dopo morta Matilde, si sarebbe dato aninm e corpo all'imperatore. Il carattere d' Imerio si presenterebbe così in una luce piuttosto sinistra, a segno che il Fitting non

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si perita di a£Fermare, ohe ^ il grande erudito, spinto, senza dub* bio, da una ardente ambizione, tenderà in tutti i modi al suc- cesso esterno, e seguiva sempre quella corrente che secondo le circostanze era più favorevole a questo scopo : ora seguace del papa contro l'imperatore, ora seguace dell'imperatore contro il papa„. II Fitting ammira lo scienziato, ma disprezza l'uomo: e se le cose stessero veramente com'egli le dipinge, non avrebbe torto. Nel fatto ciò non è; e il Fitting, pur di attribuire al giurista bolognese due libri, che non sono suoi, non ha esitata di screditare l'uomo. Ma è lecito tutto ciò? E non sarebbe più giusto il dire: dacché quei libri contraddicono cosi enor- memente a tutto quanto sappiamo delle opinioni e del carattere d'Imerio, essi non possono esser suoi?

Un'altra considerazione. L'autore delle QuesiioneSj lo abbia- mo già veduto, è inesorabile contro le leggi barbariche. A qualunque popolo appartenessero, avrebbero dovuto cedere al diritto romano, e gli stessi Langobardi avrebbero dovuto sacri- ficargli la loro legge: invece, secondo il Fitting, appunto Ime- rio, mentre insegnava a Bologna, avrebbe scritto una Summa del diritto langobardo! Ora, non diremo che questa Somma laugobarda sia veramente d'Irnerio: il Fitting ha cercato di dimostrarlo, senza raggiungere neppure un lontano grado di probabilità ; ma nondimeno, ammettendo per un istante che ciò sia, ci pare ohe l'argomento torni tutto a favore della nostra tesi. Se Imerio fosse stato animato veramente da tanto odio, quale appare dalle Questioni, si da eccitare un imperatore ad aboli- re tutte quelle leggi, come si sarebbe fatto poi egli stesso ad illu* strame una, proprio la legge langobarda, la più temibile di tutte, perchè più diffusa ? A questo proposito non si potrebbe allegare neppure quella febbre di successo, che, secondo il Fitting, lo aveva indotto a foggiare le sue opinioni politiche secondo l'an- dazzo del momento. Qui la politica non sarebbe stata affatto in questione, e non resterebbe che tacciare Imerio d'incoerenza senza neppure la scusante di una ragione o di un interesse su- periore. Non c'è che dire: la personalità d' Imerio riesce smi* nuita, anzi addirittura demolita, sotto i colpi del Fitting. Noi però pensiamo nuovamente che la logica avrebbe dovuto con- darlo a ben altre conclusioni. Chi si è squilibrato contro i di- ritti barbarici nel modo che ha fatto l'autore delle QuentioneSy

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non può assolutamente avere scritto una Summa sopra ano di quei diritti; l'autore dev'essere un altro.

' E poi, se le opere in discorso fossero state d'Irnerio, come

si spiegherebbe ohe se ne fosse perduta la memoria nello stesso studio di Bologna, ohe da lui ripeteva tanto lustro, che mirò sempre a lui come ad insigne maestro, e conservò altre cose sue, anche di minor valore? Odofredo, accennando alle Somme, uscite dalla scuola, ricorda ripetutamente quella di Kogerio come la

I prima e più antica, poi quella del Piacentino, poi l'altra di

Giovanni Bassiano e finalmente quella di Azone. Evidentemente egli non conobbe la nostra o la confuse con quella di Bogerio ; ma ò fuori di dubbio che la nostra è più antica e che Bogerio

' se ne giovò nel compilare la sua. E come Odofredo, così altri.

Neppure Azone deve averla conosciuta, perchè attribuisce a Bo- gerio opinioni che si trovano anche nella Summa, e non avrebbe parlato solo di Bogerio, se ne avesse avuto notizia. Appunto la teoria, che la calumnia di una delle parti infirmi la transa- zione, si trova tanto nella Somma quanto in Bogerio, ed egli

Ji» l'attribuisce a quest'ultimo: Hinc est quod aii Rogerius: *u6t

* quis per calumniam insista vel resistit nil prodest ei si transigit ,.

£ che dite di Accursio? Se qualcosa delle Questioni o della

I Somma ne penetrò nella glossa, fu specialmente pel tramite

d'Irnerio e dei più antichi giuristi della scuola, che ne accet- tarono le teorie.

Del resto gli argomenti, a cui il Fitting appoggia la sua ipotesi, si riducono a ben poco.

Si sa che Irnerio ha scritto delle Questiones: vi accenna una carta di donazione del 1262 insieme a quelle di Azone e di Fillio; e il Fitting pensa tosto, che debbano essere le Questio- nes de iuris subtilitatihas, senza badare che le Questioni, come le intendeva la scuola dei glossatori, erano ben diverse. Non si trattava di concordanze o discordanze di testi, ma di casi giuridici.

E per la Summa c'è di peggio. Bisulta implicitamente da Odofiredo e da altri, che Irnerio non la scrisse, come già abbia- mo avvertito; e nondimeno il Fitting pensa che gli appartenga perchè non può essere degli altri glossatori anteriori a Bogerio, che la rimaneggiò, contraddicendo a talune loro opinioni. Così, per eliminazione, arriva al Maestro: ma perchè T argomentazione

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reggesse, bisognerebbe in primo luogo, che l'opera fosse uscita dalla scuola di Bologna, mentre ciò non avvenne ; e poi che non contenesse alcuna teoria imeriana contraria a quelle della Som- ma, mentre sappiamo ohe non ne mancano.

Un ultimo argomento è più serio. Il Fitting ha trovato una cotale coincidenza tra alcune opinioni espresse nelle QueHioneSy e anche nella Summa^ ed altre che passano come opinioni d'Ir- nerio. Ed è vero; ma non ci pare che basti per arrivare alla conclusione che quelle opere sieno veramente del padre della moderna giurisprudenza. Innanzitutto vi osta sempre il fatto di altre opinioni contrarie; e poi, per arrivarvi, bisognerebbe am« mettere ohe te letut glosse uscite dalla penna d'Imerio sie- no originali, mentre non crediamo che vi possa essere uomo di buon senso il quale riconosca ciò, per lui per altri; specie poi nel medio evo, con una scienza che non aveva scrupolo di prendere il buono dovunque lo trovava, senza darsi neppur la briga di citare la fonte. Si conoscono per es. i molti plap di Martino. Ma neppure Irnerio ò un ingegno solitario : anch'egli avrà tratto partito dalla scienza che lo precedette ; se- nonohò, vista la grandissima fama, in cui venne, non può far meraviglia, che tutte le teorie da lui sostenute, finissero per passare come cosa sua, anche se le aveva attinte da altri. Il rin- vangarne le origini non era di quei tempi; e particolarmente Accursio, anche volendo, non lo avrebbe potuto, perchò non co- nosceva nò le Questioni la Somma. Cotesto coincidenze, se pur provano qualcosa, provano soltanto che la scienza dei dot- tori di Bologna e dello stesso Irnerio, si riannoda, più ancora che non siasi sospettato, alla scienza prebolognese.

C Il Brachylogus iuris civilis. '•

1. Il Brachylogtis e una compilazione destinata, con tutta probabilità, a servire come avviamento in una scuola di diritto romano. È un compendio calcato in gran parte solle Istitu- zioni giustinianee; ma il diritto che vi s'insegna, non ò sempre

* Slbllografla. B^icki ho, nella prefasionc alla nna edizione del Brachi iogOf Berlino, 1829. Satiomt. Otsch, des róvi, Rechté im \(. A., II, p. 251 mm\ \\U p. 09 «eg. Tradoc di Bollati, I, p. 127 scgg. Fickk«, For$chungen^ III (1870)

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il diritto romano puro: anzi l'autore si ricorda talvolta de' suoi tempi e del suo paese. E non v' ha dubbio, che appartenga alla vecchia scuola, poichò tutto vi rivela una scienza già matura, for- nita di solide tradizioni. Certo, è più vicino ad essa ohe a quella •di Bologna. E già la forma indica un autore, che è nel pieno possesso della materia, e che la tratta con una certa indipendenza. Vi ò concisione, precisione, chiarezza e una cotale maestria nelle definizioni. Anche il modo di citare i testi è quello della vec- chia scuola, tanto diverso dal modo dei glossatori. Infine c'è oome un legame intellettuale che ricongiunge il Brachilogo alla glossa di Torino ed ai lavori antegiustinianei ; una certa aria di famiglia, che distingue tutte queste opere dalle produzioni della scuola bolognese.

Il Brachilogo, cioè, presenta come vigenti alcuni principi e anche talune istituzioni, che si perpetuarono in Occidente, non- ostante le disposizioni contrarie di Giustiniano e non si perdet- tero che per opera dei glossatori. Per es. esso ammette la vecchia teoria dolV interdictum utrtibi, che attribuiva la vittoria a colui ohe aveva posseduto in modo non vizioso maiore parte eius anni: e considera Vinterdicium unde vi non altrimenti deìl^ Interpre- tatio del Breviario e dell'Editto di Teodorico. Sostiene, ch'esso spettava a colui che era stato cacciato a forza dal possesso, a condizione che il possessore espulso non possedesse eo qui expulit^ neque vi neque clam neque precario; mentre il diritto giustinianeo obbligava sempre a restituire, licei is ab eo qui vi deiecit vi vel clam vel precario possidebat Inoltre le defini-

p. 114 8eg£[. Lo STESSO, Ueber die Zeit u. den Ori der JErUsUhung des Brackylo- guijurit ctvUis, Wien, 1871. Fittiho, Ueber die $,g. Turiner InsUhUionenglotae t». aen $. g, Brachylogus, HaUe, 1870. Lo stesso Ueber die HeinuU u, dtu Alter dee $, g. Brachylogue Berlin, 1880. Lo stesso, Ueber die vatikanieche Gloese dee Brachylogtu (" Zeitsohr.» far B. G. , V, 1884). Bivier. La ecienee du droit V' dans la première moitié du moyen àge (" NouveUe Revue nistor. I, 1877, p. 13

f segg., IV, 297). Nani. Del Brachylogus iurie civiUs. a proposito di una puobli-

oaz. del prof. H. Pitting (^ Arch. ginr. XXV, 1880). SalviolIj^ Die VaUeani-

echen Gloeeen Mum ^ '~ -~ . «

Note eopra alcuni dvilii ('*Aroh. gin

a proposito di alcuni studl'del Salvigli e delFiTTiNO (**

na n, 1886). Bockinoeb, Ueber die Benutzung dee e. a, Brachylogua jurie ro-

^^Q, OoNBAT, Gesch, der Quellen u. Literatur des riha. Beckte %m frUheren ti. A., Ij 1891, p. 550 seg^. Edizione migliore di BOckino col titolo: Corpus legum, s%ve Brachylogus juris civilis, Berolini, 1829.

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zioni di diritto penale sono tolte generalmente da fonti ante- giofltinianee. Persino alcune particolarità di stile, certe forme elittiche, avvicinano il Brachilogo a queste fonti, anziché alla scuola di Bologna. Ma soprattutto il modo della trattazione pre- senta una grande somiglianza con la glossa di Torino. La influen- za dialettica dell'antica scuola è manifesta in ambedue le opere ' la tendenza alla precisione e alla brevità, le antitesi, la propen- sione'per le definizioni e l'arte di formularle, proprie della glossa, si riproducono nel Brachilogo. E dall'altra parte, alcune sue teorie contraddicono addirittura a quelle della scuola dei glossa- tori. Ricordiamo che il Brachilogo tratta della honorum possessio^ come di un istituto ohe non aveva più vigore ; ma la scuola di Bologna, avvezza, com'era, a far prevalere il diritto giustinianeo in tutto, combattè questa opinione. Azone per es. esclama in- dignatissimo : erubescant qui dicuntf hodie non hàbere locum bo^ norum possessiones.

Non si sa però quando sia stato scritto; e anche si disputa sul luogo d'orìgine.

2. Per ciò che riguarda l'età, propenderemmo ad attri- buirlo piuttosto alla fine del secolo X o al principio dell' XI, anziché a tempi posteriori ; sia, perché Pietro se n' é valso nel compilare le sue Exceptionta^ che appartengono certamente alla prima metà del secolo XI, e sia per una citazione, che vi si trova, del Capitulare legis hngobardicae. Sappiamo cioè che la forma longobardica, in luogo di longobarda^ o Langobardorum, è una forma antica, che può trovarsi già in un Capitolare del- l'anno 801, ma è affatto estranea al secolo XI; e poi, la legge langobarda citata é una presunta legge di Lodovico il Pio sulla testimonianza dei chierici : una di quelle, che, già nel secolo XI, sono state tolte via dal Uber PapiensiSt e che la scuola del XII respinse come fiJsificazioni di Walcauso. D' altronde sappiamo che un documento dell'anno 988 parla già di un Capitulare Langobardorum,

3. Quanto alla patria, e' é questione tra la Francia e l'Italia.^ Il Pitting, che pur aveva sostenuto l'origine italiana de

libro, ha finito con attribuirlo alla Francia, e più specialmente alla scuola giuridica di Orleans : prima di tutto per certe ana- logie, ohe esisterebbero, tra alcuni paaii del Brachilogo e il Breviario di Alarico; e poi per una glossa del codice vaticano

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che aooenna a Camotum (Chartres) ed alla Normandia. Noi però non siamo di questo avviso. Il libro non può assoluta- mente appartenere alla Franoia : dapprima, perchè non e' è traccia I in Francia di una scuola di diritto anteriore al secolo XII; poi,

perchè si tratta di un compendio di diritto giustinianeo, e il paese del diritto giustinianeo è V Italia, non la Francia, che, alla sua volta, obbediva ancora al diritto teodosiano. Inoltre anche la citazione del Capitulare legis longobardicae fa ostacolo, e per due motivi. Anzitutto, perchè si tratta nuovamente di una com- - pilazione estranea alla Francia ; e poi, perchè la speciale dispo- sizione del Capitolare, quod clericus adversus laieum tettis esse non passit vel e cantra^ doveva esser nota ad un francese per ben altra fonte, essendo tolta dalla collezione pseudoisidoriana. Non v'ha dubbio: quel passo del Brachilogo, in cui le leggi ro- mane sono contrapposte ad un testo del Capitolare langobar- )f dico, accenna a taluno, il quale credeva seriamente che non esi-

stessero altri diritti da considerare, tranne que' due; e ciò ci riconduce all' Italia. D'altra parte, il Breviario non era ignoto V alle nostre provincie, e non ci sarebbe da meravigliare se un

f italiano se ne fosse servito, tanto più ove si consideri l'uso tutto

, accessorio, che ne fa il Brachilogo; ma in verità il testo, di

cui l' autore si è giovato, è una delle Interpretationes del Codice Teodosiano, e, dopo tutto, avrebbe potuto attingervi diretta- I mente, anziché cercarla per entro al Breviario, desterebbe la

I glossa: ma perchè potesse far fede della patria del libro, biso-

^* gnerebbe ammettere che questo e quella formassero una sola

cosa; e ciò non è. Dato un testo, le glosse vi si aggiungono posteriormente, e ogni età e ogni paese vi reca il suo contri- buto; ma il testo non nasce con la glossa.. Nel caso speciale la glossa è scritta da mano diversa; e neppure s'accorda nella sostanza. Lo stesso Fitting notò, che essa non cita mai le col- lezioni di diritto, specie le giustinianee, che pur sono citate nel testo ; e questo è un fatto di gran rilievo, per quanto il Fitting cerchi di attenuarlo. E una discrepanza di metodo, che non si saprebbe spiegare» qualora il testo e la glossa fossero vera- mente il prodotto dell'attività scientifica della medesima scuola. E ci abbattiamo perfino in qualche varietà d' idee. Per esempio, il Brachilogo nota in wi luogo, che* il diritto versatur circa res vel personas vel acHones, e il glossatore corregge : inteUigendae

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sani exceptianes. Altrove dioe, d'accordo col diritto giustinia- neo : tutor non rei $ed per$on(ie datur; e la glossa vi aggiunge : prindpaUter. D'altro canto, il Brachilogo ebbe una grande dif- fusione ed influì molto, anche oltre i confini del paese che lo vide nascere : tanto e vero ohe qualche manoscritto contiene altre glosse, che non si trovano nel codice vaticano. Qual me- raviglia, che il giorno, in cui la Francia aperse il varco alle compilazioni giustinianee, anch'esso abbia potuto penetrarvi ed esservi studiato e glossato nelle scuole?

4. Senonchò si è incerti a qual parte d'Italia attri- buirlo. Il Savigny pensò alle scuole di Lombardia. Il Fitting, prima di fiurlo nascere in Francia, aveva sostenuto molto calo- rosamente che fosse nato nella scuola di Boma. U Ficker è d'avviso ohe se ne debba cercare la origine nella Bomagna, e più specialmente a Bavenna.

P^r parte nostra, escludiamo che la patria del Brachilogo possa essere la Lombardia : esso sorge su base romana, ripro- duce il diritto romano, e se ne deve cercare la origine in un paese, dove il diritto romano dominava. Ma tale non era la Lombardia. Ne la maniera di citare le fonti è quella delle scuole lombarde. Si aggiunga, che il Brachilogo adopera la pa- rola fnile$ a indicare il soldato, non altrimenti del Digesto ; mentre già nel secolo X, si adoperava in Lombardia, a dinotare il vassallo, e nell' XI voleva dire cavaliere. In generale, non contie- ne il benché menomo accenno ai feudi ; e la cosa sarebbe tanto più osservabile, se il libro fosse stato scritto nel secolo XII, come pensa il Savigny, perchè i libri feudorum furono compilati ap- punto in quel tempo.

Bestano Boma e Bavenna; ma tutti i passi del Brachilogo messi innanzi dal Fitting per istabilire la origine romana, avreb- bero potuto essere scritti anche altrove colla scorta delle fonti giustinianee ; e dall'altro canto non s'attagliano bene allo stato di cose, quale esisteva in Boma nel principio del secolo XI. Certamente la procedura del Brachilogo non era usata nei tri- bunali romani di quel tempo. I documenti contemporanei non contengono traccia del libello scritto^ che compare per la prima volta in Boma solo neiranno 1139, come cosa richiesta dalle costituzioni impenali e, quindi, sotto la influenza della teoria romanistica. sappiamo che la sentenza definitiva si dovesse

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già in quel tempo aonsegnare in scripUs, come vuole il Brachi- logo d'Eocordo col diritto giustinianeo ; anzi non se ne trova traccia ohe più tardi, sullo scorcio del secolo XII, quando le regole del processo culto furono meglio osservate nei giudizL Anche il dicere de asio^ ricordato da alcuni documenti forensi, è cosa al- quanto diversa dal giuramento di calunnia, richiesto dal Brachi- logo ; perchè solo una part^ doveva prestare de asto^ e neppure sul princìpio del processo, ma immediatamente prima del giu- ramento principale della parte avversaria. Ciò risulta da quelle carta ; e concordava con la legge langobarda* Le parole osto o atto animo ricorrono spesso negli Editti : e sebbene essi non dicano che il giuramento de osto debba precedere il giuramento principale, non v' ha dubbio che almeno in processo di tempo si usò cosi (L, Pap. Car. 33). Liutprando poi (71, 118) lo esigeva anche dalla parte che provocava l'altra al duello; mentre una legge di Guido (6) ne faceva obbligo a ognuno ohe per aver tac- ciato una carta di falso, costringeva il notare o la parte av- versaria E giurarne Fanteiiticità. L' istituto lango bardo diffe- riva dair istituto romano. Diremo di più: nonostante che il di- ritto lango bardo ai applicasse tuttavia come diritto personale dei Langobardi, manca;io argomenti per ritenere ohe i giuristi romani lo conoscessero, o pur avendone notizia, volessero rico- noscerlo. &ià un documento delFanno 988, relativo ad una lite tra la chiesa di Sani' Eustachio e Farfa, potrebbe far sospettare il contrario ; ma poi abbiamo la' testimonianza dell'autore delle Questione^ de mn» sìiòtiUtatibus. Sappiamo che egli non voleva assolutamente saperne dei vecchi codici gentilizi, e si sentiva rimescolar tutto, e come inciprignire la ferita di un antico do- lore al solo udir nominare quelle genti e quelle leggi. Come supporre che un giurista romano avrebbe voluto ricordarsi del diritto langobardo e riprodurne un capitolo? Invece quel ri- chiamo al diritto langobardo non stupisce a Ravenna. Ma anche il nesso del Brachìlogo con le Exceptiones Petri, che si ammette generalmente, suflFraga la nostra opinione, perchè le Excepiiones sono, con tutta probabilità, un'opera ravennate.

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D. Le Exceptiones legum Eomanorum. '^

1. ' Exceptio, nel modo di parlare del medio evo, significa estratto; e le Exceptiones legum Ramanorum sono veramente estratti di leggi, per la più parte romane, ordinati sistematica- mente in quattro libri. Si ragiona nel primo delle persone, nel secondo dei contratti a titolo gratuito e oneroso, nel terzo dei delitti e quasi-delitti, nel quarto del processo e delle azioni; ma l'ordine non è sempre osservato a rigore, e qua e c'è qualche interpretazione erronea. Nondimeno trattasi di un' opera che tiene un posto abbastanza elevato nella scienza, sia per la vasta conoscenza delle fonti, sia pel modo originale con cui sono espo- ste, collegate e messe a profìtto. In generale si lode all'au- tore di acume e precisione. Anche le fonti, a cui attinse, sono tutte quelle del diritto giustinianeo : le Istituzioni, il Digesto, il Codice, le Novelle; ma non vi è traccia del Codice teodo- siano, del Breviario, poiché Tunico passo che vi si potrebbe riferire, muove più probabilmente da fonti canomiche.

E però un libro, che offre nuovamente campo a dispute assai vivaci.

Già il testo presenta delle divergenze ; poiché abbiamo due

Bibliografia. Satxont, (rtsch, det róm, Rechts %m M. A,, II, P. 1S4 segg.;

, p. 50 segg. Tradux. di BoUati, L p. B55 segg. SnimiNO, Gfch, der popu-

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serie di manoscritti, che non s'accordano bene tra loro. Negli uni, Topera ha un titolo e un prologo, ed è yeramente ridotta a sistema ; mentre gli altri mancano spesso del prologo, por- tano alcuna intestazione, che ne indichi il titolo o il nome del- l'autore, e neppure sono distribuiti in libri. Anzi, tutto l'or- dine vi si mostra sconvolto, da sembrare quasi che i frammenti sieno mesBi alla rinfusa; e lo stesso numero dei capitoli i ridotto circa della metà. Un codice contiene l' opera anche più ridotta ; e un altro ne solo un estratto. Si aggiunge, che questo e quel capitolo potrebbe risalire oltre il secolo X, mentre altri parreb- bero accennare al XII. Inoltre si rinnova anche qui la questione della patria. Il Savigny pensava che fosse un'opera francese dei secoli XI 0 XII, e che avesse conservato il diritto romano, quale si u&ava allora nel Delfìnato ; *ma talune considerazioni impedi- scono dì attribuirlo alla Francia. Insomma, le difficoltà sono molte ; ed è certo che un risultato definitivo non potrà ottenersi, finche tutti i manoscritti non sieno stati esaminati criticamente P e comparati pazientemente tra loro ; ma si può fin d'ora asserire

1^ con tutta sicurezza trattarsi di un libro che, nel corso del tempo,

i ha subito parecchie trasformazioni.

Una prima forma embrionale sarebbe contenuta nei mano- . scritti del secondo gruppo, tra perchò vi regna per entro un

[ grande disordine, tra perchò quelli esaminati finora mostrano

I che Tautore, qualunque esso sia, a cui si deve la forma definitiva

del libro, deve averli avuti sott' occhio. In origine, sarebbero stati semplici estratti, come lo dice il nome, e come se ne trovano tanti nel medio evo : massa informe e impersonale, a cui ciascuno avrebbe potuto attingere senza scrupolo. Anzi non si può nep- pur dire che si tratti di una massa già fissata. C'ò bensì un I fondo comune in tutti questi codici; ma insieme ce n'ò un altro

piuttosto fluttuante ed incerto, che si trova in questo e quello, ma non in tutti. Si vede chiaro, che la collezione ha avuto parecchie aggiunte, prima di venire ridotta alla forma sistema- tica ; e forse ne ebbe anche in seguito. \ Ecco perchò vi regna la confusione e il disordine. Il Flach, avendo nella collezione sistematica scòrto un certo numero di errori di trascrizione, conghiettura che l'autore, nel compiere il suo lavoro, siasi ser- vito dell'opera di un copista, che non avrebbe corrisposto sem- pre alle sue intenzioni. Gli avrebbe indicato i capitoli che

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doveva trascrivere, e l'ordine con cui disporli; e il copista avrebbe errato, trascrivendo un capitolo invece di un altro, o anche più o meno di ciò che realmente doveva.

Ad ogni modo, resta sempre aperta la questione principale, che è di sapere quando la collezione sia stata fatta, e dove, e da chi.

2. Per ciò che riguarda il tempo, il capitolo De canten-' tiane inter vctssaUum et daminum potrebbe offrire, se non altro, un termine a quo, perchè vi si ricorda che il signore non doveva to- gliere il beneficio al vassallo, se non per iudieium aUorum homi- num suorum, e parrebbe alludere alla legge di Corrado del 1037; ma è osservabile che esso non figura in tutti i manoscritti : quello di Gratz non lo contiene, e si potrebbe dubitare che già vi fosse nel testo originario.

Dall'altro canto, non sembra che il libro sia di molto poste- riore a quell'anno.

Un primo punto d' appoggio ci ò offerto da un passo che tratta dello scioglimento del matrimonio per causa di adulterio. Le ExcepUcnes affermano, che la parte innocente può passare a nuove nozze; ma questa pratica ci riconduce al secolo XI. An- cora il sinodo di Bourges del 1031 proibiva le seconde nozze soltanto a coloro che ripudiavano le proprie mogli legittime sine culpa farnicationii ; ma più tardi non se ne trova più traccia. L' idea che il matrimonio, una volta contratto, sia indissolubile, si fa largo sempre più, appunto nel corso del secolo XI ; e nel XII non c'è canonista che ne dubiti.

Inoltre si è osservato che gli Usatici Barchinonae hanno attinto alle Exceptiones; anzi, a volte, trattasi di interi testi passati quasi letteralmente in essi ; e, siccome non v' è luogo a dubbio che gli Usatici sieno stati compilati tra gli anni 1053 e 1076 (l'opinione più comune li attribuisce al 1068), neppure le Exce- ptiones possono essere più recenti.

Due passi, che concernono le nozze degli ecclesiastici, ci trasportano addirittura nella prima metà del secolo XI. In sostanza, essi riproducono il diritto giustinianeo che proibiva bensì ai preti, diaconi e suddiaconi di contrarre matrimonio, ma non anche ai chierici di grado inferiore, che potevano anzi passare ai gradi superiori, senza che il matrimonio si avesse a sciogliere. E tale era veramente la pratica ancora nel secolo XI; ma si sa che alcuni sinodi, tenuti da papa Leone IX nel 1049,

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hanno cercato di mettervi riparo. Come supporre che uno scrit- tore, il quale, d'altronde, cerca in tutti i modi di ottemperare alle esigenze generali della podestà ecclesiastica, siasi, questa volta, messo addirittura in opposizione con essa ? E, d' altra parte, non si può neppur dire che potesse ignorarle, perchè si tratta di di- sposizioni, che hanno finito col commuovere tutta Europa. Che se nondimeno esso insiste in una pratica contraria, non è egli lecito supporre che l'opera sia stata scritta prima del 1049 ?

Un altro capitolo, riferendosi al giuramento dei chierici, os- serva che quelli di grado superiore non dovevano essere costretti a giurare prò testimonio dicendo, gli altri sì, secundìim quod leges praecipiunt. Ma a quali leggi allude? Forse alla Nov. 123 e. 7, che anche l'autore della Summa Codicis (IV, 20), prima di lui, aveva interpretato in questo senso. Ad ogni modo, egli non conosce ancora la costituzione di Arrigo III del 1047, che, ob- bedendo veramente alle Legesj proibisce il giuramento a tutti i chierici : e non avrebbe potuto ignorarla, se avesse scritto posteriormente, perchè anche questa è una legge che ha fiatto rumore. Notiamo che, oltre ad essere stata aggiunta al corpo delle leggi langobarde, venne accolta nella prima collezione delle Decretali, e anche Onorio II la ripubblicò per intero.

Così tutto induce a far ritenere che il libro, nell'ultima forma che ha ricevuto, appartenga al secolo XI e propriamente alla prima metà di esso.

3. Quanto al luogo, non esitiamo ad affermare che devo essere stato l'Italia, e probabilmente Bavenna. Le ragioni, che ci hanno dissuaso dal collocare il Brachilogo in Francia, de- vono ugualmente distoglierci dal collocarvi le Exceptiones; specie perchè il libro, come fu messo assieme con la scorta delle fonti giustinianee, non avrebbe avuto un gran valore pratico per la Francia; e d'altra parte, le Exceptiones leg. Rom. non hanno attinto nulla dal Breviario, che pure fu la sola fonte di diritto romano, sulla cui base si è venuta svolgendo la vita giuridica della Francia. Si aggiunge, che l'autore modifica qua e il diritto ro- mano per adattarlo agli usi locali, e vi inserisce più disposizioni tolte dalle leggi langobarde : ma anche questo miscuglio non si adatta bene alle condizioni della Francia, specie del Delfinato ; mentre manca addirittura ogni traccia di usi provenzali.

può dirsi che gli argomenti, addotti per la origine fran-

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cose del libro, reggano alla critica. Il prologo, è vero, s' indirizza a un Odilone viro splendidissimo Valentinae civitatis magistro magnifico, e la Valentina civitas dovrebbe essere Valenza nel Delfinato ; ma soltanto un manoscritto la ricorda. Altri hanno Firenze ; e, ammesso pure, che si debba leggere Valentina civitas, chi ci assicura che debba essere proprio la Valenza del Delfi- nato ? Perchè non una città italiana ? Esiste una Valenza in provincia di Alessandria, che i latini chiamavano Valentinum, e la stessa Roma poteva esser detta Valentina civitas, giusta la tradizione antica riferita da Giulio Solino. Inoltre è vero : le Exceptiones distinguono quei siti, in quibus iuris legisque pru- dentia viget, da altri, ubi sacratissimae leges incognitae sunt: e il Savigny pensa che vogliano alludere, da un lato, al pays de droit écritj e dall'altro, al pays cou^umier; ma nulla giustifica cotesta oonghiettura. Un romanista del secolo XI poteva benissimo indicare i paesi di diritto langobardo, come quelli in cui le leges sacratissimae erano ignote: che, se pure avesse voluto alludere al diritto consuetudinario, perchè non si potrebbe intendere un diritto consuetudinario romano? E poi, possediamo due mano- scritti che tolgono ogni forza alla distinzione , perchè non hanno la forma iuris legisque prudentia, ma legis utriusque prudentia. Altrove l'autore allude veramente alla Francia come al suo paese : possessionem quam in Galliae partibus appellamus honorem, e anche adopera qualche parola provenzale; ma la frase suddetta manca appunto nel manoscritto che il Flach considera come primitivo, e quindi è indubbiamente un glossema. Circa le parole proven- zali, osserviamo che tanto esse quanto altre d'origine stranie- ra, tendono costantemente a tradurre o spiegare qualche pa- rola del testo, e vi si riferiscono con un id est, sicuti, oppure quod appellamus. Sono parole che potrebbero saltarsi a pie pari, senza che il testo ne sofirisse : sicché è evidente che abbiamo À che fare, anche qui, con glosse che si sono intruse nel testo, e ohe potranno far fede della patria di ohi le ha redatte, ma non già di quella del testo stesso. Del rimanente, le vere parole proven- zali non sono che due: busnardi per idioti e soldatas per soldi; e, oltre ad esse, ne troviamo altre prettamente spagnuole e ita- liane. Naturalmente, le Exceptiones come arrivarono fino a noi, portano l'impronta delle varie scuole, per cui sono passate: ma certo non nacquero in Francia.

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4. Invece tutto ricorda V Italia, e più specialmente la Bo- magna.

Cominciamo da un uso speciale, riferito dalle Exceptiones. Esse dicono, a proposito del giuramento : S(icramentum non est próbaiio, aed in defectum probationis datur reo vel adori, quem index rei certiorem esse cognoverit, et quem magis iuramen^ tum timere perspexerit Probatio fit aut testibus aut cJiartis aut argumentis aut indiciis veresimilibus. Ergo sacramentum pro- batio non est Verosimilmente si tratta di una consuetudine sorta su base romana. Infatti la Summa Codids^ osserva che il giu- ramento non proprie probatio est, set locum probationis optinet; ma anche i documenti giudiziari ravennati distinguono netta- mente il probare dal jurare, e indicano, come mezzi ordinari di prova, i testes e le chartae. il giuramento era ordinato al- trimenti che mediante sentenza. Anzi, l'accenno delle Exce- ptiones^ che il giudice debba deferirlo a quella delle parti, che pareva temerlo di più, collima perfettamente con la formula, che, giusta quei documenti, si adoperava nel ricusarlo : quia timeo me periurare, ne anima mea incurrat periculum. La stessa parte veniva condannata quia próbare non potest... . et iurare non audet. Dall'altro canto, non ci venne fatto di trovare questa pratica fuori d' Italia, anzi nemmeno in altre parti della penisola, tranne che a Roma e nella Romagna.

Soprattutto, vi accennano le fonti giustinianee, a cui l'autore ha attinto; le quali, se non potevano avere alcuna importanza per la Francia, ne avevano moltissima per l'Italia, dove oggi- mai il diritto giustinianeo teneva il campo. Sia che si volesse scrivere per la scuola, sia che si volesse servire ad uno scopo pratico, non si poteva ricorrere ad altre fonti. Il vecchio di- ritto teodosiano era passato da lungo tempo in seconda linea. E si noti: le fonti sono quelle stesse citate anche dal Brachi- logo e da Pietro Crasso: le Istituzioni, le Pandette, il Codice e le Novelle di Giuliano.

Si aggiungano le reminiscenze langobarde. I nomi di Pie- tro e Martino, personaggi fittizi delle formule langobarde, ricom- paiono in un passo delle Eccezioni ; e altre volte si tratta di parole e perfino di frasi tolt« di peso agli Editti, e anche di prin- cipi giuridici. La regola, che nessuno possa appropriarsi le api di un albero segnato, si trova già in una legge di Rotari.

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L'altra, che ohi ha spergiurato soientemente non possa essere ammesso a rendere testimonianza e a giurare in nessuna causa, propria altrui, se prima non abbia fatto penitenza, ripro- duce due capitoli langobardi di Carlomagno e Pipino ; e il glos- satore lo avverte espressamente. Altrove è detto, a proposito del giuramento dei testimoni, che bisognava distinguere fra te- stimoni che vivevano onestamente e che non era possibile di corrompere, e altri uomini vii issimi accessibili alla corruzione e che non volevano rendere testimonianza: i primi si ricevevano in testimonio col solo giuramento, gli altri dovevano anche as- soggettarsi ai tormenti ; e in sostanza alcuni capitoli langobardi di Lodovico il Pio e di Lotario dicono lo stesso. Un altro passo si occupa della rivendicazione dei beni ereditari per placiium et guerram^ e il pensiero corre involontariamente alla legge lan- gobarda di Ottone, che appunto, a proposito dei fondi, stabiliva: 8% contentio faii^ ut per pugnata veritas decematur. Ora, se il diritto langobardo è fuori d'ogni relazione con lo svolgimento giuridico di altri paesi, certo non Io è con quello dell' Italia ; e Tautore delle Exceptiones^ che mostra di conoscerlo cosi a fon- do e ne trae cosi largo partito, non può essere che italiano. Anzi deve appartenere alla Bomagna. Non esisteva che questo centro di studi, dove, accanto al diritto romano, che teneva il campo, potesse trovar posto anche il diritto langobardo: i giu- risti romani non si sarebbero abbassati a tanto ; e già conoscia- mo il superbo disdegno con cui guardavano i codici barbarici, non credendoli anche meritevoli del nome di leggi. Li av- versavano in teoria, parevano disposti ad ammetterli nella pratica.

Le stesse espressioni di Legum doctores, Legisperiti^ Causi- dici, Orammaiiciy ricorrono tutte nel secolo XI in Bomagna; e anche i bizanti, o bizantini, sono una moneta ben nota ai do- cumenti romagnoli.

6. Più diflScile ò il ricercare l'autore del libro. I mano- scritti lo attribuiscono a certo Pietro; ma chi fosse si ignora, e non si possono fare che conghietture. Il Ficker ha messo avanti il nome di Petrus de Rainerio, che si trova spesso nei diplomi giudiziari della Bomagna tra il 1021 e il 1037, ora con quel nome, ora con quello di Petrus scholasticus o scholasticis- simtis e vir sapiens ; ma nulla autorizza ad argomentare che le

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Ecoezioni sieno sue. Piuttosto si potrebbe pensare a Pier Da- y miani, e ci sarebbe veramente qualche indizio per attribuirle a lui; ma si tratta appunto di soli indizi.

È tale in primo luogo la tendenza generale del libro, avver- tita anche più su, di dar ragione a tutte le esigenze della po- destà ecclesiastica, che forse contrasta con la tendenza della scuola, dal cui seno è uscito il libello di Pietro Crasso, cosi de- cisamente avverso ai diritti del sacerdozio. In ispecie poi amia- mo di notare un capitolo, che sappiamo essere stato contrario all' indirizzo di essa, sull'impedimento della cognazione. Quel ca- pitolo dice, che le nozze tra ascendenti e discendenti non possono farsi u%qu,e ad infinitum ; e, quanto ai collaterali, si concedono solo ultra septimum gradum, id est eecundum canones intra septimam generationem, E si aggiunge anche il modo, con cui i gradi si computavano secondo il diritto canonico. E questa la teoria pura della Chiesa, che può vedersi già nei Capitolari di Bene- detto Levita, e che doveva finire col trionfare; ma si sa che i giuristi ravennati l'avversavano. Invece appunto San Pier Da- miani la sostenne calorosamente contro di essi; anzi pare che dal contesto trapeli una cotal cura affannosa di mettere i punti sugli i ; il che si spiega assai bene con le recenti dispute scolasti- che. Soltanto, potrebbe £Etre meraviglia che un uomo, come Pier Damiani, venuto su nelle scuole di grammatica e rettorica, possedesse una cosi estesa conoscenza delle fonti del diritto ro- mano e tanta potenza di combinazione; ma nessuno potrà ne- gare che fosse uomo dottissimo, e poi lo stesso grande Imerio non ha avuto origini diverse.

§ 3. - IL CARATTERE DELLA SCUOLA.

1. Naturalmente, parlando delle scuole di diritto romano, ci siamo attenuti alle produzioni giuridiche più salienti di que- sta età calunniata, trasandando le altre ; ma, anche cosi, abbia- mo potuto toccare con mano, che lo studio della giurisprudenza, ai pari di quello delle scienze in generale, è continuato sempre nel medio evo sulla base delle antiche tradizioni. Molto tem- po prima della scuola di Bologna, il diritto romano era studiato, sia come parte della coltura generale^ sia anche da sé, in modo più o meno scientifico. Alcune produzioni di questa giurispru-

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denza prebolognese, possono dirsi eccellenti sotto più aspetti, massime per l'abilità con cui la materia è svolta con riguarda agli scopi della scuola, e per l'arte che si rivela nelle defini- zioni. È la stessa abilità ed arte che le scuole antiche, pur del periodo della decadenza, IcLSciarono in retaggio a quelle del medio evo. La storia della scienza da Costantino a Irnerio si presenta cosi sotto una nuova luce. D'altra parte, sebbene la scuola di Bologna perda quell'aureola, onde era stata finora circonfusa, amiamo osservare subito, che il suo splendore non ne rimane punto offuscato. Non vi sarà più nulla di meraviglioso, e neppure vi avrà un rinnovamento scientifico nello stretto senso della pa- rola; ma ò certo che lo studio del diritto romano è diventato a Bologna più speciale e quindi più intenso. Dopo tutto, ogni scuoia ha la sua impronta; e anche quelle esaminate finora, rivelano la loro, ben diversa da quella che troveremo a Bologna.

Qià la scuola romana deve aver subito più o meno la in- fluenza del pontefice, in cui era venuta concentrandosi la som- ma delle cose. Roma si era separata sempre più dall'Oriente per gettarsi in braccio al papa, e non deve far meraviglia che anche la scuola si venisse accomodando allo spirito dei tempi nuovi. Lo si può vedere nelle epistole di Gregorio Magno. Le quali si riferiscono più volte alle fonti giustinianee : il Digesto, il Codice, le Novelle ; ma non nascondono la tendenza di adat- tare la vecchia legge imperiale alla nuova società, e temperar* ne le durezze: aliquatenus legis duritiem molientes. Più tardi, le Questianes de iuris subtilitatibus ripeteranno press' a poco Io stesso: ut si que ex liiteris illis {se. librarum legalium) ab equi' tatie examine diseonarentj haberentur prò cancellatis. Cosi pure la Summa Codicis si riferisce al celeste ius, alludendo al diritto naturale, ohe Dio stesso ha scritto nel cuore degli uomini. L'au- tore ne subisce la influenza, allora dominante ; e lo si scopre già da alcune espressioni generali. In un luogo sostiene: Condite Ugee intelligende sunt benigniue, ut mene earum seroetur et ne ab equHate diecrepent : legitima enim prece pta tune demum a iudice admittuntur cum ad equitatis rationem accomodantur. E altrove : ut omnié interpretatio ita facienda est ne ab equitate discreptt. Che se ci facciamo a consultarne i principi giuridici, vediamo ohe vengono generalmente derivati dall'e^at^a^ e giustificati con

i\ la forza obbligatoria dei contratti è spiegata addirittura col

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diritto naturale. Ma gioverà ricordare un esempio. Per diritto romano chi aveva firmato un chirografo di debito e. lasciava trascorrere il termine della querela non numeratae peeuniae^ era tenuto senza più, e doveva pagare, anche se nulla aveva ricevuto ; ma l'autore aderisce ad una opinione più equa, suggeritagli dalla L. 1 C. de cond. ab turp. caus. 4, 7. Biconosce, cioè| che l'estensore del chirografo possa provare di averlo rilasciato per altre ragioni diverse dal pagamento; e nella Summa Codi' ci8 va anche più in là, accordandogli persino la prova di non aver ricevuto il denaro. Di più, a ben guardare, egli si oc- cupa soltanto di cose che avevano ancora un valore pratico ai suoi giorni. Con questo criterio sceglie i titoli del Codice; e qua e accenna veramente alla pratica, facendo, cosi, posto a teorie, che nelle leggi propriamente dette non si troverebbero. Una riguarda nuovamente i chirografi. L'autore delle Questioni comincia dal dire che uso postulante receptum est iure civili ut ex qualibet obUgatione in creditum ire possit, e soggiunge: se tu mi devi del denaro, potrò convertire questa obbligazione in una obbligazione di vino, purchò ne faccia la stipulazione con animo di novare, e s'intenderà che abbia pagato per la causa anteriore. Ma ciò non poteva verificarsi coi titoli di credito, i quali non tolleravano novazione. Riferiamo le parole : Cyrogra- phum autem inventum est ut is qui mutuum accipit manu prò- pria se obliget, ut hec obligatio numeratione impleatur^ novatio- nis autem potestatem non habet, cum igitur simulatio in eo fiat communi iure prò infecto habetur. Il chirografo doveva venire adempiuto tal quale con la numeratio; ma del resto c'erano an- che chirografi, i quali, ben lungi dall'essere scritti obligatìcnis contraende gratta, si scrivevano solo perchè facessero fede di una quantità dovuta per altro titolo, e allora questa non si do- mandava ex cyrographo sed eius ex testimonio; press'a poco come aveva detto Gaio dei nomina arcaria : che non facevano obbli- gazione, ma rendevano solo testimonianza della obbligazione fatta. Ora, non diremo, che cotesta teoria, che riguarda la ob- bligazione stessa come incorporata nella carta, fosse estranea ai Romani; ma le leggi mostrano d'ignorarla, e ci piace di ve- derla riprodotta dall'autore delle Questiones. Il quale dice eziandio: civilis causa que condictionem parit est stipulatio certa seu cyrographum, in quibus ex lege sic adstringeris ut recte possit

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intendi dare te oportere. E cod altrove: parlando deirenfiteusi, espone ona teorUi che ripugna addirittura al diritto romano, ma che certamente corrispondeva, anch'essa, alla pratica dei tempi. Egli sostiene, ohe la semplice somiglianza con la loca- zione non bastava per &r ritenere che l'enfiteusi si contraesse col solo consenso: c'erano, cioè, anche altri contratti simili alla locazione, come la permuta, ricordati nelle Istituzioni, ohe, fa- cendo luogo ad un'acato prescriptis verbis, si vedeva chiaro ohe erano contratti re e non coneensu. E conchiude: Hoc estimo vere dici: amminiculo acripture interposito non expe- ctandum esse rei interventum, sed sicut emptio in scripiis, com- pleta scriptura, statim valsi, ita possumus et hoc de contractu opinari. altrimenti ripete nella Somma : che l'enfiteusi con- traevasi col consenso, ma che insieme occorreva la scrittura: scriptura tamen ex necessitate semper interveniente^ et in princi» pali contractu et in aliis pactis ex natura contractus ibidem in- terponendis. L' imperatore Zenone non aveva richiesta lo scrit- tura che qualora le parti avessero voluto scostarsi dalla regola. Ma anche gli altri libri giuridici, che abbiamo esaminato più su, s'inspirano alle medesime idee.

2. Il Brachilogo altera a bella posta il diritto giustinianeo per adattarlo alle condizioni dei tempi, o anche informarlo ad una maggiore equità. E senza alcun dubbio esso si è proposto una cosa e l'altra. Specialmente l' idea di modificare il diritto secondo ragione, si trova espressa si nel testo che nella Glossa. Il giurista si atteggia a successore degli antichi prudentes, la cai autorità non era minore di quella dei Cesari. Come il principe vuole, cosi anche il giureconsulto deve poter volere ; e assume veramente l'aria di legislatore; altera il diritto, e non ne neppure la ragione, restringendosi a dire: vogliamo la tal cosa, concediamo la taFaltra. Lo che non significa che egli proceda a casaccio. Appare manifesto che modifica il diritto giustinianeo, o perchè non gli sembra pienamente conforme a giustizia, o perchè lo crede inopportuno, o anche perchè con- traddice al diritto del paese. E non ne fa mistero: Sin vero aequitas iuri scripto contraria videatur, secundum ipsam iudi- candnm est. E altrove, parlando dell'appello: Ad quos autem iudices liceat appellare, dicere necessarium non duximus, eo quod hi, quos lex nominai, apud nos non hàbentur.

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Possiamo anche ricordare più esempi. In un luogo dichiara che bastava lasciare un legato ad uno schiavo, perchè gli s'inten- desse lasciata la libertà, e ciò contraddice assolutamente alle leggi. Afferma pure ripetutamente, che ciò che il figlio di fa- miglia acquistava non solo ex re patria, ma anche ex operibus suis, ad eccezione del peculio castrense o quasi castrense, cedeva al padre quantum ad proprietatem et ad usumfructum; ma nean- che ciò riproduce il vero diritto romano. Sostiene, ohe i figli non riconosciuti dalla legge, potevano nondimeno diventare et- t7t7f purché il padre fosse convissuto in contubernio con la madre fino al giorno della sua morte. Applica a tutte le arrogazioni ciò che il diritto giustinianeo prescrive solo per quella di un impubere : che, cioè, l'arrogante debba dare cauzione di lasciare all'adottato la quarta parte dei beni, se lo avesse emancipato, e anche di restituirgli il suo. Fa obbligo a tutti i tutori di costituire una satisdatio rem pupilli salvam fore. Distingue la usucapio^ di tre anni, e la longi temporis praescriptio, di dieci o venti: quella per le cose mobili, questa per le cose mobili e per le immobili ; e mentre esige la buona fede ed il giusto titolo per la prima, si contenta della buona fede per la seconda. Altrove si occupa delle donazioni, e dice che quelle superiori a cinque- cento soldi abbisognavano della insinuazione giudiziaria, excepta donatione Jiabita in veneràbiles domos vel in imperatorem vel ab imperatore. Parlando dei testamenti scritti, sostiene che il te- statore deve scrivere di suo pugno il nome dell'erede o farlo scrivere da un tabularius publicu$; e aggiunge, che non solo i militi, ma anche i rustici possono testare come vogliono, quo^ cumque modo voluntas eorum pateat. Nella successione inte- stata si richiama nuovamente alla pratica dei suoi giorni, se- condo cui i fratelli bilaterali succedevano bensì insieme col padre e colla madre, ma escludevano gli altri ascendenti. Nella ven- dita, è d'avviso che il venditore avesse sempre la scelta tra la consegna della cosa e il pagamento dell' interesse. Bioorda ch^ cessava ogni azione di danno, se questo era stato recato giusta- mente, e cita come esempio il caso del marito che avesse ucciso l'adultero còlto sul fatto : ma bisognava che lo facesse cum con- testatione. AlV interdictum utrubi abbiamo accennato più sopra : aggiungiamo, che non solo mantiene la vecchia teoria, ma la estende all' interdictum uti possidetis. £ se ne intuisce la ragione.

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Giustiniano aveva pareggiato tra loro i due interdetti, e l'autore ' del Brachilogo ne accetta il pareggiamento, ma non nel modo in- teso da Giustiniano. Non applica all' interdictum utrubi i prin- cipi delV interdictum uti posridetis, ma viceversa vuol trattato questo coi principi di quello. Soprattutto interesserebbe esami- nare la parte che riguarda i giudizi. Essa offre una speciale importanza, perchè segna il passaggio dalla vecchia procedura romana alla procedura romanistica, la quale devia molto da quella ; e si sa che la posteriore dottrina accetta cotesto devia- zioni. La letteratura degli Ordines judieiarii ne contiene molte traooie, e persino i compilatori dello Specchio avevo ne hanno tratto partito.

3. Lo stesso metodo s'incontra nelle Exceptiones legum Romanorum. Anche qui il giurista si ò messo a foggiare il di- ritto più o meno liberamente con riguardo all'equità ed alla opportunità; e lo dice egli stesso nel prologo: Si quid inutile^ ruptum aequitative contrarium in legibus réperitur^ nostris pedi' bus iubcalcamue, quidquid noviter inventum ac tenaciter serva- tum tibi .... revelamus. Anzi, ritorna più volte sui principi della giustizia e dell'equità, che antepone alla legge. Egli os- serva che quando la iustitia e la consuetudo, cioè la vera giu- stizia intrinseca e il diritto positivo vigente, contrastavano tra loro, non ci potevano essere che gli idioti che si pronuncias- sero per la consuetudine : i legisperiti davano la preferenza alla giustizia, che concordava sempre con la verità. In pari tempo proclama il diritto, che avevano i giudici, di decampare dalle leggi per ragioni superiori, appunto come nel Brachilogo ; ma lo attribuisce solo ai più autorevoli e timorati di Dio, che non fos- sero facili ad essere subornati per grazia o per denaro. Il giurista afferma che ciò poteva farsi anche coi sacri canoni, che por avevano maggiore autorità; perchè non si sarebbe potuto con le leggi secolari? Cosi accadde che più principi estranei al diritto romano penetrassero in questo libro: che se alcuni potevano anche dedursi più o meno arditamente dalle leggi ro- mane, altri rivelano la influenza germanica.

Certo è: il giurista non obbedisce a nessun principio romano, quando dice, per es., parlando della caccia, che, se taluno aveva levato un animale e un terzo lo ammazzava, aveva pur sempre diritto ad una parte, purché non avesse cessato d'inseguirlo.

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Anche il modo di determinare il tasso delle usure, non è quello del diritto romano. Ne romana può dirsi la distmzione di tre gradì di colpa. Altrove si afferma, a proposito dei testamenti e altri atti solenni, che regionis cansuetudinem legts vicem ùbii* nere legis auctoribus placuit* ma il diritto romano non contiene nalla di simile. Troviamo eziandio applicato alle donazioni del padre ciò che il diritto romano aveva stabilito solo per quelle della madre : ossia che non si potessero revocare per nessuna in- gratitudine dei figli, se il padre passava a nuove nozze; e qui c^è almeno una deviazione dai principi romani. Altre regole sono tolte di peso dai codici barbarici* Abbiamo già ricordato quella, che si possa avere un diritto sulle api facendo semplicemente un segno sairalbero; aggiungiamo la disposizione, suggerita certamente dalla legge salica» che vuole punito con duecento soldi d'oro chi strappava gli occhi ad un altro. Un capitolo accenna al diritto del reo di provare la sua innocenza col giu- ramento; e anche ciò non è romano, ma germanico. Il giurista infine, pur escludendo la via di fatto, ammette delle eccezion i^ che non hanno a che fare col diritto romano-

E d'altra parte non vorremmo neppur dire, che egli s' in- chini sempre agli usi vigenti : anzi qua e lo vediamo oppor- visi risolutamente per tornare ai principi romani. Insomma egli procede tutt'altro che alla cieca. Una volta si propone di de- terminare da qual momento la compra- vendita possa dirsi perfetta, e rigetta la pratica, per tornare al principio romano, in virtù del quale la vendita si perfezionava col solo consenso : eisi res nondum tradita est, nec pretium solutum est, nec arrha data, nec ullum aliud factum e^t^ quod usualiter per plura loca in vendi- tione intervenire solei, ui percussio manus et bibaria vini. Ne al- trimenti respinge il diritto di re tratto che la consuetudine ao cordava ai propinqui e ai consorti ; e lo fa con piena conoscenza

di causa. Egli ricorda la comuetudo antiquorum ut frater

de rebus suis immobiiibus non venderei nisi fratn\ propinquus propinquo, nec consors nisi consorti, si emere vellent; ma non l'ammette, e torna al principio romano, che ognuno potesse alie- nare le cose sue, come meglio gli talentava* In pari tempo av- verte: Iniuria gravis visa est imperatoribus ut de rebus suis Aomi- nes aliquid facere cogantur inviti.

4, Una nuova tendenza della .scuola, appare dal libello di

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Pietro Crasso; ed ò di estendere i principi del diritto privato alle questioni di diritto pubblico. Il libello stesso ne offre molteplici applicazioni. Una riguarda i rapporti del papa con Arrigo lY. L'autore comincia dall'osservare, che papa Gregorio teneva la sede pontificia lulia et Plauiia lege contempta, e che non poteva richiamarsi a quella costituzione del Codice, che proibiva al figlio di famiglia di agire contro il padre. Gregorio, cioè, non po- teva dirsi padre di Arrigo, perchè non si era contenuto pater- namente con lui, e anzi lo aveva emancipato, scomunicandolo, tendendogli d'ogni maniera insidie, e perfino attentando a' suoi giorni : anzi lo si potrebbe dire incorso nella Lex de parricidiia. Lo stesso Crasso si occupa del rapporto di Arrigo coi Sassoni; e, per provare che avevano fatto male a deporlo, si richiama alle Istituzioni, ohe riconoscono il diritto ereditario, e anche ad al- cuni principi del Codice, che pareggiano la consuetudine alla l^gg®- Avverte pure, che chi usurpa violentemente una cosa senza aspettare che il giudice decida, è obbligato a restituirla, e anche a pagarne il valore, giusta la L. 7 C. unde vi 7, 4: e cosi doveva esset'e coi Sassoni, che avevano deposto Arrigo!

5. Una particolarità di queste scuole è anche il modo di citazione dei testi. Vi abbiamo già accennato incidentalmente ; ma è mestieri dime qualcosa più di proposito. Si tratta di forme libere, affatto diverse da quelle che troveremo poi a Pa- via e a Bologna : specialmente qui ; e non e' è libro, uscito dalle vecchie scuole, che non le adoperi. Le Questiane$ de iurii subti* Utatibms e la Summa CodieiSj sono per questo riguardo uguali al ffrachjfloguM, alle Exceptiones, al Libello di Pietro Crasso ecc. L'autore delle Questioni si tiene molte volte sulle generali. Cita il Liber InsMutionum, i Reaponsa prudentum, le Constitw tione$, senza più, o anche parla di una Conatitutio Leoniana, Con$tanHniana^ ecc.|. e una volta ricorda un passo del Codice con tutta l'iscrizione: Conatitutio Theodoaii et Valentiniani miaaa ad aenatum. Quanto alle citazioni vere e proprie, ecco la forma di alcune che si trovano nelle Questioni : Set aub t. de condict. ca. d. ea. non aeeuta in dig. acriptum eat; Ut in illa constiiutione InaUniani habetur 'Oeneraliter' et cetera. Ripetiamo sono forme libere; altrimenti si legge nella S^umma Codicia: Ut in eanst. illa reperitur ^ Si auper poaaeaaione' et ce. E a Ra- venna si trova di peggio. Pietro Crasso cita parecchi passi del

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Codice valendosi sempre della iscrizione; e anche nella legge del 1047, sul giuramento degli ecclesiastici, suggerita come credia^ mo dai Ravennati, si trova citata una iscrizione: mentre non e' ò assolutamente traccia del modo di citazione usato dai Lom- bardisti e dai Bolognesi. E cosi il Brachylogua e le Exceptiones. A ben guardare, non havvi che un passo in cui Fautore delle Exceptiones citi un titolo esattamente col riprodurne la rubrica; le altre citazioni sono piuttosto vaghe. Molte si limitano ap- punto a indicare la iscrizione, per es. cosi: Marcianus Ub. II Institutis; e altre non citano che la fonte in generale: Legitur Digestis Didt Codicis regula etc.

Capo II. Scuola langobarda e scienza langobarda.

§ 1. - LA SCUOLA DI PAVIA.'»

1. Alle scuole di diritto romano contrapponiamo quella langobarda di Pavia. È una scuola che era già in fiore nel secolo XI, e ne fanno fede più fonti, che parlano di maestri e discepoli, e di questioni che si agitavano tra que' giureconsulti. L'espositore a Guglielmo il titolo di dominuSj e insieme ri- corda i discipuU Bonifilii, e le frequenti dispute di Lanfranco.

I fattori, che concorsero a formarla, sono : la curia palatina, che si stabili a Pavia sullo scorcio del secolo X, e la scuola di grammatica, delia quale si hanno traccie fin dai tempi di re

** Bibliografia. Merkel, C^tichichU de» LctngobardenréchU, Berlin, 1860. Traduz. ampliata di Bollati, Torino^ 1858 e nel voL in, della Stona di Savi^ny. N. N., Scuola di legge in Pctvia ne^li ** Annali ^ di Capuano, voi. Y, Napoli, 185». BoRETius. PraefcUio ad librwn Pap%ensem, § 80 segg. nei ** Mon. Qerm, , tjegés IV, Bluhme, Bolla Lombarda^ parimente nei *" Mon. G^rm. ^ Leges lY, p. & eeffg. Anschùtz, nel *" Jahrbnch^ di Bekker e Muther, ILp. 474-476. Nota, Lafilo$tfia, la JUotofia del diritto e l* Università^ Milano, 18G2. Fickke, Fonchunaen, HI, p. 44 segg. Ghuuia A., Lan/ranc^ Notioe biographiqne litteraire et philosophique. Paris, 1850. Talini, Di lAtnfrcmco pavese e della coltura daenea in Pavia nel medio evo (** Aroh. storico lombardo ^ 1877 e con aggiunte negli Scritti di storia ed artCj Milano, 1881). Db Grozals, Lan/rane Archevéque de Vantorbery. Sa vie, eon eneeignement, sa politiaue, Paris, 1877. Fittino, Dte Inelitutionengloese dee ChuUcaueue, Berlin^ 1890. dcHUPFBB, Le università e il diritto (nell^opera *^ Gli al- bori della vita italiana III, Milano, 1891). 8 ai^vioi^i^ Intorno ali* uso della Lom- barda presso i alossatori e giuristi del secolo Z/FJnel voL di ** Studi di storia del diritto itaL dedicati a F. Schupfer „, Torino, 1898).

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Coniperto, ma che propriamente deve essersi rialzata sotto gli Ottoni, quando, sedate le lunghe e antiche turbolenze, gli animi riversarono negli studi la loro gagliardia. La scuola di diritto si svolse appunto dal seno della curia palatina ; ma l'antica scuola di grammatica vi predispose il terreno.

Se più vuoisi, furono i giudici palatini, o alcuni di essi, che, senza lasciare la pratica, cominciarono ad insegnare. Infatti, Sigifiredo, uno dei più antichi glossatori della scuola, era index sacri Palata, e parimente lo erano Bonfiglio, Armanno, Walfredo; ma anche altri fungevano da giudici o patrocinavano cause. La Expositìo loro il nome di iudices e causi dici.

D'altra parte, erano uomini venuti su nella vecchia scuola di lettere. Fu questa loro educazione, che probabilmente li spinse a consacrarsi allo studio ed all' insegnamento del diritto : certo, se riescirono a pulirlo e ad elevarlo a teoria, fu col soccorso della grammatica, della dialettica, della ragione romana imparate in quella scuola; altrimenti neppure la scuola di diritto avrebbe potuto attecchire. Cosi Walcauso è chiamato reihor nella col- lezione che va sotto il suo nome: reciis quod strinaÀt rhetor habenis Walcausus meritus. Il glossatore Sigifredo, ricordato dianzi, era versatissimo nella rettorica, oltre che nel diritto. Lanfranco, lo abbiamo già detto, era stato educato fino dagli anni puerili in scholis liberalium artium et legum eecularium ad suum marem patriae.

Aggiungiamo una osservazione. Per comprendere come que- sta scuola sia sorta, non dobbiamo dimenticare che correva una età, in cui tutto, o quasi, si trovava abbandonato all'iniziativa individuale, specie in Italia, il paese delle grandi iniziative. Era- vamo ancora molto lung^ dai tempi odierni, in cui ogni cosa si suole attendere dal governo, e di ogni cosa lo si rende respon- sabile. D'altra parte, c'erano stati sempre maestri, ohe avevano insegnato privatamente verso retribuzione. Col che non voglia- mo dire, che tutti sieno riesciti a fondare stabilmente una scuola. Per lo più la scuola nasceva e tramontava con l'uomo; ma a volte riesciva a mettere radice. Qualche individuo esercitò un fascino troppo potente, perchè altri non ne seguisse l'esempio nel medesimo luogo; e allora non era difficile ohe la scuola acquistasse un carattere durevole. Cosi accadde a Pavia, e ac- cadrà più tardi a Bologna.

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2. Le prime origini della scuola di Pavia risalgono proba- bilmente al tempo di Ottone I. Le glosse alle leggi langobarde, e massimamente quella perpetua, che si conosce col nome di Expo- sitio, fanno distinta memoria di una giurisprudenza surta in una età, omai remota, durante la quale la teoria del diritto pratico ave- va ricevuto solida forma. L'età in discorso corrisponde, senza fallo, a quella degli Ottoni: primamente, perchè i suoi giureconsulti ave- vano veduto le pratiche osservate nei giudizi di Leone vescovo di Vercelli, che fu nel seguito di Ottone I e vescovo palatino di Ottone m ; e poi, perchè non conoscono altre leggi langobarde di età posteriore, trovansi più citati nelle glosse di queste leggi. I loro successori, della seconda metà del secolo, li qualificano col nome di Antiqui iudices^ Antiqui causidici, o anche Antiqui semplicemente, e talvolta Aniiquissimi, senza dire chi fossero: ma ciò non toglie che questo o quel giureconsulto, anche di tempi posteriori, potesse annoverarsi tra gli Antiqui: bastava che ne seguisse l'indirizzo.

Lo studio poi, continuava ancora nel secolo XII; e, nono- stante la grande fama, in cui era venuta Bologna, lo si fre- quentava volentieri, e ci si veniva anche da lontano. Un for- mulario di lettere, compilato a Pavia tra il 1119 e il 1124, ne riferisce una di uno scolaro allo zio, che comincia cosi: Veatre patemitati, patruelium piissime, innotescat me exulem Papié stu- dio legum... vel dialetice... alacrem aderere. Lo scolaro, manco a dirlo, si rivolgeva al piissimo zio per quattrini.

3. Del resto non conosciamo che pochi giureconsulti di questo studio pavese. I principali sono Walcausus, BonusfiliuSj Lanfrancus,

Le antiche scritture bolognesi danno "Walcauso per giure- consulto pavese, e certo fu uno de' più influenti della scuola. Noi pensiamo che sia il "Walcauso, che si trova ricordato come giudice nella Marca veronese, dapprima nel 993 a Verona, e più altre volte negli anni successivi fino al 998, a Verona, Vicenza, Treviso e Ceneda. Ad ogni modo lo si deve cercare nel secolo X e nel principio dell' XI, perchè l' Espositore ne parla come d'uo- mo vissuto prima di lui, e anzi prima di Guglielmo, e non lo troviamo mai disputare con questi o altri lombardisti posteriori agli Antiqui.

L'altro giureconsulto Bonfiglio era giudice del sacro palazzo^

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per testimonianza dell'Espositore, e infatti fonse più volte da giudice, tra gli anni 1014 e 1065, a Pavia, a Carignano, poi di nuovo a Pavia, a Fermo, a Bergamo, a Roncaglia e nella Tu- scia. L'Espositore accenna alle frequenti dispute, che ebbe con altri giureconsulti, come Guglielmo, Bagelardo e Lanfranco. Si sa eziandio che lasciò una scuola, conosciuta col nome di Dieci- puli Banifiia.

Lanfrttnco nacque a Pavia nel 1006, e prese parte attivissima alle discussioni dello studio. Non disputò con gli Antiqui, ed era troppo giovane per farlo ; ma disputò con Guglielmo e con Bonfiglio, anche coi discepoli di costui, e quasi sempre riuscì vittorioso. Fu uomo molto versato nel diritto, e i giudici della sua terra natia lo tennero in gran conto. Nella storia della scuola rappresenta l'indirizzo romanistico in contrapposizione a quello prettamente lombardistico di Bonfiglio e dei suoi discepoli.

Altri giureconsulti occupano un posto subordinato. Ij Expo- sitio ricorda: Sigifredo, giudice del sacro palazzo, versatissimo nella rettori ca, che amava firmarsi con lettere greche; Gugliel- mo, giurista non parvi ingenti, che si trovò più volte alle prese con gli Antiqui, sebbene qua e ne accettasse le idee, ma che disputò anche con Bonfiglio ; Bagelardo, altro oppositore di Bon- figlio, e Ugo, figliuolo di Guglielmo. Altri giureconsulti figu- rano nelle glosse alla Lombarda: Armanno, contemporaneo di Bonfiglio, e Walfredo; ambedue giudici.

Tale era la scuola: resta a vedere che cosa abbia prodotto, sia per la storia delle leggi langobarde e sia per la scienza.

§ 2. - LA SCUOLA DI PAVIA E LE COLLEZIONI DELLE LEGGI LANGOBARDE. ^

1. L'opera dei giureconsulti pavesi comincia con la col- lezione delle leggi; ma già prima ci si era lavorato attorno, perchè Everardo, principe del Friuli e conte della Bezia, aveva, nel secolo IX, fatto compilare una raccolta sistematica degli

** 8lbllo|fraf1a. -^ BimandiftiTio alle opero citate nella nota precedente. Per ciò ohe riflruarda le edUioni. la Coneardta de tinpUis eatuit fa pubblicata dal Blchx I nelle Lecee, FV, p. 256 seffg. ; il LiUr legis Langoòttrdarum PapiensU dal Boamcs nelle ■tesso toL delle Leges, p. 685 segg. e ad esso si appoggia

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Editti, conosciuta sotto il nome di Concordia de singulis causis, allo scopo di agevolarne l' uso. In questi tempi ne furono fatte altre. Già sotto gli Ottoni si cominciò a mettere assieme i Ca- pitolari, e ne abbiamo la prova nella carta milanese del 988, che già conosciamo. Essa parla appunto di un Capitulare lan- góbardorum ; ma la estensione di esso dev'essere oscillata a lungo prima di fissarsi, dacché i codici più antichi presentano ancora delle incertezze. Ora, è verosimile che la scuola non sia stata estranea a questa raccolta; ma ad ogni modo ne ripigliò il la- voro. Perchè il Capitulare fu considerato originariamente come un'opera affatto diversa ddiiVEdietus; ma poi l'uno e l'altro ven- nero uniti in una legge sola; e senza dubbio lo si deve alla scuola di Pavia. È cosi che nacque la collezione cronologica, che i moderni chiamano Liber Papiensis ; ma che le fonti con- temporanee distinguono col nome di Liber legis Langohardorum, Lex Lombarda o anche Lombarda confusa non intitulata. La quale, se vogliamo, è un lavoro piuttosto imperfetto, che non corrisponde neppure alle intenzioni del compilatore, essendosi egli proposto di raccogliere tutto il diritto vigente, mentre molte cose gli sono sfuggite, e dall'altro canto ne ha inserite parecchie che non trovano il loro riscontro nelle leggi ; e non- dimeno il libro riuscì a farsi largo.

2. Per più riguardi diversa è un'altra collezione cronolo- gica, detta Walcausina, Contiene non poco materiale che manca nel Liber papiensis; cioè anche le leggi che erano state abolite, o che erano andate in disuso; e inoltre ne altera alquanto l'or- dine originario, allo scopo di agevolarne l'intelligenza. Qua e ne muta la lezione, e, ciò che più importa, aggiunge delle for- mule ai capitoli per uso del fóro, e un cumulo di glosse, alcune delle quali, inserite nel testo, si presentcmo quasi fossero l'opera del legislatore. Il linguaggio è molte volte quello che si addice a leggi ' tJtt diximus ut dicturi sumus nisi aliud futurum a

l'ediz. del Padelletti nelle Fontea. La Walcausina fa stampata dal Muratori nel " Ber. Italie. Scrìptores , I, 2 e poi dal Walter, " Corp. jur. germ. I, p. 68^- 888; III, p. 58B-682. Xa prima edizione della Lambctrda vide la luce a làone nel 1512 ner cura del Boherius sotto il titolo di Leges Langohardorum «eu 0»- pitulare divi .... Caroli Magni imvereUoris. La più antica edizione glossata è queUa pubblicata a Venezia nel iSSl col titolo: Legta Langohardorum cui» ar- gutiasimis glossit D, Caroli de Tocco. Il Bluhme nelle Legea IV, p. 607 segg. ri- produce le rubriche della Lombarda Catinensia e della Lombarda vulgata. Sui manoscritti vedi Awschùtz nell' " Archivio di Pertz XI, 219 segg.

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nostris succesBoribus praecipiatur imponi ecc.; e talvolta si è addi- rittura in presenza di una nuova legge. Che se alcune sono brevi, altre assumono quasi le proporzioni di una dissertazione. Tale è la glossa a Roth. 163 : Si quia Langobardus mariens reli- querit etc. Vogliamo anche ricordare, se non altro a titolo di curiosità, che ogni re vi è presentato con un esametro, e lo stesso prologo ò in versi. Parlando di Walcauso dice :

** Est errar spreius quo Longobarda iuventus Er robot. Vtrum loqtUtur nunc pagina sentum Edicti, reetis quod strinxit rethor habenia Waleausus meriiuB, qutm laudcU scriba disertus „.

Walcauso ha dissipato l'errore: ha ristabilito il vero senso dell'Editto ! Ciò dice lo scriba disertus, e certo ha voluto signi- ficare ohe riformò l'antico libro di Pavia usato fino allora. In- fatti il rimaneggiamento è completo. Soltanto non pare vero- simile che il Walcauso, accennato nel prologo, sia stato l'autore dell'opera, quale arrivò fino a noi. Invece supponiamo che ne gettasse le basi, e che uno de' suoi discepoli poi la compisse, forse quello stesso che s'intitola modestamente scriba disertus. n quale deve avere attinto anche ad altre fonti; e nondimeno, in caso di disaccordo tra Walcauso e gli altri, non esita a pren- dere le parti del maestro. Anzi, il contrasto delle due scuole si presenta qua e con un carattere un po' crudo. Da un lato stanno gli Antiqui, dall'altro Walcauso; ma lo scriba disertus approfitta delle sigle A. e Val. per contrapporre i Valentes agli Amentes o Asini, un genere di facezie, che anche i migliori della scuola elegante non isdegnarono sei secoli dopo.

Si disputa se il Walcauso della collezione appartenga vera- mente a Pavia. Noi non ne dubitiamo punto. E anzitutto, per la testimonianza della scuola di Bologna, ricordata più su. Quando Ugolino ed Accursio lo dicono pavese, e Odofredo asse- risce ohe ò siato a Pavia, dobbiamo accettare questa loro testi- monianza, se non altro come segno della tradizione, che si era mantenuta nella scuola. Ma anche i nomi dei luoghi, che ri- corrono con maggior frequenza nelle formule, sufiraga questa opinione; perchè sono nomi, che si riferiscono a Pavia o ai suoi dintorni. Anzi talvolta ci abbattiamo in qualche indicazione, che non può assolutamente supporsi se non in persona molto

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pratica dei siti. Una formula ricorda un Bainaldo vescovo di Pavia; altre S. Siro, che era il patrono della città, e altre an- Cora il monastero di S, Pietro e quello di S, Paolo.

Riteniamo poi che il Walcauso, a cui si attribuisce il merito della collezione, sia quello stesso che ricorre già nei diplomi del secolo X, quantunque altri vorrebbe fame merito ad un Walcauso, che si trova nei documenti dell' XI, dal 1056 al 1079. Certamente egli è il solo, di cui consti con sicurezza ohe siasi occupato del testo delle leggi langobarde ; e lo asserisce l'Espo- sitore, nominandolo anteriormente a Guglielmo, che visse nella prima metà del secolo XI. Invece l'altro sarebbe stato poste- riore a Guglielmo e contemporaneo dell' Espositore : e si sa que- sto solo di lui, che intervenne a più placiti; ma si ignora che abbia appartenuto alla scuola, consta assolutamente nulla della sua operosità scientifica. Infine la collezione dev'essere stata eseguita sotto l'imperatore Arrigo II, o giù di 11, perchè contiene le leggi di lui (1020 e 1024); e d'altra parte, è certo che non comprendeva originariamente l'editto di Corrado il salico sui feudi (1037), la legge di Arrigo UE sul giuramento di calunnia (1047), e neppur quelle del 1054, che, sia pel con- tenuto, sia pel modo onde erano nate, non si sarebbero potute ignorare. Ma, se questa data ò certa, e pare che lo sia, sarebbe un po' difficile di conciliarla col più giovane Walcauso.

Del resto Walcauso si ò procacciato con quest'opera una ben triste nomea. Gli fu fatta una riputazione di falsario e fabbricatore di testi, a segno che Legge galgosina o gualcosina diventò sinonimo di legge falsificata, o per lo meno sospetta:

^ GucUcosina fm^ quapropUr sum removenda^.

Dal canto nostro crediamo che tale riputazione sia in parte meritata, per quel vezzo del compilatore di introdurre la glos- sa nel testo e parlare il linguaggio della legge. È una ten- denza, che rivela l'intenzione di gabellare per legge ciò che non era. Nondimeno vi ha della esagerazione, dovuta, più eh' altro, allo spirito di scuola. Un nuovo indirizzo, sorto sullo scorcio del secolo XI, mirava ad espungere le leggi già abrogate o an- date in disuso; e ad esso obbedisce il codice di Polirone, il quale somiglia a quelli della Walcausina, ma ha già fatto man bassa con buon numero di leggi. I Bolognesi poi, anche dopo

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introdotta la Lombarda nel loro studio, non accettarono per vere e genuine se non le leggi di quel codice; e perciò la Wal- cansina non poteva contenere, ai loro occhi, se non leggi so- spette o già fuori di vigore. Ecco, come il nuovo indirizzo dei tempi conferì a screditarla.

3. A queste collezioni cronologiche contrapponiamo la col- lezione sistematica, che si trova pure indicata col nome di Liber Longobardae o Lombardae, o anche semplicemente Lombarda.

È un nuovo lavoro della scuola, fatto per comodo del fóro, che ripiglia, per cosi dire, le tradizioni della Concordia de sin- gulis cau9Ì8 ; ma non tutti i codici la presentano nella stessa forma. Alcuni non contano che tre libri e pare che questa fosse la foggia più antica ; mentre altri ne hanno quattro, essendosi il secondo libro diviso in due. Cosi pure varia il numero dei titoli, e anche la distribuzione delle materie è diversa. La forma più antica si trova in un codice cassinese, e forse fu fatta poco dopo la metà del secolo XI : certamente il lavoro, quale è giunto fino a noi, era compiuto sulla fine di esso. Che se ta- luni codici riferiscono una legge di Lotario II di Sassonia deU Tanno 1136, ciò non deve trarci in errore, come veramente ha tratto taluni. Quella legge manca nei codici più antichi, op- pure vi si trova aggiunta alla fine ; e ciò dimostra che la colle- zione dev' essere anteriore. Anche le frequenti allegazioni della Lombarda che ricorrono nei Libri feudorum, accennano alla più antica origine di essa.

L'autore però non è conosciuto. Una rubrica della Lombarda in Gk>ldast ha questa dizione : Leges Longobardorum per Petrum Ca$inen$€m, e parrebbe che si dovesse attribuire a Pietro Dia- cono di Monteoassino, che Lotario II chiama suo Logotheta Ita» lieu8^ Exeerptor^ Cartularius et Capellanu» Romani Imperii; ma questa notizia non ò confermata da nulla. Lo stesso titolo che ne fa parola, non figura nel testo, ma solo nel Catalogo della Biblioteca di Montpellier, a cui il codice appartiene ; e poi si sa che Pietro Diacono nacque nel 1107, mentre esistono mano- scritti della Lombarda, che rimontano al secolo XI. Probabil- mente vi hanno lavorato, non uno, ma più giureconsulti ; e ce ne somministra una prova l'antico Codex Ca$inen$i$, a cui fu- rono fatte addizioni e correzioni da mani diverse, sia nel mar- gine, sia in strisce di pergamena inserite nel testo. Lo stesso

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codice accenna addirittura a parecchi ginreconsulti, che si sa- rebbero esercitati intorno a qaesto primo abbozzo. E anche la tradizione lo conferma. Carlo di Tocco, il più antico glossa- tore della Lombarda, comincia la sua glossa cosi : Compositores huius Ubri quorum nomina ignoramus. altrimenti Accursio allude a più giureconsulti : Ab iis qui compilaverunt Lombardam sub titulis competentibus sive rubrids. Si possiedono pure codici della Lombarda del secolo XII e XIII, che hanno dei commentari, in cui si traccia la storia delle leggi, e anch' essi attestano che furono in parecchi a lavorarvi : Moderni leges obvicu dispers<i8 in quandam conaonantiam reduxerunt, easque sub competentibus titulis posueruìU. Notiamo infine le varianti. Esse offrono, jier lo meno, un indizio che il lavoro sia dovuto alla penna di più lombardisti: s'incontrano, per cosi dire, ad ogni piò sospinto e riguardano sia la estensione del testo, sia la lezione, sia il nome dei singoli legislatori.

L'opera stessa, sebbene meno utile per la storia, ha giovato maggiormente, con la sua distribuzione più metodica, alla pra- tica dei tribunali e degli avvocati. L'osservazione è dello Sclopis. Aggiungiamo, ohe penetrò perfino nello studio di Bo- logna, dove riesci a soppiantare il Liber papiensis^ che era stato adoperato fino allora. La decima collatio delle Autentiche, nella sua forma originaria, che è del secolo XII, prese appunto dalla compilazione cronologica le leggi di Arrigo II e Arrigo III ; ma Ugolino le omise, quando, sul principio del dugento, rimaneg- giò quella collazione, certamente perchè l'autorità della fonte era oggimai sfatata. Anche il glossatore Colombi ricorda la Lombarda effusa non intitulata insieme con la sistematica ; ma non l'adopera, se non per rettificare gli errori storici di questa. Anzi, l'autorità della collezione cronologica non scomparve se non in misura che Bologna portò in grido il nuovo e più co- modo codice e lo difiuse in molti esemplari ; e accadde allora che il nome di Lombarda, con cui prima si era indicata anche la collezione cronologica, restasse solamente ad esso.

Un'ultima osservazione. Tutti i codici della Lombarda, che si conoscono, contengono glosse marginali e interlineari, che in parte sono contemporanee al testo, e in parte furono aggiunte più tardi fino al secolo XV. Si può dire che non ci sia testo senza glosse. Invece le formule, che trovammo nel Liber papiensts

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mancano alla Lombarda. Soltanto un codice napoletano fa ec- cezione ; ma non si può dire che provi il contrario, perchè V in- tero apparato, che contiene, è tolto di peso dalla collezione più antica e trasportato nella nuova.

§ 3. - LA SCUOLA DI PAVIA E LA SCIENZA DEL DIRITTO LANGOBARDO. ^

1. Se, come abbiamo rilevato, la scuola raggiunse il suo apogeo nel secolo XI, non farà meraviglia che appunto allora la scienza del diritto langobardo si elevasse ad una certa altezza. Anzi possiamo notare parecchie manifestazioni di questa sua at- tività scientifica.

** Bibliografia. Si vedano le opere di Mbbkbl, Borbtius, Fickbb eoo. già oitate ; inoltre : Sayxoxy, OeMA^n, p. 244 segg. ; Y , p. 174 segff^ traduzione di Bollati} I, p. 428 Begg. ; II| p. 825 segg. ANScnÙTz, Die Lot^arda-commentare des Arìprand u, Alberius^ Èinleitong. Heidelberg, 1885. Sibgbl, Die Lombardi»^ commentare (" Sitzungsberìchte der Wiener Akad.^ XI, 1862). Schupfbs, Le mnivernlà e il diritto (nell'opera n Gli albori della vita italiana « IO, Milano, 1891). Comi AD, Geeehtehte derQuellen u. LitereUur des rdm Becht» im frUheren

M, A., I, Leipzig, 188a-91, p. 8d8 9^g^ 583 segfi:. Neumeter, Notisten tur LitU ratwr^eeehiehU dee long. Rechte (" Zeitsohr.' der SaTÌ|;ny-Stiftan^ fOr R. Q.„ XX). Patbtta. V(»eeeUa giureeontuUo mantovttno del eeeolo Xll (negli ** Atti della regia

ratwrgeeèhiehte die long, Bech

Patetta. V<»ceella giureeontt ,

Aooad. di Torino XXXII, 1896). Bbsta, Voj^era di VaeeeUa e la ecuoia giuri- dica di Mantova ^ella * Bivista ital. per le acienze giaridiche « XXXIV. 1902). Edizioni. La Expoeitio vide la luoe per opesa del Borbtiub nei '^Mon. Qerm ^. Leces lY. e la riprodusse il Padellbtti nelle *" Fontea n Ir in calce agli Editti e ^ Capitolare italico. Le Quaeetionee ae monita furono pubblicate prima dal Muratobi negli * Script, rer. Ital.^ It 2, p. 16d-ir>5. poi dea C arci ani, I, d. 221- 221, dal Bluhmb, nei ^Mon. Germ. Le^S" ^V, 590 segg.^ ultimamente dal Pa- DBi.LBm * Fonte* ^, I, p. 468 e segg. Un Tr<»elatue de oratne eueeeeeioniejpnò ve- derci parimente nei ** Jk[on. Germ. « Leges IV, 605 e in PADELLBirr, L n. 492 sa^. Un altro è aggiunto a Both. 158: e un altro ancora sta nelle **Quae- stiones ao Monita , § 81. I cosi detti commentari di Ariprando e di Alberto furono editi da AirscntTZ, Heidelberg, 1855. e cosi la lumina Uifie Longobardo- rum, HaUe, 1870. Gli Argumenta atque Cofdrària ad Lomòardam di Vaocella vi- dero la luoe per opera del BestaneUa ** Biblioteca iuridica medii aevi « voi. Illy 1901. D grande Apparatue di Carlo di Tocco si trova riprodotto sempre in margine alla Lombimia. La prima edizione ò quella di Venezia del 1537. L^edi- tore però, G. B. Xenna, dice di avervi fatto non pochi ta^li, riordinandolo meglio.

Su Andrea di Barletta scrisse L Volpicklla, Della Vita e delle opere di Andrea U

Bonetto di Barletta giureeoneulto del XIII eeeolo^ Napoli, 1872. L'onera di Andrea

ha questo preciso titolo : Commentarium euper legtbua Langobaraorum, eive Iv- "\

bellue de dtffer&ntiie iurie Bomani et Longobardi, e anche casa vide primamente la luce in Venezia 1587 colle glosse di Carlo di Tocco. Il ma. dell' opera di Biagio da Moroone De differentiie in jue Ram, et Longob.^ nella biblioteca dei Oerolimini di Xapoli, porta la segnatura : n. XII. del pluteo XVII. Le dife- renliae di A. Bonrlu) col falso nome di fìeirtolo rurono ripubblicate dal Fbb- RKTTo nel 1541 insieme ad alcune sue Additionee e TraHiUue. Il libro di B. Ca- MortLO può vedersi nelle suo opero edite a Venezia 1542. L'opera apologetica del Bbrdblla, giureconsulto dol secolo XVI, col titolo : /n reliqui te turie Lati" gobardi proloquium vide la luce insieme cun lae, Carpentarii compendio artie dieeerendif Parisi is, 15i;ìJ. Poi fu ristampata a Napoli nel 1009.

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Prima di tutto si compilarono molte glosse ; ed è notabile il grande distacoOi ohe passa tra esse e le più antiche, che an- cora ci rimangono, di quel diritto. Perchè annotazioni e glosse di diritto langobardo si trovano fin dal secolo IX; ma allora l'opera degli interpreti si riduceva a poca cosa. Il Merkel os- serva in proposito : sono note spicciolate e di poca importanza sulle attinenze delle leggi langobarde tra loro : anche le traccio di diritto romano scarseggiano; e, quando si tratta di concor- dare o paragonare insieme le varie fonti, tutto si riduce ad una esposizione piuttosto informe del diritto vigente. Gli stessi glos- sari aggiunti agli Editti, hanno poco valore, perchè non con- tengono quasi nulla che non sia nel testo, e perchè compilati da persone ignare dell' idioma germanico. Ciò vale in ispecie dei codici usciti dal ducato beneventano, come sono quelli di Madrid e della Cava; mentre nei codici di Milano e d'Ivrea si potrebbe scorgere una coltura più progredita, almeno nel senso che, esponendo le analogie e le antinomie, entrano più o meno nel diritto materiale, e anche si valgono delle leggi romane, e istituiscono confronti con esse. Per es. il codice di Milano cita un passo di Giuliano, e quello d' Ivrea si richiama alle Instituta.

In generale solo il gius romano poteva sollevare in Italia la letteratura giuridica; e infatti le glosse della nuova scuola di Pavia acquistano subito una maggiore importanza. Possiamo notare fin dalle prime uno spirito tutto italiano, che anima quei giureconsulti, ereditato forse dalla vecchia scuola di gramma- tica: comunque, non v'ha dubbio, che lo studio pavese, tutto de- dito ad illustrare le leggi langobarde, riconosca subito l'auto- rità del gius romano, e il suo valore sussidiario come diritto comune, se pure qualcuno non ne fece anche oggetto di speciale insegnamento.

2. JJExposiiio contiene un brano, che riproduce appunto la tradizione della scuola: Quando Eotharis leges sucls compo^ nere coepit, qualiter legum suarum placita diffinianiur non ubique diffinivit^ sed secundum legis Romantie difflnitionem dimisit. E già gli Antiqui aderivano a questa idea. Consideravano il di- ritto romano come la legge generale : e quando l'Editto taceva, volevano che si giudicasse con essa : iuxta romanam legem, quae omnium est generalis hoc esse di/pniendum censebant. Lo stesso

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ripetono i giureconsulti che vennero in seguito: Guglielmo e TTgOy e anche altri.

Ansi la scuola di Pavia si ò resa tanto più pregevole, quanto più si è addentrata nello studio di quel diritto. Gli antiqui iudiees conoscevano le Istituzioni giustinianee, ma non pare che andassero più in : certo, non avevano ancora addestrato lo spirito in modo da sollevarlo oltre la materialità della legge. Talvolta si trovano come impacciati nel conciliare i vari passi : ad ogni modo la loro interpretazione è sempre letterale. Per es. Botari voleva punito con severa sanzione peuale colui che fosse piombato addosso ad un uomo libero et turpiter eum te^ nuerit et battuerit 9ine iusHone regis; e gli Antichi dicevano: quod 9i eum turpiter tenet et non battiderit et e converso, quod non erat culpabilis. Lo stesso Botari aveva stabilito che se una donna, dopo contratti gli sponsali, de ambos oculos excegaia ap^ paruerit, lo sposo non fosse obbligato a prenderla in moglie ; e gli Antichi osservavano: Quod si quis sponsaret aliquam monu- eulam, et postea ex ipso oculo excecata apparerei, quod eogendus esset aecipere; quia hee lex aliam non facit relinqui, nisi eam que ex utrisque oeulis postea excecata apparuerit. Un altro esem- pio. L'editto di Botari prescriveva che, se un uomo libero avesse avuto commercio con donna libera, e poi si adatt€t8se a sposarla, doveva nondimeno pagare venti soldi per la colpa: et si non contenerti ut eam habeai uxorem, componat solidos cenium medietatem regi et medietaiem ad quem mundius de ea perienue- rii. Ora, gli Antichi pensavano: Si sacerdos tei quislibei^ cui prohibiium est uxorem habere, hoc adulterium perpetraverit, il- lum centum solidos non esse compositurum, quia hec lex non alium predpit centuin solidos componere^ nisi qui illam adulteram uxo- rem posset ducere. Che se gli Antichi si giovarono del diritto romano, lo fecero solo per colmare le lacune del langobardo, nei casi a cui questo non provvedeva : allora vi ricorrevano, come a legge generale; se no, no.

Invece Guglielmo conosce anche il Codice: e la sua inter- pretazione è già più larga. Non si appaga più della lettera della legge, si crede in obbligo di star ligio ad essa; ma ne ab- braccia lo spirito, e, con la scorta del diritto romano, cerca d' introdurvi qualche principio più sano di giustizia o di equità. In questo senso combatte gli Antichi e Bonfiglio. Per es. prò-

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pugna contro gli Antichi la causa della libertà e il diritto dei liberti e cerca contro Bonfiglio di restringere l'oso del duello, sempre appoggiandosi al Codice. Lo stesso Guglielmo e suo figlio Ugo sostengono che la composizione del deposito negato, dev'esser fatta secondo la legge romana, nonostante che si tratti di un langobardo, e citano nuovamente il Codice. Parimente determinano le conseguenze della violenza giusta i principi del Codice. Anche Lanfranco, maestro di tutti i suoi contempora- nei, batte la scuola di Bonfiglio con le parole di G-iustiniano.

Ma questo indirizzo appare soprattutto nell'autore di quella Expositio, a cui dobbiamo le principali notizie sullo studio pa- vose: la citammo già parecchie volte, ma gioverà esaminarla più da vicino.

3. L'opera è una illustrazione delle leggi langobarde in forma di glossa perpetua alla Lombarda, scritta, a quanto pare, da un discepolo di Guglielmo, poco dopo il 1070, e segna vera- mente un progresso. L'autore non si contenta di interpretare le singole leggi, ma ne ritesse, per cosi dire, la storia dom- matioa : espone le opinioni degli altri giureconsulti, le loro di- spute, e il modo con cui si studiavano di conciliare i passi di- scordi. Insieme rivela una grande dimestichezza col diritto ro- mano. Egli mette a partito tutte le fonti, che allora se ne possedevano : le Istituzioni, i primi nove libri del Codice, Giu- liano, e non trasanda neppure il Digesto. E si rivela già nella prefazione. Comincia dal dire: Intentio legis est facere homines bonos non solum metu penarum sed etiam exhortatione premiorum, e questo è un primo ricorso al Digesto. Un altro viene subito dopo: Lex est commune preceptum virorum pruden- tium cansultum, delictorum quae sponte vel igtiorantia contro- huntur coerdtio, eommunis reipublicae sponsio. Infine conchiude : Benignius leges interpretandae sunt, ut voluntas eorum adimplea- tuVj che combina pure con un passo delle Pandette.

r Espositore si contenta di riempiere le lacune del diritto langobardo con le leggi romane; ma, al pari di Guglielmo e Lanfranco, e anche più di essi, lo trae addirittura ai principi romani, interpretandolo con la loro scorta, abbandonando l'ana- logia desunta dal diritto patrio, per surrogarvi quella delle leggi romane, sostituendo persino le disposizioni romane alle lango- barde. Citiamo alcuni esempi. Botari aveva stabilito, che nes-

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sano dovesse diseredare il proprio figlinolo, nec qmd et p€r h- gem debetur aldi thifigare^ ammenoché non ci fosse una colpa certa; e l'Espositore osserva: In hoc quod dicit: nec quod etc. respexit (Rotharis) in Novellam quae dicit quod pater filio debet tertiam pattern rerum suarum, si unus sit tantum, sive duo sim tres (aut) quatuor, si plures medietatem. Un'altra volta si di- sputava sulla collazione del faderfio. Botari aveva ordinato che la vedova, tornata alla casa paterna, dovesse succedere al padre insieme con le sorelle, salvo a conferire il faderfio; poi Liut- prando chiamò alla eredità anche la donna maritata, e sorse la questione se dovesse pure conferirlo. L'Espositore non sa far di meglio che richiamarsi alle Novelle: Per legem Noveìlamm quoque tam maritata quam vidua phaderphium in confasum de- bei ponere. Un altro esempio : Botari aveva accordato ai pa* drone di contrarre matrimonio con la propria aneella, purché la rendesse libera e la £EU)esse sua moglie legittima per gaìrethinx; e l' Espositore soggiunge : Haec lex dicit quod debei fieri de un- cilla propria, si domintM eam voluerit matrimoniare, «ed de omni ancilla legitur in Codicis septimo libro. Altrove è tutta la teo- ria dell' inventario, che egli applica senza più alle leggi lango- barde: Sciendum est quoque quod si heredes intenta rtnm fecerint, ut lex romana in Novellis precipita quod ex debito iHiu« mortui quod aia fecit tantum solummodo tenentur, quantum ex eius suc- cessione habuerint. £ si richiama anche alle Istituzioni: In In^ stitutis idem legitur, scilicet quod omne debitum persoivat, sed iuxta gue sibi de hereditate contigerit. Egli ha tanta conoscenza del diritto romano, da indurre il Ficker nell'idea che possa avere appartenuto ad altra scuola che si trovasse in più stretta relation t con Bologna. Anzi, il dotto uomo raccolse alcuni indizi per uno Studio di Nonantola, che chiama Scuola romanistica di giu- reconsulti langobardi; ma in realtà riuscì solo a provare che vi erano dei giuristi o avvocati giudici, quali si trovano anche tu altre città, mentre non o'é il benché menomo indizio che vi ab- biano insegnato. Invece parecchi passi della Expositio accen^ nano a Pavia. Vi é ricordato un Giovanni papiemis episcopuB^ nn Martino tidnensis episcopus, il Ticino e coloro ohe si ba* gnavano nelle sue acque, infine le contee di Novara, YercelU e Milano con cui la corte confinava.

4. Tale era VExpositio. Noi ci siamo intrattenuti alquanta

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su di essa, come quella che in realtà segna il punto culminante della scienza langobarda; ma, del resto, anche altri lavori vo- gliono essere ricordati. Ci sono le Formule^ di cui già toc- cammo; e ci sono taluni lavori indipendenti, i quali espongo- no i principi del diritto nazionale, che vigeva nell'alta Italia» in modo sistematico con la scorta di varie leggi, e qua e pa- ragonano tra loro il diritto romano e il germanico. Sono lavori, che prepararono la via ai compendi teorici, venuti in seguito. Primo di tutti le QucLestùmes tjtc Monita, che è un sommario di diritto romano, langobardo e salico, composto, a quanto pare, sul principio del secolo XI, se non anche nel X; e poi vari trattatelli sul diritto successorio, sulle cause che andavano giu- dicate senza giuramento, sul duello giudiziario e altre materie processuali. Si conserva anche un piccolo studio sul modo di compilare i documenti.

6. Insieme interessa di vedere come questi Lombardisti citassero le leggi. È un metodo, che mostra nuovamente la loro grande conoscenza delle fonti, e che doveva £Etr breccia : vogliamo alludere alla citazione per titoli e parole iniziali, sostituita a quella per numeri di libri, titoli e leggi. Era il metodo pre- dominante, che s' incontra già per tempo presso questi giuristi, come può vedersi nelle glosse del manoscritto d'Ivrea; ma che del resto ricorre in tutta la letteratura del libro giuridico pa- vese, e non solo pei testi langobardi, ma anche per quelli ro- mani. Nelle glosse alla Walcausina se ne trovano esempi rela- tivi alle Istituzioni, al Codice e alle Novelle. Ne ricordiamo uno : Per usum tractum a Romana lege : *^ Cum expoaitum sii ubi legitur ^ Conceptum . Lo stesso metodo ò tenuto dalla Expa^ sitio : che se qualche citazione piuttosto vaga s' incontra qua e là, in generale vi si nota molta esattezza. Per es. Expos. a Roth. 166: Velut Institutionum lege que est: ^ Omnia rea que dominio noatro aubicitur „; e poi ^Si quia in poteatate patria eat impuòea ne auctore quidem patre obligatur ^. Occorrendo di ri- chiamare il Codice, si citava cosi: In capitulo qtiod eat oppure In lege que eat, e vi si aggiungevano le parole con cui comin- ciava. Per es. Expos. a Liut. 18 : In Codicia noni libri eapitu* lo.... quod eat "5t quia crimen intenderit „. Expos. a Eoth. 223: Ut in Codice legitur in lege que eat: ^ Manifeati et indubitati iuria eat „. Medesimamente si legge nelle Quaeationea: In libro

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qui voeatur Insiiiuia ** De fideieammissariis in lege que inchoat sic: * Nunc iranseamus ad fideicommissa ^^ .

6. Del restOi sebbene la sooola di Pavia avesse una im- portanza reale a segno che i suoi lavori si diffusero in tutta Italia, non seppe conservare il suo lustro oltre il secolo XI. Scemata l'autorità imperiale sotto gli Arrighi, scemò eziandio quella della curia palatina, e, con essa, anche la scuola venne declinando ; ma soprattutto valse la nuova università di Bologna ad eclissarla.

Soltanto non conviene credere ohe gli studi lombardistici si ponessero da parte. Ricordiamo, tra le altre, una Summa, piutto- sto magra, che un gitirista ignoto compilò nel secolo XII come istradamento allo studio della Lombarda; e anche i due Commen- tariy che vanno sotto i nomi di Ariprando e di Alberto, ma che veramente sono quaderni di scuola ; e parimente i Contraria legis longobardorum e gli Argomenta Lombarde di Vaccella, giurecon- sulto mantovano, ohe un documento dell'anno 1189 annovera tra i giudici del seguito del vescovo Enrico, mentre un altro del 1191 lo fa assistere al trattato che, in quell'anno, fu stipulato tra Mantova e Verona. Abbiamo nuovamente a che fare con la- vori di scuola, e forse si tratta di una nuova scuola formatasi a Mantova, altra sede di un palazzo regio, appunto per opera dei giudici palatini. Probabilmente Ariprando è il giureconsulto, che un documento dell'anno 1163 ricorda come giudice di Man- tova, e intomo a lui si raccolse una schiera di seguacee, tra cui Alberto suo discepolo e antagonista, e Vaccella che fu coetaneo di Alberto. Ma siamo sempre in un periodo di decadenza. Lo stesso Vaccella, che pure studia attentamente le antinomie, e mostra, anche con un certo acume, come talune questioni si po- tassero risolvere argomentando dalle leggi, in generale non sa sollevarsi a vere costruzioni teoriche, e anche l'interpretazione è meno larga di quello che avrebbe potuto essere con una mag- giore conoscenza delle fonti giustinianee.

Più tardi gli studi di diritto langobardo rivivono nella bassa Italia; e già nel secolo Xm, per continuare nei seguenti. Il ricco apparato di glosse che era venuto formandosi intorno alla Lombarda, ricevette appunto sul principio del dugento (1207 e 12U6) la sua forma definitiva per opera di Carlo di Tocco, che fu detto l'Accursio della giurisprudenza langobarda ; e al secolo

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XIII appartengono pure le Diffèreniiae di Andrea Bonelio da Barletta ricche di raffronti col diritto romano. Questo scrittore spiega in trentanove titoli come le due leggi differissero, e narra anche la ragione che lo indusse a scrivere. Si trovava un giorno nel fòro, e un avvocato degli ottimi aveva già allegato molte cose de iure romano per il suo cliente, quandp sorse dall'altra parte un avvocatello qualunque, e, tirato fuori di sotto la cappa il diritto langobardo, lo mostrò al giudice. La causa andava trat- tata appunto col diritto langobardo; e l' avvocatello vinse, rima- nendone l'avvocato magno frigidus et verecundus. Andrea Bo- nelio concepì fino d'allora l'idea del suo libro. Un altro trat- tato del giudice Biagio da Morcone, sulle differenze tra il diritto romano e il langobardo, fu scritto verso il 1336 e giace tuttora inedito nella biblioteca dei padri Gerolimini di Napoli. Biagio, della famiglia Facone, aveva negli ultimi anni del secolo Xm studiato leggi sotto Benvenuto di Milo, pure da Morcone, lettore in Napoli, che egli stesso ricorda con speciale deferenza, e suc- cessivamente era stato avvocato in Terra di Lavoro, Molise, Abruzzo e Capitanata ; infine consigliere di re Roberto. La sua opera è una delle poche in cui il diritto langobardo sia stato esposto sistematicamente e scientificamente e trattato con lo stesso metodo del diritto romano. Fu appunto la deficienza di simili libri, che mosse Biagio a scriverla. Segue G-iulio Ferretto che nel 1641 pubblicò per le stampe le Diffèreniiae di Andrea Bonelio, attribuendole a Bartolo, insieme con alcune sue aggiunte e taluni trattati destinati, com'egli dice, a scopi pratici: un tractatus diseordantium iuris eivilis et iuris Longobardortim prae- ter casìiÈ existentes in summa Bariholi, uno de verborum signi- ficatione iuris Longobardi, e un terzo de regulis iuris Longobardi, Anche un frate di Montecassino, Benedetto Canofilo, ci ha la- sciato un libro sul diritto langobardo e romano, che può vedersi nelle sue opere, Venezia, 1642 ; e parimente Prospero Bendella^ ancora nel 1660, in reliquie^ iuris Longobardi proloquium.

Così, il diritto langobardo ha continuato a lungo ad essere oggetto di studio : senonchè il diritto stesso aveva cominciato a declinare o era declinato. Già Carlo di Tocco aveva dichia- rato qualche passo come non pratico, e anche Andrea Bonelio omise alcuni casi perchò inutiles et inusitati. Cosi del pari Biagio da Morcone. Egli stesso ci fa comprendere che il suo

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diritto non era più it diritto di Kotari, bensì quello che, per via di uno svolgimento suocessivo e graduale, si era formato nella bassa Italia in sei secoli di vita ; e anche ha cura di infonnaroi come si fosse foggiata la consuetudine del tempo suo a differenza della teorìa^ e come la legislazione del Kegno avesse influito sulla pratica. Insieme giova avvertire che tutti questi lavori hanno subito più o meno V influenza della nuova scuola di Bo- logna. Carlo Tocco, un allievo di essa, ne cita spesso i mae- stri nel suo Apparato alla Lombarda, special mente Irnerio, Bul- garo, Fillio, Àzone, Piacentino, Cipriano. Biagio da Mor- cane oela la sua predilezione per il diritto romano, di cui già neUa prima gioventù aveva raccolto i fiori e i fnUti, e che ora esponeva tuttavia studioge et cum animi anxietatef mentre chia- mava fetido il diritto langobardo. L'influenza bolognese è ma- nifesta ; e dall'altra parte la scuola di Pavia giovò, più che d'ordinario non si supponga^ a formare la scuola di Bologna e quella grande vita degli studi giuridici, a cui si il nome di rinascimento o risorgimento.

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Sbzionb n. L'EPOCA NEOLATINA

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I

L'epoca, che chiamiamo neo-latina^ ha un carattere affatto diverso da quella che ci tenne occupati finora. L'elemento la- tino si è affermato sin qui faticosamente accanto all'elemento germanico; ma in realtà era questo che imperava, e già sap- piamo dove mettesse capo. H trionfo del germanesimo do- veva essere il trionfo della feudalità. Li vece la nuova epoca, pur trovando nelle istituzioni feudali il suo addentellato, sorge con idee e istituzioni diverse, e forse riceve il primo impulso da Boma. È l' idea romana che si allarga sempre più e la sua impronta all'epoca. H sacerdozio e l'Lnpero, il principato e il municipio, tutto viene atteggiandosi alla romana; perfino il feudo militare si modifica sotto l' influenza di essa per accogliere un'idea civile; e anche le fonti. legislative si riannodano a tutto questo grande movimento..

Certo, le antiche fonti non si perdono. A differenza di ciò che accadde in Germania, tanto i Capitolari quanto le leggi po- polari mantengono la loro efficacia, almeno in parte, in quanto pareva ancora compatibile con le mutate condizioni sociali e po- litiche e con la nuova vita economica che si era svolta nel frat- tempo. Le professiones juris persistono a lungo ; e dura tutta- via una certa attività scientifica intorno ai vecchi codici. Le cosi dette estravaganti e remissorie, la recapitulatio e alcune formule e glosse della legge salica sono nate in Italia ; e quanto agli editti langobardi e al CapitulariuSy conosciamo già i la- vori dei Pavesi, ohe rispondono appunto a quei tempi. La stessa

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scuola di Bologna na fece oggetto di studio ; e nondimeno il principio delle leggi personali cede sempre più il paeso a quello della territorialità. È un nuovo principio che inaugura la nuova epoca ; ma insieme vediamo sorger» altre fonti meglio adattate ai tempi.

L'unità politica e T unità religiosa hanno entrambe la loro legislazione: da un lato, le costituzioni imperiali e dall* altro, il diritto ecolesiaetico ; e alFuna e air altra fa riscontro T unità della leggOy cioè propriamente il diritto romano, che acquista sempre più il carattere di legge viva ed un'autorità che può dirsi universale. Inoltre è manifesta una ricca fioritura di leggi provin- ciali e locali: le costituzioni dei principi, che si svolgono col ere* scere della loro autorità^ e gli statuti municipali, che seguono passo passo T autonomia cittadinesca. Insieme si raccolgono la oonsuetudini dei feudi e dei livelli, delle arti e dei commercip

Il compito, che ci proponiamo, è appunto di studiare tutte codeste fonti partitamenie, cercando di coglierne lo spirito.

TITOLO I.

LEGGI E CONSUETUDINI

Capo I. La territorialità dei diritto.^^

1. B grande sogno di una legge unica, ch'era balenato alla mente di Agobardo, e che l'illustre prelato avrebbe voluto compiere con l'intervento di un imperatore, si è realizzato per forza propria appunto in quest'epoca, dove più presto, dove meno ; e i giuristi ne mettono molto bene in evidenza il carattere e la portata. Già Accursio si era proposta la questione : Sed quid si interest rei ibi convenivi ubi promisit .... quia ibi eonventus haberet in integrum restitutionem iure Romano^ hic ubi convenir tur non haberet iure Longobardo^ ut qui maior est 18 annis et minor 25 f Si trattava di una questione relativa alla maggiore età, cosa che s'altra mai riguardava la persona, e nondimeno lo stesso individuo avrebbe potuto vivere in un luogo col di- ritto romano e in un altro col langobardo secondo che questo o quello vi imperava, menfre per l'addietro avrebbe portato seco il suo diritto dovunque si fosse recato. E cosi Odofredo; il quale, parlando della condictio de eo quod certo loco, osserva che un minore di venticinque anni poteva per diritto romano essere restituito in intero, ma non cosi per diritto langobardo quando

** Bibliografia. Vedi gli autori oliati nella nota 2^ specie SAyiavr, Pa- DSI.LITTI, Saltigli e Stouff. Aggiungi: Zdekaubb, La eonfestione di legge nei pota doUUi di Firenae ^ Bivista itaL per le sciente giuridiche « m, 1887). Per la Germania vedi: Sohulz, 2><m Urteil dee Kiinigegeriehte utUer Friedrich I iìòer die Poretendorfer Besiùning dee KloeUrt PforU, nella *" Zeitsohr. d. Ver. far thùr. Gtosoh. « IX (nuova Berie, I). p. 155 aefi"^. ; Nbumstsb, Die gemeinrechU, JEnttoikel' ung dee interruU^ Privetl-u, Krafreehte !>%» BcMrtolus. 1 : 2>te Oelitmg der Siam- mesreeìUe in ItiUienf Mùnchen, 1901.

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avesse raggiunto i diciotto, e propone questo caso: cifra Padtim servaiur ius Romanorum, ultra Padum servai ur im Lombardo- rum .... mutuavi tibi 100 Flarentiae reddenda Bonomae^ conve- nio te Flarentiae quia non solois Bononiae^ dicis tu: domine iude^ interest mea conveniri Bononiae quia ibi restituor, aed Florentiae restitui non possum. Odofredo si domanda: numquid huiusmodi interesse habehitur ratio? E parimente Baldo, dopo avere pre- messo che per diritto langobardo la donna non avrebbe potuto agire validamente che col consenso del marito, formula il se- guente quesito : Pone supposito iure Longobaràorum qttod mulier Perusina sit nupta Florentiae ubi observatur ius Longobardorum^ numquid Ma mulier de bonis quaé habet Perusti^ poierit iestari Perusii vivo marito et eo non consentientef

Vogliamo dire con ciò, che per tutti coloro, che vivevano stabilmente nello stesso paese, venne svolgendoììi un diritto unico sulla base di quello della maggioranza degli abitatori, o della schiatta dominante, abbracciando tutti in una unità senza ri- guardo alla loro origine. Onde, diversamente da quanto abbiamo veduto nell'epoca anteriore, non era più la differenza di schiatta I

che producesse una differenza della legge; ma era piuttos^to il ]

domicilio, che, al di sopra di qualunque differenza di eohiattaf I

determinava un diritto unico per tutti coloro che avevano preso stanza nel luogo. E d'altra parte non possiamo dire che tale uni- formità di diritto escludesse i diritti speciali. La plebe aveva certamente i suoi statuti; coel del pari le corporazioni degli studi e delle arti, e anche le ville ; il foro eccleaiasttco o la corte feudale si regolavano col diritto civile. Soltanto la me- moria delle origini andò perduta, assorbita dal domicilio. E doveva accadere cosi. Essa non avrebbe potuto conservarsi, se non a patto di tenere esatti registri sui rapporti di parentela e di nazionalità degli individui ; ma se molte famìglie possede- vano archivi propri, e colla scorta degli atti, che vi custodi* vano, sarebbero anche state in grado di ricostruire la genealo- gia della famiglia, i poveri ne mancavano completamente. Che cosa vi avrebbero messo? Dall'altro canto i vari diritti non erano più cosi rigidamente contrapposti gli uni agli altri, corno in sulle prime. Anzi, la comunanza degli interessi e della vita, dopo non molte generazioni, li aveva avvicinati. Accadde ciò coi diritti barbarici germinati dal medesimo ceppo; ma anche il

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contrasto, già cosi crudo, della schiatta latina e della germa- nica, più non esisteva: vissute da secoli sul medesimo territorio, runa e l'altra erano venute sempre più fondendosi; e la fusione doveva, presto o tardi, &r luogo ad una nuova nazionalità. Ne abbiamo la prova nel linguaggio, che è Tespressione più sem- plice e più palmare del processo di unificazione, che si compiva nel terreno etnografico; ne il diritto poteva sottrarsi a questa leggo. E già la comodità del commercio doveva condurre a un tale risultato; infatti, per accennare solo ad un caso, non do- veva sembrare strano che per compiere una tradizione valida, fossero a taluno neoessarì dei ùmboli, come il coltello, la festuca, il guanto, la zolla, il ramo d'albero, magari il toandilanc^ men- tre altri avrebbero potuto farla semplicemente con la carta, e anche per vim vocis f Del rimanente gli esempì abbondano, e in vari sensi. Non v'ha popolo che, trovandosi in relazione con altri, non ne prenda qualche cosa, e non c'è ramo di diritto, che ne vada esente. Talvolta sono le leggi barbariche che si avvicinano e confondono l'una con l'altra, e si alterano. Per es. la desponsatio della vedova salica, quale ci è presentata dal Cartulario langobardo, non ha più nulla di salico, tranne l'atto preparatorio e la costituzione della teriia in luogo della quarta: il resto è langobardo. Ma le leggi, ohe più delle altre s'im- pongono ai barbari e a mano a mano ne modificano e trasfor- mano il diritto, sono romane; e dall'altra parte anche il diritto romano subisce qua e l' influenza barbarica.

2. Il fascino delle leggi romane era addirittura irresisti- bile, e gioverà addume qualche esempio.

Un primo riguarda le manomissioni. Nell'anno 800 certi Lupo e Ansperto di Bergamo manomettono per testamento i loro servi e aldi, dichiarandoli arimanni amundi senza vincolo di condi- zione servile o di patronato, e insieme cives romani con la po- testas testandi et anulo portandi: è chiaro ohe due nazionalità essenzialmente diverse, come la langobarda e la romana, sono qui stranamente confuse ; ma è una confusione che caratterizza i tempi. E ve ne sono anche altre di più salienti.

Specialmente ci abbattiamo ad ogni pie sospinto in contratti, che, pur essendo conchiusi da barbari, si risentono della influenza romana. Le consuetudini genovesi del 958 dicono tra le altre : Femina langobarda vendebat et donabat res suaa cui volebat^ sine

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inierrogatìone parentum suorum et rine notitia principis. A ri- gore una donna langobarda non avrebbe potato farlo senza vio- lare la sua legge; ma la consuetudine si era sovrapposta alla legge, e la donna, quantunque langobarda, poteva oggimai ven- dere liberamente anche dietro le spalle dei parenti o del re, senza che l'atto fosse nullo. Alcuni contratti hanno una im- pronta tutta romana; e nondimeno si diffondono largamente e rapidamente tra' barbari, senza distinzione di nazionalità. Vo- gliamo alludere alle precarie e ai livelli. NelFanno 829 è un Biricone ex genere Alamannarum, ohe fa tradizione dei suoi beni al vescovo di Bergamo e li riceve di ritorno a titolo di precaria con le solite condizioni dei Romani. Nel 915 è Berta, badessa del monastero dei Santi Sisto e Fabiano di Piacenza, che a livello alcune terre deUa Chiesa a un Et meri co ex genere Fran- corum. Non basta. I barbari, qualunque ne sìa Torigine, hanno accettato dai Romani le tradizioni e i contratti col mezzo della carta, ohe consegnano a un chierico, a un notaro, ad un exceptor eifriiatìs, perchè la rediga; e, manco a dirlo, qualunque sia il contraente o il tradente, romano o barbaro, è sempre il mede- simo formulario romano che si adopera, accomodato a mala pt^na alle esigenze nazionali della parte. poteva esaere diversamen- te. Dopo tutto, non erano quei chierici depositurì delle antiche formule romane? vi ha contratto che non contenga una eiipulatio poetèoe pel caso che la promessa non sia mantenuta; ^ se anche la stipulazione stessa è gettata nella forma della UHkiia, non è men vero che si tratta di una pratica romana, che i barbari fanno propria. Specialmente il contratto di ven- dita è pieno di reminiscenze antiche. La quietanza del prezzo, inserita nello strumento, aveva avuto una grande importanza per i Romani, perchè la proprietà della cosa comperata non pas- sava nel compratore che dopo pagato il prezzo; e questa me* desima pratica continua tra i barbari. può dire che nessun atto di vendita ne sia privo. E i barbari consentono anche in altre clausole: la garantia pel caso di evizione con la rispettiva etipulatio duplae, e la garantia pei vizi e difetti occulti: le nuove popolazioni. Gote, Langobarde, Franche o Alamanne, le accettano tutte. Una carta milanese del 1195 ci presenta due coniugi che, nel fare una vendita, professano legge langabarda, e nondimeno rinunciano al beneficiam ò*. C: Vélleiani.

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Gli stessi testamenti barbarici, quasi si confondono coi ro- mani. Molte volte, non sempre, sono fatti nella forma stabilita da Teodosio e accettata da Giustiniano, alla presenza di sette testimoni con la rispettiva sìibscriptio. Il testamento di Erme* tnida del secolo VII riproduce perfino il solenne appello che i Romani delFetà repubblicana avevano fatto ai cittadini, testi- moni delFatto: Ita do, ita lego, ita testor, ita vos mtAt, Quirites^ iestimonium perhibetote testanti. In generale il testatore comin- cia dair indicare la sua legge d'origine e dichiara la sua volontà alla presenza dei testimoni: praesens praesentibus dixi ; -poi con- segna la carta al notare perchè la rediga, non altrimenti che negli atti tra' vivi, e il notare la redige, indi la restituisce con ]a solita formula: quam post traditam compievi et dedi. Potrem- mo citare più testamenti di Romani e Langobardi degli anni 8B9, 847, 853, 861, 900, 914, 922, 966, 964, 983, fatti tutti alla stessa maniera; e qua e ricorre anche la solita stipulatio poenae e la stipulatio duplae. Che se qualche testatore dichiara la sua ultima volontà irrevocabile, altri si riserva espressamente il di- ritto di mutarla a piacimento finché vivrà, onde l'atto acquista anche più T impronta romana. Ricordiamo i testamenti di certo Teutpaldo dell'anno 839, di un Donato dell' 863 e di Engel- berto deir 861, tutti d'origine langobarda. La formula, che ado- perano, è questa: Nam dum ego qui supra. . . . vixero omnia in meo reservo potestatem faciendum et iudicandum comodo aut qua- liier Vulnero. Perfino la legittima romana è sostituita frequen- temente alla riserva stabilita dalle leggi dei Burgundi, Visigoti e Langobardi, estendendosi a tutti gli eredi legittimi. Il no- me stesso di falcidia, con cui essa ricorre nei documenti, rivela Torigine romana; e si trova abbastanza per tempo, già nel se- colo Vm. E nuovamente non si fa distinzione di nazionalità. Un testamento dell'anno 1064, che ricorda la falcidia, è di Ade- ligia comitissa^ che viveva a legge salica.

Neppure la successione intestata potè sfuggire a questa in- fluenza; e talvolta si tratta nuovamente di un singolare amal- gama di principi diversi. L'inferiorità, e persino l'esclusione, delle figlie a profitto dei maschi era una iniquità consacrata dalle leggi barbariche; ma il sentimento di natura vi si ribel- lava, e la pratica provvide a ristabilire l'uguaglianza turbata dalla legge. Ecco una formula franca che riguarda appunto la

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figlia. Dioe il padre : Mia dolce figlia, vige tra noi una consue- tudine vecchia, ma empia, che le sorelle non abbiano parte alla terra paterna insieme coi fratelli; ma io penso che vi ebbi tutti ugualmente da Dio, che vi devo amar tutti di uguale amoréj e bisogna pure che godiate ugualmente de* miei beni dopo che sarò morto. Con questa lettera adunque ti costituisco mia erede uguale e legittima in tutta Peredità contro i tuoi fratelli^ miei figliuoli tali e tali. Il codice udinese, lo abbiamo già avvertito, con- templa anche i parenti per parte di donna, che il diritto ger- manico non ammetteva affatto o, se non altro, con molte limi^ tazioni. Lo stesso autore anonimo del trattato sulla sucoes- sione langobarda attesta che, ai suoi tempi, mancando gli agnati, succedevano i cognati in omni ordine. La Expositio si propone anche questa domanda: Se uno muore e lascia madre^ fratello e sorella, come si regola la successione? E risponde: Se si dovesse applicare la legge salica, succederebbe la madre in tutto ; se la langobarda, succederebbe in tutto la sorella: se la romana^ parteciperebbero ugualmente alla eredità; ma non si può stare solo alla lettera. E dunque ? L' Espositore conchiude : Per bo* num arbitrium ad suecessionem sic venire iudicamuSj »cilicei ui mater hereditatis defuncti tertiam partem redpiat, eoror aliam tertiam, reliquam vero tertiam mater soror frater equaliier di- vidant. Altre formule assicureranno il diritto di rappresentanza anche presso i popoli più restii a riceverlo, e i nepoti di un figlio o di una figlia premorti potranno concorrere nel l'eredità insieme coi figli o con le figlie superstiti. Non potendo altri- menti, si farà loro la tradizione o donazione della parte del loro parens mediante un atto tra' vivi, con la carta, per festu* cam et andelangum.

3. Molte volte però è il diritto romano, che accetta qual- che principio delle leggi barbariche, non diciamo nella stessa mi- sura con cui queste hanno accolto i principi romani, ma pur sempre in modo da non poter essere trasandato, se pur si voglia conoscere il sistema multiforme ed eclettico, che si veniva foi^ mando dalla combinazione delle diverse leggi nazioDali,

Ricordiamo le obnoxiationes. Si era oggimai ben lungi dal tempo in cui i Romani avevano proclamato il principio che la libertà era cosa troppo sacra per poter essere venduta, tanto che, suiresempio dei Germanici, si vendevano anch'ersi: anzi deve

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essersi yerifioato oiò con qualche frequenza, se i pratioi credet- tero utile di redigerne le formule. E ne potremmo citare diverse.

La stessa formula della precaria, composta per i Bomani, ricorda le corvate o ambcLsie^ cosi comuni tra' Qermanici.

Altrove si fa parola della wadia^ e abbiamo nuovamente a che fare con una pratica del diritto barbarico, che i Romani ac- cettano. Nel 964 certo Zachan abitante di Brescia, ohe viveva a legge romana, avvalorava cosi una sua promessa di donazione : in qua etiam per wadiam firmavi. altrimenti vediamo nel 1012 certa Anna vendere una terra secondo la sua lex Roma- norum e dare la guadia. Persino il launegildo langobardo s' in- contra nelle donazioni romane. Dopo fatta la tradizione, il do- natario soleva dare un paio di guanti, una veste, o ohe so io, al donante a titolo di launegildo. Da et launechild^ dicono le formule, e avvertono che si trattava di una solennità usata og- gimai anche dai Bomani: et hec omnia rint in donadone lan- góbarda et romana. Infatti, per addurre solo un esempio. Ot- tone Bianco nel 1104 professa legge romana, e nondimeno ri- ceve il launegildo.

Medesimamente una formula del secolo X, proveniente da Ivrea, mostra che il matrimonio delle Romane non conservava nulla degli usi specifici romani, tranne questo: che la donna non veniva consegnata, ma si consegnava da sé: e del rima- nente si faceva con la compera, sia pure immaginaria, del mun- dio, e con la prestazione del launegildo. Lo sposo ai fratelli mundoaldi della donna una crosna di un certo valore tam prò mundio eidem lei conius sua^ quamque communia que e legibus pertinet / e i fratelli, alla lor volta, avuta la crosna, gliela tras- feriscono insieme al mundio ad proprium^ ricevendone il lau- negildo. Tutto ciò alla presenza di buòni uomini parte franchi e parte langobardi. Fra le carte, che ne parlano, ne scegliamo una dell'anno 840, da cui si rileva che certo diacono Abone, vivens lege romana^ vendette per un dato prezzo il mundio di sua cognata. Ma anche altrove, e con certa frequenza, si tro- vano queste donne romane, che, essendo soggette al mundio, sia del marito sia dei parenti, abbisognano dell'autorizzazione del mundoaldo per vendere o donare. Certa Adeltruda, pur pro- fessando legge romana, vende nel 978 una sua vigna, ipso iugale consenciente et subter in omnibus confirmante. Quell'Anna, ve-

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dova di un chierico, che abbiamo ricordato più su a proposito della wadia, dona nel 1012 all'abate di S. Massimo una terra iuxta lex nostre Romanorum, ma nondimeno confessa di stare nel mundio del figlio. E cosi altre e altre. Ancora nel 1279 Cunizza da Bomano dichiara ie velie vivere iure romano^ e dona alcuni suoi beni de eonsensu et voluntate del mundoaldo, e ciò ad maiorem eautelam.

Insieme potremmo chiedere dove sia andata a celarsi la dote Bomana. Nella folla di formule e documenti, che pura abbiamo, del periodo germanico, sarebbe piuttosto difficile di trovarne uno ohe vi si riferisca. Le liberalità romane e le li- beralità germaniche sono confìise tra loro; e se la dote si rt^ tiene ancora necessaria a costituire la prova del matrimonio^ se- condo il disposto di qualche concilio, non è la dote, che la moglie porta al marito, ma quella che il marito ofire alla moglie, cioè la dote germanica. Cosi un Giselberto, figlio del fu Marino, lege vivente rofnana^ attesta che nel giorno, in cui domando in isposa Ledena, aveva promesso di darle la sua iusticta^ appunto secondo la legge romana, in dotie undancia^ cioò la terza parte di tutti i suoi beni presenti e futuri, perchè ne face£^@e ciò che voleva; e nel 921, dopo averla condotta in moglie, adempie la promessa fatta. La cartula dotes, com'è detta, è rogata da Agifredo notare dell'imperatore. Parimente quel Zacban di Brescia, che abbiamo trovato un'altra volta, essendoci fidan/.ata ad Endreverga, promette di darle terciam pordonem secundum legem romanam ; e nel 964 mantiene la sua prome^^a, facen- dole la tradizione di quattr'oncie del suo patrimonio, quod eni pardo tertia ex universam omnem meam substantiam. Egli le aveva costituito quella terda prò dotis donationem iitalum et propter nupdas. Ma alla legge romana, che tanto egli quanto Oiselberto invocano, questa terda era del tutto estranea. Me- desimamente, correndo l'anno 1095, certa Imelda, che professa legge romana, dispone del suo antefato e della morgengabe.

Ma anche gli atti di ultima volontà vengono alquanto alte- randosi al contatto barbarico. Il testamento è per sua natura un atto revocabile, e più sopra vedemmo che anche i barbari r hanno più volte accettato come tale : viceversa vediamo adesso che i Romani, aderendo all'idea dei settentrionali, ne hanno &tto molte volte un atto irrevocabile. Àriberto, vassallo del

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re, vive a legge romana e, richiamandosi alla sacratisHmarum Ugum auctaritas^ dichiara nel 900 : Non licet me nolle quod semel mlui altera vice trans ferre^ sed quod ad me factum vel conscri- pium est inniolabiliter conservari promitto. Infine conchiude: set hoc pagina inconvulsa permaneat cum stipulacione subnixa. Così pure Walperto, vescovo di Como, che professa legge ro- mana, lascia nel 914 i suoi beni ai sacerdoti della chiesa di Sani' Eufemìa, dichiarando che la sua carta di ordinazione e di- sposizione debba rimanere ferma e stabile in ogni tempo per rimedio della sua anima. Se ne disponesse altrimenti, promette che ne starebbero auctores et defensores^ egli ed i suoi eredi, sub dupla defensiones sicut prò tempore fuerit in eas locas. Wal- devertOj prete, è d'origine langobarda, ma propter honare sacer- dodi professa legge romana; e cosi Bestaldo e Anselmo, altri preti : e tutti dispongono per testamento dei loro beni, Walde- verto nel 964, gli altri nel 922 e nel 983 ; ma dichiarano che prò honores sacerdocii non sarà loro lecito di non volere ciò che haBBo voluto, e promettono di conservare inviolabilmente ciò che una volt^ hanno fatto e scritto : ambedue cum stipulacione Aubnixa^ e Waldeverto anche sub iusiurandum. Evidentemente il concetto romano, che l'ultima volontà debba essere ambulaJtoria fino alla morte, ha ceduto in questi testamenti il passo ad altre idee: il testamento stesso, più che un atto unilaterale, è un con- tratto, che, appunto al pari dei contratti, si avvalora col giu- ramento e con la stipulatio sub dupla defensione. È nuovamente un trionfo delle idee germaniche sui principi romani, che si compie prò honore sacerdocii. Lo stesso Pietro Crasso, nel suo libello in difesa del re Arrigo, ricorda la successione pattizia, come cosa consueta, e per giunta ne fa un istituto del diritto romano : Scriptum est in libro Institutionum ita : " Omnis here- ditas aut testamento aut successione ab intestato aut tacito poeto transit ad heredem „.

4. Lo stesso fenomeno si riproduce nel diritto penale. Le Quaestiones oc Monita presentano una Quaestio romana : - Si honio fecerii furtum reddat quadruplum ad hominem romanum, et prò culpa nasum perdat et bannum regi; si evenerit, quod cum ipso comprehensus non fuerit, et in post inventus fuerit^ in du- plum compouat. La distinzione tra furto manifesto e non ma- [ nifesto è romana, e romana è anche la pena del quadruplo e

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del doppio ; ma vi è pure la perdita del naso e il bauno, che si trovano nelle leggi di Carlomagno. Un'altra volta si tratta del ratto, che la legge romana avrebbe punito con la morte ; ma intervengono i buoni uomini, e si conviene di surrogarvi una composizione in denaro. La confusione del diritto romano e del diritto germanico non potrebbe essere più spiccata.

5. Vorremmo dire, che tutto ciò dipendesse da un falso modo di concepire le cose ? Non lo crediamo. Se non sempre, certo molte volte, sarà stata qualche considerazione di equità o di opportunità, che avrà determinato le parti a scostarsi dal pro^ prio diritto e a mescolare le disposizioni di una legge con quelle di un'altra. E inoltre, lo ripetiamo, era naturale ohe, al pari delle popolazioni, anche i diritti si accostassero e confondessero, adattandosi alla nuova condizione della società. Intanto cotesta loro confusione o fusione doveva, presto o tardi, far che il sistema personale cedesse alla legge territoriale, il princìpio della schiatta a quello della convivenza. Perchè, Tavremo già avvertito anche in mezzo a quel grande disordine, dalle leggi speciali dei singoli popoli, non importa se Lango bardi, Franchi, Alamanni o Romani, si erano già staccati alcuni istituti, che per poco non potevano dirsi comuni; una specie di zona grigia, in cui tutte le schiatte s'incontravano.

La schiatta stessa aveva oggimai perduto il suo carattere specifico, e insieme la sua grande importanza. Perfino la pa- rola non rispondeva più al concetto. Essa, per vero dire, figura tuttavia nelle professioni di legge; ma andrebbe errato chi vo* lesse prenderla nella sua vera e propria significazione. Era una formula, che i notarì scrivevano per mera abitudine, o per in- curia, senza pensarci sopra più che tanto, e senza distinguore, come avrebbero dovuto. il caso è nuovo: troveremo più volte nella storia, ohe le vecchie formule sopravvivono a lungo, quantunque lo spirito, che le aveva animate, sia scomparso* 0 anche potrebbe darsi che la parola natio avesse assunto ora una nuova significazione più ampia dell'antica. Certo, trova qua e là, nonostante ohe l'origine o la nazionalità non vi entrassero affatto. Per es. la contessa Matilde professava legge salica per ragione del marito, e afferma di professarla ex natione sua. Altri è d'origine langobarda, e dice di professare legge romana; o vi- ceversa è romano, e dice di professare legge langobarda, e aem*

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pre ex natione sua. Evidentemente ci troviamo di fronte ad una formala e nulla più.

6. Ora poi comprenderemo un &tto, che altrimenti riu- scirebbe inesplicabile. Venuta meno l'importanza della nazio- nalità} si perdette insieme la base giuridica delle professioni di legge; e il diritto non fu più cosi aderente alla persona e alla sua origine, che uno non potesse spogliarsene per accettarne un altro. Ciò che non era stato possibile in antico, lo fu in questi tempi: la legge si poteva scegliere; e, sebbene a prima giunta non sembri, anche questo fatto giovò a semplificare il diritto e a renderlo territoriale.

I Lombardisti ammettevano senza più che un romano potesse ex sola professione diventare langobardo, purchò non lo facesse in frode, e forse vi avevano trovato l'addentellato in quella legge di Lotario dell'anno 824, in base alla quale i Romani erano stati interrogati circa la legge, con cui volevano vivere. Certo, è l'opinione di Ariprando e di Alberto (II, 6): Quamvis ergo Longóbardus genitor (Alberto aggiunge: religione) Romanus efflciaiur, filius tamen lege vivet Langobarda, idem in Romani obiinet filio Ucet interrogatus (Alberto aggiunge: a rege vel de* legato volens) legem mutare possit, E cosi alcune glosse dei tempi. Una dice : Romanus ex sola professione potest effld Lon* gobardus, nisi in fraudem fiat; e un'altra ha press'a poco lo stesso : Romana lege vivens mutare legem potest et eligere Lon- gobardam, nisi in fraudem id agat, non e contrario seeundum Ali- prandum. Ma altri andavano più in e ammettevano che an- che un langobardo potesse mutare la legge dei propri padri. Lo rileviamo nuovamente da una glossa, in cui è studiata la posi- zione di coloro, la cui legge fosse dubbia. Essa afferma che dovevano essere interrogati sulla legge, con cui volevano vivere, e dovevano vivere con quella che avessero dichiarato; ma poi soggiunge: Sed et sui patris legem mutare quis potest, seeundum quosdam; sed mihi videtur ut lege patris mutare non possit, neque suam, postquam acceperit.

Per la elezione della legge romana è importante la formula del secolo XI: Qualiter Romanus fieri débet, che corrisponde al concetto dei tempi,' in cui Ottone III, dichiarata Boma capitale del mondo mirava a ristorare lo splendore del gius romano. Un langobardo e un franco potevano oggimai impetrare il privilegio

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di porsi sotto Tegida del diritto romano, e si faceYano cittadini romani con gran pompa. La formula cosi si esprime: Se taluno desidera diventare romano, deve mandare umilmente alcuni suoi fe- deli ali* imperatore, chiedendo di essere sottoposto al diritto romano e ascritto tra^ cittadini romani. Se V imperatore vi acconsente, dee farsi così: sieda egli co^ suoi nobili giudici e maestri, e due giù* dici si portino davanti a lui a capo eh ino , dicendo: " O noBtro Cesare, che cos'è che domanda il tuo sommo imperio? ^ E io imperatore di rimando: ^ Che s^auminti il numero dei Romani. Ordiniamo, che Vuomo, che oggi ci denuncia ste^ sia sottoposto alla legge romana . . . Il resto manca.

Oltracciò possono vedersi alcuni documenti.

Il primo che si conosca è deiranno 104€. Una madre ^ una figlia e il genero fanno una donazione, professando diritto ro- mano ex nacione; poi nello stesso giorno la figlia fa un'altra donazione, professando nuovamente diritto romano per la origine, ma diritto alamanno per causa del marito : eppure questi, lanciata la sua legge alamanna, aveva fatto poco prima una donazione col diritto romano. Parimente nel 10* j3 abbiamo due {rateili, uno dei quali professa diritto langobardo ex natioue b diritto romano in causa del sacerdozio; poi nel 1084 gli stesbi fratelli, e anche un terzo, dichiarano di vivere tutti col diritta romano ex natio ncn Nel lOHS un tal Pietro Fastello professa diritto I&ugobardo per la nascita, e cosi altre volte; poi improvvisamente nel 1099 di- chiara di vivere col diritto romano, anche ex nacione. Lo ?tei5sa risulta dalle carte della contessa Matilde. Per lo più cooten* gono una professione di legge salica, ma ne ne incontra anche una di diritto langobardo; e se il più delle volte la illustre donna compie le sue tradizioni coi soliti simboli, persino col wandilnnc^ che era un simbolo alamanno, spe^^r-o anche le effettua senza consegnarne alcuno, alla maniera romana per vim vocis. Allo stesso tempo appartengono due carte della casa di Savoia, del 14 settembre 1094 e del 29 novembre 1098. Si tratta di una illu- stre famiglia di origine franca, e nondimeno il eonte Umberto II dichiara di vivere a legge romana. KefvgunVltra carta dei prin- cipi di questa casa contiene una professione di leggr^; e certa* mente era una casa troppo nota, perchè ci fosse bii^ogno di di- chiarare con qual diritto vivessero; ma Umberto II lae^^ìa la legge de' suoi padri per accettare quella romana, e la professione ai

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rende necessaria. Lo stesso mutamento avvenuto negli usi della casa deve persuaderei, che oi troviamo di fronte ad un fatto nuovo. Cosi pure due fratelli dichiarano nel 1096 di professare diritto langobardo per la nascita, poi nel 1098 professano diritto romano, e nel 1099 di nuovo diritto langobardo, senza tener conto di un terzo, che già nel 1096 viveva col diritto romano in causa del sacerdozio.

Altri esempi sono un po' più recenti. Nel 1104 Ottone Bianco dichiara^ in una cartula pronUssioniSj di vivere a legge romana: professus sum ex natione mea lege vivere romana; e anche suo fratello Oberto, in un documento del medesimo anno, fa la stessa dichiarazione. Invece, nel 1119, dovendosi rinno- vare il contratto, i figliuoli di Ottone Bianco dichiarano di vi- vere a legge tango barda: Nos quidam in Dei nomine Bugiardo et Scotto et Rogerio germanis^ filii Odoni Blancus de Muregnano et Adelaxer mater predictis germanis.... qui professi sumus nos ex natione nostra lege vivere Langobardorum. Come avviene che, alla sola distanza di quindici anni, i figli professino una legge diversa da quella del padre? Segue uno strumento di donazione del conte Aldobrandino degli Aldobrandeschi al monastero di S, Quirico di Populonia. Questi Aldobrandeschi erano d'origine straniera. Una carta del 1114 dimostra che la legge della fa- miglia era la malica: il padre e la madre di Aldobrandino, an- che Aldobrandino e suo fratello Malagaglia, professavano legge salica; e nondimeuo pochi anni dopo vediamo questo medesimo Aldobrandino viver© con la legge romana. Una carta vercel- lese del 1228 dice testualmente: confitentes se lege vivere lan- gobarda ipnam iegem sibi eligendo et specialiter ipse P. confitendo se maiorem esse 14 anncrum quam eonfessionem fecerunt similiter gius c<^gnati* Anche Cunizza da Romano, che apparteneva a famiglia salica, dichiara nel 1279 se velie vivere iure romano. Un ultimo documento, che amiamo di ricordare, del 1280, è anche più esplicito degli altri. Certi Bernardo Biscosso e Bi- scosso de' Biscossi proclamano davanti al console di giustizia di Pavia di voler vivere a legge langobarda, e voler continuare con essa anche in seguito, e sceglierla come loro legge. Le pa- role sono queste: iuraverunt in presenda dicti consulis se lege vimre Lombarda et de celerò velie vivere ipsa lege, et ipsa Iegem elegeruni in presencia ipsius consulis.

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£ aTtamo notato quella formula: jìc veììe vhere ipsa lege. La troviamo ora, ma non si è trovata in addietro, finché il diritto fu davvero aderente alla persona e la segui come la sua ombra. Allora non avrebb© avuto senso^ e non se ne sarebbe compreso il significato ; ma oggimai il senso è chiaro, perchè bastava volere, per passare dalla legge dei propri padri ad un'altra.

Così gli antichi principi erano venuti trasformandosi: la legge della nazione aveva ceduto il campo a quella della elezione. E questa libertà diventa sempre maggiore. Qua © là, per vero dire, vale il principio che la scelta fatta una volta debba esser© obbligatoria per tutta la vita; ma non vale dappertutto. Ber- nardo Biscosso e Biecosso de* Biscossi intendono di essere vin- oolatl per tutta la vita e lo confermano col giuramento. altrimenti leggiamo nello statuto di Brescia del 1252; Jtem or* dinani correetorea qaod si aliqua muiier in aliquo caniraciu con- ffisa fuit »e lege vivere romana, licet lombarda sii, non possii pùjftea dicere «e lege lombarda vivere. Invece abbiamo dianzi vedato come due fratelli ^ che nel 1096 avevano dichiarato di essere lango bardi, poi nel 98 professano legge romana e nel 99 tornano al diritto langobardo, come prima. Specie in Toscana pare che non ci si badasse tanto pel sottile; perchè ai hanno esempi di uomini che professano più leggi, secrondo le circostanze, specie in ordine ai patti dotali. Un caso abbastanza curioso risulta da una carta di S. Gemignano in vai d'Elsa dell'anno 1200, Si tratta di un tal Bigetto, U quale aveva contratto consecuti- vamente due matrimoni ; ma la prima volta aveva fatto gli spon- sali tecandum legem longobardam (almeno se ne dubitava davanti ni giudice), mentre la seconda li fece certamente iure rumano. Inoltre può vedersi una carta pistoiese- Certa Bel loia vende nel 1244 alcuni beni ereditati dal fratello Bonag:uida e dichiara di professare, per quella volta tanto, legge romana: profiiens super hoc viceré iege romana. Parimente i diplomi fiorentini del secolo XII mof^trano che la legge non si professava più per causa di nazionalità, ma veniva scelta liberamente di volta in volta. E non v'ha dubbio che fosse cosi; lo deduciamo dalla formula: tu hoc casu, o anche: super hoc, che vi si trova ag^ giunta generalmente. Togliamo eziandìo avvertire che la prt.- fessjone è per lo più di legge langobarda; ma a volte si dichiara

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di voler rogato l'atto secundum itM et romanatn legem et tnarem dviiatis romanae.

Qua e oi sono anche esempi di comuni, che scelgono l'nna o l'altra legge a piacimento. [Ricordiamo un diploma dell'an- no 1176, con cui i consoli di Siena cedono metà della terra di Poggibonsi ai consoli di Firenze. Prima della data e della sot- toscrizione si leggono le seguenti parole : Item professi sumus lege romana cum tota civitate vivere. Lo stesso accadeva a Ver- celli, salvo che la legge prescelta era la langobarda. Una carta dei 1228 dice : confitentes se lege vivere langobarda, ipsam legem sibi eligendo. Anche lo statuto di S. Gemignano del 1252 ordi- na, che tutti i matrimoni debbano quinc' innanzi farsi colla legge romana. Cosi parimente a Bergamo nel 1391 per tutti i casi ere- ditari ohe si presentassero in seguito: quod de cetero... liber iuris Longobardorum et ipsum ius vacet in totum et servetur ius commune; e cosi a Cremona (1387) e a Pavia (1393).

Insieme vogliamo avvertire un fatto, che ci pare molto si- gnificativo : ohe cioè le leggi prescelte sono sempre la legge ro- mana 0 la langobarda. Non s'incontra esempio che se ne scelgano altre ; e invece abbiamo veduto Umberto di Savoia e l'Aldobran- dini e Cunizza passare dalla legge salica alla romana. In questo senso dicemmo che la elezione della legge concorse, anch'essa, a semplificare il diritto e a renderlo territoriale.

7. Aggiungiamo un'altra circostanza. Benché buona parte del diritto si svolgesse in base alla coscienza popolare, non può dirsi, e lo si avverti anche altrove, che si svolgesse tutto in questo modo, e che dominasse sovrano da noi quel malaugu- rato particolarismo, che adugiò lo svolgimento giuridico della Germania. L' Italia conservò sempre un elemento comune anche in mezzo a grandi varietà sia con le leggi imperiali, che, in certa guisa, controllarono la formazione del diritto sia con la curia palatina di Pavia, che, alla sua volta, provvide a ren- dere uniforme l'amministrazione della giustizia. Le decisioni e interpretazioni e regole di procedura di questa curia furono ci- tate a lungo come autorità, e si diffusero rapidamente.

8. Infine anche la logica aveva le sue ragioni e le sue esigenze. Le persone si erano pur fissate alla terra, e pareva quasi che da essa ripetessero ogni loro importanza: questo è il fondamento delle istituzioni feudali ; per ^al ragione solo il di-

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ritto avrebbe dovuto resistere, e non si sarebbe anch'esso con- giunto al suolo?

9. Non ci dobbiamo dunque meravigliare che esso» un po' alla volta, venisse facendosi territoriale. La comunanza degli interessi e della vita, la confusione delle leggi, che n^era deri- vata, il concetto della nazionalilà, che si era smarrito, la libera elezione introdotta per la prima volta nelle professioni di legge, la legislazione imperiale e la pratica giudiziaria, la stesila logiea inesorabile dei fatti, tutto concorreva a spingerlo per quella via: la sua territorialità non poteva essere ohe una queBtìone tempo.

Propriamente le prime a cedere furono le leggi penetrate in Italia coi Franchi: la salica, la ribuaria, la bavara e ralamaima. Esse vennero assorbite dalla legge romana o dalla lango barda, che fin da principio avevano avuto maggiore diffusione e ave- vano messo più salde radici. Erano le leggi più deboli che ce- devano il campo davanti alle più forti. Nondimeno ancora il commentario di Alberto cita la legge salica ; e Iacopo di Ardizzooe rimanda più volte a queste leggi popolari, massime alla salica, alla ribuaria, ed alla alamanna. Perfino i glossatori ne hanno una certa conoscenza ; ma non oseremmo affermare che si mante- nessero nella pratica: se pur qualoheduno le ha professate, fu soltanto in via di eccezione.

Invece il popolo dei Langobardi, nonostante i contatti quo- tidiani coi vinti, e nonostante che, alla sua volta, sia stato vinto dai Franchi, conservò a lungo la sua personalità, sfuggendo al doppio ascendente de' suoi sudditi e de' suoi conquistatori. Cosi il diritto langobardo continuò accanto al diritto romano, anche dopo che altre leggi popolari avevano finito col perdersi nel seno della feudalità e delle istituzioni comunali; ma s'intende che anche quei due diritti cercavano di assorbirsi e soppiantarsi. In realtà si è combattuta una lotta secolare tra essi; e, lo vogliamo dire subito, Tesito non è stato dappertutto uniforme.

10. Naturalmente quel processo di unificazione si avverò più presto o più tardi, secondo le condizioni sociali del [mese. Vi sono regioni, in cui già nel mille può dirsi compiuto, © al- tre, in cui non lo era nel secolo XV. Si è compiuto prima dove il miscuglio delle schiatte era minore, o una di esse così pre- ponderante da rendere vane le resistenze ; e fu il caso con Roma

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e con V Esarcato, a differenza della bassa Italia, dove più schiatte dispntayaBo il terreno. Inoltre si è compiuto più presto in città elle in campagna. In città, le classi si trovarono più vi- cine le une alle altre: convivevano insieme, e, acquistata l'idea della loro nnità, poterono fondersi più facilmente : anche i cre- sciuti commerci dovevano darvi una spinta ; ma in campagna no. Qui non c^erano commerci: qui duravano tuttavia le disugua- glianze : in aito troneggiava il barone, e più giù, molto più giù, stavano i sudditi, parecchi dei quali ancora servi della gleba. Perfino le abitazioni erano isolate. Lo stesso barone precedeva con resempio, ligio alla legge della sua casa, che gli procacciava maggiori vantaggi, specie nei riguardi della famiglia e delle successioni : qual maraviglia che la campagna abbia opposto mag- giore resistenza? Basti dire che vi furono paesi, in cui fino a tempi abbastanza inoltrati si è parlato il tedesco; per es. sui monti di Schio fin verso il 1400 ; a Telve, Borgo e Castelnuovo ancora nel secolo XVI; a Tonezza fin verso il 1600; a Velo fino al 1700 circa; nei sette e nei tredici comuni fino a' di nostri; nei primi lo si parla tuttavia. I montanari di queste comunità, rinchiusi da monti e fiumi, privi di strade, segregati da tutti, isolati in seguito anche da speciali privilegi, conservarono tena- cemente il loro dialetto tedesco, e soltanto da poco tempo hanno cominciato a perderlo con l'aprirsi delle comunicazioni.

Ciò che più importa si è, che la vicenda della lotta è stata diversa nei suoi risultati ; perchè ora fu il diritto langobardo a cedere ed ora il romano. Per es. a Roma la unità del diritto è antica; e la legge che ha trionfato completamente è la ro- mana. Già Carlomagno aveva fatto condannare i nemici di Leone III secundum legem roraanam. Più tardi Leone IV, scri- vendone a Lotario I, gli raccomandò questa medesima legge, che aveva avuto vigore fino allora absque universis procelUs ; e^ quando se ne fece l'inchiesta in seguito al famoso capitolare di Lotario, è fama che tutti dichiarassero che il loro diritto era il romano. Appunto con riguardo a cotesta dichiarazione la Ex' pmitio osserva : Non putandum est^ Romanorum populum esse in^ terrogandum ulterius, quandoquod Romana lege confessi sunt se mvere ea tempore. Il diritto romano fini con T imporsi siffatta- mente a Roma che a mala pena volevansi riconoscere le altre leggi. Una carta del 998, che abbiamo citato anche in altra

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oooasione, rivela siffatta tendenza. Si voleva costrìngere l'abate di Farfa a farsi giudicare secondo il diritto romano : velis nolis L

legem romanam hàbes facete; e fa necessario che l'imperatore intervenisse perchè si desistesse. Nondimeno pochi anni dopo Corrado II dette pienamente ragione ai Romani. Una sua co- stituzione del 1038 è cosi concepita: Imp. Corradua A. Roma- nie iudidbus. Audita conirovereia^ quae hactenue inter voe et langóbardoe iudices versabatur, nuUoque termino quiescebat, san- eimue ut quecumque admodum negotia mota fuerint^ tam inter Ramanae urbis moenia^ quam etiam de foris in Romanie perti- nentiiSj aetore Langobardo vel reo, a vobis duntaxat Romanie le- gibus terminenturj nulloque tempore reviviscant. Cosi il diritto romano fu riconosciuto ufficialmente in Roma come diritto ter- ritoriale ; e ciò che a Roma, accadde anche altrove. La legge, che nel corso del secolo XI trionfò nell'Esarcato, è la romana; e lo stesso dicasi di Venezia e deli' Istria. le resistenze op- poste dai diritti forastieri in questi territori sono grandi. Al- meno non pare ; e d'altra parte ve ne sono alcuni in cui il di- ritto langobardo è prevalso. Ricordiamo per es. il ducato di Be- nevento, Lucca e Bergamo, che conservarono a lungo la loro fisonomia langobarda, pur riconoscendo il diritto romano come legge sussidiaria. Lo statuto di Benevento dell'anno 1230 nota fin dal principio: Primum capitulum est ut secundum consuetu" dines approbatas et legem longobardam, et eie deficientibus, se- eundum legem romanam iudtcetur.

Capo n. Leggi d'indole generale.

§ 1. - IL DIRITTO ROMANO.'*

1, Volendo studiare le fonti del diritto nella nuova epoca, parrà naturale che ci rifacciamo dal diritto romano. La sua autorità, già molta, progredì con l'avanzare della civiltà: nei

** Blbllogmfla. Moboig^i, // diriUo romano nel medio evo. Consideri^ stoni, Nftpolif 1842. Bobsrikt, Verhàltniee der beiden Hauptquellen nìimlich dee rómieehen u, rancnieehen Bechie (nella ** Dogmengesohiohte , Heidelberg, 1853, p. 492-455). B«uoi, Le canee intrinseche della univer$alilà del diriUo romano^ Par

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tempi, di cui discorriamo, esso era già riconosciuto come diritto comune. Era appunto opinione dei glossatori, che fosse una legge di autorità universale; gli interpreti delle leggi barbariche la pensano diversamente : già sappiamo che lo Espositore la ri- guardava come la legge più generale, destinata a supplire le leggi particolari.

Vediamo quali cause possono aver determinato cotesta straor- dinaria diffusione.

La prima è tutta intrinseca. Anche dopo caduto l' Impero, con- tinuò nondimeno il culto del diritto romano. Per ciò che con- cerne r Italia, sappiamo ch'essa, lungi dal perderne l'uso, lo con- siderò sempre come una specie di religione civile. E valga il vero. Non era Roma la città sacra inspirata da Dio stesso, e le sue leggi non parevano dettate dalla sapienza eterna ? Qual me- raviglia che la coscienza giuridica degli Italiani si adagiasse nel sentimento permanente dell'antichità classica ? Ciò vale per il diritto romano in genere; ma vale anche più per il diritto giustinianeo. Infine il diritto romano, che oggimai teneva il

lermo, 1886 (dal " Circolo giuridico ,). Vanni A. La universalità del diritto ro- mano e le sue cause. Urbino, 1887. Scalvanti, La tradizione romana nelle consue- tudini medievcUi. Note. Perugia, 1897. Ciccaglione, Il diritto romano in Sicilia durante il periodo mussulmano^ Palermo, 1898. Neumeyee, Die gemeinrechtl. JSnt- icicklung aes interncU. Privai- u, Slrafrechts bis Barlolus. I: Die Geltung der StammesrecìUe in Italien^ Mùnchen, 19bl. Si vedano anche gli scritti sulla cosi detta recezione del diritto romano in Germania. Laspeyres, Die Reception des rom, Rechts in der Mark Brandenbnrg u. die pretusische Oesetzgebung vor tVi- derich II (- Zeitsohr. f ur d. Becht , VI (1841), p. 1-96). Kbyscher, Ueber die lAn- heit des gemeiiien detUschen Reclits u. das Verhallniss des d, Rechts zu denfremden Rechten ("Zeitschr. ^ cit., IX, p. 337-410). Dworzack, Beilràge zur Gesch, der Re- ception des r&m. Rechts in Deutschland nel ** Magazin di Haimerl, XV (1857) e XVl (1857). ScHÀFFNER, Das ròm. Rechi in Deutschland wahrend des 12 t*. 13 lahrh. £rlangen, 1859. Franklin, Beitràge zur Gesch, der Reception des rdm. Rechts in DetUschland, Hannover, 1883. Anonimo, Das ròm. Rechi u, die r&mi- sche Kirche, nella ** Deutsche Vierteliahrsschrift 1867, dispensa III, n, 119. ScHMiDT C. A., Die Reception des rom, Rechts in Deutschland, Rostock, 1868. Stolzkl, Die Entwicklung des gelehrten Richterthums in deutschen Territorien, 2 voi., Stuttgart, 1873. Moddermann. Die Reception des Rom, Rechts, Jena, 1875. Anche la recensione di Fittinh nella " Zeitscnr. fiir das Pnvat-u. òffentl. Recht der Ge^enwart ^. Muther, Zur Gesch. der RecìUsicissenschafl u. der Univer- sitaten in Deutschland. Gesammelte Aufscilze, Jena, 1876; v. Duhn, Deutschrechtli- che Arbeiten^ Lubeck. 1877, p. 57-89. Karlowa, IJeber die Reception des rSwi. Rechts in Deutschland viit besond. Rilcksicht auf die Churpfalz^ 1§78. Ott, Bei- triige zur Receptions-Geschichte des romisch-canonischen Processes \n den bdhmi- schen Làndenij Leipzig, 1879. Stammlbr, Das r6m. Recht in Deutschland, Berlin^ 1880. Lab and. Die Bmeulung der Reception des rSm. Rechts u. ihre Folgen, negli " Studien zur deutschen Culturgeschichte ^ Stuttgart, 1882. Karsten, Die Lehre vom Vertrage bei den iialien. luristen des M. A. ±}in Beitrag zur inneren Gesch, der Reception des rdm, RecfUs in Deutschland, Rostock, 1882. Brockhaus, Der Einfiussfremder Rechte auf die Entwicklung des deutschen RecJUs, Kiel, 1883. AViLMANs, Die Reception des rdm. Rechts u, die sociale Frage der Gegenwari, Ber- lin, 1890.

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campo in Italia, a differenza di altri paesi, era il diritto di Giu- stiniano; e appunto in questa forma, più che in quella del vec- chio diritto teodosiano, doveva riuscirgli facile di farsi largo. Ma non solo in Italia! Dopo tutto, l'autorità, che godeva presso di noi, era già grande, e non si trattava di dargliene al- ] cuna che già non avesse ; ma ben bisognava dargliela presso altri \^ i popoli rimasti chiusi ad esso ; e guai, se la sua speciale struttura ^ non lo avesse aiutato ! Il diritto teodosiano era ancora troppo pieno di vita nazionale, troppo speciale e artificioso nelle sue forme; troppo inceppato nei suoi movimenti, perchè i nuovi po- poli potessero acconciarsi a lungo alla sua signoria; ma il di- ritto giustinianeo no. La sua particolare conformazione, libera da impacci e ristrettezze e preoccupazioni nazionali doveva ' spianargli mirabilmente la via, massime in un tempo in cui la vita, fatta più larga, esigeva forme più disinvolte. Se si fos^e j mosso meno liberamente, avrebbe potuto restare, tutt'al più, il diritto di un popolo o di una età; mentre, così, nulla ostava a | che potesse diventare, se non altro nelle sue linee fondamentali, il diritto di tutti i popoli e di tutti i tempi. Se vogliamo, costi- j tuiva un diritto meno scientifico, ma più umano; e liberato, co- ' m'era, dalle rigide forme nazionali, anche i nuovi popoli avreb- bero potuto acconciarvisi, senza credere di assoggettarsi ad un j diritto forastiero. La stessa tinta sociale, che lo distingue cosi j caratteristicamente dal diritto classico, doveva renderlo anche più accetto ad una età, che, uscita di fresco dalla barbarie, conservava ancora tante tracce di socialismo. Così Giustiniano passò g<^neralmente per il tipo del legislatore. Anselmo Peri- patetico guardava a lui come a modello per le leggi, non al- trimenti che a Marco Tullio per la rettorica; l'imperatore bizantino si presentò altrimenti all'anima ispirata del poeta:

Cesare fui e son Giustiniano, Che, per voler del primo Amor eli' io sento, DVntro alle leggi trassi il troppo e il vano.

Noi non mettiamo dubbio, che questo carattere intrinseco abbia determinato la diffusione del diritto giustinianeo in Ita- lia e fuori. Era un carattere, in forza del quale si adattava molto bene ad essere o a diventare il diritto universale.

2. Altre cause sono di natura più o meno concomitante.

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Uno è il fascino ohe sull'animo dei popoli esercitava tutto ciò ch'era romano, il che valeva particolarmente delle leggi. Come Boma era rimasta la sancta respublica, cosi le sue leggi si consi- deravano ancora come sacrae leges. È il nome che attribuiscono loro due carte toscane dell'anno 793 ; e più tardi, parecchi do- cumenti degli anni 806, 856, 900 del territorio bergamasco, pur tanto dominato da influenze langobarde, ricorderanno la san- dissima legum auctoritas. l'idea deìVOrbis romantis era, an- cora spenta; quantunque il grande colosso fosse sfasciato e le istituzioni sue fossero sparite, essa sopravviveva ancora alla di- struzione della cosa. Era questo un sentimento, in cui parevano concordi tutti: imperatore e giureconsulti, poeti e cronachisti; ma appunto l' idea di una monarchia del mondo non poteva non far luogo al sentimento della universalità del diritto romano e presentarlo come il diritto comune dell'umano consorzio.

Certo, non si può ammettere che la ristaurazione dell'Im- pero sotto Carlomagno portasse con sé, senz'altro, la ristaura- zione del diritto romano ; e neppure che Carlomagno e i Caro- lingi se ne facessero restauratori. Nondimeno il diritto romano cominciò allora a godere di una protezione, quale da lunga pezza non aveva goduto, come attestano alcuni capitolari ; e col tempo quella opinione prese piede. L'autore della Lecito legum ricorda di aver messo assieme i suoi estratti delle Istituzioni e delle Novelle ad directionem humanitatis^ e anche la raccolta gaudenziana si presenta come una esposizione del diritto giu- stinianeo qualiter tato in orbe distringantur negotia. altri- menti concepì Benedetto Levita la legge romana : quae est om^ nium humanarum legum mater.

Ma gli stessi imperatori finirono col proclamare il diritto romano come legge universale. Già nel concetto di Otto- ne m Roma doveva essere la sede* dell'imperatore, la prima città dell'universo; ed è osservabile come i giudici ivi istituiti, nel ricevere il codice giustinianeo, fossero ammoniti di attenersi religiosamente ad esso, e con esso giudicare Boma e il mondo.

Parimente Federigo I riconosceva le leggi romane come sue, e dichiarava di venerarle tamquam divina oracula, Federigo H parrebbe avervi accennato come a diritto comune.

E non poteva essere diversamente. ^ Non era forse negli in- tendimenti di cotesti imperatori di continuare quelli antichi?

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Appunto Federigo I si richiamava a Costantino, Yalentiniano e Giustiniano, suoi illustri predecessori, non che a Cario e Lodo- vico ; ed era sull'esempio di essi che s' inchinava davanti alla maestà della legge romana. l'imperatore Massimiliano la pensava diversamente in tempi ben più lontani. E cosi i ero* nachisti ! Anch'essi amavano di riattaccare la genealogia degli Hohenstaufen a quella degli antichi Cesari, risalendo fino a Bar- dano e a Giove. Ma se ciò era, o si credeva, parrà naturale che quei Cesari volessero addossarsi il compito di provvedere all'applicazione del vero diritto imperiale in tutti i paesi sog- getti alla loro dominazione. La restaurazione dell' Lnpero do- veva trar seco, presto o tardi, anche la completa restaurazione del diritto: le leggi dei Cesari dovevano pur essere quelle dei successori de' Cesari; e già le Quesiione^i de iurta subtilitatibus si trovano, come sappiamo, in quest'ordine d' idee, quando afier- mano che l'unità stessa dell' Lnpero reclamava necessariamente l'unità del diritto. E non c'era via di mezzo: horum alierum concedi necesse est: aut unum esse ius, cum unum sii inperium, aut si multa diversaque iura sunt, multa superesse regna. Dal canto suo l'autore non era disposto ad ammetterne altri. E cosi Pietro Crasso nella Defensio Henrici IV regie; il quale ap- punto proclama: legislatoris religianem omnes his sacratissimis legibus subiugMse gentes; e aggiunge che se qualche popolo vi- veva con altre leggi, era per speciale condiscendenza del diritto romano.

Ma lo stesso interesse politico spinse gli imperatori per que- sta via. Infine, essi avevano un forte alleato nel diritto romano, il quale non poteva non rincalzarne l'autorità. Già Pietro Crasso aveva sostenuto i diritti dell'Impero, appoggiandosi al gius ro- ' mano. E cosi Imerio. Cosi anche i suoi scolari. In generale ^ c)uasi tutti i glossatori della grande epoca furono ghibellini. Bulgaro, Martino, Jacopo ed Ugo, i quattro più celebri dottori che vantasse lo studio di Bologna, invitati da Federigo I a de- terminare quali fossero i diritti dell'Impero, si pronunciarono in favore dell' imperatore, nonostante che ne andasse di mezzo la patria ; e facendo ciò, obbedivano al sistema : l'ambizione co- smopolita degli antichi Cesari era ricomparsa in quei grandi giureconsulti italiani. Anche Bartolo sosteneva con tutta se- rietà: adhuc dico istos de populo romano enee.... Et idem dico

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de Ì8ti8 aliis regibus et principtbus qui negant se esse subditos regi Romanorum^ ut rex Franciae, Angliae et similes. Egli estende ed ùnpone la condizione di cittadini romani a tutti: as- sorbe l'universo nell'idea dell'Impero, l'umanità nel popolo ro- mano, e, per amore o per forza, vi fa entrare tutte le nazioni, e anche tutti i tempi, antichi e moderni. Insieme gioverà ri- cordare ciò che l'arcivescovo di Milano disse a Federigo I in Boncaglia : Scias omne ius populi in condendis Ugibus tibi esse concessum; tua voluntas ius est, sicut didtur: ^ quad principi placuit legis hahet vigorem „. Le parole sono tolte di peso dalle Istituzioni giustinianee.

3. E anche la Chiesa favori, in sulle prime, questo indi- rizzo. Abbiamo già avuto occasione di osservare, ch'essa ripe- teva molti privilegi dal diritto romano, e che perciò si sentiva altamente interessata alla sua conservazione. Comunque, non era Giustiniano il piissimo imperatore, i cui editti contenevano la confessio rectae fidei e la refuiatio delle eresie contrarie alla fede cattolica? Il monarca, che, a detta di Dante, aveva con la Chiesa mosso i piedi, e a cui Dio stesso, per grazia, aveva spirato l'alto lavoro? Cosi la Chiesa non mancò d'inculcarne la osservanza. Abbiamo già detto, che Leone IV lo raccomandò all'imperatore Lotario. Anche Bonizone, nel secolo XI, deplo- rava che vi fossero giudici barbari e illetterati, che ignorassero quasi le leggi romane; ed era vescovo di Sutri. Lo stesso pa-

' lazzo pontifìcio risuonava spesso di queste leggi. Lo attesta S. Bernardo in una sua lettera a Eugenio HI: quotidie per- strepunt in tuo palatio leges Justiniani; e i canonisti ne parlavano pure con grande rispetto. La glossa si esprime in questi ter- mini: Cum tamen ab omnibus debeant observari leges romanae, et licet ab omnibus de facto non serventur, quia non subsunt m- peratori, de iure tamen debent subesse. Lo stesso ripete Uguc- cio. Una costituzione di Innocenzo IV provvede a che tanto il diritto canonico quanto il civile venissero insegnati nella scuola del Patriarchio lateranese ; e quando Bonifacio VIII fondò l'università di Eoma (1303), non mancò d' introdurvi lo studio della legge civile.

4. Si aggiunga V impulso della nuova vita municipale. Il comune risorgeva sorretto dalle memorie dell'antica Roma, e ne imitava le istituzioni : parrà naturale che cercasse di dare mag-

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gior risalto anche al diritto, più che non si fosse fatto per Taddie- tro. Dopo tutto, poteva ricorrere, e ricorse veramente, alla teoria dell'usucapione per legittimare il possesso, in cui si trovava, dei diritti sovrani ; e anche i principi di civile uguaglianza, che --^

si andavano facendo strada, dovevano riescire favorevoli all'an- ^ ^^

tico diritto. Era una lotta continua, assidua, che la città com- batteva con la campagna per abbattere il privilegio feudale e la prerogativa della nascita : essa non poteva ignorare che il di- ritto romano s'inspirava ai medesimi principi. Contemporanea- mente si effettuava il passaggio all'economia pecuniaria, e an- ch'essa non poteva non favorire questo moto ascendente verso il diritto romano e contribuire alla sua diffusione. La stessa vita commerciale e industriale, già ricca, aveva generato più ricchi e complessi rapporti di diritto: e anche perciò la iìi- tiuenza del gius civile romano, e di coloro che vi erano esperti, si era resa necessaria. Ecco, perchè intere città abbracciassero, in questi tempi, il gius romano, o almeno abolissero questo o quell'istituto germanico per surrogarvi il corrispondente istituto romano.

6. Un'altra spinta potentissima è venuta dalle scuole. Già sappiamo che in tutte si studiava il diritto romano; e alcuna di esse godevano di una meritata celebrità. Specialmente i vanti di Bologna divengono tradizionali dopo Irnerio; e in breve la valentia dei maestri, la straordinaria affluenza degli scolari, che vi accorrevano da tutto l'Occidente, reFero molto autorevole quello studio, da farne come il focolare del movimento giuri- dico dell'epoca. l'università di Bologna rimase sola, e ogni nuova università assicurava una nuova e maggiore eilicacia al diritto romano, che s'aggiungeva all'antica. Insieme erano sortì speciali collegi di giureconsulti, forniti di privilegi. Tutte le città di maggior conto ne avevano, e ognuno poteva ricorrervi libe*- ramente. Talvolta somministravano gli arbitri e consultori ai tribunali ordinari : anzi taluni statuti prescrivevano addirittura^ che questi consessi fossero formati, in tutto o, almeno in parte^ d'uomini, che avessero studiato il diritto romano. Ricordiamo gli statuti di Verona, Padova, Parma, Modena, Siena, Firenze- Infatti, dacché si era riconosciuto che il principio unico ed uni- versale della legislazione italiana era il diritto romano, doveva parer naturale di ricorrere a quelli che lo intendevano per

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averne le regole necessarie all'occorrenza dei casi. E il soccorso, che veniva da questi uomini esperti nella scienza delle leggi, sarà stato anche maggiore^ quando la potestà giudiziaria si ri- dusse nelle mani di un solo giudice, sprovvisto di cognizioni legali, e forse tutt'altro che insensibile alla corruzione.

Col tempo perfino la compilazione o revisione degli statuti municipali venne affidata a giureconsulti, ed era naturale che l'autorità del diritto romano si estendesse anche maggiormente. Più sotto avremo occasione di notare parecchi esempi : qui ba- sti di avvertire il fatto. Ad ogni modo essi riescivano al medesimo intento con la interpretazione, e non meno efficacemente, sop- piantando affatto il diritto locale, o almeno riducendolo a' prin- cipi romani. Jacopo di Ardizone sosteneva addirittura che uno statuto, che contraddiceva al gius comune, non potesse aver valore.

6. Cosi trionfava il diritto romano: una legge, che andava penetrando sempre più addentro nella vita. E non solo nei rapporti di diritto civile. Per es. le costituzioni della Marca Anconitana si richiamano alla legge Cornelia de sicariis; e pa- rimente vogliono punito con la pena legale^ cioè con la pena por- tata dalle leggi romane, chi batteva moneta falsa o si rendeva reo di aggressioni, ruberie ecc. gli affari di Stato offrivano minori occasioni. I giureconsulti erano chiamati spesso a cono- scere delle più ardue questioni nel governo dei popoli, e manco a dirlo, attingevano alle leggi romane. Già nel 1158 vedemmo Federigo I giovarsi e fidarsi dei professori, come di egregi mi- nistri del suo reggimento ; e anche altre volte lo si trova dispu- tare con essi, per sapere se poteva dirsi padrone del mondo ^ o a chi competesse il merum imperium. Perfino i libri antichi ven- nero modificati in questo senso. Cosi, mentre l'autore della Sum- ma Codicis si era, sullo scorcio del novecento o sull'inizio del mille, pronunciato contro l'opinione che V imperatore potesse pri- vare uno delle cose sue per darle ad un altro, una mano ignota vi sostituì in questi tempi il principio contrario: che cioè l'impera- tore possa trasferire a chicchessia la proprietà di un altro, e quegli acquistarla pur sapendo che la cosa era d'altri ; e se ne adduce la ragione: imperatoris auctoritate qiiod alios iniquum essei ad ius et equitaiem redigente. Una glossa esamina la questione, se il papa avesse veramente la giurisdizione temporale sulle terre

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~i

dell' Impero oomprese nella problematica donazione di Costan- ^ h

tino. Più tardi Bartolo stadia i diritti, che la Chiesa poteva ' ;;

vantare nello Stato; determina i limiti della potestà sovrana, var- ]

cati i quali, il monarca diventa tiranno; e anche si occupa «,

della ingerenza del popolo nelle cose di governo. Baldo, alla

sua volta, definisce i casi, in cui la guerra poteva dirsi giusta ; a Alciato esiunina le ragioni di sovranità e indipendenza di vari principati d'Italia e di Q^ermania.

La cosa giunse a tale, che se qualche città voleva scostarsi dalla legge romana bisognava che lo dicesse; e infatti vi sono statuti, che sopprimono espressamente questa o quella disposi- zione di legge« Senza tale dichiarazione, il diritto da appli- «^ carsi, sarebbe stato il diritto romano. |

7. Nondimeno la vittoria non poteva dirsi completa. l \

In primo luogo non convien credere che il diritto romano fosse accolto proprio nel modo, in cui si trova nel Corpus iurin, ì

Le condizioni della società erano troppo radicalmente trasformate * !

perchè potessero adattarvisi senza più. E anche la scienza non .

poteva a meno di tenerne conto. Esso era venuto sensibilmente \ ^

modificandosi tra le mani dei giureconsulti. Già la glossa aveva : ti

omesso di occuparsi di alcune leggi; e ciò che la glossa non co- *!

nosceva, era come non esistesse nel fòro. La regola : quod non agnoBcit glossa non agnoscit curia^ può trovarsi applicata tanto in Italia quanto in Germania, dove i rapporti erano cosi simili ai no- stri; e si può considerare come un sogno o una forma di selezione. ' | Yoleva dire appunto, che i pastai del Corpus iuris non glossati ';; non avevano autorità; ma spesse volte s'intese nel senso, che, nei casi controversi, dovesse prevalere l'opinione della glossa, e an* che si dovesse preferire questa al testo. Più tardi il testo stesso fa addirittura rimaneggiato per la pratica, almeno in alcuni rapporti; e certo se ne alterò il significato. Ma perchè tutto ciò?

A ben guardare, era la potenza della consuetudine, che, dopo aver agito sulle leggi, modificandone l'applicazione, agiva attual- mente sull'animo dei giureconsulti. Lo Sclopis avverte che ciò do- veva avvenire tanto più facilmente, in quanto che le opinioni e le abitudini, essendosi grandemente mutate nei popoli, il diritto romano non avrebbe adempiuto l'ufficio di diritto comune, ossia di legislazione generale, se non si fosse piegato a seconda della - condizione degli uomini e delle cose. Gli interpreti, in quanto

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facevano loro prò di tutto questo grande movimento, assicura- vano ì trionfi del diritto romano più e meglio che non avreb- bero fatto con una sterile interpretazione delle forme autenti- che. Per questo riguardo si rifacevano sulle orme degli antichi prudenteM, Prendevano le mosse dal diritto romano ; ma non si fermavano ad esso. Simili ai prudentes dell'antica Boma, an- ch'essi, pur interpretando la legge, facevano ben altro che chia- rirne il senso recondito: cercavano di adattare e coordinare alla legge il diritto nuovo, quale si andava svolgendo nella vita. Che se talvolta violentavano il senso della disposizione legisla- tiva, non per questo conviene tacciarli d'ignoranza, come taluno afferma : anzi lo facevano con deliberato consiglio, appunto per servire alle esigenze della vita pratica, che era qualcosa di più e di meglio che non la sapienza civile di un mondo che, in parte, era morto*

Inoltre il diritto langobardo, quantunque battuto in breccia molto aspramente, opponeva qua e una valida resistenza. Certo^ i giureconsulti andavano a gara nel gettare il ridicolo su di eeso e tìcreditarlo. Ciò fin dai tempi di Bulgaro, come egli stesso avverte : quidam sunt qui .... inferra volunt legem Lon- gobardam non esse legem. Che se egli non era di questo avviso, altri, anche in tempi più avanzati, lo dividevano. Odofredo per es. diceva^ eh© la legge langobarda non era legge ragione, ma un cotal diritto che i re facevano da sé. E altri sono an- che più brutali. Già gli interpreti langobardi si erano dati de- gli a.iiiii a vicenda; e i romanisti ne seguono l'esempio : dicono che la legge langobarda era un trovato bestiale, un diritto asi- nino, più fecce che legge : nec meretur lex appellari sed faex. 1 u realtà cerbi istituti giuridici mal reggevano al confronto col diritto romano, e i giureconsulti non mancano di ricordarli, aspramente censurandoli dal punto di vista della ragione. I reati, anche più gravi, espiati a contanti, i giudizi di Dio, spe- cie il duello, i congiuratori, le faide, la pignorazione privata, erano tutte consuetudini irragionevoli: qualcuno le ha chiamate addirittura ferree, e altri empie ed odiose, per quanto tenaci. E cosi nel dominio del diritto privato: la tutela muliebre, la preferenza dell'agnazione nelle successioni ecc. Le consuetudini milanesi del 1216 (o. 17) contrappongono Vodium quartae al /b- vùr dattj. Esse potevano anche avere la sanzione del tempo;

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ma nondimeno non avrebbero dovuto prevalere in confronto del

diritto romano: non c'era prescrizione che le legittimasse. E del

resto donde avrebbero potuto trarre la forza per imporsi se il

regno langobardo da un pezzo era caduto io frantumi? Già

l'autore delle Questionea de iuris aubtiìitatibus aveva dichiarato:

statuiorum enim vis, si qua fuit^ una cum auis auctonòus iam

tunc expiravit; e la sentenza si trova ripetuta molto pia tardi

da Baldo: abolito titulo regis aboleiur vigor et tiiulus suae legis;

et ideo leges Longobardorum non sunt in causi» aUegandae prò

legibuSf quia gens illa et regnum eorum ent abolitum et sublaium 1^

et omnia simul corruerunt. Caduta la dominazione, doveva inten- ^ 1

dersi caduto con essa anche il suo diritto ; e dopo tutto, non erano

quelle leggi state abrogate per desuetudinemt come potevano

ancora avere in conto di leggi? per non dire che qualche città,

già nel corso del trecento, aveva espressamente tolto loro valore:

Cremona, nel 1387, Bergamo nel 1391, Pavia nel 1393. Baldo

ne conchiudeva che, ad ogni modo, non poteva trattarsi che di

un diritto locale. E la Lombarda era veramente tale. Infine

è notevole che, mentre Odofredo aveva rilevato che nei paes^i

d'Oltrepò si osservava il diritto dei Langobardi e così pure nella

Tuscia, Baldo, alla distanza di meno che un secolo, già ne par*

lava come di cosa passata: Lex Lombardorum quae oìim multum

tiguit in Lombardia et Tuscia Longobardorum. Valeva proprio

la pena di curarsene? Riferiamo ancora parole di Baldo: de

isto iure non est curandum^ nisi ubi illa luge utuniur secanduvi

consuetudinem loci.

Ma non conviene esagerare.

Se da un lato c'erano giuristi che nr^gavano al diritto lan- gobardo la qualità di legge, e si sbi^^arri?ano alle sue spalle anche con motti di lega non troppo buona, dall'altro ve n'era parecchi che lo consideravano veramente come legge e contrap- ponevano i legistae Romani ai legistae Longobardi, Cosi già Bulgaro; e come Bulgaro, Ugolino e Rotiredo tra i romanisti, Paucapalea, Faventino, Pietro Bieseuse tra i canonisti* L'Ho* stiensis credeva addirittura che la sapieniia legaìis cousisteì«He nel conoscere, oltre che i libri giustinianei, anche la Lombarda e le constitutiones feudorum. Non diciamo poi delle fonti mu- nicipali: le consuetudini milanesi del 1216 e lo statuto di Ve* rona del 1228, per citarne alcune, ricordano coni© leggi tanto quelle romane quanto quelle langobarde.

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Ciò ohe più importa si e, che parecchie, in tutto il dugento e anche nel trecento, citano questo e quel capitolo del diritto langobardo oome tuttora vìgente. Le consuetudini milanesi de- terminano ohe i malfattori debbono punirsi aecundum legem mu- nicipalem nostrae eivitatis vel legem Lombardorum vel lege Bo- mana. Le consuetudini di Como del 1281 ne riconoscono l'au- torità in pagnis e in tutti qtiei casi in cui gli statuti del comune ne facevano menzione. Quelle di Brescia del 1301 hanno di mira le successioni e dispongono: Item lex lombarda^ quae est ultima in titulo de succeasionibus in Lombarda .... servetur et servari debeat in totum. Anche gli statuti di Monza vogliono mantenuta la legge della Lombarda che cominciava con le pa- role Quicumque veneficio etc, e quelli d'Ivrea dispongono, quanto ai ladri famosi, relinquantur puniendi iuri Longobardorum. Del resto, anche senza cotesti richiami, che vanno via via perden- dosi col tempo, molte cose del vecchio diritto langobardo erano andate ad alimentare i nostri statuti, e passavano per diritto statutario, mentre in realtà erano diritto langobardo.

Tutto ciò deve propriamente dirsi dell'alta Italia e dell'Ita- lia mediana ; ma anche nella bassa le cose non erano procedute diversamente. Parlando della scuola di diritto langobardo, ab- biamo ricordato come Carlo di Tocco, Andrea fionello e Biagio da Morcone considerassero parecchi istituti di quel diritto co- me inusitati ed inutili. E ne possisimo enumerare alcuni. Cer- tamente il diritto penale langobardo si aveva per antiquato già sul principio del trecento ; ma anche questa e quella legge del diritto privato e processuale era padata in dessuetudine, per te- stimonianza dell' Isernia, di Pietro di Monforte, dell'Afflitto e del Maranta. In fondo, checché ne dicesse il Ferretto, il quale ancora nel secolo XVI insisteva nel considerare il diritto lan- gobardo come un tutto, soltanto alcuni istituti veramente ne sopravvivevano: certo, la pratica tendeva a restringerlo cosi; ma d'altra parte essi non erano pochi e neppure di scarsa im- portanza. Ne fanno fede, tra le altre, le carte pugliesi e anche le consuetudini di Bari, che, non altrimenti di ciò ch'era acca- duto con gli statuti dell'alta Italia, ne accolsero il buono e il meglio.

In realtà il diritto langobardo poteva dirsi tutt'altro che tra- montato : anzi teneva ancora il campo in qualche luogo. Lo abbia-

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mo notato anche più su; e per quanto si cercasse di screditarlo, non lo si poteva saltare a piò pari. Tutt^altro.

Così, pur considerando il diritto romano come primitivo, gli altri, che vi si erano aggiunti, dovevano avere la precedenza Si riguardavano come derogazioni o modificazioni al diritto co- mune, e andavano innanzi, mentre il diritto romano non veni- va che in sussidio. E già la Expositio e anche le glosse della scuola di Pavia hanno inteso il rapporto in questo modo. La Expositio nota più volte le lacune del diritto langobardo, e sog- giunge che in questi casi si doveva seguire la lex Romana^ quae omnium est generalis. E non manca di farne l'applicazione. Cosi pure una glossa dei tempi : de ceteris catisis quae in lege Longo- bardorum expressae non sunt^ communi lege vivant^ id est lege Romana quae communis est omnibus; anzi il glossatore crede che questa fosse già una disposizione di Carlomagno, riferen- dosi ad un suo capitolo spurio. altrimenti lo ha inteso Bofr iredo. Ma anche altre fonti considerano il diritto romano dallo stesso punto di vista. Il Constitutum usus di Pisa dell'an. 1160, accennando ai rapporti che cadevano sub iudicio legisj li defini- sce come rapporti regolati dal diritto romano con qualche po' di langobardo: vivendo lege Romana retentis quibusdam de lege Longobarda. E sempre il medesimo concetto e cioè, che la leg- ge romana costituiva la legge generale e il diritto langobardo la legge speciale. i libri feudali la pensavano diversamente, se alla legge romana applicavano ciò che Costantino aveva as- serito della consuetudine : Legum romanarum non est vilis aucto- ritaSj sed non adeo vim suam extendunt ut usum vincant aut mores. Strenuus autem legisperitus, sicubi casus emerserit, qui consuetudine feudi non sit comprehensus^ absque calumnia uti pò- terit lege scripta.

Senonchò, appunto ciò doveva agevolare Tapplicazione del diritto romano. Se gli usi e le leggi locali avevano il passo su di esso, erano però una cosa irregolare. Questa è l'idea che campeggia nella letteratura, e che fa capolino anche in qualche codice; e ad essa corrisponde la pratica. Ne parleremo più sot- to; ma intanto gioverà notare due regole:

La prima è, ohe ognuno, il quale si richiamasse al diritto ro- mano, aveva /aitda^dm intentionem\ ossia non aveva bisogno di di- mostrare che la legge in questione fosse in vigore, mentre invece

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spettava all'avversario di provare che qualche diritto statutario o consuetudinario vi si opponeva. il diritto langobardo ne andava esente: aveva efficacia solo nei luoghi dove si poteva provare che valesse ; e solo per certi negozi, e il trovare applica- zione per alcuni non voleva ancora significare che la trovasse per altri. Lo si rileva dall'Afflitto: Unum tamen non amitto circa observantiam iuris Longobardi, quod si in cimiate vivitur iure Lon- gobardo quoad certa negotia^ non est dicendum quod in aliis vivitur iure Longobardo. Cosi, bisognava dame la prova.

L'altra regola è, che ogni statuto contrario al diritto comune si aveva come di stretto diritto, o, se più vuoisi, di stretta inter- pretazione. E cosi il diritto langobardo. Luca di Penna, l'Af- flitto, il Ferretto osservano ad una voce che anch'esso, al pari degli statuti, era stricti iuris e non tollerava alcuna interpre- tazione estensiva. Luca di Penna lasciò anche scritto: at Ro- mano iuri non intelligitur derogari per Longohardum^ nisi qua- ienus hoc invenitur expressum. . . . quinimmo necesse est contra ius Romanum consuetudine roborari.

§ 2. IL DIRITTO ECCLESIASTICO.

A. Sue fonti. ^^

1. Il diritto ecclesiastico segue l'evoluzione storica del Papato: si solleva con esso a straordinaria altezza, e con esso viene decadendo. Nella lotta con l'Impero, la vittoria era ri- masta al Sacerdozio ; e la Sede romana era venuta a si grande

•• Bibliografia. Per

vedi: Istoria della ronuma e

Jieia, Bomae, 1848. EjLLTENBRumsriB nelle *'Mittheilxm^] Ghesoliiohtsforschajig,, Innsbrack, 1880^ I, p. 875 segg. Valois nella *Bibl. de Téool dea Chartes, Paris, 1881, XLn, p. 257. Pitra, Novu». Analecta. I, (1865) p, 1 segg. Brbslau, Hemdbuch der Urkundenlehre, Leipzig, 1888, I^. 67 segg. Geisar nella *" Zeitschr, fOr kathol. Theologie ^, Innsbmck, 1888, p. 487. Ottkmthai, Re^ulat cancellariae apoMtolicae, Die PapM. Kamleiregeln von Johannes XXll òtt Ni- eolaus V., Innsbraok. 1889. Takol, Die pSpsUichen Kansdeiordn%ingen von 1200- 1500, Innsbraok 1895. Pplug-Hasttuno, Die BvJUen der PàpsU bis zum Ende des XII lahrK, Gotha, 1901. Wahruund, JXe eonsuettuiines euri<»e romanae (nella « Zeitschr. £ BLath. Kirchenr. LXXÌX, 1, 1899). Per la storia dei conoili ri- mandiamo ad Hefelb, Conciliengesch,^ 7 voi., Freiburg, 1855^ 2^ ediz., 1877 con- tinnata (voi. VITI) da HebobkbOtheil Freiburg, 1887. Vedi anche ^Vessesbkro, Die grossen Kirchenversammlungen des 16 u. 16 lahrhunderts.^ voi., Constanz, 1844-45. Tosti, Storia del concilio di Costanza, 2 voi., Napoli, 185a P. Soavk (Paolo Sarpi) istoria del eoneilio di Trento, Londra, 1619. Pallavicini, Istoria

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potenza, che buona parte del mondo guardava ad essa, come ad un faro di salute. Si può dire ohe non ci fosse affare di qual- che momento, anche temporale, in cui la Chiesa non mettesse bocca. le occasioni mancavano. C'era il sistema discipli- nare, che, abbandonato ai costumi dei vari paesi, in mezzo alla barbarie dei tempi, era riuscito a troppe divergenze, e bisogna- va ricompome l' unità, e ritrarlo a più sani principi. Poi c'era- no le contese con gli imperatori, coi re, con le città, e le re- sistenze e opposizioni che, a quando a quando, si manifestavano nei seno stesso della Chiesa. Anche i patrimoni e privilegi cle- ricali, cresciuti a dismisura, porgevano frequenti occasioni alla Chiesa d' intervenire. Chiamata ad amministrare i sacramenti, essa trovò modo di regolare, per connessione di causa, i tre grandi momenti della vita umana, che sono : la nascita, il ma- trimonio, la morte, e i rapporti giuridici che ne derivano. le sfuggi la materia dei contratti, per la gran parte che vi ha la morale. Si aggiunga lo sviluppo addirittura straordinario conseguito dalla scienza giuridica nelle università. La ragion canonica non avrebbe potuto rimanervi estranea: bisognava darle una espressione corrispondente; e possiamo anche ricor- dare alcuni papi, che maggiormente cooperarono a questo scopo : Alessandro III, Innocenzo III e Innocenzo IV, tutti e tre al- lievi dello studio di Bologna. Questi sono i bei tempi del di- ritto ecclesiastico! Più tardi, scaduta la Santa Sede, diminui- sce il numero delle leggi ecclesiastiche e ne scema l'importanza.

Volendo studiare un po' da vicino siffatta legislazione, ne distinguiamo principalmente due elementi, o fattori, che sono: le costituzioni pontifìcie e i canoni dei concili generali ; poscia esamineremo ciò che la storia della civiltà veramente le deve.

2. Le costituzioni pontificie si svolsero dalla natura del primato e raggiunsero con esso una grande importanza, fino dai primi secoli della Cristianità. Una certa preminenza di

Hfi eoneilio di Trento, 2 voi., Roma, 1G52. Gi^sobl, OfchichU. DartUUung d^s CifnA iM TrUìUy Rogensbur^, ÌXUX 2 voi. Damz. Gcsch. tUt TrienUr Conciliumt^ Jona, 1h46. C a Linz io, Saggio di ttoria del concilio generaU di Trento eotto Paolo 111, Roma, 1A)9. Lo btb^ao, Docutnenti inediti e nuovi lavori letterari aul cunei" lio di Trento, riguard€mti la storia e le editioni dei canoni e decreti del medeai- Mo, Roma, 1K74. Aggiangiamo: Gubrra, Pont\firiarum conetitutionum in Bui- tariie Magno et Romano eontentarum Efitonie et eeeundum materica die^otitio, 4 ▼oL Veneti U, 1772; Ha il, Summaconeuiorum omnium ordineUa, auetttn illustrata ex Merlini, Joverii^ Baronii, Binii, Coriolani, Sirmundi, aliorumque eollection^ue oc manueeripHe altquoL Editto receu9, 2 voL, Pariiiis, 1672.

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Pietro sugli altri apostoli, e quella della sede pontifìcia sulle al* tre sedi era ammessa già allora; e quindi parrà naturale che i vescovi e i dottori consultassero i papi sulle questioni che essi stessi non sapevano risolvere. Più tardi la costituzione della Chiesa si accentrò addirittura nel primato; e non mancarono papi e canonisti fanatici, che lo portarono alle estreme esage- razioni. Bonifacio Vili affermò, che il pontefìce romano tura omnia in scrinio pecioris sui censetur habere; Agostino Trionfi, dice press'a poco lo stesso, sostenendo che il papa non può mai commettere simonia, quia ipse est supra ius et eum iura positiva non ligant. Quella fonte tenne allora il primo posto.

Ed è facile comprendere che doveva riguardare oggetti sva- riatissimi.

C'erano le decisioni dottrinali dei papi, che, oltre ad essere deliberate nel presbyterium della Chiesa romana o nel concilio, potevano anche rappresentare l'opera personale del pontefìce. Nel primo caso dicevansi Epistolae decretales^ tractatoriae^ synodicae^ o anche Epistolae o Litterae semplicemente ; nel secondo Bescri- pta^ ResponsioneSj Decreta. Il più delle volte avevano la forma del Rescriptum^ ossia di una risposta ad un quesito, secondo il costume degli imperatori romani.

Altre decisioni si riferivano a casi giuridici. Era un prin- cipio comune, oramai adottato, che le controversie giuridiche potessero portarsi davanti al foro del papa, più meno di ciò che si usava con l' imperatore ; oltre di che si avevano le ap- pellazioni in via di completo svolgimento. I così detti rescripta ad lites si collegano appunto con la giurisdizione del papa, e si tratta di una fonte molto ricca. L'affluenza delle liti alla cu- ria romana era tale in questi tempi, da parer quasi che tutto il mondo andasse a piatire colà.

Insieme venne estendendosi la ingerenza del pontefìce nella collazione dei benefici, e con essa la materia dei rescritti, che, a distinguerli dagli altri, si dicevano ad beneficia; e anche c'era- no mandati e istruzioni e monitorì diretti ad ufficiali ecclesia- stici, ovvero ordinanze in oggetti d'amministrazione, o di morale, o di politica religiosa, per non dire della corrispondenza vivis- sima con le nazioni.

3. Veniamo ai concili ecumenici.

Ben undici se ne contano in questi tempi in Occidente, co-

I

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minciando dal primo di Laterano (1123) sino a quello di Tren- to (1645). In generale, hanno tenuto dietro, come sempre, ai grandi cataclismi sociali; ma non tutti presentano lo stesso ca- rattere. Giova cioè distinguere i concili dei secoli XII, XIII e XIV dai grandi concili riformatori del secolo XV, e sia per il punto di partenza, sia per gli argomenti di cui si occuparono. Anche il concilio di Trento si distingue per i suoi caratteri speciali.

Un arguto scrittore ha notato che questi stati generali del .

mondo cattolico sono qualche volta delle Assemblee costituenti, I

ma più spesso non sono che Camere di registrazione. L'una cosa e l'altra si è verificata nei tempi di cui discorriamo.

Nei quattro concili lateranensi, nei due di Lione e in quello di Vienna (in Francia), cioè dire nei concili dei secoli XII, XIII e XIV, il centro era il papa: l'intonazione veniva da lui, i suoi legati dirigevano Tandamento e lo spirito delle discussioni, e il concilio non faceva che approvarne i decreti. Questi concìli corrispondono ai tempi della maggiore autorità della Sede pon^ tificia.

Il soggetto principale dei quattro concili lateranensi e dei due di Lione fu il passaggio in terra santa, eroica impresa che interessò tutto il mondo cristiano. I papi l'avevano promossa, ne era valsa la contraria fortuna a scoraggiameli. Ma si prov- vide eziandio a molteplici materie riguardanti la Chiesa, delle quali alcune hanno una relazione diretta con l'ordine pubblico esteriiQ del consorzio civile. Noi non facciamo che accennare : l'obbli- go imposto alle podestà laicali di sterminare gli eretici, la im- munità ecclesiastica da ogni specie di gravezze pubbliche, Tor- dine dei giudizi e i modi di procedere. À mantenere pura la condizione dei chierici, si volle che non potessero cumulare più benefizi, e dovessero astenersi da ogni commercio secolareBco, da ogni giuoco di sorte, da ogni giudizio di sangue e dal duello, come pure dalle purgazioni per via dell'acqua bollente, o fred* da, o del ferro rovente. Furono anche fatti ordinamenti sui matrimoni e sull'usura.

Una speciale importanza offrono le nuove leggi pubbliaite per la elezione del pontefice, che possono coui^iderarsi come il coronamento doll'edificio. Il terzo concilio lateranonpe, il se- condo di Lione, e quello di Vienna, s'iuspirano, per questo ri- guardo, ad una pratica invalga nella Chiesa fino dai tempi di

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Nicolò II (anno 1059), che corrispondeva alla libera elezione dei vescovi fatta dai capitoli. Il clero e il popolo, dopo averla te- nuta per lungo tempo, avevano ceduto il posto ai cardinali. I quali oggimai erano i soli elettori : e quei concili, confermando tali usi, ordinarono le forme e le regole del conclave, e in- segnarono ai cardinali con quale spirito dovessero compiere il loro ufficio. Queste leggi miravano a rendere la Sede pontifi- cia libera e forte, sottraendola alla influenza delle fazioni, e an- ticipando di quasi tre secoli quell'altra legge elettorale, che si conosce sotto il nome di Bolla d'oro. Il diritto dell'approva- zione imperiale, riconosciuto ancora da Nicolò II, andò a poco a poco in disuso.

Più tardi, le cose prendono un'altra piega. La Chiesa aveva perduto nel grande scisma il suo punto di unità, e i concili ri- formatori di Costanza, di Basilea, di Firenze, ne assunsero il governo, partendo dall' idea, che la suprema autorità della Chiesa spetti a] concilio ecumenico, e che anche il papa debba piegarsi ad essa. È la fase della reazione dei concili contro il papa. Emancipati dalla supremazia pontifìcia, essi sono già vere as- semblee costituenti; e studiano tutto un piano radicale di ri- forma della Chiesa e del Papato. Lo spirito democratico dei pa- dri vuole ristabilita l'uguaglianza dei prelati e del basso clero nei sinodi; dichiara che i suflfragì riuniti esprimono la volontà dello Spirito Santo, e anche si oppone agli abusi invalsi nelle materie beneficiarie, specie alle annate ; batte in breccia le tasse e tutte le simonie di Roma, e provvede a riformare i costumi. Dall'altro canto non sono neppure mancate le rimostranze dei pontefici. Martino V era appena eletto e già dichiarava che non si dovesse decidere nulla circa la questione della superiorità del concilio, sull'altra, che pure si era messa innanzi, di definire i casi in cui il papa potesse venire deposto; e condannava co- loro che si fossero appellati dalle decisioni sue al futuro concilio.

Un secolo dopo assistiamo ad un nuovo cambiamento.

La riforma di Lutero nocque alla Chiesa romana, e anche le giovò. Il concilio di Trento, convocato per porre un argine alla eresia e dare una regola ai cattolici, fini col chiudere il si- stema della dottrina ecclesiastica; completò, modificò, rinnovò parecchi principi, e riformò molti abusi. Il concilio di Trento ha, per tutti questi aspetti, un' importanza anche maggiore, che

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non abbiano avnto i grandi concili ecumenici dei secolo XY e la spinta è venuta dalla Riforma. Specie per ciò che concerne il rapporto dei papi coi vescovi, ci furono bensì alcuni, che avrebbero voluto ritornare alle questioni di Costanza e di Ba- silea e sminuire l'autorità pontificia; ma la cosa non ebbe se- guito : poteva averlo, viste le condizioni de' tempi e la spe- ciale posizione del Concilio. Invece si riconobbe indirettamente, che il centro di gravità della costituzione era il papa; e que- sti non mancò di approfittarne, sia con l' intrommettersi nella di- rezione delle chiese nazionali, sia con lo scemare i diritti delle autorità costituite. È una tendenza, che si fa largo sempre piti. Prima ancora che Luigi XIV dicesse: lo Stato sono io, il papa avrebbe potuto dire ; la Chiesa sono io. Comunque, la Corte di Roma usci dal concilio rinfrancata di forze.

E anche per un altro riguardo il Concilio rispecchia i tempi, distinguendosi dai grandi concili del medio evo.

Il concilio di Trento difetta di vera ispirazione religiosa. Fra Paolo Sarpi ha sollevato un lembo della cortina del san- tuario, e si scorge chiaro come le grandi questioni del paradiso e dell'inferno vi fosseto pesate e votate, non altrimenti di un afiare di parte. Il calcolo aveva preso il posto dell'ispirazione! E vi si vedono usati tutti gli espedienti delle nostre camere: ò una tattica tutta diplomatica, sono piccole imboscate e stra- tagemmi, proposizioni equivoche, concessioni apparenti e sub- dole. La materia delle discussioni arriva già pronta da Roma, e nei casi dubbi, il papa manda qualche infornata di prelati per assicurarsi la maggioranza. Onde si disse, che lo Spirito Santo arrivava con la posta. Anche la leggerezza della discus- sione presenta un singolare contrasto con la gravità dei problemi che si dovevano discutere. Chi vuole formarsene un'idea può leggere le lettere coufidenziali deirarcivescovo di Zara, mem- bro del concilio. I principali articoli di fede vi sono stati vo- tati tra i lazzi; e non occorreva molto a far perdere le staffe a <|uei prelati: l'accento forastierO di uno, o un gioco di parole bastavano.

S*intravvede qualcosa dell'uomo moderno in tutto ciò. Ma, se ntin riuscì ai padri del Concilio di sottrarvisi, era poco sperabile chfì vi riescissero con la società. Noi non crediamo di andare er- rati dicendo che, nono.^tante la grande reazione religiosa provo-

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caia dalla Riforma, il periodo religioso poteva dirsi sorpassato. Era l'altimo guizzo di luce, che mandava la lampada al mancare dell'alimento ; e d'altronde il modo tenuto dal Concilio era an- che il solo, con cui si potesse formare una religione in tempi corrotti.

B. Le collezioni.^''

1. Naturalmente la mole delle costituzioni pontificie e dei canoni crebbe di mano in mano che la Chiesa venne svolgendo la sua vita giuridica e le sue discipline; e se già in antico si era sentita la necessità di raccoglierli, tanto più si doveva sen- tirla nel periodo di cui ci occupiamo. Si trattava di ovviare alla confusione e al disordine, che il gran numero di quelle fonti, e anche la loro dispersione, avrebbero potuto generare: cosi, già per tempo si fecero delle collezioni di diversa forma e natura ; ma certamente quelle antiche, fino al secolo XII, hanno minore importanza.

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Accenniamo appena alle raccolte anteriori ad esso.

Alcune appartengono alla C^hiesa orientale, e tali sono, per ricordare soltanto le più celebrate, le Costituzioni e i Canoni Apostolici, la raccolta di Giovanni Scolastico e quella di Fozio.

Altre appartengono alla Chiesa latina.

La Versio Hispana è una di queste. Si conosce anche col nome di Iindoriana^ perchè attribuita erroneamente a Sant'Isi- doro di Siviglia. Veramente è una raccolta di canoni di con- cili orientali voltati in latino, che nacque e si svolse a poco a poco in Italia nel secolo Y, ma che si diffuse poi anche nelle Gallio e in Ispagna.

Negli ultimi anni dello stesso secolo il monaco Dionisio, detto, per ragione di modestia, il piccolp {Dyonisius exiguus\ Scita d'origine, ma che visse lungamente a Boma, versatissimo nelle sacre scritture e nelle opere dei Santi Padri, attese pure a raccogliere sia i canoni dei concili, sia le decretali pontificie, le quali si erano già fatte largo in Occidente. Biuni poi le due collezioni in una, che, meglio ordinata, fu tenuta in grande considerazione non solo nella Chiesa romana, ma anche nella

Halle, 1851. Hildknbeand, UrUenuchungen Ub, die german, P&niUrUialhUcher, Wùrshorg, 1851. Krone, Die alUiflchs, Beichttpiegel zur Ztit des K Ludqerue, Begenabarg, 1860. Frieddsro, Aum deuUchen Bus^biicìiem, Halle, 1868. Schmitz, lìU Bwubilcher tt. die BvMditziplin der Kirche, Mainz, 1^. Serba!»!, Utber Co^ Iwmban von Luxeuil, KlotUrregel u, Buabueh, Dresdexii 1883. Della bibliogra- fia pseadoisidoriana ricoxdìamo : Ferrari, Indoro mercatore difeso, 2* edis., Vene- lia, 1892. Wasserachleber, Beitràge sur Geseh, der faUehen JUeerelalien, Breslaa, 1H44. Lo STESSO. neUa *Theol. Encyd. « di Hersog, y. Pseadoisidor. Roth, Paeudo- Indor nella '*^ittohr. far B. O. » V> P. 1 se^K. Wkizsackrr, Die pmudoindori- •che Froge nella Zeiteohr. , di Sybel, ili (IHijO). Lo stesso, Der Kanipf gegtn den Chorepitkopal dee frSnk, Reiehs in IX Jahrh,, Tùbingen^ 1><>9. irÌNscBius nella prefaaione alla sna edizione delle Decretali peeodoisidoriane, Lipeia, 1HG8. FOSTE, Die Beception Feeudoisidors unter Nieolaue u, Hadrian, Leipsig, 1H81. HiTTRER, nella "Zeitschr. far Kirchenr. , di Dove, XIX (1H81). Maashex, Fteudoieidor. Studien, 1, 2, Wien, 18S5. SmsoR, Die Enletehung der Pseudoiaidor. FHUehungen in I^e Mane, Leipzig, 1H8<). Lo stesso, Veber dae Vaierland der fal- eehen DecreiaUn. Beplik (nella ** Histor. Zeitachr., nuova sene XXXII, ^ 1K^2). FonaxiRR M., La question des fausees DécrétaUe (** Nonvelle Bevne histor. XI, 1887). Lo stesso, Une fornxe parliculière dee faueee» décréiales d'aprèe un mcmu- eerii de la Grande Chartreuse, Nogent-le Rotroo, 18H9. Lo strsso, De ^origine dee faueses deeretales. Saint Dizier^ 1HH9. Patrtta, Sopra due manoscriUi della eoiUmione Pseudo-Isidoriema (* Rivista itaL per le scienze giurìdiche ., X, 1900). Lraz, Ueber die Heimat Pseudoisidors, Mtlnchen. 1898. McLt.RR,^Mm Vcrh^Uniss Ni^olaue I «. Pseudo'Isidors (•Nenes Archi v, Hannover, XX V, 2, 19iX)). In Questi ultimi anni videro la 1 noe le se^uonti Snmv^ae, sia del Decreto sia delle Hoc retali: Laspbtrrs T., Bernardi Pa^iensis favcntini episcopi Sumvu» Decreta- lium, Ratisbonae, 18B0. Tu aree F., Du «Summa magistn Rolandi nachmals Pop- stes Alexander de» III, Innsbruolc, 1874. ScHVi.xtf^ Die Summa des PaticapaUa Uher da» Deeretum Grotiani, Giessen, IhlK). Lo stesso Die Summa des Suphanus Turnacensis Uber da» Dcrretum Gratiani, Oiessen, 1h5»1. Lo stesso. Die Summa m«tgi»iri Bufini tum Pecretum Gratiani, (ticsson, lKf2» La «Summa decretorum de» magister Rnfinus fu ripubblicata rocou temente dal Sisorr, Pddorborn, 190*2

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greca, nella franca, nella britanna, e tolse la mano alle altre. liO stesso papa Adriano I ne donò nn esemplare, notevolmente accresciuto a Carlomagno, che, alla sua volta, la promulgare solennemente nella dieta di Aquisgrana dell' 802, ed è quella a cui si riferiscono i parlamenti, quando invocano i vecchi ca- noni ricevuti in Francia.

Sulla fine del secolo IX il lavoro piglia nuova lena. Diremo meglio: si cominciano a compilare delle collezioni metodiche, veri trattati, che paiono aver servito per l'insegnamento nelle scuole delle cattedrali e dei conventi. E se ne incontrano in gran numero fino a Graziano, che li farà dimenticare tutti. Sono lavori, in cui si vede già penetrare il diritto civile romano e franco, e che, al pari di altri puramente civilistici, preparano il rinascimento giuridico, e lo spiegano. Ricordiamo la CollecHo Anselmo dedicata^ che ebbe origine in Italia tra 1' 883 e 1' 897, e fu detta cosi perchè dedicata ad un Anselmo, archipraesul; i due libri De synodalibus causis et disciplinis ecclesiastids di Reginone abate di Prum morto nel 915; i venti libri Decreto' rum di Burcardo vescovo di Worms tra il 1012 e il 1022, la col- lezione di Anselmo vescovo di Lucca morto nel 1086 ; quella del cardinale Deusdedit (1087) ; una di Bonizone vescovo, che fu prima di Sutri e poi di Piacenza, amico di Gregorio VII; il Decretum e la Panormia di Ivone vescovo di Chartres morto nel 1115 o 1117; il Polycarpus del cardinale Gregorio circa l'anno 1118.

Possiamo aggiungere i così detti Libri penitenziali. Sono istruzioni circa il modo di amministrare il sacramento della pe- nitenza e in pari tempo un bellissimo monumento della seria lotta che la Chiesa sostenne contro il peccato in prò della vita cristiana. Che se l'idea ne parti dai conventi, specie anglosas- soni, vediamo ch'essi si diffondono poi rapidamente in Francia e in Italia. I più noti sono quelli di S. Colombano e di Teodoro di Cantorbery, nel secolo VII, del venerabile Beda e di Egberto vescovo di York, nell' Vili, di Holitgaro di Cambrai e di Babbano Mauro, nel EK. A volte però si tratta di autori incerti e di sanzioni arbitrarie, se non erronee, e lo notava già il concilio di Chàlons dell' 813, ripudiandone parecchi.

In mezzo a tutto ciò non mancavano le falsificazioni ; e pare si cominciasse molto per tempo. Già nell'anno 414 papa Inno-

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cenzo I si lagnava delle decretali apocrife, che circolavano; ma si continuò a fabbricarne, e infine gli stessi papi vi trovavano il loro tornaconto.

Fra tutte, la falsificazione più smaccata e più celebre è quella che va sotto il nome d' Isidoro Mercatore o Peccatore, detta an- che delle False decretali j su cui abbiamo già richiamato l'atten- zione altrove (p. 158), accennando anche alla causa che l' ha ispirata. Si trattava sempre della reazione contro il sistema politico-ecclesiastico dominante, che nel tempo dei regno di Lodovico il Pio aveva nociuto molto alla Chiesa, e suggerita anche l'altra falsificazione dei Capitolari franchi di Benedetto Levita. Il falsificatore si celò sotto il nome di Isidoro per dare maggior credito e autorità all'opera sua, ma non si sa chi fosse. Soltanto si può dire con sufficiente sicurezza che fu un ecclesiastico delle parti occidentali della Francia, e che compi l'opera tra gli anni 846 e 852. Ciò che più importa si è, che ebbe fortuna. Incmaro di Beims vi si richiama nell'anno 859, quantunque avverta che alcune decretali sono apocrife. E vi si richiamarono anche i papi. In breve venne in uso in tutto l'Occidente; e i collettori successivi, presso che tutti, anche i più accurati, ne riprodussero le novità. Basterà accennare alla raccolta di Anselmo vescovo di Lucca, che contiene veramente molti brani delle Decretali pseudoisidoriane favorevoli al sistema papale. Si disputa però se la pia frode abbia veramente gio- vato alla potestà del pontefice. Più d'uno disse che questa, preparata da circostanze storiche generali, si sarebbe costituita anche senza di essa, soltanto per forza di cose ; ma resta ad ogni modo il fatto, che il titolo giuridico, con cui i papi giustifica- rono cosi spesso la loro supremazia, è falso. Dal canto nostro non dubitiamo che l'opera abbia giovato potentemente a trasfor- mare tutta la costituzione della Chiesa. E si comprende che in un tempo, in cui l'autorità era tutto, lo spirito critico nulla, una scrittura, per quanto falsa, accolta e difesa dalla suprema autorità ecclesiastica, non contraddetta da alcuno, potesFc anche diventare il fondamento più solido del più colossale degli edi- fici. Se non altro conferì a rafforzare la potenza della Sede romana, a favorirne le tendenze accentratrici, a rompere le re- sistenze dei vescovi, dei metropoliti, delle chiese nazionali, ad emancipare i prelati dalla sovranità dello Stato e a gettarli.

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per conseguenza, nelle braccia di Boma. Perfino l'istituto ci- vile delV Actio e della Exceptio spolii pare derivato dalla pretesa pseudoisidoriana, che non si possa agire canonicamente contro un vescovo tenuto prigione o deposto, se prima non lo si ha reintegrato nel possesso.

2. Resta che esaminiamo le collezioni canoniche a par- tire dal secolo XII : ò questo il periodo, che possiamo dire della codificazione^ e indubbiamente ha una importanza molto mag- giore.

Era il tempo in cui la scuola dei legisti fioriva a Bologna, e il rinnovato studio della giurisprudenza romana aveva dato maggiore impulso anche agli studi forensi. Appunto allora, nella metà del secolo XII tra il 1141 e il 1150, G-raziano, un monaco del convento di S. Felice di Bologna, si fece a compi- lare una raccolta delle fonti canoniche, come avevano fatto an- che altri prima di lui, ma con intendimenti diversi, giovandosi delle collezioni anteriori d'ogni specie e forma, delle opere dei SS. Padri, dei canoni dei concili, delle costituzioni pontificie, dei libri penitenziali, delle leggi civili contenute nei codici teo- dosiano e giustinianeo e nei capitolari, in quanto avevano at- tinenza con la materia ecclesiastica, perfino di lavori puramente storici, frammettendovi più cose del proprio, che chiarissero il senso della legge e ne agevolassero lo studio, mostrando il nesso delle idee e risolvendo le antinomie.

L'opera si conosce oggi col nome di Decretum Gratìani. Egli l'aveva intitolata Concordia discordantium canonum, e questo nome indica chiaramente lo scopo che si era prefisso. Nelle collezioni precedenti aveva trovato accumulato un ricco mate- riale; ma messo assieme, com'era, senza riguardo ai paesi, da cui proveniva, o ai tempi, presentava frequenti contraddizioDi. Graziano si propose di toglierle. Così compilò quest'opera, che sta di mezzo fra una semplice collezione e un trattato, e ab- braccia tutto il diritto e la disciplina ecclesiastica. Graziano comincia da alcune considerazioni generali sulla natura e le fonti del diritto; passa via via a parlare delle persone e degli offici; studia molti casi, o cause, sciogliendone le difficoltà, o questioni, con la scorta delle leggi che vi si riferiscono, e ter- mina con le materie strettamente sacre. In fondo segue il si- stema romano, che voleva scompartito tutto il diritto con ri-

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guardo alle persone, alle cose, alle azioni, modificandone al- quanto il concetto per la speciale natura delle materie.

Non vorremmo però dire che sia un'opera scevra da mende. Specialmente si taccia all'autore di non avere attinto alle fonti originali, e avere riferito non pochi documenti apocrifi ; e anche gli si rinfaccia certa cattiva distribuzione della materia e qualche errore e inesattezza sia nei testi, sia in talune con- ciliazioni proposte. Nondimeno sta il fatto ohe l'opera di Gra- ziano fece presto andare in dimenticanza le collezioni prece- denti, tra perchè ne aveva riprodotto la materia molto ampliata, tra perchè si prestava meglio ai bisogni della scienza. Soprat- tutto vuoisi notare che Graziano fu il primo a sollevare il di- ritto canonico al posto, che tenne poi sempre. Perchè, per lo addietro lo si era insegnato soltanto nelle scuole episcopali e claustrali come parte della teologia ; e Graziano ne ha fatto una disciplina speciale, onde il grido, che in breve si levò, del grande sapere di quest'uomo, fu- tale, che il volgo lo credette fratello di due altri chiarissimi uomini di quel tempo : Pietro Lombardo e Pietro Comestore. Il poeta disse di lui

che l'ano e Paltro fòro

Aiutò si, che piace in Paradiso.

Il Decreto stesso fu sino dal suo primo apparire paragonato al Digesto, e divenne come il simbolo di una possente fazione che contrastava all'Impero. Insieme generò una nuova scuola, oltre a quella dei legisti, un nuovo ordine di dottori del di- ritto canonico, i cosi detti canonisti' o decretisti, che salirono in breve a grandissima riputazione. Tutta una fioritura scien- tifica si venne svolgendo intorno all'opera del monaco di S. Fe- lice; perchè se ne fece oggetto d'insegnamento nelle scuole, e fu anche illustrata con Summae e con glosse, più meno dei libri giustinianei. Appunto tra le Summae amiamo di ri- cordare quelle del Paucapalea, dell' Omnibonus, del Faventinus, del Bandinelli, del Rufino, di Simone da Bisignano, di Stepha- nu8 Tomacensis e di Uguccio da Pisa. Il Paucapalea vi fece anche delle aggiunte, che, dal nome di lui, furono dette Paleae, Fra le glosse acquistò una speciale considerazione e diventò poi stabile quella di Giovanni Teutonico, di soprannome Semeca, anteriore al 1215.

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I Ma la legislazione non ha sosta. Erano i tempi del mag-

gior fitstigio della cattedra di S. Pietro: le costitnzioni ponti- ficie e i canoni dei concili si andavano moltiplicando sempre più; il Decreto stesso doveva parere insnfficiente, sia all'nFO della scuola sia a quello del fóro, e bisognava pensare ad altre raccolte, anche di cose antiche, che Graziano aveva tralasciato, e molto più delle nnove. Di fieitto se ne compilarono parecchie col crescere della potenza legislativa della Chiesa. In meno d'un secolo ne furono fatte quattordici in aggiunta a Graziano, e qualcheduna ebbe anche l'approvazione pontificia. Le glosse antichissime, con cui si illustrarono, mostrano il fieivore onde furono accolte. Ma erano scorrette e confuse; e si crede che appunto cotesta concisione abbia determinato Gregorio IX a

» incaricare Raimondo di Pennaforte, suo cappellano, di oompi-

\ lame una meglio ordinata. Lo che può essere; ma certo non

vi fu estraneo il pensiero di mettere il suggello pontificio a

^ tutta quella colluvie giuridica, che si era venuta accumulando

e svolgendo nel tempo, e rendere inoppugnabile per ogni verso il diritto legislativo del papa. Era un pensiero, che doveva sorgere molto naturalmente dalla coscienza della suprema auto- rità già conseguita dal pontefice.

■^ Raimondo di Pennaforte aveva pure studiato e insegnato a

Bologna, e compi il suo lavoro col plauso universale (1234). La collezione è detta propriamente delle Decretali di Gregorio IX; ma comprende anche canoni di concili e altre cose anteriori, che Graziano aveva tralasciato. E anch'essa è una raccolta molto ampia: abbraccia tutto il diritto canonico pubblico e pri- vato in cinque libri, il cui argomento suole indicarsi con quel verso :

^ Index, iìAdicium, clerìis, connubia, crimen,^.

Vi si scorge manifesto lo studio di imitare il codice giustinia- neo, e fu veramente paragonato al Codice, non altrimenti che il Decreto lo era stato al Digesto. Raimondo di Pennaforte potè sfuggire ai rimproveri che si erano fatti a Triboniano. Gli rin- facciano di aver lasciato la confusione e il disordine colà dove in ogni parte si aspettava regolarità e chiarezza. Per questo riguardo il Decreto di Graziano è migliore : il sistema vi è più compiuto, e vi s' impara la legge canonica con la sua storia e

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con le sue ragioni, ciò ohe non può dirsi delle Decretali. Inol- tre, volendo l'autore compendiarle e ripartirle in vari luoghi secondo le materie, le ha sminuzzate troppo. Nondimeno il fòro le accolse con grande favore in tutto il mondo cattolico; e non mancarono neppure le Somme e le Glosse. Quella ordi- naria venne fissata per opera di Bernardo da Parma, morto nel 1263.

Sullo scorcio del secolo XIII troviamo Bonifacio Vili, che, quanto all'esercizio delia sovranità, non doveva essere inferiore ad alcuno de' suoi predecessori. Ed anch'egli dette mano ad una nuova collezione di Decretali (1298), sullo stampo di quelle di Gregorio IX, che intitolò appunto Libro sesto, per spiegare che dovevano esseme la continuazione. Yi si comprendono le co- stituzioni pontificie di circa settant'anni, che tanti ne corsero dalla pubblicazione delle decretali di Gregorio IX al Sesto di Bonifacio, e i canoni dei due concili generali di Lione. La glossa ordinaria che lo illustra è opera di Giovanni d'Andrea, morto nel 1348.

Segue Clemente V. Una nuova raccolta, che egli ordinò e pubblicò non molto dopo (1314) col nome di Clementine, com- prende i canoni del concilio di Vienna (1311) e le costituzioni sue, chiudendo la serie delle collezioni ufficiali, che già il con- cilio di Basilea indica col nome di Corpus iuris. Ma in pari tempo segna una decadenza. Clemente Y, devotissimo di Filippo il Bello, comincia la serie dei papi residenti in Avignone, sotto i quali la S. Sede precipitò improvvisamente da quell'altezza a cui si era elevata in addietro. Lo stesso buon governo della Chiesa ebbe a patirne, di che si videro maturati gli effetti nel secolo XY. La glossa ordinaria, che l'accompagna, è di Gio- vanni d'Andrea, come quella dal Sesto, ma fu rimaneggiata da Francesco Zabarella (f 1417).

Dopo Clemente Y le Decretali si fecero sempre più rare e ne scemò l'importanza. Quelle, che pur si pubblicarono, vaga- vano fuori del Corpus iuris col titolo di Extravagantes, finché Giovanni Chappuis ne fece due collezioni e le aggiunse alle al- tre, correndo l'anno 1600. Esse sono dette tuttavia le Stravaganti, e contengono venti costituzioni pubblicate da Giovanni XXII nel 1325, mentre stava in Avignone ; ed altre di altri papi, da Urbano lY fino a Sisto Y. L'ultima è del 1483 ; e notiamo que-

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st'anno, perchè coincide colla nascita di Lutero : il grande edificio della podestà papale poteva dirsi appena compiato, e già sorgeva l'nomo, che doveva sforzarsi a tutta possa di smantellarlo.

3. Dopo il secolo XVI non vi sono più collezioni uffi- ciali e solo si attende a fissare il testo definitivo. E ce n'era mestieri. Nessuna poteva dirsi immune da contraddizioni e la- cune, e occorreva togliere le une e riempire le altre. Perciò Pio ly ne ordinò una revisione generale, e nominò trentacinque correttori col permesso di modificare quanto era stato fatto.

La commissione vi lavorò attorno ventidue anni ; e Grego- rio Xin, il vero Giustiniano del diritto canonico, potè final- mente nel 1582 pubblicare la edizione ufficiale del Corpus iuris, che servi di base a tutte le altre, fino all'ultima del Friedberg. Questa però ha ripristinato il testo genuino di Graziano; e pur valendosi della lezione romana per le Decretali, ne ha fatto conoscere il tenore originario con la scorta dei manoscritti.

C. Valore intrinseco della legislazione ecclesiastica. Sua influenza. Lotta col diritto romano.^

1. Il diritto canonico non restrinse la sua azione alla vita ecclesiastica. Cominciò da questa ; ma fini col determinare e dominare, per più riguardi, anche la vita mondana. Il che non vuol dire che abbia avuto tanta forza da derogare al gius civile.

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Nello Stato della Chiesa si ; ma è una eccezione ohe trova la sua ragion d'essere appunto nella speciale natura di quel principato, su cui è inutile insistere. Quanto alle altre parti ^ d' Italia, il diritto comune, che imperò generalmente, non fu

^ mai altro ohe il diritto romano ; e forse anche la Chiesa lo in-

tese in questo senso. Una lettera di Gregorio IX, approvando la collezione delle sue Decretali, dice bensì essere suo volere che tutti se ne servissero nei giudizi e nelle scuole ; ma siamo d'avviso, che la intenzione del papa fosse solamente di impe- dire che si ricorresse ad altre raccolte ; e d'altra parte i giurecon- sulti italiani non la intesero mai in modo da indurne una di- minuzione di autorità nel diritto romano. Inoltre è vero, che anche i papi, seguendo l'uso degli imperatori, mandarono il corpo delle Decretali a Bologna ; e già Gregorio IX spedi le sue alle università di Bologna e di Parigi. Bonifacio VITI fece lo stesso col Sesto. Ohe se Clemente V preferi l'università di Orleans, Gio- vanni XXII si rivolse nuovamente a Bologna e a Parigi ; ma tutto ciò non deve trarci in errore. Non ne deriva ancora come con- seguenza necessaria che la legge fosse per tutti e generalmente ammessa. Ciò che si voleva era di provvedere piuttosto alla ) integrità del testo ; e a questo scopo accenna apertamente papa

Bonifacio VIII nella lettera con cui accompagnò il Sesto ai dottori e agli scolari dello studio bolognese : non dovevano nei giudizi e nelle scuole servirsi d'altre decretali o costituzioni che non vi fossero inserite o riservate, nallas alias praeter illas, quae inseruntur atit specialiter reservantur in eo, decretales aut constitutiones .... recepturi aut prò decretalibas hahituri. Ne al-

1^*^. Jahvkt e.. La rt forine de la toci'^U ancienne par te ChrielianUme nella - Ilovue cathol. dea insti tations et do droit «, Grenoble, 1H<»3). Pei rapporti col diritto romano vtnli : (itirrsciiALK, Ceber den Einjiite» dcs rlhn, ReehU auf da* canonUche Heehi im MUUlalier, MannUeim^ lft»)6. Bavioxt, Ueber die Decretale Su- per SjKcula ('•Zeitiichr. tur gesch- B. \V. , 1S'>3 e nei •* Vormischte Sohriftea, III). STijmmo, I)aa Spriehtrori luristen bOte Chritien in teinen gtschiehil. Bedeuiun- gen, Bonn, iHlf). (^aillbuer^ L' enseignenieiU du droii civil en Franee au XI II' tièrle (• XouvoUe BoTue histor. do droit franp. , 1879). Lo stesso. Le pape Ho- noritie IH et le droit eivU, Lvon, ISSI. Tardif, ii propae de la bulle Super Spe- Cìdam C'NouTeUe Bevne, oiÌ» 1H81). Bkaixe, U en^cignevxent du droit romain et la papauetè (- Bevue cathoL dea inttitutions et du droit , IS^I). Dawia». SanU

Raymond de Pennafort et ton epoque, Paris, 18H5, oh. Ili, p. 45-187 : Civilistee et decretistee. D% Muxleoic, VEglite et le droit rotnain, hUtidee hisloriques, Pari-*, ltf(7. Focuiin M^ L'Eglite et le droii romain au XIII eièrle (-Noavolle Bevue hiftor. de droit frane.» ISi»*)). DcoAmn G.» La Papauté et Vètude du droii romain au XIII eièele, à propos de la/aueee btdle d'Innoeeni IV * Dotentee , (neUa * Bibl. de ròoole dea ohartes, U (VdOO), p. 881-419).

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oan papa pretese mai di pareggiare le proprie costituzioni a quelle degli imperatori ; la pratica dei tribunali, e neppure la giurisprudenssa generalmente adottata in Italia, riconobbero mai il diritto canonico come legge derogatoria al diritto romano.

Nondimeno, lo ripetiamo, esso determinò veramente, per più riguardi, anche l' indirizzo della legge civile : anzi non esitiamo a dire che la influenza della Chiesa sul diritto pubblico e pri- vato delle genti cristiane fu addirittura straordinaria; ma se in bene o in male è tuttora oggetto di disputa.

Già il buon Lanoellotto vantava la eccellenza del diritto canonico in paragone del diritto romano; e anche oggi ci sono scrittori che affermano avere le leggi della Chiesa regolarizzato e perfezionato tutto ciò che riguarda l'amministrazione della giusti- zia, moralizzata la vita giuridica, assicurato il trionfo del diritto. Tra questi è lo Sclopis. Per converso altri sentenzia, che, se pure si trova qualcosa di buono nel diritto canonico, non è dovuto alla Chiesa, ma alla influenza dello spirito cristiano, che trape- lava attraverso le clausure della gerarchia. Ciò che la Chiesa ha prodotto di nuovo e originale, sarebbe quasi tutto contrap- pcsato e oscurato dalle forti ombre gettatevi sopra da quello spirito fanatico, esclusivo, assoluto, che Boma soprattutto rap- presentava e difendeva: ciò ohe costituisce la parte prevalente e originale del diritto canonico sarebbe il falso, l' immoderato, V incivile, V inelegante. Lo asserisce il Padelletti. Per parte nostra crediamo ohe ci sia della esagerazione in ambedue que- ste opinioni. Quella dello Sclopis non è confermata dalle fonti e dalle testimonianze storiche ; e il Padelletti, pur di negare ogni azione benefica alla legislazione ecclesiastica, scinde ciò che in verità non può scindersi. Il distinguere ciò che è dovuto allo spirito religioso e ciò che all'autorità papale, e attribuire all'uno tutto il bene, all'altra tutto il male, assolutamente non va; per- chè, dopo tutto, tanto il bene quanto il male si sono verificati col mezzo dello stesso organo, che è il papa.

2. Soprattutto gioverà osservare che il diritto canonico s' inspira ad un alto principio etico. Si tratta di attuare il re- gno di Dio sulla terra e santificare l'anima. Questo è lo scopo ultimo della religione cristiana, e questo è il principio che do- mina le leggi della Chiesa. Appunto in ciò sta il loro merito, e perciò vanno innanzi, in certi punti, alle stesse leggi romane.

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Per 68. il principio della fratellanza universale degli nomini, ohe la Chiesa contrappone all'egoismo antico, suggerì l' idea di una certa federazione dei popoli e governi cristiani in un solo Stato; e se il tentativo non riusci, rese ad ogni modo possibile un diritto internazionale nel vero e proprio senso della parola, che non poteva entrare nelle idee e nelle abitudini degli anti- chi. Né mancò l'azione mediatrice del pontificato e dei vescovi. Anche la guerra non doveva essere lecita che a difendere il di- ritto e a propagare la religione cristiana, e ad ogni modo si vo- leva che rispettasse le leggi dell'umanità. |

La medesima efficacia si rivela nel diritto pubblico intemo. |

La Chiesa si colloca addirittura tra l'assolutismo romano e la |

libertà germanica, e ne deriva una nuova idea della podestà sovrana, soggetta anch'essa alle leggi divine ed umane, per la tutela e il mantenimento del diritto, per la pace e concordia i

tra i cittadini, per la protezione dei deboli. La Chiesa stessa |

intervenne più volte nelle contese tra principi e popoli ; e aiutò ,

il risveglio delle forze popolari contro le soperchierie d'ogni spe« eie. Cosi gli ordinamenti sociali sono fatti migliori : ad ogni modo talune brutture e ferocie, ereditate dai Bomani e dai Bar- bari, hanno ceduto sempre più il campo. £ la Chiesa fece anche di più: assicurò la tranquillità pubblica con le tregue di Dio; _— ^

frenò le vendette con gli asili; provvide alla sicurezza delle strade con le croci, coi sacelli e altri segnacoli santi che, ri- chiamando a pensieri di religione, rimuovessero da perversi pro- positi ; perseguitò i pirati con severe censure. Tutti questi fu- | rono grandi benefici, specie in un tempo, in cui lo Stato si | trovava impotente a tutelare la vita dei deboli e frenare le sel- vaggie passioni. Ancora, istituì scuole, aperse ospizi, promosse l'agricoltura con l'esempio.

Nel dominio del gius civile troviamo ricondotta la schiavitù a più sani principi. La Chiesa non la prende di fronte, e forse non poteva, ma la mitiga ; e i servi vengono mano mano acqui- stando dei diritti, dove prima non avevano che doveri. Anche la famiglia si purifica. Il matrimonio ne esce addirittura tras- formato; la donna si rialza; la patria podestà cede il posto ad una autorità più mite, basata sull'amore e sul rispetto. Intro- dotti nelle società barbariche i testamenti, la Chiesa veglia a che la volontà dei defunti sia mantenuta, e se ne svolge una

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yera giurisdizione. La legge ecclesiastica ne modifica eziandio le forme e provvede, meglio che non si fosse fiotto per l'addietro, agli interessi dei figli, nel caso di nna eredità fedecommissaria. Altre disposizioni riguardano la maggior tutela del possesso, che doveva parere tanto più necessaria in tempi di fi:«quenti vio- lenze e usurpazioni. Più di un decreto sinodale condanna l'usan- za, venuta coi barbari, di spogliare i naufraghi. Il principio che la buona fede continua occorra alla usucapione, appartiene pure al diritto ecclesiastico; al pari dell'altro, che la prescri- zione delle azioni non possa farsi senza la buona fede. In ma- teria di convenzioni, la Chiesa, accettando una idea, che fu già dei Langobardi, badò più alla volontà, e meno alle forme, laonde cessarono le differenze, che tuttavia rimanevano, tra contratti e patti. L'unica misura da osservarsi doveva esser quella della equità naturale, che cioè si eseg^sse quanto una volta si era volontariamente promesso. Speciali principi reggono la materia dei giuramenti, delle usure, delle vendite dei frutti. E insieme vengono promossi i monti di pietà, sia allo scopo che la proibi- zione delle usure non tornasse di nocumento alle classi povere, sia per agevolare l'osservanza di tale divieto.

Del sistema penale ecclesiastico può dirsi che abbia addirit- tura ispirato quello odierno. La natura, lo scopo, la proporzione della pena subirono una completa trasformazione nelle mani della Chiesa. Ciò che essa si propose fu il pentimento, che can- cella la colpa e redime il colpevole: quindi, non pretese d'in- fliggere pene propriamente dette, ma penitenze, proporzionate alla intrinseca malizia dell'atto, e istituì congregazioni per con- fortare e migliorare i carcerati e procurarne la riabilitazione nella società, dopo scontata la pena.

La Chiesa influì eziandio sulla procedura dei tribunali laici, specie con l'esempio che dava nei propri ; e accadde cod che il sistema canonico penetrasse, un po' alla volta, anche in essi. Il processo romano erse duro e difettoso, basato quasi unicamente sull'opera del cittadino; quello germanico era superstizioso ed assurdo; Boma cristiana li contemperò entrambi, sostituendo l'opera dei tribunali a quella del privato, e il convincimento del giudice all'estremo rigore della prova. La inquisizione è una maniera di procedimento tutta propria della Chiesa, che i tri- bunali laici non tardarono ad accettare. I principi barbarici

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sulla prova furono addirittura combattuti, perchè la Chiesa si oppose al duello e ad altre ordalie, e cercò di mettere un freno all'abuso dei giuramenti. Anche la prova testimoniale si trovò ridotta al suo vero valore.

3. Ma rovesciamo la medaglia* Lo stesso principici che inspira la legislazione canonica e le attribuisce un valore, ne co- stituisce la debolezza. Grazie ad esso il diritto, che ò esplica- zione organica di rapporti positivi e variabili all'infinito, ha in- vece assunto un carattere rigido, assoluto, immobile ed immuta- bile. Nò poteva essere diversamente, visto il modo con cui il sacerdozio ha compreso l'ideale cristiano, come qualcosa di fisso. Naturalmente, la legge, che vi si conformava, doveva, anch'essa, apparire fissa. Cosi, il carattere immutabile della Chiesa ha finito con l'applicarsi alla vita giuridica ; e il diritto, lungi dall'equi- librarsi e adattarsi e flettersi secondo le condizioni della vita reale, ò rimasto inflessibile e spesso in contraddizione con essa.

Per questo riguardo il diritto canonico non potrebbe manife- starsi più diverso dal romano. Il quale nella sua epoca più bella, si era svolto appunto indipendentemente da qualunque credenza religiosa, seguendo da vicino l'espansione delle forze sociali, adattandosi alle esigenze della vita e modificandosi con essa. Invece il diritto canonico subisce l'influenza del dogmatismo religioso e rimane immobile.

Ma quel principio nooque anche sotto un altro aspetto. L' i- deale religioso» come lo intese la Soma dei papi, non si con- faceva troppo ^T^ucare civilmente le generazioni. Erano nuove preoccupazioni ispirate da nuovi apostoli

maledicenti a Topre de la yita e de r amore.

che inducevano l'aristocrazia romana a coprirsi del rozzo saio del monaco, e le migliori donne a dedicarsi al celibato. Già nel secolo lY la città di Dio distoglieva le menti dalla città ter- rena. Il nuovo ideale, afi*atto opposto all'antico, doveva infine risolversi nella negazione della yita civile; e sta veramente, che la legge canonica contrasta soventi volte ad essa, e fin dal prin- cipio del medio evo si trova in lotta con molteplici elementi e interessi ribelli. x

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Ma gioverà chiarire tutto ciò con qualche esempio.

Una grande conquista del diritto canonico fu la supremazìa del potere ecclesiastico sul potere laicale negli affari religiosi e anche nei civili. È una pretesa, che può vedersi formulata in tutto il suo rigore nella bolla Unam Sanctam, e non parrà stra- na per poco si pensi che la Chiesa possedeva veramente una influenza morale superiore a quella delle autorità civili, e che la sua missione era appunto di condurre l'umanità per le vie della salute. Infine la cattiva condotta di principi adulteri e brutali e di ecclesiastici simoniaci e scostumati pareva legitti- marne l'intervento. Ma il Papato non seppe contenersi. Quella supremazia avrebbe potuto essere, tutt' al più, una moderata e pa- terna riprensione, e invece ha degenerato in libidine di dominio. Così appunto la vide S. Bernardo, il quale non esitava a dire che costituiva il più grande pericolo per la Chiesa di Boma. Comun- que, la dittatura papale non poteva sussistere che ad una condi- zione, la quale si verificò veramente a lungo nel medio evo, che cioè i principi e i popoli non avessero una chiara coscienza dei loro diritti. Il giorno che questa si risvegliò, e gli stessi papi vi contribuirono a Airia di intemperanze, il superbo edificio era destinato a crollare. D'altronde, perchè avrebbe dovuto ancora sussistere ? I popoli erano oggimai usciti di pupillo, avevano più bisogno di tutore; volevano provarsi a camminare da se. E prima furono voci isolate, che potevansi anche disprezzare o soffocare: ma le proteste crebbero, e si confusero in un solo grido, che echeggiò in ogni angolo d'Europa. La Chiesa ha avuto il torto di persistere; ma tale era il suo destino e non poteva fare diversamente : anch' essa restava vittima del dogma- tismo.

Lo stesso dicasi della giurisdizione ecclesiastica. La Chiesa si è fatta innanzi anche con questa pretesa, che si svolse da tutto il suo diritto pubblico e politico, e in sostanza mirava a fare della gerarchia una casta superiore ed estranea allo Stato. Non si avrebbe potuto trarre un chierico davanti ai giudici se- colari per nessun affare, ecclesiastico civile, neppure in mancanza della giustizia del vescovo. Innocenzo m proibì asso- lutamente di farlo ; e del pari c'erano cause, che volevansi riser- vate alla Chiesa, se anche vertevano tra i laici. Nel secolo XTTT cotesto giurisdizioni avevano già raggiunto l'apogeo della loro

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influenza, a segno che si potè sostenere seriamente che tatti gK atti umani rilevassero dalle leggi ecclesiastiche e dovessero es- sere giudicati da tribunali ecclesiastici. vorremmo condan- nare senz'altro cotesta pretensione : anzi vi fu un tempo in cui anch'essa poteva parere legittima. Vogliamo alludere ai secoli, in cui la podestà centrale erasi sfasciata. In quella dissoluzione di tutti gli ordini politici, la feudalità era venuta aflTermandosi ; e la giurisdizione, sfuggita alle mani della podestà pubblica, aveva finito col cadere appunto nei feudi. Il barone poi metteva troppe volte nella bilancia la spada, anziché la ragione. A vo- ler essere giusti, il diritto in quei t^mpi si era rifugiato nella Chiesa, ed essa ha il merito di averne custodita e salvata l' idea in mezzo ad un mondo che non s'inchinava che alla forza. La stessa giurisdizione, che la Chiesa reclamò ed ottenne, corrispon- deva ad un momento storico; ma questo da lungo tempo è ces- sato. Lo Stato infine si ricostituì ; e naturalmente avocò subito a la giurisdizione, poteva non farlo. Esso non poteva ammettere un altro corpo od ente il quale giudicasse, atteg- giandosi ad organo del diritto; ma la Chiesa stentò ad accon- ciarvisi, non badando che la sua funzione era provvisoria, e che doveva cessare, non tosto fosse mancata la ragione di esercitarla. La Chiesa ha avuto nuovamente il torto di voler persistere in un'idea che aveva fatto il suo tempo; ma essa non poteva cam- biare: il suo diritto ha qualcosa di immutabile.

Vogliamo anche ricordare le leggi dirette a sradicare la mala pianta dell'eresia. La Chiesa era logica: le premeva di salvare le anime; perchè non avrebbe cercato in tutti i modi di impe- dire che fuorviassero, e fuorviate, non si sarebbe studiata di ri- condurle al suo grembo, e non le avrebbe purificate, magari col ferro e col fuoco? Ma intanto la legge, che si prefiggeva d'im- porre a viva forza la salute dell'anima, diventava dispotica e violava la più elementare libertà del pensiero e della coscienza. La persecuzione delle eresie ed eterodossie si fece addirittura accanita, si da obbligare perfino la podestà civile a prestare il suo braccio alla Chiesa in quest'opera di purificazione. È una mostruosità, di cui non si conosce esempio nei codici pagani, ma che figura nella legislazione cristiana. Le stesse idee facevano scusare Tomicidio degli scomunicati.

Altre considerazioni ci suggeriscono le ricchezze del clero

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nel medio evo. Erano venute accumulandosi nel corso dei se- coli straordinariamente, e non sempre in modo liscio. Già in quei tempi molti si lagnavano che i preti abusassero della loro influenza per arricchire in pregiudizio della giustizia. Ma non è di ciò che vogliamo occuparci. A noi preme piuttosto di ve* dere con quali leggi la Chiesa regolasse i suoi possessi. E anche questa volta essa segue il suo genio e cerca di renderli immo- bili. I possessi, entrati che sieno nella Chiesa, devono rima- nervi in perpetuo : non possono più alienarsi, e, se pur si con- cede di permutarli, la Chiesa deve trovarvi il suo tornaconto. La manomorta sacerdotale fluisce, cosi, con lo estendere il suo triste impero sopra immense distese di terreni, che, per giunta, si vogliono immuni da tasse. In verità, la legge di manomorta sequestra una parte del patrimonio nazionale in prò di una classe, e contraddice ad ogni più elementare principio di libertà e di progresso economico. Nondimeno dominò a lungo in Europa. D'altra parte c'erano altre leggi nel medio evo, che sequestra- vano la terra a vantaggio di determinate famiglie. I feudi, i mag- gioraschi, le primogeniture, le sostituzioni, formavano, si può dire, la base della legislazione civile e territoriale del medio evo; e anche le leggi restrittive della Chiesa potevano tro- varvi posto: certo, non erano una stonatura. Ma un più sano concetto economico si è fatto largo col tempo, e tutto quel vec- chio mondo medievale à caduto in brandelli. Oramai, sparite le altre manomorte, quella clericale e claustrale avrebbe vera- mente stonato; ma la Chiesa vi annette importanza, e, occorrendo, protesta contro lo spirito rivoluzionario dei tempi.

E che dire delle 4eggi sul divorzio? La Chiesa, richiaman- dosi alla volontà di Dio, aveva fatto del matrimonio un sacra- mento e respinta l' idea che il vincolo si potesse, come che sia, sciogliere ; ma il principio non tien conto dei difetti e delle im- perfezioni della vita umana, ossia dello stato reale. In sostanza contraddice alla vita, e, crediamo anche, alla dottrina del divino maestro. Perchè Matteo in modo chiaro riconosce il divorzio per cagione di fornicazione, o, che è lo stesso, di adulterio, pen- sando forse che rendesse impossibile quella perfetta comunio- ne della vita, che costituisce l'essenza del matrimonio; e Matteo parla in nome di Gesù. Il Cristianesimo nelle sue ori- gini ha tenuto veramente conto della debolezza umana, o se più

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vuoisi dell'ambiente ; ma la Chiesa no ; e nonostante gli ostacoli incontrati per via, riusci ad eliminare il divorzio, non arren- dendosi che poche volte (si contano circa quindici casi) per viste tutte temporali.

Altra volta essa si è fatta a combattere il prestito fruttifero, forte del detto di S. Luca : mutuum dantes nihil inde aperantes ; e in tutto il medio evo ha persistito in questa idea, che poteva essere suggerita da buone intenzioni, ma che, in sostanza, rac- chiudeva un pregiudizio economico. Diciamolo pure: quale da pri- ma si presentò, poteva anche corrispondere alle condizioni dei tempi. Certo, se non si facevano prestiti di denaro allo scopo di improvvida dissipazione, si fieu^evano per causa di tali urgenti mi- serie, a cui la carità non avrebbe dovuto rifiutare l'opera pro- pria ; e in tale stato di cose si capisce che il prestito potesse essere gratuito. Ma i tempi cambiarono. Aumentata la produzione, si era^ anche ottenuto un più largo impiego di capitali ; e se prendevasi denaro a prestito, lo si prendeva appunto per la maggiore esten- sione dell' impresa e per l' impiego del lavoro* Perchè avrebbe do- vuto darsi gratuitamente ? Nondimeno lo spirito teologico ha te- nuto fermo anche qui, come sempre, senza badare alle condizioni fondamentali della nuova vita industriale. La Chiesa ha ecceduto nella sua propaganda ascetica fino a condannare ogni forma di attività mercantile ; ma le sue dottrine, pur producendo una grande confusione di concetti economici, perdettero ogni auto- rità nella pratica degli affari e nel diritto che la governa.

4. Questo medesimo indirizzo ha determinato la posizione ostile che essa, a lungo andare, venne assumendo verso il di- ritto romano.

La Chiesa, lo abbiamo detto altrove, s'era giovata del diritto romano. La stessa legge canonica vi aveva attinto largamente : alcune compilazioni canoniche furono addirittura calcate su quelle del diritto romano, e si arrivò perfino al punto di for- marne delle compilazioni per uso del clero. Ricordiamo la Lex romana canonice compia e la Summa legum. Senonchò nel se- colo XIII le cose mutano. La Chiesa aveva oggimai la sua legislazione, e questa prese una posizione ostile di fronte al di- ritto romano. Si cominciò dal sostenere che le regole di questo diritto non potevano aver valore per la Chiesa, se non in quanto fossero state ammesse dal diritto canonico. Uguccio per es»

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dioe molto chiaramente : Omnes tenentur vivere secundum leges romanas^ saUem quas appróbat ecclesia. Poi si passa addirittura alle ostilità.

Che cosa può aver determinato cotesto cambiamento?

La ragione è semplice: il diritto romano era diventato un ostacolo per la società ecclesiastica, ed essa cercò di sbarazzar- sene. Non dobbiamo dimenticare che la Chiesa era tutta in- tenta a fondare e organizzare una nuova società, che doveva riposare sui principi del diritto canonico: era sempre l'idea di stabilire la città di Dio sulla terra ; ma la legge romana, questa legge tutta laica, pareva un ostacolo. Certo, si prestava come stromento d'opposizione dello spirito umano contro i ceppi del- l'autorità : era come la Bibbia della ragione, che, raumiliata dalla teologia, aveva trovato un rifugio in seno alla giurisprudenza romana, e un campo, dove poteva dirsi padrona. Infine non era stata la ragione a creare quei codici? Perchè altri avrebbe dovuto commentarli? E che ci aveva da vedere la Chiesa? Cosi venne svolgendosi un cotale antagonismo dell'autorità dei canoni e di quella delle pandette, del regno cieco della grazia divina e di quello dei lumi naturali. Il quale doveva crescere anche più, dacché i sovrani laici avevano invocato lo vecchie leggi di Roma in appoggio delle loro teorie politiche, e i legisti si erano schierati dalla loro parte, e col Corpus iuris alla mano avevano cercato di raflfbrzame l'autorità, anche contro le pre- tensioni della Chiesa. Alcuni civilisti avversavano addirittura il diritto ecclesiastico. Sono note le parole irriverenti pronun- ciate da Pietro Bellapertica, grande dispregiatore dei canonisti, intomo alla metà del secolo XIII ; mancarono di poi sommi dottori inchinevoli a rigettarne la dominazione. Cosi la lotta tra il Sacerdozio e l' Impero si riproduceva nel dominio della giurisprudenza.

Non deve far meraviglia che la Chiesa reagisse ; e infine po- teva andarne di mezzo la salute dell'anima. Già Pietro di Blois, che aveva lasciato lo studio del diritto romano per la teologia, e nondimeno tornava volentieri ad esso, sconsigliava un amico dal dedicarvisi, perchè lo studiare giurisprudenza, oltre che es- sere cosa ardua e difficile, era anche pericolosa per l'anima. altrimenti si esprimeva il vescovo di Durham nel secolo XIV, dicendo, che lo studio del diritto romano fa gli uomini amici

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del mondo e nemici di Dio. Un poeta anonimo manifestò questa medesima preoccupazione in due versi, che meritano di essere ricordati :

" O voB causidici qui lingtiam venditia

Vo8 manet infernui^ vos respuU or do $uptmu$ „.

Parimente il proverbio, che omnis iuriscansultus male de reli- gione Mentita risale di certo a questi tempi.

Bipetiamo: non deve far meraviglia che si volesse schiac- ciare una legislazione, che impediva alla società cristiana di stabilirsi in modo definitivo.

Del resto la lotta ebbe le sue fasi.

Le prime proibizioni si indirizzano al diritto mondano in genere. Il concilio di Beims del 1131 ordina che i monaci e i canonici irregolari non debbano dedicarsi alle leggi tempo- rali; e il concilio di Laterano del 1139 ripete lo stesso. Cosi pure si legge nel concilio di Tours del 11G3: ut religiosi secu- laria studia vitent. Nel secolo XIII abbiamo altre proibizioni che colpiscono addirittura il diritto romano.

Una celebre bolla è quella Super speculam del 1219. Ono- rio m deplora, che non si coltivino di più le scienze sacre, che egli paragona alla vigna del Signore, e dice che bisogna apprestarvi rimedio. In ispecie richiama in vigore le disposi- zioni del concilio di Tours, che avevano proibito ai monaci di darsi a studi mondani, e le estende al clero secolare. Poi si indirizza ai laici e proibisce l'insegnamento del diritto romano a Parigi, perchè la corrente teologica di questa università avrebbe corso rischio di venirne travolta.

Non molto tempo dopo si organizzò l'università di Tolosa (1229), e il diritto romano non vi trovò posto; mentre ad Or- leans, dove pure era insegnato, si proibì agli ecclesiastici di dedicarvisi (1235).

La bolla Dolentes del 1254 corona l'opera. Innocenzo IV deplora che gli sforzi de' suoi predecessori non abbiano sortito il desiderato effetto : anzi il diritto romano ^veva fatto sempre maggiori progressi nell' insegnamento, e i legisti andavano acqui- stando una influenza sempre maggiore nella vita quotidiana. Bisognava dunque provvedervi, e il papa proibisce l'insegna- mento delle leggi secolari in tutta Europa, tranne che in Italia.

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Egli ricorda partioolarmeute la Fraaoia, Tlagliilterra, la Soozia, la Spagna e T Ungheria: il diritto romano non doveva inse- gnarsi in nessuno di questi regni ; ma aggiunge : si tamen hoc de regum et principum processerit voluntaie. Il fatto sta, che la bolla rimase lettera morta; ma ciononostante ha una grande significazione nella lotta che si è combattuta tra legisti e ca- nonisti.

E una simile proibizione deve essere esistita anche a Peru- gia, secondo la testimonianza di Giovanni d'Andrea glossatore del Sesto il quale dice: Vide miràbile quod in Romana Curia iu8 civile legi potest, et non Perusiae et locis vicinis. Dove pure ne esisteva T insegnamento, occorreva uno speciale privilegio del papa perchè i chierici potessero attendervi; e ne abbiamo veramente alcuni per Bologna concessi di dieci in dieci anni. Il primo è di Clemente V del 1310, e il papa ne adduce anche il motivo : sperava di potere, così, rialzare lo studio, che aveva oggimcd patito multe diminutionis detrimento.

Ecco a che cosa condusse la rivalità tra i due diritti. Più tardi si stabili come un modus vivendi tra lo Stato e la Chiesa, e non si pensò più a combattere il diritto romano. Nel secolo XV le ostilità potevano dirsi già cessate; e nondimeno il vec- chio spirito della Chiesa acquando a quando rivive con tutta la sua acrimonia e con le sue passioni. È uno spettacolo cu- rioso, a cui assistiamo da più anni ; sicché si direbbe quasi che per volgere di secoli le cose non sieno ancora mutate. Certa- mente il diritto romano, come si studia oggigiorno, non pre- senta più alcun serio pericolo per la salute dell'anima; e non- dimeno ancora adesso qualche scrittore clericale, lo combatte come nei giorni in cui la Chiesa era veramente impegnata in un'aspra tenzone con esso. Sono specialmente scrittori fran- cesi: il Coquille, l'abate Crozat, il Gavouyère, il Chobert, il padre Danzas e il conte Carlo di Monlèon. I due ultimi de- plorano senza più che la Chiesa non abbia schiacciato il diritto romano. La loro tesi è, che il diritto romano sia stato un fia. gello per l'Europa cristiana: non avrebbe dovuto far altro che fornire dei materiali per la edificazione della società cristiana, e invece aveva presto invaso ogni cosa. A ragione il Papato ne avrebbe combattuto i progressi; ma lo avrebbe fatto senza troppa energia: tanto è vero, che il diritto romano ha vinto.

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A udire questi scrittori, la salute della società cristiana sta an- cora nella eliminazione di tutti i principi romani, che hanno

j invaso il diritto pubblico e privato delle società moderne.

Ora, noi non sappiamo se Eoma s' interessi tuttavia alla que- r stione : in generale la Chiesa non suole mutare di propositi. Essa

[ si è spinta innanzi coi suoi ideali nel cuore, e non si è curata

' gran fatto se anche non corrispondevano alle esigenze della vi- ta. Per mutare di eventi, Eoma non ha mutato. Quand'anche i tutto si fosse trasformato intorno ad essa, non avrebbe cambiato.

si cambia. Essa si attacca al suo ideale religioso, assoluto ed inflessibile, e mentre ogni cosa si muove nel mondo, essa I non si muove, non cede in nulla, non dimentica nulla: certe

t armi delle vecchie guerre si possono trovare ancora ne' suoi ar-

senali, e non mancherebbe di sfoderarle ancor oggi, se potesse. Si direbbe quasi che il progresso civile sia una parola scomu- nicata per essa.

§ 3 - LA LEGISLAZIONE IMPERIALE. |^

. 1. Come il diritto canonico subì le vicende del Papato,

la legislazione imperiale segui da presso le fasi dell'Impero. Ci

•• Bibliografia. Bieneb, Commentarti de origine et progresau legum jurium- qxte Germanicorum^ Lipsiae, 1787-95, II, 1, p, 7 seffg. Bòhmer, Die Meichageseize von 900-1 400 f Frankfurt, 1832. Mebkel, De repvhlica Alamcmnorum, Berolinì, 1849, p. 78, n. 58 Bege, Beselbb, Die deutachen Kaiserurkunden ala JRechtaquellen ("Zeitschr. far E. G. 1863, p. 367 segg.ì. Una ricca letteratura hanno le leggi sulla pace territoriale. Bicordiamo : W aitz, Deutache V, 6?., VI, 419-444, Leh- MANH neUa Èncjjcl, di Ersch e Gruber, sezione 2*, XLI, p. 340 segg. Wilda nel BechUlexikon di Weiske, VI, p. 232 segg. Kluckhon, nello Staatawbrterhuch di Bluntsohli, VL 282 segg. Gòcke. Die Ar^dnae der Landfriedenaaufrióhtungen in Deutachland, Cfòttincen, 1874. Eggert, Studien zur Geach. der Land/rieden^ nébat Nachweia der Nichtoenutzung der treuga Henrici im Sachaenapiegel, GOttmgen, 1875. YiEJjAV.Beitràge zur Geachichte der Landfrieden Karla IV. HaUe, 1877. FiscHBB, Die Landfriedenaverfaaaung unter Karl iF, Gottingen, 1888. Hebzbebq- Pbànkxl, Die dlteaUn Land-u, GoUeafrieden in DetUachland (•* Forsch. zur d. Ge-

Maroi:

M. A., , ,

Heinrich VI, 'Gottingen, Ì887. ' Pei privilegi dati dagli imperatori aUe città ]può vedersi Schheidbh, Die deutachen StddtepriviUgien aer Hohenataxifiachen Kataer Friedricha I u. Heinricha VI, Eisleben, 1883; ma in generale non si occupa che di città tedesche. Le sentenze della Curia imperiale sono messe assieme dal Frahkliv, Sententiae curiae regiae, 1870. Pel Concordatum Calixtinumf an. 1122, rimandiamo ad Hoppmann, DiaaerL ad concordcUa Henrici V et Calixti II, Vi- temberg, 1789; Staudenmaieb, Geach. der Biachofawahlen, p. 281 segg., e a Sickel- BbeslaUj Die Kaiaerliche Auafertigung dea Wormaer Concordata (•* Mittheilungen des Instit. ftur oesterr. Geschichtsforsohung^ VI, 10). Perla Conatitutiodelte' gcUibua^ an. 1158, vedi: Hbilioeb, De campia Moncalicte habitiaQue ibi curiia aolemni' bua, Gottinga, 1751, §§ 20 segg. ; Bbbtbam, Von der uraprttnglichen GUltigkeit der

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fh un tempo in oui questa fonte sgorgò abbastanza copiosa, ap- punto finché r Impero fu rispettato e temuto; ma in seguito s'inaridì. Infatti fino ad Arrigo VII (1313) abbiamo parecchie costituzioni importanti ; ma dopo di lui, l'autorità imperiale non è pili quella, e tutta l'attività legislativa degli imperatori si ri- duce a concedere privilegi, che il più delle volte si comperano a contanti. La decadenza della legislazione aveva seguito da vicino la decadenza dell'Impero. Del resto, queste costituzioni non presentano tutte lo stesso carattere: non altrimenti dei capitolari dei vecchi re franchi, potevano essere vere leggi, e anche sem- plici ordinanze e decreti.

2, Le leggi, per cominciare da esse, abbisognavano ordi- nariamente della partecipazione degli ordini o stati dell'Impero, e quindi si facevano, sia nella dieta dell'Impero, sia in quella del regno italico, secondo che erano destinate all'uno o all'al- tro. Le leggi di Arrigo II, di Corrado il Salico e di Arrigo ni

berufefi^i ContlittUion K, Friedrich* 9 I van den BegalUn, neUa * Sammlang anaer- lea. Abliiindl. aos dem Lehnreohte , di Zepemick, I, p. 129 se^g. ; Bieneb, De no- farà H indole daminii in terriioriis Ghmianitie, Halae, 1780: Savighy, Gesch^ IV, p. 171 Begg, Traduz. di BoUati,!!, p. 94 segg.; SxmhK, Barbaroticu canstitutio de regallhas vom nov. 1158 u. ihre DurchfUhrung, Berli^ 1898. La Pax Cansian- ii&e, art. 111^ fa glossata da Ooofbbdo e commentata da Baldus db Ubaldis de Pc^i^sio, Ne trattarono paiticolarmente : Garlint. De pace Constantiae, Veronae, 1763 e DtXBANDi, Saggio sulla lega lombarda e sulla pace di Costanza, Torino s. a. Vedi anche BnoNAMici, Sulla glossa di Odofredo agli atti de Pckee Constantiae (nei ** Rendiconti deU'Accad. dei Lincei « 1894). Sulla bolla d'oro di Carlo IV, a. 1B55, scrissero: v. Olkmschlagbb, Neue Èrlàuterung der guldenen Bulle Kaysers Carls I\\ Frankfurt n. Leipz., 1766; v. Leon bardi, nei ** Wetzlarsohe Beitr&ge„ di Wipfcnd, II, 1^5, p. 1-26; Jacob y, Die goldene BulU Kaiser KarVs /FC* Zeitschr. flU- die goRammte Staatswiss. « Jahrg. XIII, 1 (1857), p. 142-1&4) e Neboer, Die goldene Ihdlt ntsch ihrem Usprung u. reichsrecfUlichen inhcUL, Breslan, 1877. Le ort^m della e. d. Constitutio de expedUione romana furono illustrate a' di no- stri da parecchi. Vedi Scheffer-Boichorst nella ** Zeitschr. fur Gesoh. dee Ober- rhei&s„ nuova serie III, p. 173 segg. Waitz nelle ** Forschungen sur d. Gtosch.^ %lYj p. 31 3Qgg.] FicKEE, Ueber die Entstehungsverhciltnisseaer Constitutio de expediiiofie romana, Wien, 1878 (** Sitzungsber. der phil-hist. Classe der Wiener Alad, ^ LXXITT, p. 178 segg.) e Scheffbr-EIoichhorst, Die Heimat der uneehten 11. der TéxI tiner echten Constitution de expeditione romana, nelle * Diplomatisohe 4 Forsc^hungen Berlin, 1897, Di una legge di Federigo II de resignandis privi-

hgiis tiuttò lo stesso Scheffer-Boichborst, Das Oesetz Kaiser Friedrichs II de retigfìatìdis priffilegiisj nei "Sitzungsber. der Akad. der Wiss. eu Berlin. 1900. SuUa costituzione de iure protimeseos vedi Brunneck, nella **■ Zeitschr. mr B. O. I p, 18^0 e ScHUPFER, Bomano Lctcapeno e Federigo II a proposito delist prò- timtM Boma, 1891 (** Memorie deJla r. Accad. dei Lincei ,. Classe di soiense mo- t&U, Vin, 1). EdiidonL Goldast, CoUeclio constittUionuvi imperialium, Francofl 1613, 4 voi. (addirittura insufficiente). Senkenbero e Schmauss, Neue u, voUstUn- dig€ Salumi ring der Beiehsabschiede, I, 1747. Specialmente Pertz nei Mon. Gernu hist Lef:;^nm IL 1837 : però non vi si contengono che le leggi fino al 1188. Una I nuova adizione delle leggi imperiali si sta approntando dal nVielahd^ e ne sono

f già n^iti i due primi volumi, ija costituzione di Federico II sulla proHmesis fu

i pubblicata dapprima dal De Afflictis, nel suo trattato De iure prothomiseoSf

^ ed è tuttora reoizione più completa. Bicordiamo inoltre i Deutsche Beichttageaìc

i £en (1376-1434) del Weizsàckkr (finora nove volumi).

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furono emanate nelle diete con l'intervento dei maggiorenti d'Italia. Parimente Federigo I pubblicò la sua legge sulla alie- nazione dei feudi (anno 1168) nella dieta di Roncaglia, habito Consilio episcoporum, ducum, marchionum et comitum, simul et pala- tinorum iudicum et aliorum procerum; e cosi l'altra sugli incen- diari e i violatori della pace (anno 1187), in praesentia princi- pum cum Consilio et consensu eorum. Più tardi uno statuto tu favorem principum fu discusso nella curia generale di Worms (1231), e la bolla d'oro di Carlo IV lo fu nelle diete di "Norim- berga e di Metz (1356). Altre leggi, non obbligavano se non coloro ohe le avevano giurate : traevano tutta la loro forza dal giuramento, e questo non veniva prestato che per un dato nu- mero di anni. Era il caso con le leggi sulla pace territoriale, ma anche con altre; e, per quanto la cosa possa parere strana, non mancavano i precedenti. Anche al tempo dei Carolingi ab- biamo trovato diversi Capitolari a cui bastava il consenbo della dieta; mentre altri, che avevano una speciale attinenza con l'uno o con l'altro dei diritti popolari, richiedevano, per essere validi, che tutti vi acconsentissero, e perfino li firmassero, vestendo quasi la forma di un patto. Ciò si iprpete in questi tempi con queste leggi. Perchè il re poteva bensì ordinare a taluno di pre- stare giuramento, anche con minaccia di nena; ma non poteva mutare il diritto materiale che col concorso del popolo.

3. Le leggi stesse s'indirizzano a rapi)orti molto svariati, specie di diritto pubblico.

La constitutio de regalibus del 1158 si rivela già come una leg- ge costituzionale e concerne i diritti della corona. Milano aveva dovuto piegare il collo ; e pochi giorni dopo, Federigo I convo- cava una dieta generale nei campi di Roncaglia. Vi accorsero tutti i vescovi, duchi, marchesi e conti, nonché i consoli di mol* te città lombarde, e anche i principali giureconsulti, tra cui i quattro discepoli d'Irnerio, invitati dal principe. Si trattava di determinare i diritti dell'Impero sull'Italia, resi dubbi dopo tanti secoli di continue perturbazioni, che avevano cambiato le sorti dei popoli. questa era facile impresa. Era impos- sibile di consultare la consuetudine, perchè negli ultimi set- tant'anni tutto aveva oscillato; ne le condizioni, quali vigevano anteriormente, potevano essere restaurate, data la profonda di- versità nella maniera di vita. Non si poteva nemmeno ricorrere

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^enza più ai principi del diritto romano o germanico, perchè nessuno dei due collimava. Da un lato, il principato romano ripugnava al nuovo diritto dei popoli risorti ed alla esistenza già secolare e necessaria delle libere istituzioni portate dai conquistatori come premio della conquista; dall'altro, il prin- cipato barbarico aveva pure dovuto modificarsi con lo studio delle leggi romane, sotto la influenza dell'idea affatto opposta della prerogativa cesarea. Non restava se non di mettere as- sieme tutte le regalie esercitate, quando che fosse, dai re ger-* manici, e cercarvi un fondamento nelle idee generali, che cor- revano, intorno alla podestà pubblica dell'imperatore. E cosi fu fatto. I quattro dottori, assistiti da ventotto consiglieri, com- pirono in questo modo il loro lavoro; e Federigo lo ratificò: l'arcivescovo e i consoli di Milano, i signori e i consoli delle città, rappresentate alla dieta, ne giurarono l'osservanza. Tutti coloro, che avevano usurpato qualche diritto sovrano, ne fecero la refutazione nelle mani dell'imperatore.

Altre leggi si occupano delle relazioni delia podestà impe- riale con la Chiesa, coi feudi, coi comuni.

Le relazioni con la Chiesa, ne hanno suggerito parecchie, cominciando dal concordato Calistino fino alle costituzioni di Federigo II e di Carlo IV. Il concordato Calistino del 1122 chiude la lotta delle investiture, che per oltre mezzo secolo aveva funestato la Germania e l'Italia. Si sa che la vittoria era ri- masta alla parte pontificia. La elezione dei vescovi doveva og- gimai appartenere liberamente al clero; e per ciò che riguarda l'investitura, doveva farsi con lo scettro, simbolo del potere temporale sui beni delle chiese, non già col pastorale e con l'anello, simboli ecclesiastici. Cosi quotarono i dissidi. Circa un secolo dopo, Federigo II fece molte promesse alla Chiesa, e determinò anche meglio i rapporti fra il papa e l'imperatore. Ciò avvenne negli anni 1213 e 1219. Lo svevo trasferì il di- ritto di creare i vescovi e gli abati nei capitoli con esclusione del popolo; rinunciò al diritto di definire le elezioni discordi: riconobbe che le appellazioni nelle cause ecclesiastiche spettas- sero alla Sede pontificia, e abbandonò il diritto di spoglio. Altri provvedimenti in favore della Chiesa appartengono all'anno 1220. L'imperatore dichiara, che tutti gli atti di uno scomunicato deb- bano essere nulli ; ordina la repressione di tutte le eresie ; vuole

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colpiti d'infamia i settari e condannati a perpetuo bando ed alla perdita dei beni; vieta di tradarre alcun ecclesiastico da- vanti ai giudici secolari in criminali quaestione vel civili; chiun- que avesse imposto tasse alle chiese o ai chierici, o ne avesse invaso le possessioni, avrebbe pagato il triplo, e sarebbe stato messo al bando dell'Impero. Cassò anche tutti gli statati e capitoli contrari alla libertà ecclesiastica, sicché non potesse sorgere alcun dubbio sul diritto nuovo, che si andava inaugu- rando. Medesimamente Carlo IV, nel 1359 e nel 1877, dichiarò che tutti gli statuti, i quali contraddicessero a cotesta liberta, dovessero intendersi abrogati. L'una legge e l'altra sono cono- sciute col nome di leggi caroline de ecclesiastica libertate. Bo- nifacio IX ne attribuì la esecuzione ai vescovi, e anche altri papi e concili le confermarono. La vittoria di Soma non poteva es^^ere più completa.

La feudalità occupò pure il legislatore, a più riprese. Fu già osservato da altri, che il legame della feudalità col sommo potere dell'Impero, ben designato in teorìa, era fragilissimo in pratica. Inoltre erasi verificato un grande smembramento di feudi, una grande estensione del diritto di successione nei beni feudali, un grandissimo abuso di porli in contrattazione come fos- sero liberi, e di dispome per testamento; estesissimo l'uso delle submfeudazioni. Questi fatti potevano dirsi già compiti alla metà del secolo XII. Radevico osservava: pene omnes eam fce- neficiorum iustitiam in iniustitiam converterant. Era naturale che la leg^e cercasse di risarcire cotesti disordini della materia feudale, che pregiudicavano le ragioni degli alti signori, e anche quelle della corona.

Non sempre però vi riusci: anzi la prima legge feudale, con cui cercò d'intervenire in siffatti rapporti, segna già uua grande concessione. Una prescrizione più che secolare aveva legittimato le usurpazioni dei vas5:alli maggiori sulle prerogative della co- rona e resi irrevocabili i loro feudi; ma essi erano ben lungi dal riconoscere lo stesso diritto nei vassalli inferiori. Cosi, la revocabilità del feudo veniva accolta come un principio di diritto pubblico ancora nel secolo XI ; ma i valvassori, lo abbiamo av- vertito anche altra volta, vi si acconciavano di mal animo: anzi da qualche tempo erano in preda ad una continua agitazione. Ani- mati da un forte odio contro la dominazione tedesca e contro i

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grandi feudatari del Begno, avevano fatto causa comune con Ar- duino, appunto per ottenere la ereditarietà dei loro feudi. Poi proruppero in aperta ribellione contro Ariberto arcivescovo di Mi- lano e contro i capitani, che io aiutavano ; e in breve l' insurrezione diventò generale : dilagò su tutta l'Italia settentrionale, e doveva trascinare ne' suoi vortici anche altri elementi. Tale movi* mento fu un fatto incredibile, inaudito per i contemporanei, dacché era la prima volta ohe l'antica libertà si sollevava con- tro il giogo del reame e delle signorie feudali. L'imperatore Corrado, sceso in Italia, fece ragione ai valvassori e promulgò nel 1037 il suo Edictum de beneficiis, che mise termine alla lotta. L'im- peratore riconobbe che potessero trasmettere i feudi per via di successione ; e insieme proibì ai signori di far cambi, precarie o livelli dei benefici dei loro vassalli, senza che questi vi accon- sentissero, e molto più di spogliarli dei loro beni proprì e pa- trimoniali. Perchè un milite potesse perdere il suo beneficio, occorreva una colpa certa e provata, secondo le leggi, in un giudizio di pari. Il Balbo ha osservato, che questa lotta segna il principio di quella emancipazione delle classi inferiori, che dura tutt'ora.

Due anni dopo, Arrigo III fissa le cause, per le quali un milite poteva perdere il beneficio : ripete che la perdita doveva essere pronunciata parium laudatiane, e stabilisce il modo con cui il convenuto avrebbe potuto difendersi. per quasi un secolo si ebbero altre leggi feudali. Tornarono ad occuparsene Lotario II e gli imperatori di casa sveva. Una legge di Lotario riguarda la perdita del feudo per mancata investitura; un'altra la divisione dei feudi. Da ultimo si cercò di porre un argine alle alienazioni, che erano venute spesseggiando sempre più. Lo stesso Lotario nel 1136 proibì ai militi di alienare i feudi senza il permesso dei loro signori, avvertendo che molti se n'erano ar- rogata la facoltà, e non avendo più nulla da perdere, rifiutavano la obbedienza al signore, e non prendevano le armi, lo segui- vano nell'esercito. Poi venne Federigo I. Fondandosi appunto su questa legge di Lotario, anch'egli proibì e annullò ogni aliena- zioni di feudi, diretta o indiretta, senza l' intervento del sovrano ; ma ancora, dichiarò decaduto dal feudo chi non ne avesse chiesto l' investitura entro un anno e un giorno, o non prestato il ser- vizio nella spedizione romana. Lo stesso Federigo tornò in se-

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guito sull'argomento. Nel 1158 rinnovò le vecchie disposizioni e ne aggiunse di nuove sulla divisione del feudo, sulle offese che il figlio del vassallo e il soitovassallo avessero recato al si- gnore, e sulla giurisdizione feudale. Un'altra legge di Arrigo VI verte sulla fellonia.

Parecchie costituzioni determinano i rapporti con le città. Già sullo scorcio del secolo XI, e sul principiare del XII, le città italiane avevano preso forma di repubblica, e si erano ap- propriate parecchie prerogative, che, a rigore, avrebbero dovuto appartenere all'imperatore. Federigo Barbarossa, forte dell'an- tico diritto, vi si oppose negando tutto cotesto rigoglio di vita nuova. Federigo ebbe il torto di voler assorbire il potere co- munale nel suo, press'a poco come avevano fatto i Cesari con gli antichi municipi. Nondimeno anche questa volta l'Impero ebbe la peggio. Come gl'imperatori della casa di Franconia avevano, col concordato Calistino, perduta la causa delle inve- stiture, non altrimenti Federigo I di Svevia perdette quella del- l'autonomia cittadina.

Lo stromento della pace di Costanza (1183) è di nuovo una legge fondamentale del nostro diritto pubblico medievale. Bi- conosoe la potestà dell'imperatore, ma d'altra parte concede alle città le regalle in perpetuo, secondochà le avevano esercitate in antico. La pace di Costanza annientava in effetto l'editto di Roncaglia. Gli stessi diritti riservati all'Impero non ave- vano in verità altro valore fuor quello di salvare le apparenze dell'autorità imperiale; e, ad ogni modo, la giovanile energia delle comunità cittadine doveva ridurle in breve ad un'ombra.

Una speciale importanza presentano le leggi che provvedono alle condizioni della pace pubblica, perchè si trattava di condizio- ni deplorevolissime, che richiedevano un pronto riparo. Era que- sta una grande preoccupazione tanto in Italia quanto in Germa- nia, e forse in Germania più ancora che da noi. Anzi pareva che colà non esistessero altre leggi all' infuori di queste. Lo dice il cronista urspergense: Nec aliis legihuè utuntur, tanquam gens agrestU indomita. Queste paci cominciano con Arrigo IV (1103), e si succedono poi con moto accelerato. Le più importanti sono le tre di Federigo I degli anni 1156, 1158 e 1187, che servirono di fondamento a quelle che vennero dopo. Tutte però furono eclissate dalla pace di Magonza di Federigo II del 1235, una

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legge rinnovata più volte, e che ancora nel secolo XV godeva tanta riputazione da meritare di essere glossata. Altre paci sono di Alberto II e Federigo III. In generale sono leggi penali, e in parte veri codici, diretti contro tutti i reati, che in qualche modo minacciassero la pace ; ma insieme si occupano di giudizi e di procedura, e anche contengono qualche misura preventiva per impedire le inimicizie e le faide. Perchè, lo scopo, a cui mirano, è soprattutto di combattere le faide, sia che le proibi- scano affatto, sia che le restringano, per proteggere, se non al- tro, determinate cose e determinate persone.

Correndo l'anno 1313 Arrigo VII definì i casi di ribellione, una nuova malattia dei tempi, che minacciava di farsi sempre più grave. Senonchè la esagerazione da una parte fece che si esagerasse anche dall'altra. Arrigo VII, determinando quei casi, lo fece in modo così largo, da poter colpire tutti coloro, ch'erano caduti in disgrazia di lui o de' suoi ufficiali. Nello stesso anno fissò anche il modo, con cui si sarebbe proceduto nei delitti di maestà: erano cause che andavano trattate sommariamente e semplicemente, senza strepito e figura di giudizio.

Un'altra legge, che vogliamo ricordare» è la Bolla d'oro di Carlo IV. L' imperatore era appena tornato dall' Italia, quando, sulla fine del 1356, convocò gli stati a Norimberga. V'inter- vennero molti principi, conti, signori e deputati delle città, e vi discussero molte questioni di diritto costituzionale, specie quella sulla elezione del re. Finche si trattò di argomenti ohe concernevano i principi elettori, non vi presero parte che questi ; agli altri parteciparono tutti. Le discussioni durarono più di sei settimane; e, dacché non fu possibile di venire a capo di tutto, si pubblicarono frattanto ventitre capitoli sulla elezione dell'imperatore, sui privilegi dei principi elettori e su alcune materie relative alla pace territoriale. Ciò accadde il 10 gen- naio 1366; ma le città, e anche alcune provincie escluse dalla elezione, non tardarono a muoverne lagno. Cosi fu ordinato un nuovo comizio a Metz, e l'opera venne condotta a termine con l'aggiunta di altri sette capitoli. Qaesta è la Bolla d'oro, che altrimenti è anche detta \roIina] e forse l'imperatore ne con- cepì primamente l'idea '^lia. Certo, vi sono reminiscenze romane e canoniche: an ^ne disposizioni paiono tolte di

peso dal diritto romano/s. ^ io pensa che Bartolo vi abbia

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avuto parte; ma sebbene l'illustre giureconsulto sia stato molto addentro nelle grazie dell'imperatore, che lo richiese anche di consiglio in qualche suo frangente, non vi ha però co^a, che attesti aver egli partecipato alla compilazione della Bolla.

Accenniamo appena di passata ad una cosi detta Constitutio de expeditione romana, e ad un'altra di Federigo II sui ius protime- seos; e potremmo anche fame a meno. La prima regola il ser« vizio dei vassalli verso l'Impero; ma pur arieggiando veramente una legge, non è tale. È un lavoro privato, che, eia pel tenore sia per la terminologia, appartiene al secolo XII ; ma del resto rispecchia la pratica di quei tempi. L'altra costituzione non è che la riproduzione testuale di una novella di Bomano Laca- peno dell'anno 922, che, penetrata in Italia, Federigo aveva trovato nel patrimonio del suo popolo. Ha però avuto una sin- golare fortuna: fu commentata da illustri giureconsulti, come Antonio Caputo da Molfetta, Matteo d'Afflitto e Prospero Ren- della, per tacere di altri: può dirsi che il tempo potesse molto su di essa, se ancora nel secolo XVIII conservava tutto il suo vigore.

4. Alle leggi, propriamente dette, contrapponiamo le or- dinanze.

Simili alle vecchie nditiae langobarde e carolingie, erano emanazioni del potere esecutivo, che si facevano di propria au- torità dell'imperatore, senza che gli ordini del l'Impero vi par- tecipassero, salvo a udirne talvolta il parere. Tra eeee vanno ricordati i privilegi, che potevano anche avere validità per tutto l'Impero, come l'editto di Arrigo IV intorno alla con- dizione giuridica degli Ebrei (1090): una costituzione ispirata a principi ragionevoli ed umani, più di tante altre, che ven- nero appresso. In generale però non concernono che deter* minati rapporti giuridici. Frequentemente V imperatore prende sotto la sua protezione qualche monastero o qualche nobile, vietando a chiunque di molestarli o impedirne la giurisdizione^ o anche conferma le consuetudini di questa o rjuella città, e a volte tratta con esse quasi come Stati indipendenti. Al qual proposito possono vedersi i patti, che Arrigo IV couchiuse uel 1081 coi Pisani. Altre volte il privilegio riguarda questo o quel diritto regio, come a dire i dazi, le acque, la moneta, o anche i beni della corona e i mercati.

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Altre costituzioni poi non erano che sentenze pronunciate dal supremo tribunale dell'Impero, spesse volte sotto la presi- denza dell' imperatore ; ma avevano pure la loro importanza per i principi di diritto, che contenevano. Dopo tutto l'imperatore, nel concetto dei popoli, era il protettore della giustizia, e coloro, i quali si sentivano aggravati, ricorrevano volentieri a lui. Nei placiti, che tenne in Italia, fu ben raro il caso che non pronun- ciasse qualche sentenza.

6. Tali erano le costituzioni imperiali. Aggiungiamo, che dovevano avere tanta autorità, quanta ne godevano le stesse leggi di Roma. A dir vero, molte non erano state pubblicate che pel Kegno langobardo, e parrà naturale che la legislazione interve- nisse principalmente colà : ma, d'altra parte, quei re langobardi erano anche imperatori; e questa circostanza fece sì, che non si badasse tanto pel sottile all'origine langobarda delle loro leggi, e si finisse con l'attribuire ad esse una maggiore efiScacia, che altrimenti non avrebbero avuto. Gli stessi imperatori, consci della dignità propria, amavano di dare alle loro leggi la mag- giore e generale autorità del diritto romano; e ciò spiega per- chè talvolta, le mandassero ai dottori di Bologna con l'obbligo di registrarle nel volume del Corpo giustinianeo, intercalandole alle costituzioni del Codice, dove paresse più conveniente. Il primo a far ciò fu il Barbarossa. Una sua costituzione del 115S, sui privilegi degli scolari, doveva essere inserita nel titolo del Codice Ne filius prò patre (4, 13), ed egli stesso ordinò cosi. Parimente mandò a Bologna Taltra sua legge del 1187 cantra incendiarios ; e una terza sulla validità del giuramento si trova pure nel Codice sotto il titolo Si adversus venditionem (2, 28). Inoltre si contano ben undici costituzioni di Federico II. Anche questo imperatore le inviò a Bologna, e i dottori ne fecero una decima collazione che aggiunsero alle altre: sono quelle che vanno sotto il titolo comune De statutis et consuetudinibus cantra libertatem ecclesiae editis. Anche una costituzione di Arrigo VII sugli eretici contiene lo stesso ordine, di curarne l' inserzione in carpare iuris sub debita rubrica; e altre due vi furono aggiunte da Bartolo. Questi imperatori nutrivano evidentemente la spe- ranza di veder cosi continuata la serie delle vecchie leggi im- periali senza interruzione di sorta; e si comprende questa loro illusione, per poco si richiami alla memoria, che essi stessi in-

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fine si atteggiavano a successori degli imperatori antichi, e cre^ deyano che T Impero non avesse cambiato mai, ne d'autorità di forme. Ad ogni modo, nella difficoltà e scarsezza dei mezzi di comunicazione, che c'era allora, la notizia datane al- l'università di Bologna, affollatissima di studenti, porgeva agli imperatori un facile mezzo di promulgazione, e imitava ciò ch'erasi fatto nelle scuole di Berito e Costantinopoli. L'ossar- vazione è dello Sclopis. Ciò non vuol dire però che le leggi fossero meglio rispettate, tanto che gli stessi imperatori se ne lagnano.

Specialmente è notevole una tendenza, che comincia già nell'epoca barbarica, e continua in questi tempi e si rafforza: quella di assicurare il diritto romano dalle possibili intromis- sioni e adulterazioni del diritto imperiale.

Un accenno se ne trova già nel secolo IX di dalle Alpi. Alludiamo eiìVEdictum Pistense dell'anno 864 e. 20: quia super illam legtm tei cantra ipsam legem nec anteceMores nostri qnùdcum- que capitulum siatuerunt, nec nos aliquid constituimus. La legge romana si aveva già allora per cosa talmente sacra, che gli stessi imperatori non osavano di toccarla. Ma una identica tendenza si riscontra anche in Italia. Lo si può dedurre, e fu dedotto, dalle glosse ^nan ramanum^j che s'incontrano spesso nel Liher papiensis, o quanto meno possiamo intrav vedervi il proposito, che avevano i giuristi della scuola di Pavia, di restringere la validità dei Capitolari per i Romani. Una glossa alla Lombarda n, 51, 2, considera addirittura una legge imperiale come im longobardum in contrapposizione appunto al diritto romanop E la stessa idea continua. I Lombardisti del dugento non la pensavano diversamente, e ne fa fede Roffredo nella Summuìa de pugna tit. 1. Cosi anche Carlo di Tocco. Arrigo 11^ pub- blicando la l^gge sulla successione del marito nei beni della moglie, avrebbe voluto che ne godesse quicumque ex qu€icufnqne natiane uxorem accepit: l'intenzione per lo meno era chiara; ma Carlo di Tocco osserva in proposito: tcilicet Lùngobardorum quia in libris Longobardorum scripta est. Non diciamo poi dei romanisti. L'autore delle Questiones de iuris subtilitatibm parla in più luoghi delle leggi imperiali, e non sa reprimere un certo senso di disgusto, pensando come talvolta si fossero arricchiate di cimentarsi colle leggi romane. Egli esclama enfaticamente in

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un passo ohe già conosciamo: Come avrebbero potato quei re transalpini abrogarle coi loro statuti ? Per migliorare qualsiasi cosa, bisogna prima di tutto capirla, e quei re avranno anche assunta il poterei ma certo non conoscevano potevano cono- scere la scienza del diritto e delle leggi: cosi non potevano emendare un diritto che rappresentava per essi un' incognita. Ne altrimenti esprime una Summa, ancora inedita, delle Isti- tussionì. Ànch^essa si scaglia contro quei transalpini regts, cosi digiuni d^ogni scienza giuridica, e fa specialmente notare la ir- ragionevolezza dell'uso che i figli dovessero seguire la mano peggiore. Altri trovava anche molto da osservare sulla forma con cui tali leggi erano dettate, cosi diversa da quella prescritta dal diritto romano. Onde da varie parti erano battute in brec- cia; e per quanto gl'imperatori ci tenessero a vederle accolte nel Corpus iurii, la scuola, pur obbedendo agli ordini sovrani^ poco i^e ne curò. La sola legge imperiale, che i glossatori pre- sero in considerazione come diritto vigente, è quella famosa di Arrigo lU dell'anno 1047 sul giuramento dei chierici, la quale^ come interpretazione di altra legge romana e anche per essere stata aooolta dalla Chiesa, occupa un posto speciale : le altre era come non esistessero per essi. Nemmeno la Undecima coUatio, per quanto ne dice Odofredo, riesci a farsi strada»

Capo UL Legislazione provinciale.

Costituzioni di principi.

Un tratto caratteristico delle istituzioni medievali è l'auto- nomìa. Mentre tutti s'inchinavano, più o meno, ad un supre- mo signore, imperatore o papa che fosse, tutti, senza distin- zione, intendevano di provvedere da so ai loro interessi parti- colari, regolare l'essere proprio e l'esercizio dei propri diritti^ atteggiandosi a sovrani. Gli stessi ufficiali pubblici avevano finito col diventare signori ereditari delle loro provincie, veri domini ierrae; e la potestà imperiale, se aveva ancora ingerenza in quei territori, era solo per l'esercizio dei diritti che non ave-

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vano appartenuto all'officio dei dachi, dei marchesi, dei conti. Senonchò trattavasi di nna podestà più o meno ampia secondo i casi : non valeva molto di fronte ai duchi e marchesi, ma voleva dire ancora qualcosa di fronte ai conti; nondimeno la corona tini con lo spogliarsi anche di quei pochi diritti che le erano rimanti, e il signore diventò un sovrano territoriale.

Ciò accadde appunto nei tempi di cui discorriamo: nel se- colo XIII Pevoluzione poteva già dirsi compiuta. È stato un processo di emancipazione dall'alto, ohe non ha il suo uguale nella storia, se non nell'altro di assorbimento al basso, cioè verso le podestà minori e locali, feudi e comuni. Il quale co- mincia non tosto i principi sono diventati sovrani, e non ha Fosta, finché essi non sieno riusciti a sostituirvi i propri ufficiali^ tramutando cosi la loro sovranità territoriale in una vera po- destà pubblica. Fra le altre, ai arrogarono il diritto di det- tar leggi, e nessuno ne li contrastò. In fondo tutto questo dipendeva dalla giurisdizione e dalla vigilanza superiore che esercitavano sui loro territori. Perchè, come giudici dovevano provvedere all'ordine dei giudizi, e mercè la vigilanza superiore, di cui erano investiti, potevano prendere provvedimenti in tutti i sensi, allo scopo di tutelare la pace e promuovere il benessere del paese. Soltanto, si discuteva se potessero pubblicare leggi anche contro il diritto comune, senza riguardo all' Impero ed al suoi ordinamenti ; ma generalmente si ammetteva che potessero farlo, purché una legge imperiale non avesse j^etato espressa- mente la formazione di una regola contraria. ^|^ stessi prìn- cipi non mancarono di osservare, a più riprese, ch^b loro leggi dovevano rispettarsi, se anche contraddicevano al gius comune: che se talvolta ne domandarono la conferma all' imperatore, fu ^ olo per assicurare maggior forza alla legge stessa e far si che ve* nisse accettata dal tribunale imperiale in caso d'appello.

D'altra parte gioverà ripetere anche qui l'osservazione fatta più volte, che ad alcune materie occorreva il voto della dieta. Perchè di fronte al diritto del principe, di convocare nelle sue as- blee i prelati, i baroni, anche i rappresentanti dei i^omuni, si era venuto svolgendo, un po' alla volta, il diritto di queste me- desime assemblee di essere interrogate in tutti gU uffari <^ii Stato di qualche importanza; e il loro voto non era sKiltanto consultivo, ma un vero e proprio voto decisivo. Ciò avTeniva

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per es. nelle questioni di successione della casa regnante, o nel caso che si dovesse disjyorre di una parte del territorio o del patrimonio pubblico, o mettere nuovi aggravi; e anche negli atti della legislazione provinciale. E un diritto che si svolse analogamente a quello dei principi di fronte all'imperatore: e da un lato lo spirito d'associazione, che teneva unite queste classi, dall'altro le ristrettezze pecuniarie che obbligarono troppe volte il principe a ricorrere ad esse, in parte anche i torbidi politici, devono aver conferito a rafforzarlo sempre più. Però talune disposizioni non eccedevano i limiti del potere amministra- tivo, e il princijie aveva facoltà di prenderle da : poteva prov- vedere, anche durevolmente, alla pace pubblica, alla polizia, al- l'ordinamento della giustizia ecc., tutte cose che si collegavano appunto con la sua posizione amministrativa; e anche conce- dere privilegi e franchigie. Che se pure si consigliava con la dieta, questa non aveva voto decisivo.

Del resto sarebbe inutile per il nostro scopo di riandare tutte le leggi principesche pubblicate in questi tempi; ci re- stringiamo a quelle di maggior fama, specie alle leggi del Re- gno di Sicilia, ai decreti dei duchi di Savoia, alla carta de Logu e alle costituzioni Egidiane.

§ 1. - LEGGI DEL REGNO DI SICILIA. A. Assise e consuetudini normanne - Costituzioni sveve. *^

1, Nella bassa Italia la confusione delle leggi regnava sovrana ancora durante la dominazione dei Normanni; perchè molte città vivevano col diritto langobardo, forse il più comune in queste parti, altre col diritto romano, altre ancora con quello

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dei Franchi, altre infine, con le proprie consuetudini. Era cosa molto più facile riunire tanti Stati in uno, che dare a tutti in- contanente leggi uniformi. Pure vi provò Buggero ; ma l'opera rimase nel suo inizio, e molti altri principi, pari a lui, sareb- bero stati necessari per compierla.

Buggero pubblicò varie leggi nell'assemblea generale de' no- bili e prelati, che tenne in Ariano nel 1140, ordinandone la osservanza tanto nel Eegno di Sicilia quanto in quello di Pu- glia. Queste sono le prime costituzioni del Regno, che furono dette Assise, in quel medesimo senso in cui le antiche leggi dei barbari avevano adoperato le parole ludicia e Forum; e tren- tasei ne giunsero fino a noi. Sono le migliori del tempo, quan-

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Andrea d'Isernia, Bartolomeo ai Capua e altri; cosi puro Tediz. di Napoli del ^J

1786 con la traduz. greca, anche in IìIKDenbroo, (W. Le>jo. antiq., P. 681 e in j^

Canciani, I, p. 800 spgft. Una nuova edizione o dovuta ad HLMM.AKi>-BRfenoLLEs, ^

nella IfUt. d{plom. Frideriei II, voL IV.

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tanque vi si trovino confusi gli ordinamenti più disparati : pò* litici, civili, militari ed economici. Sono anche dignitose, brevi, e chiare : improntate di una cotale fermezza, rispecchiano la gran- dezza d'animo del legislatore, che le pubblicava, e non lasciano luogo a dubbie interpretazioni. Nel fatto, ritraggono qua e della legge langobarda, ma per lo più riproducono le disposi- zioni del diritto romano. Già il prologo presenta i legislatori romani come nostri predecessores e cita una nota frase di IJl- piano; ma pur nel contesto appare la tendenza di riattaccarsi sia al Digesto e sia al Codice, ad ogni piò sospinto ; talvolta poi è una regola di diritto romano, vissuta come semplice consuetu- dine nel popolo, che il legislatore converte in legge, e se pure ne modifica le disposizioni, pone ogni studio nell'usare le pa- role romane. Il tenore di queste assise lascia scorgere manife- stamente come una nuova legislazione andasse sorgendo; ma sa^ rebbe errore il credere che fosse scopo di Buggero di sostituire un organismo legislativo nuovo e compiuto a tutta la vecchia legislazione. Egli stesso dichiara non essere suo intendimento di cassare le antiche leggi e consuetudini, salvo nei casi in cui fossero incompatibili con le sue: nel resto voleva che conser- vassero il loro pieno vigore.

Sulle traccio di Buggero continuarono Guglielmo I e Gu- glielmo II, spianando cosi la via alla grande opera, che si compi poi sotto Federigo II imperatore e re. Guglielmo I ebbe il so- prannome di Malo: pur le leggi, che ne avanzano, sono prov- vide e sagge, e anche quelle di Guglielmo II meritano lo stesso encomio. Soltanto non ne rimangono molte : ventuna del primo e tre dell'altro.

2. Fortunatamente abbiamo una suflBciente copia di docu- menti, che possono, fino a un certo punto, completare l'opera legislativa, specie nei riguardi del diritto franco-normanno.

Nella bassa Italia è appunto il diritto franco che si afferma e diffonde anche più con la conquista normanna ; e non deve recar meraviglia, perchè la Normandia, in questi tempi, viveva in grandissima parte col diritto franco: certo, il diritto dei nobili era franco ; ma non vorremmo affermare che si diffondesse pro- prio dappertutto. Abbiamo esempi di Normanni che si adat- tarono alle leggi langobarde, quando avevano diretti rapporti con Langobardi, e anche indipendentemente da ciò; specie quando

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si trovarono come isolati di fronte alla popolazione del luogo* Per oon verso, dove si presentarono in massa, seppero di certo man- tenere energicamente il loro carattere nazionale nella lingua, nella liturgia e anche nel diritto.

Si è verificato ciò specialmente con alcune istituzioni poli- tiche, come ad esempio la divisione in dodici cout«e, ristitu<> zione della Dóhana de secretis, anche T introduzione dei grandi uflioiali della corona, e soprattutto col sistema feudale franco, che i Normanni trapiantarono senza più nel Begno e che ebbe tanta parte ai destini di esso; ma si ripetè eziandio con alcuni rapporti di diritto privato e col sistema processuale.

La prescrizione del possesso fondiario della durata di un anno, un mese, un giorno e un'ora, che un privilegio di Gu- glielmo n accorda a Messina, e penetra poi anche in altre parti del Begno fino a che Federigo II l'abolisce come una dura con- suetudo, è certamente dovuta ad influenze franche^ come del resto lo stesso Federigo avverte: per quam aliquis de dominio rei sua e cadebat, et Francus de dissasina queri non poterai. E cod tin^altra consuetudine non meno dura, ricordata da Ugo Falcando. Si tratta di un tal Joannes de Lavardino, posse j^^sore normanno, il quale pretendeva dai suoi terrazzani niente meno che la metà di tutti i beni mobili che possedevano, asserendo appunto che tale era la conHuetudo suae terrae, e invano quei disgraziati si richiama- rono alla libertas civium et oppidanorum Sicilitu: sostenevano che come cives et oppidani non dovevano assolutamente nulla, pur dichiarandosi pronti a servire spontaneamente e liberamente i loro signori in ogni loro necessità; ma il giudice ne ret^piuse il reclamo, e si di£Puse la voce che tutti i popoli della Sicilia sarebbero quino' innanzi costretti a pagare imjcia Oalliae con- suetudinem quae cives liberos non haberet.

Altri esempi appartengono al diritto di famiglia.

Scrive Andrea Bonello, che, a differenza del diritto romano e anche del langobardo, la maggiore età si compiva per diritlo franco coi quindici anni, e che già allora si usciva dalla poieMias aliena; mentre altri sostenevano addirittura cho i Francigenae non conoscevano la patria podestà. Lo aveva asserito Accursio' e lo ripetono i Napoletani come una specialità del diritto franco del Regno; ultimo il Ferretto, il quale ne deduce che anche un figlio avrebbe potuto testare validamente. E cogii la donna :

i

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à già le carte più antiche la presentano libera dal mundio, onde

poteva disporre a talento delle cose proprie, e se pure a volte

. altri assisteva ai suoi atti e vi acconsentiva, non era per effetto

f del mundio, ma in causa dello speciale regime familiare dei

beni. Un documento barese del 1184 ci presenta una ragazza

figlia di certo Meles, che vende nullius mundualdi coiisensu sc^

cundum cidtatis morem^ quia francorum lege vivebat et iudica-

batur. Carlo di Tocco la rassomigliava senza più alla donna

romana ; e sappiamo eziandio che, mentre una langobarda avrebbe

, dovuto essere rappresentata nei giudizi dal suo mundualdo, la

f donna franca era assistita da un procuratore.

Più d'una specialità offre altresì il regime dei beni tra co- L x^iugi, quale si trova particolarmente in Sicilia, ma che ha la-

sciato tracce anche in alcune consuetudini del continente na- poletano, come Gravina, Aversa e Altamura.

E innanzi tutto il dotarium. Esso ricorre prima nelle leggi di Guglielmo II senza il benché menomo accenno ad origini franche ; poi passa nelle costituzioni e nei capitoli del Regno, e gl'interpreti, cominciando da Marino da Caramanico e venendo giù fino ad Andrea d'Isernia, a Matteo d'Afflitto e al Mon- tano, per tacere di altri, dicono ad una voce che si tratta pro- prio di una pratica del diritto franco. Specialmente il Montano v'insiste, osservando come l'uso ne risalisse al diritto franco, che i Normanni avevano introdotto nel Regno, e che per con- seguenza era un tus speciale inter ilios Francos seiu Normaìidos descendentes ab illis Franchis seu Normandis primis in regno ha- bitantibus qui patrio iure Francorum vixerant. Ma anche i do- cumenti avvertono che si trattava di cosa usata da coloro che vivevano iure o more Francorum, il che non toglie che i prin- cipi del diritto romano possano aver conferito a modificarlo, av- vicinandolo alla donatio propter nuptias. Propriamente consi- steva nella terza parte dei beni, che il marito costituiva alla moglie per diritto franco, non altrimenti della quarta del diritto langobardo, onde si designava anche col nome di tertia o ter- tiaria, e formava come il riscontro della dote. Non eravi dota- rlo senza dote, e una Declaratio peritorum regni, in cui taluno credè di ravvisare addirittura una costituzione, ce ne tramandò i principi piuttosto intralciati, che poi il capitolo Mulier dota* ^^^__ rium di Carlo II semplificò. Nel modo con cui venne concepito

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in origine, faceva differenza se il dotario e la dote erano oostituiti in fondi o in denaro. Perchè nel primo caso tornavano sempre al costituente; mentre nel secondo tutto dipendeva dalla pre- senza o mancanssa di figli. Se ce n'era, i beni cedevano ad essi fin dal momento della nascita, mentre il coniuge superstite aveva diritto solo ad una porzione virile, e cioè la donna ad una quota del dotario, il marito ad una della dote. Se non c'erano figli, spettava alla dohna di scegliere tra la dote e il dotario, ma non poteva lucrarli entrambi senza speciali patti, a differenza del marito, che lucrava sempre la dote e riceveva di ritorno il do- tario. La forma stessa presentava qualcosa di singolare. Eile- viamo da Marino da Caramanico, che il dotario si soleva costi- tuire nel di degli sponsali ante fares ecclesie e anche per quen* dam cultellum cum ferro incurvato circa punctam ad modum pw tatorii; e si trattava nuovamente di una maniera propria dei Franchi. Certo, l'uso simbolico del coltello ricurvo in punta era molto diffuso in Francia, e in generale tra' Franchi anche fuori della Francia. E fu conservato a lungo. Quanto alla bassa Italia, se n'ha memoria in carte matrimoniali degli anni 1262, 1347, 1358. Quest'ultima offre anche esempio di un dotario co- stituito in facie maioris Salernitane ecclesie. Aggiungiamo, che poteva riferirsi originariamente tanto al patrimonio allodiale quanto ai feudi. Le consuetudini sicule non lo restringono di certo ai feudi; ma già le costituzioni del Regno lo contem- plano solo in relazione a questi, costituito su di essi o in luogo di essi, tanto che dopo l'Iseruia diventa regola costante che i Franchi costituiscano la tertia sui feudi e la quarta sugli allodi. Cosi diventa un mas magnatum, una istituzione esclusivamente nobiliare.

Una importazione franca è anche la comunione dei benij quale si trova nella bassa Italia tra padre, madre e figli* Certo, non è langobarda bizantina, sebbene l'un diritto e l'altro pos- sano averle spianato la via. I primi esempi si trovano origi- u^irìamente solo tra' Normanni: il più antico nel 1062; mentre altri più recenti provengono, almeno in gran parte, da gente franca. E si è andata poi estendendo. Nel 1150 era diventata Ic'gge in Calabria; poi e penetrata in Amalfi e Sorrento, poi a Messina e via via in tutte le città dell'Isola; ma, lo ripetiamo, nulla aveva di langobardo di bizantino. E già il fatto che

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nessun documento anteriore ai Normanni ne rivela l'esistenza, basterebbe a dimostrarlo. Perchè avrebbe tardato tanto, mentre il diritto langobardo vigeva da lungo tempo nel continente napo- letano, come pure il diritto bizantino, specie nell'isola? Alla origine langobarda resiste eziandio la divisione del patrimonio in tre parti, che il diritto langobardo non conosce ; mentre quella bizantina è anche meno probabile, non trovandosene assoluta- mente traccia nel diritto greco. Si è, per vero dire, citata l'Eclo- ga isaurica, e sulla fede dello Zacharià si è detto e ripetuto a sazietà che il regime dei beni tra coniugi, quale essa lo intese, sia stato quello della comunione ; ma trattasi di un grosso errore, il quale dimostra soltanto che non sempre, anche i più dotti, si prendono la briga di consultare direttamente le fonti. In ve- rità, se pure l' Ecloga conobbe la comunione, fa soltanto quella amministrativa per parte del coniuge superstite di fronte ai figli non ancora adulti, mentre il sistema, a cui aderisce nei riguardi dei coniugi, è sempre quello romano della separazione dei pa- trimoni, modificato solo dalla dote e dall'aumento dotale. Ag- giungiamo poi una osservazione certo non nuova : che i con- temporanei hanno costantemente contrapposto la comunione sia al diritto langobardo e sia al bizantino come una specialità del costume gallico. Carlo di Tocco e più tardi Goffredo di Trani la considerano come qualcosa di diverso dal diritto langobardo ; e cosi parimente altri la mettono di fronte all'uso dei Greci. Goffredo di Trani, mentre distingue i matrimoni langobardi dai franchi, osserva a proposito del ius galUcanum: qaod superstes coniux succeda in omnibus bonis^ e che il matrimonio cosi con- chiuso dicevasi contratto iure Francorum. Certo, alla origine normanna accenna il fatto, che la comunione molte volte non cominciava neppure con la nascita di un figlio, ma dopo un anno, un mese e un giorno dal matrimonio, come a Palermo, Calta- girone, Castrogiovanni, e nelle consuetudini derivate da queste città; altrimenti la scelta, che le consuetudini di Messina, Catania, Siracusa ecc. accordavano alla moglie superstite fra la metà di tutti i beni e la ripetizione della sua dote, accenna ad usi franco-normanni. Quanto alla popolazione greca, essa ob- bediva al sistema dotale, v'ha dubbio che per lunga pezza il sistema della comunione e quello dotale abbiano esistito, l'uno ac- canto all'altro, come due sistemi speciali dei Franchi e dei Greci,

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finché le due popolazioni vissero con diritto diverso. Più tardi le cose oambieranno : le due popolazioni verranno accostandosi e allora anche i Greci non troveranno difficoltà di adottare il sistema franco; ma per il momento il dualismo esiste. E poi, anche allora si continuerà tuttavia a distinguere fra i matrimoni contratti iure Latinorum o secundum consuetudinem Latinorum o Franeorum^ che è lo stesso, e quelli contratti iure Oraecorum^ et eorum consuetudinibusj o alla greca o grichisea. E un curioso contrasto che troviamo a Palermo, a Corleone, a Messina, a Ca- tania, e che dura tuttavia a Malta, altra conquista normanna. Nel trecento poi era già nella consuetudine di passare indiffe* rentemente da un sistema all'altro, e l'uso continua anche in seguito. Ne fanno fede alcune carte palermitane degli anni 1353 e 54 e 1416, che riguardano appunto patti nuziali. Bileviamo dalle prime che essi erano stati stipulati secondo il diritto latino^ ma poi, prima ancora che il matrimonio avvenisse, furono mutati in altri ad morem et consuetudinem grecorum diete urbis; mentre, per contrario, la carta del 1416 stabilisce che il matrimonio debba essere secundum morem et consuetudinem Oraecorum fino alla na- scita di un figlio, e quindi convertirsi in un matrimonio ad mo'^ rem et consuetudinem Latinorum,

Parimente un nuovo ordine di successione ereditaria si fa largo coi Normanni, molto diverso da quello romano e anche da quello langobardo. La successione dei Franchi si fondava sulla primogenitura, sia che si trattasse di allodi o di feudi, e già quella di Boberto Guiscardo si ò affermata cosi. gli in- terpreti hanno mancato di avvertirlo. Carlo di Tocco si è pro- posto il seguente caso : un langobardo aveva avuto un figlio dalla moglie; poi si era fatto franco per vivere con la legge franca, e aveva avuto un secondo figlio, sia dalla stessa donna sia da altra in seconde nozze : chi andava preferito neH^ successione ? n giurista risponde: quia successores ea lege vivere debent qua civebat is cui succeditur^ dicimus filium primogenitum admitten* dum in totum secundum Francorum consuetudinem. Però col tempo la speciale successione negli allodi si è perduta, o quanto meno non ne rimangono tracce: restò soltanto nei feudi; ma di essa parleremo più sotto.

Un ultimo campo, in cui le consuetudini normanne hanno avuto agio di manifestarsi, è quello del diritto processuale:

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tatto uno speciale im Francorum, ohe si conservò nei giudizi fino a Federigo II. In particolare, vediamo diffondersi in que* sti tempi anche in Sicilia, il duello e le ordalie dell'acqua G del ferro, che prima non si conoscevano. Ugo Falcando attesta che la pratica del duello giudiziario era di generale appUcazione a Palermo, e anche il testo antico delle consue* tudìni messinesi vi accenna, sebbene con qualche limitazione» Pei giudizi dell'acqua e del ferro rovente possono vedersi De lohanne, de divinis officiisj 88, anche Carlo di Tocco, che ne parla come di una consuetudo regni^ e le costituzioni di Fede* rigo n. Insieme possiamo ricordare alcuni privilegi accordati a questa o quella città del Begno per esimerle da cotesto prove: Troia nel 1127, Bari nel 1132, e cosi Gaeta nel 1191, sebbene limitatamente al duello; anch'essi dimostrano quanto la pratica ne fosse comune. Ma la stessa prova testimoniale presentava alcun che di speciale. Insegna Carlo di Tocco che, mentre per diritto romano, e anche per diritto langobardo, i testimoni an- davano uditi separatamente, invece era diritto dei Franchi ut unus prò omnibus dicat et ceteri dicant verum esse quod unus eoram dixit Lo stesso Carlo e altre fonti attestano, che i Franchi, a differenza dei Langobardi, potevano impugnare le deposizioni dei testimoni, sfidandoli a singoiar tenzone ; ma ne abbiamo la prova anche nei documenti, per es. in un placito delTanno 1155. Si tratta di una lite che l'abate di Montecas- sino aveva mosso ad Herbìas giustiziarlo regio ; e vi si afferma, tra le altre, che l'abate poteva produrre i suoi testimoni, ma, dall'altro canto, si ammette che il convenuto^ si (Uiquem de pre- dictis testibus per pugnam vellei impetere, non tamen per guer^ ram, potesse farlo. Che più? Gli stessi Langobardi non vede- vano di mal occhio cotesta pratica, come risulta da un altro processo delle città di Teano e di Sessa del 1171: gli attori avevano domandato appunto di potersi battere coi testimoni della parte avversaria; ma la domanda non ne fu accolta, quia inter Langóbardos erat quaestio. Insieme rileviamo dalle costituzioni di Federigo II che un Franco contumace prima della contesta- zione della lite veniva punito con la perdita di tutti i suoi beni mobili, mentre se lo diventava dopo la contestazione, perdeva senza più la causa, anche se buona ; ma Federigo abroga tutto ciò, come abolisce altre cavillationes et captiones antiquas iure

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Francùrunty quinzanas et momenta temporam que ìnter Francùs liiigantes ui iudiciis hacienus ger^nòantur, nec non qumdam aliag Sìàhtiles observatiùnes* In particolare combatte il duello, contro la pratica venuta così in voga tra' Francai, che in esso ripone- vano ogni loro fortuna, Bia delle persone e eia dei beni. Lo av- verte Federigo stesso ; per pugnam pidelicei, quo iure Francorum mìsenUÉ hactenan utebantur, tam circa principale» personcks quam circa personojs te^um; e lo vuole abolito, dis-ponendo che d'ai* lora in poi, eia oh© la causa vertesse tra Franchi oppure tra Franchi e Langobardi, i soli mezzi di prova ammessi dovevano essere gli strumenti e anche i testimoni, ma senza che si potesse offrire la pugna per combatterli.

3. Cosi siamo arrivati alla grande legislazione di Fede- rigo n, che certamente va innanzi a tutte. Questo prtnoip6j nelle cui vene scorreva il sangue degli Svevi e dei Normanni, dettò molte leggi, e molte corresse e riordinò, e poi insieme rac- colse e pubblicò in forma di codice regolare. Ciò fu nel 1231 in una numerosa assemblea di magistrati, ufficiali e grandi di- gnitari dello Stato tenuta a Melfi. Altre, che gli interpreti chiamano nuotae^ vi furono aggiunte in seguito; ma alcune non sono che lettere generali e circolari.

Cosi nacque il corpo di leggi conosciuto sotto il nome di Cùn9iituiioneg augustales o ConsftituHones regni Sieiliae.

Il quale è un insigne monumento di sapienza legislativa; ma non si sa bene chi abbia aiutato Federigo a compilarlo, Neirepilogo è detto: Quaa per magiéirum Petrtim de Vineis Ca* puanum magnae curiae nosirae iudicem et fideìem nosir unt man* davimm campila ri; e stando a queste parole, potrebbe credersi che colui, ohe tenne ambo le chimi del cor di Federigo, vi ab- bia in qualche modo prestato Topera sua. Pier della Tigna, capuano, nato di bassa condizione, era venuto in grazia a Fede- rigo si da diventare come Tarbitro del suo cuore, Pier della Vigna era cancelliere e giudice della Gran Corte. Nondimeno quella notizia non ha molta consistenza: il codice vaticano non la riproduce; e già il sottile ingegno del Carcani, editore delle Costituzioni, aveva riconosciuto che le parole erano interpolate» A maggior diritto vuoisi dire, che ministro Federigo in quella insigne opera sia stato Iacopo arcivescovo di Capua, altro suo

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grande familiare ; e appunto per avervi posto mano, Gregorio IX gliene avrebbe mosso rimprovero.

L'opera, scritta in latino, fa poi per ordine di Federigo stesso fatta tradurre in greco, per uso di quelli tra' suoi sudditi, e non erano pochi, che parlavano questa lingua.

Il proemio, di carattere filosofico, riepiloga le teorie correnti» Tra le altre vi si rende ragione della esistenza delle leggi e dei magistrati; e si afferma che dipendono dal peccato originale e dalla caduta del primo uomo. Notiamo queste parole, perchè riassumono il principio dominante nel medio evo : se non ci fosse stato il peccato originale, gli uomini non avrebbero cominciato a odiarsi, i domini, già comuni, non si sarebbero divisi, e non ci sarebbe stato neppur bisogno dello Stato. Il peccato ha reso necessario tutto ciò.

Il proemio indica eziandio quali fossero gl'intendimenti di Federigo nel pubblicare il suo codice. Egli comincia dal ripe* tere la sua potestà da Dio, e dichiara di voler richiamare e riformare le leggi dell'avo, dello zio e del cugino, e farne altre più acconcie ai tempi, perchè servissero di fireno agli abusi. Vuole pure annullate tutte le consuetudini e leggi dei re ante- riori, non inserite nel nuovo codice, togliendo loro ogni forza ed autorità si in giudizio che fuori.

Insieme gioverà consultare il titolo 31 del primo libro ; an- ch'esso è caratteristico a ben definire il concetto firidericiano. Vi si dice: "Non senza grande accorgimento e matura delibe- razione i Bomani con la Lex regia trasferirono nel'loro principe il diritto e l'autorità di far leggi, al fine cioè che l'origine della giustizia e la sua difesa provenissero da quella medesima per- sona che comandava ai popoli, rivestita dell'alta potenza di Ce- sare. Ond'è facUe il convincersi, non tanto della utilità quanto della necessità di quel provvedimento, per cui, concorrendo questi due elementi, cioè dire l'origine del diritto e la sua tu- tela, nella medesima persona, non si disgiungesse dalla giustizia- li vigore, dal vigore la giustizia. Conviene dunque che Ce- sare sia della giustizia padre e figliuolo, signore e ministro : pa- dre e signore nell' espome le regole e nel mantenerle, figliuolo nel venerarle, ministro nel metterle in esecuzione. Per tale sa- vio divisamente noi dunque, che ricevemmo dalla mano di Dio lo scettro dell' Impero, e tra altri reami il reggimento del Begno

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di Sioilia, dichiariamo a tutti i nostri fedeli di questo Begno la ferma nostra volontà, e come ci stia a cuore di procurare a tutti e singoli di loro, senza la menoma eccezione di persone, con prontezza di zelo, la giustizia, che potranno trovare presso i nostri ufficiali, a cui commettemmo di amministrarla. Intanto vogliamo che siano distinte le incombenze di questi nostri uffi- ciali, e che gli uni attendano alle controversie civili, gli altri alle accuse criminali,,.

Sono intendimenti lodevolissimi. Soprattutto piace di vedere la suprema autorità dello Stato, che si riconosce soggetta alla ieggdf che promette di mantenere con tutto lo zelo l'eguaglianza dei sudditi rimpetto ad essa, che non ammette altra giustizia tranne quella che gli ufficiali pubblici amministrano, e vuole accuratamente distinte le due nature diverse dei giudizi civili e criminali* Piace tanto più, in quanto che correva una età, in cui difettavano siffatti esempi, vi aveva voce d'opinione pubblica che li suggerisse e confortasse.

4. -^ Le costituzioni stesse sorgono su doppia base : da una parte il diritto romano, dall'altra il diritto langobario, special- mente il primo : anzi qualcuno ha asserito che nelle loro basi teoriche sono una vera e propria codificazione romanistica ; ma non vorremmo spingerci tanto oltre. Certamente potremmo ricordare più d'un passo, in cui si cerca di dare validità pratica al diritto romano, e in cui talvolta vi si accenna come a diritto comune, anche in aperta contraddizione col diritto langobardo. Era la prima volta ch'esso veniva considerato sotto tal forma nella bassa Italia ; e per quanto i giuristi abbiano disputato per determinare il titolo della sua validità, esso è rimasto poi sem- pre il giu8 comune delle Due Sicilie. Per Andrea d* Isernia esso non rappresenta che una continuazione, perchè non era mai stato abolito; ma veramente per l' addietro non era valso che come legge personale dei Bomani, e forse ha ragione Marino da Caramanico, ohe ne cerca il titolo nel riconoscimento da parte dei re, e specialmente da parte delle Conditutiones. Comunque, tutto ciò non basta ancora per battezzarle come una codifica- zione romanistica, mentre vi si riscontrano pure le influenze langobarde, se non in uguale, certo in larga misura. Cosi, per addurre qualche esempio, la Const. Il, 42 eleva a diritto comune il termine langobardo dell'età maggiore ; la Const. Ili, 37 estende

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a tutto il Begno la prescrizione di quarant'anni, che la legge langobarda aveva introdotto tra fratelli ; la Const. HI, 39 vuole assoggettato anche il fisco alla prescrizione di sessant'anni, ma- nifestamente giusta il disposto della Lomb. Il, 34 (35), 8; la Const. I, 97, 4 tocca della falsificazione dei documenti, e anch'essa ha riguardo al diritto langobardo, ma per mitigarne la pena : dispone che non si dovesse punire più col taglio della mano, come erasi praticato fin là, e accenna evidentemente alla Lomb. I, 29, 1. Cosi anche la influenza langobarda domina il Codice, e il legislatore vi s'inspira, sia ohe accetti sia che mo- difichi. Ma il diritto langobardo è anche accolto nel suo com- plesso, come il diritto romano. La legge lo indica qua e come il diritto senz'altra designazione, e si può vederne un esem- pio nella Const. Il, 18, la quale ordina che si dia la guadia subito fino dal cominciamento del processo, e che dopo tre giorni si pongano i fideiussori, ut est iuris, cioè appunto nel modo che dispone la Lomb. II, 21, 27. E lo indica anch'esso come diritto comune, al {tari del diritto romano. Ciò in due luoghi. Si può consultare in proposito un capitolo (1, 63), che, per vero dire, sembra una interpolazione posteriore, non trovandosi nel codice parigino, eh' è dei più antichi ed autorevoli, ma che ad ogni modo rispecchia lo stato legislativo dei tempi. Stando ad esso, Federigo avrebbe ordinato ai baiuli di risolvere le controversie prima di tutto con le disposizioni delle Costituzioni, e altrimenti con le regole del diritto comune, ossia col diritto romano o col langobardo, secondo che le parti vivevano con una legge o con l'altra. Comunque, la Const. II, 32, che vieta di offrire il duello ai testimoni, contrappone i Franchi ai Langobardi e ai Romani qui iure communi censentur, mentre il diritto dei Franchi era un diritto speciale.

Con ciò resta implicitamente risolta un'altra questione, che ha pure la sua importanza. Se badiamo ad una dichiarazione del proemio, le altre fonti giuridiche avrebbero dovuto inten- dersi abolite ; ma non sembra che debbasi interpretare troppo alla lettera, perchè, ad onta di essa, quelle fonti continuarono ad avere vigore. Lo prova appunto il capitolo dianzi citato, secondo cui le liti avrebbero dovuto giudicarsi, prima di tutto con le Costituzioni, e altrimenti col diritto romano o col lango- bardo, prout qualitas litigantium exegerit. Ma lo stesso risulta

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anche dall'altro capitolo, che contrappone i Bomani e i Lango- bardi, qui iure communi censentur, ai Franchi. Parimente la Const n, 44 accenna alla differenza ohe correva fra donne vi- venti col diritto langobardo, che erano soggette al mundio, e quelle che vivevano col diritto franco, ohe ne erano esenti. Ii^ne la Const. Ili, 27 ammette un ordine diverso di sacces- sione pei Langobardi e pei Franchi. E possiamo anche ricor* dare una carta del 1235, con cui lo stesso Federigo II confer- mava una sentenza contro certa Teodora domina Polle (provincia di Salerno) que iure normanno vivit

Cosi viveva tuttavia nella bassa Italia il sistema delle leggi personali, ma di una vita più apparente che reale. Perchè in- tanto le Costituzioni stesse introducono un sistema unico per tutti nei giudizi. Alludiamo alla Const. II, 17, in virtù della quale non era più lecito distinguere se l'attore o il convenuto fossero Franchi, Bomani o Langobardi ; ma tolta di mezzo ogni differenza di persone, si doveva amministrare aequa lance la giustizia a tutti e la procedura essere uguale per tutti. Fede- rigo II introduceva cosi un sistema unico in iudiciis; ma oltre a ciò anche molte disposizioni erano comuni, cosi da scavare pure il terreno di sotto ai diritti personali. In realtà le diffe- renze, che sopravvissero, non sono molte, nonostante i volumi, anche grossi, che si dettarono per metterle in chiaro, e il siste- ma doveva ridursi sempre più ad una mera parvenza. Non già che il diritto langobardo abbia completamente ceduto il campo: sul principio del secolo XIV le sue radici erano ancora cosi salde, che il cancelliere Bartolomeo di Capua tentò invano di togliergli forza in via legislativa ; e anche più tardi continuò. Guglielmo lo considerava tuttavia come sussidiario delle Costi- tuzioni; e persino i giuristi, che lo avversavano, non hanno potuto a meno di occuparsene. Ancora sul principio del se- colo XYI abbiamo la testimonianza di Matteo d'Afflitto, il quale narra di aver udito da vecchi avvocati che la pratica dava tut- tavia la precedenza al diritto langobardo. Ne il Ferretto la pensava diversamente ; e infatti ci rimangono documenti anche di quel secolo, che ne attestano la osservanza. Però accadde anche qui come nell' alta Italia : il diritto romano fini col pren- dere sempre più il sopravvento.

5. Il codice è diviso in tre libri, che comprendono :

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V il diritto pubblico intemo ; 2* il processo ; il diritto pri- vato, feudale e penale; ma gli ordinamenti ohe riguardano i rapporti di diritto pubblico, cioè dire le materie governative e di politica economica, di diritto penale e rito giudiziario, pre- valgono di gran lunga su quelli che concernono a rapporti di ragione civile. Non ne lodiamo l'ordine ; ma sono degne di en- comio le leggi, che, accrescendo forza al monarca e scemando gli abusi feudali ed ecclesiastici, giovarono in pari tempo a ga- rantire il popolo ne' suoi diritti.

Per siffatto riguardo il codice di Federigo II è superiore a tutte le legislazioni precedenti e anche alle contemporanee. Il principio che lo inspira, è un principio politico di grandissima por- tata, per cui Federigo II si contrappone allo Stato feudale, e vuole unificarlo, collocandolo al di sopra di tutti gli altri poteri. Noi non esitiamo a dire che fu il primo e forte tentativo, ohe siasi &tto nel medio evo, affine di ordinare lo Stato su nuove basi. vi furono estranei gli elementi romani e saraceni. Certo, giovò la influenza del diritto romano ; perchè il primo canone dei le- gisti era l' unità e indivisibilità del potere. Federigo II sta, si può dire, a cavaliere del primo e del secondo periodo del medio evo. Da un lato, c'è molto d'ideale e di fantastico nel modo con cui concepì l' Impero ; e dall' altro, egli sente vivamente i nuovi principi amministrativi, e cerca di applicarli al suo Begno. Appunto le CongtittUiones tentano ciò. Federigo concentra nelle sue mani e in quelle de' suoi ufficiali il potere pubblico, che i baroni, i vescovi, le città avevano usurpato, e li toglie ad essi. Il re, com'egli lo intende, ha dei grandi doveri: deve provve- dere alla giustizia, interessarsi a tutte le classi del popolo e proteggerle ; ma per fare ciò occorre che sia forte, e Federigo accampa dei diritti, che nessun regnante ebbe prima di lui. Specialmente mira a restringere le altre podestà per ciò che riguarda la giurisdisdone. Tutti i sudditi devono essere soggetti ai suoi magistrati ; e a questa prevalenza del potere monarchico corrisponde una cotale unità e solennità del governo centrale. La Magna Curia, e i sette grandi ufficiali che la componevano, rappresentano energicamente l'idea dello Stato con attribuzioni consultive, amministrative e giudiziarie mescolate assieme. altra tendenza hanno il governo della provincia e il governo locale : è sempre l' autorità dello Stato che cerca di affermarsi di fronte al potere baronale.

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Speciali provvedimenti riguardano la finanza, reconomia na- zionale, i traffici, V industria, l'agricoltura, la polizia - ma insie- me fu dato un certo impulso alla legislazione civile e penale.

Ciò, che si rileva a prima giunta, è la larga parte che nel diritto civile è fatta alle idee romane: è tutta un aria romana, che vi spira dentro, anche a non tener conto del riconoscimento del diritto romano come diritto comune, insieme al langobardo^ Soprattutto meritano d'essere ricordate le costituzioni che abo- liscono il diritto di albinaggio e quello di naufragio, due tristi avanzi delle società barbariche già stigmatizzati dalla Chiesa. Altre leggi si occupano del matrimonio e del diritto domestico^ di retratti e prescrizioni, successioni e contratti.

Le leggi penali contemplano varie figure di reati: citiamo, a mo' d'esempio, quelli contro la religione e la maestà sovrana, i delitti di falso, quelli contro la vita e la proprietà, la sicurezza intema e il buon costume. In generale sono leggi non immuni dai difetti del tempo; avrebbero potuto non esserlo. Afolte volte abbiamo a che fare con un lusso spietato di supplizi ap^ plicati senza discernimento, senza gradazione, e, ciò ch^è peg- gio, con troppe concessioni all'arbitrio del giudice. I rigori con- tro gli eretici e i rei di crimenlese rasentano addirittura la cru- deltà. Nondimeno ci abbattiamo anche in leggi pia umane, in cui è manifesta la tendenza di proporzionare la pena alla gra* vita del reato.

In materia di procedura piace di veder Federigo prefiggere un termine alla spedizione delle cause e dividere i giudizi ci- vili dai penali. Federigo si occupa a lungo degli uni e degli altri ; ne determina le forme, secondo i casi, coi principi del pro^ cesso romano-canonico; ammette se non le prove stabilite dal diritto romano e dalle costituzioni del Begno. Quelle, che dicevano paribili^ cioè le ordalie e il duello, n'ebbero con ciò un fiero colpo: certo, diventarono meno frequenti; e anche la tortura fu meglio disciplinata. Ad ogni modo non si sarebbe dovuta applicare che a persone difiamate ; sicché, pur obbedendo ai pregiudizi del tempo, la legge segnava un progresso.

6. Non farà poi meraviglia, che una ricchissima lettera- tura siasi svolta intomo a questo codice. Si può dire che non ci fosse insigne giureconsulto delle provincie napoletane, cbe non vi rivolgesse i suoi studi. Un primo Apparaiu$ è costituito

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dalle chiose di Guglielmo, Franohisio e Andrea da Barletta, tatti contemporanei di Federigo; e un altro è dovuto a Marino da Oaramanico, che potrebbe quasi paragonarsi ad Accursio, perchè, raccolte le glosse che credette migliori, ne formò insieme alle sue un tutto solo, che presto fece andare in dimenticanza l'ap- parato vecchio. Dopo il Caramanico non si ebbero più glossa- tori nello stretto senso della parola, se pur non si voglia tener <5onto delle postille che s' intercalarono qua e nelle chiose di lui; ma in compenso ci restano veri e propri commenti, an- che di non trascurabile ampiezza. Bicordiamo quelli di An- drea d'Isernia, Luca di Penna e Matteo d'Afflitto; ma disgra- ziatamente la forza delle cose o la debolezza degli uomini pa- ralizzarono in parte l'efficacia della grande opera fiidericiana.

B. Capitoli angioini e Prammatiche aragonesi. **

1. Alle Constitutiones Segni Siciliae nocque la caduta degli Svevi : infatti le leggi degli Angioini sono molto diverse da esse, e se ne distinguono anche nel nome, perchè, secondo l'uso di

/ ^ Bibliografia. Grimaldi, Istoria delle leggi e magUtraUdel Segno di Net-

Capone, Discorso sopra la storia delle leggi patrie, p. 231-270. Veoi anche: Dob- BiBu, Les Archives etngevines de Nantes, J&udes sur les régistres du Hai Charles L, 2 YoL, Paris, ld86%7 e Gadier L., Essai tur Vadministraiion du Royaume de JSicile sous Charles I et Charles II d'Anjou, Paria. 189L Giccaoliohs, Le lettere di arbitrio nella legislax. angioina^ Torino, 19tX) (dalla ** Biv. itaL per le scienze

, ^ ^ Capitula Regni

Ritus Magnete Curiae Vieariae et Pragmaticae commentariis illustrata, Napoli, 1778. ^e manca però tuttora una edizione critica. Pei Riti della re^a Camera somma- ria abbiamo consultato Tediz. di Napoli del 1689 col titolo: R%tus regiae Camerae JSummariae Regni Neapolis^ nunc prtmum in lucem editi, cura leetura seu deelarcUion, Ooffr. de Gaeta. Cum <»ddttion. Caes. Xic Pisani, Pei Biti deUa Gran Corte della Vicaria, vedi Prosperi Carawtcte,,,, Commentaria super ritibus Magnete Curiae Vic€triae Regni Neapolis, Venezia, 1601. DeUe Prammatiche esistono varie rac- colte. Si trovano in appendice ai Capitula e anche separatamente. Le migliori sono quelle di Alfeso Vakio del 1772 in 4 voL col supplemento del Lbooio, 17%), 2 voL e l'ultima, rimasta incompleta, di Lor. Giustihiahi del 180&-1806in 15 volumi. Un com^ndio ne fu fi&tto dal Db Jorio nelPopera citata più su. Si vedano pure i Privilegi e capitoli con altre gralie concesse aUa Jidelissima città di Napoli et Regno per li serenissimi Re di cctsa di Aragona ecc., 2 voL, Mila- no, 1720. Inoltre G. Dei. Giudice, Codice diplomatico del Regno di Carlo le II

parti.

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Franoia, si ohiamano Capitolari e Capitoli del Begno. Ve ne sono di Carlo I d'Angiò, del Principe di Salerno, di Boberto, di Carlo duoa di Calabria, della regina Giovanna, di Ladislao e della regina Isabella, in tutto 297 capitoli.

Carlo I d'A.ngiò, fin da quando, sconfitto Manfredi, si rese padrone del Begno, attese a riordinarlo con nuove leggi per to- gliere i disordini che la guerra e la rivoluzione vi avevano se- minato. E ne sancì a più riprese, dal 1266 al 1282, tanto per l' uno quanto per l'altro Begno, sicché furono dette capitoli del Regno di Sicilia^ non altrimenti delle Comtitutiones di Federigo. Senonchò appunto nel 1282 la Sicilia, al suono dei Vespri, si sottraeva all'ubbidienza di Carlo, che, distratto da cose di ben maggiore importanza, a tutt'altro rivolse poi le sue cure che a promulgare leggi. Ne abbiamo però alcune molto importanti del figlio di lui ; e già nel tempo che Carlo rimase assente, il prin- cipe di Salerno, visti gli statuti, onde l'emulo Aragonese aveva fornito la Sicilia, volle, anch'agli, provvedere i popoli del Be- gno di nuove leggi piene d'indulgenza. Il suo scopo era di renderseli amici ; e mirò anche ad ingraziarsi il pontefice, di cui aveva bisogno, largheggiando di privilegi e d'immunità alla Chiesa e alle persone ecclesiastiche. Cosi convocò nel 1283 un parlamento di prelati, conti, baroni e molti regnicoli, e stanziò col loro consiglio ben 46 capitoli. Li pubblicò dapprima col titolo di Constitutiones illustris D. Caroli II principis Salernita- ni, e poi, fatto re, li confermò, mandandone copia ai prelati, ai baroni ed alle università dei luoghi, perchè li facessero pubbli- care. Lo stesso papa Onorio IV ne trascelse quelli che favori- vano la Chiesa e le persone ecclesiastiche, e, mutate poche cose, volle confermarli con una sua bolla dell'anno 1285. Il Begno si metteva cosi per una nuova via, ben diversa da quella per cui l'aveva indirizzato lo Svevo. doveva ritrarsene così pre- sto. Per altre leggi, pubblicate negli anni seguenti, giovò a Carlo l'opera di Bartolomeo di Capua, protonotario del Begno, celebre giureconsulto.

E anche Boberto, che i contemporanei ebbero in conto di secondo Salomone per la sua saggezza, si valse di lui. I primi suoi capitoli fino al 1326 furono dettati da Bartolomeo; altri degli anni successivi lo furono da Giovanni Grillo da Salerno. In tutto cinquanta. Quelli di Carlo duca di Calabria, che il

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padre aveva preposto al governo del Regno, vanno pure tra i capitoli di Roberto, e cercano di provvedere al buon governo della monarchia e alla retta amministrazione della giustìzia, di cui egli era zelantissimo. Senonchè, dopo lui, la fonte legislativa pare quasi disseccarsi; e non è difficile dame la ragione.

Morto Roberto, gli succedette Giovanna sua nipote, figliuola di Carlo, il quale aveva preceduto il padre nel sepolcro; ma questa successione fu causa di molti disordini nel Regno, e la legislazione ne soffii. Vissuti in mezzo a continue agitazioni e tra le armi, ne la regina Giovanna, i suoi successori, po- terono pensare gran fatto alle leggi. I pochi capitoli di Gio- vanna non contengono nulla di nuovo e tendono solo a richia- mare in vigore certe disposizioni cadute in dimenticanza. Degli altri re Angioini, non abbiamo che un celebre capitolo di La- dislao e uno della regina Isabella come vicaria del Regno.

Del resto anche queste leggi, al pari delle costituzioni au- gustali, furono presto illustrate, prima con note poi con com- menti. Vanno ricordati tra gli annotatori: Bartolomeo di Capua, Giovanni Grillo di Salerno, Andrea d'Isemia, Sebastiano e Ni- colò di Napoli, Sergio Donnardo e Luca di Penna. Seguirono parecchi altri. Giannantonio De Nigris, non ignobile giurecon- sulto, vi aggiunse, verso la metà del secolo XVI, i suoi più diffusi commentari.

2. Altre fonti del medesimo periodo sono : i cosi detti Etti della regia Camera sommaria e i Riti della Gran Corte deUa Vicaria^ che meritano una speciale considerazione.

La regia Camera è una istituzione angioina, che doveva prov- vedere ai conti fiscali; e i Riti della regia Camera dovrebbero costituirne il codice di procedura. Invece sono i riti della Magna Curia dei maestri razionali^ la quale esisteva già sotto gli Sve- vi, e seguitò ad essere, anche nel tempo degli Angioini, il su- premo consiglio e tribunale di finanza. Retta dal Gran Came- rario, oltre a rivedere i conti trasmessi dai maestri razionali e provvedere sulle partite dubbie, curava qualunque cosa, che spet- tasse alla finanza, specie il dazio e altri pesi fiscali, le locazioni e gli appalti, le colpe e i mancamenti dei pubblicani e altri impiegati di economia, le cauzioni che dovevano prestare ; e giu- dicava, come tribunale supremo, di tutte le controversie col fisco a cagione dei menzionati oggetti. Invece la regia Camera non era

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neppure un tribunale ordinario: che se quei Biti furono detti della regia Camera^ ciò non fu che in processo di tempo. Ed è facile comprenderne il perchè. La Camera dei conti, già fiotto Ladislao, si arrogò il diritto di esaminare le partite dubbie, e a poco a poco assorbì anche altre attribuzioni dei maestri rar zionali, finché da ultimo re Alfonso, tolta occasione dall'essersi confuse le giurisdizioni, soppresse la Magna curia dei maestri razionali, investendo delle stesse funzioni i presidenti della Camera. Allora anche i riti dell'antico tribunale passarono nel nuovo, e poterono a ragione essere detti Hiti della regia Camera Sommaria. In fondo sono pratiche, che sulla base delle vecchie' costituzioni, dei capitoli e dei regi ordinamenti, trattano di dazi antichi e nuovi, delle privative e della zecca, ma anche di sti- me e vendite all'incanto delie gabelle^ della sicurtà e dei do- veri dei fittaiuoli o degli amministratori dei dazi, di conti da darsi, di escomputi, di frodi e simili. La maggior parte fu meBsa assieme da Andrea d'Isernia, che fu appunto maestro razionale sotto Carlo II e Eoberto, e di poi luogotenente del Gran Ca- merario sotto Giovanna I; ma altre se ne aggiunsero col tem- po. Ciò spiega il disordine e la confusione che vi regna. Del resto, sia per la loro antichità, sia pel costante uso che m ne fece, finirono con l'osservarsi come leggi, tranne alcune, che la Camera stessa rivocò co' suoi arresti o decreti; e furono anche fatte oggetto di commenti e di note.

La Gran Corte della Vicaria si venne formando dalla Curia del Gran Giustiziere, che esisteva già sotto gli Svevi, e da un'altra detta Corte Vicaria, che le era stata messa a paro da Carlo II con reciproco appello. I Riti della Gran Corte della Vicaria sono appunto un codice di procedura di questo tribu- nale; ma non si sa se avessero carattere officiale o privato. Ta- luno li fa nascere d'ordine della regina Giovanna e li loda; ma altri li crede lavoro privato dei tempi posteriori, e, per giunta, mal fatto. A nostro avviso, si tratta di un codice abbastanza completo, che provvede a tutto ciò che poteva interessare il buon andamento della giustizia; e, checché ne sia dei difetti, onde gli si taccia, e ohe vogliamo anche ammettere, h in- negabile che riusci utile alla pratica, tanto più che la proce- dura, usata nei giudizi della Gran Corte, doveva osservarsi del pari in tutti gli altri tribunali.

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3. Le leggi degli Aragonesi si conosoono generalmente col nome di Prammo^cAe ; e già Alfonso ne pubblicò parecchie, quando, debellati i nemici, si rese pacifico possessore del Kegno e attese a riordinarlo. Altre sono di Ferdinando.

Ma questi re introdussero anche un nuovo tipo di leggi in forma di Grazie^ concesse sopra domanda dei baroni o della città di Napoli o del Regno. E già assai per tempo ; perche si incontrano nella generale adunanza di baroni, che Alfonso I indisse nell'anno 1442 a Benevento, per ricevervi il giuramento di fedeltà, e che continuò poi a Napoli nella chiesa di S. Lo- renzo Maggiore. Si sa ch'egli vi dette alcuni provvedimenti di moto proprio per la retta amministrazione della giustizia, e poi si fece ad ascoltare varie suppliche, alcune delle quali negò o sospese, altre modificò, altre accolse interamente. Ricordiamo come appunto in questa occasione accettasse di ricevere ogni anno dieci carlini per focolare in luogo delle collette, e gettasse cosi le basi di un nuovo sistema di finanze. Gli altri re con- tinuarono a conceder grazie, sia nei parlamenti generali, sia sopra semplice domanda della città di Napoli.

4. Tutto sommato, abbiamo a che fare con una ricca col- lezione di leggi ; ma lo spirito, che anima tanto i capitoli degli Angioini quanto le prammatiche e grazie degli Aragonesi, è ben diverso da quello delle costituzioni fridericiane.

La potestà pubblica vi si manifesta in pieno regresso. Al tem- po delle costituzioni fridericiane la Chiesa aveva dovuto piegare davanti al concetto dello Stato, e anche il feudalismo era stato ridotto ad una certa forma legale di gerarchia e subordinazione : l'avvenimento degli Angioini cambia tutto ciò. Da un lato, l'au- torità ecclesiastica non manca d'ingerirsi efficacemente nelle cose dello Stato ; e dall'altro, i baroni rialzano il capo in danno del potere sovrano.

Le nuove leggi rispecchiano i tempi oggimai mutati. Già nell'atto d' infeudare il Regno agli Angioini, il pontefice aveva pattuito molte cose in favore della Chiesa; e le leggi continua- rono per questa via. Più sopra abbiamo ricordato quelle che Carlo II promulgò come vicario del padre, correndo l'anno 1283 : egli aveva compreso che, dopo perduta la Sicilia, la sua casa do- veva più che mai appoggiarsi al pontefice, e confermò e allargò i privilegi e le immunità della Chiesa e delle persone ecclesia- stiche. Lo stesso fece Roberto.

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procedette diversamente oon la feudalità, onde questa guadagnò sempre più terreno, e l'opera di Federigo JJ andò on- nic amente distrutta anche per tale riguardo. Non però in sulle prime: anzi c'è qualche legge di Carlo I diretta a rintuz- zare la baldanza dei baroni; ma la corrente feudale era più forte. Il Principe di Salerno, che aveva sentito il bisogno di stringersi più da presso al papa, senti del pari quello di avere fedeli i baroni, e si studiò di renderseli' benevoli. Appunta» perciò statui che tutte le loro cause, civili e criminali, attive e passive, dovessero giudicarsi per compares^ cioò dai loro pari ; e in seguito i privilegi feudali crebbero per modo che i baroni finirono col parere altrettanti piccoli re nei loro territori.

Data questa condizione della società, è facile indovinare che cosa dovesse essere il governo. Combattuto dalla doppia in- fluenza del clero e dei baroni, il principe ancora una volta ^e ne lasciò sfuggire le redini: l'organismo dei poteri centrali ai rim- picciolì e si ritirò nelle forme più anguste dell'amministrazione familiare ; altro spirito presedette al governo delle provinole. Se il re si occupò ancora di qualche cos^, fu degli interessi fiscali, e invece trasandò la giurisdizione, che fini nuovamente in mano dei baroni. La stessa infeudazione dei comuni è un fatto quasi generale di queste dinastie.

Tale era lo spirito che animava le leggi politiche, le quali prevalgono di gran lunga sulle altre. Invece la materia civile ap- pare piuttosto trascurata; ed è a mala pena che si può ricordare una prammatica di Alfonso I sui censi, diventata celebre. Il re aragonese dette, cosi, forza di legge ad ana bolla che papa Nicolò y aveva emanato a sua richiesta, disciplinando la Gom-> pera di rendite annue, in surrogazione del mutuo fruttifero proi- bito dalla Chiesa. Disgraziatamente il divieto ecclesiastico aveva avato la conseguenza di far ristagnare il danaro nelle borse dei ricchi e impedirne la circolazione, con detrimento del pubblico vantaggio ; e la compera delle rendite doveva supplire allo sconcio. Anch'essa però, oscillò a lungo tra il lecito e V illecito, finche Ni- colò V non ebbe dichiarato che non offendeva le leggi della Chiesa. Neppure le riforme penali offrono materia a molte consìde* razioni. Soltanto, avvertiamo il grave disordine dei tempi che le ha suggerite, e che alla sua volta le giustifica. Frequenti gli omicidi, anche più firequenti i furti, le grassazioni, gli stupri,

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i ratti, le falsificazioni di monete; e ciò eh' è peggio, i potenti favorivano i facinorosi ! Naturalmente il disordine chiamava il disordine. Le pene furono esacerbate appunto per mettere un argine alla marea del delitto, che montava; e talvolta si ri- eorse a rimedi, che possono dirsi veri espedienti della dispera- zione. Ferdinando si appigliò a quello di graziare un bandito, che ne uccidesse un altro !

In materia di procedura sono importanti le quattro lettere dette arbitrarie, di re Roberto; e anch'esse rendono l'immagine dei tempi. Si tratta di provvedimenti molto terribili; ma, lo ripetiamo, correvano tempi tristi, che potevano giustificare questo ed altro. Si dette facoltà ai giudici di commutare le pene af- flittive in pecuniarie; e si abbandonarono le solennità giudi- ziarie contro i malfattori, abilitando i giustizieri delle provincie e il capitano di Napoli a procedere ad modum belli. Carlo, figliuolo di Roberto, dispensò anche da ogni formalità giudi- ziaria nelle cause civili. Più tardi, re Ferdinando abolì le tri' gesime, con altro nome dette sportale, che i giudici solevano esigere dalle parti : una pratica oggimai inveterata, ohe rendeva i magistrati interessati in sordidi guadagni; e attese anche ad una completa riforma del processo civile e criminale. Tra le leggi del 1477, ne abbiamo una, divisa in 45 capitoli, che mira appunto a questo scopo ; ma disgraziatamente l'amministrazione della giustizia non fu sempre, a quanto pare, nelle mani di uomini onesti e probi. Cosi le riforme, anche meglio ideate, non appro- darono. Lo stesso re Ferdinando in una sua prammatica del 1482 accenna insieme alle vessazioni dei magnati, che erano enormi, ed alle oppressioni dei suoi ufficiali, che sfuggivano a qua- lunque controllo. D'altra parte i popoli reclamavano giustizia : era un grido affannoso, destinato a perdersi nel vuoto.

C Capitoli, Prammatiche e Ordinazioni dei re di Sicilia. ^^

1. Il nome più consueto, con cui le leggi della Sicilia sogliono designarsi, è quello di Capitoli, che abbiamo trovato anche a Napoli sotto gli Angioini. Che se dopo il periodo ara-

aUa

** Bibliografia Testa, De orlu et progretsu iurit tieuli, si trova pramesao sua ediss. dei CapUula Regni SieUiae, Palermo, 1741^ tradotto nelle Ifemo-

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gonese, fin dal secolo XV, anche altre leggi vennero in vi- gore sotto il nome di Prammatiche e Sicule samionij nondimeno i Capitoli del Regno ebbero sempre una importanza di gran lunga maggiore; e, senza dubbio, sono una delle più nobili ri< cordanze del diritto pubblico dell'isola. Si tratta di leggi de- cretate per mezzo dei Parlamenti : alle volte però era il re a farne la presentazione all'assemblea nazionale, la qualta le accet- tava; e altre volte ^ra Tassemblea nazionale, che si rivolgeva con formale petizione al re, il quale le sanciva. Perciò le prime erano jredatte in uno stile imperativo: le seconde in tono piutto- sto supplichevole e rimessivo.

Propriamente, esse cominciano con re Giacomo (1286-1295) e continuano per tutti i tempi posteriori.

Perchè, sebbene sia fama che già Pietro d'Aragona abbia concesso molte immunità e privilegi ai Siciliani, non se oe trova traccia nei pubblici libri; mentre abbiamo ben 64 capitoli di Giacomo, suo figliuolo, sopra materie di vario argomento, dettati in forma breve e dignitosa. Ciò che più importa, trattasi di leggi umane, che rivelano l'intento del re di porre un argine agli abusi introdotti dalla dominazione angioina. E anche Fe- derigo III (129G-1336) continua per questa via. Anzi, studiando meglio i tempi e i bisogni della nazione, e facendo suo prò degli errori degli avversari, Federigo III riusci principe rifor- matore anche più delValtro, e la sua opera legislativa è tal mo-

rie tu la iSicUia del Capozzo, voi. II, p. 4dì 9egg. Gbbqorio, Introduzioni alta tiudio del diritto pubblico $ieilianOf 2 voL, PalermOi 1880. Lo stkssh'j Ci/n^ìder^i- 2Ìam iopra la storia di Sicilia dai temoi normanni 9Ìno ai presenti, 6 voK, Pa- lermoi 18>)5-lti; nuova ediz., 4 voi., Palermo, 1831-89. Glarbnza, «S'^rui d^l di- ritto siculo^ 5 voi., Catania, 1^40. Orlando, Codice di leggi e diplomi ÉÌcilÌ4»nii dd medio e«»>, Palermo, 1S37. Lo «tesso, / capitoli del Beano di i^icilia. PaltìrmOt 1S66. BiBLiTKRi, Introduaione aWorigine del diritto ncuio, Palermo, 1858. HfATA, Kiame delle teoriche $ui capitoli del Regno di Sicilia di Diego Orlanda^ Palermo, 1>W7. Li Majctia, Storia {iella le^islatione civile e criminale di Siciha, 3 voL, Palermo, 18^>-74. Busecca, Stona della legielaMione di Sicilia dai prij^n Utnpi fino aU*epoca nostra^ Messina, 187<^. Lo htesso, Confronto delia Ugitla^ione di Napoli con quella d% Sicilia, Per la Monarchia Sicula consulta: ]J4Uo?ìhj, IM Monarchia Sieilicte dicUrihe negli AnncU, eccle*,, voi. XI, an. 1097| n. XVIIJ a^^gg, e in Graevius, Theeaurut, voi. III, Appeniico. Caruso, DiecortJ isterico apolo- getico della Monarchia di Sicilia : compilato nel 1715, fu pubblicato ver Ja prima volta dal Mira, Palermo, 1^>8. Sevtis, Die Monarchia Sicula^ cine hiéiorisch'ea- nonieiierhe Abhandlung, Freiburg, 18tì9. La rimanente letteratura può vf^demì a p. 4 di questa opera. Aggiun^ anno ve, // tribunale della jnonarchia di Si* citta, Berna, 1892. Edisioni. Muta. Capitula regum Regni SicUiae^ Palermo^ 18<j6-ia TiSTA, Capitula Regni SieilÌ€te qu€te ad hodiemum diem tata iunL 2 voL, Palermo, 1741.

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numento, che può mettersi a paro dei migliori. Sono 117 leggi pubblicate a più riprese, di concetto semplice, chiaro e vasto.

Senonchò la legislazione, portata a si alto grado da Fede- rigo, decadde poi sotto i suoi successori. Pietro II pubblicò soltanto poche leggi non più di sette nelle quali l'am- pollosità della forma £& degno riscontro alla vacuità del con- cetto. Né sono migliori quelle dei due Martini. Lo scopo che costoro si prefissero fu di rimettere in vigore le antiche leggi del Begno, cosicché in tutta la loro legislazione e' è nulla o quasi nulla di nuovo. Soltanto si può concedere che avessero la coscienza del bene e buoni propositi; ma non che abbiano sa- puto attaccare il male alla radice e approdare a qualche cosa.

Seguono i re Castigliani; ma Ferdinando I durò troppo poco per lasciare vasta orma di sé. D'altronde uno dei tre capitoli, da lui pubblicati, caratterizza l'uomo: é dettato in onore della Vergine Maria e doveva osservarsi da tutti i nobili, che ne porta- vano le insegne. Tra le altre, li obbligò a udir vespro nella vi- gilia dell'Assunzione e messa cantata nel di della festa; ma, qua- lora ne fossero impediti, potevano cambiare il vespro con dieci pctter e dieci ave e la messa con venti. Materia da prete più che da principe! Invece, la legislazione si rialza sotto Alfonso (1416- 1468), che fu certo de' buoni principi, che sedessero sul trono di Sicilia. Nessun altro re bandi tante leggi quante lui: nien- temeno che 542 capitoli, coi quali attese principalmente a rior- dinare le pubbliche magistrature, l'amministrazione comunale, il corso dei giudizi; e se non tutti sono degni d'encomio, più che il legislatore, vuoisene accagionare il secolo in cui visse. Ad ogni modo provano la grande preoccupazione e lo studio del principe per il bene dei sudditi. Ma ciò ohe soprattutto valse ad illustrarne il nome, anche nelle età posteriori, fu i\Bito della gran Corte ; ed a ragione. Le forme, che allora seguivansi nei tribunali, erano assai incerte e contraddittorie, perché non ordi- nate da savi e neppure di mandato regio, ma tramandate da inesperti causidici, alterate spesso per ignoranza o malizia. Ap- punto con lo scopo di riparare a tale sconcio, re Alfonso die incarico a Leonardo di Bartolomeo, gran protonotario del Regno» di compilare un corpo di leggi per le forme dei giudizi ; e Leo- nardo era uomo da ciò. Fornito il lavoro, e riveduto dal Sacro Consiglio, fu presentato al re, che, a richiesta del Parlamento,

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lo approvò il 23 ottobre 1446. Tali leggi rimaste in vigore fino all'età nostra, contano 109 capitoli, che volevansi osservati non solo nella Gran Corte, ma in tutte le Corti e da tutti i magi- strati. Altre costituzioni di Alfonso riguardano le sportule degli officiali e l'arte notarile ; ma, morto questo re, le cose dovevano volgere di nuovo alla peggio. Già sotto il regno di Giovanni ogni fonte di legislazione inaridì. E valga il vero: i 109 ca- pitoli, che vanno sotto il suo nome, oltre che essere semplici proposte del Parlamento, sancite dalla Corona, non ofirono nulla di nuovo, se ne togliamo un primo germe di quell'istituto, che venne più tardi in fama col nome di Depilazione delRegno. Essi riproducono vecchie leggi: che se ciò fa fede del poco effetto che sortivano, l'assoluta mancanza del progresso legislativo, di fronte ai nuovi e sentiti bisogni, attesta altamente della steri- lità dei tempi.

2. Le leggi stesse si distinsero in sulle prime da quelle del vicino continente ; ma talune differenze si perdettero in se- guito, tanto che si riesci ad una condizione molto somigliante a quella di Napoli.

Ciò avvenne specialmente nei riguardi del governo. Perchè, mentre gli Angioini, badando poco alle antiche istituzioni, vi avevano sostituito un ordinamento, che certo non valeva l'an- tico, invece gli Aragonesi e i Castigliani le conservarono gelo- samente : cercarono anzi a quando a quando di ravvivarle. Cosi, la Magna curia e i sette grandi ufficiali durano in Sicilia, mentre erano da lungo tempo scomparsi a Napoli; ma poi a poco a poco le cose mutarono anche qui: l'unità della Magna Curia si sciolse ; e le curie minori, che la componevano, finirono con lo staccarsi l'una dall'altra e isolarsi.

Inoltre, la Chiesa non ebbe mai in Sicilia quell'ampia auto- rità, che gli Angioini concedettero al clero di Napoli. Infatti alcune legg^ provvedono a impedire il soverchio accumu- larsi dei beni immobili in mano degli ecclesiastici ; ma special- mente giova ricordare il privilegio della Eegia Monarchia o Legaziay che competeva ai re di Sicilia. È un istituto che nel fatto, più che nel diritto, rappresenta la soggezione della Chiesa allo Stato. In sostanza si tratta del privilegio, che godevano i re di Sicilia di fungere da legati del papa nel loro Regno : pri- vilegio che risale all'anno 1098. Urbano II lo concesse dap-

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prima al conte Buggero, e i re di Sicilia lo conservarono poi sempre in mezzo a varie vicende. Per tal guisa potevano giu- dicare già in prima istanza dei chierici esenti dalla giurisdizione ordinaria; e, ad ogni modo, fungevano da terza istanza al di sopra dei vescovi e metropoliti. Insieme potevano assolvere dalle scomuniche, da certi giuramenti, dalle censure incorse per adulterio, incesto, fornicazione, guerra, usura e simili; perfino dalle censure portate dalle costituzioni pontificie, la cui assolu- zione fosse riservata al papa; e anche commutar voti, e conce- dere dispense matrimoniali ai poveri in terzo e quarto grado. .

Dall'altro canto la feudalità siciliana ebbe assai minore disfor- mità di elementi, e quindi maggior forza e resistenza che a Napoli. Di fronte al potere monarchico, essa mostrò sempre una certa compattezza e unità di rappresentanza politica, che ne assicurò il successo, anche più facilmente che di qua dal Faro, determinando il carattere dell'amministrazione.

L'azione del Parlamento siciliano e la Deputazione del Se- gno, che ebbe pure origine dal Parlamento, e venne a mano a mano ampliandosi, non si spiegherebbero senza ciò. Ma la stessa prevalenza si scorge nel governo delle provincie e nel governo locale.

Se più vuoisi, le forme e i nomi erano press'a poco gli stessi, come sotto gli Svevi ; ma nella sostanza si notavano delle diver- sità. Le concessioni della giurisdizione, anche criminale, ai baroni vennero sempre più crescendo col tempo, e finirono col considerarsi come una cosa inerente ai feudi. Ciò accadde spe* cialmente sotto Martino. Diremo più : la delegazione della pode- stà regia non ebbe forza di stabilirsi e diramarsi in mezzo alla feudalità siciliana; sicché per questo riguardo la grande opera *di Federigo II naufragò miseramente anche in Sicilia; ma avreb- be meritato una sorte migliore.

3. Invece, restarono le leggi civili, penali e processuali, salvo alcuni ritocchi, che però non mancano di importanza.

Le leggi civili degli Aragonesi e Gastigliani riguardano la condizione delle persone, i matrimoni e i testamenti, il possesso e la proprietà, i mutui, le compere, i contratti aleatori. Sono novità dirette a supplire o modificare il diritto comune e, in generale, meritano encomio. Ricordiamo come sotto gli Ara- gonesi la condizione dei servi e degli agricoltori migliorasse.

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Be Giacomo si occupa della condizione di questi ultimi: per- mette agli ascrittizi di passare a nuove comunanze, se erano obbligati soltanto in ragione della' terra; e anche ordina che i terragi debbano stimarsi diligentemente e fedelmente da uomini probi e idonei, e le vettovaglie misurarsi con la misura ordina» ria. Provvedeva cosi a togliere gli abusi, che, tanto gli uffi- ciali della curia regia, quanto quelli dei baroni, si erano per- messi, aggravando la mano sulle classi campagnuole. Fede- rigo ni regola a più riprese il diritto, che aveva il padrone, di vendere i servi, e anche limita opportunamente l'uso, che poteva farne, specie con riguardo alla morale e alla religione, e proibisce di maltrattarli. Parimente una legge di Federigo riguarda il diritto di passare con animali per le terre e pei bo- schi altrui. Per l'addietro i baroni non lo avevano permesso senza il pagamento di una tassa a titolo di camagio od erbagio : Federigo vuole che il transito sia libero; di più permette che si possa dimorarvi e pernottarvi per ben due notti e pascolarvi gli armenti. In materia di obbligazioni abbiamo varie leggi di Alfonso. Le pene convenzionali, aggiunte ai contratti, non si dovevano esigere; dovevasi punire come spergiuro chi, dopo aver giurato di stare ai patti, contravveniva al giuramento: Alfonso ne rimise la vendetta a Dio. La compera di rendite, che Alfonso aveva introdotto a Napoli, fu dallo stesso re estesa anche alla Sicilia, annuente il papa.

Ma anche le leggi penali continuano il codice svevo, pur rivelando il progresso della giurisprudenza. Certo, la legge di Giacomo, che abolisce l'ammenda imposta ai comuni per gli omicidi clandestini, segna un progresso; ed è bella la motiva- zione di essa: perchè dovevano punirsi soltanto i colpevoli, non anche altre persone ignare del delitto, giusta la sentenza romana: cum poena saos debeat tenere auctores. Inoltre vuole essere ricordato un capitolo di Federigo, che vieta di abbattere le case dei malfattori, o spiantarne le vigne, o disertarne i po- deri, sempre per la ragione, che la pena deve colpire il reo, non altri ; e anche, perchè le cose non hanno capacità di delin* quere: eum non ree eed personae delinquant D'altra parte la condizione della persona influisce sempre sulla misurazione delle pene. Tanto le leggi di Federigo, quanto quelle di Pietro II, ne offrono parecchi esempi; ma i tempi portavano così. Altre

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leggi mostrano certa tendenza all'arbitrio, o almeno lo rendono possibile; e qua e rinverdiscono vieti pregiudizi. Federigo richiama in vigore le leggi sugli incantesimi, andate in dimen- ticanza. Le pene contro il lusso sono addirittura eccessive.

In ordine ai giudi^, dura sempre la distinzione, sancita dalle costituzioni sveve, tra cause civili e criminali ; ma s' incontra eziandio qualche provvedimento nuovo.

Le leggi giudiziarie civili riguardano la competenza e le va- rie forme di procedura, ordinarie e straordinarie, il processo ese- cutivo, il processo per via di cedola, il processo sommario, quello per via d'informazione. Alcune s'indirizzano ai testimoni, alla restituzione in intero, alla revisione e agli appelli, ai modi di esecuzione. Notiamo in ispecie alcuni provvedimenti per la celere spedizione delle cause, e soprattutto per la esecuzione forzata dei titoli di credito, che prima Federigo sancì e poi Alfonso adottò.

Nei giudizi criminali le forme si sono fatte più umane e ra- gionevoli. Le inquisizioni un po' alla volta scompaiono ; e pri- ma di ogni altra quella contro determinate persone, poi anche le inquisizioni generali, che, giusta il codice svevo, avrebbero dovuto farsi ogni anno. Ordinariamente non si doveva procedere che sopra denuncia od accusa ; ma il denunciante prestava cauzione di se- guitare la lite, e anche si esponeva al rischio d' incorrere nella medesima pena. Ciò per una legge di re Giacomo. Alfonso ag- giungeva che non fosse lecito procedere neppure per denuncia, ma solo a petizione della parte che vi avesse interesse; e non- dimeno si eccettuarono sempre alcuni reati più gravi, come era- no il crimenlese, l'eresia, l'omicidio e, per qualche tempo, anche i delitti nefandi. Insieme fu ammessa la libertà degli accusati, che offrissero idonea malleverìa. E già re Giacomo ripetutamente lo dichiara, solo eccettuando i delitti di maestà e i rei còlti sul fatto o confessi, perchè, in questi casi, la malleverìa poteva sembrare offerta più per evitare la pena che per difesa. Altri capitoli mitigano i rigori della forgiudica, e altri provvedono agli accomodamenti. Gli accusati potevano comporre con gli accusatori prima della contestazione della lite: questa era la regola, che re Giacomo ancora riconosce; ma già vi introduce delle restrizioni. Federigo esclude addirittura la composizione in tutti i delitti gravi, osservando che la facilità della remissione

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e della transazione, lungi dal correggere il male, era anzi un nuovo incentivo a commetterlo. Parimente Alfonso vieta ad ogni magistrato di fare , composizione, quando si trattava di quel genere di reati; ma giustifica il divieto in altro modo, osser- vando, che il diritto di rimettere le colpe gravi era cosi aderente alle ossa del principe, da non poternelo svellere.

Un capitolo di re Martino merita una particolare attenzione. U re ingiunge ai suoi ufficiali di far giustizia a tutti indistin- tamente, anche contro la maestà sovrana, più meno che contro i privati, anche contro i potenti del pari che contro i deboli, senza riguardo ad affetto, favore od odio, mercede o preghiere, e senza distinzione di persone. E vuole che si asten- gano da illecite esazioni. Ma sarà egli riescito nel suo intento ? Certo, le intenzioni del legislatore erano buone.

§ 2. - LEGGI DELLA MONARCHIA DI SAVOIA. "

Statuti di Amedeo Vili.

1. Tra i principi di Piemonte della stirpe di Savoia il primo, che meriti di essere ricordato come legislatore, e Pietro II

** BlbllQgrafla. Sclopis, Storia deil'arUica UgitloMiane del Piemanle, To- rino; 1888. CxBBA&io. Degli elaluti di Amedeo Vili, nelle * Operette e frammenti fltonoi « Firenxe. 1856. Mani, Gli eteUuU di Pietro II eonte di Savoia, Torino, 1880 C Mem. della regia Accad. di Torino «, serie n, tomo XXXII). Lo stesso, Statuti dell'anno 1379 di Amedeo VI conU di 8<H>oia, Torino, 1881 {ivi, to- mo XXXIV). Lo STESSO, Di una nuova copia degli etatuti di Amedeo VI del- l'anno 1379, Torino, 1882 (tvv^tomo* XXXV). Lo stesso, I primi MtatuU eopra la camera dei conti, Torino, 1881 (ivi, tomo XXXIV). Diowisotti, À'toria della magietratura piemonteee, 2 yol., Torino, 1881, 1, p. 1-99. Bollati, Di uno etatuto dato nel 1326 dal co, Edoardo di Savoia (negli ** Atti deirAocad. di Torino , XXXni, 1897-98). SiciLiAiio-VxLLANUiTA, Xo etatuto di Jolanda dueheeea reggente di Savoia del 3 luglio 1475 e Valienaaione dei feudi nei domini eabaudi, Palermo, 1902 (dall'** Arch. araldico italiano I). Edizioni Gli statuti di Pietro II,

Snelli di Amedeo VI e i ]frimi statuti sopra la Camera dei conti possono ve- ersi nelle memorie già citate del Nani. Lo stesso Nani pubblicò anche una nuova ediiione riyeduta degli statuti di Amedeo VI nella Mieeellanea di etoria italiana, serie II, tomo VII (1888). I decreti di Amedeo Vili del 1480 furono pubblicati più volte. Una prima edizione col titolo di Decreta duealia Sttbaw- aiae tam velerà ouam nova vide la luce a Torino nel 1477. Altre edizioni sono del 1506, 1518^ 1J»0, 1686. ecc., e contengono anche gli statuti posteriori della duchessa Jolanda, di Filiberto I^ Carlo li. eccw Si veda inoltre: Borelli, JBdiUi antichi e nuovi de' eovrani e principi della recU caea di Savoia, Torino, 1681. Cosi pure i ComfmeitUaria del Sola. I quali furono pubblicati dapprima separa- tamente a Torino ne^i anni 1562, 89 e 95, poi riuniti insieme col titolo Cam- méntaria ad univerea SerenUe. Sabaudiae aweum decreta antiqua, nova et no' vieeima, Augustae Taurinorum, 1625. Altre leggi appartenenti a queste pro- ▼inoie sono i decreti d^ Monferrato, ma basterà averle accennate qui. Videro la luce col titolo : Decreta dvilia et eriminalia antiqua et nova Marchitte Mon» tUferraii, Torino, 1571.

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detto il piccolo Carlomagno. Egli nei brevi anni che tenne il governo delle sne terre (1263-1268), pubblicò uno statuto col consenso dei nobili e non nobili per il paese di Yaud e la Sa- voia. Lanciato come una legge generale in mezzo alla folla dei diritti e delle giurisdizioni, che caratterizzano il medio evo, lo statuto di Pietro II aveva uno scopo ben preciso : quello di rafforzare l'idea dello Stato e il potere centrale a detrimento dei poteri locali che gli si erano contrapposti e quasi sovrap- posti.

È uno statuto, ohe si occupa principalmente di procedura, e sotto questo aspetto non ò privo di importanza. Ne lodiamo gli sforzi per impedire che altri si facesse giustizia da sé, pur avver- tendo che vi si riscontrano tracce di pignorazione privata, rozzo avanzo delle antiche consuetudini barbariche.

La procedura stessa si svolgeva faticosamente anche in Sa- voia, come altrove, sotto la influenza canonica, e lo statuto mira a renderla più semplice e spiccia. Tra le altre ci piace di rile- vare la speciale natura della clausola di guarentigia, che, intro- dotta negli strumenti notarili fino dal secolo XII, apriva la via alla esecuzione parata. Anche la tutela del possesso, a diffe- renza di ciò che si usava tra i barbari, aveva già un posto nello statuto di Pietro II indipendentemente dal concetto della pro- prietà; ma lo spoglio vi è considerato ancora sotto un aspetto penale, come ai tempi di Pipino.

Medesimamente la procedura penale offre qualche tratto ca- ratteristico. Lo statuto ne parla a proposito delle ingiurie e riconosce il sistema della inquisizione, un portato del gius ca- nonico, che appunto allora cominciava a penetrare nei tribunali laici con le sue forme semplici e piane sine strepiiu iudicii et li- belli oblatiane.

Una disposizione sul diritto di pegno ò la sola che riguardi il gius civile propriamente detto. D' altronde ò degna di osserva- zione: nel contrasto tra il diritto romano e quello dei barbari, lo statuto di Pietro II tiene dell'uno e dell'altro; ma l'idea fondamentale è romana.

Altre disposizioni concernono i notari e gli atti notarili, e le loro tariffe.

2. Amedeo VI, soprannominato il Conte Verde, dettò pure alcuni statuti correndo l'anno 1379.

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Quale scopo siasi prefisso nel pubblicarli, lo dice egli stesso» Si trattava di provvedere all' utile de* suoi sudditi, rendendo più brevi e sicuri i processi e alleggerendone le spese. Perciò ve- diamo la legge occuparsi dell'autorità giudiziaria, dei giudizi civili che criminali, delle relazioni tra la giurisdizione laica e la ecclesiastica, di provvedimenti relativi alla custodia dei dete- nuti, dell'arte notarile e degli emolumenti dovuti ai pubblioi ufficiali. Amedeo VI continua e completa, per questo riguardo, l'opera di Pietro IL Qualche istituzione, che nel secolo XIII era appena sbocciata e ancora vaga ed incerta, si trova adesso, alla distanza di poco più che cento anni, già rigogliosa e robusta; ad ogni modo, meglio sviluppata e definita. Anche qualche eccezione si è già convertita in regola.

Cosi, mentre lo statuto di Pietro II tentava ancora timida- mente di sostituire al procedimento ordinario una forma più sollecita di giudizio, adesso il procedimento de plana tiene, per cosi dire, il campo; e d'altra parte la procedura degli stromen ti sigillati, che negli statuti di Pietro II procurava la esecuzione parata, si modifica per trasformarsi quasi in una nuova specie di procedura sommaria: il reo può opporre, se non altro, qual* che eccezione determinata dalla legge. lo spoglio si censi* dera più dal punto di vista penale : lo statuto di Amedeo VI conosce già l'azione civile svincolata interamente dall* anione penale ; e anche l' istituto della inquisizione, che trova in germe negli statuti di Pietro II, ha fatto rapidi progressi nel frattempo, sicché Amedeo VI lo considera come la forma ordi- naria del processo criminale. Le regole, con cui si cerca di re* stringere le composizioni o concordie dei reati, non trovano, per vero dire, il loro riscontro nello statuto di Pietro, ma ne ricor- dano uno di Edoardo del 1325.

Invece sono nuove le disposizioni, che tendono a mettere un freno al soverchio allargarsi delle giurisdizioni ecclesiastiche. Amedeo VI ordina che nessun laico po^^^a tradurre o far citare o convenire alcuno presso altra curia che non sia quella del conte, tranne per cause appartenenti alta curia ecclesiastica ; e insieme proibisce ai laici di far cessione di erediti o di anioni a chierici, che avrebbero poi potuto trarre il debitore davanti al loro fóro. Parimente l'avvocatura dei poveri è un istituto nuovo;

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e anche vi si leggono disposizioni interessantissime intomo al trattamento dei detenuti.

3. Altre leggi pubblicò Amedeo Vili nel suo castello di Chambery alla presenza dei grandi e del popolo nell'anno 1430; e i suoi successori vi aggiunsero nuovi decreti, secondo che la occasione lo portava. Ricordiamo quelli di Iolanda, Filiberto I, Carlo I, Bianca, Filippo II, Filiberto II e Carlo HI, diretti spe- cialmente ad abbreviare le liti e renderle meno dispendiose. Tutti uniti formano il volume che ha per titolo: Decreta seu Statuia vetera serenissimorum ac praepotentum Sabaudiae Ducum et Pedemontium Prineipum, Nondimeno gli statuti di Amedeo Vii! primeggiano sopra tutti, e meritano di essere considerati più da vicino.

4. Il duca avverte nel proemio, che il desiderio di pro- cacciare a' suoi sudditi il beneficio incontaminato della giustizia avevagli mosso il pensiero a raccogliere gli ordinamenti stabi- liti da' suoi maggiori, insieme con quelli già per lui disposti, e a correggerli e compierli in guisa che servissero di norma comune per tutti, dichiarando di voler vivere, anch'egli, sotto tale regola, e assoggettarvi la polizia del suo Stato, e amministrare la giusti- zia. Nondimeno ordinava che dovessero rimanere intatte le sa- cre leggi divine ed umane, le buone e lodevoli costumanze di Aosta e di Vaud, paesi che non reggevansi con legge scritta, ma con le proprie consuetudini, e gli statuti stessi delle terre d' Italia, di Piemonte e di Provenza sottoposte al suo scettro. E anche nella clausola finale, con cui il sovrano imprimeva l'au- torità di legge perpetua a' suoi decreti, dichiarava nuovamente che dovevano essere salve le ragioni dei chierici, le buone e lo- devoli consuetudini delle città, delle ville e dei luoghi, le le- gittime franchigie di tutto il paese. In pari tempo però voleva riservata a ed a' suoi successori in perpetuo la fisicoltà di spiegare, interpretare, correggere e mutare questi statuti, e ag- giungervi e togliervi quanto fosse richiesto dall' utilità o ne- cessità dello StatiO, dalle occorrenze dei casi e dalle mutate cir- costanze dei tempi.

Aggiungiamo alcune parole di Amedeo stesso, che possono far fede della rettitudine che lo mosse a dettarli.

Egli dice : " Volendo adempiere il paterno dovere di affetto e di disciplina, a cui siamo tenuti verso i nostri figliuoli, eredi

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e successori, lasciamo loro questi ricordi ed ammaestramenti. Faociansi imitatori degli avi nostri d'illustre memoria, serbando incorrotta la fede cattolica e promuovendo il culto divino. Vi- vano una vita umile e devota ; tengansi immacolati dai vizi ; mostrinsi vigilanti negli esercizi delle teologali e delle morali virtù. Nella giustizia siano retti, costanti e di moderata seve- rità; si astengano dai moti dell'invidia; siano per misericordia clementi, temperati nelle esazioni, amanti dei buoni loro sud* diti, correttori dei malvagi. Procurino la pace ed abbiano in odio le guerre ingiuste. Scelgano consiglieri e ministri savi e dabbene, e dispregino gli uomini fallaci ed ingordi. Provvedano costantemente alla sicurezza del loro Stato, affinchè la Savoia appieno conservi tra' sudditi e gli stranieri l'etimologia del nome che vuol dire: salva via. E mercè l'osservanza di que- sti precetti, placato il re de' Cieli, che, se non viene abbandonato, mai non abbandona, mantenga ed accresca ne' più tardi secoli lo stato pacifico e prospero dei figliuoli, dei successori e dei sudditi nostri „.

È un testamento, che i reali di Savoia rispettarono sempre !

La raccolta fu divisa in cinque libri, che dovevano raffigu- rare le principali virtù teologali e cardinali ; il primo, le tre teologali: fede, speranza e carità; il secondo, la giustizia e la fortezza; il terzo, la prudenza; i due ultimi, la temperanza.

Il primo tratta delle cose concementi l'onore e il culto di- vino, dei delitti, che si commettono contro di essi, e delle persone, che se ne dipartono.

Nel secondo si descrivono i vari uffici dei consigli e dei principali ministri della giustizia. Si definiscono i modi con cui tenere le assise generali, e procedere nelle cause si civili che criminali. si trasandano le regole, che i preposti delle finanze ducali dovevano osservare, e quelle di rendere i conti e le varie incombenze degli nffiziali posti al servizio del sovrano e del pubblico.

Seguono, nel terzo libro, alcuni provvedimenti sulle giurisdi- zioni dei baroni, dei banderesi e degli altri vassalli, sulle enfi- teusi e i censi, sulle salvaguardie e la liberti di pescare e cac- ciare. Si prescrivono le solennità necessarie a far salve le cose dei pupilli e dei minori, le forme legali per le donazioni; si riordinano i riscatti; si danno istruzioni pei notari; si provvedo

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intorno all'esercizio delle arti oosi liberali come meccaniche, e si fanno regolamenti sulla intema polizia dello Stato.

Il quarto si occupa unicamente di tasse e di emolumenti da pagarsi per gli atti giuridici e per le pubbliche scritture.

Il quinto finalmente vuol moderate le pompe, cosi degli abiti, come dei conviti, delle feste, dei funerali, e simili solennità.

Se vogliamo, non tutti erano veri precetti di legge : anzi qua e vi si trovano frammiste molte disposizioni regolamentari, se- condo l' usanza del tempo. si può dire che lo statuto sia im- mune da pregiudizi ; ne avrebbe potuto esserlo : erano i pregiudizi del secolo ; ma, in generale, contiene molte e savie riforme. Soltanto non vorremmo affermare che tutte sieno state osservate. Certo, Amedeo Vili durò fatica a farle accettare dai baroni e dai comuni, gelosi dei loro privilegi ; ma stette saldo e mantenne il diritto, che credeva competergli, di fare statuti, nonostante tutte le franchigie e consuetudini contrarie.

5. Queste leggi non regolano i rapporti col clero : appena qua e s' incontra qualche disposizione che lo riguarda ; ma an- cora nel 1430, non molto prima di pubblicarle, Amedeo aveva provveduto con un concordato a definire i limiti delle competenze dei tribunali laici ed ecclesiastici. E ne faceva mestieri; per- chè il potere temporale della Chiesa era venuto allargandosi an- che negli Stati del duca di Savoia, entrando in ogni sorta di cause, nonostante che fossero meramente temporali e limitate a rapporti tra laici.

Ne minore resistenza offrivano i feudi e i comuni; ma il duca si afferma anche in loro confronto.

Un concetto, su cui insiste molto, e su cui toma volentieri, è questo : che intende e crede sia debito del principato di proteg- gere e tutelare tutti i suoi sudditi, mediati e immediati, dalle violenze, dalle ingiurie e dalle oppressioni illecite. Tutti indi- stintamente dovevano stare sotto la sua difesa; e non c'è dubbio che le sue leggi sono indirizzate a questo scopo. Perciò proibi- sce le salvaguardie : i codici barbarici le avevano dette accaman- digie. Amedeo Vili dichiara, che, dovendo proteggere tutti, non avrebbe più ricevuto chicchessia nella sua salvaguardia par- ticolare ; e una uguale proibizione fa ai suoi sudditi, qualunque ne fosse lo stato e il grado. Gli stessi procuratori fiscali avreb- bero dovuto tener d'occhio i baroni e banderesi, e informarsi

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d'ogni oppressione, estorsione, violenza e illecito guadagno, che commettessero, e sollecitarne il castigo. Era un savio provve* dimento, che, mentre attutiva l'orgoglio dei nobili, serviva a ben radicare Topinione che la giustizia del principe primeggiava bu tutte e che gli oppressi avrebbero potuto validamente implo- rarla. Inoltre lo vediamo intervenire nelle giurisdizioni feudali; e ad ogni modo si riserbava gli appelli.

Gli statuti provvedono anche a riordinare la corte ducale; non trascurano i grandi corpi dello Stato, e cercano di dare mi- gliore assetto e unità all'amministrazione provinciale, specie nei paesi feudali. Insieme ne emerge la ferma intenzione del du« ca, perchè l'elezione degli ufficiali pubblici si facesse con pieDa cognizione dei meriti del candidato, e col voto di quelli cb@ meglio ne potevano giudicare. Ciò impediva che gli uffici conferissero a casaccio, e il principe si assicurava una contante e sapiente cooperazione da parte de' suoi impiegati. Ma anche altre regole mostrano la grande preoccupazione del principe per- chè questi esercitassero a dovere il loro ufficio, nell'interesse dello Stato. Nessuno doveva essere castellano del luogo, in cui era nato, o dove teneva la maggior parte del suo patrimonio. Nessun giudice, balio o castellano, doveva costringere gli impu- tati a comporre il delitto; e si riconosce il diritto che questi avevano di difendersi. Nessun castellano poteva di sua autorità esigere una composizione o concordia da chicchessia, tranne che per reati minori; mentre negli altri delitti occorreva il consenso dei giudici ordinari e dei procuratori fiscali. Era proibito di domandare al reo qualche cosa oltre la composizione ; nei balli t

e castellani, o altri ufficiali potevano farsi cedere un credito o altro diritto, azione o querela da persona soggetta, per nessun titolo. I castellani ed esattori ducali, e anche altri, non dove^ vano esigere i censi, redditi o servizi in vettovaglie se noD con le vere e giuste misure del luogo in cui ne venisse eseguito il pagamento. Generale era il divieto di ricevere doni, che non fossero di vettovaglie per l'uso quotidiano.

6. Gli statuti entrano anche a discorrere dei singoli rami *

dell'azienda pubblica.

Un solo capitolo riguarda la milizia; ma ha la sua impor- tanza. Tutti i militi dovevano avere uno stipendio secondo il grado e lo stato di ciascheduno; e d'altra parte rimanere con*

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tenti agli stipendi, astenendosi dall'essere onerosi o recare dan- no ai sudditi. Il capitolo si chiude con queste memorabili pa- role: Quoniam sicut volumus ipsos militares nostros esse stre" nuos audaces et feroces contra hostes, sic eos iuòemus erga subdi-- tos nostros et pcUriae nostrae incoloLs esse mites et innoctios.

Medesimamente è notevole la cura gelosa del principe di riordinare l'amministrazione della finanza in modo, che, pur provvedendo alle ragioni dell'erario, non riuscisse molto mole- sta. Si occupa specialmente della resa dei conti ; ma vuole trat- tati benignamente e giustamente quelli che li rendevano. Al- trove si parla delle estente, o ricognizioni fiscali di ragione del duca. S'inculca ai commissari di curarne l'esazione con tutta diligenza, perchò il patrimonio del duca non avesse a soffiarne ; ma non dovevano aumentarlo in pregiudizio di altri: e anche altrove si danno savie regole perchò i sudditi non sieno mo- lestati. Un capitolo, riguardante la moneta, fa prova insieme di onestà e di retto giudicio economico : Amedeo dichiara che egli i suoi successori avrebbero alterate le monete, e che dovevano migliorarle, anziché corromperle.

Altre disposizioni si riferiscono alla polizia. Si può dire che non ci sia interesse sociale, che non abbia occupato il legisla- tore, cominciando dai grandi interessi della religione e del buon costume, della fede pubblica, della sicurezza pubblica, della sa- lute pubblica, e venendo giù a quelli meramente economici delle arti e dei commerci, delle usure e delle mercedi, per terminare con le leggi suntuarie. Sono provvedimenti, che ritraggono l'indirizzo dei tempi, e, diciamolo pure, anche le miserie e i pregiudizi dei tempi; ma, ad ogni modo, mostrano che il prin- cipe già comprendeva l'alta missione sua, che non gli permet- teva di rimanere estraneo ad alcun interesse sociale ; e che anche per questa via tentava, come per altre, di dare ordine e unità allo Stato.

Certo, il secolo volterriano sorriderebbe se un principe og- gigiorno obbligasse i medici ad ammonire e indurre gli amma- lati a confessarsi e comunicarsi prima ancora di prendere qual- siasi medicina : ut ipsa spiritualis medicina cooperatur corporali; ma nel secolo, in cui Amedeo compilava i suoi statuti, si cre- deva ancora in qualche cosa, e non fa meraviglia, che il pio duca della Casa di Savoia fosse tanto sollecito della salute eter-

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na de' suoi sudditi. Anche le restrizioni e interdizioni israeliti- che ripugnano al mite temperamento dei nostri tempi (parliamo dell'Italia); ma si comprendono in quei secoli, in cui la Chiesa aveva pareggiato l'ebreo al bestemmiatore ; e, d'altronde, le leggi di Amedeo sono più miti di tante altre.

La polizia dei costumi ha suggerito ad Amedeo parecchie di- sposizioni contro i lenoni d'ambo i sessi, contro i concubinati, contro le fornicazioni e il meretricio, contro i giuochi, che non fossero di mera ricreazione ed esercizio del corpo. Dubitiamo però che tutti questi provvedimenti sieno stati eseguiti: alcuni certo non lo furono; ma il principe non faceva che obbedire anche qui alle tendenze del secolo, che credeva seriamente che bastasse una legge a moralizzare la società.

Insieme lo vediamo interessarsi alla fede pubblica con savie leggi sui notari, perchè corrispondessero all'altezza e delicatezza dell' uflBcio che era loro aflSdato. Voleva che il notariato si eser- citasse da persone idonee ; ed anche ne stabilisce le condizioni^ fìssa l'obbligo della residenza, e prescrive il modo, con cui do- vevano procedere alla compilazione degli atti, sempre allo scopo d'impedirne le falsità e le suspicioni.

Le leggi sulla mendicità e il vagabondaggio si prefiggono di provvedere alla sicurezza pubblica; come altre provvedono alla salute pubblicai Alludiamo ad alcune disposizioni sull'eser- cizio della medicina, sulle farmacie e drogherie, non molto di- verse da quelle che vigono oggigiorno.

Poi c'ò tutta una folla di provvedimenti economici. Alcuni capitoli mirano ad impedire i danni campestri e a regolare le misure; ma ci sono anche leggi sulla caccia e sulla i)esca, sulla polizia del mercato, su quella delle arti, sugli alberghi, sulle usure, sulle mercedi degli operai e sugli emolumenti degli av- vocati e notari. altre idee hanno suggerito le restrizioni suntuarie. Erano leggi che regolavano le vesti, i banchetti e le commessazioni o visite alle puerpere, le oblazioni e altre so- lennità solite a farsi nei mortori. Amedeo Vili mirava a mo* derame le spese, e anche a tenere separati con la varia materia ® foggia degli abbigliamenti le classi dei cittadini, che il desi- derio di libertà da un lato e l'umana ambizione dall'altro ten- dono costantemente a confondere ; ma non vorremo credere che vi riuscisse. Si tratta nuovamente di provvedimenti destinati

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a rimanere lettera morta; e d'altra parte i tempi volevano così. Vari comuni italiani fin dal secolo XIV avevano fatto inutile e ridicolo esperimento di leggi suntuarie; e Amedeo cedeva, anche per questo riguardo, ai pregiudizi dei tempi,

7. Le leggi civili scarseggiano. Ne abbiamo una che proi- bisce agli utilisti di alienare le terre feudali ed enfiteutiche in frode dei proprietari diretti ; e altre sulla caducità dell'enfiteusi per mancato pagamento^del canone e sui laudemi ; altre sul nu- mero dei testimoni necessari a questo e quell'atto ; altre ancora sul retratto convenzionale, sulle donazioni di tutti i beni, sul diritto del nome e delle armi, sulle tutele e sulle cure. Ma questo è anche tutto.

Qualcosa di più offre la materia penale ; ma non molto. No- tiamo il principio proclamato già da Amedeo VI : che, venendo a morte il malfattore prima che la pena fosse stata dichiarata, gli eredi e successori non dovevano molestarsi ; e l'altro, che ri- servava al principe il diritto di condonare le pene, che non fos- sero pecuniarie. Del resto la punizione era tuttavia diversa se- condo la condizione delle persone ; ma non è cosa che possa sorprendere: l'abbiamo trovata altrove, e la troveremo ancora. Ne lo statuto si occupa di molte specie criminose. Vi sono al- cuni capitoli sui delitti contro la religione, e altri contro la prevaricazione dei pubblici ufficiali. Il più delle volte si tratta di cose di polizia.

Maggiore attenzione è dedicata ai processi, e per questo ri- guardo Amedeo Vili continua degnamente l'opera di Pietro II e di Amedeo VI.

Per l'addietro si era abusato molto delle sedine o barraziani, cioè dei sequestri. Si erano accordati ad istanza di ogni persona che. allegasse un credito, e massimamente quando il creditore era il fisco; ma Amedeo li vietò, restringendoli ai casi del diritto comune. Ad ogni modo il sequestro non doveva nuocere all'a- gricoltura, ne impedire il raccolto dei frutti; e neppure si do- veva concedere, se la parte aveva prestato cauzione de stando furi et iudicatum solvendo. Di ciò Amedeo merita lode, come pure di aver abolito le pignorazioni, dette volgarmente rappre- saglie, dichiarandole contrarie alla naturale equità e alle leggi divine ed umane.

In pari tempo ha messo un argine agli arresti, e si a quelli

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per debiti, come a quelli per delitti. Trattandosi di debiti pe- onniari, nessuno doveva venire arrestato prima della cognizione della causa, ammenoché non fosse uno scomunicato, sopra do- manda del giudice ecclesiastico, o fosse grandemente sospetto di fuga, e i creditori ne chiedessero l'aftesto. Per ciò che con- cerne le cause criminali, soltanto i rei di delitti enormi avreb- bero potuto arrestarsi per impedire che fuggissero; e solo nel caso che fossero còlti sul fatto e sospetti di fuga. A me- deo trasanda le carceri. Gli ufficiali, che vi soprain tendevano, dovevano provvedere alla loro sicurezza; ma anche tenerle pu- lite e vegliare che i carcerati non avessero a rimettervi la vita o le membra per la durezza o per il freddo. Le spese del vitto sono pure fissate secondo la classe del carcerato, qualora non vo- lesse mantenersi da so; ma per questo riguardo Amedeo YIII non fa che riprodurre, press'a poco, un capitolo di Amedeo VI.

Un'altra pratica, che faceva ai pugni con la giustizia, era di obbligare gli offesi a querelarsi delle ingiurie o del danno pa- tito: vi si costringevano, per non privare l'erario della multa incorsa ; ma Amedeo ne fa espresso divieto ; anzi ordina ai giu- dici di provarsi a comporre le parti in amichevole concordia, appena avvenuta la contestazione della lite e più volte nel corso della causa.

E s'interessa anche alla speditezza dei processi. Era stata la preoccupazione de' suoi predecessori ; e Amedeo continua per la medesima via nel giusto pensiero che gli indugi rendano meno intera la giustizia. Cosi i suoi statuti contengono più disposi- zioni dirette a sollecitare la definizione delle liti. In tutte le cause civili e pecuniarie si doveva procedere sommariamente con riguardo alla sola verità del fatto ; ma, se anche fosse stato os- servato il rito solenne, il processo non doveva esser nullo, pur- ché le parti non vi si fossero opposte. In generale raccomanda al giudice di abbreviare le cause, per quanto era compatibile con la giustizia, e quindi respingere le dilazioni, i sotterfugi, le ec- cezioni frustranee, le inutili proposizioni delle parti, degli av- vocati e dei procuratori, temperando anche la soverchia molti- tudine dei testimoni. Trattandosi di stromenti muniti del sigillo delle corti dello Stato, si procedeva tuttavia secondo lo etile di sigillato, come era stato disposto anche da Amedeo YL La atessa procedura però doveva trovare applicazione ai chirografi.

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di debito di cui constasse per pubblico stromento; e questa è una novità di Amedeo VITI. Medesimamente si dispone perchò, abbreviati i termini, anche i processi criminali potessero pron- ' tamente de£.nirsi.

Altre leggi tendono a rendere la giustizia meno costosa. Amedeo Vili moderò la tassa delle spese dei giudizi, e abolì le sportule: i giudici erano salariati da lui e dovevano prestarsi gratis et cura omni puritate. Era un savio intento ; ma il duca non potè vederlo adempiuto, perchè le sportule si perpetuarono fino al regno di Carlo Felice.

Infine pensò alle difese. Una delle parti avrebbe potuto non trovare avvocati, che ne patrocinassero le ragioni, e Amedeo or- dina che la stessa corte dovesse provvedervi, purché se ne facesse domanda, quand'anche la causa fosse contro il principe o il fi^co. Avverandosi il caso che l'avversario li avesse accaparrati tutti, il giudice doveva nondimeno distribuirli equamente tra i liti- ganti. Che se la parte, sia per la sua povertà, sia per la po- tenza dell'avversario, si fosse trovata nella impossibilità di trat- tare o condurre la propria causa, era il giudice che doveva incaricarsese, cercando d'ufficio se aveva o non aveva ragione. Il sentimento, che animava il principe, era sempre quell'alto sentimento della sua missione, che gli aveva suggerito anche altre regole. Non aveva egli detto che avrebbe esteso la sua protezione di principe a tutti i sudditi? Perchè avrebbe tolle- rato che si sacrificasse il buon diritto del povero, soltanto per- chè non poteva provvedervi da ? Per tutto ciò la sua gene- rale riformazione è davvero un'opera eminentemente nazionale ed unificatrice.

§ 3. - LEGGI DELL'ISOLA DI SARDEGNA.

La Carta de logu. ^*

1. Sullo scorcio del secolo XIV, precisamente il giorno di Pasqua del 1396, fu nell'isola di Sardegna pubblicata una

** Bibliografia. Mahno, LégUiatùm de V Ut de Sardai^ne. Paris. Lo STESSO. Storta di Sardegna, Torino, 1825, 8* odÌ£.j 2 voL, Milano, 1886. Dbl Vec- chio G. R, Meanora d* Arborea e ta 9ua legitktxtone, Milano, 1872. Soso-dsu- TALA, Profili d*una ttoria tuUa legitlamone in Sardegna, Boma, 1877. Per la ìnfluenEa degli statati di Sassari sulla Carta de logu yedi Satta-Buahca, // co-

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legge, che ebbe il vanto di essere tenuta per segno di un grande perfezionamento sociale, da cui altre e più vaste contrade del continente italiano erano ancora lontane. Intendiamo accennare al volume di costituzioni e ordinazioni sardesche, conosciuto sotto il nome di CaHa de logu, cioè statuto o legge speciale del luogo, ossia giudicato di Arborea.

Questa carta era già stata bandita da Mariano lY, che re- gnava nella provincia d'Arborea; ma parve non corrispondere ai bisogni del tempo e del popolo. Cosi Eleonora sua figlia, giudicessa di Arborea, contessa di Goceano e viscontessa di Basso, la più splendida figura di donna, che abbiano le storie italiane, dopo sedici anni si fece a correggerla, compiendo in modo illustre l'opera legislativa cominciata dal padre. Allora ebbero stabili norme i riti giudiziari, la ragion civile e crimi- nale e la pubblica economia.

La carta ò scritta in dialetto sardo, che certo era il modo più acconcio per avvicinarla alla intelligenza del popolo. E anche la sua concisione le valse meritati encomi. Non proemi ridondanti di lodi, alcuna fiata sterili e sempre immature; non ragioni di legge, a cui la logica ingannevole del fóro potesse trovare materia di controversie; non eccezioni, che rendessero vano o enigmatico l'ordinamento principale. La carta sarda non contiene che un proemio: quello della pubblicazione; e vi si os- serva una grave sentenza : che cioè Taccrescimento e la prospe- rità di qualunque provincia, regione, o terra, deve derivare sol-

mune di Sanari nei §eeoli XIII e XIV, Boma, 1885. Aggiango altri lavori sul diritto deir isola: Bbsta, Il diritto tardo nel medio evo, Bari, 1898^ Lo stesso, Nuovi ttudt §ulU oriaini ecc, dei giudicati eardi (neir *^Aroh. stor. itaL^ 1901). MoMDOLro, Beeponealilità e garantia collettiva per dcmni patrimoniali nella stO' ria del diritto tardo (neUa ''Biv. ital. per le scienze giuridiohe « XXIX, 1-2). Lo STESSO. Gli elementi del feudo in Sardegna prima della eonquitta aragonete, Torino, ld02 (nella " Biv. ital. per le scienze giuridiche ^ XXXII. 8). Lo stesso, Terre e elaeei tociali in Sardegna nel periodo feudale, Torino, 1908 (nella * Biv.

intomo a Caitel Qenovete e aWepoca degli ttatuti di Galeotto Doria, Sassari, 1H99. Lo STESSO, Eetentione territoriale degU ttatuti del comune di Stutari, Sassari, 1902 (negli "^ Stadi sassaresi «, anno II, sez. I, fase. I). Edizioni. La Carta de logu fu pubblicata colla traduzione letterale italiana e con copiose note da G. M. Mameli de^ Ma vkelli col titolo : Le eottituaioni di Eleonora giuditetta di Arbo- rea intitolate Carta de logu, BonuL 1805. Furono commentate da G. Olives, giu- reconsulto, che visse nella seconda metà del secolo XYH, e le sue glosse eb- bero vigore di legge. Ne abbiamo sottocchio un'edizione calaritana del 1725 col titolo: Commentaria et Glota in Cartam de logu, legum et ordinationum Sar- dorum noviter reeognita. Una nuova edizione della Carta si sta approntando dal Besta.

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tanto dalla giustizia, e ohe, col mezzo delle buone leggi, si raf- frena e contiene la superbia e reità dei malvagi. Il motivo della pubblicazione è espresso in questi termini: ^perchè i buoni possano vivere incontaminati e innocenti in mezzo ai rei ; e fre- nati questi dal timore delle pene, e confort-ati quelli dalla virtù dell'amore, obbediscano concordi alle leggi „• Gli altri capitoli cominciano tutti con la formula unica: vogliamo e ordiniamo, spiegando la disposizione nei più brevi termini possibili.

Invece l'ordine non ò sempre il migliore. Sono 198 capitoli e alcune rubriche, che male rendono l' idea delle materie che vi si contengono, come sugli omicidi e ferimenti, sui furti e malefizi, sul fuoco, sulle liti e citazioni, sui boschi, sui cuoi, sulla guar- dia delle biade. Altri provvedono ai salari, alle vigne, alle biade e agli orti. Gli ultimi si occupano dei contratti di soccio, dei macellamenti, dei termini e delle ingiurie. Propriamente i ca- pitoli di Eleonora finiscono con gli ordinamenti sulla guardia delle biade (1-123), per ripigliare coi contratti di soccio (160-198). Quelli intermedi sono leggi agrarie di Mariano.

Si potrebbe anche censurare 1' inumanità di qualche dispo* sizione ; ma era un difetto dei tempi, che deturpò i codici di tut- te le nazioni europee. E d'altra parte è degna di nota una espressione solenne, che s'incontra soventi volte nella commi- nazione delle pene più gravi : e per somma qualunque di denaro il reo non iseampi. E la condanna delle composizioni ; e la le- gislazione di Eleonora s'inalza per essa al disopra di tante altre del suo secolo, che riducevano tuttavia il supplizio ad una maniera di traffico per colui che poteva redimersene, mentre non era tanto un atto di giustizia quanto un effetto di mala ven- tura per gli altri, che non ne avevano i mezzi. Le parole sono del Manno.

2. Del resto molti ordinamenti furono tolti dagli statuti di Sassari, specie quelli che riguardano la composizione delle corone, V ordine dei giudizi, l' esercizio pubblico del notariato, la pene afflittive e pecuniarie e l'economia rurale. Tutti poi ri- specchiano le condizioni dell' isola e mirabilmente vi si attagliano. Anzi un dotto giureconsulto sardo, il Mameli, ha osservato che le disposizioni di questa carta, pubblicata più di quattro secoli addietro (ora sono più di cinque), convengono pressoché tutte ai costumi dei Sardi dei nostri tempi. Lo che fa fede certa-*

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mente della bontà intrinseca della legge, ma attesta eziandio V indole piuttosto stazionaria di cotesti insnlani.

3. Aggiungiamo, ch'essa ha un carattere territoriale. La giudioessa d'Arborea vuole tutti obbedienti ai capitoli ed alle or- dinazioni di detta carta; e anche soggiunge: facciamo le ordi- nazioni e i capitoli infrascritti, i quali vogliamo e comandiamo espressamente si debbano tenere e osservare per legge da ciasche- duno del giudicato nostro d'Arborea in giudizio e fuori. E, in processo di tempo, l'applicazione se ne estese anche più. Nel 1421, cioè soli ventisei anni dopo la sua pubblicazione, le corti, che re Alfonso celebrò personalmente in Cagliari» ordinarono che si dovesse osservare in tutta la Sardegna, tranne Cagliari, Sassari, Alghero, Bosa ed Iglesias, che continuarono, cosi, a reggersi coi propri statuti, a tenore dei loro privilegi. Mede- simamente le regie prammatiche ne raccomandano l' osservanza, in quanto alcuna parte non ne fosse stata espressamente ri- vocata.

§ 4. - LEGGI DELLO STATO DELLA CHIESA.

Costituzioni Egidiane.^^

1. Le leggi che si promulgarono ed ebbero vigore nello Stato pontificio durante i secoli XIII, XIY e XV, sono di più specie : sono leggi pontificie e leggi dei legati ; leggi generali dello Stato e costituzioni emanate dai pontefici o dai legati per una determinata provincia.

Le costituzioni pontificie trovansi sparse qua e nelle rac- colte degli atti dei pontefici, specie nel Bollario e nel Codice diplomatico del Theiner, e se ne conta un gran numero. Trattasi di leggi ohe provvedono al governo della cosa pubblica e segna- tamente a mantenere la pace tra i sudditi; ma ce ne sono an-

«* Bibliografia. La Mavtia V., Storia della Ujp$laùone kaliana, I : Saina e Stato romano^ Torino, ISSi. Foolmtti, Le eonetituttonee Marehiae Aneonitanae, lUoexmU, ìàsi, aofthe nMrli OmueoU di Storia del diritto, Biao«raU, 1886. Baf- FAKLLi, Le eonetJluHomee marehiae Aneonitanae deeeritte in tutte le loro ediaioni, Foligno, 1885 (daU^ * Arohivio p«r le Marche e V Umbria , voi. I, 1884 e IL 1886). BftAVDi, Le conetitmiiomee Sanetae Matrie Beeleeiae del etnrd, Egidio Albomom (''Bullei^ tino deU* latitato etorico italiano . num. & 1888). Lo srssso, ManoeentU nuooi delle ConsUMioaee AeMiemae {im, nom. IOl 1890). Wubm, Cardinal Albomom der nweite BegrUmdor dee KirehenetatUee, Paderbom, 1892. Erudii, Gli ordina- memUpolitioi e mmmmietraéioi nelle ConetitmUonee Aegidianae (nella *^BÌTÌsU ital per le eoienae giaridiohe« XV e XVI, 1866). Zdbkaubb, Sulle fonti delle Coniti-

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che altre, che riguardano le eresie, gli ordini processuali, ecc. Come esempio abbastanza antico potrebbesi ricordare la costi- tuzione che Innocenzo IH pubblicò nel parlamento di Viterbo : universis fidelibus nostris per PcUrimonium Beati Petri canstitu- ti8, se questa, più che una legge contenente disposizioni tassative, non fosse un monito ai baroni e ai podestà di non offendersi a vi- cenda, di astenersi dalle vendette private, ecc. Invece è una ve- ra legge l'editto, che lo stesso Innocenzo III bandi nel 1207 a Vi- terbo contro gli eretici, e che doveva inserirsi negli statuti. La costituzione famosa, che Federigo II promulgò sulla stessa ma- teria nell'atto della sua incoronazione (1220), è calcata appunto su questo editto. Altre costituzioni contro gli eretici apparten- gono a Innocenzo IV ed a Clemente IV, e si trovano pure accolte negli statuti municipali a modo di pubblico diritto: ma soprattutto importante è un editto di Bonifacio VIII per il Patrimonio, con cui regola la procedura penale sulla base dei principi romano- canonici, provvedendo anche al carcere dei condannati, alla bre- vità dei giudizi, alla* esecuzione delle sentenze e agli appelli.

Altre costituzioni vennero promulgate dai legati e rettori fin dal secolo XIII. I documenti le ricordano più volte, insieme alle leggi pontificie, nel Patrimonio, nella Campagna, special- mente nella Marca. Quelle del cardinale Orsini, e altre di Ame- lio di Lautrec, di Bertrando di Deuc, e del cardinale Egidio Albornoz, furono pubblicate appunto per la Marca.

2. Ma l'Albornoz fece anche più, perchè è autore di un codice, che occupa un posto speciale nella legislazione degli Stati della Chiesa.

ttUianes Sanclae Matru EccUaiae, Torino, 1901 (neUa ** Biy. ital. per le sciense giuridiche^ XXXI, 1-2). Edizioni, l^e abbiamo parecchie dei BollarL Bi- cordo : BuUarium magnum Barn, a Leone M, ueque ad BenedieL XIII, Luxemb^ 1728 segg., 8 tomi con assunte fino a Benedetto XIY, 19 tomi. Inoltre : ^ti^- larivm prtvilegiorum ae atplamaium PonL ampliuiwna coUecUo op. Cocquelines. Bomae. 1739-62, 14 tomi in 28 Tolomi, nuova edi*., Torino, 1857-7SL 24 volumi e supplemento, Napoli, 1885. Gontinuasioni : Benedieti XIV BuUartum, Bomae, 1754, 4 tomi (Mecnlìn, 1826, coi supplementi, 18 volumi). Aggiungi: Benedieti F. 2lIV aeta insdita, ed. recent., Bomae, 18^ daU'anno 1740 ti 48. Parimente: Magnum BuUarium Bom, eummor, PonL Clementie XIII, Clementie XIV, PU VI, Pii VII, Leoni» VII et Pii Vili eomtittaionee eompleeUne, ed. Barberi, Boma, 133S sogg* Vedi anche GuBaai, PonUficiarum eonstiUUionunt in Bìdlariie Magno etBomano conientarum Epitome et eeeundum mcUeriae diepoeitio, 4 tomi. Vene- tiiiL 1772. La prima odinone deUe Costituzioni egidiane fu fiotta in Iesi nel 1471. Altre edizioni sono del 1481, 1502, 1507, 1522, 1524, e anche una di Vene- zia senza^nno. Ne segone altre cui» additionilnu Carpentibue, cominciando dal 15IS. £ Punica edizione ohe siasi fettta a Boma ed ha per titolo : Aegidità- noe ConaUtutionee reeognUae oc novieeime impreettte. Furono glossate da G. Ca-

VALLIiri.

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A ben comprenderlo, è mestieri che ci rifacciamo a quel pe- riodo di guerre felicemente compiute intomo alla metà del se- colo XIY, quando i dinasti e i comuni tutti dello Stato eccle- siastico furono condotti, particolarmente merco l'opera dell'Ai- bomoz, a riverire l'autorità pontificia e a sentire più direttamente il peso della sovranità. Allora si riconobbe la necessità di una legislazione uniforme per lo Stato ricostituito, e l'Albomoz compi quest'opera legislativa.

La quale in realtà è molto importante; e già il biografo del cardinale ne loda la sapienza. Certo, corrispondeva ad un bi- sogno dei tempi. L'Albomoz stesso avverte che esisteva una folla di costituzioni, altre spedite sub bulla dal pontefice, e altre pub- blicate dai governatori della Chiesa, di alcune delle quali non si conosceva neppure l'autore per la loro antichità, e che urgeva di portarvi un po' d'ordine. Perciò volle che tutte gli fossero pre- sentate ; e si associò alcuni giureperiti ed uomini esperti, per rivederle. Il lavoro fu lungo. Infine provvide a che si com- pilasse quel nuovo volume di costituzioni in onore della Chiesa: conservò quelle che erano utili, ne tolse via altre che gli par- vero superflue o contraddittorie, ne aggiunse di nuove secondo la opportunità dei luoghi, dei tempi, dei negozi, e distribuì tutto in sei libri, cominciando dai mandati o lettere di commissione del papa, che riguardavano la sua potestas legationis et vicaria- tu8, e passando quindi a discorrere dell'ordinamento governativo della provincia prò ecclesia et iuribus publicis defendendis ac con- servandis, dell' uflScio dei rettori e dei loro giudici super spiri- tualibus, dei delitti e della procedura penale, del diritto e della procedura civile, e infine degli appelli.

Cosi furono promulgate nei giorni 29 e 30 aprile e 1 maggio 1367 nel parlamento di Fano; e tutti, rettori e popoli, avevano obbligo di osservarle inviolabilmente. Le altre costituzioni ema- nate nei parlamenti precedenti, ma non inserite in quel volume, dovevano intendersi abrogate ; e anche si dichiararono abrogati tutti gli statuti di città e terre, che, come che sia, vi contrad- dicessero.

Il codice fu detto originariamente Liber constitutionum Sanctae Matris Ecclesiae ; ma si suole designare anche col titolo di Consti- tutùmes Marchiae Anconitanae, ed anzi ò questo il titolo ohe gli è rimasto. Ciononostante è fuori di dubbio che doveva trovare

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applicazione alle provincie del Patrimonio, della Marittima e della Campagna. È una vera legge generale degli Stati ponti- fici. Infatti il parlamento di Fano, dove le costituzioni si prò- mnlgaronoy fa un parlamento generale di tutto lo Stato della Chiesa; e, del resto, lo stesso cardinale Albornoz ha inteso che dovessero avere vigore dovunque. Lo dice nel proemio, e lo dice di tutte : non solo di quelle nuove, emanate allora, ma anche delle antiche, quantunque originariamente fossero state promulgate solo per questa o quella provincia. Inoltre abbiamo una bolla di Sisto lY ed un'altra di Paolo m, che ne inculcano l'osservanza in tutto lo Stato. Sicché la cosa non può rimuo- versi in dubbio; e, d'altronde, il nome di Cùngtitutianes Mar- chiae Anconitancte non difficile a spiegarsi : perchè il nucleo principale del codice Egidiano fu formato appunto dalle costi- tuzioni dei legati delle Marche: l'Orsini e Bertrando di Deuc; e perchè anche altre costituzioni posteriori furono destinate per la Marca.

3. Lo stesso Albornoz ne mandò fuori alcune, correndo gli anni 1363 e 1364, ohe vennero aggiunte alle prime. E pa- rimente ne abbiamo de' suoi successori, come il Grimaldi, il D' Estaing, il Oondulmer, il Galandrini, ecc., fino alla riforma del cardinale Pio da Carpi. Questa però è anche l'ultima. Porta la data del 1544, e il cardinale la mise assieme con l'aiuto di dieci avvocati della provincia, nonché di quattro esperti difen- sori di cause, e coi propri assessori. Si sa che si era proposto di toglier via le costituzioni andate in dissuetudine, mettere a posto quelle pubblicate dopo la prima compilazione e fare tutte quelle aggiunte che credesse necessarie; ma in verità non ha conseguito il suo intento. Lo stesso Da Carpi nota che qual- cheduna non era osservata, e nondimeno ve la lasciò, perchè, mutati i tempi, avrebbe potuto rivivere. si può dire che la compilazione sia riescìta più ordinata. Alcune costituzioni non sono a posto; altre si trovano inutilmente ripetute; e in mezzo a tutto ciò vi si rinvengono più di cinquanta aggiunte dichiarative 0 estensive dello stesso Da Carpi. Del resto la riforma, riveduta più volte, ebbe vigore fino a tutto il secolo scorso.

4. Qui giunti però, non sarà inutile di avvertire come le leggi dello Stato della Chiesa, appunto pel carattere del governo sacerdotale, da cui emanavano, si distinguessero da tutte le altre.

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Perchè, intanto, lasciarono per lungo tempo, e più ohe altrove,, nn largo campo alle autonomie locali. Mentre la potestà spi- rituale dei papi era riescita a gettare profonde radici, quella temporale invece, ancora in tutto il secolo XIII, si riduceva a poca cosa. Oli stessi papi non mostravano di tenervi gran fatto. Ore* gorio yn, Innocenzo III, Bonifacio Vili miravano a più aiti ideali che non fossero i minuti interessi, a cui suole discendere la sovra* nità. Ci tenevano a far derivare ogni potestà terrena dalla prò** pria, distribuire regni, dettar leggi alle nazioni, giudicare po- poli e re : questa era la loro ambizione. Se alla loro volta ama- vano di avere una signoria temporale, era, più che altro, perche pareva loro cosa repugnante e contraddittoria, ohe, mentre pur si dicevano in diritto superiori a tutti, fossero poi nel fatto sud- diti dell'imperatore. Ma, anche volendo, avrebbero durato fa- tica ad a£fermar8i mondanamente, in un tempo in cui l'ossequia era volontario, e i diritti e doveri di tutti solevano definirsi per patto. Altra cosa era la sovranità e altra il governo, ossia la direzione degli a£farì pubblici, congiunta col diritto di pace e di guerra. Il governo stava propriamente in mano delle città e dei baroni, e ogni provincia, anzi ogni terra, aveva una esi- stenza sua propria e individuale. La stessa conquista deli'Al- bornoz non alterò molto il concetto giuridico della sovranità pontificia. I rapporti politici dei diversi poteri allora esistenti rimasero quali erano prima: non furono tolti gii Stati ai fenda* tari, si attentò alla libertà dei comuni. Alla autorità pon- tificia bastava ancora di essere riconosciuta, e purché i suoi decreti si accettassero come fondamento dell'ordine legale, e tutti stringessero accordi co' suoi u£Bziali, nei limiti che bastavano a garantire lo Stato, essa non voleva richiedeva di più.

Soprattutto il diritto sovrano di giurisdizione si considerava appartenere alla Chiesa: le Costituzioni affermano ciò ripetuta- mente; e ne incaricano i rettori delle provincie, che appunto per esercitarla, avevano intomo a una curia, detta generale o maggiore, composta di quattro giudici: ognuno di essi con compe- tenza speciale, ossia per le cause spirituali, civili, criminali, per le appellazioni. Nondimeno la Chiesa poteva anche conceoere e lasciare quel suo diritto ad altri, alle comunità come ai prin- cipi, conti e baroni; per non dire degli speciali organismi giu- diziari, sottratti alla circoscrizione della curia generale. Perché

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questi vi potessero entrare, sarebbe stato necessario che si trat- tasse di terre soggette direttamente alla Chiesa: le altre ave- vano i loro statati ed esercitavano il potere giudiziario in modo indipendente.

Solo più tardi il regno della Chiesa, che non avrebbe dovuto essere mai di questo mondo, comincierà a pareggiarsi ad esso, e nondimeno durerà fatica ad aflPermarsi, combattuto, com' era, quando dai maggiorenti e quando dal popolo, memore ancora dell'antica libertà!

6. Un'altra circostanza, che vuol essere notata, è la forte tinta religiosa che hanno queste leggi, e che in fondo non pote- vano non avere. Il governo non era ancora, ne poteva dirsi, clericale : lo diventerà col tempo ; ma, intanto, l'unione della potestà spirituale e della temporale nelle stesse mani non po- teva non far luogo ad una strana confusióne. Il pontefice, che si diceva vicario di Dio sulla terra, doveva pur sentire il biso- gno d'incamminare i suoi sudditi per le vie della salute eterna, anche con mezzi materiali; e, in pari tempo, doveva sentirsi facilmente tentato ad applicare i mezzi spirituali anche al con- seguimento dei beni terreni. In realtà l'una cosa e l'altra è avvenuta. Le Costituzioni Egidiane raccomandano caldamente ai rettori delle provincie di rimanere sempre in comunione con la fede e con la Chiesa ; e nel giuramento, che prestavano, promet- tevano prima di tutto di provvedere a propagare la fede catto- lica, e non tollerare che la si offendesse, e trattare paternamente le persone devote e fedeli alla Chiesa, e sterminare (la parola è della legge) tutti gli eretici condannati da essa. Ogni provin- cia aveva anche i suoi Inquteitares hereticae pravitatis, che non avrebbero dovuto intromettersi in altri reati all' infuori delle eresie ; e d'altronde si sa che bastava non obbedire al papa per essere eretico. Ciò aveva affermato Griovanni XXII. Inoltre v' è tutto un libro dedicato a materie spirituali. E alcune sono mere cose di Chiesa, o quanto meno concernono esclusivamente gli ecclesiastici. Per es. troviamo stabilita l'ora in cui si doveva- no cantare i mattutini, e il modo di portare il viatico agli infermi. Il legislatore provvede anche perchè* la messa non si celebri che con candele di cera. Tutta roba da sagrestia. Altre disposi- zioni riguardano i costumi del clero; e, dacché abbiamo a che fare con uno Stato ecclesiastico, parrà naturale che la legge vi

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si interessasse. Si trattava di mantenerli intatti, siochè nessun chierico avrebbe dovuto uscire senza la tonsura o Tabito eie- rioale, o farsi vedere dopo il terzo suono della campana, o pre- stare ad usura, o tener concubina pubblicamente, o portar armi, o mescolarsi ad atti disonesti. Non dovevano neppur assumere alcun ufficio comunale, esercitare l'avvocatura. D'altro canto le Costituzioni consacrano il principio che nessuna città dovesse costringere i chierici a pagar le gabelle. Vi si dice che era sacri- legio violare i privilegi ecclesiastici concessi per diritto divino ed umano; e si cita l'esempio di Faraone, che, sebbene ignaro delle leggi divine, aveva pur voluto esenti i chierici dagli oneri laicali. Nel tempo stesso però si fa loro divieto di ricevere vendite, donazioni, o cessioni, in frode delle collette. Qua e ci sono anche intromissioni del diritto ecclesiastico nel dominio civile. Un capitolo, con cui si regola la materia dei matrimoni^ figura tra le cose spirituali; ma in fine la Chiesa si mostrava coerente, dal momento che il matrimonio era un sacramento. Altre costituzioni sono dirette contro gli usurai cristiani. Il giu- dice spirituale poteva procedere contro di essi, anche per inqui- sizione ; e non dovevano assolversi, godere la sepoltura eccle- siastica. Lo stesso abuso della scomunica e di altre pene canoni- che rivela l'indole della legge.

6. In mezzo a tutto ciò ricorrono diversi principi che se- gnano decisamente un progresso, soprattutto nelle materie pe- nali e giudiziarie. Nel parlare del diritto ecclesiastico, abbia- mo detto che la Chiesa aveva tentato di avviare l'uno e l'altro per una nuova strada; e non farà meraviglia che ne tentasse ampiamente la prova nei suoi Stati. In fondo, ò il diritto ro- mano che ritoma a galla, a detrimento delle consuetudini bar- bariche; ma lo stesso diritto romano subisce sensibili modifi- cazioni.

Il delitto ò considerato oggimai da un punto di vista pub- blico : onde le transazioni, se pur si tollerano, si restringono ; e in alcuni casi non si tollerano affatto. Già papa Innocenzo VI si era opposto a cotesta consuetudine molto comune nel caso degli omicidi, e il cardinale Egidio dedica anche molto studio a fissare le pene, lasciando il meno possibile all'arbitrio del giu- dice. E ve n'ha parecchie. Quelle che ricorrono più frequen- temente, come del resto in tutte le legislazioni di quel tem-

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pò, sono le pene pecuniarie; e il legislatore cerca di adattarle alla condizione delle yarie classi sociali, esigendone di maggiori pei nobili che per i popolani. Trattandosi di delitti di maestà e di tradimento, o di violazioni di paci, voleva anche distrutte le case e devastati i beni del condannato. Altre volte però le pene erano quelle romane, specie nei reati politici, in quelli contro la famiglia e il buon costume, e nei più gravi delitti naturali, come l'omicidio e la grassazione. Erano pene piuttosto gravi ; ma il legislatore, mosso da un sentimento di benignità, tal fiata le mitiga. Le pene canoniche figurano per lo più co- me pene accessorie, aggiunte alle altre, particolarmente nei reati politici.

7. Ma anche la procedura è informata a principi più ra- gionevoli. Certo, lo è la procedura civile. Il giudizio si ini- ziava con la citazione e la produzione del libello. Chi era stato citato aveva obbligo di comparire, e, comparso che fosse, gli si dava copia del libello. Cosi, era in grado di giudicare se gli con- venisse d'impegnarsi nella lite, nel quale caso produceva le sue eccezioni. L'attore ne riceveva copia per replicare, il reo rice- veva copia delle repliche e poteva duplicare. Da questo momento la lite si aveva per contestata, e la contestazione si considerava, non altrimenti che in diritto romano, come il fondamento di tutto il giudizio, una specie di congressio ad pugnata; mentre tutto ciò, che si era fatto fino allóra, non eccedeva i limiti di una onesta provocazione. Cosi oompivasi il primo stadio. Il secondo andava dalla contestazione della lite sino alla conclusione in causa o alla sentenza definitiva. Il giudice cominciava dal prefiggere un termine per la presentazione delle posizioni, o brevi articoli, che l'attore desumeva dal suo libello e il reo dalle sue ecce- zioni, e che, senza abbracciare tutta la causa, riguardavano qualche fatto che aveva attinenza con essa. Era una novità del diritto canonico, che mirava a rendere più semplice la pro- cedura. Le parti venivano interrogate appunto su questi arti- coli, e dovevano rispondere, confessando o negando, sicché si sapeva oggimai che cosa potesse aversi per dimostrato. Il resto bisognava provarlo; ma in fondo erano le prove romane : i testi- moni, i documenti, il giuramento: e ne incombeva l'onere a colui che asseriva. Somministrate che fossero, il giudice doman- dava alle parti se avevano nulla da opporre, e anche assegnava

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loro un termine per le allegazioni : poi chiudeva la causa, e pro- nunciava la sentenza. La quale era legge ; ma da essa si poteva appellare una e due volte, finché, diventata esecutiva, si man- dava ad effetto.

Le costituzioni hanno anche cura di fissare nettamente i termini, che, in generale, sono brevi. Un procedimento som- mario, che non conosceva solennità di sorta, e quindi ne libello, ne contestazione di. lite, giuramento di calunnia, trovava ap- plicazione a tutte le cause che non superavano una certa somma e in cui si domandava la reintegrazione del possesso. Non im- portava neppure che il reo comparisse : il giudice decideva ugual- mente.

Come vediamo, si tratta di una procedura speciale. Un'al- tra era ammessa nel caso che il debito constasse da pubblico strumento, o da strumento celebrato in forma Camerae, o anche da scritture private di mano del debitore. In tutti questi casi si faceva luogo alla esecuzione parata.

8. Trattandosi di reati, il modo di procedere, che, secon- do le Costituzioni, poteva dirsi prevalente e ordinario, era un misto di accusatorio e inquisitorio.

I processi cominciavano con una accusa o denuncia, ed ogni università doveva avere un pubblico denunciatore, eletto da essa e stipendiato, allo scopo di scoprire i malefizi, che, per essere in questi tempi facilmente occultati, per lo più andavano im- puniti. Del resto si usavano delle cautele, espressamente sancite dalle Costituzioni, per la presentazione dell'accusa e della de- nuncia. Presentate che fossero, tanto l'accusatore quanto il de- nunoiante prestavano il giuramento di calunnia. E l'accusatore doveva anche fare l' inscriptio, con cui si obbligava a sottostare a quella stessa pena, che avrebbe colpito l'accusato in caso di condanna, dando cauzione di proseguire il giudizio e rifondere le spese.

A questo punto però il processo inquisitorio s' innestava nel- l'accusatorio ; e, compiuta l' inquisizione, si citava il reo a com- parire. Il giudice gli assegnava un termine per difendersi; e parimente assegnava un termine all'accusatore o denunciante per provare l'accusa o la denuncia, dato che il reo la negasse. Entro quel termine tanto l'una parte quanto l'altra dovevano provare con ogni genere di prove, cioò a dire coi testimoni e an-

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elle con la pubblica fama. Poi si concedeva un altro termine air imputato perchè prendesse copia delle deposizioni testimo- niaU e facesse la prova contraria. Infine succedevano le allega- zioni e 8i pronunciava la sentenza. Nel frattempo il reo era sostenuto in carcere, o anche lasciato in libertà provvisoria verso cauzione^ purché si trattasse di delitti, in cui la libertà provvi- soria fosse tollerata. Se il citato non compariva, era messo al bando, con diffida che, non presentandosi entro un dato ter- mine, sarebbe stato condannato.

A ben guardare, fu il risveglio degli studi di diritto romano, che giovò anche da questo lato. I papi ne avevano approfittato, facendosi iniziatori di una riforma, che parve una grande neces- sità dei tempi e che ebbe fortuna. Certo, le forme del giudizio ne uscirono cosi migliorate ; ma non può dirsi che tutto sia ro- mano. L'azione dello Stato ha troppa parte nel nuovo procedi- mento, perchè possa ricondursi, senz'altro, a principi romani; ed è merito della Chiesa di averlo reso molto più adatto allo scopo.

Capo IV. Legislazioni locali.

Col nome di Legislazioni locali comprendiamo gli statuti delle città, SI libere che soggette, e quelli della campagna. Essi co- mi ne iaDo a poco a poco in questi tempi, si allargano per via,

p trascinando più o meno onoratamente la loro esistenza fino a

tutto il secolo XVIII ; ed è di nuovo una legislazione autonoma^ il cui oggetto nelle città è anche più vario di quello che non sia nella legislazione provinciale, per il frequente mutamento- dei rapporti economici, a cui appunto le città sottostavano. Se

L vogliamo, era un diritto, che s' intendeva da : il diritto, che,.

" in ultima analisi, avevano tutte le corporazioni, di determinare o

regolare autonomicamente le condizioni della propria esistenza, e che passò a lungo inosservato, fino a che la potenza delle città non fu cresciuta. Allora però, la potestà pubblica cominciò ad al- larmarsene, e tra i diritti che volle più specialmente riconoscere vi fu quello degli statuti. E neppure si può dire che lo am- mettesse appieno, se non con la pace di Costanza. Federigo

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Barbarossa fini col concedere espressamente alle città italiane tutte le consuetudini si dentro che fuori, in perpetuo, come le ayeyano esercitate db antiquo; e promise eziandio ohe, dovendo i suoi nunzi esaminare e definire le cause in appello, lo avreb- bero fatto in buona fede e senza frode secundum leges et mores eivitatis. Aggiungiamo che gli statuti vanno di pari passo con Io svolgimento comunale.

§ 1. STATUTI MUNICIPALI.

A, Della legislazione statutaria in generale. a. Oli elementi degli statuti Condizioni speciali della bassa Italia.

1. Quelli, che diciamo statuti municipali, sono tutt'altro ohe un'opera semplice e di getto: vennero anzi formandosi un po' alla volta e con vari elementi. Possiamo distinguere: la consuetudine, i brevi e le leggi, tre fattori, che corrispondono sia al nuovo diritto sorto dalla fusione delle diverse razze e dalla nuova vita economica, sia alle nuove condizioni politiche create dall'autonomia. Per il momento però prescindiamo dalle città della bassa Italia, avendo divisato di parlarne a parte, con ri- guardo alla loro speciale natura.

2. La consuetudine^^ è più antica, come quella che precedet-

^* Bibliografia. Volpicella, Dello studio delle consuetudini e degli sta' tuii delle città di terra di Bari, Napoli, 1856. Lo stesso, Sopra la recente pub- blicazione di un antico codice delle consuetudini di Amalfij Napoli, 1876. Beb- LAM, Elnstrazioni al lAber consuetudinum Medioletni anni i2/(?, Milano, 1869. Lo STESSO, Le due edizioni milanese e torinese delle consuettidini di Milano 1216, Venezia, 1872. Schupfeb, DeUe fonti di diritto a cui furono attinte le consuetu- dini di Milano del 1216. Lettera al prof. Berlan (nelPopera cit. •* Liber con- 8uet. Mediolani „, 1868, p. 251 segg.). Lo stesso. La società milcmese alV epoca del risorgimento del Comune, Bologna, 1869 (•* Arch. ginr. ^ III, IV e VI). Agnel- li, Piccolo codice di consuetudini catanzaresi, Catanzaro, 1869. Moroigni-Novella, JJelle consuetìulini e stcUuti delle provincie napoletane, Napoli, 1869. Pebrone-Pa- LADiNi, Sulle fonti del diritto siculo. Appunti (nella •* Temi Zanolea 1871-72). Alianellt, Delle consuetudini e degli statuti municipali delle provincia napoletane, Na^li, 1878. La Mamtìa Y., Notizie e documenti sulle consuetudini delle città di Sicilia ('*Aroh. etor. ital.„ 1881-87). Pbpbrb, Le consuetudini dei comuni dell' Ita- lia meridionale ed il loro valore storico, Napoli, 1888 (dagli "Atti dell' Acoad. di scienze morali „ì. Racioppi, La Tctbula e le consuetudini Amalfi C* Arch. stor. napol. IV, 1879). Lo btisso. Le consuetudini civili di Amalfi (** Arch. stor. , cit.). CiccAOLioNB, Ze consuetudini di Catanzaro^ Napoli, 188L Bbùnneck, SicUiens Stadtrechte, Halle, 1881. Rondoni, / più antichi frammenti del costituto fiorentino, Firenze, 1882. Pxbla, Il diritto longobardo negli usi e nelle consuettidini delle città del Napoletano, Caserta, 1882. Abionektb, Le consuetudini inedite di Sa- lerno, Studio-storico giuridico, Roma, 1888. Rondonuzzi, Le consuetudini di Cal- iti

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te la for inazione della companga comunale, quantunque non sem- pre sia stata consegnata prima in iscritto. Essa riproduce general- mente il diritto privato e penale dell'aggregazione, giusta i parti- colari bisogni di essa, © ne trova fatto cenno in più luoghi. Uno statuto di Savona del 1014 stabiliva due fideles cives per de- cìdere giusta la consuetudine del luogo; ne altrimenti vediamo nel 1056 in Genova tre boni homines giurare le consuetudini della città. E la loro sanzione era anche più autorevole di quella della legge. La Tavola Amalfitana definisce la legge sanctio

tagirmie ed i diplomi dé§ re che le confermano, Calta^one, 1893. Dito O. Oli ordinamenti municipMi di Lucer 4^ del 1407, Traili^ ISfe. La Mavtìa V., AnH" che consueiiifUni dtUti ciiià di .Sicilia, Palermo, 1900. GiusTCnuii V^ H diritto ei/ThtutititHn.tria in terra di Bari (nel voL *^ La terra di Barì^j Trani, 1900). Giur- FRi&JL, La ifetien ddU f^muet. ^flnridiehe de/le città di Siciltcij I, Catania, 190L CiccAGLioKK, Le pandaitì^ di Bà^cemi. Notizia (neU^ ** Archivio ^or. ^ nuova ae- ri* VI, U 1J*J)}. Lo fiTÉsao, Le origini delle consuetudini sicule, Torino, 1901 (nella "* RÌ¥. itaL per le ioit*n«e giur. XXXI, 1-2). Siciliaho-Villanubv^ Sul diritto ffrtro-romftno (priviÉtui in Sicilia^ Palermo, 1901 (neUa "Biv. di storia e filoso- fia dei diritto „, 11^ 1 s«g,)' Laik> P., La comunione dei beni tra coniugi nella Moria del dirulo iialiano, Sassari, 19l)l. Finocchiabo SAKTORiOjLa comunione dei i^ni tra cofiiugi f^eUa gloria del dirigo it€Uiano, Palermo, tò02. Godalbta, Amichi ntaiull, rimisiitludìni e grazie della ciUh di Bisceglie, Trani, 1902. Pupilli- BAiiiiKst, Gli un civici in Sicilia^ Catania, 1903. Besta, Il diritto consuetudinario di Bari e la sun géueti^ TorioQ, 1903 (daUa ** Rivista itaL per le scienze ginri- dicbe „f XXX VI)/ ^ Bicordiumo alcune edizioni di consuetudini. Quelle di Genova del 95Kf confermato nel 1057, furono pubblicate nel Liberjur, reip. Oen., I, p, l e dal CiBttAEto, nella .Sforici della ywnarchia di Savoiaj Torino, 18KX I, 310 segg. Segue il Ctm»tituium usus pisanae civitaiis del UGO edito dal Bo- hai^i (voi. n degli statuti inediti della città di Pisa). Le consueiudinee com- «lufiù ^imiaiU AUxandriae del 1179 furono stampate in Alessandria già nella metà dal secolo XYl, Quelle di MUano del 1216 videro la luce primamente per opera del BeRi.4Jc (Milano, 1^^), poi furono edite dal Poaao (Afon, h, p, Le^ munie,f II, I), e n^ovameate dal Berlan, ridotte a miglior lezione (Venexia, 1B72\. Un brano d^l libro Ife eonsuetfidinibtu civitatis Mediolani composto dal giudioe Pietro, che s^^rvi poi alla commissione che compilò le consuetudini del 1216, fu pubblicato dal Lkhma^^;! nelle JurietisUche Feetgaben filr B, von Jhering^ SSntt^^r^ ltìSi2, p. 74^78. Dei Coustumes generala du duché d'Aoste abbiamo due ediuoni una di Cliambery del 15SS e l'altra d'Aosta del 1684. Di quelle di Bari esistono due reci^usìonì, compilate sul principio del secolo XIII: una del giudice Andrea secotiio Tn^lin e del Codice: raltra del giudice Sparano secondo quello della Lombarda. Videro la luce a Padova nel 1550 col commentario del Masiìla, e a^ di nostri furono volgarizzate e annotate dal Pmcit i nella soa Storia di Bari, Quelle di Catanzaro sono riportate e illustrate nella ludicia^ ria prajeU del Paparo^ Napoli, 1635 e le ripnoblicò il Ciccaoliomb nel 1881. Le consuetudine* Xempotiitinat vennero in luce a Napoli nel 1518 con le glosse del

Jemo (Bòma, IBì^}. Per alcune consuetudini delle città della Sicilia abbia- mo redLxiono del Brunneck nei Siciliens mittelalterliche StadtrechU^ Halle, 1881 e quella molto accurata di V. La MantIa nell^'Arch. storico italiano,, XL, W^ e s^g. e la pi 4 recente e definitiva col titolo : Antiche consuetudini delle iiittà di Slcitiaj PaJermOi 1B(>X Altre finora inedite vengono via via pubblican- dosi dallo stesso. Le Consuetudines Gradiscanae del 1577, furono stampate in Udine nel LEO per cura del loppi.

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sancta, e la consuetudine sanctio sanctior^ e distingue appunto l'una dall'altra, attribuendo alla consuetudine maggiore auto- rità, in quanto esce spontanea dai bisogni locali, mentre la leg* può dipendere dalla volontà di uno o di pochi. E quando le consuetudini sono buone, aggiunge la stessa Tavola, tacciono le leggi. Ma anche in tempi più avanzati osservava Baldo: Statatum super consuetudine videtur poHus indui ad cansueiudinis roborcMonem, quam ad novi iuris introduetionem. Del resto, essa si conservò a lungo col mezzo della tradizione, che si trasmet- teva di generazione in generazione; ma più tardi parve oppor- tuno di consegnarla in iscritto, perchè non se ne perdesse la memoria e perchè fosse meglio osservata. Ciò accadde special- mente quando la città si trovava in pericolo di ridursi sotto una nuova signoria, o la tradizione cominciava a turbarsi e a diventare incerta.

Uno dei più antichi esempi è quello di Genova, che, abban- donata dagli imperatori greci e funestata e messa a ruba dai Saraceni, aveva finito col fare omaggio a Berengario e Adal- berto, re d*Italia, pur cercando di salvare le proprie consuetu- dini» Appunto in questa occasione ne mise assieme parecchie, che già conosciamo ; e nel 958 i due re coUegbi concessero so- lennemente a tutti i fedeli e abitatori della città di vivere e regolarsi con esse. alcun pubblico ufiSciale avrebbe dovuto immischiarsi nelle cose loro, recar loro ingiuria o molestia, sotto pena di forte ammenda. È un insigne privilegio, che an- i

Cora un secolo dopo i marchesi Malaspina confermarono. ì

Invece altre consuetudini vennero messe in iscrìtto per ta- ^

gliar corto ai dubbi che potevano sorgere, ed erano realmente sorti. Il proemio del ConsHtutum usus Pisane civiiatis del 1160 ^

avverte che la città aveva per lungo tempo vissuto con le con- suetudini, e ohe anche i previsores, o giudici, si erano tenuti ad esse, pur mancando una grande uniformità. Era anzi accaduto più volte che gli stessi negozi fossero giudicati quando in una ^

maniera e quando nell'altra ; e si venne, cosi, nella deliberazio- ne di farle redigere in iscritto, perchè tutti potessero conoscerle. Lo stesso motivo determinò la compilazione delle consuetudini ^

di Milano nel 1216. Rileviamo dal proemio che Bttinasio Porca, J

podestà di Milano, aveva ordinato col consiglio dei cittadini, die il rettore o podestà dell'anno seguente dovesse raccogliere in

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volume tutte le consuetudini della città, perchè non se ne in- troducessero di nuove. E fu fatto. Oiaoomo Malcosigia, potestà del seguente anno, elesse quattordici uomini discreti, i quali, sotto fede di giuramento, dovevano ricercare e mettere in iscritto tutte le predette consuetudini. La formula del giuramento è anche ricordata in fine del libro. Essi adunque, volendo adem- piere ciò che avevano promesso, convocati gli uomini esperti, ingiunsero loro di manifestare tutte le consuetudini che cono- scessero ; ma insieme si giovarono di altre notizie, sparse in di- versi capitoli che ebbero per le mani, e di un libriccino, com- posto da Pietro giudice sopra le consuetudini medesime. Com- pita l'opera, la consegnarono al podestà. Medesimamente, le consuetudini della Val d'Aosta facevano luogo a molte incer- tezze; e per questa ragione, già nel 1337, furono interrogati particolarmente i nobili sulle consuetudini di diritto civile; e più tardi, durando tuttavia le difficoltà, vennero messe in iscritto. Ma il numero delle compilazioni non si arresta qui. Una, che merita di essere ricordata, è quella delle consuetudini di Ales- sandria del 1179. Anche lo statuto di Vicenza del 1264 accen- na a consuetudines in scrtpHs redaciae. Cino da Pistoia ricorda le consuetudini di Boma, ridotte pure in iscritto nel secolo XTTT. Egli nota: Et modemis temporibus consuetudines almae urbis {fuerunt in scriptis redactae) quae maximae auctoritaUs hodie ha- bentur apud Romanos, ut vidi cum in Senatu assedi cum domino Ludovico de Sabaudia nobilissimo Senatore. Aggiungiamo le con- suetudini di Brescia del 1250 e quelle di Como, che possono vedersi in calce allo statuto del 1281.

Cosi già in questi tempi, dove più presto dove più tardi, molte consuetudini furono scritte; ma gioverà osservare, che, pur redigendosi in scriptis, il concetto ne rimaneva sostanzial- mente inalterato. Cino da Pistoia, che abbiamo citato dianzi, dice egregiamente, alludendo appunto alle consuetudini di Boma e a quelle feudali: de esse consuetudinis non est non scriptum: imo est accidens, sicut de esse legis non est scriptura. Quantunque redatta in iscritto, la consuetudine continuava nondimeno i>er la sua origine, essenza ed ufficio ad appartenere al ius non seri- ptum. E nemmeno importava se anche in detta forma venisse a ricevere un riconoscimento speciale, oltre al consenso legale o giuridico, ossia generico: essa non si confondeva ancora con

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la legge; perohò è sempre Gino da Pistoia ohe parla la consuetudine preesiste alla sua forma scritta ed ha efficacia prima ancora che sia messa in iscritto: donde deriva che la forma scritta le può giovare come prova, ma non le toglie il valore, che ha per sé.

3. Uri altro elemento degli statuti sono i Brevi. *' Certa- mente la consuetudine non poteva bastare alla companga o con- giurazione, che fu l'atto che compi l'opera comunale. Occorre- vano speciali leggi costituzionali pei fattori della companga stessa, per i consoli e per il popolo, e ne derivarono i cosi detti brevi : il Breve consulum e anche quelli degli altri ufficiali, e il Breve populi^ che altrimenti erano detti Sacramenta.

Il Breve constdum o Sacramentum coneulum consisteva nel giuramento prestato dai consoli, nell'atto di assumere il governo, sui capitoli presentati loro dal popolo. Essi promettevano di governare a onore di Dio e a vantaggio del comune, difendendo le ragioni di esso e anche quelle dei privati, non iavorendo il co- mune in danno dei privati, i privati a detrimento del co- mune. Promettevano anche di non scemare la giustizia ad al- cuno, mandare in esilio i micidiali, non ricevere che pochi quat- trini per giudicare il placito, non fare esercito, colletta, se non col voto della maggior parte dei consiglieri, e giudicare in buona fede di tutte le cause non appartenenti ai consoli dei

*^ Bibliografia. Db Simoxi, Sul frammento di breve genovue toptrto a Nina (; Atti della Società ligure di Stori» patria « I, 1H59). Olobia, Il giura- mento dei più antichi podestà di Padova^ Padova, 1875. •— Edicioni. Il Breve con- eulwa de communi di Genova del 1143 fu edito dal Ba^fi[io nei Mon. K p. Leset mwnie^ II, Torino, 188a II Breve eoneulum j^anae eivttatÌB a. 1162 sta nel I voL degli Statuti di Pisa del Bonaini e parimente il Breve comulum a. 1275

degli ufficiali del comune di Siena compila ^

per cura di L. Banchi, Fireiue, IHGS. Lo Zdekauer pubblicò il Costituto dei consoli del pliteito del comune di Siena negli "^ Studi senesi « 1890 (testo) e 18S2 (commento). Per ciò che riguarda i brevi del popolo, ricordo : i capitoli della Compagna di Genova del 1161 pubblicati dal Cxbrario nella Storia^ della Mon,^ di Savoia, I, che restano tuttavia Pesempio più antico; il Breve pisani populi et eompa^iarum. anno 1286^ negli Staiutt pisani del Bonaini, I (lHr4), il Breve del popolo e delle compagnie del comune di Pisa corretto nel 1818 con le ag-

Sianle degli anni 1821 e 1828^ anche n«^li statuti citati, II (1870). Gli statuti elle compagne del popolo di Siena, del principio del secolo XI V. e quelli delle compagne del Popolo di Firenze e delle leghe del contado del 1885 furono pub- blicati dal Oanestrini nei Documenti per servire alla Storia della milisia italiana dal XIII secolo al XVI (- Arch. Stor. itaL ,, XV, Firense, 1851J. Insieme pos- sono vedersi gli Statuti delle società delle armi del popolo di Bologna editi dal GaudenÀ, Soma, 1888, e i Capitula, statula et Ordinamenta soeietalu Baronie mt^ litum civitiUis Astensis, anno 188^ pubblicati dal Papiri nei Codices vutnuscripU BMiothecae regii TaurÌ0^ensis Athenei, II, Torino, 1749.

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placiti. Insomma il breve indicava le regole, che avrebbero te- nuto nella loro gestione; ma insieme solevano inserirvi i trat- tati stipulati con altri comuni o coi vescovi o signori, che for- mavano pure una parte importante della costituzione. Potrem- mo citare in proposito parecchi esempi tolti dalle carte pisane, pistoiesi, vercellesi, ecc. Il breve dei consoli di Pisa del 1162 fa parola di certe securitates, che il vescovo Gerardo e l'arcive- scovo Daiberto avevano fatto fare ai loro tempi (1080-1092), e che i consoli dovevano tuttavia giurare. Ne altrimenti una carta del 1171 dispone, che i consoli o rettori di Fisa dovessero porre nel loro breve, e anche in quello del popolo, certo trattato con- chiuso recentemente coi Fiorentini.

Questi brevi si trovano menzionati in più laoghi. Citiamo ad esempio : Genova, Pisa, Pistoia, Carmignano, Siena, Vicenza, Asti, Vercelli. Un documento dell'anno 1212 ricorda lo statuto Senatus et iudicum di Eoma ; a Venezia abbiamo la Promissione del doge, ohe corrisponde al giuramento dei consoli. Ma anche i consigli e i singoli ufficiali, addetti all'amministrazione del comune, possedevano ciascuno i loro brevi.

il carattere è diverso. Quello del consiglio, si presenta fin dalle prime come il giuramento dei consiglieri e di tutti co- loro che avevano obbligo di assistere alle sue sedute. Il Breve del Consiglio della Campana del comune di Siena, per citare solo un esempio, fissa le modalità dell'elezione e l'andamento interno del consiglio, obbligando per ciò i consiglieri a inter- venire alle adunanze, a stare all'ordine del giorno, a non in- terrompere l'oratore ecc. E lo stesso può dirsi dei brevi degli ufficiali. Perche è un fatto degno di osservazione, che ogni ufficio viveva, diciamo cosi, di una vita sua propria, indipen- dente, e provvedeva da a fissare le regole della sua ammi- nistrazione. Tale è il costituto dei Consoli del placito del co- mune di Siena giunto fino a noi; ma ne potremmo ricordare anche altri. Infine ogni magistratura aveva il suo breve, e non fn certo piccola impresa del comune di metterli d'accordo, to- gliendone specialmente i contrasti. Il comune di Siena vi prov- vide obbligando tutti a prestarsi aiuto a vicenda, e a salvare l'uno il sacramentum dell'altro : la raccolta dei Brevi degli uffir ciali fatta nel 1250 non si propone altro scopo.

Similmente, il Breve del Popolo consiste nel giuramento che

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il popolo prestava ai consoli. Anch'esso ha dovuto esistere fin dalla prima formazione della companga, e una base molto generale e vaga se ne può trovare in una societas formata dai consoli e mi- liti di Nepi fin dai tempi di papa Anacleto II. Il documento, che la ricorda, è dell'anno 1131, e vi è detto, che i militi di Nepi e anche i consoli avevano confermato con giuramento che chiun- que di essi volesse rompere la società dovesse essere de onmi honare atque dignitate . . . . cum suis seguaeibus.... omnino eiectus^ e avere, per soprassello, il su^^sto con Giuda e Caifa e Pilato, e morire di morte turpissima, dopo essere stato condotto sopra un'asina con la faccia volta indietro e con la coda dell'animale nelle mani. Senza alcun dubbio era il breve della società; e svolgendosi di più, ne poteva derivare veramente un esteso Breve populi et compagniarum. A Genova lo si diceva appunto lura' mentum compagniarum; e certo non v'ha luogo dove il carattere originario della campanga spicchi meglio. I cittadini ancora nel 1161 lo giurano per quattro anni; ed è stabilito, tra le altre, che nessuno dovesse congiurare de faciendo consulaiu vel non de faeienda compagnia vel non. Ancora in tempi cosi avvanzati la eompanga era tuttavia messa in questione ! Altrimenti lo si di- ceva luramentum sequendi, cioè di seguire i consoli e gli ordini del comune.

Se ne fa menzione espressamente, oltre che a Genova, eziandio a Pisa, a Siena, a Venezia già sotto il dogato di Ranieri Zeno, a Vicenza ecc. ; ma, del resto, anche dove il giuramento del popolo non è espressamente ricordato, se ne può desumere il tenore dai giuramenti di cittadinanza. Tale è per es. il giuramento pre- stato dai Cacciaconti e Cacciaguerra a Siena. Anche quello di Obicino di Sasso di Bientina del 1197 contiene quanto è neces- sario a chiarire il suo rapporto di cittadinanza. Come il popolo, anche questi signori giuravano di obbedire e aiutare i consoli in tutto ciò che avessero ordinato nell'interesse del comune.

Più tardi, le due specie di brevi si trovano ancora distinse : ma il loro significato appare diverso. Naturalmente hanno seguito da vicino l'evoluzione politica della aggregazione, per modo che mutati gli ordinamenti, anch'essi mutarono carattere. Per es. il Breve del podestà e il Breve del popolo si trovano a Pisa ancora nel 1286, al tempo del conte Ugolino ; e cosi abbiamo lo StattUum pateetaHs del comune di Pistoia delFanno 1296, e il Breve populi

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Pistorii del 1284. Come dappertutto, anche a Pisa e a Pistoia, il breve dei consoli o del podestà era diventato il breve del co- mune, e ne portava il nome. I vari rami della pubblica azienda avevano finito sotto la sorveglianza del podestà, diventato il centro del governo cittadino. Grli altri ufficiali non conserva- rono più i loro brevi, e le disposizioni, che li riguardavano, trovarono posto, anch'esse, nel breve del podestà. Si trattava di una completa subordinazione, tanto che gli ufficiali minori, perduta la vita propria di prima, non avevano oggimai che spe- ciali istruzioni. il breve del popolo si presentava più come quello antico : era il breve dello Stato del popolo, il resultato di una nuova congiurazione opposta all'antica, di un nuovo Stato nello Stato; salvo che le sue relazioni col breve del podestà si mantenevano inalterato. Per Taddietro, aveva compreso tutti i provvedimenti necessari ad assicurare la esistenza della con- giurazione; e del pari adesso comprendeva tutti quelli che pa- revano necessaii a garentire lo Stato del popolo.

4. Infine si avevano le leggi propriamente dette. In quel risveglio della vita cittadina, è facile comprendere che la ne- cessità di ordinare parecchie cose dovesse presentarsi frequen- temente. L'antica consuetudine molte volte non bastava; ed era naturale che il popolo e i consigli cittadineschi cercassero di regolare i nuovi rapporti. Cosi nacquero più leggi staccate, che dovevano pure somministrare un ricco contingente al nuovo statuto. Erano leggi, che si pubblicavano alla spicciolata, di mano in mano che ne sorgeva il bisogno o se ne presentava l'occasione, finché venissero consegnate in un corpo insieme col resto ; e già lo stromento della pace di Costanza fa intendere che le città ne avevano anche prima di allora. Metterebbe poi conto di seguire passo passo anche questo elemento, nel modo onde si è svolto, in qualche città, se non temessimo di dilungarci trop- po. I più antichi esempi che si conoscano appartengono a Milano. Alcune leggi del 1026, 1061 e 1065 sono ricordate appunto dagli storici milanesi ; e ad un decreto del 1098, fatto dall'arcivescovo col comune consiglio di tutta la città, accenna tuttavia una colonna fuori della porta maggiore deiratrio di Sant'Ambrogio. Moltre altre sono posteriori e nondimeno sempre più antiche dello statuto. Cosi pure abbiamo una legge pisana del 1088 sull'altezza delle torri ; e la concordia, con cui Daiberto vescovo

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di Pisa provvide alla tranquillità del comune ,v! ^^ 1090. Un'altra legge pisana del 1094 assicura un privilegio ai fabbri di tutto il territorio; e un'altra ancora del 1161 vuole aboliti i diritti del visconte alla rendita della stadera.^ Inoltre pos- sono vedersi varie leggi pistoiesi sulle alienazioni delle cose pu- pillari, sui mutui dei figli di famiglia, sulle donne ohe passano a nuove nozze e sulla successione nei loro beni, sulla alienazione delle case, sulla locazione delle terre e sugli affitti, sui tutori, ecc. Anche talune leggi genovesi sull'antefato e sulla interdi- zione dagli uffici, esistevano molto prima che si pensasse a com- ' pilare lo statuto. Sono tutte leggi che vennero pubblicandosi 1 nei parlamenti del comune secondo il ^bisogno, e che solo più ^ tardi si trovano riordinate, e anche corrette e completate. La legislazione non aveva sosta un istante: erano tempi, in culla società veniva tutta rinnovellandosi; e, oaturalmente, alle con- dizioni ed ai rapporti nuovi dovevano anche corrispondere nuove leggi. Soltanto in processo di tempo si penserà a raccoglierle ; intanto si emanavano.

6. Tali erano i principali elementi delle legislazione mu- nicipale; e per molto tempo si tennero distinti l'uno dall'altro. A Genova, per es., dura a lungo la consuetudine, e vi si trova il breve dei consoli e il giuramento delle compagnie, ognuno colla sua redazione separata ; per non dire di singole leggi pub- blicate secondo l'occasione. Anche a Pisa c'è il costituto del- l'uso e ci sono i brevi dei consoli e del popolo. Una carta pi- stoiese dei 1213 distingue pure molto nettamente il giuramento ' del podestà e dei giudici dalle leggi inserite nel costituto ; ut continetur in sctcramento meo il giudice del comune che parla) | et potestatis Pistorii et in constituto civitatis de re mobile. E cosi | a Siena. Nondimeno, quasi dappertutto, essi finirono col fon- dersi in un solo corpo. La maggior parte degli statuti del se- J colo XIII appaiono già come il resultato di quegli elementi. |

A lungo andare non vi fu città italiana, che non volesse |

possedere il suo libro di statuti. *^ Si comincia nel secolo XII,

** Blbllos^afla. Il Cedrut di Boncompaono, fa edito dal Bockioffer Brief- f !

tUlUr u. FormMiUher det eilfìen bi$ ftUrtehrUen Jahrhunderts^ L p. 121 86f(g. C'Qaellen zar ba^erìsohen a. aeatsohen QMchichte ^ Manohen^ ^^K —Quanto a statati, oi restnngiamo a riooidarne solo alenai più antichi dei secoli XII, XIII e XIV, che videro finora lalnoe: e cominciamo da queUo di Pistoia, che i più attriboiscono alFanno 1107 e altri al 1177. La migliore edis. è quella del Berlan,

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massime dopo la paoe di Gostanza, e si continua poi sempre. Anzi i bei secoli della legislazione statataria sono i secoli se- guenti, specie il XIII e il XIV. Appunto sul principio del secolo XIII Boncompagno asseriva : Quelibet civitcLS in finibus Italie sua facit stc^uta aeu constituciones quibas potestas vel can^ sules piiblica exercent negotia et puniunt excedentes^ noncòstante aliqtui lege qìte cantra statutum dicere videatur^ prò eo qìAod iUa statuta aeu constituciones iuraverunt integraliter observare.

Bologna, 1882. Altri statuti pistoiesi furono pubblicati dallo Zdekauer: il Breve et ordinamerUa pofnUi Ptsiarii anni 1284, Mediolani, 1891^ e lo SuUtUum poUttaiù eomuni§ Fi$tarti a. 1296, MediolanL 1886. Seguono gli statuti di Bar yenna del principio del secolo XIII, editi dal Fantuzzi nei Man, ravennatùTy ; mentre lo statuto j^lentano j)ubblioato dal can. A. Tarlazzi (Bavenna» 1886) ò del 1806. n LUfcr iurU civUts Veronae per B. Campagnolafn, Verona, 1728, fu scritto da un GugL Calvo notare nel 1221^ ma gli statuti stessi appartengono per la massima parte al secolo SII: altri statuti yeronen, anche editi, sono del 1875. Altre antiche coUarioni degli statuti di Ber^^amo degli anni 1287 e se^. stanno nei Mon, h. p. Ltge» Mun.. II, 2. Aggiungiamo : &i statuti di Vercelli (1241), editi da G. B. Adriani nei Mon, h.p. Leges munte., II, 2; quelli del comune di Bologna (1260), editi da L. Frati, in 8 voL, Bologna, 1869-7% e gli statuti del popolo di BÌoloffnai anche del sec. XIII, editi da A. Gaudenzi, Bologna, 1887; Quelli di ViterDo (1251), editi e illustrati da I. Ciampi, Firenze, 1872: quelli di Farma (1255), editi da A. Bonchini nei Mon, hisL ttdprov. Fami, et PiaunL per- Unentioy Parma, 1855; il costituto del comune di Siena del 1262 pubblicato di^o Zaekauer, Milano, 1897 e la traduzione italiana di altro costituto della stessa città del 1296, edita a Siena nel 1903 in due volumi; gli statuti di Vicenza (1264), editi da F. Lampertico con annotazioni, Venezia, 1886: quelli di Nizza

S (12741 editi da P. Batta nell'opera Velie libertà del comune di Nino, Nizza. 1859; aelh di Biva. anche del 1274, editi dal Garj quelli di Todi del 1275 editi da . Ceci e G. Pensi, con lettera del prof. F. Schupfer, Todi, 1897; quelli di No- vara (1277) e di Como (1281). editi da A. Ceruti nei Mon. h. p. Lege» munic^ H. 1 ; anelli di Padova (1285), editi da A. Gloria, Padova, 1878 ; queUi & Ferrara (1288), di cui il Laderohi pubblicò un nrimo feiscicolo in Bolonia nel 1865; quelli di Lucca (1808), editi per cura di b. Bangi e L. del Prete, Ijucca, 1867 ; quelli di Brescia del secolo Xlll e altri dell'anno 1818, editi da F. Odorici nei Mon. k.

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I. Leges Muniej U, 2; quelli di Sassari (1816), editi dal Tela nel 1850 e ripub- ilicati nel Codexdiplom. Sardiniaef Torino^ 1861; quelli di Modena (1827^ editi da C. Gampori nei volumi della Deputaz. di storia patria per le provinole mo- denesi, Parma, 1864 ; quelli di Torino (1860), editi qa F. Solopis nei Mon, h. p. Lege» munie. I, Torino* 1€88. Anche g^i statuti di Boma, editi da C. Be nei Documenti di gloria e diritto, Boma, 1880-88, appartengono al secolo XIV: e cosi lo statuto dei sindaci del comune di Trento, edito dal Beicb, Trento, 1889^ e quello della città e del vescovato di Trento in lingua tedesca, pubblicato dal Tomaschek di su un manoscritto del 1868 neìVArchiv ^r Kunde oetUrr, Oe- echieìUequellen, tomo X>:VI, Vienna, 1861. Pei cartulari rimandiamo al Liber iurium reipuòl. €^tnuen»isJ ed. H. Bicottus, 2 voi. nei Mon. h. p., voi. VII e IX, ed ai Capitolt del comune d% Firenze. Inventario e regeeto, finora 2 voi., Firenze, 1866-96. Aggiungo alcune oj)ere bibliografiche. Bohaivi, Alcuni appunti per terotre ad una hihliogrcfia digit statuti itcUtani C* Annali delle Univ. toscane. Il, 1, 2, 1851). Bbrlah, ISaapio hibliojgrafico degli statuti italiani, Venezia, 1856. Lo STESSO, Statuti municipeUt e ttemmt municipali e gentiliei degli Stati Sardi, fase. I^ Torino, 1868. Lo btbsso. Bibliografia degli ttatuti municipali editi ed inediti dt Ferrara^ Boma, 1878 (nel giornale •!! Bnonarotti « serie II, voL XI I>. FsbrOj Bibliojgrafia dehli statuti della provincia di Treviso. Treviso, 185a Boba, 01% statutt inediti della provincia di Bergamo anteriori €U secolo XkT. Bergamo, 1863. HUBÈ, Extrail du catalogue de la bibliotèque du senateur Hubé, Y partie: Italie^ Varsovie, 1864. Bota, Bihliogrqfia di statuti della città e provincia di Bergamo, Ber^^amo, 1866. Sforza, Statuti editi della LunigitHta (Saggio di una bibliografìa storica della Lunigiana, negli " Atti e Mem. delle regie Beputaz. di storia patria

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Diremo di più. Lo statuto dapprincipio è poca cosa; ma viene via via allargandosi con nuovi patti o provvedimenti che il buon governo del comune suggerisce agl^^^^nnati. E anche si assoggetta ad una riforma. Era natunue che quelle ag- giunte dovessero produrre qualche confusione, e che taluna di- sposizione andasse perdendo ogni ragion d'essere, col mutarsi dei tempi o delle cose. La opportunità, se non la necessi- tà, di una revisione s'imponeva da sé; e se ne ebbero molte. Specie tra l'ondeggiare delle fazioni, con governi, dove una parte dei cittadini dettava leggi ,a sua posta, queste, oltre che riuscire disordinate, perdevano vigore con la stessa facilità, con cui si emanavano; sicché non è raro il caso di statuti fatti e rifatti più volte nel corso di un secolo. Cosi, a Volterra abbia- mo una redazione degli statuti nel 1219, una nel 1223, una terza nel 1224, un'altra nel 1252 ed una nel 1253. Prato correggeva i suoi ogni cinque o sei anni ; e altrove, per es. a Siena, si ri- vedevano ogni anno in un dato mese, prima che il podestà finisse il suo reggimento, o il nuovo venisse eletto. Abbiamo detto che tali riforme erano forse necessarie a mettere riparo alla con- fusione ed alla incertezza, che sempre si andavano manifestan- do ; ma talvolta vi contribuivano anche ragioni più potenti. Bioor- diamo come per la morte di Ezzelino molte città dell'alta Italia riacquistassero la propria libertà; e non farà meraviglia che si pensasse a ordinare, raffermare, rinnovare le antiche leggi ; chi sotto la signoria del tiranno ogni cosa era rimasta fuori del loro governo e ad arbitrio di lui. Cosi rinnovaronsi gli statuti di Padova e di Vicenza. Per converso, quando Pistoia si dette a Carlo d'Angiò, parve necessario di rivedere le vecchie leggi per adattarle alle mutate condizioni dei tempi : la nuova domina-

p«r le Provincie Modeneeie Parmensi «, voi. VI e VII, 1872). Mamsovi, BibUa- arn^ ttatuiaru^ e dorica iUUùmOf L^gi municipali, 2 voL, Bologna, 1876-79. Boati e BiLoaAVO, Gli ataluU <UUa Liguria. Cenni bibliografioi {* Atti deUa •ooietà lignre di storia patria,, XIV, 1878) e Appendice («^ Atti oit.« 1888).^ Fossati, Rivida Horico-hibliografica degU statuti della provincia e antica diocesi di Como (nel * Periodico della società di storia patria ai Ck>mo ^ 1, 1878). Motta, Statuii della Stmaera italiana {ivi, p. 191-2^). Di Soiaoha, Bibliografia storica e statutaria delle provineie panuensu Parma, 188(3. Lessi, Biblioteca tstoriea del- l'antica e nuova Italia, Imola, 1886. La MahtU, F. Q., Edizioni e studi di sta- tua italiani tiel secolo XIX, Torino, 18B8 (dalla •* Rivista stor. italiana ^ V). Sabtosi-Momtbcsocb. Beitrag su einer Bibliographie der italienisehtiroliérhen Sta' tuten, nell'opera * Die Thal n. Qerichts^meinoe Fleims « Innabruck, 1891. Spi- mau. Elenco somi9iario di statuti, capUoli, privilegi tee, comunali e provinciali dell* Appennino modenese (neiropera I?* Appennino modenese.. Bocca San Ca- sciano, 1895, p. 58M95).

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zione angioina aveva sconvolto da capo a fondo lo stato della città, e fu compilato un nuovo statuto corretto ed emendato. Nel fatto, la serie degli statuti riproduce la storia interna del comune e ne rispecchia i progressi: senondhè molte volte il rime- dio risultava peggiore del male. Tutti conoscono la sdegnosa apo- strofe dantesca a Firenze. La nobile città faceva cosi sottili provvedimenti da non giungere a mezzo novembre ciò che di ottobre filava ; e negli ultimi anni aveva mutato e rimutato

legge, moneta e officio e costume.

Ben diciassette mutamenti dal 1213 al 1307! Dante, non a torto, la somigliava a quella inferma

che non può trovar posa in sulle piarne, ma con dar volta suo dolore scherma.

E la cosa qua e è passata perfino in proverbio. Ne citiamo alcuni: Legge Vicentina dura dalla sera alla mattina; Legge di Verona dura da terza a nona; Legge Fiorentina, fatta la sera è guasta la mattina.

Del resto col secolo XIY la grande epoca della legislazione statutaria si chiude. Fin gli statuti italiani ebbero un ca- rattere ben distinto e un valore storico tutto loro proprio, perchè molto ritrassero della vita locale. Appunto a cagione della loro opportunità e del piegarsi, che facevano, alle diverse occorrenze, ne era cresciuta l'importanza e diventato frequentissimo l'uso, a segno da digradarne la stessa applicazione delle leggi romane. Il Petrarca ne scriveva in questo senso a Francesco da Carrara: An nescis ut homines sic humana cuncta senesceref Senescunt paene iam romanae leges, et nisi in scholis assidue legerentur iam procul diibio senuissent. Quid statutis municipaiibus eventurum putasf Era un triste presagio che doveva poscia avverarsi. La importanza dei comuni per la legislazione cessa appunto col cessare dell'autonomia. Dopo il secolo XIY gli statuti non ri- specchiano più le condizioni locali, ma seguono i progressi della giurisprudenza, che prende a riformare in molti punti le legi- slazioni particolari. Vedremo più sotto che alcuni sono veramente compilati da giureconsulti. Inoltre i piccoli e numerosi centri d'azione scompaiono o subiscono la influenza dei grandi e pochi, acconciandosi senza resistenza alia riforma unificatrice.

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6. In mezzo a tutto ciò, molte cose, che pure interessa- vano la vita del comune, non figuravano negli statuti; ma ve- nivano raccolte a parte in appositi libri, che a Genova si chiama- vano Libri iurium^ a Venezia Libri pactorum^ a Firenze Libri instrumentorum, a Siena CaUffi; e Cartolari, Memoriali, Isiru- mentari nelle altre città. Erano volumi, dove, per ordine del comune, s'inserivano in copia autentica le paci, le leghe, le sottomissioni, gli acquisti, le accomandigie, le capitolazioni, gli atti giurisdizionali, in una parola i documenti che riguardavano i diritti e i possessi del comune stesso ; e anche le condotte dei ca- pitani, le balie, e provvedimenti in temi e lettere: sicché presenta- vano una reale importanza, come quelli che rispecchiavano la vita del comune, seguendone le vicende politiche, la espansione, l'attività, la decadenza. U Caleffo vecchio di Siena risale addi- rittura al 1202, essendo podestà Bartolomeo di Benaldino. Il prologo è del Benaldino stesso. Egli raccomanda ai suoi suc- cessori di custodire gelosamente i documenti da lui raccolti e di far copiare e registrare tutti gli atti che riguardano il comune, avendoli trovati in sul principio del governo male custoditos et indiscrete detentoi. Perciò, coadiuvato da Bainerio Bernardini, fece copiare quelli che erano rimasti, ne ulterius inde Comune senense dispendium sugtineret. Egli osserva giustamente che per ipsos pacta servantur, promissiones adimplentur; et quod negatur, eis deductis in medium, comprobando redditur, et latens veritas revelatur. Lo stesso podestà vi aggiunse poi una seconda parte per gli affari correnti, e ne nuovamente la ragione, rivol- gendosi alla repubblica : Ut de cetero tuum diependium evitetur, veteribtM in priore parte huit$s voluminis laudabiliter collocatisi hanc secundam et ultimam partem tibi statui prò modernis. Il Caleffo fu poi continuato: anzi troviamo a Siena veri e propri ufficiali deputati sopra lo Caleffo, che percepivano un salario ; e 8i trasmetteva cosi di generazione in generazione; ma, dopo i documenti del secondo libro, esso pei*de quasi subito l'aspetto di registro, che gli aveva dato il Benaldino. È formato dairaccozzo di quaderni di varia forma e dimensione, con documenti originali e copie autentiche, scritti da più mani e in più tempi e rilegati poscia in un sol corpo. A quanto pare, veniva conservato nella sa- cristia di S. Pellegrino. altra forma assumevano i cartulari di altre città. Si vedano per es. quelli di Firenze. Anche qui li tro*

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viamo tra il secolo XIII e il XIV , ma non in gran copia : i più si formano alla fine del quattrocento, dopo che il cancelliere Bartolomeo Scala ebbe riordinato Parchivio, e sono fiitti appunto di quaderni, originali o copie, che prima stavano chiusi in sacchi alla rinfusa. Cosi, senza alcun ordine di tempo o di materia, furono raccolti insieme, a pacchi chiusi tra due assi, e se ne j

fecero dei volumi numerati. Un inventario del 1545 ne conta i

quarantadue, un altro di poco posteriore quarantacinque. i

7. Resta a vedere come stessero le cose nella bassa Ita- lia. Ciò che abbiamo detto fino ad ora non si riferisce ad essa. In generale le città del mezzogiorno si presentano in condizioni affatto speciali, onde lo sviluppo della legislazione si arrestò qui a mezza via, senza oltrepassare lo stadio del diritto consuetu- diaario. Perciò ne discorriamo a parte, trattandosi di un fono- Yneno, che merita di essere studiato.

Nel regno di qua dal Faro, se ne togliamo Benevento, che per essere soggetto alla dominazione, piuttosto mite in quei tempi, della curia romana, potè svolgere ampiamente le sue li- bertà, le altre città, compresse dal ferreo giogo della monarchia, non ebbero agio di affermarsi. Poterono anche per un tempo più o meno lungo respirare liberamente ; ma prima la monarchia normanna, più tardi la sveva, le ebbero presto soffocate. Ciò vale persino di Napoli. Il patto, che un duca Sergio giurò ai Na- poletani, contiene importanti limitazioni al potere del duca, e fa fede della esistenza del comune. Il duca promette, tra le altre, di non consentire che la socieih^ stretta dai nobili, si cor- rompa, e di non introdurre in Napoli e nelle sue pertinenze al- cuna nuova consuetudine, e neppure far guerra o pace, àhsqyit Consilio de quampluribus nobilibus neapolitanis ; e questi nobili agivano senza dubbio in nome di tutto il popolo. Ciò avvenne probabilmente nel 1030. Più tardi incontriamo anche altri privi- legi. Be Buggero, non senza grave stento, s' impadroni della città; e, convocati i cittadini, trattò con essi de lihertaie dvi- tatis et lUHitate. Nel 1190 moriva Guglielmo II, e i Napoletani si dichiaravano per Tancredi contro la curia romana, che aveva riconosciuto Arrigo VI figlio del Barbarossa. Tancredi conce- dette loro di wvere con le proprie consuetudini, e reggersi col consolaio, e che i soli consoli o cittadini napoletani dovessero rendere giustizia. Omettiamo altri privilegi di Tancredi, tanto

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più ohe probabilmente non ebbero lunga durata. Nel tempo della minorità di Federigo II anche altre città avevano alzato la testa e si erano date consoli e podestà ; ma Federigo li cassò tutti. Un ultimo segno di vita libera si trova a Napoli dopo morto Federigo. Un diploma di papa Innocenzo lY permette ai Napoletani di reggersi a municipio e fare statuii, purché non vadano contro l'autorità della Chiesa ; ma ciò nonostante veri e propri statuti non si trovano, a Napoli, in altre città del Napoletano. Napoli non ci presenta che consuetudini, come ne troviamo a Catanzaro, Sorrento, Gaeta, Aversa, Amalfi e Bari. E già durante la dominazione bizantina avevano avuto auto- rità, rivelando, ancora in quei tempi, la grande vitalità giuri- dica e politica del popolo. Indi furono messe in isoritto. Cosi a Bari. Alle consuetudini di questa gemma delle Puglie, che il poeta Guglielmo diceva opihus ditata^ robare plena^ accennano già i documenti tuttora rimastici, fin dall'anno 1012 ; poi quando la città si arrese a Buggero, la prima sua cura fu di presentar- gliene il testo e ottenerne il riconoscimento. Nel 1274 abbia- mo la compilazione delle consuetudini Amalfitane, suggerita dal fatto che la consuetudine non era ben certa, si possedeva alcuna scrittura di essa che potesse dirsi recta et conHmilis. Fu- rono adunque trascelti molti uomini, anche delle terre soggette, i più anziani che si poterono rintracciare, perchè le mettessero in iscritto, giurando che, a loro memoria, erano stat-e sempre osser- vate. Fatta la compilazione, ne fu data lettura, e la città le confermò.

in Sicilia le cose precedettero diversamente. La Sicilia ha una storia tutta sua. Non occupata dai Langobardi, che non avevano flotta, continuò a rimanere soggetta alle vecchie leggi romane e alle nuove pubblicate dai Greci in continuazione alla grande opera giustinianea. Poi vennero gli Arabi ; ma l'uso del diritto nazionale non ne sofferse. Perchè, è bensì vero che quei popoli si regolavano con le proprie leggi, ed avevano anche or- dinato con esse i giudizi civili e criminali ; ma è altresì vero che lasciarono alle popolazioni cristiane, sia la pratica della loro re- ligione e sia quella del rispettivo diritto. i Normanni o gli Svevi lo balzarono di seggio. Dall'altro canto la civiltà non era più quella d'una volta. La crescente influenza del Cristianesimo, la convivenza di genti diverse, i mutati governi e i nuovi or-

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dini sociali, facevano sentire ogni di più come le vecchie leggi male s'adattassero alla nuova società, e convenisse, se non altro, ritoccarle. Le assise normanne e le costituzioni sveve e arago- nesi vi provvidero in parte : il resto fu fatto dalla consuetudine. Ma neppure in Sicilia esistono statuti veri e propri ; ohe anzi le stesse consuetudini non fìirono scritte che in tempi piuttosto avanzati. Ne possiamo ricordare parecchie relative al dotano, alla comunione dei beni tra coniugi, ai privilegi dell'agnazione, ai retratti, alla prescrizione degli immobili, ai duelli, alle com- posizioni, alle testimonianze degli Ebrei e de' Saraceni, che cer* tamente risalgono ai tempi normanni; ma del resto, già Arri- go VI, nei privilegi che concedette a Messina e a Caltagirone, ricorda e conferma i buoni usi e le consuetudini che vi erano state in vigore sino dai tempi di re Buggero. Un altro privilegio di Federigo U fa parola delle consuetudini di Palermo, e accenna a due di esse : che cioè i Palermitani non dovevano essere co- stretti a litigare fuori della città, e che gli ufficiali della curia non potevano procedere contro di essi per modo d'inquisizione generale o speciale o in altra maniera straordinaria, ovvero per denuncia, neppure se si trattava di reati pubblici.

Sicché è indubitato: molte delle consuetudini siciliane ri- salgono veramente ai tempi normanni, ma non vennero ridotte in iscritto che tardi ; e molte sono di età i>osteriore. E special- mente dopo il 1282, quando cessò la lotta tra gli Angioini e gli Aragonesi, che troviamo una lunga serie di consuetudini del- l'isola, tra cui emergono quelle di Messina e di Palermo.

Le prime sono più antiche. Abbiamo una notizia dell' Abbas Siculus (Nicolaus de Tudeschis) nei suoi Consigli n. 64, che ne attribuisce i primi capitoli sulla comunione dei beni ad una co- stituzione di Federigo li; ma questa non è pervenuta sino a noi, e si potrebbe dubitare che abbia mai esistito. Ad ogni modo, è un fenomeno degno di attenzione, che il codice mes- sinese non ha fatto posto se non alle costituzioni più antiche, promulgate già ai tempi dei re normanni; mentre dall'altro canto, appunto Federigo II, sia nelle leggi sia altrove, disap- prova alcune istituzioni che esistevano a Messina e che si tro- vano nel testo delle consuetudini. Forse non parrà troppo ar- rischiato di attribuirne la prima redazione agli ultimi anni della dominazione normanna o ai primi di quella dello Svevo. Al-

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cani oapitoli però appartengono certamente a tempi posteriori ^ per es. quelli che rignardano il processo sommario, che la le- gislazione pontificia, vera fonte di questa maniera processo, non aveva ancora del tutto ultimato. Lo sviluppo dommA- tico, che precedette la Clementina Saepe, appartiene al tempo delle decretali d' Innocenzo lY ; e cosi non è possibile che essi sieno anteriori alla seconda metà del secolo XIII. D'altronde già con Tanno 1293 cominciano le aggiunte che modificano o completano l'antico diritto (ce. 53, 54), e altre sono di data pò* steriore.

Quando siano state compilate le consuetudini di Palermo non si sa. Il proemio non porta data: dice soltanto, che la città ave* va vissuto a lungo, anzi fin da lunghissimo tempo, con le sue consuetudini approvate; quando, ad assicurarne la memoria e ad impedire che si alterassero, o se ne dubitasse, si pensò a scri- verle in un quaderno con la scorta di carte, libri e note che ne avevano conservato il tenore. Nondimeno, a giudicare da talune disposizioni, parrebbe che la redazione ne appartenesse a tempi piuttosto avanzati: sia perchè certi capitoli eono tratti dalle costituzioni di Federigo II; sia perchè vi si distingue il do- minio diretto dall'utile, teoria questa, che, pur risalendo ai primi tempi della glossa, non si compi che con quella d'Accursio, verso la metà del dugenl/O ; sia perchè il processo sommario non solo vi è conosciuto, ma vi è svolto più o meno nei suoi par^ ticolari, il che, infine, ci riconduce ai medesimi tempi. Si Ag- giunga, che un documento dell'anno 1275 ricorda una di queste consuetudini quasi alla lettera; ma ad ogni modo non possono essere posteriori al 1320, perchè una delle aggiunte, che et ri- chiama espressamente al testo delle consuetudini, è appunto di quell'anno.

8. In generale si tratta di regole di diritto privato, pe- nale e giudiziario; ma più di quello che di questi, e potrebbe metter conto di cogliere lo spirito, che le animava, e gli eie- menti, che hanno conferito alla loro formazione.

Specie nel continente, esse segnano il momento di tranii* zione dalle ineguaglianze del diritto langobardo e feudale alla equità del diritto romano. Infatti, per ricordare qualche esem- pio, la dote trova posto accanto al morgincap e al me fio: e queste medesime istituzioni, tutte langobarde, vanno soggette a limita*

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zioni, ohe non possono trovare spiegazione se non nella inflaenza romana, se pure non ne riescono affatto trasformate. Le limita- zioni occorrono nelle consuetudini di Napoli e di Bari; mentre in Gkieta il morgincap, o, come anche dioevasi, il ius quariae, ha già ceduto davanti ad una nuova costumanza de sexta dotiwm lucranda per coniugem supergtitem. E cosi a Gravina, Aversa e Altamura; salvo che in queste città è la tertia del diritto franco che si è affermata, mentre una consuetudine di Alta- mura ammetteva persino che le doti si regolassero per metà secondo le leggi langobarde e per metà secondo quelle dei Franchi. il mundio della donna conserva più lo stesso ca- rattere; perchè staccatosi dal diritto di famiglia, diventa quasi un oggetto indipendente del commercio patrimoniale. Simil- mente, le consuetudini d'Amalfi ammettono il principio della comunione del patrimonio domestico, e nel tempo stesso ac- cordano al padre la piena facoltà di testare. A Napoli si di- stingue la successione patema dalla materna; e mentre quella va attribuita ai soli figli e discendenti maschi, questa cede an- che alle femmine, giusta le idee romane. A Gaeta, e anche altrove, è ammesso il principio che qualunque offesa recata, sia alla persona e sia ai beni, possa venire composta; e d'altra parte, ■e i privati non riuscivano a mettersi d'accordo, la corte con- dannava il reo alla pena corporale o pecuniaria portata dalla l^ggo* La frequenza dei rapporti giuridici e la fusione che si era venuta operando negli interessi, avevano un po' alla volta avvicinato i popoli e prodotto un certo amalgama dei loro di- ritti, tanto più che uomini di nazione diversa erano spesso, e a lungo, vissuti nel medesimo territorio, ciascuno con la propria l^ggo- Cosi, non & meraviglia che, anche in queste parti, sul tronco romano venisse innestandosi qualche germoglio lango- bardo e viceversa; e le due leggi si fondessero insieme nella unità di un diritto nuovo.

Livece, sono particolarmente importanti le consuetudini si- ciliane per taluni istituti di diritto greco penetrati nell'isola con l'Ecloga isaurica e con altre fonti bizantine o anche ool diritto volgare romano, specie nei riguardi dei beni; ma non mancano neppure le influenze langobarde e franche.

La icpoTf|ii7at3, cioè il diritto di prelazione e di retratto in- sieme, che spettava ai parenti» ai consorti, ai vicini nel caso

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della vendita di un fondo, ricorda certamente talune antiche pratiche germaniche e anche antiche istituzionr imperiali, rin- novate da una novella di Bomano Laoapeno dell'anno 922 con speciale riguardo all'ordinamento tributario ; ma esse forse non avrebbero attecchito se la vita, alla sua volta, non si fosse af- fermata energicamente in quel senso, anche in opposizione alla legge. Cosi, è vero, i proximi consartesque, avevano ot- tenuto da Costantino il permesso ut exiraneos ab emUone remo^ vereni; ma già Yalentiniano e Teodosio vollero abrogata quella legge, parendo loro un fatto addirittura enorme che gli uomini potessero essere costretti a disporre delle cose proprie contro la loro volontà. Piuttosto fanno al caso altre costituzioni poste- riori, da Onorio e Teodosio fino a Giustiniano, passate poi nei Basilici, intorno alle metrocomie, o comunità di liberi contadini, in cui è detto che nessuno, tranne i cànvicani, poteva posse- dervi terre, mentre poi le terre inutili dovevano essere aggre- gate alle fertili in proporzione della loro estensione ; ma si trat- tava di cosa tutt'altro che generale. D'altra parte s'imponeva r interesse e l' idea d' impedire che qualche persona, non diremo nemica, ma non accetta, introducendosi nelle comunioni dome- stiche e «n viscera vicinarutn, potesse comecchessia rompere il buon accordo del consorzio o del vicinato; e ciò che non ave- vano potuto le leggi, fu da ultimo possibile alla consuetudi- ne. Pensiamo anzi che la materia sia stata disciplinata prima contrattualmente, anche tra proximi eansoriesque nonostante il di- vieto di Yalentiniano e Teodosio; ma i naturale che, ripeten- dosene gli atti e diventando sempre più frequenti, se ne do- vesse formare poi una specie di diritto consuetudinario, tanto è vero che fino dal secolo IX s' incontrano clausole, con cui l'alie- nante assume l'obbligo di difendere l'alienazione ab wnnibus con» finalibui et sorUfieibus. A compier l'opera venne la novella di Bomano Lacapeno, che certamente penetrò nei territori italiani dipendenti da Bizanzio insieme con altre leggi. Essa doveva trovare appunto in quelle consuetudini una esistenza più sicura 6 rigogliosa che non se avesse continuato ad appoggiarsi al vec- chio ordinamento tributario; e certo ne poteva fare a meno« tanto è vero che Federigo II, pur riproducendola quasi alla let- tera, la distaccò da esso, presentandola con carattere affatto in- dipendente. Ohe se qualche consuetudine in alcuni punti se ne

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allontana, d'altra parte si Hanno chiare tracce del suo uso, sia nel- robbligo fatto all'alienante di notificare giudiziariamente l'alie- nazione al protomissario insieme con l'indicazione del prezzo, e sia nei termine in cui questi avrebbe dovuto esercitare il suo diritto. Gli stesBi contemporanei non hanno esitato di chia- mare questa consuetudine a grctecorum prudeniia derivctta.

E così dicasi della importanza della scrittura per la perfezione degli atti giuridici. Già rilevammo che essa si riannoda al di- ritto volgare romano ; ma anche l' Ecloga vi si era uniformata a proposito delle donazioni, che, per essere valide, avrebbero do- vuto appunto redigersi in isoritto e sottoscriversi da cinque o tre testimoni secondo i luoghi. E ne continuò la pratica fa- cendo anche qualche passo innanzi ! Il testo antico delle consue- tudini di Messina e quelle di Palermo, per tacere di altre deri- vate, dichiarano addirittura invalidi tutti i contratti, che man- cassero della sottoscrizione dei testimoni.

Parimente Tuso, già invalso nel diritto volgare romano, di confondere insieme la pena convenzionale e la multa e fame una cosa sola, che si trova da prima nella Epanagoge, si ripro- duce nei documenti del tempo.

Altrove abbiamo accennato all' tpo&o7o e al teoretro,

Ja ipoboh era una specie di donazione propter nuptifis^ che formava come un aumento della dote; e già l' Ecloga lo aveva presentato col nome di incremento dotale, che, secondo la pra- tica^ avrebbe dovuto costituirsi in dote, formando cosi, insieme ad essa, un^ unica sostanza di proprietà della donna. In questi tempi lo ritroviamo nuovamente nelle consuetudini di Palermo come un istituto speciale dei matrimoni alla greca. E non ivi soltanto. Per es, le consuetudini di Siracusa dispongono che, sciogliendosi il matrimonio per morte della donna e non essen- dovi figli, il marito superstite dovesse lucrare un quarto della dottìj compreso Paumento, propter onera matrimanii, e anche que- sta è una disposizione che trova il suo riscontro nell'Ecloga; ma del resto un simile diritto era consentito anche alla moglie usque ad quartam partem doialis pecuniae praeter dotem. Era proprio il nàao^ àTZTMoc^ ddVlElcìogBi. Però Ttpoftoto, che prima erasi riferito ad una quota proporzionale della dote, non significava oggimai che un dono accessorio.

Viceversa il teoreiroy questa specie di pretium mrginitatìs, che

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rioorre da prima in una novella di Costantino Porfirogenito, ha finito col diventare la vera donazione, se pure non si è fuso con V ipobolo, non altrimenti che era accaduto altrove con la doruUio propter nupiiaa, la meta e il morgincap. Ed oltre a ciò ha cambiato carattere. Anch'esso, al pari delV ipóbolo, era consistito in una quota proporzionale della dote : la metà, o il quinto o il decimo, e tale si presenta ancora in alcune consuetudini della Sicilia per es. in quelle di Catania e nelle derivate di Castiglione e Linguagrossa ; senonchè, cedendo evidentemente alla influenza langobardo-franoa, finisce poi col venire commisurato sui beni del marito. E dopo tutto la cosa non può recare meraviglia; perchè in seguito alla conquista normanna, i Q^rmanici hanno esercitato la maggiore influenza sulla proprietà anche in Sicilia, e quegli istituti bizantini vi si erano adattati. Invece altr hanno resistito più a lungo.

Discorrendo dell' Ecloga abbiamo osservato, ch'essa assimilava completamente la madre al padre nei riguardi del diritto dome- stico : una novella posteriore parla senza più di una |ii7tp(xi^ iSoiK7{a; e ciò trova perfettamente riscontro in alcune carte sicule degli anni 1177 e 1223 e nelle consuetudini. Bicordiamo per es. la tradizione della figlia a marito : tanto le consuetudini di Pa- lermo quanto quelle di Messina s' indirizzano ai parentes in ge- nere o più specificatamente al pater e alla mater^ come fosse un diritto d' entrambi ; e quelle di Messina vi accennano del pari A proposito della emancipazione dei figli.

La stessa patria potestà è intesa, più che altro, come una specie di tutela dei figli minori di età, appunto come l'aveva concepita l'Ecloga: onde non ci stupisce di vedere i figli con sentire alle alienazioni; e trattandosi di immobili loro propri, di trovare anche applicate le regole che il diritto romano aveva stabilito per i pupilli sotto tutela, come dispongono le consue- tudini di Palermo. E le stesse considerazioni ci suggerisce Teman* cipazione. Contrariamente al diritto romano, che non ammet- teva emancipazioni tacite, le consuetudini di Palermo stabili- scono che non tosto un figlio aveva contratto matrimonio, si dovesse avere per emancipato o liberato dalla patria potestà, non altrimenti delle consuetudini di Catania e di quelle deri- vate da esse, salvo a richiedere una certa età nel figlio. Ma già una novella di Leone il Savio aveva stabilito press' a poco

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lo stesso ; e questa a sua volta s' inspirava probabilmente ad usi preesistenti. Le consuetudini di Noto e Caltagirone volevano eziandio che l'usofirutto sui beni avventizi dei figli cessasse per ambedue i genitori appena fossero passati a nuove nozze, e il pensiero ricorre al disposto dell' Ecloga, che riconosceva pure il diritto ai figli maggiori di età di reclamare i beni patemi dalla madre e i materni dal padre, quando l'uno o l'altro avesse contratto un nuovo matrimonio. Le consuetudini mes- sinesi, poi, ammettevano che potessero farlo anche indipenden- temente da quella circostanza, quante volte non volessero più rimanere in fiEuniglia. Ni quelle di Catania disponevano diver- samente. A Messina e a Catania i figli maschi dopo diciotto anni, le figlie dopo quattordici, potevano anche disporre per testamento dei beni pervenuti ad essi dalla successione materna, se non altro fino alla meta, non obgtante cantradictione patema; ma già si^piamo che l' Ecloga aveva concesso loro questo medesimo di- ritto, sebbene fossero ancora soggetti alla patria podestà (&nef c&- oia), persino nei casi esclusi dal diritto giustinianeo.

Medesimamente le consuetudini siculo si uniformano al- l'Ecloga nei riguardi della tutela. La differenza, tutta romana, della impubertà e della età minore e della tutela e cura era og- gimai tramontata da un pezzo; ma insieme si trova sviluppata anche più l' idea propria dei Romani che la tutela fosse un munus publicum a vantaggio e nell'interesse della persona soggetta» Le consuetudini escludono persino che i tutori legittimi e te- stamentari potessero assumerla senza Tautorizzazione della Curia ; ma anche qui l' Ecloga ha probabilmente appianata la via, vo- lendo che, in manoanza di tutori designati dai genitori, la si affidasse ad istituti religiosi.

La medesima Ecloga, parlando della successione ereditaria^ si era scostata dal diritto giustinianeo, dando la preferenza ai ge- nitori in luogo di chiamarli insieme coi fratelli del defunto; ed ò per lo meno probabile eh' essa abbia inspirato alcune consue- tudini siculo, per es. quelle di Messina e di Castiglione. Lo stesso dicasi della successione legale delle chiese, che, ordinata da prima nelle novelle di Leone il Savio e di Costantino For- firogenito, è poscia passata di peso nelle assise normanne. Le con- suetudini di Palermo contengono pure qualcosa di simile, ma li- mitatamente al caso che non ci fossero eredi a cui la eredità

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potesse venir deferita, oppure ohe non si presentassero: data questa ipotesii si doveva dividerla in due parti uguali, e una oedeva al fisoo, l'altra veniva erogata prò amma defuneti.

Cosi operavano le istituzioni greoo-romane, e già nei primi capitoli di questa opera avevamo accennato che avrebbero por- tato la loro pietra alla formazione della nostra storia del diritto : ora ci i piaciuto di dimostrarlo entrando in qualche particolare. Del resto, non possiamo a meno di avvertire che anche altrove, fuori dell'Italia bizantina, non escluse le regioni maggiormente sog- gette alla influenza langobarda, la vita giuridica si è svolta spesso a quel modo, e lo vedremo quanto prima, parlando del contenuto degli statuti dell' Italia settentrionale e mediana. Ma non ne vorremo fare le meraviglie. La vita economica non era gran fatto diversa ; e il diritto romano, officiale e volgare, costituiva pure il fondo comune anche nelle provincie che più subirono il contatto barbarico: cosi esso, bene o male si è fatto largo, dove temperando e modificando, dove anche sopprimendo e sq- stituendovisi ; ad ogni modo imprimendo dappertutto al diritto il proprio carattere die lo distinguesse da quello di altre nazioni.

b. Oompilailonev pubbliomzlone e forma degli statuti.

1. ^ Generalmente parlando, la compilazione o correzione dello statuto era opera degli statutarìf o emendatori, o riforma- tori, o correttori delle leggi, che vogliano dirsi. Di rado era affidata ad un solo: d'ordinario se ne affidava l' incarico ad una commissione o giunta di tre o quattro membri, e anche più ; e, nello sceglierla, si aveva riguardo, sia alle divisioni locali della città, sia alle classi sociali, che se ne disputavano il dominio. Qualche statuto vuole espressamente che i quartieri o terzieri sieno tutti rappresentati. prima si conobbe altra rappresen- tanza: in processo di tempo s'incontra quella delle classi. I nobili e popolani erano venuti a contesa tra loro; e fu allora ohe gli uni e gli altri vollero avervi voce : anzi la rappresen- tanza mirò a stabilirsi in proporzioni sempre più uguali, tanti de nobilibuB e tanti de popolo; ma si provvide eziandio perchè non mancasse un sufficiente numero di giudici o dottori di legge e notari, e in qualche luogo v'intervenivano anche i

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gastaldiones delle oorporazioni delle arti. La elezione stessa poteva farsi sia direttamente sia per gradi. In molte città gli statutari ripetevano il loro potere addirittura dal popolo o dal consiglio generale o dalla credenza ; ma in altre parti la ele- zione era a doppio grado. A Siena si avevano appunto tre elettori degli emendatori; dovevano sceglierne tredici de terceriis dvi- tatis .... prò cansHttUis et brevibus emendandis. Uno però do- veva essere giudice e i consoli delle due mercanzie ne feu^evano parte d'ufficio. Parimente leggiamo nello statuto d'Ivrea, che gli statutari dovevano scegliersi per brevi : colui che riceveva il breve, non lo teneva per sé, ma lo dava ad altra persona del suo terziere che reputava più idonea.

Il compito degli statutari è chiaramente definito dai docu- menti del tempo. In generale, avevano la maRaima libertà di chia- rire e interpretare, sopprimere e aggiungere» correggere e modi- ficare, come meglio credessero in buona fede. Soltanto c'erano alcuni capitoli, detti perpetui^ precisi o tronchi^ che bisognava rispettare. Un breve senese lo dice in generale : salvis capiiulis perpetuis; e lo statuto di Verona ne indica alcuni: quelli ohe provvedevano alla sicurezza delle vendite, alienazioni, promesse, obbligazioni e convenzioni fatte dal comune intomo alle proprie terre, o al pagamento dei debiti, o al risarcimento dei militi per le perdite sofferte in servizio del comune. Queste erano leggi che non potevano mutarsi, neppure parabola consilii. Un altro capitolo perpetuo di uno statuto pistoiese dell'anno 1288 stabi- lisce, che chiunque abbia una parte di qualche torre, non debba perderla per nessuna prescrizione di tempo, se anche non ne usi. Altri esempi possono vedersi negli statuti di Pisa, Brescia, Vercelli, Novara, tutti del secolo XIII.

Gli statutari giuravano corporalmente sul vangelo di £ure e riformare gli statuti come meglio sapessero, e tener segrete le riforme, finche non fossero pubblicate, e non ricevere nulla da chicchessia, tranne che dal comune per le spese. In pari tempo si faceva bando, perchò ognuno della città o del contado, che avesse qualcosa da suggerire, mandasse le sue osservazioni scritte agli statutari. I quali dovevano sbrigarsi alle leste: fra otto o quindici giorni; e molte volte lo statuto stesso prefiggeva il termine. In questo frattempo stavano chiusi in una casa, e non potevano comunicare con alcuno, uscirne, se non a lavoro

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compiuto. Era una specie di conclave, che si trova ricordato in molti statati. Quello di Parma stabiliva, per magPor cautela, che le chiavi della stanza dovessero tenersi da due frati della penitenza. Ma qua e esistevano anche delle commissioni per- manenti. I Tredici emendatori del Coitituto e dei Brevi di Siena, scelti per terzieri, che abbiamo ricordato dianzi, erano appunto uno speciale ufficio annuo, con l'incarico di riportare nel costituto e nei brevi le riforme deliberate dai consigli, e anche proporne di propria iniziativa o ad istanza dei privati, come credessero meglio ad camunem etatum et utilitatem et ho- norem cifritati8. A tal uopo si radunavano ogni anno, sotto la presidenza di un priore, in sessione che non doveva oltrepas- sare gli otto giorni: terminata che fosse, ne riferivano al con- siglio della campana, che accettava o respingeva la proposta. Con lo stesso nome e con le stesse attribuzioni si trovano an- che a Genova fin dal secolo XTL

Altrimenti la redazione o correzione era affidata ad un illu- stre giureconsulto; e già nel secolo XIII se ne trova qualche esempio. Lo statuto di Genova del 1229 fu corretto appunto da Jacopo di Baldovino, che però era podestà di quell'anno. In seguito gli esempi diventano frequenti. La seconda compila- zione fiorentina del 1353 fu curata da Tommaso da Gubbio e Lappo da Prato; e cosi l'altra del 1415 da Paolo da Castro e dal Yulpio. Paolo da Castro riformò anche gli statuti di Lucca insieme a Giovanni da Imola. Talvolta se ne dette l'incarico a qualche frate. Fra Giovanni da Schio, fortunato paciere, ri- formò quelli di Verona, Vicenza e Bologna.

Del resto, l'opera dei redattori o riformatori non era ancora leggo* Fornito il lavoro, essi lo presentavano al consiglio, o anche al popolo, e tutti gli statuti, a cui qualche cosa fosse stata aggiunta o tolta, dovevano essere esaminati e approvati. Ciò risulta dagli statuti stessi ed è confermato dai giureconsulti. Baniero da Forlì se n' è occupato con sufficiente ampiezza, e rife- risce che a volte si riuniva il consiglio, e a volte il popolo, nella curia 0 in altro luogo, dove erano soliti a radunarsi, sotto la direzione del podestà, e che almeno due parti dovevano essere presenti. Era assolutamente necessario che ci fossero, e biso- gnava verificarlo. Poi si deliberava sul luogo, sia in massima, cioè in modo affatto generico, sia sopra proposte concrete e

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determinate, e non si poteva votare separatamentei rimanen- do a casa^ ammenocliè non si fetcesse constare da pubblico istromento. Si aveva per deliberato ciò che piaceva alla mag- gioranza, salvo per gli statati contrari alla legge, ai quali oc- correva la totalità del popolo. Del resto non era necessario che il consenso fosse manifestato a parole : bastava lo fosse con se- gni, per es. per alzata e seduta, o col cenno del capo, o anche per busuUu et héUotas.

2. In mezzo a tutto ciò alcune città hanno preso addi- rittura lo statuto, 0 almeno qualche legge, da altre. E furono cause di vario genere, che determinarono cotesto fenomeno: cause geografiche e politiche, talvolta anche la libera volontà degli accomunati. Ma, pur accettando lo statuto, vi s' introdu- cevano delle modificazioni; e, pur adottandolo tal quale, diffi- cilmente sarà stato applicato in tutte le sue parti. Le resistenze degli usi locali erano a volta troppo forti per chinarsi senza più davanti alla legge d' importazione ; per non dire dei mutamenti dovuti alle nuove idee e alle nuove necessità politiche.

È un fenomeno che s' incontra specialmente nella bassa Ita- lia. In Sicilia le città, che abbiano consuetudini originali, sono poche: Messina, Catania, Palermo; gli altri comuni si sono più o meno modellati su quei tre. Messina ha dato le leggi a Tra- pani, Girgenti, Patti, Lipari ed altre città : anzi non tosto Mes- sina faceva qualche ordinamento, e Trapani si dava premura di adottarlo. Medesimamente troviamo le consuetudini di Catania in laci. Paterno, Motta, Adernò, Bandazzo e altre terre li presso. Quelle di Palermo s' incontrano a Corleone. Nel regno di qua dal Faro erano molto diffuse le consuetudini di Bari. Avevano vigore in Nola, Turi, Eutigliano, Capurso, Mola, Castellana, Valenzano, Casamassima e Conversano.

Comunque, molti comuni attinsero a larga mano agli statuti di altri. Ciò accadde principalmente con le città soggette, che si modellarono più o meno sulle leggi della dominante ; ma può riscontrarsi anche altrove. Per es., correndo l'anno 1296, Pi- stoia dette a Firenze la piena e libera autorità, licenza e balìa di dirigere e rifarmare la città e il popolo, e nel medesimo anno alcuni giudici mandati dai Fiorentini corressero lo statuto. Il quale, manco a dirlo, riuscì foggiato su quello di Firenze. An- che gli statuti del Trentino presero molto da Trento, come

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quelli dei domini veneti da Venezia, lo statato di Monza da Milano e quello di Corsica da Genova. Una parte delle consue- tudini di Sorrento è tolta di peso da quelle di Napoli. Altr^ somiglianze s'incontrano fra gli statuti di Brescia, Lodi, Crema^ Lonato : ma ci sono anche altre città i cui statuti si somigliano, a segno che non sarebbe difScile, con uno studio un po' paziente^ di raggrupparli in determinate famiglie.

Altrove si tratta di singole leggi. E a questo proposito amiamo di ricordare le vicende degli OrdinametUa sacrata et aor craUsaima di Bologna, che certo hanno influito su quelli di Pi* stoia, come questi alla lor volta su quelli di Firenze, e da Firenze sono passati a Boma. Una legge anche più particolare è quella sui debitori fuggitivi, che i Piacentini nel 1347 domandarono a Milano.

3. Speciali regole provvedevano alla pubblicazione dello statuto, e gioverà ricordarle. In generale, se ne dava lettura al popolo, e anche Io si esponeva in volgare. Ciò si rileva per es» dallo statuto di Concordia del 1369; mentre singole leggi ve- nivano pubblicate col mezzo di banditori, donde è venuto ad esse il nome di bandi e gride, che peraltro suole adoperarsi an- che in senso più lato. Inoltre si soleva rileggerlo di tratto in tratto, sia nel consiglio sia nel parlamento, per tenerne viva la memoria. Lo statuto di Nizza stabilisce ciò in modo generale; e anche ordina che i capitoli sulla giustizia debbano leggersi una volta all'anno in parlamento, gli altri ogni tre mesi in con- siglio. Parimente a Cecina se ne dava lettura almeno una volta all'anno in parlamento, a Cereda ogni tre mesi in picinia et conciane, e a Pertova per ben sei volte all'anno nel consiglio. Generale era l'uso di tenerne esposto un esemplare assicurato ad una catenella, nel palazzo del comune, o anche in qualche chiesa, perchè tutti potessero prenderne cognizione. Lo statuto di Novara del 1281 dispone espressamente che una copia do- vesse porsi in palatio super latherigo cum una catena. U libro degli statuti di Nizza della Paglia era chiamato addirittura il libro della catena di ferro, perchè portava annessa al fodero una catena, che serviva a tenerlo fisso al muro; e ancora quello d'Asti, stampato nel 1534, termina con le parole : Explicit liber statutorum cicitatis Ast. ligatorum in volumine cathenato comfnw^ nitatis Ast,, qui tenetur in pubblico in palatio dominorum praer

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torum civitaiis AH. una cum decreUè dominiccUibus eie. Speciali decreti si scolpivano nel marmo. Quello della comunità di Nepi dell'anno 1131 relativo alla società dei militi, che citammo dianzi, sta appunto scolpito in marmo nella chiesa di Sant'Elia; e anche esistono tuttora due lapidi nel palazzo municipale di Orvieto, una del 1209, l'altra del 1220, contenenti ordini sta- tutari.

4. Non sarà inutile l'osservare che tutti questi statuti sono scritti in latino, e in molti luoghi continuano ooA fino all'ultimo: ma si conoscono anche redazioni e traduzioni in volgare e persino in dialetto. Lo statuto di Sassari è appunto in dia- letto sardo; quello di Venezia fìi tradotto in dialetto veneto. Lo statuto di Trento del 1363 esisteva scritto in latino, quando fu tradotto in tedesco da un famtUus Langebach per uso di En- rico Stang, capitano di Castelnuovo, che ne aveva bisogno pel suo ufficio.

5. Aggiungiamo, che la redazione di queste leggi non è scevra da vizi; e soprattutto il modo, con cui rivestono il con- cetto legblativo, è imperfetto. Ad eccezione degli statuti di Venezia, gli altri, più che generalizzare nelle idee, amano di addentrarsi nelle specie dei casi e sminuzzarsi nei particolari: piuttosto che comandare seccamente, usano di spiegare, e qua e concedono troppo al prudente arbitrio del giudice. Si di- rebbe quasi che rappresentino una società casalinga, anisiohò una società regolata da interessi generali e dalla forza. la firase è sempre pura, semplice, esatta: anzi la purezza e la semplicità cedono troppo spesso il posto ad uno stile gonfio e ampolloso, ridondante di soverchie parole, misto a barbarismi e scorrezioni, specialmente a forme dialettali ; e qua e ci sono anche inutili ripetizioni. Questi vizi s'incontrano già negli antichi statuti, e continuano, e forse aumentano nelle riforme più recenti. Tra le mani dei giureconsulti la redazione diventa addirittura ora- toria e dottrinale. Citiamo a caso lo statuto di Piacenza del 1336. Vi si legge in un luogo : Quoniam de jure naturali est ui pa- trie pareamus, qua languente, necesse est penates omnes condolere, cui quilibet ut prosit nascitur, adeo ut non sint lugendi de jure si moriantur contra patriam venientes, toto nixu insistimus statuHs prosegui excidium videlicet patrie affectantes (V, 94). Altrove troviamo il sallustiano : concordia res parvae crescunt et discordia

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mcudmae dilabuntur (I, 34). Le oompilazioni più antiche sono anche disordinate; e il modo stesso, con coi erano venute for- mandosi, doveva renderle tali; perchè le provvisioni prese dai consigli vi si solevano inserire di mano in mano che venivano adottate, ed era mestieri il farlo per mantenerne l'osservanza. Questo però è un difetto, che scompare quanto più la materia si va facendo ricca. Era la vita, che, progredendo, si allargava e aggrovigliava e intralciava: non deve recar meraviglia che la formula legislativa seguisse da vicino cotesto movimento, e in- sieme si cercasse di sceverare e distribuire meglio le leggi. Cre- scendo il materiale, un ordine si è reso sempre più necessario, e vi si provvide verso la metà del secolo Xm. Gli antichi statuti di Verona, di Trento, di Nizza, di Vercelli, di Torino, di Moncalieri, di Como, di Osimo, non presentano alcuna divisione tranne che per capi ; ma lo statuto di Bologna del 1250, quello di Viterbo del 1261, quello di Vicenza del 1264, e altri poste- riori, sono divisi in libri, o, come anche dicevasi, in collazioni 0 trattati, o in libri e trattati insieme, salvo che il numero dei libri era diverso : tre, quattro, cinque e anche più. Per es. Roma ne aveva tre, Pistoia tre e poi quattro e cinque, Parma, Vicenza, Viterbo quattro, Verona cinque, Bologna sei, Ferrara dodici, Bergamo quindici, Asti venti.

e. -^ Fonti e contenuto degli statuti. *•

1. Un quesito importante, che vorrebbe essere trattato con una certa ampiezza, concerne le fonti, a cui gli statuti at- tingono; ma costretti, come siamo, entro i confini che ci sono consentiti dall'indole di questo lavoro, non possiamo che sfio- rarlo. In generale sono influenze romane e canoniche, barbariche e feudali che si disputano il campo, con prevalenza diversa secon- do i tempi, i luoghi e gli istituti.

** Bibliografia. Vahucobi, Saggio di o$9erwmioni intormo alla giuri§pru' denaa romana ed all*oriainé degli $tatuli é léggi municipali. Firenie, 1804. Bo* BOTBB. Diittrtation on Uìù ttaiuUè^ of the eitiee o/lUU« {in <M middle agu\ Lon- don, 1888. 8«^aliamo anche airatteniione del lettore alcuni stadi sugli statuti di Taiie città italiane: Qioliottx, DimérUmoni $ulla Ugitlan. lutthité (Memorie di Luooa, 111, 2, 1817). BAumi, Relazione eopra vn eod, inedito di legai municipali 9uane^ letta alla re^ Aooad« di Berlino nel 1837, fu riprodotta dal Bonaini negli Appunli per eer^tre ad una bibliografia degli iUUuli iUUiimi, Pisa, 1851, ▼. Pisa. Bapp, Ueber dae vaterlàndieche StatuUntoeeen (* Tiroler Zeitsohr..,

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Anzitutto bisognerebbe distinguere i tempi. Nelle prime com- pilazioni l'elemento germanico ha tuttavia una larga parte; ma poi si verificò col diritto quel medesimo fenomeno ohe con la costitu- zione fisica e con la lingua: la infixienza germanica si ritirò a poco a poco, e quella latina riprese il predominio su di essai fino

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a cancellarne quasi qualunque traccia. Vedremo, che già sullo scorcio del secolo XIII i luoghi dubbi degli statuti si riducevano volentieri al diritto comune; e più tardi, quando i giureconsulti misero mano alla compilasione degli statuti, le importazioni romane non ebbero più ritegno.

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Ma anche i luoghi fanno differenza. In alcuni l'elemento etnico germanico prevaleva, mentre in altri prevaleva quello latino : parrà naturale che anche il diritto si conformasse a tale preponderanza ; e che le leggi riuscissero improntate, dove di un carattere più schiettamente germanico, dove di un carattere più schiettamente latino.

Infine, alcuni istituti paiono propendere piuttosto per l' uno ohe per l'altro.

Ma tutto ciò apparirà più chiaro, ove si considerino un po' da vicino i principi legislativi contenuti negli statuti, sia nei riguardi del diritto pubblico interno, sia in quelli del diritto civile e penale, della procedura e delle materie di polizia, ohe in fondo sono le parti ben distinte delle quali, più o meno, si occupano tutti.

2. I provvedimenti di diritto pubblico intemo regolavano gli uffici e le funzioni dei magistrati e dei consigli; determi- navano i doveri dei cittadini verso il comune, e anche le rela- EÌoni del comune con la Chiesa. Gli statuti rispecchiano, per

eùmufhR di Savona (■* Bìvìata italiana per le soiense gioridiohe X, 1890). Salve- wiNif Brcf9e et OrdinamerUa populi Putorii anni 1284 e SUMitUum poUttalii co- munii Pittorii anni 1296 (nell* ** Aroh. stor. ita!. sene Y, tomo XI, 1898). Lo STESSO, Il coatiiuto Mtiete del 1262, Firense, 1896 (nelP '^Aroh. stor. iuLn serie V, tomo XXI). Lo STESSO, Le eonnUte della repubblica fiorentina del eeeolo XIII (uelP*Arch. stor. ital.» XXIII, 1,1899). Ci^rstta^ Sugli etatuti di Bene Vagien- na {niBgìi *" Atti della regia Accad. di Torino, Glasse di soienxe moraU XXVIII, 9; 1892-98). Malaouzzi Valeri J., La co»titumione e gli statuti deWappennino mo- denete dal secolo Vili eU XVI, Bocoa San Oasoìano, 1894 (nell^opera '"L^Apjìen- nino modenese^). Scalvanti, Considerazioni sul primo libro degli statuti jperu- gif%i, parte I, Perugia, 1895 (nel "^ Bollettino defla società nmbra di stona i>a- triai,, anno I, fase. II, n. 2). Lo stesso. Lo statuto di Todi del 1275, Perugia, 1897. BoLOGHun, Uuniversith di Verona e gli statuti del secolo XIII (*" Miscella- nea Biadego« 1896). Hegel K.,^tn italienisches Stadtrecht des Mittelalters {neìÌB. *" Histor. Zeitschr. nuova serie XLEY, L 1887). Aedbich, Le fonti romane del Hòer i:onsuetudinum Mtdiolani, Padova, 1897 (negli "■ Atti deir Accad. di Padova ^ XI TI, 2u Valentiki, Qli statuti di Brescia dei secoli XII al XV illustrati (nel ■"Nuii^o Arch. veneto Vili, 29 e 80, 1886). Mohdolvo, UulHma parU del CoMùiUto senese del 1262 ricostruito dalla riforma successiva (nel '^ BuUett. se- nese di storia patria Y, 2, 1896). Bossi G^ Oli statuti di Sondno (negli ** Atti del circolo di studi cremonesi LE, I, 1899). Oastbllavi, Oli statuti di Fano, Nota, Venezia, 1900. Simomelli, Intorno agli sttUuti del comune di Montepulciano nei secolo XIV (nel '* Bullettino senese di storia patria anno VI, fase 8 e ftuno VII, fase. 8, 1900). Biscabo, Il comune di Treviso e i suoi più antichi sta- tuii Jtno al 1218 nel "Nuovo Arch. veneto nuova serie, II, 3, 1901). Biesoli, Contributo aUa storia del diritto statutario nel Trentino, Feltro, 1901. Von Yolteliki, Vie aUesten Statnten von Trient u. ihre Ueberlieferung, Wien, 1902 (nell' " Ar- ebiv t oesterr. Qeschichten XCII, 1, HàlfteV. Zibolia, Estentione territoriale degli statuti del comune di Sassari, Sassari, 1902 (negli ** Studi sassaresi, anno U, sex. I, £aBC. I). Lo stesso. Intorno agli statuti dei comuni ligwri net medio entì, Sassari, 1902. Maezi, Lo statuto di Bergamo del 1263, Bergamo, 1902. Secco. SuARtio, La covipilazione dello statuto di Bergamo nella seconda metà del sec, XIII ed il dott. A, Mazzi. Appunti, Bergamo, 1908.

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questo riguardo, il movimento costituzionale della città: è tutta una storia politica, che ci si svolge dinanzi nei suoi più minuti particolari, cominciando dal governo consolare col suo consiglio di credenza e col parlamento, e venendo giù giù al governo del podestà e a quello delle corporazioni, per terminare con la si- gnoria di alcune famiglie, che, in mezzo al battagliare delle fazioni, alla testa dell'una o dell'altra, avevano conseguito la vittoria. E un grande movimento, in cui V idea romana ha cer- tamente avuto una larga parte. Perchè, se la volontà pubblica si è sostituita alla volontà personale, e i poteri pubblici non furono più considerati come diritti e poteri privati, ciò è dovuto alla influenza romana. I diritti regali, una volta venuti in pos- sesso dei consigli municipali, cessano di essere oggetto alienabile di proprietà, e diventano attributi essenziali di un potere auto- revole, che tutti riconoscono. altrimenti le istituzioni si appalesano in gran parte romane ; ma dall'altro canto il comune è sovrano, e questo carattere lo distingue dall'antico.

Un comune che detta legge, che esercita la suprema giuris- dizione civile e penale, e senza l'altrui consenso e per l'utile suo prepara e compie imprese guerresche, è sovrano ; ma l'antico municipio romano non presenta nulla di analogo: anzi non v'ha nulla di più contrario al genio latino di questa singolare disper- sione della sovranità nei vari punti dello Stato. A ben guar- dare, ci troviamo al cospetto di quel medesimo fenomeno, che incontrammo nel feudalismo ; e anche il giuramento della cam- panga^ che i cittadini prestavano ai consoli, arieggia il giura- mento feudale. Le stesse relazioni tra i comuni e l'Impero avevano un carattere feudale. si potè sradicare affatto un certo spirito d'egoismo, e quasi di campanile, che tornò cosi fa- tuie alle nostre repubbliche nei secoli XTI e XIII, penetrando fin dentro al comune, e producendo effetti disastrosi anche qui. Non si trattava affatto di una unione di individui uguali da- vanti alla legge, ma di una agglomerazione di private società, di famiglie e di volontarie associazioni, ognuna delle quali ave- va i suoi diritti, che non intendeva di perdere nello stato di società civile. Tale è il carattere politico dell'aggregazione : la base è contrattuale; e cosi vediamo sorgere qua e infinite sètte e fazioni, di nobili contro i cittadini, di cittadini contro i nobili, delle varie corporazioni tra loro. In mezzo a tutto ciò,

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la coscienza nazionale, soffocata in mille guise, non ebbe agio di svolgersi ; e nemmeno la libertà fu quale la intendiamo oggi, vale a dire libertà civile, perchè ammetteva dei gradi. L' uomo si distingueva dall' uomo per condizione e per diritti, nel valoiB e nella fede, nelle pene e perfino nella capacità giuridica, con varia progressione. Anche queste differenze rappresentavano un avanzo della feudalità.

La stessa distinzione, come oggi suol dirsi, dei poteri, e con- seguentemente delle attribuzioni ed occupazioni, non esiste ne- gli statuti. Specie l'amministrazione e la giustizia press'a poco si confondono: l'amministratore era nel tempo stesso giudice e il giudice amministratore; ma fortunatamente il trovarsi que- sti diversi poteri congiunti e commisti non ha portato tutti quei mali, che avrebbe potuto produrre o che si sarebbero potuti so- spettare. Anzi fino ad un certo punto ne derivò un bene. E fu di estendere all'amministrazione stessa, alla finanza, alla si- curezza, il carattere, i procedimenti e le guarentigie dell'ordine giudiziario; ma per converso è anche certo, che la giustizia venne via via assumendo qualche cosa dell'amministrazione, spe- cie di quel potere discrezionale, che è proprio appunto dei pro- cedimenti amministrativi.

Le mutue relazioni tra la Chiesa e il comune appartengono pure al diritto pubblico ; e, in generale, è notevole un certo spi- rito di indipendenza, che anima i consigli delle nostre repub- bliche. Lo sforzo costante degli statuti è di ridurre anche il clero sotto il potere degli ufficiali comunali, nonostante che il mede- simo recalcitrasse. Si trattava in sostanza di restringerne le im- munità, porre un limite alle ricchezze, che andavano ogni di più accumulandosi nelle chiese, e d'altra parte impedire che gli ec- clesiastici ne alienassero le proprietà per favorire le loro famiglie.

Medesimamente le lotte con la feudalità hanno lasciato lar- ghe tracce negli statuti. È cosa nota, che la potenza delle città libere fu rivolta ad affievolire quella dei signori: è stata una guerra sistematica, mossa ai nobili, che dominavano nel contado. Già nel secolo XII molte castella, impotenti a resi- stere all'urto repubblicano, erano cadute; molte grandi fami- glie erano state costrette a trasportarsi nelle città; altre, depo- sta l'antica minaccia, si erano associate volonterose al consor- zio cittculino. Non basta! Le città, che da gran tempo erano

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state un asilo degli oppressi, anche dei servi, eccitano soventi volte quei volghi a scuotere l'antico giogo e riparare air om- bra delle loro mura, o addirittura fortificano qualche luogo in vicinanza dei feudi, promettendo franchigie a coloro che vi riparassero; e anche di ciò gli statuti serbano memoria. Que* sti borghi franchi erano come le sentinelle avanzate delle no- stre città, le quali finiranno più tardi col metter mano sui di* ritti stessi dell'aristocrazia.

3. La parte degli statuti dedicata alle materie civili tende specialmente a regolare le condizioni delle persone, i diritti de- rivanti dalla contiguità dei fondi, i retratti, certe forme più frequenti di contratti, le doti e le suocdi;&ioni ; ma è una parte che può parere piuttosto scarsa, ove si paragoni con le altre* Nondimeno presenta anch'essa la sua importanza ; e anch' essa contiene principi romani, germanici e canonici, che si disputano il campo.

4. Tornano a galla in questi tempi te presunzioni di morte del diritto romano, ed anche si estendono; ma specialmente si viene svolgendo la presunzione degli scomparsi, certo con cri- teri che non sono quelli del diritto barbarico, anzi diametral- mente opposti ad essi, sia per ciò che riguarda le condizioni, sia per ciò che si riferisce agli effetti; mentre insieme s'intro- ducono i registri dello stato civile, prima pei matrimou!, poi anche per le nascite e per le morti,

E i rapporti delle persone subiscono pare una completa tras- formazione. Gli statuti tendono cof=tanteménte a migliomre la schiavitù, triste avanzo delle società antiche, e qua e là, già nel secolo XIII, si opera ad abolirla. Inoltre si provvede più equa- mente alla condizione degli stranieri, se non subito, certo col tem- po, almeno per via di trattati; e si restrioge, se pura non si sop- prime, la tutela delle donne, scomparsa già dal diritto romanop ma ripristinata dalle legislazioni barbariche ; s' incontrano per- sino esempi di mundi ceduti alle stesse donne, o di donne che avevano facoltà di scegliere da so il mundoaldo. Nondimeno ai*- punto nei riguardi delle donne restano tuttavia parecchie limi- tazioni ereditate dai settentrionali, per ciò che concerne le alie- nazioni, i testamenti, la capacità di stare in giudizio; e quanto alla successione nei beni domestici, rantico spirito agnatizio, raf- forzato anche più dalle gelosie municipali, addirittura le sacrifìca.

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Lo stesso dicasi dell'età. Perchò, se soventi volte si toma alla di- stinzione romana della pubertà e dell'età maggiore, e, ciò che vale di più, si applicano le regole del diritto romano confermate dal canonico, specie in considerazione della capacità, dall'altro canto ricorrono tuttavia qna e i termini del diritto barbarico; ad ogni modo poi si abbrevia il tempo della maggiore età, e anche si distinguono volentieri atti da atti. In generale la capacità civile e politica erano diverse; ma, anche nei riguardi della ca- pacità civile, alcuni atti, per es. i matrimoni, i testamenti, la locazione di opere, le contrattazioni di cose mobili, si potevano compiere in una certa età, e altri, come le alienazioni di im- mobili, ne esigevano una più avanzata.

Le stesse persone giuridiche, specie il comune, vennero acco- standosi alle idee dei Romani, in questo senso, che nei loro af- &ri particolari conoscevano già una volontà generale espressa dalla loro rappresentanza o dalla deliberazione della maggio- ranza dell'assemblea, e quindi si sollevavano molto al disopra del puro rapporto della mantts cammunis^ il quale, dominato, co- m'era, dal diritto individuale, non aveva accettato alcuna deli- berazione che fosse stata solo di maggioranza. E dall'altra parte anche le persone giuridiche vi si vedono tuttavia raffigurate in modo che, certo, non è quello dei Romani, e per cui bisognerebbe risalire nuovamente alle consuetudini germaniche. In generale, esse tendono ad affermarsi da so indipendentemente dallo Stato ; e poi vengono concepite, ancora in questi tempi, in guisa da confondere quasi la università coi suoi componenti. Bove il di- ritto romano aveva intraweduto la finzione di una persona, non si scorgeva che una comunione ; e cosi, lungi dal considerare i beni come un patrimonio dell'ente, si consideravano anzi come ,

appartenenti ai singoli; e lungi dall'attrìbuire i crediti e i de- |

biti all'ente, si attribuivano agli individui, che lo formavano. |

Insieme si ammetteva ohe una persona giuridica potesse delin- |

quere.

5. Lo stesso fenomeno si riscontra nei diritti patrimo- niali.

Se il possesso in questi tempi ò stato considerato come un istituto per se stante, che voleva essere protetto come tale, lo si deve certo alle teorie romane, che riuscirono nuovamente ad affermarsi. La sua stessa tutela era oggimai, non solo penale,

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ma anche civile, e i rimedi possessori erano quelli dei Bomani : V interdictum uH possidetis per la semplice turbativa, Vinterdi- cium unde vi per la deiezione, ai quali un'altra corrente, tutta ec- clesiastica, aggiunse l'azione di spoglio. Però la nozione è ri- masta germanica nonostante Io sforzo delle scuole di ricondurla al concetto romano. Si credeva tuttavia ohe il possesso consi- stesse nell'uso e godimento della cosa; e ciò ha deciso della sua portata. Perchè appunto in tal modo il possesso dei diritti ha potuto mantenersi e anche estendersi oltre alla sfera, a cui l'avevano circoscritto i Romani, si da abbracciare tutte le cose incorporali, purché di carattere durevole.

Altre innovazioni si riferiscono alla proprietà, e anzitutto a quella collettiva. C'erano tuttavia terre rimaste indivise, su cui non passava aratro falce (la firase è dei tempi), e si trat- tava di un curioso condominio, che certo non era il candomi- nium prò indiviso dei Bomani, ma un condominio sui generis^ che fu detto in solido, come l'avevano inteso i Germanici, e ohe si distingueva caratteristicamente dall' istituto dei Romani, si nel concetto e si nei riguardi della disponibilità. Di più, nessuno avrebbe potuto domandare che le comunaglie si divi- dessero : non essendo create per scopi transitori, dovevano rima- nere unite, appunt<^perchò i comunisti potessero costantemente usarne. Del resto accadeva anch»- spesso ohe i fratelli e nepoti continuassero a tenere indivise le terre ereditate dal padre o dall'avo. Era per es. un'usanza barese che può trovare il suo riscontro nella compagnia fraterna dei Veneziani.

Quanto alla proprietà privata individuale, non è a dubitare che il concetto venne sempre più atteggiandosi alla romana ; ed è interessante la lotta che s'impelò, per questo riguardo, tra l'elemento individuale e l'elemento sociale di essa. Come la proprietà romana, cosi quella dei nostri statuti, finisce qua e col non avere quasi altro scopo fuor quello di assicurare il ben- essere dell'individuo; ma generalmente conserva ancora molto dell'antico diritto barbarico. Perchè, in primo luogo, la pro- prietà immobiliare era tuttavia, anche in questi tempi, netta- mente distinta dalla mobiliare, e poi nella stessa proprietà im* mobiliare si può notare qualche cosa che i Bomani non cono- scevano.

Tale era la teoria, che suol dir^^i del dominio diviso, a cui

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si arrivò attraverso il feudalismo, applicandone il concetto se- gnatamente ai feudi, all'enfiteusi e ad altre terre contadinesche ordinate a imitazione dell'enfiteusi. Ma oltre a ciò, si sono mantenute senza più alcune consuetudini barbariche. Voglia- mo alludere alle restrizioni di diritto pubblico e privato, il cui fondamento risiede appunto in quelle consuetudini. L'idea di un dominium eminens dello Stato, che si affacciò nel primo me- dio evo, ricorre pure in questi tempi e spiega le molte regalie che tuttavia esso conservava anche sui fondi privati : la regalia delle strade o delle acque, la regalia delle miniere e dei boschi, quella dei beni vacanti ecc. ; anche il diritto di espropriazione. il godimento della proprietà era libero. Non si conosce statuto, il quale non pretenda di regolare la coltivazione delle terre e la vendita dei prodotti. Parimente le servitù legali si sono venute moltiplicando, e non solo quando si trattava di un interesse pubblico, ma anche nell'interesse privato. Erano servitù san- cite dalla legge a vantaggio dei vicini, parte estendendo alcune norme del diritto romano, parte anche stabilendone di nuove. Bioordiamo il passo necessario, l'accesso forzoso, l'acquedotto coattivo ecc. E insieme continuano gli usi civici, che furono anche detti servitù, ma che veramente non parevano costituiti a vantaggio di un dato fondo o di una data persona, ma spet- tavano a tutti i comunisti in questa loro qualità sui fondi di- visi, nei limiti del necessario : diritti di pascolo, di legnatico, di glandatico, di falciatico, di spigatico, di vagantivo ecc., che si riannodano tutti alla collettività del villaggio. Si tratta di terre, che un tempo erano state della comunione ; ma che poi erano passate in proprietà dei privati, e dipendevano ancora, per certi riguardi, dalla comunità: cosi ogni proprietario poteva esercitare dei diritti d'uso sulle terre altrui, ed egli stesso do- veva tollerare che altri ne esercitasse sulle proprie. Insieme continuavano alcune restrizioni dipendenti dal diritto di Simi- glia, sebbene in misura più ristretta che nell'età barbarica. Specie trattandosi di vendite, tanto il diritto dei parenti, nel senso proprio, quanto quello dei vicini e comunisti erano tute- lati dal cosi detto ius congrui, ossia da un diritto di prelazione e anche di re tratto, per cui avrebbero potuto rivendicare il fondo dall'acquirente verso la restituzione del prezzo.

Speciali pesi gravavano pure sui fondi o vi potevano gravare

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conosciuti col some di oneri reali : decime, censi ed opere, a cui un terzo, che non era il proprietario della terra, poteva aver diritto, e che ogni possessore, come tale, avrebì>e dovuto soste- nere, unicamente perchè possedeva il fondo, come rappresentante di esso. Sono istituti che rispecchiano quella generale tendenza che avevano i Germanici di annettere diritti e doveri al suolo, pur attribuendo quelli e imponendo questi al possessore ; e an- ch'essi risalgono ai secoli barbarici, ma si vennero svolgendo anche più in questi tempi. Acquistarono anzi un carattere co- sciente che non avevano avuto prima, e se no crearono addi- rittura di nuovi col preciso intendimento che adempiessero quella determinata funzione.

Gli stessi modi di acquisto, specie la tradizione, risentono qua e delle influenze barbariche; e non ne vanno esenti neppure i mezzi di difesa. Le tradizioni si facevano spesso co- ram ittdice civibusque, come anticamente nel mallum; e per ciò ohe riguarda la rei vindiccUio^ basterà ricordare che il con* venuto aveva tuttavia in vari luoghi il diritto di ire ad gua* rentem aecundum leges. È la frase che ricorre per es. nelle Puglie. Ma inoltre è notevole una differenza relativa ai frutti^ suggerita dalla vecchia consuetudine, che voleva attribuita la produzione al lavoro piuttosto che alla terra. Quanto alla ne* gataria, si disputava, se non altro, per sapere se Fattore, ol- tre che provare la proprietà della cosa, dovesse anche dare la prova ohe essa era libera da quella determinata limitaziondp

Non diciamo poi della proprietà mobiliare. Il diritto emi- nente dello State erasi affermato anche qui, facendo luogo nuovamente a parecchie regalle, quali erano quelle della caccia e della pesca, dei tesori, delle cose perdute o smarrite e degli avanzi dei naufìragi, che finirono col limitare in più guise il diritto privato. Ma nella stessa proprietà non ei riscontrava una efficacia cosi assoluta come per diritto romano. Special* mente ohi aveva acquistato una cosa mobile in buona fede, ne aveva spesso la proprietà piena ed intera, senza bisogno d'altro, anche a danno dell'antico proprietario ; e questo era il principio del reta barbarica. Perfino la rivendicazione rompeva a questa scoglio, specie quando si trattava di rapporti commerciali; e pur essendo ammessa, lo era solo con certe limitazioni, che ricor- dano tuttavia l'antica internazione.

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6. Invece il diritto delle obbligazioni, quale si è svolto negli statati, offire un singolare contrasto con quello del periodo precedente. Le condizioni povere d'allora avevano via via ce- duto davanti ad un largo sviluppo industriale e commerciale, onde la società si trovò addirittura costituita su nuove basi, e lo stesso diritto si venne straordinariamente allargando. Non farà meraviglia che i principi romani prevalessero in tale ma- teria, tra per la natura stessa di questo ramo del diritto, che più degli altri si muove indipendentemente, tra pel carattere universale che i Somani gli avevano dato. Questi principi ro- mani si rivelano già nelle teorie generali, e dominano addirit- tura nelle singole convenzioni; e nondimeno non convien cre- dere che tutti i germi depositati dai barbari sieno andati per- duti. Anzi più d'uno se n' è affermato e svolto anche in questi tempi, nonostante l'opposizione delle scuole.

Ciò vale innanzi tutto del loro concetto. Già dicemmo del modo tutto obiettivo, onde i settentrionali avevano raffigurato le obbligazioni, e dei titoli coi quali le avevano immedesimate. E quel concetto si è mantenuto : onde la obbligazione sembrava avere acquistato un valore attuale non dissimile da quello della proprietà, e i titoli, che la rappresentavano, andarono assumendo una importanza sempre maggiore. Gli stessi titoli al portatore si sono diffusi in modo straordinario. E si andò anche più avanti. Si arrivò per la prima volta ad ammettere senza più una successione singolare anche in materia di obbligazioni.

le forme contrattuali del periodo barbarico sono inte- ramente scomparse. Troviamo ancora l'antica fides facta nelle promesse unilaterali di debito, sia nella forma della tvcuìia, una promessa formale, come anche dicevasi, per stipulationem et fidem, sia in quella più evoluta della palmata e del giuramento. altrimenti continuano le arre; e sono pure un modo, con cui i contratti si perfezionavano, intendiamo dire i contratti bilate- rali, come la compera, la locazione, il contratto di servizio ecc. Specialmente poi si fa largo il principio che la convenzione per sola fosse sufficiente a produrre una obbligazione protetta da azione, anche se non vi si aggiungeva la forma o la res. Era l' idea della fedeltà, che i barbari avevano lanciato per la prima volta nel mondo, e che la Chiesa ha il merito di avere accolta. Ognuno doveva ritenersi obbligato a ciò che aveva promesso.

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bastando la volontà e la parola data a sostanziare robbligazione, senza badare ad altro : onde ogni atto morale della volontà, ef- fettuatosi nel dominio del commercio economico, avrebbe do- vuto ad un tempo valere come atto giuridico con piena effica* eia, e la equità essere la regola di tutti. È una idea che do- veva farla finita con le vecchie distinzioni di contratti e patti, e rendere possibile lo stringere obbligazioni col mezzo liberi rappresentanti, nel caso del mandato, e anche in favore di terzi : tutte novità a cui principalmente gli usi commerciali hanno fatto buon viso.

La parte, dove i principi romani hanno veramente trionfato^ è quella che riguarda l'adempimento della obbligazione. Con- formemente al diritto romano, il debitore, che non pagava, do* veva oggimai risarcire l'interesse e in caso di mora aggiun* gervi anche le usurae maratoriae; il che significa che la obbli* gazione era considerata da un punto di vista esclusivamente civile. Nondimeno molti statuti minacciavano anche un'am- menda; e questa era una nuova idea germanica, a cui obbedi- vano, salvo che l'ammenda più non dispensava dairadempiere il contratto o dal risarcire il danno. Gli stessi principi, che, in questi tempi, regolavano la materia della colpa, presentano qualche cosa di speciale: evidentemente essi avevano subito tanto la influenza romana quanto quella germanica ; b ne è de* rivata una teorìa intermedia, che risente dell'una e deiraltra* Quasi generalmente poi durava ancora una certa ret^pon^bilità collettiva, sia dei vicini e sia dei parenti e fedeli e dipendenti, e di nuovo nel modo con cui l'avevano concepita i barbari^ par- ticolarmente se si trattava di danni.

.Insieme troviamo i rìgori dell'esecuzione, specie le guaren- tigie dei pubblici stromenti rogati per mano dei notari, per non dire delle obbligazioni dovute ai nuovi bisogni econumioì.

7. Le influenze romane si rivelano pure nelle guarenti- gie dei crediti, specie nella fideiussione e nel pegno.

Appunto sotto la influenza del diritto romano la fidemmione tornò ad essere una obbligazione speciale ed accessoria, che il terzo contraeva col creditore, senza che la costituzione di lui liberasse menomamente il debitore neppure di fronte al creditore. Cosi essa si presenta nei nostri statuti, e anche la si vede spo* gliata di quel carattere di rigidezza che aveva rivestito anterior-

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mente. Si trattava di un contratto, col quale il fideiussore pro- metteva di adempiere l'obbligazione, per il caso che non vi prov- vedesse il debitore principale : press'a poco il concetto del diritta giustinianeo ! E anche lo si è oltrepassato, cercando di alleviarne maggiormente i pesi, sia concedendo al fideiussore, che aveva pagato, il regresso i/>«o iure contro il debitore, sia permetten- dogli anche prima d'allora la rilevazione, com'era detta, deW tii- dennità, che certo nulla ha a che fare con le idee romane. Pur dove il concetto barbarico di una mediazione si è mantenuto, troviamo dei temperamenti. Tale era l'uso invalso per es. nelle Puglie, che prima di agire sugli immobili del fideiussore, si do- vesse escutere il debitore principale; e anche l'altro, che per- metteva al fideiussore di assicurarsi con pegni o in altro modo sui beni del debitore, ogni qual volta temesse di essere pregiu- dicato dalla sua mediataria.

Ma interessante è altred la evoluzione che, attraverso i se- coli, ha subito il pegno. Non già che l' idea barbarica non duri nel periodo statutario; ma vi si fa anche largo sempre più la idea romana, la quale finisce in parte col trionfare.

Il pegno barbarico tiene tuttavia il campo nei beni rustici : le forme sono appunto quelle del diritto barbarico, e anche gli effetti appaiono gli stessi. È, per cosi dire, il pegno della cam- pagna; ma, di fronte alla corrente germanica, stava, anche per questi beni, la corrente romana, che considerava il pegno come una garanzia accessoria di una obbligazione princii>ale, che il debitore avrebbe dovuto adempiere anche indipendentemente da essa ; e tutto il trattamento giuridico ubbidiva a simile concetto. Non venendo soddisfatto il debito, al creditore spettava solo il diritto di vendere la cosa ; e se il prezzo non bastava, rimaneva nondimeno la obbligazione, come, nel caso opposto, il di più an- dava restituito. perduta fortuitamente la cosa, cessava la obbligazione. Cosi era appunto del pegno romano.

Ma forse, più ancora che nei beni rustici, lo s'incontra in quelli urbani. Era il caso con l'ipoteca, che possiamo anche dire il pegno della città; e certo, le condizioni dell'ambiente hanno fatto si ch'esso si adagiasse più facilmente al concetto romano.

Quanto al pegno di cose mobili, il medesimo contrasto si ri- scontra a lungo anche qui, senza che si possa dire quale dei due

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diritti tenga il campo. Che se il principio romano, sorretta dalla scuola e anche dalla Chiesa, finì poi col prevalere, non fu senza fatica, e a volte preferi di accordarsi con l'altro per quanto era possibile. Invece si riannoda ad antiche consuetu- dini germaniche la facoltà, ohe il debitore concedeva ^pe^eo al creditore, di pignorarlo authoritate propria in caso d'inadempi- mento per pignora legitima et inlegiiima, e anche di tenere e sfruttare i pegni fino all'adempimento absque calumnia et ap" pellatione: la legge, a cui si aveva riguardo qui, era la lan- gobarda.

8. Veniamo alla famiglia. Certo, a^^Uiò delFantico or- ganismo dura tuttavia. Qua e restano traAe dell'antica bo* lidarietà nel caso di un reato e di fronte ad esso; ma special- mente esse si rivelano nei riguardi economici. Il principio, che, almeno il patrimonio avito appartenesse alla casa, ha continuata a lungo in più luoghi, e i figliuoli vi partecipavano secondo il loro numero, giusta la pratica langobarda, o anche in detenni* nate porzioni fisse; mentre d'altra parte la comunione non eeolu* deva i beni speciali, che si il padre come i figli potessero pos* sedere.

Nondimeno, appunto la famiglia si ò incamminata per una nuova via.

Una grande trasformazione, preparata di lunga manOt «te av- venuta in questi tempi relativamente al matrimonio. Non direma degli sponsali, che spesso si facevano tuttavia qua e alla ma* niera germanica, fissando le basi morali ed economiche del ma- trimonio, con forme che ricordano quelle usate dai Langobardi^ e che, ad ogni modo, accolti, come furono, sotto l'egida della Chiesa, si perpetuarono, forse, nei cosi detti sponscUia de futuro^ venuti in voga appunto allora. E anche il matrimonio con- serva molto delle forme antiche. Si contraeva tuttavia senza che il sacerdote lo benedisse, solo davanti al notaro, che» pressa in mano una verga l'antica stipula ingiungeva al marito di dare la guadia alla donna, promettendo che le avrebbe oo^ stituito la quarta all'indomani; dopo di che seguiva la traduetio ad domum con largo accompagnamento di amici. Ma il matri- monio stesso ha cambiato carattere. E abbiamo già avuto occa* BÌone di notarlo: fu il matrimonio cristiano, che si ailermò de- cisamente per opera della Chiesa, e che anche le teglììlaziani

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laicali accettarono senza contrasto, por mantenendo fermo il principio che alla sua conclusione l'opera della Chiesa non fosse necessaria. E col matrimonio, tutto il diritto di famiglia ne usci trasformato ; in particolare il mundiOj che si venne a mano a mano affievolendo, per ridursi da ultimo ad una semplice di- fesa processuale.

Cosi, già il mundio maritale pur ammesso che le nozze av- venissero col mundio. Infatti, osserva il Massilla, parlando delle consuetudini di Bari, che l'essere mundoaldo non voleva dir altro che avere una certa autorità ad instar curaioriSj mentre gli altri effetti, che pur erano dipesi, più non vi si collega- vano, ma ubbidivano ad altra idea superiore : quella della comu- nione domestica d'ambi i coniugi, la grande idea del matrinionio cristiano. Alludiamo ai diritti, che un tempo erano spettati al mundoaldo sulla persona della moglie ; ma lo stesso fenomeno si riscontra relativamente ai beni. Le influenze romane pre- valgono certamente nell'istituto della dote e della donatio propter nuptias; ma prevalgono del pari spesso quelle langobarde, e gli stessi nomi di mefio e morgincap vi accennano : il mefiOj che stava ancora a rappresentare il prezzo della donna, ma che il mundoaldo lasciava oggimai interamente ad essa, e il morgincap, che era tuttavia l'antico pretium virginitatis, tanto è vero che il marito lo costituiva solo in secunda die votorum alla presenza di testimoni, previa dichiarazione della sposa che il matrimonio fosse stato consumato. A volte però accadeva che i vari istituti romani e germanici si confondessero, assumendo gli uni alcuni caratteri degli altri, alieni dal loro primitivo assetto. Parimente, per ciò che riguarda il regime dei beni, mentre il sistema lango- bardo, fondato sulla loro separazione con una unica amministra- zione, s'incontra ancora nelle nostre città; vi troviamo pure a volte il sistema romano ispirato alla completa separazione, e dei beni come dell'amministrazione, modificato solo dall' istituto do- tale, e a volte persino una completa comunione di beni, o al- meno una comunione degli acquisti o dei mobili. Si trattava di un nuovo sistema, che può anche trovare il suo addentellato nelle consuetudini dei secoli precedenti, ma che solo più tardi si è svolto in tutta la sua pienezza ; e d'altra parte non vorremmo dire che fosse veduto di buon occhio. Anzi, se ne togliamo la Sardegna, la Sicilia e T Istria, la sua apparizione nelle altre prò-

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yinoie fìi piuttosto sporadica ; e facilmente si comprende oyb consideri l'occhio geloso, con cui le città del continente si gtiar-^ davano fra di loro. Certo, codeste gelosie dovevano tntt'altro che favorire un sistema, il quale, in sostanza, tendeva a formare un solo corpo dei beni, sia del marito e sia della moglie, men- tre la tendenza conduceva anzi a favorire i maschi. Così, non attecchì se non dove codeste gelosie erano meno forti.

il padre appariva più il gran signore d'una volta di fronte ai figli. La sua podestà aveva perduto molte delle antiche asprezze, e persino qualche diritto, che in altri tempi si era presentato come una emanazione della podestà patria la stessa disciplina domestica consideravasi oggimai come un diritto della famiglia, e, se competeva al padre, non era certo in ma* niera esclusiva ed assoluta. Le nuove leggi conoscono anche un diritto della madre, che a quelle romane e germaniche era ignoto; e l'alta tutela dello Stato non manca farsi valere in questi tempi, anche di fronte al padre, ogni qnal volta gli interessi dei figli sembrassero compromessi. La podestà stessa era venuta assottigliandosi, obbedendo ad un divergo spirito giurìdico e, se vogliamo, anche a piccoli interessi politici. A ben guardare, tutto si riduceva alla rappresentanza ; e se questa conferiva al padre una certa autorità, sia di fronte alla persona del figlio e sia di fronte ai beni, essa era ben lungi dairessere la signoria d'un tempo, potendo egli esercitarla soltanto entro l li- miti di una onesta rappresentanza dei figli, e nel loro interesse : tutto il rimanente era stato spazzato via dal soffio della nuova col* tura cristiana. Persino la rappresentanza non appariva dapper- tutto uguale: qua e tollerava delle eccezioni, le quali sono venute allargandosi; e anche l'emancipazione si presenta con caratteri nuovi corrispondenti alla nuova forma sotto cui la po- destà era concepita. Perchè, non si può negare che vi concor^ resse ancora la spontanea volontà del padre; ma in alcuni ca^i, anche diversi da quelli consentiti dal diritto antico^ egli vi poteva essere costretto persino ad ogni richiesta del figlio ; e non mancano statuti, che lo obbligano ad assegnargli la sua parte di beni un premio, che qualche documento chiama Òemdiciù} mentre altre leggi considerano in questo caso il figlio come étti tum, anche se non era stato emancipato, alterando coti com- pletamente l'economia della emancipazione.

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Parlando della tutela, qualcuno ha osservato che il diritto romano ne era, in questi tempi, diventato la base ; ma in realtà non lo era più che di altri istituti. Dove la influenza romana particolarmente si manifestò, fu nel carattere di essa, per aver- la indirizzata ad essere sempre più come un munus publicunij un dovere sociale, in contemplazione e nell'interesse di certe persone, che, per determinate ragioni, non potevano provvedere da alle cose proprie; specie, per ciò che concerne le cause di delazione, e i modi, con cui il tutore adempieva il suo com- pito, e i limiti dei suoi poteri e la sua responsabilità. Cosi pure l'idea di una autorità tutoria superiore, ossia l'intervento della magistratura in tutti gli atti più importanti dell'amministra- zione dei beni pupillari, si è venuta svolgendo sempre più in questi tempi sotto la influenza del diritto romano, anche oltre i limiti di esso. Nondimeno alcuni principi vogliono essere ri- feriti più direttamente al diritto barbarico. Perchè, avanti tutto, non si distingueva nettamente fra tutela e cura, e quindi si applicava la tutela anche a persone che per diritto romano ne sarebbero state esenti, ne si faceva differenza tra l'interposi- zione dell'autorità e il consenso. Inoltre molte volte il tutore rappresentava il pupillo anche fuori del caso che fosse infante o assente o altrimenti impedito, nel modo più largo delle leggi barbariche ; e talvolta si trovano anche tracce di una tutela tisu- fructuaria, la quale permetteva al tutore di godere dei beni pu- pillari ; e pur dove è scomparsa, ciò non accadde senza che lasciasse traccia di so.

9. Ma principalmente è nel sistema delle successioni che il diritto dei barbari sopravvive con la prevalenza delle paren- tele agnatizie sulle cognatizie.

Certo, vi ha messo profonde radici. Perchè, sebbene anche i Romani avessero fondato tutto l'edificio del loro diritto sulla patria potestas e sulla familia^ cioè appunto sullo spirito agna- tizio, esso però si può dire scomparso nella legislazione giu- stinianea. Invece dominava nuovamente nel diritto barbarico. E cosi nella società comunale. Era sempre lo spirito della fa- miglia, che anteponeva gli agnati ai cognati, e voleva che i maschi escludessero le femmine. Il che d'altronde non ci stupisce, dal momento che la società comunale era pure una lega di padri di famiglia : perchè avrebbero rinnegato il principio che la in-

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formava ? per non dire che oon oiò si provvedeva meglio alle gelo- eie municipali, impedendo che i beni uscissero dal comune. Cosi dura tuttavia la prerogativa del sesso, e si viene affermando anche maggiormente. Invano i giuristi l'hanno combattuta,- ed è già molto se riuscirono a far trionfare il principio giustinianeo in qualche città : ricordiamo per es. lo statuto di Bergamo del 1391 ; ma la grandissima maggioranza è rimasta fedele ai prin- cipi germanici, che volevano favoriti i maschi a detrimento delle femmine. E gli statuti stessi ne adducono la ragione. Quello di Verona dell'anno 1450 dichiara espressamente, di preferire gli agnati ai cognati prò conservandis damibuSj e favorisce le successioni mascoline, perchè proaapias et familiarum namen con* servant.

La legge langobarda è qui dominante, e gli stessi documenti parlano di questa successione come di cosa che si verificava se- cundum legem langobardarum.

Nondimeno anche la influenza romana appare manifesta ; tan- to che alcune istituzioni barbariche cedono veramente davanti ad essa. Annoveriamo tra queste la distinzione della successione mobiliare e immobiliare, e anche l'ordine cosi caratteristico delle parentele. L'antico diritto germanico aveva finito qui col riti- rarsi, per far luogo alla successione romana per gradi, e appena in pochi luoghi se ne trovano ancora tracce.

Però la parte, in cui la vittoria dell'elemento latino è più palese, è quella che riguarda i testamenti. I quali si erano di- battuti a lungo tra le spire delle vecchie consuetudini germaniche, che, pur accettandone il concetto, li avevano poi foggiati alla loro maniera ; ma la influenza romana, forte dell'appoggio della Chiesa, riusci ad affermarsi. Cosi risorsero; e nondimeno talune reminiscenze barbariche hanno durato anche qui. Certamente si deve attribuire ad esse, se il testamento si presenta a volte con carattere irrevocabile, mentre la revocabilità soleva essere garantita da speciali formule o clausole; e dicasi lo stesso di certe determinazioni relative alla capacità di testare, specie nei riguardi delle donne, alla forma dei testamenti, al loro oggetto, al diritto degli eredi necessari, anche al concorso simultaneo della successione intestata e della testamentaria. Insomma la vittoria risultava tutt'altro che completa; ma vittoria era. Quanto alle for^e, già nell'età precedente avrebbesi potuto

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notare una certa tendenza della Chiesa di badare più all'intenzio- ne del testatore che alla solennità dell'atto, e questa tendenza si afferma anche più nel periodo ohe abbiamo tra mano. Certo, si deve alla influenza ecclesiastica se tali forme sono venute sempli- ficandosi. E una maggiore libertà si fece largo anche per ciò che riguarda il contenuto. Oggimai la istituzione di erede non pa- reva più necessaria, ed a mala pena si può parlare di un con- tenuto del testamento diverso da quello di altre disposizioni di ultima volontà. Per questo riguardo, il concetto barbarico ha trionfato sul romano : pareva quasi che lo scopo dei testamenti fosse soltanto quello d'impedire che, morendo taluno intestato, le sue sostanze non si disperdessero ultra suum velie; e spesso si dettavano per il caso della mancanza di figli, e in punto di morte, secondo il disposto di Liutprando, o nella imminenza di qualche pericolo. Lo stesso diritto dei legittimari, anziché pre- sentarsi come una restrizione della libertà di testare, nel modo in cui l'aveva concepito il diritto romano, si fa innanzi col ca- rattere di una riserva, e trova il suo fondamento nell'antica co- munione. Almeno alcuni statuti partono da questo concetto ; ma anche trattandosi di legittima vera e propria, prevale la pratica già in uso nei tempi barbarici che potesse localizzarsi^ mediante l'assegnamento di una data cosa al legittimario, purché fosse mediocris et non infima. Ne era più necessario che i le- gittimari venissero istituiti eredi. Insieme troviamo molto dif- fusa la usanza di nominare delle persone di fiducia per la fe- dele esecuzione delle ultime volontà. Era di nuovo una pra- . tica che si riannodava alle vecchie istituzioni barbariche ; e che talora si faceva con la immediata tradizione della eredità per fustem, ciò che attribuiva dei diritti agli esecutori prima ancora della morte del testatore, anche contro di lui e contro gli eredi per costringerli a stare in traditione et iudicatione.

Un principio, sancito da vari statuti e che si potrebbe cre- dere nuovo, stabiliva, che, già in forza della delazione, la eredità si trasmettesse agli eredi del chiamato, contrariamente alla regola romana, che la faceva passare solo con l'adizione; ma del resto anche nel diritto romano i casi di trasmissione eransi venuti moltiplicando per modo da distruggere quasi la regola. Invece assistiamo ad una lotta piuttosto viva per ciò che riguarda l'acquisto della eredità. Ed era naturale, dacché i principi ro-

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mani e quelli del diritto germanico risultavano diametralmente opposti ; ma in generale si venne ad una transazione. Almeno, per ciò che si riferisce al possesso, ci restano moltissimi statuti, i quali avvertono ch'esso doveva passare e continuare nell'erede cosi com'era stato nel defunto, subito dopo la morte di lui, ad onta della forte opposizione della dottrina. Le costume d'Aosta richiamano addirittura l'adagio che le mori saisit le vif. Invece non conosciamo statuti, i quali dicano che la eredità passa nel- l'erede senza più, anche senza accettazione, tranne se si trat- tava di figli. Perchè una comproprietà virtuale sui beni dome- stici era tuttavia ammessa, e ciò spiega perchè, a indicare l'e- redità paterna, si adoperassero frequentemente le frasi : bona sibi pertinentia a parte genitoris o ex genitore^ in contrapposizione ad altri beni, che i figli avrebbero potuto avere ex successione paren- tum aui de emtione seu donatiane aut undecumque vel quomodocum- que vel per qualiscumque raiione. Cosi, succedevano ipso iure ; ma del resto potevano ripudiare la eredità. Era un lugubre auxi* liumy che la consuetudine accordava agli eredi necessari perchè non avessero a rispondere ultra vires hereditatts: un auxilium più comodo e semplice del beneficio dell' inventario, che poteva invocarsi anche dopo che i figli avevano cominciato a pagare i debiti ereditari. Lo stesso istituto della collazione, sorretto sia dalle idee romane sia dalle idee germaniche, non potava non farsi largo, e in realtà diventa generale. Medesimamente può dirsi accolta dappertutto, in questi tempi, la responsabilità del- l'erede pei debiti del defunto : però solo fino all'ammontare del- l'asse ereditario, giusta il principio consacrato dalle leggi bar- bariche, che il creditore doveva conservare in confronto del- l'erede quella medesima posizione che avrebbe avuto di fronte all' ereditando.

10. Buona parte degli statuti è dedicata al diritto penale; e facilmente si comprende la speciale sollecitudine del legisla- tore per la giustizia punitiva, ove si pensi che le passioni erano violente e bisognava comprimerle. Nondimeno ci guarderemo dal credere, che gli speciali ordinamenti fossero il frutto di opinioni preconcette o di astrazioni della mente: soventi volte non erano altro che il fatto convertito in teorica, la genuina espressione delle condizioni politiche e sociali ; e ciò spiega per* che 0 l'una o l'altra delle specie penali manchi costantemente.

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Tatto sommato, era un diritto piuttosto barbaro, ma cbe si andò perfezionando.

L'esempio era stato dato dagli imperatori. Già Federigo Barbarossa con le sue costituzioni sulla pace territoriale aveva fermato la necessità che le violenze private cessassero, inaugu- rando il sistema dell'ordine giuridico nella vita dei popoli. Al- ludiamo alla costituzione pavese dell'anno 1155 e all'altra della dieta di Roncaglia del novembre 1158. Ambedue consacrarono la pace dell' Impero, mettendo un freno all'erompere delle violenze e a tutti gli eccessi, per cui la sicurezza delle persone e degli averi poteva risultarne compromessa. I nostri statuti si appro- priano il principio della pace territoriale, e già il costituto di Pisa del 1161 vi si uniforma; ma vanno anche oltre, sulle orme del diritto romano e del diritto canonico. Ne importa, se le istitu- zioni germaniche ricalcitreranno in sulle prime, opponendo una valida resistenza ; perchè dove prima, dove poi finiranno col ce- dere. Ancora sul principio del dugento l'autorità cittadina erasi ridotta a disciplinare le vendette e nulla più; ma poscia, ringa- gliarditi i pubblici poteri, la tolleranza cessa, e la violenza della guerra privata è condannata dappertutto, onde il diritto pe- nale perde via via quel carattere privato che gli avevano dato le leggi germaniche. Decisamente il moviménto della società umana s' indirizzava verso il concetto dell'ordine sociale, ed era di nuovo una grande idea romana che risorgeva. Quanto più l'uomo veniva assorbito dallo Stato, anche il delitto andava as- sumendo sempre più un carattere pubblico; e non esitiamo ad affermare che, se ci facessimo a studiare la serie cronologica dei nostri statuti, assisteremmo a tutte coteste fasi del diritto puni- tivo. Per dirla in altri termini, il delitto si presentava oggimai, non più come una semplice violazione di un diritto o interesse privato ; ma nella violazione del diritto privato lo Stato intrav- vedeva la pace sociale turbata, credeva leso se stesso, e s'inca* ricava esso medesimo di perseguitare la violazione del diritto commessa dall'uomo. È stata una idea feconda, destinata a ri- manere ; una vera conquista del diritto punitivo per tutti i tem- pi avvenire, onde il reato entrò definitivamente nel dominio del diritto pubblico. E non mancarono neppure le esagerazioni, perchè troppo spesso l'idea dell'interesse sociale è prevalsa su quella della giustizia conculcata, specie se si trattava di reati

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di religione o di lesa maestà, per noa dire della punizione di atti intemi che offendono la morale.

Insieme prevalsero le teorie romane nella più esatta valuta- zione del reato* Appunto dal diritto romano, ma anche dal canonico, derivò un più rigoroso apprezzamento delia colpa. <

Non diremo ohe ciò avvenisse d'un tratto. Anzi, per addurre solo un esempio, nelle prime leggi, come in quelle dei Lango- bardi, romicidio colposo e romicidio doloso si trovano puniti ugualmente, l'omicidio fortnito andava esente da pena \ ma il diritto comune, spalleggiato dal canonico, reagì va, e, posto il prin- cipio che tu muhflciis nolantas speciatur non exitus^ si finisce poi con Tarn mettere che, trattandosi di reati, la prima cosa da esaminare era V animus del reo, e che ad esso si doveva adat* tare la punizione. Soltanto non mancano le incertezze e per- fino le intemperanze, onde a volte si punivano come reati certi fatti, ohe non si erano neppure estrinsecati come violazioni di diritto, e anche si sottilizzava troppo nel calcolare la influenza che le circostanze di fatto potevano esercitare sul reato. Co- munque, un progresso da questo lato è innegabile, come non ai pnò contestare che fosse compresa meglio la natura del l'atten- tato e del concorso morale e materiale, mentre in pari tempo sono venuti introducendosi nuovi modi di estinzione del reato, che prima non ^i conoscevano. E altre novità si scorgono nelle pene.

Cambiato il punto vista da cui si considerava il reato, anche il sistema delle pene doveva necessariamente modificarsi. LWtica composizione si ridusse ad essere nna semplice inden- nità, He pure non fu avocata allo Stato, mentre invece preval- *jero le pene afflittive. Le quali, per verità, erano state appli- cate anche prima d'allora, quando si trattava di reati d'ordine pubblico, e sussidiariamente quando il colpevole non avesse pa- gato la composizione; ma in questi tempi tengono il campo, ed anzi in generale si sfoggia nelle atrocità. L^applicazione della pena di morte era abbastanza frequente, anche a scopo di vendet* ta e d^ intimidazione, e di più aggravata dal modo con cui s*in- fligg^^A* come erano frequenti anche le mutilazioni graduate del CMsrpOy che stavano a guisa di graduazione delle pene ; e così Teailio, il marohiOj la fustigazione ecc. Pene gravissime, anche per piccoli reati, specie oontro la proprietà, e non meno gravi la

^'y^

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conseguenze: la confisca, la distruzione delle case, l'infamia, anche la morte civile. Non diciamo poi delle pene straordina- rie lasciate spesso all'arbitrio del giudice. Nondimeno quella del carcere passa a poco a poco dalla legislazione ecclesiastica in quella secolare, diventando il punto di partenza di un totale rivolgimento del sistema punitivo; e anche le pene, che affet- tano il diritto e l'onore, si svolgono sempre più.

In mezzo a tutto ciò non mancano neppur qui le influenze barbariche.

Si può dire che non siavi statuto, il quale non riconosca il perdono dell'offeso come elemento che poteva, almeno fino ad un certo punto, paralizzare l'azione pubblica. Certo, coteste paci servivano a scemare la pena se si trattava di reati gravi; ma potevano anche sortire l'effetto di mandare impunito il colpe- vole, se il reato era di quelli minori. In fondo era il diritto privato che limitava tuttavia quello della difesa sociale.

le pene erano sempre dirette contro il solo autore. Al- cune, come per es. la confisca e la distruzione della casa, in- sieme col reo colpivano la famiglia ; e qualora si trattasse di un crimine contro la sicurezza dello Stato, vi andavano addirittura soggetti anche i figli e i parenti. In altri casi, dato che il reo fosse irreperibile, chiamavansi responsabili pecuniariamente i conterranei.

Infine la legge non spiegava uguale efficacia per tutti. C già i barbari avevano punito diversamente i reati secondo la persona, che li aveva perpetrati, e secondo quella, contro cui erano diretti. Nei nostri statuti le disuguaglianze perdurano e sono abbastanza stridenti. A cagion d'esempio un nobile avreb- be potuto essere castigato con una multa, mentre il villano sa- rebbe stato, per il medesimo reato, condannato alla fustigazione e persino alla morte. Ma le stesse differenze si riscontrano tra ì cittadini da un lato, e i distrettuali e forensi dall'altro.

Erano tutti avanzi dei tempi barbarici. A volte poi gli sta- tuti si richiamano anche espressamente alla legge langobarda: e ne abbiamo un esempio nelle consuetudini milanesi del 1216. Stabiliscono in generale che i reati debbano punirsi secundum legem municipcUem nostrae civitatis vel legem Lombardorutn vtl ìege Romana.... secundum autem itis Bomanum..., non cUtter puniuntur nisi lege municipali cautum sit, ut debeant secundum

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legem Ulani puniti. Così, il diritto langobardo precedeva gli al- tri. Altrove poi sono contemplati singoli reati. Gli statati di Milano del 1391 dicono appunto: lus Lomhardum servetur in poena civili furtorum; e parimente a Ivrea : famosi vero {fures). . . relinquantur puniendi iuri Longobardorum ; e a Monza: Lege Lom- bardorum quae incipit: Quicumque veneficio eie» in suo statu rema' nenie. Ma per converso abbiamo anche statnti attraverso i quali già per tempo è passata una forte corrente romana. Lo statuto di Brescia del 1248 è di questi. Yi si legge: De maleficiis... cognoscat rector ...et condemnet^ inspecto iure Romano et praeter- missis iis omnibus quae in iure Longobardorum dicuntur de com- positionibus maleficiorum et iniuriarum, si minus puniunt quam ea quae in iure Bo'mano inveniuntur vel illis contradicunt.

11. Altre regole si riferiscono agli ordinamenti giudiziari; e anche qui conviene distinguere.

Veramente la vendetta privata e la pignorazione privata non hanno ancora ceduto il campo dappertutto; ma si fanno nuovi tentativi per imbrigliarle, e restano da ultimo in sussidio delle leggi e della forza sociale ; ma dall'altro canto la costituzione del e potere giudiziario si risente a lungo delle antiche istituzioni bar-

bariche. Specialmente appare notevole la folla di fóri privilegiati ricordata dagli statuti: si può dire che ogni corporazione avesse :: il suo! Ne le competenze erano determinate in modo esolui^ivo,

e molto veniva lasciato all'arbitrio del giudice negli a£fari si civili che penali. I giudici dell'uso, che a' incontrano qua e là, sono certamente un avanzo degli antichi scabini ; e in qualche luogo ;.r gli astanti o buoni uomini assistevano tuttavia ai giudizi: ma

[^<:. non manca la reazione contro quei giudici indòtti, e anche l'as*

^^r sistenza dei buoni uomini scompare col tempo. Invece il po-

;^ desta, o il giudice condotto da lui, giudicano da soli, come al

tempo di Roma imperiale; e la stessa rappresentanza in giudi- zio si rende sempre più generale, contrariamente ai principi barbarici. . Molte disposizioni sono dedicate alla procedura : e qui tro-

1- viamo nuovamente delle idee romane; ma anche il diritto ca- ' K . nonico vi ha la sua parte, e non piccola. Il rito che domina è quello romano-canonico, che già nel secolo XII e sul principiare del XIII era penetrato nei giudizi laicali.

Lasciando da parte altre specialità, notiamo i punti, in cui il

trà- [tto

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trionfo delle nuove idee sulle consuetudini barbariche appare più spiccato. Già per tempo, fin da quando la procedura in- quisitoria e segreta si generalizzò, il processo penale assunse forme particolari, distinguendosi dal civile. Ma la stessa pro- cedura civile poteva essere di più maniere. C'era la procedura ordinaria e c'erano le procedure speciali : la sommaria e la ese- cutiva ; quella nelle cause di minor momento, questa ogni qual volta ci fosse di mezzo un documento guarentigiato. Altre dif- ferenze sono: la forma scritta sostituita completamente alla orale, e la contestazione della lite, che riacquista influenza sui diritti. Secondo l'antica procedura germanica, gli scabini, appena udita la risposta del reo, pronunziavano la sentenza, con cui deter- minavano la prova e stabilivano insieme l'effetto dell'azione se- condo l'esito di essa : ciò che una parte aveva diritto di esigere \k e Tal tra doveva prestare. Ma questa maniera di procedura era

oggimai scomparsa : dopo contestata la lite, continua nondimeno Tatti t azione in giudizio con lo scopo di mettere il giudice in condizione di condannare o di assolvere definitivamente. E tutto L ciò è romano. Le prove stesse e il modo di attuarle si rego-

^ lane sempre più con principi romani. Il che vale particolarmente

d«l giuramento. La distinzione dei giuramenti in principale e suppletorio, deferito e riferito, rispecchia Le teorie dei Romani. La purgazione canonica era stata in uso fino dai primi tempi della Chiesa e si diffonde in questi. I testimoni vengono assunti ge- neralmente dal giudice sugli articoli presentati dalle parti. Per ciò che riguarda i documenti, è obbligo dei litiganti di deposi- tarli in giudizio: chi li contesta deve provarne la falsità coi mezzi ordinari. Ma disgraziatamente anche la tortura si divulga sempre più col diritto romano; e dall'altro canto non mancano

r neppure le prove usate dal diritto germanico, cioè il duello, che

si trova ordinato spesso, anche trattandosi di contestazioni civili, e altre ordalie. Appunto quanto al duello, possono riscontrarsi le consuetudini milanesi, che ne riproducono i casi come erano stati fissati dai Lombardisti. E similmente lo statuto di Verona del 1228, il quale esigeva che il giuramento del duello si prestasse secundum legem. Cosi anche a Como. Le consuetudini del 1281, pur limitando l'uso del diritto langobardo, ne eccettuano espres- I samen te il duello : Item quod Lombarda non servatur nisi inpugnis

et in illis ca^sibus de quibus fit mentio in statutis Cammunis de Cu-

lArfh

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mÌ8. E non si trattava di una lettera morta. Bisulta per es. da un placito reggiano del 1098 relativo a certe terre, su cui un mo- nastero accampava dei diritti, ohe inutilmente i causidici del- l'abate avevano presentata la legge del serenissimo imperatore Giustiniano, e prodotte anche altre allegazioni, che il documento chiama ottime: i giudici le respinsero tutte, et dixerunt nullo modo facturos nisi quod fckcerent pugnata. Però sono prove che vanno sempre più perdendosi coi tempo.

Altre modificazioni hanno subito i principi che regolano le sentenze, gii appelli e la esecuzione. Come tra i Bomani, la sentenza voleva essere redatta in iscritto se eccedeva una certa somma ; e sull' esempio dei tribunali ecclesiastici era stabilito che se ne dovessero dare i motivi ; ma appunto questa riforma provocò delle resistenze. Anche l'appello riproduce le forme romano-canoniche : altrimenti la restituzione in intiero è am- messa giusta i principi del diritto romano, e in una misura anche più larga. Fra i modi d'esecuzione gioverà notare nuo- vamente il carcere, che viene un po' alla vol^ sostituendosi alia servitù per debiti; cosi pure la cessione dei beni, un'altra istituzione romana, che in questi tempi si va generalizzando ; ma anche i principi sulla esecuzione mobiliare e immobiliare s' infor- mano al diritto romano. Senonchè alcuni rimasugli barbarici non mancano neppure qui. Qualche statuto, specie de' più antichi, non conosce affatto la esecuzione coattiva, se non nel caso di una pena, e in ciò aderisce alle idee germaniche: non conosce che il biasimo e il bando per costringere il convenuto a pagare e questi erano mezzi puramente indiretti.

12. La parte economica si occupa di commercio e d' indu- strie, pesi e misure, tariffe di dazi e bandi di polizia rurale. È un ramo che ha la sua speciale importanza. Perchè nel senso con cui lo concepirono le città, non si era inteso anteriormente, e servi di modello sia alla legislazione imperiale, sia a quella dello Provincie. Lo Solopis ha avvertito egregiamente, ohe sotto que- sto aspetto tanto acuta è l'avvedutezza di quei rozzi legislatori, da disgradarne l'arte più raffinata dei moderni. Infatti l'esame minuto, attento, continuato di un territorio non troppo esteso, che allora si faceva con sollecitudine piuttosto di massaio, che di statista, metteva in palese ogni menomo elemento di utile profitto; e, se mancava all'industria d'allora il soccorso delle

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scienze fisiche e matematiche, vi suppliva una oculatissima pratica. Specie in materia d'agricoltura possono trovarsi disposizioni, che sarebbero anche oggi utilissime, per es. quella che dava diritto ai terzi di occupare i fondi, lasciati incolti dai proprietari. Dal- l'altro canto non mancano provvedimenti, che potrebbero pa- rere eccessivi, massimamente ove si considerino al lume della libertà odierna. E anche abbondano i pregiudizi. Alcune leggi suntuarie possono trovarsi già negli statuti, per es. in quello di Viterbo del 1261 ; ma ve n'ha eziandio di speciali, e dal più al meno, sono leggi economicamente sbagliate.

d. Fondamento ed efVIoacia degli statuti.

1. La questione, che riguarda il fondamento degli statuti, ha occupato a lungo i giureconsulti medievali, e non è senza im- portanza neppure per noi, che c'interessiamo a questa forma di legislazione.

Molti, e tra questi Bartolo, la ricollegavano al diritto di giu- risdizione : parola di significazione molto lata che comprendeva più gradi, dalla giurisdizione del principe a quella dell'ultimo dei giudici rivestito d' imperio. Appunto Bartolo nota nel com- mento alla legge Imperium, che la giurisdizione si divide in im- pero, e giurisdizione propriamente detta ; e l' impero alla sua volta vuol essere distinto in mero e misto, e anzi enumera varie categorie del primo, secondo la estensione dei diritti di sovra- nità che vi si comprendono : il maggiore, il grande, il piccolo, il minore e il minimo. Il massimo li abbracciava tutti, anche la potestà di fare leggi generali, propria del principe e del se- nato. Né altrimenti si esprime l'autore anonimo di una disser- tazioncella sulla giurisdizione che, nei Digesti glossati, precede, il titolo De jurisdictione e serve di spiegazione all' albero della giurisdizione stessa. Le sue parole sono queste : Essa si divide in due specie: cioè. nell'impero e nella giurisdizione in senso stretto, e V impero alla sua volta, in mero e misto ; e il mero, secondo Bartolo, ha sei gradi ; secondo Giasone quattro, perchè Giasone riunisce V impero grande e maggiore in uno, e così il minore e il piccolo. Il massimo è fare la legge, cioè propriamente la legge generale e comune a differenza degli statuti.

Invece Raniero da Forlì insegna che il diritto di fare statuti

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deriva dalla permissione data dalla legge stessa, non già dal possedere il diritto di giurisdizione, e ricorda che appunto la L. 9, D. de just, etjure si riferisco indistintamente a tutti i po- poli, abbiano o non abbiano giurisdizione. E anche altri erano dello stesso avviso. Ci restringiamo a citare Alberico da Rosate, Baldo e Angelo degli Ubaldi, Alessandro da Imola e Giasone del Maino. Il quale, dopo avere riferito le opinioni di parecchi giu- reconsulti, conchiude cosi : Per hoc teneo quod condere statuta non sii jurisdictionis sed potius permissionis.

Non mancano però giureconsulti, che si elevano ad una ragione più intima. Baldo, interpretando la L. 9 cit. D. de jmU et jure, dice : Tutti i popoli possono fare statuti da sé, e, dove cessa lo statuto, ha luogo il diritto civile. Laonde i popoli o vivono colle leggi comuni o cogli statuti propri o colle loro consuetudini. Indi passa a indagare se in questi statuti si ricerchi autorità di superiore, e risponde di no, perchè i popoli esistono in virtù del di' ritto delle genti, sicché il loro governo dipende pure da quel di- ritto; ma ìion e* è governo, se non ci soìio leggi e statuti: dun^ gue, pel fatto istesso che un popolo ha una ragione d' essere, ha pure, per conseguente, il governo dell'esser suo, del pari che ogni animale vien retto dal suo spirito e dall'anima propria, e, se si regge bene, il suo superiore non può impedirlo, poiché le leggi proibitive non sono fatte per chi vive bene, ma per chi erra. Che se gli uomini osservano naturalmente ciò ch^ é conforme alla legge, essi sono legge a se medesimi ; e chi é sano non ha bisogno di medicina, tie dunque gli statuti sono buoni, secondo che esige la conservazione pubblica del luogo, non ha bisogno d'altro direttore, perché confermati per propria naturale giustizia. Inoltre quanto ciascuno ha di forma essenziale, altrettanto ha di forza attiva ; ma il popolo ha fonna di per se stesso, dunque deve pure aver l'esercizio di conservarsi nel suo essere e nella forma sua propria.

In fondo, tale era il principio del medio evo : data la esi- stenza autonoma di una corporazione, era implicito il diritto di provvedere da se ai propri interessi e fare statuti. Le stesse leggi si richiamano a questo diritto. Lo statuto di Osimo del- l'anno 1371 ricorda nel proemio, che ogni popolo deve costituirsi il proprio diritto e adattarlo e mutarlo secondo le esigenze e la qualità dei luoghi e delle cose, perchè nessuno venga offeso e a ciascuno sia dato il suo.

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2. Ad ogni modo, o piuttosto per le ragioni anzidette, le città, che dipendevano da qualche principe o repubblica, non avevano facoltà di fare statuti se non di licenza del principe o della dominante. Soltanto ne potevano aver riservato il diritto ; e veramente qualche dedizione, capitolazione e accomandigia del tempo, contiene siffatta riserva, mentre altre volte il principe stesso lo concede a questa o quella città. Ancona ebbe appunto da Gregorio IX (1337) un privilegio di fare leggi, anche senza l'approvazione superiore, in materia di merci, navi e negozi ma- rittimi. E si potrebbe trovare anche qualche altro esempio; ma i casi non sono frequenti.

In generale, alle città soggette non spettava questa piena libertà di fare leggi. Invece talvolta era la città dominante o il principe che dava lo statuto, salvo il consenso del popolo; ma più spesso la stessa città soggetta lo compilava o anche pren- deva da altre, salvo il consenso del principe o della dominante.

La massima, che nessun principe territoriale potesse Cetre co- stituzioni o leggi nuove senza il consenso dei maggiori e mi- gliori della terra, può vedersi in una sentenza imperiale dell'anno 1231 : Sententia de iure statuum terrae. Requisito consensu prin- cipum, fuit ialiter definitum, ut neque principes neque olii quili- bet comtitutiones vel nova iura facere possint, nisi meliorum et maiorum terre consensus primitus habeatur. La sentenza fu pub- blicata nella Curia di Yormazia. Infatti, per addurre un esem- pio, il vescovo di Luni, dette nel 1235 uno statuto a Carrara, e stabili che dovesse valere in perpetuo, de Consilio voluntate et consensu Adriani et Bonalbergi consules de Carraria et eorum consiliatorum.

Dall'altra parte abbiamo molti codici statutari compilati dalle città soggette, a cui il principe o la città dominante concedono poi la loro approvazione. Fu cosi che Innocenzo III approvò nel 1207 gli statuti di Benevento, e Federigo II nel 1233 le con- suetudini di Palermo. Anche il comune di Carrara, che vedem- mo teste ricevere uno statuto dal vescovo di Luni, un'altra volta elegge quattro savi perche rivedano alcuni capitoli ; infine vi si avverte che, datane lettura nella chiesa di Sant'Andrea di Car- rara, il vescovo di Luni e il consiglio del comune di Carrara e i consoli delle ville di Carrara li approvarono. Ciò accadde il 29 maggio 1260. Lo stesso si ripete in Moncalieri. Il comu-

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ne fece alcuni ordinamenti nel 1368 e Jacopo d'Acaia li con- fermò. Nel secolo XV Adria vnol riformare il proprio statuto e ne fa domanda al duca. Questi ordine al visconte della città che vi provveda insieme ad alcuni cittadini ; e il visconte e tredici commissari, eletti dal consiglio generale, compiono la riforma. Il duca la fece esaminare dai giudici della curia con facoltà di aggiungere e togliere ed emendare ; e avendone avuto risposta che la riforma era degnissima di approvazione, vi diede il suo assenso. Similmente Francesco Sforza confermò nel 1450 gli statuti e le provvisioni di Como. Egli osserva: Statuta et iam facia et provisionea hanestas canfermamus, et fienda vel fiendas valere volumua dum per noe fuerint cùnfirmata. In quel torno anche la repubblica veneta approvò gli statuti di Verona, Tre- viso, Belluno, ecc.

3. si trattava di una semplice forma. Che se talvolta la potestà sovrana riconobbe senza più lo statuto della città sog- getta, tal' altra non vi si prestò senza introdurvi qualche tempe- ramento. È il diritto che i principi o le città dominanti si ri- servavano sempre. Il patriarca Filippo d'Alen^on, confermando lo statuto del Cadore, lo avverte espressamente ; e anche le con- ferme &tte dalla repubblica veneta contengono la stessa clausola. la potestà sovrana mancò di oscure di questo suo diritto ogni qualvolta le parve opportuno. Ciò può vedersi già in un docu- mento di Carmignano dell'anno 1225, in cui è fatta parola del constitutum. È un documento curioso. Guittocino Sighibuldo eletto podestà di Carmignano stava per giurare ad breve et con- stitutum de Carmignano, davanti al popolo della terra congregato ad parlamentum seu aringum, e davanti al podestà di Pistoia e a molti Pistoiesi, che vi si trovavano per la guardia del ca- stello ; ma il podestà di Pistoia non voleva che giurasse, se prima un certo capitolo non fosse tolto dal Constitutum. Cosi si con- venne da una parte e dall'altra et cum rectoribue et hominibus populi de Carmignano in eodem aringo . , quod dictum eoptYtf- lum et quollibet aliud, quod esset in predicto constìtuto si expedi- ret, idem dominus .... potestae Pistorii cum supraeeripta potestate de Carmignano et cum eoneilio ipsius comunis de Carmignano poseet emendare et mutare et addere ibi et diminuere. Soltanto allora Guittocino giurò sul costituto. Ma lo stesso si rileva da un ordinamento di Moncalieri, del 13 febbraio 1358. Il comune

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aveva stabilito che tatti i lavoratori manuali e ministeriali, che venissero ad abitare in Moncalieri fossero esenti da ogni esercito o cavalcata del principe o del comune ; e anche da guaite, sca- raguaite, taglie, prestiti e altre imposizioni del comune i)er lo spazio di cinque anni. Soltanto dovevano sostenere i carichi, al pari di qualunque altro comunista, per le possessioni che aves- sero acquistato, e si doveva tenere un libro, dove scriverne i no- mi, e Tanno e il giorno, in cui vi si fossero trapiantati. Il prin- cipe di Savoia, pure approvando tali ordinamenti, vi aggiunge la restrizione che gli abitanti non fossero de' suoi luoghi o delle ville d'oltre Po. Inoltre, il potere sovrano poteva dispensare il podestà, che reggeva il comune, dall'osservanza di questo o quel capitolo. Una carta del 22 dicembre 1267 riporta il giu- ramento di Pagano di Terzago, milanese, podestà e capitano del comune e del popolo di Pistoia per Carlo d'Angiò, e dice tra le altre : salvia semper in omnibus et per omnia omnibus et sin- gulis preceptis .... summi pontifìcis eiusque legati et serenissimi domini Karolis serenissimi regis Sicilie et eius vicarii, et quod non tenear de his capitulis, de quibus dictus dominus rex me nomi- natim absolveret.

Non mancavano però gli attriti. Talvolta le città soggette introducevano nei loro statuti delle novità senza che la domi- nante o il principe, a cui sottostavano, ne dessero loro licen- za; e naturalmente la potestà sovrana reagiva. Il comune di Benevento sancì in questo modo più cose absque licentia sedis apostolicae, e papa Clemente IV le abolì. Dall'altro canto nep- pure i principi rispettarono sempre le convenienze del comune, e presero qualche provvedimento o modificarono o corressero qualche disposizione statutaria di moto proprio, senza che la cit- tadinanza vi acconsentisse. Il conte di Savoia usò talvolta con Moncalieri di far leggere e pubblicare senza più i suoi decreti nel consiglio generale del luogo ; e i consiglieri a protestare. Ne altrimenti il vescovo di Concordia elesse nel 1369 alcuni sta- tutari, perchè rivedessero certo statuto sugli omicidi e lo sur- rogò ad esso, senza sentire il comune.

4. Un'altra questione concerne la efficacia del diritto mu- nicipale, in ispecie la sua posizione di fronte al diritto comune : e già più sopra (p. 288 seg.) ne abbiamo toccato: ma non sarà inopportuno di aggiungerò qualcosa. In fondo erano i prin-

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cip!, che riscontrammo parlando del diritto oonsaetudinario ; e la cosa anche si capisce dal momento che tanto il diritto con- suetudinario quanto lo statuto rampoUaTano dalla medesima fonte, che era la volontà stossa del comune. Cosi la pensavano le scuole ; e non fa meraviglia che da questa uniformità delle ori- gini facessero derivare anche una parità di efficacia. In questo senso si erano espressi Jacopo de Bavanis e Pietro Bellapertica; e anche Cino da Pistoia e Bartolo e Giason del Maino sono nel medesimo ordine d'idee. L'unica differenza stava nel modo e nella forma con cui la volontà, che creava il diritto, si mani- festava : esplicitamente nello Statuto, tacitamente nella consue- tudine: rebus ipsis et faetie; e appunto questa differenza ne de- terminava altre, specie quanto al tempo e al numero degli atti che occorrevano perohò un diritto ne potesse nascere, anche re- lativamente alla scrittura, ma non per la efficacia: queste era la stossa. Il De Ferraris, nella Practica papiemis, la compen- dia in poche parole: Statuium est iantae potestatis in sua civi- tate quantae est lex communis in universo. Il diritto comune, come accenna il nome, era la legge generale, che con principi generali di giustizia, applicabili cosi nell' interesse del pubblico come in quello dei privati, regolava ogni atto della vite civile, e obbligava tutti. Il diritto municipale era invece l'eccezione o meglio il supplemento: la legge concernente le qualità par- ticolari dei singoli comuni, che rispecchiava come la speciale natura dell'esser loro, o la fisonomia locale, che non si sarebbe conservata, se tutti avessero obbedito ugualmente alla legge romana o ad altra legge. Perciò non obbligava Tuniversalità : vincolava soltento gli accomunati, non anche i feudateri o le persone soggette immediatemente all'Impero. E neppure gli ecclesiastici, perchè la Chiesa si considerava come una comunità indipendente di fronte alla comunità politica, e il clero figurava come un popolo a so, diverso da quello dei laici: cosi la consue^ tudo populi non aveva forza per esso. È un principio che si trova espresso per es. da Jacopo di Bavanis, Ciuo, Alberico da Rosate. Anzi ci fu un tempo in cui nessuno si credette tenuto ad osservare se non ciò che aveva giurato : l'obbligazione traeva la sua forza dal giuramento; e quando questo mancava, anche trattendosi di stetuti, era lecito a chiunque di violarli. Il prin- cipio è espresso da Boncompagno, Il quale dopo aver parlato

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degli statati della città, delle società de' giovani, delle confra- ternite ecc., soggiunge : Licet autem omnibus qui liberiate fruuntur secundum generalem consuetudinem Italie consimilia facere staiuta et eadem infringere, nisi iuramenti vinculum evidens prestiterit impedimentum.

Il principio stesso, che il diritto romano fosse la legge ge- nerale e lo statuto la legge di. eccezione, ricorre cosi di sovente che quasi ci potremmo dispensare dallo addume le prove. Non- dimeno amiamo di ricordame alcune. Il Breve curiae novae di Pisa dichiara, riferendosi al costituto: Hec omnia faciam et óbservaòo sicut mihi videbitur faciendum per Constitutum legis et per legem romanam ubi Constitutum non est, et per bonum usum quem Pisana civitas retinuit. Inoltre può vedersi lo Sta- tuto di Vicenza del 1264. Il podestà giurava di rendere ragione secundum leges et iura et statuta civitatis et bonum usum appro^ batum et consuetudinem, et si statutum legi contrarium reperiaiur, statutum tenear observare. Le leges et iura erano il diritto ro- mano, più specialmente le costituzioni dei principi e gli scritti dei giureconsulti, o, se più vuoisi, il Codice e il Digesto. Ed analogamente lo Statuto dei consoli di Como: Definiam secun- dum statuta civitatis Cumarum et, deficientibus ipsis statuti^, se-- cundum usus et bonos mores eiusdem civitatis approbatos, et, his deficientibus^ secundum leges et iura. Cosi pure Francesco di Legnano diceva a Matteo Visconti : Voi giurerete di reggere il popolo nel nome del signore da oggi innanzi fino a cinque anni con buona fede, senza frode, e custodirlo e salvarlo lui e gli sta- tuti; e, dove questi tacciano, starete aUe leggi romane. E po- tremmo anche citare gli statuti di Boma, di Trieste, d'Ivrea, di Casale, ecc. Dappertutto abbiamo lo stesso ordine di con- correnza tra le diverse fonti : lo statuto doveva precedere, e il diritto romano non aveva valore che di fonte sussidiaria; ma non mancano le eccezioni.

5. Anzitutto, non è esatto che il diritto romano fosse rispet- tato sempre come legge generale, a cui, nel silenzio dello sta- tuto, si dovesse ricorrere. Le leggi venete, come vedremo più sotto, non lo riconoscevano aflfatto; gli statuti di Benevento, an- cora nel dugento, sentenziavano che dovesse venir terzo, dopo le consuetudini e dopo le leggi langobarde; e generalmente, quando si trattava di città soggette, il diritto che si aveva per

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comune, prima ancora del diritto romano, era quello del prin- cipe o della dominante che si adattava qual supplemento al si- lenzio degli statuti locali, appunto perchò il principe o la domi- nante si riguardavano come sottentrati nei diritti dell'impera- tore rispetto alla città soggetta. Sebastiano Medici osserva che, se lo statuto rimandava al diritto comune, ciò doveva intendersi dello statuto della città che teneva il dominio, ammenoché non si fosse detto espressamente che s' intendeva delle leggi romane ; e il Forti aggiunge che i Fiorentini con la legge Urbem nostram dell'anno 1415 ridussero questa teorica a legge precisa per tutto il Dominio della repubblica. Soltanto, perchè prevalesse lo sta- tuto della dominante, si richiedeva che questa vantasse una vera superiorità territoriale e pienissima giurisdizione, come può vedersi in Alberico da Bosate, in Baldo, in De Luca, in Mascar- di ecc.

Inoltre qua e si faceva eccezione per qualche istituto, e fatta che fosse, il diritto romano non poteva più applicarsi. Ri- cordiamo le consuetudini milanesi quanto alle materie penali, e lo statuto di Verona del 1228 quanto alle solemnitates Novella- rum Constttutianum .... in libelli óblationibus, satisdationibus, fé- rtt>, dilationibus, sportulis dandisque possessionibua. Parimente lo statuto di Viterbo del 1261 riconosce Tautorità del diritto romano nei casi non contemplati da esso; ma talvolta vi deroga espressamente in favore della legge langobarda. Sicché mentre le cause in genere, a cui lo statuto non provvedeva, dovevano trattarsi e definirsi col diritto romano, alcune poche volevansi definite col duello ; e anche in materia civile si fa qualche strappo al diritto romano, specie per le tertiae dei matrimoni conchiusi col diritto barbarico, le quali dovevano regolarsi con esso e non con la legge romana.

6. D'altra parte, anche il principio che lo statuto abbia tanta autorità nella città quanta la legge comune nell'univer- sale, vuol essere inteso con discrezione; e realmente ha sollevato qualche disputa tra i giureconsulti, che si occuparono delle rela- zioni di esso col gius civile, senza che sieno riesciti a mettersi d'accordo. Certo, se si trattava di una disposizione proibitiva del gius civile, l'opinione comune era che lo statuto non po- tesse derogarvi, permettendo per es. un patto turpe, che il diritto civile proibiva; ma se la disposizione fosse stata d'altro genere ?

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Parecchie glosse equiparano lo statuto al patto, e sostengono, che, quando si poteva derogare alla legge per patto, doveva es- sere lecito derogarvi anche con uno statuto : se no, no, precisa- mente come abbiamo trovato nella consuetudine; ma un'altra glossa non vuole saperne di tale equiparazione. Raniero da Forlì l'ammette e la nega nel tempo stesso. Secondo questo scrittore, esiste la equiparazione positiva; ma non sempre la negativa. Ri- conosce senza più che nei casi in cui il patto può derogare alla legge, possa derogarvi anche lo statuto; ma quanto all'altro di una legge a cui un patto non può derogare, osserva che bisogne- rebbe considerare la ragione che voleva escluso il patto : se cioè lo escludeva perchè cantra bonos mares o per altri motivi. Il paragone tra patto e statuto reggerebbe nella prima ipotesi, non già nella seconda.

Col tempo si è anche sollevata la questione: se le disposi- zioni statutarie dovessero rispettarsi anche quando fossero con- trarie al diritto naturale e divino. Alberico da Bosate sostiene, che il giuramento del podestà non obbligava mai alla osservanza degli statuti ingiusti ; e che tutto ciò che contraddice al diritto naturale è nullo, perchè i diritti naturali sono immutabili, e per- chè devono considerarsi come leggi di un'autorità superiore. E una opinione in cui convenivano anche altri: anzi si può dire che fosse comunemente accettata. Invece per ciò che riguar- da la collisione con le leggi divine, che in sostanza si confon- devano con le leggi ecclesiastiche, c'era discrepanza. La glossa proclama senza più : qtiod lex humana potest distinguere non tollera ius divinum: e anche Alberico da Rosate le vuole rispettate, trattandosi appunto di leggi superiori; ma altri pensava che, come il diritto civile vi aveva introdotto delle modificazioni, cosi potessero introdurvene gli statuti. Già Cino è di questo avviso; e cosi Raniero da Forlì; ma Raniero ne trattò anche più completamente, distinguendo, a ragione, le disposizioni spi- rituali dalle temporali. Che se intomo alle prime nessuno pò* teva far leggi, quanto alle seconde, bisognava sceverare. Se erano state sempre di esclusivo dominio della Chiesa, lo statuto non avrebbe potuto ingerirsene, se non per una ragione che fosse suf- ficiente ad escludere il peccato; ma se anche altre leggi se ne erano occupate, purché vi concorresse una giusta causa, non do- veva essere negato di trattarne neppure allo statuto. In fondo, è

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il medesimo criterio che vedemmo adoperato per giudicare se una consnetadine poteva dirsi baona o mala : criterio, se vogliamo, ab- bastanza curioso ; ma lo statuto, sorto sulla base della consuetudi- ne, non poteva adottarne uno diverso. E la Chiesa ci teneva a mantenerlo, e ci tiene. Ancora a' di nostri Leone XIII ebbe a dire che ^ il rispetto, che si deve ai poteri costituiti, non può importare il rispetto, e molto meno l'obbedienza senza limiti, a ogni e qualunque misura legislativa emanata dagli stessi poteri, anche a quelle che fossero ostili alla religione e a Dio. Perchè non conviene dimenticare che la legge è una prescrizione ordi- nata secondo ragione e promulgata pel bene della comunità da coloro che, a questo fine, sono stati costituiti depositar! del po- tere „ Del resto non esitiamo ad ammettere che il principio ha dato buoni frutti. Non era infrequente il caso che qualche legge fosse stata, più che per debito di giustizia, dettata sotto Vimr pulso di speciali necessità politiche, o suggerita dalla passione più che da serena maturità di consiglio, e i giureconsulti si prestarono spesso a moderarne l'applicazione coi loro tempera- menti, o anche addirittura ad eluderla, riconducendola nell'or- bita dell'equità.

7. Indipendentemente da ciò, il diritto comune e anche la ragion naturale erano i principali strumenti della interpreta- zione. Ed è facile spiegarlo. I giureconsulti, imbevuti delle idee romane, avevano per odiosi tutti gli statuti che esorbitassero dal gius comune e cercavano di restringerne l'applicazione. Già Dino di Mugello aveva sentenziato : Verba dubia statutorum ad interpretationem et intellecium iuris communis redticuntur; e Cino da Pistoia voleva che s'intendessero molto restrittivamente ogni qual volta contraddicevano alle antiche leggi: <St, cum gtatuta $ini stricti juriSf et in quantum exorbitant a jure cofnmuni aunt odiosa et restringenda, debent stricte intelligi. Bartolo poi era d'avviso, che ricevessero dal diritto comune interpretazione pas- siva; e Baldo, che potessero trarsi alla norma del diritto comune, lo che infine torna alla stessa conseguenza. Così, dato il caso che una legge statutaria dichiarasse validi i testamenti compi- lati con forme non ammesse dal diritto civile, per es. con due soli testimoni, è indubitato che ad essi potevano nondimeno ap- plicarsi le norme del diritto civile sulla falcidia, sulla trebel- lianica, ecc. Lo nota Bartolo espressamente, e cita in appoggio

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la legge 1, § 1, D. 35, 2, la quale applica appunto la falcidia ai testamenti di cittadini morti in cattività, nonostante che per diritto comune non avessero valore e non fossero sostenuti che per la finzione della legge Cornelia. Baldo soggiunge ezian- dio, a proposito di questa interpretazione passiva, che lo sta- tuto riceve dal gius comune: la cosa può essere oggetto di di- sputa, ma converrà risolverla con una distinzione, e cioè: o la iìUenzione dello statuto è certa, e si deve stare allo statuto; o non lo è, e allora si ricorrerà ad un grano di sale perchè non si cor- rompaj e questo vuol essere il diritto comune. Più tardi l'Alciato si domanderà: se dovendo il primogenito succeder da solo, escluda il secondogenito anche nella legittima ; o se, dovendo il marito lucrare la dote della moglie, escluda i figli del primo marito anche quanto alla legittima, e citerà varie opinioni prò e contro.

Insieme s'inculcava di seguir sempre scrupolosamente T in- telligenza piana e letterale, finché era compatibile colla ragion della legge: altrimenti bisognava preferire lo spirito alla lettera; ma viceversa alcuni statuti volevano essere interpretati alla lettera. Per es. quello di Perugia dell'anno 1626: Qualiter cbhligatus prò clerico conservetur indemnis. TI legislatore av- verte: et nuUam recipiat interpretationem vél declarationem per aliqu^a iura civilia, vel canonica, vel municipalia.

8. Comprenderemo poi facilmente come una ricca lettera- tura, dovesse formarsi intorno a questa fonte di diritto. La sua stessa importanza la spiega; e già sullo scorcio del secolo XII i giureconsulti avevano cominciato a discorrerne pubblicamente. Anzi non si andrebbe forse errati riannodandola alla glossa. Vogliamo riferirci alle glosse del libro L, tit. 1-12 del Digesto, e anche a quelle del libro X, tit. 39 seg. del Codice. Per lo meno devono aver preparato lo studio degli statuti e spinto ad occuparsi della materia. Il codice degli statuti, che si conserva nel grande Archivio di Pisa, contiene una glossa del secolo XTTT piena di varie sigle che indicano una età anche più remota. Nel secolo XIII gli interpreti abbondano. Tra coloro che vi si dedicarono particolarmente, ricordiamo Boncompagno, celebre maestro di arte dettatoria, che ne trattò nel Cedrus circa l'anno 1201. Al secolo XIII appartengono anche Uberto da Bobbio, Guido da Suzzara, Alberto da Gandino, Dino di Mugello, lacobo d'Arena ed altri. Tutti si occuparono di questioni statutarie.

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Anche il commentario di Bartolo alla legge Omnes populi, che è la L. 9 D. de just, et jure può dirsi un vero trattato com- pleto sulla materia degli statuti. Egli ricerca chi possa farli, in qual modo, su quali materie, chi ne resti obbligato, da q«al tempo comincino ad obbligare, se ricevano interpretazione e co- me vengano dedotti in giudizio. E cosi Raniero da Forlì, nella ripetizione sulla medesima legge, ne studia vari punti: la for- mazione, l'oggetto, la durata, la competenza, la revoca, la re- troattività e la interpretazione. I commenti più copiosi però sono quelli di Alberico da Bosate, De statutis; di Baldo, Tra- ctatiM de statutis alphabetico ordine congestus e di Sebastiano Me- dici, De legibiM et statutis. Un'opera speciale d'interpretazione è dovuta ad Alderano Mascardi, ed ha per titolo: De generali interpretatione statutorum.

B. La legislazione di alcune città in particolare.

a. Le leggi della repubblica veneta, ^<>

1. Venezia è una città poco meno che meravigliosa. Sorge da umili inizi sotto la protezione di Bizanzio e con istituzioni bizantine, si afierma via via, quando ancora una fitta tenebra si addensava su altre parti della penisola, in mezzo a mille dif- ficoltà della natura e dei tempi, nulla dal caso, tatto aspettando

** Bibliografia. Fo^cabini, Della letUratura vencMiana, Veneiia, 1854, li- bro L Mamiv, Della veneta giurùfrudewuty Diacono, Venezia, 1818. Traduzione francese con prefazione di £. MiUaad^ Parigi^ 18G7. Valakcchi, liibliografia antUitiea della legUlaaione della repubblica di I enetia^ neU^** Aroaivio neneto »

, LeguM , _

il 1678). pAOBBrttA. De turi* et Ugum Venetarnm origine^ Venetiis, 1707. Nkori, Sorora la veneta giurieprtuienza^ Dissertazione storico-ori tico-legale, Padova» ITél, Fkhbo. Dizionario del diritto comune venetOf 10 voi., Venezia, l77Hw Bksta, 8u talune gìoeee degli etatuti eioili di Venezia eompoete nei eecoli XIII e XIV, Venezia, 1897 (negli ** Atti del reeio latitato veneto di scienze « tomo Vili, se- rio VII). Lo STERSO, Il diritto e le leggi civili di Venezia /ino al dogado di En- rieo Dandolo, Venezia, 1900 (nelP « Ateneo veneto , XX, 2 e XXII, 1 e 2). Lo 8TBSSO e Pbsoklu, Gli etatuti civili di Venezia anteriori al 1242 editi per la prima volta, Vanesia, 1901 (nel ** Nuovo Arch. venet<} nuova serie I e II). Delle TVomwMom' duetUi a stampa ricordiamo quella di £nrico Dandolo del 1192, edita e iUostrata ner cura del Lazzari neir" Aroh. stor. italiano., serie l^ tomo IX, app. 29 (1858); quella del Tiepolo del 1229^ pubblicata dal Bomanin nella Sto- ria di Venezia, II, 4d0; Tal tra del sao suocossoro Marin Moroeini con illustra- Kioni di Cesare Fouoard. Venezia, 1858^ e quella del doge Tron del 1471, nel- r ** Archivio storico italiano serie 1% tomo VII, 2 (18il). L'ultima è di Lo*

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dal senno e dal braccio, con indomata energia, che si raddoppia negli ostacoli, a segno che già nel secolo XI comincia a censi» derare l'Adriatico come un sno lago, e papa Ildebrando la salata contintiatrice vera della Uberià e dello spirito dell'antica Roma.

Non possiamo dubitare che la città fosse fin dalle prime for- nita di regole proprie: soltanto non conviene credere che, nel- l'antica semplicità dei costami, occorressero molte leggi posi- tive, bastando il baon senso e i dettami della equità naturale, aiutati dalle tradizioni e dalle reminiscenze del diritto romano. Ma esse crescono col tempo, specialmente quelle di carattere politico.

La Piromissione ducale era una di queste: comprendeva le discipline e la legge che il nuovo doge doveva osservare nel- l'esercizio del suo ufficio e, ad ogni elezione, si rinnovava. La possiamo chiamare il codice del doge. La più antica, che si co- nosca, è quella di Enrico Dandolo del 1192 ed è ancora rela- tivamente breve. Il doge si è obbligato ad operare in buona fede per l'onore e il bene del paese; a lasciare al popolo e al clero la elezione del patriarca di Grado e de' suoi vescovi suf- firaganei ; a rendere imparziale giustizia a tutti ; non creare giu- dici di palazzo che non fossero eletti; non fare inquisizione

dovico Manin del 1789. Il CapùoUtre dell' IlL et Eec, Mttgoior Comiglio fa

Sabblioato dapprima a Venezia nel 1577^ ma vi sono parecchie ristampe. Qaello elle elegioni ael Seren, Magoior Cansiglto vide la lace nel 1776 e comprende le leffgi delle elezioni dal 1278 al 1775. Il Capitolare dei eignori di notte fa edito dai co. Filippo Nani Mocenigo nel 1877j qneUo degli Inquieitori di Stato, dal Bomanin nella saa Storia di Venezia ; il Capitolare dei Viedomini del Fondaco dei Tedeschi, dal Thomas nel 1874. Lavori privati sono la CompUagione ddle leggi del Ser. Maggior Consiglio, deWEcc, Senato, deWeeeelso Consiglio dei X, eec, in fn€Ueria di uffici e bctnchi del ghetto, 5 voi., del co. Andrea Alvise Viola. Ve- nezia, 1786: quella deUe Leggi, terminctzioni et ordini €tppartenenti <igli iltuslr, et eccelL coUeaio e magistrato delle ac^ue, ecc. dell'avv. fiscale Giallo Bom^iasiOj VenezitL 17^L e il codice delle leggi attinenti al Consiglio dei X ed ai suoi tribunali, di Pietro Franceschi segretario dei correttori nel 1761. La Promis- sione del MaUfUio di Orio Mastropiero vide la luce per cura di £. Teza a Bo- logna nel 1868. Gli statuti civili anteriori al 1242 furono pubblicati da R Be- ata e B. Predelli nell^opera citata più su. Del resto per ^li Statuti civili ri- mandiamo aU'edizione pubblicata a Venezia nel 1729, col titolo: Nopisaimwm Statutorum ac venetarum legum volumem; per le le^gi criminali, all'edizione del 1751, col titolo: Leggi ertmtnoZt del seren, Dominto Veneto, Sono le più com- plete. Dello SplenSor eonsueludinum dintcUis Venetorum esistono due mano- scrìttiy neUa Vaticana lat. 5284 e nella Biblioteca imp. di Vienna sotto il n. 290. Di quest'ultimo fu tratta una copia nel 1847, che si conserva nella Marciana- ma lascia alquanto a desiderare. Un'altra, migliore, fu eseguita per cura di B. Predelli nel 1878 e si conserva nel regio Aronivio dei Frari. Edizione dello Sohupfer nella ** Bibliotheca iuridica medii aevi m, 1897. Ne scrissero : La Mantia V.^ Su lo Splendor Venetorum eiviteUis consuetudinum di €Haeomo Ber^ laido. Tonno, 1897 (nella ** Biv. stor. italiana « XHL 5-6) e Bbstjl, Jacopo Ber- laido e lo Splendor Venetorum civitalis consuetudinum, Venezia, 1897 (nel (" Nuovo «roh. veneto XTTT, 1).

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delle offese recate alla propria persona senza che i giudici si fosse- ro pronunciati; non inviare ambascerie o lettere al papa, a impe- ratori o re senza l'approvazione del Consìglio minore ; anche trat- tandosi di negozi comuni, si sarebbe attenuto alle decisioni di que» sto consiglio ; mentre per quelli che riguardassero più specialmen- te il Ducato, avrebbe sentito il Consiglio maggiore e minore. Tutto ciò promise il Dandolo ; ma la vera promissione tipo, su cui si modellarono poi tutte le altre, è quella giurata da Jacopo Tiepolo nel 1229, nella quale troviamo già parecchie aggiunte tendenti a restringere il potere del doge o a meglio determinarlo. Non awebbe eletto alcuno a collega o successore in tutto il tempo del dogato ; avrebbe solo duemilaottocento lire venete di stipen- dio annuo e alcune regalie in danaro dall'Istria, da Veglia, Cherso, Ossero, Arbe, Bagusa e Sansego; ma non riceverebbe doni da chicchessia, tranne acqua di rose, foglie, fiori, erbe odo- rifere e balsamo; mentre d'altra parte avrebbe provveduto del proprio a coprire il palazzo, e procurato l' importazione a spese dello Stato di mille moggia di frumento e altre mille per cura dei Consigli. Venendo, come che sia, meno al giuramento, pa- gherebbe cento libre d*oro purissimo alla cassa dei Camerlenghi di Comun.

Altre leggi politiche erano i Capitolari, che regolavano i consigli e collegi della repubblica e i magistrati proposti ai vari rami della pubblica azienda; e un decreto del Maggior Consi- glio, del 1266, ne discorre già come di cosa consueta. Origina- riamente contenevano tanto le leggi promulgate all'atto della istituzione del collegio, quanto quelle deliberate posteriormente; e non solo le provvisioni appartenenti al comune, ma anche le altre quaé pertineni specialibm personis .... et multa alia qttae statim vel per breve tempus expirant Lo si faceva forse con lo sco- po di conservar sempre nelle diverse magistrature lo stesso spirito, malgrado il mutamento delle persone, e perchè ognuno, entrando, potesse conoscere subito e precisamente quali fossero le sue fun- zioni. Se vogliamo, lo scopo non era cattivo; ma tutte quelle provvidenze mescolate assieme non potevano non generare con- fusione. E cosi fu: infatti nel 1376 si pensò di rimediarvi, ob- bligando i giudici ed ufficiali a scriverle in apposito quaderno, se riguardavano le persone particolari e non avevano durata per- petua ; mentre i capitolari dovevano contenere le altre. Però

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esistevano commissioni che a quando a quando li rivedevano, anche per ovviare alle dimenticanze. Un decreto del Maggior Consiglio del 1328 si riferisce appunto ad una correzione del Capitolare del Consiglio dei X fatta con questo intendimento ; e lo stesso Capitolare del Maggior Consiglio del 1677 attesta di essere stato riveduto dai clarissimi signori correttori delle leggio e che si avrebbe dovuto leggere e pubblicare nel primo giorno del Consiglio con dar il giuramento a cadauno giusta l'ordinario, dovendo poi d'anno in anno fare il medesimo giusta il consueto. Alcune sono anche pubblicate per le stampe cioè : il Capitolare dell' IllJ^^ et EccJ*'' Maggior Consiglio; quello delle elezioni del Consiglio medesimo ; il Capitolare dei Signori di notte ; quello degli Inquisitori di Stato, compilato nel 1669 da Angelo Xico- losi loro segretario ; infine il Capitolare dei Visdomini del fon- daco dei tedeschi.

Vi si aggiungevano le leggi private.

La proibizione del commercio degli schiavi è a Venezia assai antica. Una provvisione, sancita dal doge Orso Ipato (726-737), dichiara malvagio Fuso di ridurre gli uomini in servitù e ne proibisce la vendita ; ma le resistenze opposte dal costume erano grandi, e bisognò tornarvi sopra nel 960, proibendo nuovamente ai Veneziani di comperare e vendere schiavi o ricevere prezzo per acquistarne, e ai capitani delle navi, di prenderli a bordo e trasportarli, se non fosse per metterli in libertà. Ma possiamo ricordare anche altre provvisioni abbastanza antiche. Una del 1041 in Pregadi ordina, che ninno possa impetrare i benefici ecclesiastici di persona viva, ne procurare che ne venga privata : e un'altra del 1047, che ninno si possa appellare dopo trascorsi due mesi dalla fine del reggimento, nei luoghi di terraferma soggetti alla Repubblica. Altre ancora sulle doti e sulle testi- monianze, appartengono al dogato di Domenico Morosini (1148- 1166); e Sebastiano Ziani promulgò nel novembre del 1173 il calmiere o meta per le carni, le biade, il pesce ed altri comme- stibili.

Alle leggi e statuti in generale alludono due documenti im- portanti; ma non possiamo trame grande partito.

Correva Tanno 1094, quando i Veneziani, aderendo alla do- manda di quelli di Loreo, promisero di osservare con essi eam-- dem legem che con gli altri Venetici in placitis nostris et offènsio^

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nibus nostris si quando cecideritis ; ma è ben certo che la parola lex volesse significare legge scritta, o non anzi accennare sem- plicemente alla pratica e ai metodi dei giudizi?

L'altro documento è il trattato dei Veneziani col principe d*Àntiochia del 1167. Il principe concede che possano avere una curia propria in Antiochia et facer'e iudicia secundum legem et statata eorum^ ipsis judicantibus de quacumque querela in qua* cumque causa provocabuntur ; ma questo è quanto.

Invece abbiamo più precise notizie dell'opera di Orio Mastro- piero, di Enrico Dandolo, di Raniero Dandolo, di Pietro Ziani, di Jacopo Tiepolo, di Francesco e Andrea Dandolo, che sono i veri e propri legislatori delle lagune.

2. La Promissione del maleficio, ohe il doge Orio Mastro- piero pubblicò co' suoi giudici e savi e con la collaudatio atque confirmatio populi Venetiae, ò uno statuto criminale dell'anno 1181, piuttosto breve, ma che contempla varie specie di reati: le appropriazioni, i furti, le percosse, i ferimenti, gli omicidi ecc. È già una legge organica di materia penale, a cui s' inspirarono le altre posteriori, e che merita tutta la nostra attenzione. Nelle varie disposizioni, che contiene, segnaliamo quella che vuol pro- tetti i beni dei naufraghi. Qualunque fosse la nave veneta o forastiera, che avesse fatto naufragio nel distretto di Venezia, nessuno poteva appropriarsene nulUi sotto pena di pagare il dop- pio e anche risarcire il danno al Comune. È una legge, che segna un progresso, al pari dell'altra, che vieta di pignorare i forastieri senza permesso del doge. Ma non mancano neppure i pregiudizi propri dei tempi. Un capitolo contempla il caso di chi avesse dato da mangiare o da bere qualche maleficium ad un altro, per cui dovesse morire o perdere la memoria, e lo vuole severamente punito. Le stesse pene si risentono dei tempi, e basterà ricordarle: la forca, la fustigazione, la bollatura, lo strappamento degli occhi, il taglio della mano; e a volte la per- sona del reo è consegnata addirittura all'ofieso, perchè ne faccia le vendette. Ai giudici è lasciata una larga discrezione in al- cuni casi. Un ultimo capitolo stabilisce, che se qualcuno non facesse l' inventario dei beni quando fosse ordinato, ve lo si do- vesse costringere a forza.

Veniamo ad Enrico Dandolo.

Che egli abbia riformato le leggi civili che criminali, ri-

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sulta dal Supplementum alla Historia Ducum e da ciò che ne scrisse un altro doge, Andrea Dandolo nei suoi Annali: Dux hoc anno {1195) Siatuia edidit, et promissionem maleficiorum a praedecessore condiiam reformavit, qua, paucis additis seu cor- rectis, tisque in odiemum Veneti uiuntur. Ma abbiamo anche altre testimonianze. Marin Sanudo, il cronista, parla di ano statuto fatto eotto Arrigo Dandolo, come se egli stesso l'aves- se avuto sott'occhio ; e anche il Bertaldo ne raccoglie la tradi- zione, ricordando perfino l'anno in cui lo avrebbe pubblicato, e forse vi accenna eziandio col nome di parvum statutum, con cui gli antichi veneziani puri ac caetitate pieni sarebbero vissuti. Per ciò che riguarda la promissione del maleficio, ne fanno an- che fede le leggi criminali a stampa, che la citano, indicandone Ffioino, il mese e il giorno. Maggiori particolari riporta Paolo Bamusio nel De bello Costantinopolitano: Enrico Dandolo avreb- be trovato che le leggi civili, troppo aride, erano soggette alle cavillazioni dei litiganti, e ne sarebbe stato indotto a convocare un collegio di uomini esperimentati, che le riducesse a chiarezza maggiore: poi si sarebbero unite insieme e pubblicate nel 1195; e lo stesso avrebbero fatto con le leggi criminali, riformando e accrescendo alquanto la promissione di Orio Mastropiero.

Seguirono Raniero Dandolo e Pietro Ziani.

Ma la fama, sia del Mastropiero sia del Dandolo, sia degli altri, fu eclissata da Jacopo Tiepolo doge, che tenne il potere dal 1229 al 1249. Cominciò subito dalle leggi nautiche, di cui parleremo partitamente altrove ; poi riformò a mano a mano la promissione del maleficio e le leggi civili, infine pubblicò gli statuti dei giudici delle petizioni, abbracciando così, quanto era vasto, tutto il campo della legislazione. Stando ad una cronaca anonima del quattrocento, sarebbe stata questa nientemeno che la quinta fiada che el fo contado el statuto et li ordini et leze de Veniexia,

La riforma della Promissione del maleficio è del 1232 ; e an- che il Tiepolo attesta di averla fatta co' suoi giudici e savi del Consiglio e con la collaudazione del popolo. Si compone di 29 capitoli ed ò più lunga di quella del Mastropiero: nondimeno si appoggia ad essa e ne conserva perfino le parole. le dif- ferenze sono grandi. Generalmente la legge nuova è più chiara e determinata, per es. dove parla delle ruberie e prede commes-

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se nel distretto di Venezia, o delle malie ed erbarie ; e talvolta mitiga le pene, come può vedersi nel capitolo dei furti.

Le Leggi civili sono posteriori di dieci anni, e a riformarle giovò al Tiepolo l'opera di Pantaleone Ginstinian pievano di S. Paolo, Tommaso Centranigo, Giovanni Michiel e Stefano Ba- doer, uomini versati tanto nel gius civile quanto nel canonico. Lo stesso Tiepolo li chiama mros disertimmaa nobiles et diserei tas, e loro ampia autorità ut eecundum earum floridam pro^ vieionem deberent ea corrigere, dilucidare, componere^ omniaque facete quae ipai operi noverint opportuna. Che se nei detti sta- tuti fossero sorti dubbi od oscurità, essi stessi, o almeno due di essi, dovevano interpretarli insieme con lui per tutto la spa- zio di un anno, e la loro interpretazione avrebbe avuto il va- lore di legge. In fondo è stata una felice idea eseguita mae- strevolmente pei tempi, e non farà meraviglia che la città ac- cettasse con allegrezza il nuovo codice e più vi si affezionasse ^dopo averlo sperimentato comodissimo a sé, ne accetto meno alle genti, che da ogni banda vi concorrevano per occasione di traffico . Le parole sono del Foscarini, il quale ne loda la semplicità e anche il metodo, per essersi limitato a toccare i principi generali delle materie.

n codice stesso si divide in cinque libri e 203 capi. Il pri- mo libro provvede alle chiede e ai loro beni, e al modo di proce- dere davanti ai tribunali, specie nelle obbligazioni dei figli di famiglia, nelle doti, nelle ragioni delle vedove, dei forastieri ecc. Il secondo tratta delle tutele. Il terzo delle colleganze e com- pagnie tra fratelli e tra estranei, delle locazioni e delle vendite. U quarto delle successioni ereditarie. Il quinto delle eredità dei Veneziani morti fuori di Venezia, e anche delle donazioni, delle carte di debito e del modo di garantirle. A tutto pre- cede un trattatene sulle presunzioni.

Gli statuti dei giudici delle petizioni furono pubblicati nel 1244, e si occupano di procedura.

U Tiepolo compiva cosi la sua grande opera legislativa, a cui non mancò la fortuna, d'altronde meritata, di rimanere nella collezione degli statuti veneti. Al pari dell'Editto langobardo, essa non fu mai mutata nella forma ; ma naturalmente vi si ag- giunsero a quando a quando delle correzioni per adattarla alle

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nuove condizioni dei tempi, e si pubblicarono eziandio nuove leggi secondo i bisogni.

Cosi, nel principato di Francesco Dandolo, correndo Tanno . 1331, ed anche nei successivi, se ne incontrano alcune, che parte correggono le antiche e parte sono leggi nuove: in tutto cinquan- tatre, nelle quali probabilmente ebbe mano Riccardo Malombra, distinto giureconsulto, che dallo studio di Padova, dove insegnava leggi, passò, in questi tempi, consultore a Venezia. Altre sono di Andrea Dandolo. Ma questo doge fece anche di più ; perchè sia con le sue, sia con quelle di Francesco, e con alquante di Lorenzo Tiepolo, Qiovanni Dandolo e Piero Gradenigo, sull'esem- pio di ciò che Bonifacio Vili aveva fatto con le leggi cano- niche, formò un nuovo libro dello statuto, che, avuta l'appro- vazione del Maggiore e Minor Consiglio e della conclone popo- lare, aggiunse nel 1346 ai cinque del Tiepolo. Altre addizioni posteriori, deliberate nei diversi Consigli, si trovano in calce allo Statuto col nome di Consulti; ma non vanno oltre il se- colo XV e non sono riferite che per estratto. Un'appendice speciale è la legge Pisana del 1492, la quale prese il nome da Luca Pisani, che la propose al Maggior Consiglio, e regola la materia delle appellazioni. Altre costituzioni pubblicata sotto Agostino Barbarigo nel 1487 portano il nome di correzioni; e cosi fino agli ultimi tempi. Qualche legge, si antica che mo- derna, ricopiata dagli archivi, venne a quando a quando allo- gata tra i decreti e per mezzo alle costituzioni criminali o ci- vili, secondo la natura sua; ma tutti questi nomi di consulti, correzioni, decreti, leggi, significano la stessa cosa. In fondo, se ne togliamo i sei libri degli Statuti civili, la Promissione del maleficio, gli Statuti dei giudici di petizione e la legge Pi- sana, in cui la distribuzione è discretamente ordinata, il resto è un centone di roba, che cresceva ad ogni ristampa, mercè le nuove provvisioni che i raccoglitori privati credevano opportuno di trascegliere e aggiungere per uso del fóro.

La lingua originaria di queste leggi è la latina ; ma già pri- ma della regolazione del 1346 ci abbattiamo in una versione dello Statuto in dialetto veneto. Essa però non è intera ; poiché arriva fino al e, 44 del libro II; ma poi chi trascrisse quel codice abbandonò il volgare, seguitando sino alla fin© del Y libro il testo latino^ e non conobbe il VI. Soltanto, dopo il V libro si tro-

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vano quarantotto capitoli del doge Francesco Dandolo col titolo seguente: Questi si è li statuti e pubbliche fermacion companude e affermade in pubblico vengo siando doxe miss. Francesco Dan* dolo excellentissimo doxe de Venexia sotto l'anno de la incarna-' zione del nro segnar Jesu Xpto MCCCXXXI, ind. XIIII a mercore del mese de acosto. È una versione molto rozza, e il Foscarini, che la confrontò con altre scritture dialettali del tre- cento, ne argomenta che appartenesse a quel secolo. In seguito però fu ripulita. La traduzione a stampa, ohe si ha nella prima edizione degli statuti del 1477, è già migliore ; le altre usano un linguaggio anche meno arcaico.

3. Ma il patrimonio legislativo della repubblica è ben lungi dal ridursi a queste poche leggi, che abbiamo ricordato.

La maggior parte rimase fuori dello Statuto ; e se ne ha in numero stragrande, sia perchè il nuovo stato della città doveva un po' alla volta rendere meno acconce le maniere antiche, sia perchè ogni magistratura, anche delle minori, era come deposi- taria della sovranità nelle materie di sua competenza, e poteva dettar leggi. Dall'altro lato tutte queste estravaganti^ chiamia- mole cosi, provenienti da fonti tanto diverse, avrebbero corso rischio di andare smarrite se non si fossero raccolte; e un de- creto del 1310 ordinò appunto di radunarle in volumi e depo- sitarle neir ufficio delPavvogaria. Se ne conservano tuttora molte, che abbracciano tutti o parecchi rami di legislazione, con- servate nel regio Archivio generale veneto. Un' intera raccolta di ben 381 buste è probabilmente opera di Marino Angeli, e comprende le Ducali, i Privilegi, la Parti, le Terminazioni, i Proclami del Maggior Consiglio, del Senato, della Signoria, dei Consigli dei X e dei XL e dei vari magistrati di Venezia, tratte dai loro autentici registri, la massima parte a penna, distribuite in fasci per ordine alfabetico secondo le voci delle materie su cui versano. Ma ve ne sono anche altre. Bicordiamo per es. i Registri del Maggior Consiglio, in cui vennero di tempo in tem- po trascritte le Parti o deliberazioni di questo consesso sovra;^ no ; e si tratta addirittura di parecchi volumi, designati con vaxi nomi, come Liber communis, Luna^ Zaneta^ Pilosus, ilagnus et CapricornuSf Presbiter ecc., in tutto quarantun registri, che con- tengono leggi promulgate dal 1232 al 1703, anche decisioni speciali formul^e intorno a qualche caso. Altre raccolte di Parti

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del Maggior Consiglio sono : il Libro d^aro vecchio, il Libro d'oro nuovo, il Libro d^oro in venti volami, la Raccolta delle leggi del Maggior Consiglio in quarantono e le Filze, che ne contengono le deliberazioni scritte all'atto in coi furono prese, cominciando dal 1607. Di più si conservano tuttavia più filze e registri e collezioni di leggi e altre provvidenze del Senato su affari di Venezia e i suoi rapporti sia colla Terra Ferma sia con le pro- vinole d'Oltremare. E sono pure distinte con vari nomi: Filze del Senato, Filze Terra, Filze Mare, Registri del Senato in ben €68 codici, Libro Roano in diciotto volami e Libro Verde in cin- que. Altri registri si riferiscono al Consiglio dei X : tra questi il Magnile, il Liber Rubeus, il Sanctus Marcus ecc., e versano pure su diversi rami di legislazione, specie su argomenti crimi- nali, politici ed economici. Altri ancora sono registri dell' Av- vogaria di Comun: il Bi frane, il Cerberus, il Magnus, il Nq^tu- nus, il Brutus, il Philippicus, in cui stanno molte leggi del Mag- gior Consiglio spettanti all'ufficio degli Awogadori e alle loro attribuzioni. Anche il Yalsecchi nella sua Bibliografia della le- gislazione della repubblica di Venezia ricorda molte provvisioni su maberie di diritto civile, stampate separatamente dagli sta- tuti, come a dire sulla schiavitù, sulla cittadinanza, sulla capa- cità giuridica degli ecclesiastici, dei Greci e degli Ebrei, sul matrimonio, sui rapporti di famiglia e sulla tutela, e altre che riguardano il possesso e la proprietà, il pegno, le servitù, il di- ritto ereditario, e le obbligazioni, specie i contratti.

4. In mezzo a tutto ciò restava sempre un largo spazio alla consuetudine. Gli statuti la riconoscevano; e infatti essa conservò a lungo tutta la sua energia. Daniele Manin nota quanto potente fosse la consuetudine positiva, che suppliva o spiegava la legge o la modificava, e anche più la negativa, cioè la dissuetudine, che la distruggeva ; e soggiunge: ^ Per essa con la lunga osservanza vennero abolite moltissime leggi, che seb- bene mantenute nel volume degli statuti, restarono senza vi- gore ed effetto, come lettera morta, come storica rimembranza di tempi trascorsi . Specialmente la si vede operare sulle leg- gi penali, la cui atrocità, forse opportuna alla rude e feroce adolescenza del popolo, mal conveniva ai più miti costumi di un'età più avanzata. Ma non ne mancano esempi anche in ma- teria civile. Lo Statuto stabilisce la massima che ogni contrat-

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to, che alieni o vincoli beni immobili, debba notificarsi al ma- gistrato dell'esaminatore, sotto pena di nullità ; ma per consue- tudine rimase obbligatoria soltanto la notifica delle donazioni e degli atti pei quali fosse specialmente prescritta da leggi po- steriori. Le stesse locazioni, di durata maggiore di un biennio, avrebbero dovuto per legge essere istromentate e notificate; ma la consuetudine abrogò anche questa disposizione, permettendo che si stipulassero con scrittura privata senza badare alla du- rata. La legge aveva stabilito che l'inquilino potesse essere congedato prima del tempo, se usava della casa disonestamente, 0 se il locatore stesso ne aveva bisogno per abitarla, o se oc- correva di rifabbricarla o notevolmente ristaurarla; ma la con- suetudine ammise che anche per altre cause potesse venir con- gedato, specie per il mancato pagamento della pigione. Del pari, è detto nello Statuto, che i figli possono essere privati della legittima, se hanno posto le mani addosso ai genitori; ma in pratica si ammettevano anche altre gravi cause di disere- dazione.

Insieme possiamo ricordare più opere che trattano di con- suetudini veneziane.

Già il Fosoarini richiamò l'attenzione sopra un manoscrit- to, ora edito, che s'intitola pomposamente Splendor cansueiur num civiiaHs Veneiarutìiy e che già nel prologo fa un grande elogio della consuetudine. La quale, se cede per dignità e for- za al diritto scritto, è alla sua volta prevalente d'utilità, poi- ché dalle consuetudini sorge la luce che rischiara gli intendi- menti degli statuti, che senza tale aiuto ben si potrebbero leg- gere, ma non comprendere. E nondimeno (continua) l'impero della consuetudine è meno esteso di quello degli statuti : tanto è vero che questi fanno legge da Orado a Cavarzere, mentre le consuetudini rialtine non vanno oltre ai confini della città di Rialto. Del resto non si tratta che di consuetudini forensi; e lo si rileva anche al solo leggerne le rubriche ; ma poi l'autore stesso dichiara che il suo scopo era di venire in aiuto a coloro che frequentavano i tribunali. Perciò ne espone la giurisdizio- ne, ne indica i procedimenti, rende anche più efficace la sua esposizione con qualche formala ; e solo qua e tien conto del diritto materiale, come delle alienazioni degli immobili, delle doti, dei testamenti, ecc.

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Ne è autore Giacomo Bertaldo parroco di S. Pantaleone, già cancelliere ducale, poi vescovo di Veglia, il quale accenna in principio di aver avuto esperienza del fòro per lo spazio di tren- t'anni; ma non è vero che l'opera sia stata composta sub anno domini MCCXLV, come porta il testo. La data è evidente- mente errata: perchè risulta da carte autentiche che il Bertal- do viveva ancora nel 1301, 1310 e 1314, nel qual anno scrisse il suo testamento, e di più fa menzione di Marin Zorzi come di doge vivente al tempo in cui dettava il libro, mentre si sa che il Zorzi tenne il potere solo dal 20 agosto 1311 al 3 luglio 1312. Perciò il Foscarini era d'avviso che si dovesse correggere Tanno in MCCCXI. Noi pensiamo piuttosto che l'opera sia stata cominciata in quell'anno e continuata nei seguenti, ma non com- piuta. L'autore si proponeva di occuparsi di molte materie, che non trattò ; e risulta chiaro che lo colse la morte prima di com- piere il lavoro.

Ma abbiamo anche un'altra scrittura d'ignoto autore, ohe in quindici capitoli discorre dei metodi processuali in uso presso i magistrati del proprio, dell'esaminatore, delle petizioni e del mobile, e che è pure desunta dalle consuetudini. Si conosce sotto il nome di Pratica del Palazzo veneto; ma, oltre che es- sere posteriore di tempo, ha minore estensione dello Splendor^ ed è anche inferiore di merito. Nondimeno ebbe maggior for- tuna, perchè lo stampatore Benadio ja pubblicò nel 1528 insie- me con lo Statuto, e poscia rimase sempre con esso, acquistando autorità di pubblica norma.

Pochi anni dopo, nel 1664, vide la luce un libretto col ti- tolo: L'avvocato^ dialogo diviso in cinque libri, senza nome di autore, pur sapendosi essere opera di Francesco Sansovino; e anche esso si occupa, sebbene succintamente negli ultimi tre libri, delle pratiche del fóro veneto.

Altri lavori composti da giureconsulti privati coi titoli di pratiche civili, criminali e simili appartengono alla fine del se- colo XVII e al XVIII, e anch'essi tengono conto della consue- tudine. \

6. Tale si presentava la legislazione veneta, certamente di- sordinata nella forma, ma corrispondente ai bisogni del popolo e del paese, animata, com'era, da uno spirito costante di giustizia, di equità, di sollecitudine quasi paterna ; e il popolo se ne mostrava

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tanto persuaso ohe amava le sue leggi e il suo governo. Il Manin osserva che "il riverente amore del popolo per la repubblica, che, caduta, chiamava col dolce nome di ìwstra cara mare (ma- dre), è in gran parte spiegato dalla bontà della legislazione e dalla retta amministrazione della giustizia „. Ma anche gli stra- nieri avevano queste leggi in gran pregio: tanto è vero che nel 1506 la città di Norimberga scrisse al Senato perchè le man- dasse quelle che provvedevano all'amministrazione dei tutori e all'interesse dei pupilli.

Lo stesso governo se ne mostrava oltremodo geloso, e ciò spiega alcune particolarità, che vogliamo ricordare. Una ri- guarda il diritto comune.

La pratica costante delle nostre repubbliche, lo abbiamo già avvertito, s' inchinava alla legge romana : anzi voleva che vi si fa- cesse ricorso quando le leggi particolari non provvedevano ; ma a Venezia no. Lo stesso statuto del Tiepolo avverte, che, occor- rendo cosa che non vi fosse nettamente decisa, si dovesse giu- dicare secondo la somiglianza dei casi, oppure a norma delle consuetudini approvate; e se il caso era addirittura diverso, o mancava la consuetudine, i giudici dovessero disporre come pa- resse giusto ed equo alla loro provvidenza. Di testi civili, a cui si dovesse ricorrere, non è parola : onde Bartolo ebbe a dire ohe i Veneziani giudicavano manu regia et arbitrio suo. Ma an- che altri ha notato il divario; e non solo de' nostrani. Arturo Duck lasciò scritto: Veneti ex omnibus Italiae populis minime romanas leges admiserunt. . . . Ideo interpretes iuris, dum de Ve- netis loquuntur, alii dicunt eos regi consuetudinibus et iure non scriptOy alii iure naturali et gentium. Ed è vero. Soltanto ci guarderemo dall'asserire, che le leggi venete non avessero al- cuna attinenza con le romane. La repubblica era pur sorta su base romana, e non poteva sfuggire alla influenza di Roma per ciò che si riferisce al diritto, come per il resto. Lifatti, ri- spetto ai due prologhi dello statuto e al libercolo delle presun- zioni, lo dimostrò già il Melchiori nella sua Miscellanea di ma- terie criminali; ma lo stesso potrebbe ripetersi anche di altre leggi, se si confrontassero con le romane. Specie le materie della dote, dei peculi, delle tutele, anche le successioni e le ob- bligazioni sono piene di reminiscenze romane, e in parte si fon- dano su quel diritto. Una carta di donazione del 1152 vi si

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richiama espressamente ; e anche altri documenti riproducono la stessa formula: Quia in legibus piissimorum augustorum cautum aique preceptum est ut quod semel datum vel donatum fuerit, nullo modo revocetur.

Un'altra particolarità concerne le glosse. Ne esistevano fin dal secolo XIY nel margine degli statuti, quando un decreto del Maggior Consiglio del 3 maggio 1401, le abolì, considerando essere buona cosa che sui detti statuti non esistesse alcuna scrit- tura diversa dal loro tenore. Lo scopo era di mantenere intatta e rispettata la semplicità del testo : perciò s' ingiunse agli Av- vogadori di far cancellare tutte le postille che trovassero nei li- bri degli statuti veneti presso i magistrati, e anche si vietò di mai più scriverne in veruna parte sotto pena di bando perpetuo. È un decreto, che ci fa risowenire di un altro simile dell'im- peratore Giustiniano ; e, almeno in sulle prime, dev'essere stato osservato se è vero che un codice antico, custodito nell'Archivio dei Frari, porti tracce di postille marginali abrase ed espunte. Ma non vorremo dire che lo si rispettasse costantemente. Quasi tutte le edizioni degli statuti, cominciando da quella del 1548, hanno postille marginali, che accennano alle rivocazioni o con- cordanze 0 discordanze dei luoghi ; e dovevano diventar sempre più numerose, quanto più crebbe il numero delle leggi, che si andarono a mano a mano pubblicando, sia per esplicare o correg- gere, sia per abolire le precedenti. Non sappiamo a chi prima deb* bano attribuirsi ; ma il Foscarini pensa che sia stato Jacopo No- vello. Certo, il divieto dei legislatori veneti non raggiunse il suo scopo, come non l'aveva raggiunto tanti secoli innanzi quello di Giustiniano.

Aggiungiamo, che allo Statuto obbedivano anche le isole che formavano il comune di Venezia ; ma d'altronde ognuna poteva già in antico toglierne ciò che non si adattava bene alle proprie convenienze e anche introdurvi dei cambiamenti. Ciò appari- sce dallo statuto di Chioggia, e anche dagli statuti di Lido, a quei tempi assai frequentato di abitatori, di Cavarzere, Caorle, Murano, Malamocco, Torcello, Mazzorbo e Burano. Quello di Chioggia è del 1247, e, dopo aver nominato le persone destinate a raccorrò gli statuti, ne indica l'incarico cosi: Ut ex libro Sta- tutorum civitatis Venetiarum debeant ea statuta seu leges deUge- re, quae noscerent Clugiae civibus utiliter expedire, conformantes

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ea, Jt qua fuerint^ quibus primitus utébantur, nova insuper op^ partuna fieri componendo. Ma esistono anche correzioni degli anni 1331, 1373 e 1392. A più forte ragione le provincie di terraferma e d'oltremare erano rette da loro particolari statuti ; mentre quello veneto valeva tutt'al più come diritto sussidiario. Un consulto del Maggior Consiglio del 1487 ci fa noto per ap- punto, che in quasi tutte le prime promissioni e privilegi si conteneva quod ipsis civitatibus .... et locis debeani observari già- tuia et consueiudines eorum. E più d'una istruzione, data ai pò- desta delle città soggette, dice veramente, che dovevano rendere ragione ai terrazzani secondo i loro statuti ed usi con questa sola restrizione che fossero conformi a giustizia e al buono stato del luogo e all'onore del Dominio veneto. Che se gli statuti e le consuetudini non bastavano, dovevano giudicare come cre- dessero meglio, secondo coscienza. In questo senso si esprime già il giuramento dei rettori veneti di Tiro del 1124, e anche* in seguito si continua cosi. La istruzione data nel 1491 al po- destà di Rovigo non è concepita diversamente. La repubblica veneta, tanto gelosa della propria autonomia, non rispettava meno quella delle terre sulle quali stendeva il suo impero.

b. I Brevi e I Costituti di Pisa. "

1. Da una città bizantina passiamo ad una langobarda, antica sede di conti e marchesi, poi cospicua repubblica an- ch'essa. Già nel secolo XI era una ricca piazza visitata perfino dagli infedeli di lontane regioni, cosa che al buon Donizone pareva una indegnità:

" Qmì ptrgit Pisae videi iUic monsira marina, Hate urbe Paganie, Turchie, Libyeie quoque Parihie Sordida, Chaldaei eua lueirani liiora ieiri„.

** Blbllosralla. VauiobIi De veUribtié pisanae eifyitalii canMutU, Fior. 1727. Dal Boboo BL Diu, $opra Vittoria dei cedici pitoni delle Ptffulette. Laoca . 17(^. Taroioki Q.J Digrtsiioné eopra gli ttatuii cmtiehi di Pi$a (nella ** Èelas. di alcuni Tiagffi fatti in diverse parti della Toscana « 2* ed., tomo U, p. 186 segK.)* Baumbb, MUomÌ4me sopro un eodiee inedito di leggi muniewali pitUcme letta alla re^a Accad. delle soiense di Berlino il 15 novembre 1827. Tradux. ital. in Bo- naini, AppmUi por eoroire ad una Bibliografia degli etatuii italiani (art. Pisa), inseriti n€«H * Annali deUo Univ. toscane « toL n e III. Bosaiut. nei Proemi alla sua eduione degli Statuti inediti della eittà di Pi$a dal XII ol XIV eeeolo, 8 yoL, Firenae, 1854-70. Gau dissi A., A proposito di un nuovo manoecriUo costituto pisano, nei * Rendiconti della restia Accademia dei Lincei serio V, Tol« HL 18£NL ScHAUBR, £ntstéhungsgeschiehte des pisanischen Constitututu usus. nella * Zeitechr. fOr Mandelsrecht . XLVI, 1, 2. Della glossa di Tommaso di Tripalle al Costituto e della sua li oreria (seo. XIII) discorre il SiMoxBScai ne- gli Sludi pisani, U, Pisa, 1891.

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Che se Venezia era il grande emporio dell' Oriente, Pisa figu- rava tra le prime città dell'Italia occidentale: forse aveva con- soli fino dal 1063, e agiva liberamente senza il beneplacito di imperatori o l'aiuto dei marchesi, anche cimentandosi in gravi imprese guerresche, contro Genova (1077), contro il tegolo di Tunisi (1088), nel conquisto di Terra Santa (1099), contro i Mori delle Baleari (1114-1116), contro Amalfi (1136), dove la leggen- da vuole che scoprisse il prezioso codice delle Pandette.

E vantava leggi, che rispecchiano molto nettamente, forse me- glio che altrove, V indole e il divenire della comunanza, sebbe- ne non tutte sieno soprawanzate alla ingiuria del tempo o alla noncuranza degli uomini.

2. Già dai primordi del comune, e anche in seguito fin- che durò il consolato, si usò di comporre tanti diversi sta- tuti quanti erano gli uffici che presiedevano al governo della cosa pubblica: consoli, senatori, treguani, vigili, sindaci ecc.; ma tra tutti avevano speciale importanza quelli dei consoli. Altrimenti si dicevano Brevi; e sappiamo che erano la formula giuridica proposta dal popolo ai suoi reggitori e agli altri mi- nistri del comune come norma di governo. Appunto questo carattere risulta da due Brevi dei consoli del comune, che tuttora possediamo, degli anni 1162 e 1164, che non sarà inutile di riassumere, anche per formarci un' idea più esatta del vero ca- rattere di questa magistratura.

Ogni console giura, che per tutto l'anno, del suo ufficio, cu- rerebbe l'onore della chiesa pisana e della città, nominerebbe gli ufficiali subalterni e ne riceverebbe il giuramento sui brevi, e anche farebbe eleggere i consoli dei negoziatori, i soprainten- denti delle strade e i sindacatori. Farebbe giurare trecento uomini, tenuti a prestare il servizio a cavallo durante il tempo del suo consolato, e darebbe opera ad armare le galee e a com- piere quelle non ultimate. Se i ooUeghi lo destinassero ad amministrare la giustizia o anche lo mandassero nel distretto prò vindictis et iustitiis fadendis, non rifiuterebbe. Non indur- rebbe alcun ufficiale a menomare la giustizia a chicchessia; e terrebbe ferme le sentenze, i lodi, le convenzioni che avessero fatto tra le parti. Così pure i Constituta; e sia quelli della legge, sia quelli dell'uso. Non spedirebbe messi che non aves- sero giurato, davanti ai senatori e ai savi della città, di portare

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rambasciata fedelmente e senza frode. Terrebbe la fedeltà e sicurtà giurata all'imperatore Federigo, e oosi le sicurtà strette coi giudici della Sardegna e tutte le sicurtà e paci e tregue, specie quella fatta dal vescovo Gerardo; e anche il lodo del- l'arcivescovo Daiberto. Non spingerebbe col consiglio o col fatto il popolo a impegnarsi in una guerra senza il voto dei se- natori e di sei uomini discreti, per ogni porta. Farebbe tenere al camerario pubblico tutto ciò ohe venisse in suo potere del comune ; disporrebbe dei beni comunali a piacimento, ma col consenso degli altri consoli, e anche con quello dei senatori, se- condo la somma, ad eccezione degli stipendi degli ufficiali e vassalli : egli stesso non doveva avere che un feodum di dodici lire e non ricevere più di due soldi da chicchessia prò iustitiis faciendis o per altra cosa di sua competenza. Non comprerebbe incanterebbe nulla delle cose del comune ; terrebbe i beni dei cittadini, salvo che prò vindicta convenienti, vel data, aut aliqua tasta occasione. Farebbe circondare di fossi i prati di Arsole destinati ai pascoli dei cavalli dei cittadini, e non per- metterebbe ad alcuno di occuparli per sua utilità privata; li darebbe per debito o feudo; li alienerebbe. Provvedereb- be perchò non si costruissero torri oltre una certa misura, e di- struggerebbe le compagnie dei cittadini e villani, che si fossero formate contro il comune onore. Prevedendo che scoppiasse qualche lotta tra cittadini, si studierebbe senza frode di sedarla ; e non pronuncerebbe sentenza contro i cittadini nisi de negotio a partibus in me libera voluntate commisso aut prò vindicta ultra solidos centum. Qualunque fosse il negozio, per cui chiedesse il consiglio dei senatori sotto fede di giuramento, lo seguirebbe; e se imponesse loro qualche credenza, non la paleserebbe poi ad credentiaram damnietatem. Conchiudeva: Haec omnia.... per me vel per meum socium aut socios, me sciente, stne fraude óbser- vabo a proximis kalendis ianuarii usque ad annum completum, et insuper capitala ad avere pertinentia, sicati infrascripta sunt, sine fraade observabo. I detti capitoli spettanti all'avere erano, come si vede, annessi al Breve, e i consoli giuravano di osser- vare anche questi.

Al Breve dei consoli faceva riscontro il Breve del popolo ossia la formula giuridica di tutto il popolo o del maggiore numero dei componenti il civile consorzio, che si giurava ad ogni rin-

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novarsi del consolato. Ne fanno fede per gli anni 1162 e 1164 i due statati dei consoli più sopra citati, e pel successivo anno 1170 abbiamo le formali parole del trattato di pace co' Fioren- tini, le quali suonano cosi : Et in breve cansulum vel Redtoris has eecuritaUe miUere faciam et sic firmas tenere et tri Breve pò- puli. Invece non possiamo riferirne alcuno, e soltanto lo* ai potrebbe ricostruire con Tordinario giuramento della cittadi- nanza : 8(icramentum cittcuUnatuSj dicono i diplomi. Perche an- che questo era un patto che legava il cittadino a chi gover- nava; e propendiamo a credere (l'abbiamo già detto) che insieme con le forme esteriori, ne riproducesse in buona parte anche l'intima essenza. A questi tempi appartiene appunto un bel- l'istrumento dell'anno 1198, riferito da Flaminio Dal Borgo nella Raccolta di ecelti diplomi pisaniy sulla cittadinanza conce- duta a Opechino del Sasso da Bientina.

Opechino giura sui vangeli di non contribuire deliberata- mente col consiglio o col fatto a che la città perda l'arcivesco- vato, nò i vescovati, il primato, la legazione della Sar- degna, e neppure l'onore o gli onori conseguiti o che fosse per conseguire. Sia che abitasse o no nella città, farà e osserverà senza frode quanto il podestà di Pisa, conte Tedicio, o i rettori o consoli o il capitano gli ingiungessero in persona, o coi mezzo di un loro nunzio, o in iscritto, per l'onore della città, sia in ordine alle persone, sia in ordine alle robe. Sapendo che qual- cuno volesse menomare l'onore della città, lo impedirà, se potrà farlo senza gravi spese: se no, ne darà prontamente notizia a quegli ufficiali. Difenderà le persone e gli averi dei cittadini pisani per terra e per acqua e dovunque potrà. Infine non ma- nifesterà deliberatamente a chicchessia le credenze ricevute sotto fede di giuramento. Conchiude : Hec omnia euprascripta «eeim- dum meam conscientiam eine fraude observabo eecundum coneue- tudinem aliar um civium Pisane Civitatis; et taliter Stefanumjì^ dicem et notarium et Pisane Civitatis ccmcellarium scribere roga^. Il podestà conte Tedicio lo investi alla sua volta in nome del comune e della città di Pisa di tutti gli onori e privilegi propri dei cittadini pisani nella città e fuori, nei fondaci, nelle bot- teghe, nelle navi e dovunque, per terra e per mare, perchè ne godesse al pari degli altri, e anche lo liberò, insieme co' suoi

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eredi, da tutti gli oneri rustioani, onde non fosse più tenuto a fare servizi di quella specie o pagare la data.

I brevi stessi, e tanto quelli dei oonsoli quanto quelli del popolo, venivano oonoordati ogni anno da appositi savi ; e spet- tava ai consoli di eleggerne cinque prima dell'ottobre, appunto con questo incarico; ma, salvo qualche ritocco, solevano rinno* varsi, servendo cosi anche pei tempi successivi. Dai due brevi dei consoli risulta veramente, ohe il testo, primamente ordinato, servi, con leggiere mutazioni, anche ai consolati che vennero dopo. Senonchò una revisione era necessaria, se non altro per introdurvi le securtà che si fossero oonohiuse nel firattempo. Abbiamo veduto che quella coi Fiorentini doveva inserirsi in ambedue i brevi, e altre figurano veramente nei brevi dei oon- soli, che ci sono rimasti.

3. Più tardi troviamo uno Statuto del podestà e uno Sta- tato del popolo; ma Tuno e l'altro sono sostanzialmente diversi- In generale rispecchiano l'evoluzione comunale. Anche Pisa, come altri comuni, fini con l'essere retta da un podestà, ma non prima del 1190, e solo saltuariamente, finché, nel 1286, dopo una continua vicenda delle due forme, la carica consolare, cedette il posto. Naturalmente, in questo lasso di tempo, lo statuto dei consoli si mutò nell'altro, che fu detto il Breve pisani Podeetatis, o anche il Breve pisani Communis; e una carta del 1236 ne riferisce già un capitolo. Insieme ab- biamo notizia di alcune revisioni del 1276 e del 1278: anzi della prima resta tuttavia un ampio frammento, da cui rileviamo ohe era distribuita in quattro libri; mentre della seconda si sa che un capitolo era tornato mal gradito all'arcivescovo Bug- geri ed agli ecclesir.A44gL si che fu d'uopo prosciogliere il podestà dall'obbligo di osservano, nonostante il giuramento prestato. Lo statuto, a difierenza di quello più antico dei consoli, era og- gimai la somma del diritto pubblico relativo ad ogni ordine di persone, e neppure gli ufficiali minori ne possedevano altri: venuti alla dipendenza del podestà, dovevano anch' essi seguirne il breve ; e il podestà vegliava a che lo osservassero : Brema aliqua vel statata offlciales pisane civitatis et districtus non pc^ tiemur neque permictimus habere^ aut cUiquibus brevibus vel stattUis uti, nisi eapitulis huius Brevis, que servare teneamur. Nondi- meno era fatta eccezione per alcuni.

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Di un Breve Populi Pisani communis è memoria nella revi- sione del Costituto dell'uso del 1270, e anche il frammento del breve del podestà del 1275 ci informa della sua esistenza; ma deve essere più antico. Probabilmente rimonta all'anno 1254, o giù di li, in cui il popolo magro si affermò di fronte alla no- biltà e alla borghesia grassa, costituendosi in un comune spe- ciale coi suoi magistrati e coi suoi consigli. Era quel medesimo rivolgimento che anche Firenze, non molto innanzi, aveva ve- duto compiersi per simili ragioni; e il Breve Populi Pisani com- munis ne è la fedele imagine. Ma appunto perciò esso appare di- verso dal sue omonimo più antico : non è più un patto che leghi l'universalità dei cittadini ai governanti ; è lo statuto di questo nuovo comune del popolo, e non riguarda se non gli ordini mercè dei quali i popolani erano giunti ad afforzarlo.

4. Un momento solenne per la storia di Pisa fu la rotta della Meloria (1284): fatto tristissimo, che mentre decise se la preminenza dei mari dovesse spettare a Pisa o a Genova, non fu senza conseguenze negli ordini interni della repubblica. In realtà essa corse rischio di perdere anche ogni avanzo di libertà politica. Ugolino conte di Donoratico e Nino Visconti suo ge- nero, giudice di Gallura, raccolsero nel 1285 ogni autorità in se stessi, coli' intitolarsi ad un tempo Podestà, Capitani del Po- polo, Rettori, Governatori del Comune; ogni cosa era alla loro balla, perfino la vita degli anziani del popolo. Il momento è importante anche per la storia della legislazione.

Appunto in quei travagli, correndo l'anno 1286, il breve del comune e quello del popolo furono assoggettati entrambi ad una riforma, e ridotti in un solo volume. Sono gli statuti, che vanno sotto il nome di Breve Pisani Communis e di Breve Pi- sani populi et compagniarum. H Bonaini, che li pubblicò sen- tenzia piuttosto severamente su di essi: erano stati già com- pendi di garanzie di un vivere libero e diventarono (specie il secondo) due codici di tirannia: la virtù degli ordini antichi poteva dirsi spenta, e cosi quella di quei politici regolamenti che in altri tempi avevano causato la grandezza di Pisa.

Il Breve Pisani Communis conta quattro libri di varie pro- porzioni.

Il primo, mancante della generale intestazione, è il più lungo. Ha centonovanta rubriche e tratta di cose politiche: dei con-

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sigli e degli ufficiali del comune, delle curie, dei castelli, delle paci e delle guerre, delle torri, degli introiti, delle condanne, delle date e dei beni comunali, della moneta, delle arti, e anche di cose riguardanti la giustizia, come a dire citazioni, sentenze e lodi, invasione di possessi, arresto per debiti, cessione di di- ritti ecc.

Il secondo porta l' intestazione de privilegiis^ e ne discorre in undici rubriche. Bicordiamo i privilegi della curia di S. Sisto» delle quattro arti, della curia del mare, del comune dei mi- liti ecc.

Il terzo de maleficiis contempla varie figure di reati : le eresie e le bestemmie, le offese recate a pubblici ufficiali, gli assem- bramenti, gli aiuti ai banditi, gl'incendi, la falsificazione di mo- nete e di carte, le testimonianze false, le uccisioni, i ferimenti, le ingiurie, il ratto delle donne e gli stupri , ma anche contrav- venzioni di polizia, come il porto d'armi, l'adulterazione dello zafferano^ la falsificazione di canne, pesi e misure, il meretricio, i giuochi, e perfino semplici provvedimenti di mercato. In tutto settantasette rubriche. Notiamo alcune regole generali. Il po- destà e il capitano giuravano che avrebbero inflitto le condanne secondo gli statuti; ma d'altra parte era loro lecito d'investi- gare d'arbitrio in moltissimi casi, e anche punire e condannare arbitrariamente in avere et persona, inspecta qualitate eriminie et persone^ perfino se il maleficio non era contemplato nel breve, purché fosse provato. Un capitolo si occupa delle circostanze aggravanti, e ne ricorda diverse. Coloro che commettevano un maleficio di notte, dopo suonata la campana, o percuotevano o ferivano taluno sui ponti, nelle piazze della città, nelle chiese, nelle curie degli ufficiali del comune, in luoghi dove si teneva il consiglio o nell'esercito, come pure in certi giorni di festa e nelle vigilie, o quando si correva il palio, erano puniti con mag- giore sanzione; e dall'altro canto si voleva mitigata la pena, se era stata fatta la pace entro dieci giorni da quello del maleficio, salvo che per gli omicidi.

Il quarto libro, de operibuSf conta settantadae rubriche, e si occupa dei lavori della città, delle mura, delle strade, delle acque e degli acquedotti, dei ponti, dei pozzi, delle fosse, degli argini, dei bagni e anche degli operai. Un capitolo de ealariis magistrorum lapidum et lignaminie contempla appunto i mura-

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tori e falegnami della città e del contado: non dovevano re- carsi a casa più d'una volta al giorno ni in altro laogo^ tranne che al lavoro, sotto pena di multa: lasciare a mezzo il la- voro per imprenderne un altro o per altro motivo; far di- vieto per nessuna occasione o causa ad altro mastro che vo- lesse lavorare in domo vel cUio opere, sia della città sia del di- stretto. Ma insieme ricorrono capitoli come questi : de óbser- vando poeta cum domino rege Karulo ; de faciendo tnensurari pannos ctd cannam pisanam; de emptoribus {introiiuum ca- strorum) Montis Novi, Boratuli et Orgogliosi ne fiiciant interdi- ctum, cioè non impediscano, come ohe sia, ai Pisani e Sardi di comperare e vendere liberamente in quei luoghi, o di portarvi le loro merci, o di estrarne. Un altro capitolo vuol condannati i tutori e curatori, che lasciassero infruttuosi i denari dei mi- nori , un altro concerne i cittadini, che si trovavano prigionieri a Genova o altrove pel comune, e anche i loro figli, ancora sog- getti alla potestà patria, e li esonera dal pagare alcuna data tei prestantia od altra esazione.

Al breve del comune fa seguito il Breve Populi et Campa- gniarum Pisani Communis dello stesso anno, che alcuno consi- derò come un quinto libro, ma che veramente è uno statato separato, salvo che si trova riunito con l'altro, sub uno volumine et uno contexta.

E il breve del capitano, o del comune del popolo, e si com- pone di centotre rubriche.

Lo statuto si prefigge di mantenere il buono e pacifico stato e l'onore delle compagnie di tutto il popolo e del distretto e ne fa carico al capitano e agli anziani. Il nuovo comune del popolo era appunto ordinato sulla base dei quartieri e delle compagnie ; e come quelli, anche queste avevano ciascuna i loro capitani e consiglieri e gonfalonieri, che eleggevano libe- ramente. Le compagnie erano società di popolani che paga- vano le date e prestanze e facevano altri servigi propri dei cittadini. alcuno poteva parteciparvi se non nel suo quar- tiere. D'altra parte, coloro che, potendo appartenere alle so- cietà, non vi si facevano iscrivere, non erano ammessi ad al- cun officio, e tampoco difesi dalle violenze, finche stavano in contumacia de non iurando in societate populi. E il giura- mento comprendeva vari obblighi. Ogni socio prometteva che

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non avrebbe mai consentito a che le compagnie si sciogliessero ; ^ ne avrebbe accettato ed esercitato gli offici in buona fede e senza frode, e richiestone dal capitano del popolo e dagli anziani, o anche solo da questi, si sarebbe portato con armi, o senza, do- vunque fosse mandato prò factis et negoUié pisani Communisvd pisani popuU aut Sodeiatum site prò manuUnendo aliquem de poptdo et societatibus suprascripHs in sua iustitia et ratione vel ne iniuria ci fiat Giurava eziandio che avrebbe consegnato la casa e la torre, ogni qual volta il capitano o gli anziani ne avessero fatto domanda, e dato loro consiglio, e tenuto la credenza, e osservato i precetti che gli fossero fatti, e non partecipato a rumori. Chiunque fosse corso al rumore in qualsiasi luogo della città o del distretto, senza la volontà del capitano e degli an- ziani, era punito in mille lire e anche nella persona ad arbitrio. I militi e figli di militi erane onninamente esclusi dalle com* pagnie; ma s'incontrano anche altre leggi di sospetto contro i nobili, di cui Bologna aveva dato l'esempio pochi anni innanzi. Il breve fa obbligo al capitano del popolo di cercare tutte le fedeltà e comandigie che i popolani avessero fatto con essi, e cassarle, con pieno arbitrio di punire i popolani che vi si rìfiu- tasserò, mentre il podestà avrebbe punito i nobili: ad ogni modo non dovevano aver valore. si doveva accettare alcun no- bile in fideiussore per nessuno del popolo, alcun popolano per un nobile, tranne nel caso che fossero consanguinei od affini. Neppure era lecito ai nobili di entrare procuratori pei popolani in nessuna curia. Se un nobile offendeva un anziano, nessuno poteva avvocare per lui o dargli consiglio o favore ; e anche si obbligavano i consorti e altri parenti e complici a prestare si- curtà all'offeso e ai parenti di lui di non offenderli nell'avere o nella persona. Se avesse recato offesa ad un popolano, si do- veva credere senza più al giuramento dell'offeso o, in caso di morte, a quello de' suoi parenti. A denunciare il reato ognuno del popolo era tenuto; e del resto si permetteva al capitano di procedere d'ufficio con prove piene o semipiene, o per fama, in- dizi o presunzioni secondo il loro arbitrio; e si toma anche un'altra volte sull'argomento, ita quod inde vindicta fiat. Se un popolano aveva guerra con un nobile, il capitano e gli anziani potevano concedergli due sergenti armati, o permettere che i figli e parenti di lui portassero le armi.

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Al capitano e agli anziani era ingiunto di conservar la con- cordia e l' unione tra i popolani di tutta la città con piena po- testà di procedere. Specie, per ciò che riguarda il capitano, il breve lo obbliga a giurare che avrebbe mantenuto il diritto del popolo e delle compagnie, e difeso tutti nelle persone e negli averi, e custodito e salvato le società, seguendo sempre il pa- rere degli anziani : due dei quali dovevano stare ogni giorno nella sua curia per accogliere i reclami dei cittadini, e dar corso a quelli più lievi, riservandosi di riferire ai colleghi sugli altri. Del resto non avevano facoltà di far provvisioni, che non potessero spedirsi nei due mesi in cui durava il loro ufficio, intromettersi nelle cause civili, ricevere o tenere presso di alcuna cosa deir avere del comune. Le cause civili erano di competenza del giudice del popolo, e gli anziani non vi avevano parte che per farlo eleggere ; mentre tutti gli introiti e le condanne, sia del capitano sia del giudice, mettevano capo al camerario del popolo, eletto dagli anziani stessi.

Altri capitoli sono dedicati ai Consigli, sia degli anziani e sia del popolo. Il breve ne ricorda due degli anziani : il mi- nore, di ventiquattro buoni uomini delle compagnie, sei per quar- tiere, e il maggiore di sessanta, quindici per quartiere ; e cosi pure due del popolo: quello dei quattrocento e quello dei mille. Era minacciato di multa chi non assisteva alla riunione ; ma in pari tempo era severamente vietato di offendere un popolano mentre si recava ai Consigli o ne tornava. Il capitano aveva obbligo di ottemperare alle loro deliberazioni e mandarle ad ese* cuzione nel più breve tempo possibile.

Due esemplari dello statuto del comune e di quello del po- polo, uniti insieme, stavano esposti pubblicamente: uno nel pac lazzo del comune, l'altro nel palazzo del popolò, per uso dei cit- tadini; ma c'erano anche capitoli che di tratto in tratto anda- vano banditi per la città, per es. quello de non ponendo cui gi- rellam hominem bone fame.

Altre riforme si succedettero ancora nel corso del secolo XIV; ma vi accenniamo appena. Una revisione del Breve del comune è del 1303 ; e da quell'anno al 1314 se ne contano nientemeno che otto ; ma non tutte giunsero fino a noi. Un'altra è del 1338. Cosi pure, ne abbiamo parecchie del Breve del popolo e delle compagnie: ben sei dal 1307 al 1324, e anche una traduzione.

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Fu voltato in volgare addò che quelle persone che non sano grò-' matica, possano avere perfetto intendimento di quelle cose che ne vorrano sapere.

5. Un altro oospicno monamento della città di Pisa nei tempi di mezzo ò il Costituto della legge e dell'uso: una rac- colta di ordini e consuetudini, a cui corrispondono due curie : la carta legis e la curia tisus^ che si trovano fino dalla prima metà del secolo XII.

D Constitutum legis contiene ordini scritti in vari tempi, e poscia raccolti, per evitarne la dispersione o anche per imprimer loro nuova forza e vigore. Alcuni portano la data del 1146 ; ma il codice fu probabilmente stato rinnovato, forse vent'anni dopo, perchò un capitolo, parlando del ratto, dice ohe in avvenire, cioè appunto dal 1166 in poi, il matrimonio tra il rapitore e la rapita non debba più valere, nonostante che la donna fosse con- senziente, perchò bisognava che, insieme con essa, acconsentis- sero i parenti. Sappiamo poi quali cause appartenessero al giu- dizio della legge. Erano:

1^ Le questioni di libertà e servitù, et omnia liberalia iudi^ da, anche quella dei peculi delle persone alieni iuris;

2^ I belami per costringere i manenti a rimanere sul fondo, ammenoché non fossero nati, o abitassero, in alicuius terra in dvitate vel dus burgis, perchò allora appartenevano all'uso;

3^ Le questioni di possesso di cose immobili ;

4^ Le questioni di proprietà di terre ;

6^ Le vie, ad eccezione di quelle pubbliche e vicinali della città 0 dei borghi ;

6* Le servitù, si di case che di terre, e V usufrutto di qual- siasi cosa;

7"^ Le vendite, le locazioni, i depositi {comandine) e i man- dati di cose immobili ;

8*" Tutti i prestiti, che non erano di mare e non si riferi- vano al commercio, pei quali si fossero costituiti pegni di cose immobili ;

9"^ Le azioni per magagne, o vizi o morbi di uomini o di animali ; mentre quelli delle merci appartenevano all' uso ;

10* Le donazioni, qualunque ne fosse V oggetto ; ^ 11^ Le azioni relative alla dote, ai beni parafemali, agli an- tefati e ai donamentày cosi pure le questioni della moglie coi soci

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o oreditori del marito, ma solo pei beni posseduti fin dal momento della Booietà o del credito;

12^ I testamenti, i legati e fedecommessi et iudida marty/orum ;

13^ I forti; mentre invece le rapine appartenevano all'oso;

14® Le ingiurie de fckcto ob contumeliam; mentre quelle ver- bali spettavano all'uso;

15® Le fideiussioni super faetis legum, non altrimenti del de- bito principale;

16® Le pene^ i patti, i danni, le restituzioni che derivavano ex faetis legum;

17® Le restituzioni in intiero per causa della minore età, senza distinguere se discendessero ex faetis legum o ex faetis de usu.

Il Canstitutum usus ha carattere diverso. Si tratta di con- suetudini, secondo le quali già da tempo erasi fiotta ragione si ai cittadini che agli stranieri, ma che davano luogo a molte incer- tezze. Abbiamo già avvertito altrove (p. 387), che i giudici, non pronunciavano sempre in un modo ; e quindi si pensò di redigere quegli usi in iscritto, incaricandone alcuni savi sotto fede di giuramento. Cosi nacque questo nuovo codice; ma non si sa bene in qual tempo. Sappiamo solo che nel 1160 esso già esi- steva, perchè una revisione di quell'anno voleva abrogate tutte le precedenti, secondo quanto dichiarano gli ufficiali, che col nome di consoli di giustizia l'approvarono \ ma ne seguirono anche altre. Ne abbiamo notizia negli anni 1221, 1223, 1231, e di una, appar- tenente al 1233, esiste anche il testo, il più antico che possedia- mo per le stampe.

All'uso erano assegnate le cause seguenti: I reclami per costringere i coloni in manentia, cioè a ri- manere sul fondo, se erano nati, o abitavano, in alieuius terra in civitate vel eius burgis ;

Le opere degli uomini che non erano manenti; Le vie pubbliche e vicinali nella città e nei borghi; Le rive dell'Arno, i corsi d'acqua e le questioni di pozzi; Le questioni di pesca, per ragione sia della terra sia del lungo esercizio;

Le controversie feudali;

Le questioni derivanti da una superficie o da piantagione fatta col consenso del proprietario del suolo, o di colui che vi aveva un ius in re, circa l'edificio costruito o circa gli alberi piantati ;

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8^ Le questioxu de rèbus que de marcha sunt; ma dovevano riferirsi ad rem ipsam e non ad poeeessUmem;

Le questioni derivanti da comunione di muri;

10^ Le vendite, le locazioni, i depositi e i mandati di cose mobili ;

11® Tutte le compagnie appartenenti ad negotiaHanee vel ad ùperas;

12* Tutte le prestantie de bottegis, anche quelle per cui si fosse costituito un pegno di cosa immobile;

13* Tutte le cose che si davano ad proficuum de mari, e tutti i negozi di mare appartenenti ad societatem vel ad negcHaUonem rerum mobiUum, nonostante il pegno di un immobile;

14* Tutti i prestiti non garantiti da pegni di ixnmobili;

15* Le azioni per magagne di merci e altre cose mobili, che non fossero uomini o animali;

16* Tutti i merita donatiénum conventa; escluse però le do- nazioni, che appartenevano alla legge;

17* Tutte le obbligazioni derivanti ex arbitriis seu compro- missis;

18* Le questioni che sorgessero fra la moglie e i soci o cre- ditori del marito pei beni acquistati dopo conchiusa la società o dopo contratto il debito;

19* Tutte le petiaioni o questioni di cose mobili, che non discendessero ex legum factis;

20^ Le rapine;

21* Le ingiurie verbali;

22* Il danno ohe alcuno patisse propter prohtbitam atiena" tionem;

23* Le fideiussioni super factis de usu;

24* Le pene, i patti, i danni, le restituzioni derivanti ex factis de usu;

25* Le vendite fatte prò maleficio vel vindieta;

26* Le pene o gli additamefUa sententiarum.

Col tempo i due costituti furono uniti in un solo volume; ma se ciò fosse per opera della pratica forense, ovvero dipendesse da una speciale provvisione del comune, non si sa* Ne abbiamo una revisione del 1233; ma presumibilmente non fri la prima. Il Bonaini la attribuisce alla necessità, che si sarebbe sentita, di riunire cosi le curie come i codici, via via che il diritto accoglieva

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le consuetudini e queste si accomodavano a quello. Noi però non ffiaino di questo avviso. Il Constitutum legis e il Constitutum usus rimasero tuttavia distinti, non altrimenti del Breve pisani commu- e del Breve popoli et compagniarum, quantunque uniti anche essi in un volume. Non si compenetrarono 1* uno nell'altro : sol- tanto alcuni capitoli sono comuni ad entrambi, e si ha cura di av- vertirlo: Hoc constitutum est comune legis et usus; ma ciò stesso mostra che in tutto il resto, nella grande maggioranza dei casi, la distinzione permaneva. le curie si erano fuse. E a persua- dersene basterebbe rimandare ad un capitolo del Costituto della legge (7) e ad un altro del Costituto delFuso (5), in cui è disposto : che, se una questione era stata cominciata davanti ad una curia, eia della legge sia dell'uso, doveva terminarsi con quei giudici ; e se dopo la contestazione ne fossero sorte altre appartenenti a xxn diritto diverso, i giudici della legge ne avrebbero deciso, cume provisori, con l'uso, e i provisori, come giudici della legge, con la legge stessa.

Parecchie disposizioni sarebbero meritevoli di una spe- ciale attenzione ; ma non potendo dilungarci troppo, accenniamo solo ad alcune, che ci sembrano rispecchiare meglio il carattere della legislazione.

Un capitolo mira a favorire la libertà in danno della cam- pagna feudale. Chi era nato od abitava nella città o nei borghi, pur risedendo nelle terre altrui, non poteva essere costretto a rimanervi, qualunque fosse il tempo dacché vi abitava; e qua- lora lasciasse il fondo, non era tenuto ad alcun servizio, amme- noché non fosse un ascrittizio. Se dimorava a Pisa per dieci anni come cittadino, insieme con la sua masserizia, non poteva essere molestato da chicchessia per alcuna condizione, neppure ascrittizia. E anche le donne godevano di una libertà maggiore che non godessero per le leggi barbariche, quantunque non possa dirsi che queste non abbiano proprio lasciato alcuna traccia di se. Le donne maggiori di vent'anni, che non avevano marito ne figli, potevano alienare liberamente anche tutti i loro beni; ma se erano maritate, o avevano prole, non era loro concesso che in parte, salvo un caso di necessità, riconosciuto dai giudici.

Altre leggi si occupano delle invasioni e turbative dei pos- sessi, già molto frequenti, cercando di mettervi riparo. E in- sieme si vuole disciplinata la materia feudale. Il Costituto del-

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r uso ooutiene un lungo oapitolo a questo riguardo. Yi leggiamo, tra le altre, il divieto fatto airarcìvescovo di concedere ad alcuno un feudo, che valesse più di mille soldi, senza il consenso dei con- soli della città ; e anche si fa obbligo agli abati, ai priori e ad altri prelati della Chiesa o simile luogo venerabile, di provvedersi prima del consenso dei fratelli e dei padroni. Altre disposizioni riguardano V investitura e il servizio feudale, gli accrescimenti, le alienazioni, le successioni, la perdita del feudo, le controversie, sia dei vassalli tra loro, sia di questi col signore. Notiamo che il vassallo poteva sempre excepiare in fidelitate tanto l'im- peratore quanto il comune della città; era tenuto ad aiutare il signore o a prestargli servizio contro il comune. Se il vas- sallo si fosse richiamato di qualche cosa contro altri vassalli o contro il proprio signore, questi doveva fargli giustizia entro venti giorni secundum curtis usus; altrimenti si permetteva al que- relante di rivolgersi ai previsores o ai iudices foretanorum o ad altra curia, secondo la causa, e il signore ne lo teneva indenne. Molto diffuse e minute sono le disposizioni sulle compagnie e società, sulla pubblica fede delle loro scritture, sulla divisione del profitto, sullo scioglimento del contratto e via dicendo ; e non deve far meraviglia, visto il largo commercio che i Pisani eser- citavano con mezzo mondo. Il Costituto stesso accenna alla coHcersatio diversarum gentium per diversas mundi partes. Inoltre si provvede ai cambi marittimi. In generale non era lecito di prendere un frutto maggiore di due denari al mese per lira (cioè il dieci per cento all'anno); ma non reggeva la limitazione se venivano dati ad proficuum maris. Anche l'urto delle navi, e il getto delle mercanzie nel pericolo della tempesta, hanno sug- gerito varie disposizioni che ricordano in parte quelle della legge Bodia; ma in parte sono nuove. Il diritto di appropriazione delle cose dei naufraghi era già proibito, se non altro nelle acque pisane propriamente dette, e piace la ragione del divieto: quia non est addenda innocenti afflicto afflictio. Chi trovava qualche cosa in mare e con suo proprio rìschio la portava a terra, aveva diritto ad una parte, che variava secondo la qualità della cosa e la gravità del rischio. Proibita rìgorosamente la pirateria, anche con la perdita di tutti i beni e con l' infamia. Degli al- tri istituti di diritto patrimoniale, rammentiamo le donazioni, in causa di certi ricordi barbarici. Si suppone che la cosa donata

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sia stata evinta, e si distingue se, al momento della donazione, il donante sapeva o no che la cosa apparteneva ad altri, o che ad ogni modo altri vi vantasse un diritto. Se lo sapeva, risarciva ogni danno ; se no, restituiva soltanto il tneritum, dato che ne avesse ricevuto uno. Il meriium non è che il launegildo barbarico, senza cui le donazioni, che non fossero di tutti i beni o di una quota parte di essi, non erano valide ; ma forse tendeva già a scomparire, perchè il Costituto ammette che potesse anche non venir dato.

Altre leggi provvedono alla famiglia. I matrimoni degli schiavi contratti secondo i canoni sono riconosciuti, e anche il diritto domestico è regolato con equità. A nessuno era lecito abbandonare la propria moglie tranne che i>er adulterio ; chi era ammogliato poteva vivere pubblicamente con una concubina^ sotto pena di pagare venticinque lire al comune, e il doppio se la concubina era maritata. la vedova incinta aveva feusoltà di passare a nuove nozze se non sei mesi dopo la morte del marito. D'altronde le figlie minorenni, venivano separate dalla madre e si educavano presso altre persone, nel caso che più pa- renti ne avessero fatto domanda e il giudice lo credesse conve- niente. L'adozione e l'emancipazione si compivano pubblica- mente davanti ai giudici della Curia nuova. I tutori avevano obbligo di dare a frutto i capitali dei pupilli, altrimenti ne ri- spondevano; ma dovevano farlo con cautela, e per regola erano tenuti a rendere i conti sino a due anni dopo la maggiore età. Nelle successioni, la legge, pur favorendo la uguale partizione dei patrimoni, pospone le femmine; e d'altra parte ingiunge agli eredi maschi di prestar loro, in certi casi, gli alimenti e anche di dotarle, purché non ricusassero un convenevole collocamento. Un altro capitolo permette al padre o all'avo di avvantaggiare un figlio o un nipote in preferenza di altri, se gli aveva pre- stato servizio ed obbedito secondo le leggi di Dio ; ma non po- tevano favorire le figlie se non in mancanza di maschi.

Per la storia del diritto penale é importante un capitolo, con cui termina il Costituto dell'uso : De penis publieis et ex qtUbus causis Comune a privato exigere potest.

In materia di procedura abbiamo regole molto precise sulle citazioni, sulle cauzioni, sugli appelli, sulla cosa giudicata, sulla contumacia ecc. ; ma si prestano anche meno ad essere compen- diate. Piuttosto accenneremo ad alcuni principi più generali.

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Uno di questi, che si dice comune si alla legge ohe all'uso, era di badare più all'equità ohe allo stretto diritto, qualunque fosse la causa, e preferire sempre la interpretazione più benigna. alcuno doveva essere respinto o condannato per causa d'errore, o in seguito di una proposizione falsa o scempiata. Il Costituto dell'uso insiste particolarmente per la oelerità della procedura: anche fatta astrazione dai laudamenta dei giudici o arbitri, le cause dovevano spedirsi velociter ef cum ratione.

Uno speciale privilegio godevano i contadini. Non potevano essere chiamati in giudizio in tempo di mietitura e di vendem- mia, eccetto per le liti di pronta spedizione e pei casi di violenza, e salvo che vi fosse di mezzo l'utilità d'un marinaro o d'un fo- rastiero. si ti-asandano i poveri. Erano privilegiati rispetto alle cauzioni e ai pegni ; e, anche rimanendo soccombenti, non si dovevano arrestare o bandire, nonostante che non possedes- sero fondi, contro cui procedere. Le donne non erano mai im- prigionate per debiti, sibbene bandite. In caso di concorso, il giudice stabiliva che cosa si dovesse lasciare al fallito pel suo necessario sostentamento.

Altre disposizioni si riferiscono a materie di polizia; ma sono rare. Ne ricordiamo una la quale, per provvedere alla sicurezza, limita l'altezza delle torri a cinquanta braccia ; e un'altra che, per evitare le esalazioni nocive, prescrive minutamente il modo di agevolare in tutte le parti del dominio lo scolo delle acque.

Considerato nel suo complesso, lo statuto è dei migliori che si conoscano: certo nessun altro di quel tempo può offrire un assieme cosi completo di diritto civile e commerciale, e cosi op- portune ed e^tte regole di procedura. In generale esso accetta molti principi del diritto romano, con cui Pisa viveva da lunga pezza, e anche qualcosa della legge langobarda; ma in pari tempo s'inspira alle nuove condizioni e contingenze, e crea istituti nuovi, 0, pur accogliendo i vecchi, li modifica, specie in materia di commerci.

§ 2. - OLI STATUTI RURALI. *•

1. Dopo aver discorso degli statuti delle città, Boncom- pagno aggiunge: Porro quaedam statata fiunt quandoque a ca- stellanU burgensibua et villanie. Ciò significa che la legislazione

** Blblloaralla. ~ BovAixi, StaitUo deUa Val d'Ambra del 1208 e Ordina^ menti pei fidili di VaUambro9a degli anni 1263 1 Ì2$3 (" Annali delle Univ. to- si

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statutaria non è rimasta ristretta alla cerchia della città, ma è penetrata nelìa campagna ; e come non esisteva città che non aves- se il gao statuto, parimente, si può dire, che non si conoscesse terra o borgata che non fosse regolata da statati propri. Se- nonché ]a vita di questi comuni rurali si distingue profonda- mente dalla vita libera, quale si è svolta nelle città. La mano del feudatario ha pesato troppo sulla campagna e ne ha com- presso a lungo i germi di associazione e di vita libera, che pure erano svolti o si andavano svolgendo dietro le mura cittadine. Perciò i comuni rurali hanno durato fatica a costituirsi, più che non abbiano fatto quelli delle città; e, quando pure vi riusci- rono, non sempre seppero sbarazzarsi di quella cappa di piombo dell'autorità feudale, sotto cui la libertà respirava a stento, e dovettero restare tuttavia alla dipendenza dei signori. Cosi, la campagna continuò la sua odissea di patimenti, e anche di umi- liazioni, con la quale attraversò i secoli.

acane n II e III, 1851). Bo8a| Statuii anUehi di VerUma ed altri comuni rurtUi ddVaUa Italia (" Aroh. stor. itaL « nuova serie XTT, 2). Bsblak, Lo Haluto mw- nieipale di AéqIo (** Bi vista oontemp. « XVII, lJ859). Bbuiabdi, Di iUcuni ttatuti municipali (Castagnola, Oliano, Bxieherasco, Abbadia e Ceneda) neUa * Bi vista dei commi! itaJìani - Torino, 1^1-63. Valsbcchi, Sugli $iatuU di Loreo^ Vene- zìa, 1861. Cav Pigili, Statuti dei feudi di Monteeueoli, Modena, 1870 Atti e Mo- ntiou della regìa, deputai, di storia patria per le Provincie modenesi e parmensi , Modeius nij lu Lo stbsso, Degli ettUuti della Mirandola e di S. Martino tn Bio i"" Atti e Monuai. ^ cit.J. Bota, Oli $t€Uuti di Valle Canonica, nel * Politecni- l' co^ serie IV, voi. IL 6, 1866. Cabina. Notizie storiche eul contado lucchete «

' tpecialmerUe aidU valli del Lima e dell'alto Serchio, Statuti della Vicaria di Val\

I diliina (1576) e del comune di Coreena (1612) Luoca, 1871. Fbkrabo, Oli antichi

* etatuU dei comune di Oarjpeneto (** Bi vista europea , anno IV, voi. LI, 8^ 1873).

Clari;tta, Xùiizie sulla ^%h antica carta di franchufia e eui principali ataiutidai ctmli di Boiìùia accordcUt al comune di Avigliana nei tempi ai messo (* Atti delift regìa Accad. Torino IX, 1873). Lo stkssOj Sugli antichi signori di Bivalta e au^U statuti nd secolo XIII da loro accord€U% a Èivalta, Orbassino e OongoUf Tonno 187^. B4U>aszi. Degli antichi statuti di Bagnacavallo ed in ispede di uno ancora inedito ddle gabelle (** Atti e Mem. della reffia deputaz. di storia patria per le provincio di Bomagna^ serie II, voL I, 1875). Lo stksso, Intorno a§l% statuii di C^iigivola^ Appunti, Faenaa, 1^8. Tiraboschi, Cenni intomo alla VàlU GandiiiQ e ai stwi statuti (* Aroh. stor. lombardo « anno V^ 1880). Modigliaxi, Studi e tiotanietili ad illustramione degli sttUuti del comune di Anghiari del secolo^ XII, Fìrenjse, 1833 (dall' •* Arch. storico ital.« VI). Oalissb, Statuto inedito dt Veiana (" Docamenti di storia e diritto « VIL 1886). Spobia, Statuti inediti dei contado lucchese dei secoli XIII e XIV (** Atti della regia Acoad. di sciense . XXI Y). MofistìLiN, Brendola. Leggi statutarie, Vicenza, 1886. Abiomsvtb, Ol\ sùMttàti inediti di Cava dei Tirreni, Boma, 1886, 2 voL Cipolla, Statuti ruralt veronesi (^^ Aroh. veneto «faec. 62, 6Bj 67, 69j 7Ó, 78, 74. 77, 1866-91). Joppi, ^ piioli e documenti della giurisdiz, det nobili signori ai (jolloredo, Udine^ 1887. Accame^ Cenni storici sugli statuti di Pietra, CHustenicCj Toirano ed eUtrt pj^ della Liguria occidentale (•* Giornale ligustico suino XVI, Genova, 1889). JPw tjLc A,, Laudo della regola di Vaìlesella (nefidi " Studi editi dalla univ. di Padova per il ceritanaxio di quella di Bologna ^ ILL 1888). Lo stbsso, / laudi del Ca- dore (negli *" Atti dell'Istituto veneto „, serie VI, tomo VII, 1889). ^^^^J^ magnijica patria ben€teense. Suoi ordinamenti e statuti {'^Arch, veneto XXXV^' iSm. Papaleo^ti, Gli statuti deUe Oiudicarie (•'Aroh. trentino, VII, 2, 1888; Vili, 1, 1^9), Passbbi, Lo statuto di Campagnano del secolo XIII (* Aroh. dal-

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Questi statuti rurali si jriannodano strettamente alla feuda* lità ; molte volte sono statuti e privilegi signorili, cioè largiti dai signori; e nondimeno anch'essi meritano di essere studiati, se pur si voglia conoscere un po' da vicino lo stato e la struttura di questi territori.

Il primo esempio ò forse quello di Gotescalco abate di No- nantola del 1058 ; ma in seguito essi crescono a dismisura : ne ab- biamo già parecchi a stampa del secolo XII, e più dei secoli seguenti, mentre molti giacciono ancora sepolti negli archivi. Al secolo XII appartengono, lo statuto dell'abate Atenolfo di Terra Maggiore per gli abitanti di S. Severino (1116); le con- suetudini di Comete, confermate da re Guglielmo (1189); lo statuto di Giordano abate del monastero di Sant' Elena per gli uomini di Montecalvo (1190); gli statuti di Bofiredo abate di Montecassino per gli uomini di Pontecorvo, Sant'Angelo in Theodice e Atina (1190-95); infine lo statuto dell'arciprete di

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r

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Mòoza per gli uomini di Calpuno (1196). H secolo XTTT ne conta molti di più : ricordiamo quelli di Colciago (1202)| Tintin- nano (1207), Val d'Ambra (1208), Arosio e Bugunto (1215), Orig- gio (1228), Castel Cerrone (1230), Cremella (1232), Biolzago (1232), Monguzzo e Castelmarte (1237 e 1246), Sabbione (1244), Poliano (1246), Vallombrosa (1263 e 1263), Oampagnano (1270), Carré (1272), Vioovaro (1273), S. Germano e S. Pietro a Monastero (1276), Montagutolo (1280), Castellare (1283), Montone (1290), Cave (1296), Bivalta, Orbassano e Gongolo (1297), Cesio, Menda- tìca e Montegrosso (1297), Virole e Posara (1298).

2. È una fonte assai ricca, che deriva dal diritto che spet- tava ai signori feudali di regolare legislativamente i rapporti dei loro territori, e che, alla sua volta, si trova veramente indicata qua e come prova di signoria. Appunto lo statuto dell'ar- ciprete di Monza per gli uomini di Calpuno fu citato a que- sto scopo nel 1210: quod inter eos D. Archipresbyier jpredide ec- clesie tamquam dominus sua stcUtUa ad stMm voluntcUem candide- rat. Ma gioverà distinguere. Il signore poteva esercitare il potere legislativo in forza della giurisdizione^ che gli spettava, più 0 meiio largamente, sul territorio, come pure poteva eserci- tarlo per diritto di corte; e gli statuti, che avevano radice nella

I sovranità, erano ben diversi da quelli che si presentavano quali

I concessioni di mero diritto privato, che il signore largiva ai suoi

dipendenti. I primi non differiscono gran fatto da altri statuti, che conosciamo, e non offrono un interesse speciale. Invece ci piace d'insistere sugli statuti che si riannodano al lus curiae; perchè, sebbene non abbiano conferito gran fatto allo sviluppo giuridico generale, nondimeno rivestono una importanza, che non f saprebbe disconoscere, tanto per la emancipazione graduale dei

L volghi dipendenti della campagna, quanto per le condizioni della

' proprietà territoriale. Gli uomini, a cui si indirizzavano, dipen-

I devano appunto dal signore, al doppio titolo della persona e della

terra; e molti privilegi o statuti, che vogliano dirsi, tendono ap- punto allo scopo di determinare i rapporti col signore, sotto ambedue quegli aspetti.

3. La legislazione stessa si presenta sotto varie forme; I ma sopra tutte vi campeggia la volontà del signore, che talvolta

si afferma in modo abbastanza crudo. Lo statuto, per quanto consegnato in iscritto e approvato, e forse fatto dal signore, uno

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acquistava vigore ohe per volontà di lui ; e generalmente si am- metteva ohe egli potesse modifioarlo, introducendovi delle aggiun- te o togliendone qualche cosa. Gli esempi abbondano e non ci resta che V imbarazzo della scelta. Cosi, l'abate di Yallombrosa, mentre uno statuto ai suoi fedeli del comune di Magnale, si riserva appunto il diritto di farvi delle aggiunte e mutazioni. altrimenti si trova detto, a proposito degli statuti di S. Ro- molo e Ceriana, che i Doria potevano addere et minuere capi-- tuia ad eorum liberatn volunt(ttem .... quia omnia capitula S. Bo^ muli 8int et esse debeant ad eorum voluntatem. Lo stesso diritto ò ricordato nello statuto che il priore della chiesa di 3. Giorgio in Braida dette nel 1244 a Sabbione. Lo stesso negli statuti di Carro del 1272, i quali dispongono, che solamente il conte Uberto Capra, signore del luogo, potesse fare regulas et guizas ed istituire ed eleggere gli ufficiali in detta terra e nel distretto et mutare eos et eas ad stMim voluntatem. E aggiungono : Omnes suprascripte regule .... stent et durent ad voluntcUem predicti D. liberti de Carrade. Il privilegio che l'abate di Montecassino accordò nel 1276 a S. Germano e a S. Pietro a Monastero, ri- conosce che nessun ufficiale della badia avrebbe potuto rom- perne o mutarne le assise ; ma l'abate si : nobis tamen et success ^oribus nostri cum nobis placuerit eas liceat immutare, anche senza udire il popolo. La medesima riserva s' incontra negli statuti di Mentono del 1290. Il signore li fa compilare e leggere in pieno parlamento, e decreta e vuole che si osservino, salve sempre le aggiunte e correzioni che fosse per apportarvi in seguito^ e anche salva la volontà sua in tutto ciò che credesse doversi osservare di-- versamente, nonostante che fossejiontenuto nei detti statuti. Inol* tre può vedersi lo statuto di Chiarantana dell'anno 1314, o giù di li: un capitolo, determina che tutte le disposizioni in esso contenute s' intendano e si eseguiscano ad arbitrio e volontà e piacere del signore. lo statuto di Tarzo del 1444 ò meno esplicito: ogni parola del vescovo, signore di Tarzo, doveva aversi prò statuto, e osservarsi inviolabilmente^ e gli statuti andavano sempre intesi *a beneplacito del vescovo. Uguale diritto si riser- va il marchese Malaspina nel 1677, approvando gli statuti di Fosdinovo: riservata però sempre a noi e ai nostri successori la principale autorità nostra marchionale di fare note leggi .... e alle fatte nelli statuti derogare. Lo statuto delle terre ed uomini

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di Civenna e Limonta, feudo dell'abate di Sant'Ambrogio, di- spone addirittura che nelle cose concernenti V interesse del fisco co- mitale si ha da procedere sema osservare statuti. Quello di Net- tuno del 1560 finisce testualmente cosi : Supra dieta capitula re- visa fuerunt per me Sebastianum Varum Auditorem generalem III."^ et Ecc."^ D, Marci Antonii cclumne .... illaque atixi et rese- cani prout Eidem IllJ^ domino placuit, qui consideravit omnia et mihi iniunxit ut hic scriberem.

Del resto s' incontrano anche, qua e là, accenni alla parte- cipazione del popolo; e non fa meraviglia: la campagna non po- teva sottrarsi alla corrente generale, e presto o tardi doveva pur subirne la influenza.

4. Una forma molto semplice, diremmo quasi rudimentale, di statuti rurali, è quella che riconosce e conferma le consuetu- dini esistenti ; e ce ne oflTre un esempio, tra molti, il comune di Comete. I signori stessi ne avevano concesso alcune ai ter^ razzani; ma per altre, rifiutavano il riconoscimento, accampando pretese a cui i terrazzani non si credevano tenuti. A quanto pare, si trattava di una sopraffazione, e gli uomini di Comete, si chierici che laici, reclamarono a re Guglielmo, qaod subirà- hunt eos de moribus et consuetudinibus eorum et imponunt eis novas et illidias consuetudines et servicia^ quas facere non dthent nec consueverunt. Appunto in questa occasione, essi consegnarono in iscritto le loro consuetudini, e il re, al cui tribunale le presen- tarono, riconobbe che avevano ragione. Parimente può riscon- trarsi il privilegio che l'abate di Montecassino concesse, corren- do l'anno 1195, agli uomini di Atina. Vi si legge tra le altre : In summa vero usus bonos vestros et consuetudines^ quas habuistis olim tempore bonae memoriae regis Rogerii et aliorum reffum Si- ciliae^ temporibus utique pacis et quietis, omnes in futurum vobis concedimus et confirmamus. Anche una bolla di Gregorio IX fissa le responsioni che gli uomini di Castel Cerrone dovevano alla camera apostolica in base alla consuetudine.

Spesso però, ci abbattiamo in particolari privilegi e anche in statuti, che, dal più al meno, si risentono dei tempi. É il nuovo spirito di liberta che penetra eziandio in questi territori e li trasforma, obbligando il signore ad allentare alquanto i frèni. Anzi teniamo per fermo che gli stessi privilegi, che sembrano concedersi di buon grado, sieno dettati più o meno dalla neces-

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sita delle cose e forse strappati a forza. Non ne hanno l'aria; ma è così. Per accennare solo un esempio, ricordiamo quelli che l'abate Atenolfo di Terra Maggiore concesse nel 1116 agli nomini di S. Severino. Si tratta di uno statuto largito dal- l'abate d'accordo co' suoi monaci, ed accettato dal popolo : è uno statuto otriato; ma per quanto il popolo non figuri nella sua compilazione, tutto induce a credere che non vi sia rimasto estraneo. Basta sapervi leggere tra le righe. L'abate fissa il terratico, la data e le opere, sia per la seminagione sia per la mietitura, in proporzione degli animali, e affidamento che non si sarebbero aumentate. Ordina che nessuno degli abitanti debba venire diseredato tranne per gravi delitti, e li enumera; negli altri casi la composizione poteva essere tutt'al più di un soldo. Nessuno verrà catturato tranne per quei reati, oppure nel caso che non voglia o possa far giustizia, e non voglia o possa pre- sentare un garante. Vietato il forzare chicchessia ad andare in guerra. Vietato pure il far pagare la piazza a chi esportasse vino o grano. Permesso invece a ognuno di uscire dalla terra, pagando un soldo prò exitura^ e cosi j^ure vendere e perfino do- nare tutto il suo, senza che il monastero potesse opporvisi. Dal- l'altro canto nessuno poteva essere costretto a recarsi altrove per rendere giustizia. Se qualcuno si richiamerà di qualche cosa, non lo si assoggetterà al duello, alla prova del ferro o del- l'acqua calda o fredda, e neppure si ricorrerà a testimoni; ma dovrà purificarsi col vangelo, secondo la consuetudine del luogo. Nei casi in cui la legge ordinava di giurare con dodici sacramen- tali o con sei o con tre, si giurerà con cinque, o due, o soli. Nel caso di qualche rappresaglia per debiti del convento contro qualcheduno della terra, l'abate promette di redimerla pretio vel concordia, entro otto giorni dacché ne avrà notizia.

Ma il signore stesso ricorda a volte le preghiere indirizzate a lui dai suoi dipendenti, e cede, obbligandosi con apposita carta, rogata per mano di notare, che egli e anche i sudditi firmano. Lo statuto, che Roffredo abate di Montecassino concedette nel- l'anno 1190 agli uomini di Pontecorvo, rivela questo carattere; e anche in tempi piuttosto avanzati s'incontrano di tali sup- pliche che i terrazzani rivolgono molto umilmente ai loro si- gnori. Lo statuto di Nettuno ci ha conservato copia sia del memoriale presentato a S. E. dalli massari et comunità .... per

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la moderatione et correttione de alcuno capitolo delli statuti, e sia dell'ordine dato da Marc'Antonio Colonna, signore del laogo, al suo auditore generale. H detto memoriale dice : La Comunità et huomini di Nettuno fidelissimi di V. E. humilmente suppli- cando gli narra con pregarla si degni correggere il eap. 43 nel quale ci pare essere agravati dalli Vicari) che da guai se voglia minima cosa vogliono decretare et pigliare un giulio per decreto. Apprèsso pregano V. E. per non essere nel nosirù statuto si degni affirmare sopra Vappellationi de quaì si togli sentenzia et che non débia il Vicario (pigliare) più che baiochi doi si come si co- stuma nel Audienza di Genazano, Et più pregano V, E. si d^gni agiungere nel nostro statuto un altro capitolo sopra V inventario da farse dal Vicario delle diicussioni delU beni che sogliono oc- correre et altri inventarij et che in questo non siamo gravati at- teso che loro vogliono un scudo et in questo ci sentiamo gravati^ et in ciò ci remeitemo a V. E. Et del tutto pregano F* E. *i degni agratiare che lo riceeeremo a gratin singulare da F. E. che del continuo pregaremo Idia lo conserve felice quanta desia eoe. Il Colonna, ricevuto il Memoriale, lo trasmise all*anditore ge- nerale perchè vedesse se era il caso di correggere questo e quel capo, 6 fini coH'aderire ai desideri dei terrazzani»

Altre volte si fa parola del consenso dei sudditi, © non vor- remmo dire che fosse richiesto sempre prò forma: il signore re- dige lo statuto, lo comunica al popolo e questo lo accetta. Gli ordinamenti di Montecalvo del 1190 si dicono fatti col consenso dei chierici, dei militi, e dei buoni uomini di Montecalvo, fedeli della b^dìa di Sant* Elana, a cut erano soggetti ; e così quelli di Orìggio del 1228; per dominum Abatem in pubblica vicinantia infrasciipii loci maniolam pulmtam vicini» convocatis et ibi pn^en- tibus e te. e ^i sa che v* intervennero i due consoli del luogo, due can ovari, quattro giurati e ventisette vicini. Gli statuti di Be- rardo da Pozzobonello, arciprete di Monza, per la corte di Ore- mella (1232), ricordano che il detto signore recatosi in queUa terra, vi aveva convocato tutti gli uomini, perchè gli giuras- sero fedeltà sicut di^itnctahiles suo domino^ dando loro comuni* cazione dei nuovi provvedimenti, e ordinando che li osservas- sero: statuii^ decrevit et precepit praedictis omnibus hominibus et comunibus etc; ma in pari tempo vi si dice quanto ai terraz- zani : Et ibi omnes isti homines omnia statuta receperunt et eis

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omnibus consenserunt, et rata et firma se velie habere omni tem- pare .... protestati sunt. Lo stesso accadde con gli ordinamenti dei fedeli di Yallombrosa; furono dati da due abati negli anni 1253 e 1263 pel feudo di Magnale, de voluntate et consensu dei rappresentanti del comune di Magnale. Anche il privilegio del- l'abate Bernardo di Montecassino per S. Oermano e S. Pietro a Monastero (1276), riconosce che gli statuti o assise, che ema* nassero dalla curia del convento in S. Germano, dovessero farsi de Consilio hominum S. Germani. gli statuti di Castellare sono nati diversamente. Pregato dai suoi fedeli, perchè vo- lesse dar loro dei eapitula et statata que inter eos prò legibus haberentur, il signore del luogo li f% compilare, correndo l'anno 1283, ed essi li accettarono. L'abate di Moggio pubblicò pure nel 1337 alcuni statuti per il governo temporale de' suoi sudditi de consensu nostri Capitali et omnium nostrorum subditorum; e anche gii Statuti di Valvasone (1369) vennero approvati con- temporaneamente dai signori della terra e dal popolo, per ipsos dominos et omnes vieinos de Vahasono super platea Valvasoni ad sonum campane in piena regala more solito congregatos.

Altri statuti si presentano addirittura coii}e contratti, e ne assumono il nome. Ciò che più importa, vengono compilati nella forma solenne delle contrattazioni alla presenza del giudice e dei testimoni, coli' intervento della stipulazione e colla minaccia di una pena: il notare redige l'atto, e qua e se ne rogano due carte dello stesso tenore. Tale ò la forma delle concessioni che Go- tescalco, abate di Nonantola, fece nel 10&8 col consiglio dei frati dei monastero a tutto il popolo nonantolano. Si tratta di un patto vero e proprio, a cui ambe le parti dichiarano di obbli- garsi, anche con minaccia di pena, e perciò si rogano due carte per mano di Pietro notare del sacro palazzo. altro carat- tere rivela la carta libertatis della rocca di Tintinnano del 1207 : anche qui si tratta di un patto, che il conte Guido Medico e i suoi consorti giurano per primi, e dopo di essi gli uomini della rocca, in numero di 160 e più, rappresentati da un loro sindaco speciale. Seguono le firme dei signori e dei terrazzani. Lo stesso accadde in Campagnano nel 1270. Il popolo e il cardinale Bic- cardo Anibaldi, signore della terra, erano venuti a patti ; e si sti- pulò una speciale convenzione col procuratore del cardinale. Indi il popolo, radunato a suono di campana, costituì un tal Angelo

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di Pancrazio suo sindaco e procuratore, perchè la ratificasse ; e tanto il signore quanto il popolo si obbligarono a rispettarla. Medesimamente gli statuti di Vicovaro del 1273 furono fiotti e ordinati de comuni voluntate , . . . dominorum castri VicovarU ex parte una et hominum universitatis predicte ex parte altera super sermtiis et redditibus praestandis et faciendis et reddendis ab ipsis hominibus. La universitas e gli uomini del castro erano stati convocati ad sonum campanarum voce preconia, come era costume ; e promisero solennemente di voler stare ai patti, e anche si fissò la pena pel caso d'inosservanza. Altre volte Io statuto ò redatto dal barone insieme coi savi della terra, e pre- senta pure il carattere di una transazione. Quello di Bivalta del 1293 fu appunto fatto e ordinato da Bibaldo, figlio del ca- stellano, per incarico di lui, e dai sapientes homines del luogo, a onore di Dio e della Vergine Maria. quello inedito di Cave del 1296 venne compilato diversamente : de consensu et voluntate comuni tra il signor Riccardo (Annibaldi) de MilitiiSy cosi detto dalla torre del Quirinale, già senatore di Soma, e V universitas seu homines nobiles et pedites, suoi fedeli del ca- stello, allo scopo di mettere fine alle dissensioni, che erano sorte perchè i terrazzani dicevansi trattati dai detto signore e dai suoi ufficiali più duramente che al tempo del cardinale Siccardo di Sant'Angelo suo antenato e anche nei tempi addietro. Cosi fu accettato da ambe le parti e approvato e giurato sponte et libere. E cosi V altro pure di Cave del 1306 : verbo et man- dato .... nobilis Domini Riccardi Domini Thebaldi et mandato et voluntate supradictorum dominorum castri Cavarum ei Syndid eiusdem terre. Pei tempi più avanzati può vedersi lo statuto di Bevigliasco che, in fondo, è pure un compromesso. Gli uo- mini di Bevigliasco si erano lagnati dei loro signori per certi statuti piuttosto rigidi, che avevano pubblicato, e anche perchè ne facevano eseguire altri di antica data, pieni di oscurità e d'incertezze; la cosa fu deferita all'arbitrio di due giureconsulti. Cosi nacque lo statuto.

mancano esempi di leggi fatte addirittura dal popolo e poi confermate dal signore, non altrimenti che si praticava nei principati maggiori. I capitoli di Cesio del 1297 cominciano cosi: Hec sunt capitula ordinata et emendata per Bononatum Ghébi- cum, Henricum Ferrarium, Ioannem Fagaretum, Ardegonum Por-

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rum €i Oulielmum Sacham^ capitulatores oistellanie Cuxii. Lo stesso avviene in Chiaraniana, oomane rurale, amministrato bensì dai suoi uomini, con consiglio e parlamento, ma su cui vantava pure giurisdizione messer Benuocio de' Salimbeni si- gnore del castello. Lo statuto fu compilato da appositi statu- tari eletti dal Consiglio del comune, col consentimento di mes* ser Benuccio, e fu approvato da lui tra il 1314 e il 1816. Cosi pure, non si conosceva villa o regola del Cadore, che non avesse il proprio codice formato dalla favola o assemblea dei vicini, alla quale lo statuto cadorìno del 1456 espressamente riconosceva il diritto di disponere et staiuere et lauda sua formare ac refor- mare. Soltanto occorreva l'approvazione del vicario del podestà del Cadore; ma approvato che fosse, doveva venire osservato. Un altro esempio ci è somministrato dallo statuto di Ponzanello del 1470, il quale si esprime cosi : Comunitaa et homines de Fon* zanella congregati in generale parlamento diete terre, in quo par- lamento deìiberatum extitit, quod statuta diete terre corrigantury ut plaeuerit infrascriptis viris ad hoc electis ac per dietum par^ lamentum deputatis, videlieet etc. : i deputati del comune correg^ gono lo statuto, e il marchese Malaspina signore della terra no approva la correzione. Ma anche alcuni comuni soggetti alla badia di Farfa si fitnno nel 1477 a compilare i loro statuti col mezzo di statutari eletti da loro, e l'abate li conferma, promet- tendo di rispettarli e farli rispettare: et omnia et singula in eo contenta approbavit, confirmavit^ auiorizavit et observare promisit et dictae suae dignitatis auetoritatem et decretum interposuit . . ac mandavit et praecepit ipsa et quamlibet ipsarum perpetuo et omni tempore firmiter et inviolabiliter observari. Insieme volle che ne fosse rogato formale stromento per mano di notare ad perpetuam praemissorum fidem.

5. Altre differenze, che distinguono gli statuti rurali da quelli delle città, riguardano il contenuto. Alcuni, molto estesi, g&reggiaiìo quasi con gli statuti municipali ; ma altri sono assai brevi.

Oli statuti della rocca di Tintinnano del 1297, erano divisi in quattro libri o distinctiones, come si dicevano alla maniera senese, e trattavano dei consoli e del consiglio, dei malefici e quasi malefici, delle strade e altre opere, ed infine di danni dati. £ cosi altri statuti. Quelli concessi dai Malaspina agli uomini di

mam

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Tre8€uia contano ben cinque libri, e parecchie aggiunte, di cui l'ul- tima porta la data del 1470. Lo statuto, che Don Francesco Orsini duca di Gravina emanò tra il 1436 e il 1456 pel comune di Mon- telibrettì, è ripartito in quattro libri con queste particolari intito- Iasioni: De causis ciwilibu$, De officile et curiae proveniibtu. De irmleficiis, Damnorum datorum; in tutto 175 capitoli. Quelli dei conti di CoUalto del secolo XVI sono divisi in due, e vi fanno sèguito altri decreti degli stessi signori. Ne meno esteso è lo statuto dell© tre giurisdizioni di Telvana, Ivano e Castel- alto, fendo dei Giovanelli. Sono leggi che spaziano in tntto il campo del diritto pubblico e privato. Dall'altra parte gli statuti di Ardeogo Visconti, abate di Sant'Ambrogio, per U terra di Origgio, contano appena poche pagine e non si occ;i- pano che di tregue e banditi ed armi proibite e giuochi e feri- menti e furti e adulteri, spergiuri e ingiurie, oltre ai diritti signorili, lu ispecie proibiscono a ognuno di fare fedeltà e commendarsi o pagare dazi e anche querelarsi a chicchessia tranne che alTabate; o vendere le terre a persone estranee, : asportar pietre, e tampoco abbatter alberi, o tagliar legns. o tener taverna^ e vender vino, carne o pane senza licenzi dell'abate. Anche lo statuto che Uberto Capra diede nel 127i alla villa di Carré nel Vicentino, di cui aveva la mariganza, » i capitoli di Cosìo, Mendatica e Montegrosso del 1297, non sor. che codici di polizia rurale. Lo stesso carattere presentano le Carie di regola, così dette dalla regola o vicinia, che le sanciva E un nome ohe s'incontra specialmente nelle valli del Trentine e possiamo ricordare i piccoli statuti di Flemme, di Fassa, i. Civezzano, di Très, di Albiano, di Croviana, di Borgo, di Cor- redo ecc., che portano appunto quel nome. Medesimamente nelFanno 1330, gli uomini della villa di Maniago adunati nelli Regola o Vicinia^ approvarono le varie deliberazioni prese dalia vicinia stessa sopra molte materie, a cominciare dal 1335, riunen- dole in un corpo; e anch'esse riguardano gli interessi del pic- colo comune. In Cadore si dicevano Laudi, e si trattava nu:- vamente di brevi codici rurali. Invece lo statuto di Nettuno era, più ohe altro, un regolamento di procedura, salvo poche di*l ^posizioni relative alle vendite, alle polizze di credito, alle doti e alle successioni. I

6. A dare un'idea complessiva, per quanto sbiadita, di

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questa legislazione, crediamo opportuno di ricordare particolar- mente gli ordinamenti di Giordano abate di Sant'Elena, per gli uomini di Montecalvo suoi fedeli. Li scegliamo tra molti, sia per la loro antichità, sia perchè s'indirizzano a tutte le classi sociali, specie ai militi e ai buoni uomini, che non figurano in altri; e poi, sembrano quasi sfoggiti all'attenzione dei dotti. In fondo essi contengono la conferma dei buoni usi, che i terraz- zani di Montecalvo ebbero fino dai tempi di re Buggiero, e ne distinguono alcuni che possono dirsi comuni a tutti, da altri più speciali dei chierici, dei militi e dei buoni uomini.

La regola era, che ogni abitante di Montecalvo dovesse dare ogni anno al monastero alcune opere, cioè due per l'aratura e due per la mietitura, e anche la decima di tutte le derrate, e la piazza di quanto avesse venduto o comperato, e di più un adiutorio moderato, ogni qual volta il re ne avesse fetta do- manda alla badia. Nessuno poteva lasciare la terra senza spe- ciale licenza, da richiedersi al proprio signore; e tampoco sposare la figlia, la sorella, la nipote o altra parente fuori del castro, se non pagando un tanto al monastero. Ognuno però, poteva cedere i propri tenimenti ad altri, anche ad estranei, per lavorarli; e nonostante che lasciasse il castro, aveva diritto ai beni ereditari, purché non ne fosse uscito senza licenza. Nel caso che tornasse, poteva riavere anche il feudo. Qualora aves- se costruito una casa, o piantato alberi o vigne, conservava il diritto di venderle o donarle in eredità a qualsiasi abitante del castro; e del pari, se non aveva figliuoli o figliuole, poteva istituire erede chi più gli talentava. Anche la vedova godeva il dominio delle cose lasciatele dal marito, purché ne custodis- se l'onore.

Quanto ai chierici, si accenna al privilegio, concesso loro dall'abate, di non pagar la decima del feudo quando lo lavo- rassero con le proprie mani, e di poter uscire dal castello senza sborsare Vetitura.

I militi erano tenuti ad una responsione pei cavalli e pei ronzini; ma avevano piena libertà di cavalcare il ronzino e feme ciò ohe volevano : soltanto non potevano adoperare i cavalli per arare o macinare ; tutt'al più avevano licenza di servirsene per tritare l'orzo, e dovevano cavalcarli in servizio del monastero, ogni qual volta l'uso militare lo richiedesse. Oltracciò pagava-

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no QB tanto per le armL H servizio stesso era cura armis et equiSj B dovevano prestarlo ogni qnal volta l'abate ne li avesse richiesti in servitium Regni et moncaterii; ma neppnr essi erano tenuti BXVeBituray se lasciavano il castello.

Dei buoni nomini ò detto choi sopra richiesta del monastero, dovevano portar messaggi dne volte all'anno pel tratto di una giornata, tra Tandata e il ritomo ; ma ne andavano esenti i figli durante la vita del padre ; e, se due £ratelli carnali possedevano insieme un feudo, non vi era tenuto che il maggiore. Neppure la vedova aveva obbligo di mandare nunzi o dare opere. Vo- lendo uscire dal castello pagavano Vesitura^ che variava secondo il possesso : un bom per due buoi aratori, quindici denari se ne possedevano nno solo, otto per un somiere e quattro per la zappa*

Lo statuto fa anche parola dei raccomandati, un genere di persone che ogni terrazzano poteva condurre in euum dominium, salvo a cedere loro un casale, un orto o un pezzo di terra. Di- versamente il monastero stesso li riceveva sui propri fondi. Ad 6880 aspettava eziandio la metà della composizione di tutti i reati di sangue che costoro avessero commesso, e di cui venisse mossa querela al signore, oltre ad un'opera per arare, una per mietere, la decima e le piazze. Del resto nessuno poteva cedere un rac- comandato, tranne che al proprio fratello carnale.

Altre disposizioni concernono il diritto punitivo; ma non sono molte. In generale si distingueva tra delitti maggiori e minori; e per delitti maggiori si consideravano l'adulterio, l'omi- cidio, il tradimento e l'appiccato incendio, chó si punivano con pena corporale. I delitti minori andavano composti con sei de- nari, ma si eccettuavano le colpe di sangue, e alcune ingiurìe verbalìf come il tacciar di rivale l'uomo e di bagascia la donna maritata. Per le colpe di sangue l'ammenda era di quindici denari; per le ingiurie variava dai sei denari a un bom, secondo che la persona offesa si fosse purificata o no. Chi disprezzava i bandi fatti pubblicare dal monastero prò fontibus et palo^ pa- gava due denari.

Più importanti sono gli ordinamenti giudiziari. Tribunale supremo era la curia dell'abazia; ma i militi e tutti quelli che vivevano con la legge militare, dopo essere stati ammoniti dalla curia abaziale, avevano un termine di tre giorni per pladtarey ossia per rendere giustizia. È un privilegio che può trovarsi

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già nei vecchi editti langobardi. La curia stessa percepiva le ammende; ma anche dopo la querela, le parti potevano acoor^ darsi senza danno, purché la curia non si fosse ancora riunita : da questo momento nessun accordo era più possibile, se non a condizione che l'imputato pagasse la metà della pena al mo- nastero.

Comunque, non era lecito all'abate di tradurre alcun terraz- zano fuori del castro, per rendere giustizia a chicchessia; e per- fino coloro che abitavano altrove, e avessero commesso un reato contro il monastero, o contro un terrazzano, purché possedes- sero qualche tenimento nel castro, dovevano risponderne colà. I reati stessi, anche maggiori, andavano giudicati ab homini- bus ipsiuB castri.

alcun abitante di Montecalvo e neppure un malfattore forastiero, ohe si fosse rifugiato nel castro, dovevano venir cat- turati, se non in seguito a un giudizio, e anche dopo di questo, bastava che dessero garanzia per essere lasciati liberi, salvo nei casi gravi, colpiti da una pena corporale. diverse erano le norme che riguardavano gli averi; inquantoché non si poteva impossessarsi di nulla senza un regolare giudizio. Neppure era lecito usare violenza ad alcuno de ledo seu hospitio, cioè in casa propria : una specie delVhabeas corpus, di cui gli Inglesi vanno tuttora superbi.

Tra le prove, é ricordata la purgazione con dodici sacramen- tali: ma sono espressamente vietate quelle del ferro rovente, dell'acqua bollente e del duello.

Alle cause civili e alle contravvenzioni, come si direbbero oggi, e anche alle esazioni ed alla polizia, provvedeva il baiulo, che era uno dei terrazzani stabilito dal monastero sulla propo- sta dei terrazzani stessi, e serviva a suo beneplacito, senza ren- dere ragione della propria baiulazione. Dall'altro canto, se aveva impegnato qualcosa del proprio o contratto un debito in ser- vizio del monastero, questo, conosciuta la verità, era tenuto a recolligers^ ossia riscattare, quel pegno e a pagare il debito.

7. Lo statuto, che abbiamo esaminato, é già un esempio di vita abbastanza libera ; ma non deve fare meraviglia. Il par- tito popolare, che, specialmente dopo la pace di Costanza, si andò svolgendo rapidamente nelle città, trovò spesso un valido appoggio in quello ohe veniva già ordinandosi nella campagna ;

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e i feudaiarì, per non perdere tutto, se pur non cedevano o vendevano i loro privilegi, li fissavano. Nondimeno vi si sente spirare ancora un'aria tutta pregna di elementi feudali

Per ritrovare esempi di maggiori autonomie, è forza scen- dere più giù nel tempo. Bisognava che venisse diradata la gran selva feudale, ond'era circondata la campagna, perchè questa potesse respirare davvero liberamente: e qua e ci si riesce; importa che essa si sottraesse alla soggezione feudale per cadere in quella di qualche città, essendo la dipendenza citta- dina assai diversa da quella. Al qual proposito gioverà ricordare la comunità di Costozza, noto paesello del Vicentino, che, pur dipendendo da Vicenza, ha potuto svolgersi abbastanza libera- mente, n suo statuto fu compilato da prima nel 1290, ma venne riformato e modificato via via a seconda dei bisogni, nei secoli XIV e XV, finché, mutati i tempi, anch'esso cadde in dimenticanza. È diviso in tre libri, e contiene parecchie leggi notevoli. Quelle che regolano la consegna, la custodia e la restituzione delle bia* de e dei vini, e altre riguardanti la pulizia, l'igiene, l'estimo dei campi, la manutenzione delle strade, la sorveglianza delle acque, il taglio dei boschi, l'uso de' pascoli, il novero degli ani- mali, la raccolta delle biade, delie ulive, delle uve, l'esercizio dei mestieri e delle arti, sono tutti buoni provvedimenti, av- vertiti anche dai benemeriti editori dello statuto. Medesima- mente può vedersi ciò che accadde nella Valle Camonica e an- che in altre valli, che si trovano costituite autonomicamente in una specie di governo federativo, favorito dalla unità topo- grafica e da quella dei commerci. Era una federazione, che prosperava all'ombra di qualche città, e che d'altronde non aveva cosi assorbito i piccoli comuni primitivi, da toglier loro l'esistenza. Ciò che li teneva uniti erano gli interessi comuni ; ma restavano autonomi per quelli particolari, e continuavano ad avere statuti propri e propri magistrati. Appunto la Valle Ca- monica patteggiò nella prima metà del secolo XV la dedizione con Venezia; e nei patti sono stabiliti vari privile^ a favore dei Camuni. Vi si dice che potrebbero continuare, come sole- vano, a introdurre il sale dalla Germania liberamente per uso proprio e per quello degli abitanti di Valle di Scalve; che sa- rebbero esenti dalle tasse d' imbottato e di macinato ; che avreb- bero diritto d' imporre dazi propri ed onoranze feudali ; che go-

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drebbero intera libertà di oommeroio pel loro ferro ; ohe potreb- bero usare dei propri statuti civili e criminali fino all'ordina- mento di un nuovo codice ; ohe non dipenderebbero da Brescia o da Bergamo, politicamente e civilmente, ma riceverebbero soltanto officiali veneti ; e anche si concede libera l' introduzione, nella valle, del vino e della biada; si promette di rivederne il catasto e se ne fissa il tributo in 6070 lire imperiali annue, da versare nelle mani del capitano in tre rate. Lo statuto, che la valle fece compilare nel 1483 dopo la sua dedizione, e che la Bepubblica approvò, riconosce eziandio l'esistenza dei magi- strati dei singoli comuni della confederazione, con giurisdizio- ne sui comunisti fino ad una certa somma; ma ogni anno, quando il nuovo podestà entrava in carica, dovevano giurare, in nome dei comuni stessi, di osservarne i mandati e le lettere.

Capo V. Legislazione speciale delle dossi.

Noi assistiamo sempre al medesimo spettacolo. L'autonomia, che, di fronte al diritto comune, si era affermata nella provin- cia, e di fronte al diritto provinciale, nei diritti locali, finisce con l'affermarsi nuovamente ed energicamente nei diritti delle singole classi, i quali, in sostanza, si risolvono in altrettanti di- ritti degli interessi sociali, che allora erano in giuoco. Vogliamo alludere agli artigiani e commercianti, ai militi e contadini. Ognuna di queste classi ha il suo diritto, che corrispondeva alla speciale natura dei beni, o allo speciale atteggiamento della vita economica di ciascheduna, e che si è svolto spontanea- mente e con molta larghezza.

§ 1. - OLI USI E STATUTI DELLE ARTI."

1, Abbiamo già avuto occasione di notare che il risveglio del commercio e delle arti è stato considerevole in questi tempi. L' Italia aveva nuovamente riabilitato il lavoro in contrapposi-

** SIMIogmfla. Non abbiamo ohe poohi laTori generali che si occupino deUe eorponàoni artigiane e dei loro etafati : Bicottf, / carpi d'arlt wì€$i*er%

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zione alla dora legge feudale, che misorava l'aomo dalla terra, e solo in essa ne cercava la legge e l'antonomia. Ed è stata una riabilitazione veramente meravigliosa. Le arti^ quantun- que depresse, hanno lavorato alacremente per più secoli e, col lavoro, sono cresciute in ricchezza: da ultimo finirono con lo scuotere ogni giogo di dipendenza personale e si emanciparono.

in Italia^ Torino, 1847; Pbpebe, H diriUo statutario delle corporanoni di arti e mestieri massÌ7ne nelle promneie napoletane, negli * Atti delI^AocacL di scienze morali di Napoli , XVII, Napoli, 1882; Orlando, Delle fratellanze arUgiame im Italia^ Firenze, 1884 : Lattbs A., // diritto commerciale nella legidam, statHX4sria delle città italitmej Milano, 1884; BimuLMACCHi. Delle origini e dei caratteri dclU corporcKtioni d'arti e mestieri durante il nùsdio evo, Lucca, 1885; AiAnri, Li corporazioni d'arti e mestieri e la libertà di commercio intemo negli antichi eco- nomisti italiani, Milano, 1888; Supino, Le corporanoni d'arti e mestieri in Itaiis nei secoli XVI e XVII, nel ** Giornale degli economisti,, m, 5 e anche nel- Peperà: La scienza economica in Italia dcUla seconda meìà del secolo XYI aHa pr\ma del XF/i, Torino, 1888; Goldschiiidt, UnicersalgescK dee HandelsrecJus. X Stuttgart, 1891. Invece le trattazioni speciali abbondana Bicoidimmo. Spreti. I^otizie spettanti cUPemtichissima scola de* pescatori di Bavenna, deum Casa MtUha, Bavenna, 1820. Marchesi, H cambio di Perugia, Prato, 1854. Brsci. / lucchesi a Venezia. Studi sopra i secoli XIII e XIV, 2 voi., Lucca, 185S-5^ Saorrdo. Sulle consorterie delle tnrti edificative in Venezia, Venezia| 1857. Ma^c- DELLi, nel collegio dei dottori di Vercelli, nell^opera // comune di Vercelli tk.' medio evo, I£L Vercelli, 1858. Morsolin, Del setificio in Vicenza, Notizie stori- che, 3 fjEisc., Vicenza, 1863-64-66. Lo stesso. Della fraternità dei mercantij^rap- pieri, filatori e sensali di seta in Vicenza» Notizie storiche, Vicenza, 18G5w Pz- Ruzzi S. L., Storia del commercio^ e dei banchieri di Firenze dal 1200 ed 1343. Firenze, 1868. Schupfrr, La società milanese all'epoca del risorgimento del co- mune, § 6 (• Aroh. giur. III, Bologna. 1869). Batti, Le corporazioni in Lecce nel secolo XIII, Napoli, 1869. Bonoi, Dell'arte dei mercanti della seta, dei tessi- torif della lana, detta quoieria e dei maresccUchi in Lucca, nell^ * Inventario del regio Archivio di Stato in Lucca,, II, Lucca, 1876. Lodi, Notizie della corpo- razione dei marangoni di Modena e suo relativo stiUuto, Modena, 1876. Malvez- zi, Di uno statuto della compagnia dei fabbri nella città di Bologna, ne^ * Atti della regia Deputaz. di Storia patria per le Provincie deiriSnilia, Modena. 1877. Pardini, Bicerchesui m4»estri comacini^ Milano, 1878. Cristopoletti, Ofini storici sull'antico collegio dei notai della città di Verona, néìV * Arch. veneto . XVI, 1878. Bravi, Ihlla frettemita dei giudici e notai, ossia del collegio dei dot- tori in Bec<Mnati, nelle *" Beminiscenze recanatesi « Becanati, 1878^ Salvi ont. L'arte della stampa nel Veneto, La corporazione de' librai e stampatori m IV nezia, Padova, 1879. Lo stesso, / Calafati di Chioggia, nell**Arch. veneto, serie II, tomo XXVI, 1888. Bisordt, Cenni storici e statuto e regoUnnento della fratellanza tra i parrucchieri in Siena^, Siena, 1881. Goturi, Le corporaas' delle arti nel comune di Viterbo, negli ** Atti della Società rom. di storia

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acquistando perfino dei diritti politici. ' Ciò valse indistinta- mente di tutte le arti, liberali e meccaniche, ma particolarmente della mercatura.

Certo, gli esordi non ne erano stati splendidi. La sfera d'a- zione del diritto commerciale fu dapprima ristretta alla per- muta; ma si estese poscia alla vendita ed ai suoi contratti ausi-

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1HU9. ohivio

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liftrì : il trasporto, il cambio, la mediazione, il credito. E pos- sono notarsi anche altri progressi. Dal commercio girovago se ne svolse a poco a poco un altro permanente; dal commercio personale qnello di commissione : anche i prezzi capricciosi e normali cedettero a qnelli costanti, determinati dalla libera con- correnza; e il diritto segui tutte queste evoluzioni. La flori- dezza del commercio italiano diventò, dice l'Haulleville, qxzad un luogo comune nella storia! Fino dal secolo IX, i YenaKÌani portavano in Italia oiò che di più prezioso nasceva o si confe- zionava in Oriente, massime in Scria e in Egitto ; e presto Ve- nezia doveva avere una rivale in Amalfi, e ne oontò poi altre, nel secolo XI, in Pisa e Ghenova. Che se tutte queste citta at- tendevano al commercio marittimo e ne avevano il monopolio, non conviene dimenticare che esso si collegava molto stretta- mente alla induiftria e al commercio terrestre delle città lom- barde, fìkvorite dai numerosi corsi d'acqua del bacino del Po. Le fonti accennano di frequente ai mercati settimanali e an- nuali, che si tenevano per lo più nelle feste di qualche Santo e nelle domeniche, quando il concorso del popolo era maggiore. Anzi, fino dal secolo IX, si manteneva vivo il commercio tra l'Italia e i paesi d'Oltralpe. Infatti un capitolare di Carlomagno accenna ai negoziatori italiani che si recavano presso gli ^avi e gli Avari; ma soprattutto si trafficava con la Germania e oon la Francia, nonostante che lo smisurato numero di pedaggi, che assiepavano ogni terra ed ogni castello, dovesse assolutamente far preferire la via del mare.

2. Un fatto che merita speciale considerazione si è, che tan- to i negotiatores quanto gli artigiani si trovavano uniti in col- legi. Lo erano stati già sotto i Romani, e continuarono a rima- nervi anche durante le dominazioni barbariche. Appunto nel periodo langobardo, Gregorio Magno & menzione del collegio e dei capitoli dei saponieri di Napoli, dell'ara tinctorum di Boma e dell'ara pistoria' di Otranto; e nella stessa Italia langobarda se ne incontrano parecchi. Certo, i maestri comadni erano uniti collegialmente tra loro, onde si distinguevano i magistri dai col- legantes o consortes; e in pari tempo sono ricordati i magistri marmorarii nel 766, i magistri ferrarii nel 768, i magistri co- legarii nel 773. Crediamo anzi che da cotesto ordinamento col- legiale le arti derivassero buona parte della loro forza, e in esso

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trovassero un valido aiuto a sostenere la lotta con la campagna fendale. In fondo, era lo spirito d'assooiazione, tanto più po- tente in quei tempi, in cui le forze individuali, abbandonate a se stesse, sarebbero rimaste presto sohiaooiate. Più tardi, si fa addirittura parola di patroni, priori, capitolari e consoli. Un documento ravennate dell'anno 954 ci presenta già un qu<mdam Mauridus capitularius scholae negotiatwum, e altri ne troviamo negli anni seguenti: un Marinus v. m. negoeiator et capitularius nel 959, un Dominicus eonsul et capitularius nel 965, un Petrus filio Daminicus consul et capitularius nel 974, un Petrus de Luzano maior de schola piscatorum nel 1034, per tacere dei rimanenti. Alcune carto romane ne ofirono esempi se non altro nel se- colo XI, e sono intoressantissime. Una del 1029 ci presenta un Bovo prior Oleariorum ; un'altra del 1030 contiene uno s(tjm- lum obbUgationis, cioè una stipulazione conclùusa tra una cor^ porazione di ortulam e il suo priore Amato ; una torza del 1085 accenna ad un Bonofilium jure matrificum aurificem orefice matricolato, come lo spiega il Galletti il quale rifiuta, insieme ad altri, un casale a Boniza, badessa di San Oiriaco in via lata ; un'altra ancora ricorda un Rainerius patronus scole sandalariorum prò Petro de Rosa priore diete scole, et prò omnibus scolensibus» È una scuola di navicellai, che conferma a Farfa il porto di Correse. E potremmo continuare. In generale questi collegi restano ancora nella clientola dei nobili; ma la scelgono liberamente e usano già di giudici propri. Appunto per questo riguardo è importante il documento del 1030 citato dianzi. La corporazione degli or- tulani dichiara al suo priore Amato : Vóbis Amatum magnificum tirunTvite tue diebus eligimus tibi ad priorem nostrum. Id est spondimus .... ^idt ut vite tue diebus sieut bonum priorem tibi tenemus et non disrumpimus scolam, quod teeum facta habemus» Promettono eziandio : Et per singulos annos singulus unus ex nobis tibi dare spondemus hopera una manuale. Il priore doveva giudicare in prima istanza dei litigi degli scolenses; mentre il secondo grado di giurisdizione era formato dall'assemblea riunita dei priori delle altre corporazioni di ortolani. Il Galletti riferisce pure un documento senza data, che attribuisce alla fine del secolo duodecimo, in cui è cenno di un giudice de* mercanti, che oer> tamento corrisponde al consul mercatoruitì : Nos Palle index mer^ catorum Urbis et Thomas de Oderisiis eius eonsiliarius ; ma so*

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prattnfcto pnò interessare una carta del 1166, da cui risulta che

la compagnia dei mercanti e marinai romani formava già nn

r corpo politico indipendente. Appunto i consules mercatojrum et

I marinariorum urbis stringono una convenzione coi Genovesi,

' dove si tratta di pace e di guerra, di cambi, di rappresaglie, e

si promette protezione e buona giustizia a Soma e nello Stato

|l Eomano, da Terracina a Comete, che ha pure i suoi Consules

mercatorum (1144 e 1177). Ma ire troviamo fatta parola anche

I altrove in questi tempi. Per es. c'è un console dei negozianti

a Piacenza nel 1154, a Milano nel 1159; e i poteri, che avevano,

lasciano intravvedere che si trattava di un ufficio già da tempo

costituito.

Non basta : le arti, che avevano menato a lungo un'esistenza separata, finirono, dove più presto, dove più tardi, col confe- derarsi. In sostanza, provvedevano ad un bisogno vivamente sentito, perchè la loro giurisdizione non s' indirizzava che ai membri dell'arte stessa; mentre si spuntava di firon te alle altre arti, e neppure aveva molta presa sui propri membri. Se l'uno o l'altro non voleva acconciarvisi, non rimaneva che di esclu- derlo dall'arte e proibire ai compagni di entrare in rapporti d'afiari con lui. con gli estranei rimaneva altro mezzo che questo dell' interdizione. Lo stato di completa autonomia, in cui si trovavano, doveva condurre a ciò ; e dall'altra parte il guaio avrebbe potuto evitarsi, purché le varie arti si fossero avvicinate per un'azione comune, almeno nei casi a cui da sole non avessero potuto provvedere. Ora, non diremo che subito vi si acconcias- sero; piuttosto cercarono prima di aiutarsi con mezzi indiretti, fin- ché giunsero veramente alla confederazione. È un fenomeno, che si riscontra per es. a Firenze. La cosiddetta Mercantia od Oniver- sitas mercatorum, che si formò in quella città sul principiare del secolo XIV, è una confederazione formata dell'arte dei merca- tanti di Calimala, dei cambiatori, dell'arte della lana, dei mer- catanti di porta S. Maria, dei medici e degli speziali : vale a dire di cinque delle dodici arti maggiori. Ma lo stesso accadde an- che altrove. A Bologna si ha notizia della Mercanzia nel 1380 ; e non si tratta di istituzione nuova. Era una vasta aggrega- zione di varie arti, e più specialmente dell'arte dei mercanti, di ^quella dei cambiatori e di altre dodici: anche qui le arti mag- giori, strette come in un fascio. E l' istituzione, manco a dirlo,

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presentava la saa speciale importanza, soprattutto nei riguardi della giurisdizione. Le arti, cosi confederate, formavano come un comune industriale per entro al comune politico, con giudici pro- pri, che oggimai le abbracciavano tutte e potevano conoscere di tutte, secondo i rispettivi usi. Anzi un^ grande corporazione fini quasi con l'unire tutti i commercianti d'Italia e perfino del resto di Europa: una Universitoi mereatorum anche più vasta, che aveva la forma e l'aspetto di uno Stato cosmopolita, come quella che trattava da pari a pari coi principi, stipulava trattati com- merciali, mandava amlràisoerie. Senza dubbio quest'organo, cosi potente; aiutò moltissimo lo sviluppo del commercio nel medio evo. Inoltre, di qui uscivano i consoli, che la compagnia teneva in ogni paese importante d'Europa e perfino in altre parti del mondo, quali tutori degli interessi dei loro connazionali ed anche in qualità di giudici. Dice bene il Yivante : era un'attività affac- cendata, audace, speculatrice, che si espandeva per terra e per mare, nelle fiere e nelle colonie, per tutto il mondo esplorato, quasi avviluppandolo in una rete di affari italiani.

3. Era impossibile che tutta questa fioritura, che si ma- nifestava in più modi nella vita economica, non si rispecchiasse nelle leggi. Cosi le corporazioni ebbero la loro parte al movi- mento giuridico. In generale, trattasi di nuove idee giuridiche che in esse si sono formate; ma naturalmente anche in questo campo la consuetudine precede gli statuti propriamente detti.

Ricordiamo per es. le consuetudines dei negotiatores che, ap- punto sul principiare del secolo XIII, dicevansi antichissime a Milano, e vi sono espressamente riconosciute : quia negotiatores et eorum consulee speciales eonsuetudines euae hàbent quae in no- stra eivitate antiquis temporibus et novie observantur. E come a Milano, cosi altrove. Il Breve della companga di Ghenova vi aveva accennato fin dal 1167. Più tardi abbiamo lo statuto di Bologna del 1260 e il Breve dei consoli dei mercanti di Pisa del 1306. Il primo dispone mi le altre : Quod ius fori et mercati reddat eecundum consuetudinem fori site mercati non eervata sollemnitate statuti Comunis Bononiae sine contradictione alterius Statuti. E aggiunge : de hoc potestas precise teneatur nec possit petere absolutionem aliquo modo vel ingenio.

Risulta specialmente dalle consuetudini milanesi, che i mer- canti erano colà uniti in regolari corporazioni, i cui consoli, eletti

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da essi, avevano una estesa giurisdizione, specie sulle strade, sui ponti, sui mercati, e il podestà ne confermava ogni anno nel parlamento i bandi e le condanne. Per ciò che riguarda le strade e i ponti, dovevano provvedere a mantenerli e custo- dirli, e anche risarcivano i mercadanti che vi fossero stati de- rubati delle loro merci ; ma nel tempo stesso avevano diritto di imporre ed esigere dazi. Per ciò che riguarda i mercati, la loro vigilanza si esercitava particolarmente sui pesi e sulle misure, in ogni genere di mercanzie, anche nelle vettovaglie. Il Fiam- ma avverte sotto l'anno 1172, che era loro ufScio controllare i passi e le misure dei panni e i pesi delle monete ; e si sa che non era lecito a nessuno di tenere e usare un passo falso o una corda falsa o pesi falsi o non giusti, sotto pena di pagare una com- posisdone di sei soldi ai consoli dei mercanti. Ma vi sono anche altre disposizioni tendenti ad assicurare la sincerità delle ven- dite. Bioordano le consuetudini, che i consoli dei mercanti ave- vano prescrìtto a coloro che vendevano carne secca, olio, pepe e simili a peso o a misura, di non tenere da nessun lato della stadera o bilancia alcuna cosa a cui una parte potesse appoggiarsi; le bi- lancio dovevano essere ritte, giuste ed uguali, ed uguali i brao* cioli e le corde, senza che da nessun lato vi fosse nulla, ne il banco, una cassetta o altro. I consoli avevano anche ordi- nato ai bancari di permettere al compratore di porre la merce nell'una o nell'altra coppa della bilancia a piacimento, con facoltà di ripesarla. alcun negoziante poteva rifiutare i suoi pesi e passi ai nuoci dei consoli dei mercanti, quando si reca- vano a visitarli per vedere se erano giusti. La pena era sem- pre di sei soldi di terzuoli per ogni contravvenzione, e andava pagata ai detti consoli. Le consuetudini aggiungono, che il co- mune doveva prestare loro ogni aiuto nelle prede, nelle conte- stazioni, nelle visite delle strade, nei mercati e in altre occa- sioni, secondo l'uso. Qua e è anche parola di qualche provvedimento concordato dai consoli dei mercanti insieme a quelli del comune e della giustizia. La oronaoa, detta Fior de^ fiori, e il Corio affermano, che nell'anno 1197 Pagano della Torre, che era console del comune di Milano, unitamente a un altro console, che era probabilmente di giustizia, e ad Uberto Dia- no console dei mercanti, stabilirono alcune leggi per mettere un freno alle usure. Non si dovevano esigere se non tre soldi per lira

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dfti privati, e non più di due dalla comunità, cioè il quindici o il dodici per cento, senza alcun giuramento ; si doveva prestare fede al creditore per niun credito al di degli ultimi tre anni, se questo non constava per dichiarazione del debitore o fideius- sore, e se egli stesso non l'avesse posta nelle tavole o bando, o fatta iscrivere nel possesso della cosa pignorata.

4. Col tempo, ci abbattiamo anche in veri e propri sta- tuti delle arti. E ve n'ha un grande numero. Si può dire che non siavi stata corporazione d'arte, dalle maggiori alle minori, la quale non abbia finito col compilare il proprio statuto. Se ne incontra già sul principio del secolo XIII ; ma non vorrem- i

mo affermare che non ne esistessero anche precedentemente. I !

più antichi statuti dei mercanti, conosciuti finora, sono quelli di Piacenza, redatti nell'anno 1200; ma ne abbiamo nel se- colo XTTI anche a Pavia e a Bologna, nel XIY a Pisa, a Veronal a Firenze, a Soma, poi a Monza, a Cremona, a Man- tova ecc. Per ciò che riguarda le altre arti basterà ricordare lo statuto dei sarti del 1218 a Venezia, e parimente a Ve- nezia quello dei giubbettari del 1219, quello dei pescatori del 1227, e cod dei fomaciari (1229), dei tintori (1243), dei cer- chiari, dei medici, degli speziali, dei venditori di grasce, dei venditori di biade, dei tessitori di sciamitti, dei segatori, dei sabbionari, dei berettari, dei fusari, dei campanari, dei cri- stallari, dei oanapari, dei pettinari, dei fioleri, dei pittori, degli orefici; Io statuto dei tintori di Lucca, del 1265; gli stcUuti co* - Ugariorum di Lodi, degli anni 1261-63; quelli dei carnaiuoli di Siena, del 1288; quelli dell'arte della lana, pure di Siena, del 1298; gli statuti della aodeioi campiorum di Firenze, del 1299; e poi nel secolo XIV: il capitulare artù ^cuielariorum de petra^ gli statuti dell'arte dei tornitori, dei pegoloti, dei tintori, dei remaioli, degli Fcalpellini, dei boccalieri e dei fale- gnami, a Venezia: Io statuto dell'arte di Calimala a Firenze; < gli statuti dell'ordine della scuola de' pescatori, detta Casa Matba, a Bavenna; il breve dell'arte della lana, quello dell'arte dei fabbri, quello dell'università de' coriari, e altri dei tabemarii^ pellippariij vinarH^ a Pisa; lo statuto degli orefici e quello dei muratori a Mantova; gli statuti dell'arte dei Chiavari, de' cuoiai e calzolai, dei pittori e degli orafi a Siena; gli statuti dell'arte j del lanificio a Piacenza; quello dei mercanti drappieri a Vicen-

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za; gli siatuti dei ferrai di Savona; il breve dell'arte dei cal- zolai di Prato; gli statati dell'arte dei mezzadri di Parma; quelli dei drappieri di Biella; quelli dell'arte della lana di Fabriano* Anzi, perfino i più piccoli comuni avevano le loro arti ordinate in forma di corporazione con speciali statuti. E crebbero via via cosi a dismisura dopo il secolo XIV, fino a tutto il secolo XVIII, da non permettere neppure di fame un cenno, senza cor- rere il pericolo di rimanere troppo al disotto del vero. Del resto, ciò ch'era accaduto con gli statuti municipali, accadde eziandio con quelli delle arti ; cioè si comunicavano talvolta da una città all'altra. Nel 1281 il Consiglio di Brescia, aderendo al desiderio degli orefici, manda ambasciatori a Venezia per aver gli statuti di quell'arte; altrimenti vediamo la corporazione dei mer- canti di Crema adottare lo statuto di quelli di Brescia. Molti poi, non sono che nuove redazioni o revisioni di statuti più an- tichi, adattati ai nuovi bisogni. Il nobile collegio degli orefici ed argentieri di Roma compilò nel 1740 un nuovo statuto, e tra i motivi, ohe addusse, per ottenerne la conferma dal papa, è notevole questo: che i termini dello statuto antico non s'inten- devano più. Anche gli statuti dell' università de' mercanti, sa- ponari ed oliari di Boma, del 1747, accennano alla esistenza di antichi ordinamenti che non parevano più adatti alle nuove con- dizioni, e che perciò eransi riformati.

6. Gli statuti, di cui discorriamo, uscirono molte volte spontaneamente dai consigli dell'arte; ma non sempre: anzi tal- fiata fu il comune o lo Stato, che obbligò i paratici a mettere in iscritto le proprie regole, arrogandosi anche il diritto di ap- provarle o di introdurvi dei mutamenti. Il che si collega con la storia delle arti stesse. Puwi un tempo in cui servirono più che altro alla difesa ed alla educazione artistica ; e allora si lascia- rono fare, tanto più che in sostanza provvedevano ad un comune interesse essendo appunto cosi che la città si è messa in grado di sostenere la lotta con la campagna. Ma in seguito le cose mutano. Il principio, che possiamo dire originario e naturale, dell'educazione artistica, a cui le arti si erano dapprima inspi- rate, riuscì da ultimo ad un vero sistema di esclusione. Si co- minciò a determinare il numero degli esercenti, non tolleran- done più di tanti in un luogo; diventò anzi regola di diritto che non si potesse sorpassare un certo numero ; e tutto l'ordina-

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mento economico delle arti, escogitato o adoperato per fare del- l'individuo un abile mastro, fini col convertirsi in mero van- taggio dei privilegiati. In breve l'arte fn resa stromento di spogliazione. Ma non tosto accadde ciò, era naturale che si ponesse il problema se non vi fosse modo di sottrarre l'inte- resse generale a cotesta egemonia delle industrie; e col tempo si forma addirittura una corrente che mira a rompere siffatta esclusione. L'obbligo, imposto alle arti, di redigere i propri statuti, e il diritto, che il comune si arroga di approvarli e modificarli, corrisponde appunto a questa nuova condizione di cose.

6. Gli statuti stessi prendevano a volte il nome di capi- toli, capitolari^ brevi^ matricole o mariegole^ e si dividevano in più partL Una riguardava l'ordinamento dell'arte; un'altra provvedeva alla produzione, ed era piena di regole tecniche: comandava l'uso di certe materie, ne proibiva altre, ne stabi- liva le proporzioni e il modo di lavoro ; una terza s' indirizzava alla vendita, specie allo scopo d'impedire le frodi e regolare i prezzi; e insieme si provvedeva alla emigrazione degli artigiani, alla esportazione di certi prodotti, all'esercizio dell'arte per par- te dei forastieri o di persone non autorizzate. Molte volte era anche fissata la durata dello statuto. Intanto più di una rego- la, conquistata da questo ramo del giure, passò poi nel diritto comune; e forse la recezione non è finita. Se le tradizioni simbo- liche, onde è pieno il diritto medievale, vengono poste in dispar- te, lo si deve principalmente alla pratica del commercio, che, ispi- randosi alla realtà delle cose, ammise assai presto il principio che la proprietà si trasferisse col solo consenso. Dato questo concetto, la tradizione simbolica è resa superflua. D'altra parte l'idea ger- manica, ohe vuole esclusa la rivendicazione dei mobili, trovò, se non altro, un valido appoggio nella pratica commerciale, tutta intenta a tutelare la libera circolazione delle merci Le stesse for- me contrattuali si fanno più semplici. Più sopra, parlando del di- ritto langobardo e poi del canonico, abbiamo accennato al princi- pio che dovesse bastare la parola a rendere perfetto il contratto; e questo medesimo principio si ripete nella pratica del commercio. La promessa doveva tenere, più meno che se fosse fatta, come dice lo statuto di Pera, per eenearios comunie: pareva addirittura assurdo che si potesse mettere in dubbio, che la volontà di con- trattare non fosse seria e ponderata in gente la cui occupazione

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era appunto di fasre contratti. Per la stessa ragione le con- trattazioni astratte, sciolte dalla loro causa, acquistano favore; ma anche le altre vi si accostano mercè le rinuncie, firequenii in questi tempi, alle eccezioni fondate nella causa. Non al- trimenti si è svolta e perfezionata la teoria delle carte di valore, che legando il diritto al documento e facilitandone la trasmissione, lo dovevano rendere nel tempo stesso rigoroso ed elastico. Anche la solidarietà si fé' largo più e più, e non solo tra soci: anzi si presentò col carattere antico più rigi- do, senza i tanti temperamenti del nuovo diritto romano. Lo stesso dicasi della rappresentanza diretta e dei contratti in favore dei terzi. Tutto ciò era oggimai riconosciuto, perchè sembrava convenire all'equità, se anche la tradizione civile vi si opponeva. La società in nome collettivo con la responsabilità illimitata delle obbligazix)ni sociali, si è svolta appunto sulla base del commercio terrestre, specie di quello bancario. E potremmo ricordare anche altre forme giuridiche sorte in questi tempi. Li- fine si volle una giurisdizione propria, in patria e anche nelle colonie. Perchè la giurisdizione consolare, che in origine si presenta soltanto con carattere disciplinare e di polizia, si allarga man mano anche verso i rapporti privati dei membri della corpo- razione tra loro, e finisce col volersi estendere fuori della cer- chia di essi. la procedura era quella ordinaria. Era il pro- cedimento sommario, che meglio si confaceva alle condizioni della mercatura e delle arti, senza tante formalità e lungaggini. Ciò che più importa, essa mirava a trovare la verità materiale ex aequo et bona, sola ventate rei inspecta; e d'altra parte aveva un'esecuzione più rigorosa, che senza dividere le rozzezze e la barbarie dell'antico diritto germanico, era però ben lungi dalla rilassatezza del diritto giustinianeo. Come mezzo effic€Lce di garanzia ricordiamo il diritto di ritenzione, che si svolse dalle rappresaglie e le surrogò, specie nei commerci intemazionali. Non vorremmo però sostenere che tutto questo movimento giu- ridico si debba all' Italia. Il commercio, appunto per la sua inti- ma natura, diretta a collegare un popolo all'altro, ha un valore universale ; e anche il diritto deve avere un' impronta di univer- salità. Infatti è molto difficile di precisare dove un istituto di diritto commerciale sia nato ; e molte volte è addirittura impos- sibile: si tratta di un grande movimento, a cui tutti i popoli

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ebbero parte, ora dando ora riceyendoi nonostante le distanze, che il commercio appunto avvicinava; ma ad ogni modo qnesto possiamo asserire senza iattanza, che alcuni istituti sono vera- mente ed essenzialmente italiani. importa che si trovino anche in altre parti d' Europa : se ciò avvenne, fu perchò ve li portarono i mercanti italiani, che andavano dappertutto.

§ 2. - LEGGI E CONSUETUDINI MARITTIME. A. Delle consuetudini maritUme in generale. ^

1. Le città, dove il commercio marittimo fiori maggior- mente, sono: Venezia, Oenova, Amalfi, Pisa, Trani, Ancona; e ad alcune giovarono gli stessi avvenimenti politici. Specie le crociate dettero occasione a parecchie fra esse di fornire navi

** Blblloffrafla. Aznm, Origine e progre$9o del éUriUo e Ufida&ione ma- rittima neiropera : Sistema untveraale dei principi del diritto nutrtttimo deWEu' r^pa, Trieste, 1796-97. Anche » perte : (Jrigine et progrèe du droit et de la Ugiaiatian maritime ^ avee dea oi>9er9€Uiion$ $ur le eomutat de la tner, Paria, 186U. Mbtvs e., De hietoria Zemn maritimarum medii aevi eeleberrimarwiìt Gottingai 1824. PABDitsuB, Prefaaioni ai eingoli capitoli della ana CoUeetion iee loie ma- ritime». Bbddib, An Hieiorieal viete oftKe lato of maritime commerce» £dinbiirfl;o e Londra, 184L D'Aodosio, Cenno storico del diritto di commercio, NaiK>li, 1860. MoBPUBOO £., Le antiche leggi marittime degli italiani (^fiiviata marittima « an- no Vili, 1875w fase. 9). Lastio, Isintvjiekiungstpege u. Quellen de» Jlandelsrceht», StattjRrart, 1877. Waonbb nella "Zeitschr. fèTr Handelsrecht , XXIX. Lo stesso, Hemdbueh dee Sterecht», I, Leipsig, 1884. Mobborb, H diritto marittimo del Re- gno d'Italia, 2 voi., Napoli, 1886. Bosblli, Le droit maritime en Italie, Torin, 1885. Dbsjabdiniì, Introdttetion hi»torique à V elude du droit commercial maritime, Paris, 1890. Bbxda, Le origini italiane del diritto marittimo, Genova. 1891. Gold- BCHMinT, Univ€r»alae»ch, de» llandelertchte, I, Stuttgart, 1H91. Vedi anche al- cune ojpm speci sii : TbomaSi QuelUnkwnde dee venetiani»chen Handel» «. Ver- kthr»j Wien, 1879. Wildschut, Specimen hietorieo^uridieum de eoneuUUu mari», Amstelaeduni, 1844. Schaubb. Dm Coneulat de» Meeree in Oenua nella " Zeit- ■obr. far Handelsrecht « XXXlL Lo rtbsso, Da» Coneulat dea Meere» tn Piea. £tn Beitrag tur Oe»eh, de» Seetoeeen», der HandeUgilden u, dee JlandelerecKt» im M, A,j LeipEtg, 1888. Lo stesso, Neue Auf»chlU»ee Uber die AnfOnge de» Coneu- lat» dee Maere» {nella •'Zeitschr. fùr Geschichtswiss., IX, 1^). Calissb, Le leggi eomwurcial% di Civitavecchia (dal * Filangieri « Milano, 1888). MASraoBi, Le leggi marittime di Ancona^ BomiL 1897. Riferiamo più sotto gli studi che videro la luce sulla tavola d'Amalfi e sugli ordinamenti di Tram. Ediiioni. Una ampliseimA raccolta di leffgi marimme fu pubblicata dal Pardessus col titolo: CoUeetion de» loi» marittme» anterieurte au XVIII »i!è>cle, 6 voL, Paris, 1828-45. Anche Tbavbbs Twiss, ifcmiiiiiento iuridica. The hlaek hook of the Ad- miralty with <m avpendix, 4 voi. London, 1871*76. L'appendice, che abbraccia il voL I, p. 845472 e i voi II-IV, riproduce le fonti più importanti. Per 1* redasione italiana del con»otato del vutre, vedi Scbaubb, nel ^ Programma del Ginnasio di Brieg «, 189L H Commentario del Casaregis vide la luce a Pirenie nel 1717 e tn ristamjpato più volte. Gli etatuti anconiteni furono editi dal Cia- VABni col titolo: Statuii anconitani del mare, del tereenale e della dogana fatti con diverse naeioni, voi. Ancona, 18961 II PnmDMLhi e il Sacbbdoti, pnobli- earono gli jMn/t marittimi venemani fino al 1256 nel * Nuovo Aroh. veneto « nuova serie, tomo IV, parte I e seg. 19Q2'8.

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e viveri per il trasporto in Terra Santa, e di fondare fondaclii e fattorie nelle terre di Levante. Parrà naturale che i progressi del commercio facessero sentire la necessità di disciplinarlo, an- che più che non lo fosse dalla oonsaetudine, o dalle vecchie leggi Bodie. Cosi ci abbattiamo in questi tempi in vari codici sugge- riti dai nuovi bisogni, sia nei bacini dell' Adriatico e del Medi- terraneo, che possono anche confondersi in uno solo, e sia in quello dell'Atlantico. Noi però non ci occuperemo ohe dei primi.

2. Nel bacino dell'Adriatico abbiamo gli Ordinamenta et consuetudo maris edita per constdes civitatis IVani , che certamente è il codice marittimo più antico che si conosca, se è vero che sia stato compilato nel 1063, come indica l'intestazione; ma di esso parleremo particolarmente più sotto. Altre leggi appartengono a Venezia e sono anch'esse abbastanza antiche. La prima è il Capitulare navium del doge Pietro Ziani (1205-1229), riformato poi dal Tiepolo col nome di Statuto nautico (1229) ; un corpo di 62 capitoli. Più tardi fu ricorretto ancora una volta dal doge Zeno (1255), e ne usci il codice che ha per titolo Statata et or- dinamenta super navibusj in 129 capitoli. Una nuova revisione è del 1302. Altre correzioni ed aggiunte si trovano negli Sta- tuta civiUa, 1346-47 : additiones et correciiones super statutis na- vium et navigantium. Tutto sommato, trattasi di una ricca le- gislazione, che ebbe una speciale importanza anche per le leggi delle città ed isole della Dalmazia. Gli statuti di Zara e di Spalato, per tacere d'altri, ne hanno subito l'influenza. Alla sua volta, uno statuto marittimo particolare di Ancona, compilato nel 1397, si risente già del Consolato del mare.

Al Mediterraneo appartiene la Tavola di Amalfi, una città, che per più secoli visse quasi indipendente. È un altro diritto che, a quanto pare, ha goduto di una grande autorità; ma per molto tempo se ne sono perdute le tracce e si dubitò anzi della stessa sua esistenza, nonostante le notizie molto precise, che se ne avevano, finché il Gar lo scovò a Vienna nel 1843. Pensiamo però che metta conto di occuparci più particolarmente anche di esso; e lo faremo quanto prima. Parimente Pisa deve aver avuto leggi scritte di diritto marittimo già nel 1081; ma soprat- tutto essa va ricordata pel Constitutum usus del 1160, e pel Breve curiae maris, un codice speciale degli anni 1298 e 1306, tra- dotto poi in italiano nel 1343. Sono leggi che hanno una par-

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tioolare importanza nei rigaardi pratici, e non solo per le città marittime soggette a Pisa. Il Wagner avverti come parecchie disposizioni del costituto pisano siano state accolte in Marsiglia, e di siensi spinte perfino nella Spagna. Ciò accadde nel se- colo Xni; ma cotesto influenze presumibilmente cessarono poi, quando T importanza della città si mutò cosi sostanzialmente. Aggiungiamo: il Breve poritis KcUaretani del 1318 e iloune dispo- sizioni dello statuto di Sassari del 1316, che sono pure d'origine pisana. Altre leggi appartengono a Genova. La più antica, che si conosca, è del 1 154; ma del resto si trovano disposizioni di diritto marittimo nello statuto della colonia di Pera anteriori al 1300, e parecchie ordinanze staccate, raccolte poscia da quel- VOffkium Giizariae, che, rivestito fin dal 1313 di attribuzioni amministrative e giudiziarie, poteva emettere ordinanze anche in materie di mare. Gli statuti di Bonifacio, Albenga, Savona e Levante stanno sotto la influenza di queste leggi.

Una cosa degna di speciale osservazione si è, che, sebbene i rapporti commerciali fossero quasi gli stessi e regolati press'a poco sulle medesime basi, non si può dire che i codici di una città influissero gran fatto su quelli delle altre. Le nostre repubbli- che marinare appaiono, per questo riguardo, ben diverse dalle città anseatiche. Amalfi ha il suo sviluppo giuridico, come Pisa il suo; Pisa deve nulla a Genova, o Genova a Venezia, o viceversa. Ognuna si svolge da so in modo corrispondente allo stato di inimicizia ohe esisteva tra loro, non altrimenti che ab- biamo trovato negli statuti municipali. Ma non tutte presen- tano la stessa importanza. Le leggi di Venezia e Genova si occupano, più ohe altro, di diritto pubblico: mentre invece la ta- vola d'Amalfi e gli ordinamenti di Trani e le consuetudini pi- sane offrono anzi una speciale importanza per il diritto privato.

3. Nel bacino del Mediterraneo signoreggiò anche il Con-^ solato del mare, ma non appartiene all'Italia. È un'ampia rac- colta di consuetudini, che nella sua forma attuale fu proba- bilmente redatta a Barcellona nella seconda metà del secolo XIV (verso il 1370), sulla base d'altra collezione barcellonese, che si trova citata molto prima col nome di Coetumes de la mar. Accresciuti e rimaneggiati, come accadde anche con altri libri giuridici in questi tempi, i Costumee de la mar si sarebmro poi tramutati, non si sa per opera di chi, in quel codice sortito a

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ben più alti destini, in quanto si fé' strada un pò* alla volta in tntti i porti del Mediterraneo e dell'Adriatico. Nel secolo XVll questo processo si poteva già dire compiuto, perchè non rimaneva più alcuna configurazione giuridica di questi bacini, che non avesse ceduto davanti al Oonsolato. E non solo in Ita- lia. È la sorte comune, che toccò ad Amalfi e a Trani, come alle Assise di Gerusalemme, le quali contengono anche alcune dispo- sizioni di diritto marittimo, come del pari agli statuti di Marsi- glia, di Monpellieri, ecc. Il Consolato diventò veramente la legge comune dei due mari. Lo stesso diritto marittimo di An- cona, che pur era nato sotto la diretta influenza di esso, fini con l'esserne soppiantato. Lo Stracca, giureconsulto anconita- no, conosce solo il Consolato, che appunto allora fu tradotto in italiano. Ciò avvenne già nel 1519. È una traduzione in 247 capitoli, su cui forse fu modellata quella di Venezia del 1539. Apparve poi la traduzione vulgata, dapprima in Venezia nel 1549, e più altre volte ancora ; e non dubitiamo che queste tra- duzioni italiane abbiano conferito molto alla diffusione del li- bro. Basti dire che si sono fatte strada perfino nell'Europa settentrionale. H Casaregis lasciò scritto, sulla fine del secolo XVlll: Cansulatus maris in maieriis maritimis tUi univeraalis consuetudo,,,. communiter apud omnes provincias et natùmes re^ cepta. E il Lubechius : Omnium gentium leges et consuetudine» maritimctó ccllectas et eertis capitibus dispositas videre licet in ele- gantissimo Ubro, qui dicitur ConsuUUus maris ex lingua, italica in helgicam translatus.

Tanta fortuna fu davvero meritata. Il Consolato del mare non riproduce soltanto le consuetudini spagnuole, ma, in ge- nerale, quelle del Mediterraneo e dell'Adriatico, persino gli usi della costa occidentale della Francia; e pur risultando difettoso in qualche parte, presenta il diritto marittimo del tempo in mo- do abbastanza completo, con riguardo specialmente alla pratica. Infine è il primo tentativo, che sia stato fatto, di un ordina- mento sistematico del diritto marittimo ; e, per quanto il sistema lasci à desiderare, senza dubbio esso corrisponde alle idee ed an« che ai bisogni del tempo.

Abbiamo detto alle idee ; perchè con le sue distinzioni e sud- distinzioni ha una tinta tutta scolastica. E tale si presenta a prima giunta; ma giova anche avvertire, che cotesto elemento

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formale non ha nooiuto gran fatto, perchè il compilatore vi si appigliò ordinariamente dove non produce va conseguenze pra- tiche; mentre, trattandosi di questioni veramente importanti, seppe costantemenre trovare la nota giusta. Le stesse decisioni e distinzioni sono di regola motivate. Il Consolato rispondeva talmente allo stato della scienza di quei tempi, che perfino i romanisti dei periodo successivo lo rispettarono, più che non avrebbe comportato il loro indirizzo.

Ciò che più monta, esso conveniva ai bisogni del tempo. Infatti una communis consuetudo^ ispirata dalla natura delle co- se, era prevalsa via via, ad onta di tutte le difiere nze locali ; e, se vogliamo, anche delle resistenze canoniche. L'indole stessa del commercio, ohe aspira ad una economia mondiale, doveva condurre a ciò; ma anche Fazione del diritto romano vi ebbe la sua parte. Infatti il commercio aveva raggiunto a Boma un tale grado di sviluppo nei tempi classici, quale più non raggiunse fino ai secolo decimottavo. Era stato un grande commercio capi- talistico, a cui fa strano riscontro il piccolo commercio collettivo del medio evo; e parrà naturale che, quanto più questo si an- dava trasformando in quel senso, i principi del diritto romano tornassero in onore, e appunto in essi si cercasse un valido ap- poggio. Certo, si guardò il diritto romano con occhio meno sospetto. Dopo tutto, il credito aveva trovato nelle leggi ro- mane una disciplina tanto rigorosa quanto elastica ; e il diritto marittimo, che nel primo periodo del medio evo aveva j^ubìto le influenze locali, vi si accostò realmente. Ora, senza alcun dubbio, il Consolato del mare non sembra punto costruito con materiali romani; ma combina con esso in alcuni punti es>en- ziali, e ciò spiega come riuscisse a soppiantare i diritti locali, creando un diritto uniforme in tutto il Mediterraneo. Es^o ve- niva incontro veramente ad un bisogno del tempo; e al resto doveva provvedere la letteratura giuridica.\ Più tardi verrà an- che preso in considerazione; e già il Targa (1692) se ne occu- pò: il Casaregis (1718) lo illustrò persino con un commento.

4. Secondo una opinione, che può trovarsi in molti scrit- tori, anche i Kaoli d'Oleron, un altro libro giuridico di questi secoli, avrebbero riprodotto il diritto marittimo del Mediterra- neo. Si è detto che, in seguito alle crociate, e specialmente per opera di Biccardo Cuor di Leone, questo diritto sia stato

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trapiantato sulle coste occidentali della Francia ; ma non è con- forme al vero. L'isola d'Oleron ha da tempi antichissimi eser- citato un vivo commercio in vino e sale, e i Róles vi nacquero in modo affatto indipendente, in base alle sentenze pronunciate dalla curia marittima del luogo. La raccolta fu messa assieme, a quanto pare, nel secolo XII, e acquistò in breve tanto favore, da diventare, anch'essa, una fonte del diritto comune. Diffusa in tutto l'Occidente e nel Settentrione d'Europa, fini con adem- piere lo stesso ufficio per l'Atlantico, che il Consolato del mare pel Mediterraneo.

6. Ciò che caratterizza tutta questa ricca fioritura è il predominio che il diritto consuetudinario venne acquistando sempre più col tempo. E un diritto in gran parte nuovo, for- matosi direttamente in base al commercio e ai suoi bisogni, se- guendone i mutamenti, spesso in opposizione col diritto civile. Il diritto romano, che pure aveva fatto il suo ingresso trion- fale nel mondo, non fu da tanto da imporsi subito direttamente nella decisione delle cose marittime. Inflid solo qua e là, come può vedersi nel Constitutum usua di Pisa, e basta. Ciò dipese da più ragioni. Una è, che il commercio si svolse dapprima su nuove basi ben diverse da quelle del diritto romano ; e un'altra, che coloro, che dovevano giudicare di cose marittime, erano per lo più profani agli studi del diritto. Solo più tardi il commer- cio prenderà un nuovo indirizzo, e anche la giurisprudenza si farà strada, soppianterà anzi la consuetudine, finche anch'essa sarà soppiantata alla sua volta dalla legislazione ; ma per il mo- mento, nulla di tutto ciò. Ad ogni modo le nuove fonti parevano di una applicazione più facile che non il diritto romano.

Non v'ha poi dubbio che cotesto consuetudini abbiano confe- rito molto al progresso giuridico.

Come nell'antichità, cosi nel medio evo, buona parte degli istituti mercantili, è dovuta al commercio marittimo, dal quale si sono poi comunicati al commercio di terra. L'octto exer- citoria, il receptum nautarunij il foenus natUicum^ lo provano rispetto al diritto romano. Pel diritto medievale può vedersi la storia delle società, delle assicurazioni, della cambiale e dei tras* porti. Per es., la commenda, società per lo più effimera ed av- ventizia, sorge dal commercio marittimo e, alla sua volta, poi nascimento alle due forme parallele della società in acoo-

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mandita e della associazione in partecipazione. E un contratto marittimo è la colonna, che, se non altro nei riguardi economici, somiglia alla odierna società in accomandita per azioni. A dif- ferenza del diritto romano, le funzioni dell'armatore, del capi- tano, dell'equipaggio, dei caricatori non si esercitavano più se- paratamente : lo spirito di associazione, proprio del medio evo, li aveva uniti in un fascio, che solo più tardi doveva dissolversi, quando l'assicurazione, elidendo i rischi, lo fece parere meno necessario. Ciò portava una rigorosa solidarietà che legava la fortuna della nave e de' suoi armatori a quella de' marinai e del carico. E si tratta di un contratto molto difiuso. Vi si riferisce la compilazione greca, conosciuta sotto il nome di lus navale Rhodiorum, in vari capi, e questa è forse la più antica de- signazione che ne rimanga; in seguito si trova, sebbene con altri nomi, nel Constitutum usua di Pisa, nelle Assises de l-a haisae court del regno di Gerusalemme, nella ordinanza di Jacopo d'Aragona del 1258, nel Consolato del mare, negli Statuti di Bonifacio dei 1609, negli Us et coutumes d'Alonne del secolo XVII, e ne parla anche il Targa, probabilmente secondo gli usi della riviera di Genova. Però la fonte più importante e completa, che se ne ab- bia, è la Tavola d'Amalfi, che ne fa espressa menzione in diversi capi e in altri vi allude, pur non ricordandola per nomj3. Noi ci troviamo nuovamente di fronte ad un contratto che ha una reale importanza nella storia delle società. Un altro è la ma- hona genovese di Chios e Fochea (1346), che si presenta quasi col carattere di una società coloniale per azioni, e sarebbe la più antica, a cui non molto tempo dopo (1373) tenne dietro quella di Cipro. Ma anche l'assicurazione a premio nacque dapprima nel bacino del Mediterraneo come assicurazione marittima pel trasporto delle merci: poi vi si aggiunsero le assicurazioni del casco, del carico, dei denari dati a prestito, sempre sulla base del diritto marittimo. Perfino le assicurazioni sulla vita si in- dirizzarono originariamente ai rischi di mare. altrimenti il cambio traiettizio terrestre potrebbe, secondo la ipotesi del Gold- schmidt, avere ricevuto i suoi caratteri fondamentali dal cambio traiettizio marittimo, e di essere passato al commercio di terra. Certo, i documenti più antichi, che restano, delle cambia- li, ricorrono nel commercio di mare ; ma, ciò che più monta, e lo dimostrò il Goldschmidt, fu il prestito marittimo, solito a redi-

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gersi in iscritto, che diede alla lettera di cambio la sna forma tipica. In fatto di trasporti basterà ricordare la polizza e la semplice fede di carico : due altri istituti propri del diritto ma- rittimo, che già nel secolo XUI s' incontrano anche nei trasporti per terra.

In pari tempo vediamo istradato per una nuova via il sistema processuale ; e anzi le riforme, più presto che in altre parti del giure, si verificano in questa. Da un lato, si trattava di esclu- dere i giudici dotti, venuti su nelle scuole di diritto romano, il quale non aveva a ohe fare coi nuovi rapporti; dall'altra, si va- leva applicare un sistema più razionale di prove, che non fosse quello del duello e dei giudizi di Dio, cosi caro ai Germanici; ed anche bisognava abbreviare i termini. Non c'è dubbio: in quella palestra aperta a tutti i popoli, la concorrenza si era fatta più viva e la speculazione più avventurosa : qual meraviglia che si escogitassero nuove vie di guadagno e insieme nuovi mezzi di difesa?

B, Gli Ordinamenti di Trani. **

1. Lo statuto di Trani offre un nuovo argomento del modo affatto spontaneo, con cui il diritto sorgeva e andava svol- gendosi nella società medievale sotto l'egida della consuetudine. In realtà, si tratta di vecchie norme consuetudinarie ordinate a

" Bibliografia. Pardessus, Prefazione agii ordinamenti di Trani neUa ColUction^ des lois maritimes, tomo V, Paris, 1839. Yolpicella, Degli antichi or- dirutmerUi maritUmi di Trani, Discorso pubblicato dapprima neUa * Biblioteca di scienze morali diretta da P. S. Mancini, Napoli, 1847, poi a Potenza, 1862, da ultimo in j)iù ampie proporzioni nella ** Raccolta delle antiche consnetudiiii e leggi marittime delle Provincie napoletane deirAlianelli, Napoli^ 1871. Lo STESSO, Lettera aWon. sig, comm, Nicola AlianeUi intomo alle conttietìàdini di 2Va- ni, Napoli, 18G8. De Bozière, Distertation sur la véritable date du stattU mari- time de Troni, neUa "Bevne histor. de droit frau^. et étiHnger„ I, p. 18&-198; Pari^ 1855. Festa Campanile, Al chiar, signore L. Volpiceua intomo ad una €ìpinione del Pardessus relativa a Tranù Lettera, Trani, 1866. Sul, neU' ** Arch. stor. ital.^ nnova serie XTT (1860), p. ^ e se^. Alianelli, Su la data degli or^ dinamenti marittimi di Trani, lettera a L. Volpicella, nel Giurista anno Vii, n. 48, Napoli, 1866. Lo stesso, Risposta alla lettera deWon, eav, JL Volpicella in- tomo alle consucL di Trani, Napoli, s. a. Belteani, Sugli ordinamenti marittimi della città di Trani, con appenaice di note e documenti inediti. Lettera al comm, AlianeUi, Barletta, 1873. C a passo neU^ "■ Arch« stor. per le provinole Napoleta- ne „ I, 1876. Bacioppi, Ordinctmenii e consuetudini mcnrittime di Trani (* Aroh. 8tor.„ cit, anno IV, fase. 2, Napoli, 1879). Schupfer, Tremi ed AmeUJL Studi sulle consuetudini marittime del medio evo (** Rivista itaL per le scienze giuridi- che „ voL XIII, 1892). Laudati, Data degli Ordinamenti Toaritiimi di Trani, Na- X>oli, 1893. Gabotto, // commercio e la dominazione dei Veneziani a Trani fino all'anno 1530 (nelP '^Arch. stor. per le provincie napol.„, anno XXm, fase. I,

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decidere le controversie nate tra gente di mare per cose di in* teresse marittimo, che alcuni consolii de' più esperti in arte de mare, raccolsero. Lo dice il documento stesso, e anche ne in- dica i nomi. Che se qua e riproduce parecchie disposizioni di diritto romano, più d'una volta va per la sua via. Ma, in generale, questo è il carattere di tutte le leggi commerciali, di avere cioè in parte il loro fondamento nella ragione romana, mentre in parte, forse per lo più, s'inspirano a criteri nuovi, suggeriti dalle nuove condizioni della vita e dal nuovo intrec- cio di fatti, che il diritto romano non conosceva. L'organo di tutto questo sviluppo è costituito dagli usi e dai costumi. Gli Ordinamenti parlano in particolare della contribuzione, delle cose trovate in mare, dei diritti ed obblighi del padrone, dei marinai, del nocchiero, dello scrivano, e del contratto di no- leggio.

Del resto, soltanto il titolo e la data di essi sono in latino : tutto il rimanente è in volgare, e non si tratta neppure di scrit- tura originale. Com'è giunto fino a noi, il codice è tradotto; e probabilmente, a giudicarne da certe parole e costrutti, la tradu- zione fu fatta da un veneto. Il che, dopo tutto, non deve far meraviglia, ove si pensi alle larghe relazioni commerciali, che Trani ebbe con Venezia fino a tutto il secolo XY. Il console veneziano per la Puglia risedeva appunto in Trani, e basterà ricordare Marco Dandolo che tenne questo ufficio nel 1311 e Marco Giustinian che lo tenne nel 1369: più tardi, dal 1496 al 1509, la città rimase addirittura sotto il dominio della Signoria.

2. Più grave ricerca esige la questione della data; e non- ostante l' indole del nostro lavoro, ci permetteremo di dilungarci alquanto. Il proemio dello statuto indica nettamente l'anno in cui sarebbe stato compilato : millesimo eexagesimo tertio, prima indictiane ; e certo» la indicazione dell'anno corrisponde alla data della indizione. Inoltre è osservabile che essa è riprodotta in latino, oome si trovava scritta originariamente nello statuto, e

18D6}. BooADBO, Oli QrdinawienU nutriUiwU di Trtmi (nttUa " BaMefpitk pugliese ^, XVI, d, 1809). CicoAOLiOHB, Di ima nu4fva opinione intomo agli ordtnamenlt morU- Umi di Trani (nel * voL per le onorarne al prof. F. Pepere « Napoli, 1900). G4* MABBLLISB. Saggio di dona del commercio della Puglia e pi» particolarmente del' la Urrà di Bari (nell^opera «Ija terra di Bari , Trani, 1900). EdijdonL Oli oiv dinamenti di Trani, oltre ohe nella grande OoUeaione del Pakomsus, tomo V, e in quella del Twis^, rv, 521-64fl^ forono pubblicati dal Volpicblla, Potensa, 1822, e anche neU^opera deirAu^asLLi, DtlU tnUiche coneuetudini e leggi marit- time delle Provincie napolitane^ Napoli, 1871, p. 52-64 in due testi.

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ciò la rende anche più attendibile. Infatti il Pardessus, che fa il primo ad occuparsene, l'accetta ; e l'opinione del Pardessus è seguita dal Bozière, dall' Alianelli, dal Festa Campanile, dal Bel- trani, dal Travers Twiss. D'altra parte, non sono neppure man- cati gli oppositori, e tra questi amiamo di segnalare lo Sclopis, il Volpioella, il Bacioppi, lo Schaube. Naturalmente parliamo solo di coloro che hanno studiato più da presso la questione, e trasandiamo gli altri.

Gli argomenti, a cui essi si appoggiano, sono di varia specie ; ma non tutti hanno lo stesso valore, e anzi alcuni possono dirsi completamente sfatati. Già lo Sclopis ha addotto più ragioni, per cui credeva di non poter accettare una data cosi antica; ma nessuna ha potuto reggere alla critica. Egli parte dall'idea che il documento sia stato dettato originariamente in italiano, quale à pervenuto fino a noi, e osserva che nel 1063 la lingua italiana non poteva dirsi ancora formata; ma già sappiamo che il presupposto da cui ha preso le mosse, non regge. Inoltre lo metteva in sospetto il titolo di conte dato ad uno dei com- pilatori; e non sapeva spiegarlo, neppure come onorificenza conceduta ad un professore di diritto, perchè lo studio di Bo- logna nel 1063 non era stato ancora aperto; ma non s'accorse che si trattava del comito^ detto latinamente comes galearum, o anche comitus soltanto, o comes, un uomo che aveva il co- mando delle persone addette al servizio della nave. Ha infine osservato che un capitolo fa obbligo allo scrivano di essere turato del suo comune, indicando cosi il magistrato comunale: e anche ciò gli parve repugnare alla data ; ma non sapremmo pro- prio in quale difficoltà si potrebbe incorrere, ammettendo che già nel 1063 fosse costituito in Trani un comune. Il mille è il se- colo, in cui il comune si viene formando dappertutto, e, quanto alla città di Trani, è accertato che appunto dal 1042 al 1073 fu completamente autonoma.

gli argomenti del Volpicella appaiono più felici. Egli av- verte che nel secolo XI, avanti e dopo il 1064, si solevano segnare nelle carte gli anni degli imperatori, e non quelli dell'era volgare) e anche gli reca meraviglia che i consoli, che compilarono lo statu- to, sieno indicati coi loro cognomi, un uso, cioè, che, a sua detta^ non si era per anche introdotto in Trani. Soltanto nel secolo se- guente, i Tranesi avrebbero cominciato a notare nelle pubblicne

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scrittore i nomi dei loro genitori : figuriamooi poi i cognomi ! Ma tutto ciò poggia addirittura sul falso. Perchè, abbiamo, in primo luogo, alcune carte tranesi di quel periodo di tempo, pubbli- cate dal Beltrani e dal Prologo, e anche altre dei Monumenta del regio Archivio napoletano, in cui è adottata l'era volgare. quelli, che il Volpicella ha inteso per cognomi dei consoli. An- gelo de Bramo, Simone de Brado, Nicola de Bogerio, sono tali, ma semplici indicazioni della paternità di ciascuno di loro, che si trovano veramente in tutte le carte tranesi, anche più antiche.

3. Molto più seri sono due argomenti del Bacioppi : cioè a dire un capitolo, il quale ricorderebbe nientemeno che una co stituzione di Federigo II sulle defense personali, e il nome di consoli in arte de mare^ che sarebbe il primo esempio di tale istituzione. £ nondimeno neppur essi reggono ad un attento esame.

Cominciamo dalla coincidenza dello statuto col codice frideri- ciano. Lo Statuto stabilisce, che, se il patrone voleva battere un marinaio, questi doveva andare a prua davanti alla catena del remiggio e dire tre volte : Dola parte déla mia Signoria non me toccare; e il codice di Federigo: che ciascuno possa tute- lare la propria persona per invocationem nostri nominis, proibendo ex parte Imperiali all'aggressore di fargli offesa. Il Bacioppi aggiunge, che questo istituto delle Defense personali, introdotto da Federigo II, la ragione e la spiegazione della frase sacra- mentale dello statuto tranese. Ma, domandiamo noi, è egli ve- ramente provato che la costituzione di Melfi contenga un lus navumt Era una idea tutta romana, conservata certamente nel diritto volgare, se non anche in qualche legge, che la maestà del popolo e dello Stato o dell'imperatore bastasse a proteggere l'in- dividuo: ne fa fede Apuleio, e ad essa tanto lo statuto di Trani quanto il codice fridericiano potevano attingere, non altrimenti ohe, in tempi più avanzati, le costituzioni Egidiane. Ma, am- messo pure che non si trattasse di pratica romana, essa avrebbe ciononostante potuto svolgersi dal concetto della sovranità co- m'era intesa dai Normanni, senza bisogno di scendere sino a Federigo II. In realtà, le consuetudini più antiche di Messina contengono un capitolo sulla defensa^ al pari di quelle di Pa- lermo e di Trapani, e devono esaere anteriori alle costituzioni, sia perchè sono da esse ricordate (I, 106), sia perchè disciplinano

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la defensa in modo alquanto diverso, mentre non avrebbero po- tuto farlo, non tollerando le Costituzioni del Begno alcuna con- suetudine futura ad esse contraria. Ma v'ha di più: lo stesso Federigo dichiara che la facoltà dei giustizieri, di conoscere della defensa imposita, era contenuta già in Asrisiis praedeee^ sorum nostrorum: egli l'aveva trovata e la conserva, salvo che la modifica alquanto, specie per riguardo alle condizioni della sua validità e alla pena. Ma queste stesse novità presentano per noi una grande importanza. In fondo, la disposizione degli Ordi- namenti, se pur nella idea fondamentale collima oon quella della legge di Federigo, se ne allontana in tutto il resto, e in modo da non parer verosimile che questa li abbia preceduti nel tem- po. Gli Ordinamenti dispongono che l' invocazione della Signo- ria doveva bastare a proteggere V individuo, e invece la Legge attribuisce tale autorità all' invocazione del Nome imperiale. È egli presumibile che, se la legge di Federigo fosse stata già pubblicata, gli Ordinamenti avrebbero saltato a pie pari la difesa che l'individuo poteva attingere al nome dell'impe- ratore, per sostituirvi quella della signoria? E di quale si- gnoria? Una città autonoma, qual'era quella dell'anno 1063, nel quale gli Ordinamenti diconsi fatti, poteva avere veramente una signoria cosi rispettata e forte da bastare il suo nome a difendere l' individuo ; ma al tempo di Federigo II? in un tem- po, cioè, in cui lo Stato ci teneva a sovrapporsi a tutte le auto- nomie locali di qualunque specie esse fossero? Ad ogni modo ci si concederà che il nome dell' imperatore, invocato in base ad una legge, avrebbe potuto significare qualcosa di ben più serio che non quello di una autorità invocata sulla semplice deliberazione di tre eletti consoli in arte de mare. Ed è poi certo che si sarebbe potuta invocare? L'Isernia e Matteo d'Afflitto sostennero recisamente ohe no, perchè si trattava di cosa essen- ziale. Del resto le due leggi sono discordi anche per un altro riguardo. Infatti, gli Ordinamenti danno diritto al marinaio, che si era richiamato alla sua signoria, di reagire e perfino uccidere l'aggressore ; mentre la legge di Federigo non accenna punto a questo diritto di resistenza, e invece vuole punito l'ag- gressore, che non si fosse ritirato, con la confisca di una parte dei beni. Evidentemente la disposizione degli Ordinamenti rap- presenta uno stadio di civiltà molto meno progredito di quello

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della Legge. Il diritto, ivi riconosciuto, di farsi giustizia da sé, ha ceduto il posto, nella Legge, all'azione dello Stato ; e anche ciò deve confortarci nell' idea che gli Ordinamenti sieno molto più antichi. Un' altra novità, introdotta da Federigo, riguarda la presenza dei testimoni : ne abbisognavano tre, degni di fede e superiori ad ogni eccezione, perchè la defensa fosse valida, mentre gli Ordinamenti non contemplano affatto questa circo- stanza. Ma, volendo anche supporre, non diciamo ammettere, per un istante, che lo statuto tranese siasi ispirato, quanto alla di- fesa personale, al codice di Melfi, come si spiegherebbe, poi, che esso non tenga conto di altre disposizioni, che, certo, non avreb- bero potuto sfuggire ai consoli ohe lo compilarono? Vogliamo alludere a due leggi: una di re Guglielmo e Tal tra di Fede- rigo n sulle robe dei naufraghi. La prima vuole riservata al fisco una parte delle cose dei naufraghi, di cui non si trovasse il padrone; mentre Federigo II minaccia la pena del capo ai violenti spogliatori dei naufiraghi: ma lo statuto, che pur si occupa» con sufficiente ampiezza, di questa materia, non cono- sce né una costituzione l'altra. É egli probabile che sia stato scritto in tempo posteriore?

Per ciò che riguarda i consoli in arte de mare^ è certo che, se fosse vera la data del 1063, sarebbe questo il primo esempio documentato di una istituzione, che doveva estendersi poi cosi largamente, sia nel bacino dell'Adriatico, sia anche intomo al Mediterraneo; ma la questione è di sapere se possa ripugnare alle condizioni del secolo : e crediamo che no. In fondo, il Ba- cioppi parte da un erroneo presupposto, che, cioè, il Consolato del mare non potesse nascere se non dopo che la potestà sovrana in talune città dell'alta Italia ebbe preso il nome di console, e anzi dopo istituiti i consoli di giustizia, perchè, a sua detta, quelli dei mercanti o quelli di mare ne sono una specie. La verità però è, che il titolo di console non aveva bisogno di es- sere importato nel Napoletano, perchè vi perdurava come tra- dizione direttamente bizantina. Dopo cessati i consoli ordinari, restarono nondimeno quelli titolari in tutta l'Italia soggetta a Bizanzio ; ed anzi è un titolo molto diffuso. Lo porta l'esarca di Bavenna, e lo assumono i duchi di Napoli e di Venezia, e altri officiali minori, come a dire i tribuni, i tabellioni, e, ciò che fa più specialmente al caso nostro, perfino i preposti dei negotia*

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tores. Abbiamo già avvertito più su (p. 501), che i oapitulari della schola negoticUorum di Bavenna portano questo titolo in documenti degli anni 965 e 974. si dica trattarsi di un sem- plice titolo onorifico, perchè ciò importa poco al caso nostro; e d'altra parte neppur sarebbe vero pel tempo in cui cadrebbe la redazione degli Ordinamenti. Infatti non era già avve- nuta in Boma la grande restaurazione di Ottone III? Egli aveva pure riconosciuto il senato, alla testa del quale aveva posto dei consoli, e non si trattava più di un semplice titolo di onore, ma di una vera e propria magistratura. Non basta: gli stessi giudici dei distretti avevano preso ufficialmente il no- me di consuleSf come rileviamo dalla notizia: Quot sunt genera iudicum. Dopo tutto, appunto nell'anno 1064, un documento conservatoci dal regesto di Pietro Diacono, ricorda tre consules civitaUa Sipontine, i quali attestano, che Pandolfo, prima di mo- rire, li aveva chiamati per consegnar loro cinquanta passi de aquis piscacianis in mari^ da trasmettere alla badia di Monte- cassino. Si tratta di una città della Capitanata alle falde del Gargano. Inoltre, cinquant'anni dopo, nel 1123, abbiamo anche i primi consoli accertati da documenti a Gaeta, e già fomiti di tali attribuzioni da doverne dedurre che lo sviluppo del conso- lato vi risalga a tempi ben più antichi. Ma, se anche la istitu- zione fosse dovuta alla influenza dell' Italia settentrionale, certo non farebbe meraviglia di trovarla in Trani nell' anno 1063. Un poeta popolare, magnificando una vittoria riportata dai Pisani nella presa di El-Mehdia (1067), ricorda appunto i consoli della città di Pisa : anzi lo stesso Bacioppi, parlando dei consules marie di altre città marinare del secolo XII, conviene che non vi si presentano come istituto nato allóra. Ed è pienamente nel fero. 4. ^ Lo Schaube ha accennato a talune coincidenze degli Ordinamenti col Consolato del mare, per concluderne che essi dovevano essere di molto posteriori al secolo XI. E non ne- ghiamo che queste coincidenze ricorrano. Lo Schaube ne ha ri- cordate due, le quali riguardano le cause che potevano dispensare il marinaio dal mantenere gli impegni assunti, e la difesa per- sonale, che già conosciamo; e avrebbe potuto ricordame anche qualche altra, sia col Consolato stesso e sia coi Ruoli d'Oleron e altre fonti di diritto marittimo del medio evo. Ma che perciò? Evidentemente lo Schaube ha corso troppo quando ne ha de-

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dottO| che gli Ordinamenti dovevano aver attinto al Consolato. E perchè non, questo a quelli? Noi sappiamo ohe il Consolato non si restringe a riprodurre le consuetudini spagnuole, ma ri- porta anche quelle italiane, del pari che le francesi : perchè non avrebbe potuto ispirarsi agli Ordinamenti di Trani, come aveva attinto ad altre consuetudini? Tale ipotesi sarebbe molto più probabile, perchè il Consolato, anche nei due casi citati dallo Schaube, rappresenta un diritto molto più sviluppato che non sia quello degli Ordinamenti. Si aggiunge, che nell'anno 1453, in cui lo Schaube li vorrebbe redatti, essi avrebbero certamente subito l'influenza del Consolato anche in più larga misura, data pure che si fosse sentita allora la necessità di compilare un nuovo statuto, del che fortemente dubitiamo.

Ma non meno arbitrario è il modo, con cui lo Schaube spiega la malaugurata data, come la chiama, del 1063. Egli suppone che il testo la contenesse in cifre romane, e ohe il compilatore della iscrizione latina l'abbia riprodotta in lettere, sbagliando nel decifrarla. Avrebbe creduto di leggere A^. MLXIII, men- tre realmente sarebbe stato scritto MLDIII. Perciò egli attri- boisce gli Ordinamenti all'anno 1453; ma insieme conghiettura che la intestazione, anziché essere la parte più antica del codice, ne sia la più recente. Per conto nostro, non esitiamo un istante a relegare tutto ciò nel regno della fantasia : certo, non ha nulla di comune con la scienza.

5. Restano alcune considerazioni desunte dalla natura in- trinseca del documento.

Il Yolpicella ha affermato, specie con riguardo alla dizione,, che una grande differenza intercede tra lo statuto di Trani e i non pochi documenti pubblici e privati di quel tempo, scritti nella medesima città e in altri luoghi della Puglia. Mentre lo sta* tuto è chiaro, netto, laconico, preciso, gli altri atti sarebbero redatti con istile alquanto rozzo, e anche le idee vi si scorge- rebbero espresse confusamente, con locuzioni tortuose e senza precisiona^^ il Bacioppi & plauso a queste osservazioni: in- 8Ìem«,»dca7 che le disposizioni dello statuto si elevano mai sem- pre a norme generali ; e anche questa larghezza di formule, unita ad un singolare silenzio di qualsiasi circostanza locale, sareb- be tutt'altro che indizio di antichità. Ma anche ciò è più pre- sto specioso ohe vero.

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Forse sarebbe inutile d'insistere sulla precisione o nettezza della espressione e sulla sobrietà sintatica della &ase, dal mo- mento che non abbiamo davanti l'originale dello statuto, ma una semplice traduzione di tempi piuttosto avanzati. Chi ci assicura che l'atto originale non fosse scritto in uno stile rozzo, e nondimeno, tra le mani del traduttore, abbia potuto assumere una forma più civile? Al qual proposito giova osservare che la dizione della seconda stampa è già migliore della prima : molte parole sono state mutate e corrette. Ma, in fondo, non ci me- raviglierebbe affatto, che la stessa lucidità di espressione si riscontrasse già nell'originale latino ; perchè non è assolutamente conforme al vero che le altre carte tranesi di questi tempi, che possono consultarsi per es. nel Prologo, rendano confusamente le idee, con locuzioni tortuose e senza precisione : al contrario sono chiare, nette, laconiche, precise, proprio come il Yolpicella aveva osservato degli Ordinamenti.

Per ciò che riguarda la larghezza di formule giuridiche, che sa sollevarsi sopra la specialità dei casi, conveniamo, che in genere potrebbe essere indizio di intelletto già sviluppato, più forse che non lo consentisse la coltura del secolo XI; ma è questo il caso col documento che abbiamo tra mano ? In realtà sono singole questioni, che i consoli de mare dichiarano e definiscono; e ne sia prova la stessa materia della contribuzione, dove i Bomani avevano pur formulato dei principi molto netti, che avrebbero potuto facilmente riprodursi. Infine, lo stesso Bacioppi avverte in un altro luogo, che lo statuto è, più che altro, una raccolta di decisioni di cclsì giuridici^ a cui la longevità della consuetudine aveva attribuito forza di legge. L'autore qui è pienamente nel vero, più che non lo fosse, quando accennava ad una capace comprcnsività di norme, che non esiste. Il confronto poi, da lui istituito tra una legge italiana, quali sono gli Ordinamenti, e una legge forastiera, quali i Ruoli d'Oleron, nonostante che cadano press'a poco nello stesso tempo, assolutamente non corre: la diversa coltura dei due paesi basterebbe a provarne la diffe- renza, se pur vi fosse, per non dire del modo diverso di redazione.

6. Aggiungiamo un'altra considerazione. Il Bacioppi av- verte, che, stando alla data del 1063, ci avvolgiamo per lo meno in un tessuto di dubbi, d' incertezze e vacillamenti, cosicché un punto solo non resterebbe sodo al cammino ; ma sembra a noi che

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piuttosto il contrario sia vero. Abbandonando la data del 1063, tutto diventa baio, confuso, incerto. Infatti c'è chi propone di emendarla in quella del 1183; altri in quella del 1263; altri an- cora propende pel 1363; lo Schaube arriva niente meno che al 1453 ; e tutti questi scrittori, per ottenere tali risultali, fanno vio- lenza al documento, quale aggiungendovi una parola, che suppone omessa dal copista (Sclopis), quale modificando tutta una frase (Yolpicella), o anche non tenendo affatto conto della indizione, e quindi ricorrendo a un nuovo errore dell'amanuense (Racioppi), od escogitando infine anche più strane ipotesi (Schaube), che già conosciamo.

Tra tutte le conghietture, la più semplice e corretta è ancora quella dello Sclopis, che vuole emendata la data del 1063 in quella del 1363, anno in cui ricorreva pure la prima indizione; ma tutte le altre vanno senza più respinte. Nondimeno anche la data proposta dallo Sclopis è un anacronismo. In generale uno statuto, che avesse veduto la luce dopo le costituzioni di Federigo U, non avrebbe potuto ignorarne alcune vertenti sulla stessa materia ; e invece già abbiamo rilevato che il nostro le ignora completamente. Molto meno potremmo scendere fino al secolo XIV, perchè in quel tempo la città era ridotta in ben misero stato, e le sole relazioni commerciali, che tuttavia esi« stessero, erano coi Veneziani. Trani fu davvero ricca e potente al tempo dei Greci e dei Normanni fino agli ultimi anni del secolo XIII; ma, quando la Sicilia si ribellò al giogo angioino, un'aspra e lunga guerra si accese tra Napoletani e Siciliani, e questi recarono si grave danno alla città e al porto di Trani, che i Tranesi dovettero ritrarsi dal commercio. Se avessero pubblicato le loro leggi nel 1363, ciò sarebbe avvenuto quando non ne avevano più bisogno.

Un'ultima considerazione ! Il commercio del medio evo, or- dinariamente minuto, presentava, tra le altre, questa particola- rità : che il mercadante accompagnava in persona la merce : certo, era tale il commercio di Trani» come quello di altre città, ancora nei secoli XI, XII e XIII ; ma in seguito le cose cambiano. La stessa navigazione e tutte le forme del commercio marittimo hanno subito radicali mutamenti, e i mercadanti cessarono di ac- compagnare la merce. Gli Ordinamenti di Trani rispondono ancora a quell'antico stato di cose, e considerano come una ec-

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oezione, degna di nota, ohe i mercadanti non sieno ti» nave <r. 26 e 27).

7. Risulta poi, dalle parole del proemio e anche da al- cuni capitoli, che lo statuto non ebbe di mira il solo popolo di Trani. Soltanto non sapremmo dire se comprendesse veramente il diritto marittimo dell'Adriatico, come pensava il Pardessus, o si limitasse al diritto dell'Adriatico Napoletano, o anche solo a quello della Puglia. Certamente è stato accettato dai Fermani, perchè si trova unito agli statuti di Fermo. E dall'altro canto è un fenomeno molto curioso, che, mentre viene stampato a Venezia per ben due volte nel corso del secolo XVI, e poi un'altra ne- gli ultimi anni del secolo XVII, insieme agli statuti di Fermo, invece nel Napoletano se ne sia perduta affatto la memoria, e quasi si direbbe che neppure quelle stampe siano valse a ride- starla. Per Io meno non vi è scrittore che ne parli. Ma, lo abbiamo già rilevato, anche Trani era da lungo tempo decaduta.

a La Tavola d'Amalfi. '^

1. Amalfi vanta una bella storia. Soggetta a Costan- tinopoli, ne scosse a poco a poco il giogo pur sapendo tenersi libera dalla potenza dei Langobardi. Costituita in repubblica, ebbe i suoi magistrati, i suoi conti, i suoi dogi ; e fa città molto

Bibllografla. Amobosi, LeUera storico-vUlereceia tulle tatyole amalfitane, '' " '^ ^ .. .. ^ - .^ « «^ ^^ HOLTIUS,

gg. Tradxis. te- ^ Abhandlungen éivUisliehén u. KcmdeUrechuichen InhaUs, Utrecht 1852. LÌband, Dos Seerecht vari AmcUfi, neUa •* Zeitschrifb fur Han- dolsr. „^ VII, 18'34. Aliakblli e Volpicblla, Intorno ad cUcune consuetudini e Ug^ mariUime dell'Italia vveridionaU. Lettere, Napoli, 1866. Aliamelu, La tavola d'Amalfi, nell^opera: Delle antiche consuetudini e leggi marittime delU jnrovtnde napoletane. Napoli, 1871. Bacioppi, La tabula e le consuetudini marittime d^A- malfi, nell'**Arch. stor. per le prov. nai>oLn anno IV, 1879. Schuppbb, Troni ed Amalfi, studi sulle consuetudini marittime del medio evo {**' Bivista itaL per le scienze giuridiche voL Xm, 1892). Laudati, La Tabula de Amal/a, Bari, 1894. CiccAQLioNB, Un capitolo latino della tavola d'Amalfi, Napoli. 1898 (daU'^Aroh. stor. per le prov. napoletane » anno XVIII, fase. 2). Edizioni. La Tavola Amalfitana fa per la prima volta pubblicata nel 1844 a Napoli da L. Volpicblla insieme aUe Consuetudini civili di quella città. Nello stesso anno il Gab. che Taveva scoperta, ristampò entrambi quei documenti néìT Archivio stor, italiano (App. num. 8, p. 253-289). La sola Tavola fu poi edita da Gius. D'Addosio nel suo Cenno storico di diritto commerciale, Napoli, 1860, p. 77-94. da Db la Pbi- MAUOAiB, Etudes sur le commerce aumoyen àge, Paris, 18fe» p. 305-817; daP. La- BAHD nella Zeitschr.fUr HandeUrecht, VII (1864), p. 287-837; dall' Aliakblli nella raccolta delle Antiche consuetudini e leggi marittime delle Provincie napoletane, Napoli, 1871, p. 101-135; dal Twiss, IV, p. 1-51 e infine dal Gamzra nelle Memorie ^torico^olitiche d'Amalfi, I, 1876, p. 210-217.

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florida^ specie per le arti ed i traffici. Il monumento di diritto marittimo, che dobbiamo ad essa, è davvero insigne. Il suo titolo è questo: Capitala et Ordinatianes Curiae maritimae no* bilis ciffitaHs Amalfae. Quello di Tavola dC Amalfi, e anche l'al^ tre di Tabula prothontina, con cui lo designa un cronista del secolo XY, furono introdotti dall'uso; ma lo stesso tribunale era chiamato cosi: bancha et tabula d'Amalfi.

2. Anche questa legge però è venuta formandosi un po' alla volta, come tante altre del medio evo. E lo si scorge a prima giunta. Dei sessantasei articoli che la compongono, ventuno sono scritti in latino, gli altri quarantacinque in italiano; sia che originariamente fossero redatti in tale forma, oppure sieno stati tradotti: oerto, qualcheduno non è che la traduzione di altro più antico. Insieme si nota questa particolarità, che alcuni articoli italiani si trovano qua e intercalati ai latini: se ne in» centra eziandio uno di questi in mezzo a quelli; e talvolta gli italiani non fanno che ripetere ciò che è detto nei latini, mentre altri contengono qualcosa di diverso e anche di opposto. In generale, sono articoli che i compilatori hanno scritto di seguito al testo originario, di mano in mano che se ne presentava il de- stro, sia per chiarire qualche dìsposizionot correggerla o surro- garla, sia anche per provvedere ai casi a cui il testo originario non aveva provveduto. Alcuni però sono stati, con ogni prò- babilità, disposti nel margine; e- solo in processo di tempo, quando tutta la legge venne trascritta, passarono nel testo, ap- punto là dove si trovavano. Un'appendice all'antica Tabula fu pubblicata dal Camera; ma non è che un frammento, che riguarda piuttosto la polizia marittima.

Tutto ciò rende manifesto aver noi a che fare con un mo- numento di mani diverse e di tempi diversi ; ma a chi propria- mente si debba attribuire ed a quali tempi, è dubbio.

8. I compilatori della parte latina della Tavola risultano dal titolo originario, che abbiamo riportato più sopra : si tratta di un lavoro della curia stessa, non già nel senso che essa abbia allora, per la prima volta, creato o sancito quelle norme, ma nel senso che le abbia raccolte e messe in iscritto. altrimenti la designazione di TcAula prothontina ce la presenta come un la- voro di un magistrato per le cose di mare, come erano appunto i protontini. Insomma, la parto latina ha un carattere, per cosi

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dire ufficiale; ma non così la italiana. La quale anzi non può essere che l'opera di un privato: vi si trovano espressioni ed osservazioni, che possono trovar posto in un lavoro privato, ma che non si spiegherebbero affatto in un lavoro ufficiale.

4. Nessun dubbio, poi, che la parte latina sia la più an- tica; ma siccome non porta alcuna data e non ci rimangono neppure altri documenti, a cui ricorrere, non resta che appi- gliarsi al corpo stesso della legge. Ma, lo avvertiamo subito : per quanti studi siensi fatti e per quante opinioni messe innanzi, non si è per anche potuto raggiungere quel grado di probabilità che permette di riposare tranquilli. A nostro avviso, la opinione più accettabile è ancora quella dell' Alianelli, che la vuole non solo anteriore alla compilazione o revisione delle Consuetudini amal- fitane del 1274, ma anche all'annessione di Amalfi al regno, compiuta nel 1131. Certamente, esiste tra le consuetudini del 1274 un capitolo sul riparto del denaro dato in società di mare, che ha tutta l'aria di supplire ad una lacuna della Tavola ; e ciò vorrebbe dire che questa sia anteriore a quelle. Inoltre i capi latini della Tavola ricordano il tari senza alcuua aggiunta o spie- gazione, a differenza delle Consuetudini, dove con molta preci- sione si parla del tari di Sicilia, distinto e diverso da quello di Amalfi; e ciò starebbe a significare che, quando la Tavola fa dapprima redatta, non altri tari avessero corso in Amalfi, che quelli propri della città. Cosi, non si sarebbe sentito il bisogno di spiegarne la specie. Ma se ciò parrebbe naturale prima della unione al Regno, cioè prima del 1131, non si comprenderebbe af- fatto dopo di essa, in un tempo, cioè, in cui anche i tari siciliani, che sono molto antichi, certamente si conoscevano e avevano corso. Allora una spiegazione si sarebbe resa necessaria ; e l'argomento ci pare tanto più forte, in quanto che altri documenti, anche amal- fitani, già nel secolo XI, ricordando il tari d'Amalfi, non mancano di designarlo più specificatamente: la Tavola avrebbe potuto uniformarsi a questa pratica, che aveva sotto gli occhi ; ma non credendo possibile un equivoco, non lo fa. Infine, non conviene dimenticare che essa è opera della curia marittima della nobile città di Amalfi: lo dice il titolo; ma ciò non avrebbe potuto avvenire se non fosse stata compilata quando Amalfi era ancor» indipendente. Dopo unita al Regno, la curia marittima cedette il posto a quella dell'ammiragliato, che si costituì in quella.

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come in tutte le città di mare, sotto la dipendenza del Grande Ammiraglio ; e d'altronde non si può supporre ohe un tribunale regio, qual era questo, s'intitolasse dal nome della città dove risedeva.

6. Diversamente il Baoioppi è d'avviso ohe la Tavola possa essere stata redatta al più presto verso la fine del se- colo Xin, e ragiona a lungo su questa ipotesi, adducendo vari indizi. Egli stesso però non si nasconde, che ciascuno di essi, singolarmente considerato, ha un poso minimo; e soltanto si lusinga che, presi insieme, possano acquistare il valore espan- sivo delle unità messe assieme ad altre. In realtà non fanno fede che dell' ingegno dell'autore ; ma sono troppo poca cosa per valere anche solo come unità, e potere, come che sia, avvalo- rarne la opinione.

Il Racioppi comincia dallo stabilire che il documento deve essere posteriore alla don^inazione sveva, e lo deduce da varie circostanze.

Innanzitutto osserva, che Amalfi nel secolo XII non avrebbe potuto dirsi nobile, come la qualifica il proemio, perchè le città non gareggiavano ancora in nobiltà; ma egli parte evidente- mente da un'idea preconcetta, che cioè una città non potesse avere quella qualifica indipendentemente da qualunque gara. Del resto, anche avuto riguardo ad altre città, non sappiamo ve- ramente darci una ragione del perchè appunto Amalfi non avrebbe potuto qualificarsi con quel titolo ancora nel secolo XII, essa che, a difiereuza di tante altre, si distmgueva già per impor- tanza di traffici, di arti e di libere istituzioni. Dopo tutto, i consoli e il pojKjlo di Napoli, concedendo nel 1190 dei privilegi ad Amal^ non mancano di avvertire l'onore e il comodo che i negotiaiores et campsores de ducatu Amalphie recavano alla loro città, che chiamano nobilissima civitas. Era proprio il vezzo dol tempo. Un altro indizio sarebbe la parola Capitala adope- rata nel proemio a indicare disposizioni legislative, e anche la parola Item, con cui gli articoli della legge sono reiteratamente segnati : rappresentano voci, che, a detta dell'autore, avrebbero avuto corso legale sotto gli Angioini ! Senonchè egli stesso sa, e lo confessa, come sia difficile cosa, e sovente impossibile il deter- minare quando un uso abbia incominciato a farsi strada tra il popolo. Comunque, la parola Capitulum si trova veramente in

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qualche documento dei tempi svevi in senso di ordinanza, ov- vero di editto ; e cosi l' Item. Più d' un articolo dello statuto di Sant'Angelo in Theodice, e di quello di Sant' Elena dell'anno 1 190, cominciano a quel modo; e si potrebbero citare anche altri esempi. H Bacioppi trova pure un indizio nella parola denari, che la Tavola adopera nel significato di moneta in genere, anziché per indicare la decima parte dell'oncia; e anche qui parte da un presupposto erroneo, che cioè l' uso di quella parola sia comin- ciato soltanto nel tempo posteriore agli Svevi in causa della continua, abbondante e forzata immissione di questa minima moneta nei commerci del popolo, mentre gli stessi documenti amalfitani ne o£frono esempi anteriori. Un altro indizio è de- sunto dai salari. Ne parla un articolo della Tavola, e il Ba- cioppi s'ingegna di dimostrare che erano appunto i salari dei tempi angioini. Ma la Tavola non accenna che ai salari dei patroni di nave, degli scrivani e dei marinai, e l'autore, pur di avvalorare la sua tesi, li mette in un fascio con quelli dei ca- stellani scutiferi, degli inservienti dei castelli del Begno, del portiere del castello Capuano di Napoli, residenza dei reali an- gioini, dei serventi e cursori della Curia, quasi che la diversità delle professioni e degli uffici non dovesse determinare anche una diversa misura dei salari. I soli, che pur potrebbero fare al caso, sono quelli delle genti di mare delle galee; amalfitane in servizio del re, pubblicati dal Camera; ma appunto questi danno torto al Bacioppi.

Nondimeno egli va anche più oltre. Dopo aver cercato di provare che la Tavola doveva appartenere ai tempi angioini, ag- giunge addirittura che la uffiziale compilazione di essa era po- steriore all'anno 1274, in cui furono redatte le consuetudini ci- vili di Amalfi ; e ciò per due ragioni.

L'una, perchè il proemio di queste consuetudini avverte, che in tutti gli altri contratti e cause, non compresi in esse, si do- veva osservare Vordo legibas et regni consuetudinibus institutiu. Il Bacioppi nota che, se la Tavola fosse già esistita, i compi- latori del 1274 avrebbero avuto un qualche riferimento ad essa, se non altro per assicurare anche alle cause marittime il privi- legio di essere definite col rito sommario, che era stato ammesso per le civili. Ma, in primo luogo, si potrebbe chiedere : qual bi- sogno vi fosse di fare una speciale riserva per altre consueta-

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dini, o contratti, o cause, dal momento ohe la compilazione del 1274 si occupa solo di materie civili, e non contiene che un articolo, il quale accenni al denaro dato in societaU mart#, a prò* posito di quello conferito in societate terrae f E, se realmente si fosse sentito il bisogno di assicurare alle cause marittime quel rito, sembra che avrebbe dovuto manifestarsi indipendentemente dairesistenza della Tavola. Ma infine, non è neppure accertato che vi manchi un qualsiasi accenno o riserva. Le parole del proemio, che abbiamo citato più su, parlano veramente di altre leges e camuetadines^ che vogliono mantenute : perchè, non si po- trebbero comprendere tra esse, anche le consuetudini marittime ? Soltanto non bisogna tradurre, come fa il Baoioppi, la parola consuetudine con cosHtuziani : conviene prenderla per quel che suona.

L'altro argomento è desunto dall'art. 23 della Tavola, il quale si occupa della partecipazione A lucri e ai danni tra i soci, e soggiunge : extractis expenris debei lucrum dividi per par* teSf proui est cansuetum. Il Bacioppi è d'avviso che la Tavola, con quelle parole, rimandi alle consuetudini del 1274, e cita l'art. 14 di esse. Senonchò non si riscontra proprio alcuna re- lazione tra i due articoli ; perchè quello della Tavola concerne il contratto di colonna, mentre quello delle Consuetudini si oc- cupa di un altro contratto ben diverso ; e basta la semplice let* tura a persuadersene. D'altronde, appunto alla lacuna lasciata dall'art. 23 provvede poi la Tavola stessa in due altri articoli re- datti in italiano (24 e 36), determinando, se non altro, di quante onoie doveva essere ciascuna parte.

Ma perchè, aggiunge il Bacioppi, i compilatori della Tavola, che pure si erano proposti di mettere assieme le consuetudini marittime, hanno omesso quella ora ricordata? Si potrebbe rì« spendere, che essa, forse, non era ancora ben fissata, e i compi- latori si sono trovati impacciati nel determinarla. Sarebbe una risposta molto ovvia. E di queste incertezze ne abbiamo un esem- pio nella Legge stessa, e proprio nei due articoli aggiunti, da noi citati più sopra, i quali si sono provati a determinare in qual modo dovesse farsi la divisione per paries, come richiedeva l'art. 23, e ciò nondimeno si contraddicono a vicenda. Del resto, se anche non si potesse adeguatamente rispondere alla domanda del Ba- cioppi, e ohe perciò? La storia ha un infinito numero di questi

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perchè, a cui non è dato trovare una soluzione, senza smarrirà nel campo vano delle conghie tture.

6. Per ciò che riguarda gli articoli italiani della Tavola, non è da porsi in dubbio che appartengano a mani diverse e anche a tempi diversi. Certamente, colui che ne compilò o tra- dusse alcuni, non è lo stesso che compilò o tradusse i rimanenti : ciò risulta anche dalla lingua. Inoltre c'è tale capitolo che sta in contraddizione con altri, e pare quasi che tra quello e questi sia passato di mezzo niente meno che un secolo. Che, se qual- cheduno può anche offirire un appiglio per determinarne appros- simativamente il tempo, per altri ciò non è possibile ; e sarebbe addirittura inconsulto di attribuire a tutti la data accertata per alcuni. Per es. la influenza catalana si è fatta largo, col tempo, anche nella nostra Tavola, come può vedersi da talune dispo- sizioni del regolamento consolare di Valencia, pubblicato tra il 1336 e il 1343, che ricompaiono quasi alla lettera negli ar- ticoli 59-62 : essi non possono essere anteriori alla metà del se- colo XIV; ma gli altri? Neppure si può dire a qual secolo ap- partenga l'Appendice del Camera.

7. La legge stessa continuò ad essere usata a lungo nel foro; ma, a questo proposito, non sarà inutile ricordare alcune notizie, che correvano nel medio evo intomo alla sua esistenza ed autorità. Non trattasi però di documenti molto numerosi. Un autore anonimo di antica cronaca fa parola delle leges mariUme compilate appunto dagli Amalfitani, con cui si decidevano le liti nella curia del Grande Ammiraglio del Regno; e anche un altro anonimo, il quale poco dopo la metà del secolo XV trascrisse una più antica cronaca, nel proemio ricorda la Tabula Prothontina, e anzi asserisce d'averla copiata. Più tardi abbiamo la testi- monianza di Marino Freccia. A sua detta, la corte del Grande Ammiraglio avrebbe giudicato secondo la Tavola tutte le liti e controversie di mare ancora a' suoi tempi; e siamo già versoi* metà del secolo XVI. Segue uno stromento del 1671, iii c^^ ^ contraenti stessi dichiarano di uniformarsi alle disposizioni della Tavola; e un altro, scritto in Napoli nel 1603 in cui il compratore della metà di una feluca promette di dare al venditore per ogni

viaggio reale et fedele conto della restante metà di feUuca

secondo, lo uso et costumanza della Tavola della costa di Af^alf^-

Più tardi, essa cadde in dissuetudine; e ciò è presiunil>i^'

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mente avvenuto nella prima metà del secolo XVII, per effetto della prevalenza che acquistò il Consolato del mare. L'Alianelli cita in proposito una sentenza del tribunale di Napoli in data del 4 giugno 1642y che è molto significativa : un capitano di nave, domandando il nolo per certa quantità di grano, da lui tras- portato, ma ohe aveva patito delle avarie, in luogo di riferirsi all'art 69 della Tavola, si richiama al cap. 27 del Consolato del Mare, nonostante che l'uno e l'altro disponessero nel medesimo senso. D'altra parte, non doveva essere trascorso molto tempo da che il Consolato aveva soppiantato la Tavola, perchè quel capitano dovè presentare un certificato di tutti i negozianti, ohe dimoravano in Napoli, per provare che esso era veramente usato. Nei tribunali se ne dubitava. Comunque, non deve far meraviglia che la Tavola, per quanto da tanti secoli radicata nel costume, e osservata nel fòro, cedesse il posto ad una legge, che era di gran lunga più ricca e completa, e, ciò che più im- porta, meglio adatta ai tempi. «

§ 3. - LE CONSUETUDINI FEUDALI. Defetarh Assise di Oerusalemme. Libri dei feudi.

1. Le consuetudini che reggevano la materia de' feudi in Italia, ci presentano un nuovo mondo, contrapposto oaratteri- sticamente a quello delle arti e dei traffici ; ma che pure offre le sue varietà. A ben guardare, non era lo stesso sistema ohe vigesse dappertutto : anzi si tratta di due sistemi diversi, che vogliamo designare col nome di sistema firanco e di sistema lombardo.

2. Il siMtema franco domina nell' Italia meridionale, dove fu portato dai Normanni, e anche nel Piemonte e nella Sa- voia. Ugo Falcando nella sua Historia de tyrannide Siculorum riferisce una notizia preziosa in proposito. Narra che i baroni ei- oiliani avevano fatto sapere a Guglielmo, detto il Malo, che oc- correva abolire alcune disposizioni di diritto feudale e tornare alle vecchie consuetudini, che Roberto Guiscardo aveva dap- prima introdotto, e che anche sotto Buggiero, suo avo, eransi mantenute. Anzi Buggiero ne avrebbe ordinato l'osservanza. Le parole, che lo storico mette in bocca ai baroni, sono queste:

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Ut eas restituat consuetudines quas avm eius Rogerius eomes, a Roberto Guiscardo prius introducias, ohservaverit et observari prae- ceperit. Da parte loro, diohiaravano senza ambagi ohe, se avesse persistito ad andare contro gli statnti dei maggiori, avrebbero provveduto da ai oasi propri. Era una intimazione ed nna minaccia : ciò però che importa per il momento, è di vedere at- tribuite a Boberto Guiscardo le consuetudini feudali del Begno. Probabilmente furono scritte in quel tempo per ordine di lui, e Buggiero ne portò poi il libro in Sicilia; ma non sappiamo che cosa ne sia avvenuto.

Forse sono quelle stesse che, ancora ai tempi di Guglielmo il Malo, trovavansi in certi libri chiamati Defetari, *^ che si con- servavano dal re nel suo palazzo e che, a detta dello stesso Ugo Falcando, andarono smarriti nell'occasione di un tumulto, in cui il palazzo fu messo a ruba. Egli si esprime press* a pooo oo^ •' *^ I Ubri consuetudinum, o defetari, non poterono trovarsi quando fu preso il palazzo : erano andati, non si sa come, dispersi ; e d'al- tronde i nuovi ministri, succeduti nel governo a Maione, non co- noscevano, né le distinzioni delle terre e dei feudi, i riti, gli istittUi della Curia. Bisognava compome altri. Ma non c'era che Matteo Bonello che, essendo vissuto lunghissimo tempo nella curia come notaro, ed essendo stato sempre ai fianchi di Ma- ione, potesse avere piena conoscenza delle consuetudini di tutto il Begno; e, siccome si trovava in carcere, ne fu liberato per- ché ne componesse di nuovi „. Nondimeno, appunto su questi defetari ferve una grossa disputa. Il Giannone scrisse che con- servavano veramente la memoria delle consuetudini siculo-nor- manne. Invece il Masci avvisa che contenessero la prova del- l'antica con/inazione dei feudi, e che i feudatari stessi, interessati a sperderne la memoria, li bruciassero. Una nuova opinione dell'Amari e del Capasse ritiene che non fossero altro ohe re- gistri o quaderni, in cui trovavasi annotato il servizio feudale del reame. Lo proverebbero le voci stesse Defetario e Comue'

•' Bibliografia. Sai Defetari conanlta Giakhowe, Storia dvUe del Se^ di Jfap<U%, XnjL 8. Pbcchia, Dell'origine e dello etato antico de' femU in JUg^» nelU •* Stona civUe. Hb. n, diae. 2*. Masci, Eeame dei diritti e delle prtrofor !•«• dre» httroni del Regno di Napoli, Napoli, 1792, p. 58. Amari, Storia dm ìp»' milm ani in Sicilia, Firense, 1869, m, p. 824. G apasso, Sul catalogo deififidéf dei feudatari delle Provincie napoletane eotto la dominawionc normanna, ^^E^ 1870, p. 86 segg. Kiraldt, Dei primi feudi nell'Italia meridionale, Napoli, 18»^ p. 14asegg.

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tudo osate dal Falcando; perchè la prima deriva dalla voce araba depiar o difter, che voleva significare registro, e la seconda valeva servizio o tributo di natura feudale, quasi ordinario e consueto. Infine il Rinaldi, pur facendo suo prò di questa opinione, la trova troppo assoluta e recisa ; e ritiene ohe nei defetari si con- servassero non pure le notizie dei tributi e del servizio militare, ma anche le consuetudini: anzi i tributi e servizi dovevano far parte delle consuetudini, perchè consuetudinariamente si esige- vano. Egli ammette la etimologia araba di deptar o difter^ e ricorda alcuni documenti del 1149, 1178 e 1191, pur citati dal Capasse, in cui la parola difter è usata veramente per indi- care il registro. Nega però che la voce consuetudo si adoperasse in quei tempi unicamente nel significato di tributo o servizio, cita le bonae constéetudines che il trattato di Costanza voleva garantite ai comuni. E questa ci sembra ancora l'opinione più accettabile. Infine essa è confortata dal passo di Ugo Falcando, in cui si parla appunto della perdita dei defetari e della loro ricostruzione, e che d'altronde è il solo da cui ci possa venire un po' 'di luce. U racconto del Falcando non ammette dubbio. L'Amari e il Capasse osservano bensì che, se Matteo Bonello si riteneva esperto del tenore di detti libri, ciò deve intendersi nel senso che conosceva le regole che si erano tenute nel comporli e aveva attitudine a trovare gli elementi per rifarli ; ma cote- sta interpretazione assolutamente non corre. Falcando adopera la parola consuetudines nella sua accezione ordinaria e naturale, dove riferisce i lamenti dei baroni, che volevano tornare alle antiche consuetudini e agli statuti dei predecessori, tolta la ne- eessità dell'assenso regio al matrimonio delle figlie e deUe sorelle dei feudatari, e non è presumibile che l'abbia adoperata qui, a cosi breve distanza, in diverso significato. Di più egli stesso, ol- tre che accennare alle distinctiones terrarum feudorumque,'pSLrÌ9k di ritus et instituta Curiae, che sarebbero stati contenuti in quei libri consuetudinum quos Defetarios appellant. Pertanto i defe- tari avrebbero contenuto veramente le costumanze feudali del Regno, portate dai Normanni in Italia, compreso il servizio feudale.

Nondimeno, saremmo imbarazzati a determinarne la natura, perchè, disgraziatamente, andarono di nuovo perdute, e non ci re« sta modo di ricostruirle. Se pur si vuole conoscere qualche cosa

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del diritto feudale franco, bisogna ricorrere ad altre fonti, spe- cie alle Assise di Gerusalemme, le quali, riportando le costu- manze e i precetti di diritto, che si osservavano nelle Corti d' Oriente, riproducono appunto le consuetudini firanche ; e mette conto che vi ci soffermiamo. Del resto, esse non sono estranee neppure a noi, come a prima giunta sembrerebbe, se non altro perchè anche V Italia, al pari delle altre nazioni che concorsero al conquisto di Terra Santa, vi ebbe la sua parte.

3. Come nascessero queste Assise ** è presto detto. I cro- ciati, dopo conquistata Gerusalemme (an. 1099), vi trapiantarono l'ordinamento feudale d'Europa, istituendovi due corti laicali: la corte alta, o dei baroni, preseduta dal re, e la corte bassa, 0 dei borghesi, preseduta dal visconte ; e insieme provvidero alle leggi. Goffredo di Buglione, col consiglio del patriarca e dei maggiorenti, scelse appunto alcuni savi, perchè raccoglies- sero gli usi delle varie nazioni d'Europa^ che avevano preso parte alla conquista ; e, raccolti che li ebbe per ambedue le corti, e avutane l'approvazione dell'Assemblea, li fece chiudere in un cofano e depositare nel tesoro della Chiesa del Santo Sepol- cro, onde ebbero anche il nome di Lettere del Santo Sepolcro. In pari tempo ordinò che non potessero consultarsi che alla pre- senza di sette persone : il re od uno dei grandi dignitari della corona in sua vece, il patriarca e il visconte di Gerusalemme, due vassalli regi e due giurati borghesi; ma la cautela non giovò. Dopo essere state accresciute e modificate successivamente più volte, mercè le comunicazioni che le crociate mantenevano tra l' Europa e V Oriente, se ne perdette quasi completamente la

»• Bibliografia. Per le Assise di Gerusalemme rioordiamo gli studi di Pardessus, Memoire tur un monumerU de rmicien droit eouiumier eonnu «oh» »« nom des otsiseM, Paris, 1829 e anche Sur V origine du droit eoutnmier ^-^^f^' Paris, 1834^ p. 66. Inoltre Bbuohot, neUe Introdwiioni ai due volumi della Aj: sise che puDDlicò per incarico delr Accademia di Parigi, Paris, 1841-48. ve(U anche Làfkbbièrk, HieL du droit fresie., IV, p. 478 segg. e 586 ^^g-l Scbu^ neir» Hermes, XXX, p. 815; Taillahdibr, nella -Thémis, VII, p. 505; hd* conferenza del barone voh Vobldbbhdorff, Ueher die Aasiten de* KOni^^^ leruaalem e MomriBs, Godefroi de BouiUon et le* lusises de Jérusalem, ^^^ 1874. Edizioni. Le Assise di Gerusalemme furono pubblicate prima d^ i^ Thàumassièrb col titolo Aeeite» et hon* utage* du royaume de lérusaUm, ^*^ 1690, e poi dal GANCLàVi neUe * Leges barbarorum , voi. II (Assise della o*»» corte); voL V (Assise deU^alta corte); voi. Ili (Assise della Bomania). Ai <" nostri furono èdite dal Fouchbr, Aseiwe» du royaume de lérueaìem eto., Ben^ 1889-41 (5 dispense); dal ELàusuiB, Le livre dee Aeeieee et dee uec^gee du roy.^^ de léruealem etc., voi. I, Stuttgart, 1889, e specialmente dal Bbuonot, -^'^^Jv lérueeUem, Paris, 1841, 4S, 2 voi. Su alcune traduzioni greche vedi C. E. ^' CHARiAB, Hietoriae jurie GreteeoSomcmi delinecUio, p. 137.

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traccia. Gerusalemme cadde nel 1187 in potere di Saladino, e anche i tesori del Santo Sepolcro andarono perdati. Che cosa propriamente avvenisse delle Assise, che vi erano state deposi- tate, non si sa. Probabilmente andarono smarrite anch'esse; e nondimeno le corti feudali e borghesi della Siria ne conserva- rono lo spirito e lo confermarono coi loro arresti. Iniine surse una scuola di giureconsulti tra gli stessi nobili, correndo il se- colo Xm, i quali, giovandosi della tradizione, posero mano a riordinare, se non altro, le leggi dell'atta corte a comodo delle regioni di Levante, ancora tenute da principi cristiani. In mezzo alle arti cavalleresche, questi nobili non avevano a dispetto la giurisprudenza. Noi ne segnaliamo specialmente due : Filippo di Novara, italiano di nascita, ma completamente infrancesato, che visse appunto verso la metà del secolo XIII, e Giovanni d' Ibelino conte di Giaffa e di Ascalona, il quale svolse e com- pletò il lavoro del primo in una raccolta, che è certo la più ricca, ma insieme la più diluita, del diritto feudale degli Stati cristiani d' Oriente. Altri poi la compendiarono. Lo stesso accadde con le Assise della bassa corte; ma ne sono ignoti gli autori.

Veramente si tratta di una semplice restaurazione ; ma essa eb- be il suo momento di fortuna, perchè penetrò anche in altri regni fondati dagli Europei in Oriente, oltre a quello di Gerusalemme : vogliamo alludere a Cipro e a Negroponte, che infine ricolle- gano più direttamente il codice gerosolimitano all'Italia, specie a Venezia.

Ciò che gli crebbe importanza fu soprattutto il fatto che i baroni del Regno di Cipro nel 1368, quando gli arbitri di Pie- tro I minacciavano di mettere in forse ogni diritto, presa l'opera del D' Ibelino, la proclamarono appunto in solenne assemblea come il codice del Begno, ordinando che dovesse custodirsi nella cattedrale di Nicosia e consultarsi solo alla presenza del re e di quattro vassalli. E tale durò a lungo. Cipro nel 1489 venne in possesso della repubblica di Venezia ; ma questa si obbligò a riconoscerlo. E Venezia fece anche più. Infatti, essendosi, non si sa come, perduta la copia di Nicosia, e d'altra parte avendo la lingua francese cessato di essere la lingua dominante nell' isola, la Signoria affidò l' incarico ad una commissione di ristabilirne un nuovo testo per ambe le corti, coli' aiuto dei migliori mano-

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scrìtti, ohe si poterono trovare, e tradurlo in italiano. Ciò ac- cadde nel 1631 ; e cotesta revisione rimase poi in vigore, finché Cipro passò in potere di Amnrad I.

E press'a poco lo stesso avvenne a Negroponte. Il Gk)vemc dell' isola, nel tempo che fu tenuto dai Veneziani, esaminò, in- sieme a dodici uominii queste medesime consuetudini, ohe vi- gevano appunto nel principato d'Acaia, e le fece approvare dal doge Francesco Foscari, correndo l'anno 1421. Sono le Assise che si conoscono col nome di AsHses de la Romanie, e ohe, in fondo, riproducono il testo originale. Alcune però furono omesse, specie quelle che si riferivano al duello giudiziario, non sembran- do più compatibili coi tempi.

4. L'opera fu scritta originariamente in francese e si di- vide in due libri: quello delle Assise dell'atta carte^ cioè il di- ritto del re, dei suoi vassalli e baroni; e il libro delle Assise della biissa eorte^ ossia il diritto vigente nei tribunali cittadine- schi pei borghesi e altri popolani. Il primo è pretto diritto fen- dale e non concerne che questo: il diritto romano, se pure è citato qua e là, lo è solo in appoggio al diritto loeale, quasi per giustificarlo : e di più, l'autore non mostra molta dimestichezza con esso. Propriamente, lo spirito che anima le Assise dell'oAa carte è il vecchio spirito della feudalità militare che vuol essere mantenuto e fortificato; e, dopo tutto, visto il continuo stato d'assedio in cui si trovava il Begno di Gerusalemme, parrà na- turale che il feudalismo, nato dalla guerra, conservasse intatto il suo carattere. Invece le Assise della bassa corte rappresen- tavano un diritto più generale, e la influenza romana vi appare già più notevole. L'autore conosce meglio il gius romano, e, pnr alterandolo a modo suo, gli attribuisce vera forza di legge ; ma anche ciò non è difficile a spiegarsi, per poco si pensi che il di- ritto di questa corte, lungi dall'essere importato, è la continna- zione di quello anteriore, e principalmente del diritto delle città greche, salve le modificazioni rese necessarie dalle condizioni e dagli usi della nuova società. Il carattere che vi domina è escln- sivamente civile e abbraccia tutti gli oggetti del giure ; la pro- prietà e le obbligazioni, la famiglia e le successioni, l'ordina- mento dei giudizi e le forme della procedura.

Del resto, le strane contraddizioni del tempo si rispecchiano tutte in questo codice.' Pare proprio di vivere in mezzo a quella

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sooietày con quel misto di vergini entusiasmi e di freddo mate* rialismo, di eroismi e di superstizioni, di nobiltà e di rozzezza, che la caratterizzano. Da un lato si proclama il principio ohe tutti sono fedeli di Oristo e tutti devono assistersi a vicenda; e dall'altro si riconosce la schiavitù e si paragonano gli schiavi agli animali. Da una parte abbiamo un diritto tutto militare che non sembra escogitato che per la guerra ; e dall'altra si & largo il commercio, dove la ragione feudale non ha posto, e quasi pare che si voglia farla finita con le idee ristrette che dominano la società, inaugurando per la prima volta il regna della libertà civile. Lo Stato stesso sorge su base privata, se- condo l' indole del feudalismo, in cui la protezione non viene pro- priamente dallo Stato, bensì chi ne ha bisogno deve rivolgersi al suo superiore immediato ; e nondimeno il diritto criminale delle Assise ha già assunto un carattere pubblico, che non manca di rozzezza, ma in cui è pur notevole il principio che la pena vie- ne inflitta non già nell' interesse dell'offeso, ma in quello della società. Infine, tanto l'una corte quanto l'altra s'ingegnano di realizzare e mantenere lo spirito della giustizia. Su ciò nessun dubbio. Questo principio, fortificato dalla sanzione religiosa, si può riassumere in quell'obbligo dei giurati espresso cosi nobil- mente nelle Assise della corte dei borghesi : aimer Dieu et droit dire et faire droit à toutes gene. E nondimeno, appunto per ciò che riguarda il diritto giudiziario, ci troviamo di fronte a tutta la rozzezza dei tempi. L'ultimo mezzo, a cui si ricorreva per scoprire la verità, era il duello o anche la prova dell'acqua e del fuooo; e qua e si applicava la tortura. Al qual propo- sito può interessare ciò che l'Assisa 266 dispone in modo abba- stanza ingenuo : ^ Se il reo confessa, s' impicchi ; se non confessa, lo si tragga à gàhine (alla gehenna), e lo si tuffi nell'acqua fin- ché confessi, e, confessato che abbia, s'impicchi p. Se resisteva per tre giorni, veniva tenuto prigione ancora per un anno e un giorno, e poi rimesso in libertà. Chi accusava uno di crimen- lese, omicidio od uccisione, doveva sostenere l'accusa col duello ; ma le donne, i vecchi, e coloro ohe non potevano battersi, si face- vano rappresentare da un campione. D'altronde quella prova non riguardava propriamente la oontroversia, ma mirava a constatare quale dei due avesse detto o giurato il falso, e cosi poteva tro- vare applicazione anche nelle cause civili di una certa entità»

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Parimente, chi si credeva leso da una sentenza, si faceva in- nanzi e tacciava solennemente il giudizio di falso : dopo di che si batteva con tutti i giudici; ma, se non rimaneva vincitore di tutti in un giorno, veniva impiccato.

5. L'altro sistema è il sistema lombardo. *• Lo chiamiamo cosi, perche essendo nato in Lombardia, ha la sua radice colà più che in altri siti, ma, del resto, si trova diffuso in buona parte dell'Italia settentrionale e anche nella mediana. Appunto nell'Italia settentrionale si era potuta formare un'opinione co- mune su molti punti; ma parecchi altri rimanevano tuttavia controversi ed incerti: e ciò, sia tra giudici di differenti curie feudali, sia anche tra quelli di una medesima caria; onde una compilazione doveva parere tanto più necessaria. Coà nacque il più importante monumento feudale che abbia l'Italia, cioè la collezione conosciuta sotto il nome di Usus feudorum o Con- saetudines feadcUeSj che più tardi fu detta Ltfter, o anche Libri feudorum. E nacque di privata autorità: si direbbe quasi spon- taneamente, e rivela tutti i difetti della sua origine. Manca di ordine nella distribuzione delle parti; e anche si compone di elementi disparati, come a dire scritti scientifici e leggi imperiali, lunghi articoli e brevi osservazioni, casi pratici e glosse. Pia

** Bibliografia. Dei libri feudorum si oooaparono: Dibck, Uterargudu chU des LangobardÌ9ehen LehenrtchU bÌ9 Mum XIV Jahrh.. Halle, 1^8 (Cu. i reoenaione di Biihkb neUa Krit. Zeitschr. fùr K. W. , di Tobinga, voi. V. P; 167-186); liàAPKrnEB. Ueber die JEnUUhung u, die àUceU Bearheiimng der Ll^^ feudorum^ Berlin, 1830- Wxtmanh, Vergletchung der lehnrechaichen CagiUl o^ Mailandiechen StadtrechU von 1216 mU dem Uber feudorum^ Berlin. 18S7 e L^ MAHN, Die EnUUhung der Libri feudorum, Bostook, 1891. Per la oollezioiie ^ei Minoaooi oonsolta Maccioni, OtserviMzioni e dieeertaxioni varie eopra il dAr..teer dale eoneemerUe Vietoria e le opinioni di Antonio da Firaioveeeh%o ^^^^^-^^^ consulto del secolo XV e riformatore dei libri dei feudi, Livorno, 176é. Si vea» eziandio : WarspsARE, Storia degli abusi feudali, Napoli 1811, nuova ^^,T^ goita da un'appendioe del Fustsl dm Coulahobs, Sult* origine del sistemo feuoou, Napoli, 1^8; Sabtorl Storia, legielanone a stato aUuaU dei feudi, 3* ed., V^ sia, 1857; Mabini, Sulle consuetudini e sulle leggi feudali e anche Sul reggt^^ feudale e le diverse fctsi che ha subito, nella * Gazzetta dei txibnxuJi « di N^P^^ anno Xin, (1S58), n. 1263 segg; Boba, Consuetudini feudali bresciane e co^ mini, Brescia, 1878. Della inflnenza del diritto feudale sul civile si occupò Par- ticolarmente D* EspiHAT. La feodalité et le droit civil francais, Saumur, ^^^ r Edizioni. H Lkhm AMH, na noostruito la compilazione più antica colla ^^^ dei manoscritti. Porta il titolo: Consuetudines feudorum (Libri /m«^<^'^*"*'. -^JJ! feudale langobardorum). I: Compilatio antiqua^ GOttingen, 1892. La reoen0io^« accursiana é riprodotta in tutte le edizioni del Corpus juris: nondimeno ^ manca tuttavia una edizione critica, e si sta preparando dalla società dei Mo^ germ, hist» La recensione di Mincuccio da Pratovecchio e anche quella di ^^^ Barattieri possono vedersi nello Schtltbb, Cedex juris alemannici feudale, ^ gentorati, 1897, 2* ediz., ivi, 1728. La lettera con cui Federigo lU •PP^^^S*? recension e di Mincuccio fu edita dal Gaudevzi, Notine ed estratti di m(moieru**ì Bologna. 1886» p. 26 segg.

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volte vi si portò la mano e fu accresciuta più volte; ma non ebbe se non alquanto tardi quella forma che'presenta nei mano- scritti, nò Bubi mai un rimaneggiamento uniforme, che la ren- desse meglio ordinata e ne togliesse le contraddizioni. In mezzo a tutto ciò s' incontrano molteplici interpolazioni, non si sa da chi fatte e in qual luogo e quando ; e soventi volte non si riesce neanche ad accertare dove comincino e dove finiscano.

Abbiamo affermato che il libro si presenta quasi come una creazione spontanea dei tempi, perohò, sebbene parecchi giudici delle corti feudali di Pavia, di Milano, di Cremona e di Piacenza, uomini di grande autorità, non contenti di applicare il diritto feudale, abbiano anche messo in iscritto le loro idee, e qualche cosa ne sia penetrata nel testo, la compilazione stessa è imper- sonale. I Libri Feudorum ricordano propriamente due milanesi ; ma di uno non ò neppur certo che abbia scritto di diritto feu- dale e, quanto all'altro, ^i sa che se ne occupò e che conobbe il diritto romano, oltre a quello nazionale, ma si ignora se sia stato l'autore di quella compilazione, anzi ò probabile che vi sia rimasto estraneo.

6. Ciò che hawi di positivo si è, che esistono più recen- sioni dei Libri feudorum^ e che non tutte ebbero la stessa sorte. Una si suole designare col nome di Oberto ; ed è certamente la più antica e imperfetta. Presenta qualcosa di embrionale e non è neppure un lavoro di getto : risulta messa assieme con vari trat- tatelli di gius feudale compilati in tempi diversi, quali prima e quali dopo la costituzione di Lotario II sulla alienazione dei feudi (1136), imbastiti alla meglio, che a volte si ripetono, e che si trovano anche nelle recensioni posteriori. Di quelli più antichi però non conosciamo la provenienza, ad eccezione di al- cuni capitoli, sulla successione e reversione dei feudi, di un Ugo de Oambolato, che, a quanto pare, fu giudice palatino di Pavia sul principiare del secolo XII. Gli altri sono anonimi, e non si sa proprio a chi attribuirli. Lo stesso trattato iniziale (I, 1-6), che alcuni credono lavoro di Gerardo Negro Capagisti, console ohe fu di Milano al tempo di Federigo I, non può es- sere opera sua: fu scritto probabilmente fuori di Milano tra il 1095 e il 1136, perchè sembra conoscere il concilio di Clermont (an. 1095), e dall'altro canto non fa, neppur esso, parola della costituzione di Lotario. Invece la parte più recente (II, 1-24)

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contiene due lettere, che Oberto dall'Orto, altro console di Mi- lano, scrisse, tra il 1137 e il 1158, ad Anselmo o Anselmino, suo figlinolo, che studiava leggi a Bologna, con lo scopo di spie- gargli le consuetudini feudali della Lombardia. Oberto conosce a fondo il gius romano e ne applica i principi alle questioni feudali. La prima lettera (1-22) tratta delle fonti del gius feu- dale, dell'oggetto e della capacità feudale soggettiva, dell'inve- stitura e della successione, dei giudizi e del processo ; la secon- da (22-24) riguarda l'estinzione del rapporto feudale. Del re- sto la recensione non va più in del lib. Il tit. 24 di quella volgare, cioò si ferma appunto alle due lettere di Oberto ; non è divisa in libri, e pare che mancassero anche i titoli. Anzi nep- pure la disposizione è la stessa della recensione volgare. Per es. i Capitala Ugonis, che in altre recensioni corrispondono ai tit. 14-18 del primo libro della vulgata, sono invece intercalati alla seconda lettera di Oberto; e mancano quasi due interi ti- toli (II, 6 e II, 7 pr.), sul giuramento di fedeltà nelle sue va- rie forme. Anche la lingua dimostra che abbiamo a che fase con una redazione speciale ; perchè le parole e le frasi sono qua e diverse da quelle delle recensioni posteriori. Inoltre alcu~ ni glossemi o schiarimenti, che col tempo s' intrusero nel testo ancora non appariscono ; e, per contrario, ve n'ha alcuni, che più tardi spariranno.

Una seconda recensione è quella, su cui Jacopo di Ardizone scrisse la sua Summa feudorum (1234-1260); ma del rimanente la esistenza ne è attestata anche dal Bianco, dall' Alvarotto, dal Montano, e, più di tutto, dai manoscritti. Appare già come una recensione più progredita ; e lo si scorge a prima giunta. Si di- vide in due libri, e i libri in titoli. Certamente Ardizone nella JSumma si riferisce a cotesta divisione, che anche alcuni codici mostrano di conoscere. Nondimeno soltanto il primo libro si può dire completo con tutti i titoli e colla stessa disposizione della vulgata. Invece il secondo era ancora in via di forma- zione. I titoli n, 6 e II, 7, sul giuramento feudale, mancano anche qui, e la legge de pace tenenda del Barbarossa (II, 27) trovasi fuori di posto. Ad ogni modo la recensione non va oltre al tit. II, 51 della vulgata ; e dall'altra parte ha accolto più te- sti che poi verranno omessi. Ricordiamo la legge di Corrado, l'autentica Habita, la costituzione di Federigo II Ad decui^ ^

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ConstUuUo Auximana^ e il trattato di Anselmo dall' Orto sul con- iractus libellariua. Parimente vi si notano già delle rubriche; ma alcuni codici uniscono ancora diversi titoli in uno, e quindi ne contano in minor numero: comunque, il processo si è com- piuto di nuovo un po' alla volta ; e certo, alcuni titoli vennero rubricati prima e altri più tardi. Dove la rubricazione proce- dette più lesta fu col primo libro, mentre quella del secondo andò più a rilento. Inoltre la lingua è ammodernata, e più glos- sai sono scomparsi ; ma, d'altronde il testo in qualche luogo è completato, e vi è intercalata qualche glossa più recente. Abbiamo anche notato delle ripetizioni nei titoli aggiunti; per es. nei titoli 28 e 34, che paiono desunti dalle consuetudini mi- lanesi del 1216: un nuovo carattere proprio di questo stadio di formazione, che scomparirà in seguito.

Una terza recensione è quella, che servi alla glossa di Ac- cursio, e ohe appunto perciò è detta Accumana. È la forma tipica. Essa era venuta fissandosi nel frattempo; ma sarebbe quasi inutile il dire che andò soggetta a molte incertezze, prima di ricevere la sua forma definitiva. Quale ci fu tramandata, è divisa in due libri, e ciascuno di essi in titoli, non altrimenti della recensione di Ardizone ; ma tutti hanno le loro rubriche, e queste stesse rubriche sono qua e diverse. Insieme si erano venute aggiungendo alcune parti che non figuravano per lo in- nanzi. Il primo libro è diviso tuttavia in ventotto titoli, ma il se- condo ne conta già cinquantotto. Evidentemente i nuoVi titoli vi si erano sovrapposti un po' alla volta : dapprima vi si aggiuse il titolo de noUs feudorum (II, 58), poi la legge di Federigo sulla pace territoriale (II, 63, 64 pr.), in seguito gradatamente i ti- toli n, 64, §§ 1, 2; n, 66 ; II, 66; H, 62, parte prima, H, 57; II, 62, parte seconda e terza. Parimente la Epistola PhiliberH de forma fideliiatis (II, 6), e anche la Nova forma fidelitatis (II, 7), che mancano sia nella recensione Obertiana sia in quella di Ardizone, sono riuscite più o meno stentatamente a farsi strada, e si affermano poi nella vulgata. Tutto ciò può vedersi con la scorta dei manoscritti; ma vioeversa la legge di Corrado, l'autentica tfoUto, la legge di Federigo II Ad decue^ la Consti- tuNo Auximana^ il trattato di Anselmo dall'Orto sul contractue libellariui, ohe abbiamo in parecchi manoscritti della recensione di Ardizone, si erano già perduti per via.

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Dopo la recensione Accursiana, altri tentativi di riordina- mento furono fatti dal Mincncci da Pratovecchio, da Bartolomeo Barattieri e dal Cujacio, ma non incontrarono uguale fortuna, quantunque il primo abbia avuto l'approvazione dell* iiaperatore Federigo III, e il secondo sia stato raccomandato da Filippo Maria Visconti all'università di Pavia.

7. Una questione che gli storici risolsero in vario senso, riguarda l'origine del nostro codice. Il Laspeyres mise avanti V idea, che le singole compilazioni, da cui derivò, avessero su- bito soltanto la influenza del diritto consuetudinario, e invece il Lehmann è d'avviso che si raggruppino intomo ad alcune leggi imperiali di Corrado, Lotario e Federigo Barbarossa. I Feudi- sti avrebbero mirato principalmente a questi tre imperatori; ognuno dei quali avrebbe lasciato la sua impronta in una parte del libro e resa possibile con la propria legge una letteratura del diritto feudale. Ma forse hanno ragione entrambi.

Certo, il primo libro è sorto sotto la influenza della legge di Corrado. E già il primo titolo ne ricorda la spedizione. i titoli 19-24 sono altro che una parafrasi di detta legge, sebbene erroneamente l'attribuiscano a Lotario. Gli stessi Capitala Ugo- nis se ne occupano in parte. Forse si tratta di summulne che si erano venute formando intorno a questa legge, come del resto ne conosciamo parecchie anche all' infuori del nostro libro. Al qual proposito basterà ricordare i commentari di Ariprando tit. de beneficits et terris tributariis e la summula de feudis et heneficiis secundum dominum Aliprandum. Anzi il Lehmann sospetta che sieno dovute a Pavia, che già per tempo aveva accolto l'editto di Corrado nel Liber papiensis e nella Lonibarda^ dandovi cosi l'occasione e V impulso. Come altre leggi, i Lombardisti avreb- bero commentato anche quella. Invece le costituzioni, che cam- peggiano nel secondo libro, appartengono a Lotario e a Fede- rigo Barbarossa. La legge di Lotario del 1136 domina nei pri- mi ventiquattro titoli, i quali vi si riferiscono ripetutamente (tit. 3, 9, 24, § 2) ; mentre le addizioni di Ardizone (tit. 25'51), cominciando dal titolo 28, presentano in prima linea Federigo Barbarossa ; e non v'ha dubbio che la influenza della legislazione fridericiana ci sia. Il Lehmann cita più titoli, e soggiunge: * Per tal modo sarebbero stati tre imperatori : .Corrado II, Lo- tario Il e Federigo Barbarossa, a cui i feudisti avrebbero mi-

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rato. Ognuno di essi avrebbe dato la sua impronta ad una parte del nostro libro. Corrado avrebbe reso possibile con la sua legge un diritto fendale ed una letteratura del diritto feudale; Lotario, proibendo le alienazioni, avrebbe stabilito il concetto della fedeltà nel feudo anche dal lato reale ; e Federigo avrebbe continuato e svolto l'opera de' suoi predecessori colla sua legge feudale, facendo nel tempo stesso entrare il diritto pubblico dello Stato feudale nel libro dei feudi, con l'altra sulla osservanza della pace ;,.

Senonchò anche la consuetudine deve avervi avuto la sua parte ; e poco importa che siasi svolta dalla pratica delle curie feudali, specie da quella di Milano, o altrove. Gli stessi libri feudorum accennano più volte alle consuetudini nate appunto nella pratica dei giudizi. I titoli 28-49 sono designati addirit- tura come consuetudines regni. Ma aTiche altrove si accenna alla consuetudine; e appunto essa procacciò al diritto feudale un largo sviluppo si nei riguardi materiali che sotto l'aspetto processuale. Basterà accennare ad alcuni principi, come il sor- gere dei minimi valvassoreSj i feudi femminini, la estensione del diritto ereditario alle linee collaterali ecc.

8. Un'altra particolarità, che vuol essere notata, si è, che anche i Libri feudorum si trovano pubblicati in appen- dice al Corpus juris, insieme alle leggi di Corrado il Sali- co, di Federigo I e di Arrigo VI, e si potrebbe credere che fosse per caso; ma non è cosi. Federigo II, il quale aveva pub- blicato alcune leggi sui feudi, scrisse ai glossatori della scuola di Bologna di metterle appunto nel Corpus juris insieme alle leggi de' suoi predecessori e ai Libri feudorum; e infatti Ugo- lino fin dal secolo XIII li inseri nel volume deìVAuthenticum dopo la IX collatio. Il fatto poi ha la sua importanza ; perchò avvenne con eiò che i libri dei feudi seguissero le vicende del Corpus jurisy e dove questo fu accolto, lo fossero anch'essi. Appunto questo fatto spiega perchò abbiano esercitato la loro autorità anche in Germania e in alcune provincie della Francia.

In breve se ne sviluppò una letteratura. Specialmente sono notevoli le glosse, per es. quelle di Bulgaro e di Pillo, ma an- che altre: tutte poi furono raccolte da Jacopo Colombi, che fu scolaro di Azone tra il 1227 e il 1250, e certamente è il feudista più celebre. Lo stesso Accursio approfittò della glossa

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di lui, anzi se ne valse in gran parte quasi alla lettera, pur ag- giungendo vf qua e qualcosa di suo. Più tardi vengono i trattati. Eicordiamo soltanto la summa feudarum di Ardizone, quella di Odofredo, e altre del Bianco e del Selimano, tutti giuristi del secolo Xin. Al XIV appartengono Jacopo di Bel viso, autore di una lectura super usibus feudarum, Andrea d'Isemia e Baldo degli Ubaldi ; al XV Jacopo degli Alvarotti e Matteo d'Afflitto, e in seconda linea, Giason del Maino e Pietro ILavennate ; ma potrem- mo ricordame anche altri, sia in quel secolo, sia nei seguenti.

9. Del resto il sistema franco rispecchia la feudalità nella sua primitiva schiettezza meglio che non lo facciano i Libri feudarum.

Già dicemmo che lo spirito, che anima la feudalità franca delle Assise, è tuttavia il vecchio spirito della feudalità militare, che a Gerusalemme si doveva rafforzare anche maggiormente per la necessità, che s' imponeva, di legare, più che fosse possibile, i si- gnori alla difesa della conquista. Invece il sistema lombardo è alquanto diverso, ed è facile farsene una ragione. Al tempo, in cui i Libri feudarum furono scritti, la base del feudo aveva già cominciato in Italia ad essere scossa, specie dal popolo, e il feudo stesso, sebbene conservasse ancora, sotto parecchi rapporti, la natura e la destinazione dei feudi militari, per altri aveva cambiato carattere. Certo, non può dirsi che lo spirito, che in- forma i Libri feudarum, sia proprio l'antico spirito della feuda- lità militare in tutta la sua schiettezza. È piuttosto una feuda- lità politica e civile che ci sta dinanzi.

Questa differenza si rivela in più punti.

Secondo le Assise tutti i vassalli del Regno, qualunque ne fosse il rango, avevano obbligo di fare amaggio ligia al re, ed erano pari gli uni degli altri. E una legge che ricorre spesso nel codice di Gerusalemme; e ne conseguiva:

1^ che ogni vassallo doveva servire il re in vita e in morte contro tutti, anche contro il proprio signore immediato, men- tre d'altra parte non poteva servire il suo signore contro il w: 2"* che ogni vassallo, il quale si credesse leso dal suo si- gnore, poteva senza più reclamarne al re, di cui era uomo ligiOf e a tutti i signori del Regno, di cui era pari, appunto in forza di cotesta comune ligezza, ed essere direttamente giudicato dalla corte dei baroni.

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Ma pel diritto dei libri feudorum no. L'omaggio ligio era qui una eccezione ; e Tassociazione feudale, lungi dall'avere un carattere di uguaglianza, voleva anzi mantenuta la gerarchia in tutti i suoi gradi. Cosi la signoria del re non si esercitava di- rettamente che in confronto di quei signori che rilevavano da lui: i vassalli di un grado erano pari a quelli dell'altro; e ne seguivano due norme diametralmente opposte a quelle che riscon- trammo nelle Assise, cioè:

1^ in fatto di servizio militare, il vassallo non era più te- nuto a servire il re, quando si trattasse di andare contro il pro- prio signore immediato; e dall'altra parte non era neppur te- nuto a servire questo suo signore, quando voleva muovere le armi contro il sovrano o contro un signore più antico. E già si cominciava a distinguere tra guerre giuste e ingiuste. Leggiamo infatti nei libri feudorum che se la guerra è giusta, o anche se si dubita della sua giustizia, il vassallo deve aiutare il suo si- gnore ; ma se ne è manifesta la ingiustizia, il suo obbligo si re- stringe soltanto alla defensio, almeno secondo l'opinione dei più.

2^ in fatto di giurisdizione, vigeva il principio che ognuno dovesse essere giudicato direttamente dal suo signore e dalla curia di lui. Di un'alta corte sovrana, come si trova nelle As- sise, formata da tutti i signori o baroni, e preseduta dal re, che avrebbe potuto conoscere direttamente di tutte le cause feudali, non s'incontra traccia: ogni grado della gerarchia feudale aveva, per cosi dire, la sua curia di pari, diversa da quella de- gli altri; e al re non spettavano che gli appelli.

Altre diversità presentano le leggi, con cui veniva regolata la successione, e dipendono pure dal diverso carattere dei feudi.

Secondo le Assise era parso necessario di concentrare la po- tenza della famiglia in un solo, per mantenere forza all'aristo- crazia ; e si stabili che il feudo fosse indivisibile e appartenesse al primogenito : che se, in mancanza di eredi maschi, succedeva la figlia primogenita, era insieme provveduto, perchè il servizio militare del feudo non ne soffrisse, dovendo essa prender ma- rito; e neppure poteva sceglierlo liberamente. altrimenti stavano le cose nella bassa Italia. Infatti, una legge di Fede- rigo II, fedele alle vecchie istituzioni normanne, vuole mante* nuta la prerogativa del sesso, attribuisce il feudo per intero al primo nato, e anche vieta ai conti, baroni e militi e ad ogni

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altro che tenesse baronie, castelli o fendi in capite dal prìncipe, di prendere moglie o maritare le figlie, sorelle o nipoti, o dar moglie ai figli, con beni mobili o immobili^ senza il suo permesso. a questa legge doveva ostare alcuna consuetudine contraria, che pur vigeva in qualche parte del Begno. E potremmo an- che ricordare un formulario di questi tempi, che rig^oarda un castello concesso in feudo dall'imperatore appunto col diritto franco : in eo videlicet quod maior nata exclusis minoribus fratri- bus et coheredibus in castro ipso succedai inter eos nullo modo di- videndo. Ma anche i Capitala Honorii (1286) s'informano allo stesso principio-* inter viventes jure Francorum sexus et prtmo- geniturae prerogativa servetur; e ugualmente i capitoli angioini. Cosi del pari in Sicilia, anche dopo le costituzioni augostali, come si può riscontrare in una carta d'investitura di Federigo m. Del resto ò una cosa che tutti i feudisti avvertono anche fuori dei confini del Begno ; e non mancano neppure le applicazioni. Infatti, per diritto franco il figlio del primogenito doveva andare innanzi al secondogenito, e il figlio del secondogenito al ter- zogenito. Nò il feudo si sarebbe potuto dividere senza più : a tal uopo occorreva il consenso del signore feudale e del primogenito ; e abbiamo qualche documento relativo a cotesto divisioni, per es. una carta di re Roberto dal 1341 che consente appunto la di- visione di un feudo non obstantibus constitutione regni et jure Francorum. Ma anche altri principi di diritto ereditario, che ricorrono più volte nelle Assise, si spiegano con quella tendenza. Dichiarano che à mort ne peut aucune chose escheir, ossia che la successione ereditaria non tollera rappresentanza, dovendo ognu- no ripetere i suoi diritti dall'ultimo possessore; e manifesta- mente volevano impedire che il feudo cadesse in potere di mi- norenni, i quali abbisognavanOj essi stessi, di protezione. Sog- giungono eziaudio, che l'erede del signore non era tenuto a ri- spettarne le inveisti ture, se il concessionario non fosse già entrato in possesso del feudo; e senza dubbio lo scopo era di restringere le aspettative, come quelle che non giovavano affatto alla difesa del paese.

Invece, appunto P indivisibili t' ^ feudo, che contribuì a mantenere raristocrazia fendale ^^ rando la po-

tenza della famiglia in un solo, 5 L W * ^^ I^om-

bardia, un forte stranno, non ^ B aita»

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in tutti gli altri. Trattandosi di feudi della prima specie, come a dire ducati, marchesati, contee, l'imperatore, oltre a dare rin- vestitura, sceglieva, a piacimento, tra i figliuoli del possessore ; e la indivisibilità del beneficio risulta da questa elezione. Per converso, trattandosi di feudi ordinari, il principio ereditario era riconosciuto in linea retta fino al secondo grado, e, in un caso, anche nella linea collaterale : questi feudi non erano più indivisibili. Evidentemente l'antico spirito militare aveva ce- duto, anche per questo riguardo, davanti alla tendenza della so- cietà civile di assimilare più e più i feudi agli altri beni. Per- chè il carattere patrimoniale dei feudi è un progresso del diritto civile sul diritto feudale militare; e questo principio abbraccia già la loro trasmissione ereditaria. dove la eredità è am- piamente riconosciuta, e lo è in tutti i feudi ordinari, la divi- sione si fa in porzioni uguali tra i figli maschi, più meno che se si trattasse di una terra allodiale. il diritto di rap- presentanza era escluso : i nipoti concorrevano insieme coi figli per stirpi, come rappresentanti del loro padre predefunto. E lo stesso dicasi delle aspettative. L'uso aveva già ammesso che il signore del feudo potesse investirne un terzo, pel caso dell'aper- tura; e questa investitura eventuale obbligava anche l'erede del signore.

Parimente correva qualche divario quanto al diritto degli esclusi. Perchè per diritto franco i fratelli cadetti potevano pretendere dal primogenito che prestasse loro gli alimenta (vitto e vestito) et militiam, per testimonianza di Marino da Carama- nico e di Andrea d'Isemia, ed abbiamo la conferma nei docu- menti che questo era realmente l' uso. Quanto alle donne, attesta l'Isemia che, per diritto franco, il frittelle maggiore, che ere- ditava, doveva dare alle sorelle soltanto il maritagium secundum paragium, mentre, per diritto langobardo, i fratelli avrebbero do- vuto cedere alle sorelle una porzione virile, nella considerazione che infeudi, secondo questo diritto erano divisibili; ma Biagio da Moroone ne limitava sempre il diritto al maritaggio, anche se non vivevano iure Francorum, e forse non aveva torto.

Un istituto delle Assise sconosciuto ai Libri feudorum^ ma

che si spiega nuovamente col carattere militare della feudalità,

proprio di -^uel codice^ e il commendement da fief. Il va^f^allo

"^n t^vn lasciare il feudo; e m pure m pr^Reutava la tieoeii-

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r

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sita che se ne allontanasse per lungo tempo, doveva comme»- darloj ossia affidarlo, al signore. Nel frattempo gli utili non spettavano a lui, ma al signore ; e questi non era tenuto a fare la restituzione del feudo prima di un anno e un giorno, amme- noché il vassallo intanto non fosse morto.

Carlo di Tocco ha avvertito un'ultima differenza, che in so- stanza discende dal fatto che anche il diritto del feudo era una conseguenza di tutto il diritto della persona. 'Egli osserva: ex hÌ8 ergo patet quod si miles vivai de feudo lege Franeorum {hoc jure) se defendat; idem si vivai de feudo jure longobardo ei conveniaiur a domino de infideliiaie conira eum cammissa {hoc jure se defendat), ei non erii conira iesies pugna. Sappiamo già che i Franchi potevano impugnare le deposizioni dei testimoni prodotti dall'avversario, offirendo loro il duello.

Dall'altro canto, non mancavano leggi comuni ad ambidue i sistemi : quelle, cioè, che proibivano di vendere, impegnare o al- trimenti distrarre o alienare un beneficio, o dispome per Tanima, senza il permesso del signore. E anche la pena non differiva, disponendosi che il vassallo perdesse il prezzo e il feudo ; ma in Lombardia quelle leggi erano, dal più al meno, disobbedite, e ap- punto la frequenza, con cui venivano rinnovate, mostra come non si osservassero gran fatto. Lotario chiama quella pratica una perniciosissima pesiis, che recava non lieve danno allo Sta- to; e Federigo accenna alle callidae machinationes, con cui si cercava di eludere le proibizioni imperiali. La libertà tendeva veramente a surrogare la necessità del consenso, senza preoc- cuparsi molto delle leggi.

§ 4. - GLI USI CONTADINESCHI. «<*

1. Alle consuetudini dei militi, aggiungiamo quelle dei contadini : dal più al meno, .hanno anch'esse subito la influenza del feudalismo, e meritano di essere ricordate per talune loro

** Bibliografia. Poooi £., Cenni storici delle leggi nUV agricoltura dm tempi romani fino ai nostri, Pirenae, 184548; voi. 2. Globia, Della agricoltura nel Padovano. Leggi e cenni storici, Padova. 185^ voi. 2. Cabtahi, Oli dal^ deW agricoltura di jRoma (nel perìodlco *" Gli studi in Italia « IL Èoma) 1^* n CuTUw, Le eorporaaiont delle arti delcomune di Viterbo, BomaTlddS (in Aich. della società Bom. di storia patria « VII), si ò occupato particolarmente anche degli statuti degli ortolani e dei vignaroli. Pei oondaghi si veda Bxsta, I eondaghi sardi, Cagliari, 1908 (dal •* BuUettino bibliogrsSco sardo ,), Pei pò-

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E^peoialità, che risalgono a tempi molto remoti, e che in parte du- rano tuttavia. Non abbiamo però un libro che ne tratti comple- tamente, quale vedemmo esistere pei feudi ; e, a volerne ricosti- tuire la fisonomia, ò mestieri ricorrere a fonti molto varie e di- sperse, specie agli statuti, ai poliptici e alle inquisizioni, ai Z$- bri trctditionum e agli scritti dei giuristi.

2. Gli statuti, a cui alludiamo, sono quelli dei comuni rurali non solo, ma anche altri, che riguardavano più special- mente gli interessi dell'agricoltura.

Ora, non ci rifaremo partitamente su quelli della prima spe- cie : ne abbiamo già discorso; ma non possiamo a meno d'insiste- re sul progresso molto notevole che vi si venne via via designan- do, se non dappertutto nella stessa maniera, certo qua e in

liptioi in generale rimandiamo a Ixama Stebubgo, Ueber die QvelUn der deut" scnen WirthtehafttgfchichU (nei ''Sitsongaber. der Wiener Akad.^ LXXXXIV p. 185 8eff^.)f ^ cosi pure Uther Vrharienu, Urbarialau/zeichnungen (neUa '^Ar- chiyal. S^itschr. ^ II, 26 eef^g,). Anche lo Susta, Zur OeschichU ti. Kriiik der Lrbarialau/teichnungen, M'ien, 18^ Desìi orbarl trentini si occupò partico- larmente lo ScHNXLLKR, TridetUifiùche Urlare aué dtm 13 lahrK, Innsbrnck, mi>7. Inoltre si veda Lampbecbt, DeuUehtM Wirthtchaflslthen imMiUelalUr^ II, p. ()57 seffg., Leipzig. 1886. Il noliptico della badia di S. Gtrmano fu pubbli- cato e illustrato molto bene dal Qu^rabi^ Folvptiqve de i'abbé Irviinoriy Paris, 18ii*V45, 8 voi. e cosi dal Lonomov, Polypixque ae lolbaye de SaifU-OermairiHUs' FriB, 8 ToL II Folypitqne de l'abbaue de SaifUrRémy de Beimtf Pari<u 185S, vide pure la luce per opera dei Guóraro. Il poliptico di 8. Giulia di Brescia sta nel * God. dipi. long. ^ del Pobro, n. 419. Quelli di Montccassino in Gattola, Ad hiMoriam oòoo^ùm Cannensie acceenonee, Venetiis, ITS-I, I, p. 807 segg. e in To- sti. Storia della b€»dia di MofUeeaesino, NapK>li, 1^12, III, p. 09 segg. Su (questi poliptici vedi Leo, Zur OeechicfUe der Verfaeeung in den sum Longobarduehen liemogihum fìenevent gehòrigen LSnder, voti der Einwanderung der Longobarden bi$ 9um Jahre 1268. nell^ annuario *" Italia « Berlin, 18881 p. 223 segg. H Ri- baldi ha scritto sui V<Uore etorieo- giuridico dei cahreiedeUe platee (noll^ "Arob. giur. voi. XLYIII, fase. 4-5, lXf2), Pel Liber ceruìium di Uenoio Camerario ▼odi Fabbi, Jkude $ur le Liber CenMuum de Véglite romairUy Paris, 1892. Il dotto uomo ne cura anche Todizione. Ne furono pubblicati alcuni fascicoli col tito- lo: Le liber cenenum de l Egliae ramaine pubtié avee une préface et un eomtttenr taire, Paris, 19()l-<)2. Si veda pure Savibi, Il liber ceneualii del 1348 del Capi» tolo aprutino. Testo originale con note, Koma^ 11M)1. Ver aAtri libri tradUionun* possono consultarsi, quantunque non riguardino cose italiane: Kbibs, Indi- cultie Amoni* u. Breve* notititte SaUbur gente*, Mùnchen, 18fK) e Brdlich, Uéber bairierhe TradUionabileher u. Tradiiioneri ^Mittheil. des oosterr. Instituts « V, 18&1, p. 1 segg.). Il Begietrum Far/enee fu Pubblicato dalla società rom. di storia

5atria a cura di L Giorgi e U. Balzani, Koma, 187fM£ (finora 8 voi.), e cosi il ìeMto Sublaeenee del aeeolo XI a cura di L. Allodi e (}. Levi, Ronia, 1885. Sul regesto di Farfa vedi Bbcnhsb. ì)<m Begietrum Far/enee^ ein Beitrag 9ur BeehUgeech. der iialien, Urkunde (''Mittheill des of'sterr. In^tituts. IlTl) o SriiupFKB, Il Begeeto di Farfa. Nots, nella "Bivista storica italiana. Vii, 8; IHiR). £dÌ£Ìoni« Lo Provietone* tupra ru*todiam vignaiium del comune di Bas- tano furono edite a Bassano stesso nel 1878 per le nosse Pasolini-Baroni. L'an- tico Statuto dell* Agricoltura di Roma vide la luce a Boma nel 152<>. La trada- rione italiana con aggiunte fa stampata parimente a Boma nel 1718 col titolo: Statuii dell* agricoltura con varie oeeervaxionif bolle, decieioni della S, Buota e decreti .intomo alla medeeima. Una ristampa è del 1848. Il Condaghe di 8, Pie* tro di Silki, tosto logoduresa dei secoli XI-XII, fu pubblicato da G. Bob ai zi, Sassari, ìiM,

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modo molto spiccato, nella condizione politica e civile dei volghi campagnnoli. In generale, la giustizia signorile volevasi salva, e qnesta comprendeva più cose; ma tutte avevano og^imai la loro regola, di maniera che il contadino era messo al sicuro da soprusi. Cosi, non rispondeva che delle colpe proprie e dei de- biti propri, davanti al giudice del luogo, e le composizioni si trovano qua e ridotte. Di più v'erano statuti che proibivano di pignorarne il cavallo, o i bovi destinati ad arare, o i maiali, e i letti e le armi ; e, pur insistendo su certi obblighi, ne fissa- vano i limiti. Ne rileviamo che dovevano lavorare attorno al castello e difenderlo, e servire coi cavalli, e prestare talune opere al signore per l'aratura dei suoi fondi, per la mietitura o la vendemmia; ma tutto ciò era sottoposto a determinate regole. Lo stesso dicasi del terratico, che si pagava pel fondo, lo stesso della molitura e dei plateatici e passaggi, e anche del fodro e degli adiutorì, se pure non se ne accordava l'esenzione.

In pari tempo, il signore prometteva di rispettare la vita e i beni dei terrazzani e difenderli. Ognuno aveva il suo fondo, che teneva in locazione perpetua dai signori: e gli statuti gliene assicuravano il possesso. Quelli di S. Severino e di Atina dispon- gono, che nessuno potesse esserne privato tranne che per certi delitti più gravi; altrimenti lo statuto di S. Germano rico- nosce in perpetuo le locazioni livellane, salvo il diritto del censo annuo e la rinnovazione dei livelli. Il contadino poteva anche alienare la sua terra tra' vivi, entro il distretto, e disporne con atto di ultima volontà, e in mancanza di testamento, succede- vano i parenti ; aveva facoltà di vendere le derrate, o esportarle senza pagare la piazza; e perfino lasciare la terra, però pagando un soldo prò exitura. Altri fondi servivano all'uso comune, per pascolarvi gli armenti o tagliar legna; e il signore prometteva di non darli in feudo o precaria ad alcuno, ne a livello o in altro modo. L'abate di Montecassino concedeva agli uomini di Pontecorvo anche le caccie e la pesca e ogni altra libertà, secondo le buone e giuste consuetudini. A volte, poi, si trattava di veri patti, conchiusi tra il signore e i terrazzani. Sappiamo che già il privilegio di Nonantola è tale ; ma inoltre possono vedersi due convenzioni che il conte Alberto di Bergamo strinse negli anni 1120 e 1122 con alcuni vicini e consorti di Levate e di Ciserano. Vi si stabiliscono le responsioni che questi dovevano prestare per

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le terre che già possedessero o fossero per acquistare in Levate ; e dall'altro lato il conte rinuncia ad ogni condizione, fodro o pasto ed albergarla, ed uso ed ossequio, eccettuati i denari per il pasto di Sant'Alessandro, la ectstettantia^ quando si fosse levata, e il distretto in tre cause: de furto^ adulterio atque testarotura, se gliene fosse mosso lagno; ma ad ogni modo non doveva dar bando superiore a cinque soldi. Il documento aggiunge: quia aie inter se convenerunt et epoponderunt alla presenza di parecchi boni homines. Ma anche le consuetudini milanesi del 1216 ac- cennano al fatto di alcnni signori, ^t cum euis rueticis de parte bonorum et aliarum compoeitionum danda pepigerunt.

A questo proposito, possiamo anche ricordare le carte di co- lonizzazione del tempo, che, in fondo, rivelano lo stesso feno- meno. Se ne trova dappertutto: nell'alta e nella bassa Italia; ma ci è forza restringerci e ne scegliamo solamente due, che ci paiono particolarmente interessanti.

Una è un documento friulano dell'anno 1200. Si tratta di un libello, istituito dal signore Aldrigo figlio di Yamerio in- sieme col firatello Yamerio, per un determinato territorio a molendino Grami usque ad portam oppidi Panciniei. Chiunque vi fosse entrato o vi si fosse rifugiato, sia milite sia rustico o altra persona, anche se avesse abbandonato la terra del proprio padrone, doveva essere eanus et salvue nella persona e nelle robe. I rustici che, abbandonata la terra del padrone, fossero rimasti nel libello per tres dies continue cum tribue noctibus^ potevano poi andarne con libertà e securtà dovunque volessero.... Se avessero voluto erigervi delle case, avrebbero potuto farlo con sicurezza, e anche venderle, pignorarle, e altrimenti alienarle senza contraddizione, salvo a pagare ai padroni dieci soldi per ogni casa nel primo anno, e una ccUvea di frumento in ogni anno successivo : avrebbero poi tres pastos terre in lungo e tre in largo per ogni casa. Seguono alcune disposizioni penali. Chiunque avrà sauciato uno, mentre si portava al livello, in . ^ello vel a confinibus, si da farne uscire il sangue, pagherà quaranta soldi ai padroni, e risarcirà il danno con l'ingiuria al- l'offeso. Se l'avrà battuto senza versar sangue, pagherà venti soldi ai padroni, ed emenderà l' ingiuria al paziente. In caso di uc- cisione nei detti luoghi, l'uccisore ricupererà la mano dai pa- droni con sette lire, e pagherà il morto agli eredi ad volunta^

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tem dominorum. Chi per ira dirà cucurbita, ladro o spergiuro ad uno, entro i detti confini, sborserà venti soldi alla curia, ed emenderà l'ingiuria all'offeso. Chi ruberà nei detti luoghi, darà quaranta soldi ai padroni ed emenderà il furto, e se non li avrà, corium perdei, I padroni promettono di difendere tutte le ra- gioni di coloro che si portassero in quel livello, e di sanare le ingiurie e le emendationes. U documento termina con queste parole : Et sic verbum dederunt Albertino de Andana ut prò eU super earum animam ad sancta Dei evangelia iuraret] e infatti costui giurò corporalmente.

L'altra carta è un diploma di Carlo I d'Angiò. Il re di Napoli aveva pensato di colonizzare Lucerà, che si era venuta spopo- lando, e promise terre e privilegi a coloro che vi si fossero re- cati, sia dalla Provenza sia da altre parti. S'indirizzò, adunque, al vescovo di Sisteron, a Gaucherio de Bocca, a Filippo di Va- lenza e a Rinaldo de Curtoloco, militi, nonché ad altri, e ingiunse alla loro fedeltà di scegliere in Gomitata Forcalquerii et Ballita Dignensi trenta focolari, cercando d' indurli a trasportarsi a Luce- rà con tutte le loro famiglie ad incolatum dicti loci^ e provvedendo che vi fossero aliqui boni fabri^ carpentcUores^ magistri lapidum, boni laboratores et ingemmatores. A tutti coloro che venissero con la moglie e la loro famiglia darà quarantacinque eminate, cioè tre ettari e sei are di terra per seminarvi finimento ed orzo, due eminate per la vigna e una per l'orto. Insieme avverte che delle eminate destinate alla seminagione, ne semineranno ogni anno trenta, e lasceranno le altre quindici per l'anno seguente. Egli magnifica il luogo come sicuro, forte, bello e d'aria salubre; e osserva che ogni eminata di terra soleva rendere in media {gè' neraliter) dieci mine di firumento e dieci di orzo, ossia calcolando la mina a due decalitri circa, venti decalitri dell'uno e venti dell'altro. Quanto alle due eminate, destinate alla vigna, avreb- bero dovuto rendere ogni anno sessanta miliardi di vino alla mi- sura di Marsiglia, ossia press'a poco quaranta ettolitri. Promette eziandio di dare trenta eminate di terra seminativa, e due per la vigna e l'orto a coloro che vi si portassero sine turoribtis et famiUiSj salvo di aggiungere il resto, come agli altri, non tosto avessero moglie e figli. Tutti potranno prendere dal bosco Alberone la legna secca pei loro usi e la verde per costruirvi le case ; e an- che avranno liberamente e securamente i pascoli e l'acqua p©i

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loro animali: cosi pure buona acqua di pozzo entro la terra, e buona acqua di fiume e di fonte fuori di essa. Tutti saranno esenti e liberi a collecHs et exiictionibus in perpetuo, salvo che dopo dieci anni ogni capo di casa pagherà un tari in riconosci- mento della grazia ottenuta: La franchigia durerà per tutto il tempo della loro dimora sul luogo, e saranno liberi per le cose ivi possedute: per quelle, ohe possedessero altrove, pagheranno come gli altri. Inoltre, farebbe fabbricare le case a tutti a spese della curia, sei canne in lungo e tre in largo (la canna a due metri circa), coperte di buone tegole; e anche donerebbe a cia- scuno, dei buoi coir aratro e tutto l'occorrente per arare prò fa- ciendo campo seu mcLssariis; al trasporto dalla Provenza per mare provvederebbe la curia. Nel primo anno riceverebbero il frumento necessario pel vitto, cioè dodici mine (ett. 2,40) a te- sta, e il frumento e l'orzo, a mutuo, per la semina; di più cin- quanta soldi tornesi (ottantatre lire) a famiglia, per le spese necessarie. Tornando al vescovo e ai militi, a cui s'era indi- rizzato, il re soggiunge ohe, trattando coi coloni che voles- sero trapiantarsi a Lucerà» facessero loro' presente di portar seco le armi, che avevano in Provenza, e promettessero di osser- vare e far osservare inviolabilmente tutto; e si rivolge anche ad altri militi, perche in altre baglive e vicarie scelgano cen- toquaranta focolari per popolare il detto luogo. Avverte in- fine che i coloni dovevano essere fedeli e nati de genere fidelium e non vecchi. Il diploma fu dato in Foggia il 20 ottobre 1273. 3. Altri statuti sono più specialmente di carattere agra- rio; e si contano parimente in buon numero. Volendo accen- nare a qualcheduno, ricordiamo lo statuto di Bassano supra cm- etodiam vignalium^ che, iniziato nel 1056, fu ridotto poi, per successive aggiunte a completo sviluppo nel secolo XY. E un vero e proprio codice agrario, forse il più antico che si conosca. Altrove abbiamo fatto parola di una legge di Mariano lY per Arborea. Ma quello, che va sopra tutti, è lo statuto dell'agri- coltura di Boma, il quale deve aver avuto la sua origine molto prima del pontificato di Gregorio XII, sotto cui venne riformato. Molte co.^e non erano più in uso ed altre affatto superflue, sio- chè i consoli dell'arte di quel tempo (tutti nobili romani), pren- dendo le facoltà necessarie dal cardinale Pietro degli Annibali, avvisarono di compilarne uno nuovo. L'autorizzazione del car-

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dinaie è del 1407: cosi si misero all'opera, aiutati da diversi altri nobili di Boma e intendenti dell'arte. Lo statato, approva- to dal senatore di Boma nel 1410, è quello che si pubblicò poi per le stampe col titolo di Statata nobilis artis Bobatteriorum Urbis, Ma anche in seguito fu riveduto più. volte. Da ultimo venne tradotto in italiano per accomodarlo meglio all'intelligenza della gente di campagna, e vi si aggiunsero diverse note per la pra- tica, e bolle, privilegi, decisioni della Sacra Bota, e voti, anche un trattato sull'arte dell'agricoltura in cui si discorre tanto dei con- tratti e della maniera di dirimere le controversie e regolare qua- lunque negozio di campagna, quanto della coltivazione dei ter- reni, del raccolto dei frutti, e del governo e mantenimento del bestiame. Yi si contengono eziandio molte notizie sui ter- reni seminativi, sui pascoli, sui prati e sui boschi, un calendario delle spese e faccende solite a praticarsi nelle tenute in ordi- ne di mesi, e perfino uno studio sulle cavallette. I consoli, che attesero a questa nuova compilazione, si auguravano di aver fatto cosa che dovesse recare molto giovamento agli agri- coltori; e anche il decano della Sacra Bota, approvandone la pub- blicazione per le stampe, ne mette in rilievo l'utilità, come quella che agli ordinamenti legali (li chiama cosi) accoppiava una pra- tica perfettissima della campagna e cognizione ben grande. Ag- giunge che nessun altro, all' infuori dei consoli dell'arte avrebbe potuto unir tante cose insieme. Ma, anche prendendo gli statuti come furono compilati originariamente, senza dubbio presen- tano una grande importanza per chiunque si faccia a studiare le condizioni delle classi agricole nel medio evo. Infine, si trattava di una corporazione retta da consoli, come se ne incontrano tante in quei tempi, e lo statuto è appunto la legge della corporazione. Yi si parla dei consoli e altri ufficiali, del modo di eleggerli e del sindacato, delle cose su cui potevano esercitare la giurisdi- zione, del come si doveva procedere nelle cause civili e in quelle di danno dato, infine dell'esecuzione delle sentenze. È un pic- colo codice di procedura, a cui tengono dietro molti altri capitoli sulle locazioni di cose ed opere, sulle vendite di animali, grani ed erbe, sulle fide e soccide, sulle società dei beni, e via dicen- do, che riproducono mirabilmente le condizioni locali dell'Agro Bomano. Insieme amiamo di ricordare lo statuto di Yiterbo, che parlando delle soccide degli animali, dei campi e altre materie,

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nota appunto che dovevano intendersi fatte justa sHlum artis agricuUurc^ et animalium Viterbiense (II, 87). altrimenti una bolla di Paolo Y del 1608 fa parola di statuta et ordinationeSj che avevano avuto vigore in Comete super Agricolturae arie^ ma che poi erano andati in dissuetudine, e ne conferma di nuovi, stabiliti dai Cornetani per eonservatione et augumento dell'arte del campo. Uno Statuto della ndbiVarie delV agricoltura delia città di Pahstrina porta la data del 1680 ; ma i consoli che ne curarono la stampa, osservano che si tratta solo di una forma nuova, in che era stato ridotto acconciamente alle condizioni dei tempi, e intendono che non habbia da essere pregiuditiale allo Statuto delV agricoltura dell'alma città di Roma ne in tutto ne in parte.

Speciali consuetudini contengono gli statuti dei vignaroli e ortolani, che abbiamo trovati in una interessante carta romana del 1030 (p. 601), ma che s'incontrano qua e anche altrove, per es. nel territorio di Viterbo. La comunanza degli inte- ressi aveva indotto quei proprietari viterbesi ad unirsi, già nel secolo XIV, in corporazioni, le quali, entrate presto nel- l'ingranaggio comunale, furono anche rivestite di speciali uffici, come di vegliare, sia sulla polizia rurale, sia sulla condotta e sull'uso delle acque, e conoscere di alcuni reati contro la prò* prietà, specie se si trattava di dolosa diversione delle acque stesse, o di incendi o guasti o distruzione di frutti. Gli sta- tuti entrano anche in molti particolari in questa materia, affine di prevenire i danni, e punire coloro che li avessero recati, e ad ogni modo provvedere al risarcimento anche a spese comuni. £ d'altra parte è degna di nota la disposizione che nessun atto esecutivo potesse venir promosso contro i bifolchi nel tempo dell'aratura, e che non si potessero pignorare bovi addetti alla coltura del fondo, se v'era modo di conseguire il pagamento con altri beni del debitore. Lo statuto degli ortolani s'interessa particolarmente alla distribuzione delle acque, perchè fosse man- tenuta e resa efficace; e si trattava di argomento di speciale importanza. In generale però i principi sono quelli del diritto comune. L'acqua apparteneva successivamente ai fondi pei quali defluiva, e il proprietario poteva usarne a piacimento per tutta la superficie del suo fondo, purché senza danno dei vici- ni; ma dopo averne fatto uso, doveva sempre restituire le acque

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al corso ordinario. Che se il rivo trascorreva tra fondi appar- tenenti a diversi proprietari, pur spettando l'acqua ai frontisti, ciascuno aveva diritto di usarne pei bisogni dell'agricoltura, ma senza alterarne il corso, dacché ogni mutamento avrebbe po- tuto ledere i diritti dei rivieraschi opposti. Spettava poi ai rettori dell'arte di provvedere alla distribuzione fra tutti gli utenti della contrada, curando perchè ognuno facesse il capo deWacqua nel tempo determinato o lo togliesse appena finito l'uso. Ed era tutta l'acqua che veniva conceduta prinoa a^'uno e poi all'altro in ragione di giornate e di ore, senza che fosse permesso di permutare gli orari; salvo che ogni proprietario poteva nel suo fondo costruire una lega per conservare l'acqua di sua appartenenza e anche concederla ad altri lia presa stessa dava insieme diritto a tutti gli accessori, come a dire l'acquedotto e lo scarico, purché si facessero senza pregiudizio o danno degli altri.

E simili statuti continuano a lungo. Uno dell'università dei buattieri della città di Frascati è del 1733; un altro di Montefegatese in Yaldilima ha la data del 1740; e a questi tempi più avanzati appartengono anche gli Statuti della città di Urbino da osservarsi da lavoratori di terre e vigne di detta città e suo territorio^ e varie leggi venete Partii decreti du- cali, ordini et relazioni concernenti il beneficio et il buon go- verno de la contadinanza de la Patria del Friuli. Baccolte dap- prima nel 1612, furono ripubblicate parecchie volte, l'ultima nel 1686, e contengono molte notizie interessanti sulle angaria, gravezze e fazioni della contadinanza, sui beni comunali, sui masi, sui miglioramenti, sui danni dati, sui livelli e le doti, sugli animali, il fieno, i letti e gli strumenti rurali, sulle poste delle pecore ecc. Parimente possono vedersi i molti bandi cam- pestri di Cavallermaggiore, Cerano, Chivasso, Cuneo, Ivrea, Mo- nastero, Moncalieri, Mondelli, Nizza, San Benigno, Torino ecc.

4. -- Quanto ai Poliptici (si dicevano anche Urbari), le loro origini risalgono ai tempi romani, come ne fa fede un firammento di papiro pubblicato dal Marini (137). si perdettero in se- guito. Gregorio Magno ne inculca l'osservanza pei tenimenti della sua chiesa ; ma specialmente vennero in voga al tempo dei carolingi, e sono anch'essi una fonte preziosa della storia del diritto e delle condizioni economiche della campagna. Già Pi-

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pino vi dette la prima spinta : e sotto Carlomagnp la cosa assunse anohe più vaste proporzioni. Si vollero avere degli inventari generali di tutti i beni e redditi, sia dei possedimenti della co- rona e delle chiese, sia dei benefici regi; e si fecero d'ufficio, sulla base delle deposizioni dei terrazzani, che, del resto, non vi potevano rifiutare. Cosi nacquero questi poliptici in Francia e fuori. E ve ne sono di importanti. Ne citiamo uno dell'abate Irminone di Saint-Germain des Prés, sotto il Regno di Carloma- gno ; un altro dell'abbazia di Saint-Bémy di Beims, verso la metà del secolo IX, un terzo del monastero di Santa Giulia di Bre- scia, del principio del secolo X, per accennare solo ai principali e più antichi: ma s'incontrano anche più tardi. Il Rotulus feu* dorum episcopatus Tauriensis è del 1203, e il Liber terrarum et possessianum dell'ospedale di S. Jacopo di Altopascio, del 1272. Le stesse inquisizioni^ o inchieste, ricorrono di frequente, e per tempo, nelle singole terre, appunto allo scopo di formare il poliptico ; e in generale n'erano incaricati alcuni commissari ri- vestiti di carattere pubblico. I quali procedevano, sia radunando i censuari perchè dichiarassero i loro possessi e redditi, e i servizi, a cui erano tenuti, sia interrogando, sotto fede di giuramento, i più anziani o rispettabili del luogo, e insieme facendo rogare un processo verbale, o breve, detto comunemente breve recorda" tionis, che diveniva "un atto irrefragabile si pel padrone, che pe' suoi tributar!, e la legge costante della terra e di coloro che l'abitavano (Guerard). Tutti questi brevi si conservavano o trascrivevano in un volume o registro, che era appunto il polipti* co; e se avveniva qualche mutamento di proprietà o dei pesi imposti alla terra, se ne teneva conto. Cosi pensiamo che ab- biano avuto origine i brevi della chiesa di Tivoli, alcuni dei quali si fanno risalire ai tempi di papa Nicolò I (858-67); ma tutti insieme, diventati logori per l'età, furono poi rinnovati nel 945. diversamente devono essere nati quelli del monastero di S. Lo- renzo d'Aversa e altri della badia di Nonantola per certe sue terre del Cremonese e Pavese, quantunque non se ne faccia men- zione. Certamente, il breve memorie et recordationis de homini* bus terris et rebus della chiesa di Santa Riparata e del monastero di S. Miniato ebbe origine in quel modo. Si tratta di una inqui^ sitio, che il prevosto della chiesa, l'abate del monastero, e il giu- dice e notare Giottimano fecero nel 1201 alla presenza di molti

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testimoni, ricevendo le dichiarazioni e confessioni dei fedeli e co- loni. Posteriori, ma non di molto, sono parecchie inquisizioni ordinate da Bernardo abate di Montecassino, appanto allo scopo di accertare le responsioni e le oi)ere de' suoi dipendenti ; e indub- biamente presentano un quadro molto netto d^Ue condizioni con- tadinesche di allora. Ricordiamo quelle in castro Pedismontis et Villae del 1267, e in castro S. Eliae del 1270: ma ne esistono anche altre. A darne approssimativamente un'idea, crediamo opportuno di fermarci alquanto su quella di Sani' Elia.

È una Inquisitio super juribus^ redditibus et servitiis débitis ah universitate {Castri S, Eliae) et hominibus . . . monasterio Cas- sinensi et offlciis ac menibris ipsius, fatta da un giudice e da un notare, davanti a due testimoni e alla presenza del sindaco di Sant'Elia, deputato della comunità del castello. S'interrogarono ben ventisei persone, per lo più anziane del luogo, perchè depo- nessero, sotto fede di giuramento, intorno ai diritti e alle con- ditiones che i Santeliani dovevano al monastero e ai suoi uffi- ciali, tanto per ragione delle persone, quanto per ragione delle terre che possedevano; e in generale andarono d'accordo. Fa messo in sodo che quei terrazzani prestavano al convento certe opere coi buoi e anche oi)ere manuali. Dovevano la procuratio all'abate, quando si recava tra loro, e, altrimenti, gii pagavano certa somma di denaro; servivano nella milizia per tre giorni a loro spese, il resto a spese del monastero, e anche dovevano aiutare Tabate pecuniariamente quando fosse chiamato dal papa o dal re di Sicilia. I monti, i pascoli, i fiumi, i corsi d'acqua, le mura e vie del castello appartenevano alla badia. Nessuno poteva pescare nelle acque del fiume maggiore, senza licenza dell'abate, salvo in tempo d'inondazione, o tranne che avesse la moglie malata o da parto, e neppure cacciare nel territorio, sotto pena del hanno. Tutti pagavano il terratico per le loro possessioni, e se ne indica la misura: due settimi del grano, dell'orzo, del miglio e delle fave e il terzo del mosto. Chiun- que avesse ammazzato un maiale o un bove, avrebbe dovuto dame parte al rettore del castro; chi aveva pecore, dava la decima degli agnelli al cellerario del convento, e cosi il ^to»- datico per le scrofe e il plateatico. Nessuno poteva costruire un montanum^ sia ad acqua sia a secco, per macinarvi le ulive, oppure un mulino od altro edificio nelle acque pubbliche senza

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licenza, perchè il diritto di tali costruzioni spettava alla dignità del monastero. Si nota anche Tubo che aveva la curia di Mon- tecassino, di tagliare alberi non fruttiferi per la riparazione del palazzo o per costruire nuove fabbriche, anche prò curru dictae curiae; ma se ne doveva ricercare il proprietario. I testimoni, interrogati come sapessero tutto ciò, rispondono che avevano veduto il monastero possedere le dette cose e usare di quei di« ritti dal tempo dei loro ricordi fino a quel giorno, per uno spa* zio di trenta, cinquanta, sessant' anni. Di tutto fu redatto un atto pubblico per mano di notare, ad futuram memoriam e per cautela della badia.

Press'a poco in questi medesimi tempi, l'abate del monastero di S. Costanzo ordinò a tutti i possessori di dichiarare al no- taro Verneti i beni che tenevano dal convento; e fu cosi re- datto il registrum consignationum^ che il podestà di Drenerò ap- provò nel 1295. Ben centonovanta possessori si sono presentati al notare, dichiarando i fondi da essi coltivati, sui cui paga- vano la decima.

5. Tali si presentano questi Foliptici e le Inquisitiones ; ma insieme solevano tenersi dei libri, in cui venivano inseriti, alla lettera o per estratto, i vari titoli d'acquisto delle terre, e anche gli atti con cui se ne disponeva. Erano i cosi detti Car- iarti o Cartularii o Regesti o Libri iraditionum, e se ne contano molti, specie di chiese e conventi, cominciando dal secolo IX. Erano raccolte di vecchie carte appartenenti a una chiesa, ba- dia o famiglia. Molti sono tratti dagli autografi e collazionati da pubblici no tari, che vi appongono il loro sigillo ad ogni pa- gina, e ad ogni modo li firmano in fine. Molti però sono com- pilati da privati senza alcuna autorità o ricognizione pubblica. Uno dei primi esempi, come quello che appartiene alla seconda metà del secolo IX, è la Recordatio di certo Fotone, riferita dall'anonimo Salernitano, riguardante le corti, ohe possedeva, insieme ai munimina o titoli, per uso e sicurtà dei propri figli e nipoti, a cui raccomandava di ricordarsi di lui nelle loro pre- ghiere. Più tardi quelle raccolte si moltiplicano e perfezio- nano. Ci restringiamo a citare il notissimo libro di Cencio per la Chiesa romana e i Regesti di Farfa, di Subiaoo, di Volturno e di Santa Sofia di Benevento. In Sardegna si chiamavano condaghi, e ne rimangono tuttora alcuni: il condaghe di San

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Pietro in Silki, già pubblicato per le stampe, il condaghe San Nicolò di TruUas e quello di Santa Maria di Bonacardc. per non dire di altri di cui non possediamo che firammentL Erano veramente registri o brevi o memòratorì, e lo indica già la etimologia della parola (xovSàxiov), destinati a conservare me- moria di atti svariatissimi, come daturas, camporos, binckitura* de kertu, posturas de termens, akkordio8, campanias, tramuioi, in genere di qualunque atto che poteva interessare il patrimo- nio ecclesiastico, spesso con l'intervento del giudice e qualche volta anche dei maiorales. Ma cosi era anche degli altrL Xol bisogna, cioè, credere che avessero importanza solo per l'agri- coltura, come i poliptici : la loro portata era ben maggiore, per- chè vi si registrava ogni sorta di documenti, che potessero in- teressare la Chiesa o la famiglia, specie i privilegi. Glie se molti si riferivano nuovamente alle condizioni della campagna, altri non hanno a che fare con essa.

Il Liber censuum della Chiesa romana merita che vi ci sof- fermiamo più di proposito, per la sua importanza e anche per la forma con cui fu redatto. Già sullo scorcio dei secolo V papa Gelasio aveva fatto compilare un registro delle rendite i: quella chiesa; e questo poliptico, modificato appena da Gregon: Magno, era ancora in uso quattro secoli dopo. Ma soprawenner: tempi difficili per Roma. Accenniamo appena alle dure prove, che essa dovette subire nei secoli X e XI, perchè si comprenda come mai i vecchi archivi e i vecchi titoli sparissero. E fu d'nopo ri- farsi da capo. Si formarono nuovi poliptici e nuovi cartolari, gli uni per le rendite, gli altri per i titoli; e cosi li trovò Cencio, camerario della Chiesa, incaricato delle sue temporalità, che nel 1192 dette loro una forma definitiva. Infatti il suo Liber ctm- siium tiene insieme del poliptico e del cartulario: da un late è un registro delle rendite spettanti al palazzo lateranense, col nome di coloro che le dovevano, e dall'altro è un codice di vari strumenti ed atti appartenenti specialmente alla Camera ponti- ficia: donazioni, testamenti, compere e permute, omaggi ecc. Certamente, è un'opera di capitale importanza, perchè Cencio spogliò una grande quantità di registri e documenti antichi, appunto per istabilire l'entità e i fondamenti giuridici dei di- ritti pontifici; e con la sua scorta, oltre che l'origine e lo svol-

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gimento dei patrimoni e delle signorie della Santa Sede, se ne può anche imparare a conoscere Tamministrazione. Specie se ne ricavano preziose notizie intomo all' indole dei contratti agrari e alla condizione degli agricoltori. Altri strumenti ed atti sono posteriori ; e Cencio stesso aveva avuto cura di lasciare, nelle fac- ciate, degli spazi vuoti perchè vi fosse modo di aggiungere altri censi quando fossero pervenuti alla Santa Sede. Si continuò cosi ad inserirvi documenti e notizie fino agli ultimi anni del secolo XIII; ma già fino dal 1228, circa, si era presentata la necessità di trascriverlo, mancando il posto alle inserzioni.

6. Qua e ci abbattiamo anche in qualche giurecon- sulto, che si ò fatto a illustrare cotesto consuetudini ; ma il nu* mero ne ò scarso* A capo di tutti sta Anselmino dall'Orto, figlio di Oberto; ma, propriamente, fu solo una parte della vita conta- dinesca che attirò la sua attenzione ; e, per quanto importante, è sempre povera cosa in confronto del resto. Anselmino ò quel medesimo, a cui Oberto diresse le due lettere contenute nel se- condo libro dei feudi, e senza dubbio intese calcarne le orme. Come il padre aveva scritto sui feudi, egli volle occui>ar8Ì dei rapporti giuridici simili ai feudi, o feudastri, come anche dice- vansi; e cosi nacque la Summa super contractibus emphyteasis et precarii et lihelH atque investiture: un libro che ebbe anche il suo momento di fortuna ; e già osservammo come sia stato unito, al- meno in parte, alla collazione dei feudi. I manoscritti ste^^si ne serbano traccia. Disgraziatamente, però, non ne esistono che alcuni frammenti pubblicati dal Jacobi a Weimar nel 1854, men- tre l'opera deve essere stata assai più completa; e d'altronde il codice parigino vi accenna espressamente, dicendo che sono tolti de summa Anselmini de Orto. Per qual ragione, poi, perisse quasi totalmente non si sa. Il Jacobi pensa che sia stata messa in non cale perchè il diritto e i giudizi dei coloni cominciano fino dal se- colo XIII a dipendere» in Italia, più dal caso e dalla grazia dei padroni che dalla legge ; ma non vorremmo sottoscrivere a tale opinione. Soltanto è vero che già nel secolo XIII e più nel XIV, dopo afirancata la campagna, quando i borghesi principiarono a diventare proprietari di beni rustici, anche i contratti agrari se ne risentirono, e nuove forme vennero sostituendosi alle an- tiche.

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In tempi a noi più vicini trattarono di cose rustiche il Bomussi e il Fierli. Del primo, abbiamo un libro di responsi De re agraria^ ristampato ancora a' di nostri a Firenze. H Fierli scrisse particolarmente sulla Divisione dei beni dei con- tadiniy sui Livelli di mano morta e sulle Azioni edilizie in rap- porto alle contrattazioni del bestiame.

TITOLO II,

LE SCUOLE E LA SCIENZA DEL DIRITTO

Capo 1. Le Scuale,

§ 1. LORO SFKCIK, flLI STUDI GENERALI. **

1, Riprendiamo la uostre ricerche sulle scuole dove le abbiamo lasciate. Per Taddietro, potemmo a mala pena ri* cordare alcuni studi superiori di diritto, a Roma, a Ravenna» a Pavia: invece, cominciando dalla fine del secolo XI, ne tro- viamo ad ogni piò sospinto, appunto per il diritto; ma anche

^

*■ BlbUoaraflft. Sationy, Gtscfi, <Um rUtti. HéthiM im M, A,. Ili, Txmdui, di Bollati, voi L HALUAukxitp^ Origine de l'unii^rtité. PtLTv^ là45w Nova, Im fiio§^/U$t la Moétt^ del diriUo o l'univ^r0ÌÌà, Proliuioni, Milano» 1863. Bkitakza, Vmnivermia dall' origine al risorgimento, Padova. 1880. HVhU, JMlm infiamma politica déll*wnimr§iià ne' tevt%pi antichi t né* maJUmu DÌ0OOfio^ Mìlaoov 1&7L Corri, Le mUmrei^ italiane nói medio evo, 2^ ariic.^ Fìreiuia, tm); fi* edix.« IdSO. BaiTT, La 9Ìta wmméttitaria nU medio eoa in Italia (' Qtiarterly Haview ^ luglio, 1891)* DnirLii Die UmimréUMné dti Af J ^m //> /, T. B«rlio, 1885. KADrHAim,

IHe Qtmhith$é d^r détOéehen T Di* Uni^€r0ÌUUepfÌ9Ìlégitn dér wi8i^. I, 118 aou. imS). Tu aocialU ni, ìLh, im. B4ÌXIU

' f irart, l^aS^9tl Lo «nstso^ ZeiUohr, fOr GeaohichU- nv€r$ua ^neiia '^ Riv. iotem. di «oieiLSt , , .__ /* mni^ereiticM of Europe in the MiddU

Afi<ii$t B ToU^ Oxford, 18^5. Ikuli l u^Nerdtà di Boto^naoi ocou piamo a parler o io t^ueila oooaéioino nd rìforinmi la bibUo^raìIa. Qui rìcordi&mo alcuno opera obè tr^itaiio dolio altro ani va mi italiano aernendo Tordi no alfabvtico di ciar aehaduaai. Par A^neona; FiauN^t, L'univ^reità degli etwdi e U collegio dei dotimi, in Anceina (• Artth. ttor. per lo Maroho o por V Umbria m h % Ìfl84), Por AtooU Pioa&o: Lun, /^*an»oer#ifÀ iU$ÌÌ ^ndt in A*colÌ Piceno (ualla 'Naova ri- vinta misaitt. IV, ÌÌ01). Par Oamorino: FiomitjfnLi, IMtfK ttwdf mtimrwiioH di Cammino e de' emoi foeti Utterari e poliiiti, Oameriao, IdSi Par Oataitia: 8AaoAi»iirt, Storia doemmentaia della wntv, di Catania, voi. I: V^niv, di CaÈamm wtei eeeoio XV, Oalaala. U^BS. Per Cremona: BAatoti, Lo etadio di Cromom^ (negH Ata dal cìwinf- " -* idi oramoiiaai . I, 3; ÌWè); Eoicavo, Un dae, eme- monete relativo mU'wn, halarimm (1392) (ili " Afoh. Bk»r. lomb. « XXni,

10, 1899). ^ Par Pérm f/mUperwità degli eludi di F^rmo, Notlaia etori*

ohe» Anoona, W&X Per Ferrara: Bón«irri, Idetoria almi Perrariaé Qfmf^ 9ii, pane I e 11, Fanmriaa, 17a^. La »TKn*\ Adv, (Gfutrini) Supplém, eie. dth f^mo, Veaatiii, 1742; Otraaixt (veramanta BarajEaldi), Ad Ftrrariae ffwmmm kiutofimm 9^pUmmntum H mmwtad^éreionei, Boaoniaa, 1740; Kamaainh Vmlmm mmmrmik di F^^^*^* OrÉL^nti& Ferrara, 186B; LmATt, SuUa mmivereaà d^ Mudi di Fer , Notimi atoriehe eulla urne. Hhera decli eludi di

Ferrara, ìh^ ..•* mniwesreità di F^rrarat Ferrara, ÌBÌ^; Borron,

> m%wi

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per altre discipline : la medicina, le lettere, e infine la teologia. Anzi, la medicina s'insegnò a Salerno prima ancora che il di- ritto a Bologna ; ma è un fatto isolato ; e ad ogni modo le scuole di diritto tennero sempre il campo, a segno che già nel se- colo XII, e più nel XTTT, non vi fu quasi città italiana di qual- che importanza, dove un professore di diritto romano non abbia^

Cinque secoli d*unif>er$iià a Ferrara (1391-1891), Bologna, 1892; Secco-Scaido, Lo ttudio di Ferrara a tutto il teeolo X V (negli ^ Atti della deputai, di storia patria,, VI, Ferrara, 1894). Per Firenze: Prezzinbb, Storia del pubblico ttudio e delle società scienti/iche e letterarie di Firenze, Firenze, 1810, voL 2; Moselli, negli Statuti della univ. e etudio fiorentino dell* anno 1387 pubblicati da A. Ghe

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fino a' di nostri da G. Celesia, parte II, Genova, 1867. Per Macerata: Ac- BI8PA, De initiis plurium Italiae aeademiarum et mcusime in nostra Piceni prt^ vtncia. Macerata^ 1778; Valenti, Memoria intorno l* università di Macerata, ivi 1868; FoQLiETTr, Cenni storici sull'università di Macerata, Macerata, 1878 e an- che negli Opuscoli di storia di diritto, ivi, 1886. Per Messina: Boìiako, G't statuti dell* antico studio messinese, Pisa, 1900, Per Modena: Campohi^ In/omua. della regia univ, di Modena, Modena, 186L cosi pure : Xotsmie storiche arca Cum. di Modena e il suo patrimonio, negli ** Opuscoli religiosi, letterari e mondi-, Modena, 1863; Vacca L., Cenno storico della regia univ. di Modena e delle t^ dipendenze, Modena, 1872. Per Mondovi: Grassi, Della università degli studi e della tipografia in Mondovi, Mondovi, 1806. Per Napoli (1224): Origua, Istoria dello studio di Napoli, Napoli, 1753^ voi. 2; Scalajiandrk, Istoria dd pubblico insegnamento del Reame di Napoli, Napoli, 1849; Aiello, DeWunivertUa degli stttdtdi Napoli da Federigo imperatore sino ai nostri tempi; fSrrTBMMni). Breve notizia della regia univ, di Napoli, 1873 ; WiirKELMAmr, Ueoer die erskn Staatsuniversitaten, Heidelberg, 1881; Capdamo, Notizie intorno alla origine y f^^ mozione e stato presente della regia Università di Napoli, Napoli, 1884. rei Orvieto: Fumi, Lo studio d' Orvieto (Nozze Fami-Brenoiaglia), Firenze 1870. - Per Padova (e. 1222): Riccobohi, De gumnasio patavino, Patavii, 1598; Tomasist, Qymnasium patavinum, Utini, 1654 ; Papadopolt, Hist, Qymnasii pataviniy Ve- netiig, 1726: Facciolati, De Oymnasio patavino sintagmata XII, Patavii, 1«<-; Lo stesso, F€ssti Gymnasii Patavini ab anno 1406 usque ad annum 1756, ^' tavii, 1777, voL 2; Colle, Storia scientifico-letteraria dello studio di Padova, F»- dova, 1824-25, voi. 4; Gkknabi G., Memoria sopra l*univ. di Padova, P^oj». 1881; Dalle Lastb, Brano storico postumo dello studio di Padova 1406'Wpf

del regio Istituto veneto „); Gloria, Documenti della regia università di P*^^l (1^2-1818), Venezia, 1884 ; Lo stesso. Monumenti della università di Padova l^l»: 1405), Padova, 1888^ voi. 2; Lo stesso, IpiU lauti onorari degli antichi P^J^^

di Padova, Padova, 1887; Lo stesso, I monumenti della università ai Podtt^* (1232-1318) difesi contro il padre E, Denifle, Padova, 1888; Lo stesso, H ^

r degli scolari detto Campione, Padova, 1889 (dagli •* Atti della regi» Ao^ Padova V, 4); Kaufmamm G. e J. Caro. Bine unbekannte Bedaetion der ^w-

.ouvTAj, ▼,•«;, A.AurMjLnfl vx. e o. \javuj, jinne unoeK€mnie JKeaacturn »»•.

^iton der Umversitat Padua (nel " Centralblatt fùr Bibliotekswesen heiV

1 Jan. 1892) ; Dbnifl^ Die Slatuten der Juristenuniversitàt Padua vom J^

IX, 1 Jan. 1892); Denipl^ Die Statuten der Juristenuniversitàt Padua fXf^^^^. 1231 (neir •* Arobiv fùr Literatur. n. Kirohengesch, des M. A. - VL 3 e 4, 18»'\ Brugi, Oli studenti tedeschi e la S. Inquisizione a Padova nella seconda metà da secolo XVL Nota (negli "Atti del regio Istituto veneto di scienze, lettere «a

goni e lo studio padovano nella prima metà del Cinquecento (nel Nuovo . veneto nuova serie 1, 1-3, 1901). Per Palermo: Sampolo, L* università diJ^U' termo e ti suo passato, Palermo, 1878; Lo stesso, I primi veniieinqìie anni delia regta univ. di Palermo, Letture, Palermo, 1886; Lo stesso, La regia Àocade^^

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almeno per un po' di tempo, tenuto cattedra. È stato un risve- glio addirittura fenomenale, che si ricollega nuovamente col ri- sorgimento dei nostri comuni. Perchè, se pure alcune di queste scuole vennero formandosi da sé, le magistrature cittadine non mancarono d' interessarsi anche troppo alla loro sorte, fino a mo- strarne gelosia; e gli stessi comuni ne fondarono parecchie, specie per lo studio della legge, spinti dal bisogno, che avevano,

degli dudi di Palermo, Narrazione storica, Palermo, 188a Vedi anche Cabiki, L'uni9erntà di Palermo neWtmno primo del eorrenU teeolo, Palermo, 1874. Per Parma: Pioozzi, Sopra un mter, inedito di itatuii del eolugio dei dottori dello etudio di Parma, Bologna, 1872 (daU* ** Aroh. ginr. . IX, 2) : Mabiottx G., Memorie e documenti per la etoria MV univereità di Pctrma nel medio evo, I, Parma, 1888.

Per Pavia: Gatti, Ojfmnemi ticinentia historia, Milano^ 1704: Samoiohoio, Cenni Uarid etUle due untvertità di P<ma e di Milano. Milano, 188l; (Gattaheo), Cenno etorico nUla regia nniv. di Pavia, ivi, 1873; uoriuldi, L'univereità di P<y- via, Diaoorso, Pavia, 1874: (Bb ah bill a), Memorie e documenti per la etoria del" runiverntà di Pavia e degli uomini ilUustri che vi insegnarono, Pavia, 1777-78; MoBiANi, Infiuenxa esercitata dalla univ. di Pavia negli studi della giurisprudènza. Discorso, Fa via, 1H91 ; HCbbib, Die Statuten der Juristen-Universitàt Pavia vom J. Ì3if(t, Luzem, 181)8. Per Perugia: Bufi. Memorie storishe della perugina università, Pem^ia, 1816; Padbllkiti. Contributo alla storia dello Studio di P«- rugia nei secoli AlVe XV, Bolo^a, 1872 (dall* ** Arch. giur. J; Bossr, Documenti per la storia dell' univ, di Perugia eolValbo dei professori aa ogni quarto di se- colo, fase. I: daUe origini al 1325, Perugia, 187& Per Piacenza: ToHom, Gli studi a Piacenza nel medio evo, Piacenza, 1890 (dalla ** Strenna Piacentina „). Per Pisa (1844): Fabbucci, Studi sull'università di Pisa e i suoi professori, nella ** Baccolta di opuscoli scientifici e filosofici , del Calogerà. tomi 21, 28, 25, 29^ 34, 87, 40, 43, 44, 46, 50^ 51, e neUa ** Nuova raccolta, tomi 6 e 8; Dal Bo eoo, Disseriazione sull'origine dell'univ. di Pisa. Pisa, 1765; Fabroni, Historia acca- demiae pisanae, Pisa, 1791-92-95, voi. 3* Micheli, Storia dell* univ, di Pisa dal 1737 altS59 in conlinuaz. dell' altra pubblicata da A. Fabroni, Pisa, 1877; D*Ah- coiTA, Documenti sulla univ, di Pisa nel secolo XV, Pisa, 1897. Per le Puglie: SCREMA, Di un'antica università di studi nelle Puglie (nella ** Bassegna pu^Uese di scienze e arti » I, 4, l^Hl). Per Boma (13 )8) : 6 ab affa. De Oymnasio ro- mtmo et de eins professor U>us ab urbe condita etd haec tempora, Boma, 1751; Be- vazzi, Storia dea* università di Soma detta comunemente La Sapienza, Éooul 18D5, ▼oL 4 ; MoBPUBtH), Boma e la Sapienza, Boma, 1879. Per Salerno : De Benzi, Storia docunìent€»la della scuola medica di Salerno. 2* ed., Napoli, 1857; Pocci- ■orri, Storia della iue<licina, I, Napoli, IHTyJ. Per Sassari: Tola, Notizie sto- riclìe della univ. degli stutli di Sassari, (ìenova, 1866. Per Siena: Caefelliei, Sulla origine nazionale e popolare delle università di studi in Italia, e par lieo- larmente dt-lla univ. di Siena, Siena, 1861 : Mori a mi, Xolizie sull'università dt Siena, Siena, 1873; Zokkaueb, Lo studio di Siena nel rinascimento, Milano, 1h94; Lo STESSO, DoruntcTiti per servire alla storia dello studio di Siena {1240-1789), I, Siena, lSl«ì (dal!** Unione univ.. Ili, 1-2). Per Torino: Sacli, StUla condi- sione de*jli studi nella monarchia di Savoia sino all'età di Ji^man. Filiberto, Le- zioni, Torino, 1843; Balbo P., Leziofie aeca€lemiea intomo alla storia della univ. di Torino (negli *" Atti della regia Accad. di Torino,, tomo XXIX): Vallauri, Storia delle università degli studi del Piemonte, Torino, 184.% voL 8 ; boNA, Della costituzione della univ. di Torino dalla sua fondazione (14n4) all'anno IH 48, Ho- rino, lH.'i-2, voi. 2; Sassi, V istrìtzione pubblica in Torino dal medio evo ai tempi nostri, con note e documenti, Torino, 1881; (tabotto, L'università in Piemonte prima di Eman, Filiberto (nel voL IV dell^opera ** Lo Stato sabaudo « Torino, 1*W): Buffivi, L' unitfersità di Torino, Projilo storico. Torino, 19i)0. Per Tre- viso: Mabcbeìae, L'università di Treviso nei secoli XIII e A IV, Treviso, 1H92.

Per Udine: Occioei-Bovaffons, La scuola di Instituta iuris fondala in Udine nel werolo XV, con 15 dooumenti ino<liti, Udine, l^M. Per Vercelli: Balliamo, Della universiià degli studi di Vercelli nel wiedio evo, Vercelli, 18<18; Baooioliei, Lo studio generale di Vercelli nel medio evo, Vercelli, 18HH; Couo, Intorno al traS" ferimento della unit^rsità di Padova a Vercelli, Padova, 181^2. Vedi anche le opere citate del Sauli e del Vallauri.

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di buoni giuristi, onde provvedere agli uffici e anche per la com- pilazione degli statuti.

Lo che non vuol dire che fossero tutte ugualmente impor- tanti. Speciali condizioni hanno giovato ad alcune, come hanno nociuto ad altre ; ma non è qui il luogo di esaminarle. Ci re- stringiamo solo a constatare il fatto, che mentre Salerno, Bo- logna, e anche Padova, riescono ad affermarsi stabilmente e si assicurano una fama addirittura mondiale, altre vivono, si pnò dire, la vita effimera d'un giorno, senza levare rumore intomo a se, onde è a mala pena se lo studioso riesce a scoprirne la •esistenza; e qualcuna, pur vantando una lettera di fondazione, non nasce nemmeno. Conviene tener presente però, che si trat- tava più che altro di una differenza di fatto delle une in con- fronto delle altre, e non di una differenza di diritto. In sulle prime, anzi per tutto un secolo, nulla v'era che giurìdicamente le distinguesse: fossero venute più o meno in fama, avessero saputo attirare maggiore o minor numero di scolari, fossero stati i loro diplomi più o meno riconosciuti: giuridicamente runa valeva l'altra, e si chiamavano tutte scuole o studi senza più, specialmente scuole ancora sulla fine del secolo XII e sul principio del XIII. La parola studio è già di data meno antica.

Più tardi, però, ci abbattiamo veramente in una distinzione. Nel secolo XIII, cioè a dire dopo che queste scuole con maggiore o minore fortuna già da tempo esistevano, si cominciarono a distia guere gli studi generali dagli speciali; ed è una distinzione che si riannoda appunto alla loro rispettiva importanza. Pro- priamente, è in alcuni statuti di Vercelli del 1233 e '34, che il nome compare per la prima volta; ma dopo pochi anni lo tro- viamo negli statuti degli artisti di Monpellieri (1242), finche diventa addirittura comune, così da sembrare quasi che non ci sieno altri studi all' infuori dei generali, tanto gli altri ne ri- mangono eclissati.

Ma che cosa stavano propriamente a rappresentare? La ri- cerca parrà tanto più importante in quanto che gli scrittori non sono d'accordo sulla loro natura; e lo stesso Denifle, la cui storia delle università segna certamente un progresso in con- fronto di altre opere precedenti, non ha, forse, còlto nel segno.

Partendo dall' idea che gli studi generali fossero originaria- mente istituti destinati agli scolari di un regno, allargatisi in

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seguito, il Denifle ne segue con amore lo svolgimento ; ma è certo che l'università di Napoli, ch'egli cita ad esempio, non fa al caso, perchè Federigo II, che ne fu il fondatore, l'aperse subito a tutti, anche agli stranieri ; soccorrono altri esempi che possano suffragare la sua idea. Ve n'ha invece che la contraddicono. Per lo meno, non sapremmo in verità come chiamare studi di regno quelli di Bologna, di Padova, di Vercelli ecc. Di qual re- gno? Pur elevandoli alle proporzioni di una scuola centrale, come anche li chiama il dotto uomo, essi ne escirebbero rimpiccioliti, non trattandosi di scuole di questo o quel paese, ma di tutti i paesi; almeno si atteggiavano a tali: in ciò si rivela il loro ca- rattere e la loro forza.

2. Gli studi generali erano, a nostro modo di vedere, scuole pubbliche (si chiamavano pure cosi) che tutti, anche gli stra- nieri, potevano frequentare liberamente, e ohe perciò godevano speciali privilegi. Questo ò il loro carattere originario. Più tardi vi si aggiungerà anche altro; ma allora, a costituire uno studio generale occorrerà qualcosa di più che per lo passato. Frattanto due cose erano ugualmente essenziali :

a) La prima, che lo studio fosse aperto a tutti. E già i due più antichi e maggiori studi, che conosciamo, quelli di Bolo- gna e di Parigi, erano tali: li frequentavano studenti d'ogni nazione, anche delle terre più lontane ; e questa rimase sempre una prerogativa degli studi generali, persino in tempi più avan- zati. Tale era anche lo studio di Napoli, e infine lo stesso De* uifle è costretto a riconoscerlo. Federigo II proclama già nel 1224 : Omnea igitur amodo qui stadere voluerint in aliqua facultate va- dant Neapolim; e più tardi si esprime anche più chiaramente. Kel 1226 cerca di sopprimere le scuole della Lombardia, specie quella di Bologna, e invita gli scolari a venire a Napoli. Lo stesso invito ripete nel 1234. Soltanto nel 1239 ne vuole esclusi gli Italiani delle città che non tenevano per lui; ma ciò ò per ragioni politiche, mentre d'altra parte vi ammette sempre gli scolari d'Oltralpe. Lo studio generale doveva essere veramente uno studio per tutti. altro risulta dal convegno del comune di Vercelli con gli scolari di Padova del 1228. Vi si parla di scolari italiani e anche d'Oltralpe: Provenzali, Francesi, Tede- schi; e il podestà di Vercelli doveva far bandire non solo per cicitates Italiae, ma anche alibi, che vi si era fondato uno studio.

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Nel medesimo senso si esprimono parecchie decretali di papi. Cosi, già Innocenzo IV, quando tra il 1244 e il 1246 fondò lo stadio della Curia romana, ricorda, che molti da diverse parti dd mando affluivano alla Santa Sede, e perciò aveva fondato uno studio per essi di teologia e di diritto canonico e civile; ma anche Alessandro lY si esprime allo stesso modo sul conto di Parigi; e cosi Clemente VI, Clemente VII, Urbano VI e altri, nelle lettere di fondazione di studi generali. Ma non basta.

b) Lo studio generale doveva inoltre essere uno studio pri- vilegiato; e sono privilegi d'imperatori e di papi, anche di principi territoriali e di comuni, che si moltiplicano quanto più si progredisce nei tempi. Accenniamo appena a quelli di Fe- derigo I per Bologna, che servirono poscia di modello a tanti altri, e a quelli di Luigi VII e Filippo Augusto per Parigi : l'esempio di questi due centri decise nuovamente per l'avvenire. Invece non era necessario che gli studi speciali fossero fomiti di pri- vilegi, e ad ogni modo, se pur li avevano, non era che in via eccezionale. Enrico di Susa nota espressamente, che i privilegi dovevano intendersi de studio generali e non de studio speciali alicuius castri vel ville. E già la prima bolla pontificia, che ci rimanga in favore di uno studio generale, glieli attribuisce. Vo- gliamo alludere a quella di Gregorio IX per Tolosa (1233): il papa l'uguaglia nei privilegi a quello di Parigi; ma anche In- nocenzo IV, quando fondò lo studio della Curia, non mancò di munirlo dei privilegi di cui godevano gli scolari in sckolis uhi generale regitur studium; e la formula si ripete poi in tutte le lettere di fondazione. Ricordiamo la esenzione dalle gabelle e da ogni rappresaglia, il salvacondotto i)er tutta la terra, e una giurisdizione propria e speciale.

Un altro privilegio è di data più recente.

Col tempo, le scuole si erano svolte a potenti corporazioni, che distribuivano titoli e diplomi d'indole generale, e si di- stinse anche più studio da studio. L' evoluzione corporativa po- teva dirsi già compiuta sulla fine del secolo XII ; e appunto in quel tempo, o giù di li, vediamo la licentia docendi convertirai in una licentia tibique docendi e diventare una nuova preroga- tiva degli studi generali- In feudo essa significava:

l"* che solo chi aveva frequentato uno studio generale pò- teva esaera ammesso alF esame e consegaire i gradi ;

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2^ che l'approvazione ottenuta in uno tli questi studi, do- veva valere per tutti.

E si tratta di cosa nuova. Per l'addietro, la licentia docendt aveva avuto, più che altro, un valore locale : aveva fatto fede soltanto, che il candidato era atto ad insegnare, ma non dap- pertutto; invece in questi tempi la cosa cambia, e d'altra parte è vero che la licentia ubique docendi era contenuta in germe- nel concetto stesso di uno studio generale. Frequentato, co- m'era, da studenti d'ogni paese, poco avrebbe giovato ad essi di conseguire quella licenza, qualora fosse stata ristretta alla città dello studio. l' interesse della Chiesa e dello Stato appariva diverso, stante il bisogno di trovare gente che insegnasse, il cosi i comuni: donde avrebbero preso i loro professori, se la licenza avesse dovuto valere solo per lo studio che l'aveva rilasciata? D'altra parte i dottori usciti dalle scuole di Parigi, di Bologna^ di Oxford, di Orleans, godevano già da tempo di una grande re- putazione, onde erano ambiti anche altrove. Gli esempì abbon- dano ed è inutile che vi insistiamo ; ma anche ciò doveva diffon- dere sempre più la persuasione che la licentia docendi avesse valore universale, quantunque non fosse dichiarato espressamente. Più tardi venne anche rilevato, e per primo da papa Gregorio IX nella sua bolla per Tolosa ; ma in fondo egli non faceva che consta- tare un fatto che era nella coscienza di tutti. Il che non si- gnifica che la cosa passasse senza qualche opposizione da parte degli studi i cui diplomi erano già ammessi per consuetudine. Tra le università italiane fu specialmente Bologna, a non rico- noscere per lungo tempo se non le proprie promozioni ; ma la stessa eccezione conferma la regola, e d'altronde anche Bologna insistè per ottenere che Nicolò lY accordasse formalmente ai dottori promossi nel suo studio di poter leggere e insegnare do- vunque. Certamente la facultas ubique docendi figura in quasi tutte le lettere di fondazione.

Invece non era assolutamente necessario che uno studio ge- nerale abbracciasse tutte le scienze : anzi, perfino le scuole più celebri si restrinsero a lungo a questa o quella disciplina sol- tanto. Salerno è una scuola di medicina, e anche Parigi e Bo- logna cominciano, una con la filosofia, l'altra col diritto. Se fosse vero, come si è sostenuto in addietro, che uno studio ge- nerale, per esser tale, dovesse comprendere tutto il patrimonio

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dello scibile, non si sarebbero avuti per lungo tempo che pochis- simi di questi studi. In ispecie la teologia ne fu esclusa fino alla seconda metà del secolo XIY, e soltanto Vercelli fa ecce- zione: la stessa Bologna non l'ebbe prima del 1360; e d'altra parte Parigi rimase senza cattedra di diritto civile dal 1219 fino al secolo XVII. E questo fatto non si verifica soltanto nei primi tempi. Dante stesso deplorava che tutto l'insegnamento uni- versitario si raccogliesse nelle leggi e nelle decretali. Nondi- meno già nel medio evo si avverte una tendenza abbastanza spic- cata di volere in uno studio rappresentate tutte le scienze lecite e quindi le leggi, le arti, la medicina, anche la teologia: le ille- cite erano per es. la magìa e l'astrologia, che andavano escluse. E forse il primo esempio venne da Napoli; certo è, che questo stu- dio figura in prima linea. Come fu concepito da Federigo II, do- veva comprendere le artes cuimcumque professionis, ossia tutte le discipline, che rappresentavano i vari rami del sapere ; e solo co- minciando dal 1231 la medicina non vi fii più insegnata, restando a Salerno, sua antica sede. Parimente Io studio generale di Ver- celli, quando venne istituito nel 1228, lo fu appunto con questo intendimento : vi si doveva insegnare la teologia, la legge civile e canonica, la medicina, la dialettica e la grapimatioa. Più tardi anche altri studi cercarono via via di completarsi ora con una disciplina, ora con un'altra; e anche parecchie lettere di papi parlano di uno studio generale in quavis licita fctcuUate. Cosi già la bolla di Gregorio IX per Tolosa ; ma anche altre.

3. Resta a vedere chi avesse il diritto di fondare uno stu- dio generale ; ma è una questione che non si può risolvere con un taglio netto, e bisogna distinguere i tempi.

Le cause che ne favorirono la costituzione non sono dapper- tutto le stesse. Parecchi sono probabilmente sorti da sé, senza bi- sogno di aiuti estrinseci, sulla base di vecchie scuole comunali o conventuali, o per emigrazioni da altri studi, favoriti dalla si- tuazione geografica della città, in una parola per effetto di cause storiche ; mentre alcuni abbisognarono, per costituirsi, di un editto imperiale o di una bolla papale, insomma di un atto di fondazione.

I primi precedono nel tempo, come quelli che risalgono al secolo XII o alla prima metà del XIII ; ma già nel secolo XTTT si distinguevano gli studi sorti ex consuetudine da quelli che

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esistevano ex privilegio. Ne fanno fede vari scrittori, come Jacopo d'Arena, Bartolo, Pietro d'Ancarano e Qiovanni d'An- drea. Gli studi generali nati in Italia per consuetudine, sono Salerno, Bologna, Seggio, Modena, Vicenza, Arezzo, Padova e Vercelli.

Le notizie, ohe abbiamo di Salerno e de' suoi medici, sono molto più antiche del secolo XI ; ma lo studio non venne in fama che allora. La poesia Flos medicine^ seholae Salemi è ap- punto di questi tempi, e ne risulta ch'esso era già organizzato. ci fu principe che se ne occupasse fino al 123L Fini però col diventare una università di Stato, quando Federigo II volle che i suoi ufficiali assistessero agli esami, e assoggettò la licenza per la pratica all'approvazione del governo.

Quanto a Bologna, ci proponiamo di parlarne più sotto con qualche ampiezza. Qui basterà solo osservare che fu propria- mente Imerio il quale, iniziando un nuovo metodo nello studio del Corpus juris^ valse a creare una scuola nel vero senso della parola, cioè una scuola durevole, che doveva eclissare in breve quelle di Roma e di Bavenna. Ciò avvenne sullo scorcio del mille e sul principio del secolo XII. Verso la metà di questo, il monaco Oraziano aveva già aperto nuovi orizzonti anche al diritto canonico. In quel tomo, Federigo I pubblicò l'Authen- tica Ilabita, con cui accordò agli scolari un amplissimo salva- condotto per tutto il paese, li esentò da ogni diritto di rap- presaglia e permise che potessero scegliersi a giudici i propri maestri: sicché non v'ha dubbio che la scuola ne trasse nuova forza ; ma essa risaliva a tempi anteriori ed era venuta in fama anche prima.

Non sappiamo propriamente quando lo studio di Reggio sia sorto ; ma esisteva già sullo scorcio del secolo XII, e ne fa fede un documento del 1188, in cui Jacopo da Mandra promette di venirvi per un anno cum acolaribus causa scolam tenendi e non insegnare altrove per tutto quel tempo.

Lo stesso dicasi di Modena. In quale anno ne sia stato isti- tuito lo studio si ignora ; ma appunto sulla fine del secolo XII Pillio, parlando di Modena, ricorda che juris alumnoe semper dili" gere consuevit, ed egli stesso accettò d' insegnarvi, onde lasciò Bo- logna.

Invece è probabile che Vicenza debba il suo studio ad una

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trasmigrazione da Bologna avvenuta nel 12044 non sappiamo se in causa di alcune improvvide leg^ del comune o per effetto di risse e discordie di scolari allora in gran numero. Checché ne sia di ciò, un documento dell'anno successivo ricorda ben quattro rettori : un magister Rdbertus de Anglia, un Ouilielmus de Cancelino de Provincia, un Guamerius de Alemannia e un Manfredus de Cremona, che ricevono in consegna una chiesa prò universitate scolarium.

E cosi Arezzo. Anche questo studio ci si fa innanzi sui pri- mordi del secolo XIII, e Eofiredo di Benevento, che vi teneva cattedra di gius civile nel 1215, attesta che vi si trovava post transmigraiionem Bononiae. È dunque un nuovo studio che deve la sua origine ad una delle solite trasmigrazioni di professori e scolari. Bisulta da Boncompagno che il papa aveva minacciato gli scolari di scomunica, se avessero continuato anche nel se- guente anno a prendere in affitto gli hospiiia della città; e qae> sto passo dev'essere stato suggerito da ragioni politiche. Forse si collega alla contesa che Innocenzo III ebbe con Ottone IT, re guelfo che faceva da ghibellino. Nessun cronista lo dice ; ma se il papa si adirò con Bologna, fino al punto da volerla privare dello studio, è probabile che anche Bologna, come Ez- zelino e Milano, e le città alleate di questa, si sieno dichiara- te per Ottone. Comunque, gli scolari lasciarono Bologna e si portarono ad Arezzo. la scuola in seguito cessò. Anzi gli statuti, che ne compilarono gli insegnanti nel 1255, fanno fede di una certa floridezza ; e sebbene non parlino che di gramma- tica, dialettica e medicina, teniamo per fermo che vi s' inse- gnasse anche il diritto : dei sette professori, che vengono nomi- nati, certamente Martino di Fano e Bonaguida di Arezzo erano giuristi. Che poi fosse uno studio generale, lo rileviamo da un diploma di Carlo IV del 1355, in cui V imperatore riconosce che Arezzo già antiquo era solita di avere uno studio generale e la potestà e autorità di creare dottori in gius civile e canonico £t qualibet alia facilitate. Ma sembra che nel frattempo sia de- caduto.

altre origini ha lo studio di Padova. Veramente già sulla fine del secolo XII qualcuno vi tenne cattedra. Appunto nel 1 191 Gerardo da Marostica, che poi fu vescovo, reggeva in leggi nella casa di un Martino de Goxo posta vicino alla cattedrale :

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ma lo stadio, propriamente detto^ deve, anch'esso, la sua origine ad una trasmigrazione di professori e scolari da Bologna. Al- cune cronache padovane attestano, ad una voce, che lo studio degli scolari fu nel 1222 trasferito da Bologna a Padova ; ma forse non si trattava di tutto lo studio : almeno giova supporre che un buon nucleo di scolari rimanesse tuttavia indietro, se nel 1224 ricorsero, e non era la prima volta, a papa Onorio III contro alcune leggi del comune che ledevano la libertà scolastica.

Comunque, lo studio di Padova fece rapidi progressi ed era già in pieno fiore nel 1228, quando parecchi scolari si trapian- tarono a Vercelli, cedendo alle lusinghe di questo comune. Si tratta di un formale contratto che i Vercellesi conohiusero coi rettori e capi degli scolari di Padova per otto anni, obbligandosi a mettere a loro disposizione cinquecento delle migliori case, prestare ad essi denari fino a diecimila lire a un dato interesse, e stipendiare quattordici professori. Cosi una nuova parziale tras- migrazione dette origine a un nuovo studio, che durò poi fin verso lo scorcio del trecento : alcuni statuti degli anni 1233 e '34 ricordano espressamente lo studio di Vercelli come uno studio generale.

Sicché ò indubitato : tutti cotesti studi sono sorti e si sono affermati frammezzo alla più ampia libertà scolastica indipen- dentemente da papi e da imperatori. I due grandi poteri della Cristianità non avevano ancora creduto d' ingerirsene, salvo per accordare qualche privilegio o accoglierne i reclami ; e non può dirsi che sieno stati i tempi più brutti delle nostre scuole. Gli stessi imperatori e papi hanno ambito di averle alleate. Ma già nel corso del secolo XIU un'altra idea s'è fatta largo. Dopo il dugento non nacquero più nuovi studi per forza propria ; e neppure l'autorità del comune bastò più a crearli. Alcune città ne fecero bensì il tentativo e non riescirono, perchò avrebbe bisognato che si appoggiassero al papa o all'imperatore: e nep- pure i privilegi bastavano senza che vi fosse una carta di fon- dazione. Cosi riescirono Siena, Ferrara, Macerata; ma non Todi, Brescia, nonostante che l' uno e l'altro si presentassero come studi generali. Sono tentativi, abortiti. le cose an- darono diversamente coi principi territoriali ; perchè, se pure alcuni di essi fondarono qualche studio, ne chiesero, o prima o dopo, il riconoscimento, o lo fecero per l' autorità ricevuta dal-

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l'imperatore. Galeazzo Visconti, nel dare uno di cotesti privilegi di studio generale a Piacenza (1398), afferma di concederlo in forza dell'antorità, che appunto come duca aveva ottenuto da re Yenceslao. Se più vuoisi, un principe avrebbe anche potato fondare uno studio nel suo Begno ; ma la sua autorità non era più sufficiente a che i gradi che vi si conferivano fossero ri* conosciuti altrove.

In questi tempi si rispettava ancora la longa consuetudo di alcuni studi, ma non se ne ammettevano fiekcilmente altri, che non avessero per so uno stromento di fondazione di imperatori o di papi. Riferiamo le parole di Jacopo d'Arena, giureconsulto che fiorì nella seconda metà del secolo XIII, tralasciando di citarne altri che su per giù si esprimono ugualmente. Jacopo d'Arena si propone questa domanda : " E che dunque, se una città non abbia cotesto privilegio dell' imperatore, che vi si possa inse- gnare il diritto, ma lo studio ne esista da tanto tempo da non esserci memoria delle sue origini?,, E ricorda Bologna e Pa- dova ; poi risponde : Licite potuerunt jura doceri ibidem^ cum ex tanti temporis patientia princeps remisisse prohibitionem suam et permÌ8Ì8se fingatur. . . Item talis consuetudo similis est privilegio et facit licitum sicut est privilegium. La stessa consuetudine, per quanto longeva, non ha effetto che per tacita acquiescenza dell'autorità sovrana; e infatti si conservano varie lettere di fon- dazione, d'imperatori e di papi, che parte riguardano studi nuovi, ohe si volevano creare, ma parte si riferiscono a studi di già esistenti, che pur nondimeno sentivano il bisogno di quel so- lenne riconoscimento.

Anzi col tempo alcune città, dopo aver ottenuto un privile- gio dal papa, ne chiedono uno all' imperatore ; e viceversa altre, dopo averne conseguito uno dall'imperatore, ne domandano un secondo al papa, tanto si era venuta radicando l'idea che alla fon- dazione di uno studio generale dovessero concorrere i due capi della Cristianità.

Ma forse si mirava più al papa che all'imperatore. Anzi i papi hanno preceduto, ed essi, come vedremo più sotto, avevano delle ragioni per tenervi maggiormente. L'esempio più antico è quello ricordato anche altre volte per Tolosa dell'anno 1233. E parimente ne abbiamo, nel medesimo secolo, in Italia, sia per lo studio di teologia e diritto della Curia romana (1244-45), sia

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per quello di diritto, arti e medicina di Piacenza (1248), che Innocenzo lY proclama stadio generale accordando ai professori e scolari, i qnali studiassero in quacumque facuUcUe in predicia et- vitate^ tutti i privilegi di Parigi, Bologna e altri studi generali. Ma in tutto quel secolo non s' incontrano diplomi d' imperatori ; e in fondo se ne contano pochi anche dei pontefici. Si scorge chiaro, che in sulle prime si procede con una certa cautela; ma, tra- scorso il secolo XIII, i diplomi spesseggiano. Ricordiamo le bolle pontificie per lo studio della città di Roma (1303), e per quelli di Perugia (1308 e 1318), Verona (1339), Pisa (1340), Fi- renze (1340), Orvieto (1377-78), Lucca (1387), Pavia (1389), Fer- rara (1391), Fermo (1398), nel trecento; altre due per Torino (1406, 1413) e una per Catania (1444) nel quattrocento; una per Macerata nel cinquecento (1540). E in questi tempi cominciano anche gli imperatori a incamminarsi per la stessa via, pur am- mettendo insieme una certa sorveglianza della Chiesa. Il pri- mo è Federigo il Bello, che fonda lo studio di Treviso (1318), e un po' più tardi segue Carlo IV, che dispeusa diplomi a destra e a manca: a Cividale del Friuli (1353), a Perugia (1355), ad Arezzo (1356), a Siena (1367), a Pavia (1361), a Firenze (1364), a Lucca (1309). Altri privilegi sono di Sigismondo per To- rino (1412) e di Federigo III per Arezzo (1460). E dal più al meno si somigliano tutti. Riconoscono il diritto di tenere uno studio generale in ambe le leggi, in medicina, in filosofia e in ogni altra lecita disciplina, con tutte le immunità di cui goflevano altri studi, e con facoltà di creare dottori; ma gene- ralmente incaricano il vescovo di regolare le promozioni e ac- cordare la licenza.

È una nuova fase degna di molta attenzione, e può iuteres* sare di conoscere le cause che possono averla determinata, tanto più che si ò ancora ben lungl^Ml^esseme in chiaro; ma gio- verà premettere un'osservazione.

4. ^ Si l'imperatore che il papa erano i capi della Cristia- nità, e nessuno aveva mai, o comunque, messo in dubbio che fosse loro compito di provvedere alle scuole superiori. Già gli antichi imperatori romani se n'erano occupati, e i nuovi ne avevano subito calcato le orme. Se tutta la coltura letteraria si rinnovò nel Regno de' Franchi lo si deve a Carlomagno: e di Lotario I si sa che neir826 istituì alcune scuole centrali in

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Italia, che gli scolari delle città vicine, e spesso anche quelli delle lontane, dovevano frequentare. Più tardi Federigo I s'era vivamente interessato agli studi, e se non altro li aveva fomiti di larghi privilegi che ne assicurarono l'esistenza. Nulla ostava che i nuovi Cesari ripigliassero le tradizioni antiche e preten- dessero addirittura di fondare essi, o almeno di riconoscere, que- sti studi. La loro ingerenza, per quanto nuova ed insolita, non avrebbe potuto dirsi destituita di base giuridica. E il papa? Come si avrebbe potuto contendergli il diritto d'intervenire, se era riconosciuto come il supremo moderatore delle cosoiensse, se tutto l'ordine morale si appuntava in lui, e se fra le discipline, che s'insegnavano, ve n'erano due, che più specialmente lo ri- guardavano: il gius canonico e la teologia? Inoltre scolari e co- muni sono troppe volte ricorsi alla sua mediazione, perchè non dovesse sorgere e mettere radici il convincimento che spettasse anche a lui di regolare le cose delio studio. queste sono idee nostre. San Tommaso ed Egidio Bomano lo dicono espres- samente. L'Aquinate osserva, che il compito dell'istruzione era di chi presedeva alla cosa pubblica, specie della Santa Sede, che reggeva la Chiesa universa, e a cui uno studio generale doveva far comodo. E anche Egidio Romano esprime press'a poco lo stesso concetto : ** il re deve esser sollecito perchè nel suo Re- gno fiorisca lo studio delle lettere e vi sieno molti uomini savi e industriosi, perchè dove vige la sapienssa e la fonte delle scrit- ture, è pur mestieri che anche il popolo ne riceva una qualche erudizione „. E conchiude : Im^ si dominaior regni non promo- veat studium et non velit sibi subdiios esse scientes, non est rex^ sed tyrannus.

D'altronde possiamo veramente addurre diversi esempi di nn intervento pontificio nelle cose dello studio ; ma fri specialmente la costituzione Omnem e il modo con cui venne interpretata, che diede ansa alle nuove idee.

Non indamo Giustiniano aveva ordinato che si potesse in- segnare il diritto nelle città regie e a Borito, ma in nessun altro luogo, che non ne avesse il privilegio dai maggiori. Nel risveglio degli studi romanistici tale costituzione non poteva passare inosservata neppure per questo riguardo ; tanto più che se ne potevano avvantaggiare gli studi antichi per combattere i naovi. E si è verificato il caso con Bologna, che non vedendo di

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buon ooohio aloani centri di stadio sorti di recente, si appi- gliò appunto a quella legge per combatterli. Infine, stando ad essa, non vi potevano essere che due vie per avere legittima- mente uno studio, cioè:

l'' l'essere città regia;

2"* l'avere ottenuto un privilegio imperiale.

Bologna si proclamò città regia^ ossia, come dicevano i suoi giuristi, una città fondista dall'imperatore, e a provare questa sua origine falsificò addirittura un documento : tutti gli altri studi istituiti in città di più umile origine, come Modena o Beggio, dovevano essere spuii. È l'opinione di Giovanni Bassiano, di Azone, di Odofredo, di Accursio: l'immunità non doveva spet- tare che ai dottori che insegnavano in una città regia, e tutti d'accordo escludevano Beggio e Modena per favorire Bologna: anzi l' insegnare in queste città costituiva un tradimento. Del resto anche altre si qualificarono come regie al momento di aprire uno studio.

Dall'altro canto non mancarono le opposizioni, e da parte degli stessi giuristi. Si osservò:

l*" che era una idea abbastanza gofia di voler estendere all'Italia del secolo XIII una costituzione emanata per un re- gno che più non esisteva;

2"^ che le cititaies regiae^ nel senso di Giustiniano, non erano le città di fondazione regia, ma le due capitali dell'Im- pero: Boma e Costantinopoli.

Piuttosto si sarebbe potuto sostenere che non dovessero es- serci scuole di diritto se non nei luoghi che ne avessero otte- nuto il privilegio dall'imperatore. E si arrivò cosi alla teoria dei privilegi, che richiamata a tempo, doveva spostare comple- tamente il centro di questi studi. Soltanto non si accettò la costituzione giustinianea nella sua integrità, bensì con la difie- renza, che dovesse valere non solo per le scuole di gius, ma per tutte; e che lo stesso diritto, che apparteneva all'imperatore, dovesse spettare anche al papa.

È una teoria che già nel secolo XIY poteva dirsi assodata, specie per Tappoggio di quei due grandi luminari della scienza, ohe furono Bartolo e Baldo.

Ma se tutto ciò vale a dimostrare che il diritto del papa e dell'imperatore, di fondare o riconoscere uno studio generale.

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aveva una base giuridica, non spiega ancora come sia avvenuto che proprio nel secolo XIIT e XIY abbiano dato opera ad eser- citarlo. Perchò appunto allora e non prima, e piuttosto nel secolo XIY che nel XIII? Noi pensiamo che ciò si colleghi a due fatti: da un lato al maggiore sviluppo preso dall'idea dello Sta- to ; dall'altro alla cresciuta importanza di quegli studi e ai nuovi pericoli che ne potevano derivare, specie per la Chiesa.

6. In fondo, l' intervento delle due grandi potestà del me- dio evo rappresenta la prima decisa e forte affermazione dello Stato, di fronte alle cose dell'istruzione universitaria; e biso- gnava di necessità che il potere pubblico si fosse affermato con qualche energia, perchò potesse riescire ad imporsi a quel modo. E forse giovò l'esempio di Federigo IL Certo, egli era andato innanzi : onde le sue istituzioni fanno epoca anche per questo ri- guardo. Lo abbiamo ricordato e lo ripetiamo : Napoli è la prima università di Stato, che vanti l'Italia (1224), e Federigo applicò in seguito lo stesso concetto anche a Salerno (1231), sia proi- bendo ai suoi sudditi di studiare altrove, sia controllandone gli esami, mentre nel tempo stesso faceva capire che si sarebbe gio- vato volentieri dell'opera degli studiosi. T università, quale la intese Federigo, ci fa meraviglia, perchò entra perfettamente nel suo programma politico. Ciò che ve lo spinse fu senza dub- bio l'interesse dello Stato, il grande ideale dello Svevo, che aveva compreso molto bene quanta forza pubblica risedesse nella istru- zione, e non credette di abbandonarla a se stessa : alludiamo alia istruzione in se, come scienza, e anche nelle sue relazioni, come istradamento e preparazione agli uffici. Ma intanto il suo esempio ha fruttato, determinando la nuova corrente d' idee, in cui dap- prima dovevano mettersi i papi e poi, come per consenso, anche gli imperatori. Certamente, nel tempo in cui Federigo fondò V u- niversità di Napoli, il diritto del papato e quello dell' imperatore erano tanto lungi dall'essersi affermati in danno del diritto co- mune, di creare uno studio generale, che anzi la prima bolla pontificia è posteriore di ben nove anni (1233) alla fondazione dello studio di Napoli ; mentre invece quasi contemporaneamente sorgevano quelli di Padova (1222) e di Vercelli (1228) per virtù propria, senza alcuna traccia d'ingerenza di papi o d'imperatori.

6. D'altra parte il nuovo indirizzo pareva corrispondere ad un bisogno reso necessario dallo svolgimento di queste scuole

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nel secolo XIII. Perchè, si noti bene, la prima volta che ci vien fatto di trovare una universitas, ossia una corporazione di scolari a Bologna, ò sulla fine del mille e cento, press' a poco nello stesso tempo in cui i magistri delle varie scienze si uni" rono in corporazione a Parigi ; e in quel medesimo torno si co- mincia ad attribuire alla licentia docendi quel carattere universa- le, che prima non aveva, convertendola in una licentia uòique docendi. Quei centri di studio si erano svolti a poco a poco a potenti corporazioni, che distribuivano diplomi di valore univer- sale: come si avrebbe potuto abbandonarli all'arbitrio di ogni piccolo comune? £ passi per quelli che già esistevano da tempo ; ma i nuovi?

Inoltre pullulavano qua e certe idee, fomentate appunto nelle scuole ; e pur non prevedendo dove avrebbero messo capo, poteva intanto metter conto di controllarle e imbavagliarle. I tempi che corsero da Innocenzo III a Lutero (1216-1517) sono tempi di dure prove per la Chiesa. Non che essa precipitasse re- pentinamente, né abbandonasse alcuna delle sue pretese : che anzi ne accampò di nuove; ma bensì i re. Torti della coscienza dei loro diritti e della indipendenza dei loro popoli, non erano più disposti a tollerarle. La Chiesa doveva sentire che l' impero del mondo stava per sfuggirle di mano : essa non era piCi il centro v^erso cui gravitasse la vita del popolo; veniva attaccata perfino nei suoi ripari, tanto che già cominciava a diffondersi, e si faceva sempre più imperiosa, l' idea che occorresse rinnovarla nel capo e nelle membra. La stessa coltura intellettuale aspirava a nuovi orizzonti, si apriva nuove vie, si diffondeva indipendentemente da essa, spesso in aperta opposizione con essa. Era il tempo di Averroè (f verso il 1217) e dell'Averroismo. I commenti di que- st'uomo all'opera di Aristotele hanno prodotto una vera rivoluzio- ne, sia diffondendo il culto del grande filosofo pagano, sia riem- piendo il mondo di idee panteistiche. E la Chiesa non potè non allarmarsene. Cercò più volte fin dal 1210, di proibirne gli scritti, ma che cosa poteva contro l'indirizzo dominante dello spirito?

E c'è di più. I tempi, di cui ci occupiamo, erano i tempi delle sètte e delle eresie. L'Hegel nella Filosofia della reU- gione ha osservato egregiamente, ohe le più grandi creazioni della Curia erano nate da pensieri e sentimenti entusiastici in diretta opposizione con la natura. Lo strappo era stato crudo ;

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ma gli entusiasmi un po' alla volta sbollirono e la natura volle riguadagnare il terreno perduto. Le grandi abnegazioni, fintto dell'entusiasmo, avevano fatto il loro tempo : il sorriso del cielo e la gaiezza della vita s'imposero, e gli stessi istituti della Chiesa vennero corrompendosi. La Chiesa le chiamò eresie, anche se tendevano a ricondurla alla primitiva semplicità del Vangelo; ma l'eresia si faceva largo dappertutto: aleggiava, si può dire, nell'aria; e fu mestieri, per (Struggerla, di ben terribili espe- dienti, tra cui una lunga e sanguinosa crociata ed una inquisizione ancora più terribile della guerra. Nel mezzogiorno della Francia il oattolicismo piantò il suo vessillo trionfante, ma sopra mucchi di cadaveri (1228). E nondimeno c'era un nemico anche più fo^ midabile. Dopo tutto, le eresie erano informate, dal più al meno, ad uno spirito d'intolleranza ed esagerazione ascetica, che le rendeva poco conciliabili con l'indole dei tempi, e ohe avrebbe finito presto o tardi col ruinarle; ma il progresso dello spìrito umano? Esso si fieiceva sentire in tutto, anche nelle regioni più intime del pensiero, nei moti più incoscienti della fiuitasìa e del sentimento, nelle forme più consuete dell'esistenza. Era una ricchezza ed esuberanza di vita e di idee da far parere ad- dirittura oppressiva la prima e pur benefica forma, che assunse la coltura nella Chiesa romana; una vita nuova che si emanci- pava dalla sostanza antica, o almeno richiedeva di muoversi più liberamente; una nuova civiltà che si svolgeva in base alla vita comunale e alla opposizione patarina contro la gerarchia, specialmente a Firenze, destinata a diventarne la sede e il cen- tro. Era una civiltà, che aveva già accettato molti elementi affini dell'antichità classica, si da potersi rivolgere nuovamente e tranquillamente ad essa.

Che se si volesse cacciare lo sguardo anche oltre al secolo, che per il momento c'interessa più da vicino, si vedrebbe che andiamo debitori a questa coltura, se già negli inizi del trecento l'opposizione contro la gerarchia, che fino allora era stata cosa degli imperatori, diventò un affare dei popoli. Bicordiamo le scene disgustose, che appunto in quel tempo passarono tra Bo- nifacio Yin e Filippo di Francia. Il papa aveva dichiarato eretico chiunque mettesse in dubbio che il re andava sogg®^^ in tutto alla Santa Sede, sia nelle cose ecclesiastiche sia nello temporali ; e il re, alla sua volta, dichiarò pazzo chiunque so-

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Btenesse o oredesse che il re di Francia fosse sottoposto ad al- cuno nelle cose temporali. Il popolo si schierò dalla parte del suo re, e quel giorno decise della dominazione universale della gerarchia : il modo di respingerne le usurpazioni non costituiva più un segreto per alcuno, e l'opinione pubblica, per bocca de' suoi migliori, stigmatizzò acerbamente la confusione dei due reggi- menti. Bicordiamo Johannes de Parrhisiis domenicano, morto nel 1304, Aegidius de Colonna, arcivescovo di Bourges, morto nel 1316, e Dante. Il divino poeta esclama nel Purgatorio:

Soleva Boma che il btion mondo feo

Duo ioli aver, che V una e V altra strada

IVscèn vtdér^ e del mondo a di Dto. L'un l'altro ha spento ; ed l giunta la epada

Ck)l pasturale; e Vuno e V altro insieme

Per viva forza mal convien che vada; Perocchl giunti Vun VaUro non teme.

Gli stessi Francescani adottarono e seguirono un tale indi- rizzo e trovarono, manco a dirlo, un appoggio nell'imperatore Lodovico ; poi seguirà il grande scisma, e verranno i concili di Costanza e di Basilea, che lo proclameranno e diffonderanno in tutta l'Europa mediana. A poco a poco vi si aggiungerà la sapienza greca; e si finirà col trascorrere agli estremi, perohò si vorrà addirittura cancellare ed abbattere tutto lo sviluppo storico che corse fra quei tempi e il Vangelo.

Per tornare alla nostra questione, da cui ci siamo dilungati ma che non abbiamo perso di vista, non deve fiir meraviglia che la Chiesa volgesse Io sguardo alle università e se ne occu- passe più che per l'addietro. Non erano esse i centri in cui si formava e da cui si sprigionava e diffondeva la coltura scien- tifica ? Federigo II aveva pur mostrato tutto il partito che se ne sarebbe potuto trarre in prò dello Stato ; e non solo : aveva fondato il suo nuovo studio di Napoli in contrapposizione a quello di Bologna, oramai guelfitk, vagheggiando nel pensiero una scienza più libera, non Inceppata dalle forme fisse e rigide della gerarchia. E d'altra parte anche la Chiesa aveva bisogno di scuole e se ne serviva ; lo avverte S. Tommaso : cui per gene- rale studium providetur. Perchè anche il papa non avrebbe ten- tato di fare lo stesso in vantaggio della Chiesa? Ed era in grado di farlo! Lo spirito della Chiesa^ manteneva ancora

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potente, quanto la filosofia, e poteva riuscire. Appunto in questi tempi essa aveva combattuto e screditato l'insegnamento del diritto romano, fino a proclamare che servisse alla perdizione delle anime ; non si poteva supporre che avrebbe lasciata libera la scienza la quale tendeva ad emanciparsi. La Chiesa pensò ai casi propri, e questa è la ragione per cui già nel secolo XIII, e più nel XIY, si arrogò il diritto di fondare o riconoscere gli stadi generali e si fece a sorvegliarne gli esami. Una considerazione, che non ci pare priva d' importanza, si ò, ohe tutti i papi, nel- l'accordare i loro privilegi, insistono sul fatto che i postulanti sono gente devota alla Chiesa : parlano della eximia fidei pu- ritas ad S, Romanam Ecclesiam, e perciò li concedono.

la Chiesa errò nei suoi calcoli.

Certo, le università del medio evo, anche nei giorni più belli della loro esistenza, non avrebbero retto al confronto con le nostre. Già il Denifle osservò, che uno dei difetti principali del sistema scolastico d'allora era, che nessuno aveva pensato a coordinarlo con gli istituti inferiori, e quasi si potrebbe dire che non esistessero scuole le quali fossero di preparazione airunirer- sita. Insomma l'tiniversità medievale era ancora bambina, e non poteva non essere imperfetta ; e d'altra parte anche gli studi d'al- lora si presentavano come.luminosi centri di coltura, forse più che al presente, iniziatori di nuovi indirizzi, che diramarono e diffu- sero per ogni dove. Ricordiamo appena che la nostra coltura giuridica si fonda su quella di Bologna ; ma forse l'esempio pn splendido ci è porto dalla filosofia scolastica, che, svoltasi m Francia, generò le dottrine di Wykliffó (1324-84) a Oxford e i torbidi di Hus a Praga. Ma in questi tempi ? dopo che i papi si erano arrogati il diritto di fondare università, i cui diplomi avessero valore generale, ed essi stessi avevano voluto sorve- gliarne il conferimento col mezzo dei loro arcidiaconi e ve- scovi ? . . . Lo diremo in due parole : le nuove università mo- strarono tutta la propria riconoscenza verso la Chiesa, adagiandosi tranquille sulle vecchie tradizioni, riluttanti al soffio della scienza nuova; e per tutta testimonianza ricorderemo un frate france- scano, che meritò di essere soprannominato Doctor mirabilis^ uomo di coltura veramente universale, morto nel 1294. Il suo ideale sarebbe stato quello di una scienza diretta e sorvegliata dalla Chiesa, coltivata dal clero, che abbracciasse le cose divine ed

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umane, visibili ed invisibili; ma mancavano gli uomini per que- sta scienza, il connubio avrebbe potuto farsi per la contrad- dizione che noi consentiva. IU>ggero Bacone, parlando della giurisprudenza degli Italiani, si lagnava perchè ^ erano ben qua- rant'anni che distruggeva lo studio della sapienza ; e parlando della scolastica, deplorava che fosse " vuota di contenuto ^ ? ®) come anticipando i tempi, cacciava lo sguardo a fondo, tentando e sperimentando, nei misteri della natura, la gran madre, la cui azione benefica scorgeva dappertutto.

§ 2. - ORIGINE DELLO STUDIO DI BOLOGNA. «*

1. La ragione, per cui ci occupiamo particolarmente delle origini dello studio di Bologna, è presto detta: tra i nuovi e grandi centri di studi giuridici è appunto Bologna che primeg- gia. Ma non avremo a dilungarci troppo; perchè la cosa si ò fatta in modo abbastanza semplice. Anche lo studio bolognese è venuto formandosi a poco a poco sulla base di quei medesimi elementi, che erano concorsi a formare quello di Pavia; vogliamo alludere alla scuola di grammatica e al collegio dei giudici.

'" Bibliografia. Sarti, De clarU Archigtjmnasii BononiensUprofesaoribus a acteculo XI tuqtie ad atteculum XIV: tomi I, pars I, Bononìae, 1769 ; tomi I, pars II, ib. 1772. Nuova ediz. curata da G. Albicìni e 0. Mala^ola, 2 vulL Bologna^ 1880, 1896. Mazzetti, Memorie storiche aopra l^univeraiià e V istituto delle scienze d% Bologna, Bologna, Ì840. Zachabià di Lingenthal, Il diritto romano nella bassa Italia e la scuola giuridica di Bologna (nei **■ Bendioonti del regio istituto lomb. ^ serie IL voi. XYIir, fase. 18, 1885). Gassant, Lo studio di Bologna e i suoi fon- datori, Bologna, 1885. Lo stesso, Dell'antico studio di Bologna e sua origine, Bologna, 1^8. Forkasini, Lo studio bolognese (nella " Bassegna nazionale XXXTT, 1886 e XXXIV, 1887). Sicci 0., I primordi dello studio di Bologna (nel- r** Annuario deirUniv. 1887), 2^ ediz., Bologna, 1888. Malaoola, Monografie storiche siUlo studio bolognese, Bologna, 1883. Ghiappellt, Lo studio bolognese nelle sue origini e nei suoi rapporti con la scienza preimeriana, Pistoia, 1^. Nani^ Lo studio bolognese nelle sue origini di L, Chtam^elli, Torino, 1838 (dagli ** Atti della regia Acoad. delle scienze,,). Fittino, D%e Anfànge der Bechtsschule zu Bologna, Berlin, 1888. Lgonhabd, Die Universitdt Bologna im M, A,, Vortrag, Leipzig, 1888. Globia, Autografo^ d*Imerio e origine della università di Bologna, Padova. 1888. Albicìni, Le origini dello studio di Bologna (negli " Atti e Me- morie della Deputaz. di storia patria delle Boma^ne serie III, voi. YI» 1888). BiviEB, L*universilè de Bologne et la première renaissance juridique (nella ''Nou- veUe Bevue histor. XII, 188B). Gabducci, Lo studio bolognese. Discorso, 2* ed. aumentata, Bologna, 1889. Dallabi. / rotiUi dei lettori, legisti e eartisti dello studio bolognese dal 1384 al 1799, Bologna, 1888-89-9L voi. 8; Tamassia, Bologna eU scuole im^riali di diritto (nelP " Aroh. giur. « XL, 1888). Schupper, Le ori- gini della Univ, di Bologna (nelle ^ Memorie della claisse di scienze morali del- TAcoad. dei Lincei ^ voi. VI, parte I, 1889). Lo stesso, Polemica biztmtina, A

Proposito di uno scritto di Q. Tamassia suUo ^ studio di Bolognai Boma, 1888. lO stesso. Studi critici su recenti pubblicazioni intomo allo studio di Bologna (neUa **Bi vista storica italiana,, Torino, 1889). Lo stesso. Le università e U diritto, Conferenza, neiropera: Qli albori delia vita italiana, voi. Ili: Scienza

T^^^l*^»'

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Bologna aveva da pareccliio tempo la sua scuola di gramma- tica e di rettorica : anzi è da credere che già sullo scorcio del secolo X e sul principiare dell' XI fosse salita in feuna, perchè ti accorrevano scolari anche da altre parti d'Italia. San Guido, che poi fu vescovo d'Aqui, vi si recò sul principiare del secolo XI, e cosi San Bruno, vescovo di Segni, nella seconda metà. E la scuola continua anche in seguito frequentatissima. Insieme si no- tavano molti giudici e causidici e dottori di leggi, prima ancoraché si costituisse la scuola di diritto; e potremmo citarne parecchi. Ciò ohe più importa si ò di vedere come costoro fossero venuti su in quella scuola di grammatica. Lo stesso Imerio aveva pri- ma insegnato in artibus^ e fu soltanto più tardi ohe cominciò a studiare nei libri legali e ad insegnare in essi. Un altro indizio non disprezzabile degli studi e della coltura di questi giuristi, ò il vedere come amassero talvolta di dare la stura alla loro vena poetica, e chiudessero i loro atti con qualche verso latino, che Dio misericordioso avrà loro perdonato. Un Angelo caiwt- dicus compie nel 1116 un atto di donazione e finisce cosi:

** Angelus his meiris eausidicus ista peregi Notarii signo tiLòseribens more benigno „.

Ora, noi pensiamo che questi giudici e dottori bolognesi, die nella scuola di grammatica avevano, insieme ad altro, studiato anche il diritto, cominciassero alla loro volta, come avevano fatto quelli di Pavia, a tenere scuola di legge. la cosa è sfiig- gita a Odofredo, il quale, parlando di Popone, dice appunto: cepit auctoritate sua legere in legihus. importa se l'insegna- mento sarà stato in sulle prime saltuario. Oggi era Popone, do- mani Imerio : leggevano come e quando a loro talentava, e gli scolari ne continuavano l'opera. Cosi veniva a stabilirsi una

lettere ed arti, Milano, 1891). Lakdsbbbo, Di una recente ptMlieamone dt 0. Tamatsia tulio 9tudio di Bologna, Bozna, 1889. GAUDBSsr, Appunti per «^'* alla storia della univ. di Bologna e de* suoi maestri, fase. I, JBologna, 1889 (dAl periodico L' Università), Lo stesso, Lo studio di Bologna nei prtmi due seeùii della sua esistenza. Discorso, Bologna, 1901. Oa.yasza, Le scuole deWantieo i^*^ di Bologna, Biilano, 1896. Aldoyrajtdi, Commentario alle lettere di uno studenU tedesco in Bologna (Cristoforo Krees, 155&-1560) (neU"* Azohiyio della soo. roOL di storia patria « serie III, voL XI Y, 1-8, 189Q. Fatbtta, La scuola giuridico co- sttmtinopolitana del secolo XI e la scuola di Bologna (nel volarne di " Studi di 0^^;* del dir. ital. dedicati a F. Schnpfer j, Torino, 1896). Solmi, Il rinascimento dMut sdensa giuridica e r origine della università nel medio evo. Prolnsione, Mila^^ 1900 (dal " Filangieri XXV, 4).

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tradizione soientifioa, e la tradizione vuol già significare scuola ; solo più tardi vi si aggiungerà una speciale organizzazione.

2. Comnnquei sta il fatto che la scuola di Bologna eclissò* in breve tutte le altre. Ciò avvenne per varie cause ; e alcune affatto estrinseche.

Certamente, molto si deve alla giacitura della città. Infatti, già nel medio evo, Bologna era un grande centro del commercio- mondiale. Situata nel mezzo di quattro provinole : la Lombar- dia, la Marca Veronese, la Romagna e la Tuscia, è facile com- prendere come dovesse presto esercitare una grande attrazione» per le industrie e i traffici d'ogni specie, e rendere la vita co- moda ed agiata. Era una delle città rioche e fiorenti, onde si chiamava la grassa ; e, specialmente i giovani, dovevano trovar- visi assai bene. Anche il poeta anonimo, che cantò le gesta di Federigo I, quando arriva a parlare degli scolari di Bologna» non manca di avvertir ciò. L'imperatore li interroga perchè la. preferiscono ad altre città, e uno di essi risponde:

**.... Aanc ttrram eoUmus, rex magne, rtftriam Rtbiu ad ìUendum muUumqut ItgtniibUB aptam „•

La cronaca del prevosto Burcardo di TJrsperg accenna alla^ influenza esercitata dalla contessa Matilde. Perchè sarebbe stata essa che avrebbe eccitato Imerio ad insegnare; ma, se pur è vero, pensiamo che le ragioni scientifiche non fossero le sole ad essere in giuoco. Nelle sua grande devozione per Gregorio YII,. la contessa non poteva vedere di buon occhio i giuristi della scuola di Ravenna, che fino allora erano stati adoperati nei giu- dizi della Tuscia, dacché quella città era diventata la sede e il centro della opposizione contro le tendenze papali. Cosi sareb- besi rivolta a Bologna: soltanto non avrebbe fieitto bene i suoi conti ; perchà lo stesso Irnerio finì con Tessere attratto nell'orbita imperiale.

Insieme giovò a Bologna la larga protezione che Federigo Barbarossa accordò allo studio fino da' suoi primordi; e anch'essa era una protezione tutta politica, perchè in realtà l' imperatore vi aveva trovato un forte alleato, che non poteva non accarezzare. Correvano allora tempi molto seri per l'Impero: tempi di lotte gigantesche, che minacciavano di travolgerne la sacra maestà romana. Da un lato la Chiesa, che gli si voleva imporre col

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suo credo teologico ; dall'altro i comuni lombardi che ne ave- vano usurpato, uno dopo l'altro, i diritti, e, por rispettandone li maestà ideale, miravano a ridurla veramente ad una mera ombn o parvenza di potere. Erano momenti difficili; e l'imperatore non poteva trovare un miglior aiuto che nella lettera del di- ritto romano, come l'aveva inteso Giustiniano e come dopo tanti secoli l'intendevano nuovamente i dottori di Bologna. Ora, ci teniamo a dichiararlo : noi odiamo la lettera morta, la lettera che vuole imporsi alla vita e non corrisponde a nessuna realtà di essa; ma comprendiamo come un imperatore del medio evo. che si vantava continuatore dell'antico Impero, e credeva se- riamente ch'esso non avesse cambiato mai d'autorità ne di forme, potesse appigliarsi alla lettera morta della legge, che gli dava ragione, senza curarsi della vita, che si era tutta rinnovel- lata intorno a lui, e che gli dava torto. Cosi Bologna ottenne un largo privilegio da Federigo : che, cioè, nessuno dovesse quinci innanzi frapporre ostacoli a coloro che si dedicavano agli stu- di, sia che stessero o partissero o tornassero, e specialmente che non si dovesse costringerli, come si era fatto per il passato, a pa- gare pei loro compaesani, se non vi erano per nulla tenati L'imperatore pregò anche i cittadini di onorare gii scolari, e serbare intatti i doveri dell'ospitalità, senza frode.

Bologna stessa fini col prendere parte alle grandi lotte de! secolo, e questa fu pure una causa, non ultima, che Taintò a salire. La contesa tra il Sacerdozio e l'Impero si è agitata ap- punto a Bologna nel campo scientifico» prima ancora di passare nuovamente in quello delle armi, per chiudersi con la vittori di Legnano e con le paci di Venezia e di Costanza. Già sul principio del secolo XII la lotta scientifico-giuridica si combat- teva a Bologna in nome del diritto romano da un lato, del di- ritto canonico dall'altro, invocati entrambi ed applicati arisol* vere questioni, che veramente avrebbero dovuto rimanere estra- nee all'uno e all'altro. Un gruppo di legisperiti, capitanati à Imerio, ha discusso nel 1118 a Boma sull'elezione del pap* ^ favorito lo scisma. Nel 1158 troviamo i suoi discepoli invitftU da Federigo Barbarossa a Boncaglia, e di nuovo ne sostengono i diritti. Dalla parte opposta c'era Graziano, c*era il Bandinelli. l'amico di S. Bernardo, l'austero abate, c'era tutta una folla di canonisti, che, forti della grazia divina e dell'autorità delle l^SS^

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ecclesiastiche, si fecero ad osteggiare i civilisti. Cosi la scuola si mischiava alle dispute del secolo; e, per un momento, gli sguardi dei migliori e sommi ingegni si fissarono su Bologna, la grande lottatrice.

3. Una nuova causa, e questa volta tutta intriseca, del suo splendore, sta nel rinnovato studio del diritto romano, e nel nuovo indirizzo ch'esso venne acquistando per opera dei Bolo- gnesi. Vorremmo anzi dire che ne fosse la causa precipua; e certamente noi ci troviamo di fronte a una vera e propria rin- novazione. Gli studi del diritto romano destavano nel secolo XI un grande interesse, più ancora che nei secoli precedenti. Era un diritto che, per effetto di circostanze diverse, tendeva ad as- surgere alla dignità di una legge comune in Italia e fuori. E, per il momento, si trattava di una semplice restaurazione, che s' imponeva a tutto e dappertutto, anche a scapito delle con- dizioni reali del paese. Le quali certamente non mancheranno più tardi di reagire ; ma nel frattempo dovevano piegare la te- sta. Il diritto romano trionfava, e propriamente il diritto romaiio puro, quale era uscito dalla officina di Giustiniano ! I giuristi non vedevano che questo, dimentichi di ciò che lo stesso Giustiniano aveva ammonito : Humani juris conditio semper in infinitum de- currit, et nihil est in ea quod stare perpetuo possit ; multas enim formas edere ncUura nova deproperat. Specie gli imperatori favo- rivano cotesta risurrezione pei loro fini ; e si comprende di leggieri che una scuola, la quale si fosse fatta a studiare la legge con que- sto intendimento, avrebbe avuto la palma e fatto oscurare i vanti di tutte le altre. Si aggiunge che Irnerio iniziò addirittura un nuovo metodo, che doveva esercitare una singolare attrattiva 8ugli scolari di paesi diversi, anche lontani, che, avidi di sapere, accorrevano a Bologna, rendendo, alla loro volta, necessario un maggior numero di maestri ; mentre le dispute, a cui quel me- todo faceva luogo, impedivano che la ricerca illanguidisse e la scuola decadesd^. Cosi venne formandosi in breve Topinione che, volendo studiare diritto, bisognasse studiarlo a Bologna. Una lettera di Pietro di Blois vi accenna espressamente. Bologna stessa, mercè il suo studio, si meritò presto il soprannome di doHa.

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Capo IL La scienza del diritto.

§1.-1 GLOSSATORI.** A. Fiore e decadenza della scuola. Sua attività.

1. La scuola dei glossatori è la scuola di Bologna, che dura rigogliosa circa centocinquant'anni. U primo, di coi s: faccia parola, è Popone; e, quantunque Odofredo sentenzi che nullius nominis fuit, dev'essere venuto in qualche fisima, se ne! 1076 lo troviamo in un placito della duchessa Beatrice; e si avverta che appunto la carta, che vi si riferisce, rivela molte cognizioni di diritto, più che non facciano altre contempoFanee.

** Bibliografia. Diployataccius. Be prauUmtia dodorum. Open tut- tora inedita e forse perduta. Il libro IX, che si conserva in gran pute, ^^ 4ella vita e delle opere di tutti i legislatori e turisti conosoiatL II Pescatole ne ha cominciato la nubblicazione col titolo: Tìionute DiplovatH Qpjude^ae- stantia doelorum, 1: Proemium, lusiinianus, laidorti» HispcU., ^oearnw, Berlic. 1890^ e cosi il Palmieri, Bologna, 1894, finora due fascicoli (cfr. a popoato i quest'opera Zdekaubr, Un erudito eornato del cinquecento, nella Cultura, naori serie, anno I, 1891, n. 83, p. 826 segg.). Pahciboi.1, De cìaris leaum iuterprmo** Librt IV, Venetiìs, 1687. Fabbbucci, F abboni e Sakti, opere cit. nelle due no» precedenti. Tibaboschi, Storia della letteratura italiana e anche BibUoteea uùdt neee, Modena. 1781-86; yoL 6. Fahtuzzi, Notiatie deaU ecrittori bolognesi, Bologi:^ 1781-94, Yol. 9. GinBTQOAHr, Memorie storiche degli scrittori legati del Be^w, ' Nanoli, NapoU. 1787-88, voL 8. Haubold, Inalituliones iuris romani litterarta^ I, làjpsiae, 1809. 'Kuao,Lehrbuch der civitistischen LiteràrgescKiehle, BarìÌJ^ ^-^ 9* edia., 1890. Bibmbb F., Historia auihenticarum Codici r. p, et InttituttaMSj lustiniani adinsertarum, Lipsiae, 1807. Lo stesso, Geschichte der Nooellei^ ii/f^ nians, BerUn, 1824. Sayiont, Qesch. des Bihn. Mechts im M. A., tomi pi, I>.t V, traduE. di Bollati, tomi I e IX Bbbbiat-Saint-Peiz, Histoire du droit rome»^ Paris, 1821. Flauti, Memorie intomo ad cdcuni nocfrt sommi giureconsuìi^ <i( XIII secolo, Napoli, 188a Lebminibb, Introduction generale h V histoire dudro^ ^ edÌE., Paris, 1835, tradus. itaL di B. Poli; Mantova, 18&4. Hsimbach 6. ^ Auihenticum, Novellarum conUitutionum lustxniani versio vulgata, Lipsise, l^^ voi. 2. Leféubf, Des légistes et de leur injluence au XII et XIII «ècfo, JPana, l^^ Coquille, Les légistes, leur injluence polttique et religieuse, ParÌB| 1863. ^ Bodikki* Les grands jurisconsultes. Toulouse, 1874. Bbthmamh-Hollwbo, Der Cimlp^?'^ des gem. Rechts, VI, 1, Bonn, 1874. Buovamici, Della scuola pisana ^j^*^ romano nella università di Pisa dalla sua origine all'anno 1870, Pisa, IS^-L ^. stesso, / giureconsulti di Pisa al tempo della scuola bolognese, Boma, 18S8 (<ugu Studi giur. e stor. ^ pubblicati i)er T VIII centenario di Bologna). l«o stìs». Sulla storia del manoscritto Pisano dette Pandette, Bologna» 1^ (dall' ''A^P giur. Yol. XLVI). Lo stesso, Di una opinione del prof. Paletta intorno a**^ storia del ms. fiorentino dette PandetU, Modena, 1896 (daU*« Aixsh. gian%^^; nuova serie II, 2). Sgheubl, Zur G^esch. der PandektenOberUeferung nella ^^^' Bchr. fùr Bechts/^:. XII, p. 143 segg. Babdoux, Les légides, leur infiueneet^ la société frtM^tse,'PskTÌ3f 1877. Bbuoi, I fasti aurei del diritto romamot^r^ 1879. Lo STESSO, Disegno di una storia letteraria del diritto rom. '^'."'^^fj^ ai tempi nostri, Padova, 1888. Lo stesso, Alcune osservamoni sul periodo mo^ dei post-glossatori in Italia, Bologna, 1881 (dall' "Arch. giù». XXVI, 5). 1^

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Pepone ha preceduto Imerio. Ma possediamo anche altri in- dizi di una scienza preimeriana; soltanto non si fanno nomi; ed è a mala pena se quello di Pepone, più fortunato degli altri, abbia potuto salvarsi. Subito dopo è nominato Imerio, giudice anch'esso, che, oltre ad insegnare a Bologna, figura più volte nei placiti matildini e imperiali| e in altre carte dal 1113 al 1126.

8TCS80| Un elenco dei giureeontulti eiomet in un antico manoeer. della biblioleca tinto, di Padova, Padova, 1877 (dagli * Atti della regia Aooad. di Padova «). Macoaferri, Vari melodi ueati neW ineegnamento del diritto neU*unÌver$iià di Bo- logna dai giocatori della ew» eeuola (nell' * Imerio « , voL I, Bologna, 1865). Landsbbro, Ueber die £nt$lehung der Begel : Quiequid non agnoteit gloeea nee agno- eeit forum, Bonn. 1879. Lo stesso, Di una recente pfMlieaeione di O. Tamaeaia auUo etudio di Bologna, Boma| 1889. ^ Gapuaho, Storia ciet «letoct» eeguiti nella tratta- mione scritta ed orale del diritto privato dei Bomtmi dal tempo dell* Irnerio fino ai nostri giorni^ Napoli, 1880. Ohiappblli L.^ Note eopra alcuni rapporti fra il Liber jnrie fiorenttnue e il Brachulofui iuria civUis (^ Arch. giur. , XXX, 18b0). Lo stbs- 8o, La gloeea pistoiese al Codice giustinianeo con una introdosìone, Torino, 1856 (nelle 'Mem. dell^Aooad. di Torino, serie III, tomo XXXVII). Lo stbsso. Nuovo es€»me del mscr. pistoiese del Codice giustinianeo, Boma, 1885 (negli ^Stndl e documenti di storia e diritto^ VI). Lo stbsso, Lo studio bolognese oit nella nota G2. Lo strsbo. Nota per V interpretazione delle siale dei glossatori (" Aroh. gior. M XLIV, 1890). Lo stisso, Hechcrches sur Vétal ies étudss du droit romain en Toscane au XI siede, Paris, 1886 (dalla ** Nonv. Bevae histor. da droit fran^. et ótranger^). Lo stbhso, Per la storia delle fonti e della letteratura giuridica nel medio evo. Note critiche, Boma, 1901 (dalla 'Biv. intem&s. di scienze soeiali .). Taxassia, Bologna e le scuole imperiali di diritto (* Aroh. ^ur.^ XL, 1888). Lo STESSO, Per la storia dell* Autentico, Venezia, 1898 (dafli ** Atti del regio Istituto veneto n serie VII, tomo IX). Fittino, Die Anf&nge akr Bechtsschule mu Bologna, Berlin, 1HH8. Scuoppbb, Le orioini deU*univ. di Bologna (nelle ** Memorie del- TAoc. del Lincei « Classe di scienze morali, voi. VL parte I, 1889). Lo vrisso^ Polemica bisantina, A proposito di uno scrìtto di (t. Tamassia sullo studio di Bologna, Boms, 1888. Lo stesso. Le università e il diritto. Conferenza (nel- Topera '^Gli albori della vita italiana ^ voi. HI, Milano. 1H91). D'Ablaino, Sulle sigle dei glosscUori (nel «'Het Bechtsffeleerd Ma^azjin,, 1888). Cooliolo, Glosse preaccurs%aiwt, Boma, 18H8 (nel * Buliettino dell'istituto stor. italiano «). Lozzi, La scuola di gius romano nei primordi dello studio di Bologna, Torino, 1888 (dalla ** Giurisprudenza italiana ,). Maivtia V., Su V imitatione bizantina negli scritti dei glossatori, Boma, Id^ (dalla * Bi vista ital. per le scienze giuridiche n. Vili, 1). Gaudenti, Appunti prr servire alla storia dell univ. di Bologna e de* suoi macstrt, fase. I, Bologna| 1^ (nel ]>eriodioo ** L'università «). Patetta, Di un moncK scritto dei dicesti con glosae pre<»ecursiane e frammenti delle Dissensiones Domi- norum. Notizia, Boma, 1890 (dalla/ Bi vista ital. per le scienze ^uridiche ^ IX). Lo stesso, SuU* introdueione ael Digesto a Bologna e sulla divistone bolognese in quattro parti (nella ** Bi vista ital. per le scienze Mundio he ^ XIV. 1, 18112). Lo stesso, Per una critica del prof, F. Buonamiei, Torino, 1808 (dagli ** Studi se- nesi n XV, 4-5). BiccABDij II movimento delle idee politico-religiose in Italia e in Francia e l* insegnamento giuridico scientifico in Parigi al princijno del secolo XIII, Lodi, IHO*). ZoEKACBB, Libri legali a Padova nella prima metà del secolo XIII, Siena, 1H90 (dagli ** Studi senesi «). Lo stesso. Su l'origine del mttnoscritto pisano dtUe Pandette giustinianee e la sua fortuna nel medio evo. Siena, 1890. Lo stbsso, Nota sulle due sottoscrizioni nel wnanoscritto pisano delle Pandette giustinianee, Boma, 1891 (nel ** Buliettino di dir. romano p anno III, fase. 5 e 6). P. Bossl nel * Buliettino de ir istituto di dir. romano III, 152. Balzabo V., 7 legisti ed artisti aòrwmesi lettori nello studio di Bologna, Castel di Sangro, 1892. Db Luca DI Mrlpiobabo, .Le Pandette pieane tolte a Mol/etta, Molfetta, 1894. Fobcabiki, / dottori in legge e in wudicina leccesi e residenti in Lecce dal secolo XII al XVIII, Lecce, 1895. Ajnnungiamo alcune opere su singoli giureoonsulti e sui loro metodi : Firruro, Pepo su Bolofna (nella " Zeitsohr.' der Sav. Stiftung fOr B. G. ,^ XXIII). Maccapbbbj, n gemo d* Imerio desunto dalla rivista de suoi scritti (nel)' *" Imerio «, voi. I, Bologna, 1855). Del Vecchio A., Di Imerio e della sua

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In seguito, non se ne trova più traocia; ma frattanto il sno nome aveva eclissato tutti gli altri. Odofredo, che pur aveva detto di Popone nulUus nominis futi, soggiunge, parlando d'Ir- nerio : fuit maximi nominis et fait primus Uluminatar sHentiùe no9trae, si da meritarsi il nome di ItAcema juris. Odofredo ne loda specialmente l'ingegno sottile e la forza dialettica. Ciò clie più importa, Irnerio lasciò dei discepoli, che hanno anche

scuola, Pisa, 1869. Pescatobr, Die Olosaen de» Imeriìu, Greifswalden, 1889. Lo STESSO, Kriiisc?ie Studien auf dem CMneU der etmligL LUUnUurjg^h. det M. i., Greifswaidea, 1896. Arobmti, Irnerio, Appunti di storia del diritto romano ru. medio evo, Livorno, 1892. Ghiappklli L., Glosse d' Irnerio e della sua scuola dai mscr, cctpitolare pistoiese deU'AutherUicum, con una introduzione storica, Boma, 1886 (nelle "^ Mem. della regia Accad. dei Lincei y,. Classe di scieoxe moiali, serie IV, voi. II). Lo rtes:«o, Irnerio secondo la nuova critica storica, Toriii-\ 1894 (dalla ** Bivista stor. italiana XI, 4). Tamassia, La leggenda d'Imtrio (nel *" Volume per le onoranze al prol F. Serafini ^ Firenze, 1892, p. Ili seg.). FrrrisG. nelle introduzioni alle Qucstiones de juris subiilitatibus des tmerius, BerliiL, 1>^ e alla Summa Codicis des Imerius, pubblicata parimente a Berlino nel 1^ ScHUPFBB, Questioni di letteratura giuridica medievctle, I-IL Torino, 1896-97 (neiia **Biv. itfiil. per le scienze giur.„ XXII, 1 e XXIIJ, 1). Lo stesso, La tcvoladi Roma e la questione imericma, Roma, 1897 (dalle " Memorie delP Accad. dei Lm- cei^ Classe di scienze morali, serie V, tomo V). Besta, L'opera d'ImcrU. Contributo alla storia del diriUo italiano, 2 voL, Torino, 1896. De Touetoclos, PlaoBntin, L La vie, les oeuvres, Paris, 1896. T amassi a. De ordine tWirù/rit». opera inedita di Giovanni Bassicmo, Padova, 1886. Wbkk, Mc^gister Vacoriitf, primus iuris romani in Anglia professor, Lipsiae, 1820. Libbekmams, Ma-:isi<r ^\tcarius (in - The english histor. Beview, XI, 1896, p. 805-14) e Vacariut Maw tuanus (ibid., p. 514). Jbssop, Master Vacar ius (ibid., p. 747-48)- Laxdsbmg, Qactestiones des Azo, Freiburg, 188a Gin appelli L. e Zdbkaubr, Un constùo </i Azone dell'anno 1206, Pistoia, 1888. Rivalta, Le qtiaestiones d% Ugolino dom- tore pubhliccUe per la privia volta con prefazione e note, Bologna, 1891. Bestl Su aue opere sconosciute di Guiszardino e di Arsendino Arsendi. Kote storico^ giuridiche, Venezia, 1896. Lo stesso, Per la sigla del gloucUore Omobono dt C'rciiuma (dall' "^Arch. giuridico LIV, 2, 1895). Maccapbrrt, Il genio di Ac- cursio (neìr** Irnerio voi. I, Bologna, 18o5). Sanouiketti, Accursio, studi »> rico'biografici, BologM, 1879. Landsbero, Die Glosse des Aeeursius «. ihre U'-^ vom Eigenthum, Leipzig, 1883. Tauassia, Odofredo, studio storico-giuridico, negJ - Atti e Mem. per le prov. di Romagna voi. XI (1893), XII (1894). BcosAMia Sulla glossa di Odofredo agli Atti de pace Constantiae (nei ** Bendiconti della r. Accad. dei Lincei 1894). 'EUìhca.qi.i^ Molandino Passaggeri {aegU ^^AttieKeo- della regia deputazione di storia patria per le prov. di Bomagna^, serie Ul voi. IX, p. 72 segg., 1891). Gandini, Alberto da Gandino giureconsulto del rt- colo XII, Modena, 1885. Solmi, Alberto da Gandino e il diritto statutario fi^ .' qiurisprudenza del secolo XIII (nella ** Bi vista italiana per le. scienze gì^'- diche r, XXXII, 1901). Per le teorie e dispute dei glossatori consulta: Fie- li, Celebriores doctoruvi theorirae, Florentiae, 1801. Booebii Bekevbwtahi, i^ dissensionibus dominorum sive de controversiis veterum iuris romani interpret^^-

XÌI. BiVALTA, Dispute celebri di diriUo civile estrcUte dalle Dissensiones dei ^^•^ settori ed annottUe, Bologna, 1895. Singole glosse d* Irnerio e altre possono ve- dersi nelle opere già citate di Ghiappblli, Gooliolo e Pescatore. Le Quaedio^ di Azze in Landsbebq, op, cit,, e cosi quelle di Ugolino in Bivalta. VAvl^' ticum, fu pubblicato da G. É. Heimbach {op. cit,). Wuhderlich pubblicò » Summula ae proeessu iudicii di Gioy. d'Andrea, Basileae, 1840 e un volami <u Anecdota quae processum civiUm spectant, Gottingae, 1841, con lavori di Bulma Damaso e Bonaguida; il Beromann^ i Libri de ordine iudiciorttm di Pillio, Tan- credi e Grazia, Gottingae, 1842. Si veda inoltre la Biblioteca juridica medU am iniziata dal Gaudenzi, voi. I, Bologna, 1888; voi. II, 1^92; voi. ITE, 190t

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insegnato, assicurando cosi le sorti della scaola por tutti i tempi avvenire. Soltanto non si sa di positivo chi sieno. Ot- tone Morena fa menzione di quattro dottori, che avrebbero letto a Bologna circa la metà del secolo XII e avute comuni le ingerenze nei più grandi affieuri del tempo: Bulgaro, Martino Oosla, Ugo e Jacopo di Porta Bavegnana. Secondo il Morena, sarebbero stati gli immediati scolari di Irnerio ed egli stesso li avrebbe classificati così in un distico diventato famoso:

^ BulgaruM o$ aureum, Martinus copia legum^ Meo» Itgum t$t Ugo^ Jaeobns id qìiod ego„.

Ma forse si tratta, più che altro, di una tradizione.

Checché ne sia di ciò, è certo che la scuola si elevò per essi ad una straordinaria altezza e continuò poi per altre due gene- razioni. Ci restringiamo a ricordare alcuni nomi : Burgundione da Pisa, Bogerio da Benevento, Alberico bolognese, anch'egli di Porta Bavegnana, Piacentino, Giovanni Bassiano da Cremona, Pili io da Medicina (contado di Bologna), Lotario, Vacano lom- bardo, tutti della prima generazione; Azone, Jacopo di Baldo- vino e Ugolino del Prete, della seconda. E se ne potrebbero ricordare anche altri. In realtà è una lunga sequela di illu- t^tri giureconsulti, e sono notevoli i passi fatti di generazione iu generazione: i glossatori venuti più tardi continuano ancora a studiare le fonti, e l'autorità dei nomi non è d'impaccio ad alcun progresso; ma d'altronde traggono partito da quelli che li hanno preceduti. Ugolino però, che visse nella prima metà del secolo XIII, è l'ultimo, le cui glosse abbiano una reale importanza, si pel numero come pel loro contenuto.

2. SenoDchè, già durante la vita di lui si era levata qual- che voce autorevole contro l'indirizzo della scuola. Vogliamo alludere a Boncompagno, che ricordammo anche altre volte, e clie era appunto contemporaneo di Ugolino. Egli si sbizzarri- sce in più modi contro i cavilli dei giureconsulti e anche con- tro i plagi. Una volta suggerisce, in tòno piuttosto scherze- vole, un esordio da premettere ad uno statuto; anzi ne propone due, che forse è prezzo dell'opera di ricordare. Il primo è questo: Propter immenntatem scientie iurisperitortim^ qui non solum re» dabias verum etinm cmsus validos et raciones numife^tissime sta- bilitaiis faciant probabiliter vacillare^ oc gtatutum prò communi

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utilitate componimuB, in quo nullam exteriorem exceptionem td intellectum Jiabemus nec volumus aliquem habere^ set tolta «ioiitfa littera sine glassa et soludone aliqua inteUigatWj non obitank aliqua lege. L'altro è : Quia ad excedeniium proiervitates propUr iurisperitorum contrarietates evadere consuevit sepius iudiUm ulcionis^ idcirco ad conservanda puplica et privata hoc stalìdm lìicidum pertractamus, cupientes ut quisque inteUigat quod cantra tenorem stattUi remedium non poterit invenire. Chiaro è: Bon- compagQO, ohe tacoiava i giureoonsulti di intorbidare e infor- sare eo' loro cavilli anche le cose più chiare e d'essere causa che le leggi molte volte non sortissero il loro effetto, non era troppo favorevole alla glossa. £ altre volte lo esprime anche più chiaramente : non facevano che copiarsi gli uni cogli altri, sicchò il dire apparato era quanto dire ladreria; e meno male se fossero riusciti a mettersi d'accordo su qualche punto! Invece tutto era incerto e oscillante; le loro contrarietà infinite, e quasi non si conosceva legge sulla quale non si potessero ci- tare cento e più interpretazioni, che facevano ai pugni tra loro. sicché la mente del giudice non poteva non smarrirsi in un simile labirinto. Egli pensava sul serio se non convenisse di stabilire una buona volta un numero massimo di glosse per ognu- na, e forse non sarebbe stato alieno dal bandirle addirittura tutte quante.

Comunque, dopo Ugolino la scuola decadde. Le illastra- zioni cominciarono a tenersi nello stesso conto delle fonti, e tutte, buone e non buone, senza discernimento esame ; e s; fini con lo studiarle molto più delle fonti stesse, e fame use- anche dove non si avrebbe dovuto. In breve, nella secondi metà del secolo XIII la memoria dei primi glossatori, e le v^ dute proprie, e le indagini concrete, avevano ceduto il posto* vuote ampollosità, a generalità indistinte ed a puerili inezie. T. grande sforzo era di accumulare materiali, che poi s' ingombra- vano da se medesimi pel cattivo metodo della esposizione. La stessa glossa di Accursio (1182-1260) è opera di decadenza; ma, del resto, essa corrisponde ad un bisogno, che doveva farsi sen- tire ogni giorno più, di mettere, cioè, insieme tutte le molte glosse, interpretazioni ed opinioni, che si erano venute mano mano accumulando. Ciò fece per lo appunto Accursio, racco- gliendo come in un fascio le ricchezze dei secoli precedenti: e

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8i può dire senza tema di andare errati, ohe non oi sia glos- satore venato in maggior fama di lui. Ancora Cnjacio faceva della sua glossa il vade-mecum dello studioso. Nondimeno la sintesi di Accursio è troppo spesso confusa e poco giudiziosa; e, pel grande credito ohe ottenne, valse ad accrescere vieppiù il decadimento de' buoni studi. Essa diventò come un segna- colo a cui i giuristi, che vennero più tardi, drizzarono lo sguardo, tanto che si finì, con lo spendere più tempo a glossare la glossa che non il testo. Certamente i teorici, e anche i più noti, come Odofredo bolognese. Guido da Suzara, Jacopo d'Arena, Andrea da Barletta, Dino di Mugello, valgono poco. Le splendide note caratteristiche, onde rifulsero i glossatori della più antica scuola, hanno fatto luogo generalmente a gravi difetti, notati già dal Savigny. Uno fu di affogare il pensiero in un mare di parole, che però non valgono a coprirne la vacuità. TTn altro è di aver concentrata quasi tutta l'attività nelle lezioni, senza ohe ne de- rivasse o maggior lustro alla scuola o maggior utilità agli sco- lari. Pareva quasi che il maestro diffidasse di essi: perciò non badava che ad aiutarne la mente, esponendo il testo nel modo più ampio, e trascurando di stuzzicarla e di risvegliarla. Appun- to quella esposizione così diffusa e diluita li esimeva dal pensare da ; e. infine, faceva che perdessero di vista anche il testo. J libri poi, generalmente scarseggiano e, ad ogni modo, non presentano molta importanza. Lezioni e scritti furono presto dimenticati: che se delle lezioni ordinarie di Odofredo si conserva tuttavia memoria, è solo pei racconti e le storielle che il professore usò frammischiarvi a sollazzo degli scolari, alcune delle quali ri- guardano la storia del diritto, e altre la storia letteraria dei secoli XII e XIII. Per trovarsi in più spirabil aere, bisogna in questi tempi lasciare i teorici e rifugiarsi tra i pratici. Non già che questi fossero dotati di miglior gusto e possedessero, come che sia, il vero spirito della scienza; ma, se non altro, trascura- rono meno di adoperare il materiale, che la giornaliera esperienza veniva loro offrendo. Ricordiamo : Rolandino Passeggeri da Bo- logna, Alberto da Gandino e Gugliemo Durante, oriundo di Lin- guadooa, ma che studiò e passò la sua vita in Italia.

3. L'attività scientifica dei glossatori, per dir ora di questa, si è spiegata in più modi ; ed anzitutto sopra il testo delle fonti

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romane, ovverosia il Digesto, il Codioe, le Istituzioni, le No- velle; le sole ohe abbiano oonosoiuto o di ooi siansi giovati

Il Digesto^ nel medio evo, dividevasi in tre parti principili, che erano: il Digesium vetm^ Vlnforiiatum e il Digeitum m- mun; e questa è una divisione dovuta alla scuola. Il Digesto vecchio va dal libro I fino al secondo titolo del libro XXIV. l'Inforziate oominoia dal seguente titolo terzo del libro XXIV e finisce col libro XXX VITI; il Digesto nuovo compiende il resto. Di più, l'ultima porzione dell'Inforziate, che comincia dalle parole ires partes^ che leggonsi a mezzo di un periodo della Legge 82 D. ad leg. Falc. XXXV, 2, si soleva, appunto d& quelle parole, appellare Tres partes. Donde venisse cotesta divi- sione, abbastanza irrazionale, non si sa. Per ciò che ne dicono l'autore àeWIntraittM Digesti veteris e Odofredo, che sono testi- moni molto autorevoli della tradizione antica, si dovrebbe alla circostanza tutta estrinseca, che i libri giuridici non sarebbero arrivati a Bologna in una volta, ma a più riprese. Quelli die tramezzavano il Digesto vecchio e il nuovo, si sarebbero trovau più tardi, senza le tres partes^ e avrebbero ricevuto l'appellativo di Inforziate, sia dalla moneta dello stesso nome, che correva in quel tempo, sia perchè col loro ritrovamento la scienza giu- ridica ne sarebbe rimasta aumentata o rafforzata. Lo stesso Ime- rio avrebbe detto: lus nostrum augmentatum, infartìaium ett- Quanto alle Tres partes gli autori non sono d'accordo. L7m- iroitus Digesti veteris riferisce che furono trovate posteriormente, e Odofiredo lo fa almeno capire; ma il Piacentino attesta che stavano originariamente unite al Digesto nuovo. Le parole sono queste: Tres partes ferant legatarii, ut in libro (o, come hwan altri manoscritti: uhi liber) Digestorum novorum capit f»«tói»« licet ibi non sit neque responsi neque paragraphi principiaci ^ per conto nostro propendiamo ad aggiustar fede al PiaoentiBOi che è il testimonio più antico; tanto più che la sua testimo- nianza è confermata da un catalogo del secolo XII, in cui sono registrate le Tres partes cum Digesto novo, e da un altro dell'anno 1246, che ricorda due codici àeXV Infortiatum, uno dei qa^^ ^^ unito con le Tres partes, mentre l'altro ne è privo. È però natu- rale che, trovata più tardi la parte intermedia, esse vi venissero unite, come lo esigeva il contenuto ; e infatti prevalse quest'uso.

Ma tutto ciò sarebbe proprio dovuto al caso ? Ai giorni no-

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stri lo Scheurl, studiando appunto oome lo Pandette sieno arri* vate cosi divise nelle mani dei glossatori, pensò che la cosa potrebbe riannodarsi all'ordinamento scolastico di Giustiniano, che aveva destinato solo alcuni libri alle lesioni e altri pochi alla lettura privata. Infatti non ci vuol molto a capire ohe gli studenti abbiano comperato soltanto quelli che servivano per la scuola, se pure li hanno comperati; e nondimeno anche questa conghiettura, per quanto ingegnosa, non è tale da dissipare ogni dubbio. Specialmente non spiega come e perchè il testo del- l'Inforziate originario venisse spezzato cosi bruscamente e arbi- trariamente, proprio nel bel mezzo di un periodo.

Ciò che più importa di essere notato è la influenza che i Bolognesi esercitarono sulla formazione del testo delle Pandette. Oerto, fin da quando cominciarono ad occuparsene un po' di proposito, ebbero davanti a un vecchio manoscritto, a cui si v richiamavano col nome di UUera vetus eommunis, e anche cono* «cevano il testo fiorentino, che allora si trovava a Pisa e ohe perciò era detto UUera pisana: questi due però, non andavano sem- pre d'accordo, e, d'altra parte, la scuola non poteva fare a meno di un testo uniforme. Confrontarono dunque i due manoscritti tra loro, e formarono cosi una nuova lezione ohe, in opposizione alla Pisana, fu detta BologneMe o anche Vulgata, omettendo le iscrizioni, che allora si tenevano per inutili. Insieme provvi- dero perchè quindi innanzi tutti i manoscritti si facessero se- condo il nuovo testo; e ciò spiega come gli uni somiglino tanto agli altri. Sembra però che facessero capo al testo fiorentino, mentre non pare che si servissero molto della UUera vetus. Che se hanno introdotto qua e dei miglioramenti, e anche riem- pito dei vuoti, senza dubbio con un raffronto più accurato aweb- bero potuto fare di più. In generale, le tracce che ne aboia* mo, scarseggiano. Le troviamo solo nei libri 2, 3, 6, 7, 9, 18, 17, 80, 81, 83 e 84; indi scompaiono, e si potrebbe credere che la UUera vetus mancasse degli ultimi sedici libri: se non osiar mo dirlo con certezza, si è perchè anche altri ne sono stati sal- tati precedentemente. Perfino intere serie se ne trovano o;ne88e.

Per ciò che concerne il Codice^ è certo che Imerìo dapprima non lo ebbe completo: ebbe solo i primi nove libri, che andar vano separati dagli altri, probabilmente perchè gli ultimi tre, di diritto pubblico, si riguardavano presso che inutili per la

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pratioa. Più tardi, si trovarono anche questi; ma la scuola ne formò un volume a parte, insieme con altri testi, che disse ap- punto il Volumen o Volumen parvum. Del resto, anche qui si pro- cedette alla formazione del testo, press' a poco come per i Dige- sti, salvo che i manoscritti erano troppo diversi e incompleti^ per poter ottenere la uniformità raggiunta coi Digesti; più, mancava un testo, come quello pisano delle Pandette, a eni rife- rirsi nei dubbi. Cosi le varianti sono più frequenti.

Quanto alle Novelle, conviene distinguere. Anche nella scuola di Bologna, come dappertutto in Italia, si usò dapprima T Epi- tome di Giuliano ; ma essa cedette il passo ad una raccolta di ben 134 novelle, che circolava in lingua greca già dorante la vita di Giustiniano ; e poi, nei primi tempi del medio evo, non si sa quando dove, fu tradotta letteralmente in latino. È il Liber Authenticorum^ di cui Irnerio in sulle prime dubitò ma che fini per riconoscere come genuino. Cosi venne in uso nella scuola ; ma subì delle alterazioni. Verso la metà del secolo XII, la raccolta era ridotta a sole 97 novelle, perchè le altre, consi- derate come inutiles, sia per il loro carattere troppo locale, sia perchè non corrispondenti ai tempi, erano state omesse del tutto, oppure aggiunte in appendice. Inoltre, i manoscritti più recenti le dividono in nove collationes; ma si tratta di divisioni non suggerite da alcuna diversità di materia, tanto è vero che neppure la disposizione originaria vi è alterata. Sono dividoni arbitrarie, ognuna delle quali contiene un certo numero di no- velle, nell'ordine in cui prima si trovavano, salvo una numera- zione separata. Del resto, la scuola adoperò anche qui molta cura a correggerne e reintegrarne il testo, ohe era assai più guasto di quello del Codice.

Le Istituzioni abbisognavano meno dell'opera della scuola per la loro minor mole, e anche perchè la loro unità e chiarezza le aveva preservate dal pericolo di venir mutilate o alterate. Certo, il bisogno di raddrizzarne il testo non doveva apparire oosi urgente: nondimeno anche intomo ad esso qualche cosa si è fatto.

Cosi non v'era parte del Corpus juris^ in tomo a cui la scuola non s' industriasse per formare una lezione corretta e procacciare un saldo fondamento critico all'esegesi.

Il nome stesso di Corpus juris^ con cui sogliamo designare

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la raccolta delle compilazioni giustinianee, si trova già nel se- colo XIL Che se la sua mole non si prestava a che venisse compreso tutto in un solo manoscritto, ben si trovano sin dalla fine di quel secolo unite insieme le collezioni minori in un vo- lume che porta per lo più il nome di Volumen parvum. Sono le Istituzioni, i Tre libri e l'Autentico, e comunemente vi vanno aggiunte anche altre fonti più recenti, cioè i libri dei feudi e alcune leggi imperiali.

4. - Diversa è l'attività dei glossatori come insegnanti. In generale, dell'esegesi formarono l'unico oggetto del loro am- maestramento : non fecero che travagliarsi intomo ad essa, stu- diando i testi, confrontando gli uni con gli altri con molto acume e felicissimo successo; ma l'ammaestramento stesso assunse va- rie forme secondo i casi.

La più importante è quella delle prelezioni (lecturae). Du- ravano un anno, e si tenevano ogni giorno, parte la mattina, parte nelle ore pomeridiane ; e il lettore vi era obbligalo: che se ne tralasciava qualcuna o le cominciava in ritardo, pagava un'am- menda. Altre poi erano ordinarie altre straordinarie: una distin- zione che si riannoda specialmente a quella dei libri sopra i quali si leggeva; ma che in parte dipende anche dall'orario. Il Digesto vecchio e il Codice erano i libri ordinari del diritto romano, come il Decreto e le Decretali lo erano del diritto ca- nonico, perchò si consideravano come più importanti, e si pote- vano leggere si di mattina che di sera : tutti gli altri dicevansi straordinari, e non potevano esser letti che nelle ore vespertine. Lo attesta Odofredo : Primo legimua Digestum vetuspattea Codicem, in quo utpractica Miu$ eivilis $apientiae .... Alioa libros legimus extraordinarie. Et $i quis iciverit bene istos duoe, alios poterit per $0 ecire et doeere alios. Lo stesso risulta dallo statuto dei giuristi di Bologna del 1432: Statuimua et ordinamua quod do- ctores .... praetint lecturis ordinariis librorum ordinariorum et qui legi ordinarie eoneueverunt in qualibet facuUate. E dichia- rano : in jure civili libroe ordinarioe esse Codicem et Digestum tetus; extraordinarios Infbrtiatum^ Digestum novum et Volumen: in iure vero canonico Decretalem et Decretum de mane ordinarie esse. E cosi le prelezioni : quelle sopra i libri ordinari si dice- vano ordinarie, purché il professore fosse abilitato a tenerle di mattina ; quelle sui libri Straordinari portavano il nome di stra-

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ordinarie. Gli insegnanti stessi distingnevansi in ordinari e straordinari, secondo il genere di lettura, che avevano diritto di tenere.

Non vorremmo però affermare ohe tutto questo ordinamento di studi fosse nuovo: anzi coincideva su per giù, con Tordinamento quale era stato escogitato da Giustiniano. In&tti, ecco come r imperatore aveva distribuito le materie. Il corso si compiva in cinque anni; e nel primo si studiavano le Istituzioni e.i i^pSio, U prima pars legum^ che comprendeva i primi quattro libri del Digesto. Il secondo era dedicato ai sette libri de iudidis (5-11 , oppure agli otto de rebus (12-19), che dovevano spiegarsi per in- tero senza ometter nulla; e insieme vi si aggiungeva la spiega- zione di quattro libri singulares^ che erano : il primo dei tre it dotibus (23), il primo dei due de tateUs (26), il primo dei due de testamentis (28) e il primo dei sette de legatìs et fideicom- missis (30). Le lezioni del terzo anno cominciavano con la parte de rebus o de iudidis^ che non era stata svolta nel secondo, e vi si spiegavano altri tre libri, di cui però sono ricordati soltanto il liber adhypothecariam formulam (20), e quello ed edictum aedilium (21) : il terzo era certamente il libro de usuris (22) ; e già la glossa intendeva che fosse questo. Nel quarto anno era fatto obbligo agli scolari di studiare da so (studeant lectitare) i dieci libri sin- gulares, che rimanevano dei trattati sulla dote (24-25), sulle tu- tele (27), sui testamenti (29) e sui legati e fedecommessi (31-36\ Infine, dovevano nel quinto anno attendere alla lettura del Co- dice. Sicché, soltanto le Istituzioni, il Digesto, e il Codice fo^ ma vano oggetto di studio ; ma per ciò che concerne il Digesto, era opinione di Giustiniano che potessero bastare 36 libri, tanto per le lezioni quanto per lo studio privato : gli ultimi 14 à potevano leggere più tardi. Tale ordinamento di studi risalta dalla costituzione Omnem; e tutto ciò si riproduce nella scuola di Bologna.

Almeno si comincia cosi. L' Introitus Digesti veteris lo dice espressamente: Orda legendi talis est. Primo anno legende sunt institutiones et prota digestorum; deinde tribus sequentibus annit legenda sunt digesta secundum ordinem a iwstiniano in consUtu- tione ^ omnem nostre reipublice^i statutum. In quinto vero anno legendus est codex. In fine vero legenda est autentica et postmo- dum novella. L'ordine era proprio quello stabilito da Giusti-

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Ij ooa questa sola differenza ohe in fine si doveva leggere l'ÀilAntico e V Epitome luliani. Parimente attesta Od<^redo nella introdozione alle sue lesioni sol Digutmn vebu, che i soli libri, su cni da prima si tenne lezione, furono gli ordinari, proprio com'era stabilito negli ordinamenti giustinianei: Ex- iraordinaria oUm non eonsueverunt legi per doetores; ma a' suoi tempi le cose erano già mutate, perchè soggiunge: $ed noe de coneuetudine non eervamus igium legendi ordinerà; imo primum legimus dig. vetue, poetea eodicem etc. C è poi la glossa alla conet. Omnem v. singularee^ ohe accenna anche ad altre particolarità del sistema giustinianeo, accettate dalla scuola. Essa dice che i libri eingulares erano tuttavia {Ju>dié) diciassette, cioè dal titolo de pignoribus et hgpotheds fino a quello de bon. pose, esclusivamente (20-86), come li aveva designati Giustiniano; e soggiunge ohe si chiamavano così, perchè stavano da e non si contenevano sotto il titolo de iudiciis^ sotto quello de rèbus. Il qual fatto ne spiega un altro e alla sua volta ne riceve lume.

È cosa nota che le copie complete delle Pandette sono rare: anzi la maggior parte non comprende che i primi trentotto li- bri: il Digeetum vetus e Vlnfortiatwn; ma perchè? Evidente- mente i libri, che dovevano essere oggetto d'insegnamento o lettura privata, si limitavano ai primi trentasei, come nelle an- tiche scuole dell'Impero, e vi si erano aggiunti i due de bono- rum poseemonibus (37*38) probabilmente per la stretta relazione che avevano con quelli de testamentis e de Ugatie, che precede- vano, tanto più che l'imperatore stesso li aveva consigliati: de testamentie .... de legatie .... et qu€te circa ea $unt. Anzi i ma- noscritti del Digestum vetus superano per numero, età e bontà tanto quelli del Digestum novum, quanto quelli deìVInfortiatum; e anche questo fatto si spiega, trattandosi della parte sulla quale principalmente si teneva lezione, magistra voce, già in antico, e deve aver continuato poi anche nella scuola di Bologna. Che se i primi due titoli del libro XXIV, che veramente non for- mavano oggetto di lezione, furono nondimeno appiccicati a quelli de dote, ciò accadde manifestamente perchè il primo si occupa ancora della materia dei beni durante il matrimonio, e il secondo tratta dello scioglimento del matrimouio. importa se col tempo l'ordine degli studi, o meglio delle lezioni, venne alte- rato, perchè non lo fu a tal segno che il Digestum vetus e il

assilla

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Codioe non oontinuassero sempre ad essere considerali come p^ importanti, a preferenza di alb;^^ parti del Corpus juris. Odo- fredo leggeva oggimai anche sugli extraordinaria, e nondiiDezia il Digesto vecchio e il Codice conservarono il post^ d^OEai», come ai tempi di Giustiniano. Lo che non vnol dire chealouie differenze non 8i notassero ; ma erano molto lievi, e non conto di avvertirle.

Del resto, non ogni lettore si restringeva a leggere una sola parte ; aveva facoltà di leggere, e leggeva, successi^ mente, anche sulle altre ; sicché gli scolari^ volendO| potevuod seguire un solo professore durante tutto il corso universiurio. Almeno in orìgine fu cosi, e soltanto in seguito si distinsew parti che ciascuno avrebbe dovuto leggere; onde venne a rallen- tarsi quel vincolo che aveva unito prima lo scolaro al profÌMMa Anzi le cattedre crebbero molto. Quanto al modo, sappiamo di Ugolino e anche da Odofredo, che il professore cominciava cWl* Summa, che era una esposizione compendiosa di tutto il tìtolo; poi leggeva parti tamente il testo, come meglio credeva; e ne m^ snmeva il caso; indi scioglieva le antinomie, se ce n*era. oon altri testi; rammentava le regole generali, che vi si contéi»" vano ; infine proponeva delle questioni, o casi di diritto veri figurati, che potevano risolversi con esse; ma d*altra parte a^ piena libertà di insegnare a suo talento, sia parlando, àa 1 gendo. Gli scolari scrivevano, come ai di nostri^ e talora in^ terrompevano il professore per interrogarlo, specie nelle l straordinarie ; ma tali interruzioni erano spesso occasione chiassi da parte dei compagni,

Talvolta si permettevano qi: fessore, come è fama sia toc matrimonio con cominciato la le insoliiam aggred^ r uditorio, che

V'erano poij

Le ripetizic testo già Inter gliendo tutti i alla settimana pio delFanno

ino luogo ad^ I anche i •^ che I

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lia disputa si aggirava sopra un determinato principio di di- ritto espresso a modo di domanda, che l' insegnante proponeva, e a cui gli scolari, volendo, potevano obiettare. Si teneva pure una volta alla settimana, dalla quaresima fino a Pentecoste.

5. Le stesse scritture dei glossatori si riannodano in parte alla loro attività didattica. Alcune, pure distinguendosi dalle lezioni, devono la loro origine ad esse; altre si collegano più direttamente con le ripetizioni e le dispute.

Le principali sono certamente le glosse, a cui si può dire che faccia capo ogni letteratura giuridica del tempo ; e che senza al- cun dubbio sono derivate dalle lezioni. In generale, consistevano in schiarimenti o spiegazioni, che ciascun legista soleva apporre al proprio esemplare del testo, nell' idea che potesse poi venire copiato e diffuso; e se ne distinguevano più specie, dalle sem- plici illustrazioni lessicali o grammaticali di qualche parola più difficile, fino alle illustrazioni di tutta la legge. Le prime, forse, sono le più antiche; e, perchè solevano scriversi tra le linee, furono dette glosse interlineari: in sostanza, erano spiegazioni di una voce con un'altra corrispondente e più chiara; ma ve n'aveva anche di più ampie e sottili, che venivano scritte in margine, e furono dette glosse marginali. Altre erano le va- rianti, 0 lezioni del testo diverse da quella adottata, che si scri- vevano pure nel margine ; e i luoghi paralleli, o passi che si citavano, per confermare e chiarire il testo che si spiegava, o per dimostrarlo abrogato, come ad es. vediamo nelle autentiche. Le quali erano estratti delle Novelle, sia di Irnerio sia di altri, che si trovano specialmente nel Codice tramezzate al testo, dove questo ne veniva in qualche guisa modificato ; e originariamente erano state aggiunte in margine ai passi affini, per richiamare l'attenzione sui mutamenti, che appunto le Novelle vi avevano recato. Questa per es. è la forma, che presentano nei mano- scritti berlinesi 275 e 408. Se poi un giurista aveva illustrata cosi compiutamente un titolo, che la sua glossa potesse tenersi in conto di un commentario continuato, essa prendeva il nome di Apparatus, come fu il lavoro di Bulgaro al titolo De regulis juris, certamente il più antico del genere. La glossa stessa era fatta per essere divulgata, e andava sempre munita della sigla dell'autore. Cosi, per ricordare solo le principali, F. (?., e anche Guar. vogliono dire Irnerio o Guarnerio ; B. e anche Bui,, Bui-

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gare; M., Martino; </., Ja. e anohe Jatn, Jacopo; U. e anche TJg,^ Ugo; E. e anche Bog., Bogerio; P. e anche Pia., Piacentino; Jo. e anche Jo, b. ed Job., Giovanni Bassiano ; Pi. e andie Py., Fillio ; Az., Aeone ; H. Ugolino ; Ac. e anche ^cc., Accnrsia.

In generale esse consistono sia nella prima sillaba del nome del glossatore^ sia nell'iniziale del nome stesso, a coi talvolta va unita la seconda lettera. In questo caso però, se crediamo ad alcuni scrittori di arte dettatoria, come Ludolfo e Corrado di Mure, ambedue del secolo XIII, si sarebbero osservate queste regole: se il nome cominciava da vocale semplice o da conso- nante semplice, si poteva porre la vocale o la consonante in luogo del nome ; ma se cominciava da due vocali o da due con- sonanti, si solevano porre ambedue, salvo a decampare dalla regola, quando i nomi di due glossatori cominciavano eoa le stesse lettere ood da dar luogo a una concisione di sigle.

Ma anche altri lavori hanno attinenza con le lezioni. Bi- cordiamo : le Summcte, o riassunti di singoli titoli ; i Ccisus, o posizioni di fatto, con cui il professore cercava di rendere pia palpabile il contenuto del testo ; infine i Brocarda o Generalia, ossia regole o aforismi di diritto, che il giurista desumeva da questo o quel passo. Tutto ciò aveva dapprima formato oggetto di lezioni, e poi fu raccolto e ridotto a libro.

Le ripetizioni e le dispute hanno dato, alla loro volta, ori- gine alle Quaestiones, che nel secolo XII e XIII si trovano di- vulgate come veri e propri libri. Erano discussioni di casi giu- ridici, e già Imerio se n'è occupato, come risulta da una carta di donazione di codici dell'anno 1262, che le ricorda col suo nome, insieme a quelle di Azone e di Fillio ; ma andarono perdute.

Altri lavori versano sull'ordine giudiziario e sulle aziami ; e anche ci restano delle distincHones, come sono quelle di Ugolino, e raccolte di controversie (Dissensiones dominorum), e Consilia, e miscellanee ed estratti. Q-li stessi pratici ci lasciarono delle opere che hanno avuto una vera fortuna. Bolandino Passaggeri ne compose parecchie, specie sull'arte notarile, tra cui va cele- bratissima la Summa artis notariae, detta anche semplicemente Bolandina od Orlandina. Alberto da Q-andino dettò un libro De Maleficiis, che gode di meritata riputazione, in cui, oltre a far tesoro di ciò che era stato scritto da altri, si giova so- prattutto dei molti casi che si erano presentati a lui stesso nella

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8Qa lunga pratioa. Infine Guglielmo Durante è autore di uno Sp^culum judiciale, ohe gli valse il nome eli Speeulator, ed ò oertamente l'opera più vasta e meglio ordinata di quante erano state seritte per l' addietro, frutto di una larga esperienza e di attenti studi sui libri, ohe può essere oonsultato utilmente, anohe oggidì, per le copiose notizie ohe offre intomo alla storia dei dogmi.

Molte volte oi abbattiamo in quaderni di scuola, ohe gli sco- lari raccoglievano dalla viva voce del professore e poscia pubbli- oavano. Si sa di un Nicola Furioso, die soleva prendere nota di ogni cosa nella scuola di Giovanni Bassiano, e di un Ale»* Sandro da Sant'Egidio, ohe faceva altrettanto in quella di Azone. Anzi, molti scritti di legisti non giunsero a noi che in questo modo. La più parte di ciò ohe oi resta di Odofredo consta di siffatti quaderni; e l'uso se n'ò generalizzato poi nei secoli XIT e XV.

B. Carattere della scuola.

1. Noi ci proponiamo di esaminare che cosa i glossatori abbiano attinto alle scuole precedenti e che cosa vi abbiano messo del proprio. E una ricerca che deve rivelame l'indirizzo.

Naturalmente, la vecchia tradizione delle scuole di Boma, di Ravenna e di Pavia non andò perduta. Lo studio di Bologna non sorge di punto in bianco a ridestare o iniziare un movimento scientifico spento da secoli. Noi lo sappiamo : anche lo studio bolognese ha i suoi precursori, e non può dirsi che riaccenda per il primo, dopo tanta caligine medievale, la lampada della scienza. Certamente la tradizione reclama la sua parte. A cominciare dalla scuola di Boma, e venendo giù fino alla scuola di Ravenna e a quella di Pavia, c'era oggimai tutta una tradizione, più o meno scientifica, dovuta alla scuola: il terreno poteva dirsi pre* parato già da lungo tempo per ricevere la nuova sementa. Lo studio di Bologna è, in verità, il frutto di una lunga evoluzione storica.

E già l'età dei manoscritti, contenenti opere del periodo pre- bolognese, fa toccare con mano come ]a tradizione della lette- ratura giuridica medievale sia penetrata nelle nuove scuole. Per- chè avrebbero avuto l'onore della tra^cri7-ione, se non fossero

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state lette e studiate e diffuse ? Soggiungiamo, che i più di quei codici appartengono ai secoli XII e XJII ; sicchò non vi ha dubbio : la vecchia scienza vive ancora per qualche secolo accanto alla nuova, e soltanto a poco a poco viene balzata di ! ^ggio, quando la nuova ne ha già tratto partito. Ma v'ha di più.

' Oonfrontando la letteratura giuridica, e anche i metodi dei due

\ periodi, si trova che realmente un legame molto intimo li univa.

' Noi non esitiamo ad affermare che lo studio di Bologna si

riannoda per una parte a Boma e a Bavenna, per l'altra a Pavia. i Certo, la materia giuridica è venuta ai glossatori dall'antica

l scienza medievale del diritto romano. Alcune glosse preime-

f riane sono passate di peso nel grande apparato accursiano, e la

stessa coincidenza può trovarsi nelle definizioni. Anche Teco [ di qualche distinzione continua, e persino alcune controversie

j giuridiche, formulate e discusse nel periodo prebolognese, rinian-

I gouo vive nella scuola di Bologna. Abbiamo già ricordato, ma

I non sarà inutile ripetere, che certe teorie annunziate nelle

Quaestiones de juris subtilitatihug e nella Summa codicis, ricom- r paiono nelle glosse d'Imerio e di Martino, in Accursio, e nei

' libri di Azone. Specie la Summa codicis ha ispirato la Summa

di BrOgerio, come questa, quella di Piacentino; che, alla sua ; volta insieme all'altra di Giovanni Bassiano, servirà di fonda-

mento alla Summa codicis di Azone. Lo stesso dioasi del Bra- \ chilogo. Esso ha certamente suggerito VEpitome incerti aìicto-

i ris, e del pari presenta delle analogie col Uber juris florentinué.

Anche Pietro, autore delle ExcepHones, è citato da Accursio in più luoghi, e cosi pure da altri. Un trattato De natura actionum ' si trova adoperato dal Piacentino. La Lectura super actionibus di Pietro Crasso, autore del Libello, è ricordata perfino nello statuto I della università dei giuristi degli anni 1317-1347.

I J Insieme, vediamo applicati qua e i principi di diritto pri-

vato a rapporti pubblici, più ne meno che si era fiatto a Ra- venna. Una glossa esamina la questione se il papa abbia la giurisdizione temporale nelle terre dell'Impero, che si credevano formar parte della donazione costantiniana ; e ricorre volontien a testi di diritto privato. Un' altra volta Federigo I studia certa pretesa accampata dal papa, secondo la quale i palazzi vescovili, sarebbero stati esenti dall'obbligo di ricevere i nunzi imperiali '* e certamente furono i giureconsulti bolognesi a suggerirgli ài

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distinguere se il palazzo sorgeva sul suolo proprio del vescovo o su quello dell' Impero ; perchè in tal caso anche il palazzo doveva appartenere all'imperatore, giusta il principio che amne quod inatdificatur solo cedit. Era una regola di diritto privato che Federigo applicava al diritto pubblico. Anche il modo, con cui questo imperatore procedette contro la eroica Milano, impaziente di freno, trova la sua spiegazione nei principi di diritto privato applicati alla ragion pubblica. Più tardi Federigo II vorrà pro- vare che aveva tutto il diritto di riprendere le terre imperiali donate al papa, e Io farà, osservando, che il donante poteva ri- prendere le cose donate se il donatario si mostrava ingrato. Più tardi ancora i giureconsulti giustificheranno con la teoria della usucapione la giurisdizione e altri diritti sovrani, che le città accampavano contro l' imperatore. Tale era la dottrina di Bar- tolo ; altrimenti ragionavano Giasone, Angelo Panormitano e Jacopo ; ma con ciò siamo usciti propriamente fuori del pe- riodo che ci eravamo proposti di studiare.

D'altra parte conviene ricordare il centro langobardo, che esercitò pure la sua influenza su Bologna.

Si sa che le collezioni langobarde erano note alla scuola, ve- nivano citate dai professori di gius romano, e formavano oggetto di lezioni. Parimente i legisti di Bologna ricordano spesso le opinioni dei Pavesi e le discutono. Ciò che più importa, ne accettano i metodi, e con essi si fanno a studiare le fonti molto minutamente, rivolgendosi, più che altro, alle particolarità, co- me non pare siasi mai fatto a Roma o a Ravenna. Perciò anche il lavoro scientifico dei Bolognesi fu assorbito in gran parte dalla glossa, come lo fu quello dei Pavesi, e l'una glossa e l'al- tra si rassomigliano. Uno dei compiti, che i Langobardisti hanno sciolto con singolare fortuna, fu quello di cercare i passi paral- leli, che confermassero la legge o vi derogassero ; e appunto questa tendenza trova il suo maggiore svolgimento in Imerio, che, redigendo le Autentiche^ non faceva che andare un passo più avanti dei Langobardisti, i quali si erano limitati a riman- dare alla legge derogatoria. Le tabelle, che si trovano aggiunte a qualche codice di diritto langobardo a guisa di alberi genea- logici, dovevano pure, sviluppandosi, condurre, presto o tardi, a quelle opere della scuola di Bologna, che vanno sotto il nome di Distinctianes ; per non dire di lavori affatto simili usciti dalla

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penna dei glossatori. Anobe la Uxpositio langobarda prelude alla ^ossa di Accursio: certameoite, l'ima e l'altra riassumono i risaltati delle due scuole, tenendo conto delle discussioni dot- trinali. Infine sappiamo ohe i glossatori si attengono, nelle oi* tasioni, alle rubriche dei titoli ed alle parole iniziali della legge, astenendosi dai numeri : è nna pratica, ohe si ricollega al ritomo che avevano fatto alle fonti; ma prima, essa aveva dominato nella scuola di Pavia.

2. Nondimeno anche Bologna ha il suo merito, che non sempre è stato valutato a dovere. Anzi, nel giudicarla, si è usata talvolta la più raffinata malevolenza, considerando quegli scrit- tori coi criteri dei nostri tempi. Specie il Bei^riat-Saint-Prix si è sbizzarrito a metterne in luce gli strafalcioni ; e non v'ha dubbio, che quelle opere rivelano un' assenza completa di molte notizie, che si acquistarono in seguito. In generale, vi si nota un singola- re difetto di cognizioni storiche e filologiche. Basterà dire che po- nevano Ulpiano e Q-iustiniano avanti Cristo ; Papiniano volevano ucciso da Marcantonio ; credevano che la legge Ortensia fosse stata stanziata da un rex Hortensius, e che la legge Falcidia derivasse il suo nome dalla falx, percbè, come questa, tagliava i legati. Facevano anche assediare Boma da Pirro e dai Greci. E assai curiosa è l'idea che si formavano delle indizioni. Dicono, che per lo spazio di quindici anni, detto appunto indiziane, i Romani levavano imposte su tutto l' universo, cioè : in capo ai primi cinque anni il ferro per armare i soldati, in capo agli altri cin- que l'argento per pagarli, in capo agli ultimi cinque l'oro per mettere nel tesoro pubblico. Altre idee barocche ricorrono in fatto di storia naturale. Credevano per es. al vitulus, cioè dire al prodotto d'una donna che avesse avuto rem camaUm cum bruto animali. la loro filologia voleva significare gran cosa. Si prendono la briga di insegnarci che la legge usa uti per ut, etsi per quamvis, admodum per valde eco. ; tutte spiegazioni inutili. Per converso, di greco, punto ne sapevano ; e se mai si abbatte- vano in qualche passo greco, si scusavano col dire : graecum est Ugi non poteste Uno dei pochi, che conoscessero il greco, fu Burgundione, che forse lo apprese a Costantinopoli, dove fu due volte ambasciatore dei Pisani.

D'altronde sono state loro attribuite maggiori corbellerie che veramente non commettessero. Ricordiamo per es. quella ma-

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dorsale sulla origine delle XII Tavole. La glossa narra che i Bomani avevano mandato in Grecia per averne delle leggi ; ma i Qreoi vollero prima assicurarsi se ne erano meritevoli, e det- tero incarico ad uno dei loro savt di recarsi a Boma ed esami- narli. I Bomani gli opposero uno stolto, pensando ohe se pure fosse rimasto soccombente, non ci sarebbe stato che da ridere. Il savio cominciò, spiegandosi con segni, e alzò un dito verso il cielo per mostrare che non c'era che un Dio. H pazzo, im- maginando ohe gli volesse cavare un occhio, pensò ohe nel caso glieli avrebbe cavati tutt'e due, e alzò alla sua volta due dita, e per un moto, d'altronde naturale, levò insieme il pollice. Il savio credette che volesse alludere alla Trinità : indi procedendo a un secondo esperimento, mostrò allo stolto la mano aperta, quasi volesse dire che a Dio tutto era palese ; ma lo stolto cre- dette che gli volesse dare un ceffone, e alzò il pugno chiuso. Il savio lo interpretò nel senso che Dio chiudesse ogni cosa nella palma, e non esitò a sentenziare che i Bomani erano ve- ramente degni di avere delle leggi ! Se vogliamo, è una sto- riella abbastanza piccante, con cui il giurista, uomo positivo, si ride delle astrazioni del filosofo ; ma ad ogni modo avrebbe torto chi la prendesse sul serio.

Comunque, lo ripetiamo, questi giureconsulti hanno anche il loro merito, che non può essere disconosciuto*

In primo luogo, si deve a Bologna se il diritto romano ri- mase definitivamente separato dalla dialettica e dalla rettorica, due discipline, con le quali era stato unito per lungo tempo in tutto il medio evo. E questo è già un risultato molto apprez- zabile.

Un altro merito dei glossatori è di aver per i primi elevata a teoria la scienza del diritto. E fa veramente stupore che giungessero a tanto, visto lo scarso corredo di cognizioni sto- riche e fìlologiche, di cui disponevano. Però, possedevano una vasta conoscenza delle leggi e un fine acume naturale ed una straordinaria potenza di combinazione. Avvicinando e para* gonando i vari passi tra loro, ne traevano quasi sempre la regola legale con singolare aggiustatezza; e hanno ragione odoro, i quali pretendono che, anche oggidì, fra lauta copia di opere di diritto romano messe assieme col sussidio di molti ma- teriali di cui essi mancavano, possiamo apprendere molto da

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loro, per la originalità e la freschezza e il vigore, come per l'ordine delle idee. Forse anche la diversità delle scuole giovò a questa acuta opera d'interpretazione, perchè nelle dispute la mente non poteva non affinarsi, e doveva farsi più accorata la ricerca. Aggiungiamo, che, mercè i glossatori, il diritto romano trovò accesso quasi dappertutto in Europa ; e co^ è propriamente ad essi che andiamo debitori di quella unità, che si ;nantiene tuttavia nelle leggi e nella giurisprudenza delle varie nazioni. Insieme si tornò alla compilazione giustinianea, che si con- siderava come un diritto vivo, destinato ancora a reggere il mondo. L'epitome di Giuliano e altri rimaneggiamenti del Co- dice e delle Istituzioni, in cui il medio evo più antico aveva cercato la norma del vivere civile, dovettero cedere il posto ad uno studio più paziente ed accurato e coscienzioso di tutte le parti del Corpus juris^ Anzi è stato uno studio &tto indipenden- temente dalla vita, senza qualsiasi contatto con essa ; e ciò attribuì fin dalle prime un carattere tutto dottrinario e teorico all'attività della scuola. Il solo diritto vero, l'unico ohe dovesse trovare applicazione, era, ai suoi occhi, il diritto romano ; e tutti i suoi sforzi furono diretti a questo scopo : studiare e illustrare il diritto romano nella sua purezza, quale l' aveva foggiato l' imperatore Giustiniano. Ne importava che nei secoli successivi, le condi- zioni della civiltà si fossero mutate e rimutate più volte, e i biso- gni e gli interessi e i rapporti fossero diversi, e il diritto stesso avesse dovuto sottostare ripetutamente alle e^genze della vita. Imerio e la sua scuola non sentivano, non volevano che il diritto romano, tutto il diritto romano ; e, lungi dal piegarsi alle esigenze della pratica, che in sostanza sono le esigenze della vita, pre- tendevano anzi che la pratica e la vita avessero obbligo di adat- tarsi al diritto romano ed alla scuola. In realtà, essi non vivevano che nei tempi giustinianei ; tanto è vero che ogni qual volta s' imbattono nel diritto nuovo delle Novelle, osservano : sed hodie iu8 mutatum est, proprio come si sarebbe detto ai tempi di 6in- stiniano. Ne importa se, infatuati, com'erano, di quella vita, sopprimevano, cosi, circa sei secoli, quanti ne erano corsi dalla morte del cristianissimo imperatore infino ad eBsi! Che se a volte si mostrano infidi al puro diritto giustinianeo, ò tutt'altro che per ragioni giuridiche. Ecco ad es., una questione : dato che taluno trovi un cinghiale preso al laccio, potrà appropriarselo?

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E perohè no ? risponde Bulgaro : il diritto langobardo potrà anche vietarne roccnpazione, ma il diritto romano no ; e non- dimeno raccomanda ai suoi scolari di non farlo : non quia Umeam fuiurum iudicium, sed seandalum vel verba, quia rugHei facerent romorem et insequerentur no8 cum ielis et verberarent forte egregie noe. In questo senso aveva ragione l' autore della cronaca Ursper- gense di dire : Domnus Wemerius libros legum qui dudum ne- glecti fuerant, nec quisquam in eia etuduerat .... renovavit.

Soltanto non vorremmo affermare che siffatta tendenza fosse divisa da tutti. L' indirizzo della scuola era quello : ma si ca* pisce che la pratica non potesse sempre ^coonciarvisi di buon grado, e a volte finisse col reagire. In realtà essa sbugiardò assai spesso le teorie della scuola. Ciò che più importa alla storia della giurisprudenza è il vedere come in seno alla scuola stessa siavi stato qualcuno ohe cercò di lasciare maggior campo all'e- quità e darle la preferenza sulla morta lettera della legge. Vo- gliamo alludere a Martino, il quale, per questo riguardo, sembra ripigliare le tradizioni della scuola romana e della ravennate, salvo che non intende la equità come un vago sentimento od ar- bitrio dell* individuo, ma ne cerca più o meno l'appoggio nel corpo della legge.

Ed eccone nuovamente qualche esempio*

Quid juriSf se il principe alienava una cosa altrui per sua ? ne trasferiva sempre la proprietà ? o bisognava distinguere 7 Le fonti non distinguono, e anche la maggior parte dei glossatori dicevano che tale era il privilegio del principe. In questo senso era stato rimaneggiato perfino un passo della Summa Codi» ciSj da noi citato più sopra (p. 286). Invece Martino, e questa volta anche coU'accordo di Jacopo, lo voleva intendere restrit- tivamente : quum ignoraverit^ o, se più vuoisi, solo nel caso della buona fede. Un'altra glossa ci riferisce una nuova disputa. La questione era di sapere se la donna potesse considerarsi come proprietaria delle cose dotali. In generale si diceva di no : Mar- tino sosteneva di si. I più osservavano che se la legge aveva sancito che le cose potessero riguardaci come appartenenti alla donna ex naturali jure^ doveva intendersi di quel iue primae* ottiTi, in cui i domini non si erano distinti che quanto all'uso ; e per conseguenza solo in questo senso la donna, ohe ne usava promiscuamente col marito, poteva dirsene proprietaria.

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Invece Martino voleva che si dovesse intendere proprietaria per diritto naturale o delle genti, sdlicet de re inaestimcUa. Un'al- tra questione ! Si trattava di assodare se il venditore fosse pre- cisamente tenuto a consegnare la cosa venduta, o soltanto a pre- stare l'interesse. Generalmente si diceva che l'obbligo dovesse ridursi all' interesse, e si allegavano varie leggi. Invece l'opinione di Martino si scostava da quella di tutti gli altri. Egli soste- ) neva che, esistendo la cosa, il venditore doveva essere obbligato

a prestarla, e solo nel caso che più non esistesse, si potesse I agire pel danno. Soggiungeva : poni il caso che Tizio m'abbia

\ venduto del pane e non voglia consegnarmelo» e intanto io

I muoia di fame: a che cosa può giovarmi Tazione per l'interesse?

L' idea dell'equità ha suggerito a Martino anche parecchi prin- cipi della dottrina del risarcimento, che non si troverebbero nel diritto romano puro. Per es. l'unione, l'accessione, e simili, possono far passare un oggetto dalla proprietà di uno in quella di un altro, anche senza la sua volontà : potrà l'antico proprie- tario farsene risarcire? Il puro diritto romano gli concedeva tutt'al più un'azione personale, se pur gliela concedeva; e Mar- tino gli accorda sempre un'actto tu rem utilis. Parimente am- mette un'accio utilis, pel risarcimento, in favore di chi avesse con mala fede edificato sul suolo altrui; e anche attribuisce tanto al possessore di buona fede quanto a quello di mala fede un'azione indipendente per farsi risarcire delle spese erogate in- torno alla cosa, mentre è molto dubbio se per diritto romano essa competa neppure al possessore di buona fede. Un'altra dispu- ta divideva i glossatori a proposito delle obbligazioni correali. Al debitore che pagava il debito spettava o no, il ricorso contro i correi ? Bulgaro e i più gli negavano qualunque azione, poiché in fondo egli non aveva pagato che ciò a cui era tenuto ; Martino invece gli riconosceva una utilis negotiorum gestorum actio» Più nota è la disputa, che si agitò tra Martino e Bulgaro, a pro- posito dei contratti dei minori avvalorati da giuramento. Un rescritto dispone che non potessero venire impugnati; ma si doveva intendere solo dei contratti validi, o anche dei nulli? Bulgaro, e quasi tutti, stavano per la prima opinione, Martino per la seconda. Un'altra volta si disputava circa l'azione del furto. Già Imerio, e anche Bulgaro, avevano sostenuto obe^ quando si agiva per furto, si doveva sempre duplicare o qua-

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druplioare il vero prezzo della cosa, non potendosi trattare al- trimenti che come corpo, e sia che il furto si riferisse alla cosa stessa, sia che ne riguardasse l'uso o il possesso. Invece Mar- tino opinava che quando fosse stato commesso in vista dell'uso o del possesso, si dovesse duplicare o quadruplicare, non il vero, prezzo della cosa, ma l'interesse, quoniatn aequitiu hoc $uadere videiur. Infatti l'animo del ladro non era diretto alla cosa.

E anche Piacentino, e Alberico di Porta Bavegnana, e Pillio seguono Martino; ma i più gli si mostrano avversi. La stessa glossa di Accursio lo trasanda quasi affatto : certamente i tempi non correvano favorevoli al suo indirizzo.

3. Bimane una domanda.

I glossatori non avevano sussidi di libri e di erudizione, e nondimeno hanno formato e formano tuttora la meraviglia dei giureconsulti ! Come avvenne che la scienza del diritto romano fiorisse tanto in quel periodo, appena uscito dalla barbarie, del secolo XII, e venisse via via decadendo in seguito? Perchè mai essa brilla allora e declina più tardi, quando appunto la conoscenza positiva dell'antichità si è arricchita di mille scoper- te e il genio nazionale ha ormai raggiunto la sua virilità nelle lettere e nelle arti ?

Certamente, molto è dovuto al ricorso fatto alle fonti. Non distratti da altro, con l'occhio tutto intento al testo, non ve- dendo che questo, non poteva non essere che i glossatori ne cogliessero gli intimi segreti e ne indovinassero lo spirito, ap* profondendo il testo in un modo, di cui da lungo tempo si erano perdute le tracce. Ma qui trova luogo anche un'altra conside- razione più importante.

I glossatori, lo ammettiamo, non conoscevano affatto la sto* ria ; ma la storia viveva in essi : e questo è il nodo dell'enigma. Essi credevano veramente di vedere l'antica società risuscitata sotto i loro occhi e consideravano se stessi come cittadini ro- mani: infine, il diritto romano non era per essi soltanto una scienza, ma la stessa vita sociale; e, dove lo studio non arri- vava, suppliva l' intuizione. La quale teneva luogo di storia e di erudizione. In verità, la scienza fu molte volte una intui- zione pei glossatori e il frutto immediato della ispirazione. Jacopo di Baldovino, trovando certa discrepanza tra due testi del Digesto, passa la notte pregando la Madonna, e finisce col

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vederci chiaro : egli aveva ridestata in se stesso, merce la pre- ghiera, la conoscenza, per un momento assopita, del mondo ro- mano.

Più tardi le cose cambiano. Come la ristanrazione dell'Im- pero aveva portato con so la ristanrazione del diritto romano, cod, caduta la speranza di far rivivere, qnal era stato, l'antico Impero dei Cesari, cadde pure il genio dei glossatori. Quando lo studio del diritto romano, spogliato d'ogni carattere politico e sociale, non presentò che un interesse civile, cessò Fentusia- smo e l' istinto ingenuo, che fu come l'ultima pulsazione della coscienza antica. E invano gli uomini del rinascimento cerche- ranno di supplirvi con l'arte. Essi eccelleranno per maggiore erudizione, studieranno puro gli antichi e ne seguiranno le trac- ce; ma la loro scienza non sarà più la vita: il mondo antico diventerà materia di compilazione, e nulla più. La vera base storica del diritto era venuta meno, travolta nella ruina del partito ghibellino.

§ 2. GLI SCOLASTICI." A, L'ambiente in cui soreero e le loro opere.

1. La seconda fase della storia della giurisprudenza ita- liana va dalla metà del secolo XIII alle fine del XV, e comin- cia con un progresso.

La bella primavera sacra dei glossatori si era dileguata da un pezzo. Le ricerche larghe e feconde mancavano. Alla pe^

•* Bibliografia. BìlTjxh, Vom Einfiuut der Philo9ophie auf die Jmnf prudenM, Kiel, 1855. Per le opere d* indole generale di Diplovataccio^ Fasci- boli ecc.| rimandiamo aUa nota precedente. 11 Satiovt, GetcA. tratta degli sco- lastici nel yol. VI. Aggiungi: BoasHiirr, Dogmenge^ch. de$ CiMrecfUtt, Heidelbeif. 1858. CBiAFPVLLt.LapoUmiea contro % legisti dei eeeoli XIV, XV e XVI (nel- r** Arch. giur. XX VT, 1881). Guturi, Le tradÌMÌoni della ecuoia di dir, dviU nell^univ. di Perugia, ^ ediz.^ 'PernaieL, 1892. Inoltre ai vedano le sedenti opere sn singoli ginreconsolti: Db Toubtouloh, Iltudee tur le draiteertt: hu oeuvree de Jacquee de Bévigny {Jaeohue de BavanÌM\ Tonrs. 1899. Ohiappkuj, Vita e opere giuridiche di Oino da Pistoia, Pistoia» 1881. Maccavsbbi, Il ge- nio di Bartolo (nell^ * Imexio « yol. n, p. 201 segg. Bologna» 1865). Yn>AUB, Bartole et lee hommee illuetree de eon eiecle, Paris^ 1856. Babhabbi, Bartolo da Saeeoferrato e la ecienaa delle leggi, Berna» 1881. Ghiappblli, Le idee polUickt di Bartolo (* Aroh. ginr. . XXYIL 1881). Mababbsi, La auaeetio inter virginem Mariam et Diabolum di Bartolo Arch. Ànr., XXVI, ÌSSl). Mbili, DU theo- retieehen Abhundlungen von Bartolue u, BtUdue iiber das intemaL Privai- «. Sirof- rechi zueammengestellt, Leipsig, 1894. Lattbs, Un punto controverto nella hio-

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fine la glossa si era assolatamente imposta: aveva acquistato una autorità cosi grande, che la stessa legge le cedeva il passo. Un vecchio proverbio italiano diceva, alludendo ad Azone, uno dei più celebri glossatori: Chi non ha Azzo non vada a palazzo; e si sa eziandio ohe valeva molto meglio di aver per la glossa che il testo. Noi assistiamo ad una infallibilità di nuovo ge- nere ; e non farà meraviglia che, a lungo andare, lo spirito umano vi si ribellasse contro.

La nuova scuola, che surse sulle mine di quella dei glos- satori, e che fu detta degli Scolastici^ dei Dialettici, dei Com- mentatori^ dei Bartolisti e Baldisti^ rappresenta appunto cotest'a reazione. In sostanza si trattava di scuotere i ceppi dell'auto- rità e rivendicare l' indipendenza del pensiero contro la glossa, che, come una cappa di piombo, vi pesava sopra. La ribellione è già manifèsta in Cino da Pistoia. Egli cosi si esprime in un luogo: glossa illa est diabolica et non vera; e altrove: ita di- xerunt doctores et glossa .... et quotquot fuerint, etiamsi mille

di Bartolo (nel * Volume di studi di storia del dir. italiano dedicati a tiupfer ny Torino, 1898). Salvemini, La teoria di Bartolo da Saaaoferrato sulle costittaioni politiche (nell'opera **• Studi storici ^ , Firenze, 1901). Tabducci, Il tempo di Baldo e lo aptrito della sua scuola. Città, di Castello, 1901. L'opbba di BcUdo per cura della univ. di Perugia nel V centenario della morte del grande

fiureconsulto, Perugia, 1901 (con lavori di Besta. Brugi, Degli Azzi, Del G-iu- ice, Landuoci, Scalvanti e Tamassia). Solmi, D% wì' opera attribuita a Baldo,

'- " ' '^^ CuTDBi, Baldo

eputaz. di

„, _ , ., ., Ùhaldiin

Firenze e deU*uUimo consiglio di lui, Firenze, 1902 (dall^ ^ Arch. stor. ital.. se- rie V, tomo XSCX, 2). Salvioni, Alberico da BosciaU, 1882. Bbahdl Ftóa e dottrina di Maniero da Forlì, giureconsulto del secolo XIV, ^ Torino, 1885. Lo 8TB880, Notizie iniomo a OuilUlmus de Cunio, le sue opere e il 9uo insegnamento a Tolosa, Boma, 1892. Sbvebt, Intorno a Francesco AccoZi», 1835. Landucct, Un celebre scrittore aretino del secolo XV (Fr. Accolti), Arezzo, 1885. Gabotto, Gtason del Menno e gli scandali universitari nel quattrocento, Torino, 1888. Di Giovanni, Saggio storico-giuridico sopra Luca de Penna, Chieti, 1892. Bensa E., Della vita e deqli scritti di Bartolomeo Bosco giureconsulto genovese del secolo XIV (nel "Volume per le onoranze a F. Serafini „, Firenze, 1892, p. P27 segg.). Bbsta, Bieeardo Malombra professore nello studio di Padova consultore di alato in Ve- nezia, Venezia, 1894. Scalvanti, Alcune notizie su Benedetto de Barzi giureconr sulto perugino del secolo XV, Perugia, 1895. Mauobbi, Guglielmo de Perno giù- reeonsuUo siracusano del secolo XV. Studio biografico-critico, Siracusa^ 1896. Bbahdilbonb, SulV opera inedita di Raniero da Perugia contenuta nel Cod, B%ccard. 918 e sopra alcune formule tratte dalla medesima (nei *Bendiconti deU'Istit. lombardo serie n, voi. 81, 1898). Lattes A., Due giureconsulti milaneei Signo- rolo e Signorino degli Omodei, ÌSoìsl Milano, 1899 (dai «^Bendiconti del re|^o Istituto lombardo, serie II, tomo aXXII). Bobbi L., Dagli scritti inediti giur ridico-politici di G^tavanni da Legnano, Bologna, 1896. Bosdabi, CHovanni da Legnano canonista e uomo politico del 1300, Bologna, 1901 (dagli ^ ** Atti della regia Deputaz. di storia patria, voi. XIX, 1-8). Zocoo-Bosa. Michele Mirilli lettore di Istituzioni nell'universttà di Catania nel secolo XV (nel ** Volume in onore di F. Pepere ^ , Napoli, 1900). Vedi anche le Celebriores doctorum theo- rieae del Fibbli, Firenze, 1801.

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hoc dixissentj omnes erraverunt; ne manca di sbizzarrirsi contro i giureconsulti qui a glossig noti discedunt etiam propter textum. Cosi s'inaugura una nuova èra; ma non si può affermare ch'esa abbia corrisposto interamente all'aspettativa.

2. Già notammo che la ruina dell' Impero s^era trascinata seco la base storica del diritto; ma anche altri fattori vi contri- buirono. Le grandi lotte politiche dei secoli precedenti avevano fatto luogo alla degenerazione della vita pubblica nei comuni ita- liani: vita torbida, che doveva finire nelle tirannie. Appunto in questi tempi Bartolo lanciava per il mondo quelle parole memora- bili che sembrano un'eco delle dantesche : Hodie Italia ett tota pie- na tyrannis ! In questi tempi i giureconsulti sono ancora ricercati dei loro consigli nelle faccende private, e anche nelle dispute tra imperatori e papi, tra papi e antipapi; ma non si può dira che la vita pubblica esista per essi. Insieme si vedono d'ora in ora costretti a tramutarsi da una città all'altra, balestrati da questa fazione o da quella, onde non godono neppure la quiete che tanto s'addice agli stu(U, e finiscono col rimettervi della loro dignità personale. Disgraziatamente, il rinnovamento della classica e della patria letteratura, che si era operato con Dante, col Petrarca, col Boccacci, andò perduto per essi, almeno per la maggior parte. Oldrado, che dopo aver professato in Italia, finì avvocato concistoriale del papa in Avignone, aveva cod poco senso per tutto cotesto rinnovamento, che fece ogni sforzo per stornare il Petrarca dalla poesia e trarlo alla giurisprudenza! Lo stesso Petrarca lo racconta; e come Oldrado erano qnasi tutti ! Fortunatamente il Petrarca resistette : altrimenti si avrebbe avuto un consiliator di più e un grande poeta di meno. Invece ciò che li affascinò fu una nuova aura filosofica: una nuova arte, tutta dialettica, dai modi sottili di argomentare per distinzioni e ampliazioni, limitazioni e illazioni, che già alcuni giuristi francesi avevano adottato, e che anch' essi non tarda- rono ad applicare alla giurisprudenza. Fu detto Mas itaUw jara docendi ; ma veramente era tutt'altro che italiano. Fu in Francia che venne formando quella che il Gebhart chiama disciplina del sillogismo; ed i giuristi, che, se non per i primi, certo con maggiore effetto introdussero la dialettica nel diritto, fu- rono appunto francesi : Jacopo di Eavigni (in Lorena) e Pietro da Belleperche, o, come diciamo noi, da Bellapertica. Prima

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di essi si riscontrano qua e degli accenni nei postglossatori : in&tti vi appaiono già le quatuar eauaae : effldens, maieriaUs^ formalù^ finalis^ e anche Odofredo abusò delle forme dialettiche ; ma siamo ancora molto lungi da quel minuzioso metodo dialet- tico, che costituisce una cod profonda antitesi colla semplicità della scuola di Bologna. Ci voleva Palta mente di Jacopo, di cui nessun altro a quel tempo fu più dotto più sottile, per fare scuola. Pietro da Bellapertica è stato appunto suo disce- polo, e s' è oltremodo compiaciuto delle regole dei loici, traendo alla maniera dialettica di argomentare ciò che gli antichi ava- vano esposto con la maggiore semplicità. Che, se il Malombra, tra noi, combatto e derise questo metodo d'insegnare la giuris- prudenza, non è men vero che altri lo seguitò. Lo stesso Gino da Pistoia confessa di essersi ispirato a quei due, e segue vera- mente l'artificio dialettico.

Si aggiunge, che le università vennero acquistando in questo tempo un carattere più e più regionale, se non addirittura mu- nicipale. Qualche principe vieta già ai propri sudditi di trasfe- rirsi in altre università. Ciò che più importa, il tener cat- tedra e formar parte della Facoltà era qua e un favore ristretto, sia ai cittadini originari, sia a poche famiglie; sicché la cattedra si ebbe talvolta per diritto ereditario: e non è a dire quanto ciò nuocesse agli studi. Ciò accadde per es. a Bo- logna. Non basta ancora. Si fece obbligo ai professori di re- stringersi, anche più di prima, a pochi libri o titoli del testo, trascurando gli altri ; e in realtà ne uscirono stremati di forze. Viceversa, accadeva talvolta che si trabalzassero da una cattedra # all'altra, senza considerarne l'attitudine ed il genio. Gli odii e le invidie fecero il resto. Talvolta bastava la preminenza del /:;rado o dello stipendio, che taluno avesse ottenuto, perche gli si aizzasse contro la invidia dei colleghi, brutta malattia da cui non siamo ancora guariti. Le stesse disputazioni tra i profes- sori erano fomite d' invidia. A produrre la concorrenza e ad aguz- zare, cosi, gli ingegni e mantenere la vivacità negli studi, si era provveduto perchè la stessa materia fosse insegnata da più professori; ma se l'ingegno nel disputare, o la forma elegante del porgere, ne rendevano uno maggiormente accetto agVi scolari^ e tosto i colleghi lo invidiavano e odiavano e T)ersegu*^tavano. Ciò accadde per es. a Filippo Deoio, sicché ix^ ^o '^^^^'^^ eBsete

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suo concorrente. Molti si ricusarono d'insegnare insieme con Ini, e lo stesso Bartolomeo Socino minacciò di lasciare l'cmiTer- sità, qualora gli fosse dato per concorrente il Decio, come gli scolari desiderayano. -.

Cosi, varie circostanze contribuirono a immiserire la scienza in questi secoli; ma del resto, non mancano egregi giurecon- sulti, che eccellono sulla generalità, o, se non altro, si mostrano meno intaccati dalla tabe generale. Faremo anche qui alcuni nomi. ^

3. Sopra tutti giganteggia Bartolo da Sassoferrato (1314- 1367), il vero capo della scuola. Ebbe tra' suoi precettori Cine da Pistoia, Baniero da Forlì, e anche altri ; ma in breve oscurò la &ma di tutti. I contemporanei lo considerarono come il primo professore di diritto che avesse l'Italia, sicchò traevano a lui da ogni paese per ascoltarlo, e le sue decisioni divennero come un testo obbligatorio pei tribunali. Anche l'imperatore Carlo lY lo ebbe caro. la sua fama si affievolì dopo la morte. In Perugia, dove spirò, gli ta eretto un superbo mausoleo con la iscrizione : Ossa Bartoli, Lo stesso Alciato, che pure iniziò una scuola nuova, non mancò di tributargli omaggio, come al primo dei commentatori, aggiungendo, che, quando ometterà di annotare una legge, intendeva riferirsi alla opinione di Ba^ tolo. Nella Spagna e nel Portogallo si decretò, che nei casi dubbi, quando le opinioni dei dottori erano discordanti, i giudici dovessero attenersi alla opinione di Bartolo, come mille anni prima V imperatore Teodosio aveva decretato per Papiniano. Dall'altro canto esso ebbe anche contraddittori. Per es. Ba- niero da Forlì lo chiama uomo di dura cervice, nella cui testa non entrò mai nulla di sottile finche lo ebbe discepolo. Ma Bartolo, da discepolo, era diventato a Pisa concurrens di Ba- niero e ne aveva combattuto le teoriche! Medesimamente il Cujacio, che pure ha parole di grande encomio per Accursio, dimostra una stima molto limitata per Bartolo ed i suoi disce- poli. Q-ià nel discorso di Bourges esso ripudia sdegnosamente i vani commentari che la sètta dei dottori italiani ha aggiunto alle glosse; e il suo giudizio diventa anche più reciso quando si fa a paragonare Accursio a Bartolo: Accursio longe magis corona donaverim^ a quo quidquid àberrat Bartolus, vanae fictio- nes et aegri somnia videntur f Ma c'era di mezzo l'indirizzo

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della scuola. Certo è, che Bartolo fu un insigne giureconsulto, degno di dare il nome ad una età, tanto più ohe veniva dopa un lungo periodo, in cui la esegesi delle fonti giuridiche era diventata una languente tradizione di cose morte. Ora, egli la ravvivò con concetti originali e nuovi; e nelle lezioni e nelle dispute usò di molta vivacità e d'uno spirito, degno di nota. Ma non ò immune da pecche. Se vogliamo, erano le pecche del tempo; anzi ne apparisce affetto meno di tanti altri. Usa cautamente delle forme dialettiche ; ma d'altronde non tiene costantemente l'occhio sopra il testo, e s'implica troppo nella massa informe della letteratura giuridica, ohe conteneva alla rinfasa del buono e del cattivo. In ciò si mostrava ben di- verso dai glossatori, la ciii forza era stata appunto il testo, che avevano fatto sfolgorare agli occhi di tutti.

Intorno a Bartolo si trovano altri. Ricordiamo un suo maestro : Cino da Pistoia, e uno scolaro : Baldo da Perugia.

Appunto sul limitare del nuovo periodo, incontriamo Cino da Pistoia, nato nell'anno 1270 morto nel 1336, gentile rimatore, amato e onorato da Dante e dal Petrarca, divulgatore in ma- teria di diritto delle dottrine e dei metodi degli ultramontani^ anche a rischio di essere tacciato di servilismo. Bartolo disse di lui : Cinus non fuit au8U8 loqui contra Petrum, e intendeva parlare di Pietro da Bellapertioa; ma ò un'esagerazione. Cina mostra veramente qua e una cotale virtù sua ed una asso- luta indipendenza, specie nella Lectura super Codicem, che ne è l'opera principale.

Baldo da Perugia (1327-1400) fu certamente uno dei più fa- mosi giureconsulti del medio evo. Discepolo di Bartolo, superò il maestro per memoria, acume e sottigliezza ; ebbe anche mag- giori cognizioni di diritto, perchè oltre al gius romano, studiò e professò gius canonico, e si occupò di diritto commerciale ; ma ebbe minore virtù nel penetrare il vero delle cose, cambiò troppo spesso opinione, e anche esagerò qualche difetto della scuola. Cori, non ebbe mai presso l'universale quella celebrità che fu consentita al maestro ; e nondimeno si atteggiò a suo emu- lo. Baldo infatti disputò più volte con Bartolo, e non può dirsi che abbia serbato sempre la giusta misura. Qua e lo ricorda con un certo disprezzo, e anche adopera parole mordaci ; chiama ciechi i giudici che ne seguono le opinioni, e gli muove per-

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fino accuse di plagio; insomma cerca di osonrarne la fama; e l'emulazione continua, co^, finché Bartolo vive. Gli stessi suoi panegiristi non lo scusano di essere stato un ingrato.

Degli altri giureconsulti, ci restringiamo a citare i nomi: Alberico da Bosate, Raniero da Forlì, Luca Penna nel se- colo XIY ; Bartolomeo da Saliceto, Baffiiello Fulgosio, GioTamu d' Imola, Paolo di Castro, Mariano Socino e suo figlio Bartolomeo, Antonio Mincucci, Bartolomeo Cipolla, Francesco Accolti, deno l'Aretino, Alessandro Tartagni, Giason del Maino e Filippo Decio nel XY o giù di ; e non sono neppure tutti ! Esaminiamo l'opera loro.

4. In generale, i lavori degli scolastici sono ben diversi da quelli dei glossatori. Non già che le glosse manchino: gli scritti esegetici di Alberico da Bosate, sul Digesto, sembrano, per la forma, come addizioni alla glossa; e non sono i soli; ma u generale la Glossa, già trasformata in Apparato, finisce in questi tempi col diventare Commento, e le Somme, più o meno estese, si mutano in Trattati.

La forma, che la illustrazione del testo assume comunemente, è quella del Commentario, Si dice che già Riccardo Malombra. che fiori sullo scorcio del secolo XIII e sul principio del XIT. abbia scritto dei commentari ai diversi volumi del diritto, come ne scrisse certamente sul Codice. Jacopo da Bel viso è amore di un commentario eAV Authenticum e di uno ai Libri feudonm: Raniero da Forlì ne ha uno al Codice e un altro al Libro dei feudi: Bartolo lasciò lunghi e faticosi commentari alle Pandette, al Codice, alle Istituzioni. Seguono: il commentario di Luca di Penna agli ultimi tre libri del Codice^ che si distingue dagli altri del tempo sia perchè tien d'occhio costantemente il teste. sia anche per lo stile ; e ooA i commentari di Baldo alle diverse fonti del gius civile, specie al Digesto vecchio e al Codice, al Libpj dei feudi e alla Pace di Costanza. Altri sono di Bartolomei' Saliceto sul Digesto vecchio e sul Codice; di Fulgosio sul Di- gesto vecchio, sul Digesto nuovo e sul Codice; di Giovanni d'Imola avlV Inforziato e sul Digesto nuovo; di Paolo di Castro sui trt Digesti e sul Codice, più completi di quelli dei contemporanei di Antonio Mincucci, parimente sui tre Digesti; di Alessandiv d'Imola col titolo di Esegesi al romano diritto; di Francesce Accolti sui libri del gius civile; di Bartolomeo Socino sui ìH^

.^^ita

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ordinari e sulla prima parte deìVInforziato; di Lanoellotto De- oio sul Digesto vecchio, snlV In forziato e sul Codice; di Filippa Decio sul Digesto vecchio, sul Codice e sul titolo De regulis juris; infine di Qiason del Maino sui tre Digesti e sul Codice. Avremo però notato che anche in questi tempi le fonti non vengono il- lustrate tutte ugualmente. Alcune non lo sono affatto, o in troppo scarsa misura: Baldo per es. omette la maggior parte del* l'Inforziate e del Digesto nuovo, e cosi altri. Era questo l'errore dei tempi, cominciato già sotto i glossatori, anzi con Giustiniano, e che continua adesso, di considerare, cioè, alcune parti come più importanti delle altre.

Aggiungiamo ohe parecchi di questi lavori si riannodano più strettamente alla scuola, come abbiamo trovato anche nel pe- riodo dei glossatori. La Lectura in Digestum vetus e la Lectura in Codicem di Jacopo Buttrigrario vanno annoverati tra questi» Più celebre è la Lectura super Digestum vetus di Cine da Pi- stoia. Raniero da Forlì ne conta parecchie : una super Digestum vetus, una suìVInfortiatum, una sul Digestum novum. Ma anche quando il commentario non porta il nome di Lectura, spesse volte non fa che riprodurre il testo delle lezioni. I commen- tari di Francesco Accolti ai libri del gius civile derivano ap- punto da copie delle sue lezioni, nelle quali illustrò saltuaria- mente or questa or quella delle fonti giuridiche, niun altro dei contemporanei avendo tanto abusato del metodo di indugiare su alcuni titoli del testo a scapito di altri. Anche i commentari ai tre Digesti di Giason del Maino, del pari che quelli al Co- dice, sono compilati pressoché interamente sopra le sue lezioni, e presentano le solite lacune. Nondimeno altri sono veri libri. Ricordiamo il commentario al Codice del Saliceto e quello del Fulgosio, che appunto per essere libri, sono scritti più diligen- temente e ordinatamente di altri di simil genere.

Poi vengono i Trattati. Uno di Oldrado da Ponte discorre De legitimatione ; altri di Jacopo Buttrigario, De oppositione com- promissi. De dote, De renuntiationiius, De^ testihus; uno di Cino da Pistoia si occupa De successionihus ah intestato; uno di Ra- niero da Forlì De suhstitutionibus. Al solo Bartolo ne furono attribuiti quaranta su varie parti ; ma si dubita che sieno tutti suoi. Uno di questi, notevolissimo, ha per titolo De fluminibus seu Tyberiadis ; un altro De testibus, rimase imperfetto, e non-

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dimeno è oitato tra' suoi migliori. Baldo scrisse DepactU^BiJi Saliceto De mora ; Giov. d' Imola De appellationibus; Ant. Min- cucci un traciatué quartarum, probabilmente sulla fidcidia; Al Tartagni De actionibus^ se pure non è di Giasone ; Bart. Cipolla De servitutiòus urbanorum praediorum, De serviiuUbui rìutior rum praediorum, De usucapione, De simulazione contraetuum ecc. Anzi il lavoro del Cipolla sulle servitù ha saputo resistere alle ingiurie del tempo, e conserva*tuttodi un legittimo valore.

Insieme corrono per le stampe parecchie Ripetizioni e Qi6 stioni, per es. le ripetizioni del Saliceto, di Giov. d'Imola, di G. B. Caccialupo, di F. Accolti, di L. Bolognini. Quanto alle questioni, esse si adoperavano tuttavia per le dispute nelle scuole; e taluna è addirittura curiosa. Basterà accennare alli Quaestio inter Virginem Mariam et Diabolum: una specie t processo in cui Lucifero, litigando con la Vergine dayaLti a Gesù Cristo, rivendica il genere umano con argomenti t^lt: dal Corpus juris e secondo tutte le regole della procedon Se vogliamo, è una goffaggine; ma trovò imitatori. Qnestioci più serie sono di Biocardo Malombra, Oldrado da Ponte, Jacop di Belviso, Jacopo Buttrigario, Bartolo e Baldo. UEltnch^ omnium auctorum iniziato dal Nevizzano, dal Gt)masio, dal Fi- chardo, dallo Ziletto, e pubblicato a Francoforte nel 1585, per cura di G. V. Freymon, enumera queste dispute; ma generalmen- te servivano più ad pompam che ad utiUlatem, come nota L^:- nardo Aretino nel suo De utilitate disputationis.

Altre opere sono indirizzate esclusivamente alla pratici Citiamo a mo' d'esempio: la Frastica eriminalis di Jacopo a: Belviso, la Practica iudiciaria del Baldo e le Cautele del Ci- polla. Lo stesso carattere presentano i Consigli, che possediamo in gran copia, cominciando da quelli di Riccardo Malombn. Oldrado da Ponte, Gino e Baniero da Forlì, per continuare coi Bartolo, Baldo, Saliceto, Fulgosio ecc. ecc. Si tratta di parer, dati nelle cause forensi ; e forse, e senza forse, sono quanto ^ meglio e di originale offire questo periodo. Nondimeno, appunto la maggior parte delle opinioni contrarie e contraddittorie ii materia di legge è venuta dai molti e vari consulenti come av- verti già il Muratori che secondo l'esigenza delle loro cause tenevano e sostenevano una opinione, mentre altri, per tutto di- verso bisogno ne insegnavano e fomentavano un'altra. In ^

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stanza erano fatiche venali, ohe non sempre ebbero di mira il vero e il giusto, siochè tra il Deoiano e l'Alciato si disputò, se tali meroi meritassero più la luce delle fiamme che quella del giorno. E l'Aloiato si pronunciò eziandio su alcuni di questi consulenti. Era convinto che i consigli del Barbazza, di Qiason del Maino e del Parisio non potessero nuocere gran fatto, per» che sostenevano le loro ragioni con si miserabili argomenti, che ognuno era in grado di accorgersene. Migliori i consigli di Paolo di Castro e di Bartolomeo Scoino ; ma sarebbe stato me- glio non pubblicarli, perohò fatti per cause spallate ed atti a sedurre. Quelli del giovane Scoino e di Filippo Decio, perchè provenienti da uomini di sottile ingegno, potevano ingannare anche i più esperti.

B. Carattere della acuoia.

1. Noi consideriamo la scuola nel suo insieme e ne stu- diamo il valore; ma a tal uopo converrà distinguere, perchè il bene e il male vi sono frammisti.

Anzitutto s'intende di leggieri come, rappresentando essa l'applicazione dei principi e dei metodi della scolastica al diritto, ne dividesse tutti i vizi. Ne segnaliamo due : l'abuso delle for- me logiche della dialettica e l'abuso delle autorità.

2. U primo appare appunto un grave difetto della scolastica. La sua azione formale non poteva non influire anche sullo svolgi- mento della giurisprudenza, e, lo diciamo subito, non fu una influenza salutare. In generale, la scolastica faceva un grande abuso della logica. Specie i Realieti, che, sull'esempio di Pla- tone, tenevano ferma la realtà obiettiva degli universali (unt- versalia ante rem\ dovevano accordare una grande preponderanza alla logica. Ma gli stessi Nominalisti, che pur chiamavano i concetti universali, semplici flatue vocis, non poterono evitame gli abusi, se non altro per combattere gli avversari, che, nelle argomentazioni dialettiche, trovavano il mezzo principale per costruire le proprie teorìe. Ora, l'abuso della dialettica e Tosse- quìo alle deduzioni penetrò anche nella giurisprudenza, e non a torto la nuova scuola fu detta degli scolastici o dei dialettici. Ciò che la caratterizza è appunto il metodo BColasUco, che vi domina con le sue mille distinzioni e 8U(^A!^\xxz^\oiì\ e limita- zioni all' infinito, che hanno fatto degenet^v \«i %c\ft^^^ ^^^ ^'

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ritto in un caos di sottigliezze e di casistica. Si abusava addi- rittura del sillogismo, facendo si che la forma prevalesse sulla sostanza ; si seguiva la logica di Aristotele raffazzonata da Boezio e da altri; non si facevano più ragionamenti sciolti, e anche nel diritto si procedeva per divisioni e suddivisioni. Il Cuj&cio ebbe a dire di questi giureconsulti : Verbosi in re facili, in dif- ficili muti, in angusta diffusi.

Per questo riguardo, la scuola segna un periodo di deca- denza. La precisione, l'acume, le vedute proprie, la bella sem- plicità, la succosa brevità dei glossatori, non si ritrovano più: che anzi il testo fu come affogato nei commenti, multorum ca- melorum anus; ed ò notabile la taccia data dal Gravina allo stesso Bartolo, il Dio della scuola, di non dividere, cioè, ma frantumare il soggetto, si che i frantumi ne andavano col vento. Era un singolare e complicato meccanismo, che, mediante un Ì£- granaggio di ruote vicendevolmente congegnate, elaboraTa i testi : meccanismo che il Gribaldi Mofa ha configurato in qb noto distico:

^ Praemitto, scindo, summo, casumque figuro, Perlego, do causas, connoto et obiicio„.

Erano questi i punti, che bisognava partitamente considerare in ogni passo del testo ; e chi volesse saperne di più può leggere Is relazione che Gian Tommaso Frei (Freigius), un buon tedesco, che studiò in Italia appunto in quei tempi, lasciò scritta sui me- todi delle scuole italiane. Si esprime cosi in ordine ad esse: ^Non ho veduto mai alcuna più singolare logica in dùcendo di cotest:* apparatus, dove si deve solamente dettar molto, scriver grossi libri, scarabocchiare carta e sciupare inchiostro. Ci sono dap- prima le continuationes titulorum e le explicationes rubricarnmy che a volto non si esauriscono neppure in mezzo anno. Dopo. si arriva alla Lex^ e si mandano innanzi alcune osservazioni* ciò che s' intitola praemittere ; e cotesti schiarimenti non sono il più delle volte che merae repetitiones ex Institutionibus, op* ^pure grammatica interpretatio quorundam vocdbulorum. Segue poi la Legis divisio^ che si chiama Scindo; e qui la logica si mostra alcun poco. In terzo luogo si fa il sommario della Lex ex Bat- toli aut Baldi aut alterius opinione, o anche secondo tre o quattro doctores, i cui summafia però vengono respinti, per lasciare iJ

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posto ad un altro escogitato dal professore stesso. In quarto luogo, si configura e si forma in nube un caso strano, che non serve a nulla, o anche superfluo, perchè spesso ò compreso in ipaa lege, a cui solo basta aggiungere Titium o Sempronium o do- minum Petrucium, E quando tutto ciò si ò strillato o dettato con gran pompa, segue il quinto punto, e il doctor domanda se possa ancora leggere il testo, ciò che si dice Perlego. Subito dopo viene il Do causas; e le cause, non altrimenti dei casus^ sono anche comprese nel testo, chi lo sappia leggere. Gli ul- timi due punti sono: connoto et obycio. Allora si dice: nota primo, nota secundo^ e s' impegna una nuova lotta siffattamente, che colui, il quale oramai dopo tanto sminuzzamento si è posto in capo la Lex (se pure ha avuto un buon Dio dalla sua), fini- sce col dubitare de legis intelUctu^ cioè col non capirne più nulla „. Il Freigius termina dicendo : ^ E questi sono i grandi motivi che ci spingono a lasciare la nostra cara patria tedesca per correr dietro alle scuole forastiere. Infine, queste non hanno tutto il torto di dire : * acdpimus pecuniam et mittimus asinum in Oermaniam .

3. L'altro difetto risiede nell'abuso delle autorità. Il più delle volte questi giureconsulti non presentano indagini proprie, ma rivangano quelle dei predecessori, e sostituiscono troppo spesso l'autorità dei nomi alla ragione dei testi.

Cosi la glossa continua ad imporsi, nonostante che la nuova scuola avesse inteso, in sulle prime, di liberare gli spiriti dal giogo oppressivo di essa. L'opinione che valesse più la glossa che il testo dura tuttavia, tanto che a Padova si istituisce una cattedra per ispiegarla. L'opinione è riferita dal Fulgosio: Volo prò me potius glossatorem quam textum. Nam si allego textum, dicunt advocati diversae partis, et etiam iudices : Credis tu, quod glossa non ita viderit illum textum sicut tu, et non ita bene in* tellexerit sicut tut Lo stesso Fulgoeio crede di dover fare ono- revole ammenda per l'audacia, che si era permessa, in una cotal disputa di scuola, di andare contro la opinione della glossa e pensare con la sua testa: Credebam enim^ quod essent speciales apostillaey quae sunt in libris grammaticae^ sicut super Virgilio et Ovidio, Sed tamen non ita est. Fuerunt enim glossatores maximae scientiae viri et auctoritatis.

Ma v'ha di più. La scuola stessa, che pur si era sollevata

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L ; contro la infallibilità della glossa, ne ereditò buona parte. Dopo

I ; tutto, non si fece che aggiungere infallibilità a iniallibilità. Ciò

[ ; vale specialmente di Bartolo, a cui fìi pure dedicata una cane-

1^ i dra per spiegarne le opere; mentre Giasone ebbe a dire di Ini;

I Quem semper in legibus ut terrestre numen colui, et cuéustesth

già semper quantum licuit adoravi. Lo si venerava come il Dio f j della legge, ne più meno; e come di un Dio se ne accetta-

^ ! vano i responsi! In questi tempi correva anche un detto: A'emo

bonus iurista nisi sit bartolista^ che riproduce la medesima idea del culto che ispirava la opinione del maestro. Ma anche le opere di Gino, di Baldo, di altri scrittori, parteciparono a que- sto feticismo. Era proprio l'andazzo dei tempi! Cori le opi- nioni dei dottori venivano introducendosi nei giudizi, e vi erano accolte con tale ossequio, da supplire^ in certa guisa, il diritto romano e gli statuti municipali. Infine, non si badò ad altro che alla opinione della maggioranza degli scrittori, che si disse la communis opinio: ogni cura fu spesa nel rappresentare le opinioni altrui, ed ogni merito si misurò dalla chiarezza e dal metodo di ordinare il caos delle citazioni. La cosa andò tan- t'oltre, che si venne perfino a divisioni e suddivisioni di opi- nioni ! Del resto, il fenomeno non è nuovo nella storia. Ci fc un tempo, anche a Roma, in cui gli scritti dei giureconsulti co- stituirono essi stessi il ius^ e la recepta sententia diventò legge per il giudice: la communis opinio non è molto diversa da que- st'ultima.

4. Quanto alla lingua, non esitiamo ad affermare che è addirittura rozza: lingua tronfia, ripiena di barbarismi, e h aspramente rimproverata agli scolastici. L'Agrippa per es. di- ceva: Barharies » . . . veluti herba parietaria^ juris civilis purii- simam elegantiam obduxit. Altri si mostrano anche più seyeri. Antonio Mureto, uno dei più brillanti allievi del Cujacio, è ad- dirittura violento nei suoi attacchi. Egli lasciò scritto in ni luogo: Qualem nobis cuiusque generis praeceptorem farraginei\ reliqueruntf ut si quis rusticus hordeum, triticum, vidam, legu- mina in unum acervum conferai, non illis acervum horum cont- mentariis existimem perturbatiorem fore. E altrove : Non unam linguam esse, qua loquantur, sed deterrimum quemdam cinnum ex foedissima barbararum, peregrinammo inauditarum vocum coUuvione, olentem^ ut servus ille Plautinus, ait, allium, hircum,

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haram, suenij canem^ capram eie. Qael loro latino sapeva di tutto questo! Babelais lo chiamava un latin de cuisinier et marmiteux, non de jurisconsulte. La rozzezza dèlia lingua la- scia intrawedere che quei giuristi non dovessero essere molto ad- dentro nelle lettere ; e di fatto la loro ignoranza, per questo ri- guardo, non trova riscontro che in quella dei giureconsulti che li hanno preceduti.

5. Nondimeno, anche questo nuovo indirizzo ha la sua importanza. Gli scolastici erano uomini emiDentemente pratici, e Vu8U8 modernus del diritto romano deve molto ad essi.

Il punto di vista, da cui hanno preso a trattare le opere di Oiustiniano, fu appunto quello della pratica. Essi le misero in relazione coi bisogni del tempo, e ciò determinò il carat- tere della loro interpretazione. In sostanza, si riattaccavano ad una tendenza, propria delle scuole di Boma e di Bavenna, e che non può dirsi fosse rimasta afi'atto estranea a quella dei glossatori, quantunque allora non avesse fatto fortuna. In que- sti tempi i commentatori la riprendono per portarla alle sue estre- me conseguenze, cercando un lato pratico anche a rapporti, ohe propriamente riguardavano le speciali condizioni di Boma pa- gana. E vi riescono a meraviglia. Il che non vuol dire che ogni cosa in essi fosse romana. Tutt'altro! D'altronde il di- ritto romano non bastava a regolare tutti i rapporti giuridici sorti in seno alla nuova società, e che pure occorreva discipli- nare. Bisognava riempire le lacune della legge, dove la legge non parlava: era anche necessario di moditìcarla e correggerla dove le sue regole non si attagliavano bene alla nuova ci- viltà, avvicinandolo maggiormente al mondo, in mezzo a cui dovevano agire. E lo fecero mediante la interpretazione. La quale, trascendendo esosi i buoi limiti, rìusoiva veramente più d'una volta a usare violenza al tastOj a contorcerlo, a fargli esprìmere ))i{i o meno, o anche il contrario, di ciò che realmenta diceva; ma intanto il diritto veniva adattato alTambìeute, Altre volte si tratta di istituti appena iutravveduti dai liomanif vera ma- teria rude ed informe; e non altrimenti dell'artista che dal mar- mo trae la tìgura già foroiata nella mente, ì commeutatorì ne traggono dt^lle Sgure completa, «alde sulla loro base giuridicaf organizzata* in tutte le loro parti. Dopo tutto, i prudente» del- Tantica Bom& non avevano tenuto altri metodi. Anche eesì

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pur interpretando la legge, avevano fiotto ben altro che chia- rirne il senso recondito : si erano anzi industriati per adattai^ e coordinare alla legge il diritto nuovo, quale si andava svol- gendo nella vita. U che potrà essere censurabile dal punto di

g vista della esegesi pura; ma certo non lo è da quello della vita^

V che è qualcosa di più e di meglio che non la sapienza civile di

un mondo che, almeno in parte, era morto. Comunque, ci guar-

\ deremo dal tacciarli di ignoranza; perchè, ammesso pure che

talvolta prendessero abbaglio, e chi non erra? conviene ammet- tere però che il più delle volte contorcessero il senso della legge (con deliberato consiglio. Essi non vedevano, non volevano ve- dere e leggere il Corpus juris che attraverso il prisma dei costami e delle idee dell'epoca loro; e, ogni qual volta si abbattevano in qualche bisogno o desiderio legittimo del tempo, ponevano

^ ogni studio a soddisfarlo, anche a rischio di non essere in tntto

fedeli al diritto, di cui si proclamavano interpreti.

Cosi la scienza, mediante l'organo di questa scuola, veniva quasi a porsi in mezzo tra il diritto romano e la vita ; e, men- tre aumentava la suppellettile legale del giudice, lo aiutava a superare le difficoltà dell'appi icazione, appianando le differenze, che pur passavano tra quella età ed una antichità tanto remota. Ed è cosi che si costruirono varie teorie del diritto vere e pro- prie, ingegnose, larghe, feconde, corrispondenti alle esigenze del tempo, e in parte anche a quelle dell'avvenire ; ma non erano teorie romane. Il diritto romano serviva tutt'al più di

(pretesto. Molte volte si trattava di qualche frammento isolato, o anche sviato dalla sua significazione e dalla sua portata ori- ginaria. L 6. Ciò vale di ogni ramo di diritto, si pubblico che pri-

I vato.

' I nostri giuristi discutono parecchie questioni politiche, o vi

accennano, molto tempo prima che facessero la loro comparsa nella storia della giurisprudenza d'altri paesi. D'altronde co^ revano tempi in cui il vecchio mondo cadeva sfasciato e il nuovo non si poteva ancora dire assodato. Da un lato, il sogno del- l'Impero universale che si dilegua; dall'altro, la esistenza di J gruppi politici autonomi, ohe domandano di essere riconosciuti:

come si comporteranno quei giuristi davanti ad una tale mina f e davanti a simili affermazioni di una nuova vita politica? B

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momento è interessante, e metterebbe oonto di studiarlo attra- verso la storia del pensiero giuridioo italiano; gli scritti dei post-glossatori acquisterebbero cosi una nuova importanza. Ci restringiamo a notare che essi non mancano di occuparsi qua e delle nuove questioni sorte all'orizzonte della vita : dispu- tano sui limiti della potestà laica e pontificia, e abbordano il problema delle nuove configurazioni politiche ; ma più d'una volta cadono scorati davanti al nuovo stato di cose che cambia fiskccia alla società. Già Cino da Pistoia e Baniero da Forlì si occuparono di tali questioni. Bartolo scrisse addirittura dei trat- tati politici, tra cui quelli De tyrannia^ De regimine civitatis, De Guelfis et Oehellinis, che il Savigny giudicò di poca impor- tanza, ma che Francesco Forti ebbe in gran pregio. Nondime- no è certo che le teorie di diritto privato sono più frequenti; e appunto in esse, meglio che altrove, appare la tendenza dei giu- risti a modificare il gius romano secondo i bisogni della pratica.

7. Specialmente Bartolo sa inalzarsi dall'umile ufficio d' in- terprete fino a concetti generali e sintetici, deducendone im- portanti applicazioni alla pratica, ohe si rammentano e s'invo- cano tuttodì nel fóro ; ma anche altri lo hanno seguito per que- sta via.

Una teorica dovuta a Bartolo è quella degli Statuti e del loro conflitto. In quei tempi, in cui quasi ogni città vantava leggi proprie, era naturale che sorgesse la questione di sapere a quale statuto si dovesse ricorrere, quando la persona e i beni, ch'essa possedeva, appartenevano a territori diversi. La que- stione non era nuova. Già nella seconda metà del secolo XII maestro Aidrico aveva chiesto : Sed quaeritur, si homines diver^ sarum provinciarum, quae diversas habent consuetudines, sub uno eodemque iudice litigant, utram earum iudex qui iudicandum su'- scepit, sequi débeat f E cosi non molti anni più tardi un anonimo canonista di Bologna: Quid enim dicemus si diversae sunt con" suetudines actoris et reif

La collisione degli statuti comincia cosi a formare oggetto di studio, e potremmo ricordare più di un egregio giureconsulto che se n'è occupato : Carlo di Tocco verso il 1216, Biagio da Morcone nel trecento, anche alcuni stranieri, tra cui Jacopo de Bavanis, finché si arriva a Bartolo. Aggiungiamo, che la questione si pre- sentava tanto più difficile, in quanto vigeva allora il concetto di

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una autorità legislativa e giudiziaria strettamente racdùnsa nei limiti della sovranità territoriale. Era il concetto romano, che paò vedersi espresso nella regola: Extra territarium jiu di- centi impune non paretur. Ora, Bartolo si emancipa da siffatto concetto, e, prendendo le mosse da un testo del Codice, la L. 1 (7. de summa Trin. 1. 1, che veramente non si adattava all'ar- gomento, non esita a riconoscere che la persona abbia un vero e proprio diritto di far rispettare la sua legge natia anche dai giudici stranieri, quando si . riferiva al suo stato ed alla sua capacità personale, salvo ad ammettere lo statuto del luogo, quando si trattava di beni. Cosi introdusse per il primo la di- stinzione fra lo statuto personale e lo statuto reale; ed è certo che il concetto, a cui si ispira, è per intimò valore scientifico superiore alle condizioni della scienza e della civiltà de' suoi tempi^ cosi inospitali per gli stranieri.

Un'altra teorica di Bartolo, non meno famosa, riguarda le enfiteusi temporanee dei beni ecclesiastici. Egli si appoggia questa volta ad un passo del Digesto, la L. 1 § 41 D. de aqua quot. et aestiva 43, 20, e ne deduce che il proprietario, dopo e^aa- rito le generazioni concessionarie, abbia nondimeno obbligo di rinnovare Tenfiteusi a favore del prossimo consanguineo del- l'ultimo enfiteuta defunto. Era una teoria, che, mentre com- batteva la manomorta, impediva che i coltivatori fossero spo- gliati delle terre fecondate dal loro sudore; e la teoria attac- chi. Propugnata vigorosamente davanti ai tribunali, fini col diventare, quasi dappertutto, una consuetudine accettata col nome di Consuetudine di Bartolo o di Equità di Bartolo.

Parimente, la destineizione come mezzo costitutivo di ser- vitù, che i compilatori giustinianei avevano riconosciuto per un puro caso, acquista tra le mani di Bartolo una forma giu- ridica, un organismo ben delineato e saldo, proporzionato alle esigenze pratiche. Bisogna che la causa sia continua e perma- nente; ma, data quest/a ipotesi, la consuetudine del proprietario, di far servire un fondo all'altro, deve giustamente far luogo alla convinzione ch'egli abbia voluto assoggettarlo in perpetuo; e se nel momento della separazione dei fondi non è dichiarato nulla in contrario, basta quella sua volontà a dar vita alla servitù.

Insieme potremmo ricordare la teorica dello stesso Bartolo sulla validità dei testamenti per relationem ad schedulam, che

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oggidì si ohiamano mistici; quella in tomo alla aosiituziane cam^ pendiasa ed alla anomala^ e molte altre.

Anche qualche istituto del diritto commerciale è stato posto sotto l'egida del diritto romano.

Bartolo, pur sostenendo che i patti nudi non avevano effi- cacia di fronte al diritto civile, opinava che fossero obbligatori nel diritto commerciale, dove le questioni si decidevano bona aequitate. Egli oo^ si esprime : in curia mercatorum^ ubi de ne- gotto potest decidi bona aequitate, non potest opponi ista exceptio : non interoenit stipulatici sed pactum nudum fuit. E con ciò sancisce un principio nuovo. Del pari, Cino e Baldo, inter- pretando la legge 6 del Codice ad S. C. Mac. 4. 28, sostengono che la eccezione del So. Macedoniano non abbia a che fare col diritto commerciale; ed essa resta definitivamente respinta dalla cerchia di quel diritto. Baldo si occupa eziandio del con- tratto di cambio. Il quale, manco a dirlo, era guardato con sospetto dalla pratica ; ma Baldo lo riduce ad una specie di compra-vendita; egli può afiermare, cosi, che si tratta di un con- tratto lecito, e ne salva l'esistenza: quia est emtio venditio et naturali aequitate propter pericula quae {mercatores) subeunt transmissione pecuniarum licite recompensatur, unde non est tusura.

Per ciò che concerne la tutela dei diritti, basterà accennare all'acato spolii ed alla esecuzione parata degli strumenti gua* rentigiati, ohe i giureconsulti accettano e fanno passare per merce romana. Ora, ò certo che Vaetio spolii non è un parto del diritto romano, come essi stosten evano ; ma in tempi di vio- lenza come furono quelli che corsero dal secolo XIII al XVI, in cui la sicurezza del diritto e il buon andamento della giu- stizia erano messi a dura prova, è facile comprendere che i mezzi ordinari a tutelare il possesso non bastassero e si ricorresse a qualche espediente straordinario. Ne la cosa sta diversamente con gli stromenti guarentigiati. Si trattava di una importa- zione germanica ; ma i giuristi le accordano la sanzione legale, appoggiandosi ad un principio che ricorre più volte nel Corpus juris^ ohe eonfessus prò judicato habetur. Manifestamente esso non aveva a che fare col caso; ma i giuristi non vi badarono tanto pel sottile: si trattava di provvedere ad un bisogno ge- neralmente sentito, e non esitarono ad assicurare al nuovo isti- tuto la sanzione del diritto romano.

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In mezzo a tutto ciò si notano degli errori, che non 8i po- trebbe non mettere a loro carico. Lo stosso Bartolo è autore di una teorica d' infausta celebrità : ohe, cioè, le pene dei rei di maestà dovessero applicarsi anche ai non rivelatori del reato. È una teorica che ha costato la vita a molti, ma che si fon- da sopra una errata lezione del tosto. Certo, non si trattava in questo caso di alcuna veduta moderna del diritto, a cui il giurista obbedisse. Nondimeno il più delle volto, ciò che il nostro occhio esercitato riguarda come errore, non deve lit^ nersi tale. Era il frutto di altre veduto, a cui gli interpreti consciamento s' inchinavano ; perchè non lo ripetoremo mai ab- bastanza -~ il diritto romano era tra le loro mani non solo un diritto vigento, come lo avevano inteso i glossatori, ma anche un diritto capace di sviluppo e di progresso, che doveva accon- ciarsi a tutto le esigenze e a tutto le contingenze della vita.

LIBRO SECONDO

L'ETÀ MODERNA

I tempi, di cui ci rimane a discorrere, abbracciano a mala pena tre secoli, dal 1492 al 1789; ma chiudono degnamente il medio evo per inaugurare una età nuova, che nessuno può an- cora prevedere dove metterà capo. Non si tratta veramente di un'epoca, come le precedenti, ma di un periodo, e piuttosto ca- lamitoso: anzi, stando alle apparenze, si direbbe quasi che l'Ita- lia più non esistesse; ma noi non ci fermeremo alla corteccia. In fondo, sono tempi di singolari contrasti, che finiscono con r iniziare tutto un nuovo ordine di cose. Certamente, le prepon- deranze straniere tengono il campo; ma nondimeno basterà il Piemonte a salvare il principio di nazionalità; e d'altronde, ap- punto in questi tempi viene diradandosi sempre più quella selva selvaggia di feudi, di comuni, di signorie, che abbiamo trovato nell'epoca precedente, per far luogo ai grossi St^ti, che servi- ranno, se non altro, di avviamento all'unità. In questi mede- simi secoli le Corti assorbono lo Stato, lo corrompono coi mali esempi, lo dissanguano con le prodigalità, l'opprimono: la li- bertà, che aveva formato la grandezza dell'Italia, pare spenta; le operose virtù del medio evo inaridiscono, lasciando il campo soltanto ai vizi più bassi: la stessa scoperta dell'America, di- schiudendo nuove vie al commercio, ne sposta il centro dal Me- diterraneo all'Atlantico; e d'altra parte la coltura si scioglie definitivamente dalle strettoie teologali, per ritemprarsi nello studio dei classici. In questo grande risveglio, l'Italia tiene an-

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cora il primato. Più tardi verrà il libero esame. Proclamato dalla riforma di Lutero, preparato, alla sua voUa, dagli studi de- gli Umanisti, esso scuoterà anche più, e definitivamente, il prin- cipio d'autorità, influendo, se non altro, in modo indiretto sn tutta la vita civile della penisola. Non basta: appunto in qne sti tempi la stampa diventa un mezzo potentissimo d'iDcivi- limento ; la polvere, applicata da prima alle artiglierie, poscia ai fucili e alle mine muta essenzialmente gli ordini militari e ra> te della guerra, rimette in onore la milizia a piedi e sta per ab- battere le alte torri e le mura merlate ; la bussola scoperta gii prima, viene appena in questo tempo applicata alla navigazione, e vi porta una rivoluzione, i cui eflTetti si svolgono ancora. E ad essa che si deve il commercio moderno. La stessa America, da' suoi immensi serbatoi del Messico, del Perù, del Chili, versa enormi masse metalliche sull'Europa, producendo una rivoluzio- ne monetaria, che sposta il centro della ricchezza, recando nn fiero colpo all'aristocrazia territoriale, a tutto vantaggio dei com- mercianti e degli industriali. Poi dalla Francia verranno nuove idee filosofiche, massimamente intomo al clero, all'economia de- gli Stati e alle basi della giurisprudenza, e troveranno facile accesso in Italia, che le ravviverà e feconderà. Già nel secolo XVllI si comincia a ragionare dappertutto dei diritti e dells uguaglianza degli uomini : e si vuole ricostruire la società e rìo dinarla sopra principi più semplici, mettendola d'accordo con la ragione, con la giustizia, con la morale. Se vogliamo, era una idea umanitariaj che dopo lunghi incunaboli, finiva con ^affe^ marsi definitivamente nella vita; e non ci farebbe meraviglia se i venturi appunto da essa denominassero Tepoca, ohe si pn^ dire appena cominciata.

In tutto ciò entra una doppia corrente.

Dapprima, è osservabile che, mentre colla caduta di Costan- tinopoli scompare l'ultimo testimonio vivente del mondo romano, appunto i profughi di quella città, portando con so una quan- tità di codici, abbiano contribuito alla maggiore divisione della coltura antica ; e i nuovi tempi paiono tutti rinnovarsi e rin- giovanirsi al contatto di essa. E stato un vero e proprio ri- sorgimento, che non ha mancato di rivelarsi anche negli ordini politici e giuridici. Perchè, se i popoli si raccolgono oggim&i in grandi masse omogenee, e il potere sovrano si afferma sem*

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pre più di fronte alle potestà rivali cresciutegli dattorno, lo si deve certamente all'influenza romana. La stessa legislazione tende risolutamente a cancellare tutto ciò che poteva esservi ancora di germanico nelle istituzioni, per tornare nientemeno che ai bei tempi del diritto classico, in cui T individualismo spa- ziava liberamente, senza troppi impacci sociali.

D'altra parte, l'idea della fratellanza e della uguaglianza de- gli uomini che la rivoluzione francese ha introdotto da prima nella vita sociale, è una idea cristiana. Proclamata dal Cristia- nesimo, era stata fino allora ripetuta macchinalmente senza es- sere compresa, senza che vi si prestasse fede, senza la speranza che potesse un giorno o l'altro, penetrare nei codici. Il Cristia- nesimo restò, per questo riguardo, come chiuso in lìn sepolcro, finché la squilla della rivoluzione lo resuscitò e gli dette corpo. Mirabeau ha tracciato in un suo discorso l'avvenire della Eivo- luzione con queste parole sacramentali: La Francia insegnerà alle nazioni che il Vangelo e la libertà sono le basi inseparabili della vera legislazione e il fondamento eterno dello stato più per- fetto del genere umano. D'altronde, il Cristianesimo della Eivo- luzione non era il Cattolicesimo. Un giorno, ohe il clero osò chiedere alla Costituente una esplicita sottomissione alla Chiesa di Roma, Mirabeau, avvicinatosi alla finestra della terrazza dei Feuillants, mostrò col dito il palazzo onde era partito il segnale della notte di San Bartolomeo; e tutti tacquero: tutti senti- rono che la Francia, in quel momento, aveva fatto un gran passo. Fu osservato già da altri, ohe se la Rivoluzione poteva ancora stringere alleanza col Cattolicesimo era soltanto a patto che si lasciasse oompenetrare da un soffio vivo; ed essa tentò veramente di ricondurlo alla perduta libertà, rendendo le ele- zioni dei preti al popolo. In fondo, si trattava di ritemprare la Chiesa nelle sue origini ; ma è noto ohe cosa ne avvenne : il nuovo Cristianesimo democratico parve un'eresia, e la Costituente fu scomunicata. Per Roma non c'era di ortodosso ohe la veo* chia servitù.

Naturalmente, noi ci restringiamo ad esaminare questi con- trasti nelle leggi e nella scienza.

TITOLO I.

LEGGI E CONSUETUDINI

Capo I. Le Leggi.

§ l. - LEGGI PROVINCIALI.

1. È oerto che le fonti legislative, diciamo meglio, i molti corpi di leggi, che trovammo nell'epoca precedente, continuano anche in questa: il diritto romano e canonico, le costituzioni imperiali e quelle dei principi, gli statuti municipali e quelli della campagna, gli statuti e le consuetudini delle arti, dei com- merci, dei feudi, dei livelli ; ma insieme ci sono leggi nuove, co- nosciute sotto diversi nomi. Più comunemente, sono chiamate Editti e anche Bandi : un nome, che s' incontra qua e anche per Taddietro, che però in questo periodo diventa sempre più fre- quente, si da parere quasi che non ci fosse altra specie di legi- slazione. Ma ciò non deve recar meraviglia. Era una forma che s'attagliava meglio all' indole dei tempi, come quella che non ab- bisognava della conferma di alcun Parlamento.

In generale, la legislazione in questi tempi è nelle mani del potere sovrano : quasi tutto il movimento legislativo si accentra in esso e da esso emana ; ne può dirsi privo d' importanza. Ciò vale specialmente della legislazione principesca, poiché non v'ha dub- bio, che il periodo che ci proponiamo di studiare, sia il periodo del- la prevalenza monarchica. Quasi dovunque il potere monarchico si era afiermato o si andava affermando in danno dei comuni, dei feudi, della Chiesa; ed ò questo potere che sostiene prin- cipalmente la lotta delle nuove idee, che vengono maturan* dosi contro gli avanzi ancora esistenti, delle istituzioni me- dievali.

Importa però fare una distinzione tra leggi promulgate ve-

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ramente dai principi e leggi emanate dai governatori e altri magistrati maggiori, politici e giudiziari. Bicordiamo per es. le gride dei governatori di Milano, le prammatiche e i dispacci dei viceré di Napoli, i bandi del cardinale vicario e dei legati dello Stato pontificio, gli ordini del Senato piemontese e di qnello di Milano, gli ordini del tribunale di provvisione della città e ducato di Milano e via dicendo. Fra le leggi degli uni e de- gli altri c'era molta differenza

I principi potevano provvedervi da se, e solo era uso che consultassero in precedenza qualche alto corpo deUo Stato, e anche qualche magistrato e altre persone competenti, dna legge di Emanuele Filiberto del 1559 fu pubblicata appunto con la partecipazione dei signori del Consiglio di Stato; e parimente si legge nel proemio di una costituzione di Paolo Y del 1612 : Omnes pene almas urbis magistraius alioeque viros doctrina et U8U prciestantes, eimul convenire ac rem per eos diu examinari fé- dmus. Ma non era necessario. Soltanto nella monarchia di Sa- voia si attribuì, sulFesempio di Francia, ai supremi magistrati giudiziari la facoltà d'interinare e registrare le leggi e altri provvedimenti del principe; e questo, se vogliamo, si presentava come un correttivo deirassolutismo, verso il quale si era av- viato lo Stato. Perchè V interinazione implicava un esame della legge allo scopo di constatare se fosse giusta e utile, e dava a quei magistrati il diritto di farne rispettosa rimostranza al prin- cipe; ma dopo tre intimazioni dovevano obbedire. Invece, pei viceré e governatori esisteva l'obbligo di udire le supreme ma- gistrature del paese. Re Ferdinando di Napoli, appunto per re- golare il potere del viceré, istituì un consiglio, ohe gli sedesse allato, e che da ciò fu detto collaterale. Esso formava un corpo solo con lui, e non vi fu prammatica o dispaccio, che si pub- blicasse senza consultarlo. In Sardegna c'era la regia udienza. che i governatori dovevano udire; come a Milano il consiglio segreto o il senato, secondo che si trattasse di materie ammi- nistrative o giudiziarie.

Inoltre, le leggi che emanavano direttamente dal principe erano perpetue; mentre quelle dei governatori o legati, a rigore non avrebbero dovuto durare che quanto durava l'ufficio. È sempre il vecchio principio, che, cioè, il magistrato, se pure può emettere editti, non può farlo che nei limiti e pel tempo della

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Kua magistratara ; e nondimeno accadeva che il successore si af- frettasse a confermarli : anzi, se badiamo al gridario milanese e ai bandi bolognesi, pare che la cosa diventasse abituale.

Molte di qaeste legi^i sono anche state raccolte, e se ne sen* ti va veramente il bisogno per la mancanza di un bollettino g6« nerale, dove in^-erirle di mano in mano che si pubblicavano. Un tale bollettino fu introdotto da prima in Francia nel 1793, e di passò anche da noi: sicché veramente gli editti vaga- vano senz'ordine, raccomandati, più che altro, alla memoria dei sudditi. Nel fatto, accadeva frequentemente che se ne perdesse la notizia, e ad ogni modo regnasse una grande incertezza, e non si sapesse con precisione quali ancora fossero in vigore e quali no. Perciò non recherà meraviglia che si pensasse tal- volta a fame delle collezioni d'ufficio, e anche di carattere privato, provredendo ad un bi.sogno tanto più sentito, quanto più le leggi si moltiplicavano. Anzi, di mano in mano che si procede nei tempi, tanto più crescono : onde non sarà inutile fame l' inven- tario, passando in rivista i vari Stati d'Italia, che si reggevano a monarcato, e anche quei pochi che conservavano tuttavia le vecchie forme repubblicane.

2. Le maggiori varietà si trovano nell'alta Italia; e il Piemonte va innanzi.'^ In questa regione già con Emanuele Filiberto (1553-80), s' inaugura rr*ra nuova e una vita nuova. A datare da questi tempi, il principe esercitò sempre la {)ote>tà le- gislativa senza contrasto; ed egli stesso pubblicò molti editti.

*^ Bibliografia. ^ Nel to^to aooenxuamo a più collezioni. (Hi editti per le Provincie di qua dai monti furono raccolti dal BoreUi col titolo: J-^diUi an- tir ni e nuovi cUi sovrani principi della ^ real Qa$adi Savoia, delle loro tuirid dei matfiMlrati di qua dai motUt, raccolti d'ordine di M. R, Maria G, BaUìHa^ dal tenalore G, IL Borclliy Torino, 1&4). Comprende le leg^ dal 1582 al 1681. Per la Savoia abbiamo la collezione di Qaapare BaUy eseguita anche d*ordine della re^gonte. Ha per titolo: Heeueil de* éuiu dee duce de la roteale Maieon de Sm- vo%f cU'puit Kmanuel PkUifterl juèqu' à préeent, fait en euile dee ordree de Madame Hot/ ale fururetetaeni r^tfetUe par G, B.»ifi*/, Ohambery, 1679. Comprende gli editti dal* 1551) al 1679. Una tersa raccolta ordinata puro da Biaria Giov. Battista fa condotta a termine da Al. Jolly, e comprende eli editti lopra la gìuriediiione doUa Camera, lo gabelle^ i tributi e il demanio dal 1889 al 1B79. Ha per titolo: Compilation dee anciene edil$ dèe Prineee de la Maieon de Savoie^ Chambery, 1679. Un^ultima raccolta del Daboin porta oueeto titolo: RaeeoUa fter ordine diwu^- Urie delle U'jiji, edittif patemi, nutni/eetu ecc, ewumati ne^li Stah Sardi $ino eUV8^ dicembre 17 UH d'ti Sovrani della rial taea di Smvoia. eommlata dagli avvocati Felice Ambito e CainUlo Duhoin, proetgwUa da AUe§amaro Mwtio e Felice CoKml Torino, ISlH-ls?.), SJ volumi. Perchò ea ne abbia una idea, crediamo utile il dare Telenco dei Tolami e dello materie che ri sono compreee. Tomi I e II: Fondastone di chieeo, cappella regia, aap<ilture» ordini e^ueetri, benafisL veeoo* vadi, Vallesi, Kbroi. Tomi III e IV: Slagiatrati, loro offioiali e tari». To*

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che valsero a lui, anche più che ai suoi precedessori, il Tanto di principe legislatore. Il Cibrario afferma che sono, con poche ecce- zioni, un raro monumetUo di sapiema; e si appone al vero. Dopo lui, abbiamo leggi di Carlo Emanuele I, il principe letterato e cavalleresco, che tanto si travagliò per dare una veste nazioBAle allo Stato ; e altre di Vittorio Amedeo I, Cristina, Carlo Ema- nuele II e Maria Giovanna Battista. Cosi arriviamo al secolo XVIII, in cui Vittorio Amedeo II e Carlo Emanuele m com- piono degnament-e l'opera. Ricordiamo in ispecie i Noci ordini et decreti intorno alle cause civili^ Libro III, dell'anno 1561, e i Novi ordini et decreti intorno alle cause criminali, Libro IV, del 1571, su cui il Sola scrisse un lodato commento. Ma ci restano anche altre provvisioni degne di nota, che già nel secolo XTII si pensò di raccogliere. Ne concepì l'idea la reggente Maria Giovanna Battista, la quale non mancò di menarne vanto. £s^ dice testualmente cosi : * crediamo di aver cooperato notabilmen- te al bene pubblico con l'aver fatto raccogliere in un volume tutte le costituzioni dei predecessori di S. A. B. mio figliuolo ed eziandio le nostre proprie. La fatica non piccola, con cui s'è fatta quest'opera, cagionerà una grande comodità ai giudici ed avvocati e ad ogni genere di persone, perchè avranno subito in pronto tutte le leggi di questo paese, onde si eviteranno innu- merevoli inconvenienti y, . Propriamente, fece compilcure tre di- verse collezioni : una degli editti dei principi di Casa Savoia e dei magistrati di qua da' monti ; Taltra degli editti per la Sa- voia; la terza degli editti sopra la giurisdizione della camera^ le gabelle, i tributi e il demanio; e incaricò della prima il se- natore G. B. Borelli, della seconda Gaspare Bally, della tem Al. Jolly. Un'ultima raccolta di editti, patenti, manifesti ecc., cominciata dal Cauda e continuata dal Duboin e da altri, vide la luce nel secolo scorso.

Altre leggi appartengono al marchesato di Monferrato e a quello di Saluzzo, e anche qui possiamo citare più raccolte.

me V: Procedimento ^udiziario. Tomo VI: Diritto penale. Tomo VII: Di- ritto civile. Tomi VIII-XJII: Governo politico intemo. Tomo XIV : Pubblici istruzione. Tony XV-X VII: Commercio ed arti Tomi XVIII e XIX: Monete. Tomi XX-XXin : Perequazione dei tributi e catasto. Tomo XXTV : Demanio, feudi, miniere. Tomo XX V: Insinuazione e notariato. Tomi XXVI e XXVII: Milizia e leg^ militari. Tomo XXVULL: Statuti e privilegi locali. Tomo XXTX: Trattati politici. Tomo XXX: Indice generale. I CwnmerUaria del Soia»i universa Serenist, Sabaìidi<»e ducum decreta antiqua, nova et navinima foroiio già ricordati neUa nota 48.

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Il Monferrato ne conta tre:*^ una dell'anno 1505; una se- conda del 1671, che però riproduce la precedente, solo aggiungen- dovi alcuni nuovi decreti; e una infine del 1675, messa assieme da G. Saletta segretario del Consiglio del duóa, in quattro libri, che ebbe anche Tapprovazione ufficiale del duca Ferdinando Carlo, appunto nellauno in cui fu stampata. Il Saletta inseri nel primo libro i decreti, antichi che nuovi contenuti nelle due edizioni precedenti; ma, volendo separare la parte civile dalla criminale, ne alterò l'ordine e la numerazione, (rli altri libri dedioò ai decreti posteriori alla edizione del 157J, e prò- priament/»: il secondo alle cose civili, il terzo alle crini inali, il quarto alla finanza, a cui aggiunse gli ordini concernenti gli Ebrei. Insieme tenne conto qua e di qualche decreto sfuggito ai precedenti collettori.

Pel marchesato di Saluzzo, ^^ possiamo ricordare un breve Stilo, com'era detto, o regolamento di procedura civile e crimi- nale della fine del secolo XVI ; ma veramente non è una legge nuova. Il Chiesa, che lo pubblicò, riferisce nella prefazione che i governatori del Marchesato lo avevano scelto ut leges h<i8 jaditiarias qaae apud paucos jam reperitbantur paulatimque in desuetudinem .... (Aire coeperant eacudi eurarem.

Procedendo oltre, incontriamo le collezioni della Lombare dia; ^'^ e, già sotto Luigi XII re di Francia, se ne pubblicò una

** La più antica raccolta pel Monferrato fu i>abblioata a Veneaia nel 1505 c«)n questo titolo: Decreta marchionalia nuper impressa eum grcUia et privile (fio: poi ne vide la luce un'altra a Torino nel 1571 e sentitola: 0(*rrr/<i eivitia et vnminitiia antit^ua et novt$ marchiae Montis/errati nunr denno impressa. Que- sta riproduco re<li/tono del 1.VJ5; ma vi a^giunRo otto decreti del marchese (iu^lielmOf sonaa data, uno di Margherita e (Guglielmo del ir>^> e altri di Gu- fflieliun dogli anni lòtM o ir)fì.S, col titolo: Decreta nofnt€r edita per iU. Duces Mnn(ua€ et Marchiones Montisf'errati. Infine c'ò la collezione di (ì, Saietta. ^ Ne citiiiiuo il titolo: Decreti aiii{ehi e nuovi, civili e misti del Man/errato raccolti dal $t ire torio Giaramo Gii»cinlo Saletta 1. 1G75.

'- Il rogolamonto di procedura civile e criminale dei marchesi di Saluazo vide lii luco a Torino nel 151H col titolo: Stybis marchianalis seu leges m tri- h'tnalibus Marchiae Salueiarum oÒMcrvandae, puhlicae eongregationis eiusdem fa- triae decreto, rum notis Ludovici J-^clesiae . , , . nunc primum editae, ToTÌno^ l»i8.

'* Per le le^^gi dei duchi di Milano rimandiamo a^^li Antiqua ducum Me- din! ani decreta^ Milano, lGr>4; al M<»rbi0| Cotlicc riscurnUo sforwesco, ostia raccolta di It'jtfi, decreti e lettere familiari dei duchi di Milano, Milano, Ift-l't, e all'OHio, Ihjcuncnii dijdomatici tratti dauU archii^i utilantsi, Milano, l^Vl-TS, 8 volumi* La o<lizione più antifa delle (,'otulitutioncs Dofuinii 3/f'/iu/rrn# n«ù t'u impressa a Mi Lino nel io 12. W la ru* rolla onlinata da Luigi XIL ijuolla di Carlo V ii.i l'urc il titi)Io di Consta tt ione» Doviinii Mcdiolantnsif, e fu pubblicata più v«)lto^ anche con gli ordini del Sanato. La migliore ediziom* è con le iilu- strazioiii del Verri: CotiMÙiuiiuìUS Uomìnii Mcdiolaneuji$ dtcrctis et Scnatus t/'tnsuJiis nunc pri'num H'H»tr*ita< curante comiie (iohritle Verro, Mediolani, 1747. Ad ogni capitolo sono riportale le riforme e i decreti e ordini del Senato fino

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cue Lodovico il Moro aveva ideato, senza poterla compiere. In sostanza, si trattava della raccolta e riforma delle costituziom dei Duchi, che avevano dominato a Milano; ma essa non ebbe lunga vita. Caduta la Lombardia in potere della Casa d'Austria -7 povera goccia perduta nell'Oceano il duca Francesco II ordinò che quelle leggi nuovamente si raccogliessero, e la snà opera si trovava già condotta a buon punto, quando mori. Ven- ne compita poi da Carlo V con l'aiuto di Egidio Bossi, di Fran- cesco Lampugnani e del Grassi, senatori milanesi molto vei^n nel diritto, e promulgata nel 1641. Porta il titolo di JN'worf Costituzioni di Milano; ed è una collezione che ha il suo valere: certo, riscosse molti elogi ai suoi tempi per la chiarezza del-

a quel tempo. Del resto gli ordini del Senato forono anche pubblioati a p&> te; e ricordiamo specialmente Tedizione di Milano del 1743 coi tipi del ^à- latesta, che è la più completa. Contiene gli ordini dal 1499 fino al 1639 rar- colti dal Garoni, e quelli dal 1689 al 1743 raccolti da G. P. Carli. La "^ CafoIinjL,.

Pubblicata da prima in tedesco col titolo di HcdsgerichUordnung, fa poi tn- otta in latino. £^ nota la traduzione del Gobler edita a Basilea nel IM.. riprodotta ancora in questo secolo dairAbeg insieme alla Semtfim del ISLt— Heidelberg, 1837. Vedi Malbulnk, Gesch, aer peinL ChrichUordnmng Kaixr KarU V, iNùmberg, 17®. GCtkkbock, EnsUhungsgetcK der KarolituM, Wùrzb-ir^ 1876. BauNNEiniBisTEB, Quellen der BambergensUi Leipzig, 1879. Bak, Gt^^- des d, StrafrtchU, §§ 40-45. Stobbe, BechUquelUfh H, 244-ìsa Tolomki, La -«- stUtusione criniinaU di Carlo V del 1532 detta volgarmente la Carolina, oonrV.-.- tata colle leggi penali deW Impero gertnanieo del 1879 {**' Rivista penale « voL XI 1879). Palmieri, nel ** Digesto v. Carolina, Sulle gride dei governatori i Milano si veda: Pelissieb, Le$ reqistres Panigarola et le Gridario getiera^^^ i rArehicio di Stato de Milan pendant la domination franqaise {1499-1 ólò\ r^- ris, 1897 (dalla •* Bevue dea bibliothòfiues oct. 1896-févr. 1897). Le sride i. governatori spagnuoli esistono pubblicate per le stampe in tanti fascicoli qTiAr~ furono i ffo vematori, cominciando da Don Carlo d'Aragon duca di Terran -* (1583-92) fino a Gio. Tommaso Enriquez de Cabrerà e Toledo conte di Meir^' (1678-86), in tutto trentatre fascicoli. I primi quattro si trovano anche r - niti in volume col titolo: Compendio di tulle le gride et ordini pulMicaù %^.- città e StcUo di Milano nel governo dei governatori di S. M, cattolica in Ii-i' dal 1583 al 1611^ Milano, Ì609; e cosi gli ultimi dieci, col titolo; Gridari. - nerale dMe gride, bandi ecc, fatti e pubbUeeUi per ordine dellì EcceU» n^nori ; vematori che hanno governato lo Staio di Affano. Ivi, 1688, dal 5 settembre 1-^ (cjoverno del coDte di Fuensaldagna) fino al 27 marzo 1686 (governo del e r: di Melgar). Le gride e ordinanze posteriori, anche di Maria Teresa e (tìti*.^ pe II, si conservano in fogli volanti, di cui il Senato del Begno postsiede -^z-. ricca raccolta in dieci volumi. ^ Ne esiste pure una di leggi di Giuseppe II - titolo: Codice 09sia collezione sistematica di tutte le leggi ed ordinanza «m.Tx:- sotto il lieyno di S, M, L Giuseppe 11^ stampata in Vienna nel 1785 ed ora :-^ dotta ^ dal tedesco da Bart. Borroni, Milano, 1796-97, 8 voL, e vi £a seg^i-: Continuazione al codice ossia collezione delle leggi ed ordinarne di S. Jbf. Oi^^ > pe II negli anni 1784-1786^ stampata a Vienna nel 1788 ed ora trcsdoUa tedesco^ Milano, 1789^ 2 volumL Nondimeno Tuna Taltra hanno imp - tanza per V Italia, perchè le leggi e ordinanze, che contengono, ai riferisc i alle altre provinole deirimpero austriaco. Quanto a Maria Teresa, si ve:^ Schupfek, Degli ordinamenti economici in Austria sotto Maria Teresa^ Bologn:^ 1868 (dalr *" Archivio giuridico,, voi. H), ed A. Herrmank, Maria T\h^resia i Gesetzgeberin, Wien, 1888. La Constitutio crimincUis Theresitma porta la datak i 81 dicembre 1768. Questo codice penale fu illustrato recentemente dal Kwiv KOwsKi, Die Constitutio criminalis Theresiana, Innsbruck, 1904. Dell^ opera '- naie di Giuseppe H scrisse il Bulf, Kaiser Josef II der Beformator de» Sire rechtes in Oesterreich, Prag. 1882.

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Tesposi/ione, e, ciò che più importa, per la saviezza dei prov- vedimenti. Dei quattro libri in cai è divisa, il primo si occupa delle magistrature, come a dire il senato, il capitano di giusti- zia, i questori ecc.; il secondo della procedura; il terzo di di- ritto civile, e più specialmente di feudi, contratti, successioni ereditarie; il quarto è destinato ai delitti. Vogliamo notare una particolarità: che cioè nella mente del legislatore le. Costi- tuzioni dovevano essere la legge comune del Ducato, e il diritto romano doveva servirle di supplemento; mentre non si ricono- scevano gli statuti locali se non nel silenzio delle Costituzioni, poi ca^i a cui esse non provvedevano, e coU'espresso divieto di qualunque disposizione contraria. Ma anche un'altra legge pe- netrò in Lombardia durante il governo spagnuolo: la Consti" tutto Carolina criminalis, sui giudizi capitali, che Carlo V aveva pubblicato nel 1532 per la Germania, con lo scopo di determi- Imre e rendere uniformi i diritti e le pene, e anche di farla iìuita col vecchio processo germanico. E una legge che ha fatto epoca; e il Bossi, giureconsulto milanese, da noi ricordato dianzi, si atfrettò ad illus^trarla con commenti.

Ma neppure i governatori se ne rimasero inerti. Pubblica- rono molte prammatiche, gride e bandi, che furono anche riu- niti insieme, cominciando già dal secolo XVI; ma in generale non c'è da rallegrarci. La dominazione spagnuola, più ancora che ad altre parli d'Italia, riusci funesta alla Lombardia, dove s|H>nse ogni avanzo di libertà e isterilì le sorgenti della pub- blica ricchezza, spargendo dappertutto la superstizione, l'igno- ranza, la burbanza altezzosa e sciocca. Per incontrare tempi migliori, è mestieri arrivare fino a Maria Teresa, che riformò molte leggi, e a Giuseppe II, che proseguì anche più ardita- mente nella via tracciata dalla madre. Ricordiamo specialmente le (ordinanze e disposizioni di Maria Teresa del 1741, dirette a prevenire i crimini e j)unire i delincjuenti, e anche il Regola- mento del processo civile, promulgato con lo scopo di esclu- dere l'arbitrio dei giudici. Altre ardite riforme in materia ec- clesiastica, specie di Giuseppe II, finirono col destare un grave malcontento.

Il ducato di Modena *' po-siede un libro di I^rovisioni e De-

*' Noi tcito citiamo più collezioni. No diamo ^ui il titolo esatto ioBiemo con lo edizioni. Il Libro dclU provinoni^ deereii, tntlromentt^ graiity lUtrt^ eth-

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creti, già del 1544, poi un altro di Gride, e un terzo di Proti- sioni, gride, ordini e decreti da ossercarsi negli Stati di & A. SerenisHma, in cui Francesco III fece inserire le leggi più im- portanti dei suoi predecessori e sue. Richiamiamo TatienzioLe su questa collezione, perchè può considerarsi come il pricD nucleo del Codice estense che si pubblicò nel 1771. E ancke Parma ^^ ne presenta qualcuna : gli Ordini e bandi pel quieto vivere, che appartengono appunto al ducato di Parma e Pia- cenza; inoltre certe Costituzioni ducali della Camera, e altre sul modo di procedere nelle cause civili.

3. Seguono altre leggi dell'Italia mediana.

La Toscana '* ne conta addirittura una folla, tra vere leggi, ordinazioni, provvisioni, dichiarazioni, ordini e bandi, che vei- nero via via accumulandosi nel corso dei secoli. Ridotta ?*/••: la signoria de' Medici (1532-1737), già Cosimo I portò la man: sulla legislazione, correggendone qualche punto; e altro fece:. i suoi succeiìsori. Non può dirsi però che aspirassero al van: di legislatori ; che se qua e danno opera a riordinare I'&l- ministrazione, più spesso pensano al fasto e, se vogliamo, ar- che alle proprie dissolutezze, opprimendo lo Stato coi debiti, ic^* poverendo il popolo con le gravezze, portando un colpo esizi&i? alla economia pubblica, rendendo torpidi gli intelfetti con li

pUolijfxi pubblicato a Modena nel 1544 e poi nel 1578. Le Oride dueÀiffrì^ visianif graiie et ragioni della città di Modena si dicono date n.ìtmva'miinU in .'^"j a Modena, senxa indicazione^ della^ tipografia e deU^anno. Le provùiof»', <^ ordini e decreti da osservarti negli SUUi di S. A, serenissima, farono stamiap^ > Modena nel 1755. Una copiosa raccolta di gride in fogli volanti nleg»*^' - sette volami, dall^anno 1500 all'anno 1777, é posseduta dal Senato del l£^ Si veda Salvigli, La legislazione di Francesco III duca di Modena (negli *^^ della deputaz. per le provincie modenesi „, IX, 1899).

••• Gli Ordini e Bandi pel quieto vivere dei duchi di Parma e Piaceni» ^- rono raccolti nel 1560 e 1596. Le Consiiiutiones duc<iles Camerae^ Parmoeti /'•f centine, furono edite a Parma noi 1594. Le costituzioni concementi la p' ;*' dura, videro la luce a Parma nel 1594 col titolo: ConstitMtiones Parmae ei?'* ceniicte de Consilii et aliorum Magistratuum facultate et modo et forma proctà<\ in causis civUihus^ atque de magistraiu redaituum nostrorum ordinariorm * t. •-' tr aordinar ioruvi.

' * Notiamo le raccolte che si sono fatte delle legrì. provvisioni ecc. c:u> nel testo. Una prima è del Tavanti e va dalPanno 1471 al 17S6 ; ma di p^ lunga migliore è quella del Cantini, Legislazione toscana raccolta ed illnsira:' Firenze, 1800-1808, 32 volumi. Contiene leggi e bandi dal 1582 al 1775. Ag?i"'- giamo il Cori ice della toscana legislazione^ ovvero raccolta di tutte le lejggi t ha'^ enianati in Toscana dal 173*) al 1786 con due volumi d'indici, Siena, 1> 24 volumi. Inoltre: I^ggi e bandi della Toscana dal 1757 al 1S€0, Fin>- 1765-1860, 69 volumi. Pel* diritto rimasto in vigore dopo la ristauiuzione «r.t il Repertorio del diritto^ patrio toscano vigente, ossia spoglio iU/abetico e lepif^' delle più interessanti disposizioni le^fUlalive veglianti nel granducato, Firei^'- 1836-G2, 26 volumi.

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bacchettoneria. Appunto in questi tempi vediamo alla feconda operosità antica sottentrare quella comune rilassatezza, da cui i Toscani stentarono poi a riaversi. Solamente quando, a mezzo il secolo XVIil, la casa di Lorena sottentrò alla Medicea, le c(ise cambiano. Francesco I e Pietro Leopoldo sono in realtà due insigni legislatori : la Toscana considera il loro governo come un'oi)era di rigenerazione, e ne ricorda tuttora le leggi con grato animo. Fra le vedute dell'uno e quelle dell'altro corre indubbiamente una certa continuità; ma nondimeno il tiglio oscurò la fama del padre, e quasi parve che le riforme non cominciassero che con lui. Una b^ona collezione, ohe amia- mo di segnalare, è dovuta al Cantini col titolo di LegUlazione toscana raccoìia e Hlusirata; ma ^e ne conoscono anche altre.

Per ciò che riguarda lo Stato ecclesiastico, ** accenniamo appMia ai due avvenimenti, ai quali principalmente si deve se la sovrunità pontificia si mutò in vera e propria sovranità tem* {x>rale, e questa in governo clericale: la formazione delle na- zioni luuderue e la costituzioue politica del Sacro Collegio av- venuta sotto Eugenio IV (1431). Anche i papi, invasi da una nuova ambizione di principato, finirono con lo afTermai^si poli- ticamente sulle ruine dei pott^ri feudali e municipali; ed è già molto che qualcuno dei tanti diuahti, tra i quali gli Stati della Chieda si trovavano divibi, abbia potuto salvarsi ancora per un c^Tto tempo, e qualche comune conservare i suoi privilegi. In- sieme vediamo l'amministrazione pabsare gradatamente dalle mani dei laici in quelle dei chierici : la prelatura fini col diven-

** IV r lo boUe pontificie rimandi&mo ai Bolla ri otUti neU» nota 45. Quanto A^li esiliti e bandi emanati per ordine doi Pontofiri, la Oasanatenae di Roma ne Ita una riorh)MÌma raccolta dal lòUT al ITriH in 9grv)«fii volumi. Una raccolta di costituzioni pontificii» poi buon f^ovorno dei comuni è dovuta a (}. Cobklli e ha p(>r tit>lo: HolU di Sownni parU^tici, ritolutioni e dt ereti fonfementi Vinto' rrsMf deiU i 'u,nmunilà dello Slato eccUsiattico, BomiL 1G42. Un'altra è del l>% Vkimiimj (J*^Utct%o conatitutionum^ ehirographorum et orevium diverBorum Hùma- norii'ì Poniitirnm prò botw regimine universiUUutu ete rommunit€Uum Statua eecU^ ÉÌii^ùri, ÌTM-iA, 4 volumi. Bicordi amo esiandio la ricca collezione di editti e liantìi dal V/24 al Idi 8), che si conserva nella biblioteca comunale di Bologna in U*ti Vìi volumL Inoltre le vario raccolte Jiandi gtnarM ed ordini da osaervarti nella eittò, Slato e Ugatione di Ferrara^ pubblicate por le stamM. conio (laolle doli* Aldobrandino (KfiH;; didl'AstalU (v\jldu dol Garafa (1721), del KuiTo il?27; ecc.: e parimente i PrivUeyia, br^via et tfk/u/^a conceduti dai pon- iti ci alla città di Ferrara, raccolti più volt(«, cominciando dall'anno l«|d2. Ol* tra<M*iò lo CimetitiUioneej eaieia et bannintenia U^atiuni» AemUiae^ Forolivii. 1702. Alla raccolta di docreti, costi tuaionl, editti e bannimenti del ducato di Urbino SI nforìsce uno studio di A. Adabiti, La raccolta del card, Fulvio Aeialli delle eoetitmaioni del Ducato di Urbino (1696), Roma, 1906. 8i veda anche La MÀvriA, Su»ria della Ugiala^ italiana^ I: Homa e Stato romano, Torino, VàéL

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tare il grande semenzaio, da cui dovevano nscire tntti i nmii- stri e tutti gli uffiziali dello Stato pontificio.

In fatto di leggi, gioverà ricordare alcune Bolle relative ai diritto pubblico e anche ad altri argomenti, che vanno confase con quelle innumerevoli, che si riferiscono a materie ecclesia- stiche. Tali sono, a mo' d'esempio, la bolla In coena damiiù di Pio y contro gli eretici e gli invasori dei beni della Chiesa. quelle De bona regimine ed Inter varias di Sisto V sul buon go- verno dei comuni ; la bolla Baronum di Clemente Vili in prò de' creditori, ohe la prepotenza baronale o le istituzioni fede- commissario defraudavanor spesso delle loro ragioni ; infine um di Paolo V in materia processuale. Ma insieme ci restano dei bandi, e in gran numero. Notiamo quello famoso di Clemen- te VUI dell'anno 1599, che è appunto un bando generale. Il papa aveva fatto raccogliere e riordinare e rivedere i bandi cLe i governatori delle provincie avevano pubblicato in materia li delitti, avvisando, a ragione, che i popoli soggetti allo stes^) principe, dovessero governarsi con leggi uniformi ; per non dire che molti bandi dal tempo erano divenuti superflui, molti al- tri non sufficienti per provvedere ai bisogni, e alcuni già pas- sati in dissuetudine. Il nuovo codice penale, chiamiamolo cosi doveva valere come legge universale dello Stato ecclesiAstico. e tutte le altre provvidenze generali, introdotte per Taddierrc» tanto dai governatori quanto dai legati, s'intesero annullate.

Ma anche altri bandi sono noti. Per es. quelli che il card. Chigi pubblicò nel 1657 d'ordine di Alessandro VII, dovevano p-^ aver vigore in tutto lo Stato ; e cosi alcuni di Innocenzo XIII del 1723 e di Benedetto XIV del 1747. I bandi di Innocen: XIII sanciscono nuovamente le costituzioni di Pio IV, Pio V. Alessandro VIU, l'editto di Clemente XI e la costituzione ài Clemente XII. In generale, contengono norme penali e di p-> lizia, che avrebbero dovuto applicarsi anche nei luoghi barona- li ; e lo stesso dicasi dei bandi di Benedetto XIV. Questi per3 non sono che esempi. Insieme si conoscono bandi speciali e privilegi e brevi e indulti, per la città di Ferrara, per la lega- zione di Urbino, per quella dell'Emilia ecc., e tutta una folla di provvisioni prese dalle congregazioni, istituite sopra i biso- gni temporali, e anche dai legati e governatori delle provincie, specie in materia di sicurezza pubblica. I bandi, che i legati

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poutifici pubblicarono a Bologna, riempiono addirittura molti volumi; e, sebbene il concetto fondamentale non sia gran fatto diverso da quello dei bandi generali dello Stato, pure in qualche punto se ne allontanano.

Crediamo opportuno di richiamare particolarmente Tattenzio- ne sulle raccolte di costituzioni, decreti, editti e bandi del ducato di Urbino. Una di esse fu pubblicata per ordine del legato card. Àstalli ed ha per titolo: Decreta, constitutiones, edicta, bannimenta legationis Urbini nane primum in luceni edita iussu emin. et rev. cardinale Astalii legati. Porta la data dellanno 1G96, e l'Astalli, che la pubblicò, scrive di averla messa assieme ob veterum exem- plarium infrequentiam. È desunta dalle costituzioni dei duchi e dei cardinali legati e divisa in quattro libri, che trattano di cose ci* vili, |)ena]i, del buon governo dei comuni e delle tasse; ma special- monte di diritto civile e penale: ben GG costituzioni di civile, cho vanno dal 1484 al 1()94, e 102 di penale dal 1613 al 1695. La terza parte Super bono regimine comunitatum et status ne contiene 51, dal 1545 al 1694, indirizzate in gran parte ai fun- zionari della legazione. La quarta riproduce costituzioni quasi tutte del card. Astalii per fissare ^li stipendi dei giudici, notari, medici, chirurgi eoo. e le tasse giudiziarie più importanti. La raccolta stessa fu poi commentata dal co. Solone Campelli, che dol re^to vi aveva dato opera come uditore deirAstalli, e s' in- titola: Constitutionea ducatus Urbini a Solone ix comit. de Cam» pello. . . . collectae et adnotationibus illustratae. Papa Clemente XI la approvò e dichiarò obbligatoria. In fondo è una nuova edi- zione; ma presenta insieme una disposizione sistematica della materia, che doveva agevolarne la consultazione. Aggiungiamo i Capitoli de la Militia dell' III. tt EccelL Signor Duca d'Urbino, Pt^saro, 16GS.

4. Il Regno delle Due Sicilia', '' in questi tempi, ha subito

*' I oapttoli e le grazio del R<*fcno di Napoli di qua dal Faro furono pub- blicati da Af^DeUo Ì>e BoUi« nel l.'ii^; roa no abbiamo anche una coUezione «b'I aecolo scorso col titolo: C^ipUula regni u<riu»que SUUiae, RUtu magnete CV riiU Vifariae ti PraonuuUae ruutnittiUànU Ulutlrata, Napoli, ITT^i La Sioili* ne ha dae. Una è di Uaimondo Hsiii^irttii presidente d<*l concistoro : Regni i iipitìda no9%Mt%ithe areurtUiori diligenHa impressa, quibua ofcesurmnt alia capi- tuia tdiia poU €fnnum 1526, nunquam impressa ^ et eiutdtm retini pawUetae, . . ,

Ufi

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■^■•-r^iippi

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molteplici vicende tra buone e tristi. Il periodo più disastroso fu quello della dominazione straniera (1505-1734). Soggetto ad un governo vice-reale, i proconsoli, mandati a governarlo, a quando a quando lo spogliarono ; ma non ne mancarono di buoni, che misero un po' d'ordine alle cose del Regno. Basterà aoceniia- re a Don Pietro di Toledo ministro di Carlo V, il cui lungo vi- ceregno fini quasi con l'imperatore, poco dopo la metà del se- colo XVI, e che indubitatamente riordinò lo Stato. Quanto alle leggi, si distinguono tuttavia i Capitoli e le Prammatiche.

Già Carlo V e anche i tre Filippi, approvarono, nella forma di grazie e capitoli, molte domande dei sedili di Napoli e molti voti dei Parlamenti di Sicilia; e potremmo anche ricordare qualche raccolta compilata, sia pel Regno di qua dal Faro, sia per la Sicilia. Una di Agnello de Bottis comprende i capitoli e le grazie del Regno di qua dal Faro; ma non è la sola. La Sicilia ne possiede una del Raimondetta, presidente del Con-

edita cura eiugdem regni deputatorum, Panormi, 1741-48^ 2 volumi. Altri capi- toli pubblicò lo Spata col titolo : Capitìda Regni SicUiae reeennoni FramoKÌ Testa ctàdenda, Panormi, 1866. Vedi anche dello stesso autore : £»ame d(ili teoriche sui capiioli del Re^uo di Sicilia di Diego Orlando ^ Palermo. 18S7. Ia raccolta dei Parlamenti di Sicilia del Monitore ha per titolo : Parlamemti y- nerali e straordinari celebrati nel Regno d% Sicilia dal 1494 fino al 1658 rac- colti da D, Andrea Marchese, con l'aggiunta di quelli dal 1661 al 1714 dd D. Pietro BaUaglia, Palermo, 1717. Quella del Seno vide la luce nel 17*9, e con- tiene nel voi. II anche i capitoli di grazie. Per le prammatiche del Begno ii qua dal Faro rimandiamo alla raccolta citata nel testo di don Alf. Va5:\ Pragmaiicae, edicta^ decreta ecc. Napoli, 1777, voL 4, col Supplenientum ProqmoL del Leg:ffio, Napoli, 1790, voi. 2, e aU'ultima edizione del Giustiniani, Napoli, 1803-18CK1, in 15 volumi. Un sunto con illustrazioni storiche ne il DiJ ij- ueM^k Introduzione allo studio delle prammatiche del Regno di Numoli teeond^* l'i collenone del 1772 col suo diritto comune corrispondente ^ Napoli, li < <, 3 voIunL Venendo alle prammatiche sioule, una prima raccolta m 2 voi. fu fatta da R. Baimondetta nel 1574; ma è disordinata e confusa. Migliore è una dello Sci- becci^ che ha per titolo : Constituzioni prammaticcUi del Regno di Sicilia foiU sotto ti felicissimo governo del viceré M. A. Ccdonna, Palermo, 1583, ma non com- prende che quelle di questo viceré. Alle rimanenti provvede un'altra in 5 vo- lumi cosi distribuiti: voi. I e II (1636-37) per cura di Potenzano, Pimia e Ami- co ; voi. m (1703) per cura di Cesino ; voi. IV (1773) per cura di Tetamo ; voL V (1800) per cura di Nicastro. Del terzo volume esiste anche un'edizione del 1658, ma fu esautorata. Una nuova edizione di F. P. De Blasi ha per titolo Pragmaticac sanctiones Regni Sicili<»e qu€U iussu Ferdinandi III Borhonii n«iw primum ad fidem authenticorum eoBemplarium in regiis tabulariis ejeistentimm re- censuit etc., 2 voi., Palermo, 1791-tó. Arriva solo al 1579. Aggiungiamo la collezione dei Recali dispacci nelli quali si contengono le sovrane deterwUnaziom de* punti general% o che servono di norma ad altri simili casi del^Regno <ii^ AV poli, dal doti, don Diego Gatta raccolti e per materie disposti^ Napoli, l<<d-4t, voi. 11, e la collezione di Nio. G^rvasi per la Sicilia. Ha per titolo Siculae Sanctiones e fu pubblicata in 6 volumi a Palermo, correndo gli anni lT5i>òo. Ne abbiamo una analisi di A. Tetamo per ordine alfabetico col titolo: Summa sicularum Sanctionum, Panormi, 1758. Il Salvioli la notàzia, che la Biblio- teca comunale di Palermo possiede una raccolta di ExtravaganUs SanctùmA* in 22 volumi. Un Diaiionario delle leggi del Regno di Napoli tratto dtUU co- stituìtioni, cttpitoli, arresti^ dispacci, consuetudini, fa pubblicato nal 1788 a NapoL in quattro volumi.

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oistoro ; e un'altra del Testa fatta per commissione dei deputati del Regno, oltre alle raccolte dei Parlamenti del Mongitore e del Serio.

Di piJi c'erano le prammatiche, e tra queste campeggiano nuovamente quelle di Carlo Y. Moltissime altre sono dovute ai viceré e si riferiscono alle materie più svariate. Anzi si può dire che non ci sia stato vicerò che, udito il Consiglio Collaterale, uon ne abbia emanata qualcuna. L'ultima è del 23 marzo 1726; ma le stesse leggi della dinastia borbonica portano questo nome. Ne pubblicarono tanto Carlo III quanto Ferdinando; e, se non tutte, certamente molte si mostrano piene di sapienza civile, per uon dire che in parecchie si sente la mano del Tanucci. E non di- fettano neppure le coUezidni. Nondimeno sino a Ferdinando il cattolico esse giravano manoscritte, e fu solo nel 1531 che si stamparono le leggi di Carlo V. In seguito nel 1533, vi si ag- giunsero quelle dogli Aragonesi; ma si trattava di collezioni piuttosto informi.

Il merito di averle meglio ordinate si deve a Pro>pero Ca- ra vita, che le corredò anche di commentari: certo, esso fu il pri- mo a dÌ8])orvi i titoli e ad apporvi le rubriche, e diede il nome, conservato poi sempre, all'intera compilazione: Pragmaticae, Eiìicta^ Regiaeque Sanctiones neapolitani Regni in unum conge* aiae, HuU disiinctae titulis miroque ordine illusiratae per clarisH, l\ L />. Prosperum Carovita, La prima edizione è del 1675; e parecchie altre se ne pubblicarono in seguito con aggiunte del D'Anna (1687, 1590, 1«>23) e del Eovito (1633) ; il quale però omise alcuni titoli, accrebbe le rubriche, ne mutò ed emendò altre, e vi aggiunse l' indice delle pene. Due nuovi tomi di prammati- che videro la luce per cura di M. A. Oizio nel 1655; e an- che quehti parvero sutHcienti. Non era trascorso molto tempo, e già le nuove leggi resero necessaria una novella collezione; e il viceré, col Consiglio Collaterale, ne affidò l' incarico a Biagio ' Altimari, che la compì sotto l'intendenza del reggente Carlo (Jalà, e la diede fuori nel 1682 in tre volumi, conservando tut- tavia il titolo del Caravita. Altre prammatiche, uscite più tardi, si stamparono nel 1710 e nel 1715; ma non tutte; quelle prò* malg^te da Filippo V, non sapremmo dire per qual ragione, furono tralasciate. In seguito, nel 1718, abbiamo una nuova collezione più copiosa, coi tipi del Muzio; ma il collettore non adattò le

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nuove leggi ai rispettivi titoli e preferi di aggiungere tre tomi ad altrettanti che già esistevano. Un'altra del 1772, in quattro vo- lumi, è certo migliore delle precedenti. Il collettore Alfeno Va- rio collocò tutte le leggi, anche quelle promulgate dopo l'edizio- ne muziana, sotto le rispettive rubriche ; e, per alcune, che non avevano proprie sedi , formò appositi titoli , trasferendovene altre, e comprendendovi anche i trattati di pace e di commercio. Infine vi aggiunse più appendici: una, di leggi omesse o pub- blicate nel frattempo, un'altra di disposizioni disusate, una terza delle varie lezioni dei diversi codici ; e insieme compilò la cro- nologia delle prammatiche e dei viceré. L' indice delle materie, molto abbondante, chiaro e distinto, compie Topera, a cui il Leg- gio fece seguire poi un Supplementum in due volumi, nel 1790. Del resto, anche queste edizioni si risentono dello stesso difetto della forma, che il Vario intravvide, ma a cui non credette di por- tare rimedio, nella considerazione che, avendo i professori in mano più commentari delle prammatiche, si sarebbero trovati alquanto impacciati se ne avesse mutato l'ordine. Certo è che il modo, con cui sono distribuite, è tutt'altro che commendevole. Si pensò, bensì, di ridurle sotto certi titoli; ma i titoli stessi, lungi dal- l'essere disposti per materie, seguono l'uno all'altro in ordine alfabetico, cioè a caso.

Un'ultima collezione cominciata da Lorenzo Giustinani sul principiare del secolo scorso, non fu condotta a compimento, non- ostante che conti ben quindici volumi in-4®. Essa però si di- stingue, sia per la migliore distribuzione e correzione del testo, sia per il contenuto, comprendendo parecchie leggi sfuggite ai collettori precedenti.

Parimente abbiamo varie raccolte delle prammatiche sleale : del Raimondetta e dello Scibecca, già nel secolo XVI, e poi al- tre del Potenzano» del Cesino, del Tetamo, del Nicastro, fino ^ quella di F. P. De Blasi, che certamente è la più accurata, ma che rimase interrotta per la morte dell'autore.

Aggiungiamo tutta una folla di dispacci e lettere circolari (in Sicilia si dissero Siculae Sanctianes) su varie materie di di- ritto pubblico e privato. D'ordinario, si mandavano fuori in cer-t« occasioni particolari, per correggere qualche errore ed abuso^ o dichiarare qualche dubbio; ma potevano anche acquistar for^a di legge, quando risolvevano qualche punto generale per m.o<3o

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di regola ; e qui pare possiamo citare talune raccolte. Una di don Diego Qatta si riferisce al Regno di Napoli di qua dal Faro, ed è distribuita per materie: riproduce i dispacci di Carlo III e Fer- dinando IV, che risolvono punti generali di diritto; ma qua e ne inserisce anche dei re anteriori, occupandosi prima delle ma. terie ecclesiastiche, poscia di quelle civili, e infine delle criminali. Uu'altra riguarda la Sicilia. £ conosciuta col nome di Siculae l^iauctiones^ e fu pubblicata da Nicolò Oerva^i per incarico del viceré Eu^tacchio duca di Laviefuille. Il Gervasi ha diviso il suo lavoro in titoli, distinti secondo la magistratura e l'oggetto degli atti, premettendo a ognuno un cenno storico, e anche V in- dice dei capitoli e dello prammatiche che vi si riferivano.

6. E Capitoli e Prammatiche incontriamo pure nell'isola di Sardegna. ^^ Sono leggi dei re d'Aragona e di Castiglia, e ve n'ha molte. Nel 1605 il loro numero era già così considerevole, che il conveuto delle corti generali domandò che se ne ordinasse e pubblicasse il codice, e il governo vi accondiscese. Pei capi- toli, ne fu affidato l' incarico a don Giov. Dexart, che ne com- pi la collezione in otto libri, a cui mandò innanzi i decreti, coi quali erano stati convocati i Parlamenti e se n'erano ap- provate lo domande. I primi tre sono anche corredati di un dotto commento. Quanto alle prammatiche, se n' incaricò Fran- cesco Vico, uomo di graude autorità e versatissimo negli studi giuridici, che le ordinò, corresse, supplì con molta diligenza e I)er8picacia, mettendo assieme un codice, che fino ai di nostri formò una delle parti essenziali della giurisprudenza sarda. Par- lando di questa collezione, il Manno avverte che, anche oggi- giorno, meriterebbe di essere maggiormente conosciuta, specie per ciò che appartiene al governo politico del Regno, alKammi- nistrazione giudiziaria, alla custodia delle regalle del sovrano e a vari altri oggetti di pubblico interesse. Dobbiamo aggiungere che ottenne l'approvazione di Filippo lY con una prammatica

^* I capitoli deU* isola di Bazd«gn« si troTano raccolti àal Dcxatì, che ab- biamo ricordato nel testo. Sono ìV€»pUul0 «ìm Aeta euriamm JUoni Sardiniae 9nfi iniHeiUsimo Coronae Aragonmm imperio, Calari, 1641, 2 Tolnmi. L*opora del Viro s* in titola: Ltifes y Pragmatico» rtaU» dsl Hevno de Sarde fio, eompuesta», <7Ìus49da4 V eoni^ntadas, Caller, i6Hii^ 2 Tolomi. Altre edii.: CaUer, 1714, 1727 e Soiieer, 1781. La raccolta degli editti dei principi di SaToiaha per titolo: Kdit'^ ii pregeni ed altri provvedimenti emanati iti Heqno di Sardegna. . . . ritmiti per ranutndo di SS, R. M, il He VUtorio Amedeo HI, disposti sotto i rispettivi ti- toli, Cagliari, 177(s Tolomi & Contengono le lecgi emanate sotto il aominio di Casa Savoia dal 1720 al 1774. Il raccoglitore è don Pietro Sauna.

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del 1633, acquistando cosi solenne autorità di legge; e il Vico stesso la illustrò con copiosi commenti. Ma forse vi accumulò troppe questioni, o aliene dal suo assunto o soverchie, mentre avrebbe fatto meglio a trattenersi un po' più a lungo nel rischia- rare il senso delle leggi. È l'appunto che gli fa giustamente il Manno ; ma, ad onta di ciò, il suo lavoro & pregevolissimo in quelle parti nelle quali tratta delle consuetudini del Begno.

Più tardi, venuta la Sardegna in potere della Casa di Savoia. vi si pubblicarono molti editti o bandi simili a quelli del Pie- monte, sia a nome del re sia per ordine del viceré; Vittorio Amedeo III ne fece anche compilare una raccolta.

6. Delle repuBbliohe, che ancora esistevano in questi se- coli, le principali appartengono nuovamente all'alta Italia. Vo- gliamo alludere a Venezia e a Genova, che possono dirsi agli antipodi una dell'altra: quella, con ordinamenti della più stretta oligarchia, questa, con ordini larghi e popolari; ma oggimai stre- mate e sbattute entrambe. Fra le leggi venete, segnaliamo an- zitutto parecchie Correzioni avvenute nel tempo di Pasquale Cicogna, Marcantonio Memo, Zuane Bembo, Antonio Prinli, Francesco Centanni e Francesco Erizzo, e molte Parti prese dai Consigli in materia di pompe, giuochi, bettole, ridotti ecc. Sono addirittura innumerevoli. Negli ultimi anni della repub- blica videro la luce le Leggi di mctssima di governo (1770), un Codice feudale (1780) e il Codice per la veneta mercantile marina (1786), sui quali torneremo. È stato l'ultimo guizzo di una lampada prossima a spegnersi. Qenova ha in questi tempi lo Statuto dei padri del comune, che presenta un grande interesse. Composto di ordinanze, che vennero via via pubblicandosi tra il 1469 e il 1676, rispecchia la vita di un magistrato che certo occupò un posto molto importante nella storia dell'azienda cit- tadina, come quello che attendeva agli interessi della naviga- zione e alla polizia urbana, munito di ampi poteri discrezionali, giudiziali e criminali, che conservò a lungo, anche quando le leggi parvero voler concentrare tutta la giurisdizione nelle mani dei giudici ordinari. '* Insieme, vogliamo ricordare le Nuove kg- gi del 1&84, riformate da consiglieri e ambasciatori di papa Qre-

"** Vedi De Simohi, IUu8tr<n%on% cdlo tiatuto dei padri del comune della Bepvh- blica genovese^ Genova, 1886, premesse aU^edizioiiQ dello statuto stesso.

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gorìo XIII, di Massimiliano II e di Filippo II, e altre provvi- sioni, tra leggi e decreti, emanate da vari governi, austriaci, francesi, spagnaoli, che successivamente occuparono la Liguria. Anche gli statuti civili e criminali furono riformati in questi tempi.

§ 2. - LECKtl E CONSUETUDINI LOCALI. AUTORITÀ DEI TRIBUNALL

1. Il processo di concentrazione, che si veniva designando, non poteva lasciare un gran posto alle leggi locali. D'altronde, già sul finire delKepoca precedente queste si trovavano in una condizione di decadenza, se non per ciò che ne concerne il nume- ro, certo per riguardo alla qualità. £ questo stato di cose con- tinua. La maggior parte dei comuni si trovava oggimai alla dipendenza di qualche principe o di altra città, che ne teneva il dominio; e s'intende, che anche la loro attività legislativa non avesse modo di svolgersi cosi liberamente come un tempo: non potevano promulgare leggi che col consenso del principe o della dcfmiimute« in una parola del signore, qualunque fosse, da cui dipendevano ; il quale pretendeva di approvarle, e anche vi faceva inserire le provvisioni e gli ordini, con cui le correg- geva e completava, per coordinarle alla legihlazioue generale e adattarle, più che ìoanQ possibile, ai tempi.^^ Tanto per accen- nare a qualche esempio, ricordiamo gli statuti di Mondovi, di Piuerolo, di Cuneo, confermati dai principi di Piemonte; quelli (li Benevento, di Macerata, di Forlì, di Bologna, di Ferrara, approvati dal papa; gli statuti di Gubbio, che ottennero la con- ferma da Francesco Maria II duca d' Libino; e parecchi altri, che l'ebbero dalla repubblica veneta, come quelli di Adria, Treviso, Belluno, Capodi^tria, Padova, Vicenza, Verona, Ber- gamo, Brescia, sempre cum addttione Partium ti Decreionim sere'

** Fra gli scrittori che si ocouparono delle lef^gi romnna.li di r^uesti tempi ri<*<)rliAnio: CiiiH'tK, Siatulo ituiiUo di Veian<f, Roma, Ix^ (nel periodico "Sta- di o documenti di storia o diritti), VII). pAfALEoNi, (ili àftUtUi di Tivne dal ttt'u'o XV! al A* 17//: eotUribu(o alia gloria dtlU iétUìnioni comuru»lÌ del Irtfi- ti)iu (iioll.i * Mi-H?<>ltan<*a di storia veneta., serie II, voi. Ili, l^*'^}> C^AJtALriA,

fili »t*U*UÌ fi ' ' *•'•' •' ' 't J-f. _•,.'- J* rt F-. ._^ii.

* KaSMOi^na

sniphit a.v.

Aquila, i*^).

i.i ~ .Mi-H?<>iian<*a <ii storia veneia., sene u, toi. iii, ip^f'^}^ ifAJtALriA, ^1 df- «••'u/c> A' 17 jxr ii <fo cerno munitipiUe della ritta di Jiteeeglic (neìÌA na p'i^h«*^e.» l'^'^'J'. Ma\« t^(l, Capii ma et slatuU» hagolatiani» cir itati* a'iJ», Vm-'fa, lK<t). Pansa, éStaluti inediti della hayliva di ifulmona,

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nissimi Domimi. In questi medesimi tempi, incontriamo mi nuovo statuto civile e criminale di Trento, redatto sotto gli auspici del vescovo Bernardo al quale furono aggiunte in se- guito altre costituzioni e provvisioni dei vescovi Cristoforo, Lo- dovico, Carlo e Carlo Emanuele Mandruzzo, di Sigismondo Al- fonso conte del Tirolo, di Giuseppe Vittorio Alberti e di Griov. Maria di Thunn. Anche lo statuto di Trieste fu riveduto nel secolo XVI per ordine di Ferdinando I. Un suo decreto del 1660, che si trova in testa di esso, ricorda che la città aveva certi suoi statuti e decreti municipali redatti fino ab antico in un grosso volume, ma oscuri e contraddittori, e di cui molti erano anche andati in dissuetudine pel mutamento dei tempi. Perciò parve prezzo dell'opera di restringere tante costituzioni in un breve compendio, levarne le antinomie, togliere via il superfluo e omettere ciò che pel non uso poteva dirsi abolito.

Ma tali revisioni si fanno sempre più rare. Generalmente, non si redigono nuovi statuti, si rivedono: durano solo in vita i vecchi; ma quasi non occorrerebbe dire che diventano ogni giorno più impraticabili. In questo senso si esprimono nel 1680 i deputati alla riforma delle magistrature fiorentine, mo- strando al granduca la necessita che s'imponeva di compilare un nuovo statuto per le materie criminali e miste. Il terzo volume degli statuti fiorentini si poteva dire nella maggior parte abrogato da leggi posteriori, stampate separatamente, che non potevano non generare una grande confusione.

Non basta. La legislazione statutaria si viene restringendo sempre più alla polizia urbana e campestre; e i comuni, più che a compiere o rivedere statuti, attendono a pubblicare ordi- ni o bandi. Tale è il nome che portavano in Piemonte già sullo scorcio del secolo XVI ; e ve ne sono in gran numero ; più specialmente si dicevano bandi politici, come quelli di Alessan- dria e d'Asti ; o anche bandi di politica e polizia, come quelli di Moncalieri ; o bandi di capitoli campestri come quelli di cac- cia e pesca della città di Cuneo. Del resto, anch'essi non si po- tevano fare senza il permesso del principe ; e, fatti che fossero, occorreva l'approvazione del Senato per eseguirli. Gli ordini politici di Torino, i bandi politici di Alessandria, i bandi cam- pestri di Chivasso, per tacere d'altri, furono appunto approvati e interinati dal Senato, se non altro per le pene corporali.

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2. ~ Nei territori feudali v' ha di peggio. Le libertà erano audate sempre più declinando dappertutto; e non sarebbe nep- pur da supporre che le terre feudali potessero sfuggire alla legge comune. Già nel secolo XV si ebbero baroni che si arro- garono il diritto di far leggi da sé; e nel XYI la cosa andò sempre più generalizzandosi. Oli Stati maggiori avevano dato Tesempio; e i feudi si sono incamminati per la medesima via. Cosi nel 1618 i conti Brancaleone, volendo provvedere al co- modo pubblico e privato del governo di un loro castello di Piobbico, promulgano alcune costituzioni, comandando al popolo e alla comunità di osservarle nella loro integrità. Medesima- mente, nel 1651 il cardinale Sforza, tutore di Giovanni Orsini, estende senza più lo statuto di Campagnano ad Anguillara, e nel 15.V2 a Bracciano, ingiungendo ai comunisti di osservarlo inviolalriliter ad unguem, sotto pena di 1000 scudi. Nel 1658 ci imbattiamo nelle sanctiones municipales, che il duca Ottavio Farnese pubblicò pe' suoi Stati di Castro e Bonciglione. Un'al- tra volta, sono i conti di Genga che danno a questa loro terra uu libro di statuti, e già nella fronte fanno scrivere: Hic liber castri (ienghae staiutorum factus et ordinatus per Illtlias I)D. C<h mites anno 1562. Anche lo statuto di Velano del 1571 fu com- posto da Giorgio Santacroce insieme C(*n alcuni giureconsulti aolum Deam prae oculis hahentes. E così lo statuto di Colalto del ir>S3. I C(mti modificarono con esso la consuetudine del

luogo, ordiuando ohe fosse portato a notitia d'ognuno a per^

petua viemona et osaercanza. Insieme vogliamo ricordare: uno statuto, che Bernardino SavoUi concesse nel 1688 alla comunità e agli uomini di Castel Gandolfo; lo statuto di Torrita, che Marcello Melchiorrì, padrone perpetuo del castello e degli uomini di quella villa, riformò nel 1593 si nel civile che nel criminale f lo statuto, che Ferdinando Gonzaga fece compilare nel 1664 per Castiglion delle Stiviere; quello di Ranusio Farnese per lo Stato di Bardi, Compiano e pertinenze del 1684; infine un altro del duca Ascanio della Corgna per Castiglione del Lago del 1750.

Dopo tutto, accadeva molte volte che il signore non ricor^ resse neppure alla forma dello statuto per esprimere la sua vo- lontii. Pubblicava più volentieri bandi, editti, decreti, e di nuovo BuUVsempio degli Stati maggiori ; ma anche qui basterà accen- nare ad alcuni. Abbiamo 8ott*ooohio le gride e lettere comitali

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deirabate di Sant'Ambrogio per Civenna e Limonta (1607-1736} ; i bandi generali di don Giaseppe Angelo Aquilano Cesi, duca di Selci, signore di Oantalupo e Gavignano, marchese di Riano, conte di Eeschio e barone romano (1658); altri di don Agosti- no Chigi principe di Farnese, del daca di Monterotondo, del principe Imperiali Simiana per Montafia, di Alessandro Bon- compagni Ottoboni per la sua terra di Fiano, di monsignor vescovo di Paros, del conte Giriodi feudatario di Monastero, e del principe Pietro Gabrielli per Boccasecca.

3. In mezzo a tutto ciò, buona parte del diritto era tut- tavia abbandonata alla consuetudine; ^^ e se taluna venne messa in iscritto, altre perduravano nella loro forma originaria non scritta. Le Costume generali della Valle d'Aosta furono appunto proposte e redatte in iscritto dall'assemblea dei tre stati; e cosi quelle di Salerno, di Gradisca, e altre. Certo, se ne sen- tiva sempre più il bisogno. Lo statuto di Capodistria accenna alle diverse consuetudini, che vigevano circa il matrimonio, ag- giungendo che si era ordinata una inchiesta in tutte le ville, per sapere quali fossero gli usi di ciascheduna; dopo di che, si sarebbero posti nel registro del comune a perpetua loro memo- ria. Del pari, può vedersi una domanda fatta dal Parlamento dell'isola di Sardegna nel 1603.

' Vi si comincia dal notare che nel Begno, oltre al diritto comune, vigevano diversi diritti e leggi locali, e insieme con la Carta di Logu si allegavano molte consuetudini e costuman- ze diverse e contrarie in una stessa causa. Ciò produceva una grande incertezza, e accadeva che, mentre l'una veniva decisa col diritto comune, un'altra, di li a non molto, lo fosse con qual- che costituzione segon alguna pari o advocat ne te noticia. Così fu fatta istanza, perchè si ordinasse a tutte le città, ville e con- trade di redigere in iscritto le loro consuetudini ; e, redatte die fossero, presentarle alla reale udienza per correggerle e chiarirle secondo il caso ; dopo di che, nessun'altra se ne sarebbe potuta

^^ Le consuetadinì venerali d^ Aosta hanno questo titolo: Coutumes ^éiiér^ les du Duehé tTAoìtMle, Propoéées et redigéca par escript en l'Assemblée des tr,>U jLst<Uz gens d'Eglise, Nohles, Prctcticiens et Coustumiers, avec Us Uz et Stils ask<zu Page observés etc. Abbiamo già detto (nota 46) che la prima edizione ò del 15:^. Per le consuetudini di Salerno e altre pubblicate a' di nostri si veda la nota 46. Le consuetudini di Gradisca del 1577 furono stampate in Udine, 1859, per cnr* del Joppi. Erano state compilate da Girolamo Garzoni, buon giureconsulto j-er incarico del x^apitano di Gradisca Giacomo d'Attemps.

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allegare fuori del detto volarne. E ne fu dato l'ordine ; ma il DexarL attesta che non se ne fece nulla.

Del resto, in un conflitto tra la consuetudine e la legge o lo statuto, non era sempre la prima che andasse innanzi. Lo statuto di Trieste del 1550 dispone addirittura, che il vicario non dovesse tener conto affatto del diritto non scritto, ossia della consuetudine, quando era contraria ad es.'^o.

4. In tanta diversità, e anche in tanta insufficienza di leg- gi, comprenderemo facilmente come si dovesse lasciare all'animi- uistrazione della giustizia un largo campo nel quale vagava il potere, la discrezione e l'arbitrio dei giudici. Era di nr.ovo un serio guaio; ma fortunatamente trovò il suo correttivo nella giurisprudenza dei giudicati che si venne formando appunto in questi secoli. Almeno alcuni dei tribunali più illustri, com- presero che bisognava abbandonare la pratica invalsa, di deter- minare la prevalenza delle opinioni con l'aritmetica; e tornando all'esame razionale, si fecero, non più a numerare i dottori, ma a pesare le ragioni ed i fatti. Così, andarono qua e in disuso quelle litanie di autorità, come le chiama il De Luca, e sorse (la so la giurisprudenza dei giudicati. Nel secolo XVII essa poteva dirsi già in pieno vigore; e in qualche Stato d'Italia si l»»ce espresso divieto agli avvocati di allegare i dottori u*}l fóro, iiuptMiendo così che il mal seme ripullulasse. Ciò accadde in Pie- monte fino dal 1729; e fu introdotto poi a Napoli, ma api>ena nel 1774. Una legge di Ferdinando vuole bandita dal fòro l'autorità doi dottori, interpreti e commentatori delle leggi, e inculca ai giu- dici di decidere le cause, citando il testo della legge, a cui appog- giavano il giudizio, e di ragionare le sentenze, indicando i punti di tatto e di diritto {>er cui le profferivano. Non mancò peraltro l'opposizione noi magistrati stessi, che vi scorsero come compro- messa la loro dignità. D'altronde la legge meritò che il Filan- gif'ri vi stendesse sopra alcune riflessioni {)olitiche dirette a con- vincere quei togati della sua ragionevolezza.

S'intende poi, come i tribunali supremi acquistas*^ero una i^rande autorità. E fu un bene. Appunto la loro giurisprudenza venne raccolta in quella serie di decisioni, che, sebbene com- |;ilate i)er studio privato, finirono con lo andare per le mani dei curialii come fondamento precipuo della discussione delle cause. Anzi |)ertìno gli stranieri la presero a modello. Infatti,

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la giurisprudenza dei tribunali di Sassonia, a cui lo Stintzing dia tanta importanza, non fece, a ben guardare, che copiare la nostra ; e in fondo era il diritto romano che teneva il campo, sebbene temperato, qua e là, dal diritto canonico e anche ah altri diritti.

Vanno meritamente celebri sopra tutte, le decisioni della S>ota romana : ^^ insigne tribunale, formato di auditori di varie nazioni, come il portava la estesa giurisdizione esercitata pei tutto il mondo cattolico. Istituito nella seconda metà del se- colo Xni, mantenne la sua riputazione fino a Gregorio XTI, che ne alterò l'ordinamento e lo guastò. Nei tempi, di cui ci occupiamo, godeva la massima autorità, composto, com'era, ii uomini versatissimi tanto nel diritto romàno, quanto nel cano- nico, tra i quali basterà ricordare il De Luca. Altri ha già avvertito, che intere teoriche si sono svolte nel suo seno: e k grande reputazione, ch'esso godeva, valse presto ad accreditarle, non solo nella Curia di Eoma, ma anche negli altri tribnnali d'Italia. Certo, la scrupolosa diligenza con cui erano postele questioni e analizzati i fatti, la serietà intrinseca dei fonda- menti a cui si appoggiavano, e il molto acume pratico, doveva- no raccomandarle all'attenzione dei nostri magistrati, se anche difettavano generalmente di filosofia legale. Le stesse raccolte. ohe ne furono compilate, non solo in Roma ma anche altrove. mostrano il grande favore che godevano nel foro. Vogliamo ri- cordare quelle del Gomez, del Cantalmaj, del Bichius, del Coco nus, del cardinale De Luca; ma se ne conoscono molte altr« Si tratta nientemeno che di centinaia di volumi.

Due altri tribunali famosi, sono il Senato di Savoia e qaell di Piemonte, istituiti da Emanuele Filiberto: due supreme con di giustizia, che a volte non mancarono di assumere qualche ingerenza di cose politiche, in forza del diritto, che loro spet- tava, di verificare o interinare gli ordini sovrani. Vi sedevai anche alcuni prelati e un cavaliere, giusta l'antico oosttune i far entrare nei tribunali supremi i rappresentanti dei vari o^ dini dello Stato; ma, ciò che più importa, ambedue quei cc^ sessi vantano illustri giureconsulti, tra cui non possiamo a mei

^' StQ tribnDAle della !Rota romana vedi Bbrnino, Il trihìoutle della S. B^ tofn€»n(*, Roma, 1717 e BoNrrtKi, Del tribunale della Saera Bota romuma, Me»«rn alorichej Boma, 1854.

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di ricorlare Antonio Fabro e Claudio Expill}', presidenti del Sellato di Savoia, e Aimone Cravetta, Nioolò Balbo e Antonio Sola, che trovammo anche più sopra, in quello di Piemonte. Specie per ciò che concerne le decisioni del Senato di Piemonte, Gaspare Antonio Tesauro osserva, che godevano una grande autorità in omnibwi pene totius Europae iadiciis: comunque, "hanno fornito per lunghi anni rispettate norme di giudizi ai tribunali piemontesi (Sclopis). E nuovamente possiamo ricor- dare alcune raccolte. Il Codex Fabrianus^ insigne opera del Fabro, su cui è nostro proposito di tornare più sotto, si rife- risce alle cose trattate nel Senato di Savoia; ma anche le de- cisioni di quello di Piemonte furono presto raccolte, prima da Ottaviano Cacherano d'Osasco e poi da Antonino e Gaspare Antonio Tesanro. Questa seconda raccolta porta il titolo: jDe- cisiones Senatuft Pedemontani collectae ab Antonino Thesauro FoHHanengi eum additionibm Oasparis Antonii eias filii, ed è la più nota. L'ultima edizione è forse quella di Torino del 1794 (livida in due parti. Parimente, Tommaso Maurizio Richeri si rp>e benemerito degli studi pratici con un Codex rerum in Pe- dvìnnntano 8enata aliisqae supremis pairiae curiis iudicatarum, Augustae Taurin., 17H:5, voi. 4. Poco dopo esciva alla luce la Vractica legale del presidiente (jalli.

Una si>eciale rinomanza acijuistò la Rota di Genova per le cauHe commerciali; vi porgevano frequente occasione sia le im« prese mercantili della repubblica, sia la presenza in quel porto di tanti mercatanti (stranieri. Era naturale che appunto questa parte della giurisprudenza trovasse colà un largo svilui)po. Una raccolta dei suoi giudicati fu fatta dal Belloni col titolo Deci* HÌonee Uotae Genuae de mercatura et petti neniibiuf ad eam^ Ve- notiis, ir>S2. Un'altra si deve al Cartario.

Invece non abbiamo molto a lodarci della giurisprudenza uscita dai tribunali di Napoli/" sebbene nessun altro paese ab-

** 8qU« fnuriiipnidenm* dol fòro di Napoli «ori userò: Mavx4, IhUa giuri»' ^trwìenM^ e dei fòro napoUlano dalla sua origine Jino alla mtòblicoM. dtlU nuom^ /r '/./•', X«p3Uf 1^9 6 LowoMACo, tHl t'oro n'incutano e dcua ama €juaeia^ netta Ir/UlaxionA in aenoraU nell'opera della civìlut deW intera namione^ Xa)m>U, IfjBA (n<l * Kilanffìon anni VII od Vili). Abbiamo iiott*oo4*bio una odisione dol- i'opora dol CapecoUtro oon queato titolo: l>tc%»ionee novietimae $«»eri regii Co^i^ tilU Seagtoletani eum o^rv. GìmH, Gonevao, }^^^ ^ "^^^o ® ancho oaa del Da Frahciiii, Derisione» »aeri regii Coneilii Xeapolitoni mm oÒeervalioniiu» C. 2M Luc^ Veaetiis, 1772, 4 TolumL

l^

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bon classe tanto in moto forense ; ma la forza delle abitudini pre- valeva non di rado sulla profondita dell'esame, come in altri tribunali della Penisola. 11 giudizio severo è dello Sclopis;inA, del resto, anche il De Jorio, sullo scorcio del secolo XVIIL dopo aver accennato alla farragine di leggi, e alle ^infinite opinioni di dottori „, cosi si esprime testualmente: "hanno po- sto in un estremo labirinto i tribunali, onde l'arbitrio dei giudici troppo illimitato nel decidere le cause e quello degli avvocati neir intraprenderle, hanno reso sempre più incerta la via della f giustizia . Lo stesso De Jorio anche taccia ai dottori, pe^

)^ che con le loro tante diversissime opinioni ** avevano talmen-e

alterata la giurisprudenza, che l'ombra sola ci era rimasta.

Intanto, la frequenza dei litigi vi faceva crescere le colie- zioni delle sentenze anche più che altrove. Cominciò Matteo d'Afflitto, giureconsulto che fiorì nella seconda metà del secol: XV e sul principiare del XVI, con la sua raccolta delle deci- sioni del sacro real consiglio, e continuarono poi molti altri. Ne ricordiamo solo alcuni dei più noti: il Capecelatro, il De FràL- chi, il Sorge e il Briganti. I primi due attesero a raccogliere le decisioni del sacro regio consiglio napoletano, che videro pi : volte la luce. 11 Sorge è autore di una lurisprudentia fortn^^u in undici volumi, opera farraginosa in cui accatastò i^enza ol.- bra di critica quanto gli parve necessario agli esercizi foret> rubacchiando qua e da infiniti scrittori, senza neppure dar?. la briga di riscontrarne le citazioni ; ma nondimeno, questa e.- lezione, grazie alla copia delle materie e al disegno bene idea- to, trovò favore presso i causidici che la fretta distoglieva -^ più seri studi. Tommaso Briganti ha una Pratica crimine - delle corti regie e baronali del Begno di Napoli, e la dettò, noi- ostante che esistessero anche altri lavori sulla materia, perciò nessuno aveva ancora pensato ad esporla con ordine esatto e coi sistema metodico. Dopo tutto, è un lavoro che non manca - erudizione. Ai bisogni dei notari servivano più specialmente i Formolario di Antonio Spezzacatena e la collezione di Giusep:^ Pasquali conosciuta comunemente col nomo di Codice i> squalino.

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g a. - CARATTERE DELLA LEGISLAZIONE.

A. —Le hggi dei eeeali XVI e XVIL

!, Volendo esaminare la portata delle leggi, che siamo venuti annoverando, gioverà richiamare alla memoria una di- stinzioue, fatta più sopra: lo spirito, ohe le anima, non i lo f»t6ì<«o in tatto questo periodo. Net primi dae seooli, la prepone \ deranza straniera adugia e altera la vita nazionale qnaai dovun- que e in tutto il fiuo Msiere : tutti i vantaggi della cultura, della libertà, della rìochexxa paiono perduti; e anche la legisl azione forniifce ben pooo^ che meriti di essere ricordato. Soltanto il Piemonte, sotto qualche aspetto, fa eccezione : nel resto non si tro\^ quasi nulla; e nessuna provincia ha da invidiare alcunché all'altra. Sia che si considerino le leggi di Napoli e di Sicilia, 0 quelle tosoane o dello Stato pontificio, tutte rivelano lo stesso fenomeno. Non si tratta di novità molto notevoli: sono ritoc* chi e nulla più; e, dal più al meno, si risentono della miseria dei tempi. I&Teoe, oomineiando col secolo XVIIl, un alito di vita nuova spira dappertutto: si ecorge chiaro che i tempista- vano maturandosi.

2. Naturalmente, il maggior numero di leggi concernono ramministraiùone dello Stato e spaziano in tutti i domini di eaaa: la milizia e la giutUzia, ìa finanza e la polizia. La crea* zione delle milizie nazionali è uu portato di questi tempi. Già Emanuele Filiberto pubblicò un editto con tale intento, e altri ne troviamo nel Monferrato, nella Toeoana, nel Regno di Na* poli. Insieme si provvide a dare un migliore assetto alla &* naoza: ma il più delle volte si va a tentoni, senza un disegno praatabilito per difetto di principi direiiivi^ salvo a fiire il oon* tiario, quando la esperienza avesae provato Terrore; e troppe volle il oetaoola lo svolgimento e il progrseao naturale delle fcfrze del paese, per subordinarlo agli tnteresai della Corte. È un difetto, da cut la stsesa legislazione piemontese non si mo- stra sempre immune.

Quelle però, ohe soprattutto abbondano, sono le leggi di poli* sU| speoie in materia di sicurezza pubblica, tanto maggionusnis

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inefficaci quanto più ripetute* A persuadersene, basta leggere le gride dei governatori di Milano contro i bravi; ma anche & Napoli spadroneggiavano torme di masnadierif intenti a taglieg- giare il paese ; e cosi nello Stato pontificio, in Toscana, e nella monarchia di Savoia. Del resto qua e si pensa agli 8tu(U e anche alla salute pubblica, specie in tempi di epidemia; à trasandano gli interessi economici. Si trattava nuovamente di un bisogno urgente dei tempi ; ma non può dirsi che vi si appre- stasse efficace rimedio. Molte leggi erano addirittura improvvide. Accenniamo solo a mo' d'esempio ad alcune prammatiche napole- tane sul commercio delle derrate più necessarie e di maggior conto ; cosi pure a quelle ohe vietavano l'esercizio di certe arti per favorire le entrate del fisco mercè i cosi detti arrendamenti o monopoli ; alle molte leggi suntuarie; per non dire dei vin- coli e aggravi, sotto i quali il commercio languiva, aprendo l'adito a infinite vessazioni. Tra i provvedimenti buoni, rico^ diamo: un capitolo delle costituzioni milanesi, inteso a rendere proficuo il corso delle acque che discorrevano per il territorio: una legge di Cosimo I sul libero commercio dei grani, che rende omaggio ai buoni principi economici; un'altra di Emanuele Fi- liberto, che accetta, per la prima volta, il libero esercizio delle arti; e anche alcune gride dei governatori di Lombardia sul* l'abolizione del lotto: ma si possono contare sulle dita.

3. Poche leggi appartengono al diritto privato, e pochis- sime che rivelino davvero un progresso. Nondimeno vogliamo richiamare l'attenzione sopra un editto meritamente celebre ix Emanuele Filiberto, che ordina l'universale afirancamento dei servi della gleba e tagliabili in Savoia, e anche su alcune leggi j della Lombardia e del Piemonte tendenti a restringere gli acqui- t sti delle manimorte. La pubblicità delle ipoteche, di cui al^ biamo un esempio abbastanza antico nella repubblica di Yenezìa (1288), si venne in questi tempi sempre più estendendo. La stessa repubblica l'applicò agli stabili di terra ferma; e pari- mente a Napoli, sotto il governo spagnuolo, troviamo istituiti registri, in cui tutte le alienazioni di beni immobili e le ipo- . teche dovevano essere annotate. Non crediamo però^ che 80^ tissero pienamente il loro effetto. Al nome del viceré duca d^Ossuna è legata la prammatica de anUfaio, breve legge di una pagina, resa famosa dal commentario di un volume in foglio

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eoa oai il Tassoni la illastrò. Altre leggi si oooupano di con- tratti ; ma, se pnre hav vi qualcosa da notare, è la influenza ro- mana, ohe vi 8i fa strada, cancellando sempre più le vecchie tracce del diritto germanico. In materia di successioni eredita- rie & a grande stento, che possiamo citare un editto di Carlo Ema- nuele I (1698), che sull'esempio di altre ordinanze francesi di questi tempi, restringe le istituzioni fedecommissarie a soli quat- tro passa£^gi. In fondo, era nuovamente un ritomo alle leggi romane e, per quanto si trattasse di riforma piuttosto timida, nondimeno ha la sua importanza, come quella che servi di av* viamento ad altre ben maggiori che si compirono un secolo dopo.

Lo stesso fenomeno si scorge nel diritto con^merciale. Le 1 vere leggi scarseggiano anche qui. Perfino la ricca fioritura dei codici marittimi si è disseccata, ed è a mala pena se ci ab- battiamo in alcune ordinanze del governo veneto. Cominciando dal secolo XVI essa ha già ceduto il posto a un diritto generale { comune a tutte le nazioni, e la giurisprudenza si è incaricata di svilupparlo. In fondo, si tratta nuovamente della influenza del , diritto romano, che si fa sempre più manifesta, mercè l'avvento di quella giurisprudenza educata alla sua scuola. Il diritto ma- rittimo non si presenta più come un ramo staccato: anzi si ri- collega al diritto generale ; e, se un tale riallacciamento ha reso possibile di approfondire certi punti più che non si foH&;e fatto per Taddietro, d'altra parte è innegabile che molte delle nuove figure giuridiche, sorte nel medio evo, sono vedute di mal oc^ chic: non si accettano volentieri, e a volte sembra addirittura che sieno ignorate o, quanto meno, se ne restringe la portata. D'al- tronde, abbiamo osservato altra volta che anche il commercio aveva mutato carattere per tornare all'antico indirizzo.

Questa spiccata tendenza romanistica può riscontrarci s|)ecial- ' mf'nte nello Stracca e nel Pecchie, e già nella prima metà del secolo XVII domina sovrana. Non si conosceva norma di di- ritto^ che non si facesse entrare nello stampo romano. E questo aucora si spiega ; ma talvolta si cadde neiresagerazione, e fu un male. Perchè, se disgraziatamente si era in presenza di un teifto^ non si badava ad altro, e lo sk voleva applicato ad ogni costo, per quanto contraddicesse ai bisogni del commercio.

Alla perfine, questa letteratura cominciò a influire sulla pra-

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tica, e tenne il campo, nonostante qualche reazione. Appunto Ila giarispradenza romanistica ispirò sullo scorcio del secolo XTI / un nuovo libro giuridico, che doveva acquistare una decisiva I importanza per il diritto marittimo dei popoli latini- Vogliamo YJ alludere al Guidon de la mer. Chi ne fosse il compilatore non si sa : fu redatto nella Francia settentrionale, sulla base di prin- cipi generali, senza ombra di casistica, e nondimeno, con riguardo ai particolari, conforme in tutto allo stato della scienza fran- cese dei tempi. Il Guidon de la mer ha, alla sua volta, ispirato .una celebre legge di Luigi XIY. là'ordonnance de la marine. I dell'anno 1681, che per la prima volta cerca di rendere ragione ad ambedue le zone marittime del periodo precedente, sia del Mediterraneo e sia delFAtlantico, e che scioglie questo compito maestrevolmente, subisce appunto l'influenza di quel libro, eti acquista in progresso di tempo un'importanza che si può dire addirittura universale. Il diritto marittimo dei popoli latini è a. sorto appunto sulla base di essa.

4. Le coudizioni della giustizia punitiva offirono mi qua- dro addirittura sconfortante. La severità delle leggi fuori d'ogiù proporzione coi reati era una cosa comune, massimamente qtiaiii: c'era di mezzo la politica; e, per averne un'idea, basterà ricor- dare una legge toscana del 1548, diretta contro a quelli che mac- chinassero avverso la persona o Staio di sua Altezza o de^ ^ : illustrissfmi figliuoli o discendenti. Questa, che dal nome del s::: autore fu detta legge Polverina, fa sfoggio, non diciamo di pene, ma di vere persecuzioni ; e assegna una tale estensione alle coiif - sche, che in certi casi ne rimangono colpite perfino le doti delle j mogli. D'altra parte c'erano delitti anche gravi, che si sconta- '. vano tuttavia con pene leggiere da soddisfarsi in denaro, come ' disponevano i vecchi statuti. È una condizione di cose che piL dirsi generale. Nelle costituzioni milanesi troviamo un altro n- . masuglio delle antiche costumanze germaniche : che, cioè, i e - muni dovessero rispondere dei danni commessi nel loro territori:. laddove ne rimanesse ignoto l'autore. Se pur si vuole ammet- tere una eccezione, è mestieri farla nuovamente per le rifbnrr idi Emanuele Filiberto. Certo, in alcune di esse si nota un gran- de miglioramento. Una sua legge del 1569 osserva addirittur» che la sicurezza comune e pubblica doveva andare innaixzi ai ogni antico statuto e privilegio; e cosi riduce le sanzioni pe-

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nali alle norme del diritto comune, dichiarando nulli gli statuti delle città, ohe stabilivano pene leggiere per gli omicidi, le vio- lenze e altri delitti gravi e di pessimo esempio. tollera che il delinquente possa ricomprarsi per moneta della pena incorsa. L'influenza romana spazia anche qui. Nondimeno è vero ohe ( il costume del tempo e l'asperità dei dottori hanno impedito al duca un assoluto avviamento al bene. Alcune sue leggi appa- riscono addirittura feroci; e a questo proposito basterà riferire la tassa delle esecuzioni personali :

Per tagliare la tosta e squartare Lire 3C

Per tagliare il pugno 8(>

Per mettere alla roda 86

Per tagliare e squartare ,, 86

Per tagliare la testa ovvero impiccare semplice- mente - 24

Per brusar masha (redigie) o altra sorta di generi ^ 16

Per frustare 16

Per dare la corda. 6

Per metter alla berlina 2

5. Per ciò che riguarda l'ordinamento dei giudizi, accennia- mo soltanto di volo al dedalo intricato di tribunali regi, feudali, ecclesiastici, militari ecc., per i quali era forza passare, prima di ottenere una sentenza definitiva. È una confusione che non | si può descrivere*,^ e accadeva anche sovente che qualcuno, per un pretesto o per l'altro, venisse distratto da' suoi giudici natu- rali. Se mai riforma doveva parer necessaria era questa; ma non \ vi si badò più che tanto. Lo stesso Emanuele Filiberto, ohe pure ne condusse a termine molte, pubblicò vari ordini, coi quali istituì speciali giurisdizioni, sebbene non ne esagerasse il numero, come fece poi il successore. D*altra parte appunto Emanuele Filiberto vietò agli ecclesiastici di chiamare innanzi ai loro giù» dici i laici per azioni meramente personali e profane.

Lo 8t»^sso mudo di procedere lasciava molto a desiderare in tutti i giudizi, civili e penali, ma più in questi ultimi, per la speciale natura dei diritti, che erano in giuoco.

Un grosso guaio dei processi civili consisteva nelle lun- 1 gaggini; e, nonostante che le leggi avessero stabilito termini fìssi entro i quali avrebbero dovuto spedirsi, la loro frequente rii)etizione sta a dimostrare che non sortivano il loro effetto*

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Alla fine poi i giudici stessi, a cui le tasse servivano d'emolumen- to, avevano tutto l'interesse a tirar le cause in lungo. il si- stema delle prove poteva dirsi ispirato sempre a criteri di giu- stizia. Proprio nelle cause civili, se n'erano introdotte alcune di privilegiate, oltre alle ordinarie; e non soltanto per ragion di materia, come a dire le turbazioni di possesso, i furti notturni, . i danni dati, le usure, ma anche in favore di persone o per odio di fiizione o setta. Arrogo, che l'uso della lingua latina, e le molte scritture richieste dal processo avevano finito con lo eli- minare quasi affatto le parti e mettere la trattazione della causa nelle mani degli avvocati.

Il processo criminale era deturpato dalle denunzie, le quali ser- vivano troppo spesso a rancori personali: ad ogni modo se ne este- se Tuso, onde vennero facendosi sempre più pericolose nella prati- ca e tristizia dei tempi; e non farà meraviglia che le popolazioni alzassero a quando a quando la voce, reclamando, se non altro, perchè non si desse ascolto a denunzie anonime. E anche qui le prove erano male regolate : anzi rendevano il processo som- mamente pericoloso più che nelle cause civili. Basterà ricordare la grande importanza assegnata alla pubblica fama e alla cou- I fessione, la quale, se non era spontanea, veniva estorta con , seduzione e coi tormenti. Il troppo spazio lasciato agli arbitri del giudice costituiva di nuovo un serio pericolo. Anzi, quant'> più i reati erano atroci e tanto più si credeva che potesse ba- stare qualunque leggiera conghiettura, accordando senza più fa- coltà al giudice di trasgredire le leggi. E noto il detto dei prammatici: In atracissimis leviares conjecturae sufficiunt et licei judici jura transgredi.

Nondimeno, la legislazione di Emanuele Filiberto si è di- stinta anche per questo riguardo, giacché non mancò di riordi- nare la giustizia in modo che fosse amministrata con rettitudine. Alludiamo principalmente ai suoi Ordini neioot, come furono chia- mati, circa il modo di procedere nei giudizi. Un intero libr.-^ tratta della forma e dello stile da osservarsi nelle cause civili e riduce l'antica farragine dei decreti a regole più ordinate e schiette. Un altro rimaneggia il procedimento criminale, deter- ' minando quali ne dovessero essere i ministri e i loro uffici, qa&le ! il modo e la forma di procedere, e come avesse da esegnirsi U sentenza. In generale lo scopo era di abbreviare il procedimene?

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e dare all'accasato pieno adito di difendersi. La grande preoc- cupazione del principe era che i processi non si trascinassero per le lunghe : perciò ordina che si finiscano in sessanta giorni, salvo | Io impedissero la difesa del reo o altra causa legittima: che se il giudice inferiore si mostrava tardo, la cognizione si devolveva al superiore ed egli era punito per la sua negligenza. Insieme potremmo ricordare talune massime, che meglio rivelano la cura del legislatore di far prevalere la giustizia in tutto. Ci restin- giamo ad accennarne due: // giudice non doveva porre minor zelo a chiarire V innocenza che la colpa ; e Gli ufflziali di giusti- zia dovevano visitare i carcerati ogni otto giorni in compagnia dei deputati del comune^ anche per agevolar loro le difese. Lo stesso Emanuele Filiberto, a diminuire, se non a togliere, il monopolio degli avvocati, volle che le liti non si trattassero più in latino,) bensì in volgare, ^a anche altre leggi piemontesi, in materia di giudizi, sono degne di considerazione. Ricordiamo le Costi' tuzioni nuove di Carlo Emanuele I, che riguardano pure tanto la materia civile quanto la criminale (1582), e appariscono in- "^ spirate alle medesime idee. Lo stesso dicasi di Vittorio Ama- doo I, che dettò alcune norme sul procedimento civile e pe- nale e sull'amministrazione della giustizia (1632). Tra le altre, proibì ai magistrati d'interinare lettere di grazia d'un reo, che non fosse prima costituito ed esaminato,, nonostante qualunque clausola che si potesse apportare ne* rescritti grcuiosi^ biglietto ed ordine nostro in contrario. Un decreto di Maria Giovanna Bat- tista del 1677 stabilisce già, che le sentenze capitali non pos- sano eseguirsi, senza che siano state sottoposte prima alla san- zione del sovrano. Si trattava di una revisione necessaria, che in seguito doveva fare anche più cammino.

Senonchè le idee riformatrici, che animano la legislazione dei reali di Savoia, e anche qualche altra legge in questi tempi, non costituiscono, a ben guardare, che un fatto sporadico, ohe rie^^oe a mala pena ad illuminare le forti ombre che, del resto, ai addensavano sulla società* Erano brevi oasi, in cui lo spirito tro- vava un po' di refrigerio; mentre, tutto intomo, spaziava il deserto. NA avrebbe potuto essere diversamente. Il De Sanctis si propose un giorno la domanda: che cosa ci fosse nella coscienza? e nulla ci rinvenne: non Dio, non patria, non famiglia, non umanità, non civiltà. Ma col secolo XYIII le cose mutano come per incanto.

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J5. Le riforme del secolo XVIIL

1. Lo abbiamo già osservato : nel secolo XVllI è un sof- fio di vita nuova che anima improvvisamente l'Italia dapper- tutto : non solo in Piemonte, ma anche nella Lombardia e nella Toscana, del pari che a Napoli; e ciò per un nuovo concettj della polizia, che si venne facendo largo nella scienza e nelU vita.

Lo scopo della vita diventò appunto la misura dell'attiviti dello Stato, e ciò gli imponeva un grave compito perchè, oltre che mantenere la sicurezza e amministrare la giustizia, avrebbe dovuto insieme provvedere a tutti quei mezzi che rendono belli e comoda l'esistenza e promuoverne l'agiatezza e la ricchezza. Era l'idea delV etidemonismo (èi»Sai|iovfa, felicità), che diffonden- dosi più e più, doveva lasciare un'orma profonda anche nella vita pubblica; l'idea proclamata già dal Wolf, che il consorzio civile dovesse aiutare l'uomo a conseguire il fine della perfezione prefìssogli dalla natura, e svolta poi ampiamente dal Delamare, un francese, il cui libro però influì potentemente anche fu<r. di Francia. In breve non ci fu pubblicista che non rigaardase come scopo della polizia di provvedere al lustro dello Stato e alla felicità esterna dei sudditi, o alla beatitudine temporale, o alla pubblica prosperità, o a mettere in una continua ed ìl.- tima relazione e connessione tra loro l'agiatezza delle famiglie e quella di tutti, oppure fare in modo che ogni cittadino, mentre si affaticava per il proprio benessere, giovasse in pari tempo al- l'universale.

Ma questa idea doveva estendersi anche oltre ai limiti dell^ scienza, e l'attività dello Stato ne ricevette improwìsament^ un nuovo incremento. Mentre nel secolo XV, e anche dopc quando si parlava di polizia^ s' intendevano solo le funzioni de La giustizia preventiva, e l'ordinamento dei bisogni assolutamen:- necessari e per lo più locali, e l'allontanamento dei mali ana- loghi, adesso invece, diventata elastica, con un concetto vac: e indeterminato, doveva abbracciare tutta la vita. Infatti, cL- cosa non comprende quella idea del comune benessere? Qual- che scrittore ha chiamato la polizia la vita e Vanitna delU^ Stai,

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che conservava e accresceva il patrimonio generale e provve- deva insieme ai bisogni spirituali; onde lo Stato credevasi ob- bligato a curare che venissero coltivate le terre, aumentata la popolazione, promossa l' industria, sviluppato il commercio, vi- gilata la pubblica costumatezza, estesa l'educazione e istruzione della gioventù, anche religiosa, garantita la sicurezza interna.

Con tutto ciò non vorremmo dire che il popolo ne avesse sem- pre un vantaggio. Disgraziatamente si erano confusi insieme l'interesse dello Stato e il benessere del popolo, e si riguarda- vano come cose identiche, senza pensare che spesso nella vita pratica fanno ai pugni tra loro. Non si aveva per anche appreso a distinguere il popolo dallo Stato ; e cosi lo scopo finale del consorzio civile, più del vero benessere di quello, era pur sem- pre il bene e la forza di questo, tanto più che si trattava di monarchie. Per tal modo si provvide di preferenza allo Stato;] ed esso, cosi, diventò onnipotente anche in danno del popolo:' uou solo perchò dava l'impulso e vegliava airesecuzione e non| tollerava alcuna libera manifestazione dell'individuo o delle cor-l porazioui senza il suo permesso; ma anche perchè badava prin-' cipalnuMitt^ ai suoi fini, subordinando il vero interesse pubblico ul proprio iutorosse, misurando spesso la felicità del popolo alla ^rre;;ua d«'Ua reudita pubblica o della forza delTesercito. À ren- derò anche più illusoria la nuova missione dello Stato si ag- ^iungova Vassoi uiismo^ che poteva anche durare finche il Prin- cipe si restringeva ad amministrare la giustizia, ma non dal mo- lutMito che i lati più diversi della vita diventarono oggetto della coha pubblica. Si trattava degli interes>i più vitali e immediati della esistenza materiale dei sudditi, e sarebbe occorso di averne esatta conoscenza, e promuoverli in buona fede senza secondi fini; il che l'assolutismo non poteva, o almeno non era costretto a farlo. K già nel secolo XVIII si sono udite delle proteste con- tro gli abusi della polizia. Ciò vale anche dell'Italia, quantun- que meno che altrove.

I n<;stri principi, non ancora sospettosi, si sono dati a semi- nare riforme a pien^ mani. Prima ancora che la rivoluzione fraiice.se battesse alle jK^rte della penisola, Vittorio Amedeo II 0 Carlo KniaiiUfle III, Maria Teresa e Giuseppe II, Francesco I o Pietro Leopoldo, Carlo III di Borbone, hanno rinnovato il Pie- monte, la Li^mbardia, la Toscana, il Regno di Napoli, tra le

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benedizioni dei sadditi e il plauso dell'Europa civile. Soltanto lo Stato ponti fi oio, condannato dalla sua stessa natura alla im- mobilità, non ha riforme da registrare. Dall'altra parte, il pc*- * polo non entrava ancora in questo movimento : tutto doveva scendere dall'alto; e un principe buono, consigliato dai filoscfi. si riguardava come il migliore dei governi possibili. Nchu fu che la rivoluzione francese, che si foce iniziatrice di una nuova li- bertà democratica.

2. La potestà pubblica in questi tempi è costantemente diretta, sia a restringere l'autorità comunale entro la cerchia degli interessi locali, sotto la sorveglianza dello Stato, sia a sf> gliare i baroni dei loro privilegi e frenarne gli abusi^ «ia intine a circoscrivere il diritto e la giurisdizione della Chiesa alle iira-

' terie ecclesiastiche. E tutta una serie di riforme, intesa ad ab- battere gli avanzi della vecchia società. Ma non deve recar meraviglia. Presto o tardi ci si doveva pure arrivare; dopo tutto la monarchia non faceva che obbedire alla legge, che k governa, cercando di concentrare il potere nelle sue mani. I:i pari tempo, essa tentò di ricostruire gli ordini amministrativi e si diede a curare i maggiori interessi del popolo, precorrevi per molti riguardi la grande opera della rivoluzione firancese. Parecchie provvidenze riguardano il sistema finanziario, e s^e

/ ne incontrano dovunque. Appunto con l'idea di riformarlo, Vit- torio Amedeo II pubblicò diverse leggi, e da ultimo lo ordin! > definitivamente col celebre Regolamento delle Aziende (17*cPl' . altrimenti vi attesero Pietro Leopoldo e Carlo IIL I catasti. che appunto in questi tempi si compirono in Piemonte, in Lon^- bardia, in Toscana e nel Regno di Napoli, dovevano servire al allibrare con esattezza e tassare con equità i beni stabili. Inol- tre si badò alla perequazione dei tributi; e si escogitarono nuovi sistemi di esazione che non iscoraggissero opprimessero» il contribuente. Una legge di Pietro Leopoldo tende a riordinar^ il debito pubblico.

3. Medesimamente, molto più che per l'addietro, si pres:^ attenzione in questi tempi ai bisogni comuni del popolo. NnL- doveva riguardarsi estraneo all'amministrazione, e sia che si trat- tasse della vita fisica, morale, intellettuale, sia che dell& vi^^ economica. Quei principi si sono occupati di tutto molto sol- lecitamente, diremmo quasi afifannosamente.

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Alcuni ordinamenti si indirizzano alla salate pubblica ; altri mirano a ricostituire le scuole; ma soprattutto si ha cura di assicarare ai sudditi una comoda, immancabile sussistenza. E HA faceva mestieri. Le condizioni economiche erano state ri- dotte a mal partito sotto il dispotismo feudale e il peso dei pri- vilegi : perciò, si A cercato di restaurarle in più modi, e non inu- tilmente. La legislazione di Maria Teresa tornò il territorio pressoché isterilito alla sua naturale fertilità ; e anche Pietro Leopoldo pensò airagricoltura, cercando di rialzarne le sorti, abo- lendo i vincoli che impedivano la commeroiabilità della proprietà fondiaria, sopprimendo le comandate, volendo protetti i coloni dalle vessazioni, a cui erano di soverchio esposti, e togliendo di mezzo gli impacci che si opponevano al libero esercizio della loro arte. Ne trasandò l' industria e i commerci : anzi se ne oc- cupò a più riprese, e vanno celebri i provvedimenti onde ne promosse la libertà, sciogliendo i vincoli, con cui la repubblica e i Medici li avevano inceppati. Basterà ricordare che abolì le matricole delle arti e dei mestieri, e dette piena libertà, sia di importare, esportare e far circolare le merci all' intemo, sia di venderle e contrattarle a qualunque prezzo, peso e misura. Sol- tanto limitò la esportazione delle materie greggie che potevano ricevere una (jualche lavorazione nello Stato.

4. Nel dominio del diritto privato, è notabile la tendenza | di sviluppare sempre più le massime del diritto romano, per ; (jiiauto erano ancora compatibili coi tempi. È però un feno- meno HÌnp)lare, che qua e là, invece che ai principi del diritto romano più recente, vediamo la legislazione ispirarsi a quelli del diritto più antico. Ma, dopo tutto, non fk mera\ngUa. Il grande rivolgimento, che s'inizia col secolo XVIII e continua nel successivo, presenta appunto questo di caratteristico, di rista- bilire, cioè, i rapporti sociali sulla base della libertà individuale, ed ha molti più punti di contatto con l'epoca classica romana, che non con quella del basso Impero. Per qual ragione non si sarebbe chiesto nuovamente al diritto delle Pandette, cioè al di* ritto romano classico, la regola del vivere civile, se appunto questo era il diritto regolatore della libertà individuale? La le- gislazione, quale si trova consegnata nel Codice giustinianeo e nelle Novelle, è già a base sociale: ad ogni modo appare im-

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bevuta di principi sociali, e non poteva convenire ad un secolo,

in cui si studiava a tutta possa di riabilitare l' indivìdn&lismo.

Ciò vale specialmente per i beni. Molte leggi s' indirizzano

^ ai feudi ; ed è manifesta la loro tendenza di batterli in breccia. Certamente, cercano di ridurli, anche più che non fossero, ad una semplice forma di proprietà privata. Di fatto, i baroni perdono dappertutto ogni autorità politica: tutt'al più man-

' tengono il diritto di riscuotere tasse e il privilegio di non pa-

J game ; ma ridotto a questo punto, il feudalismo non poteva pi^. reggersi. A Napoli fu perfino abolito il diritto di prelazione che i baroni accampavano nella vendita del feudo, e anche la pre- ferenza pei fìnitti feudali. L'avevano goduta fino allora; in& oramai dovevano rinunciarvi lasciando piena libertà ad ognuno di vendere i frutti delle proprie terre nella maniera e nel tempi che meglio stimasse convenire ai propri interessi. Altre leggi

1 riguardano la proprietà delle manimorte. Ne ricordiamo due di Francesco I di Toscana e di Pietro Leopoldo, che determinano appunto il passaggio dei beni stabili nelle manimorte, e altre di Francesco III di Modena, di don Filippo di Parma, di Ferdi- nando IV di Napoli ecc. Ma anche le rimanenti proprietà pc-

i terono muoversi più liberamente , tolti di mezzo i vincoli ci-

; ne restringevano la trasmissione. Qua e furono soppressi i retratti per diritto di confinazione e agnazione, e abolite le ser- vitù, che parevano ledere i diritti di proprietà, e insieme im- pedivano la conveniente coltura dei terreni. Un editto di Pie*::

^ Leopoldo ordina la riunione del pascolo al dominio del suj!. e distrugge cosi l'antica legge del pascolo pubblico. Carlo H^ di Borbone abolisce le decime sacramentali, e Ferdinando IV porta la mano anche su quelle dei parroci.

diversi criteri informano il diritto ereditario. La loità

[ contro le istituzioni fedecommissarie, di cui abbiamo trovato ir prime avvisaglie in un editto di Carlo Emanuele I, contin:ià ora sempre più energicamente. Si comincia dal frapporre osur coli alla erezione di nuovi fedecommessi ; si restringono ancLe. dove a quattro, dove a due gradi soltanto, e si finisce qua e con l'ordinarne lo svincolo. Pietro Leopoldo proclama addi- rittura lo scioglimento dei fedecommessi e maggiorasela cci proibizione di istituirne di nuovi, dando cosi compimento ad uni riforma destinata ad assicurare la piena libertà dei patrimoui:

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e il suo esempio fu imitato da Carlo Emanuele lY. A questi tempi appartengono eziandio parecchi trattati ohe i principi di Savoia stipulano con la Francia, con TAustria, col Portogallo, per Tabolizione del diritto d'ubena e la perfetta uguaglianisa e reciprocità nelle successioni.

Insieme possiamo ricordare alcune leggi commerciali: un editto di marina e navigazione di Francesco di Lorena del 1748, uno di Carlo III per Napoli del 1761 e due di Carlo Emanue- le HI. Sull'esempio di Luigi XIV, il re sabaudo raccolse i principali provvedimenti nelle cose commerciali di terra e di mare, prima nel 1760 per lo stabilimento del Consolato di Nizza, poi nel 1770 per la Sardegna.

6. La legislazione criminale presenta uno sviluppo meno <. uniforme. Alcune leggi sembrano ancora trovarsi in pieno me- dio evo, e non risparmiano pene gravissime di morte, di march!, di battiture, di digiuni, di ferri, di confische; ma altre sono ispir&te da criteri più umani. Tali sono nuovamente le leggi à di Pietro Leopoldo; e, a questo proposito, non sarà inutile di' ricordare i motivi che le provocarono. Una memoria ufficiale di quel tempo cosi si esprime : ^ Non fu d'uopo di un lungo corso di anni per convincersi della verità, che la durezza e l'ec- cessivo rigor delle pene è altrettanto ingiusto quanto inutile |>er frenare i delitti in una eulta e mansueta nazione, e che al contrario la moderatezza congiunta alla sollecita immancabilità del castigo ed alla esatta vigilanza per prevenire le ree azioni, lungi dall'accrescere, diminuisce senza dubbio i delitti medesi- mi ^ . Così la pena di morte fu surrogata dalla prigionia per- petua e dalla condanna a vita a' pubblici lavori ; la confisca dei beni trovò posto nella nuova riforma. Per togliere qua- lunqtii' abuAo o pretesto di vessazione, Pietro Leopoldo volle che {>erfino il nome dei delitti di maestà ne rimanesse escluso, uou ignorando quale estensione arbitraria aveva subito* Lo stes- so retratto delle multe e pene pecuniarie doveva devolversi a sollievo di quelli innocenti, che il libero corso della giustizia HottoiKMi»^ talvolta allt^ vessazioni di un procosso, e anche a soc- (M>rso di coloro che un d*«litto altrui aves^e danneggiato.

D* altra parte i colpevoli, qualunque ne ft)s*<e il reato, non dovevano più nutrire lusinga di causare il castipi, o in tutto o iu parto, sia col mezzo della grazia sia con la quietanza del-

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ToHeso. La memoria citata aggiunge, che ciò mirava a conciliare gli effetti della clemenza colle inalterabili regole della giustizia.

6. Lo stesso spirito ha suggerito non poche leggi in ma* teria di giudizi e di rito giudiziario.

Lo scopo fu quello di ricomporre un sistema di giurisdizio- ni, che unisse la semplicità e la sollecitudine, e anche di ren- dere il rito più breve e ragionevole in tutte le materie. Spe- cialmente si dette un miglior*^ assetto alla procedura criminale. L'uso delle denuncio segrete fu escluso, e per evitare la falsità delle accuse, si ordinò che il processo dovesse essere preceduto da una formale istanza, che rendesse il querelante responsabile della verità o falsità dell'accusa. Pietro Leopoldo provvide eziandio perchè gli imputati non rimanessero indifesi. E cosi Giuseppe II: senonchè egli, abolito l'intervento dei patrocina- tori, fece carico al giudice . stesso di cercare tutto ciò che poteva riuscire favorevole all'imputato. Nel medesimo tempo cadderC' le prove privilegiate, che un falso zelo di pubblica yendet:à aveva introdotto per facilitar le condanne nei più atroci mii- fatti; e dall'altra parte, fu escluso il giuramento purgatorio, e attribuita maggiore importanza alla prova indiziaria. Maria Te- resa e Pietro Leopoldo abolirono la tortura, sull'esempio datone da Federigo il Grande. Per converso, i rimedi ordinari, do: ammessi dalla legislazione del medio evo, quando trattavasiii cause criminali, lo furono in quei tempi sotto la influenza di icee più umanitarie : anzi, trattandosi di pene capitali, si fece ko:. generalmente ad una revisione necessaria, che già precedente- mente abbiamo trovata in^ Piemonte. Alle leggi piemontesi - napoletane, che volevano bandita l'autorità dei dottori, iLte:- preti e commentatori, dal fòro, abbiamo accennato altrove. Se- celebri leggi; ma d'altronde sappiamo come non passassero ì^tji rimostranze. Un'altra, non meno famosa, di Pietro Leoj»!- aboli l'arresto per debiti.

7. Tiriamo le somme. Senza alcun dubbio il desider del pubblico bene, aveva suggerito tutte cotesto riforme, e. u desiderio del bene, il governo non badava se anche riusciva p e troppo minuzioso nelle sue ingerenze: era sempre nnxs- timento umano e benefico che Io animava; e non si andrei^ errati qualora si affermasse che, appunto in questi tempi, si n^ turava e prendeva consistenza la concezione di quello Stato i*

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diHtto, che, per il momento, è Tultima neirordine storico. D'al- tra parte, non si trattava neppure in questi tempi di una riforma | generale della legislazione, beusi di provvedimenti più o meno parziali, ])resi allo Hcopo, se non di estirpare il male, di atte* miarne le conseguenze. Per estirparlo sarebbe stato necessario distraggere le cause, da cui derivava; ma, per quanta buona volontà dimostrassero, quei principi non si sentivano da tanto: ci avrebbe voluto pia ardire, e, forse anche, più sapienza civile, che generalmente non avevano.

Intanto la rivoluzione francese batteva alle porte, e compiva le nf<»rme già iniziate, fondendo definitivamente le provincie e i comiuìi nella unità dello Stato, facendo anzi sbocciare l'idea della unità italiana, e portando il popolo alla verek aequatio sui, come l'aveva chiamufa e divinata il Vico. La Dichiarazione dei diritti ildVuomo e del cittadino, per (juanto astratta, rimasi» però

Com*aqniIa clie sotto la ditesa Di sue grandmali rassicura i figli, Che non han Tarte delle penne appresa.

Allora la legislazione, dominata già dalla intransigenza cat- tolica, si secolarizzò; e insieme bcomparvero gli ordini e i privi- Ih^ì di casta. Il terzo stato si atìormò defiuitivamonte rou la libertà del lavoro: T individualismo lini col fare il suo ingresso trionfale nel mondo.

Volando acc»*nnare a (]ualc(»sa di particolare, ricordiamo come lbs<»»ro hpazzati via i ftMidi; e come i vincoli, che ancora incep- l»aviino la propri.^t'i, cad»»s<ero ad uno ad uno. la famiglia staggi a questo nioviìnento. Ogni potere dispotico del marito o del padre, che già n^-l periodo precedente si era venuto alien- t nido, cessò definitivamente; ne i maschi vantarono maggiori di- noti dr*lle fo.iiiuiije: e ii*^ppure tra fratelli vi furono più cadetti. Inoltre ^i m')d;tieò la legislazione penale. I tempi dell'arbitrio c-»ssar«n*«» i»»-r hC^pr»». La JHchinrazione dti diritti dell'uomo e del c/rtaJi«o disi hitist\ anohe por (piesto riguardo, un' óra nuova, pro- ci binando il prii 'Mi>io che ne^^uno potesse essere imputato, arre- -.t.it«», (l**te!.iri) ^♦• iion nei casi determinati dalla legge e con Tof» ^ervaiiza d»-ll? f^Tme prescritte. ^ la legge doveva comminare altre ]>ene che non tolsero strettamente necessarie; e ninno esser I»uaito se non in virtù di una legge, promulgata prima del de-

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, litto. E anche la procedura trovò un ordine migliore. Ci re-

stringiamo a ricordare che appunto 1*89 la fece finita una volta per sempre con quei molteplici gradi di giurisdizione, che per- duravano ancora qua e là, ciascuno con procedura propria, ed I eresse a vigile sentinella del diritto quella Corte di Cassazione»

1 che, dalla sua istituzione ad oggi, non si può dire ancora mo-

É difìcata e che impone rispetto anche ai novatori più arditi.

Nondimeno la stessa rivoluzione francese è ben lungi dal- l'aver segnato le colonne d'Ercole agli umani progressi; e il momento storico, in cui viviamo, l'ha già di molto sorpassata.

Capo II. La codiftcdzione. ^

1. Il periodo, che abbiamo preso a descrivere, presenta una singolare analogia con quello più antico di Roma, quando, cresciute a dismisura le fonti del diritto si senti più che mai il bisogno di semplificarle e ordinarle. Alludiamo all'opera della codificazione. Certamente c'era un grande ingombro di leggi, che mutavano ad ogni pie sospinto, di territorio in territorio^ e anche dentro i limiti dello stesso territorio: leggi disparate, che si disputavano il campo e non potevano a meno di nuocere al diritto, rendendolo confuso, incerto, farraginoso. Parrà natu- rale che si facesse sentire nuovamente, a tanta distanza di se- coli, il bisogno di diminuirle e semplificarle, riducendole, se non altro, a un corpo solo. E di nuovo le raccolte privata pre- corsero l'opera dello Stato, proprio come nell'antica ILoma. I codici gregoriano ed ermogeniano avevano pure preceduto i grandi lavori legislativi di Teodosio e di Giustiniano.

*** Bibliografia. Yeratti, Ragioncnvunto storico sopra le leggi di J^er^i- najìdo IV, Modena, 1846. Rocchi, Pompeo Neri (nell' "Arch. stor. itaL« serie XII. tomo XXIV). Baldasskroni, Dissertazione sulla necessità deUa compil<sziaite ii un codice generale pel comviercio di terra e di mare del Regno d* Italia e 9hZI^ ixtti fondamentali sopra le quali debb' essere compilato, Milano, 1807. Thibaut, ZTeb^r die Notwendigkeit eines allgem. bUrgerlichen ReeìUs filr Deutschland, Heidelberg 1814. Vedi anche gli ** Heidelbergische Jabrbuoher der Literatur « 1814^, Tiru 1 e 2, 59; 1815, nn. 40-42; 181% n. 16. Saviony, Vom Berufunserer Zeit jur G^seXs43>c bung M. Hechlswissenschaftj Heidelberg, 1814- Traduz. italiana di J. Lio Gatto e Jakni col titolo: Della vocazione del nostro secolo per la legislazione e la aimris- prudenza, Napoli, 1847. Sclopis, Della vocazioìie del nostro secolo €Ma leg^Ml^sii>- ne ed alla giurisprudenza nell^opera Della legislaz, civile, Torino, 18B5.

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2. Una di queste oompilazioui, fatta di privata autorità, 6 non per commissione di principe, appartiene già ai primi anni del secolo XVIL Antonio Fabro, presidente che fu del Senato ^ di Chambèry, volle riprodurre la giurisprudenza di quell'illu- stre consesso, e ciò che gliene suggerì Tidea, come egli stesso ci riferisce, fu la pubblicazione che s'era fatta recentemente in Francia del Code Henry. Partigiano della codificazione, aveva consigliato al suo sovrano di tentarla e se ne riprometteva grandi vantaorgi: ne essent in posterum iam incerta et vaga jura omnia quam sunt hodie, per imperitiam eorum^ qui ius nostrum eive do* eenJOy site scribendo^ site indicando^ sic tractant qu<m opinione aestimandum sit non ex ratione. Dapprima si fece a raccogliere le decisioni e ricercare i documenti in modo da non lasciar pas- sare nulla che ibsse degno d'attenzione. Vi consacrò più anni, dopo di che si mise a scrivere. Con quali intendimenti, lo esjMmo egli stesso. Bisognava evitare da un lato la concisione, dall'altro la prolissità, e non affogare la decisione in mezzo a commentari oscuri, irti di una erudizione faticosa. Avverte eziandio che tutti coloro, che l'avevano preceduto, avevano scritto in una lingua barbara, ben lontana dalla purezza degli antichi prudenti; e tutti mancavano di metodo e accatastavano le matterie più disparate, senza ordine, cosi da riuscire difficile, a chi leggeva, di raccapezzarvisi. Adottò dunque un nuovo stile e una nuova distribuzione, e credette di non poter far meglio che seguendo l'ordine del Codice giustinianeo, aggiun- | gemlo a ciascuna decisione le ragioni prò e contro, ma breve- mente, quanto era necessario, senza allegazioni, e relegandole alla fine del testo, in modo che si potessero consultare o saltare a l>eueplacito del lettore. Insieme fa frequenti richiami al di- ritto romano, quantunque si affretti di avvertire che ius ipsum ex ratione aestimandum est^ non ratio ex jure^ multo minus ex legibus. Le quali parole riassumono tutto T indirizzo dell'uomo, j ril>elle ad ogni autorità, che non voleva riconoscere nuU'altro * che la ragione, ni parere ai vecchi pratici un eretico. L'opera I><)rta per titolo: Codex fabrianus definitionum et rerum in sacro Hiìbaudiae senatu traetaiarum, ad ordinem titulorum codicis iusti^ ni linei, quantum fieri potuit ad usum forensem accomodatus et in 9iovem libros distribuius, e fu pubblicato dapprima a Lione nel IGIO. Più brevemente si conosce col nome di Codex fabrianus. ^

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I posteri rhanno giudicato un libro aureo : certo, è un lavoro insigne per la dottrina legale, e per la sobrietà degli svi- luppi, la chiarezza e l'eleganza.

Un altro tentativo fu fatto quasi contemporaneamente nel Regno di Napoli. E il bisogno doveva sentirsi qui più che al- trove, frammezzo a quel grande miscuglio di leggi romane e canoniche, langobarde e feudali, costituzioni, capitoli, prammati- che, riti, grazie, privilegi e consuetudini, e tra le ambagi della giurisprudenza. Per essere certi di qualche punto, bisognava riandarle una per una : fatica addirittura erculea. Il De Jorio scriveva nel 1777 a proposito delle leggi napoletane : ** La no- stra municipale giurisprudenza, non solamente si contiene in quattro ben grandi volumi in foglio di Prammatiche, ma pur anche nelle Costituzioni, Capitoli, Riti della real Camera e della Vicaria, Consuetudini e Privilegi, oltre a tanti Rescritti. Vi sono moltissime leggi andate in disuso; altre ripetute mille volte; alcune, per li dubbi insorti, controverse; quasi tutte scritte con nauseosa prolissità e lunghi prologhi, di modo de si sgomentano i giovani, e poco, anzi niente piacere mostraLo di tenerle, come continuamente si dovrebbe, nelle mani „. In- tanto i forensi vi trovavano ampio pascolo alle liti. Perciò Carlo Tapia volse l'animo a riordinarle, seguendo anch'egU lor- dine tenuto da Giustiniano nel suo Codice. Si valse dei me- desimi titoli, e collocò sotto ciascuno di essi le leggi che vi appartenevano. Vi aggiunse i commentari di Andrea d'Isemia, per le costituzioni e alcune annotazioni sue, nelle quali indice le leggi abrogate o andate in disuso, chiarì le oscuiità e cercò di conciliare le antinomie, anche col sussidio dei giureconsnlti che Tavevano preceduto. Cosi nacque questo Codice tra il 16Có 1 e il 1643. Nelle intenzioni dell'autore avrebbe dovuto intit*- ; larsi Codice Filippino in onore di Filippo III allora regnante: tma non ottenne la sanzione reale. Il Sai violi pensa che, tra per la scarsa dottrina giuridica, tra per la molteplicità di leggi indamo conciliate, non avrebbe giovato al progresso soientifìco: nondimeno pare che incontrasse tanta comune approvazione e cosi generale accoglienza, da meritarsi il titolo di lus regni.

Più tardi l' idea fu ripresa. Anzi non esitiamo ad affermare che il desiderio di possedere una ordinata e chiara compilazione delle leggi, a cui si dovesse obbedire, divenne più che mai pre-

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poteute uel corso del secolo XVIII. Altrove abbiamo ricordato il tentativo fatto dal Richeri di codificare le decisioni del Se- nato di Piemonte e di altre corti supreme del Regno; ma nep- pure i governi hanno mancato d'interpretare cotesto desiderio, salvo che alcuni sono riusciti allo scopo ed altri no. D'altronde, p<*r il momento il compito appariva abbastanza modesto. Il pas- sato ancora s'imponeva, e non si pensava affatto a romperla con esso: sicché tutto si risolveva nel ridurre a forme più semplici e piane le fonti già in uso, lasciando anche sussistere gli statuti | locali e il diritto comune in sussidio della nuova legge. Molto | meno si pensava, come avvenne più tardi, che il Codice dovesse presentarsi come un sistema di rapp<jrti coordinati e subordinati a un dato scopo, e di regole, che formassero come un organismo omogeneo, o se più vuoisi, una gran legg^ uscita di getto dalla mente del legislatore.

3. Vittorio Amedeo II ordinò una di queste compilazioni, ingiungendo che le leggi dovessero essere precise, assolute, an- nunciate in modo precettivo e senza riserve. Voleva tolto il superfluo, le ripetizioni, le contrarietà, e, per quanto era possi- bile, l'arbitrio dei giudici. Cosi la pensava questo re; ma l'in- tendimento sovrano non fu bulle prime bene eseguito dai suoi ministri. Il Platzaert propose di com|K)rre un corpo ordinato delle antiche leggi patrie, che si aveva in animo di conservare, e <lelle nuove, che volevansi aggiungere, e furono cosi redatte , le co>tituzioni del 1723 in modo piuttosto imperfetto; senonchè, ravvisate tali, se ne fece una nuova redazione nel 1729, e que- sta corrispose realmente allo scopo, sicché fu applaudita dentro e fuori lo Stato. Ma neppur essa fu l'ultima. Carlo Emanue- le III, succeduto al padre, vi tornò sopra nel 1770, facendovi < inserire '^ le variazioni, dichiarazioni e nuove leggi „, che credo ue(*t>ssarìo; e nacque cosi il nuovo Codice, conosciuto sotto il . nume di l.eggi e CoiftUuzioni di Sua Maestà, che doveva essere y promulgiito in tutti gli Stati di terraferma, *^onde insieme co- gli altri favorevoli effetti si ottenesse anche quello ohe deve risultare dalla uniformità delle leggi ^. A tutti i magistrati e sudditi, di qualsivoglia stato, grado o condizione, incombeva l'obbligo di attenersi alle dette costituzioni, senza che alcuno potesse rinunciarvi in alcun modo, neppure col reciproco con- sensi), o coll'allegare in contrario qualche uso, stile, consuetu-

-eso- dine o regolamento, quantunque inveterato. Anzi doveva in- tendersi che vi avessero derogato per la parte che ad esse le- pugnava. Pure non vi è titolo, che non si riferisca agli editti dei predecessori, ricordati in margine. Inoltre era intenùone del sovrano che rimanessero ^ illesi i diritti non contrari al pubblico bene, pei quali i vassalli, le comunità o altri avessero un legittimo titolo e il possesso ; ed eziandio che, a sapplire le costituzioni, potessero invocarsi primamente gli statati locali approvati dalla corona, poi le decisioni dei supremi magistrati da ultimo il testo della. legge comune; ma il principe stesso si riservava la interpretazione dei casi dubbi.

Lo statuto, redatto in italiano e in francese, si divide in sei libri, i quali, alla lor volta, sono suddivisi in titoli e capitoli.

^ Il primo è tutto di materia religiosa. Comincia dalla inv^ cazione di Dio e della fede cattolica, e tratta del rispetto do- vuto alle chiese, delPosservanza delle feste e della quaresima, del precetto pasquale, delle irriverenze commesse nel tempo dei battesimi e sposalizi, e infine degli Ebrei. Il secondo è dedì- > cato ai magistrati e giusdicenti maggiori e minori, dei quali à occupa in generale ed in particolare, discorrendo degli nffid ii ciascheduno. Il capitolo sul consolato espone anche il dirirtv commerciale. Il terzo libro presenta il Processo civile nelle sae

^ varie forme. Vi si parla, tra le altre, di competenza, del modo i: procedere in contumacia e in contraddittorio, delie prove, delle sentenze, delle appellazioni, delle esecuzioni, della cessione ''.<^. beni e dei giudizi di concorso. Il quarto è tutto di materia cn-

y minale, e abbraccia tanto il diritto quanto la procedura. T:« le specie penali primeggiano la bestemmia, il crimenlese, la fal- sificazione di monete, T infanticidio; ma ne sono contemplate anche altre di minori : il porto d'armi, le usure, l'ozio, il vaga- bondaggio. La parte processuale riproduce molte disposizioiù. che già conosciamo, sulle visite dei carcerati, sulla proibizioL^ delle composizioni ecc. Speciali norme regolano il modo di pn* cedere sommariamente o ex abrupto nei delitti atrocissimi, e i procedimento in contumacia. Altre si occupano dei banditi, de: loro ricettatori, del modo di estirparli e dei premi concessi a tal uopo. Il quinto libro è dedicato alle cose civili, e particola^

^ mente alle alienazioni degli immobili, all'enfiteusi, alle prescn* zioni, alle ipoteche, alle tutele, alle successioni. Il sesto com-

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prende disposizioni amministrative di vario genere : dal demanio ^ ai feudi, ai fiumi, alle strade, ai boschi, alle miniere. Vi si tratta anche dei privilegi del fisco e dei premi di chi scoprisse qualche ragione occulta a favore del regio patrimonio: infine della incapacità degli stranieri e della legge d'ubena. Lo stesso Carlo Emanuele III aveva rivolto l'animo a compilare un co- dice di commercio» e ne incaricò il Consolato di Nizza; ma Topera rimase allo ntato di progetto.

4. Ugualmente Francesco III di Modena cominiHe a una giunta di parecchi deputati di compilare un codice; e non solo dovevano ridurre diverse le^gi comuni e municipali alla più sem- plioo uniformità, non solo risecare quelle andate in disuso, o che non erano più adattabili ai t^mpi ; ma anche formare al- cune novelle costituzioni convenienti alle nuove occorrenze dello Stato, e fissare i veri, chiari e sodi principi da osservarsi sopra gli articoli e le qutstioni più ovvie e frequenti a suscitarsi nelle controversie forensi.

Il codice ebtense si cominciò a pubblicare nel 1771 e fu ter- minato negli anni seguenti. Ila per titolo : Codice di leggi e \ co.stituzioni di tì, A. tStrenissima, e in generale si fonda sulle f lo^gi locali; ma non interamente. Qua e apparisce anche ' manifesta la intluenza di altre leggi, come delle Costituzioni pie- mi ditesi del 1723, specie nella parte penale, delle leggi leopol- dine sulle manimorte, delle bolle di Urbano V sugli archivi, le primogeniture e i ledecommessi, non che degli scritti del Mu* ratori. Altri ha già notato che sono " una innovazione audace per la indipendenza verso il formalismo del diritto romano e la I communis opinio (Salvioli). Certo abbiamo a che fare con un no- tevole monumento di sapienza legislativa, che doveva trovare > il suo complemento in alcuni regolamenti sopra le cambiali, i 8t>nsali e le società, e sopra la istituzione di un tribunale di commercio, pubblicati dallo stesso duca nel 1797. Che se il progresso, a cui mirò, ispirandosi alla ragione e all'equità, non corrispose in tutto all'aspettazione dei filosofi, sta però il fatto, che appunto quella tendenza lo distingue da altri tentativi con- temporanei« segnando per così dire il passaggio dal primo pe- riodo di codificazione al secondo.

5. Altri te ne sono fatti a Venezia, e ce n'era mestieri. Il Manin nota che la indigesta collezione di leggi, costituente

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i volumi degli statuti veneti, era opera molto imperfetta e male accomodata ai bisogni dei magistrati e dei cittadini. Non can- cellate le antiche leggi, già abolite per dissuetudine o per ef- i fetto di leggi nuove; non concordate le ripugnanti; omesse mol-

ij tissiiue di grande importanza; nessun ordine ragionato nella

i distribuzione delle materie; non approvazione di pubblica auto-

^ rità per ciò che in quei volumi era stato incluso da privati rac-

coglitori. Senza dubbio, la necessità d'una ben ordinata eoe:- pilazione di tutte le leggi doveva essere universalmente sentita; e già nel 1348 si era pensato ad un'opera di riordinamento^ ^nllt quale si ritornò poi parecchie volte : tre nello stesso secolo, v.z^ nel seguente, altre cinque nei primi trentacinque anni del se-v decimo, dLi3 nel decimossettiino; ma sempre con scarso frutto. L'effetto di cotesti studi svani, sia pel poco lume che dapper- tutto avevasi della scienza legale, sia perchè le persone iucuri- cate del geloso lavoro mancarono alla vita prima di terminar!:: onde venne a perdersi anche il frutto già còlto dalle scorse fa- tiche, attesa la difficoltà di trovar uomini a' quali piaccia lii camminare sulle tracce altrui. L'osservazione gin^tissima è iei Foscarini. Soltanto nel secolo XVII l'opera parve riescire ù conte Marino Angeli, dopo dieci anni d'incessante fatica. Egli stesso afferma di aver ridotto a compimento la vasta imp^e^A nel 1678; e l'anno istesso cominciò a uscire con pubblica auto- li rità dalla staujperia ducale il metodus legum venetarum co?;oj- latarum^ ossia la serie dei titoli, dietro ai quali partitamon'e si avevano a distribuire le leggi. È la prima opera sul reg< !a- '' mento del diritto veneto stampata di pubblica commisbioLe e: autorità, e conta due volumi. Il primo, di diritto pubblico, vi:-^

I la luce ancora nel 1678; l'altro di diritto privato nel 1688. Dtl resto sappiamo già che l'Angeli, prima di dar fuori il detto me- todo, aveva con diligenza e fatica incredibile raccolte e distri- buite nelle loro classi le leggi tutte, cavate dai registri d-! Gran Consiglio, del Senato, della Signoria e del Collegio^ dr. Consiglio dei Dieci, delle Quarantie, e dai capitolari di tutti i consigli e magistrati della repubblica: onde potè affermare nel!: prefazione al secondo volume del suo Metodo, che il primo nr lume delle venete leggi appartenenti alle cose pubbliche, in ih- gento e pili tomi si conchiude. L'altro ne contava venti. Xcl-

II dimeno avverte il Foscarini : " 0 altre cure frappostesi abbiai.

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impedito il veuirne alla pubblicazione, o pure sieusi incontrati degli OHtacoli non preveduti, rimane tuttavia negli uomini di 8611110 la brama di veder posto in piena luce il corpo delle pa- trie costituzioni,,: solo in seguito, ma già nel secolo XVIII, ri<'s.:ì, se non altro, a sceverare dalla rimanente legislazione la part^ p<»nale, quella dei feudi e infine le materie marittime. Le Legtji criminali dal tterenissimo dominio veneto in un solo voiinii' tuìccoUe e per pubblico decreto ristampate videro la luce ; a Venezia nel 1751 : opera di Angelo Sabini, che vi inseri per ordine <li tempo, non sempre esatto, tanto le leggi criminali dello statuto quanto altre che non vi erano contenute. Non soddisfece però alle esigenze, e la legislazione criminale conti* uuò ad essere ^ tutta dubbiezza e scompiglio ., ; e di qui una scrittura degli avvogadori del comune al Senato per chiedervi riparo. Ciò avvenne nel 1784; e ancora in quell'anno uscì un decreto che dava il carico di raccogliere e ordinare le leggi a P. Valmarana, a G. Arnaldi ed a P. Bembo, poi a P. Zaguri, che alla lor volta scelsero per compilatore un tal Vincenzo Ricci. E non potevano fare miglior scelta. II Ricci era un uomo di- ligf'ute e dutto ; e gi& nel 17H0 diede fuori un suo Ragionamento intorno alla collezione delle venete leggi criminali, che meritò l'approvazione del governo; ma tutto si arrestò lì.

Parimente un decreto del Senato del 1770 ordinò la compi- lazione delle leggi feudali, dando così origine al Codice feudale della serenissima repubblica di Venezia per cura di Lorenzo Mom- mo, uno dei provveditori sopra i f(f»udi. Il Codice fu approvato dal medesimo Senato nel 118L\ ed è lavoro abbastanza accura- to; ma anch'esso non fa che riprodurre per esteso le leggi ema- nate in argomenti feudali dal 1328 al 1780, disponendole se- condo i tempi. Precedono però i sommari di dette leggi ordi- nati {)er materie in ventiquattro titoli; e a corredo dei sommari vi sono aggiunti due indici : uno dei titoli e uno per ordine di materia delle leggi citate. Alla fine si trova un altro indice di tutte le leggi disposte per serie dei tempi con rapporto at h- toli e relazione agli argomenti.

Assai meglio riescito è il Codice per la veneta mercantile ma- rina, compilato per cura del magistrato dei cinque savi alla mer-' canzia e approvato con decreto del Senato 21 settembre 1786. Anzi è un lavoro che si distingue caratteristicamente da quelle

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altre compilazioni di simil genere, da noi testé ricordate: non si tratta più di una semplice collezione delle leggi anteriori disposte per ordine di tempo, ma bensì di nna vera legge nuova, che regola e disciplina il suo argomento con ordine e precisione (Manin); un altro vero Codice^ nel significato attuale della parola.

6. Invece, ne in Toscana a Napoli si riusci ad alcii risultato.

Francesco di Lorena aveva concepito il pensiero di riorii- nare e ricomporre tutto ciò che fosse opportuno a prescriver?: in un solo codice, che servisse di Editto perpetuo o Statut) gr nerale della Toscana. E se ne può comprendere il bisogno, r-e: poco si pensi alla diversità dei governi a cui erano stati sog- getti i popoli del Granducato, alla gran copia di statuti e ::- dini particolari, con cui ciascheduna comunità manteneva an- cora le sue antiche usanze, e anche alla loro poca consonai:::! alla moltiplicità immensa degli ordini correttori o declarat.r. alle diverse e incostanti interpretazioni date nei tribunali, inri-e alla consuetudine, in quel tempo introdotta, di giudicare, o e. fondamento di non ben ferme opinioni degli interpreti, o rie :- rendo, ciò ch^era più pericoloso, al disposto di leggi straniere mancanti della legittima autorità. Un dispaccio del grand:::^ [ del 1745 alla reggenza, e un decreto di quest'ultima dello stess: I anno, esprimono appunto quel concetto e in parte il modo i ! attuarlo, neirinteresse e comodo universale del Granducato, i . imitazione di ciò cKerasi fatto per la Savoia. Si doveva esami- nare parte a parte con la dovuta circospezione tutte le ordina- zioni dello Stato, ma insieme avere riflesso all'esigenza dei ten:. nuovi e all'uniforme sistema di governo che si voleva stabilire la direzione poteva essere affidata a persona più idonea Certo, l'auditore Pompeo Neri era uomo da ciò, come può ve- dersi dai discorsi da lui tenuti per prepararne la compilazioLe se anche non si sapesse che era cólto giureconsulto ed esper nel governo dei popoli. Egli voleva che si consultasse la esp- rienza delle passate età, e dalla buona giurisprudenza si cen- vassero le nuove leggi; ma non se ne fece nulla. H progetr j fu abbandonato non molto tempo dopo il suo conoepimeLt . osteggiato specialmente dai curiali, che trovavano il loro : r- . naconto a mantenere il vecchio labirinto creato dai parzu-

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statuti e dalla pratica di giudicare. valse ohe anche Pietra Leopoldo, succeduto al padre, ne abbracciasse l'idea, e ne desse nuovo incarico a Giuseppe Vernaccini, auditore di Eota, poi a Michele Ciani consigliere, e successivamente all'avvocato Giu- liano Tosi, e di nuovo al Ciani, e da ultimo al professore G. M. Lampredi. Ciò avvenne già nel 1787; ma poscia, mutatisi i tempi, il disegno non ebbe eseguimento.

Quant'è al Eegno di Napoli, fu Carlo Borbone, che accolse^ V idea di ridurre le molte leggi in un corpo regolare, levandone le antinomie e i precetti antiquati. A tale scopo scelse il mar- chese Vargas Macoiucca, il consigliere Aurelio Gennaro e il pro- fessore Pasquale Cirillo. Ma Topera, bene ideata, non potè com- piersi neppur in questo Stato, fors'anche perchè coloro, a cui era stata commessa, non ne avevano bene afferrato il concetto. Lo Sclopis osserva che almeno è lecito dubitarne ; e ne fornisce la ragione. Il Cirillo, prescelto a stendere il codice, pensò di doverlo scrivere in latino : poi si deliberò di dettarlo in italiano e in latino ; infelice partito, come ognun vede. ComunquCj l'o- pera stessa, calcata sul codice giustinianeo, e, come questo, di- visa in dodici libri, si distingue per certa eleganza di dettato j ma non è fornita di altro pregio che la raccomandi, e non po- teva non cadere nell'oblìo. In quel torno di tempo fu anche affidato 1* incarico al De Jorio di studiare un codice marittimo, con lo scopo di ridestare l'antico amore dei traffici nelle città marinare ; ma neppur questo tentativo riuscì ad alcun effetto pratico. Il Codice Ferdinando^ come fu detto, vide la luce nel 1 1781, ma non andò in vigore; può dirsi che l'autore facesse) opera molto lodevole, avendo unito insieme teoria e storia, di- ritto pubblico e privato, e anche qualche disposizione regola- mentare.

7. Aggiungiamo un'osservazione. Fino a quel momento, nessuno aveva dubitato che i codici corrispondessero ad un bi- sogno dei tempi, quando si levò una voce potente a negarlo; ed è importante la discussione che s' impegnò su questo punto.

L'idea di codificare il diritto aveva fatto cammino: era un movimento manifestatosi anche fuori d'Italia, in Prussia, in Francia e in Austria. Il codice prussiano appartiene allo scor- cio del secolo XVIII, quello francese e l'austriaco al principio del XIX. Il codice francese è del 1804 e le vittorie di Napo-

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leone tanno finito con V imporlo a mezza Europa. Un i-: più tardi, abbattnta la potenza napoleonica, sorse in GermaLia r idea di possedere un codice generale. In fondo, si traf avi del sentimento nazionale, che affermandosi nel dominio q^.Iì vita pubblica, tendeva ad affermarsi anche in quello del (tri- to ; e chi se ne fé' banditore fu principalmente un insigne gi> reconsulto, il Thibant, col suo opuscolo, meritamente celebr Sulla necessità di un diritto civile generale per la GermC'n: che vide la luce nel 1814. E può metter conto di esaniiLàie l'idea da cui muove. È la seguente, che il diritto civile ab::?:- gnasse di una radicale riforma; e per diritto civile intendeva :&_:: il diritto privato, quanto il diritto criminale e il processo. Ivr^.- chi codici nazionali non corrispondevano più ai bisogLÌ i% tempo, e, ad ogni modo, non potevano aspirare al vanto di le^r generali. Quelle veramente generali, che tenevano il cai::'; erano straniere: cioè il diritto romano e il diritto canonico, ^I'^ cialmente il primo, che, per giunta,. apparteneva al periodo oeLì massima decadenza di Roma e ne portava le tracce: undu^/^ di cai ci mancherà sempre la chiave, diceva il Thibaut, [<: :: il nostro popolo ha ben altre idee, diverse da quelle cLe ai:* \y mavano i Romani. Perciò faceva appello a tutti, ai dotti L\-e

ai pratici, perchè vedessero di mettere assieme un vero e p:- N prio diritto nazionale tedesco, togliendo quel po' buouo c-:

si trovava nelle legislazioni particolari, e portando la n:aiio ii^e-

' ' sorabilmente sul resto, col lume della ragione, la quale, Q >;

r tutto, deve potersi imporre anche alle condizioni storiche, perei:

il diritto non è solo il resultato dello svolgimento dei rapi- , sociali.

"l Dairaltra parte il Savigny prese subito la parola. Il suo l::*

scolo Sulla vocazione del nostro secolo per la legislazione e la x»f <*

., za del diritto, che mandò fuori nel 1814, è tutta una fiera re.--

sitoria contro quel movimento in favore della codificazione. E ^

' comincia dall'avvertire che il diritto non è una idea astrai .a, ^^

quale si opponga in una vuota generalità alla ricchezza ini:-

I duale della vita e della storia : è anzi un principio che iiifon-j

la vita stessa, che si manifesta come l'anima di ogni vita, e n svolge sempre più perfetto nella storia, come in un grande :• ganismo. L'idea di un codice non può venire che col deca-

. , mento della costituzione e del diritto, quando la forza crea:: -

I

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del popolo è spenta. Infatti è fama che Cesare fosse il primo a porvi mente; e si {-a che nel secolo VI più codici si succedettero rapidamente. Ma è cosa sommamente pericolosa di fissare in tal modo la coltura, forse manchevole, di un determii>ato tempo. Il gius deve rimanere vivo, mentre il codice tende ad arrestarne il movimento: che se pure continuasse a progredire, il codice, che dopo tutto non può che riprodurlo quale si presenta in un momento Ftorico, non corrispotidtìrebbe più alla realtà di esso, E non è neppur vero che il diritto romano, il quale costituiva la base del diritto comune germanico, fosse un diritto straniero, importato o imposto a viva forza, in opposizione con la vita. Tutt*altro. Se il diritto romano venne introdotto in Germania, e potè ))euetrare cosi addentro nei rapporti sociali, fa appunto porche quei'ti si erano venuti svolgeiido in modo da mentirne il bisogno. La vita era diventata più ricca, e il vecchio dirit- to germanico non poteva più soddisfarne le esigenze: le oocor^ re va nna legislazione altrettanto ricca, che fini facilmente con Io immedesimarsi con essa. Al postutto, anche il diritto romano divellilo un diritto nazionale, che non avrebbe potuto essere di- vt'lti) dal popolo, senza che questo vi lasciasse qualche brandello delle sue carni. Ad o^ni modo, pareva al Savip;ny che i tempi non fossero anc(»ra maturi per hi codificazione. Anzi accennava ui difetti principali dei tre Codici che avevano ordiuato stabili h»^is1azioni in Francia, in Prussia e in Austria; e faceva voti perchè il diritto romano restasse una fonte generale e sussidia- ria, anche dove essi erano stati introdotti, salvo a studiarlo ^*uricamonte e infondergli cosi la vita che gli mancava.

Il Thibaut rispose, sia al Savigny, sia ad altri, negli Annali (Iella università di Heidelberg, dove teneva cattedra; ma noi non s^^guiremo più oltre cotesta polemica, paghi di averla accennata. Piuttosto amiamo di ricordare il discorso che lo Sclopis dettò su qiiosto medesimo argomento, mettendovi in fronte il titolo della <lissertazione del Savigny.

K uno stiiclio in cui T illustre uomo mira, più che altro, a riltattere le obiezioui, che il Savigny aveva mosso ai codici francese, pru siano ed austriaco, e mostrare come ai nostri tempi, non manchi quella sufliciente esperienza» che egli richiedeva per procurare un oorpo di leggi stabili e compiute. D'altra parte, non è già la forma esteriore della giurisprudenza romana, ma

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piuttosto il suo intimo spirito, che la dovrebbe proporre air ini- tazione di tutte le genti : comunque, il modo, con cui redì£cio della legislazione romana si è venuto inalzando, "non è tale che possa accomodarsi alla presente condizione dei tempi e dia- gli uomini . Aggiunge, che neppure appariva fondato il timore, che la stretta espressione della legge impedisse alla dottrina di svolgersi a beneficio della civile legislazione: le dotte f&ticì:^ dei giureconsulti varrebbero, se non altro, a togliere i dubbi, a reggere le interpretazioni e a mantenere lo spirito del dinro positivo scritto.

8. Del resto la questione doveva decidersi presto sul ter- reno dei fatti ; perchè quasi tutti gli Stati diedero opera a a- dificare, e dappertutto la pubblicazione di un nuovo Codice :. accolta come un progresso. Anche l'Italia n'ebbe parecch, anzi si può dire che non ci fosse Stato della penisola che l:i si mettesse per questa via, dal Piemonte al Regno di Napdi,^ finché unificata la patria, si pensò insieme alla unificazione le- gislativa.

Se vogliamo, sono codici civili, commerciali, penali e di pr - cedura, modellati anche servilmente, su quelli di Francia: ci^. ad ogni modo, derivano dai francesi ; e nondimeno non vorreL- mo asserire che sorgano proprio su base straniera, anche d:v? ne riproducono i principi. Infine, il diritto, quale esisteva, sul.: scorcio del settecento, in Francia e in Italia, presentava si-- golari rassomiglianze, sia perchè erasi svolto in base alle ne- desime fonti, quali i diritti romano, canonico e germani^: sia perchè i giureconsulti, a cui ne era affidata la interprr'.i-

•* n primo per ordine di tempo fu un codice di procedura civile dello ^-i- to pontificio, sancito col moto proprio del 22 novembre 1817, modilioat- ir. 1824, a cui tennero dietro: un regolamento di commercio del ld21; un rt>£\v mento ossia Codice sui delitti e sulle pene del 18^ e il regolamento ler.^^-- tivo e giudiziario sugli affari civili del 10 novembre 1831 La bassa Italia v-i ta il Codice per lo Regno delle Due Sicilie del 1* settembre 1819^ che è in?:--" codice civile, penale, processuale e commerciale. Altri codici ebbero gli >t^' di Parma, Piacenza o Guastalla, cioè quello delle ^<7^i e«oi(t, che del resto e :- prende anche materie co mmerciaU, il codice di proceiiura civile, il cix/iVf i' '- e quello di procedura penale ; tutti del 1820. Segue il Piemonte. Kicori;*- il codice di Cario Felice per risola di Sardegna del 1827; il Codice «ri e nosciuto col nome di Codice Albertino, del 20 giugno 1837: il C€>dicep(nil( - 26 ottobre 1839; il codice penale militare del 28 luglio 1840; quello ai <•«/•« *• ciò del 80 dicembre 1812, quello di procedura penale del 20 ottobre 1S4T, qu

procedura civile, che, andato in vigore nel 1854, fu riveduto cinque «^ni :

So. Modena aveva pure un Codice civile del 1851, conosciuto sotto il ni.: . odice proceduì zo 1859.

odice estense; un codice di procedura civile, del 1852-^ un codice |>eTi<».'' procedura penale del 1" maggio 1856: infine un codice di commercio del 3 -»■

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sione, formavano oome una grande repubblica, ohe non conosce- va limiti di Stati, e i loro responsi venivano accolti volentieri da tutti. Noi siamo d'avviso che, se i nuovi Codici avessero do- vuto costruirsi di sana pianta con materiali puramente italiani, non sarebbero riusciti molto diversi. Ma non vogliamo passare Botto silenzio che qua e vanno anche per la loro via. Le mag- giori modificazioni sono contenute nel codice albertino e nel na- poletano, e alcune segnano veramente un progresso. Basterà ac- cennare a quelle sulla proprietà letteraria, sul possesso, sull'uso delle acque ; senonchè se ne incontrano anche altre con un ca- rattere addirittura reazionario, determinato dall'indole diversa e anche dai diversi principi del governo. Si ricondusse il ma- trimonio alle regole canoniche; si rafforzò la patria potestà; si vollero nuovamente preferiti i maschi nelle successioni, e anche furono richiamate in vita le primogeniture, se pure non si rista- bilirono addirittura i feudi, come nello Stato pontificio. Tutto ciò nel dominio del diritto civile ; ma lo stesso miscuglio di bene e di male può riscontrarsi anche nel diritto penale. Soprattutto ebbe vanto di mite e liberale il codice toscano, basato, com'era, sul sistema del carcere penitenziale ; e nondimeno ragioni di op- portunità, specie politica, gli fecero accettar di nuovo la pena di morte. Parimente, il codice sardo ha provveduto abbastanza l)ene agli scopi della giustizia punitiva, ispirandosi al principio di emendare il reo: onde cadde la ferocità delle pene, la loro sproporzione coi reati e la disuguaglianza nell'applicazione. Al- la sua volta, il codice napoletano determina meglio la teoria della complicità e del tentativo, abolisce le confische, introduce il procedimento orale, stabilisce come principio la pubblicità dei dibattimenti; e dall'altra parte appunto questo codice ripristina i reati di lesa maestà umana e divina, rende più feroci le pene, prodiga la stessa pena di morte a larga mano e la inasprisce.

TITOLO n.

LE SCUOIA E LA 9CIEN?4 DEL, DIRITTO

Capo L Scuole e scienza di dtHti^ remano. OH utnanUtL

§ 1. LA SCUOLA PRANCgpB.»

—■ I pxecar^ri^ Com4 l<k scu^ «( aff^rmas^

1. Erano stati ben quattro secoli impiegati nello studio ie. diritto romano; ma non ci sarà sfuggita una circostanza. Fi:: allora non si era travagliato che alla intelligenza, diremo ceri

** ilU^IILogf lifla. Vedi le opere di Hvap. Satiovx, Lxucna», Eo:ji: Bjlsik>ux, Bruoi e STiHTziNa citate nella nota 68. Inoltre Dal B& / prz\^ acri ìtMimi di una nuava tùuola, di diriU^ romat^ ^ nal mcoh JCF. Eom&, l^} Sayaohohe, Gli wncmisti italiani e la storia del diritto romano (nella hnstA *l oiroolo giuridico,, XXXIY, Palermo, 19QB). OsiUBPaLLi, OarU. Jtorj^ppìeì t ^ vaniti Porttguerri precursori della scuola umanistica di diritto romano j^^^-l un testo inedito^ Bolo^pia^ 1887 (dall' '^Aroh. gioridicOn). Baxdihi, Bagwno*>^ sd^rieo sopra le coUcutsfim delle fiorentina pandette fatte da A. FoUxians, Livo.i; 170^ BoNArons, De Angeli Politiani vita et opertòus, Parisii& 1845. BroiiV n Éoliaiano giureconsulto e della letterabura noi dirUio, Pisai IB^ MusaLT. > gelus Politianus.^ Ein Culturbild aus der Benaistance, Leipzig, 1864. CkSziiA HT, Angelo Polimanp ristauratore degli studi elctssicij Oanmra, 1868. Sctui" ' PoLiasi^no filologo. Studi, Torino, 1883 (daUa "Rivista d^ filologia ed istmi .:* sica,, anno XII, fase. 2). Macca rERRi, Il jgento di Alciato (aell^ *Imeno. t. in, Bologna, 185^. , Podbstà, Uocuimsnti yéediii per servire ttUa storia it- > ritto, Andrea Alciati Ultore nello studio di Bologna negli anni 15-i7^U B< 1:."^ 1869 (dair ""AtoIì. Maridioo„ HI, IV, XI). Oiao^ Lettere inedita di À^^:^ ^ ciato a Pietro Bembo, VAldato e Paolo Giorno, MiUno. 1890 (daU* ''ArcL n. rico lombardo anno XYII). Costa, Andrea Àlciato allo studio di B0Ìo<ma > legna, 1903 (dagli "Atti del)» regia Depntas. di atoria patria por la Bomaj:- serie ILI, voi. XXI). BebriatSaint-Prix, Histoire du droit rowusin m"*: ' rkistoire de Cuias^ Pari^ 1821. SpAHeBKBB&o, Joccfi 0^j€$s umd stime ^0.7:^ «cn, Leipzig, 1822. Maccafkrri, Il genio di Ùuiacao (neU* "Irnerio, toI ^^ Bologna, I806). Cabantous, nella "Bevue de législation, di Wolowaki X- Fli i Cujc^s, Ics Glossateurs et les Bartolistes, Pana, 1883 (neUa "Bevue hist : > droit fran^. et étran^er „). Etsskl, Doneau, sa vie et ses ouvragea. Trad. d^i .»' ' par J. Simmonet, Dnon, 1860. Baron, Frenut Hotmanns Aniilribomian, Ein ':'- trag mi den Codificatxonshestrebungen vom XVIbisaum XVIlIJahrh,, Beni, '> Sol Dnmoulin vedi Hello nella "Bevne de légialation « tomo X, e Sor :" nelle "Memoires de la sociétó do Saint-Qnintin « 4* serie, XI, Giracd, >' sur la vie de C, A, Fabrot, Aix, 1^. Fkitu, DomiU et sa coneeption 9' ^ phique du droit, Paris, 1869 (dalla " Eevue oritique de lógialation et h y-^- sprudence^). Loubees, DomcU philosophe et ma^irot, Paris, 1873. Lo ste5J> > mot criminaliste. Disconrs, Paris, 1^7. Frbmont. Èecherches kistoriquet t: '* graphiques sur Pothier, Orleans, 1859. Vedi anche STiHTiuro, Ulrich /j»* etti BeUrag wur Bechtsgeschiehte im ZeitcUter der Be/ormation, Basel, ìSIbl.

materiale dal testo, Baoza suMidl di oritioa q di erudizione sto- rica, 9e> pare non lo si era svisato; adesso vicoie il mos^euto anohe della oritioa, della storia, dellii eradisione» ohe disohiude uik'èra naova per U seieojwu B non poteva essere altrimenti!

Noi QOUQSoiavio eoA qaali ideali oominoino i nuovi tempL Pareva quasi che £li animi non s^ interessassero ad aUro sa non a oiò che sapeva d'antioo, ai Qred ed ai Latinii e da essi spe* ressero il rinnovamento della società. Era una febbre ardente, ohe non s'acquetava ohe nel classicismo, tanto da credere che fuori di esso non ci fosse salute. Naturalmente, i giuristi non potevano rimanere estranei a tutto questo movimento; e il culto delia bella latinità e della storia li ha invasL Basterà citare Te^empio del Ci^gacio. In quel tempo cosi profondamente scon- volto e lacerato da questioni religiose, egli si è mostrato neu- trale, se non indifferente, e il suo : Qiùd hoc ad Edictum Proù' iorist è divenuto quasi un luogo comune.

Il movimento stesso era diametralmente opposto a quello che aveva dominato nella giurisprudenza negli ultimi secoli; e non se ne & mistera Specie il Cujacia si oppone ai Bartoli* Hti. Già lo dicemmo: egli mostra molto rispetto pei glossatori, nelle cui vene era pur rifluite tenta parte del mondo antico; ma i Bartolisti? cosi intralciati, cosi confusi, cosi oscuri, senza alcuna simmetria ordine, e di più sensa il giusto senso della rucnanità! mentre avevano tolto il diritto romano dal suo seggio, per farlo servire alle esigenze della vite pratica! L'illustre giu- reconsulto tolesano couchiudeva : prendete pure notizia di Bar- tolo e dei Bartolistì, ma non li studiate: Bartoli et similium §cripia bonum ed inspieere, non diecere. Lo stesso asseriva il Duareno: secondo lui, la lettura dei commentatori non poteva che ritardare il cammino a chi voleva acquisterò una erudizione vera e solida ; perchè il loro indirizzo era sbagliato, e chi avesse voluto seguirli, avrebbe finito col trovarsi in un labirinto senza uscita.

Ed à questo il luogo per un'altra considerazione. L'entu* siasmo classico, chiamiamolo cosi, s'appaiava ad un sentimento non meno intenso, e a un desiderio non meno vivo, di |)ortere rimedio agli abusi, che, penetrati nell'amministrazione delia giu- stizia risultavano ben gravi, e che possono trovare dapper» tutto: in Itelia, come in Francia e in Germania. Si pensò.

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che la riforma dell' insegnamento del diritto potesse gio7&re alla riforma della giustizia ; e ciò spiega perchò più d^ono, in questi tempi, si facesse ad esporre il modus «tudendt, e combat- tesse il vecchio mas italicus, Bicordiamo nuovamente il Dna- reno, che nell'anno 1544, scrivendone ad Andrea Gaillart, si fa paladino dei nuovi metodi. Parimente Eguinario Barone trac- cia il metodo da seguire nello studio del diritto in una sua De ratione dicendi discendique juris civilis ad studiosam Itgum tu- vsntutem commanefactio. E cosi il Baduin, o Balduino, in uni lettera De optima jaris docendi discendique ratione. Inoltre può vedersi uno scritto dell'Ottomano: lurisconsuUus sive de optino genere juris interpretandi. Un giurista tedesco ricollega addi- rittura la riforma della giustizia alla riforma della scuola. Vo- gliamo alludere all'Oldendorp, il quale nota che la vera causa del male stava nella vanitas et inconstantìa, che vegetavano, e spaziavano in lungo e in largo, e dominavano nelle scuole, e che i giovani, male istruiti, portavano poi nel foro. L'Oldendorp esclama a ragione: qucUes a ieneris annis formamur, taks p(T totam aetatem nos exhibemus reipubUcae judices. Bisognava dun- que purgare i vizi, rifacendosi dal capo, e il capo erano le scuo- le : Caput omnium magistratuum sunt publicae scholae.

2. Cosi assistiamo ad una nuova e grande rivolozioiie; ma quest'epoca è rappresentata in sulle prime, non tanto dagli scritti dei giureconsulti, quanto dai lavori letterari e filologici specie di Angelo Poliziano, che primo introdusse la letterato e la filologia nella giurisprudenza. I giureconsulti sono vennu in seguito.

Angelo Poliziano (1464-94) non era giureconsulto : non avevi neppur cercato acquistato le cognizioni proprie di un giu- rista. Egli era oratore, poeta, grammatico, filosofo; in breve. coltivava la filologia nel senso più ampio della parola, ccii^ più tardi la intese il Vico; e perchè aborriva da ogni limita- zione, che sapesse di mestiere, considerava e teneva in onore anche il gius romano, qual prezioso frammento dell'antichità ' parte importantissima della letteratura classica. Il Corpus jurii ai suoi occhi, non conteneva tanto la scienza del diritto quatta gli scritti eleganti dei giureconsulti e la letteratura roniaiià Se ne giovava per arricchire il patrimonio della lingua, e alj sua volta compensava i benefici, che ne traeva, studiandola

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critioamente le fonti, come solo potev» fare col sussidio della filologia. Propriamente, introdusse la letteratura e la filologia nella giurisprudenza, confrontando tra loro una edizione delle Pandette fatta a Venezia nel 14B5 e il celebre manoscritto di Firenze; ed ò con questo confronto ohe l'erudizione classica comincia ad essere applicata ai testi del diritto.

I giureconsulti non tardarono a battere questa via. Primo di tutti il Bolognini (1447-1608) e dietro a lui l'Alciato (1492- 1550); ma tra i due si nota un distacco immenso. Il Bologni- ni utilizzò e continuò i lavori del Poliziano, e progettò un'edi- zione delle Pandette secondo il testo fiorentino : cosi giovò senza dubbio alla critica delle fonti; ma era privo di buon senso e di buon gusto, aveva un corredo di cognizioni non molto pro- fonde, e non gli venne fatto di produr cosa che si elevasse al disopra della mediocrità. Invece con TAlciato è tutt'altro. Qual- cuno ha già osservato, ohe egli, profondo conoscitore dell'anti- chità e valente ellenista, intravvide subito tutto il partito che la scienza del diritto poteva trarre dagli scrittori classici e dai tesori, che i profughi di Costantinopoli avevano un secolo pri- ma portato in Italia; e parte con l'insegnamento, parte con le optare, preparò un nuovo e grande secolo alla giurisprudenza. Già il suo primo lavoro, con cui si fece a spiegare i passi greci delle Pandette, lasciava comprendere che la scienza del diritto avrebbe per opera sua brillato d'una nuova luce, che non aveva goduto al tempo di Accursio a quello di Bartolo; e fu cosL II merito di aver fatto rivivere ancora una volta il diritto romano, dopo che la pratica lo aveva cosi malmenato e guasto, spetta a lui; e non è una esagerazione se l'epitafio, posto sulla sua tom- ba a Pavia, afierma che prima legum $tudia antiquo restituii de- cori. Cosi egli apre e spiega il secolo XVI, e a buon diritto è riguardato come capo di quella scuola che poi fu detta della eulta giurisprudenza. Ma, più ohe in Italia, essa si propagò in Francia. Lo stesso Alciato si era recato colà, dietro invito di Francesco I, e vi aveva insegnato. Agli scolari, che ne fre- quentavano le lezioni, aveva infuso la sua passione per le let- tere latine; e il suo esempio trovò imitatori.

3. Erano passati appena tre lustri, dacohè insegnava a Bourges, quando il Cujacio (1622-1690), giovane di venticinque anni, apri ui^orso speciale sulle Istituzioni a Tolosa. Egli fin

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d'allora raccolse attorno a s6 baon numero di allieti, e con- tinuò per qualche anno nell' insegnaniento libero, poi dofiundò nna cattedxa ; ma invano. Tolosa non aveva ancota sentita k rivelazione ohe l'Alciato aveva fatto a Bonrges, e i Bartolistì vi tenevano il campo. Basterà ricordate il Foroadel, rivak {b^ tnnato del Onjacio, tutto ligio alle dottrine di Bartolo, che ftp- punto a questo suo attaccamento deve buona palHie della si;a fortuna. In un dialogo, Sphérae legaìis dùdogus unus, il For- cadel paragona Bartolo, Baldo e Giasone alla luna; e non i torto dal suo punto di vista, perchè riflettevano il Soie deDi giurisprudenza romana. s' inchinava che ai Bartolisti. Egli dice: Patricios appello eos qm sunt de BarioU fhmiUa, rtliqw» pleheios. Cosi il Cujacio, che mirava anzi a sbarazzare il di- ritto romano da quella cappa di piombo, eotto la quale Tity- vano come schiacciato i Bartolisti, ottenne un rifiuto ; ma d& li a poco si portò a Oahors, che riparò i torti di Tolosa: indi insegnò successivamente a Bourges, a Valenza, a Parigi, a To- rino, e di nuovo a Bourges, dove mori. E nondimeno la nnon scuola durò fatica ad afiermarsi.

Perfino in Francia iu d'uopo al Cujacio di conquistare il terreno palmo a palmo, perchè l'influenza di Bartolo vi aw^ messo troppo salde radici ; e la battaglia fu tanto più viva, per essersi trovato di Rronte un campione della sua fom, che pro- fessava pure diritto alla scuota di Bourges e in opposizione coi lui. Vogliamo alludere al Donello (1627-1681) ; ma sarà bene spiegarci. È certo che il Donello non si è proposto di rimet- tere in voga i commentari di Bartolo e dei Bartolisti; ma è pur certo, ch'egli battè una via affatto analoga. Fu osservtto egregiamente bene, che agli occhi del Donello il diritto romano non ^i presentava più quale un ftammento dell'antichità, o un am- masso di ruderi, che fosse solo utile di oonosoeie e raccogliere: era qualcosa di vivo e di attuale ; era la ragìos» di decidere gh affari ^1 politici che civili, una geometria e un sistema. Laonde. mentre il Cujacio non scrisse che tammenfari, H Donello noi compose che trattati. D'altronde, non è da revocarsi in dubbio che il Donello abbia studiato a fbndo il suo diritto romano e ne abbia conosciuto tutti i monumenti, più meno del Cu* jacio ; ma non si è fermato ad essi. Non contento di cercarli e illustrarli, e presentarli, come si trovavano, alPammiraEioQe

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dei contemporanei, abbandonata Tesegesi, ha yolnto erigere alla Boienaa un monamento eompleto, in oui tutto fbese coordinato secondo un dato disegno^ oertamente più giusto e largo ohe non fosse quello del Digesto. Il Lerminier ha ragione : egli si è rao* colto e ripiegato tutto in se stesso, oi ha messo tutta la sua anima di pensatore e logico inftitioabile, e ha rioompoeto le va- rie parti del gius eivile oon iraUati dogmatici, stabilendo prin- cipi e deducendone conseguense, onde riuscì ad essere il vero modello del metodo dommatico applicato ai testi; un geometra, mMìtre il Gujaoio è un'artista. Ma non basta ancora: c*è qual- cosa che segna un distacco anche più profondo tra i due, per^ (die, mentre il Cujacio si accosta riverente all'antichità e ai suoi giureconsulti, e mostra per essi un culto, ohe nulla smen* ti8ce, il Donello tende a padroneggiarli, se ne separa, oooorren^ do, e apriva a oonoeaioni, che possono parere arbitrarie, e a teo* rie ohe forse mancano di sanzione. Anch'egli, al pari dei Bar- tol isti, mirava soprattutto a costruire sistemi giaridicif e non gli oaleva gmn fatto che fossero o non fossero romani.

4. ^ Ma un oolpo non meno fiero Ai portato al Oujacio e alla sua scuola dall'Ottomano: un altro egregio giureconsulto, che nel suo AnHtribonian ou Di$eour$ sur l'tsimde dex l&ix (1667) rese palesi i grandi imbaraasi della pratica, costretta a prender partito tra le due scuole dei Bartolisti e dei Cigaciani. ì)a un la^o, un anunasso di commentari indigesti, dall'altro discussioni grammaticali, e studi critici sui manoscritti, che non erano il fatto suo.

liceo come egli si esprime: La più parte dei loro libri e delle loro dispute formicolano tanto di allegasioni riguardanti la grammatica, che i pratici, per dispresso e sdegno, ne hanno fatto un brooardo, e hanno dato loro il blasone di Umanisti e Oram^ wuUiei; di guisa che nelle nostre università si vedono ora due specie e come due fazioni di legisti : gli uni detti Scarabocchia* tori, Bartolisti e Barbari, gli altri Umanisti, Purificati e Oram- maiiei.

Ma anche un'altra cosa preoccupava i pratici. Dopo tutto, le leggi romane, ohe la nuova scuola tendeva a introdurre nella loro purezza, per quanto elastiche, erano leggi che contavano più secoli di vita, leggi ohe male si adattavano alle condizioni di una civiltà cosi diversa e di una società in gimn parte rinno*

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vata: non deve reoar meraviglia, che la pratica si intereesasse molto mediocremente a quelle ricerche più o meno archeologi- che, che non avevano più valore neppure ai tempi di Griusti- niano, e che, ad ogni modo, a prenderle sul serio, avrebbero fatto retrocedere il diritto di parecchi secoli. Certo, la pratica fo- rense, più vicina alla vita, ci vedeva più chiaro ; e del resto U equità naturale si era fatta largo un po' alla volta anche pit che non lo fosse nel diritto giustinianeo. Ad qgni modo, molte cose avevano oggimai la sanzione del tempo : perchè rimutarle? Poniamo pure, disse molto bene il Forti a' di nostri, che Bar- tolo non abbia indovinato la mente di Paolo intomo al ius accn- scendi, e che l'abbia indovinata piuttosto il Cujacio: sarebbe stato veramente singolare che dopo più di due secoli variasse la regola del fóro in una materia, nella quale tanto vale una opi- nione quanto l'altra ; sicché, non potendosi avere il bene di abolirla, si abbia almeno il minor male di star fermi alle stesse semplicità. Si aggiunga che le leggi romane esigevano uno studio cosi lungo ed intenso, da occupare tutta la vita di un uomo. Perche insistere ancora a mantenerle ?

L'Ottomano si fece interprete di queste preoccupazioni della pratica, e propose addirittura di codificare il diritto. U re avreb- be radunata una commissione composta di un certo numero dt ^ii* reconsulti insieme ad alcuni uomini di Stato, e altrettanti wtocaH e pratici, scelti tra i più ragguardevoli del Regno, con Vincam di mettere assieme ciò che avessero creduto di estrarre sia dai li- bri di Giustiniano {il buono e il meglio), sia dai libri di filotofa, sia infine dall'esperienza che avessero acquistato nel maneggio de- gli affari. Dovevano cosi compilare un volume o due al più, lingua volgare e intelligibile, tanto di diritto pubblico quanto i^ diritto privato, accomodando ogni cosa alle condizioni e aUa form dello Stato francese. Il nuovo codice avrebbe abrogato definiti- vamente il diritto romano.

6. L'opposizione era gagliarda; ma il Cujacio finì co! trionfare nelle scuole, e la giurisprudenza forense vi si adatt: come potè. Attorno a lui si schierò in Francia una folla di altri giureconsulti minori, e nondimeno grandi anch'essi: Duareno, Molineo, Brissonio, Dionisio Gotofredo ed altri. E il trionfo fc completo: il Donello non attecchì in Francia. Cosi riviven ancora una volta il puro diritto romano e lo studio diretto delle

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fonti : e si gaardò alla Francia, come altra volta all' Italia. Ciò che Pietro di Blois aveva detto della scnola di Bologna, lo ri- pete nel 1679 quasi alla lettera Antonio Mareto del Cujaoio e della scuola francese : lus civile. . . neque usqaam hodie nisi in Oallia^ neque in OcUlia nisi a CujadOj recte <ic vere dieci posse. Anzi, ancora un secolo dopo, l'inglese Arturo Duck scriveva: lurisprudentia romana, si aptid alias gentes extincta esset, apud solos Oallos reperiri posset.

B. ^ Attività della scuola.

1 . Noi prendiamo a considerare l'opera della nuova scuola sia per l' insegnamento, sia per la sciensa ; e ci rifacciamo dalla lettera, ricordata anche più su, che il Duareno scrisse nell'anno 1544 ad Andrea Gaillart. Essa, osserva lo Stintzing, si può considerare come il programma della scuola; e non ha torto. Il Duareno conosceva i vecchi metodi ; li aveva sperimentati inu- tilmente per quindici anni, trovandoli anzi tali da opprimere ogni mente, anche la meglio temprata, e rendere difficile ciò che era facile, e portare la confusione e le tenebre dove l'ordine e la luce parevano più necessari. E ne indica i difetti: la nessuna proprietà del linguaggio, il cattivo metodo d'insegnare rivolto alla interpretazione dei commentari e non delle leggi, le dispute irte di sofismi. Il nuovo metodo aspirava a ben altro. Intanto chi voleva applicarsi allo studio del diritto avrebbe dovuto essere almeno mezzanamente istruito nelle lettere greche e latine, e incominciare dalle Istituzioni giustinianee. Doveva leggerle e rileggerle si da imprimerle bene nella memoria; e soltanto in seguito avrebbe potuto accostarsi alle Pandette. Qui giunt0| Io consigliava a percorrerne rapidamente i titoli, tenendo spe- cialmente distinto ciò che vi si contiene dell'editto pretorio e ciò che è interpretazione dei giureconsulti ; e solo dopo fissati cosi i punti principali, avrebbe potuto scendere ai particolari. Allora gli conveniva rifarsi da capo e studiare il suo libro con lo scopo di cercarne e illustrarne ogni punto, anche minimo, non badando alle fantasticherie degli interpreti; anzi riducendo ogni cosa al baono e all'equo e riordinandola sistematicamente. H compito dell' insegnante doveva consistere appunto nel chiarire

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e ordinare la miiteria con opportune ddfinisioni e divisioni, in niodo ohe fiesoisse faoile l' intenderla e 8i potesse numd&te a mt^ morìa. Stabiliti i prinoipi generali non sarebbe riuscita cosa tiUklagevole di risolvete aache i oasi e i dabbi pei quali la legge non avesse una risposta. ZI oriterìo giuridioo avrebbe potato anohe meglio (affinarsi e maturare oon l'eseroizio, (die il DHare- no vuole assooiato alla teoria. Ciò quanto alla scuola.

2. Per quel ohe riguarda la soienssa, oooupiamoei prima di tutto del Oujacio. Egli fin dal suo primo apparire, rivelò Tori- ginalità del proprio ingegno; e le prime opere, da lui composte, s'accordano perfettamente oon le ultime, sicchò può dirsi che la carriera di questo grande giureconsulto sia una sola* Si tratt& di una idea veramente grandiosa che lo dominò sempre, e che non siamo noi i primi ad avvertire. " La purità delle istituzioni ro- mane era stata guasta dalla barbarie pretensiosa di Bisanzio. I prììicipi della scienza, la storia dell'antichità, la filosofia dei gio- reconsul ti, tutto era stato alterato e coìifuso-, e al Cujacio sor- ride l' idea di ricostruire tutto com'era prima. Egli dubkò che si potesse domandare l'unità alla compilazione giustinianea e studiarla tal quale, come una legislazione omogenea, mentre era in realtà Una strana accozzaglia, che non ofeiv^a che membra mutilate. D'altronde quei giureconsulti, ridotti cosi a mal par- tito, avevano pure rappresentato dei sistemi : perchè non si avreb- be potuto ritornarli quali erano stati? e risuscitare oosi il vero diritto roìnano meglio che non risultasse dal lavoro di Tribo- niano ? ,, Il Oujacio infatti si attacca ad ogni giureoonstdto preso isolatamente; e ora è Ulpiano, ora Paolo, ora Africano. oraPa- piniano: li annota, li commenta, li ristaura, e cerca d'infondere loro nuovamente la vita, collocandoli nei tempi in cui vissero. lumeggiandone i testi in mille modi con la scorta di altri giu- reconsulti, storici e poeti, con tutti i sussidi che gli offliiva l'an- tichità, cercando soprattutto di coglierne il pensiero col riamo- darli a tutta l'opera da cui erano stati divelti. Cosi decompone la grande macchina giustinianea, risoluto di rintracciare, per quanto era possibile, le leggi dell'antica Boma nella loro since- rità storica, non adulterate da idee eterogenee. Ma questa e anche la sua debolezza; e ci richiamiamo nuovamente a ciò che ha detto il Lerminier: il Oujaoio è soprattutto uno storico e un artista. Egli possiede tutto il disinteresse dell'uno e la imnia-

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ginazione dell'altro: ooéì eommetita, fipiega e note; e d'altronde non detta una sola opetu, ohe non sia un eommentario, una spiegazione, Una nota intorno a questo o quel veéligio delibanti- cbità. Inveoe il suo spirito perde ogni enologia e Taloro se è tolto alla esegesi e alla interpretazione dei testi. S!gli non ha la critica razionale, gli manca la forza di riflessione che coordina e generalizza le idee. Questo è il suo difetto. In sostanzai si tor* na con lui ai glossatori e al Tero diritto romano, che la pratica aveva contaminato col suo alito impuro. Il Cujacio osserva nella sua lettera a Brassicano, che i glossatori hanno sempre trovato la vera soluzione, e che si tratta solamente di scovarla frammezzo alle opinioni contraddittorie : ci si tornò peraltro con maggiore ricchezza di studi filologici e storici, che i glossatori non aves- sero posseduto, cioè con tutto il corredo e con tutti i sussidi del rinascimento. Cosi non hrk meraviglia di vedere i giure- consulti del secolo XYI andare di conserto coi filologi e con gli umanisti. G questa unione della giurisprudenza con la filologia e con l'umanesimo chiarisce più cose. Spiega quella profonda conoscenza, che i giuristi avevano oggimai del greco e del la- tino, e quella intima compenetrazione delle leggi romane e della letteratura classica, che doveva produrre si focondi risultati.

8. ^ La scuola non ismentì il maestro. La scuola francese è in verità una delle più splendide apparizioni che possa van- tare la storia della scienza. Specie l'interpretazione, Tesegesi, aiutate dagli studi filologici, fecero veri passi da gigante; ma, si avverta bene : si tratta di un indirizzo critico, filologico, sto- rico piuttosto ohe dommatioo: e anche il metodo dell'inse- gnamento è piuttosto esegetico che dommatioo. Col che non vogliamo affermare che la esposizione della storia entrasse prin- cipalmente nei disegni di questi giureconsulti; e nondimeno sta il fatto che la loro trattazione è storica. Insieme venne mi- gliorandosi IVsposistone; perchè alla tronfia e futile maniera degli scolastici sottentrarono la precisione, la chiarezza, la sem- plicità a segno che interi secoli parrebbero separare questi giu- reconsulti da Bartolo e da Baldo.

La loro stessa attività scientifica si esplica in modo diverso.

Innanzi tutto, mirarono a fissare il testo sia col confronto dei manoscritti, sia mediante i sussidi di una critica superiore. Perciò si fecero a pubblicare edizioni critiche del Corpus jurtf.

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e si misero sulle tracce degli avanzi, che ancora potevano re- stare, del diritto antegiustinianeo, e molti ne trovaioiLO e com- mentarono. Dionisio Qodefroi, o Gotofredo, ò autore di molte edizioni del Corpus jurisj e senza dubbio ha reso con ciò un im- menso servizio al diritto romano. Jacopo Gk>tofredo, figlio di Dionisio, dettò le QwUuor fantes juris dvilis^ dove, ira altri testi antegiustinianei, spicca una buona restituzione della legge delle XII Tavole. Il Codice Teodosiano fu pubblicato dapprima da Giov. du Tillet a Parigi nel 1550, di su un manoscritto della Vaticana, e poi più completamente dal Cujacio. A Pietro Pithou dobbiamo la CoUatio legum ramanarum et mosaicarum, e l'edizione delle Novelle posteodosiane ; a Francesco suo fra- tello l'edizione dell'Epitome di Giuliano e quella delle Leggi visigote; a Giovanni du Tillet, l'edizione dei Tituli ex carpon Ulpiani; ad Amaury Bouchard la prima edizione di G^o e delle sentenze di Paolo, come si trovavano nel Codice Visigoto. Fran- cesco Banchin restituì VEdictum perpetuum. Perfino il diritto bizantino, o greco-romano, ebbe in questi tempi i suoi illustri adepti ; tra gli altri, il Cujacio, il Viglius, il Bonnefoi, il Loe- wenklau nel secolo XVT, Annibale Fabrot nel XVUL; ma hozl tutti sono francesi. Bicordiamo la collezione del Bonnefoi (Bon- fidio), che va sotto il titolo di luris orienkUis libri III, Grinevra 1573, e quella del Loe wenklau (Leonclavio) : lus Graeco-Roma- num tam canonicum qtiam civile^ due voi., Francoforte, 15^. Nel secolo XVI si diffuse in Occidente anche la conoscenza dei Basilici. Il Diplovataccio li ricorda nel suo libro De praestantii Doctorum; e in quel torno, o giù di 11^ il Viglius, un tedesco. ne segnala l'importanza e se ne giova pel suo Teofilo e pel commentario alle Istituzioni. Indi Giovanni Hervet ne pnbblic: alcuni titoli. Segarono il Cujacio e l'Agostino, che si getta- rono con ardore su questa miniera feconda. È il tempo in ctù i manoscritti di Caterina de' Medici, venuti dall'Italia in Fran- cia, misero a rumore il campo dei dotti; sicché lo Scrim^er potè dire nel 1558: BaaiXix^v nomen in ore omnium est. Altre pubblicazioni e traduzioni parziali si devono al Labb&, Pi : tardi il consigliere Pereisc cominciò un lavoro comprensive. che fu troncato dalla morte, e del quale venne poi incaricate il Fabrot. Appunto l'edizione greca e latina di quest'ultin:., stampata a Cramoisy nel 1647, ha fatto epoca. Il Loewenkia::

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pabblioò eziandio buon» parte della tnoc^ocfwffj] il Bauduin (Bal- dovino) mise faori per la prima volta il vófioc ftiA^rfxò^\ e altre edizioni se ne feoero poi dallo Schard (Scardione) e dal Loewen* klau, che vi aggiunsero le leggi militari e marittime. Parimente^ la Sinopsis tnaior dei Basilici vide la luce a Basilea nel 1675 per opera del Loewenklau, secondo un manoscritto che era ap- partenuto a Giovanni Sambuco; e l'opera fu poi completata e corretta dal Labbò. Aggiungiamo la parafrasi greca delle Istitu- zioni, che va sotto il nome di Teofilo. Anzi fu pubblicata più volte : da prima dal Yiglius a Basilea nel 1534, poi dal Bescius e dal Nanninck a Lovanio nel 1536. Jacopo di Corte la tradusse in latino appunto in quell'anno; ma la sua versione è più elegante che fedele. Più tardi se ne occuperà il Beitz. In questi mede- simi tempi Francesco di Bosquet, dotto giurista, diede per la prima volta alla luce la a6va|HC tttv vó|uav di Michele Costantino Psellus: il Loewenklau i 7c6vT]|ia o 9tofT]|ia v6|Uxov di Michele d'Attalo, breve manuale dell'XI secolo; Simone Schard le ^ponodf pic&olo trattato sulla divisione del tempo dal punto di vista giuridico ; Teod. Adameo di Schwalenberg il Manuale dell' Har* menopulo, il quale fu poi tradotto in latino dal De Bey, dal Mercier, e dal Qobler.

4. ^ La scuola si fece anche ad interpretare i testi, e ri- tornò su tutte le teorie, che venne esponendo col sussidio delle fonti ; ma s' intende che non possiamo che accennare ad alcune opere principali.

Del Cujacio basterà ricorda re gli studi intorno a Papiniano, le note sulle sentenze di Paolo e i ventotto libri ObserccMonum atque Enundationum, che certo, tra tutti i suoi lavori, è quello che merita la palma; e passiamo ai discepoli. Carlo Dumoulin, Molineo (i:>00456G), affronta i problemi più difiicili del diritto romano, del diritto consuetudinario, del diritto feudale, dei diritto pubblico: anzi conta parecchie opere di diritto romano, celebratissime, tra cui la Extricatio labyrinti dividai et individui e il Traetatus de eo quod intere4ft. Il Brissonius (1531-1591) Hcrive De formvdie et eollemnAus populi romani verbie, e anche De ritu nuptiarum^ e De terborum quae ctd iue pertinent eignifi^ catione, tutti studi che fanno fede di una meravigliosa erudi* zione archeologica. U Syntagma jurie universi atque legum pene omnium di Pietro Grégoire, detto il Tolosano (f 1597), rivela

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imo spirito aintetioQ a Qi^in$ime^ JcicopQ Gtotofredo (168T-1652, 4UrrÌQatiÌ8Ci^ di perp<^ui commeat^ il Codice Teoéodamo: ub lavoro oh^ gU oostò tr^i^t'am^i di fis^tiche, a die è yeimmente TW QiNPoUvoro di 9QÌ«u») di critica e djl storia i^pj^lio^ta all« giurisprud^iQ^ii* iaoltx:a oQjnpma mi oomme^tarta sul titolo Ik regulis ji»ris^ oh^ rìsoupto lAoltisainu apfiUkiw« Antoiuo Favre (1557-1624), altro OHiiuQ^te gian^Qoilsalto, lasoiò pi^^ecchie opere di diritto roiDMo, a auoha di diritto si^voii^rdQ e di diritto pub- blico, Jj^ Co^fecitura^, il De $mmbus prc^gm^Mcarum^ i RatùmdUa appartengono al diritto romano ; un'opera di diritto savoiardo è il Cod^eoa Paòrianm, ohe abbiamo ricordato più sopra. Clau- dio di SaumiNsa, SaUnaoius (158d-1653X ^ologo, critico, erudito di primo ordine, soriase Da suòurbiearm teg^anibus^ 1619; Dt usiAri$, 1638; De rméo ujmranu», 1639; De foenare trapezitico 1640; De primiUtA papo^e^ 1645; De twrtuo, 1645; e il T>actatui de etàbscri^ et 9igu. teet^men^ 1648.

C. La deeodenca.

1. La scuola francese tenne il primato in Europa d^ rante il secolo XVI e parte del successivo: poscia decadde. Quando il Duek le tributava l'elogio, cbe abbiaino riportato più sopra, essa già cominoiava a non meritarlo.

Ciò derivò da più cause. £ innanzi tutto dalle guerre civili che nocquero alla frequenza delle scuole, e aumentarono a dis- misura la venalità delle cariobe giudiziarie, la quale doveva finire col mettere capo all'eredità degli uffici. Ogni impulso a distinguerai nell' insegnamento o con lo studio cessa allora. Si aggiunga cbe quasi tutti i grandi uomini di Stato, ancora sotto Enrico lY, erano stati giuristi : Ossat, Jeannin, Sillery, e n<>s sono i soli. Non cosi il Bicbelieu e il Mazzarino: a compier l'opera, essi trassero a se la carica di cancelliere, cbe fu cosa, la quale nocque pure moltissimo alla giuri^rudenza. Ne vnoLa trasandare cbe appunto nel secolo XVII si bandi la lingua latina dagli atti pubblici, e si compilarono ufficialmente i coui- tumee^ e ed creò un diritto nazionale francese formato dalla com- binazione del diritto romano, del drùit coutumier e delle ordi- nanze regie.

Tutto ciò ba determinato la decadena» degli siud^ romani-

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aiiei, lM6ÌMido myece ohe il diritto fr^noe^e si emanoipasfo e progrediflBe. L^ leggi di Booift. wuk si stiidiwoao jnù per «# steste, ma solo nelle loro rekcioni ool diritto &a«iox)iLle; e Vera- diflione diventò rappanBeggio di un i^Mok) numero di giorìstt Un'ordinanza di Luigi XIY del 1679 rioordai lo atudio della giuriqprudanza ooiiie deoaduto in Ffan«i% fino de im secolo. 8 lo stesso attesta llontesquie». Egli diee ebe il diritto roncano era stato oggetto delle oognizioni di tutti oelovQ ohe d0stine<r vansi agli impieghi civili, meAtra inveee a' snoi tewpi pareva ohe oi si mettesse della gloria neU^ii^omfe oiò ohe ai doveva sapere, e in sapere ciò che si doveva ignorare. Ai^eke iX presi* dente Bouhier esolema nel 1746: ^A che giovetebbe il disai* molarlo? Qiieaka bella soienaa^ iis orni la nostra nazione s'è distinta altra volte per modo ohe gli Étranieri stessi confessi^* vano che, se si potesse perdere tra lare, la si ritroverebbe in Francia, queste scienza i oggidì quasi relegata nelle scuole, o anche oi si contenta di prenderne una in&rinatora cosi Isiggie^ ra ohe appena ne rimane qualche l^racoia nello spirito di coloro che ne hanno appresi i primi elementi,,. Propriamente la grande giurispradenaa romanistica non è rai^iesentata che da due in- dividui: dal Domat nel secolo XYU, dal Poiàier nel XYIII.

2. Il Domat (1626*96) è conosciuto anche oggigiorno per la sua opera su Ls Uggi eioili nel loro ardine naéurale, Parigi, 1689, scritta in francese, che molti altri annotarono e compen- diarono e corredarono di una iatrodoflione storica. È un'opera degna di tutta la nostra attenzione; ma se ne sono esagerati i meriti. Corto, il Cousin non può aver pensate che alla Fran- cia, quando affermò essere il Domat, senza confronto* il più grande giureconsulto del secolo XVIL B p^ U Francia può passare. U Domat ci si presenta veramente oome una delle più splendide figure della giurisprudenza francese di quel tempo; ma non regge al paragone oon altri giureconsulti olandesi suoi con- temporanei. Piuttosto ò da asunettérsi ciò che osserva il Boilean, che sia stato t7 retsia^raiare della ragume della giurisprudenta, o, come ripete il Cousin : il ^rtcofi^ailo fUo$ofo per eceelleneOm Altri ha notato che ciò che lo distingue è la estensione delle idee e la logica deduzione delle conseguenze.

Del resto, a ben valutarne il carattere, bisogna aver riguardo alla sua disposizione teologica. Amico e quasi allievo del Pa-

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scal, volle, come questi in filosofia, essere cristiano nella Ugidor zione, e non esitò a far scaturire il gius dal Cristianesimo. H Lerminier ha colpito giusto : il Domat considerò la dottrina dei giureconsulti romani come una oonseguenza del principio cri- stiano; e quegli stoici, che si credevano altrettanti Dei sulla terra, si ridussero, tra le sue mani, a diventare i rispettosi di- scepoli di un Dio che non avevano anche conosciuto: infine, egli ha disertato le vie storiche del Cujacio, per derivare dal diritto romano un sistema cristiano moderno.

In realtà ci troviamo di fìx)nte ad una conciliazione dei dogmi cristiani con la giurisprudenza, e questo è un tratto caratteri- stico della mente del Domat; ma, a ben guardare, essa non fruttò che una specie di stoicismo cristiano, tanto incapace di arrivare fino alla libertà assoluta del Portico, quanto inabile a sollevarsi fino alla maestosa altezza del Cristianesimo. Perchè è ben vero che il Domat escogitò un sistema di gius civile; ma la sua tendenza religiosa gli fece confondere ancora una volta la giurisprudenza con la teologia, cercando il diritto e il prin- cipio della sociabilità nella natura religiosa dell'uomo. Concepì cosi il primo libro della sua opera, in cui la filosofia del diriito si mostra tutta cristiana. La prima legge è questa : che l^uomo è fatto per Dio; la seconda: che gli uomini devono amarsi e unirsi tra loro, perchè destinati a ricongiungersi nel possesso di un unico bene, ohe deve formare la loro comune felicità. £ la stessa divisione del diritto si risente di cotesta disposizione religiosa. Egli sostiene che la società si conserva mediante ì doveri con cui Dio stesso ha legato gli uomini tra loro, e che quest'ordine si perpetua poi con le successioni, le quali chiamano altre persone al posto di quelle che muoiono. Infine divide tnno il gius in obbligazioni e in successioni; ma ognuno vede quante questo vincolo sia debole e arbitrario.

Dall'altra parte, è anche vero che il sistema escogitato dal Domat, oltre che ad un sistema cristiano, riesce ad nn sistema moderno: infatti, nello stabilirlo, assume per elementi, oltre alle leggi romane, anche le ordinanze dei re francesi e le mas- sime della giurisprudenza francese. Il Cousin usa un motto molto felice a questo proposito, dove osserva, {Mirlando ap- punto delle leggi civili del Domat, che sono la préface du codi Napoléon.

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3. Roberto Giueeppe Pothier (1699-1772) non è meno li- moso ; ma s'appoggia principalmente al Cnjacio. Scrittore a un tempo di gius romano e di gius francese, non si è mai permesso il lusso di una idea generale : invece si yotò esclusivamente al culto dei testi, nei quali si mostrò valentissimo. Ciò che so- prattutto lo colpi nelle Pandette, fu l'alterazione del testo, la divergenza delle dottrine e il difetto di metodo; e pensò di ri- mediarvi. Cosi nacque la saa opera delle Pandectae lustinianeae in novum ordinem rtdaeiae, con oui si chiude la storia della scienza sullo scorcio del secolo XYIII. In fatto è un grande lavoro di riordinamento, perchè, sebbene conservasse la distri* buzione dei libri e anche dei titoli, dispose i frammenti sistemati* cameute, dando una bella e nuova edizione del Digesto ricca di note e passi paralleli e cosi pure di un registro, la quale fu lodata dal Journal des SavamU, e criticata dagli Acta eruditarum. Certo A ohe, giovandosi dei lavori e degli studi del Cnjacio e dei giu- reconsulti dei secoli XYI e XVII, il Pothier ha tentato con essa una restaurazione del diritto romano, e l'opera ha fatto epoca nella scienza. Ma non è la principale che ci resti di lui. Di pjau lunga più importanti sono i suoi trattati sulle diverse parti del diritto francese, specie sulle obbligasioni, che dettò, se non elegantemente, certo con molta chiarezza, distinguendo «compre le regole del fòro estemo da quelle del fòro intemo, attingendo da un lato agli studi dei giureconsulti romani e dal- Taltro al diritto canonico e alla morale evangelica, riunendo le tradizioni e le dottrine sotto forme semplici e popolari, ^ quasi presentisse che bentosto verrebbe dopo di lui una di quelle epo- che di agitazioni e di mutazioni, per le quali bisogna, a cosi dire, tenere la scienza preparata e facile, per salvarla dall'oblio e dalla prescrizione . Non è poi da mettersi in dubbio ohe questi trattati abbiano esercitato una influenza preponderante ^uUa composizione del Codice Napoleone, al pari dell'opera del l)oiuat, e anche più di essa. D altra parte, per quanto siano Krandi e reali i meriti del Pothier, neppure egli uguaglia i fraudi giureconsulti francesi del secolo XVI: in realtà i vanti (Italia scuola francese erano passati altrove.

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§ 2. LA SCUOLA OLANDESE.

1. Per ben due secoli, nel XVII e più nel XVIIL nei parla più di soaola italiana o di scuola francese : la vera scuola, che tiene il campo, è la olandese. È che il genio del diri::., romano pareva essersi ritirato ; e certamente l' Olanda, più i altri paesi, si prestava ad essere un buon focolare della 9ciei:z&. Dopo scosso il giogo spagnuolo, era diventata il centro della libertà politica e religiosa d'Europa; e gli spiriti più eie::. cacciati dalla intolleranza di altri paesi, vi avevano trovato ui asilo. Inoltre questo piccolo Stato aveva, senza lesinare, crea:. molte università : Leida, Utrecht, Grroeningen, Franeker, Devei- ter e Nimegue, dove gli studiosi accorrevano, non altrimei:. che una volta erano accorsi a Bologna o a Bourges. Tutto ci. conferì a rialzare lo studio del diritto. In realtà, i rociaL^:: crebbero tanto di numero, e i lavori che ci hanno lasciato, $•.:. tanto importanti, da meritare di essere considerati come ilì scuola speciale nella storia letteraria del diritto romano. ^:i può dirsi però che si segnalino per una maniera loro propria: air non fanno che continuare quella dei francesi. Ciò che U disz* gue è l'unione costante del diritto con la storia e con la filolcrl- precisamente come negli scrittori francesi. Soltanto si è svTr> tita in essi una cultura filologica maggiore che in altri, e aiit una latinità più pura che non fosse quella dei Gujaciani, oli- si meritarono il titolo di giuristi anche più eleganti: jurì^'.'^' sulti eìegantiores,

2. La scuola stessa potrebbe riannodarsi a Ugo Gre:. (1683-1646), l'amico dello Scaligero, che scrìsse di storia, di tri- logia, di filologia; ma la Introduzione al gius olandese, ed ^ Florum sparsio ad lus lustinianeum, gli assicurano un p-^' anche nella giurisprudenza; per non dire del suo trattato '- diritto della guerra e della jpoce, che gli valse il merito di ::i- datore del gius delle genti. Kondimeno essa si afferma rrì.- mente con Vinnio verso la metà del secolo XVII ; e raggi--r poi il suo apogeo nel secolo XVIII col Voet, col Noodt e ^- Bynkershoek, tre giureconsulti di primo ordine. Specie G> rardo Noodt fu detto il Cujacio dell'Olanda, quantunque la rJ

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uouourauza dei moderni, rardimento con coi spesse volte si fece a correggere il testo, e le controversie ohe ebbe col Bynkershoek, gli tirassero addosso molto biasimo. Ma anche altri giurecon- sulti vogliono essere ricordati : Ulrico Haber, Westenberg, Wi»- Beubach; e parimente si citeranno sempre con riconoscenza e ammirazione i nomi di Schulting, Wieling, Reitz, Otto e Meer- mann.

3. In realtà i meriti di questa scuola sono grandi; non ultimo dei quali Taver illustrato, se non dissotterrato, più testi di diritto romano anteriori a Giustiniano. Antonio Schulting va rinomato per la lurisprudentia vetu8 aniejustinianea, Leida, 1717, che è davvero opera cujaciana. Guglielmo Ottone Beits pubblicò quattro libri dei Basilici in continuazione dell'edizione del Fabrot, il Promptuarium dell'Harmenopulo, e la parafrasi Teoiilo, seguita da divenne appendici, che fece in breve dimen- ticare tutte le altre. Gherardo Meermann ò autore di stimate Anùnadcersiones in Caii imtitìitione$, Ermanno Cannegieter il- lustrò con buoni commentari la Collatio legum mosaicarum et romanarum; e suo fratello Giovanni i frammenti di Ulpiano. Ch<^ se la scuola non ha dato una edizione del Corpus juris, Tha però iniziata con larghi studi, che fruttarono poi grande- monte ai te<leschi. Notiamo a tal proposito di passaggio, che tutte le carte del Brenkmanu vennero nelle mani di Gebauer e di Spangenberg, che se ne giovarono per la loro edizione del 1776-1797.

4. Ciò che più importa, questi olandesi hanno fatto pro- gredire notevolmente la storia, specie Tarcheologia giurìdica, con una folla di dissertazioni speciali, piene di sana erudizione, **I)*»sso sorprendente, talvolta anche un po' minuziosa. Così, <t io vanni Meursins, dotto archeologo, si è procacciato un nome .*^<»prattutto coi suoi lavori sul diritto attico: Themi$ attica, Tre^ viri, 1685. Giovanni Francesco Grouovio è noto pel suo libro De nestertiii tteu de pecunia retori ; come suo figlio Teodoro per una storia delle Pandette, Leida, 1GV5. I IHtus Romanorum di <fUglielmo Enrico Nieupoort videro la luce nel 1712, ed ebbero una diffusione straordinarìa. Jacopo Perizonio ha illustrato vart punti di storia del diritto: la Legge Voconia^ la Cretto heredi- ttìtis, i Praefecti Praetorio ecc., e anche dettò delle Animadver^ aionee hiétoricae, Amsterdam, 1685, un'opera classica piena di

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r osservazioni sottili ed aonte, con la quale ha insegnato per il

^ primo a guardare in faccia alle tradizioni senza pregiudizi e &

I studiarle criticamente. Un altro giureconsulto dottisàmo, In-

r rico Brenkmann, ohe aveva passato quattro anni in Italia a st::*

diarvi e copiarvi il manoscritto fiorentino delle Pandette, te:-

i nato al suo paese, vi pubblicò la sua Historia Pandtctarumu.

[ fatum exemplaris Fiorentini, Utrecht, 1722, che doveva suscìuk

^ tra noi cosi vive polemiche. E il Brenkmann ha anche zu

Dissertano de legum inscriptionibus, Leida, 1706, che è nn ver:

capolavoro. Lo Schulting, da noi ricordato più sopra a prop:-

sito della lurisprudentia vetus, applicò molto felicemente il ?t::

metodo storico nelle EnarratUmes pariis primae Digestorum, Nt

meno noti sono i lavori di Cornelio Bynkershoek: un c:i.-

mentano sul frammento di Pomponio de origine juris e zu

dissertazione sulle res mancipi j che stanno negli Opuscula rem

argumenti. Abramo Wieling raccolse i frammenti dellTiir

corredandolo di alcune brevi dissertazioni, divenute assai ra.^

ed Enrico Giovanni Amtzenius lasciò buoni lavori filoLg:::

sulle antichità giuridiche dei Romani, tra cui amiamo di s^egia-

lare la Oratio de legibas quibusdam regiis, civiiis apud Eor ^^ '

sapientiae fonte, Groeningen, 1774.

5. E molto si è fatto per la esegesi e la dommatica. Cer . i manuali e commentari, che questi giuristi scrissero sul dir'*- romano, hanno assai presto eclissato, ad ogni modo sorpà?^ di molto, quelli dei loro predecessori, e non si può dire :vri- mente che abbiano perduto ogni valore, neppure oggigiom:. Un manuale di Arnoldo Vinnen o Vinnius (1588-1657 u titolo Institutionum imperialium commentariuSj 1642, scritto - modo semplice e chiaro, ha servito a lungo nelle scuole, ai: :^ in Italia e in Germania, e riesci di una grande efficacia per .': teoria del diritto romano: tanto è vero che una sua recensì:^ venne pubblicata a Venezia ancora nel 1804 in due vtl^- Similmente Ulrico Huber (1636-1694) fu una bella mente si^-r matica e godette a lungo di molta rinomanza. Sono conc^--- tissime le sue Praelectiones juris civiiis sulle Istituzioni e r^ Digesto, delle quali si fece una edizione ancora nel 17S4 a ^i■ poli in tre volumi con aggiunte e annotazioni di L. Mencken. e J, Le Plat, e, un'altra a Macerata nel 1838, anche in tre ^ lumi. Giovanni Westenberg (1667-1737) è molto noto pei s:.

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Principia juris steundum ordinem Institutianum e i Principia juris secundum ordinem Digestarum; e anche questi sono ma* nnali classioì, che possono trovam adoperati nelle università ancora sul principio del secolo XIX. Qian Giacomo Wissen* bach (1607-1666) lasciò delle Exercitatianes ad Pandecta$ et In* ditata e delle Commentaiianss cathedrariae in XII librai priares Codicia lastinianei^ che ebbero pure il loro momento di voga. Ma soprattutto vanno ricordati il Noodt e il Yoet: Oherardo Noot (1647-1726), pei suoi Cammeniaria in XXIIlibrc9 Digesto^ rum, Leida, 1716; Oiovanni Voet (1647-1714), pei Chmmentari alle Pandette. I quali sono in realtà un'opera molto particola- reggiata e profonda, oltre che elegante, ed hanno conseguito una autorità immensa, più di qualsiasi altra della scuola olan- dese: cosi minuti, che si può dire non esservi questione legale di qualche entità che non vi trovi una buona soluzione. la loro autorità si restrinse all'Olanda; si diffuse in breve in tutta Europa, offuscando le PraeUctiones di Huber, che pure avevano goduto tanto favore. Se ne fece un'edizione a Bassano ancora nel 1827.

Accenniamo anche ad alcune monografie. Parecchie appar- teugono ad autori che già conosciamo. Così Arnoldo Yinnio, oltre al Manuale delle Istituzioni, ci ha lasciato delle QuaesHo* ììfH jurié selectae e delle Partitiones, Hagae Comitis, 1624, le quali meritano di essere menzionate; ma in generale vanno sulle tracce del Donello e del Bachoff. Parimente Gian Oia- onmo Wissenbach pubblicò un libro col titolo: Emhlemata 7W- boniani, in cui pose a nudo le interpolazioni e correzioni dei compilatori del tempo di Giustiniano ; ma in generale anche al- tri le avevano avvertite, colla differenza che, in luogo di met* torle assieme» ne avevano trattato a proposito delle singole ma- terie. Inoltre possono vedersi: un trattato di Ulrico Huber De Jure eivitatis, riguardante il diritto pubblico, e vart studt di itherardo Noodt: i Probabilia juris^ un trattato De foenore et usuris, uno De partus exposiiiane et nece apud eetere$, uno sa Diocleziano e Massimiano, e due libri di Ob$erpaéiones. Gio- vanni Westenberg lorìsse òulle fonti dalle obbligaaioni e sulla costituzioni del Divu$ Marca». Cornelio van Bynkershoek ha delle OUntrvationt» juris romani, che ò la sua opera prinoipala

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e meritamente encomiata, quantunque egli venisse anche mag- giormente in fama come pubblicista.

6. vuoisi trasandare che questi giureconsulti sono di- ventati come il centro dell'attività scientifica di quelli della Francia, dell'Italia, della Spagna. Ne raccolsero i lavori in quei magnifici TTiesaari jaris civilis et cananiei, che hanno avuto una voga europea. Il The^aurtis antiquitcUum Bomanorum di Giov. Giorgio Graevius in dodici volumi in foglio, è una coUeziore molto importante di studi romanistici, a cui fa seguito il Xo- VU8 Thesaurus di Alb. Enr. Sallengre. Medesimamente Jacopo Gronovio die fuori un Thesaurus antiquitaium graecarutn in tre- dici volumi in foglio; Everardo Otto compose il Thesaurus jiin4 ratnani cantinens rariora meliorum interpretum opuscula, Leidss 1725-29, in cinque volumi, che in realtà è una raccolta assai preziosa; e anche Gherardo Meerman mostrò un ardore immense* per la propagazione della scienza del diritto. E^lui che diresse la collezione europea, diventata coA celebre col titolo di Korui Thesaurus juris civilis et canonici, 1761-63, sette volumi, più un supplemento (1780) pubblicato dal figlio. Ad Àbramo Wielirg andiamo debitori di una lurisprudentìa restituia sive Index chn>- nologicus in totum juris lusUniani corpus, due volumi, che è opera molto conosciuta e di non dubbia utilità.

§ 3. LE SCUOLE E LA SCIENZA DEL DIRITTO IN ITALIA NEI SECOLI XVI, XVII e XVIII.»'

A. Le Università.

1. Le università italiane avevano costituito a lungo il sole* centro di coltura superiore, sfolgoreggiando di tanta maggior luce quanto più fitte si erano addensale le tenebre attorno ai

** Bibliografia. Biohiamìamo di nuovo rattenxione sa alcune opere ge- nerali citate neUe note 61, 02, 68^ specialmente bu qneUe di Haco, fiooitu. Bbuoi e Stintziho. Aggiungiamo: Giustikiahi, Memorie ttoriche degli ecriUorx legali del Regno di Napoli, Napoli, 1787-88» 8 volumi. Masha, Delia aiuriMpn- dinaa e delfyro napoUtano daUa eua origine fno alla puMieanone dCeUe «im>;« leggi, Napoli. 1889. Lomohaco. Del fòro napoletano e della tua effieaeUe mella le gielasnone, Napoli. 1884 (dal/Eilan|{ieri.). Buokamzci^ Della eemola jnmtma di diritto romano nella università di JPtea aalla^ eua origine^ alTtmno iS70j l^isx,

1874 Ohiappxixi, Firenze e la eeienMa del diritto nel periodo del

Bologna, 1882 (dall' * Aich. giuridico XXYIII). Bmnoi, La teuoU^ padovmna di

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esse, e quanto più diffioili erano stati i mezzi d* istruzione. Non esistendo la stampa, V insegnamento soientifico s' impartiva sol- tanto a vooe. Le stesse condizioni sociali e politiche le ave- vano favorite. Svoltesi liberamente al pari delle altre corpo- razioni del medio evo, in mezzo a quel libero movimento ave- vano conquistato il loro posto nella storia del pensiero umano. Senonchò già nel secolo XV e più nel XVI le condizioni cam- biano, e le università non possono a meno di risentirsi del nuovo ambiente in cui si muovono. Cominciando dal secolo XV, e tranne brevi sprazzi di luce, la loro decadenza è continua. E si può rendersene ragione.

Anzitutto le grandi questioni, in mezzo alle quali le univer- sità 8Ì erano agguerrite ed affermate, avevano cessato in Italia. Le lotte tra il Papato e V Impero e quelle per la libertà comu- nale appartenevano oramai alla storia. Se qualche grave que- stione doveva ancora affacciarsi all'orizzonte, non fu in Italia; r Italia doveva gran fatto interessarvisi. Le università non rispondevano ad alcun grave problema della vita pratica; ora-

diritta romana ful 9e£olo XVI (nel Tol. Ili degli * Studi editi dall'Univ. di Pa- dova per il centenario di uuelu di Bolora» ^ Padova, IWS), Lo sti»i»o, Per la itoWa dtUa scuola ^uridiea padovanOf Padova, lh8U (dagli ** Atti e Memorie della ro^ia Accademia di Padova ^j. Lo stbsso, Per la Uorta della unte, dei ^nriMi «Il Padova, Spigolature di lettere di studenti del eeoolo XVL Veneziai ìXXt (dagli * Atti del re^io Istituto veneto ,, eerie VII, tomo Vili). Lo atbmo, (Hi ecolari dello Mudio ai Pa<lova nel cinaueeento, Diflcorso, Padova, 1903. Lo Minso, I aiureeontulii italiani del •ceolo XK/, Modena, 19(J8 (daU*« Arch. giuri- dico „ LaX, 2). CuTUm, Le tradixioni della eeuola di diritto eÌ9%U nella univer- ntà di Perugia. Discono, Perugia, 1890, 2* edia., 1892. MoaiA«t| InjluenMa eeer- citata dall' unifyereità di Pavia eujflt etudt della ^urieprudcnMa avite, Discorso, Pavia, 1H()1. Mangi MI, Dei progreeei del diritto nella éocietà, nella legielaaione e nella ecienea durante CtUiimo eeeolo, Torino, 1859. Allaed. IJietoire de la ju* ilice eriminelle au XVI eiècle, (^and, 18^ Malaoola, Galileo Galilei e /*«»•: vereità di Bologna, Memoria^ Firenie, 1881. Gavnatals, Lo studio di Napoli

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* Trìdentum « V, 4, 1902). iUmmiMvu, Kleuioni

ginnasio di Trento nel J72:S (in

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\ documenti dolio studio di Perugia (nella * Nuova Antologia ^

757, 19IJ6). BoBKRTi, Il collegio padovano dei dottori giurisi^

" -•> •• 1. ner le scienae giuridiche,, XXXV, 2-»). Pabdi,

i XV e XVIt con documenti inediti, Ferrara, 1908.

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mai si trattava di esistere per esistere. Tale è la legge che do- mina il nuovo movimento universitario in questi secolL

Avrebbero potuto trincerarsi nella scienza; ma in questo campo non si trovavano più sole. L'umanesimo, nato vigorc-s'O in Italia, si era diffuso a illuminare l'Europa, dando nascimento alla critica filologica e storica. Nello stesso tempo lo spirito umano, spezzando i ceppi, onde il medio evo lo aveva avvinto, erasi fatto a proclamare la libertà di coscienza. Scoperta la stampa. si erano moltiplicati con essa i mezzi di studiare e di appren- dere. In breve, il fecondo moto della rinascenza era venuto propagandosi a tutti gli ordini sociali. L'università si trov:. di fronte a un difficile compito, che non aveva avuto per Tad- dietro: quello della concorrenza. Se pure si fosse ritemprata nelle prove della rivalità e della lotta e lo ha tentato certo è che il terreno era oramai disputato, e bisognava contare anche con altre forze. Diremo meglio: tutto quel grande movimento degli spiriti si era svolto fuori di essa, ed essa non faceva che

Lo STESSO, Titotì dottorali conferiti dallo studio di Ferrara nei aecoli XF« XVl Lucca, 1901. Possiamo anche citare alconi studi sa singoli ^Tireconsui^^. e sono : Valseccri, Elogio di Maria Mantova Benatfides (148&-1582), Padova. IS- •- A. B.| SiUla vita e le opere di Jacopo Menochio, Disoorao, MilanG^^lSIS. As::, NIKI, Di Tiberio Deciano celebre giureconsulto uainese del secolo XVI, Bass&L: 1858. Veratti, Intorno al trcUtcUo di L, Muratori sopra i difetti della gi^i" sprudenza riguardato come uno dei fonti del Codice estense, iSkf odena, 1>^'. J. V., Alcune notizie sulla vita di Oictc, Plorio giureconsulto udinese del seciUo S VI. Udine, 1862. Ulloa^ Di Bernardo Tantusci e dei suoi tempi, Napoli, 1875l XLw- DALAEi, Tre lettere inedite di Bernardo Tanueei, con prefazione, fioma, I'>SL Seerao, De Vita et scriptis lok. Vinc, Gravinae Vommentarius, Bomae, 1758. L'i Stefano, Della vita e delle opere diO. V, Gravina, Discorso, Napoli, 1856. Bal- samo, Delle dottrine filosofiche e civili di O, F. Oravin^Sy con un saggia sulla tcj- ria e sulle opere del Gravina pel prof. Vino. lulia, Cosenza, 1880. Bkbxoldi. ^ .- dio su Gian Vincenzo Grttvinoj Bologna, 1885. Nani, Di un libro di MaUeò O ri- baldi Mota, giureconsulto ohierese del secolo XVI/ Torino, 1888. Macai, Jf^- rio Giurba, giureconsulto siciliano del secolo X Fi/, JPalerma 1888. Lcssoita, La Sylva nuptialis di Giov, Nevitzano giureconsulto asiigÌ€mo del secolo XVI, Torino. 1^6. Lampertico, Materiali per servire alla vita di €Hulio Pace giureoonsuUc e filosofo, Venezia, 1886 (dagli "Atti del regio Istituto veneto,,, serie VI, toni- rV). Fbanceschini, Giulio Pc^ce da Beriga e la giurisprudenza dei suoi ieiuii. Venezia, 1903 (dagli " Atti del re^io Istituto veneto „). La Mahtia, Xotixie e do--.- menti su Francesco Paolo Di Blasi giureconeuUo del seeolo XVUl, Firenzei, IS^' (dall' •* Arch. storico italiano „). Paglia, // dottor Antonio Marta giureeanr, :^ napoletano giusta i documenti inediti degli Archivi mantovcmi, Mantova, IS.-^. Bava, Alessandro Tur amini senese giureconsulto filosofo del secolo XVI, Siena, 1S3S (dal •* Supplemento degli Studi senesi „). Franchi, Benvenuto Stracca giure^oa^ sìdto cmconitano del secolo XVL Note bio-bibliografiche, Boma, 1888. Go:_d- 6CHMIDT. Benvenuto Straceha Anconitanus und Petrus Santema Lnsitanus (>ìaì1» «Zeitsohr. fùr Handelsrecht „, XXXVIII, 1890). Salvo, Mario CuteUi gi*- reeoTìsulto siciliano del secolo XVIIf nella •* Antol. giuridica^. Vili, I, 189Ì. Ra- poLLA, Del cardinale G, B, De Luca giureconsulto venosino^ del suo tempo e d^:^ i sua patria, Portici, 1899. Scalvanti, Notizie e documenti inediti sulla 9Ìla >zi

io. Paolo Lancellotti giureoonsulto perugino del secolo XVI, Perugia, IBOO (dall^?

Pubblicazioni della facoltà di giurisprudeiLBa dell*aniv. di Perugia nuova erie, voi. IX, 4^ " '

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seguirlo, 86 par lo seguiva. L'università, balzata improvvisa* mente di seggio, veniva oggimai in seconda linea. La maggior luce diffusa aveva fatto improvvisamente impallidire la sua; la grande coltura non si trovava più neiruniversità, ma altrove, e più che rappresentarla, l'università ne era tratta a rimorchio; cogli anni, nonostante le sue grandi tradizioni, essa fini col rin- chiudersi in se stessa, divenuta oramai estranea al nuovo spirito dei tempi.

2. Si aggiunge ohe col cadere del medio evo un nuovo concetto dello Stato si era fatto strada, e anche l'organismo universitario non poteva a meno di risentirsene. Abbiamo già avvertito la grande efficacia che, per questo riguardo, ebbe l'o- pera di Federigo U. In questi tempi, quasi dappertutto, sulle ruine delle antiche libertà repubblicane, erano sorti i princi- pati, e anche le università ci rimisero la loro autonomia. Ven- nero assoggettate alla legge comune e a poco a poco incorporate allo Stato. La stessa libertà d'insegnamento ebbe a sofirime: per vero dire essa non fu abolita d'un colpo ; ma si trovò ridotta entro ^erti limiti, che non le era lecito oltrepassare.

Con ciò non affermeremo che i principi italiani assumessero un contegno ostile verso le università: tutt'altro. Noi sappiamo come essi gareggiassero nel proteggere le arti e le lettere, e nel trarre al loro seguito gli uomini più celebrati del tempo. Il Burck- hardt ha notato come essi ci ponessero un grande studio ad allearsi gli uomini superiori: sitibondi com'erano di gloria, va- ^hi di trionfi e di monumenti, essi pregiavano l'ingegno come tale e t^e ne giovavano ; col poeta e coli' erudito si sentivano sopra un terreno nuovo, e quasi si credevano legittimati agli occhi del popolo. Cerio, essi non potevano avversare le univer^ sita : intendevano anzi di favorirle. Oltracciò, una ingerenza governativa poteva sembrare giustificata dai tempi. Non riusci- vano nuovi i disordini delle scuole, e anche le troppo vive emu- lazioni dei dotti facevano luogo a frequenti turbolenze. Àppi^ riva naturale che lo Stato dovesse intervenire anche più che non avesse fatto nell'epoca precedente; e le università accettarono talvolta (li buon grado questa nuova ingerenza, credendo di av- vantaggiarsene. In realtà ne fu ristretto il numero. U governo largheggiò di protezione colle maggiori e con quelle ohe si tro- vavano nelle princiiiali città ; ma sacrificò le altre : era lo spi-

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rito di accentramento, che andava facendosi strada dappertntto. e non poteva risparmiare le università. Non basta. Il princi- pato si fece anche a sorvegliarle e dirigerle, ne compilò e abrogò gli statati, ne elesse gli officiali a sua posta, provvide alla no- mina dei professori e disciplinò gli studenti.

Veramente, qualche misura di esclusivismo e regionalismo si incontra già nei secoli precedenti.

Federigo II ne aveva dato l'esempio con lo studio di Napoli : e non mancò di trovare imitatori. Fino dal 1375 il dominio di Milano aveva stabilito per l'università di Pavia, che qualunque studente fosse fuori del territorio dovesse tornarvi sotto pena della vita a lui e della perdita dei beni ai parenti suoi ; e nel 1AÌX> Filippo Maria Visconti faceva pagare ai disertori dello studio pavese seicento fiorini d'oro. Parimente, il governo veneto ordinò nel 1407 che i sudditi della Repubblica non possano andare o stare ad altro studio che non sia il padovano sotto pena di cin- quecento ducati, e ciò segnò la rovina degli studi generali di Treviso e Vicenza. Lo stesso avvenne a Ferrara : Ercole I, nel 1486, proibì di studiare altrove sotto pena di trecento ducati d' oro. si era disposti a riconoscere i diplomi forastieri. Un decreto della republica veneta del 1432 lo avverte espressamente: "non si avrebbe avuto alcun riguardo alle lauree conferite d& università straniere . E altrove si andò anche più in là. Nel 1462 furono pubblicamente degradati quattro studenti perugini che, dopo avere studiato a Perugia, avevano preso la laurea a Pisa, acciò non rimanesse, concludeva un breve di Nicolò V, tanto pernicioso delitto impunito. Insomma non si conosce quasi Stato che non voglia chiudersi nella breve cerchia della sua università ; e manco a dirlo, l'esclusivismo e il regionalismo fini col nuocere alla libera universalità degli studi. Sono i tempi in cui la gelosia e il timore dei principi italiani, che tenevano divisa la penisola, avevano cominciato a produrre quella politica di equilibrio, in nome della quale, ciascun principe o città si restrinse al terreno avito, e, pur spiegando una certa attività in ogni genere di civile progresso, non lo fece che dentro una breve cerchia determinata. Queste gelosie e rivalità proietta- rono la loro luce sinistra anche sul movimento universitario.

Le stesse tendenze si sono rivelate nella nomina dei profes- sori ; ma anche questo caso non riesce nuovo. Uno statuto della

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oittà di Bologna, già nel secolo XIV, aveva sancito che le cat- tedre principali dovessero occuparsi da persone del luogo ; e sebbene T università vi si ribellasse, non pare che questa sua opposizione sortisse alcun effetto. Nel fatto, tanto i professori quanto gli studenti e gli studi ne rimasero asserviti. E suc- cedette peggio quando, caduti i principati, vennero le signorie straniere. Nelle strette dell'amplesso ufficiale, le nostre univer- sità sentirono come mancare il respiro, cominciarono a difettare d'aria e di luce, e diventate sempre più estranee al movimento intellettuale, perdettero lo scettro della scienza. Non parliamo delle eccezioni ; ma è certo che in generale i forti studi vennero meno. Rileviamo da una nova constitutio dello statuto dei giu- risti di Padova del 1660 (II, 33), che i dottori troppo spesso trascuravano i loro doveri : cercavano mille pretesti per non leggere anche nei giorni di lavoro, onde il numero delle lezioni riesciva più scarso di quello che avrebbe dovuto essere, e gli studiosi ne risentivano non piccolo danno. il caso è isolato. Il Fabroni pubblicò una lettera di un bidello dello studio di Pisa al governo di Firenze, in cui tra le altre avverte come infra questi legisti n legge molte poche lezioni che appena arri- vino alla metà del tempo debito^ e ne denuncia parecchi. Infine conchiude : Prego le vostre signorie provvegghino in forme che a me non abbi a nuocere, imperocché quando ricordo qualche volta faccino il dovere, il minimo pedante, che c'è, minaccia di farmi cassare o darmi delle busse. Senonchò le cose andarono di male in peggio. Da un'altra lettera del 1679, pubblicata pure dal Fabroni, rileviamo come il Oran Duca avesse avvertita la di- minuzione grande delle lezioni, la tiepidezza con cui si cammi- nava nello studio delie scienze, la trascuraggine che si praticava nelle ripetizioni pubbliche e private, e la licenza che molti si pigliavano di non intervenire all'assegnazione dei punti. la scienza di queisti professori voleva significare gran cosa. Bicoiv diamo come nel 1413 una deputazione di studenti dichiarasse apertamente al Senato veneto, che gli studenti amavano di se- guire i lettori illustri e non sapevano che farsi di coloro la cui fama era piccola nel mondo. Ma gli era come predicare al de- {^erto. D'altra parte l'ignoranza burbanzosa e la sciocca vanità dei dottori finirono col passare in proverbio, e il buon senso pubblico non pota a meno di ribellarvisi contro. Certo, fece

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difetto air Italia nn Babelais, che li coprisse di nn ridicolo im- mortale, ma aeppare qui mancò la satira.

In questi tempi le università, più ohe alla scienza, badano ai propri interessi, e la laurea diventa oggetto di lucro dapper- tutto. Ne scarseggiano le rimostranze. Correndo l'anno 1566. la città di Palermo si lagna della crassa ignoranza dei medici e mette il dito sulla piaga : per non fare gli studi 90i ordinata- mente, e per esser tanto largo e facile ad havere il dottorato in tutti i studi d'Italia. Un secolo dopo se ne lagna Catania. TTra prammatica del 1683 rileva che dacché Messina aveva ottenuto una università, los doctores de collegio da aquéUa, por l^a codicìa de aprovechiarse de los emolumentos por las graduadones, falst- ban las fees .... que los que se habian de graduar hubie^sen estu- diado par tota el curso en su universitad, y con eUas Ics gradua- van, sin haver echo el curso, ni au7è visto estudio ; . . . de que sc seguian che los doctores d'està universidad, por no perder est'js emolumentos, .... graduavan tambien con fees falsas .... fodc^ los ... . sin haver visto estudio etc. Infine una prammatioa del- l'anno 1695, ordina, che i gradi conseguiti in altre università. che non fossero Catania, Salamanca, Yalladolid e Alcalà, non dovessero aver valore, rispetto che ha manifestato l'esperienza c*< incoìivenienti cotanto pregiudiziali, che ne risultano neW ammetterai all'esercitio di dottori tali soggetti, nei quali ordinariametUe ac- cade non trovarsi quella sufficienza che si ricerca. Nondìmec: i nostri professori non avevano per anche percorsa tutta la chiii& fatale : la discesero quando dimenticarono le loro lezioni per gli intrighi della corte e le vergogne della piazza.

3. Avviciniamo due cifre. Bologna, il cui studiò nei t-ei giorni della sua floridezza, aveva accolto più migliaia di stri- denti — la leggenda li aveva fatti salire a ben diecimila nel 1431 si ridusse a credere che per cagione delle guerre cir- costanti .... gli studi di Firenze, di Siena, di Padova e di Flavia si svieranno per modo che qu^l di Bologna si rifornirà bene. Spa- riamo, aggiunge un cronista bolognese, riferito dal Muratori. non passerà Natale che qui avremo più di cinquecento scolari : un ventesimo di ciò che si vuole fossero stati una volta ! e pareva già molto.

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B. La Mciema del diritto. Sua decadenza.

1. Nei secoli XVI, XVII e XVIII la scienza giuridica italiana è decaduta : già nel cinquecento non occupa più il pri- mo posto, e nei due secoli successivi non tiene neppure il se- condo. Non solo lo splendore delle Università era venuto meno con PAlciato ; ma ogni loro movimento aveva cessato con lui. Il Cujacio le visitò nel 1666, o 1667, e cosi scrisse dei profes- sori, che allora tenevano cattedra: ^taluno, insegnando e dispu- tando, mi parve delirare ; tal altro non intendere neppure ciò che spiegava, spendendo, con gli occhi fissi sulla carta, migliaia di parole, dove ne sarebbe bastata una sola. Altri era dotto solo in un argomento rubacchiato ai veri giureconsulti ,, . Ag- giungiamo, che la nuova scuola non riesci a far breccia in Italia, come non riesci del resto neppure in Oermania. Oli Italiani e i Tedeschi riguardarono tuttavia le escursioni letterarie e sto- riche degli umanisti come un trastullo puerile, che non poteva avere importanza per la decisione delle questioni giudiziarie, e continuarono a trascinarsi sulle orme dei Bartolisti. In sostanza, furono le considerazioni pratiche, che prevalsero e determinarono il dissidio, che si fece sempre più spiccato e vivo, tra la teoria e la vita. Che se non mancarono anche in Italia alcuni ohe, adf^reudo alla nuova scuola, consideravano il diritto romano come un'opera perfetta in ogni sua parte, a cui non fosse nulla da aggiungere e nulla da togliere, certo il numero degli oppositori era di gran lunga maggiore. Al qual proposito non sarà inutile di ricordare ciò che il Pasquier, grande avvocato e giureconsulto francese del secolo XVI, dice di Mariano Scoino Giuniore : "^ Quelli che piatiscono ricercano il Scoino per questa sola con- Biderazione che non ha perduto il tempo nello studio delle let- tere romane, come rAlciato». La frase ò significante. Del pari il Gravina, ancora nel secolo XVII, accenna a coloro che, ai suoi giorni, combattevano per Bartolo quasi prò arie et foeis.

2. Le vere tendenze della scuola italiana in questi tempi sono nottameute scolpite nei Dialogi eex de veteribus juris iV terpretihue di Alberico Gentili (1660-1611). Italiano e pratico, «^gli alza la voce contro coloro che accusavano i suoi connazionali di essere deliri, miseri, non intelligentee quod loquuntur, blatero-

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nes, desipientes, improbi, ambitiosi, avari; e si fa a difendere a spada tratta la vecchia scuola anche in ciò che sapeva di falso e di esagerato. S' inchina alla glossa e ai commentatori, i cui volami, sebbene radi e incomposti, impolita et incondiia, ante- pone a qaelli dei naovi eleganti ; ne vanta i pregi, ne scusa i difetti, sostiene essere temerità il volersi scostare dalle vie che essi hanno tracciato. Aggiunge, che quanto esiste ha per se la sanzione del tempo, e deve bastare a renderlo sacro. Per ciò che concerne la filologia e la storia, erano scienze non necessa- rie al giureconsulto ; certo, lo studio dtfUa legge si doveva an- teporre ad ogni altra disciplina, precisamente come avevano fatto i vecchi. E bisognava stare con questi, se si voleva apprendere la sapienza civile : dai moderni non si potevano avere che gin- gilli ; e a seguirli, si correva rischio di confondere il principale con l'accessorio. Alla fine poi, Bartolo e Accursio avevano dato tutti se stessi allo studio del diritto, giorno e notte; e non ve da stupire se sono diventati sommi giureconsulti e sonmii inter- preti del diritto. Invece i moderni vagavano qua e per tutti i generi dell'arte e per tutte le discipline e le scienze: qua: meraviglia se risxiltassero di tanto inferiori ? Nel VI dialogo di addosso particolarmente allo Zasio, uno dei pochi giuristi culti e veramente culti, che vanti la Germania. Insieme combatte il malvezzo, che s'era fatto strada nella nuova scuola, di denigrare Triboniano. Molte volte non si battagliava contro di lui ole per vana pompa di erudizione ; molte altre si dichiarava fal^ una lezione solo perchè contraddiceva alle opinioni di chi scri- veva. Alberico Gentili flagella alla sua volta questi cosiddetti flagellatori di Triboniano.

Altri scrittori, parlando del modo con cui si doveva insegnare e studiare il diritto, si fanno a sostenere il mos italicus. Bi- cordiamo specialmente il Gribaldi Mofa nell'opera che porta per titolo: De methodo ac ratione studendi, Lugduni, 1644. Es?o comincia dal porre il principio che colui, che aspirava al vanto di sommo giureconsulto, doveva rinunziare ad approfondire altre scienze. Potrà anche per suo diletto leggere i classici greci e latini, ma nulla più: e nondimeno riconosce come la filologia ^ la critica abbiano recato grandi vantaggi alla intelligenza della i©gg©- Insieme dichiara con qual ordine il professore debba spiegare il testo, ed è sempre il vecchio metodo scolastico, &

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cui 8* inchina. Sono gli otto momenti, già accennati, attraverso i quali deve svolgersi la interpretazione della legge: perohò premessa l'introduzione, vnole che essa venga divisa nelle sue parti; se ne riassuma il contenuto; si figuri un caso a cui ap- plicarla; si legga il testo per mostrare ch'esso coincide con la legge e per correggerlo, qualora la dizione ne risulti errata ; si espongano le raHones dubitandi et deeidendi; se ne traggano le regole generali e le conseguenze più notevoli; infine se ne enumerino i contraria e le oppositiones. E il Qribaldi entra anche nei particolari. A proposito della ratio dubitandi et deeidendi^ osserva che potevatfi considerare come la radice della legge stessa: è la ricerca del dubbio ohe questa ha inteso di risolvere, q se più vuoisi, il perchè di essa, il motivo che Tha dettata; una ri* cerca che rende lo studioso veramente padrone della scienza, ohe altrimenti si ridurrebbe ad uno sterile sforzo di memoria. Se- nonchè, dopo conosciuta la ragion della legge, importa di de- durne le regole generali: anzi è indispensabile il farlo per ac- quistare una compiuta cognizione di tutto il diritto. E di vero, le leggi sono soventi volte cosi prolisse, che non ò possibile ri- cordarle tutte; ma si può ritenerne la regola, e agevolare in tal modo la cognizione della scienza. Infine, è col soccorso di tali regole che ci è dato formare i sillogismi, che il Qribaldi rite- neva essere il più perfetto genere di disputa. I contraria e le oppositionee venivano per ultimo, dopo chiarito il senso della le^ge e trovata la regola. Era la prova del fuoco, a cui la si assoggettava, esaminando gli argomenti che si potevano addurre contro il suo tenore, e che potevansi desumere sia dalla legge stessa, sia dalle opere degli interpreti. Passate in rassegna le obiezioni, si vedrà come si possano conciliare con la legge. Questo, dice il Qribaldi, è il metodo seguito da Dino, Cino, Bartolo, Baldo, Saliceto e da molti altri, e riesce più profitte- vole al giureconsulto, perche fa lavorare i nervi e sudare gli ingegni dei dottori. Insieme, esso raccomanda le dispute: anzi le ritiene indispensabili ad acuire l'ingegno, a rafforzare la memoria, a pulire l'eloquenza; e suggerisce come utili modi d'argomentazione i cosi detti luoghi comuni: ab abeurdo^ ab identitate, a similitudine facti^ ab apposito, a cessante ratione età, che dovevano aiutare il giureconsulto a risolvere i casi ohe la lefl^ge espressamente non oontemplava. Inculca altreel di fissar

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bene le sedes materiar»m^ oome aiato della memoria^ cioè quei laoghi del Corpus juris dove per solito i dottori trattavano per disteso un dato argomento. Infine raccomanda come ottimi au- tori, degni di assiduo studio, Bartolo, Baldo, Paolo Castrane, il Tartagni, G-iasone e Giovanni Imolese; ma riconosce Tanto- rità anche degli altrL Soltanto non vorrebbe ohe se ne abu- sasse, come si soleva fare quotidianamente. Uno dei difetti invalsi nella giurisprudenza consisteva appunto nell'anunon- ticchiare una sull'altra, senza misura ne discernimento, le opi- nioni dei dottori a vana pompa di erudizione, divagando anche in materie estranee all'argomento, e non avvertendo che spesso venivano citati solo perchè ripetessero ciò che la legge ste^a aveva detto.

3. Pur troppo questa delle autorità era una piaga, che do- veva durare ancora a lungo; anzi si è inciprignita col tempo, ed è sulla base di essa che venne formandosi quella opinione comune, di cui abbiamo toccato incidentalmente altrove. La re- gola era che il giudice dovesse seguirla, e non abbandonarla, nemmeno se mancava la legge sulla quale si era formata, o anche se una opinione diversa paresse più conforme alla verità, o ci fossero dei giudicati contrari; molto meno poi, per correr dietro alle nuove fantasie. Qualora se ne allontanasse, si pre- sumeva che lo facesse per imperizia, e ne rispondeva ; mentre, nel caso contrario, andava esente da ogni rimprovero, e veniva assolto da qualunque obbligo. L'opinione stessa era quella ac- colta dalla maggioranza dei dottori di maggior lustro e antorità. nei punti in cui il senso della legge non appariva chiaro. Sci- tanto se il caso fosse stato risolto dal legislatore, essa non tro- vava applicazione; ma d'altra parte l'insufficienza dei testi, o meglio il non essere stati ridotti a principi generali ed astratti. la rendeva necessaria. Ciò riferisce il Nevizzano nella Sì/I va nuptialis; e trattasi di un giureconsulto non ignobile, che fo- ri sul principiare del secolo XVI, appunto nel tempo in cui l'autorità dei dottori dominava sovrana. Egli soggiunge ezian- dio, che Giustiniano aveva ristretto il nostro diritto per mono, che, se fosse mancato il soccorso dei dottori, infiniti casi occor- renti alla giornata, sarebbero rimasti indecisi. Del resto non si trattava di cosa stazionaria: anzi l'opinione comune s'adat- tava al movimento del consorzio umano, e poteva andar sog-

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getta a mutamentL U Nevizzano dioe espressamente, che le opinioni comani nascono, crescono e inveccliiano nelle scuole, donde passano nei giudizi e si cimentano. Sicché poteva ac- cadere che dittante un certo spazio di tempo dominasse una opi- nione comune, e questa lasciasse poi il campo ad un'opinione con- traria. Lo stesso può vedersi nell'Azzoguido, libr. Ili, cap. 17 De, comm. opin. Egli dice: Communis Ofinio suhiacet mutatiani.... Saepe enim contingit^ ut aliqua opinio^ quM a L vel LX annis saprà communiter iet^ebatur, duinai e$se commums, H plurimi ex sequéntibué contrarimm teneant

Intanto la massa delle opinioni e degli scritti veniva cre- scendo sempre più, finohò da ultima riesci addirittura indoma- bile. U numero delle questioni diventò infinito : intorno a cia- scuna v'erano sentenze contrarie sostenute da una folla di gìu- reperiti ; e la incertezza del diritto in tutte queste controversie era forse maggiore di mille anni addietro, quando Teodosio II e Valentiniano m pubblicarono la loro legge delle citazioni. Ed era un battagliare continuo. Gol crescere delle opinioni dei dottori, anche le fazioni e le sètte si moltiplicarono nelle scuole: si parteggiò animosamente da tutti i lati; e non fa stupore che la confusione salisse al sommo. Si cercò di rime- diarvi; ma il rimedio fu peggiore del male. Ancora il Neviz- zano aveva detto ohe Topinione, che si doveva seguire, era quella accolta dalla maggioranza dei dottori più illustri; una preferenza determinata dopo tutto dall'autorità: invece adesso, non sapendo come metter argine al disordine, e pur occorrendo frenarlo, si volle ohe fosse determinata dall'aritmetica. È stato un mezzo disperato, che non aveva più nulla di comune con la ragione. Non si badò che al numero. La quantità numerica delle opinioni era la sola che desse vinta la causa ; e a distin- guere i gradi di maggiore o minor fiducia nelle allegazioni, si distinse la opinione oomune, dalla più comune e dalla comu- uissima. Ciò rileviamo dal De Luca, il quale ne parla nella He- latio romamu curtoe forensié. È proprio il caso di dire che la logica era stata sopraffatta dall'aritmetica: lo Sclopis non ha torto di definirla come una sragionevole combinazione di due principi opposti: l'incertezza e Tautorità. poteva produrre buoni frutti. Ma già sappiamo, che l'eccesso stesso del male fu

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alla perfine oagione di bene: si oomprese che bisognava rhcr- nare all'esame razionale, e vi si tornò.

4. ^ In mezzo a tutto ciò, fiorirono veramente più ginrki di gran peso, che, quantunque troppo spesso quasi non si av- vertano, meritano tutto il nostro rispetto. Alcuni si acquista- rono una fama addirittura europea. E ve ne sono in tutti i rami del diritto : tanto nelle materie civili e commerciali, qn&nt^ nelle penali.

Civilisti eminenti furono il Menocchio, il Mantica, il De Luc&

Jacopo Menochio (1532-1607) scrisse, tra le altre, De adipi^e»- da et recuperanda possessione (1571); De arbiirariis iudk^^* quaestionibus et causis (1576); De prctesumtiamlms eomectari^ signis et indiciis (1587, voi. 2); De iurisdicOone^ imperio et fr testate ecclesiastica oc seculari, che vide la luce dopo la sna m::* te a Lione nel 1695. Si può dire che nessun professore iuli&i: abbia goduto al suo tempo maggiore reputazione di lui; t&ii\ è vero che lo chiamarono il Bartolo e il Baldo del suoseo.i: certo, fa fornito di un ingegno sottile; ma il suo merito prii- cipale consiste nell'aver presentato, come in un vasto repertor- io stato della scienza del diritto, quale era insegnata e prati- cata al suo tempo. E divide tutti i difetti della scuola. Br pugnante ad ogni idea di metodo, affastella uno suiraltro argomenti più disparati; e non v'ha proposizione, anche la più ii* significante, che non abbia il suo corteggio di otto o dieci &:- tori^ citati alla rinfusa e neppur sempre a proposito: nuigr: locar um congeriem^ dice egli stesso. Il peggio si è che ! r.- torità ha troppa presa sul suo animo: si permette ben di r&: di discutere l'opinione di un autore accreditato, e in generi' s'inchina al numero. Qua e s'incontrano digressioni ozi:^ e particolarità sterili, ed anche molte proposizioni addiri::::' puerili. si può asserire che fosse uno spirito liberale e p: gressivo: tutt' altro! Ecco per es. una delle sue sentenze: S'^ varum rerum stadiosos valde suspectos credimus: ób id de <- male leges prassumunt, cum novitates ipsae soleant dissidium p- rere; e torna più volte sulla medesima idea!

Francesco Mantica (1534-1614) ha lasciato due opere: f coniecturis ultimarum voluntatum libri XII (1587), e Lucuhry tiones Vaticanae, seu de tacitis et anibiguis conventionibus U'' XXVIL L'una e l'altra sono molto stimate; il Terrasson le 1:

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diuhiarate addirittura ecceilenjl; certo, procacciarono molta ri- pubazione e vantaggi airautore, e furono citate spesso nei tri- bunali d'Europa.

Sopra tutti però vuol essere ricordato G. B. De Luca (1614* ir>83), avvocato per ben trentanni, poi auditore, da ultimo car- dinale, uomo d'ingegno acuto e di moltissima dottrina, a cui ben pochi andarono innanzi nella conoscenza della scienza e della pratica legale. Tra le sue opere va specialmente distinto un grande repertorio in sedici libri intitolato Theatrum veriiatU H iustiiiae con alcuni supplementi, il quale, anche in mezzo alla congerie delie allegazioni ed alle combinazioni dei testi e indicazioni di usi, rivela la grande sagacia di chi lo dettò. Un'altra opera è quella del Dottar volgare, insigne libro eie* montare per lo studio delle dottrine forensi. Che se il De Luca appartiene alla scuola dei pratici, è però ben lungi dall' accet- tarne tutte le dottrine: anzi è disposto ad accomodarsi con le innovazioni, e finisce col farsi antesignano d'ogui progresso nella fitta schiera dei giuristi e dei giudici romani. Senza dubbio, ò un rispettabile censore della sua professione e ne mette a nudo gli errori. Avvisa che a formare un perfetto giurecon- Hiilto, assai conferisce Terudizione, lo studio della lingua latina e la storia; e in ciò va d'accordo coi giuristi culti. Insieme, deplora il caos a cui la facoltà legale, per la tanta varietà di npiuioni e leggi e riti, era ridotta. E aggiunge : ^Possono star bene insieme, che si giudichi male e la giustizia sia male am- ministrata, e che con un dotto ed elegantissimo e ben regolato stile si coonestino le fallacie e si ornino con molte conclusioni ed autorità e ragioni; non dandosi oggi in questa facoltà legale per la gran copia e varietà degli scrittori, cosa più facile, che il colorire e coonestar con dottrine e con regole generali ogni rinuluzione per ingiusta e per iniqua che sia ,,. E altrove, par- lando di questo caos di opinioni e di incertezze, formatosi nella scienza delle leggi, dice sembrare quasi che sieusi ridotte tutte ad opinioni, e deplora il fatto. Di più, si fa a beif»^g^iare il vezzo ridicolo, prevalso già a' suoi giorni, e al quale abbiamo accennato, di basare la communio opinio sul numero dei dottori, anziché sul loro valore; e indica il modo con cui le leggi do- v^'vano interpretargli. Ricorda, che ^contro la chiara ed espressa determinazione della legge non si facoltà ai dottori di fer-

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mare il contrario, se non quando ooffl porti l'oso diverso, l quale abbia tolto forza alla legge, sicché bisogni riooirere alle opinioni ed interpretazioni dei dottori „. E soggiunge mcl.o giustamente : ^ ohe l'autorità delle leggi civili nasce più òi consenso e dall'uso de' popoli che dalla precisa ed obbligatom podestà dell'antico Impero Bomano^. Del resto, ove pure im- peri una legge espressa, la quale ordini qualche cosa in moie generale e preciso, subentra la questione se si debba bad&re piuttosto alla ragione ohe alla lettera. Egli sostiene che ci s: deve attenere piuttosto alla ragione. Aggiunge eziandio, àt ^in caso dubbio si deve sempre abbracciare quella interpret«- zione od opinione, che più si adatti alla ragione naturale e ai- r uso comune ; mentre la ragione si dice anima della legge, e il legislatore si deve supporre una persona molto savia e ragù- nevole„. Lo stesso card. De Luca aveva il costume, e se ne vantava, di procedere nelle dispute più con la ragione cht cci Vautorità ; e ordinariamente cita pochi autori, in confronto àt. molti riferiti da altri a diecine e ventine, e sempre per prov&rf il medesimo assunto. Cosi, non farà meraviglia che molte àO sue idee riscontrino con quelle, che oggidì hanno jNreso maggi:: campo nella scienza della legislazione. Per ciò che ne concenr il dettato, esso è tanto chiaro, quanto ne è copiosa la enn- zione.

5. Altri scrittori si occupano più particolarmente di ubi- tene commerciali, e si sono fatti un nome, trattando di ess^ Che se, generalmente parlando, anche questa letteratura sottosta fin dentro al secolo XVIII, alla doppia influenza dei postg' * satori e dei summisti, nondimeno alcuni cercano di sciogìierr- dai metodi dominanti, se non altro quanto alla forma, e al:: se ne emancipano eziandio quanto alla sostanza, specie <ìà..ì giurisprudenza del confessionale, che voleva esaminati gli atr^n mercantili dal punto di vista delle proibizioni usuraie e àz.^ giustizia canonica. Fra i primi vogliono essere ricordati - Stracca di Ancona (f 1678), che in fondo è un postglossat :^ e TAnsaldi fiorentino (f 1719); fira i secondi lo Scaccia di G^ nova e il Casaregis, pure di Genova (f 1737). Benvenuto Stra: ^ dettò più opere. La principale è il TractcUug de mercatura s-- mercatore in otto parti, Venezia, 1663 ; ma anche altre s:i degne di considerazione : un Tractatus de assecurationibas^ ^

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de proccenetis et proxeneticis 6 uno de adjecto, Qaesto ò l'ultimo suo lavoro, e fu stampato a Colonia nel 1676. Sigismondo Scaccia ha scritto : De Commereiis et Cambio tractatmj Boma, 1618 ; oltre a parecchi lavori di procedura. Ansaldo degli An- saldi lasciò alcuni Discurms legales de commercio et mercatura, Boma, 1689. A Giuseppe Maria Casaregis procacciarono meri- tata fama i Discurstts legales de commercio e II Cambista ietrtUto per ogni modo di fallimenti, due opere che videro la luce in Firenze tra il 1719 e il 1729.

6. Aggiungiamo alcuni scrittori di materia penale: Ti- berlo Deciano, il Olaro, il Farinacci, che si distinsero sopra tutti gli altri.

Tiberio Deoiano (1608-1681) ha un Tractatus criminalis utrius^ que censurae: certamente uno, dei migliori, dei più metodici e dei più estesi che ci restino di cose criminali. Cos) lo giudi*- cava il Jousse ancora due secoli dopo; e anche il Itenazzi ne parla con molta lode. Ti è già distinta una parte generale ed una speciale.

Giulio Giare (1626-1676) compose un'opera col titolo Sè«- tentiarum receptarum libri quinque, che si stampò dapprima a Francoforte, 1660, e gli assicurò addirittura il primo posto tra i giureconsulti pratici ctel secolo XVI. I primi quattro libri trattano di diritto civile e feudale ; ma il quinto studia il di- ritto e la procedura penale, ed esaurisce la materia. Si può dire che non ci sia questione eh' egli trascuri, rivelando sempre un forte spirito giuridico. Non s' inspira solo al diritto romano ; ma insieme ha riguardo alla consuetudine, e contrappone volon- tieri una fonte all'altra. Abbonda anche in citazioni ; ma nessuna autorità gli fa velo agli occhi, e vaglia tutto attentamente : sic- chò non v'ha disputa, nella quale non offra un quadro completo della dottrina ; e in generale le soluzioni, a cui si appiglia, sono^ dal più al meno, suggerite da un vivo sentimento del giusto. Insieme e' ò della umanità in questo scrittore : nonostante che subisca la influenza del secolo, non lascia gli accusati senza di* * fesa e ha cura del loro onore e della loro libertà. Cosi, ha pò* tute alla sua volta esercitare una vera e larga influenza su tutto il secolo XYI, e anche dopo, sicché molti ne annotarono l'opera. Le sole aggiunte, ohe si trovaiH) nella edizione del 1672, for* mano un volume in foglio, e anch'esse hanno un valore, tanto

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più ohe vi 6i riprodace la legislazione napoletana e quella dell> Stato della Chiesa, mentre il Claro aveva avuto specialmente di mira il ducato di Milano. La maggior parte di queste ag- giunte sono dovute al Baiardo, dotto giureconsulto e governa- tore di Spoleto sotto Pio V.

Medesimamente Prospero Farinacci (1554-1616) si presenta so- prattutto come criminalista. La Praxis et thearica criminalU, Lugd., 1616y quattro volumi, è il suo lavoro principale, portato a cielo dagli uni, aspramente censurato dagli altri. Forse non me- ritava nò lodi cosi smaccate biasimo cosi acerbo. Noi non cre- diamo che abbia fatto progredire la scienza; ma in dubbiamente l' ha sistemata meglio di qualunque altro de' suoi predecessori. In sostanza, fu l'uomo del suo secolo ; e senza dubbio egli ha detto l'ultima parola sulla pratica criminale italiana del cinquecento. Anzi continuò a lungo a godere di una grande autorità. Le sue opere parvero a prima giunta cosi complete, che nessuno dei suci successori osò di glossarle, nonostante che il gusto del seoolo por- tasse a farlo. L'Allard osserva assai bene che tutti i dottori si sono dati convegno in quel colossale repertorio; ma forse la sua influenza si esercitò più sulla pratica dell' Italia e de!Ia Francia che non su quella della Germania e dell' Olanda.

7. Questi, che abbiamo nominato, sono i giureconsulti maggiori e più celebrati ; ma attorno ad essi stanno moltissimi altri, specie nel secolo XVll: tanti che neppur si potrebber.-^ facilmente registrare. A darne almeno approssimativamente una idea, ricordiamo : le opere varie di G-iulio Pace e di Mario Giurba. e alcuni lavori monografici su questa o quella parte del giure. Si può dire senza tema di andare errati, non esservene alcuna che non vanti il suo illustratore. Il Corbulo e il Fulgineo si occuparono dell'enfiteusi, Mercuriale Merlino dei pegni e delle ipoteche, Francesco Maria Pecchie delle servitù, e in ispecie dell'acquedotto, il Rendella del tua protimeseos^ il Cencio dei censi, il Mozio e TAlderisio dei contratti in genere, il Gaito del credito, il Leotardi delle usure, lo Zoanetti e il Fabiani di Monte S. Sabino della compra-vendita, il Carocio e il Pacioni delle locazioni, lo Zachia della mercede degli operai e della obbliga- zione camerale, il Turri della lettera di cambio, il Passarelli delle donazioni, il Fontanella dei patti nuziali, il Pascale della patria potestà, il Sordo degli alimenti, il Montani delle tntele

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e oaratele, il Crasso e il Marta delle saooessioni, il Turetti degli effetti e difetti della clausola codicillare, il Fasari delle sosti- tuzioni, Marco Antonio Pellegrino dei fedecommessi, il Cama- rella dei legati, il Belloni del diritto di accrescimento e via di- cendo. Cosi si arriva al secolo XYIII; ma oggimai gli aderenti della vecchia scuola non erano più tanti, quantunque sempre in buon numero. Citiamo per es. il Montano, il Passeri, il Ga- brieli, il Mazzei, il Targa, lo Zanchi, il Bomussi, il Marsili, il Bonfinio, il Calcagnini e il Banchini.

8. Frammezzo ad una letteratura giuridica cod vasta, il bisogno di una guida per gli studiosi fece nascere gli Indices. E ce ne restano parecchi. Uno ò V Index Mnnium Ubrorum in jure tam pontificio quam civili passim editorum^ compilato prima dal Nevizzano, accresciuto dal Gomez, e infine completato dal Fichard; un altro, V Index librorum omnium juris dello Ziletti, Venezia, 1666: ma si tratta solo di cataloghi. Sul principiare del secolo XYI, Anton Maria Corazio raccolse da vari autori le opinioni comuni legali, che correvano allora ; e la sua fatica, dice il Muratori, avrebbe potuto essere utile al buon regola- mento dei tribunali, se il De Zevallos non avesse, circa i medesimi tempi, mostrata la incertezza di queste opinioni comuni coU'op- porvene altre senza numero sugli stessi argomenti, le quali di- ce vansi pure comuni; e alludeva allo Speculum aureum opinionum communium contra communes. Similmente Paolo Francesco Perre- muto, legista siciliano, mise assieme in cinque volumi una quan- tità di discrepanze e contrarietà dei commentatori delle leggi, dei consulenti, delle decisioni della Bota Bomana, nonché di altri tribunali : un libro d* incredi bile fatica, ma che non aveva altra utilità se non di somministrar armi di offesa e difesa agli av- vocati ! Di Antonio Merenda, che ebbe fama di eccellente giu- reconsulto, si hanno per le stampe Controversiarum juris libri XXIV, Francof., 1626, quattro volumi. Un repertorio delle teorie è anche dovuto a M. A. Sabello, Summa diversorum tractatuum^ Venezia, 1697, cinque volumi. Ma se ne conoscono molti altri, come a dire rAndreoli, il Bonacosa, il Faohineo, il Qaleota, il Oraziani, il Merlino, il Bocca eco. che scrissero di contro- versie o dispute o discettazioni forensi e di opinioni comuni dei dottori.

9. Abbiamo fatto una lunga citazione di opere: ma non

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convien credere ohe tutte, e neppur molte, segnino un qualche progresso. Questi autori, il più delle volte, non feu^ervano cbe rivangare le opinioni altrui, cosiochà non riusciva difficile di mettere assieme un libro ! Lo avverte il Muratori : bastava raccogliere ciò che avevano detto tanti altri con vario e con- trarie opinioni, e aderire ora ad una ora ad un'altra, e il libro era fatto. Ma prima ancora lo aveva osservato Benvenuta Stracca. Egli dice testualmente : Evenit nonnumquarn «f r^ luti ovem unam saltantem seqwintur aliate, ita et Doctores fa- ciant, magni Doctoris vestigia sectantes, aequum ab ifdquo sepa- rare ulterius non studentes; lidtum ab illicito ^cernere non amplius cogitantes; honum et aequum nascere minime^ ut par est, laborantes. Sono come le pecore : E ciò che fa la prima e l'altre fanno! Si comprende poi facilmente come questi dot- tori appunto perchè riposano troppo sulla dottrina e stilla pa- rola altrui, non avanzassero mai nella teoria, ne si procacciai sere la scienza e la ragione delle cose. Il loro torto è di essere stati troppo limitati e troppo conservatori. Perchè il diritto romano non può dar tutto, ed essi non V hanno compreso, conti- nuando a chiedergli ciò che onestamente non poteva dare. Meglio sarebbe stato confessare che certi istituti non hanno nulla di comune con le teorie romane ; che costretti dentro quei limiti, non possono trovarsi che a disagio, e assiderli addi- rittura sulla loro base naturale, per quanto diversa da quella del diritto romano. Ma non si è avuto tanto ardimento: quel diritto esercitava ancora un fascino troppo potente, perchè si potesse osare. Il peggio si è che quei pratici credettero di tener fermi anche i metodi che i Bartolisti avevano messo in voga, e continuarono a parlarne il linguaggio, senza accorgersi che si trattava di un vero anacronismo, perchè il regno della scolastica poteva dirsi finito, e generalmente quel lingriaggio non era più inteso.

C. La recisione.

1. L'indirizzo, che abbiamo descritto, teneva il campc': ma non fu senza qualche opposizione. E dapprima per parte della scienza ; poi vi si aggiungerà la pratica. In&tti possiamo ricor^ dare più romanisti che aderiscono alle idee della nuova scuola.

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Come l'Alciato, che l'aveva fondata, anch'essi pensavano che le leggi romane, sia per la lingua, in cui erano scritte, sia perchè concernevano costumi e condizioni d'un popolo straniero, non potevano intendersi bene ohe con la scorta della storia e della filologia, e non s' inchinavano ohe al diritto romano puro : ansi ci restano vari lavori dettati in questo senso, edizioni di testi e illustrazioni.

2. Tra le edizioni, ricordiamo quella splendida che Lelio e Francesco Torelli fecero delle Pandette con la scorta della let- tera fiorentina : Digettorum aeu Pandeetarum lihri L ex Flcren- tinis PandecHs repraesentati^ Florentiae, 1653, tre volumi, che dovette essere per quei tempi ciò che per i nostri è l'edizione del Mommsen. Parimente, le novelle di Teodosio II e Valentinia* no III furono dapprima pubblicate da Antonio Zirardini, che le aveva avute dal Ruggeri ; e le ripubblicò Gian Cristoforo Ama- duzzi con nuove e importanti lezioni. In questi medesimi tempi, r Aleseandri, uomo di grande erudizione, dettò un'opera : Oenior lium dierum libri VI, che venne giustamente in gran voga. Vi si contengono dotte ricerche sullo stile delle Pandette e una restituzione della legge delle XII tavole, alla quale bisogna riconoscere il suo valore. Francesco Giovanetti meritò gli elogi dell'Alciato per le epurazioni del testo delle Pandette, che si trovano nel suo libro Restitutianes ad Pandeeta$.

3. Altri si sono occupati di rieerehe storiche; specie il Si- gonio, il Manuzio, il Panciroli, l'Aleandro nel secolo XVI, il Pignoria nel XYII, il Gravina, il Vico, il D'Asti, e anche altri, nel XVni.

Carlo Sigonio (1519-1584) scrisse: De antiquo jure civium ro- manorum libri II; De antiquo jure Italiae libri III; De antiquo jure provineiarum libri III; De iudidie libri III; e illustrò cori l'antico diritto pubblico dei Romani, come nessun altro aveva fatto prima di luL Ma anche in progresso di tempo pochi lo uguagliarono nella cognizione dei classici; ed egli resterà sempre un grande esempio di criterio e di erudizione. An- che i suoi Fasti coneulares sono un'opera poderosa. Paolo Ma* nuzio (1612-1574) merita un posto tra i romanisti per alcuni dotti lavori archeologici, che riguardano appunto il diritto ro- mano. Scrisse: De legibus romanis; De senatu romano; De et- vitate romana; De eomitiie Romanorum; De dierum apud Romanoe

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veteres ratiane etc. Guido Panciroli (1623-1699), ginreconsulto elegante, fu operosissimo. Fra le altre lasciò nn commentario sulla Notitia dignitatum, e una storia letteraria De cìaris legum interpretibus ; e basterebbero queste due opere ad assicnrargli un posto distinto nella storia del diritto. Altre sue disserta- zioni sono più direttamente rivolte alla spiegazione del testo. G-irolamo Alessandro il Giovane commentò le Istituzioni di Gaio (1600). Lorenzo Pignoria scrisse De servis et earum apud v^ teres ministertis (1613).

Il secolo XYin è inaugurato molto degnamente dai tre li- bri di Origines juris civilis, Lipsia, 1708, in cui Gian Vincenzo Gravina (1664-1718), appoggiandosi al Manuzio, al Sigonio, al Cujacio, a Jacopo Gotofredo, mischia e fonde insieme con vi- vacità di colori le tradizioni della scuola classica e quelle della filosofia platonica. Cosi risale ai principi fondamentali della giustizia e della società, e insieme espone come il diritto romano avesse nascimento, come crescesse e si moltiplicasse e perfezio- nasse, seguendone le vicende fino al secolo XVL E non si re- stringe a considerare la storia come letteratura del diritto, ma ne fa piuttosto una parte integrante della scienza, reale e pro- gressiva, dando notizia dello stato del popolo e de' suoi ordini» e in pari tempo mostrandoci la legislazione nel suo essere, e il modo speciale e anche i particolari oggetti, in cui la sua es- senza e la sua propria natura si svolsero, secondo il desiderio di Leibnitz che voleva trattata la storia esternamente ed inter- namente. Lo che, non v'ha dubbio, assicura a questo lavoro un posto distinto in confronto di altri che lo hanno preceduto. Del pari, alcune pubblicazioni di G. B. Vico interessano al sommo grado tanto lo storico quanto il giurista. Tutti cono- scono la Scienza nuova j che certo è la sua opera più poderosa: un'opera che ha finito col fare epoca; ma il Vico scrisse ezian- dio un saggio di un sistema di giurisprudenza, in cui si propose di spiegare il diritto civile dei Somani con le rivoluzioni del loro governo. Vogliamo alludere al De uno juris universi prin- cipio et fine uno, pubblicato nel 1720, e al De constantia juris- prudentisj che vide la luce nel 1721. H Vico ha in trav veduto sagacemente molte cose, che le posteriori ricerche misero in luce ; e specialmente, per ciò che concerne la storia antica di Itoma, ne riconobbe il carattere mitico, e anche tentò una costruzione

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dei suoi ordini costitazionali, riuscendo a risultati ben diversi da quelli portati dalla tradizione, per quanto fosse ancora lungi da quello scetticismo, che, destatosi in Europa col principio del secolo XIX, venne poi allargandosi via via. Dall'altra parte, le sue teorie trovarono subito qualche contraddittore, e sarebbe stato quasi da meravigliare che ciò non fosse. Ricordiamo la Difesa Utorica delle leggi greche, e anche La origine della giu'^ rieprudema romana, che Damiano Bomano pubblicò appunto contro le opinioni dei Vico.

In quel torno, e propriamente negli anni 1720 e 1722, anche Donato Antonio d'Asti licenziò per le stampe un'opera storica commendevolissima in due volumi, che porta per titolo: Del- l'uso e autorità della ragion civile nelle pnmncie dell'Imperio occidentale dal che furano inondate dai Barbari. Il D'Asti tratta delle vicende del diritto romano dopo le invasioni, ed ò il primo scrittore che in un'opera speciale abbia sostenuto e di- feso energicamente Tidea della sua durata, contro i pregiudizi dominanti, e sfatata la leggenda di Amalfi. Ma la questione continuò poi ad agitarsi in Toscana. Ne trattò l'abate Guido Grandi, insigne matematico, in una sua Epistola de Pandectis ad Averanium^ Pisa, 1726, 2^ ediz., Firenze, 1727, sostenendo anch'egli che il codice pisano delle Pandette non poteva esser venuto da Amai 6. Dall'altra parte, sorse il Tanucci, allora let- tore di ragion civile in Pisa, e la disputa si fece sempre più viva ed aspra ed acre. Il Tanucci difese la leggenda con una sua Epistola ad nobiles socios Cortonenses, Lucca, 1728; il Grandi rispose con un opuscolo che volle intitolare : Vindiciae prò sua epistola de Pandectis^ Pisa, 1728; e il Tanucci tornò alla carica con una Difesa seconda delVuso antico dette Pandette e del ri* trovamento del famoso manoscritto di esse in Amalfi ^ Firenze, 1729. La questione si era fatta talmente grossa, da divenire inimici* zia di persone, e se ne commossero perfino i cittadini di Pisa, specie il popolo minuto, che deve avervi capito ben poco, ma ohe non esitò a schierarsi dalla parte del Tanucci, ohe si van* tava di rivendicare una gloria pisana. Infine si arrivò al punto che il gpranduca credè opportuno d'intervenire, proibendo di scrivere più oltre della cosa ; ma, nella condizione in cui si tre* vavano allora gli animi, era più presto detto che fatto. Il Grandi se ne dolse, e non potendo più presentarsi a visiera

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alzata, pubblicò col nome di Bartolomeo Luccaberti una AW« disamina della storia delle Pandette pisane^ E^aenza, 1730, a cui il Tannaci fece seguire una seconda edizione aumentata della Epistola de Pandectis pisanis, Firenze, 1731, e la trado&oiie la- tina, o piuttosto un ri&oimento, della Difesa seconda^ Firenze, 1731. Ma la questione fu esaminata anche da altrL Seneoc- -cuparono: il Valsecchi con la scorta degli statuti di Pisa; il Ouadagni in una dissertazione De fiorentino codice Pandectarm. Somae, 1752, in cui sostenne che tutti i manoscritti derivas^ro dal pisano; da ultimo Borgo Dal Borgo e Flaminio Dal Borgo: il primo in una Dissertazione sopra l'istoria dei codici pisani delle Pandette (1761); il secondo in un'altra Dissertazione epi- stolare sull'origine dell'università di Pisa (1765).

Il secolo XVIII è veramente fecondo di opere storiche, e ne potremmo citare molte altre, specie di scrittori napoletani che ai loro tempi fecero fortuna; ma ci restringiamo alle principali Certo, la Respublica jurisconsultorum di G-ius. Aurelio di Gen- naro incontrò molto favore. £ meritato; perchè piena di eru- dizione, e insieme scritta con raffinata eleganza, e diletterole a leggersi : ciò che v'era di austero e intricato nella storia defc leggi si presenta qui in leggiadro aspetto, e anche vi sono ben formati giudizi sugli autori che fecero rinascere il gusto della giurisprudenza. Vide primamente la luce a Napoli nel 1731; e subito dopo fti riprodotta dal Menckenio a Lipsia nel 1733. Anche Alessio Mazochi, ecclesiastico, filologo e archeologo, ap- partiene ai romanisti pel suo dotto lavoro sulla tavola di Era- clea, Commentarii in regii herctilanensis musei aeneas talmlfu heracleenses, Napoli, 1764. possiamo trasandare un'opera di Emanuele Duni sulla Origine e i progressi del cittadino e de governo civile di Roma, Boma, 1763, due volumi, e un^altra vo- luminosa di Giuseppe Toscano De causis romani juris (1767 segg.), in cui lo spirito della legislazione romana dal tempo de: re fino all'imperatore Giustiniano è analizzato con sufficiente perizia di storia, di critica e di erudizione.

4. Tutti questi lavori sono storici; ma non ne mancano neppure di esegetici e dommatici, dettati nel senso della nuova scuola.

Scipione Gentili (1663-1616), giureconsulto di grande erudi- zione, scrisse: De jure publico populi romani; De canjurationi'

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bu$ libri II; De dofìaH(mibus inler virum et uxorem; De boni» maUmis et eecundis nupiiis; De jurisdietione libri III. Maroo Aurelio Galvani (1600 ?*1659), giureconsalto fine ed erudito, lasoiò varie monografie, tra cui una suirusufrutto gode di me- ritata considerazione anche oggigiorno : ha per titolo DissertaHones variae de ueufrudu (L660), e rende piena giustizia alla scuola fran» oese. Bartolomeo Chesi (1605-1680) è anche un fautore del Cujacio. Pubblicò dapprima le Juridicae interpreiaiione» juris (1660), che in breve tempo ebbero quattro edizioni; e poi un libro De dif" ferentiU jurie (1662), illustrando molti casi, la cui disformità pa- reva poca cosa, ma le cui conseguenze pratiche erano grandi, Niun altro giurista a quei tempi lo uguagliò nelle dispute^ che ai solevano tenere nei circoli, e che formavano tuttavia parte dell' insegnamento universitario. Giuseppe Pasquale Cirillo (1709- 1776) ha un Cammeniarius perpetuus ad librae IV Institutianum civiliunij Napoli, 1787-42, quattro volumi, che compendiò poi per uso degli studenti (1756), riducendolo a due giusti volumi; e venne lodato dal Cantelmann : qtéod uno eodemque loco haberi pos- sit, et antiquitatùf notitia, et aliqua rerum praiicabilium eognitio, et masculae eolidiorisque jurieprudentiae eeientia^ meihodo adeo facili^ perepicuoque^ ut nihil preeeiue^ aptiusque desiderari queat. Il Cirillo però ha pure altri commentari: De oonditionibus et demonntrcUionibus ; De legatis et fideicommissi» ; De vulgari et pupillari $ub9titutione ; De Jure adcrescendi; De pactie et tran»' aetionibus; De rescindendo venditione; De donationibue ; De jure fUci^ pubblicati a Napoli nel 1781, dopo la sua morte. Leo- poldo Andrea Guadagni (1705-1785\ oltre ad un commentario col titolo di Exercitationes in jure cm/i (1766), rimasto incom- piuto, è autore di alcune Dissertatione» ad graeca Pandeetarum^ che videro la luce nel 1786 dopo la sua morte. È la sua opera principale, alla quale pose mano già vecchio; ma non si può affermare che al suo lavoro abbia nuociuto l'età. Emanuele Duqì, che citammo dianzi come un buono scrittore di storia, dettò anche un libro di dommatica: De eeteri ac novo jure co-* diciUorum^ Roma, 1752. Ma specialmente vogliono essere ricor- dati l'A versili e il Richeri.

Giuseppe Averaui (1062-17*^^ uomo d'ingegno prodigioso, lasciò più opere; ma va celebre specialmente per i libri delle Interpretationes juris^ due dei quali videro la luce ancora du-

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rante la sua vita (1716), gli altri dopo la sua morte (1746 . In realtà sono una ecoellente esposizione delle dottrine civili^ piena di eleganti conciliazioni, di ardae controversie spiegate e risolate, di formule oscure dichiarate, dove il profondo studio del testo gareggia mirabilmente con la chiarezza e vennstà del dettato. mancano opportuni accenni alla storia. Certo, è h più bell'opera che sia uscita in Italia dalla scuola del Cojacio. U Noodt, il Binkershoek, lo Schulting, e altri, parlando dell'Ave- rani, lo chiamarono addirittura sommo. Il Boehmer dichiarò che pareva nato per la ristaurazione della giurisprudenza.

Ma anche Tommaso Maurizio Bicheri può, per la sua eda- cazione, essere ascritto alla scuola dei culti, quantunque si sap- pia che, al pari del Domat e del Pothier, non si occupò eeclu- sivamente di diritto romano puro. Egli sta già sul limitare dei tempi nuovi, e si è reso molto benemerito degli studi di giurispra* denza con l'opera Universa civiltà et crimincUisjurisprudenUa iuxtii seriem Ingtitutionum ex naiurcUi et romano jure deprompta et ad U8um fori accomodata^ Torino, 1774. È questa un'ampia espo- sizione del diritto patrio, e l'autore stesso ci fa noto con quale intendimento l'abbia dettata. Ebbe di mira principalmente oo loro che trattavano le cause nel foro. Perciò diede opera soprat- tutto a spiegare le leggi romane, che sono la base e la fonte della giurisprudenza ; ma non tutte avevano vigore : molte erano invecchiate o erano state mutate, perchè male s'adattavano ai nuovi costumi; e quindi non tratta di tutte ugualmente. Non crede, per vero dire, che quelle, che non trovavano applicazione pratica, fossero per ciò solo da trasandarsi : anzi poteva giovare di averne conoscenza ; ma ne tocca piuttosto alla sfuggita, fer- mandosi a lungo sulle altre. Quanto al modo, si richiama a quel detto di Celso: cum scire leges non hoc sit earum verba tenere s^d vim ac potestatem; e cosi attende prima di tutto a definire e divi- dere esattamente ogni cosa nelle sue parti, e ne scruta l'intimo senso, jure naturali et recta ratione duce. Lo Sclopis l'ha chia- mata opera di dottrina schietta e profonda; ma forse arrivava troppo tardi per poter riuscire efficace, come avrebbe potuto. Nondimeno, ancora nel secolo scorso ne sono state pubblicate due edizioni: una a Lodi (1826), l'altra a Venezia (1841).

Una raccolta condotta a imitazione dei Thesauri della scuola olandese, si deve a Migliorotto Maccioni col titolo Varùn'um

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opuscula ad cultiorem jurisprudentiam adsequendam peninentia^ Pisis, 1769, nove volumi. Oome si vede, si trattava di disser- tazioni che interessavano la nuova scuola. potremmo pas- sare sotto silenzio che nel secolo XVIII molte e buone edizioni di giuristi francesi e olandesi videro la luce in Italia.

Nondimeno, tutti questi giureconsulti rappresentano ben poca oosa in confronto degli altri che veramente tenevano il campo. Si può dire che fossero schiacciati dal numero. godevano molta riputazione nel fóro. Ad eccezione di alcuni pochi, soprat- tutto l'Averani e il Galvani, gli altri erano presso che ignorati ; ma d'altronde essi stessi non avevano inteso di indirizzarsi al fòro, di scrivere per esso. Generalmente valeva l'opinione espressa dal Magonio e da altri, che si dovesse prestar fede piut- tosto ad un consulente, benché tenuto per uffiziale d'ultimo rango nella corte d'Astrea, che non ai repetenti, o a chi fosse stato pubblico lettore e avesse stampato le sue letture. E il Muratori ne adduce la ragione : " forse perchè questi ultimi (cioè i lettori) si fanno belli con delle sole leggi, cioè con disusati e rancidi editti, e la preminenza è dovuta alla moda, ossia alle ingegnose ed invincibili riflessioni di chi fa allegazioni e consulti „. Il Muratori aggiunge, che infatti la lite tra i testuali e i pram- matici, 0, come anche dicevansi, cattedratici e pratici, era antica; ma non bisognava credere ^ ohe succedesse sovente il trovarsi nelle dispute forensi un solo legista che avesse profferito il sentimento suo„.

5. Abbiamo, cosi, seguito la scienza del diritto fino ai tempi nuovi; ma non vogliamo chiudere queste nostre ricerche senza accennare ad alcune voci potenti, che, appunto nel sette- cento, si levarono contro di essa, in nome della pratica^ e che studiandone i difetti, finirono coli' intaccare la legge a cui la scienza serviva con le sue interpretazioni. Vogliamo alludere all'opera di Giovanni Fallante Per la riforma del Regno di Nor poli, a quella di Pompeo Neri Sopra l'amministrazione della giti' stizia nel Granducato, che l'autore sembra aver destinata alle stampe, ma che non fu pubblicata, a all'altra del Muratori Dei difetti della giurisprudenza^ Venezia, 1742, che già sappiamo non essere rimasta senza efficacia sulla codificazione degli Stati estensi. Il Muratori fa una carica a fondo contro le leggi romane. Non già ohe non contengano egregi principi e massime di giù-

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stizia e oasi particolari oon somma prudenza decisi ; ma rapiteseli- tano ben altro che un capolavoro in tutto ; per non dire che molte di esse, che pur corrispondevano ai tempi in coi vennero promulgate, non servivano più dopo la mutazione, avvenuta nei costumi e nei governi Specie nelle Novelle s'incontrava gran copia di costituzioni, che potevano giovare all'erudizione, ma non servivano a nulla nel fòro. Oltracciò le leggi erano scritte in latino, e il Muratori attesta che tanti giudici pedanei e dottorelli de' suoi tempi intendevano poco il latino, e meno quello delle leggi di G-iustiniano. Per colmo dei mali, erano sopravvenute le questioni dei dottori. Invano l'imperatore Giu- stiniano aveva proibito di commentare le sue leggi, e ciò per impedire la confusione, riscontrata per l'addietro: risorto lo studio del diritto romano, i commenti ritornarono, e con essi la confusione. È stato un vero diluvio di opere legali, che. lungi dallo agevolare l'intelligenza delle leggi e spianare il cammino a giudicare rettamente, rese la giurisprudenza più difficile, imbrogliata e spinosa, e più incerti e dubbiosi i giu- dicati. Per dieci autori, che opinavano in un modo, se ne con- tavano altri dieci, che sentenziavano in un altro; e tanto Tat- tore quanto il reo vi trovavano il fette loro. Già sappiamo che Girolamo de Zevallos nel suo Spectdum aureum aveva raccolto le opinioni contro le comuni, e formatone ben quattro tomi in foglio ! Lo stesso Zevallos notava che e' era veramente da stu- pire al vedere in quanta caligine et oòscuritate totum ius r«r#e- tur, quum nuUa sit opinio certa et verissima, quae non passét plii- ribus contrariis opinionibus et fundamentis contrariari. Et sic omnia neffotia magis ex ludicum arbitrio^ quam ex certa juris disposi- tione terminantur; et modo in uno eodemque negctìo nunc pr-y astore, nunc prò reo, sententia fertur, sine varietate juris nequ< facti, sed scium ex eo, quia his iudicibus pktcet haec opimo, et aliis displicet, et contraria directe satisfacit, quum sine eerta hgr omnino in tot opinionum varietate Respublica gubemaiur. Cosi, alle dottrine, che nel corpo delle leggi si contengono, troppe al- tre ne aveva aggiunte di poi la sottigliezza ed intemperanza dei legisti nati dopo l'anno 1100, onde ciò che prima poteva dirsi un giardino era divenuto un foltissimo bosco. " Però dice il Mu- ratori — nella giurisprudenza d'oggidi il meno sono le leggi, il testo anche delle quali poco o nulla si studia da molti de' giiL-

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reconsolti pratici. Il più consiste in tante questioni con dot- trine affermative e negative, divisioni, snddivisioni, eccezioni, ampliazioni, limitazioni inventate e promosse dagP Interpreti, Trattatisti e Consalenti, per le quali giunte tutto il sapere le- gale ò in oggi pieno d'opinioni, cioè colmo di confusione, con danno grave del pubblico e del privato ,,.

Insomma, la giurisprudenza aveva formato, cosi, un altro stei^ minato corpo di leggi. E non basta: aveva preso addirittura il sopravvento; sicché il mondo badava più alle opinioni dei dottori che alle antiche leggi divenute oramai quasi rancide. Molte di esse erano state stiracchiate con varie interpretazioni, eccezioni, ed estensioni, alle quali i giudici ponevano monte più ohe al testo medesimo: vizio notato già da Curzio giuniore. una opinione, oramai assodata, poteva essere sicura di non ve- nire balzata di seggio da un'altra, e questa da un'altra ancora, e cosi di seguito! E in moltissimi, anzi infiniti casi non ai sapeva neppure dove posare il piò con sicurezza. Il Muratori continua: ^Se voi volete per una opinione dieci o più autori, date tosto di mano al card. Tosco, al Castejon, al Sabello: gli avete in pugno. Se vi occorre la contraria opinione, ed altri dieci e più, che la fiancheggino, voltate carta, e felicemente ve li ritroverete. Quella è una bottega di rigattiere, dove ognun traeva quello ch'ei cerca, fatto al suo dosso „. Altra volta la chiama ^ un magazzino di confusioni, onde possono prender ar- mi, amici e nemici per fiatr battaglia fra loro„. Il Muratori descrive anche tutto il male che ne derivava: da un lato la infinita quantità delle liti, dall'altro la nessuna certezza dei giudizi. * Misera dunque esclama egli in un luogo *- la condizione di chi dee litigare! Egli si crede di andar a pic- chiare alle porte della giustizia, s'accorge, che va a mettere il suo alla ventura di un lotto ».

Un altro difetto consisteva nel grande arbitrio che le leggi lasciavano ai giudicL II Muratori avverte : Le cose riservate all'arbitrio dei giudici sono tante, che dopo averne trattato Bart. Cil)olla, anche il celebre Jacopo Menochio empiè due tomi De arbitrariii ludieum quaesUanibus €t eausis; ma esse dovevano intendersi riservate alla prudenza dei giudici per il bene del pub- blico. Invece se ne servivano per giunta nelle questioni del tuo e del mio. E per vero, si credeva che il magistrato potesse

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anche giudicare secundum opinionem minus probabdem : il che già Innocenzo XI aveva condannato. Alla fine i giadici erano divenuti "' padroni ed arbitri della giustizia, figuiandoà esà di poter in buona coscienza seguitar più questa che quella opmi> ne, e dar la vittoria piuttosto a quel litigante lor caro, che al- l'altro, in una occasione, e fare l'opposto in un'altra di somi- gliante materia ,, . Il Muratori si fìi forte, a questo proposito. della opinione del Fusari, del Cencio, del Gutierez, del Bini- naldo seniore, del cardinale De Luca.

Inoltre, accadeva troppo spesso che il giudice sacrificasse li giustizia col pretesto dell'equità ; perchè, sapendo di poter giz- dicare secondo l'equità, qualunque cosa gli paresse più convene- vole, la decretava senza più, sentenziando ohe Tuomo dovesse piuttosto far cosi che in altra maniera ; in sostanza finiva col gua- stare i patti, anche non dolosi ed espressi, col non attendere i giuramenti e col riformare gli strumenti e il gius scritto. Il Mu- ratori si scaglia in particolare contro una massima, che era ii voga ancora a' suoi tempi, e che si trova espressa in questi te> mini dal Deciano : in dubiis valde et perplexis quctesUanibui ixct- satur iudex si prò amico indicai; in prova di che il Deciano cita l'autorità di papa Innocenzo e. ne inniiaris de Const., e quelli del Baldo e dell'Afflitto. È il punto, che una volta si chiamavi dell'amico. Il Muratori osserva giustamente, appoggiandosi qie- sta volta ai teologi, che non era la conoscenza o persuasione delli giustizia che muovesse un tal giudice a giudicare, bona Taffero o la passione, il che non doveva esser lecito.

Un altro inconveniente era la lunghezza delle liti.

E i rimedi?

6. Il Muratori ne propone parecchi. In primo lucz> avrebbe bisognato ridurre le leggi, togliendo le oscurità, che ì: notavano in moltissime, e le antinomie, e risecando il super- fluo, che oggimai non serviva a checchessia. Le leggi si sa- rebbero dovute scrivere in volgare. Quant'è al mare magn''> della giurisprudenza, egli coltiva per un momento l' idea, se n '- fosse ben fatto ed utile di tornare al divieto di Giustiniano, e riserbare tutto lo studio degli avvocati e giusdicenti al solo te- sto delle leggi, con bandire e sterminare la folla di tutti i se:. interpreti, trattatisti e consulenti. Infatti non mancavano eseri- pi anche recenti. Sappiamo già, che Vittorio Amedeo ave^s

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nel 1729 espressamente proibito agli avvocati di citare, nelle loro allegazioni, veruno dei dottori ed ai giudici di deferire alle opinioni di essi, sotto minaccia di pena. Lo stesso ordine era stato emanato da un duca d^TJrbino ne' suoi Stati ; e da lungo tempo si praticava in Francia, in Inghilterra, a Venezia. An- che buona parte degli statuti delle città d'Italia si trovava faenza interpreti, e nondimeno i giudici ed avvocati se ne ser- vivano continuamente, adducendo invece le ragioni che face- vano al caso. Il Muratori si domanda: perchò non si dovrebbe fare lo stesso anche col gius comune? E nondimeno non crede che il rimedio possa approdare, perchè il divieto di citare autori nelle allegazioni, non avrebbe impedito ad alcuno di pescare nei loro libri; e si sarebbe continuato a sciorinare questo o quello squarcio del Menochio, del Barbosa ecc., salvo a non ci- tare il nome dell'autore. Infine, sarebbe stato necessario di farla finita con le loro opere; ma egli rifugge da questo rime- dio estremo. Non s'arrischia di condannare alle fiamme le fati- che di tanti legisti, specialmente perchè teme che, spoglian- done il fòro, avrebbe potuto restare più che mai in arbitrio dei giudici il sentenziare a loro talento. E poi tra quei legisti si contavano tanti uomini insigni! Quanto agli altri, non sarebbe htato un gran male di sopprimerli; ma quelli?! Inoltre chi avesse voluto farne una scelta si sarebbe trovato in un ben grave im- barazzo. Piuttosto egli pensa che avrebbe giovato di decidere uffieialmenie i principali punti controversi; e ne fa appello ai principi perchè vi provvedano, col maturo consiglio de' più dotti e savi. D^altra parte, non doveva riuscire tanto difficile di rin- venire tali controversie, almeno quelle che si portavano più fa- cilmente davanti ai tribunali, perchè stavano già raccolte in più libri; e cita specialmente quelli del cardinale Tosco e del Sabello. Naturalmente si avrebbe poi dovuto esaminare con ac- curatezaMi il prò e il contro di ciascuna.

Insieme vuol sottratto ogni arbitrio alla magistratura, specie quando si trattasse di giudicare di questioni di proprietà. Una nms>ima che avrebbe voluto inculcata, era questa: che nelle cause civili il giudice fosse tenuto in coscienza a seguitare l'opt- nione più probabile, e non gli fosse permesso di attenersi ad una opinione, anche probabile, qualora per la contraria ci fosse maggiore probabilità. Suggerisce inoltre di restringerne la fa-

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ooltà di sentenziare secondo equità; e vuole espressamente ban- dito il punto deiramico. Infine deplora che non si usasse in ogni tribunale ciò ohe pur si usava dalla Rota Romana: che cioè i giudici avessero da motivare, ossia sinceramente esporre nei contraddittorì, o allorché i giuristi andavano ad informarli. quelle difficoltà che loro occorrevano contro le ragioni dell'una parte, e i motivi d'inclinare piuttosto per l'altra. Quel costume di motivare, dice il Muratori, era non meno utile alla coscienza del giudice che al bisogno dei litiganti.

7. Tutto sommato, il Muratori, parlando dei vi^ e difetti della giurisprudenza, ne accagionò insieme le leggi e gli inter- preti e il fòro. Per contrario due famosi professori napoletani tolsero a dimostrare che il difetto era tutto del fòro. Togliamo alludere al Cirillo e al RapoUa. L'opera del Cirillo ha per ti> tolo: Osservazioni sul trattato di L. A. Mtiraiori ^ de i difetti della giurisprudenza ji ^ Napoli, 1743; quella del RapoUa: Difts<i della giurisprudenza, Napoli, 1741: e delle due la seconda f: più efficace. Senonchè, chiunque aveva cognizione dei fatti e un qualsiasi presentimento dei tempi nuovi, che si matura van > incalzavano, dette ragione al Muratori, che precorse cosi V^t% di ben augurate riforme. Di questo avviso era il Delfico. In- fatti, anch'egli, d'accordo col Muratori, nota che a' suoi tempi ^i usava poca giustizia, e che il lagno era generale. Soltanto si disputava circa le cause di questo disordine. Molti l'attribvLi- vano alla malizia ed ignoranza dei forensi ; ma il Delfico risale più in su e ne accagiona addirittura le leggi. Abbiamo, dice egli, cinque specie di legislazioni differenti, cioè romana, canC'- nica, feudale, nazionale e municipale, e dalla perfetta scienza di esse à costituita la giurisprudenza. H chiaro uomo ag^unge. che, per farne l'acquisto e per saper bene tali leggi, si richie- dono infinite cognizioni antecedenti, e che la più lunga dorata della vita non basta a tanta istruzione. Perchè dunque pigliar- sela coi forensi? Il Delfico esamina eziandio se e quale valore abbia veramente il diritto romano, che la maggior parte si osti- nava ancora a considerare come l'arca santa. Egli lo studia nelle sue varie fasi storiche colla scorta di Pomponio; e il ri- sultato, a cui arriva, è questo: che si tratta di una giurispru- denza incerta, irregolare ed arbitraria : anzi aggiunge, che fu il più funesto retaggio lasciatoci dai secoli, e che il popolo, che

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oe lo tramandò, non oonobbe mai i veri prinoipi della legista* zione. Le Ricérche, oh'egli scrìsse, $ul vero carattere della giu^ risprudema romana e de' suoi cultori, sono appunto dirette a questo fine. Hanno tutta l'aria di una requisitoria ; e non sono neppure immuni da certa passione, che turba la serenità del giudizio. Ma ciò non toglie che il libro possa avere avuto la sua importanza. Certo, corrispose ad una tendenza, ohe, ap- puuto in quei tempi, cominciava a manifestarsi contro il di* ritto romano. Ed ebbe anche una certa fortuna. Pubbli- cato dapprima a Napoli nel 1791, contò in breve tre edizioni. Abbiamo sott^occhio la terza, dell'anno 1815.

In ultima analisi, erano nuovi orizzonti e più larghi, che uou quelli del diritto storico, verso i quali la ragione umana oggimai anelava di spiccare il volo: era il diritto razionale e speculativo, che mirava a sostituirsi al diritto storico.

CapoU. La filosofia della rtvoUisgione.

§ l. - LE IDEK FRAN'CESI. "

1. Le ricerche scientifiche intorno all'idea del diritto, <|ual principio generale della vita sociale, sono antiche : comin- ciarono fin da quando la filosofia comprese che tutte le cose potevano ricondursi a principi semplici e puri. Cosi si trovano (h'esso i Greci e presso i Rouiani. Nel medio evo vennero ri- pigliate con la filosofia scolastica; ma fu soltanto nei tempi mo- derni che si svolsero ad una scienza speciale.

•* BlblloSTana. Bauhkb, UtUr die geéehieKUiehé SntwUkltmg der Bé- ariffe von Rechi, Staai und PoUiik, 2' edis., làpftia» USStiL Wstsbu G^eehiehU der St€MUìri$Éeti9ehaften^ Stuttgart, 1H82; 9 Toltimi LsRMinia, De linHuenee de iavhUoeophió du XVlll eièeìe $mr la UgieliUiitn ei la eoeiabUUÌ du XtX, PArì4| ì^<So, ìf ATfBt, Iliaiaire de* doctrimee inoraUe ei potiiiqmee dee troie demterè ai^ ette, PurU, 1H8B-87, 8 Tolomi. HAauAHi, Delia etoria della jUoeq/ia del diriUo, Ha^ivnameniOf Napoli, ltU7. Ca^miovavi, Storia delle origini e dei proaréem drUa jUoeo^a del diriiio, Lnooa, 1H5L SrAiL, Storia della JUoeoJta del Jitttto^ trmdotU dk P. Torre annokbU (U JL Oonforti, Torino» 1S6IL 2 Toloini. Fic«t« h \U Die phiUeophiechen Lehren «<m Uteht^ Siaai w Sitte inÌMfUeehlwèd, Frarnh- rfv'fi «. Jingland von der M%iU dee XVIH*»^ JahrK hie wmr Qegenwart ^-^^T^t, iHfiiX BLuirrM nm Geechichie dee aUgemeinen StaaiereekU «. dir PoUiik, MOa* chcD, IdM. BAam, IHetoire dee idéee moraUe ei poliiiquee en Franee ma dix-hmi-

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Lutero insiste sulla efficacia pratica del gius naturale. Egli osseryò nel suo trattato DeU'atUarità secolare (1533): "• Noi dob- biamo agire in modo .... ohe la carità e il diritto naturale 8tieno sempre a galla. Perchè se deciderai secondo la carità, potrai conoscere facilmente ogni cosa e giudicarne, senza bisogno di libri giuridici. Ma se perdi di mira il diritto della carità e della natura, puoi star sicuro che non ti riescirà più di azzec- carla in modo da piacere a Bio, quand'anche ti fossi ingoiato tutte le leggi e tutti i giureconsulti : anzi ti trarranno sempre più in errore, quanto più ci metterai di studio. Un indizio veramente buono non si deve pronunciare, si può, coi libri in mano, ma liberamente, come se non ci fosse alcun libr:*. D'altronde questo libero giudizio ci è porto dalla carità e dal diritto naturale, di cui ogni ragione è piena . Poco dopo do- veva formarsi tutta una scuola. Particolarmente le guerre di religione avevano fatto sentire la necessità di cercare una le^ge del giusto e dell' ingiusto, che esistesse indipendentemente dalle leggi positive; e appunto con lo scopo di restringere i mali della guerra, Alberico Gentili, sullo scorcio del secolo XTL lanciò nel mondo il suo libro De jure belli (1598), e un po' più tardi Ugo Qrozio scrisse il suo De jure paci$ ac belli (1625^ due opere che determinarono il nuovo indirizzo. Specie il trattato del Grozio ha fiotto epoca ; e da esso si suole datare l'origine del dir iti* naturale, che dominò d'allora in poi assoluto per ben duecento anni. Secondo questo scrittore, l'uomo è un essere enùnen- temente socievole, e tutto ciò che lo aiuta a raggiun^re I3 scopo della sociabilità e giusto, mentre ciò che vi si oppone è in- giusto; e l'una cosa e l'altra vogliono essere dedotte dalla na- tura umana per mezzo della ragione. Su questa via continua- rono poi altri; onde, si credette di aver trovato un diritto ori- ginario ed universale, una specie di panacea conveniente a tutti

tièmt nèeUf Fuìb, 1865-67, 2 voltiini. Jahst, Hidoire de la 9cUnce poUUqmg dans 9t9 rapporta avee la morale, 8' edit., Parìa 1887, 2 Tolumi. Pollock, ^m iktr^ dueUon lo the Hietory of the Science 0/ Poliiies, London, 189Ql Jota.I7, Lajfhi^ loeophie en Franee penaant la réwduium {1789^96), eon inAuenee sur arnesi- tuiione politiques etwidiqueej PanB^ 1892. Lichtshbsboss, Le eodaUeme et ia r^ volutùm Jran^iee, Mude tur tee idéee eodalietee m Fra/nee del 1789 à 1796, Pm- zis, 189Ì. Alux, La philosophte du droit de F. J. Stahl et la phUceophie de Za revolution francaise (negli "Annales de T Ecole libre dee aoiencee polìtiques, Xn, 1). Bkt, Inflitenee du contnU aocial de Boueeeau tur lee idéee et ls9 incé- tntione poliUqwu, Paria, 1898. Del Vecchio G., La diMaramane dei diritti d<^' Vuomo e del cittadino nella rivolmUone franeeeCj Oenova» 1908.

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i luoghi e a tatti tempi, salla quale le stesse leggi positive avrebbero dovuto regolarsi. In breve, ne derivò tutta una op- posizione scientifica contro le leggi vigenti; e giova confessar- lo: nonostante le sue esagerazioni e i suoi traviamenti, la scuola ha dato veramente ottimi frutti pel miglioramento del diritto e dei rapporti sociali.

Ma fa specialmente nel secolo XVIII che gli studi filosofici conferirono potentemente alle riforme ardite e sapienti, talvolta capricciose, spesso repentine, che si vennero compiendo, allo scopo di riordinare la società e anche l'amministrazione sopra basi si- cure, ed assegnarle procedimenti onesti di eguaglianza e di giusti- zia. In brevi parole, è una nuova società e una nuova cosa pub- blica, che si sono formate o si è cercato di formare in quel tempo mercè la filosofia. Ma siamo giusti. Il centro di questo gran moto non risiede in Italia : V Italia è piuttosto tratta al rimor- chio, come lo sono del resto anche altre nazioni europee ; il cen- tro è propriamente la Francia : è che le nuove idee vanno ela- borandosi e di si difibndono a tutto il resto d'Europa. In- som.ma è la Francia che trascina tutti irresistibilmente.

2. La nuova filosofia, che possiamo chiamare della rivolu- zioìie^ e sulla quale amiamo d' insistere, ha la sua radice nell'em- pirismo di Locke (1672-1704), che viene via via svolgendosi fino a distruggere tutte le basi del mondo morale e religioso. Qià Condillac (1715-1780), pur prendendo le mosse dal principio, che tutto il nostro sapere è frutto dell'esperienza, finisce nel sensi-- smo o sensualismo, che voglia dirsi. La stessa riflessione, che Locke aveva distinto dalla sensazione, come una seconda sor- gente delle conoscenze umane, non è per lui che sensazione ; e cosi tutti i procedimenti spirituali, compresa la combinazione delle idee, diventano tra le sue mani semplici sensazioni modi- ficate. Infine l'uomo, cosi concepito, è già disceso dal suo seg- gio fino a confondersi con le bestie ; e lo ammette lo stesso Con- dillac quando nota, che l'uomo è un animale perfetto e l'ani- male un uomo ancora imperfetto: nondimeno non si arrischia a sostenere che l'anima è materiale e che Dio non esiste. Ma ci voleva ben poco per arrivarci. Se la verità, o ciò che è, non può concepirsi che mediante i sensi, basterà invertire il principio e si avrà la tesi del materialismo: soltanto ciò che cade sotto i sensi é, ed all' infuori della materia non esiste assolutamente altro.

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E già Elvezio (1715-1771) ha ricavato le conseguenze morali del sensismo. Oondillac aveva sostenuto teoricamente, che ì io di ogni uomo, cioè tatto ciò che sappiamo, non è che la colle- zione delle sensazioni avute ; ed Elvezio continua a dire prati- camente, che anche tutto ciò, che vogliamo, è determinato dalle sensazioni: cosi proclama, che il principio della morale non può essere se non di appagare le voglie dei sensi, e che 1a virtù non ò altro che l'egoismo saggiamente inteso. Notiamo che la li- mosa opera De V esprit ha veduto la luce nel 1768 ; quella Ik l'homme des ses facìiltis et de san éducaiion fìi pubblicata nel 1772, dopo la morte dell'autore. Altri, come il La Mettrie e il D'Holbach, vanno anche più avanti. Specie il barone B'Holbacli (1723-1789) ha formulato la dottrina del materialismo con grande serietà, molto ordine e precisione scientifica. Il Sistema dell'i Naturaj ch'egli pubblicò nel 1770 sotto lo pseudonimo di Min- baud, si propone di dimostrare che tutto è materia e moto; e che ambidue vanno congiunti inseparabilmente. Che se la ma- teria riposa, è perchè si trova impedita nel suo movimento; ina è tutt'altro che una massa inerte. U moto stesso è doppio: è attrazione ed è ripulsione, ed appunto col suo mezzo si veri£- cano tutte le combinazioni e modificazioni e la grande varietà delle cose, secondo leggi ei^erne e costanti. il mondo morale è foggiato diversamente : l'amore e l'odio stanno qui come Tat- trazione e la ripulsione ; e ciò che nella natura si dice inerzia. in noi è egoismo. I corollarì di tutto questo sistema sono : ch^ bisogna farla finita con la credenza in Dio, sotto qualunque for- ma sia stajbo concepito, sia. come persona (Clarke), sia come so- stanza (Spinoza); farla finita con l'anima umana, che non esi- ste, mentre il pensare e il volere non sono che modificazioni del nostro cervello. tampoco si deve credere che l'uomo sia li- bero o immortale. Egli non si distingue affatto dagli alili es- seri della natura: come questi, cosi anch'egli, non rappresenta che un anello della grande catena del mondo e uno strumento cieco nelle mani della necessità. Quant'è alla immortalità indi- viduale, si tratta di una ipotesi che non ha senso: tanto var- rebbe ammettere ohe possa sussistere una modificazione dopo che ne sia scomparso il substrato. A ben guardare, non sussiste al- tra immortalità air infuori della memoria dei posterL E le oon- seguenze pratiche di tutto ciò ? Le annuncia lo stesso D'Holbach:

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mentre le idee dei teologi non fanno che impaurire l'uomo, e inquietarlo, e tormentarlo, il sistema della natura lo libera da questi spauracchi, gli insegna a godere la vita, e a sopportare la sua sorte, qualunque sia. Quanto alla morale, per essere efficace non può fondarsi che sull'amore di so, ciò è a dire s ull' interesse. Essa non ha che da mostrare all'uomo dove il suo ben inteso tV teres$e lo può condurre: che se egli vi provvede in modo, che anche gli altri vi debbano cooperare in vista del loro proprio temaconto, sarà un uomo buono; e così il si:3tema dell'interesse fìnii^ce col diventare uno stromento di unione.

Il Sistema della Natura è stata l'ultima parola della filosofia sensista; ma in sostanza non ha fatto che dire chiaramente ciò che molti covavano dentro, sebbene non osassero di afiermarlo. Il che non significa che altri non ne rimanesse come allarmato: non diciamo del partito religioso, ma di quelli stessi che stavano alla testa del movimento. Basterà ricordare Voltaire e Rousseau.

Voltaire non era ateo. Grande artista egli stesso, non sa- peva spiegarsi il mondo senza un artefice, e disse un giorno che se Dio non ci fosse, bisognerebbe fabbricarlo. Ne andava tant'ol- tre da negare la immortalità dell'anima, quantunque a volte ne dubitasse. Più tardi, quando Elvezio mise a nudo i principi morali della scuola, egli sconfessò la logica inesorabile del disce- polo. Quant*ò al materiali'^mo, disse addirittura trattarsi di una pazzia. Parimente Rousseau ha combattuto il materialismo ateo, e, contrariamente alle teorie dominanti, non volle l'uomo schia- vo dei sansi. Proclamò anzi altamente, che il suo più nobile attributo nra di essere il primo motore e il principio libero e responsabile de' suoi atti, e finì col guastarsi con gli amici, seguire la sua strada, pur rimanendo fedele al pensiero della rin- n )vazione, che infine ora il pensiero dell'epoca.

3. Resta una domanda : come sia avvenuto che l'empirismo si svolgesse in Francia fino alle estreme conseguenze, a cui Io ha portato il barone d'Holbach, e fosse accettato da molti, e ad ogni modo si manifestasse una si energica opposizione contro tutto ciò che esisteva? La ragione si trova tutta nelle condi- zioni speciali del popolo francese e dello Stato prima della rivo* 1 azione. Quel sistema estremo, che riesci va alla distrazione di tutte le basi della vita morale e religiosa, corrispondeva alla dissoluzione generale delle condizioni pubbliche e sociali del

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tempo, ed emanava direttamente da essa. Lo Stato fittto dispo- tico; la Chiesa ridotta ad una clerocrazia ipocrita e invadente; la morale corrotta fin nel midollo, specie per l'esempio che ve- niva dall'alto ; tutta la vita spirituale colpita come da insanabile marasma. Ecco le condizioni del tempo; si creda che esa- geriamo : fu una dama francese che, parlando del sistema di £1* vezio, disse che svelava le secret de taui le monde. Ora, aj^unto in un simile momento solenne della mina di tutto qsesto mondo spirituale j si comprende che gli animi dovessero rifìigiarsi nella natura, considerata come massa senza spirito, cioè come materia^ e l'uomo anelasse ad essa come ad oggetto delle sue sensazioni e delle sue brame. Ohe se molti, forse i più, non arrivavanv> fino all'estremo del materialismo, nondimeno convenivano tutti nella medesima idea, che urgeva di farla finita con ciò che c'era di servile e di falso nello Stato, nella religione e nel costume. Bastava che qualche cosa male si accordasse coi postulati delU ragione; importa che avesse profonde radici: se la ragione non trovava modo di giustificarla, bisognava abbatterla. Intanto la si colpiva di discredito. Era tutta una insurrezione che >i proclamava, persino contro gli idoli del mondo, che volevasL richiamare alla coscienza della propria autonomia; e pur di set- trarsi all'afa presente, si viaggiava con la fantasia in regioni lontane: a Sparta e a Boma, magari nell'India e nella China, in cerca di una forma di società più semplice e che si accordasse meglio con la natura dell'uomo e con la ragione.

Anche Voltaire e Rousseau, nonostante che sconfessino il ma- terialismo, sono e combattono in quest'ordine d'idee, strenua- mente, e anche più degli altri, si da parere i due uomini più influenti del secolo.

Voltaire (1694-1778), poeta, storico, filosofo, scrittore univer- sale, ricco di passione e di uno squisito buon senso, si nìolti- plica con la sua attività febbrile, chiama tutte le idee umane a sindacato, e si asside giudice inesorabile in mezzo ad esse^ forte dell'arma che gli aveva consegnato Oartesio: il principio del libero esame. Tutti i suoi sforzi sono appunto diretti a questo fine: di emancipare il pensiero, specie dalla servitù del- la Chiesa, che attacca e combatte abilmente, senza posa, anzi con furore. Ecrasez l'infame^ è il suo grido di guerra; e non lascia intentato mezzo pur di raggiungere il suo scopo, e ogni

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arma gli serve: la frasta, del pari ohe la satira e l'ironia amara e secca, che colpiva a sangae anche più della frusta.

Il realismo satirico e dissolvente di Voltaire trova poi il suo compimento nell'idealismo sentimentale diBousseau (1712*1778). Il quale non combatte soltanto la Chiesai ma la stessa religione rivelata, a cui vuol sostituita la religione del cuore; e insieme combatte la educazione eunuca del secolo e la corruzione, e quel- l'altra autorità, a noi trasmessa dal medio evo, ohe Voltaire non aveva creduto di attaccare, che aveva anzi accarezzata, forse per ridurla a cospirare con lui contro la fede religiosa: la po« tenza ereditaria del trono. Rousseau vuole che si torni allo stato di natura^ perchè in esso è V innocenza, la libertà e l'ugna- glianza, la felicità e la pace. L'uomo è un essere naturalmente buono; ma l'educazione ordinaria lo guasta: quindi egli pro- pugna l'educazione negativa, la quale, se non la virtù, al- meno previene i vizi ; se non insegna la verità, per lo meno pre- serva dall'errore. E lo stesso principio gli serve a costruire tutta la sua politica. L'uomo è nato libero; e se lascia la indipen- denza selvaggia, è solo per un atto della sua volontà. Cosi lo Stato si fonda sul contratto, e la sola vera legge è la volontà generale, che alla sua volta è formata da tutte le volontà par- ticolari. Egli sostiene questo principio studiando l'orfane della disuguaglianza ira gli uomini, e completa poi le sue ricerche col contratto sociale^ l'opera che ebbe più voga di qualunque altra e che più delle altre determinò il corso della rivoluzione, svolgen- do cosi il suo ideale di una democrazia pura con assemblee po- polari legislative, escluso qualunque sistema di rappresentazione. In una parola non c'era che il popolo, ohe fosse sovrano, e il suo capriccio doveva essere assoluto e senza appello.

Come punto e segno di raccolta di tutte le forze vive, che aderivano alle nuove idee, Diderot e D'Alembert inalberarono il vessillo della Eneyelopedie, incominciata a pubblicare nel 1749 e terminata nel 1772: insigne monumento delle idee, che do- minavano in Francia prima della rivoluzione, e di cui la Francia, a buon diritto, andò superba, come dell'opera che nettamente e splendidamente ne rispecchiava la coscienza, Enciclopedia^ fu ciò che per le nostre repubbliche medievali era stato il car- roccio : e per questo lato il merito di essa non sarà mai apprez- zato abbastanaa. Certo è, che amici e nemici vi scorsero il

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panto centrale, intorno a cui le sorti della battaglia si sareb- bero decise. It^ Enciclopedia si componeva di ventidue volmiii in foglio, e se ne tirarono 4260 esemplari; e non furono suzi- cienti! Bisognò pensare ad una seconda edizione ; e nn^altra n^ fu fatta in Italia, a Lucca, ancora repubblicana. Ciò che pi: monta, è T interesse con cui da ogni parte, si cercava di ponain il proprio contributo. Non sono stati soltanto i filosofi e i let- terati a porvi mano, ma ufficiali generali, magistrati, ingegneri: e i diseredati del pari che i gaudenti! Nel medio evo si eri andati pure a gara nello erigere qualche chiesa alla Madonna: adesso si trattava di ben altra opera, in cui tutto il passato d> veva venire giudicato in vista della scienza moderna e della libertà del pensiero. Pareva quasi che tutta la società francese si fosse data convegno colà, e T insurrezione è tanto più ammi- rabile, quanto maggiori gli ostacoli ohe il vecchio mondo le op- poneva. Certo, questi scrittori non potevano dir tutto; bisognava che tenessero conto della censura, che non c'era per nulla, e si schermissero, come meglio potevano, per non cadere nelle san- zioni della legge. Le quali erano tutt'altro che lievL Ancora una ordinanza francese del 1767 voleva punito nel capo Tautcr? di qualche scritto diretto à emouvoir les esprits; sicché il Duci:?, nel 1770, ossia quasi alla vigilia della rivoluzione, esclamava con profonda e fine ironia: Messieurs, parlont de Véléphant; c\s: la seule bète un peu considérable, doni on puisse parler en ct temps'Ci sawt danger. Fortunatamente dietro alla Enciclope<i:& stava tutto un popolo. Che cosa avrebbero potuto i gianse- nisti del Parlamento o i teologi della Sorbona ? Che cosa le cam- pane a stormo, che parve udire da Versaglia, annuncianti la per- secuzione ? La frase è del D'Alembert : on sonnait à VersailUs des tocsins.

§ 2. - IL MOVIMENTO FILOSOFICO ITALIANO. »*

1. Appunto con V Enciclopedia , lo spirito di una nuovà filosofia entrava in Italia arditamente, e vi trovava un terren:. propizio. Le condizioni sociali e politiche erano presaga pece

** Bibliografia Si veda la nota preoedente. Inoltre FcaaARiy C^tpg .«u-

gli «ertttort politici italiani^ Torino, Ì3BÌL Ci.yi.LLi, La 9eien9a politica «n ItmixA

Homi 4, Venezia, 1866, 73, 76^ 81 (dalle * Memorie dell'Istituto veneto «). P^s.

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\e medeBÌme; perche non si sarebbero aocettate le nuove teorie, ohe in realtà erano pullulate da esse, e che cercavano di ap- prestarvi eilicace rimedio? £ poi i pensatori italiani avevano prefiarato quel terreno. Cosi avvenne che, al contatto con le nuove ideo, le tradizioni delle vecchie scuole sparissero come per incanto. Avevano fatto il loro tempo: non corrisponde- vano più ai bisogni nuovi, che incalzavano da ogni parte; e bastò un soffio a spazzarle via.

Dmi, InjìmnMa dtUt UcrU JUo9ojUkt 9uUa civitià e moralUà Uoliana dal mto* lo XVI ai notiri giorni, Milano. IHrtC Poooi, Il pontiéro filotojieo ne* tuoi rap- porti colla rivilth e moralità italiana nelPopoca fnodema, Firtnae, 1884. BoMi, (ili Bcrittori politifi bolo^neti, Bologna, 188». Bava, La filosofia eiviU ejniiri- dica in Italia prima dtlla rÌ9oluuoné franeom. Proliisionei Milano, 1889 (dal ** Filangieri .). ~ Aggiungiamo alonni stndt ini pubblicisti citati nal teato. Sul Muratori può vedersi : MuKAToai G. F^ Vita del propoHo Lodovico Antonio Mn- ratori, Venesia, 175(>: un discorso dal BiLviouBai. La mta, le opere e i tempi di L. A, Muratori, Firensa, 1872; MasIc Da ai, L, A. Muratori eeonomieta, Bolo- gna, 1898 (dal * Oiomale degli economisti «) : BrnirA. // Muratori e la coltura napoleianm del §uo tempo. Proiasione, Napoli, 1902 (aaU* * AiohÌTÌo stor. per le provinoio napoleUoe, anno XXVI, 4); manca però tuttavia uno studio degno (loiruome. wu Pietro Verri sorìas^ro: Biamcbi, Elogio etorieo di Pietro Verri, l'romona, IHUS; Ct stoim, Notimie eulla vita del eo, Pietro Verri, Milano, 1848; Sai/- VàOKoLi, i^aggio civile •opra Pietro Verri nel yo\, I dagU Scritti del Verri, Fi- rcnie, tip. Lemonnier; Bouvt, Le Comte Pietro Kcrrt, Paris, 1889 e BooLirrn, l'n ìtomo di Stato milanese del eccolo $coreo. Pietro Verri (nella ** Rassegna natio- naie, anno XIII. KH). Su Cesare HtM:csria: Biomami, Sulle dottrine economiche di Cfare Jiercaria, Milano, IMI; (^ la bks, nella introdusìona alla sua tradusione t^ilovAdi C. B^ooiiris, CtUr Vcrhrcchen u. Stra/en^ Wien, 1H51; HtMB, nella in- trodus. alla sua troiiuziono francese del Beccaria, Ifee délite eldeepeinee^ 2* edil, P&ns, 1K70; ('Aifrr, iiercaria e il diritto penale, Firense, 1882. Inoltra si Teda: Ba- KKSA. l'na pagina della vita di BercariOy Milano, 1878 (** Memorie del reffio Istit. lom Ciardo, sono III, voi. IV); FBaai« I)a Ceeare licccaria a Franeeeco Carrara, Prolusione, Bologna, 1H90 (dall* * Archivio giuridico.,); Vkiitcbi, Ceeare Becca- ria e le lettere di IHetro e di Aleeeandro Verri. Ancona, 1W2; Villabo^ Beccaria tt la riforme venale, Disoours, Nancy, 1H92; Ambulino, Ceeare Bccrarta e le dot- trine penali, ni scorso, Napoli, 18R5, e Babadbz, JCtude eur Beccaria, Discouva, R4>«an<;on, l^H, Su Tamburini: Zi ba pelli, Klogio funebre del prof . Pietro Tom- hurini, Pavia, 1827. Su Bomagnosi: Sacchi D,, Hioqratia di G, U. Bomagnoei, Milano, 1H86 (nogli «Annali di sUtistica, XLV): PsaBAat, La mente di G. Z>. Huviaftnoei, Milano, 1886; Gahti', Notizia di G, D. Bomagnoei, Milano. 1886; l\r.h Boftso, Homagnoti criticato e difeso, Firense, IHBH; 0 Air ambo. Delle aottrine di Ifomagnoei (n«*lìe opere, voi. VI, Firenze lrtir2); }soy k. Bio^afia di G, I). Bo- (j.toW, e anche De/U censure dell* ah, Bosmini centro la dottrina religioea di G, />. Bomagnoei, Milano, lH-12: Db Oiubgi, Bioorafia di G. D. Bomagnoei e catcH lago delie sue opere^ Parma, 1874; Ktiattvhi, VoIìsmb storica di G, j>. Bomagnoei eunsuierato precipuamenU covic matematiro, Firense, 1878; Lbvi, Del carattere mr^flio determinante la tiloso^a di G. ÌK Bomagnoei veduto speeialmente nella dot" trina jUitMofiea del diritto, PArma, 1885; VADALA-PArALB, La futmione organica dfHa Moeieià e dello StMo nella doUrina di G. Ih Bomagnoei, Koma, 18H7 (dalla * Rivista Italiana per 1^ scienre giuridiche. HI); Ob MAariBo, Saggio euG. D, /ftfrri<i7no«i, Napoli, 1HH7; Valbbti, Le idee cconomieSc di G, D. Bomagnoei^JBJ>- ma, \^M\ ToMMASivi Q., />• noeianc del diritto amministrativo nclV opera di G, I). Bomatrnosi.Vurm^ \^H\ Piuv La filoso^ vivile di G, D, Bomagnoei (nel *Kil.iiigiori. XVII, 4 f* ^ lMr2); Tamassu, Ò, D, Bomagnoei e la moderna fi- h„uA*$f Padova, iMdT Magli "Atti deirAccad. di Padova. XIII, 1); Babtolq. Mrt, I}cl significato e del valore delle dottrine di Bomagnosi per il critidemo con- t* mporancò. Roma, 19>)1; D*A(«r'4HMu, Gian ìfom. Boma<fnoet filoso/o e qiurecon- su lo, Pal«*nuo. liftia (noUa *Bi vista di storia e filosofia del diritto» voi. li); H<*«ASo. La dottrina della ragione e la ^lost*4a civile in G. ÌK Bomagnosi (nella *Kivista ital. di sociologia* , anno VII, 18i]é). Su Genovesi: Ataixi, Delle dot»

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Soltanto gioverà notare che la filosofia francese, tn le mKÙ degli Italiani, perde tutto ciò ohe presentava di scabro: si pu- lisce, 8Ì affina, s'ingentilisce; e dall'altra parte ci rimetta un poco della saa coerenza logica. Ma anche ciò parrà naturale! Perchè ripugnava all'indole dell'ingegno italiano di ridurre tutto a sensazioni, e &re della morale un capitolo del torna- conto. Il che, se vogliamo, era segno di maggiore idealità. In:!- tre le condizioni italiane stridevano molto meno di quelle di Frai-

trine JUoioJUthe tul diritto di A. Otnaveti, Torino. 1869; P^dula, Elogi» fiC AnL Genoven, Napoli, 1869; RjiOioppi, Antonio Cfenoveaif Napoli, ÌSII; Gioi^is. LaiUoBofia eiico-gturidiea di Antonio Oenoveti, Città di GasteU^ 1897eGEvnK. Dm Genonen al Galuppi: rieerehe $torichù, Napoli, 1908. Sul Filanàeri: Bus- CHBTTi, Elogio a Gaeta/no Filangieri (negli *£los;i„ Treviao, 1826); Di IX v:^- cis. Gaetano Filangieri e l*idea dello Stato nella fioeofia italiana del eeeolo l^ld, Bologna, lti73; Villabi, Intorno ai <empt ed a^i Hudi di O. Filangitri. Di*X':»'i

frameeeo alla ristampa della **8oienj» della iJegialasione* FirenM, Lemonnie: 864; Imbimbo, Della^ vita e degli eeritti di G. Fikmgim. Stadia Na^li, !:$> yi.LDAKHuri, La ragione delle leggi eeeondo il Mont^iqmieu e il Filangitri .r-^ ** Nuova Antologia- eerie III, toI. XXIX, 1890) e Todchabd, Un pmblviA( lia- lien au XVIII* siede, Filangieri et la edenee de la légielation (nella * No^^^^f Bevue histor.. XXY, 8 e 4, 1901). Sull'abate Galiani: Diodati, La wìù <ìa.' Vah, Ferdinando Galiani, regio ooneigliere, Napoli, 178b; MjLBOium, L*'-^ Galiani. Conferenaa, Nanoli, 1878; Mattbi, Galiani ed i emai tesipt, Napoli, b> Albonico, Ferdinando Galiani ed il emo tempo. Discorso^ Ghìeti, 1881; Pi^'^- Sulla vita e aulle o^^e di Ferdinando Galiani, Napoli, 1885; BATTAeLcn. -n Ferdinando Galiant eeonomiata del eccolo XVIIL Gindizi, Chieti. 18B7. Su F ^ tro Giannone: Ferra.ri, La mente di Pietro Giannone^ Milano, 1868; Bcik:% Del Triregno di Pietro Giannone. Breve discorso, 2^ edia^ Napoli, 18ai;P:ii'J- Toiri, Autobiografia di Pietro (Hannone, I suoi tenun, la su» prigionia^ Bccj. 1890; Lo 8TB8S0, Lo sfratto di Pietro Giofmone da Venemia. Aato-nanazioic '-

? refazione e documenti inediti, Boxna, 1892; Lo stesso, Pre&sione alle o^-er* i tribunale della monarchia di SicUii»^ Roma, 1892 e il Triregno, Boma, h^^ Bob ACCI G., Saggio sulla storia civile del Giatinone, Firenae, 19Q6w Sul Fj> broni: Mcbdaibi, Giovanni Fabbroni {1752't822), coniributo critico ali<» K^m dcU^ economia politica in Toscana, Firense^, 1897. Sul Bandini: Ds Stef.i SaUusiio Antonio Bandini, Firense, 1877: Toscabl Dell' economista senete ^• lustio Btndini. Discorso, Siena, 1877; Babdini F. G.j Noie e ricordi ifu-v-^ a Sallustio Bandini ed al suo discorso sulla maremma d% Siena, Siena, 18^. > - - rOrtes: Lahpbrtico, Giammaria Ortes e la scienaa economica al suo Umpv, Ve- nezia, 1865. Sul Mengotti: Bbbtaono, Elogio del conte Franceeco Mengotx F?>- tre, 1830; Facsb, Mengotti e le sue opere, Venezia, 1875 (nella Bivista Teneti . anno in, voi. VI). Su Spedalieri: DBCHAMPAOBr, Spedalieri (nel * Corres:-:i dant« del 1^8 e anche nella ra8Bep:na *Lo Spódalieri, n. 2, 1891); Lilu ì principi giuridici di Nic. SpedcUieri tn relazione alle idee proclamiate dalla r " - lusione francese. Prolusione, Napoli, 1887; Gimbau G., Nusola Spedalieri p ^ cista del secolo XVIIL Città di Castello, 188a 2 volumi; Lo stb^sj, Prefa: '- air^rte di governare ai N. Spedalieri, Città CU Castello, 1886; Lo stesso, .N > Spedalieri e la sua influenMa nel trionfo della moderna democrasia, l^ìogn^, K-- (dalla "Bi vista di dir. pubblico, £t); Masi, Nicola Spedalieri neUa «X. '- Antolo^a «serie III, voi. XXVITT, 1890 e nei "Nuovi studi e ritratti. B - gniu 1^: YadalI-Papale, // pensiero di N. Spedalieri e il secolo XIX (nel :*- riodico *il pensiero italiano « L896); Labaro a, Nicola Spedalieri e U vionuT\r^ in Roma (nella *" Bi vista d' Italia « VI, 1908); Tboilo, Gli ideali di Siooia >r^ dalieri, Bologna, 1908 (dalla * Bivlsta di filosofia e scienze afiSni ^ anno voL Ilo. Su Carli: Tamaro, Nel primo centenario della morie di G. B. Ci- > Discorso, Parenzo, 1896 (dagli "Atti della società istriana di AroheoL e St r-

1 .-

patria,, voi. XI, 8-4). Su vico abbiamo tutta una letteratura. Biooxdi&Tn opere principali: Michelet nel discorso premesso aUa tradux. della Sci*:: nuova, Parigi, 1827; L. F., Saggio sopra la scienza nuova di G. B, VuOf L-r no, 1837; Febbaei, La mente di Vico, 2^ ediz., Milano, 1854; Tommaseo, &-■«

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eia, e le difficoltà non parevano cosi forti e insormontabili, da ri- chiedere addirittura una rivoluzione per superarle. Certo, i piccoli Stati, in cui la penisola si trovava divisa, ne presentavano di molto minori; e poi, l'Italia non aveva avuto per nulla il suo batte- simo repubblicano. Da un lato conservava tuttavia una mag- giore uguaglianza civile, e dall'altro contava un minor numero di privilegi: tutto ciò era stato il frutto della sua storia poli- tica, e doveva in questi tempi rendere più agevoli le riforme. Da ultimo essa aveva avuto la fortuna d'imbattersi in alcuni principi, che sentendone il bisogno, vagheggiavano queste ri- forme, e si studiavano lealmente di attuarle.

Ecco perchè i nostri filosofi potevano conservarsi più idea- listi e insieme più temperati di quelli di Francia. Certo, ac- cettano anch'essi il sensismo; ma piuttosto come un metodo adatto a chiarire e divulgare le loro idee, che non come una dottrina; e mentre i Francesi si mantengono inesorabilmente e rudemente logici nelle loro deduzioni, essi si fermano a mezza via: comunque, rifuggono dalle conseguenze estreme. Ciò nel- l'ordine delle teorie. Ma le stesse teorie dovevano talvolta su- bire qualche strappo; perchè a differenza dei Francesi, che si erano più e più allontanati dalla realtà, i nostri volevano al

con appendice, Milano, 1856; Fagnani, DeManeceantà e dell* tuo della divinctzione te9tific€Ui dalla scienza nuova di G. B, Vico, Alessandria, 1857; GattjlhhOjSu la Bcienxa nuova di Vico, neUe * Opere edite e inedite voi. VI, Firenze, 1892: Si- ciLiAHi, Il triumvirato nella storta del pensiero italiano: Dante, Oalileo e Vicoj Firense, 1865; Frank, Sul De uno, nel ^Journal dea saTants,^ 1866, numeri di marzo e aprile; Cantoni, G, B, Vico. Studi critici e comparattvi^ Torino, 1867; Mablstta, Vico e la sapienza antichissima degli Italiani, Discorso, Siracusa, 1869; Sarchi. neUe prefazioni alla sua tradnz. delle opere: Dell'unico principio, Milano, 1866, e DetVcmtiea sapienza, Milano, 1870; Sbroi, Vico e la scienza della storia. Discorso, Palermo, 1872 ; Diendorfbb, Giambattista Vico u, scine Ideen, Pasaan, 1877: Vvbrnbr, Veber G, B, Vico als GeschichtmhUosophen u. BegrUnder der neueren tttUienischen PhUosophie, Vortrag, Wien, 1877; Lo stbsso, Gicmbat- tista Vico als PhUosoph u, gelehrUr Forscher, Wien^ 1879; Cucca, Del diritto se- condo la mente del vico nelle sue eUtinenze con la scienza prima ed ultima, Na- poli, 1879; Flint, G. B, Vico, Tradazione di F. Finocohietti, Firenze, 1888; Db Nicola, Introduzione alle scienze giuridiche, secondo G. B, Vico, 1, Napoli. 1882; Ursini-Scudbbi, G^. B, Vico come fondcUore della sociologia^ moderna, Palermo, 1888; VadalI-Papalb, Dati psicologici nella dottrina giuridica e socicUe di G, B, Vico, Boma, 1889; Cotuono, G^ittmbattista Vico, il stto secolo e le sue opere. Parte I, Trani, 1890; Giordano. Saggio sulle dottrine di G, B, Vico, Napoli, 1891; Lilla, Le supreme dottrine filosofiche e giuridiche di G, B, Vico rivendicate, Messina, 1894; YiLLARi, GianAaUista Vico (negli ''Scritti yarl„, Bologna, 1894) e La- BANCA; GiamÒ€Utista Vico e i suoi critici cattolici, Napoli, 1898. Su Mario Paga- no: Kerbakbb, Mario Pagano, Discorso, Napoli, 1870; Òttonb, Mario Pagano e la tretdizione vicchiana nel secolo scorso: sagffio storico-filosofico, Milano, 1897 e PiccioNB, Mario Pagano nel suo tempo e nella evoluzione degli studi sociali^ Bue- nos Ayres, ""^^^

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contrario giungere subito alle applicazioni, ed appunto per que 8te principalmente scrivevano. Ora, non è sempre vero in pra- tica che la linea retta sia la più breve; e il senno pratico doveva suggerire a quei nostri più d'un temperamento, che i**- teva parere, e forse era realmente, una nuova contraddizione, ma che d'altronde giovava a rendere più accettabili le k:: proposte.

Infine, se alcuna efficacia d' impulsi essi hanno avuto pei le:: tempi, certo è che più della rivoluzione, che irrompe e abbatta ciò che trova per via, rappresentano la innovazione, che non s: stacca dalle tradizioni; rappresentano il progresso, che, par g-iÀZ- dando all'avvenire, non spezza la catena del passato; rappre- sentano la riforma, che viene dall'alto più che dal basso. L Racioppi fa questa osservazione a proposito del Genovesi, ilì vale per tutti; perchè vuoisi notare come un fenomeno mele curioso, che mentre si provava tanto bisogno di libertà, non s. sentiva ancora abbastanza fiducia in se stessi, e si sollecitavs e aspettava ogni cosa dal governo.

2. I centri principali del movimento intellettuale itali&i. nel secolo scorso furono Milano e Napoli. Che se anche altroTr si ebbe una larga cultura, fu piuttosto di erudizione e di sciei- za; colà, invece, prevalsero le tendenze umane e riformatny. nell'ordine sociale e politico. Il Muratori, il Verri, il Becc&rÌÀ il Romagnosi, lo Zola, il Tamburini da un Iato; il Genovesi, l Filangieri, il Gkliani, il Giannone dall'altro: tutti i graLÌ scrittori politici del secolo scorso, fìirono educati a questa nuoTs filosofia; e vengono poi molti altri minori, che stanno interi: ad essi: il Briganti, il Galanti, il Palmieri, nel napoletane; :• Natale in Sicilia; il Lampredi, il Fabroni, il Bandini in To- scana; il Filati e il Barbacovi nel principato di Trento; TOr^ e il Mengotti nella Venezia.

3. Il primo a rivelare tendenze umane e riformatna quando pochi ancora vi consentivano, fu Lodovico Antonio M:> ratori (1672-1750). Celebre come storico, meriterebbe di esser!? altrettanto per questo suo liberale apostolato.

Fin dal 1714 pubblicò il libro De ingemorum moderati ^-^ in religionis negotio, che non riesci gradito alla Chiesa ; ma e: | non tolse che egli insistesse. Nel 1728 dio fuori il Trattato della carità crùstiana in quanto essa è amor del proesimo^ nel quale

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dimostrò oome il Signore gr&disoa più la virtù ohe non i doni d6i fedeli, e soonsigliò dal far elemosine a chiese non bisognose. Segai nel 1735 un trattato di Filo»ofia morale^ ohe la Spagna cat- tolioa pensò di proibire; poi nel 1742 un libro De superstitione vitanda. Quasi oontemporaneamente si fé' a studiare la Forza dellUntendimenio umano e la Forza della faniaria^ e terminò con alcuni scritti politici. Ricordiamo Topera Della pubblica felicità oggetto de" buoni principi, V Introduzione alle paci private^ infine // governo della peste. Il grande storico, ohe non aveva sdegnato di diventare giureconsulto, specie per denunciare i difetti della giurisprudenza de' suoi tempi, non isdegnò neppure di diventare fìloHcfo ogni qual volta credè ohe la sua filosofia potesse, in qual* che modo, giovare al popolo. Appunto perciò la presentò ^ de» purata da dispute metafisiche e poco utili che vi si erano bene spesso intruse,, mentre ansst doveva ^servir d'aiuto principal- mente agli ignoranti e meno dotti, che sono i più . £ si giovò soprattutto della esperienaa. In fondo, egli è un empirico; ma di un empirismo, che potrebbe dirsi originale e proprio, ancora lontano dalFempirismo lookiano, o d'imitazione, che in Italia l)enetrò più tardi.

Cosi combatte lo scetticismo nelle teorie del vescovo Pier Dar uiele Huet, uomo dottissimo, che dopo aver vagato di teoria in teoria, aveva finito col concludere che certamente una verità nelle cose doveva esserci, ma che Dio solo era capace di cono- scoria. E nello stesso modo costruisce la sua morale, fondandola sopra due principi. Ammette da un lato l'esistenza di una forza intima dell'anima, capace di discemere il giusto dall'ingiusto, cioè la ragione; e dall'altro insiste molto sull'appetito univer- sale o delia felicità, detto anche amor di noi steesi, che a sua ▼olla si trasforma in mille guise diverse e ci muovo e spinge a tante e si varie azioni, al bene come al male. Naturalmente la ragione deve regolarlo; e questo intervento della ragione è tanto più necessario nel cozzo, che spesso si verìfica, di appetiti diversi. In breve tutto si riduce al buon regolamento dell'amor proprio, e l'autore ne tratta a lungo e partitamente, in relazione ai Ningoli appetiti, per terminare con la polizia dei costumi, l'educazione e Tonore.

Ciò quanto alla filosofia morale. Altri studi suno diretti ai problemi eoàali. Il Muratori se ne occupa ripetutamente; e

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come, parlando di filosofia morale, aveva insistito stdl'a/^jit^i.*^ della felicità^ cosi in questo nuovo campo vagheggia T ideale della felicilà pubblica^ e suggerisce positive riforme, che i fn.i seguaci cercarono di attuare d'accordo coi principi. Egli stes^} si rivolge a questi. Insegna loro che cosa sia la pubblica ftìi- citàj e come il loro ufficio (il Muratori lo chiama mestiere coe- sistesse appunto nel procurarla ^ con prevenire ed allontanare i disordini temuti, e rimediare ai già succeduti ; con fare che sieno non solo in salvo, ma in pace, la vita, l'onore e le sostanze di qualsivoglia de' sudditi, mercè di una esaita giustizia: col- l'esigere discretamente i tributi, contentandosi di tosare le peo> relle, senza volerne anche la pelle, e inoltre col procacciare a! popolo qualunque comodo, vantaggio e bene, che sia in loro mano.. E passa in rivista uno per uno i vari fini della convivenza: da quelli superiori della religione, della scienza, del costume, a qne^: della vita economica: l'agricoltura, le arti, il commercio, r&i* nona e la moneta; discorre anche della giustizia e della milizii e finisce con le fabbriche, la pulizia, la sanità delle città e dtriir terre. Pei ciò che concerne la religione, già il Foscolo h avvertito come egli cercasse di " depurare la religione cristiau da molte superstizioni 7, e ** ritornare i e le nazioni alla in- dipendenza che era stata usurpata a essi dalla Chiesa di Eomi-

4. Altri scrittori però sono entrati già in pieno sensiic. e si vede chiaro che le teorie francesi avevano fatto breccia.

Sopra tutti troneggia Pietro Verri (1728-1796). Egli è no principalmente per le sue Meditazioni sulla economia poUtkG,r per la Storia di Milano; ma scrisse anche altro e fece altri. D'accordo con alcuni amici fondò un giornale. Il Caffè (17» 4, j e dalle sue colonne combattè audacemente ogni dieci g: ^| l'ignoranza e i pregiudizi, l'ozio e i fedecommessi, e i raggini dei legulei, e spiegò l'uso delle leggi, il concetto della giurij prudenza, l'utilità del commercio, l'ufficio del lusso. glionsi trasandare alcuni dialoghi acuti e profondi: Fra un vrano e un filosofo e Fra Federico il grande e Voltaire. Ti altro studio Sulla decadenza del papato in Italia e sul caratir degli Italiani aflfronta il grave problema che, appunto nel sed XVIII, teneva agitati i principati della penisola. Insieme tilj dagli archivi il processo degli untori e prepara sapienti ossene zioni sulla tortura; ma non le pubbUca per non dispiacere (

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padre, prasidente di quel tribunale, che mezzo secolo prima aveva condannato tanti sventurati.

La filosofia del Verri è tutt'altro che democratica e ispirata all'eguaglianza. Rispetta le distinzioni delle classi; e non am- mette altra uguaglianza, fuor quella dei propositi diretti al bene I oomune. Al quale dovevano tendere tutti, e i nobili prima de- ^ gli altri, sia con l'esempio, sia con l'occupare gli uffici pubblici nell'interesse del popolo. Del resto non si nasconde il marcio, che c'era qua e là, specie nelle classi privilegiate. Soprattutto segnala gli abusi e le usurpazioni del clero, che conducevano, dice egli, alla rovina di Roma; e la rovina di Roma era un danno per l'Italia! In mezzo a quella vita sociale irta di pri- vilegi, di che, ad ogni pie sospinto, si sentivano i danni, il Verri e altri si rifugiano nella libertà: non vedono rimedio che in essa, e la proclamano altamente e dappertutto. Riferiamo un brano del Verri, che mostra appunto il suo grande amore per la libertà .• Io sono persuasissimo che i posteri ci riguarde' ranno come imbecilli e come schiavi; commerceranno il gra- no^ il fieno ed ogni cosa liberamente; trasporteranno libera- mente il danaro dove vorranno; non avranno nessuna moneta bandita, ma tutte saranno le benvenute, basta che ci siano in ab' bondanza; non proibiranno V uscire dal paese a nessuno; lasce- ranno che ognuno nelle sue tasche porti un cannone, se può; per- metteranno che ognuno pensi, scriva e stampi i suoi pensieri o le sue pazzie, e contenti di punire gli assassini o calunniatori, non andranno a render tanto infelici i popoli e ad inquietarli tanto, affine di procurare la felicità e la quiete pubblica. Lo stesso Verri ha il presentimento della idea nazionale, che più tardi si farà strada. Egli dice in un luogo delle sue Meditazioni : Or- mai la libertà civile dovrà dilatarsi, rinascerà quando che sia l'antico vigore negli animi e l'antica guerra di nazioni e noìi di Principi, e per questo circolo passeranno in giro le nazioni cti- ropee, come le stagioni delV anno sulla terra. Quant' è all'Italia, sono memorabili le ragioni ch'egli espone in un altro suo scritto, per le quali nessun italiano, a qualunque provincia appartenesse, poteva dirsi straniero nella penisola. Non c'è dubbio: la patria comune grandeggiava già nel suo animo al disopra delle divi- sioni politiche ; ed egti ne sentiva il culto. Perfino la sua Storia di Milano s' inspira ad un concetto tutto nazionale. Il suo scopo

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è di mostrare come certi ordiBamenti venati dall'Austria, di cui si vantava la civiltà e l'amanita, avessero nna ben piùremot& radice e tutta italiana.

Cesare Beccaria (1735-1793) dava fuori nel 1764 a Livorno il libricoino Dei delitti e delle pene, che rappresenta tutta un& grande e formidabile reazione contro le leggi e le tradizioni me- dievali per ciò che riguarda i delitti, le pene, i giudizi, in pio degli individui e contro lo Stato, che per l'addietro non li aveva con- siderati che come uno stromento, perinde oc cadaver, in sua piena balla: una grande e solenne affermazione dei diritti individuali nel dominio penale, simile a quella, che altri aveva proolamato, e proclamava, nel dominio civile e politico. E di vero ce n*en mestieri ! E nota la sentenza del Montesquieu sul vecchio di- ritto penale : pour venger une action criminelle on en ordonnjit une plus 'criminelle encore. In Lombardia la giustizia criminale si reggeva ancora sulle ordinanze di Carlo V del 1532 e di Fran- cesco I del 1539. In generale, l' imputato si riguardava già come reo e nemico della società, e lo si colpiva senza difesa, senza dargli modo di giustificarsi, senza che la società sapesse perchè le era tolto, interpretando la legge nel senso più lato, con peir^ non uniformi per tutti, molte volte sproporzionate al delitto, fra le quali la morte, esacerbata da squisiti tormenti, i lavori pubblici, il remo, le battiture, il marchio, la scopatura, la de- tenzione in squallide, anzi orribili prigioni. Si aggixmga l'in- sana libertà lasciata ai giudici di aggravarle. La procedura era inquisitoria; le interrogazioni e i confronti a porte chiuse; 1^ sentenze si rendevano sopra gli atti verbali. La prova doveva essere materialmente affissa al fatto, e il giudice non aveva che a verificare le circostanze di fatto e il loro valore. Se c'era un titolo autentico, o la confessione giudiziale dell' imputato, o due testimonianze, o gravissimi indizi, il giudice li verificava e prc'- feriva la sentenza. Se la confessione era soltanto stragiudiziale. o si aveva un solo testimonio, o gli indizi parevano meno evi- denti, ne nasceva la prova semipiena, e questa non bastava a giustificare la condanna, ma poteva completarsi con la tortura. Ora, il Beccaria combatte tutto ciò^ senza molta conoscenza di leggi e meno di storia, come voleva il vezzo del secolo, cola sola scorta del raziocinio : anzi piuttosto declamando che ragio- nando, e neppure con molta arte; ma il suo libro appariva cosi

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pieno di alta idealità e di sentimento, cosi semplice e piano, e insieme cosi eloquente ed efficace nella sua semplicità, che varcò presto i confini d'Italia, s'impose ai pensatori d'ogni nazione, e guadagnò perfino i troni. Meno efficaci furono le sue Lezioni di economia pubblica (1769). Certo, non si può dire ch'egli ab- bia saputo inalzarsi sino ai principi fondamentali della scienza: che anzi ondeggia perplesso tra la dottrina dei fisiocrati e quella dei mercantilisti; e d'altra parte espone qualche buona idea sul- la solidarietà degli interessi umani, sulla funzione e importan- za del lavoro, sulla natura del capitale; e confuta vigorosamen- te corporazioni d'arti e mestieri, monopoli e privilegi.

Non molti anni dopo usciva a Pavia la Genesi del diritto penale di G. D. Romagnosi (1761*1835), opera meravigliosa, che chiude i tempi rivoluzionari, inizianiJo alla sua volta un grande progresso. Perchè, sebbene gli intenti del Beccaria e del Ro- magnosi sieno gli stessi, sta però che la intuizione spontanea del sentimento, e l'affermazione rivoluzionaria, spesso gratuita e disordinata del Beccaria, nel Romagnosi diventa già rigorosa dimostrazione scientifica e sistemazione logica, stupendo ingra- naggio di principi astratti e di osservazioni concrete. Notiamo di volo che il Romagnosi non ammette stato di natura per l'uomo, se non sociale, e quindi l'origine del diritto di difesa fa discendere dalla conservazione della società. Egli die poi alla luce V Introduzione allo studio del diritto pubblico, in cui ricostruisce tutta la scienza sociale; e continuò a scrivere di diritto naturale, della ragion delle acque, di economia e statistica, e sempre con quello spirito si eminentemente logico, che alle Hue opere quasi un rigore matematico. Infine si fa a studiare le leggi onde si svolge e perfeziona l'umano intelletto nell'in- dividuo e r incivilimento nella sociale convivenza, mostrando come cresca e si propaghi fra Tonda dei secoli nel mondo delle nazioni.

Ma anche le dottrine di Porto Reale^ trovarono strenui di* fipnsori, specie nell'abate Pietro Tamburini (1737-1827), una illu- strazione dello studio pavese. E si badi, il Giansenismo non era da noi soltanto una dottrina teologica: era anche una dottrina {>olitica. Perchè si trattava, in sostanza, di affermare il diritto del principato civile, e tornare la Chiesa alla mite semplicità del Vangelo, spogliandola di tutte le mille usurpazioni tempo-

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ralesche, che in sostanza ne avevano &lsato il carattere umano e liberale ; ma che essa, per allontanare ogni pericolo, si era forzata a divinizzare. Lo stesso potere temporale del papa fa battuto in breccia ; i novatori si mostrarono meno implacabili verso ogni dottrina firatesca ed ogni pratica gesuitica. H Tam- burini aveva già spezzata una lancia contro le dottrine moliniane nell'opuscolo De Christi grafia, che, per quanto piccolo, aveva suscitato un incendio, e nelle Osservazioni di un teologo ad un conte in difesa di esso, quando mandò fuori le sue Lettere teo- logico-politiche sulla presente situazione delle cose ecdeHa^ticht, Esse videro la luce a Lugano nel 1794, e fturono subito ristam- pate a Pavia: otto lunghe lettere, in cui l'autore, prendendo occasione da una inconsulta e non sincera sfuriata dello Speda- lieri contro il Giansenismo, studia il maggiore dei problemi che agitava allora la società : la condizione deUa Chiesa e del Prin- cipato, l'origine, l'indole e i diritti della sovranità popolare. I Giansenisti, a suo dire, non hanno altro scopo che di far rifio- rire nella Chiesa la forma di governo istituita da Cristo, e per- ciò combattono gli abusi introdotti e fissano i dovuti confini delle due podestà, sostenendo di ciascuna i rispettivi diritti ; ne- mici ugualmente del dispotismo ecclesiastico e di ogni minìrr: > attacco alla indipendenza della sovranità temporale, sulla quaie l'autorità del sacerdozio non deve assolutamente vantare alcun diritto. Infine esclude che la sovranità abbia la sua radice nei patti e nelle convenzioni sognate dagli uomini: la considera anzi come un effetto necessario dell'ordine stabilito dalla prcv- videnza, quasi una emanazione della divinità, e spiega e com- batte le teoriche della disobbedienza, della rivoluzione, del regicidio, appunto allora rimesse in voga, biasimando le intem- peranze a cui i giacobini francesi si erano abbandonati. Pi : tardi si farà ad esporre la morale, capace di rendere virtuosi ei ottimi tutti i cittadini, anche gli atei e gli epicurei, che davano tanto ai nervi ai clericali : una morale, che non doveva restrili- gersi ad alcuna setta particolare, ma essere universale, come quella che egli voleva fondata sulla natura delV uomo. Ccm nacquero quelle mirabili lezioni, che abbiamo per le stampe, sulla Introduzione allo studio della filosofia morale e le Lezioni di fik^ sofia morale e di naturale e sociale diritto. Una Storta della

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Inquisizione, che va sotto il suo nome, si crede apocrifa: se fosse genuina, sarebbe stata la sua ultima battaglia.

5. Veniamo alla scuola napoletana.

Si può dire che Antonio Genovesi (1712-1769) ne sia stato il metafisico, come il Muratori lo fu della scuola lombarda; e auch'egli ne divide le incertezze. La sua filosofia non ha un carattere spiccato : oscilla tra Cartesio e Locke e finisce col me- scolare l'uno e Taltro secondo l'istinto suo e le tendenze del se- colo: sicché mentre nella filosofia teorica quasi appare materia- lista, si trasforma poi in caldo spiritualista, quando viene alla filosofia pratica, specie alla morale. Inoltre fu un valente cul- tore di studi economici. Non già che creasse teorie nuove : che anzi si restrinse a riassumere ciò che era stato scritto da altri prima di lui, ordinandolo per sezioni e per capi, più ohe per cri- ter! scientifici, e qua e obbedì anche ai pregiudizi del tempo, accettando le corporazioni, sostenendo il sistema restrittivo in fatto di commercio, esigendo dallo Stato ohe si facesse agricol- tore e industriale : sicché non si può dire che preparasse in alcun modo i progressi della scienza. Nondimeno le sue Lezioni di economia civile (1765) hanno giovato a destare quell'amore negli studi sociali, che si diffuse in Napoli negli ultimi decenni del secolo XVni. Ciò che attirò particolarmente l'attenzione del Genovesi fu l'ordinamento economico e sociale della proprietà: <Iuesto è il suo pensiero segreto ; e in questa materia ha una pagina che precorre le riforme dell' 89. La proprietà, com'egli la concepiiice, è appunto la proprietà dell' 80: individuale e non collettiva, promiscua, accessibile a tutti, libera, mobile, di- visibile. Insieme amiamo di notare qualmente all'antico e falso concetto, che riguardava gli interessi dello Stato e quelli del Popolo come contrari tra loro, egli contrapponesse il principio della solidarietà, dimostrando, meglio che altri non avehse fatto, ohe ambedue avevano interessi comuni, e che dovevano darsi la mano.

L'abate Ferdinando Galiani (1728-17W) ebbe minor dottrina del Gonovesi, ma mostrò più acume di lui, principalmente per due lavori economici, che sono : il Trattato della moneta e Lee dialoguee $ur le commerce dee blés. Il Trattato è opera giova- nile, con cui il Qaliani tenta di porre un argine al disordine della moneta, deplorato ai suoi tempi, e ne svolge la teoria. È

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un lavoro ricco di pregi incontestabili: soprattutto qmelio, di riconoscere che il valore della moneta è mutabile, ne più meno del valore delle altre merci ; donde scaturisce la distin- zione dei due uffict della moneta, come misura di valore e come equivalente. Dall'altra parte vi si difendono quei governi, che spinti dalle ristrettezze finanziarie, alterano il valore della mo- neta per via di normali aumenti ! I Dialoghi sono l'opera del- l'età matura. Si trattava della importazione ed esportanoiie dei grani, per sapere se si dovessero lasciar libere. Il Tnrgot era veramente di questo avviso ; ma il Ghdiani pensava cKe convenisse procedere per gradi, perchè e' erano di mezzo tropp*^ potenti interessi, e il passaggio dal dispotismo alla libertà p>> teva recare troppo grave turbamento. In sostanza, si trattava di una battaglia data ai fisiocrati ; ma con molto garbo. Anzi a questo proposito, non sarà inutile riferire il giudizio del Vol- taire. Egli parla appunto del modo piacevolissimo con cui rope?& è scritta, e conchiude osservando, che se non farà diminuire tV prezzo del pane, divertirà peraltro la nazione, che per essa ì molto meglio. Del resto il libro è ricco di pregi reali : specie per avere proclamato il principio della libertà di lavoro e di scambio, e nondimeno avere cercato che le industrie e il commercio non venissero abbandonate all' ignoto di questo concetto, senza cau- tele e sufficienti guarentigie ; sicché il genio del filosofo e quel!* dell'uomo di Stato vi si trovano mirabilmente contempeTati. Un altro suo trattato Dei doveri dei principi neutrali v^rso i principi belligeranti e di questi verso i neutrali, fa, se non altre-, fede della sua grande versatilità.

Ultimo veùuto è Q-aetano Filangieri (1762-1788) ; ma forse è la più completa personificazione della scuola napoletana. Certo, la sua Scienza della legislazione ne ha tutti i pregi e i difetti. L'autore comincia dal distinguere la bontà assoluta e la bontà relativa delle leggi: quella, indipendente dalle condizioni dei tempi e dei luoghi, questa, legata ad essi e da essi determinata: e si fa a descrivere le ingiustizie e gli abusi dei tempi pastsati. Ma l'alba di un'era nuova era oggimai spuntata; bisognava met- tere un argine agli abusi, e attuare la bontà assoluta della legge. La questione stava nel trovarla, ed egli si pone alla sua ricerca. ma non si può asserire che arrivi a risultati molto nuovi, ploichè in sostanza segue gli scrittori francesi» Con èssi si allontana

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dalla società che lo circonda, in traccia di altre leggi e istituzioni, che ayevauo avuto vigore, specie tra i Bomani e i Greci ; e non solo ne segue i metodi, ma se ne appropria i principi, ne accetta le idee, ne imita persino lo stile. D'altra parte neppure il Fi- langieri è un rivoluzionario; ma un riformatore. Non mira a farla finita con la società in mezzo a cui vive ; ma a miglio- rarla, per quanto può. In breve, si propone uno scopo pratico: così riesce, anch'egli, molto più temperato che non fossero i suoi maestri francesi ; il ohe insieme offre la spiegazione del perchè aderisca all'idea che tutto dovesse scendere dall'alto. Anzi si può dire non esservi part« della sua opera, dove questa idea non filtri. A cagiou d'esempio, egli propugna l'educazione, sulla quale fonda molte speranze per la rigenerazione del popolo ; ma, innamo- rato di Sparta, tranforma addirittura lo Stato in una grande so- cietà di istruzione pubblica. Non altrimenti attribuisce al go- verno una cosi sconfinata importanza in fatto di economia, da di- struggere ogni principio di libertà economica, nonostante ohe se- gua i fisiocrati, la cui divisa era di lasciar fare e lasciar passare. Ma la società napoletana era uscita di fresco da una secolare servitù, ed egli credeva che non si potesse fare a meno dell'ini- ziativa del governo.

Aggiungiamo a questi nomi quello di Pietro Giannone (1676- 174H). La sua Storia civile del Regno di Napoli è in gran parte un plagio, come ve n'ha pochi, e d'altronde l'autore, troppo in- ceppato dai fatti, non afferra bene i principi e le ragioni delle cose; ma questa medesima opera contiene interi capitoli, che gli a^.^icurano un posto tra i novatori del secolo. Il suo mondo è la legge, ma non la nuda legge: nello studiarla guarda la storia, e ciò ba^^ta perchè quella si animi e viva tra le sue mani* Ciò che più importa si è, che in nome di essa combatte un'aspra battaglia contro quell'impero ecclesiastico, ohe con particolari giurisdizioni, con idee soprannaturali, coi pregiudizi e malefizi^ pretendeva ancora di governare gli Stati, specie il mezzo<U d'Italia. In fondo, egli contrappone la storia del diritto alla storia della Chiesa, la sovranità del Regno al predominio di Roma. Cosi, affronta gli sdegni della Santa Sede e di tutti i devoti di essa, che non gli daranno quartiere. Nondimeno le sue ricerche sono di quelle che rimangono, e si può dira vera- mente che con la storia del diritto egli abbia liberato il Regno e Tau tonta civile.

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6. In mezzo a tutto ciò, non sono mancati gli oppositon. In generale il paese segaiva a malincuore la nnova corrente, e lo avverte lo stesso Verri: La professione di fede sarebbe: Mi-j Dio, credo fermamente che tutti % francesi sono matti ; che i filo- sofi sono canaglie; che il loro piano è un delirio; che devono dì- struggersi in ogni modo. Il paese è inzuppato di queste idee.

Tra gli oppositori notiamo Gian Binaldo Carli. Nemico ccn- vinto delle nuove teorie, alzò la voce specialmente contro il Rousseau; ma non risparmiò neppure i nostri. Citiamo d:ie libri : Uuomo libero, ossia ragionamento sulla libertà naturale t civile dell'uomo^ 2' ed., Milano, 1779, senza nome d'autore, di- retto contro il Contract social di Rousseau, e Della diseguag1ÌÀinz^\ fisica morale e civile fra gli uomini^ 2* ed., Padova, 1793, in opposizione al discorso dello stesso Rousseau, Sur l'origine et u* fondements de Vinégalité panni les hommes, D Carli deplora c:ie i filosofi de' suoi dì, dominati dalVorgoglio di essere legislatori r riformatori dell'ordine sociale^ invece d' insegnare i doveri, siens: riscaldati nelP inculcare i diritti delVuomo^ richiamandoli sin:» dalForigine della società, che, nascosta fra le tenebre deiraii- tichità e fra gli arcani della natura, diede fomento alla lor- immaginazione. Cosi avvenne, che si negasse recisamente qiià- lunque difierenza naturale o disuguaglianza fra gli nomini, e ^l ammettesse che tutti erano nati liberi e padroni di se, senza le- gami e senza doveri, e che si seminasse l'odio e il disprezzo verì^" le potestà superiori, e fermentasse nel popolo, scostumato per educazione e indigente per l'ozio ed i vizi, uno spirito d'inii- peudenza ed una avidità insaziabile di soddisfare le proprie pias- sioni, senza riguardo alcuno ai diritti altrui ne airaitrui pro- prietà. Il Carli, a differenza dei filosofi che lo avevano prece- duto, si propone di esaminare e di conoscere la vera natura, e cioè i primi sentimenti e le prime tendenze degli uomini, e il progredire delle passioni, per vedere poi in che consista la li- bertà naturale e la libertà civile. In sostanza, egli arriva & questa conclusione, che, nel conflitto delle differenti passioni si vennero formando naturalmente le diverse classi, e questa disr.- guaglianza produsse alla sua volta naturalmente il governo, che. lungi dall'essere un ammasso di usurpazioni dei ricchi sui p> veri, di tirannia e dispotismo dei Sovrani sulla moltitudine, ri- dotta perciò alla schiavitù, rappresenta anzi la potenza equipcì- lente, e anche un rimedio ai mali che travagliano la società.

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Medesimamente, l'opera Dei delitti e delle pene trovò subito un critico nell'abate Angelo Fachinei, a cui risposero i due Verri, Pietro e Alessandro, con una Apologia. L'opera del Fa- chinei, scritta per incarico degli oligarchi veneti, che avevano attribuito il libricoino alla fazione riottosa, porta il titolo di Note ed O.'isertazioni (1766), e si può dire che nessuna proposi* zioue del Beccaria vi trovi favore. Il Fachinei sostiene che il libro è scritto $ul tono di tutte quelle opere che fanno maggiore strepito ai nostri per la loro rivoltante odiosa novità, e delle quali raduna tutto il veleno. Specialmente insiste sull'idea, che, abolita la tortura, non sarebbe stato possibile di amministrare la giustizia; e che, ammesse le nuove teorie sovversive, il mondo si sarebbe riempito di ladri e di assasiàini! Un'altra opera di- retta contro il Beccaria fu pubblicata più tardi in nome della giurisprudeuza romana. L'autore riferisce appunto che, assog- gettando ad esame il libro del Beccaria, intendeva trattare la causa delle leggi romane, della sovranità, dell'innocenza e del bene de' poiH)li. L'opera, a cui alludiamo, ha per titolo: Apo- logia'della giurisprudenza romana o note critiche al libro intito^ lato ^ Dei delitti e delle pene „, Milano, 1784; e sebbene l'autore sia indicato solo con le iniziali A. O. P. JS., si sa essere stato Antonio Giudici professore emerito. Si nota però un grande distacco tra Topera del Fachinei e questa del Giudici. Quanto la prima ò leggiera, abborracciata, aggressiva, altrettanto que- sta si mostra seria, diligente, moderata. Lo stesso Cremani, dotto giurista, ma illiberale, si giovò della sua scienza poderosa per perseguitare i nuovi penalisti, se pure non credette miglior partito di sprezzarli. È osservabile come egli non onorasse nep- pure di una citazione il KomagnobL Più tardi l' illustre giure- couBulto sarà tacciato perfino di eresia e di materialismo!

Ricordiamo anche l'abate Nicola Spedalieri. Invitato dalla curia i>ontificia, scripse sui Diritti dell'uomo^ formidabile argo- mento in cui tentò di conciliare le nuove aspirazioni coi dogmi e con le tradizioni di Roma. L'openi^ pubblicata dalla tipo- grafia del Vaticano nel 1791, con la falsa data di Assisi, pone bensì a fondamento delle origini sociali il contratto e difende la sovranità popolare; ma insieme cerca di conciliarle coi det- tami dei sacri canoni: per es. allorché, parlando della legge naturale, dice e s'ingegna di dimostrare, che consiste in un de-

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creto della volontà di Dio, e allorché^ parlando della orìgiLe della società civile, sostiene che fa opera di Dio, e allorché, giunto quasi al termine della sua dimostrazione teorica, avvi- <;ina la propria teoria a quella di S. Tommaso, perchè i lettori c&> tolici potessero toccar con mano, che in fondo egli nulla ass^ riva che non fosse stato prima insegnato da quel santo dotte r? della Chiesa. Ciò che più importa, finisce nelle applicazi -il: pratiche, con V inchinarsi alla politica di Boma. E ciò che g.. sta veramente a cuore sono codeste applicazioni. Egli dice te- stualmente cosi : " Noi prendiamo a cercare il mezzo più sicnr di custodire i diritti dell' uomo nella società civile . Queste h lo scopo, a cui sono indirizzate le sue ricerche ; e cosi, dopo are: esaminato, in un primo libro, quali e quanti potevano esser* questi diritti, passa poi a discorrere diffusamente, in altri cin- que, del modo di assicurarli^ venendo appunto alla conci osi ne che bisognava metterli sotto lo scudo della Chiesa, la quale Lr avrebbe regolato l'esercizio. In codeste applicazipni l'uomo :n> derno si eclissa per lasciare il posto all'uomo del medio ev:: onde, tornando alla politica di Itoma, ne difende i privilegi e le usurpazioni, le immunità e i tribunali, e i conventi con > loro ricchezze e coi loro ozi. L'autore sostiene perfino V inczl- sizione e propugna la infallibilità del pontefice. E guai ai n> va tori ! Lo Spedalieri li denuncia come alleati dei rivoluziorar. di Francia e degli atei di tutta Europa, nemici dichiarati iri trono e dell'altare. Gli stessi deisti sono per lui degli at^ei, e in nome della ragione si fa paladino della più smaccata int:.- leranza. Insieme si scaglia contro la libera circolazione dei li- bri, e raccomanda ai vescovi d'invigilare. Pur difendendo ; diritti delPuomo^ non sapeva come meglio assicurarli, che met- tendoli sotto l'egida della Chiesa e de' suoi tribunali! e d'al- tronde non pare che ne avesse una idea ben chiara, se ha per- sino una parola per giustificare la schiavitù. In realtà ci tre- viamo di fronte a un filosofo cattolico dei più ferventi, tant: che buona parte del suo libro è diretta a combattore le usnr* pazioni dei principi e del laicato sulla Chiesa cattolica, la scia, a suo dire, che presenti consistenza; tampoco accenna & riforme interne di essa. Già nel frontispizio aveva dichiarate il suo intendimento di mostrare che la più sicura custode de. diritti nella società civile era la religione cristiana, e i'nnic: progetto utile alle circostanze dei tempi, quello di farla rifiorire

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diversa ò la oonolosione del suo lavoro. £ confonde la re- ligione con la Chiesa. Cod accetta la teorìa del Molina, del BellarminOi in genere dei Gesuiti, ohe il papa tenga da Cristo il diritto di farsi giudice dei re, di deperii dal trono, di sciogliere i sudditi dal giuramento di fedeltà, specie se e' è di mezzo la re* ligione; ma d'altronde si sa che la Curia amava di tirar tutto alla religione, e lo stesso Spedalieri si trova in quest'ordine di idee, tendente a vedere le cose della società intrecciate perennemente con essa. Ciò spiega il suo grande accanimento contro il Gian- senismo, perche i sovrani vi trovavano un ben valido appoggio ai loro diritti, e bisognava privameli se si volevano assogget- tare all'arbitrio del papa. Lo Spedalieri, parlando dei Gianse- nisti, dice testualmente che in fondo al loro sistema regna sem- pre l'a/iarcAta, e insieme sostiene che il loro idolo è la demO' crazia si nel governo della Chiesa che in quello civile, da lui abborrito, quasi che anarchia e democrazia fossero la stessa cosa. £ chiaro: se pure qualche nuova teoria lo ha sedotto, fu solo a mezzo; più verosimilmente se n'è servito come di bandiera per coprire e far passare la merce, che altrimenti non sarebbe pas- sata. Ha pienamente ragione il Masi: Tenerissimo dell'antico, in tempi di profonde perturbazioni, vide la continuità storica minacciata, e si sforzò, a tutt'uomo, di evitare lo strappo e te- ner unito, non fosse che per un filo tenuissimo, quello che stava per distaccarsi del tutto. In ciò sta l'importanza della sua opera: più meno.

Ora, non diremo che tutti questi critici sieno da gettare in un fascio. Anzi il Carli, il Giudici, lo stesso Spedalieri, nella parte in cui difende la sovranità popolare, hanno osservazioni giuste; ma in generale stuonano in mezzo alla corrente contraria <lel neccio. D'altra parte non hanno prodotto gran danno: la civiltà seguiva oramai il suo corso irresistibilmente, e il mondo pareva quasi rinnovarsi sotto ai suoi passi. Lo Spedalieri ha finito collo spiacere perfino ai suoi.

7. Meglio provvide il Vico (1688-1744), se non per il suo tempo, certo per l'età che venne dopo. Noi lo abbiamo ricordato come un distinto cultore di studi romanistici; ma veramente il suo posto e tra i filosofi, che egli precorre tutti nel tempo, co- me li precorre nelle idee.

Se vogliamo, la giurisprudenza del Vico si presenta a prima

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giunta con un carattere teologico; e cosi, la sua teoria dei!. storia. Ne studia i principi {origo), e, non altrimenti di «luell: di ogni altra scienza, si convince che derivano da Dio; ne studia il corso {cireulus)y e, come quello di qualunque scienza, trova eh- ritorna a Dio ; ne studia la sussistenza (constantià)^ e, come tut^a la scienza e tutta la storia, conchiude che anch'essa snesiste ìl Dio : nondimeno, appunto le sue ricerche intorno al diritto e alle leggi della vita sociale non hanno assolutamente nulla di comn^f coi principi teologici della vecchia filosofia. Piuttosto scrutan: l'uomo neir interno atteggiamento dell'animo, in tutti i suoi fe- nomeni, nei sensi, negli interessi, nelle condizioni materiali ; stTi- diano la vita nella lotta umana, la storia nella vita delle nazioni e nel definitivo trionfo della giustizia e deirumanitjt sol senso e sulla passione, sul fatto e sull'abitudine. Tutto il sno met?d. è informato a tendenze psicologiche, che si rafforzeranno e af::- neranno in seguito sino a darci il carattere e l'indirizzo del pen- siero moderno, che egli presente. Che se pure accenna alla Prov- videnza, come al fondamento della scienza, è ben lun^i dal pen- sare a disegni o decreti estraistorici : la Provvidenza del Tic : non ha carattere ontologico; è piuttosto un principio organio psichico, che, pur distinto, vive dentro l'Umanità e ne dirirr le azioni. In ispecie, per ciò che riguarda la ginrispradenza. il legame, che la unisce alla teologia, riesce poi nella esposizione piuttosto debole, e certamente non influisce che in misura as- sai scarsa sulla trattazione di alcune questioni particolari. grande idea del Vico, espressa già nel suo De uno universi J »- ri8 principio et fine uno (1720), si è che la giurisprudenza p-^gr^ sulla doppia base della filosofìa e della storia, o se più vuoisi, su quella della ragione e dell'autorità. Ciò che lo colpi fin dalle prime fu la differenza che intra vvide tra il diritto grec? e il romano, e anche tra i vari periodi di questo e la ginris pru- denza antica e moderna. Erano singolari contrasti, che non ^l potevano comprendere senza avvicinarli alle loro cause e alle circostanze e necessità, in mezzo alle quali erano sorti e si eran fatti strada. Di qui un nuovo compito, che doveva imporsi al giureconsulto; compito che il 'Vico traccia per il primo, addi- tando la via per la quale presto o tardi doveva pure incammi- narsi la scienza.

Egli voleva che il giurista fosse insieme filosofo e storico :

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filosofo per chiarire i prinoipt della legge, storico per accertare le cause e le condizioni che ne avevano determinato lo svilnppo, facendo che il diritto di un popolo o di una età assumesse un carattere tutto suo, diverso da quello di altri popoli e di altre età. In sostanza, l'ufficio della giurisprudenza doveva consistere nell'adattare la filosofia alla storia, o se più vuoisi la ragione ai fatti in modo appropriato al soggetto, cioè al di* ritto. È un' idea fornita di un vero valore scientifico, con cui egli formula tutta una teoria o una scienza, che poteva dirsi veramente nuova, sulla natura e sullo sviluppo delle società umane e del diritto. Il quale in fondo presenta il medesimo fenomeno della lingua. Ambedue procedono parallelamente, sviluppandoci dal senso alla ragione, secondo lo svolgimento generale della mente umana nella storia. Ma è specialmente Roma che attira l'attenzione del Vico. La città etema è la grande maestra in fatto di legislazione, per modo ohe egli spiega addirittura la storia dell'umanità con quella di Roma, e la sto- ria di Roma con quella del diritto romano! E non c'è altri che ne abbia compreso cosi profondamente lo spirito. Nondi- meno e^^li non vorrebbe ohe ci arrestassimo ad essa. In Ro- ma lo sviluppo del diritto s'accompagnò mai sempre all'incre- mento dello Stato, in modo corrispondente ai mutabili biso- gni e alle varie circostanze di esso; e pur facendosi sempre più mite e giusto, più umano e ragionevole, non cessò di in- spirarsi alla ragione civile e all'interesse nazionale, e non di- ventò mai tale da poter essere considerato come diritto univer- sale. Invece il Vico teude precisamente a questo, derivandone i principi dalla cognizione della vera natura di Dio e dell'uomo, e delle loro relazioni, e, pur ammettendo che, a volerlo inter- pretare rettamente, bisognerebbe studiarlo nella stessa maniera del diritto romano, combinando insieme la teoria e la pratica, sostiene la necessità di usare vedute molto più larghe ohe non potevano essere quelle di una filosofia settaria, e in modo as- sai più ampio, non tenendo conto soltanto delle influenze e delle convenienze storiche particolari, ma della storia tutta. È il metodo ohe applicò poi con t^nto successo nella SeienMa nuo* va, studiando il corso e le rivoluzioni delle nazioni in una data orbita, e che costituisce il suo merito principale. Certo, fu il primo ad adottarlo coscientemente e definitivamente, anticipando

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per più riguardi l'opera del Montesquieu, e anche quella del Sa* vigny e dei sociologi, non altrimenti che nel campo della critica storica anticipa e supera gli ardimenti del Wolf e del XiebuLr. Nondimeno non si può affermare che abbia fatto breecia sul suo secolo. A mala pena la questione circa l'origine della legge decemvirale valse a suscitare un po' di discussione : per il reste, passò in mezzo alla indifferenza, se non anche alle derisioni dei contemporanei; ma intanto egli preparava e riassumeva i tempi nuovi. Certo è: la sua scienza nulla aveva di conmne con quella degli uomini della rivoluzione, e neppure il modo di conce- pire le società umane era lo stesso. Da un lato, una scienza fon- data sulle idee astratte della ragione teorica o sulle siigge:^tiui.i arbitrarie del sentimento; dall'altro, l'analisi dei fatti e i dati pen- siti vi della ragione pratica. Da una parte, una società che <i presentava come una semplice aggregazione di individui sovrap- posti gli uni agli altri, senza radici nel passato, senza legami per l'avvenire, di individui che avevano stretto un contrarto per la difesa dei loro diritti naturali e la garanzia della lor:* indipendenza, subordinando la società e lo Stato ai propri èni particolari; dall'altra un organismo vivo, che segue le sue leg- gi di conservazione e di sviluppo, e le sue funzioni, nel quale l'individuo e lo Stato, lungi dal contrapporsi o subordinarsi a vicenda, cospirano insieme, e dalla loro azione simultanea e concorde fanno derivare la vitalità e l'armonia del corpo sociale. Sono idee che anticipano la sociologia moderna; ma il seco!:-, si mostrava tutt'altro che disposto a riceverle, cosi che ancora per lungo tempo si dovevano considerare i principi dell' 89 co- me l'arca santa, a cui non fosse lecito di toccare. Solo più tare: il fiume della civiltà passerà sopra anche ad essi, e allora i p^^- steri si ricorderanno di Vico. La civiltà è davvero il gran tiu- me di Goethe. Umile ne' suoi inizi, non svolge dapprima che povere acque, e scende per tortuosi meandri, e qua e sembra disperdersi, e scompare, poi torna ; ma frattanto riceve per via il tributo di nuove linfe, ed altre ancora scendono ad alimen- tarlo, e cosi ingrossa, e infine si presenta maestoso, spargendo i suoi benefici dovunque passa, come un Dio. La gratitudine degli Egizi ha raffigurato appunto nel vecchio Nilo l'imagine della bontà divina; e la civiltà non è diversa.

ALTRE PUBBLICAZIONI DELL'AUTORE

1. Degli ordini sooi^i e del possesso fondiario presso i Longobardi.

Vienna, 18G1 (nei SUzungshtrichit der phiL-histor. Ctaut dtr K. Aka- demie der Wissenschaften, XXXV).

2. Istituzioni politicha longobarde, libri due. Firenze, Lemonnier, 1868^ B. La famigli A pn*s90 i Longobardi. Bologna, Oaragnmni, 18^>8 (ueW Ar- chivio giuridico, voi. I).

4. Oli elementi del manicipio italiano nel medio evo. Padova, Crescini,

184*4 (nella rivista II Comune),

5. La schiavitù in Italia, a proposito dell'opera: Gli Ezzelini, Dante e gli

schiavi di F. Zamboni. Padova, Crescini, 1805 (nella rivista II Comune), (ì. Di Edgardo Qui net. Padova, Sacchetto, 1S*>6 (nel periodico II gior- nale di Pador(i\

7. Trattato dello obhligiizioni secondo i principi i del diritto romano. Pa-

dova, Sacchetto, W)S,

8. Degli ordinamenti economici in Austria sotto Maria Teresa. Bologna,

(iaraguani, 1S»W (neW Archivio giuridico, voi. II),

9. La tavola cle.-tiaua. Stadio archeologico. -- Bologna, Oaragnanì, 1869

{lìvW Archivio giuridico, voi. III).

10. Le fonti dolio consuetudini milani'si deiranno 1216, nelPopera di F.

Berlan Uber Consuetudinum Mediolani anni MCCXVL Milano, Agnelli, 1869.

11. La societÀ milanese allVpoca del risorgimento del comune. Bologna,

Oaragnani, 18»;9 (neìV Archivio giuridico, voi. Ili, IV, V e VI).

12. Le donazioni tra* vivi nulla storia del diritto italiano. Firense, Nic-

colai, 1871 (negli Annali delia GiurisprudenMa italiana, voL T, parte III).

i:). La famiglia secondo il diritto romano, voi. L ^ Padova, Sacchetto, 1876.

14. Compendio della storia della letteratura latina del prof. E. Bendar. Tradosione con aggiunte. ^ Verona-Padova, Drucker e Tedeechi, 1878; 2* ediz. interamente riveduta, ivi, 1888; 8* edis. rioorretta e migliorata, Verona, Tedeschi e figlio, 1889; i* edis* Nuova trada& sulla 9* edis. tedesca, ivi, 1896; 6* edis. ricorretta e accresciuta, ivi, 1886; 6^ odia, rioorretta e accresciuta di notiiie bibliograOche e pa- leografiche, Milano, Albrìghi Segati e C, 1899; 7* edii., Roma-Mi- lane, 1908.

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16. La presorisLone immemorabile nella storia del diritto. Torino, Unir-

ne tip. editr., 1881 (nel Digesto italiano, toL I, parte I, ▼. Ab im'-" morabili),

17. L'Acceptilatio. - Napoli, L. Vallardi, 1881 (nella Enciclopedia git*-

dica italiana, yol. I, parte I, y. AccepHlatio),

18. La questione sociale e la cassa pensioni per la vecchiaia. Rozjl

C. Voghera, 1882.

19. Nuovi stnd! sulla legge romana udinese (II). Roma, SalTincci. l^K

(nelle Memorie della B, Accad. dei Lincei, serie UE, Glasse di aci&LZi morali, voi. X).

20. La responsabilità dei padroni per gP infortuni sul laToix>. Ro:ià

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21. Launegild e garethinz, a proposito deiropera del Pappenheim sii:

stesso argomento. Bologna, Oaragnani, 1883 {néir Archivio giur-.- dico, voL XXXI).

22. L'allodio. Studi sulla proprietà barbarica. Torino, Unione tip. eL-

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23. Aldi, liti e romani. Studi sulla società dei secoli barbaricL Kilan^^

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24. Una professione di legge gota dell'anno 769. Studio critico, a proposi t?

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Salviucci, 1887 (nelle Memorie della R. Accad, dei Lincei^ sene IV. Classe di scienze morali, voi. m, parte I).

80. Gli statuti pistoiesi. A proposito di uno studio di L. Zdekaner. Biaa-

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d2. L'interdetto Salyiano e un rescritto di Gordiano. Nota critica. Ro- ma, E. Loeecher a C, 1888 (nella Rivista italiana per le icieruDe giu- ridiche, voi. V).

33. Singrafe e chirografi. Ricerohe sui titoli di credito dei Romani.

Roma, £. Loeecher e 0., 1889 (nella Rivista italiana per le scienze giuridiche, voL VII).

34. Le origini dell* universi ti di Bologpna. Studio su recenti studi. Roma,

Salvinoci, 1889 (nelle Memorie della R. Accademia dei Lincei, serie IV, Classe di scienxa morali, voL VI, parte I).

35. Di una recente pubblicazione di O. Tamassia sullo studio di Bologna.

Ricerche di E. Landsberg. Traduzione con note. Roma, K Loe- scher e C, 1889.

36. Il testamento di Tello e la legge romana udinese (IV). Roma, Sai-

viucci, 1889 (nelle Memorie della R, Accademia dei Lincei, serie IV, Classo di scienze morali, voi. VI, parte I).

37. Il regesto di Farfa. Note. Torino, Fratelli Bocca, 1890 (nella Rivista

storica italiana, voi. VII). :V^. Intorno ad una donazione fatta ai 5 febbraio 1110 sotto Pasquale IL Parere. Roma, Artero, 1890,

39. Romano Lacapeno e Federigo II a proposito della proHmesis. Roma,

Salviacci, 1891 (nelle Memorie della R. Accademia dei Lincei^ serie IV, Classe delle scienze morali, voi. Vili, parte I).

40. Le università e il diritto. Conferenza. NelPopera Gli albori della vita

italiana, voi. III. Milano, E. Treves, 1891.

41. La cantio muciana e gli eredi intestati. Osservazioni sulla L. 4 § 1 de

conci, inst. Roma, E. Loescher e C, 1891 (nella Rivista italiana

per le sciente giuridiche, voL XI). 12. Tbinx e Affatomia. Studi sulle adozioni in eredità dei secoli barbarici.

Roma, Salviucci, 1891 (nelle Memorie della R. Accademia dei Lincei,

sorie IV, Classe di scienze morali, voi. IX, parte I). id. Trani ed A malti. Studi sulle consuetudini marittime del medio evo.

Roma, E. Loescher e C, 1H92 (nella Rivista italiana per le scienze

giuridiche, voi. XIII). 44. Manuale di storia del diritto italiano. Le fonti (Leggi e scienza).

Città di Castello, S. Lapi, lh92, 2* ediz. riveduta e notevolmente

ampliata, 1895, B* ediz. di nuovo riveduta e notevolmente ampliata,

1904. io. Le Questiones de iuris subtilitatibus e la Summa Codiois. Nota cri- tica. — Torino, (Vatelli Bocca, 1894 (nella RitHsta italiana per le

scietue giuridiche, voi. XVIII). 4^. lacobi Bertaldl, Splendor venetorum oivitatis consuetudinum. Bono-

niae, ap. successores Montii, 1896 (anche nella Bibliotheca juridica

meda aevi, voL IH). 47. La defatica e Taaino di Apolejo. Nota. Tonno, fratoUi Bocca* ì^ì^l

(nella Rivista itaUanm per le sciénMé giuridiche, Vol« XXI), 4H. Questioni di letteratura giurìdica medio^vale. Nota erìtiea {l}. ~ To*

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rino, Fratelli Bocca, 1896 (nella Rivista UaUana per le sdenme g\^ ridiche, voi. XXn).

49. Qaestioni di letteratura giuridica medioevale. Nota crìtica (II). Ti- rino, fratelli Bocca, 1897 (nella Rivista italiana per le «ctemse ^ a- Hdiche, voi. XXTTI).

60. La scnola di Roma e la questione imerìana. Boma, tip. àeHm, B. Ac- cademia dei Lincei, 1897 (nelle Memorie della R. Accadesmia d'^ Lincei, serie V, Classe di scienze morali, voi. V).

51. Per la conservazione della laguna di Venezia. Boma, Forziuù e C 1899 (dagli Atti parlamentari, tornata del 12 e 14 giugno 1899 .

62. La teoria generale delle obbligazioni particolarmente contrattuali. Studi sugli statuti di Boma e dello Stato romana Torino, fratelli Bocca, 1899 (nella Rivista italiana per le scienze giuridiche^ vo- lume XXVII, fase. 1-3).

5B. L* autorizzazione maritale. Studi sugli statuti municipali itali&nL Napoli, 1900 (nel volume per le onoranze a F. Pepere).

64. Per la precedenza del matrimonio civile, Boma, Forzani e C, 19\

(dagli Atti parlamentari, tornata dell'S e 11 maggio 1900).

65. La defensa neirasino di Apuleio. Nota. Torino, Fratelli Bocca, 19"j1

(nella Rivista italiana per le scienze giuridiche^ voL XXXI, f&sc 1-2 .

56. Ancora di una professione di legge gotica dell'età langobarda. Not&

critica. Torino, Fratelli Bocca, 1902 (nella Rivista italiana per •> scienze giuridiche, voi. XXXVI, fase. 1-2).

57. Guargangi e cives. Lettera in risposta ad altra del prof. N. T&niJkssi&

a proposito di una professione di legge gotica. Torino, Fratelli Bocca, 1893 (nella Rivista italiana per le scienze giuridiche, voi XXXV, fase. 1).

58. La Stantia : studio di diritto langobardo. Torino, fratelli Bocca, 1904

(nella Rivista italiana per le scienze giuridiche, voL XXXVI).

59. La comunione dei beni tra coniuga e TEcloga isaurica. Torino, fra-

telli Bocca, 1904 (nella Rivista italiana per le scienze giuridiche, voi. XXXVI).

60. Bivista critica delle scienze giuridiche e sociali diretta da F. Schnpier

e G. Fusinato. Boma, E. Loescher e G., 1888-86, 3 volami

61. Bivista italiana per le scienze giuridiche diretta da F. Schu{^ e G.

Fusinato. Boma, £. LoeHcher e G., 1886-94, e Torino, Fratelli Bocca. 1895-1903, 36 volumi.

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